Archeo n. 478, Dicembre 2024

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SAN CASCIANO DEI BAGNI

BOLOGNA ETRUSCA

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SPECIALE SMUGLEWICZ E LA DOMUS AUREA

ESCLUSIVA

SAN CASCIANO DEI BAGNI LE ULTIME SCOPERTE

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INDAGINI SULLA CITTÀ ETRUSCA BOLOGNA

ROMA

GLI ENIGMI DI GÖBEKLITEPE

SPECIALE UN PITTORE POLACCO NELLA DOMUS AUREA

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IN EDICOLA IL 10 DICEMBRE 2024

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Mens. Anno XXXIX n. 478 dicembre 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 478 DICEMBRE

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EDITORIALE

FUORI CONTESTO Piú di diecimila monete in bronzo e oro, la menzione di nuove divinità (tra cui le Ninfe), lamine iscritte, teste in bronzo, uova ancora intatte dopo duemila anni, un vero e proprio nido di serpenti, piccoli e grandi, avvolti su se stessi intenti a strisciare, con aria quasi sorridente, nelle acque di una fonte calda, sacra. Siamo particolarmente fieri di poter presentare, in anteprima, il resoconto dell’ultima stagione di scavo in un luogo che i nostri lettori conoscono già, il Bagno Grande di San Casciano dei Bagni. Gli oggetti emersi dal fango sono, per molti versi, spettacolari. Tanto piú, però, lo è il racconto di un passato che, man mano che procedono lo scavo e l’esame dei reperti, si ricompone agli occhi degli studiosi e, poco dopo, del pubblico. La fortuna di San Casciano dei Bagni è duplice: non solo si tratta di un complesso monumentale sacro unico, che illumina un capitolo di storia religiosa e di costume a cavallo tra l’età etrusca e romana; il grande pregio risiede anche nelle modalità della sua scoperta, avvenuta per mano di archeologi in grado di documentare, nel miglior modo possibile, il significato dei singoli reperti nella cornice del loro contesto, straordinariamente integro. Quel contesto che, nel caso di un’altra, leggendaria, scoperta di cui riparliamo in questo numero, è da sempre mancante, continuando cosí a sollecitare ipotesi storiche e a evocare (in)verosimili intrighi internazionali. La nostra Flavia Marimpietri – archeologa prestata al giornalismo – ha preso lo spunto da una notizia in apparenza destituita di ogni sensazionalità (la ripresa delle esplorazioni subacquee al largo della costa calabra dove, piú di cinquant’anni fa, furono rinvenuti i Bronzi di Riace) per approfondire la questione, raccogliendo le opinioni di archeologi e scienziati, insieme a diverse testimonianze oculari. Leggiamo i loro racconti e forse il «contesto» del ritrovamento delle due celebri statue potrà, finalmente, assumere nuovi, inattesi contorni… A questo punto, care lettrici e cari lettori, non ci resta che esprimervi i nostri auguri per un felice Natale e un sereno Anno Nuovo. Insieme al suggerimento di visitare le due mostre romane di cui vi parliamo in questo numero: vi condurranno in un viaggio che dalle oscure quanto affascinanti manifestazioni dell’arte preistorica arrivano al luminoso racconto di una donna senza tempo. Andreas M. Steiner Il recupero di uno dei serpenti in bronzo rinvenuti nel corso dell’ultima campagna di scavo nel Bagno Grande di San Casciano dei Bagni (Siena).


SOMMARIO EDITORIALE

Fuori contesto

3

di Andreas M. Steiner

Attualità

PAROLA D’ARCHEOLOGO I Bronzi di Riace... vecchi misteri e nuove ipotesi 22

L’INTERVISTA

di Flavia Marimpietri

incontro con Giuseppe Sassatelli, a cura di Andreas M. Steiner

NOTIZIARIO

6

SCAVI Quella città senza mura

MOSTRE Bastoni tecnologicamente avanzati 36

6

di Stefano Mammini

di Claudia Costantino e Denis Fagioli

ARCHEOFILATELIA Culti primordiali

ALL’OMBRA DEL VULCANO Chi erano davvero i Pompeiani?

38

di Luciano Calenda

10

di Alessandra Randazzo

INCONTRI Luce sull’Archeologia, al via la IX edizione FRONTE DEL PORTO Quasi una piccola città

SCOPERTE

Nelle spire del serpente di bronzo 12

44

di Emanuele Mariotti, Ada Salvi e Jacopo Tabolli

14

di Marina Lo Blundo

IN DIRETTA DA VULCI Alle fondamenta di una lunga storia

Quando Bologna era princeps Etruriae 62

62 MOSTRE

Gli enigmi di un luogo sacro

72

di Roberta Alteri

18

di Carlo Casi

44

Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Mens. Anno XXXIX n. 478 dicembre 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE SMUGLEWICZ E LA DOMUS AUREA

Impaginazione Davide Tesei

PENELOPE

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

GÖBEKLITEPE

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

Federico Curti

BOLOGNA ETRUSCA

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

In copertina Penelope, alcune ancelle e i pretendenti, olio su tela di John William Waterhouse. 1912. Aberdeen, Aberdeen Art Gallery & Museums.

Presidente

SAN CASCIANO DEI BAGNI

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

€ 6,50

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ARCHEO 478 DICEMBRE

Anno XL, n. 478 - dicembre 2024 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

72 IN EDICOLA IL 10 DICEMBRE 2024

di Andrea Terziani

20

OV D RO E I RIA N RIV C ZI EL E AZ IO he o. it NI

A TUTTO CAMPO Solo semplici pietre?

Comitato Scientifico Internazionale

PENELOPE

UN MITO SENZA TEMPO

BOLOGNA

INDAGINI SULLA CITTÀ ETRUSCA ESCLUSIVA

SAN CASCIANO DEI BAGNI LE ULTIME SCOPERTE

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ROMA

GLI ENIGMI DI GÖBEKLITEPE

SPECIALE UN PITTORE POLACCO NELLA DOMUS AUREA

28/11/24 17:03

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, Mounir Bouchenaki, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto

Comitato Scientifico Italiano

Carla Alfano, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Giulio Paolucci, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Jacopo Tabolli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Claudia Costantino è archeologa. Giuseppe M. Della Fina è vice presidente della Fondazione per il Museo «Claudio Faina» di Orvieto. Denis Fagioli è archeologo. Marina Lo Blundo è funzionaria archeologa del Parco archeologico di Ostia antica. Flavia Marimpietri è giornalista. Emanuele Mariotti è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università per Stranieri di Siena. Jerzy Miziołek è storico dell’arte. Alessandra Randazzo è giornalista. Ada Salvi è funzionaria archeologa nella Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Siena, Grosseto e Arezzo. Jacopo Tabolli è professore associato di civiltà dell’Italia preromana ed etruscologia presso l’Università per Stranieri di Siena. Andrea Terziani è dottorando in scienze dell’antichità e archeologia all’Università di Pisa.


MOSTRE

Penelope. Un telaio per la regina

84

di Stefano Mammini

84 Rubriche L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

I figli della Provvidenza 110 di Francesca Ceci

90 SPECIALE

La Domus Aurea di Francesco, «pittore polacco»

LIBRI

112

90

di Jerzy Miziołek

Illustrazioni e immagini: Creative Commons: copertina – Su concessione di Soprintendenza ABAP per le province di Siena, Grosseto e Arezzo/Università per Stranieri di Siena: pp. 3, 44-45, 46, 46/47, 48-59 – Cortesia Direzione Regionale Musei Umbria: pp. 6-8 – Parco archeologico di Pompei: pp. 10-11 – Parco Archeologico di Ostia antica: Studio Inklink: p. 14; pp. 15, 16 – Mariachiara Franceschini: pp. 18-19 – Andrea Terziani: foto ed elaborazioni fotografiche alle pp. 2021 – Doc. red.: Araldo De Luca: pp. 22 (a destra), 23, 34-35; pp. 24-27, 30-31, 32 (destra), 33 (alto) – Cortesia Mimmo Bertoni: p. 28 (alto) – NASA Visible Earth: MODIS Rapid Response: p. 28 (basso) – Mondadori Portfolio: AKG Images: p. 29 – Shutterstock: pp. 32 (basso), 33 (basso), 62/63 – da: Bologna etrusca. La città «invisibile», Bologna University Press, 2024: pp. 64-69 – Ufficio Stampa Parco archeologico del Colosseo: pp. 72-83; Electa/Studio Zabalik: p. 84; MIC-Soprintendenza ABAP per l’area metropolitana di Napoli: p. 85 (alto); MIC-Direzione regionale Musei Nazionali Toscana, Firenze/Ariano Guastaldi: p. 85 (basso); Wolverhampton Art Gallery: p. 86; Paris Musées/ Musée Bourdelle: p. 87 (alto); MIC-Museo Nazionale Romano, Archivio Fotografico: p. 87 (basso); Franco Fedeli/Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio: p. 88 (centro); Archivio Maria Lai/Lorenzo Palmieri: p. 88 (basso); MIC-Parco archeologico di Pompei, Archivio fotografico: p. 89 (alto); Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Archivio fotografico/Mauro Benedetti: p. 89 (basso) – Cortesia degli autori: pp. 90-111 – Cippigraphix: cartina a p. 46.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia srl Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Il Servizio Arretrati è a cura di: Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Srl - 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito: https://arretrati. pressdi.it

L’indice di «Archeo» 1985-2023 è disponibile sul sito https://ulissenet.comperio.it/ Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova


n otiz iari o SCAVI Umbria

QUELLA CITTÀ SENZA MURA

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efilata rispetto alle moderne vie di comunicazione, Carsulae deve la sua fortuna e la sua stessa esistenza proprio a una strada antica, la via Flaminia, che ancora adesso, ben conservata per tutta la sua lunghezza, attraversa la città da sud a nord, costituendone il cardo maximus. La via tracciata da C. Flaminio, console e censore nel 220 a.C., da Roma arrivava fino al Mare Adriatico e, tra Narni e Foligno, si divideva in due rami, l’occidentale, che passava per Carsulae e Bevagna, e l’orientale, che attraversava Terni e Spoleto. La strada è stata un forte catalizzatore delle popolazioni locali e ha permesso la nascita e lo sviluppo dell’insediamento, sorto probabilmente intorno a una stazione di posta. La strutturazione come vero centro urbano si ebbe solo a partire dall’età augustea, e poche sono le

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preesistenze di cui è stata trovata traccia, segno che il riassetto urbanistico fu davvero imponente. Carsulae, ora municipium, venne dotata di tutte le infrastrutture necessarie al funzionamento della città: una grande piazza forense, ampliata e regolarizzata realizzando una piattaforma artificiale su arconi che sostengono due templi gemelli (dei quali ignoriamo le divinità titolari), una serie di edifici destinati all’amministrazione, un altro tempio identificabile forse con il Capitolium, poi una basilica, un edificio termale, cisterne e impianti fognari, e, infine, un vero e proprio quartiere dedicato all’otium, con il teatro e l’anfiteatro, quest’ultimo edificato in un’epoca appena piú tarda, forse al posto di una grande porticus. Seguendo il percorso della via Flaminia verso nord, giungiamo infine al monumento piú rappresentativo: un grande

Area archeologica di Carsulae (Terni). Il tratto meridionale della via Flaminia che attraversa l’abitato e la chiesa dei Ss. Cosma e Damiano. arco, originariamente a tre fornici, di cui si conserva solo quello centrale, in grossi blocchi di travertino, che segnava il confine settentrionale della città, oltre il quale si trova la necropoli, di cui restano due imponenti monumenti funerari, ricostruiti dopo lo scavo. Ci sono quindi tutti gli elementi che caratterizzano una città romana, tranne uno: le mura di cinta. La loro assenza è spiegabile considerando il periodo in cui Carsulae viene monumentalizzata e anche la sua natura di centro situato lungo una via di percorrenza: in età augustea la costruzione di mura in un insediamento lungo una via consolare sarebbe stata solo simbolica, senza utilità, quindi è


plausibile che si sia preferito investire su altri edifici. Ma ciò che sembrava inutile nella prima età imperiale risulta poi indispensabile nel periodo in cui il potere centrale si affievolisce e il controllo viene meno. Ed ecco che la Flaminia, da grande attrattore, diventa pericolo e minaccia in una città senza mura. A partire dal III-IV secolo Carsulae cominciò a spopolarsi, poi la discesa di Alarico (410) e la guerra greco gotica (535-553) le diedero il colpo finale: i resti archeologici del V e VI secolo si rarefanno fino a scomparire e contemporaneamente prendono vita piccoli centri a mezza costa, costruiti in parte con le pietre di Carsulae. Resta una città spogliata e abbandonata, lungo una strada che perde via via di importanza rispetto al ramo orientale che congiungeva città meglio difese e piú articolate come Interamna Nahars (Terni) e Spoletium (Spoleto), la cui continuità di insediamento dal periodo preromano fino a oggi

testimonia l’importanza strategica del sito scelto. Ma resta una strada a percorrenza locale che continuò a essere la spina dorsale dell’Umbria meridionale, e ne è testimonianza la costruzione della chiesa dedicata ai santi Cosma e Damiano, proprio a ridosso della via basolata: la chiesa e i suoi annessi nel periodo medievale presero il posto della città come punto di riferimento per viandanti e pellegrini. Della città abbandonata rimangono i ruderi affioranti, rimane l’arco che prende il nome di San Damiano dalla chiesa, rimane la memoria.

Nel tardo Rinascimento Federico Cesi, proprietario dei terreni, fece eseguire i primi scavi e anche la prima raffigurazione di Carsulae in un affresco nel suo palazzo di Roma. Piú tardi si susseguirono alcune campagne di scavo a opera dello Stato Pontificio e molti ritrovamenti piú o meno fortuiti, ma la grande stagione di scavi e restauri si ebbe con l’archeologo Umberto Ciotti, prima direttore dell’Ispettorato archeologico per l’Umbria e dal 1964 Soprintendente per i beni archeologici dell’Umbria, che provvide agli espropri e dal In alto: la chiesa dei Ss. Cosma e Damiano vista da est e, accanto, i resti di un edificio non identificato, forse a destinazione abitativa. A sinistra: L’arena dell’anfiteatro recentemente finita di scavare e restaurata (2022).

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n otiz iario 1951 al 1972 restituí Carsulae alla pubblica fruizione. Nell’ultimo decennio sono ripresi gli scavi per completare il lavoro di Ciotti. Si è concentrata l’attenzione soprattutto nell’area del foro, terminando di mettere in luce gli ambienti lungo il lato nord, le strutture del cosiddetto Capitolium e infine scoprendo, nell’angolo sud-ovest, una domus

di proporzioni gigantesche rispetto alla superficie del centro abitato (20 ettari circa). La domus è edificata su due livelli digradanti e affacciati sul panorama verso la valle ternana; ancora in corso di scavo, ha una parte rustica e un quartiere residenziale con grandi ambienti che conservano bei mosaici in bianco e nero a decorazione geometrica, affacciati

In alto: la tomba a tamburo detta dei Furii, uno dei monumenti sepolcrali della necropoli situata a nord dell’arco di San Damiano. In basso: l’arco di San Damiano, che segna il limite settentrionale della città.

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su un peristilio con piscina, e nel livello inferiore un ninfeo e un secondo peristilio. Sono ancora molte le domande che aspettano una risposta, soprattutto riguardo le prime testimonianze (per esempio nei pressi delle terme un interessante muro in opera poligonale, forse connesso alla prima realizzazione della Flaminia, meriterebbe di essere riportato in luce) e le ultime fasi di vita, ma l’apporto alla conoscenza dato dagli ultimi scavi è notevole e attira l’attenzione dei visitatori, tanto che l’appuntamento con gli archeologi riscuote sempre un ottimo successo di pubblico. L’area archeologica di Carsulae fa parte dell’istituto autonomo «Musei nazionali di Perugia-Direzione regionale Musei nazionali Umbria»; ha un piccolo museo annesso alla biglietteria e un percorso di visita molto agevole, con pannelli posizionati accanto agli edifici e una app che serve anche da audioguida e offre ricostruzioni virtuali; di recente è stato aggiunto un sentiero per accedere direttamente al settore del teatro e anfiteatro, adatto anche a visitatori con ridotte capacità motorie. Ma oggi come ieri ad affascinare è soprattutto l’armonia del paesaggio e la fusione tra le testimonianze del passato e la natura rigogliosa, quell’aspetto di romantica decadenza che rende la visita un’esperienza unica e una tappa imperdibile per chi desidera ripercorrere l’Umbria con lo spirito del Grand Tour ottocentesco. Per informazioni sulle modalità di visita: https://cultura.gov.it/luogo/ area-archeologica-di-carsulae; https://www.musei.umbria. beniculturali.it/musei/areaarcheologica-di-carsulae Claudia Costantino e Denis Fagioli



ALL’OMBRA DEL VULCANO di Alessandra Randazzo

CHI ERANO DAVVERO I POMPEIANI? NUOVE E IMPORTANTI RISPOSTE A QUESTA DOMANDA SONO SCATURITE DALLE ANALISI DEL DNA DI UN GRUPPO DI VITTIME DELL’ERUZIONE. UN FILONE DI RICERCA DAGLI ESITI MENO SUGGESTIVI DELLE FANTASIE OTTO-NOVECENTESCHE, MA SENZA DUBBIO PIÚ VICINI ALLA REALTÀ DEI FATTI

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el 1863 l’allora direttore degli Scavi, Giuseppe Fiorelli, ebbe la geniale intuizione di riempire con gesso liquido gli spazi vuoti che emergevano sotto la cenere, dovuti al disfacimento della materia organica: si venivano cosí a creare calchi che conservano l’ultima impronta della morte degli abitanti di Pompei. Cosí scrive Gaetano De Petra, uno dei suoi successori: «La piú fortunata delle sue invenzioni fu la immagine autentica che diede della catastrofe

vesuviana, colando nel masso di cenere che copriva gli scheletri il gesso liquido, per cui questi rivivono nelle forme e nelle contrazioni della loro agonia.» E cosí si espresse il patriota e letterato Luigi Settembrini nella Lettera ai Pompeiani del 1863, quindi poco dopo che Fiorelli aveva sperimentato la sua nuova tecnica: «È impossibile vedere quelle tre sformate figure, e non sentirsi commosso. Sono morti da diciotto secoli, ma sono creature umane che

si vedono nella loro agonia. Lí non è arte, non è imitazione; ma sono le loro ossa, le reliquie della loro carne e de’ loro panni mescolati col gesso: è il dolore della morte che riacquista corpo e figura... Finora si è scoverto templi, case ed altri oggetti che interessano la curiosità delle persone colte, degli artisti e degli archeologi; ma ora tu, o mio Fiorelli, hai scoverto il dolore umano, e chiunque è uomo lo sente». È sempre stato un approccio di tipo sentimentale a guidare gli Un gruppo di calchi dei corpi di vittime dell’eruzione relizzati nel 1974, dalla Casa del Bracciale d’Oro.

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Altri calchi di vittime dell’eruzione. In alto, dalla Casa del Criptoportico e, a sinistra, dalla Villa dei Misteri, realizzati, rispettivamente, nel 1914 e nel 1929.

scavatori nell’interpretazione del sesso o dello status sociale di questi corpi, spesso con episodi di imbarazzante pruderie. La fantasia non mancava, generando annotazioni suggestive sulle immagini di vittime incatenate, di schiavi morti senza poter fuggire o, ancora, di una donna, identificata come una matrona, amante di un gladiatore, e perita con i suoi gioielli indosso, dopo un incontro passionale. L’intuizione di Fiorelli suscitò dunque grande emozione ed è tuttora ricordata come una delle grandi invenzioni della Pompei moderna. Negli anni successivi e fino ai nostri giorni sono stati recuperati molti altri calchi, tra i

quali possiamo ricordare: nel 1914, i quattro corpi, su un totale di nove, della Casa del Criptoportico; nel 1961, i tredici nel cosiddetto Orto dei Fuggiaschi; o, ancora, i dieci corpi rinvenuti negli scavi condotti dal 1958 e fino alla metà degli anni Settanta nell’Insula Occidentalis.

NUOVI SCENARI Ma che cosa sappiamo realmente di queste vittime dell’eruzione? Chi erano e quali rapporti avevano tra di loro e con la società della Pompei del 79 d.C.? Le tecnologie oggi disponibili permettono di studiare il DNA di questi individui, come è stato fatto sui resti scheletrici, molto frammentati e mescolati con resti di gesso, di 14 vittime (sul

totale degli 86 calchi pompeiani restaurati) provenienti da Villa dei Misteri, dalla Casa del Criptoportico e dalla Casa del Bracciale d’Oro. La ricerca, appena pubblicata dalla rivista Current Biology, dimostra che i sessi e le relazioni familiari degli individui a Pompei non corrispondono alla maggior parte delle interpretazioni finora proposte. «I dati scientifici che forniamo – afferma uno degli specialisti coinvolti nello studio, David Reich, dell’Università di Harvard – non sempre si allineano con le ipotesi comuni. Un esempio degno di nota è la scoperta che un adulto che indossa un braccialetto d’oro e tiene in mano un bambino, tradizionalmente interpretati come una madre con il figlio, erano invece un maschio adulto e un bambino, non correlati. Similmente, una coppia di individui che si pensava fossero sorelle, o madre e figlia, include invece almeno un individuo geneticamente maschio. Questi risultati mettono in discussione le tradizionali ipotesi di genere e familiari». Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: PompeiiParco Archeologico; X: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.

PER SAPERNE DI PIÚ Elena Pilli, Stefania Vai, Victoria C. Moses, Stefania Morelli, Martina Lari, Alessandra Modi, Maria Angela Diroma, Valeria Amoretti, Gabriel Zuchtriegel, Massimo Osanna, Douglas J. Kennett, Richard J. George, John Krigbaum, Nadin Rohland, Swapan Mallick, David Caramelli, David Reich, Alissa Mittnik, Ancient DNA challenges prevailing interpretations of the Pompeii plaster casts, in Current Biology, Vol. 34, Issue 22; pp. 5307-5318

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n otiz iario

INCONTRI Roma

LUCE SULL’ARCHEOLOGIA, AL VIA LA IX EDIZIONE

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a capitale dell’impero a centro della cristianità. Religione, giustizia, destino, sono i temi che faranno da filo conduttore nei 7 incontri della XI edizione di Luce sull’Archeologia, a partire da gennaio 2025. Spazi pubblici, dimensione politica, universo mitico, si alterneranno agli spazi della memoria e dell’identità per cogliere come Roma e il mondo classico siano ancora oggi i depositari della bellezza. Gli incontri di storia, archeologia e arte anche nell’edizione 2025 saranno potenziati da un approfondimento dei temi, da un punto di vista letterario, filosofico, giornalistico, per rendere piú chiari i legami culturali tra passato e presente.

GLI INCONTRI 19 gennaio Maurizio Bettini, Università di Siena, Cicerone, Antigone e «gli aggiogatori di buoi» Giovannella Cresci, Università Ca’ Foscari Venezia, Antonio al funerale di Cesare: nuove strategie di comunicazione politica Annarosa Mattei, scrittrice, Cristina di Svezia, il mito della regalità e il culto dell’antico Claudio Strinati, contributi di storia dell’arte, Gian Lorenzo Bernini, Tomba di Matilde di Canossa, San Pietro 26 gennaio Giovanni Brizzi, Università di Bologna, Imperium. Il potere a Roma Paolo Carafa, Sapienza Università di Roma, La città rinasce dalle ceneri. Il volto di Roma da Nerone a Domiziano Monica Centanni, Università IUAV di Venezia, Augusto e il rex nemorensis: politica religiosa e propaganda politica Claudio Strinati, contributi di storia

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dell’arte, Alma-Tadema, Claudio proclamato imperatore (1867) 2 febbraio Alessandro D’Alessio, Direttore del parco archeologico di Ostia antica, Spazi degli dèi, spazi degli uomini. Forme, funzioni e paesaggi(o) nei grandi santuari a terrazza italici Francesca Rohr, Università Ca’ Foscari Venezia, I figli del nemico, strumenti inediti del governo di Augusto Dacia Maraini, scrittrice, Donne di carattere nella prima età cristiana Claudio Strinati, contributi di storia dell’arte, Poussin, Et in Arcadia ego 16 febbraio Ivano Dionigi, Università di Bologna, Seneca e il destino dell’uomo Massimo Osanna, Direttore generale Musei MIC, Il mondo nascosto di Pompei Livio Zerbini, Università di Ferrara Caligola: la follia al potere Aldo Cazzullo, giornalista e scrittore, Un ingrandimento sul rapporto tra Virgilio e Dante Claudio Strinati, contributi di storia dell’arte, Gustave Doré, Dante e Virgilio nel nono cerchio 9 marzo Umberto Roberto, Università di Napoli «Federico II», In difesa di un mondo: la strenua lotta di Diocleziano per la salvezza dell’Impero Romano Lucrezia Spera, Università di Roma Tor Vergata, I grandi cantieri imperiali e la nascita della Roma cristiana Fabio Pierangeli, Università di Roma Tor Vergata, Candore, spiritualità, giustizia. Spunti da Pirandello Claudio Strinati, contributi di storia dell’arte, Gli affreschi dell’Oratorio di San Silvestro ai Santi Quattro Coronati in Roma 23 marzo

Massimiliano Ghilardi, archeologo, Direttore Associato dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, Il Giubileo del 1600 e la riscoperta delle antichità paleocristiane Arnaldo Marcone, Università di Roma Tre, Giuliano, un imperatore tardoantico Angela Scilimati, storica dell’arte, Contributo di storia dell’arte: «Perché ero sacrilego e ora sono un mistico». Salvador Dalí e la ricerca dell’immortalità attraverso l’arte Paolo Di Paolo, scrittore, Il posto ideale per vedere se tutto finisce. Vidal, Fellini, l’eternità a Roma Claudio Strinati, contributi di storia dell’arte, Pietro da Cortona, Il ratto delle Sabine (Musei Capitolini) 30 marzo Mariarosaria Barbera, già Direttore del Parco archeologico di Ostia antica, Donne e violenze di guerra. Uno sguardo sull’età antica Massimo Cacciari, filosofo, saggista, politico, Antigone oggi Claudio Strinati, contributi di storia dell’arte, la Deposizione di Rosso Fiorentino a Volterra Tutti gli incontri saranno introdotti da Massimiliano Ghilardi, Direttore Associato dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, e accompagnati dalla rubrica «Anteprime dal Passato» a cura di Andreas M. Steiner, Direttore della rivista «Archeo».

DOVE E QUANDO Luce sull’Archeologia Roma, Teatro Argentina largo di Torre Argentina, 52 Orario gli incontri sono la domenica mattina, alle ore 11,00 Info tel. 06 684000346; e-mail: promozione@teatrodiroma.net; la vendita dei biglietti per i singoli incontri avrà inizio domenica 14 gennaio, alle ore 10,00



FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

QUASI UNA PICCOLA CITTÀ AL COSIDDETTO «PALAZZO IMPERIALE», AFFACCIATO SUL BACINO ESAGONALE DI CLAUDIO, CORRISPONDONO, IN REALTÀ, EDIFICI NON SOLO RESIDENZIALI. E ORA AL CENTRO DI UN IMPORTANTE PROGETTO DI RECUPERO

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ll’inizio del II secolo d.C. l’imperatore Traiano volle ampliare Portus, il porto fatto realizzare dal predecessore Claudio a partire dal 42 d.C., lungo la costa pochi chilometri a nord di Ostia e della foce del Tevere, anche con l’intento di rendere piú sicuro l’approdo delle navi, dopo che, nel 62 d.C., una terribile tempesta – di cui racconta Tacito – aveva fatto

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affondare ben 200 imbarcazioni attraccate nello scalo portuale. Traiano fece dunque scavare in terraferma un bacino portuale di forma esagonale, senza però dismettere le infrastrutture precedenti, che anzi potenziò realizzando immobili connessi funzionalmente sia col bacino di Claudio, sia con il nuovo porto. Tra la banchina sud-orientale del

bacino di Claudio e il lato nordoccidentale del bacino di Traiano, si venne perciò a creare un ampio settore, che fu occupato da edifici di rappresentanza e amministrativi. A questo comprensorio, inizialmente considerato come unitario, fu dato già nel corso dell’Ottocento il nome di «Palazzo Imperiale»: in realtà, si tratta di un complesso di edifici con funzioni


A destra: Palazzo Imperiale, la cosiddetta Terrazza di Traiano. Nella pagina accanto: ricostruzione grafica di Portus. In basso: Palazzo Imperiale, il complesso a carattere residenziale.

residenziali, amministrative, ludiche e logistiche. Una monumentale terrazza colonnata affacciava sul bacino di Claudio; alle sue spalle si sviluppavano gli edifici a carattere residenziale e amministrativo: uno spazio articolato intorno a un peristilio superiore, chiamato Peristilium Residenziale, e comprendente ambienti con pavimenti in opus sectile, di cui rimangono solo le preparazioni con le tracce dell’alloggiamento delle lastre marmoree, e una latrina, anch’essa spogliata dei suoi rivestimenti marmorei. Al piano inferiore, una fitta rete di cunicoli e di ambienti sotterranei di servizio si diramava a partire da un ampio criptoportico posto immediatamente alle spalle della terrazza.

PER LE NAVI DA GUERRA In stretta connessione con gli edifici residenziali era una grande cisterna/castellum aquae, posta in prossimità della banchina del porto di Claudio. In rapporto con entrambi i bacini portuali erano i Navalia, destinati, almeno in un primo momento, al ricovero e alla riparazione di navi da guerra. Nello spazio rimasto inedificato, compreso tra la cisterna e i Navalia, all’inizio del III secolo d.C.

fu eretto un piccolo anfiteatro, realizzato forse per accogliere l’imperatore Settimio Severo al suo arrivo a Roma e che fu utilizzato solo per un breve periodo. Alla fine del V secolo le mura della città di Portus fortificarono anche quest’area del porto, il quale aveva ormai ridotto drasticamente le sue funzioni. Il complesso del Palazzo Imperiale è

parte integrante dell’Area archeologica dei porti di Claudio e di Traiano a Fiumicino, ma è al momento chiuso al pubblico, non essendo finora mai stati realizzati né interventi di consolidamento strutturale delle cospicue e poderose strutture murarie, né percorsi di visita accessibili. Grazie a significativi finanziamenti, sarà possibile restituire alla

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Palazzo Imperiale, il criptoportico.

pubblica fruizione anche questo importante settore del sito. In particolare, i lavori di consolidamento strutturale, avviati di recente, riguardano la messa in sicurezza della cosiddetta Terrazza di Traiano, della quale oggi sopravvive il sistema inferiore di arcate chiuse e dell’affaccio sul retrostante criptoportico, e del cosiddetto Peristilium Residenziale. Questi versano, allo stato attuale, in uno stato di grave dissesto imputabile all’azione degli agenti atmosferici e della vegetazione infestante: la presenza di

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rampicanti ha alterato e ridotto la resistenza degli strati di malta, l’azione prolungata di acqua e vento ha portato all’erosione e alle aggressioni biologiche. Gli apparati radicali delle piante hanno causato a dissesti anche considerevoli. Le infiltrazioni d’acqua hanno condotto a disarticolazioni e perdite materiche sulle strutture. Per quanto riguarda il cosiddetto Peristilium Residenziale, a fronte di una diffusa condizione di precarietà strutturale, l’intervento di restauro e consolidamento si pone il duplice obiettivo di ricucire un complesso

un tempo unitario e di tutelare una zona limitata dell’edificio in vista della valorizzazione di questo settore dell’area archeologica. Alle istanze di fruizione e valorizzazione rispondono i lavori di realizzazione di percorsi per l’accessibilità ampliata, finanziati con fondi PNRR – Rimozione delle barriere fisiche e cognitive in musei, biblioteche e archivi, di cui è stata avviata la progettazione, che connetteranno il Palazzo Imperiale con i percorsi di visita già esistenti nell’area archeologica. Marina Lo Blundo



IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi

ALLE FONDAMENTA DI UNA LUNGA STORIA MOLTE SONO LE NOVITÀ SULLA STRUTTURA E SULL’ASPETTO DEL TEMPIO MONUMENTALE ARCAICO SCOPERTO NELL’AREA URBANA DI VULCI: ECCO COSA RIVELANO I RECENTI SCAVI DELLE UNIVERSITÀ DI FRIBURGO E MAGONZA

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l nuovo tempio monumentale urbano, scoperto nel 2020 dal team del progetto Vulci Cityscape (https://vulcityscape.hypotheses. org/; vedi «Archeo» n. 440, ottobre 2021, on line su issuu.com) e indagato stratigraficamente dal 2021, sorge nel cuore della città antica: l’edificio si affaccia sull’asse stradale est-ovest, il cosiddetto decumano, e si affianca, benché leggermente arretrato verso nord, al già noto tempio grande. I due templi sembrano essere frutto di una progettazione pianificata, tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C., un momento di particolare ricchezza e prosperità per Vulci, segnato da imponenti interventi costruttivi in diversi settori della città, riconducibili a una piú vasta temperie di monumentalizzazione che interessa l’Etruria e il Latium Vetus in epoca tardo-arcaica. Si tratta di un periodo di floridi scambi commerciali nel Mediterraneo, garantiti dall’attività del porto ed emporio di Vulci, Regisvilla. Proprio al mare e al porto si rivolge il nuovo tempio dalla sua posizione sopraelevata in uno dei punti piú alti del pianoro.

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Già le prime campagne di scavo nell’angolo nord-est dell’edificio sacro (vedi «Archeo» n. 466, dicembre 2023, on line su issuu. com) avevano fornito importanti informazioni relative alle strutture che insistevano sul pianoro prima dell’edificazione del tempio, e alle fasi di fondazione, spoliazione e abbandono della struttura, offrendo una vasta panoramica sulla storia di Vulci, dagli albori della città fino al V secolo d.C. I materiali rinvenuti suggeriscono la presenza di edifici

In alto: veduta panoramica con le aree di scavo del nuovo tempio. Qui sopra: l’area a ovest del podio, in primo piano, a sinistra, i blocchi profilati del rivestimento in nenfro.


di rappresentanza con probabile funzione sacrale esistenti ben prima del tempio. La costruzione del tempio sembra essere stata sancita da un rituale diffuso i cui resti sono stati deposti negli strati di fondazione piú profondi.

LE FASI DI COSTRUZIONE Un nuovo saggio di scavo avviato nell’estate 2024 nel settore sudovest del tempio ha permesso di mettere in luce diversi elementi architettonici strutturali e decorativi e di ricavare nuovi importanti dettagli sull’edificio templare. Si iniziano, per esempio, a intravedere le fondamenta sulle quali insiste il rivestimento in nenfro ed è stato identificato l’angolo sud-ovest del podio. Questi elementi permettono di valutare meglio le proporzioni dell’impianto architettonico che, per composizione, tecnica costruttiva e dimensioni, si presenta molto simile al tempio grande. La prima fase di edificazione del nuovo tempio è caratterizzata da una massiccia costruzione, sostenuta da un podio e da fondamenta in tufo rosso, che lasciano supporre un periptero con una cella centrale circondata da colonne, secondo un modello greco ampiamente diffuso in ambito etrusco-italico. Nuove indagini nel riempimento del podio hanno permesso di mettere in luce le poderose fondamenta della cella: almeno sette filari di blocchi di tufo sono ancora conservati nel punto piú profondo sinora indagato. Qui una struttura a gradoni è stata piú volte lavorata e rielaborata, sia prima della costruzione del tempio, sia in concomitanza con la posa dei primi blocchi. A questa fase segue almeno un rifacimento consistente, ancora di difficile datazione, in cui il tempio viene dotato di un paramento di blocchi in nenfro. Nel saggio a

In alto: veduta zenitale dell’area di scavo a ovest del podio, nella quale si sta mettendo in luce il rivestimento di blocchi profilati in nenfro. Nella pagina accanto, in basso: veduta panoramica con le aree di scavo del nuovo tempio (in basso) e del tempio grande (in alto) affacciati verso sud sul decumano della città (a destra nella foto). nord-est, dove il podio è meglio conservato in alzato, la situazione stratigrafica non permette ancora di valutare nella sua interezza il rivestimento in nenfro, visibile solo nei filari superiori e ancora in buona parte obliterato dalle fasi piú tarde di una strada che correva a nord del tempio. L’ultimo intervento nel settore di questa strada è lo scavo di una fossa di ingenti dimensioni, databile, sulla base del suo riempimento, tra il IV e il V secolo d.C. La fossa taglia sia i diversi piani stradali, sia gli strati di preparazione della canaletta relativa all’ultimo piano di calpestio conservato. Al di sotto sono emerse strutture murarie precedenti in blocchi di tufo, pertinenti a edifici che proseguono a nord del tempio. A sud, dove il podio è meno conservato a causa dell’erosione del terreno, sono state messe in luce le parti inferiori del paramento in nenfro costituite da blocchi finemente profilati: un ampio cuscino poggia qui su un plinto di base, che insiste direttamente sulle fondamenta in tufo. Nuovi tasselli quindi si aggiungono

alle nostre conoscenze; le indagini stratigrafiche nei prossimi anni, combinate con ulteriori prospezioni geofisiche, consentiranno di proporre una piú precisa ricostruzione della nuova struttura sacra e delle aree confinanti. Le ricerche sono dirette da Mariachiara Franceschini (Università di Friburgo, Germania) e Paul P. Pasieka (Università di Magonza, Germania), che sono anche responsabili della redazione dei risultati e hanno collaborato alla stesura del presente articolo. Le attività del gruppo di ricerca internazionale hanno visto la partecipazione di studenti/esse e ricercatori/trici di diverse nazionalità. Le operazioni sono supportate da Simona Carosi e Margherita Eichberg (Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale) e Carlo Casi (Fondazione Vulci). Il progetto è reso possibile dal sostegno della Fritz Thyssen Stiftung (2020-2022), della Gerda Henkel Stiftung (2022-2024) e della Deutsche Forschungsgemeinschaft (DFG, 2024-2027).

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A TUTTO CAMPO Andrea Terziani

SOLO SEMPLICI PIETRE? A LUNGO SOTTOVALUTATI, I MACROLITHIC TOOLS OFFRONO INFORMAZIONI CRUCIALI SULLA VITA SOCIO-ECONOMICA DELLE COMUNITÀ PREISTORICHE E PROTOSTORICHE CHE LI HANNO PRODOTTI E UTILIZZATI

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ebbene i macrolithic tools (strumenti in pietra lavorata di grandi dimensioni e peso), fossero già in uso presso le comunità di cacciatoriraccoglitori del Paleolitico, è con il Neolitico (VI-IV millennio a.C.) che diventano fondamentali, grazie all’avvio di un’economia agricola e stanziale, totalmente diversa da quella dei periodi precedenti. Una problematica legata a tali strumenti è la terminologia: vi sono infatti nomi diversi per definirli, non solo nell’archeologia italiana: il termine inglese, tuttavia, è oggi il piú usato in letteratura. Gli strumenti erano

essenziali per svolgere varie attività: la macinazione di risorse vegetali, la produzione di pigmenti coloranti, la lavorazione di superfici ceramiche e pelli, il taglio e la lavorazione della materia dura vegetale e, infine, i lavori minerari. Le rocce usate per fabbricare questi strumenti variano a seconda della destinazione d’uso: in genere, per la produzione di asce e accette in pietra levigata si ricorreva a rocce metamorfiche come serpentiniti e giadeiti. Arenarie e altre rocce sedimentarie venivano selezionate per ottenere macine e piani di lavoro. Rocce magmatiche come basalti e

graniti, ma anche rocce sedimentarie molto compatte come le anageniti, per costruire picconi e mazzuoli. Queste scelte non erano casuali, ma basate su una conoscenza empirica delle proprietà meccaniche delle rocce. Nonostante la loro importanza, i macrolithic tools sono stati raramente studiati in modo approfondito. Spesso, sono stati considerati secondari rispetto ai piú noti strumenti in pietra scheggiata. A volte, non sono nemmeno riconosciuti come utensili, perché utilizzati nella loro forma originaria, senza modifiche evidenti. Negli ultimi due decenni, però, l’interesse per tali reperti è cresciuto, grazie al contributo delle scienze applicate. È fondamentale per il loro studio, infatti, l’identificazione delle materie prime A sinistra: mazzuolo in basalto proveniente dalla miniera di cinabro di Poggio Spaccasasso, sui Monti dell’Uccellina (Grosseto). Qui accanto: attività di campionamento della materia prima lungo il greto del fiume Merse (Siena). La materia prima raccolta per un confronto è del tutto simile a quella impiegata dai minatori dell’Uccellina per produrre alcuni dei propri utensili piú di 5000 anni fa.

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In alto: analisi della materia prima di due macrolithic tools provenienti da Poggio Spaccasasso: osservazione al microscopio ottico a luce polarizzata di sezioni sottili di basalto (in alto) e anagenite (in basso), a nicols incrociati (sx) e a nicols paralleli (dx). A destra: macrolithic tools provenienti da miniere dell’Italia centro-meridionale: in alto, strumenti percussori dalla miniera della Defensola A (Vieste); al centro, strumenti percussori dalla miniera di Poggio Spaccasasso (Grosseto); in basso, strumenti percussori dalla miniera di Poggio Malinverno (Allumiere). con cui sono stati realizzati, attraverso analisi mineralogiche, petrografiche e chimiche.

LA RICERCA IN CORSO Attualmente è in corso presso l’ateneo senese un progetto di dottorato regionale dedicato allo studio dei macrolithic tools provenienti da alcuni siti dell’Italia centro-meridionale, in particolare strumenti da miniera e utensili collegati ad attività collaterali a quella estrattiva. Questa ricerca, presentata su «Archeo» soltanto per la sezione relativa alle miniere di selce del Gargano (vedi n. 456, febbraio 2023, on line su issuu. com), sta proseguendo con risultati promettenti, grazie alla collaborazione con enti diversi, tra i quali l’Istituto di Scienze del

Patrimonio Culturale di Firenze (CNR), l’Istituto di Geoscienze e Georisorse di Pisa (CNR) e infine l’Unità di Conservazione dei Beni Culturali e Archeometria dell’Università di Siena. Le aree di studio selezionate per questa ricerca, oltre al Gargano, sono la Toscana meridionale e il Lazio settentrionale. In Toscana, piú precisamente sui Monti dell’Uccellina e sul Monte Amiata, i lavori estrattivi di epoca neolitica erano rivolti al recupero di cinabro. Nel Lazio, sui Monti della Tolfa, era attiva tra l’età del Rame e l’età del Bronzo una miniera per la coltivazione di malachite, azzurrite e calcopirite. Lo studio degli utensili provenienti dai siti in esame dimostra una scelta precisa e mai casuale delle rocce utilizzate

per la loro fabbricazione: selce a tessitura grossolana in Gargano, basalti e anageniti in Toscana, pietraforte nel Lazio. Lo studio delle materie prime è accompagnato dall’analisi delle tracce d’uso e di manifattura degli strumenti. Per i siti toscani e laziali si osserva uno scarso investimento nella lavorazione dei supporti originari, mentre per alcuni contesti pugliesi è evidente un maggiore impegno. Queste variazioni riflettono principalmente le esigenze contingenti di gruppi di minatori che hanno operato in regioni diverse e per il recupero di risorse differenti nel corso di piú di 4000 anni di storia. È innegabile, quindi, l’esistenza di un bagaglio di conoscenze comuni legato all’attività mineraria, tramandato di generazione in generazione. Grazie anche a test sperimentali, sarà infine possibile ricostruire i processi produttivi e l’impiego effettivo degli strumenti, che meritano dignità di studio al pari di altre produzioni piú note e spesso definite, a torto, di maggiore pregio estetico. (andrea.terziani@phd.unipi.it)

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

I BRONZI DI RIACE… VECCHI MISTERI E NUOVE IPOTESI F

orse da un piccolo porto della Calabria, Riace, o forse da un piccolissimo approdo in Sicilia, Brucoli. Da dove vengono, veramente, i Bronzi di Riace? In questi giorni, nuovi studi scientifici e testimoni oculari riaccendono i fari sulla questione, mai del tutto chiarita, della scoperta delle due statue, forse le piú celebri tra i rari originali greci in bronzo del V secolo a.C. che oggi si conservano. Un «rebus» ancora fitto se, a piú di cinquant’anni dal loro rinvenimento ufficiale, la Soprintendenza Archeologica della Calabria ha deciso di tornare a indagare in quelle acque di Riace dove – come per incanto – emersero gli splendidi bronzi. Dopo una prima campagna esplorativa, lo scorso mese di novembre sono riprese le ricerche archeologiche subacquee nel

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luogo in cui, nel 1972, il sub Stefano Mariottini scoprí quei guerrieri adagiati tra le sabbie del fondale marino. Ancora oggi non si hanno tracce del relitto da cui naufragarono i bronzi, né quando e dove si inabissò migliaia di anni fa. Un fatto che lascia ancora aperti tanti – cruciali – interrogativi: da dove proveniva e dove era diretta la nave che trasportava i Bronzi di Riace? Quale era il suo carico? E soprattutto: dove naufragò? Il contesto di ritrovamento dei due bronzi piú famosi del mondo resta, cosí, ancora un enigma. Che sembra infittirsi in questi giorni – dando luogo a piú di un sospetto – alla luce dei nuovi studi sulle terre di saldatura delle statue (condotti dall’Università di Catania, in collaborazione con quella di Ferrara), secondo cui le due statue sarebbero state assemblate a Siracusa. A ciò si aggiungono le recentissime rivelazioni di alcuni testimoni, che avrebbero visto con i loro occhi i Bronzi emergere dalle acque di Brucoli, in Sicilia, nel 1971, un anno prima della loro «scoperta» sui fondali di Riace.


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e ultime novità di studio e le sorprendenti rivelazioni sulla presunta provenienza «siciliana» dei Bronzi di Riace sembrano trovare un forte riscontro nei dati storico-archeologici, come ci spiega Luigi Malnati, già soprintendente unico di Bologna, ex direttore generale per le antichità del Ministero dei Beni Culturali e prima ancora soprintendente archeologo dell’Emilia-Romagna, del Veneto e delle Marche. Dunque, professor Malnati, con i nuovi studi sulla provenienza siracusana dei Bronzi di Riace, il mistero si infittisce o si scioglie? «Come tutti i rinvenimenti archeologici privi di un contesto di rinvenimento, i Bronzi di Riace hanno posto fin dall’inizio parecchi problemi: l’unico dato a oggi noto è l’area di recupero delle statue, mentre prove certe sulla provenienza non sono mai esistite. Si possono, naturalmente, avanzare diverse ipotesi: all’epoca del restauro da parte della Soprintendenza Archeologica della Toscana guidata da Francesco Nicosia, attraverso l’analisi delle terre di fusione del bronzo conservate all’interno delle statue, venne ipotizzata una provenienza da Argo, ipotesi suffragata dall’ultimo restauro eseguito presso il Museo di Reggio Calabria (vedi «Archeo» n. 345, novembre 2013; on line su issuu.com). La cosa a me è sempre sembrata strana, poiché dal punto di vista storico non risulta una spoliazione massiccia di opere d’arte dalla Grecia, quando Roma ne acquisí il dominio. È vero che i Romani trasportarono nella capitale molte opere d’arte, ma le fonti non attestano un saccheggio cosí radicale da città greche che, in fondo, erano state sue alleate». Quindi un’eventuale provenienza dei Bronzi di Riace da Argo o dalla Grecia non la convince. Che ne

Il Bronzo di Riace A e, nella pagina accanto, il Bronzo B. Si tratta di originali greci, attribuibili al medesimo artista. Metà del V sec. a.C. Reggio Calabria, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto, in basso: Luigi Malnati, già direttore generale per le antichità del Ministero dei Beni Culturali e piú volte soprintendente.

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IL PARERE DI ROSOLINO CIRRINCIONE

La parola alle terre Potrebbero rivoluzionare la storia dell’archeologia i nuovi studi geologici sulle terre di saldatura dei Bronzi di Riace, che ne ipotizzano una provenienza dall’area di Siracusa. Ce lo spiega Rosolino Cirrincione, ordinario di petrologia e petrografia e direttore del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Catania, che ha guidato la ricerca, in collaborazione con l’Università di Ferrara. Professore, quali analisi avete condotto? «Il nostro studio, oggetto di una pubblicazione in corso di stampa, ha preso il via su impulso dello scrittore Anselmo Madeddu, che indaga la questione da tempo. Siamo partiti dalle analisi condotte negli anni Novanta dall’ex Istituto Centrale del restauro (ICR, oggi ISCR) sulle terre di fusione e di saldatura delle statue, molto diverse tra loro. Le terre di fusione, infatti, sono quelle usate per la realizzazione delle varie parti delle statue, mentre le terre di saldatura sono quelle utilizzate per assemblare tra loro i pezzi della statua. Noi abbiamo preso in considerazione solo le seconde, che indicano il luogo dove i bronzi sarebbero stati assemblati (per motivi di stabilità le statue viaggiavano in pezzi, poi montati in loco)».

pensa, invece, delle nuove ipotesi di studio sulle terre di saldatura condotte dalle Università di Catania e di Ferrara, che vedrebbero i Bronzi provenire da Siracusa? «Le nuove analisi ci rivelano che terre analoghe a quelle usate per assemblare le statue si trovano attorno a Siracusa. La cosa trova una corrispondenza storica precisa, quella relativa al sacco della città del 212 a.C.: Tito Livio, narrando la seconda guerra punica, racconta che

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Qual è stato il risultato delle analisi sulle terre di saldatura dei Bronzi? «Abbiamo cercato l’unico punto nei dintorni di Siracusa in cui esistevano argille come quelle dei Bronzi: un’area ristretta in corrispondenza dei fiumi Anapo e Ciane. Abbiamo fatto numerosi campionamenti, attraverso carotaggi, e confrontato gli elementi chimici presenti nelle terre del fiume con quelli della tabella pubblicata dall’ICR. Uno dei trenta campioni, prelevati da sette diversi livelli stratigrafici analizzati presso l’Anapo, è perfettamente sovrapponibile alle terre di saldatura dei due bronzi. Da un punto di vista geochimico è identico. Abbiamo anche analizzato 15 elementi chimici presenti in quantità minore nei campioni. Anche quelli rilevabili in minima parte si sovrappongono. È una prova importante». È la dimostrazione della provenienza dei Bronzi di Riace da Siracusa? «Nella scienza non c’è mai certezza, per definizione. Ma c’è un’elevata probabilità che queste terre del deposito lacustre dell’Anapo siano le stesse con cui sono stati assemblati i Bronzi di Riace. La prova scientifica è l’analisi geochimica delle argille, confrontata con i dati ufficiali dell’ICR. Uno dei campioni analizzati

combacia perfettamente con quei valori. Gli elementi chimici cosiddetti «immobili», cioè quelli che non variano durante i processi di alterazione e degradazione delle rocce (come zirconio, afnio, alluminio, torio, niobio, scandio e terre rare), sono pressoché identici. Per scrupolo, su questo livello ho prelevato cinque campioni e ripetuto piú volte le analisi: la somiglianza con le terre di saldatura dei bronzi è sorprendente». In un’intervista del 2013, l’allora soprintendente archeologa della Calabria, Simonetta Bonomi, anticipava i risultati delle ultime analisi di restauro sulle terre di fusione dei bronzi, secondo cui le due statue erano state realizzate in località diverse: il bronzo A ad Argo, il B ad Atene… (vedi «Archeo» n. 345, novembre 2013; on line su issuu.com). Il vo-


stro studio, relativo all’assemblaggio e non alla fusione, non confligge con questi dati. I Bronzi di Riace, dunque, potrebbero essere stati fusi in Grecia, anche in due località diverse, e poi assemblati a Siracusa? «La costruzione può essere avvenuta ad Argo e/o in un’altra località greca, come sostengono alcuni archeologi, ma la probabilità che i pezzi siano stati assemblati a Siracusa è, secondo le nostre analisi, elevatissima. Inoltre, mi ha colpito la rispondenza delle diverse testimonianze con le carte batimetriche del fondale di Brucoli. Abbiamo confrontato quello che i testimoni hanno raccontato sulla profondità (90 m) e sulla distanza dalla costa (1,8 miglia nautiche) del punto dove sarebbero stati rinvenuti i Bronzi di Riace, a largo delle coste di Brucoli. I dati coincidono perfettamente con la morfologia sottomarina e con le linee di faglia: sul fondale c’è una scarpata che scende a picco fino a 90 m». È in quei novanta metri sotto al mare di Brucoli, dunque, che forse bisognerebbe cercare il relitto da cui naufragarono i Bronzi di Riace… «Tutti i dati combaciano in maniera impressionante».

siracusani conservati nella reggia sull’isola di Ortigia e accordò ai soldati di saccheggiare la città». Quindi Marco Claudio Marcello, con il sacco di Siracusa del 212 a.C., potrebbe aver portato via da Siracusa i Bronzi di Riace? «Sí, è l’ipotesi piú probabile. Sappiamo che Siracusa, nel V secolo a.C., periodo al quale vengono attribuiti i due Bronzi di Riace (480-460 a.C.), era una potenza di livello mediterraneo. Era riuscita a sconfiggere Cartagine, riducendo il suo potere alla costa occidentale della Sicilia, e a dominare completamente il Mediterraneo. Era cosí potente che Atene, nel 480 a.C., le chiese aiuto contro i Persiani. Dopo il 480 a.C., Siracusa si arricchí di opere d’arte importanti, vi accorsero intellettuali, poeti (come Stesicoro) e artisti greci di grande levatura. Se le terre di saldatura dei Bronzi di Riace sono analoghe a quelle dell’area di Siracusa, la cosa storicamente piú probabile è che le

due statue provengano da lí e che siano naufragate durante il trasporto verso Roma...» …dove Marco Claudio Marcello sperava di poterle esibire nella sua entrata trionfale a Roma… «…cosa che non si verificò, poiché gli venne concessa solo un’ovazione. Però ha senso pensare che i Bronzi di Riace siano stati saccheggiati con il tesoro di Siracusa. Storicamente questo episodio è quello che ha le maggiori probabilità di riferirsi ai due bronzi. Manca la prova regina, che sarebbe il relitto. Ma se dobbiamo cercare un naufragio con statue di quel livello, Siracusa è fortemente indiziata. Se poi le terre di fusione dicono che venivano da quella zona... Sappiamo, inoltre, che a Siracusa esisteva un tempio con opere d’arte di alto livello e che, nel 212 a.C., Marco Claudio Marcello saccheggiò la città portando a Roma un gran numero di pezzi. Un altro sacco da cui le statue potrebbero provenire è

Nella pagina accanto, in alto: Rosolino Cirrincione. Nella pagina accanto, in basso: denario in argento con, al dritto, il profilo del generale e console Marco Claudio Marcello. 50 a.C. In basso: Archimede in atto di incendiare le navi romane del console Marcello con lo specchio ustorio, olio su tela attribuito a Cherubino Cornienti, 1855 circa. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.

Siracusa, inizialmente alleata di Roma, si ribellò e cambiò campo, passando con i Cartaginesi. I Romani la posero sotto assedio, guidati dal generale Marco Claudio Marcello. Un assedio durato due anni, tra il 214 e il 212 a. C., molto insidioso per Roma, che perse parecchie navi, anche grazie all’intervento dei Cartaginesi e al genio di Archimede (che inventò macchine, catapulte, argani e stratagemmi difensivi, prima di essere ucciso mentre disegnava figure geometriche sul terreno). Quando Siracusa venne costretta alla resa per fame, Marcello si impadroní dei tesori dei re

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Qui sotto: tetradramma in argento della città di Siracusa. 475-450 a.C. La moneta venne coniata all’epoca in cui la città si era affermata come una delle piú importanti e potenti della Sicilia e dell’intera regione mediterranea.

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quello di Taranto, del 209 a.C., a opera Fabio Massimo detto “il Temporeggiatore”, di cui ci racconta Livio. Tuttavia Taranto, nel V secolo a.C., sebbene fosse una città importante, non godeva di un prestigio artistico internazionale pari a quello di Siracusa. Quindi delle due, Siracusa è la piú indiziata». Secondo l’ipotesi sull’origine «siciliana» dei Bronzi di Riace, recentemente avanzata dallo scrittore Anselmo Madeddu nel libro Il mistero dei Guerrieri di Riace (Algra edizioni, 2024), le due statue proverrebbero da un gruppo scultoreo esposto a Siracusa e composto da tre bronzi, realizzato per eternare il comandante Gelone


In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca taspisci. A sinistra: dida finta doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, Parthenos doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca.

In alto: La battaglia di Himera, dipinto di Giuseppe Sciuti. 1873. Collezione privata. A sinistra, sulle due pagine: i resti di guerrieri caduti nella battaglia di Himera sepolti in una fossa comune.

– che nel 480 a.C. aveva sconfitto i Cartaginesi a Himera – nell’atto di deporre le armi al ritorno dalla battaglia. Che ne pensa? «È un’ipotesi possibile. Se, infatti, c’è una città che nel V secolo a.C. assume una posizione internazionale, è Siracusa: dopo la vittoria di Himera, nel 480 a.C., il dominio della Sicilia è tutto suo. Come racconta Livio, Gelone si impadroní della città con un colpo di Stato, nel 485 a.C., e volle farne la capitale della Sicilia: Siracusa venne ingrandita, molti abitanti vi si trasferirono da Camarina, Megara Iblea e Gela. Il blocco di potere rappresentato da Siracusa (con Gelone), Gela (con il fratello Ierone) e Agrigento (con il suocero Terone) – una vera alleanza familiare – controllava l’isola intera: lo scontro con i Cartaginesi guidati da Amilcare divenne inevitabile. La vittoria di Himera pose Siracusa nel ruolo di dominatrice del Mediterraneo centrale. Non è leggenda che Gelone venne chiamato a fronteggiare Serse accanto agli Ateniesi. Coniarono anche una bellissima moneta con immagine del demarateion, come mostro nel mio ultimo libro Prima

di Roma. Storia dell’Italia da Enea ad Annibale, scritto con Valerio Massimo Manfredi (pp.156 e ss.; vedi anche la recensione al volume, in questo numero, a p. 112)». Quindi la convince il fatto che i Bronzi di Riace potessero essere esposti in un tempio eretto a Siracusa nella prima metà del V secolo a.C.? «L’idea è plausibile da un punto di vista storico. Se il tempio di Siracusa doveva celebrare la vittoria di Himera, come dice Livio, è verosimile che vi fossero rappresentati i protagonisti della battaglia, come Gelone, magari sotto forma di divinità, piuttosto che di ritratto». La cosa tornerebbe anche da un punto di vista cronologico, dal momento che le statue vengono datate al 480-460 a.C… «La datazione dei bronzi coincide: se per costruire il tempio hanno impiegato qualche anno, siamo tra il 480 e il 460 a.C. Si tratta di una vicenda interessante, che coniuga i dati storici con quelli archeologici». Manca, però, la prova regina: il relitto, che permetterebbe di datare il naufragio. Non a caso sono (segue a p. 32)

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LA TESTIMONIANZA DI MIMMO BERTONI

«Patti intra, ca nun so cose to!» Lui era ancora un bambino quando vide con i propri occhi i Bronzi di Riace emergere dalle acque di Brucoli. Era il 1971, un anno prima che le statue venissero rinvenute «ufficialmente» al largo delle coste calabresi: Mimmo Bertoni, testimone oculare di fatti finora sconosciuti, si è deciso a raccontarli per la prima volta. La sua è una testimonianza molto suggestiva, poiché converge in maniera straordinaria con le nuove acquisizioni scientifiche degli studi geologici sulle terre di saldatura delle statue, che ne attesterebbero la provenienza dall’area di Siracusa. Cosa ricorda di quel giorno Mimmo, ci vuole raccontare? «Avevo dieci anni, era il 1971. Allora Brucoli era un paesino in provincia di Siracusa di 700 abitanti, un luogo deserto dove non esisteva turismo. Io stavo giocando a pallone davanti a casa, quando arrivò un peschereccio di 7/8 metri con due persone a bordo… Era martedí, lo ricordo perché il ristorante di mio padre Pippo, il Trotilon, quel giorno era chiuso per riposo settimanale. I miei altri due fratelli erano dalla nonna, in casa eravamo solo io e papà. Arrivò questa barca, attraccò sulla riva della spiaggia e udii una voce che gridava in vernacolo siciliano: “Zu Pippu, Zu Pippu!”. “Guarda papà che ti stanno chiamando”, lo avvertii. Lui uscí fuori, io vidi arrivare una macchina da cui scesero alcune persone con le mute e il cappuccio tirato su fino alla testa: si vedevano solo gli occhi… Uno di loro iniziò a parlare con mio padre, che subito mi disse di rientrare in casa e non impicciarmi: “patti intra, ca nun so cose to! (entra dentro, questi non sono fatti che ti interessano!)”. Una volta in casa, mi misi a guardare da dietro alla finestra». E cosa vide, spiando dalla finestra, su quella barca in riva al mare di Brucoli? «All’interno del peschereccio, appesantito dal carico, vidi alcune sagome scure: erano delle statue coricate e coperte da diversi strati di reti da pesca. Tra le maglie riuscii a scorgere una testa con elmo, uno

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scudo e una lancia che, essendo lunga, fuoriusciva. Le statue erano piú di una, ma io vidi bene solo quella superiore». Era sicuro che la statua avesse elmo, lancia e scudo? «Ne sono certo. La coperta non avvolgeva tutto il bronzo proprio per la presenza della lancia e dello scudo. Inoltre, era piena di “cose” bianche (concrezioni marine, n.d.r.) e a sinistra aveva un occhio “bucato” (come il bronzo B, n.d.r.). Il tizio

sceso dall’auto, prese una coperta piú grande e la portò a “quelli della barca” che, per avvolgere la statua, la misero in piedi all’interno dello scafo… è lí che vidi il Bronzo di Riace!». Come capí che quella statua poteva essere uno dei Bronzi di Riace? «La lampadina mi si accese anni dopo, quando vidi i bronzi in esposizione a Firenze. Riconobbi la statua che avevo intravisto da piccolo sulla barca, quella che poi

Riace

Brucoli


avvolsero nella coperta… aveva i capelli ricci. Era il cosiddetto «Vecchio», quello con la testa allungata, ma allora aveva l’elmo. Prima di avvolgerla fecero alcune fotografie con una polaroid. Una foto la diedero a mio padre: l’ho vista tra le sue mani piú volte, negli anni. Adesso la sto cercando, ma non l’ho ancora trovata». Quella foto, qualora ritraesse uno dei Bronzi di Riace in piedi sulla barca nelle acque di Brucoli, sarebbe la prova regina che manca… la cerchi meglio. Poi, cos’altro vide quel giorno del 1971? «Sistemarono tutte le statue sotto le coperte. Ricordo di aver sentito “bum, bum”: diedero due martellate per togliere ai bronzi gli attributi – troppo ingombranti per il trasporto – e poterli avvolgere». Mi sta dicendo che ha visto levare a martellate dalle statue lancia, scudo e elmo? «Li vedevo da lontano che armeggiavano per liberare i bronzi da lancia, scudo e elmo. Una volta nascoste le statue, si misero in macchina e se ne andarono. L’indomani mattina venne un peschereccio piú grande, su cui caricarono – una a una – le statue. Io ho visto cinque involucri passare da una barca all’altra». Quindi i Bronzi di Riace all’epoca erano cinque? «Ho visto cinque pezzi avvolti nelle coperte che venivano trasportati dalla barca piú piccola a quella piú grande. Di statua ne ho vista una sola, quella per cui si era resa necessaria la coperta piú grande: gli altri pezzi erano nascosti alla vista. Ho visto tutto dalla finestra della mia casa sulla spiaggia». Perché solo ora si è ricordato di quanto vide a 10 anni? «Mio padre non ne ha mai voluto parlare. Era stato un testimone involontario del trafugamento delle statue e per tutelare la famiglia tacque per anni. Con il tempo ho cancellato tutto dalla mente. Quando Anselmo Madeddu ha iniziato ad approfondire la vicenda nel suo libro, mi sono ricordato di questo avvenimento». Suo fratello, Marco Bertoni, ha ricordato i racconti di vostro padre su alcuni som-

In alto: uno scorcio di Brucoli (Siracusa). Sullo sfondo, l’Etna. Nella pagina accanto, in alto: spiaggia di Brucoli, 1971: uno dei bambini è Mimmo Bertoni. In secondo piano, si riconosce la draga che, secondo un’altra testimonianza (vedi box a p. 33) potrebbe aver «pescato» i Bronzi di Riace e altre sculture in bronzo, poi disperse sul mercato antiquario. mozzatori romani che lavoravano nelle acque di Brucoli come «corallari». La sera venivano a cena nel suo ristorante: un giorno, nel 1971, riferirono di aver recuperato a largo di Brucoli uno scudo, una spada e diverse statue… «Papà raccontò a mio fratello che le statue vennero trovate da questi sub romani a 90 m di profondità, a 1,8 miglia da punta Tonnara, verso nord-est. I sub partivano la mattina alle sette e cenavano la sera da

noi, li accompagnava un vecchio pescatore di Brucoli, Orazio. Lavoravano per il noto oceanografo Jaques Cousteau, che quell’anno realizzava un documentario sulla vita dei “corallari” in Sicilia. Un giorno venne a Brucoli, attratto dalla presunta presenza di una nave affondata. Durante quelle ispezioni in acque molto profonde, i sub avvistarono le statue. Quando Cousteau andò via, tornarono a recuperarle in gran segreto».

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A COLLOQUIO CON STEFANO MARIOTTINI

La ricerca degli altri bronzi... un’ossessione! È passato alla storia come lo scopritore dei Bronzi di Riace quando, il 16 agosto del 1972, durante una discesa in apnea, Stefano Mariottini, allora giovane sub dilettante, intravide il braccio di una delle statue emergere dalle sabbie del fondale marino. Lo abbiamo ricontattato in occasione della ripresa delle ricerche in mare a Riace. Mariottini, lei conosce bene quei fondali, ha continuato a immergervisi per 40 anni, anche come collaboratore della Soprintendenza... Nessuna traccia del relitto o del suo carico, nei pressi del luogo dove lei ha disseppellito i Bronzi di Riace? «Niente che sembri pertinente alla nave da cui naufragarono. Con la campagna di scavo di Nino Lamboglia, nel 1973, a

pochi metri dal bronzo A, vennero fuori il maniglione di uno scudo (il suo) e alcuni anelli in piombo, appartenenti alla velatura di un’imbarcazione non meglio definita. A maggiore distanza, un’ancora in ferro priva di una relazione certa con le statue. Nel 1981 venne eseguito il rilievo della scogliera di Porto Forticchio, dove emersero i due bronzi, di fronte alla spiaggia di Riace: si trovò un frammento di chiglia con chiodi in bronzo, di epoca romana o forse post-medievale, come il relitto rilevato nel 1982 al casello ANAS, 1 km piú a nord. Attorno alle statue emersero frammenti ceramici non significativi. Nulla di certamente riconducibile al carico della nave che trasportava i bronzi. Anche dalle ricerche con il magnetometro cerca-metalli nulla di rilevante». In alto: Stefano Mariottini oggi. A sinistra: 16 agosto 1972. Stefano Mariottini (al centro della foto) accanto alla statua B di Riace, dopo il recupero. A destra: la sequenza di un documentario dedicato alla storia della scoperta dei Bronzi di Riace, diretto da Pippo Cappellano nel 1981, nella quale viene ricostruito il recupero di una delle statue.

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Che cosa pensa degli ultimi studi sulle terre di fusione delle statue, che attesterebbero la provenienza siracusana dei Bronzi (vedi box alle pp. 24-25)? «Conosco le persone che hanno fatto questi studi e sono rispettabili, ma sono troppe le problematiche mai del tutto approfondite, soprattutto quelle relative alle terre di fusione delle statue, provenienti da luoghi differenti della Grecia, tanto che i bronzi sarebbero due “sconosciuti” che si sono incontrati a bordo della nave. Si tratta di un tema molto complesso, per me non c’è una risposta definitiva». Diversi testimoni, anche oculari, affermano che i bronzi sarebbero stati ritrovati nelle acque di Brucoli e poi spostati in Calabria, a Riace… «Avevo sentito che li avevano trafugati dalle acque di Fano, sull’Adriatico, con l’atleta di Lisippo… quindi, secondo questi testimoni i bronzi sarebbero stati costruiti lí, poi da Brucoli li avrebbero portati via per lasciarli davanti a Riace dove non c’è un porto né altro? E come li avrebbero tirati su? Ci vogliono delle gru per issare le statue in barca e dei palloni per sollevarle dal fondale, altrimenti si spezzano, poiché busto e arti sono saldati e hanno una lamina di bronzo sottile (5 mm), con all’interno 300-400 kg di argilla… Inoltre, le concrezioni presenti sulle statue (sul dorso di una e sul fianco dell’altra), vengono dal fondale di Riace». Li avrebbero «pescati» con una draga, dicono i testimoni di Brucoli (vedi box alle pp. 28-29 e a p. 31). Che parlano di 5 statue… «La ricerca di altri bronzi è diventata un’ossessione. Dire che in origine erano di piú – come avevo anch’io ipotizzato subito dopo il ritrovamento nella segnalazione alla Soprintendenza – non vuol dire che gli altri siano stati trafugati. Magari un gruppo piú ampio di statue venne smembrato già in epoca antica… stiamo parlando di cose che viaggiano da duemila anni».

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riprese proprio in questi giorni le ricerche in mare, nelle acque antistanti Riace… «…è l’elemento piú importante. Che il naufragio sia avvenuto a Riace o a Siracusa, dobbiamo trovarne le tracce e sapere quando il relitto è affondato: se alla fine III secolo a.C., non ci sono dubbi che è il caso di Siracusa». E qui veniamo ai fatti di cronaca: piú di un testimone afferma che i Bronzi di Riace erano piú di due… «Le voci sulla presenza di altri bronzi sono diventate sempre piú insistenti negli ultimi anni. Si parla di una terza statua, che potrebbe trovarsi in qualche collezione straniera o presso un grande museo. Tra questi, come sappiamo, alcuni sono stati coinvolti nel traffico clandestino, come il Metropolitan Museum di New York, il Getty Museum di Los Angeles, e altri musei anche europei». Quindi il terzo Bronzo di Riace potrebbe essere nei magazzini del Metropolitan o del Getty? «Non possiamo saperlo. Però, se in Italia non è lecito immettere un reperto del genere sul mercato antiquario, negli Stati Uniti lo è. Come in Svizzera o in Gran Bretagna. Magari il terzo bronzo si trova nei magazzini di qualche museo statunitense oppure decora la casa di un ricco collezionista…». Mi sta dicendo che non sappiamo cosa c’è nei magazzini di quei

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La statua in bronzo a oggi variamente denominata, ma per la quale si predilige il nome di Atleta di Fano, perché portata a terra nella cittadina marchigiana. Attribuita a Lisippo, l’opera risale all’epoca ellenistica ed è attualmente esposta nel Getty Museum di Malibu (California, USA; vedi foto in basso).


UNA TESTIMONIANZA INEDITA

La versione (anonima) di «Enzo»

Lo chiameremo «Enzo», perché vuole rimanere anonimo. Viene da Augusta, a due passi da Brucoli, in provincia di Siracusa. Oggi è anziano, ma non ha dimenticato quanto gli confidò anni fa un presunto boss mafioso siculo-calabrese, che si sarebbe occupato del trafugamento dei Bronzi di Riace… a suo dire «pescati» a Brucoli e venduti oltreoceano. Tutti tranne due, «nascosti» sott’acqua a Riace. Enzo, vuole raccontarci? «Non faccio nomi perché chi mi ha fatto questo racconto è un personaggio pericoloso, un criminale a capo di un’organizzazione mafiosa importante, con contatti in tutto il mondo. All’epoca vivevo all’estero, dove lui era latitante, e lavoravo alle sue dipendenze nel settore vendite di prodotti commerciali. Un giorno mi rivelò di essersi occupato personalmente del trafugamento dei bronzi. “Ma tu sei siciliano vero?”, mi disse. “Ah, di Augusta, vicino a Brucoli… dove pescammo i Bronzi di Riace!”». Il boss le confidò di essersi occupato personalmente del trafugamento dei Bronzi di Riace dalle acque di Brucoli? «Sí. Mi disse: “perché fanno ancora ricerche archeologiche nelle acque di Riace? Lí non c’è niente… I bronzi di Riace li abbiamo pescati noi a Brucoli! Risposi: “ma sta parlando dei due famosi

In alto: una veduta del borgo di Monasterace (Reggio Calabria), dove sarebbero state nascoste le statue recuperate al largo di Brucoli. Qui sopra: il faro di Capo Santa Croce di Augusta, paese di origine di «Enzo», poco a sud di Brucoli. Bronzi di Riace? E lui: “ma quali due, erano sette… cinque statue e due leoni! Tutti in bronzo”». Sette? «Sí, questo mi ha detto il boss, che oggi risulta morto, ma pare sia vivo, sotto una nuova identità. I sette Bronzi di Riace sarebbero stati trovati a circa 90 m di profondità, pieni di incrostazioni calcaree». …come hanno raccontato anche i figli di Pippo Bertoni – uno dei quali testimone oculare del trafugamento dei bronzi dalle acque Brucoli … «Lí per lí non feci molto caso alle confidenze del boss… lui si fidava di me, perciò mi rivelò queste cose. La stessa cosa

l’ha raccontata anche un marinaio di Brucoli, oggi novantenne, che vuole rimanere anonimo: portava tutte le mattine i sub romani che pescavano coralli a fare le immersioni e su quei fondali trovarono le statue. A largo di Brucoli, poi, stranamente, rimase ferma per un mese una grossa draga, cioè una nave per scavare i fondali: si dice che fu utilizzata prima a Suez per dragare il canale, poi a Brucoli per “pescare” i Bronzi di Riace. A trovarli sarebbero stati proprio quei “corallari” che ogni estate venivano da Roma a pescare i coralli a Brucoli». E poi, che fine avrebbero fatto i bronzi “pescati” a Brucoli? «Dalle parole del boss ho capito che erano stati venduti. Per farlo trasferirono i pezzi prima in Calabria, nascondendoli clandestinamente in case o cantine di Monasterace: poi vennero venduti separatamente, per guadagnare di piú. Vennero venduti tutti, tranne due: i trafficanti a un certo punto, temendo di essere scoperti poiché le forze dell’ordine avevano iniziato a fare perquisizioni, gettarono i due bronzi invenduti nelle acque di Riace, a circa 8 m di profondità, e li nascosero ricoprendoli con la sabbia del fondale marino. Poi un giorno di agosto, nel 1972, una mareggiata li scoprí: un sub diede l’allarme. Ecco come sono venuti alla luce i due bronzi che conosciamo».

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Due immagini del bronzo A che evidenziano il porpax (imbracciatura) e l’antilabè (impugnatura) dello scudo del guerriero. Nella pagina accanto: un’altra immagine del bronzo B, il cui equipaggiamento doveva comprendere, come nel caso del bronzo A, sia lo scudo, sia la lancia.

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grandi musei d’oltreoceano, che potrebbero aver acquistato in Italia reperti di provenienza clandestina? «Sí, certo. Questi musei mettono in mostra ciò che scelgono di far vedere. Finché esiste il traffico clandestino, la possibilità di intervenire con acquisti illeciti sul mercato antiquario da parte dei musei esiste. Certo, è meglio che i reperti finiscano in una collezione pubblica che in una privata, dove scompaiono completamente». Secondo quanto afferma un testimone che vuole rimanere anonimo, i Bronzi di Riace in origine erano cinque, piú due leoni… che cosa ne pensa? «Anche questo è plausibile. Ora, dovremmo poter capire perché solo le due statue siano state “fatte ritrovare”... Il mercato clandestino è complicato, fatto di gruppi criminali che si affrontano, personaggi che fanno il doppio gioco. L’ipotesi che un contesto archeologico in origine unitario sia poi stato smembrato non è affatto peregrina. Anche perché, se dieci reperti archeologici appartenenti allo stesso contesto

vengono trafugati e venduti tutti insieme hanno valore di stock, se vengono piazzati uno a uno sul mercato danno un guadagno molto piú alto. I Bronzi di Riace potevano essere quattro, cinque o anche piú. Ma non abbiamo prove concrete». I bronzi potrebbero essere stati nascosti nelle acque di Riace da gruppi criminali, inscenando un finto ritrovamento pianificato a tavolino? Reputo questo scenario molto probabile. Un’operazione finalizzata a deviare le indagini e coprire la reale destinazione delle altre statue. Bisognerebbe fare altre ricerche in mare». Ma dove? Navigando dalla Sicilia a Roma, non si passa per Riace… «Il viaggio piú breve è quello attraverso lo Stretto di Messina. Passando per Riace, invece, si dovrebbe sbarcare in Puglia e poi andare a Roma via terra, tragitto lungo e tortuoso». Quindi, secondo lei dovremmo chiamarli i «Bronzi di Brucoli»? «Vedremo quale sarà l’esito delle indagini. Per quanto riguarda il nome, ormai le due statue sono passate alla storia emergendo agli occhi del mondo dalle acque calabresi: per me rimarranno sempre i Bronzi di Riace».

Le voci dei protagonisti di questa storia si possono ascoltare anche in un episodio di TRAFUG’ARTE, il podcast dedicato all’arte di Sky Tg24, curato dal giornalista John Pedeferri. Vi si può accedere attraverso il QR Code che qui pubblichiamo oppure dal link: https://open.spotify.com/ show/6H67Wv91rF3gTX0rL3Eiv3

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n otiz iario

MOSTRE Firenze

BASTONI TECNOLOGICAMENTE AVANZATI

L

a conservazione del legno è un evento raro in archeologia, che si verifica soltanto in condizioni particolari, come, per esempio, l’assenza di ossigeno nel deposito al cui interno giacciono i reperti. Ed è proprio questo il caso del sito scoperto in località Poggetti Vecchi (Grosseto), che ha restituito un eccezionale insieme di manufatti in legno – bastoni da scavo – risalenti a 170 000 anni fa circa e attribuiti a un gruppo di neandertaliani. Come si può intuire, si tratta di un’acquisizione di estrema importanza, non solo per la natura dei reperti, ma anche perché, a

oggi, si tratta di una delle piú antiche tesimonianze del genere attestate in Italia e nell’intera Europa. Testimonianze attualmente esposte nel Museo Archeologico Nazionale di Firenze, che, insieme al Museo di Antropologia e Etnologia dell’Università di Firenze, ospita la mostra «170.000 anni fa a Poggetti Vecchi. I Neanderthal e la sfida del clima». L’iniziativa offre dunque la possibilità di vedere da vicino i manufatti originali, ai quali fa da contorno l’illustrazione – forte di efficaci ricostruzioni – dei modi di vita dell’Uomo di Neandertal, delle

In alto e in basso: immagini dei bastoni da scavo da Poggetti Vecchi (Grosseto). 170 000 anni fa circa. Al centro: disegno che mostra l’utilizzo dei bastoni da scavo da parte dell’Uomo di Neandertal. condizioni ambientali in cui visse il gruppo di Poggetti Vecchi e delle altre specie, animali, allora presenti in quell’ecosistema. Viene, fra l’altro, sottolineato l’uso del fuoco nella fabbricazione dei bastoni, che dimostra la capacità di gestione dell’elemento anche in campo tecnologico, ennesima riprova di quanto vada ormai definitivamente archiviata la presunta arretratezza dei nostri cugini neandertaliani. La mostra sarà visitabile fino al prossimo 12 gennaio, ma i curatori del progetto espositivo si augurano, e non possiamo che condividere l’auspicio, che i legni di Poggetti Vecchi trovino poi una collocazione definitiva, cosí da assicurare la fruizione permanente di un tassello prezioso della nostra storia piú antica. Stefano Mammini

DOVE E QUANDO «170.000 anni fa a Poggetti Vecchi. I Neanderthal e la sfida del clima» Firenze, Museo Archeologico Nazionale e Museo di Antropologia e Etnologia fino al 12 gennaio 2025 Info www.iipp.it, www.sma.unifi.it, https://museitoscana.cultura.gov.it

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

CULTI PRIMORDIALI Il Colosseo ospita, fino al 2 marzo prossimo, una mostra che permette di immergersi in una delle piú antiche e affascinanti realtà archeologiche del mondo (vedi l’articolo alle pp. 72-83). 1 2 3 Grazie agli apparati multimediali e alle ricostruzioni realizzate per l’occasione, si viene infatti trasportati «fisicamente» a Göbeklitepe nella provincia di Sanlıurfa (1), nella Turchia sud-orientale, presso il confine con la Siria. La località era stata già individuata nel 1963 da un gruppo di ricerca turco-statunitense, che notò consistenti cumuli 4 di frammenti di selce, che vennero considerati un complesso funerario medievale e quindi 5 trascurati. Il sito neolitico – perché di questo, in realtà, si trattava – fu «riscoperto» nel 1994 e datato tra il 9500 a.C. e l’8200 a.C. Esso divenne quindi l’insediamento con la piú antica e monumentale struttura mai scoperta, rivoluzionando la cronologia degli inizi della vita sedentaria nella storia umana, come provato dalle strutture edilizie rinvenute in loco (2). 6 7 Inoltre i suoi monumentali pilastri monolitici a forma di «T» (3), scolpiti con raffigurazioni stilizzate di animali, motivi geometrici e immagini di figure umane, testimoniano la complessità delle prime comunità e delle loro credenze religiose. Göbeklitepe è oramai una meta famosa al pari di altre come Troia, Efeso e Pergamo, ma sono davvero tanti i siti 8 9 archeologici di estremo interesse nell’intera Turchia, a partire dalla stessa area di Sanlıurfa, nella quale ricadono il parco archeologico del Monte Nemrut (4), i mosaici di Haleplibahçe (5) e gli altri splendidi a Zeugma sull’Eufrate, come questo che raffigura Achille (6). Sempre nella zona orientale del paese, ancora vicino all’Eufrate, vi è il sito di 10 11 Arslantepe (7), considerato un vero museo all’aria aperta. A sud di Ankara si può ammirare un altro gioiello: Çatalhöyük (8), considerata la piú antica città IL CIFT Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione del mondo, risalente al 7500 a.C. Verso ovest di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti s’incontra Sagalossos (9), circa 100 km a nord di indirizzi: Antalya, nota località turistica sul mare. Numerosi Segreteria c/o Luciano Calenda sono poi i siti di origine romana meritevoli di una Sergio De Benedictis C.P. 17037 - Grottarossa visita, come Kuthaya (10), prima greca e poi romana, Corso Cavour, 60 - 70121 Bari 00189 Roma con imponenti reperti archeologici, e Dara (11), segreteria@cift.club lcalenda@yahoo.it oppure www.cift.it importante città-fortezza risalente al 505 d.C.

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CALENDARIO

Italia ROMA Un museo per l’École

La collezione di antichità dell’École française de Rome École française de Rome, Galleria (piazza Navona, 62) fino al 20.12.24

Penelope

Parco archeologico del Colosseo, Tempio di Romolo e Uccelliere Farnese fino al 12.01.25

BOLZANO Etruschi

Artisti e artigiani Centro Trevi-Trevilab fino al 02.02.25

CAPO DI PONTE (BRESCIA) 4000 anni a Dos dell’Arca MUPRE, Museo Nazionale della Preistoria della Valle Camonica fino al 22.06.25

CARRARA Romana marmora

Storie di imperatori, dèi e cavatori CARMI, Museo Carrara e Michelangelo fino al 12.01.25

CENTURIPE (ENNA) Il rapporto tra Roma, gli Italici e la Sicilia

Museo Archeologico Regionale fino al 09.01.25

CONEGLIANO (TREVISO) Egitto Göbeklitepe

L’enigma di un luogo sacro Parco archeologico del Colosseo, Anfiteatro Flavio, secondo livello fino al 02.03.25

Viaggio verso l’immortalità Palazzo Sarcinelli fino al 06.04.25

FIRENZE 170 000 anni fa a Poggetti Vecchi I Neanderthal e la sfida del clima Museo di Antropologia e Etnologia dell’Università degli Studi di Firenze-Museo Archeologico Nazionale fino al 12.01.25

FORTE DEI MARMI (LUCCA) Gli Egizi e i doni del Nilo Fortino Leopoldo I fino al 02.02.25

Miti greci per principi dauni

Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 16.03.25

DeVoti Etruschi

Da Veio a Modena e ritorno Museo delle Antichità etrusche e italiche. Sapienza Università di Roma fino al 31.03.25

GAVARDO (BRESCIA) L’età del Legno. 4000 anni fa al Lucone Manufatti in legno e tessuti dal sito palafitticolo dell’età del Bronzo Museo Archeologico della Valle Sabbia fino al 31.12.24

MODENA Riflessi d’Egitto

Fascinazioni e tracce nelle raccolte estensi Galleria Estense fino al 04.03.25

NAPOLI Documentare gli Scavi

Pompei nelle imprese editoriali del Regno 1740-1850 Museo Archeologico Nazionale fino al 31.01.25 40 a r c h e o


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

PITIGLIANO (GROSSETO) Guerra e Pace

Significati e simboli del rango e del potere nei contesti funerari vulcenti Museo Civico archeologico «Enrico Pellegrini» fino all’08.12.24

POMPEI L’altra Pompei

Vite comuni all’ombra del Vesuvio Parco Archeologico di Pompei, Palestra grande fino al 15.12.24

REGGIO CALABRIA Gli dèi ritornano

I Bronzi di San Casciano Museo Archeologico Nazionale fino al 12.01.25

VETULONIA Il ritorno del condottiero Principi etruschi nella Tomba del Duce di Vetulonia Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 02.02.25

Francia PARIGI Nella Senna

Ritrovamenti dalla preistoria ai giorni nostri Crypte archéologique de l’île de la Cité fino al 31.12.24

Il Met al Louvre

Dialoghi di antichità orientali Museo del Louvre fino al 29.09.25

NÎMES Achille e la guerra di Troia Musée de la Romanité fino al 05.01.25

Paesi Bassi LEIDA L’età del Bronzo

ROVERETO Etruschi del Novecento MART, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto fino al 16.03.25

SESTO FIORENTINO Archeologia svelata a Sesto Fiorentino

Momenti di vita nella piana prima, durante e dopo gli Etruschi Biblioteca Ernesto Ragionieri fino al 16.03.26

Fuochi di cambiamento Rijksmuseum van Oudheden fino al 16.03.25

Regno Unito LONDRA Le Vie della Seta British Museum fino al 23.02.25

Stati Uniti NEW YORK Fuga in Egitto

TORINO Cleopatra. La donna, la regina, il mito

Gli artisti neri e l’antico Egitto, dal 1876 a oggi The Metropolitan Museum of Art fino al 17.02.25

TRENTO Con Spada e Croce

PACIFIC PALISADES (LOS ANGELES) L’antica Tracia e il mondo classico

Musei Reali fino al 23.03.25

Longobardi a Civezzano Castello del Buonconsiglio fino al 12.01.25

Tesori di Bulgaria, Romania e Grecia The Getty Villa Museum fino al 03.03.25 a r c h e o 41


PA E V EST EL UM IA

IL NUOVO SPECIALE DI ARCHEO

PAESTUM E VELIA

IL RACCONTO DELLA MAGNA GRECIA


Paestum. Il santuario meridionale: da sinistra la Basilica, in realtà un Tempio di Hera, e il Tempio di Nettuno, la cui effettiva divinità titolare non è stata ancora identificata.

A

lla fine del VII secolo a.C., la colonia magno-greca di Sibari, sorta sulla sponda dello Ionio, volle dotarsi di un secondo caposaldo marittimo, questa volta sul Tirreno: un gruppo di cittadini raggiunse cosí la piana del Sele e lí decise di dare vita a un nuovo insediamento, che fu battezzato Poseidonia, in onore del dio del mare. Era l’inizio di una storia plurisecolare, oggi meravigliosamente testimoniata dalle imponenti architetture dell’area archeologica di Paestum e dai tesori conservati nel Museo Archeologico Nazionale. Gemme che, con l’area archeologica di Velia e il suo antiquarium, sono oggi riunite nel Parco Archeologico di Paestum e Velia, al quale si deve la realizzazione della nuova Monografia di Archeo. Un’opera ricca, aggiornata alle scoperte piú recenti, che ripercorre tutte le tappe salienti di una vicenda straordinaria, punteggiata da ritrovamenti di primaria grandezza, come nel caso della Tomba del Tuffatore, ormai impostasi come icona del sito archeologico. Ampio spazio è naturalmente dedicato agli spettacolari monumenti del culto – i templi di Atena e di Nettuno e la cosiddetta Basilica –, fra i meglio conservati che si conoscano, e che, oltre ad aver fatto di Paestum una meta irrinunciabile per gli eruditi del Grand Tour, sono un vero e proprio manuale dell’architettura greca. Ma molte sono anche le pagine che documentano aspetti solo all’apparenza minori e che completano un palinsesto di storie ricco e avvincente.

GLI ARGOMENTI

• L’EDILIZIA PUBBLICA • I SANTUARI URBANI ED EXTRAURBANI • LE TOMBE DIPINTE • LA RISCOPERTA • IL SISTEMA MUSEALE

in edicola

• VELIA

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SCOPERTE • SAN CASCIANO DEI BAGNI

NELLE SPIRE DEL SERPENTE DI BRONZO UN POSSENTE MURO DI CINTA, TERRAZZAMENTI DIGRADANTI, UN COMPLESSO SISTEMA IDRAULICO FINALIZZATO A REGOLARE I FLUSSI DELL’ACQUA: LA SESTA CAMPAGNA DI SCAVO DEL BAGNO GRANDE DI SAN CASCIANO DEI BAGNI CONFERMA L’ECCEZIONALITÀ DEL CONTESTO E OFFRE NUOVI E SIGNIFICATIVI DETTAGLI SU RITUALITÀ E SIMBOLOGIA EVOCATI DAI NUOVI, NUMEROSI E STUPEFACENTI REPERTI EMERSI DALLA VASCA SACRA di Emanuele Mariotti, Ada Salvi e Jacopo Tabolli

T

ra i fossati delle Malebolge, straziati, con il collo e il viso girati, sono puniti gli indovini nel Canto XX dell’Inferno di Dante. Tra Anfiarao, re di Tebe, e Arunte, leggendario indovino etrusco citato nella Pharsalia del poeta latino Marco Anneo Lucano (39-65 d.C.), Tiresia e la sua divinazione sono ricordati in due celebri terzi-

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ne. Per due volte, nell’aver separato e battuto due serpenti che si accoppiavano sul monte Cillene (o forse era il Citerone?), Tiresia fu prima donna e poi uomo. Interrogato su quale piacere sessuale fosse predominante, fu punito dall’ira di Giunone con la cecità e risarcito da Zeus con il dono della preveggenza. Alle spire dei serpenti

nell’antichità si avviluppa cosí il dono della divinazione, in un’immagine potente. E se le leggende spesso legano i serpenti alle sorgenti e in particolare alle fonti calde, cosí anche uno scavo archeologico può cogliere le tracce materiali del complesso sistema di significati avviluppati nelle spire di serpenti, questa volta di bronzo.


Vedi Tiresia, che mutò sembiante quando di maschio femmina divenne cangiandosi le membra tutte quante; e prima, poi, ribatter li convenne li duo serpenti avvolti, con la verga, che riavesse le maschili penne. (Inferno, XX, 40-45)

In alto: veduta aerea di San Casciano dei Bagni (Siena). A destra: Jacopo Tabolli e Ada Salvi con una statua femminile di orante rinvenuta nel corso dell’ultima campagna di scavo.

Il santuario del Bagno Grande di San Casciano dei Bagni (Siena) che, a partire dal III secolo a.C. fino al V secolo d.C., fu prima etrusco e poi romano, ha rivelato, già nelle prime campagne di scavo, come l’acqua termo-minerale raccolta nella vasca sacra sia stata un centro polarizzante di riti e culti diversi, incentrati sulle capacità salvifiche dell’acqua e, soprattutto, sugli aspetti divinatori. Da poche settimane si è conclusa la sesta campagna di scavi, che ha visto oltre novanta studentesse e studenti da ogni parte del mondo impegnati per quindici settimane nell’ampliamento dell’area di scavo. Emerge uno spazio sacro sempre piú grande, con un possente muro di temenos a racchiudere forse piú edifici sacri, tra terrazze digradanti a r c h e o 45


SCOPERTE • SAN CASCIANO DEI BAGNI

fra le sorgenti principali e il fiume. Riti di fondazione celebrati nel III secolo a.C., si accompagnano a complesse azioni idrauliche per irreggimentare l’acqua sacra (pozzi e canalizzazioni), meticolosamente restaurate e ampliate nei primi secoli dell’impero, ma in continuità diretta con il passato etrusco.

IL CUORE DEL SANTUARIO È però ancora una volta la grande vasca sacra al centro del sacello ad avere regalato nuovi e sorprendenti dati sul sistema di riti e culti incentrati in questo punto focale del santuario. Nella fase piú antica leggiamo attorno a una vasca di forma ovale un recinto e poi, tra i regni di Tiberio e di Claudio, l’edificio fu trasformato in un piccolo tempio o sacello tetrastilo, il cui cuore è rappresentato dall’ampliamento della

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Emilia-Romagna

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San Casciano dei Bagni

Umbria

Gros ossseto et et Lag Lag Lago go go di Bo olse ols ol ls naa ls

Lazio

A destra, sulle due pagine: il cantiere di scavo della vasca grande del santuario di San Casciano dei Bagni. In basso: aureo battuto al tempo dell’imperatore Domiziano, del quale la moneta mostra il profilo, rinvenuto durante l’ultima campagna di scavo.


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SCOPERTE • SAN CASCIANO DEI BAGNI

UOVA E ACQUA TERMALE La presenza di un gran numero di uova nella vasca sacra di San Casciano dei Bagni potrebbe trarre in inganno. Non si tratta di qualcosa di simile alle onsen tamago, «le uova alle terme», che nella tradizione caratterizzano molti siti termo-minerali in Giappone. Non sono infatti uova che erano condotte ai bagni caldi, lasciate in immersione, per poi essere mangiate, sfruttando la temperatura e la cottura naturale e rimanendo morbide a causa della lentezza della cottura. La vasca sacra racchiusa dal sacello del Bagno Grande non era certamente un contesto di immersione termale, mentre altre vasche, che dobbiamo immaginare nei pressi, ospitavano le pratiche balneoterapiche. La vasca è sacra, come sacre sono le offerte. La moltiplicazione di uova a contatto con le offerte in bronzo si lega, forse, al potere rigenerativo associato all’uovo, che cosí grande fortuna ha nel mondo etrusco, se pensiamo agli esemplari, talora decorati, rinvenuti nelle sepolture orientalizzanti, o alle raffigurazioni attestate nella pittura parietale.

grande vasca sacra in blocchi di travertino. Il rito che abbiamo descritto associa un compatto strato di tegole a un fulmine in bronzo – un fulmen trisulcum, la folgore piú distruttiva, come ricorda Festo (grammatico latino attivo, probabilmente, nel II secolo d.C., n.d.r.) – a protezione del materiale votivo sepolto nella vasca piú antica. La prosecuzione dello scavo nel deposito votivo entro la vasca sacra ha permesso di indagare porzioni di stratificazioni di offerte non an48 a r c h e o

cora investigate tra il 2022 e il 2023. La concentrazione di monete in gruppi di donativi, che si moltiplicano tra il I e il IV secolo d.C. nella vasca termale, era già stata documentata negli anni scorsi.

MONETE E RESTAURI Ma ecco che, subito a sud del «centro» della parte visibile della vasca, lo scavo di quest’estate ha permesso di portare alla luce nuovi nuclei di monete, disposte cosí ravvicinate le une alle altre, quasi da suggerire che

fossero preservate in passato in contenitori che non si sono conservati. Sono oltre 10 000 le monete a oggi rinvenute nella vasca sacra (vedi foto a p. 46 e alla pagina successiva, in basso), molte di fresco conio, e deposte in gruppi, probabilmente ad accompagnare momenti di restauro e ingrandimento del santuario. Accanto al bronzo, lo scavo di quest’anno ha portato alla luce splendidi esemplari in bronzo e un numero inatteso di aurei. Le monete, cosí come le grandi offerte di


statue ed ex voto in bronzo, si accompagnano, già dalla fase piú antica, a centinaia di uova. Fin dal 2021, alcuni frammenti aderenti alle offerte metalliche avevano fatto ipotizzare una presenza non casuale. Se infatti le offerte vegetali (vedi foto qui accanto) sono centinaia nella vasca, e quest’anno si legano in particolare a legni intagliati e lavorati, le ossa di animali sono interamente assenti dall’interno del sacello che racchiudeva la vasca sacra. All’esterno del sacello, nei focolari, nelle In alto: una pigna in bronzo, esempio delle numerose offerte vegetali deposte nella vasca. Nella pagina accanto: alcune delle numerose uova trovate nel corso degli scavi, ancora inglobate nel deposito fangoso. A destra: un gruzzolo di monete appena individuato nel fango della vasca sacra.

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SCOPERTE • SAN CASCIANO DEI BAGNI

UN PROTOCOLLO DI INTERVENTO PER I BRONZI IN ACQUA CALDA Per il terzo anno la collaborazione tra la ricerca sullo scavo, la Soprintendenza di Siena, Grosseto e Arezzo e l’Istituto Centrale del Restauro ha portato a impiantare un cantiere di primo intervento di conservazione all’interno del cantiere di scavo. Sono i primi momenti critici, in cui le meravigliose offerte in bronzo, sottratte al fango che le ha preservate per oltre duemila anni, sono rapidamente esposte alla luce, all’ossigeno e a uno shock termico. In questo frangente è stato implementato un protocollo di intervento, che punta alla stabilizzazione dei reperti e che combina i primi interventi di rimozione, campionatura del materiale in aderenza alla documentazione di dettaglio. In questa fase fondamentale i reperti giungono a uno stato omogeneo di partenza per gli interventi di conservazione e restauro in laboratorio nei mesi successivi allo scavo.

azioni di cantiere, gli animali costituiscono un’offerta ricorrente: daini, buoi, pecore, maiali popolano il ritmo del rito e del culto negli spazi prospicienti il sacello; sempre al di fuori. Ma all’interno, solo le uova

accompagnano la moltiplicazione delle deposizioni nel fango caldo. Ancor piú eccezionale è stato constatare, quest’anno, la presenza di alcune uova intere (vedi foto a p. 48). Conservano non solo la consisten-

za, ma anche l’odore (nauseabondo, per quelle che si sono rotte durante lo scavo) a dispetto dei duemila anni intercorsi dalla loro deposizione. Gli studi preliminari condotti da Beatrice Demarchi hanno eviIn alto: un momento dei primi interventi condotti in laboratorio sui manufatti metallici. Nella pagina accanto: la dedica Nymphis (alle Ninfe) incisa poco sopra l’ombelico di un «corpo troncato». A sinistra: offerte ancora in situ, sigillate da tegole.

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LE NINFE NEL TERRITORIO DI CHIUSI La presenza di dediche alle ninfe nel territorio chiusino non è un’eccezione. Nella celebre dedica a Bagno Vignoni, un liberto dedica alle Ninfe, nel I secolo d.C., una nuova edicola, non distante forse dalla natatio su cui poi venne costruita la grande vasca medicea. A Chiusi, in località Ponte Rovescio, l’antica via Cassia lambiva un’importante area di culto dedicata alle Ninfe. Una tabella in lamina di bronzo, ai lati di una schematica testa di prospetto, reca un’epigrafe che menziona una sorgente connessa alla famiglia degli Ogulnii. Immediatamente a valle fu rinvenuto nell’Ottocento un sacello dedicato alle acque, nel quale furono ritrovate sei statue, quattro delle quali maschili e due femminili.

denziato come sembrerebbero essere prevalentemente uova di gallina. Non si tratta di una novità nel regime dei culti santuariali in ambito etrusco, italico e romano, dove l’uovo ha una lunga tradizione rituale. L’aspetto sorprendente al Bagno Grande risiede nella conservazione. Affinché si siano preservate integre, dobbiamo immaginare una deposizione rapida nel fango caldo, a testimonianza dell’unicità delle singole deposizioni.

DA UNA VASCA ALL’ALTRA E ancora protetti dal sigillo di tegole, deposto assieme al fulmine, entro la prima metà del I secolo d.C., i doni votivi che erano parte delle offerte conservate fino ad allora nel santuario furono spostati rapidamente entro la vasca piú antica (vedi foto in questa pagina). Accanto alle offerte vegetali, gioielli in oro e ambra testimoniano la varietà delle speranze, delle preghiere e delle azioni incentrate sull’acqua sacra. Se la scoperta, nel 2023, del donario bilingue con l’iscrizione flere havens – [fon]s caldus ci ha permesso di

proporre la lettura di entrambi i testi come «la fonte calda», il novero delle divinità invocate presso il santuario è cresciuto in questa campagna di scavo. Due eleganti gambe femminili, in un corpo «troncato» poco sopra l’ombelico hanno rivelato una dedica Nymphis, «alle Ninfe» (vedi foto in alto). Come a Ponte Rovescio a Chiusi o a Bagno Vignoni di San Quirico d’Orcia, cosí al Bagno Grande di San Casciano, le Ninfe divengono divinità a tutela della sorgente sacra e calda, secondo un canone che caratterizza molti depositi votivi presso scaturigini termo-minerali in età romana, ereditando spesso il ruolo svolto da divinità etrusche nella fase piú antica (vedi box a p. 51). La corporeità di offerenti che si fanno offerte alle divinità del santuario è rappresentata soprattutto da nuove e splendide teste in bronzo rinvenute in un nucleo di deposizioni nel deposito votivo celato dalle tegole e dal fulmine, presso grandi pali lignei di quercia infissi nella vasca piú antica (vedi foto alle pp. 52-53). (segue a p. 55) a r c h e o 51


SCOPERTE • SAN CASCIANO DEI BAGNI

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Sulle due pagine: una testa femminile (a sinistra; prima età imperiale) e una maschile (I sec. a.C.) rinvenute in un nucleo di deposizioni nel deposito votivo celato dalle tegole e dal fulmine, presso grandi pali lignei di quercia infissi nella vasca piú antica. Sotto il volto dell’uomo, sul collo, corre un’iscrizione che celebra un voto sciolto con dedica alla fonte e che, per la prima volta a San Casciano, è in lingua latina. a r c h e o 53


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Se alla prima età imperiale rimanda la testa femminile dalle eleganti sembianze, ancora entro il I secolo a.C. può datarsi un ritratto maschile, dal volto con rughe accentuate. L’iscrizione sul collo celebra un voto sciolto con dedica alla fonte. Mentre le teste iscritte rinvenute nel 2022 «parlavano» in etrusco, questa testa maschile, che richiama forse ritratti cesariani, ha per la prima volta una dedica in latino sul collo. Ancora una volta nel clima multiculturale e plurilinguistico che contrassegna il santuario tra la fine del II secolo a.C. e la prima metà del I secolo d.C. le offerte, nell’identità linguistica scelta si riferiscono comunque, tutte, alla sacralità della fonte, indipendentemente dal loro idioma. La fonte calda – un dono al fonte

caldo – appare quasi nel centro del deposito votivo, nell’iscrizione sul petto di uno dei votivi anatomici piú sorprendenti rinvenuti nel fango caldo. Si tratta del tronco di un corpo maschile, tagliato a metà longitudinalmente, offerto nella tarda età repubblicana (vedi foto in queste pagine). La mano sinistra è portata sul fianco, quasi con un gesto provocatorio. La resa della muscolatura, dell’andamento elegante del chiaroscuro, dell’anatomia del pube, allude a modelli alti di riferimento della migliore statuaria iconica, in un linguaggio ellenistico proto-imperiale, con una lontana eco di Alessandro. Non stupisce l’offerta di un corpo troncato. Pur nell’assenza di confronti diretti in bronzo, questo «mezzo corpo» è da leggersi entro la lunga tradizione etrusco-italica che,

tra il IV e il III secolo a.C., trova nella moltiplicazione delle offerte di votivi anatomici in terracotta la codificazione di una tradizione. Si offre una parte del corpo da sanare o che è stata guarita.

IL BIMBO CON LA PALLA Nella serrata sequenza di offerte votive indagata nei mesi estivi, il mondo della parola etrusca con il milieu culturale che precede la romanizzazione del territorio si manifesta sul finire del II secolo a.C. allorché si data una sorprendente statua di bambino, in piedi, caratterizzato da una veste elegante e che nella mano sinistra tiene una palla, con i segni evidenti dell’antica cucitura (vedi foto alla pagina accanto). Nella porzione destra della veste, su tre righe corre un’iscrizione in Sulle due pagine: immagini di un votivo anatomico in forma di corpo maschile tagliato a metà. Sul petto si legge l’iscrizione fonte caldo (al fonte caldo). Il manufatto, deposto nella tarda età repubblicana, può essere interpretato come l’offerta di una parte del corpo da sanare o che è stata sanata.

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etrusco, con scrittura manierata. Se finora la gran parte dei testi etruschi dalla nostra vasca sacra rimandavano probabilmente a offerte dal territorio di Perugia, il riferimento alla città-stato etrusca di Cleusi – Chiusi – appare nell’apertura della seconda riga. È potente la suggestione che sempre di piú il Bagno Grande di San Casciano dei Bagni 56 a r c h e o

costituisca il fulcro di quel sistema di Fonti di Chiusi, consigliato dal medico Antonio Musa al poeta Orazio per coloro «qui caput et stomachum supponere fontibus audent Clusinis» nelle Epistole (I, 15). Le letture preliminari delle iscrizioni sono state possibili già durante lo scavo, grazie al protocollo di indagini conservative on site diretto dalla

In alto e a destra: immagini della statua di un bambino che tiene una palla nella mano sinistra. Fine del II sec. a.C. Sulla veste corre un’iscrizione in etrusco (foto in alto) all’inizio della cui seconda riga è menzionata la città-stato etrusca di Cleusi (Chiusi). A sinistra: lamina recante un testo di carattere matrimoniale, accompagnato dal gesto delle mani destre che si intrecciano (dextrarum iunctio).


Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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SCOPERTE • SAN CASCIANO DEI BAGNI

In questa pagina: immagini dei numerosi serpenti in bronzo recuperati nel corso dell’ultima campagna di scavo. Nella pagina accanto: il gruppo di lavoro posa per una foto ricordo insieme a una pregevole statua femminile di orante.

Soprintendenza ABAP di Siena, Grosseto e Arezzo e dall’Istituto Centrale del Restauro. Wilma Basilissi ha affinato il protocollo di intervento sui manufatti metallici da contesti scavo in acqua termo-minerale, coinvolgendo nelle operazioni preliminari anche studentesse e studenti del team di scavo (vedi box e foto a p. 50). La parola scritta ha trovato il suo documento piú complesso e affascinante in una lamina, questa volta in latino, che reca un giuramento, deposta in profondità nel deposito (vedi foto a p. 56, in basso). Due mani destre si intrecciano come dextrarum iunctio nel centro della lamina, a testimonianza del patto reso per la Fortuna e per il Genio dell’Imperatore. Questo documento eccezionale, e al contempo fragilissimo, rimanda ancora una volta, forse, alla temperie culturale dell’impero di Claudio. Personaggi noti dalle fonti antiche, Tacito e Seneca tra gli altri, sembrano amplificare il portato ideologico di un principato che, come incastonato nel bronzo delle tavole di Lione, fece dell’accoglienza dello straniero, dell’identità meticcia, uno 58 a r c h e o

degli elementi dirompenti che cosí fortemente si lega al Bagno Grande di San Casciano dei Bagni.

IL GESTO DELL’ORANTE Ma discendendo tra i blocchi dismessi della vasca piú antica, costruita verosimilmente durante il periodo etrusco, è emersa ancora una sequenza serrata di offerte votive, presso un grande blocco quadrangolare posizionato al centro del gruppo. Sotto la deposizione di una splendida corona d’oro, lo scavo ha restituito una statua iconica femminile (vedi foto a p. 45) di orante, databile nella seconda metà del II secolo a.C. Il chitone e mantello, il viso e soprattutto le trecce arrotolate e affusolate a cadere sul petto, richiamano l’orante femminile rinvenuta poco piú a nord, deposta nel fango a testa in giú e con le mani aperte, nel gesto della preghiera, verso il fondo della sorgente e che è stata esposta per la prima volta nella mostra allestita al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. La somiglianza è tale da riconoscere certamente la provenienza dalla stessa bottega, se


non dalla stessa mano che la realizzò. Nonostante manchi un braccio, è chiaro che a differenza della prima statua, questa, che ha la medesima altezza di due piedi romani, ha però le braccia protese in avanti. Infine, a oltre quattro metri e mezzo di profondità al di sotto dei gruppi di offerte, che nonostante la pressione dei 25 litri di acqua calda a 41 gradi centigradi al secondo, abbia-

mo documentato nella sua complessa deposizione, un livello caratterizzato da piccole scaglie di travertino frammiste, ancora una volta, a frammenti di uova. Qui sono emersi, quasi raffigurati nell’atto di nuotare, tanti serpenti in bronzo. Alcuni di piccole dimensioni, lineari, altri che si avvolgono nelle loro spire (vedi foto a p. 58). Tra tutti un esemplare di oltre 90 cm

SAN CASCIANO CHE CAMBIA Sono settimane di fermento a San Casciano dei Bagni, anche al di là dello scavo. Come già immaginato nell’Accordo di Valorizzazione firmato nel febbraio 2022, ancora prima della scoperta del deposito votivo, fervono i preparativi dei progetti del Museo Archeologico Nazionale, del Parco Archeologico Termale e dell’Hub internazionale di ricerca. Accanto al Comune di San Casciano dei Bagni, sono impegnate la Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio e la Direzione Generale Musei, per realizzare, grazie al coordinamento della Soprintendenza di Siena, il progetto del museo nell’ex Palazzo della Arcipretura e del progetto che circonda lo scavo in concessione del Bagno Grande. L’Università per Stranieri di Siena sta lavorando alla progettazione dell’Hub, che permetterà a ricercatrici e ricercatori da tutto il mondo di rendere permanente la presenza della ricerca a San Casciano dei Bagni, facendone un centro di eccellenza.

di lunghezza, dalle squame eleganti, la testa cornuta e barbuta. Sembra quasi sorridere, come un serpente agatodemone, a rappresentare la sacralità della fonte calda, il genius loci di questo articolato sistema di offerte stratificate nella vasca sacra. E se accanto alla medicina, alla capacità salvifica di curare patologie e corpi (siano essi interi o parti di essi), la divinazione cosí fortemente era apparsa tra gli ex voto della vasca sacra, nelle placche poliviscerali trovate nel 2022, di forma concava come a richiamare visceri offerti, in un linguaggio formale non distante dal fegato di Piacenza, cosí questo groviglio di serpenti sul fondo della vasca tradisce preveggenza e al contempo riti di passaggio, quasi a ribatter li convenne / li duo serpenti avvolti.

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L’INTERVISTA • BOLOGNA ETRUSCA

QUANDO

BOLOGNA ERA PRINCEPS ETRURIAE 62 a r c h e o


OGGI «CITTÀ INVISIBILE», LA FELSINA ETRUSCA È, INVECE, UNA REALTÀ ARCHEOLOGICAMENTE ATTESTATA. CE LO RIVELA L’ETRUSCOLOGO GIUSEPPE SASSATELLI, AUTORE DI UN SAGGIO DEDICATO AL PERIODO IN CUI, PER LA PRIMA E UNICA VOLTA NELLA SUA STORIA, L’ODIERNO CAPOLUOGO DELL’EMILIA-ROMAGNA È STATO «UNA GRANDE CAPITALE» incontro con Giuseppe Sassatelli a cura di Andreas M. Steiner

N

Veduta aerea di Bologna, con il cielo «attraversato» dalla trascrizione dell’iscrizione incisa su un’anforetta del sepolcreto Melenzani (vedi box e foto a p. 66). A destra: Giuseppe Sassatelli, professore emerito di etruscologia e archeologia italica presso l’Università di Bologna e autore del volume Bologna etrusca. La «città invisibile».

ell’immaginario collettivo gli Etruschi sono il popolo dell’Etruria antica, una regione che corrisponde alla odierna Toscana e al Lazio settentrionale. Sono gli Etruschi di Veio, Tarquinia, Cerveteri, e di altre città che tutti conoscono e identificano agevolmente. In realtà, la loro presenza è un dato ormai pienamente acquisito anche per la pianura padana, dove essi furono protagonisti indiscussi di un lungo periodo storico, compreso tra il X e il IV secolo a.C. Catone, riportato dal filologo latino Servio (IV/V secolo d.C.), afferma che quasi tutta l’Italia era sotto il dominio degli Etruschi affermazione che trova riscontro nella documentazione archeologica sulla base della quale possiamo parlare di un vastissimo territorio etrusco che va dal Sele in Campania al Po in Emilia passando per l’Etruria e anche per Roma (almeno per il periodo dei re etruschi). E la stessa tradizione storica antica ha piena consapevolezza dell’unità di questo vasto territorio quando ci informa che gli Etruschi avevano due piccoli edifici di culto nel grande santuario di Delfi, uno della città di Cerveteri, in rappresentanza degli Etruschi del Tirreno a r c h e o 63


L’INTERVISTA • BOLOGNA ETRUSCA

e uno della città di Spina in rappresentanza degli Etruschi dell’Adriatico e della pianura padana (e quindi anche di Bologna). Dominando i due mari che circondavano l’Italia, quello di sotto (il Tirreno) e quello di sopra (Adriatico) in una cartografia dove l’Italia stessa era quasi orizzontale, gli Etruschi già per gli antichi sono una grande potenza e i due tempietti di Delfi sono un riconoscimento internazionale di questa loro A destra: fibula d’oro decorata a pulviscolo con felini retrospicienti in una tipica iconografia orientale, dalla necropoli dell’Arsenale Militare, tomba 5, detta «degli Ori». 630 a.C. Bologna, Museo Civico Archeologico.

«La storia delle scoperte e degli studi sulla Bologna etrusca è materia di grande interesse in due diverse prospettive. Da una parte ci consente il recupero sul piano conoscitivo di tantissimi dati raccolti ed emersi nel corso degli anni. Dall’altra ci permette di ricostruire momenti significativi della nascita e dello sviluppo della disciplina archeologica, con particolare riguardo alla protostoria e all’archeologia preromana, consentendoci di individuare il profondo intreccio che queste discipline hanno con la storia politica, con la cultura in generale e con la storia delle idee nel corso del tempo, soprattutto tra XIX e XX secolo. In particolare gli Etruschi e le scoperte che li riguardano si intrecciano profondamente con le vicende risorgimentali quasi fossero stati i primi a realizzare una unità nazionale e, nel caso di Bologna, sono avvertiti come gli antenati dei Bolognesi» 64 a r c h e o

In basso: bronzetto di Eracle che indossa la pelle del leone di Nemea, dall’Acropoli di Villa Cassarini. 400 a.C. circa. Bologna, Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara.


Pianta di Bologna nella fase Certosa (VI-V sec. a.C.), con l’indicazione dei vari sepolcreti attorno all’abitato e delle piú importanti vie d’uscita e di entrata nella città, connesse con i principali itinerari del commercio e degli scambi.

potenza. La lunga presenza degli Etruschi nella pianura padana si concretizzò in un sistema di città (Bologna, Marzabotto, l’antica Kainua, Spina e Mantova) strettamente integrate sul piano economico, ma forse anche alleate sul piano politico. Tra queste città un ruolo speciale lo ebbe Bologna, che aveva il nome di Felsina, probabile latinizzazione del suo nome etrusco, e che fu capitale di una vasta area padana: non a caso Plinio il Vecchio parla di Felsina princeps Etruriae. Al contrario delle «città invisibili» di Italo Calvino (le quali, secondo la narrazione, esistevano solo nella fantasia di Marco Polo e nella credulità del Kublai Khan), oggi la Bologna etrusca – pur non avendo piú tracce visibili sul terreno, perché le sue strutture sono sepolte sotto la città attuale o sono state distrutte dagli insediamenti delle età successive – è reale e concreta nella sua documentazione archeologica. Gli scavi, in particolare quelli degli ultimi decenni, hanno individuato un abitato di straordinaria estensione tra i fiumi Aposa e Ravone, diversi luoghi di sepoltura dislocati al di fuori e attorno all’abitato che sono lo specchio fedele della

1. Fiera 2. Caserma Battistini 3. Via Beroaldo 4. Villaggio del Fanciullo 5. San Vitale 6. Savena 7. Piazza Otto Agosto 8. Via Belle Arti 9. Porta Ravegnana, Mercanzia, Palazzo Pepoli, Piazza Santo Stefano, Palazzo Malvasia Tortorelli 10. Cippi di via Fondazza 11. Giardini Margherita 12. Arsenale Militare 13. ex Manifattura Tabacchi 14. Piazza Azzarita 15. Deposito di San Francesco 16. Villa Cassarini 17. Benacci, Benacci Caprara, De Luca 18. Melenzani 19. Tagliavini, Stradello della Certosa, Arnoaldi felsineo 20. Arnoaldi felsineo 21. De Luca, Aureli, Battistini 22. Certosa 23. Polisportivo

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L’INTERVISTA • BOLOGNA ETRUSCA

società e dei cittadini, una solida economia agricola con il controllo e lo sfruttamento della fertile pianura padana, una ricca e variegata dimensione produttiva, un importante ruolo di intermediazione commerciale tra il Mediterraneo e l’Europa dei Celti. Dimostrando come, con gli Etruschi, Bologna sia stata, per la prima e unica volta nella sua storia, una grande capitale. La lunga e articolata vicenda storica della «Bologna etrusca» (che si estende, come già ricordato, dal X al IV secolo a.C. e che, paradossalmente, non è raccontata da nessuna fonte scritta) è oggi raccontata nell’omonimo libro da Giuseppe Sassatelli, professore emerito di etruscologia e archeologia italica dell’Università di Bologna e presidente dell’Istituto Nazionale di Studi Etruschi e Italici. Il volume Bologna etrusca. La «città invisibile» (Bologna University Press) ricostruisce con grande precisione, sulla base delle tracce archeo-

UN’ISCRIZIONE DI ALTO LIGNAGGIO L’iscrizione dell’anforetta Melenzani (600 a.C.), la piú lunga di Bologna e una delle piú lunghe di tutta l’area etruschizzata. In almeno 30 parole sono scritti i nomi di diversi personaggi importanti di Felsina, tra cui i destinatari del dono indicati come proprietari del vaso e quindi del suo prezioso contenuto, i nomi dei donatori poiché di dono si tratta stando al verbo turuke che ha questo significato; altri nomi associati a un verbo (samake) di cui ignoriamo il significato, ma che va probabilmente riferito a una azione della ritualità funeraria; infine, quasi una solenne firma di tutto l’operato, il prenome e il gentilizio (ana remiru), segno di alto lignaggio, dell’artigiano che ha confezionato il vaso e soprattutto ha redatto la sua lunga e complessa iscrizione, azione a cui si riferisce il verbo zinake. Il vaso e l’iscrizione, oltre al loro profondo significato storico, sono importanti perché ci consentono di penetrare nelle dinamiche sociali e relazionali dell’aristocrazia dominante e perché ci fanno toccare con mano l’uso alto e ormai generalizzato, quasi di tipo letterario, della scrittura, una pratica che connotava l’elevato livello sociale dei suoi utilizzatori.

A sinistra: anfora attica a doppia tecnica (figure nere e figure rosse), dalla necropoli Arnoaldi. 530-520 a.C. Bologna, Museo Civico Archeologico. Sulla faccia a figure nere, qui illustrata, si vede Eracle in lotta con il leone di Nemea, assistito dal compagno Iolao e dalla dea Atene, sua grande protettrice. 66 a r c h e o


logiche, l’abitato e le necropoli recuperate dal sottosuolo della città, le sue vie, le sue piazze e le sue case: sono tracce non piú visibili, ma bene individuate dalla ricerca e dagli scavi in corso da tanti anni. Il libro – corredato da un ricco apparato di piante e fotografie è completato dai testi delle principali fonti scritte greche e latine sulla città nonché da una bibliografia di approfondimento – si configura, pertanto, come efficace strumento conoscitivo, presentando tutti i dati disponibili e fornendo, cosí, un quadro preciso dell’estensione della città in epoca etrusca, della sua struttura, della sua importanza territoriale e del suo ruolo economico. Ne abbiamo parlato con l’autore. ♦ Professor Sassatelli, sono molte le novità del libro rispetto alle conoscenze su questa città In basso: stele nota come «pietra Zannoni», dal nome dello scopritore. Secondo quarto del VII sec. Bologna, Museo Civico Archeologico. Vi è raffigurato un principe seduto su un carro, nello schema di un corteo solenne, che forse allude al viaggio verso l’Aldilà. In alto: cratere attico a figure rosse con Eracle che viene presentato a Zeus e ammesso fra le divinità dell’Olimpo sotto la protezione di Atena, dalla necropoli Arnoaldi, tomba 78. 470-460 a.C. Bologna, Museo Civico Archeologico.

laggi di tradizione preistorica dando luogo alla città: ovvero a un sistema di abitare che, al di là della concentrazione demografica, si caratterizza per la sua complessità sia sul piano economico sia su quello politico. ♦ E lo stesso discorso vale per l’avvento della scrittura… …come in Etruria, anche a Bologna si comincia a scrivere poco dopo il 700 a.C. E la scrittura, usata a livelli molto alti e quasi di tipo letterario (nel mio libro è riprodotta, a titolo di esempio, la lunga iscrizione incisa su un’anforetta rinvenuta nel cosiddetto sepolcreto Melenzani), è al servizio della società aristocratica che fa ricorso al meccanismo del dono tra famiglie illustri esaltandone i legami anche di tipo matrimoniale. E agli Etruschi di Bologna, ormai maestri di scrittura, si deve la diffusione dell’alfabeto e la pratica della scrittura tra le vicine popolazioni dei Veneti a nord est e dei Celti di Golasecca a nord ovest.

La prima novità di carattere generale è un sostanziale parallelismo della lunga storia di Bologna con quella delle altre città dell’Etruria.Tutti i principali snodi storici che ben conosciamo per l’Etruria tirrenica – come la formazione delle città, l’arrivo e la pratica della scrittura, il passaggio dalla fase aristocratica dei principi a quella «democratica» nel VI secolo – sono ora assai bene documentati pure a Bologna. In totale sintonia, anche cronologica, con quanto accade in area tirrenica. Pensiamo soltanto all’aspetto della formazione della città: anche a Bologna, dopo il Bronzo finale (XII-X secolo), la popolazione si sposta da un territorio circo- ♦ Il libro è articolato in cinque capitoli dedicati, stante molto vasto e si concentra in un’area di oltre 200 rispettivamente, agli «esordi e la formazione ettari tra l’Aposa e il Ravone, area che poi sarà la sede della città», alla «grande città unitaria tra IX e della futura città storica. Anche qui, come nel resto VI secolo a.C.», alla «città “nuova” tra VI e IV dell’Etruria, viene superato il modo di abitare per vilsecolo a.C.» e alla «fine della città etrusca» sea r c h e o 67


L’INTERVISTA • BOLOGNA ETRUSCA

LA FINE DELLA CITTÀ ETRUSCA La massiccia invasione dei Galli, agli inizi del IV secolo, provoca la fine della Bologna etrusca e per delineare nel migliore dei modi anche questo evento occorre considerare, in parallelo, tradizione storica e documentazione archeologica. Stando a Polibio (...) l’arrivo dei Celti (cosí secondo Giulio Cesare si denominavano nella loro lingua i popoli che i Latini chiamavano Galli) fu improvviso e dirompente. Essi cacciarono gli Etruschi dalla regione del Po e occuparono un vasto territorio anche di pianura, sottraendolo agli antichi abitanti di quell’area. L’ampiezza e la radicalità del fenomeno, specie in una fase iniziale, sono sottolineate da Tito Livio (...) secondo il quale i Celti, superato il fiume Po con zattere, cacciarono non solo gli Etruschi, ma anche gli Umbri (Pado ratibus traiecto non etruscos modo sed etiam Umbros agro pellunt). Piú o meno negli stessi termini si esprimono Dionigi di Alicarnasso, Strabone e Plutarco, consentendoci di collocare l’evento all’interno di un processo piú ampio che, pur con episodi lontani e storicamente distinti, lascia intravedere nel IV secolo un generale arretramento degli Etruschi rispetto a nuovi assetti, come al sud la costituzione dell’ethnos dei Campani che cancella il dominio greco ed etrusco in quella regione. Nello stesso tempo, Roma minaccia

l’Etruria Tirrenica con la conquista e la distruzione di Veio da parte di Camillo, che Plinio, richiamandosi a Cornelio Nepote, mette in parallelo con quella di Melpum nella pianura padana (...), importante città di incerta identificazione e collocazione geografica distrutta da Insubri, Boi e Senoni e quindi molto probabilmente etrusca, anche se non lo dice esplicitamente, pur accostandola a Spina. La grande invasione del IV secolo avviene secondo Polibio (...) ripreso anche da Livio (...), con ondate migratorie che si succedono nel tempo in una progressione quasi martellante: prima gli Insubri che fondano Milano, poco dopo i Cenomani che si installano piú a est (Verona e Brescia); quindi i Boi (Bologna e territorio) e infine, ultimi arrivati anche se solo in una sequenza geografica, i Senoni nell’area adriatica almeno fino all’Esino, ma anche piú a sud. Si trattò di una operazione che coinvolse, come narra Plutarco, «molte decine di migliaia di giovani bellicosi che conducevano con sé un numero ancora maggiore di fanciulli e di donne». A questa fase dirompente e conflittuale subentra una fase caratterizzata da una profonda adesione dei nuovi arrivati allo stile di vita degli Etruschi con una evidente etruschizzazione dei vertici della società gallica che ne assume materiali e stili di vita.

La stele n. 168 del sepolcreto della Certosa. Seconda metà del V sec. a.C. Bologna, Museo Civico Archeologico. Vi è raffigurato il viaggio del defunto verso l’Aldilà, su un carro trainato da cavalli alati e guidato da un demone. Nel registro inferiore, il duello tra cavaliere e guerriero evoca imprese compiute dal defunto.

gnata dall’arrivo dei Galli. Un intero capitolo, il terzo, è invece intitolato alla «rivoluzione del VI secolo a.C.»… Verso la metà del VI secolo si assiste a un grande sovvertimento sociale, analogo a quella che mise in atto Servio Tullio a Roma, sostituendo alla discendenza e ai vincoli di sangue il «censo», cioè le capacità produttive e imprenditoriali. È la fine dell’aristocrazia che viene sostituita dal demos. E cosí, quando in Etruria ai tumuli – i grandi monumenti funerari appartenuti alle famiglie aristocratiche per piú generazioni – subentrarono le tombe a dado della nuo68 a r c h e o

va compagine sociale nel suo insieme, anche a Bologna alle tombe racchiuse in circoli (che ospitano le sepolture di famiglia) subentrano le tombe individuali regolarmente disposte e quasi pianificate, ricollegabili a una comunità civica nel suo complesso che ha definitivamente superato le prerogative e le esibizioni di tipo privato e famigliare. Sebbene questo fenomeno non abbia avuto, a Bologna, la stessa vistosa monumentalità che presenta in Etruria, le sue dinamiche e il suo significato storico emergono con grande chiarezza. ♦ Aspetti del tutto inattesi e nuo-


Uno schema ricorrente Tipica dell’Etruria padana è un’iconografia nella quale un personaggio muove in direzione della testa di un Sileno: si tratta di un’allusione al viaggio verso l’Aldilà, in una dimensione infera in cui regna Dioniso, divenuto Ade. Qui la vediamo su una stele in arenaria dal sepolcreto del Polisportivo (a destra) e nella decorazione interna di una kylix attica a figure rosse da una tomba di Casalecchio di Reno (in basso).

vi emergono anche a proposito dei rapporti tra la Bologna etrusca e Atene… Gli Etruschi in generale ebbero, come è ben noto, un rapporto speciale con la Grecia e in particolare con Atene, dalla quale importarono una grande quantità di ceramiche figurate (prima a figure nere e poi a figure rosse). Queste ceramiche sono, con le loro raffigurazioni, il veicolo per l’arrivo in Etruria di tutte le principali saghe dell’epica e della mitologia greche. Fino a non molto tempo fa si pensava che questo rapporto fosse unidirezionale e, per cosí dire, «passivo»: nel senso che i Greci vendevano e gli Etruschi compravano. Oggi sappiamo con certezza che i rapporti tra questi due ambiti furono molto piú sottili e complessi: gli Etruschi, infatti, importarono soltanto le ceramiche con raffigurazioni funzionali al loro sistema politico e culturale. E, a loro volta, furono addirittura in grado di condizionare la produzione ateniese, suggerendo temi a loro congeniali. A Bologna che, attraverso il porto di Spina, aveva relazioni ancora piú strette con Atene, questo rapporto tra le esigenze figurative della città e della sua classe dirigente e gli artigiani ateniesi è ancora piú evidente: temi e raffigurazioni di chiara impronta locale trovano spazio su ceramiche attiche importate. Prendiamo un esempio: il motivo della grande testa di sileno, diffusissimo sulle stele di Bologna a evocare una figura del corteggio di Dioniso che accoglie il defunto nell’aldilà, è presente su una kylix a figure rosse decorata da un illustre artigiano del Ceramico di Atene e rinvenuta nella tomba di un etrusco a Casalecchio di Reno, un sobborgo della Bologna etrusca. Cosa ci racconta questo caso? Che un etrusco di questa città è riuscito a «condizionare» il ceramista di Atene, ottenendo cosí di veder raffigurato un tema a lui caro non su una comune stele di Felsina ma come decorazione di un raffinato vaso greco prodotto ad Atene. PER SAPERNE DI PIÚ Giuseppe Sassatelli, Bologna etrusca. La città «invisibile», Bologna University Press, Bologna ISBN 9791254774007 https://buponline.com/ a r c h e o 69




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GLI ENIGMI DI UN LUOGO SACRO UNA MOSTRA ALLESTITA AL COLOSSEO PRESENTA, PER LA PRIMA VOLTA IN ITALIA, LA STRAORDINARIA AVVENTURA DELLE SCOPERTE VERIFICATESI, NEGLI ULTIMI DECENNI, NELLA REGIONE SUD-ORIENTALE DELLA TURCHIA. UN VIAGGIO IMMERSIVO CONDUCE I VISITATORI ALLA CONOSCENZA DI GÖBEKLITEPE, UNO DEI PIÚ ANTICHI SITI ARCHEOLOGICI DEL MONDO, GIÀ NOTO AI NOSTRI LETTORI (VEDI «ARCHEO» N. 279, MAGGIO 2008), E DI UN PAESAGGIO CULTURALE, DENOMINATO LE «COLLINE DI PIETRA», IN CUI LE ESPLORAZIONI IN CORSO CONCORRONO A DELINEARE UN QUADRO COMPLETAMENTE NUOVO DELL’ORGANIZZAZIONE SOCIALE E DEL PENSIERO SIMBOLICO E RELIGIOSO DELLE PRIME COMUNITÀ STANZIALI DELLA PREISTORIA di Roberta Alteri 72 a r c h e o


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l passaggio dall’età paleolitica al Neolitico rappresenta uno dei momenti fondamentali del lungo cammino dell’umanità. Con un processo durato diversi millenni, le comunità umane si orientano da forme di vita nomadiche, basate sulla caccia e la raccolta dei prodotti della natura (Paleolitico), a sistemi di organizzazione sociale stanziali, in cui si sviluppano nuove credenze religiose, abitati stabili e organizzati, agricoltura, allevamento. Questa fase prende il nome di PreNeolitico (Neolitico Aceramico), periodo in cui non era ancora conosciuta la produzione dei vasi in argilla. I diversi siti archeologici scoperti in Turchia nella regione mesopotamica di Tas Tepeler («colline di pietra») sono uno straordinario osservatorio per lo studio storico di questo fenomeno. Si tratta di insediamenti databili tra il 9500 e l’8200 a.C., caratterizzati da strutture monumentali che testimoniano il piú antico momento di transizione tra le fasi paleolitica e neolitica nel Vicino Oriente.

La cultura preistorica di questa regione mostra un notevole grado di complessità, caratterizzata da estese comunità stanziali, dal possesso di capacità tecnologiche sviluppate e dall’elaborazione di una concezione religiosa avanzata, basata sull’osservazione e sull’interpretazione simbolica della natura. Gli edifici monumentali documentati nei diversi siti, con le loro ricche raffigurazioni di uomini, animali ed elementi naturali, illustrano la vita collettiva e quotidiana di comunità di cacciatori e raccoglitori, che iniziano a prendere possesso definitivo di determinati territori, risiedendovi stabilmente per generazioni. Gli straordinari edifici, che caratterizzano questi insediamenti mesopotamici della Turchia, sono luoghi comunitari utilizzati per scopi religiosi, in cui dovevano svolgersi cerimonie e riti connessi con la venerazione degli dèi o, forse, degli antenati divinizzati. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che siano stati realizzati sulla base di conoscenze astronomiche legate all’alternarsi

Particolare di un disegno ricostruttivo del sito neolitico di Göbeklitepe, i cui resti sono stati scoperti presso l’odierna città di Sanlıurfa (Turchia sud-orientale). Spiccano le strutture circolari al cui interno vennero innalzati i pilastri monolitici a T.

delle stagioni, la cui acquisizione è stata per millenni vitale per ogni civiltà. L’orientamento delle strutture secondo la posizione stagionale degli astri e delle costellazioni ha suggerito che questi luoghi potessero fungere anche da osservatori astronomici. Una recente ipotesi ha proposto di identificare in alcune raffigurazioni rinvenute in diversi siti della regione di Tas Tepeler un calendario primitivo basato sul ciclo del sole e sulle fasi della luna.

GÖBEKLITEPE Göbeklitepe si trova a 15 km dalla città di Sanlıurfa, sul punto piú alto dei monti Germus, affacciata sulla piana di Harran e la zona circostante. Tra gli insediamenti neolitici, Göbeklitepe occupa una posizione a r c h e o 73


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speciale con la sua architettura monumentale, le sculture e un’ampia rappresentazione di animali e figure umane. Datato tra il 9500 e l’8200 a.C., è espressione di una società di raccoglitori e cacciatori che, seppure ben documentata anche in altri siti della regione, trova qui la sua manifestazione piú ricca, grazie al grande numero dei ritrovamenti,

LE COLLINE DI PIETRA L’area di Tas Tepeler, che in turco significa letteralmente «colline di pietra», si trova in una zona dell’Anatolia sudorientale conosciuta per il suo ricco patrimonio architettonico e artistico. È in questa regione che si è verificata una cruciale trasformazione nella storia dell’umanità, con il passaggio dalla vita nomade alla vita stanziale. L’area delle Colline di Pietra, che ospita le piú antiche comunità sedentarie dell’Anatolia e dell’Alta Mesopotamia, si estende su un’area di circa 150 km di diametro ed è composta da un vasto altopiano che circonda la pianura di Harran nella provincia di Sanlıurfa, alle pendici della catena montuosa del Tauro orientale, che digrada verso le pianure mesopotamiche. Molti sono i siti neolitici oggi conosciuti nella regione, soprattutto grazie ai risultati del progetto di ricerca archeologica Tas Tepeler, tra cui quelli di Göbeklitepe, Karahantepe, Sayburç, Çakmaktepe, Harbetsuvan, Gürcütepe, Sefertepe e Yenimahalle. Le indagini a Göbeklitepe, iniziate nel 1994, compiono nel 2024 il trentesimo anno di attività. Il sito, inserito nella lista del Patrimonio Mondiale

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alla monumentalità delle strutture e tere sacro, su cui è ancora molto alla varietà delle rappresentazioni. vivace il dibattito tra gli studiosi. Questi edifici si differenziano dalle abitazioni per le dimensioni, la tecGLI EDIFICI SACRI L’aspetto piú rilevante dei siti neo- nica costruttiva e la ricchezza delle litici della regione di Sanlıurfa è decorazioni. In genere, hanno una l’architettura. In questi primi inse- pianta circolare e sono costituiti da diamenti stabili di età neolitica, la un vasto ambiente unico, con muri ricerca archeologica ha documenta- di pietra che inglobano pilastri moto costruzioni monumentali a carat- nolitici dalla caratteristica forma a T.


Alcuni raggiungono i 6 m di altezza, hanno forma raffinata e sono decorati da rilievi, con figure di animali e umane. Alcuni studiosi sostengono che queste strutture avessero una copertura in materiale organico (legno e argilla) di cui non è rimasta traccia, mentre secondo altri sarebbero state a cielo aperto. Lungo le mura esterne, gli edifici

presentano panchine, mentre le fondamenta sono realizzate livellando il terreno roccioso oppure applicando una malta ottenuta dalla combinazione di calce viva, sabbia e graniglia. Presso questi edifici si raduna-

dell’UNESCO nel 2018, è visitabile sette giorni su sette, dispone di un moderno centro di accoglienza, con servizi quali una sala di proiezione, negozio nel museo e caffetteria. Anche Karahantepe è visitabile

sette giorni su sette. I manufatti portati alla luce negli insediamenti di Tas Tepeler sono esposti nel Museo Archeologico di Sanlıurfa. Il Progetto Tas Tepeler, avviato nel 2021 dal Ministero della Cultura e

La versione completa del disegno ricostruttivo del sito neolitico di Göbeklitepe, che, oltre all’area abitata e a quella in cui sorsero le strutture circolari con i pilastri monolitici, mostra il paesaggio circostante.

vano gruppi numerosi di persone, per svolgere attività rituali.

I PILASTRI FIGURATI I monumentali pilastri a T sono caratterizzati da dettagli antropo-

del Turismo della Repubblica di Türkiye è frutto di uno sforzo congiunto realizzato da 33 organizzazioni internazionali, tra cui anche alcune istituzioni accademiche italiane.

In basso e nella pagina accanto, in alto: veduta delle «colline di pietra» di Göbeklitepe. Nella pagina accanto, in basso: veduta aerea delle strutture dei recinti A, B, C e D di Göbeklitepe. Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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morfi, quali braccia, mani e dita, a simboleggiare la rappresentazione di esseri umani. I pilastri rinvenuti hanno un’altezza che varia da 1,5 a 6 m: quelli a figura umana a grandezza naturale trovati a Göbeklitepe, Karahantepe,Yenimahalle e Sayburç sono tra i piú antichi esempi di scultura antropomorfa del Neolitico. La sommità orizzontale dei pilastri rappresenta la testa, mentre la parte verticale costituisce il corpo, con un chiaro riferimento alla figura umana. In alcuni casi, sulla parte piú ampia dei pilastri sono scolpite in rilievo braccia collegate alle mani, che sorreggono il fallo all’altezza della vita. Su alcuni pilastri compa- nere tutto l’anno, pur continuaniono bassorilievi con varie figure di do a basare, per molto tempo, il animali e motivi geometrici. proprio sostentamento sulla caccia e la raccolta. Gli studiosi hanno pensato a lungo che l’agricoltura LA DOMESTICAZIONE I primi gruppi umani stanziali e l’allevamento degli animali fosscelsero luoghi in cui poter rima- sero state le ragioni della stanzia-

lità, mentre ricerche recenti hanno dimostrato come questi fenomeni non ne siano stati la causa, bensí la conseguenza. L’abbandono del nomadismo da parte dei gruppi umani di cacciatori-raccoglitori, infatti, ha permesso di stabilire nuove forme di relazione con diversi tipi di specie animali, In alto: cartina soprattutto mammiferi erbivori nella quale sono od onnivori organizzati in branindicate le chi, come pecore, capre, bovini e strutture maiali. Questo ha portato alla loro monumentali di progressiva domesticazione e, nelepoca lo stesso tempo, all’avvio dei propreistorica. cessi di coltivazione della terra. Nella pagina I primi insediamenti sulle Colline accanto, in alto: di Pietra furono stabiliti in luoghi veduta aerea di sopraelevati, dove gli animali da uno degli edifici branco erano numerosi. Nei presdi Göbeklitepe si degli insediamenti sono state caratterizzati individuate decine di zone di cacdalla tipica cia. Le pietre disposte intorno a pianta circolare. piccole valli guidavano gli animaA sinistra, sulle li in zone stabilite, cosí da intrapdue pagine: uno scorcio del sito di polarli e renderli piú facilmente Göbeklitepe come disponibili. Grazie a queste avanzate strategie di caccia, le comunisi presenta oggi, tà avevano a disposizione carne dopo la sua per tutto l’anno. Se si considera il musealizzazione. ruolo che il consumo di carne ha raggiunto oggi nel mondo, si comprende meglio l’importanza dell’addomesticamento di questi animali, avvenuto per la prima volta proprio nel Vicino Oriente. (segue a p. 80) a r c h e o 77


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IL SIMBOLISMO E GLI ANIMALI

Sulle due pagine: immagini dei pilastri monolitici di Göbeklitepe, che, in alcuni casi, sfiorano i 6 m di altezza. Il repertorio delle figure scolpite nella pietra è assai ricco e spazia da motivi antropomorfi – come braccia ripiegate e mani – a un ampio spettro di animali selvatici (cinghiali, volpi, gazzelle, leoni, serpenti, uccelli, scorpioni, ecc.).

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LA DONNA CHE PARTORISCE DI GÖBEKLITEPE Nel repertorio delle raffigurazioni restituite dagli edifici monumentali delle Colline di Pietra, in cui si svolgevano i rituali delle comunità, sono molto rare le figure, umane o animali, certamente identificabili come femminili. Questo rende difficile la comprensione del ruolo degli esseri femminili nel pensiero simbolico di queste comunità. L’unica rappresentazione chiaramente femminile è questa figura ritrovata nell’edificio noto come «Palazzo del Leopardo», appartenente a una fase piú tarda di Göbeklitepe, caratterizzata da una pianificazione quadrangolare degli edifici. Si ritiene che la figura scolpita su una panchina posta tra due pilastri rappresenti una donna in travaglio o durante un rapporto sessuale. Una simile figura stilizzata compare in fasi successive del Neolitico in diverse aree geografiche.

ARTE E SIMBOLISMO L’architettura monumentale e la ricca arte figurativa degli insediamenti delle Colline di Pietra testimoniano l’avanzata abilità artigianale della società preistorica. Il gran numero di raffigurazioni animali e

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umane dimostra l’esistenza di una cultura basata su forme articolate di pensiero simbolico.Tutti gli animali raffigurati sui pilastri a T devono essere stati attentamente osservati nella regione dagli artigiani che li scolpirono: serpenti, volpi, cinghiali,

gru, avvoltoi, bovini, asini, leopardi, gazzelle, ragni, scorpioni e anatre. In alcuni casi sui pilastri appaiono combinate diverse raffigurazioni animali, umane e geometriche. La maggior parte di queste statuepilastro rappresenta individui di sesso maschile con in mano il fallo. Le sculture tridimensionali di animali,


A destra: una veduta del sito di Karahantepe. Qui gli scavi hanno rivelato resti di strutture identificate come edifici pubblici. In basso, sulle due pagine: rilievo scoperto nel sito neolitico di Saybuç. Da sinistra a destra, si riconoscono un uomo in lotta con un toro e un secondo personaggio, piú staccato dalla superficie, fra due leoni.

invece, erano realizzate per apparire minacciose e spaventose agli occhi degli osservatori e, laddove è possibile riconoscerlo, il sesso sembra sempre essere maschile. Queste scene riflettono probabilmente storie di carattere religioso e rituale, legate alle attività che si svolgevano all’interno degli edifici.

KARAHANTEPE Karahantepe si trova nel Parco Nazionale dei Monti Tek, a 55 km dalla città di Sanlıurfa. In questo insediamento, contemporaneo a Göbeklitepe, gli scavi archeologici hanno finora portato alla luce strutture forse utilizzate per funzioni di natura pubblica. Alcuni di

questi edifici erano parte di complessi architettonici piú ampi, che testimoniano una cultura piú articolata di quanto si pensasse finora. Nel divenire stanziali, queste prime società si dotano di un’organizzazione sociale e di forme culturali complesse, in campo religioso e artistico, come documentato dal

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LA MOSTRA AL COLOSSEO Repliche in scala 1:1 di alcune delle straordinarie sculture rinvenuti nei circoli preistorici scoperti nella Turchia sud-orientale. Suggestive ricostruzioni monumentali e un esauriente apparato didascalico compongono la mostra «Göbeklitepe: L’enigma di un luogo sacro», allestita fino al 2 marzo 2025 al secondo livello dell’Anfiteatro Flavio. La mostra è promossa dal Parco archeologico del Colosseo con la curatela di Alfonsina Russo, Roberta Alteri, Daniele Fortuna e Federica Rinaldi e la collaborazione del Ministero della Cultura e del Turismo della Repubblica di Türkiye e dell’Ambasciata di Türkiye a Roma.

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DOVE E QUANDO «Göbeklitepe: l’enigma di un luogo sacro» Roma, Colosseo fino al 2 marzo 2025 Orario tutti i giorni, 9,00-16,30; chiuso il 25 dicembre e il 1° gennaio Info www.colosseo.it

ritrovamento di un gran numero di sculture di figure umane e animali e dai resti architettonici.

IL «SIGNORE DEGLI ANIMALI» DI SAYBUÇ Saybuç si trova a 60 km a est del fiume Eufrate, sulle pendici meridionali dei Monti Tauri orientali, circa 20 km a sud-ovest di Sanlıurfa. L’insediamento neolitico, sviluppato in origine su due colline, si caratterizzava, come gli altri siti coevi della zona, per un’architettura monumentale, con edifici scavati direttamente nella roccia calcarea oppure provvisti di pilastri a forma di T. A Saybuç si conserva la piú antica scena narrativa finora conosciuta, ovvero un rilievo scolpito sulla parete di un edificio ricavato nella roccia, con ritratto un uomo seduto, con il fallo nella mano destra e affiancato da due leopardi con le zampe anteriori sollevate, quasi fosse la prima rappresentazione del «Signore degli animali». L’opera riflette la complessa relazione tra gli esseri umani, il mondo della natura e quello animale durante il passaggio a forme di vita sedentaria. Accanto compare anche un’altra scena con una seconda figura umana, in posizione leggermente accovacciata, con la schiena rivolta alla scena precedente, che fronteggia un toro in posizione di attacco. La sua mano sinistra sollevata e aperta ha sei dita, mentre la destra tiene un serpente con la testa rivolta verso il suolo, o un sonaglio. Si tratta verosimilmente della raffigurazione di piú storie correlate tra loro, tra le piú dettagliate di quest’epoca di quelle trovate fino a oggi nel Vicino Oriente. Nelle culture orali, storie, rituali ed elementi simbolici costituivano princípi delle ideologie su cui si basavano la società e la sua spiritualità. Si pensa dunque che i rilievi possano essere il riflesso di una memoria collettiva che voleva attualizzare e tramandare i propri valori. a r c h e o 83


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Ricostruzione di un telaio ispirata alla raffigurazione presente sullo skyphos del Pittore di Penelope visibile sulla destra e nella foto alla pagina accanto, in basso. Monaco di Baviera, Calcoteca. 84 a r c h e o


UN TELAIO PER LA REGINA PERSONAGGIO DI PRIMO PIANO DELLA MITOLOGIA E DELL’ODISSEA DI OMERO, PENELOPE HA GODUTO DI STRAORDINARIA FORTUNA ANCHE DOPO L’ETÀ ANTICA. COME DIMOSTRA L’ESPOSIZIONE A LEI DEDICATA DAL PARCO ARCHEOLOGICO DEL COLOSSEO di Stefano Mammini

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nsidiata, tanto ripetutamente quanto inutilmente, dai pretendenti che ne danno per morto il marito, Penelope si chiude nelle sue stanze e tesse: è questa l’immagine della moglie di Ulisse forgiata in versi da Omero e subito mitizzata. La donna che, ferma nei suoi convincimenti, è capace di aspettare per vent’anni il ritorno a Itaca del consorte. Un’immagine potente e densa di suggestioni e implicazioni simboliche – la fedeltà coniugale, la tessitura... –, alla quale è dedicata la mostra realizzata dal Parco Archeologico del Colosseo negli spazi del Tempio di Romolo e delle Uccelliere Farnesiane. Seguendo un percorso espositivo che colpisce innanzi tutto per la spettacolare scenografia dell’allestimento, firmato da Federica Parolini, con la collaborazione di Matteo Martini: gli

In alto: tazza di produzione rodia nota come Coppa di Nestore. 730 a.C. circa. Lacco Ameno (Ischia, Napoli), Museo Archeologico di Pithecusae. A sinistra: skyphos (bicchiere a due manici) attico con Telemaco e Penelope, alle cui spalle si vede il telaio. 440 a.C. circa. Chiusi, Museo Archeologico Nazionale a r c h e o 85


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elementi che lo compongono sono stati infatti assemblati in modo da evocare l’ordito di un tessuto, per rimandare quindi all’attributo principe di Penelope, il telaio, del quale è peraltro collocata al centro del Tempio di Romolo la ricostruzione realizzata dalla Calcoteca di Monaco di Baviera. Da qui può si può partire alla scoperta delle innumerevoli e variegate declinazioni della vicenda di cui è protagonista la sola donna per la quale, dice Omero, «gli immortali comporranno un canto gradito tra gli uomini in terra».

UN RICCO REPERTORIO Riflesso della grande e duratura fortuna del mito è l’eterogeneità dei materiali selezionati per la mostra, che spaziano dai reperti archeologici a stampe e dipinti, da locandine e foto di scena ad antiche edizioni del testo omerico, fino

alle opere di Maria Lai (19192013), artista che pose al centro dei propri lavori la materia tessile, rinnovando idealmente la lezione di Penelope. Fra le presenze piú significative, va senz’altro segnalata quella di uno skyphos (coppa a due manici) attico a figure rosse su una delle cui facce è rappresentata la scena di Telemaco che annuncia a Penelope la volontà di partire alla r icerca del padre Ulisse (l’altra faccia del vaso raffigura Ulisse riconosciuto dalla nutrice Euriclea). La regina appare qui in un’iconografia che doveva essere ormai consolidata in età classica: è seduta, con il volto poggiato su una mano, e alle sue spalle troneggia il telaio (vedi foto a p. 85, in basso). Altrettanto importante è il prestito – dal Museo archeologico di Pithecusae di Lacco Ameno (Ischia) – di un manufatto tipologi-

I MILLE VOLTI DI UN MITO Accompagna la mostra il volume Penelope, curato da Alessandra Sarchi e Claudio Franzoni, e pubblicato da Electa. Qui riportiamo un brano dal saggio Il filo della storia, a firma di Alessandra Sarchi: «Come tutti i personaggi del ciclo troiano e di gran parte della letteratura greca antica, Penelope appartiene al mito e dunque alla regione fuori dal tempo in cui figure dense di valore paradigmatico, di stratificazioni leggendarie, non meno che di contraddizioni ed eversioni intrinseche, sono divenute rappresentative della condizione umana. Regina il cui talamo è ambito da un numero spropositato di pretendenti, per la precisione, madre di un figlio che cresce da sola, sposa fedele di un marito assente per vent’anni, abile tessitrice, saggia e astuta quanto il marito, grande sognatrice, nel senso che Omero racconta in almeno tre occasioni la sua intensa vita onirica e la fa

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addormentare molto spesso; viene da domandarsi se Penelope incarni l’esemplare femminile normativo di una cultura come quella greca che non perde occasione per sancire la minorità della donna o, piuttosto, se sotto l’ideale della moglie fedele non riveli zone porose e divergenti, grazie alle quali è cresciuta oltre i confini assegnati. La macchina mitologica, per usare un’espressione di Furio Jesi, che di volta in volta ne ha perpetuato la memoria accentuandone ora un significato ora un altro, a seconda del contesto storico-sociale e dei valori in cui si inseriva, le ha fatto attraversare i millenni con una diffrazione di senso notevole: non esiste una sola e univoca Penelope, ma tante e diverse. Già a partire dall’etimologia: c’è chi collega il nome Penelope all’anatra acquatica, penèlops, chi invece al gesto di disfare la tela – pènen olòpto – (Kretschmer 1945)».


Penelope, statuetta in bronzo di Antoine Bourdelle. 1909. Parigi, Musée Bourdelle. Nella pagina accanto: Penelope piange sull’arco di Ulisse, olio su rame Angelika Kauffmann. 1779 circa. Wolverhampton, Wolverhampton Art Gallery.

L’attesa di Penelope e gli episodi che si susseguono dopo il ritorno di Ulisse ricorrono anche in due pregevoli lastre in terracotta da Roma, in un affresco pompeiano e in uno specchio in bronzo di produzione etrusca. Quest’ultimo in particolare, propone una sorta di gruppo di famiglia, mostrando Ulisse, Penelope e il vecchio cane Argo, protagonista di uno dei momenti piú commoventi del poema omerico.

IL VELO SUL VISO Due immagini a tutto tondo – la replica in gesso di una Penelope dolente e il frammento di un altorilievo dalla vigna di San Sebastiano, sulla via Appia – evocano uno dei connotati salienti dell’iconografia di Penelope: il velo con il quale fa mostra di volersi coprire il volto.

A destra: frammento di terracotta architettonica raffigurante Penelope dolente tra le serve. I sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano.

camente affine, ma piú antico, la Coppa di Nestore: su di esso corre infatti la prima iscrizione poetica in lingua greca a oggi nota, segno della precoce diffusione dei poemi omerici nel Mediterraneo (vedi foto a p. 85, in alto). Sul vaso – prodotto a Rodi – è graffita la frase «Sono la coppa di Nestore, una gioia da cui bere», alludendo al passo dell’Iliade (XI, 632 e sgg.) in cui si ricorda la magnifica coppa del vecchio eroe acheo. Seguono due esametri di tono epico: «Chiunque beva da questa coppa, sarà subito preso dal desiderio di Afrodite dalla bella corona». a r c h e o 87


MOSTRE • ROMA

Un gesto che, nella tradizione greca, esprimeva l’aidòs, il pudore, il contegno, ma che – come scrive Claudio Franzoni in uno dei saggi pubblicati nel volume che accompagna la mostra – può anche essere letto come la volontà di nascondere le proprie intenzioni. Una scelta, quest’ultima, quanto mai necessaria per chi, come Penelope, non voleva dare alcun segno di cedimento agli occhi dei pretendenti.

IN LACRIME SULL’ARCO Le lezione dell’antico è ben viva nel repertorio delle opere di piú recente datazione selezionate dai curatori del progetto espositivo, nelle quali il telaio e la tessitura conservano un ruolo di primo piano, seppur non esclusivo. Pittori, incisori e disegnatori si cimentano con la vicenda

In alto, a sinistra: Penelope alla tela, tavola di Joseph KuhnRégnier, da La Vie Parisienne, 18, 4 maggio 1918. In alto, a destra: Silvana Mangano, nei panni di Penelope nel film Ulisse (1954). A sinistra: Tela nell’orizzonte, opera di Maria Lai. 1979. 88 a r c h e o

SU E GIÚ DALLE STANZE DI SOPRA Ecco invece uno stralcio del saggio Immaginare Penelope, di Claudio Franzoni, incluso anch’esso nel volume che accompagna la mostra: «Un canto accompagna Penelope la prima volta che appare nell’Odissea, il canto di Femio che racconta il ritorno degli Achei da Troia ai pretendenti seduti nella casa di Ulisse. Ma il poeta dell’Odissea


della regina e c’è chi, come la pittrice svizzera Angelika Kauffmann, volle dedicarle un’intera serie di opere. Tra queste, a Roma è presente un olio su rame in cui Penelope è immaginata in lacrime, sull’arco di Ulisse (vedi foto a p. 86). La scena evoca il momento in cui la donna ha deciso di concedersi in matrimonio al pretendente che uscirà vincitore da una gara di tiro: sa bene che nessuno riuscirà nell’impresa, perché A destra: affresco raffigurante Euriclea che lava i piedi di Ulisse travestito da mendicante, da Pompei. Metà del I sec. d.C. Pompei, Parco archeologico, Antiquarium. In basso: specchio etrusco in bronzo con Ulisse, Penelope e il cane Argo, da Tarquinia. III sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

solo il re di Itaca era in grado di utilizzare quell’arma prodigiosa, ma da questa certezza ricava un sollievo parziale, sopraffatta dai ricordi suscitati dall’arco, che, proprio per le sue qualità, acuisce in lei lo struggimento per l’assenza del marito. Atmosfere che pervadono anche le pregevoli opere di grafica e perfino, nel solco dello stile neoclassico,

smorza subito il livello sonoro, non appena ci porta nelle “stanze di sopra”, dove il canto arriva piú debole. Non tanto da impedire alla moglie di Ulisse di intenderne le parole; per questo Penelope scende al pianterreno percorrendo “l’alta scala” assieme a due ancelle. Cosí, in una sorta di piano-sequenza, la seguiamo dalle sue camere fino al mègaron, la sala in cui si trovano gli uomini che vorrebbero sposarla: “E quando

giunse dai Pretendenti, chiara fra le donne, / si fermò vicino a un pilastro del solido tetto, / tenendo davanti alle guance il lucido scialle: / da ciascun lato le era accanto un’ancella fedele”. Due spazi fortemente connotati dal punto di vista del genere: il chiassoso pianterreno dei proci e le silenziose “stanze di sopra” di cui Penelope con le sue ancelle è signora, e in cui all’occorrenza può nascondersi».

un servizio in porcellana smaltata di produzione viennese. Accanto al quale, nelle Uccelliere Farnesiane, il tema della tessitura viene ripreso attraverso le opere della già citata Maria Lai. A lei si devono tele e libri cuciti che, scrive Alfonsina Russo, «come tutte le opere d’arte, rappresentano una metafora del processo di tessitura, fatto di trame e di orditi, di intrecci di parole, di immagini, di oggetti tra speranza, silenzio, stupore, dolore». DOVE E QUANDO «Penelope» Roma, Parco archeologico del Colosseo, Tempio di Romolo e Uccelliere Farnesiane fino al 12 gennaio 2025 Orario tutti i giorni, 9,00-16,10 Info www.colosseo.it Catalogo Electa a r c h e o 89


SPECIALE • FRANCESCO SMUGLEWICZ

LA DOMUS AUREA DI FRANCESCO, «PITTORE POLACCO» COSÍ AMAVA SPESSO FIRMARSI FRANCISZEK SMUGLEWICZ, UN TALENTUOSO ARTISTA ORIGINARIO DI VARSAVIA CHE, POCO DOPO LA METÀ DEL SETTECENTO, SOGGIORNÒ A ROMA. L’INCONTRO CON UNA DELLE CULLE DELL’ARTE ANTICA FU PER LUI DECISIVO, TANTO QUANTO L’OPPORTUNITÀ DI PARTECIPARE ALLA RISCOPERTA E ALLA DOCUMENTAZIONE DELLE MERAVIGLIE DELLA DOMUS AUREA di Jerzy Miziołek

F

ranciszek Smuglewicz, che ebbe la fortuna di contribuire alla pubblicazione delle Vestigia delle Terme di Tito e loro interne pitture (1776), opera nella quale veniva in realtà documentata la decorazione pittorica della Domus Aurea neroniana, godette in vita di notevole fama, che non fu però duratura. Per esempio, quando Maciej Loret pubblicò il suo libro Gli artisti polacchi a Roma nel Settecento (1929), lodò il talento di un altro pittore, Tadeusz Kuntze, detto a Roma Taddeo Polacco (1727-1793) e spese poche parole di apprezzamento per Smuglewicz, da lui considerato «accademicamente freddo». Anche se l’artista, sia durante il lungo soggiorno a Roma (1763-1784), sia dopo il suo ritorno in patria, fu molto prolifico e venne

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citato in numerose pubblicazioni – prima di tutto in quelle sulla riscoperta delle tombe etrusche di Tarquinia e degli affreschi della Domus Aurea – la sua attività al di fuori della Polonia e della Lituania è ancora poco nota. Se nel 2007 Rosella Carloni, in un articolo su un ritratto di papa Clemente XIV, un’incisione da un disegno dell’artista polacco, cercava di rispondere alla domanda su chi fosse stato Francesco Smuglewicz, negli ultimi anni il pittore è stato finalmente meglio conosciuto. Sono usciti su di lui diversi studi, sia in lingua polacca che in italiano, ed è stato inoltre redatto il catalogo di tutti i suoi disegni e delle altre opere (oltre 160) raccolte nel Gabinetto delle Stampe dell’Università di Varsavia. A Tarquinia, nel 2023, sono stati pubblicati gli atti di un convegno tenutosi nel 2021, dedicato alla sua figura e al suo ruolo nella riscoperta dell’arte etrusca, curato dalla Società Tarquiniese d’Arte e Storia. Smuglewicz è poi presente anche nei libri di Vincenzo Farinella (The Domus Aurea Book, 2019) e di Marco Brunetti dedicato alla Volta dorata della Domus Aurea (Nero’s Doums Aurea, 2022). Da ultimo, nell’autunno scorso, le sale del Palazzo Chigi di Ariccia (Roma), hanno ospitato una mostra dedicata al suo lavoro durante la epocale ricerca archeologica ed editoriale di Ludovico Mirri.

I PRIMI PASSI Franciszek Smuglewicz nacque a Varsavia il 6 ottobre 1745. Il padre, Łukasz, era pittore di corte del re di Polonia e Sassonia, Augusto III Wettin. Anche i quattro fratelli erano pittori e il maggiore, Antoni, fu un ottimo scenografo teatrale. A Varsavia Francesco studiò nel collegio dei Gesuiti e nell’atelier di famiglia, tenuto dal padre e dallo zio, l’eccellente pittore Szymon Czechowicz, formatosi anch’egli a Roma. Ispirato da Czechowicz, nella primavera 1763, quindi non ancora diciottenne, il giovane pittore partí per Roma, dove A destra: copia di un particolare dell’Incendio di Borgo (affresco realizzato da Raffaello nei Palazzi Vaticani), in un disegno di Franciszek Smuglewicz. 1765 circa. Varsavia, Biblioteca Universitaria, Gabinetto delle Stampe. Nella pagina accanto: ritratto di Franciszek Smuglewicz, dipinto di Józef Peszka. Ante 1800. Poznan, Società degli Amici delle Scienze. a r c h e o 91


SPECIALE • FRANCESCO SMUGLEWICZ

mosse i primi passi nello studio di Anton von Maron, frequentando anche i corsi di disegno alla Scuola del Nudo sul Campidoglio. Una circostanza attestata da numerosi disegni, purtroppo quasi mai datati, conservati, tra gli altri, nel Museo dell’Università Jagellonica di Cracovia e nel Gabinetto delle Stampe della Biblioteca Universitaria di Varsavia: «Al suo arrivo a Roma – si legge in un articolo del XIX secolo – [Smuglewicz] si dedicò da solo e con grande impegno al disegno; passò intere giornate a copiare famosi capolavori antichi e moderni». Sappiamo assai poco della vita privata del 92 a r c h e o

pittore, rimasto scapolo. Dal 1766 riceveva dal re di Polonia Stanislao Augusto Poniatowski 100 scudi per annum ed era obligato a inviare alle collezioni reali diversi disegni, oggi conservati nel Gabinetto delle Stampe dell’Università di Varsavia, che nel 1818 acquistò le raccolte reali di stampe e disegni.

FRA ROMA E TARQUINIA Poco dopo il suo arrivo a Roma, nel 1764, Smuglewicz divenne allievo dell’Accademia di San Luca, dove, nel 1766, vinse il primo premio nella prima classe, presentando L’incontro di Abramo e Melchisedec, re e sacerdote

Studio di nudo, variazione sul tema del Gladiatore morente, disegno di Franciszek Smuglewicz. 1765 circa. Varsavia, Biblioteca Universitaria, Gabinetto delle Stampe.


A destra: Studio di nudo, ricostruzione del Torso del Belvedere, disegno di Franciszek Smuglewicz. 1765 circa. Varsavia, Biblioteca Universitaria, Gabinetto delle Stampe.

(conservato nelle raccolte dell’Accademia; vedi foto a p. 94). Ispirata ai capolavori di Raffaello e di Pompeo Batoni, l’opera va inserita nel contesto degli altri lavori di Smuglewicz, ora nel Gabinetto delle Stampe della Biblioteca Universitaria di Varsavia, eseguiti nei primi anni del suo soggiorno romano. Si tratta di copie dei dipinti di Raffaello e di Pietro da Cortona e di disegni di opere antiche. Sia il disegno con un particolare dell’Incendio di Borgo affrescato da Raffaello nei Palazzi Vaticani (vedi foto a p. 93), sia due studi di nudo – una variazione sul tema del Gladiatore morente e una interessante ricostruzione del

Torso del Belvedere (vedi foto in queste pagine) – sono prove di un talento cristallino. Già nel 1764, probabilmente tramite Maron, l’artista ebbe l’occasione di conoscere l’architetto scozzese James Byres, che gli commissionò i disegni di cinque ipogei etruschi scavati intorno al 1760 nella necropoli di Tarquinia e di alcune antichità da lui possedute. In origine Byres avrebbe voluto pubblicare questi disegni (attualmente conservati presso la Biblioteca Universitaria di Varsavia), incisi da Christopher Norton (la raccolta di tavole pronte per l’incisione si trova al Martin von Wagner Museum di Würzburg), nel monua r c h e o 93


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mentale volume Antiquities of Corneto. L’opera non fu realizzata e i disegni vennero utilizzati solo da Frank Howard per l’album Hypogaei or Sepulchral Caverns of Tarquinia, the Capital of Ancient Etruria, pubblicato a Londra nel 1842, nel quale il nome dell’artista polacco venne omesso.

INCIPIENTE CLASSICISMO Ai lavori di Smuglewicz a Tarquinia dedicò molte pagine l’archeologo e storico dell’arte antica Witold Dobrowolski (1939-2019), il quale ha dimostrato, tra l’altro, che fu l’artista polacco e non Byres a eseguire i disegni preparatori per le stampe. Le pitture documentate da Smuglewicz appartengono a diverse tappe dello sviluppo della pittura etrusca. «Però – scrive Dobrowolski – se si osservano i disegni originali custoditi a Würzburg, le differenze tra le singole tombe non sono grandi e lo stile di tutte quante è stato reso uniforme dal gusto dominante nella cerchia dei pittori romani dell’incipiente classicismo degli anni Sessanta del Settecento. Esso è infatti caratterizzato da una certa dolcezza dei visi, dall’eleganza delle pose e dei gesti, dalla nitidezza delle linee dei contorni, dal decorativo e calligrafico gioco dei panneggi e della “scultorea” resa anatomica dei corpi che riflette lo “stile bello” di Winckelmann». In queste pagine riproduciamo solo l’interno di una tomba (vedi foto in alto) e ci piace menzionare un disegno e una nota scritta dallo stesso pittore su una stampa con la veduta del colle di Tarquinia, mandata a Varsavia al re Stanislao Augusto come probabile segno di gratitudine per la borsa assegnatagli. La nota recita: «Veduta del colle Turchino, il luogo dell’antica città di Tarquinia, che si trova un giorno e mezzo con la posta da Roma, nella prossimità della quale si trovano tombe etrusche scavate nella roccia. I primi che avevano scoperto le entrate alle tombe erano Inglesi in viaggio: Swipnet, Wilbraham, Kox, Gayet e Byres. Al pittore polacco Franciszek Smuglewicz è stato richiesto di fare in situ le copie delle tombe». Un bel disegno di Smuglewicz dalla Tomba del Cardinale, in parte colorato, raffigura Charun e Vanth che assistono i defunti nel loro viaggio agli Inferi (vedi foto alla pagina accanto, in basso). L’artista usò motivi simili un trentennio piú tardi, per il progetto della Tomba dei Caduti nell’Insurrezione del 1794, 94 a r c h e o


A sinistra, sulle due pagine: l’interno di una tomba etrusca di Tarquinia in un’incisione tratta da un disegno di Franciszek Smuglewicz. Nella pagina accanto, in basso: L’incontro di Abramo e Melchidesec, re e sacerdote, disegno di Franciszek Smuglewicz. 1766. Roma, Accademia di San Luca.

quando la Polonia difendeva la propria indipendenza dalla Russia e dalla Prussia. Sulla tomba in forma di obelisco la Vittoria e la Fama hanno ali del tutto simili a quelle di Charun e Vanth. Smuglewicz realizzò anche disegni che furono utilizzati come base per le incisioni che decorarono, tra l’altro, l’opera di Orazio Orlandi Ragionamento sopra una Ara Antica posseduta da Monsignore Antonio Casali, governatore di Roma (1772). Qui troviamo una bella rappresentazione della Dea Roma appoggiata a un Tropaion e con la Vittoria alata in mano destra, sullo sfondo vi sono il Pantheon e le rovine del tempio di Vespasiano e Tito al Foro Romano (vedi foto a p. 96, a sinistra).

IL FASCINO DELLE «GROTTE» Oggi, comunque, i suoi lavori piú noti sono quelli eseguiti nelle cosiddette Terme di Tito, cioè nella Domus Aurea (vedi box a p. 96), su commissione del già citato Mirri. È stato piú volte e giustamente osservato che nessun altro monumento della Roma antica ha mai avuto un cosí grande impatto nella cultura visiva come la Domus Aurea. Fin dal XV secolo, gli artisti – tra cui Filippino Lippi e poi Raffaello – compresero l’importanza e l’originalità di questi affreschi sepolti nelle grotte, e perciò detti «grottesche». I corridoi e le stanze del Palazzo Vaticano, come la Stufetta del cardinal

Charun e Vanth assistono i defunti nel viaggio agli Inferi, disegno di un affresco della Tomba del Cardinale a Tarquinia. 1766 circa. Varsavia, Biblioteca Universitaria, Gabinetto delle Stampe.

Bibiena, sono ricolme di motivi decorativi copiati e ispirati dalla reggia di Nerone, interrata dopo la sua morte e dimenticata per secoli. I pittori rinascimentali e gli appassionati di antichità si addentravano tra le rovine dalla sommità di quello che oggi è il Parco del Colle Oppio, per penetrare nelle sale sotterranee attraverso aperture ricavate nei soffitti. Infine, nella seconda metà del Settecento, dopo le ricerche di Charles Cameron, salí alla ribalta Ludovico Mirri, ambizioso antiquario romano, che volle far conoscere questi meravigliosi antichi affreschi a tutti i cultori dell’arte classica e promuovere il loro stile. a r c h e o 95


SPECIALE • FRANCESCO SMUGLEWICZ

Mirri effettuò le sue esplorazioni a pochi passi dal Colosseo negli anni 1774-1775. Avendo ottenuto in esclusiva il permesso papale per scavare all’interno della vigna Lauretti Ceci, dissotterrò sedici grandi stanze decorate della Domus Aurea. Sulla base dei disegni delle decorazioni ricopiate da Smuglewicz e Vicenzo Brenna, Mirri pubblicò nel 1776 il già ricordato album Vestigia delle Terme di Tito e le loro interne pitture, con sessanta incisioni, eseguite da Marco Carloni, che fu venduto sul mercato antiquario. Il commento scientifico di Giuseppe Carletti fu edito a parte con il titolo di Le antiche Camere delle Terme di Tito (vedi foto in basso, a destra). L’opera fu pubblicata in due versioni, una con incisioni in bianco e nero, l’altra con carte miniate in acquerello e guazzo su contorno dilavato. Il ruolo svolto da Smuglewicz in questa impresa è preponderante: 34 carte sono esclusivamente opera sua (alcune di esse sono variamente firmate: Smuglewicz Pit. Pollacco disegnò; Franco Smuglewicz Pit disegnò; Francesco Smuglewicz Pitt Polacco) e 20 realizzate insieme a Brenna, autore a sua volta di 5 disegni. Le versioni acquerellate, dipinte a mano, eseguite nell’arco di oltre due decenni, ora si trovano, fra gli altri, nel castello di Win-

IL NEMICO PUBBLICO E LA DELIZIA DEL GENERE UMANO L’imperatore Nerone, fu vittima della damnatio memoriae, una prassi che imponeva il sistematico azzeramento del nome, dell’immagine e dell’attività politica e sociale di chi vi era incorso. Il principe era ancora in vita quando il Senato, nel 68 d.C., lo dichiarò nemico pubblico (Svetonio, Nero XLIX). Dopo la tragica morte, le epigrafi con il suo nome furono scalpellate, mentre tutti i suoi rittratti vennero rimossi dai luoghi pubblici e in gran parte distrutti. Anche la sua grandiosa reggia, la Domus Aurea, venne progressivamente abbandonata e smantellata: al posto di gran parte delle sue strutture sorsero nuovi edifici e infine, coll’andare del tempo, quel che ne restava venne dimenticato. In modo del tutto singolare i ruderi della Domus Aurea furono poi collegati al nome dell’imperatore Tito. Quest’ultimo, considerato da Svetonio «amor ac deliciae generis humani» («amore e delizia del genere umano»), divenne tra il Medioevo e il Rinascimento un modello di perfezione. Cosí i ruderi della reggia di Nerone, a partire dalla loro riscoperta alla fine del Quattrocento, furono tradizionalmente identificati come Terme di Tito. Quindi per secoli e fino all’Ottocento, ricercando ispirazione nell’antico, gli artisti e mecenati si rifacevano felicemente ai temi e ai modelli ritrovati nelle «grotte» considerate dei tempi del buon princeps Tito. A sinistra: il frontespizio del Ragionamento sopra una Ara Antica... con l’incisione di Smuglewicz raffigurante la dea Roma. 1772. Varsavia, Biblioteca Nazionale. Qui accanto: il frontespizio de Le antiche camere delle Terme di Tito... di Giuseppe Carletti, opera pubblicata a commento dell’album Vestigia delle Terme di Tito e le loro interne pitture. 1776.

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L’incisione n. 2 dell’album Vestigia delle Terme di Tito e le loro interne pitture con la pianta delle strutture sotterranee fino ad allora esplorate. 1776.

za del lavoro. Sono rimasti essi molto ben visibili all’occhio perspicace del Signor Francesco Smuglewicz Pittore Polacco, che ha potuto contemplarli pochi palmi discosto, e ritrarli esattamente in queste Carte. (...) Aspirano ora le Camere Esquiline alla immortalità con ragione, e con vanto piú scuro che davansi nel crescere insieme colle robuste immense mura; poiché veggonsi non solamente in queste Carte a colori ritratte; ma dalle Stampe promessa loro una piú lunga vita». UN LAVORO ECCELLENTE Giuseppe Carletti, autore del volume che Piú di uno studioso ha già rilevato come le accompagna l’album di Mirri, lodò il contri- incisioni ne Le vestigia delle Terme di Tito e le buto di Smuglewicz con queste parole: «Li loro interne pitture denotino una certa fantasia quadri non fanno già la minor parte della Raccolta e libertà delle copie rispetto agli originali, e per il numero, che sale fino al 30 e per l’eccellen- come nel caso della Volta dorata, dalla quale dsor, al Louvre, nel Museo Nazionale di Varsavia, all’Ermitage di Pietroburgo. Il Gabinetto delle Stampe della Biblioteca Universitaria di Varsavia è in possesso di cinque tavole a colori degli anni Settanta del Settecento, inedite, mentre nella Collezione Marigliani si trovano 14 tavole, eseguite con ogni probabilità già nei primi dell’Ottocento.

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proviene, per esempio, la bella scena raffigurante la partenza di Ippolito per la caccia (vedi foto a p. 99). Va osservato che gli autori stessi segnalano modifiche e aggiunte fatte durante il loro lavoro, condotto in condizioni molto difficili e con poca illuminazione.

STRUMENTO DI DIVULGAZIONE Nel 1785 August Fryderyk Moszynski scriveva del cattivo stato di conservazione degli affreschi. Si potrebbe dire che, nonostante la libertà dimostrata da Smuglewicz e Brenna, le loro copie sono uno strumento fondamentale per la comprensione della concezione estetica d’insieme della pittura neroniana. Il pittore polacco, insieme con Brenna e Carloni, contribuí dunque alla diffusione in Europa del repertorio figurativo della Domus Aurea. Piú accessibili e piú facilmente trasportabili dei quadri, le stampe ebbero un grande ruolo nella divulgazione su larga scala del gusto della classicità. 98 a r c h e o

Uno sguardo alle scene appena menzionate e a quella raffigurante Rea Silvia dormiente sulla quale scende in volo Marte (vedi a p. 101, a sinistra) provano che l’autore di queste copie era un disegnatore eccellente e aveva una conoscenza perfetta dell’anatomia. La scena con Marte può essere messa a confronto con il bel disegno di Smuglewicz dell’Apollo del Belvedere (vedi foto a p. 101,a destra). Subito notiamo lo stesso modo di rappresentare la bellezza dell’uomo nudo. L’analisi stilistica delle riproduzioni colorate e il loro raffronto con quelle dell’album delle Terme di Tito delle collezioni del Museo Nazionale di Varsavia corrobora l’ipotesi che nella preparazione del volume pubblicato da Mirri, il ruolo di Vincenzo Brenna fu limitato all’esecuzione delle misurazioni delle «terme», della planimetria dei sotterranei e, in scala ridotta, alla definizione delle cornici architettoniche delle decorazioni. Esaminiamo, innanzi tutto, Veduta dell’esedra

Il soffitto della sala detta della Volta dorata della Domus Aurea nella quale sono ben visibili i fori scavati in antico per potersi calare all’interno del complesso monumentale.


Tavola colorata di Franciszek Smuglewicz che riproduce la scena della partenza di Ippolito per la caccia, facente parte della decorazione della Volta dorata della Domus Aurea. Varsavia, Biblioteca Universitaria, Gabinetto delle Stampe.

delle Terme di Tito e l’entrata delle stanze sotterranee realizzata da Smuglewicz: essa apre la collezione delle sessanta tavole e, forse piú di ogni altra, è emblematica del rapporto dell’uomo con le antichità nel Settecento. Ne presentiano qui tre versioni: una in bianco e nero e due a colori (vedi foto alle pp. 100-101). La veduta è quella delle pittoresche rovine delle Terme di Tito, di cui si vedono l’esedra e, in lontananza, le mura di una struttura semicircolare molto piú alta (la biblioteca?). Se la si confronta, per esempio, con la rappresentazione delle stesse rovine eseguita da Giovanni Battista Piranesi, si nota la libertà creativa di Smuglewicz. Non si è preoccupato, infatti, della distanza reale tra i ruderi della «biblioteca» e l’esedra, che ha trasformato notevolmente, creando lo sfondo per raffigurare la visita organizzata per un gruppo di persone. Le figure – uomini e donne eleganti, sacerdoti e frati cappucini, guardie – sono piccole rispetto al paesaggio e agli edifici, e hanno un atteggiamento del tutto contemplativo: esaminano, indicano, si preparano a visitare i resti della Domus Aurea, attratti dalla grandiosità delle antiche rovine. Accanto all’iscrizione VESTIGIA DELLE TERME DI TITO E LORO INTERNE PITTURE, un dotto sacerdote, accompagnato da quattro uomini elegantemente vestiti, sta esaminando l’affresco con una lente di

ingrandimento. Si tratta dello stesso Giuseppe Carletti acompagnato da Mirri e da altri estimatori dell’antico? Accanto al gruppo, nell’angolo piú lontano, siede un uomo solitario che annusa una presa di tabacco da fiuto. Nella versione, prima sconosciuta, di questa prima tavola delle Vestigia – un’acquaforte colorata recentemente apparsa sul mercato antiquario –, l’uomo solitario è sostituito da due individui (vedi foto a p. 103, in basso).

GROTTESCHE E QUADRI DI FIGURE Prima di esaminarli piú da vicino, è utile riportare un passo del Diario di Roma (n. 32, 22, dell’aprile 1775, pp. 27-28) scritto da Giuseppe Carletti, che costituisce una sorta di fonte scritta per la composizione di Smuglewicz: «È stata universalmente lodata la coraggiosa intrapresa del Sig. Lodovico Mirri Negoziante di Quadri, il quale colla direzione del Sig. Vincenzo Brenna Romano, Architetto esperto principalmente nell’intelligenza della struttura delle antiche Fabriche, ha scoperto nelle Terme di Tito in un Orto ora spettante ai Sigg. Capitano, e fratelli Lauretti Ceci, cinque gran Cameroni, ornati nelle volte, e nelle pareti, di Pitture consistenti in Arabeschi, e molti Quadri di Figure di tutta perfezione del gusto di quei tempi. Ha voluto pertanto il detto Sig. Mirri nelle ultime due Feste di Pasqua, senza risparmio di spesa, praticare un comodo passaggio dall’uno,

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SPECIALE • FRANCESCO SMUGLEWICZ

Le copie eseguite da Smuglewicz hanno un valore documentario eccezionale

all’altro dei d. Cameroni, e illuminarli tutti a giorno a effetto che si potessero meglio godere le dette Pitture, e per maggior decorazione di questa nuova scena v’introdusse diversi Corni da Caccia, che rendevano una piacevole Eco rimbombante in quei Sotterranei. Si vide subito comparire un numeroso concorso di Nobiltà Romana, di valenti Professori, e di molti Forastieri, che restarono tutti sorpresi a osservare quelle Pitture, che dopo tanti Secoli decorsi son rimaste sí ben conservate.Tra i detti Forastieri v’intervenne ancora Monsieur Barry Cav. Inglese ritornato recentemente in Italia dai suoi lunghi viaggi della Grecia, e del Levante, che ne restò molto soddisfatto. Si passava poi al giorno in altro sito piú comodo a osservare i disegni delle dette Pitture, consistenti in molti fogli disegnati, e coloriti dal detto Sig.Vincenzo Brenna, che riscossero un grandissimo applauso per essere stati riconosciuti al confronto degli Originali copiati con tutta la fedeltà e accuratezza. Per tanto il detto Sig. Mirri pubblicherà colle Stampe tutte le dette Pitture colorite, come sono gli Originali, e i Disegni».

UN DUO MISTERIOSO È molto probabile che Smuglewicz, il cui nome, nelle tavole, si legge in basso, nell’angolo sinistro, abbia voluto (o sia stato incaricato da Mirri) commemorare l’evento dell’aprile 1775, al quale probabilmente parteciparono lui, Brenna e Carletti. Ma a chi può essere attribuita l’intrigante aggiunta di due uomini nell’angolo sinistro, uno seduto e uno in piedi, impegnati in una discussione (vedi foto a p. 104, in basso, e a p. 105, in basso)? Già a una prima osservazione, si può dedurre, dal loro abbigliamento, che entrambi appartengano a un ambiente assai distante da quello che si vede accanto a loro. Si tratta di Smuglewicz e Brenna? Ma quando e perché è stata fatta questa aggiunta? Franciszek Smuglewicz era un uomo paffuto, di viso e di corpo. Lo sappiamo dai suoi autoritratti (vedi foto a p. 104, in alto) e dai ritratti eseguiti dai suoi allievi, come quello, già ricordato in precedenza, di Józef Peszka (vedi foto a p. 90). Se confrontiamo queste immagini con l’uomo in piedi si riscontra una somiAcquaforte acquerellata della volta di una sala della Domus Aurea, al centro della quale è il quadretto con Rea Silvia, Marte, Hypnos e Faustolo (vedi il particolare alla pagina accanto, a sinistra), dall’album Vestigia delle Terme di Tito e loro interne pitture. 1776. 100 a r c h e o


glianza abbastanza stretta (vedi foto a p. 105, in basso). Ma chi è il suo interlocutore? Si conosce solo un ritratto di Vincenzo Brenna (vedi foto a p. 105, in alto), ma, anche in questo caso, si notano alcune somiglianze tra il ritratto e l’immagine del dipinto in questione, tra cui la carnagione leggermente arrossata. Fu Brenna, e non Smuglewicz, a guidare il lavoro di copiatura degli affreschi scoperti nella Domus Aurea. Lo possiamo dedurre dal testo appena citato e dalle qualità di leader e dal carattere forte che emerge sia dal suo ritratto che dall’immagine qui presentata. Anche se Brenna ha diretto i lavori, la firma di Smuglewicz è ben visibile ovunque nel volume di Mirri e nelle tavole a colori. Ma chi è stato allora l’ideatore di questa «misteriosa» aggiunta alla prima tavola delle Vestigia? Brenna, Smuglewicz stesso o uno dei suoi allievi o collaboratori? Si rende a questo punto necessaria un’analisi degli abiti, per fissarne la cronologia, e la storica dell’abbigliamento Elisabetta Gnignera, interrogata a riguardo, ha suggerito la strada della moda «à l’anglaise». Una proposta che ben si accorderebbe con gli stretti rapporti allacciati da Smuglewicz con gli Ingle-

A sinistra: particolare dell’acquaforte raffigurante Rea Silvia, Marte, Hypnos e Faustolo (veduta d’insieme alla pagina precedente), dall’album Vestigia delle Terme di Tito e loro interne pitture. 1776. A destra: Apollo del Belvedere, disegno di Franciszek Smuglewicz. 1770 circa. Varsavia, Biblioteca Universitaria, Gabinetto delle Stampe.

si e ancora di piú con gli Scozzesi. Inoltre, negli anni Ottanta del Settecento il pittore intendeva recarsi in Inghilterra, ma infine decise di tornare in Polonia. La studiosa ritiene che i due uomini raffigurati nell’angolo in basso, a sinistra, dell’acquaforte colorata, ma assenti sia nella versione in bianco e nero del 1776, sia nella tavola colorata del Louvre e del Museo Nazionale di Varsavia, permettono di datare l’opera entro il decennio successivo al 1776. Soprattutto l’abbigliamento dell’uomo in piedi sembra risentire dell’influenza esercitata dalla moda inglese.

DOPO LA DOMUS AUREA In seguito al successo riscosso dalle Vestigia delle Terme di Tito, Mirri coinvolse Smuglewicz in un altro prestigioso progetto, dedicato al Museo Pio-Clementino in Vaticano, realizzato con Vincenzo Pacetti, Marco Carloni e Stefano Tofanelli. In questo periodo, intorno al 1780, il nostro disegnò e poi dipinse, tra l’altro, Ercole al bivio, La vittoria di Alessandro Magno su Poro (olio su tela, Museo Nazionale di Varsavia) ed eseguí un bel disegno raffigurante Bruto a r c h e o 101


SPECIALE • FRANCESCO SMUGLEWICZ

che condanna alla morte i suoi figli, in cui il volto del protagonista riproduce fedelmente il Bruto in bronzo dei Musei Capitolini. I soggetti antichi furono rivisitati dall’artista poco prima della partenza per la Polonia (1783/1784) o subito dopo il ritorno in patria. Un bell’esempio è il dipinto en grisaille intitolato Captio di Rea Silvia, al Museo Nazionale di Varsavia (vedi foto a p. 106, in alto). Si può quindi pensare che il nostro pittore abbia rielaborato il tema dell’affresco che dieci anni prima aveva copiato per il libro di Mirri (vedi foto a p. 101, a sinistra). Il quadro narra il mito della fondazione di Roma, tramandato da Tito Livio (I, 3), Strabone (V, 3, 2) e Aulo Gellio (I, 12, 9-13). La scena è ambientata nella città di Alba Longa, fondata da Ascanio, figlio di Enea. I protagonisti sono tre: Amulio e Numitore, figli di Proca, il re di Alba, e Rea Silvia, unica figlia di Numitore. Amulio rifiuta di far riconosce102 a r c h e o

re la legittima successione al trono di Numitore, suo fratello maggiore, che scaccia dalla città e ne uccide tutti i figli maschi per scongiurare la nascita di un erede. Rea Silvia viene nominata prima Vestale e costretta alla verginità. Grazie all’intervento di Marte, Rea Silvia partorisce Romolo e Remo dando inizio alla storia di Roma. La scena dipinta da Smuglewicz rappresenta il momento della captio; la fanciulla inginocchiata sta per passare allo stato sacerdotale dopo l’imposizione dell’infula, il tradizionale copricapo delle vestali romane.

IL RITORNO IN POLONIA Non sono a tutt’oggi chiare le circostanze del ritorno di Franciszek Smuglewicz in patria, cosí come la data precisa del suo arrivo a Varsavia, che dovette comunque avere luogo nei primi mesi del 1784. Nella capitale polacca l’artista fondò una propria scuola di pittura,

Veduta dell’esedra delle Terme di Tito e l’entrata delle stanze sotterranee, incisione con cui si apre l’album Vestigia delle Terme di Tito e loro interne pitture. 1776. Varsavia, Biblioteca Nazionale.


Due versioni a colori della Veduta dell’esedra delle Terme di Tito e l’entrata delle stanze sotterranee. La seconda, in basso, è comparsa di recente sul mercato antiquario e mostra una singolare differenza: nell’angolo in basso, a sinistra, al posto dell’uomo solitario che annusa tabacco da fiuto, compare una coppia di personaggi che conversano (vedi i particolari alle pagine successive).

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

che fu attiva sino al 1797, con una sola interruzione negli anni 1785-1786. In quel periodo dipinse molti quadri a tema storico e religioso e realizzò anche interessanti serie grafiche, in gran parte incompiute. Tra i dipinti degni di nota, vi sono due tele ispirate a temi tratti dalle Vite degli uomini illustri di Cornelio Nepote, le storie di Aristide ed Epaminonda: il primo fu il politico ateniese detto «il Giusto», attivo ai tempi delle guerre persiane, mentre il secondo, oltre a essere anch’egli un protagonista della politica del tempo, fu un valente generale (respinse l’invasione spartana della Beozia e invase per due volte il Peloponneso). Simili soggetti potrebbero essere stati scelti dal re Stanislao Augusto o da qualche altro mecenate del pittore, che, al pari di molti Polacchi dell’epoca – fra cui lo stesso pittore – si erano formati culturalmente in Italia. Nel 1797 l’artista si spostò a Vilnius, in Lituaa r c h e o 103


SPECIALE • FRANCESCO SMUGLEWICZ

nia, dove divenne professore di pittura. Si spense nel 1807, lasciando una folta schiera di seguaci, come Józef Peszka, al quale si deve il bel ritratto del maestro già piú volte citato. Smuglewicz è stato insomma un protagonista di primo piano della vita artistica, tanto a Varsavia, quanto a Vilnius, e il suo contributo merita d’essere ulteriormente studiato.

UNA FONTE D’ISPIRAZIONE COSTANTE L’impatto delle Vestigia delle Terme di Tito fu davvero enorme nell’intera Europa. L’opera fu copiata in Francia da Nicolas Ponce nel 1786 e poi ristampata di nuovo (fu quasi una sorta di plagio). Motivi e temi tratti dal libro di

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A destra: ritratto di Vincenzo Brenna, olio su tela di Antonio Vighi. 1802. Roma, Accademia di San Luca. In basso: il personaggio forse identificabile con Brenna, aggiunto nella versione a colori inedita della Veduta dell’esedra delle Terme di Tito.


Mirri sono reperibili un po’ ovunque. Non è strano che lo stesso Smuglewicz, sia in Polonia sia in Lituania, ne traesse ispirazione, come vediamo in un progetto per la decorazione di una cupola nelle collezioni del Museo Nazionale di Varsavia. Nelle stesse collezioni troviamo un bel ventaglio settecentesco e un progetto di Antoni Brodowski del primo Ottocento. Ancor piú interessante è però un ambizoso progetto italo-polacco degli anni 1777-1778: una ricostruzione idealizzata della Villa Laurentina di Plinio il Giovane (situata nei pressi di Ostia), eseguita negli anni 1777-1778 a Roma

In alto: ritratto di Franciszek Smuglewicz, olio su tela di Józef Peszka. 1800 circa. Varsavia, Museo Nazionale. A sinistra: il personaggio che qui si propone di identificare con Smuglewicz, aggiunto nella versione a colori inedita della Veduta dell’esedra delle Terme di Tito.

dal conte Potocki in collaborazione con due o tre artisti, i romani Vicenzo Brenna e Giuseppe Manocchi, e probabilmente in collaborazione con Smuglewicz. La restituzione della villa, fatta su grandi tavole un anno dopo la pubblicazione dell’opera di Ludovico Mirri, riflette in modo del tutto affascinante il settecentesco fascino per l’antico e per le indagini antiquarie. Per la sua opera, il conte scrisse il già citato commento articolato in 24 cartelle, conservato presso l’Archivio Storico Generale di Varsavia (AGAD). In studi precedenti ho cercato di mostrare l’impatto delle ricerche archeologiche e antiquarie in Italia, prima di tutto a Roma e nelle città vesuviane, e di realizzare, insieme a r c h e o 105


SPECIALE • FRANCESCO SMUGLEWICZ A sinistra: Captio di Rea Silvia, olio su tela, di Franciszek Smuglewicz. 1785 circa. Varsavia, Museo Nazionale. Nella pagina accanto: modello virtuale della cenatio della Villa Laurentina di Plinio il Giovane, elaborato sulla base della ricostruzione proposta dal conte Potocki. In basso: il triclinio della Villa Laurentina di Plinio il Giovane nella ricostruzione di Potocki.

con Maciej Tarkowski e Mikołaj Baliszewski, una ricostruzione digitale della villa. Grazie al programma 3D Studio Max 8, che permette di lavorare sui modelli tridimensionali e di crearne le visualizzazioni, la ricostruzione grafica della Villa Laurentina, cosí come la vedeva Potocki, è stata non solo sottoposta a una ricerca approfondita, ma anche virtualmente ricostruita. In questa sede passiamo quindi in rassegna alcuni motivi e scene tratti dal libro di Mirri presenti nella decorazione della villa di Plinio inventata da Potocki con i suoi artisti. Il disegno del triclinio mostra una parete 106 a r c h e o


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SPECIALE • FRANCESCO SMUGLEWICZ

decorata con rilievi e nicchie contenenti quattro statue: due di Dioniso, una della dea Salus con una coppa e un serpente, e infine Diana (vedi foto qui accanto, in basso). Il rilievo centrale presenta una processione dionisiaca con al centro il piccolo Dioniso a cavallo di un ariete. Questa composizione riprende una scena presente nella cosiddetta camera rossa della Domus Aurea. Nella decorazione della cenatio della villa troviamo il bel motivo ripreso dalla stanza 11 della Domus Aurea, con i due bambini a cavallo di una capra (vedi foto in questa pagina, in basso). Forse si tratta davvero dell’infanzia di Dioniso: il dio fanciullo è a cavalcioni di una capra assieme a un altro bambino, fra una suonatrice di timpano e un pastore, che non appare nella versione prevista per la ricostruzione della cenatio della Villa di Plinio.

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Vanno ricordati ancora i progetti della decorazione di una stanza presso l’heliocaminus della villa e un palazzo che Potocki chiamò «il pendant per la villa Laurentina». In entrambi notiamo una ovvia – anche se trattata con grande immaginazione – ispirazione derivante dal «Prospetto di una parete della camera 23».

IL VENTAGLIO DI CAPRA Il ventaglio citato poc’anzi è di pelle caprina, dipinto a tempera, con sostegno di madreperla rivestito d’oro, già proprietà di Aleksandra Engelhardt Branicka (vedi foto a destra, sulle due pagine). Poco sappiamo della nobildonna e un suo ritratto in miniatura si trova nella collezione del Museo Nazionale di Varsavia. Sul ventaglio notiamo subito i motivi pompeiani (da identificarsi nelle Danzatrici di una delle incisioni del primo volume de Le Antichità di Ercolano e del Vol. 513 del Gabinetto delle Stampe della Biblioteca Universitaria di Varsavia). L’immagine di maggior rilievo, raffigurante una donna in tenero colloquio con un nudo fanciullo, proviene da Le Vestigia delle Terme di Tito (incisione n. 29); a sinistra, compare anche un adulto. Il pittore che decorò il ventaglio si concentrò sulla donna (che nel dipinto antico raffigurava il centauro Chirone) con il fanciullo, dipingendo da ambo i lati uccelli dai lunghi colli, anch’essi ripresi dalla bordatura dell’incisione n. 29, riuscendo a giustapporre, nel

Progetto per la Sala da Ballo del Teatro Grande di Varsavia, acquerelli di Antoni Brodowski. Varsavia, Museo Nazionale.


Nella pagina accanto, in basso: particolare di un’acquaforte con una processione dionisiaca, dall’album Vestigia della Terme di Tito e loro interne pitture. 1776. In basso: ventaglio in pelle di capra decorato con scene ispirate all’antichità classica. Varsavia, Museo Nazionale.

poco spazio disponibile, motivi raccolti in forse, intenta a pizzicare le corde. Dietro di due delle tradizionali mete del Grand Tour: lei avanza saltellando un giovane scalzo; anche lui veste un chitone, ma di diverso coRoma e le città vesuviane. lore, verde. Il giovane, riccioluto, dispiega sopra la sua compagna uno scialle rosso che LA SALA DA BALLO Il bellissimo acquerello di Brodowski (il s’inarca; muove il capo quasi volesse toccarprogetto, mai realizzato, era per la Sala da la, lei ricambia; e nel punto preciso dell’inBallo del Teatro Grande a Varsavia) è un trit- crocio delle diagonali la coppia s’incontra, si tico sorretto ai lati da pilastri in forma di unisce, divenendo un corpo solo. capitelli ionici (vedi foto in questa pagina, in Il dipinto sembra modellato su due affreschi alto). Nella parte centrale, su uno sfondo di della Domus Aurea: il primo raffigura Arianna nubi, tra il bruno e il grigio, si staglia una e Dioniso, il secondo Marte e Venere. In encoppia in danza. La donna – che indossa una trambi le coppie che si librano nello spazio veste gialla, chiara, in basso agitata dal vento, hanno un velo mosso dalla brezza. Quanto e sulla veste un chitone bianco – guarda a alle due coppie danzanti ai lati del trittico, è destra e sembra spiccare il volo con un agile certo che Brodowski si fosse ispirato alle Danmovimento dei piedi scalzi rivolti all’indie- zatrici pompeiane. Ma le rivisitò a suo modo tro. La testa è reclinata dalla parte opposta a e delle baccanti con i cembali, raffigurate in quella in cui si protende il corpo; nella mano tutti i campi del trittico, s’ingegnò, con buon sinistra una lira poggiata sul petto; la destra, esito, a dare una versione personale.

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

I FIGLI DELLA PROVVIDENZA MONETE ANTICHE E MEDAGLIE MODERNE SOTTOLINEANO L’IMPORTANZA DELLA PROGENIE, VISTA COME GARANZIA DEL PROSIEGUO DELLA STIRPE

«’E

figlie so’ ffiglie!»: questa battuta («I figli sono figli»), nota a chiunque ami il teatro di Eduardo De Filippo, viene pronunciata con grande trasporto da Filumena, mantenuta del facoltoso e superficiale don Mimí, nella celebre commedia Filumena Marturano (1946). La protagonista ripete la risposta miracolosamente ricevuta dalla Madonna delle Rose, un’immagine sacra nel vicolo napoletano in cui Filumena abita, alla domanda su cosa fare del bimbo che aspettava. Seguendo l’esortazione della Madonna, Filumena partorisce e cresce segretamente negli anni tre figli, che per lei rappresenteranno la provvidenza e il riscatto da una vita di sacrificio e umiliazioni, recuperando la sua identità perduta attraverso la responsabilità genitoriale, che riesce a far condividere a don Mimí, il quale, scuotendosi dalla sua egoistica superficialità, sposa la donna e ne riconosce tutti i figli, ben sapendo che uno soltanto è il suo.

CONTINUITÀ DI SANGUE Passando dall’umanità dolente di Filumena Marturano al potere dinastico delle stirpi regnanti, la progenie ha sempre rappresentato la garanzia di una continuità di sangue nel passaggio del potere, che, attraverso la stirpe, assicura la continuità del governo e quindi – si

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Medaglia in bronzo realizzata da Ottone Hamerani per la nascita del principe Carlo Edoardo Stuart, figlio di Giacomo III Stuart e Clementina Sobieska. 1720. Al dritto, i busti congiunti di Giacomo e Clementina; al rovescio, Providentia.

suppone – la stabilità di un sistema che possa assicurare prosperità al popolo. Va da sé che tutto ciò rappresenta un auspicio, che non tiene conto delle inclinazioni personali di chi si ritrova al governo solo per averlo ereditato. Nell’iconografia imperiale romana, la linea dinastica riveste un ruolo fondamentale nell’esercizio del potere. Basti pensare che Gaio Ottavio, il futuro Augusto, divenne il padrone e il fondatore dell’impero proprio grazie all’essere stato adottato dal prozio Giulio Cesare, divenuto divus all’indomani della sua uccisione alle Idi di Marzo del 44 a.C.: cosí Augusto, suo figlio e legittimo erede (comprese le cospicue sostanze), è il figlio di un dio, nato dalla stirpe divina degli Iulii, e con tutte le carte in regola per divenire signore di Roma e quindi del mondo. Monete e medaglie romane propagandano, con le loro immagini, la legittimità del sistema ereditario, sia di sangue che adottivo, con tipi che raffigurano la famiglia imperiale riunita, e personificazioni femminili quali Fecunditas, Spes, Pietas, Providentia, che alludono ai figli della coppia imperiale, in seno alla quale è naturalmente l’imperatrice ad assicurare la discendenza. Cosí come nel mondo antico, anche nella medaglistica moderna l’elemento dinastico svolge un ruolo basilare, celebrato attraverso


realizzata una medaglia con al dritto i busti congiunti dei genitori e il lieto evento. La Provvidenza, figura materna, ha l’attributo di «levatrice»; si appoggia a una colonna, tiene in braccio un bambino al quale rivolge un tenero sguardo e indica un globo, su cui è scritto ING SC e IRL (Inghilterra, Scozia e Irlanda). La legenda riporta: CAROLO PRINC VALLIÆ NAT DIE VLTIMA A MDCCXX (Carlo, Principe di Galles, nato l’ultimo giorno dell’anno 1720). Il provvidenziale evento incarna

Sesterzio in oricalco battuto al tempo di Traiano. Zecca di Roma, 116-117. d.C. Al dritto, il busto dell’imperatore; al rovescio, Providentia stante, con scettro, si appoggia alla colonna, indicando il globo ai piedi. molteplici scelte iconografiche spesso ispirate al mondo classico e riadattate alle esigenze politiche e propagandistiche del committente di turno, esaltate dalle capacità artistiche del medaglista prescelto. Torniamo ancora una volta, quindi, alle creazioni del «Medaglista dei Papi» Ottone Hamerani (1694-1761), della feconda dinastia di artisti della medaglia romani, discendente dall’incisore bavarese Johann Andreas Hameran, la cui presenza è attestata a Roma dal 1616. Ottone (od Otto), medaglista della zecca papale, lavorò per Clemente XII, Benedetto XIV e Clemente XIII, nonché per la famiglia reale inglese Stuart, cattolica, trapiantata a Roma e pretendente senza successo al regno di Inghilterra. Come abbiamo già visto, Giacomo III Stuart sposò nel 1719 la principessa polacca Maria

Clementina Sobieska (vedi «Archeo» n. 477, novembre 2024; on line su issuu.com). Sebbene celebrato all’insegna di un amore romantico, il matrimonio non fu felice, ma comunque diede due auspicati eredi maschi: Carlo Edoardo Stuart, che in gioventú cercò invano di riconquistare il trono alla famiglia e che visse un lungo declino, anche psicologico, ed Enrico Benedetto Stuart, futuro cardinale e vescovo, munifico e mecenate.

ECHI DELLA CLASSICITÀ Alla nascita dei figli, pretendenti al trono d’Inghilterra ed entrambi fregiati a Roma dal titolo reale, furono emesse due medaglie, ispirate a prototipi e personificazione di derivazione classica romana. Per il principe Carlo, nato il 31 dicembre 1720, fu

l’anelito degli Stuart alla riconquista del dominio su Inghilterra, Scozia e Irlanda. La composizione Provvidenzacolonna-globo-bambino potrebbe trarre ispirazione dalla monetazione romana di età imperiale, in cui la Providentia si appoggia alla colonna, il globo è ai suoi piedi e al posto del bimbo ha una lancia. Si veda, per esempio, un sesterzio in oricalco di Traiano, con al dritto il ritratto del principe e, al rovescio, una donna stante con lungo scettro nella mano sinistra e braccio appoggiato a una colonna, che con la mano destra indica il globo ai suoi piedi, mentre la legenda recita Providentia Augusti SPQR SC (Provvidenza dell’imperatore. Il senato e il popolo romano. Decreto del Senato).

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I LIBRI DI ARCHEO

Valerio Massimo Manfredi, Luigi Malnati

PRIMA DI ROMA Storia dell’Italia da Enea ad Annibale Mondadori, Milano, 256 pp. 19,00 euro ISBN 978-88-04-78476-0 www.mondadoristore.it

Con questo Prima di Roma, Valerio Massimo Manfredi e Luigi Malnati nel libro si ricollegano idealmente a una tradizione illustre, che ha preso avvio con il volume L’Italia avanti il dominio dei Romani di Giuseppe Micali stampato, in prima edizione, a Firenze nel 1810. Si tratta di una corrente di studi che tende a mettere al centro dell’attenzione il mosaico di popoli e culture, che caratterizzò la penisola italiana prima della conquista da parte di Roma, e il successivo fenomeno politico, sociale e culturale definito come romanizzazione. Gli autori offrono una sintesi delle vicende storiche dell’Italia dal periodo quando i 112 a r c h e o

diversi popoli iniziarono a formarsi (fine del II millennio a.C.) sino alla conclusione dell’esperienza di Annibale. Il testo si sviluppa tenendo presenti le fonti letterarie, la documentazione archeologica e le testimonianze epigrafiche e costituisce un’opera di alta divulgazione, come Manfredi e Malnati – consapevoli dell’importanza di far conoscere il passato – si prefiggevano. Un’attenzione notevole è riservata alle leggende collegate alla formazione delle singole genti, proiettate in un tempo mitico e che risultano legate spesso a eroi della guerra di Troia, ritenuta evidentemente una svolta nella storia del Mediterraneo già nell’antichità. Ampio spazio è dedicato all’avvio della colonizzazione greca in Occidente, che trovò proprio in Italia un terreno fertile per svilupparsi coi risultati eccezionali raggiunti e racchiusi nella definizione di Magna Grecia. Come pure all’incontro/scontro degli Etruschi con Roma, dal tempo dei re Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo sino alla conquista di Velzna (Orvieto), l’ultima cittàstato etrusca a cadere in mano romana nel 264 a.C. Né vengono trascurati i Celti, i Latini, i Piceni, i Sanniti solo per citare alcuni dei popoli

italici analizzati senza dimenticare la presenza fenicia e punica, che viene seguita dai suoi primi passi sino alla spedizione di Annibale. Giuseppe M. Della Fina

piú antiche del fenomeno sono approfondite in un fascicolo scaricabile gratuitamente dal sito web dell’editore. Stefano Mammini Marco Rocco

Stefano Medas

LIMES

ARCHEOLOGIA DELLA NAVIGAZIONE

Vivere e combattere ai confini di Roma Salerno Editrice, 252 pp. 25,00 euro ISBN 978-88-6973-833-3 www.salernoeditrice.it

Il Mediterraneo antico Carocci editore, Roma, 214 pp., ill. b/n 23,00 euro ISBN 978-88-290-2736-1 www.carocci.it

Quando l’acqua ha cessato d’essere vista come un ostacolo, ma è divenuta la via grazie alla quale scoprire nuove terre e allacciare rapporti con altre genti, la storia dell’umanità ha compiuto una svolta epocale. Un processo lungo, del quale Stefano Medas documenta gli aspetti tecnici, forte dell’esperienza in materia che anche i lettori di «Archeo» hanno piú volte potuto apprezzare. Da segnalare che, proprio per la vastità dell’argomento, le fasi

In tempi nei quali molto si parla di frontiere e di muri, questo saggio è una lettura preziosa e aiuta a conoscere meglio una realtà spesso travisata da ricostruzioni fantasiose, secondo le quali, quando l’impero cominciò a declinare, intere guarnigioni di soldati romani vivevano a ridosso del confine, il limes, appunto, rassegnati a essere travolti da genti straniere. Marco Rocco offre invece una visione storicamente attendibile del fenomeno, ma non per questo meno appassionante. S. M.



presenta

RE ARTÚ

E I CAVALIERI DELLA TAVOLA ROTONDA Artú e i cavalieri della Tavola Rotonda godono, ancora oggi, di una fama che sembra resistere, piú di altre, all’usura del tempo. Un fenomeno che ha pochi confronti e che, almeno in parte, può spiegarsi con il fatto che, fin dalle prime apparizioni letterarie, essi furono considerati la piú nobile incarnazione dell’ideale cavalleresco. E, di conseguenza, vennero visti come un esempio da imitare. L’aver incarnato i principi della cavalleria, però, non basta a giustificare un successo che si protrae ormai da molti secoli, ed è proprio per ampliare la prospettiva che lo Speciale di «Medioevo» affronta la questione analizzandone tutti gli aspetti principali e tracciando il profilo dei molti e nobili protagonisti. Pur nella consapevolezza di avere a che fare con personaggi di fantasia, appare subito evidente la loro umanità. Un’umanità che, di conseguenza, oltre a farli gioire per il compimento di gesta nobili e valorose, non li sottrae a dolori, delusioni e pene d’amore. Per questo Artú, Lancillotto o Galahad, quando non sono coinvolti in sortilegi o duelli con creature fantastiche, possono essere percepiti come simili, quasi come fratelli maggiori. Altrettanto forte – e decisivo nel determinare la fortuna del mito arturiano – è poi l’intreccio con la religione, che si coglie innanzitutto nella missione piú importante alla quale i cavalieri della Tavola Rotonda sono chiamati: il ritrovamento del Santo Graal, vale a dire del calice che si riteneva fosse stato utilizzato da Giuseppe d’Arimatea per raccogliere le gocce del sangue di Cristo sgorgate dalla ferita al costato. Né può essere considerato secondario il ruolo giocato dalle portentose armi imbracciate da Artú e dai cavalieri: la spada estratta dall’incudine nel cimitero della cattedrale di Winchester e l’invincibile Excalibur… C’è insomma un universo di fascino e suggestioni da scoprire, ripercorrendo un’avventura senza tempo, intessuta di simboli e di segni misteriosi. Misteri la cui decifrazione può aiutare l’uomo di oggi come quello di un remoto passato a capire se stesso.

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