Archeo n. 472 - Giugno 2024

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RAMO DEL NILO

AFFRESCHI POMPEI

MONSELICE

ATLETA DI FANO

ALFABETO A CUMA

SPECIALE L’ORACOLO DI SIWA

Mens. Anno XXXIX n. 472 giugno 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

LONGOBARDI A MONSELICE

L’ARRIVO DEI LONGOBARDI

MOSTRE

EGITTO

QUANDO L’ALFABETO ARRIVÒ IN ITALIA

UN ANTICO RAMO DEL NILO L’INCHIESTA

QUALE FUTURO PER L’ATLETA DI FANO? SCOPERTE POMPEI

GLI AFFRESCHI DELLA REGIO IX

SPECIALE EGITTO

SIWA. L’ORACOLO NEL DESERTO

www.archeo.it

IN EDICOLA L’ 8 GIUGNO 2024

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ARCHEO 472 GIUGNO

€ 6,50



EDITORIALE

UN’AREA «CENTRALE» Quella parte del centro storico di Roma comunemente nota come «area archeologica centrale» è sicuramente il piú complesso – e complicato – insieme storico-monumentale del mondo. Si tratta, lo ricordiamo ai lettori non romani, dei resti stratificati di edifici di diverse epoche racchiusi in un perimetro segnato, grosso modo, da Colosseo, Palatino, Circo Massimo Foro Romano, Fori Imperiali e Campidoglio. Nomi che, universalmente, evocano il «ricordo» di quello che è stato il luogo in cui, per secoli, era nata e aveva preso forma la vita politica, religiosa, economica della civiltà di Roma. L’area archeologica centrale è, come i lettori sanno, oggetto di continui scavi, scoperte e importanti interventi di valorizzazione. Eppure, alla rilevanza storico-culturale delle sue testimonianze monumentali non sempre corrisponde una parimenti rilevante intelligibilità da parte delle centinaia di migliaia di visitatori che ogni mese la percorrono, nonché degli stessi abitanti dell’Urbe. Complici di questa manchevolezza gli accanimenti urbanistici succedutisi, a partire dall’età moderna, su quella vasta zona che il Medioevo aveva consegnato ai posteri sotto forma di un’incolta, quanto pittoresca, area di pascolo; ma anche una certa, contemporanea, disattenzione alla legittima aspirazione di un pubblico desideroso di comprendere e rivivere l’«incanto» della città antica. A questa vitale necessità intende ora far fronte il nuovo progetto, presentato dal Comune di Roma lo scorso aprile, per la realizzazione di una Nuova Passeggiata Archeologica, con il proposito di collegare «l’intera area archeologica centrale della città – dai Fori, al Colosseo, al Celio, al Palatino, alle Terme di Caracalla, al Circo Massimo, fino Due rendering della Nuova Passeggiata Archeologica di Roma elaborati dallo studio vincitore del concorso internazionale di architettura bandito per la realizzazione dell’intervento.

al Campidoglio – rimettendola al contempo in connessione con la città moderna e la vita quotidiana dei rioni circostanti. Una passeggiata unica al mondo…». Il progetto, frutto di un concorso internazionale, rientra in un piú ampio programma di trasformazione del centro archeologico monumentale di Roma, da realizzarsi nel triennio 2025-2027, avvalendosi del «piú grande investimento di sempre» stanziato per l’area archeologica centrale. Andreas M. Steiner


SOMMARIO EDITORIALE

Un’area «centrale» 3

MOSTRE Contrasto, tutela e valorizzazione

di Andreas M. Steiner

di Sandra Bedetti e Alberta Facchi

Attualità

ARCHEOFILATELIA Applausi antichi e moderni

NOTIZIARIO

SCOPERTE Su quel ramo del grande fiume... ALL’OMBRA DEL VULCANO Educare alla bellezza

6

28

34

di Luciano Calenda

SCAVI 6

Monselice, il segreto dei Longobardi 40

10

di Elena Percivaldi

di Alessandra Randazzo

SCAVI La storia nel torrente

Una storia fatta di segni

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74 € 6,50

www.archeo.it

IN EDICOLA L’ 8 GIUGNO 2024

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ARCHEO 472 GIUGNO

Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

L’ARRIVO DEI LONGOBARDI

Comitato Scientifico Internazionale Mens. Anno XXXIX n. 472 giugno 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE L’ORACOLO DI SIWA

Impaginazione Davide Tesei

ALFABETO A CUMA

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

ATLETA DI FANO

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

MONSELICE

LONGOBARDI A MONSELICE

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

Federico Curti

AFFRESCHI POMPEI

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

In copertina veduta dall’alto della Rocca di Monselice e del cantiere di scavo aperto ai piedi della struttura fortificata, nel quale opera l’Università di Padova.

Presidente

RAMO DEL NILO

Anno XL, n. 472 - giugno 2024 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

74

di Fabio Pagano, Carlo Rescigno e Matilde Civitillo

he

di Flavia Marimpietri

Le avventure di un «giovane vittorioso» 58

MOSTRE

di Elisabetta Giorgi

MOSTRE Una coppia principesca MOSTRE Aspettando la fiaccola PAROLA D’ARCHEOLOGO Quell’incontro fatale...

INCHIESTE

di Mariateresa Curcio, Rachele Dubbini e Giuditta Giardini

12

di Giampiero Galasso

A TUTTO CAMPO Rinascere dalle macerie

58

MOSTRE

EGITTO

QUANDO L’ALFABETO ARRIVÒ IN ITALIA

UN ANTICO RAMO DEL NILO L’INCHIESTA

QUALE FUTURO PER L’ATLETA DI FANO? SCOPERTE POMPEI

GLI AFFRESCHI DELLA REGIO IX

arc472_Cop.indd 1

SPECIALE EGITTO

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto

SIWA. L’ORACOLO NEL DESERTO

28/05/24 14:24

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Carla Alfano, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Giulio Paolucci, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Jacopo Tabolli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore ordinario di archeologia medievale all’Università di Bologna. Sandra Bedetti è archeologa, Studio Agorà, Adria. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Matilde Civitillo è professoressa associata in filologia e civiltà dell’Egeo e del Mediterraneo preclassico all’Università degli Studi della Campania «Luigi Vanvitelli». Francesco Colotta è giornalista. Mariateresa Curcio è archeologa. Rachele Dubbini è professoressa associata di archeologia classica presso l’Università degli Studi di Ferrara. Alberta Facchi è direttore del Museo Archeologico Nazionale di Adria, Direzione regionale Musei del Veneto. Luciano Frazzoni è archeologo. Giampiero Galasso è giornalista. Elisabetta Giorgi è ricercatrice di metodologia della ricerca Archeologica all’Università di Siena. Giuditta Giardini è avvocata, consulente presso la Procura Distrettuale di New York. Flavia Marimpietri è giornalista. Fabio Pagano è direttore del Parco archeologico dei Campi Flegrei. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Alessandra Randazzo è giornalista. Carlo Rescigno è professore ordinario di archeologia classica all’Università degli Studi della Campania «Luigi Vanvitelli». Stefano Struffolino è professore di storia greca all’Università telematica Pegaso e membro delle missioni archeologiche in Libia e a Cipro dell’Università degli Studi di Chieti-Pescara.


Rubriche SCAVARE IL MEDIOEVO La memoria è nel nome

104

di Andrea Augenti

104 TERRA, ACQUA, FUOCO, VENTO

Il rosso e il nero

106

di Luciano Frazzoni

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Bella tra le belle

86 110

di Francesca Ceci

LIBRI

112

SPECIALE

Siwa. Ammone e l’oracolo nel deserto

86

di Stefano Struffolino

Illustrazioni e immagini: Cortesia degli autori: copertina (e pp. 42/43) pp. 14-15, 42 (basso), 44-47, 48, 49 (basso), 50-51, 52, 53, 55, 61 (basso), 88 (basso), 92-93, 96 (alto), 101, 111 – Ufficio Stampa Zètema Progetto Cultura: p. 3 – Eman Ghoneim et alii: p. 6 (alto) – Eman Ghoneim: pp. 6/7, 7, 8-9 – Parco Archeologico di Pompei: pp. 10-11 – Cortesia Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio del Friuli-Venezia Giulia: p. 12 – Cortesia Ufficio stampa Studio Esseci/ Castello del Buonconsiglio: pp. 16-17 – Museo del Louvre, Service de presse: Collections Musée Olympique, Losanna: p. 18 (alto); École française d’Athènes, Atene: pp. 18 (basso), 20; The Trustees of the British Museum: p. 19 (alto); Beaux-Arts de Paris, dist. RMN-Grand Palais/image Beaux-Arts de Paris: p. 19 (in basso, a sinistra); RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Stéphane Maréchalle: p. 19 (in basso, a destra) – Su concessione del MIC-Parco Archeologico di Pompei: pp. 22-26 – Cortesia Direzione regionale Musei Veneto-Museo archeologico nazionale di Adria: pp. 28-29 – Shutterstock: pp. 40/41, 68, 70, 74/75, 86/87, 88/89, 90, 94/95, 96/97, 98-99, 102/103, 104 (alto) – Doc. red.: pp. 49 (alto), 64/65, 69, 104 (basso), 105, 106-108, 110 – Shie Shaomin: disegno alle pp. 52/53 – Alamy Stock Photo: pp. 54, 62/63, 100 – The J. Paul Getty Museum: pp. 58-59, 60, 66 – Mondadori Portfolio: Art Media/Heritage Images: p. 67; AKG Images: p. 91; Ashmolean Museum, University of Oxford/Heritage Images: p. 94 – Cortesia Parco archeologico dei Campi Flegrei: pp. 75, 76-85 – The Metropolitan Museum of Art, New York: p. 97 – Cippigraphix: cartine alle pp. 42, 61 e 88 (alto).

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia srl Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Il Servizio Arretrati è a cura di: Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Srl - 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito: https://arretrati. pressdi.it

L’indice di «Archeo» 1985-2023 è disponibile sul sito https://ulissenet.comperio.it/ Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova


n otiz iari o SCOPERTE Egitto

SU QUEL RAMO DEL GRANDE FIUME...

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e si osserva sulla carta la distribuzione di un numero considerevole di piramidi egiziane, 31 per l’esattezza, fra cui quelle di Giza, non sfugge il loro allineamento lungo un tracciato parallelo a quello del Nilo. Una circostanza che sembra avere trovato una convincente spiegazione nei risultati delle ricerche condotte dalla missione guidata da Eman Ghoneim, professoressa di scienze della terra e del mare presso l’Università della Carolina del Nord, a Wilmington. Nello studio, pubblicato qualche settimana fa, Ghoneim e i suoi colleghi suggeriscono che le piramidi siano state innalzate – fra l’Antico Regno (2700-2195 a.C.) e il Secondo Periodo Intermedio (17971543 a.C.) – lungo un ramo ora abbandonato del Nilo, a conferma dell’importanza assunta dal fiume anche come arteria culturale e di come le comunità umane siano state storicamente influenzate dai mutamenti dell’ambiente.

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Foto satellitare sulla quale sono riportate le posizioni delle piramidi oggetto dello studio, il corso del Nilo e il presunto tracciato del ramo denominato Ahramat.

Piramidi di Giza

Cairo

Piramidi di Abusir Piramidi di Saqqara

Piramidi di Dahshur

Deserto occidentale

Corso dell’antico ramo dell’Ahramat

Piramidi di Lisht

Tratti ipotizzati della via d’acqua Tratti certi della via d’acqua Antico Regno Primo Periodo Intermedio Medio Regno Secondo Periodo Intermedio

Moderno corso del Nilo


In alto: la piramide a gradoni di Djoser (III dinastia, 2680-2660 a.C.). A destra: la piramide romboidale di Snefru (IV dinastia, 2639-2604 a.C.) In basso, sulle due pagine: la Piramide Rossa, detta anche Piramide Nord, nella necropoli di Dahshur.

Errata corrige con riferimento all’articolo Vulci. Uomini e dèi (vedi «Archeo» n. 471, maggio 2024), a p. 88, la firma dell’autore del capitolo intitolato «Diciotto grandi e belle città» deve leggersi in Giuseppe Sassatelli e non Giuseppe Sessetelli. Dell’errore ci scusiamo con l’interessato e con i lettori.

archeo 7


In basso: un momento delle osservazioni e delle analisi condotte sui campioni di sedimento prelevati nell’area dell’Ahramat.

In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto do dolorest lorest, ut exereca taspisci.

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«Molti di coloro che, come noi, si occupano dell’antico Egitto – ha dichiarato Ghoneim –, immaginavano che gli Egiziani avessero dovuto utilizzare una via d’acqua per costruire i loro grandiosi monumenti, come le piramidi o i templi, ma nessuno era certo della posizione, della forma, delle dimensioni o della vicinanza di questa grande arteria al sito in cui le strutture sono state efettivamente realizzate. La nostra ricerca mette ora a disposizione della comunità scientifica la prima mappa di uno dei principali rami antichi del Nilo su una scala cosí grande e lo collega con i piú vasti campi di piramidi dell’Egitto». Le piramidi concentrate tra Giza (a nord) e Lisht (a sud) furono costruite nell’arco di un millennio a partire da circa 4700 anni fa e ora si trovano ai margini del deserto occidentale, in una fascia di terra inospitale, che ricade all’interno del Sahara. Le analisi di campioni di sedimento suggeriscono invece che


il Nilo, un tempo, aveva una portata molto piú alta e che si divideva in diversi rami, in vari punti. In passato, peraltro, alcuni ricercatori avevano già avanzato l’ipotesi che uno di questi rami potesse scorrere vicino ai campi di piramidi, ma non erano state trovate prove tali da confermarlo. Ghoneim e i suoi colleghi hanno esaminato immagini satellitari, condotto indagini geofisiche e prelevato campioni di sedimenti per confermare la posizione dell’antico ramo del fiume, che hanno proposto di battezzare Ahramat, il vocabolo greco che significa piramidi. Intorno ai 4200 anni fa, l’Ahramat avrebbe modificato il suo corso, spostandosi verso est, o sarebbe

divenuto impraticabile a causa dell’eccezionale accumulo di sabbia portata dal vento, a seguito di un prolungato periodo di forte siccità. La scoperta appena annunciata potrebbe dunque spiegare perché i campi di piramidi fossero concentrati lungo questa striscia di deserto, non lontano dall’antica capitale di Menfi: essi sarebbero stati facilmente accessibili tramite il ramo del fiume al momento della loro costruzione. Ghoneim e i suoi colleghi hanno inoltre accertato che piú di una piramide era dotata di viali che terminavano sulle rive dell’Ahramat, suggerendo che il corso d’acqua fosse utilizzato per il trasporto dei materiali da costruzione. (red.)

In alto: Eman Ghoneim nel corso di uno dei sopralluoghi condotti nell’area delle piramidi di Giza e della Sfinge. In basso: il team guidato da Ghoneim posa di fronte alla piramide di Unas (V dinastia, 2367-2347 a.C.).

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ALL’OMBRA DEL VULCANO di Alessandra Randazzo

EDUCARE ALLA BELLEZZA IL PARCO ARCHEOLOGICO CONFERMA LA SUA VOCAZIONE ALL’INCLUSIVITÀ CON IMPORTANTI PROGETTI MIRANTI A PROPORRE UN NUOVO MODELLO DI WELFARE CULTURALE E LA STESURA DI UN «MANIFESTO DELLA BELLEZZA»

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ompei non è solo archeologia e conferma la sua natura di luogo vivo e d’inclusione sociale. Negli ultimi anni il Parco si è fatto teatro di una vera e propria rivoluzione nei modelli di gestione del patrimonio culturale, in cui archeologia, paesaggio, elementi immateriali e componenti naturali costituiscono le parti inscindibili di un unico sistema da rimettere in equilibrio, da temperare come un’orchestra, attraverso un’azione di conoscenza e consapevolezza. Dal 2022 con il coinvolgimento, la promozione e lo stimolo della Cooperativa sociale Il Tulipano, che realizza servizi socio-educativi e attività di inserimento lavorativo per adolescenti prossimi alla maggiore età e giovani con autismo e/o disabilità cognitiva, il Parco archeologico di Pompei ha costruito, e i lavori sono ancora in corso, un modello di welfare culturale per la fruizione ed accessibilità «per» e «con» le persone con disabilità, nel quadro di attività pratiche e materiali di utilità sociale, anche grazie a proposte di microimprenditorialità etica e alla creazione di un mercato equo e solidale. Dai primi raccolti dai frutteti del Parco con produzione di marmellate, succhi e composte nell’ambito del Progetto «Tulipano Art Friendly», si è arrivati

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I giovani coinvolti nel progetto «Tulipano Art Friendly» collaborano presso il Parco archeologico di Pompei in attività di manutenzione del verde, raccolta e trasformazione della frutta che cresce nell’area archeologica.


A sinistra: un momento dell’inaugurazione di un nuovo percorso verde durante la Giornata nazionale del Paesaggio. A destra: un gruppo di ragazzi coinvolti nelle attività del progetto «Tulipano Art Friendly». all’attivazione del Grande Orto Sociale del Real Polverificio Borbonico di Scafati, esteso per circa 200 mq alle porte di Pompei, e ai programmi che vedono attivamente coinvolti gli studenti del Liceo Statale «E. Pascal» in progetti di impresa agricola e nello sviluppo di competenze trasversali, nonché nelle attività di persone messe alla prova e di detenuti che utilizzano l’attività agricola e di manutenzione del verde quale possibilità di recupero sociale. Grazie a queste e altre attività che coinvolgono il patrimonio culturale, Pompei è divenuta un luogo che accoglie, che ascolta e che mette in relazione le persone con se stesse e con gli altri, un luogo di benessere dinamico, inclusivo, accogliente e ospitale. Pompei è il luogo in cui il benessere della cultura, degli animali e delle piante diventa benessere per le persone del territorio e delle comunità, un luogo salutare per eccellenza, nel quale la salus passa anche attraverso i sensi. Si capisce da tutto questo, allora, come il sito archeologico sia il luogo ideale per lanciare l’invito a stringere con tutti i giovani del mondo un «patto globale della bellezza»: il Manifesto della Bellezza, redatto dal Parco archeologico di Pompei con il Liceo «E. Pascal» e con la Cooperativa sociale Il Tulipano.

Cinque sono le parole chiave del Manifesto: Bellezza, Benessere, Persone, Territorio e Comunità. Parole che si inseriscono in un luogo, il Parco, «in cui – come afferma Giovanni Minucci, presidente della Cooperativa Il Tulipano – la cultura diviene risorsa di salutogenesi, cioè una risorsa capace di creare salute nella prevenzione primaria quanto nei percorsi e nelle relazioni di cura. In questo luogo generativo di prossimità la pratica culturale, cioè la fruizione dei luoghi della cultura, diviene promotrice di equità e qualità sociale».

UNA PICCOLA CASA PER UNA GRANDE COMUNITÀ Nel segno del risparmio del suolo e del riciclo del costruito, il recupero e la rigenerazione di un edificio dismesso, la piccola stazione di Pompei Valle, di fronte alla necropoli di Porta Nola, hanno portato alla creazione della Casetta che accoglie l’Associazione del Tulipano, una parvula domus per una grande comunità, un laboratorio culturale di comunità, in cui tutte le attività aiuteranno il Manifesto della Bellezza a generare nuove azioni creative, capaci di stimolare valore sociale ed economico, producendo benessere, qualità di vita, qualità di cultura. «Grazie all’accordo di collaborazione – continua Giovanni

Minucci –, il Parco archeologico di Pompei sta trasformandosi in un vero e proprio incubatore di sviluppo sostenibile che coinvolge scuola, famiglia e territorio. Con “Tulipano Art Friendly” si promuovono opportunità di benessere delle persone, di valorizzazione della identità personale e di riscoperta dell’identità comunitaria. La nostra è una visione che si sposa perfettamente con gli obiettivi di sviluppo sostenibile fissati dall’Agenda 2030, in cui il Parco Archeologico di Pompei, Liceo Pascal e Tulipano promuovono buone prassi di welfare di prossimità, dove archeologia, ambiente, paesaggio, territorio e comunità diventano fonte di salute della persona, di sviluppo locale e di inclusione lavorativa dei giovani». Educare alla bellezza significa che «questa bellezza va diffusa e difesa», perché, se è vero – come diceva il principe Myškin nell’Idiota di Dostoevskij – che la bellezza salverà il mondo, allora «bisogna però vigilare perché il mondo salvi la bellezza» (dal Manifesto della Bellezza di Pompei). Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: PompeiiParco Archeologico; X: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.

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n otiz iario

SCAVI Friuli-Venezia Giulia

LA STORIA NEL TORRENTE

S

an Vito al Torre, in provincia di Udine, è stata teatro del recupero di un monumento funerario di età romana localizzato nel letto del torrente omonimo. L’intervento è stato eseguito sotto la supervisione scientifica di Serena Di Tonto, funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Friuli-Venezia Giulia, con la collaborazione delle Forze dell’Ordine e del Commissario straordinario del Comune. L’operazione si è rivelata piuttosto complessa, soprattutto per via delle considerevoli dimensioni e del peso dell’ara funeraria lapidea, stimato intorno alle 6 tonnellate.

Prima di procedere alla rimozione e al trasporto sono stati eseguiti scavi preliminari per liberare il manufatto dall’accumulo di ghiaia, al fine di valutarne le esatte dimensioni, lo stato di conservazione e per individuare eventuali altri reperti o stratigrafie presenti nel sito. Il recupero del monumento è una scoperta significativa per la comunità, avvenuta proprio all’interno dell’alveo attivo del

Una veduta d’insieme e un particolare (in alto) dell’ara funeraria romana recuperata nel torrente Torre, nel territorio di San Vito al Torre (Udine).

12 a r c h e o

Torre, dove già nel 1993 erano stati intercettati due siti preistorici. In quel contesto furono recuperati resti faunistici, industrie litiche e frammenti di ceramica d’impasto risalenti a un periodo compreso tra il Neolitico antico e l’età del Bronzo. Di forma parallelepipeda e realizzata in pietra calcarea bianca, l’ara funeraria si è presentata quasi integra al momento della scoperta. Sul pannello frontale, all’interno di una cornice modanata, è incisa un’iscrizione riferibile alla gens Apinia (un’Apinia Caelerina è citata in un’iscrizione funeraria da Forum Iulii, CIL V 1771). Ai due lati, uno dei quali integro, si osserva una decorazione a bassorilievo raffigurante degli Eroti alati, che mostrano rispettivamente tra le mani una fiaccola rovesciata, simbolo della vita che si spegne, e un fiore di papavero, evocazione del sonno che conduce all’oblio. Il lato posteriore è invece parzialmente sbozzato e danneggiato, presumibilmente a causa della prolungata esposizione all’acqua. La lettura dell’iscrizione suggerisce che il monumento risalga all’età tardo-imperiale romana. La presenza nell’area della struttura funeraria è ulteriormente attestata dal ritrovamento di un’urna in pietra calcarea, due basi lapidee, diversi frammenti laterizi (tegole e mattoni) e una scultura in calcare raffigurante un volto barbato, tutti reperti che si datano alla tarda età romana. Giampiero Galasso



A TUTTO CAMPO Elisabetta Giorgi

RINASCERE DALLE MACERIE LO SCAVO MICROSTRATIGRAFICO DEI FRAMMENTI DI PITTURE PARIETALI CROLLATI A TERRA È IL PUNTO DI PARTENZA PER RICOSTRUIRE LE DECORAZIONI INTERNE DEGLI AMBIENTI DI UNA VILLA DI DUEMILA ANNI FA

I

n uno scavo archeologico, il rinvenimento di uno strato di crollo all’interno di un ambiente genera sempre grandi aspettative; sotto i crolli si possono infatti conservare, a volte in condizioni eccezionali, contesti sigillati che restituiscono vere e proprie istantanee della vita del passato. Ma anche i crolli stessi possono restituire informazioni importanti, come la tecnica di costruzione degli edifici e di copertura dei tetti, o la

Planimetria del sito di Vignale (Piombino, Livorno).

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presenza di eventuali decorazioni. A parte il caso di eventi particolarmente distruttivi, come forti terremoti, gli strati di macerie si formano secondo una dinamica piú o meno ricostruibile: il tetto collassa spesso a partire da uno sfondamento al centro o in angolo, lasciando esposte alle intemperie le creste dei muri perimetrali, che progressivamente si sgretolano, causando il distacco dei rivestimenti e poi il crollo dei muri stessi.

Quando nei crolli si individuano frammenti di pitture parietali, lo scavo di questi micro-strati rappresenta un’occasione unica per tentare di individuare la posizione che esse occupavano sulle pareti e per ricostruire, cosí, lo schema decorativo dell’ambiente. Si tratta di un’operazione laboriosa, che produce spesso immagini inattese, soprattutto nei siti in cui i resti delle murature sono molto esigui, come accade per esempio


nella villa di Vignale (Piombino, Livorno), da vari anni oggetto di studio da parte dell’Università di Siena e che è anche al centro del Progetto di ricerca Mi.L.O.S (Misurare il Lusso Oltre lo Stile), finanziato dalla stessa Università, che ha lo scopo di individuare la presenza di markers di lusso oggettivamente misurabili negli allestimenti della villa. Il sito di Vignale era delimitato nell’antichità sul lato orientale dalla via Aurelia e, verso occidente, dai bacini interni del sistema lagunare di Falesia; tra il I secolo a.C. e il I

Qui sopra: ortofoto nella quale sono evidenziati alcuni degli insiemi di crollo distinti in fase di scavo. In alto, a destra: l’insieme che ha restituito la porzione piú ampia di pittura parietale. A sinistra: la rimozione degli insiemi dopo il consolidamento con garze e resina acrilica Paraloid.

secolo d.C. la villa assunse la forma che oggi conosciamo, per poi vivere a lungo, dal momento che le ultime testimonianze consistono in un ampio cimitero, con cronologie estese sino all’XI secolo. In seguito a una delle numerose ristrutturazioni dell’edificio, nel corpo centrale vennero ricavati due ambienti adiacenti (nn. 16 e 19), che hanno restituito resti consistenti di intonaci parietali dipinti in posizione di crollo – in parte in insiemi ancora connessi –, che giacevano in piú strati, con le superfici pittoriche rivolte sia verso il basso che verso l’alto. Il crollo di uno di questi ambienti (n. 16) è stato scavato seguendo la procedura messa a punto sul cantiere di scavo della villa di Settefinestre (Orbetello, Grosseto), ovvero mappando i diversi insiemi di crollo e attribuendo a ciascun insieme coerente un codice numerico, in cui il primo numero identifica lo strato (o insieme) e il secondo rappresenta il sottoinsieme; gli insiemi sono stati poi documentati con foto zenitali e georiferiti, in modo da conservare memoria dell’esatta posizione.

LAVORI IN CORSO Dopo la schedatura, ogni insieme è stato garzato con resina acrilica Paraloid (con applicazione di carta giapponese in caso di pellicole pittoriche a vista), per mantenere le connessioni tra i frammenti, ed è stato rimosso con lancette o trowel, per poi essere sistemato in cassette di polistirolo riempite di sabbia. La pulizia dei primi insiemi di frammenti coerenti, affidata al restauratore Alessandro Fonti, sta rivelando elementi molto interessanti per la ricostruzione della decorazione parietale dell’ambiente. Il piú esteso degli insiemi recuperati restituisce una porzione di intonaco parietale dipinto, articolata in tre campiture di colore: un’area dipinta in bianco,

una fascia rossa scura con un elemento verticale in verde azzurro con una linea rosso scuro, un secondo campo bianco che ospita una pannellatura rosso chiaro/rosa, delimitata da una linea di colore rosso scuro. Alla stessa porzione di parete dipinta appartenevano frammenti situati piú in basso nella sequenza microstratigrafica, per il momento puliti e stabilizzati, e che restituiscono tracce degli stessi elementi decorativi. A questi erano connessi diversi insiemi di frammenti di colore rosso chiaro, che attendono ancora di essere trattati e analizzati, ma che possono essere attribuiti alla stessa porzione di parete sulla base della loro posizione stratigrafica. Ci sono ottime possibilità che la pulizia di tutti i frammenti e il parallelo lavoro di ricerca degli attacchi tra i diversi insiemi possa portare alla ricomposizione di una porzione di parete abbastanza estesa, tale da poter essere confrontata con le pitture di altri contesti residenziali; questo passaggio servirà a valutare il livello qualitativo degli allestimenti della villa di Vignale secondo un criterio stilistico, mentre le future analisi chimico-fisiche sui pigmenti potranno fornire elementi oggettivi di valutazione a partire dalle materie prime impiegate. (elisabetta.giorgi@unisi.it; www.uominiecoseavignale.it; Facebook-Instagram: uominiecoseavignale)

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MOSTRE Trento

UNA COPPIA PRINCIPESCA

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a storia dei Longobardi in Trentino viene narrata al Castello del Buonconsiglio attraverso i capolavori rinvenuti nelle tombe della «principessa» e del «principe» di Civezzano, esposti insieme per la prima volta nella mostra nata dalla collaborazione tra il Castello del Buonconsiglio e il Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum di Innsbruck. Curata da Annamaria Azzolini, Veronica Barbacovi e Wolfgang Sölder, la rassegna offre l’occasione per riesaminare i dati storici e i materiali inediti custoditi nei depositi di entrambi i musei alla luce delle conoscenze incrementate grazie agli scavi condotti dalla Soprintendenza per i beni e le attività culturali, ma anche di approfondire tematiche emerse già nell’Ottocento con la nascita dell’archeologia «barbarica». Ciò che venne ritrovato a Civezzano nell’Ottocento, quando il Trentino era parte dell’impero asburgico, è conservato al Ferdinandeum di Innsbruck; ciò che venne invece rinvenuto all’inizio del secolo successivo e acquistato dal museo imperiale di

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In alto, sulle due pagine: scramasax in ferro. VII sec d.C. Trento, Castello del Buonconsiglio. Qui accanto: coppia di orecchini in oro e ametista, dalla necropoli longobarda di Castel TervanaCivezzano. VII sec. Trento, Castello del Buonconsiglio. In basso, a sinistra: la sezione della mostra nella quale è esposto il sarcofago in legno e ferro battuto del Principe di Civezzano. Secondo quarto del VII sec.

Qui sopra: disco in oro, almandini e pasta vitrea, con decorazione cloisonné, da Trento. Prima metà del VI sec. In basso, a destra: l’esposizione dei gioielli della «principessa» di Civezzano.


Vienna, è giunto al Castello del Buonconsiglio, dopo l’istituzione del Museo trentino. La mostra unisce idealmente i due musei, proprio nel momento in cui quello trentino festeggia il primo centenario della sua istituzione e il Ferdinandeum ha appena concluso le celebrazioni del bicentenario. Una ricerca che parte dalla scoperta nella località piemontese di Testona, sul finire dell’Ottocento, di una necropoli i cui reperti furono attribuiti a popolazioni germaniche, oggetti che servirono a identificare quelli rinvenuti a Civezzano nella tomba «principesca» nel 1885. Dal museo di Innsbruck, ma anche dai Musei Reali di Torino, sono

approdati al Buonconsiglio reperti straordinari, testimonianze di alte manifatture dei primi insediamenti longobardi in questi territori. «È una mostra che scrive per la prima volta la storia dei Longobardi in Trentino», ha detto Laura Dal Prà, direttore del Castello del Buonconsiglio. E lo fa offrendo un racconto emozionante, lungo un percorso punteggiato da autentici capolavori. Ciascun oggetto racconta una storia. A partire da un unicum assoluto: il sontuoso sarcofago del «Principe di Civezzano», impreziosito da raffinate decorazioni con animali stilizzati in ferro battuto. I monili in oro della «Principessa di Civezzano»

Olla in ceramica domestica comune, da Lomaso, Comano Terme, Monte di San Martino. Metà del V-VI sec.

raccontano di contatti con Bisanzio, ma anche di un legame forte con le proprie tradizioni germaniche. Se di «Stile Civezzano» si parla per descrivere i motivi «longobardi» presenti su fibbie e puntali di cinture in argento e ferro, nell’esposizione spade, crocette, fibule, e monili in oro sono presentati cosí come erano utilizzati un tempo, grazie alle ricostruzioni grafiche. La preziosità e la raffinata fattura di questi reperti fanno capire come i Longobardi di Civezzano fossero una élite potente, capace di accedere ai beni suntuari. Il fatto che la necropoli fosse collocata ben discosta dall’antica pieve porta a pensare che si trattasse di un nucleo di famiglie di religione ariana. «Le indagini che questa mostra ha stimolato – sottolinea Annamaria Azzolini – sono state dirette ad approfondire tematiche su larga scala: dalla provenienza delle materie prime utilizzate al diffondersi di questa cultura nel tempo e nello spazio, sino all’analisi del DNA dei resti umani. A offrire al pubblico e agli studiosi, insieme alla emozione di ammirare reperti davvero unici per storia e bellezza, informazioni che consentono di riscrivere una Storia sino a oggi non pienamente svelata». (red.)

DOVE E QUANDO «Con Spada e Croce. Longobardi a Civezzano» Trento, Castello del Buonconsiglio fino al 20 ottobre Orario martedí-domenica, 9,30-17,00; chiuso il lunedí; aperture straordinarie: tutti i lunedí di agosto Info tel. 0461 233770; e-mail: info@buonconsiglio.it; www.buonconsiglio.it

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MOSTRE Parigi

ASPETTANDO LA FIACCOLA

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arigi si appresta a ospitare, per la terza volta nella sua storia, i Giochi Olimpici estivi e, al di là delle competizioni in programma, sono molte le iniziative collaterali organizzate nell’occasione, una delle quali è la mostra allestita nelle sale della Galleria Richelieu

del Museo del Louvre. La rassegna ripercorre le vicende della nascita delle Olimpiadi moderne – la cui prima edizione, lo ricordiamo, si svolse ad Atene nel 1896 – e, in particolare, si sofferma sulla rilettura della cultura greca e su come essa avesse codificato lo

In alto: copertina dell’album commemorativo dei Giochi Olimpici di Atene del 1896 disegnata da Émile Gilliéron: in alto, sopra il titolo, si riconosce il rilievo con putti atleti che orna la fronte del sarcofago di un bambino conservato al Louvre. Losanna, Comité international olympique (CIO). A sinistra: progetto di Émile Gilliéron per i trofei da consegnare ai vincitori delle gare della Mesolimpiade del 1906, ispirato a un kantharos dal Kabirion di Lemno. Atene, École française d’Athènes (EFA). svolgimento delle gare che si disputavano nei giochi. Protagonisti del progetto espositivo sono il barone Pierre de Coubertin e varie personalità, francesi e greche – come Dimitrios Vikélas, Michel Bréal o Spyridon Lambros –, che si fecero promotori della manifestazione. Cercando di comprendere lo sport greco a partire dallo studio dei testi antichi e delle testimonianze archeologiche, questi storici e studiosi reinventarono un evento attraverso il quale si ambiva a rinnovare i fasti e lo spirito dei piú importanti giochi sacri

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dell’antichità, che si celebravano a Olimpia in onore di Zeus. Accanto a loro, spicca la figura di Émile Gilliéron (padre, 1850-1924), che fu scelto come artista ufficiale dei Giochi Olimpici di Atene del 1896 e della Mesolimpiade del 1906. Disegnatore di origine svizzera, Gilliéron si era formato alla Scuola di Belle Arti di Parigi e aveva frequentato il Louvre, eseguendo copie di alcuni dei capolavori della collezione. Stabilitosi in Grecia, collaborò con numerosi archeologi, greci e stranieri, che lí lavoravano nella stessa epoca. Per il compito che gli era stato assegnato trasse quindi ispirazione dai reperti e dai monumenti riportati alla luce dagli scavi, e alla cui documentazione aveva collaborato, ideando i trofei da assegnare ai vincitori delle competizioni per esempio sulla

Qui sopra: Il soldato di Maratona, olio su tela di Luc-Olivier Merson. 1869. Parigi, Musée de l’Ecole nationale supérieure des beaux-arts. In alto: cratere attico a figure rosse dipinto da Eufronio con la lotta fra Eracle e il gigante Anteo. 515-510 a.C. Parigi, Museo del Louvre. A destra: bronzetto raffigurante una donna in corsa, forse dalla Laconia. 520-500 a.C. Londra, British Museum.

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n otiz iario In alto: lastra in gesso raffigurante una corsa, dalla decorazione di un’anfora panatenaica attribuita al Pittore di Berlino. Atene, École française d’Athènes. In basso: lastra in gesso di Émile Gilliéron con i due lottatori dipinti su un vaso a figure rosse di forma panatenaica. Atene, École française d’Athènes.

base di particolari forme vascolari. Una prassi che l’esposizione documenta grazie alle ricerche compiute sul fondo dell’atelier di Gilliéron, recentemente donato dalla famiglia alla Scuola francese di Atene. Vengono presentate per la prima volta le antichità che ispirarono l’artista, mettendole a confronto con le opere da lui prodotte per i Giochi Olimpici moderni, fra cui francobolli, manifesti e cartoline. Fra i materiali di epoca antica, si può ricordare un magnifico cratere attico a figure rosse dipinto da Eufronio, verosimilmente rinvenuto in Etruria e oggi facente parte della collezione del Louvre. Su una delle facce è raffigurata la lotta tra Eracle e il gigante Anteo. I due lottano nudi, e il pittore ha reso il momento in cui Eracle, inginocchiato, stringe il torace del gigante che è riuscito a sollevare, per fiaccarlo. Con il braccio destro immobilizzato, Anteo cerca invano di liberarsi: soffocato dalla presa dell’eroe greco, non resiste alla sua forza ed è sconfitto. Eufronio capace di padroneggiare alla perfezione il movimento, ricorda la violenza dei corpo a corpo che opponevano i lottatori. E la precisione nel disegno della muscolatura di Anteo suggerisce che abbia piú volte assistito agli allenamenti degli atleti. (red.)

DOVE E QUANDO «L’olimpismo. Un’invenzione moderna, un’eredità dell’antico» Parigi, Museo del Louvre fino al 16 settembre Orario tutti i giorni, martedí escluso, 9,00-18,00 (venerdí, apertura serale fino alle 21,45) Info www.louvre.fr

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

QUELL’INCONTRO FATALE... GLI SCAVI NELLA REGIO IX DI POMPEI RIVELANO L’ENNESIMA SORPRESA: PER DECORARE LE PARETI DI UN GRANDE SALONE DA BANCHETTO SI SCELSE DI RACCONTARE PER IMMAGINI UNO DEI PIÚ CELEBRI CASUS BELLI DELLA STORIA. CE LO RACCONTA L’ARCHEOLOGO GIUSEPPE SCARPATI

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a rappresentazione del primo incontro fra Elena e Paride, un momento cruciale per la storia del mito greco, è emersa nelle pitture del salone da banchetto riportato alla luce dagli scavi nell’insula 10 della Regio IX di Pompei. La scena ritrae l’«attimo fuggente» in cui nasce l’amore tra i due e, di conseguenza, si crea il casus belli di una guerra destinata a cambiare le sorti del mondo greco, come ci spiega Giuseppe Scarpati,

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archeologo responsabile della Regio IX di Pompei, che coordina le attività di scavo... «Una delle pitture ritrae il momento in cui Elena e Paride si incontrano per la prima volta: l’eroe troiano si innamora della moglie del greco Menelao e la rapisce. Sono scene tratte da cartoni di origine ellenistica, nei quali il troiano Paride, figlio di Priamo, è rappresentato come eroe vestito all’orientale. Ma qui non è

In alto: Giuseppe Scarpati. In basso: una veduta d’insieme del salone venuto alla luce nell’insula 10 della Regio IX di Pompei.


riprodotta la scena del giudizio di Paride (iper rappresentata) bensí un episodio piú raro: il primo incontro tra l’eroe e Elena, quando lui si innamora di lei. Quindi il momento in cui nasce la guerra di Troia». Una scoperta del tutto inaspettata, non è vero? «Il ritrovamento è eccezionale per diversi motivi. Innanzitutto per le dimensioni del salone: circa 15 m di lunghezza per 6 di larghezza, misure inconsuete rispetto alle altre case pompeiane. Inoltre la sala, dotata di un grande cortile a cielo aperto alle spalle, con una lunga scala che porta al primo piano, presenta una decorazione pittorica di grande importanza. È un ambiente elegante, nel quale intrattenersi in momenti conviviali, tra banchetti e conversazioni, con affreschi di grande raffinatezza e alta qualità artistica, che indicano l’alto rango della committenza». Quali eroi o personaggi legati al ciclo della guerra di Troia compaiono nelle pitture? «Le due scene principali della decorazione sono dipinte sulle pareti lunghe della sala, una di fronte all’altra. La prima rappresenta il primo incontro tra Elena e Paride, con il particolare In alto: particolare delle pitture parietali del salone raffigurante Leda con il cigno. A sinistra: pianta dell’insula con le unità abitative: in giallo la domus con peristilio; in azzurro le case con officine; in tratteggio la zona con il settore termale e il grande salone, indicato dal n. 24.

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eccezionale dei nomi dei protagonisti scritti in greco: Alexandros, il nome greco di Paride, ed Helene». Deve essere stato emozionante veder affiorare quelle lettere... «Io ero sul cantiere quel giorno. Ricordo l’emozione grandissima di vedere apparire le scritte dipinte, poi i particolari delle figure. Già si vedeva un personaggio abbigliato all’orientale, ma non sapevamo chi fosse… Quando la scritta Alexandros è divenuta leggibile, abbiamo avuto la conferma. Paride ha al guinzaglio il suo cane, un molosso accucciato». Da quali particolari si nota che l’eroe veste all’orientale? «L’abbigliamento è caratterizzato dalla presenza dei pantaloni tipicamente orientali, dalla tunica

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In alto: vignetta con il dio Apollo, appoggiato alla cetra, e Cassandra, la sventurata figlia di Priamo e sorella di Paride, che predisse la guerra di Troia, ma non venne creduta.

Nella pagina accanto: l’incontro fra Elena e Paride. Il Troiano, ai cui piedi è accucciato un molosso, veste all’orientale, con una cuffia simile a un berretto frigio sul capo.

colorata, dai calzari e dal copricapo, una sorta di cuffia – mitra – nella foggia del berretto frigio». E sull’altra parete? «Sull’altro lato lungo del salone nero è rappresentato Apollo, appoggiato alla cetra, di fronte a Cassandra, seduta sull’omphalos. Questo particolare richiama Delfi e l’Apollo oracolare, per cui inizialmente avevamo pensato alla Pizia. Poi abbiamo capito che la figura si identifica con Cassandra, figlia di Priamo e sorella di Paride, la Troiana che – per aver respinto il dio Apollo – verrà punita con la

condanna di poter vedere il futuro ma di non essere creduta. Il mito narra che predisse la guerra di Troia ma nessuno le credette, assecondando il destino funesto della guerra e della caduta della città di Priamo». Quando vennero dipinti questi affreschi? «La decorazione a fondo nero è di III stile, con rifacimenti di IV. Quanto alla datazione, siamo in epoca augustea, ovvero nella prima età imperiale, nell’ultimo decennio del I secolo a.C. Sulle pareti affrescate si notano i tagli dell’intonaco fatti


negli interventi successivi, che hanno ripreso i modelli in cui era già decorato il salone, con un III stile avanzato, in un momento in cui era già divenuto di moda il IV». Quindi i proprietari ritenevano pregiata e importante la decorazione di questa sala da banchetto… «I rifacimenti indicano che i proprietari della villa tenevano moltissimo a queste pitture. Per questo, dovendo restaurarle, le rifecero in III stile (come l’originale) anziché in IV, con la chiara volontà di conservare un reperto importante. Tra le figure minori inserite nelle pareti dipinte, per esempio, si vede una Leda con il cigno risalente al IV stile (della metà del I d.C.), rifatta sulla falsariga del III. Anche la tematica legata alla

saga troiana doveva essere cara al proprietario, a oggi sconosciuto. Non sappiamo chi sia: la domus è in gran parte da esplorare. L’edificio comprende un grande peristilio, ancora da scavare. Dal completamento delle indagini potremmo recuperare informazioni utili, forse, per capire il motivo della scelta dei temi. Si tratta comunque di soggetti realizzati con cartoni di ascendenza ellenistica, ordinati da una committenza consapevole da un punto di vista artistico e culturale». Lo scavo fa parte del piú ampio piano di recupero dell’insula 10 della Regio IX, risparmiata dagli scavi del Settecento e Ottocento. Ci vuole raccontare? «Questa scoperta si inserisce nell’ambito del progetto di scavo

dell’insula 10 della Regio IX, un’area di Pompei che era sfuggita agli scavi condotti tra la fine del Settecento e l’Ottocento. Pur affacciandosi sulla via di Nola, era stata saltata, rimanendo fino a oggi inesplorata. Siamo intervenuti anche per il problema dei fronti di scavo, che vanno manutenuti per evitare il rigonfiamento con l’acqua piovana. La scoperta rientra in una dinamica di manutenzione e di regolarizzazione dei fronti per mitigare il dissesto idrogeologico». A quali acquisizioni ha portato lo scavo di questa insula, mai indagata prima d’ora? «Nell’insula 10 abbiamo isolato tre unità abitative: quella con il salone nero è la piú estesa. L’ingresso della domus non è stato ancora identificato e deve trovarsi sulla via

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parallela alla via di Nola, in un’area ancora completamente da scavare. Con questo progetto di scavo dovremo fermarci probabilmente al grande peristilio che abbiamo individuato a sud del salone da banchetti. Abbiamo trovato tutto il perimetro del colonnato e immaginiamo di poter scavare gli ambienti annessi al grande cortile scoperto, che sul lato ovest si sviluppa in una serie di piccoli vani, il primo dei quali è un sacrarium interamente affrescato con pareti a fondo azzurro». La casa viene trasformata in panificio e tintoria poi, non è vero? «Su via di Nola l’insula 10 si affaccia con due unità abitative: il civico 1,

poi trasformato in panificio, e il civico 2, trasformato in lavanderia (fullonica). Le due attività sono state unificate, cosí da essere interconnesse fra loro. Forse appartenevano a un solo proprietario. Conosciamo il proprietario delle macine e del panificio, Aulo Rustio Vero, già noto per altre attestazioni epigrafiche: le sue iniziali sono incise e rubricate sul catillus di una macina. Il suo nome appare anche su alcune scritte elettorali esposte nel larario della casa, dopo – evidentemente – la sua candidatura politica». E qui avete fatto altre scoperte, tra cui la focaccia da alcuni ribattezzata la prima «pizza» della storia…

«L’immagine si trova su una parete nella zona dell’atrio del panificio realizzato nella casa al civico 1 di via di Nola. La cosiddetta “pizza”, in realtà, è una natura morta – una tipologia molto diffusa in area vesuviana –, che rappresenta un grande piatto d’argento con offerte votive, tra cui frutta secca, datteri, corbezzoli (vedi «Archeo» n. 462, agosto 2023; on line su issuu.com). Le offerte sono collocate sopra un elemento circolare che sembra una sorta di focaccia. Quindi parlare di pizza è certamente improprio da un punto di vista archeologico, ma possiamo immaginare si tratti di una focaccia con offerte votive».

Affresco raffigurante un piatto d’argento con offerte votive – tra cui frutta secca, datteri, corbezzoli – collocate sopra una sorta di focaccia. La natura morta è stata scoperta nell’atrio del panificio realizzato nella casa al civico 1 di via di Nola.

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MOSTRE Veneto

CONTRASTO, TUTELA E VALORIZZAZIONE

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l Museo archeologico nazionale di Adria propone una singolare mostra, frutto della collaborazione tra la Direzione regionale Musei Veneto-Museo archeologico nazionale di Adria (Ministero della Cultura) e il Comando provinciale di Rovigo della Guardia di Finanza: «Reperti riscoperti. L’operato della Guardia di Finanza a tutela del patrimonio archeologico di Adria e del territorio tra il 1970 e il 1995». Organizzata in occasione del 250° anniversario dalla fondazione del Corpo della Guardia di Finanza, ricorrenza che si è aperta proprio con l’inaugurazione di questo evento e che si celebrerà in vario modo nelle diverse aree della Penisola fino a settembre, l’esposizione racconta la storia del Corpo e, allo stesso tempo, illustra il suo ruolo di polizia in ambito economico-finanziario a favore della collettività. L’azione della Guardia di Finanza tende infatti ad agire per una crescita complessiva della società, stimolandola a migliorare in favore della percezione della centralità del bene comune. In questo senso il patrimonio culturale costituisce un

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fattore determinante, cosí come sancito dall’articolo 9 della Costituzione italiana. Nel nostro caso specifico, l’operato a difesa dei beni archeologici del territorio ha fatto sí che, tra gli anni Settanta e Novanta del secolo scorso, venissero sequestrati centinaia di reperti, frutto di scavi illeciti ad Adria e in altre località del Polesine.

I ripetuti successi sul piano del contrasto richiedono oggi una conseguente azione sul piano della divulgazione, della conoscenza, dell’inclusività di ogni tipologia di pubblico, cosí da far crescere quella consapevolezza, quella coscienza di appartenenza a una comunità che sono le precondizioni per la tutela del patrimonio. Un chiaro richiamo al mondo del mito greco e orientale è il simbolo del corpo della Guardia di Finanza scelto come emblema della mostra: il grifone. Solitamente rappresentato come un animale fantastico dal corpo di leone con ali e testa di rapace, è ben presente nell’iconografia del vasellame proveniente dalla Grecia con un chiaro richiamo al mito descritto da Erodoto (Herodot. 4, 13 e 27). Lo storico greco citando l’antico poema Arimàspeia di Aristea di Proconneso (VII secolo a.C.), rievoca le vicende legate al mito che vedono la perenne lotta per il possesso del prezioso metallo tra i


Sulle due pagine: immagini dell’allestimento della mostra «Reperti riscoperti», nella quale sono esposti materiali trafugati ad Adria e in altre località del Polesine e recuperati dalla Guardia di Finanza.

Grifoni, custodi delle miniere d’oro collocate a nord della Scizia, e gli Arimaspi, uomini con un solo occhio. Grifoni e Arimaspi sono spesso rappresentati nella ceramica attica rinvenuta ad Adria e, in occasione della mostra, due pezzi con queste raffigurazioni accolgono il visitatore nella prima vetrina del museo. La sezione iniziale dedicata all’attività della Guardia di Finanza ne illustra i fatti salienti della storia, con l’esposizione di alcuni cimeli in prestito dal Museo Storico di Roma: una divisa austro-ungarica e una serie di kepí (il tipico berretto cilindrico con visiera), alcune armi storiche, tra cui due pistole appartenute ai contrabbandieri, il documento istitutivo del Corpo in Veneto, la copia del fucile che sparò il primo colpo nella Grande Guerra. Le tappe della storia sono accompagnate dalla riproduzione di 7 illustrazioni di Milo Manara appositamente disegnate per la ricorrenza del 250°.

Una corposa sezione comprende una selezione di 80 pezzi dei principali nuclei di sequestri di materiali eseguiti dalle Fiamme Gialle nel territorio adriese dagli anni Settanta agli anni Novanta. Si tratta per lo piú di materiale ceramico intero, che ne denota la provenienza da contesti funerari etruschi di III/II secolo a.C. e di età romana. Sono presenti anche interessanti reperti metallici (fibule e altro), in osso/corno (spilloni e aghi), in legno (un frammento di pettine a denti fissi) e numerosi piccoli balsamari in vetro di pregevole fattura, tra cui un frammento di testa di colombina portaprofumi in vetro giallo. Nel suo insieme, il materiale ceramico esemplifica le principali forme e produzioni del tempo: ceramica depurata; ceramica grigia; ceramica a vernice nera, di importazione volterrana e di produzione locale; ceramica altoadriatica; terra sigillata; anfore. Nel complesso, l’insieme

archeologico dimostra la ricchezza del sottosuolo adriese e del suo territorio, cosí come l’importanza del continuo operato delle Forze dell’Ordine nella lotta all’illegalità, ma al contempo vuole spiegare al visitatore quanto lo scavo clandestino, estrapolando i reperti dal loro contesto, faccia perdere preziose informazioni per la ricostruzione storica. Sandra Bedetti e Alberta Facchi

DOVE E QUANDO «Reperti riscoperti. L’operato della Guardia di Finanza a tutela del patrimonio archeologico di Adria e del territorio tra il 1970 e il 1995» Adria (Rovigo), Museo Archeologico Nazionale fino al 30 giugno 2024 Orario ma-sa e prima domenica del mese: 8,30-19,30; domeniche e festivi: 14,30-19,30; lu chiuso Info tel./fax 0426 21612; e-mail: drm-ven.museoadria@cultura.gov.it Facebook - Instagram - Sito web

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IN CROCIERA CON «ARCHEO»

LEVATE LE ANCORE!

È

ormai imminente la partenza delle crociere di Swan Hellenic che ripercorrono le grandi rotte artiche: Iceland in Depth (16-24 giugno), Arctic Islands & Fjords (24 giugno-7 luglio) e Svalbard Explored (7-14 luglio) sono l’occasione per scoprire la storia e le bellezze naturali di regioni di terre che le comunità umane hanno abitato e abitano sfidando condizioni spesso estreme. Iceland in Depth prende il via da Reykjavík, la capitale situata piú a nord nel mondo. Dal punto di vista

Isola di Grímsey

Ísafjördur

Isola di Vigur Akureyri Cascate di Dynjandi

ISLANDA

Seyðisfjörður Djupivogur

Reykjavík

Heimaey

OCEANO ATLANTICO SETTENTRIONALE

In alto: il percorso della crociera Iceland in Depth (16-24 giugno). Qui sopra: una veduta di Ísafjördur, città di pescatori circondata dai Westfjords islandesi. A sinistra: la cascata di Dynjandi, situata anch’essa nei Westfjords. geomorfologico, l’Islanda è una terra relativamente giovane ed è soggetta a periodici cambiamenti, determinati dall’attività vulcanica e sismica. È un’isola per lo piú montuosa e ricoperta di ghiacciai, i piú vasti in Europa, dai quali peraltro ha preso il suo nome, che,

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letteralmente, vuol dire appunto «terra dei ghiacci». Vulcanesimo, ghiacciai e geyser caratterizzano dunque i paesaggi naturali di questo Stato insulare che, pur distando appena 300 km dalle coste della Groenlandia e ben 900 da quelle scozzesi, per cultura, lingua, popolazione, presenta tratti nettamente europei. Come detto, Iceland in Depth prende il via da Reykjavík, che, nell’874, fu il primo insediamento scandinavo nell’isola. Per avere un’idea della città, si può prendere In alto: Vigur, una delle due sole isole abitate nella regione dei Westfjords. Qui sotto: pulcinelle di mare (Fratercula arctica) sull’isola islandese di Grímsey, che ospita una delle popolazioni piú numerose di questa specie. In basso: il percorso della crociera Arctic Islands & Fjords (24 giugno-7 luglio).

Longyearbyen

MARE DI GROENLANDIA SVALBARD

Isola di Jan Mayen

Grimsey Ísafjördur

ISLANDA Reykjavík

MARE DI NORVEGIA

l’ascensore che raggiunge la cima della Hallgrímskirkja, la grande chiesa realizzata su progetto dell’architetto islandese Gudjón Samuelsson, che è uno degli edifici simbolo della capitale. Ma la visita a Reykjavík sarebbe incompleta senza fare tappa alla Laguna Blu, famosa per le sue acque termali terapeutiche. Il secondo giorno è dedicato a una delle attrazioni naturali piú spettacolari del Paese: la cascata di Dynjandi, nella regione dei Westfjords. Nelle vicinanze, si può raggiungere Hrafnseyri, cittadina che diede i natali a Jón Sigurðsson, leader del movimento per l’indipendenza islandese del XIX secolo. Il locale museo include una tipica casa islandese di torba. Circondata dai Westfjords, Ísafjördur, terza tappa della crociera, è una vivace città di pescatori, nella quale spiccano le colorate case in legno del XVIII e XIX secolo della parte piú antica dell’abitato, Neskaupstadur. Nelle vicinanze, Sudavik è sede

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n otiz iario dell’Arctic Fox Centre, un centro di ricerca e di documentazione dedicato appunto alla volpe artica (Alopex lagopus), il solo mammifero terrestre indigeno dell’isola, che vive nella lussureggiante tundra della Riserva Naturale di Hornstrandir. Nella stessa giornata, si fa tappa a Vigur, seconda isola, per grandezza, dei Westfjords, e vero e proprio santuario degli uccelli marini. Stormi di sterne artiche, pulcinelle di mare, gazze e anatre marine nidificano sulle scogliere rocciose. Qui svetta anche l’unico mulino a vento dell’Islanda. La quarta tappa è Grímsey, un’isola remota, situata a 40 km al largo della costa settentrionale dell’Islanda. Il sito è meta obbligata per tutti coloro che desiderano provare l’ebbrezza di raggiungere il Circolo Polare Artico, poiché si tratta dell’unica località islandese in cui è possibile farlo. Da Grímsey si raggiunge quindi l’isola di Hrisey, nel fiordo di Eyjafjörður. Anche qui vive una fauna molto ricca, che comprende pulcinelle di mare, foche e balene. Dal monte Hriseyjarfjall si possono godere splendide vedute del

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In alto: un paesaggio di Djupivogur, villaggio di origini vichinghe. A destra: una veduta di Longyearbyen, sull’isola di Spitsbergen (Svalbard). In basso: le tappe della crociera Svalbard Explored (7-14 luglio). paesaggio circostante e dell’ampia distesa del fiordo di Eyjafjörður. L’isola possiede inoltre un ricco patrimonio culturale e la sua comunità continua a praticare vari mestieri tradizionali islandesi, come la lavorazione a mano della lana e la lavorazione del legno. A sinistra: una tipica formazione naturale nell’area Stretto di Hinlopen delle Svalbard. In basso: in Parco nazionalecrocieristi di Spitsbergen escursione nelle SVALBARD acque artiche.

Riserva naturale delle Svalbard nord-orientali

Longyearbyen Parco nazionale di Spitsbergen meridionale

Riserva naturale delle Svalbard sud-orientali

MARE DI BARENTS


In alto: una tipica formazione naturale di ghiaccio nell’area delle isole Svalbard. A destra: esemplari di renne delle Svalbard (Rangifer tarandus platyrhynchus), la piú piccola sottospecie della renna, presente nelle regioni dell’Alto Artico. Chiamata «Città del sole di mezzanotte» o «Capitale dell’Islanda del Nord», Akureyri, la tappa successiva, è porta di accesso ad alcune meraviglie naturali, tra cui la regione di Myvatn, la cascata di Dettifoss, la cascata di Godafoss e il canyon di Asbyrgi. Ma prima di raggiungerle, vale la pena di dedicare un po’ di tempo anche alla città: da non perdere sono il pittoresco lungomare e il Lystigardurinn, il giardino botanico artico. Nel sesto giorno si viene accolti dalle case in legno, vivacemente dipinte, del porto di Seyðisfjörður, considerato il polo culturale della porzione orientale dell’isola, affermatosi come una vivace scena artistica. Il sito è circondato da una natura incredibile e la vicina riserva naturale di Skálanes è nota per la sua ricca fauna selvatica – forte di oltre 47 specie di uccelli – e per le ancor piú numerose specie vegetali. Né mancherà l’occasione di incontrare renne, foche e delfini. Si fa quindi tappa a Djupivogur, un villaggio di pescatori che vanta origini vichinghe e nelle cui vicinanze si trova il Parco Nazionale

di Vatnajökull, nel quale ricadono la piú grande calotta glaciale d’Europa, il ghiacciaio Vatnajökull, fiumi e vulcani attivi. L’ottavo giorno è dedicato a Heimaey, un’isola di 13 km quadrati nelle Isole Westman, al largo della costa meridionale dell’Islanda. Qui è stanziata la piú grande colonia di pulcinelle atlantiche del mondo, che raggiunge la spettacolare cifra di 10 milioni di esemplari. La crociera termina là dove era iniziata, cioè a Reykjavík, uno scalo che dà modo di completare la conoscenza della vivace capitale della Repubblica d’Islanda. Arctic Islands & Fjords offre l’opportunità di esplorare le regioni piú settentrionali del mondo, dall’Islanda alla Groenlandia orientale, l’isola di Jan Mayen e Svalbard, all’interno del Circolo Polare Artico. In Groenlandia si possono scoprire culture indigene di eccezionale interesse e conoscere gli stili di vita adottati in terre, come è questa, scarsamente popolate. E poi parchi nazionali, aree faunistiche protette e il sistema di fiordi piú esteso che si conosca. Il viaggio tocca anche l’isola di Jan Mayen, dove il sole di

mezzanotte getta ombre sul paesaggio ghiacciato, nel quale non è difficile incontrare orsi polari, trichechi, foche e balene e milioni di uccelli marini. Protagonista di Svalbard Explored è la natura selvaggia dell’Alto Artico, all’interno del Circolo Polare Artico, tra i 74° e gli 81° di latitudine nord. Le Svalbard comprendono le isole Spitsbergen, Terra di Nord-Est, Edge, Barents, Prins Karls Forland, Kong Karls Land, Kvitøya, Hopen e numerosi isolotti e scogli adiacenti. Il territorio, aspro e inciso da fiordi, culmina a 1717 m nel Newtontoppen, sull’isola di Spitsbergen. Ricoperte dalla tundra artica e dai ghiacci, che bloccano i porti per nove lunghi mesi, le isole sono immerse nella notte polare per quasi un terzo dell’anno, mentre il sole di mezzanotte è visibile per 127 giorni consecutivi. Le Svalbard furono scoperte dai Vichinghi nel XII scecolo e riscoperte dal navigatore e cartografo olandese Willem Barents nel 1596. Nel 1920 il Trattato di Parigi le assegnò alla Norvegia, che ne prese possesso nel 1925. Info e prenotazioni: e-mail, enquiries@swanhellenic.com

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

APPLAUSI ANTICHI E MODERNI 2 2a In questo numero rendiamo omaggio alla recente 1 emissione di una bella serie italiana di cinque francobolli raffiguranti teatri e anfiteatri greci e romani presenti sul nostro territorio. Iniziativa presa in occasione del 110° anniversario delle prime rappresentazioni classiche nel teatro di 4 5 Siracusa, con la messa in scena, il 16 aprile del 1914, dell’Agamennone di Eschilo (1, 3 locandina del primo atto della trilogia dell’Orestea comprendente anche Coefore ed Eumenidi); l’opera fu probabilmente replicata anche nel mese successivo, come risulta dall’annullo del 27 maggio, uno dei primi 6 7 annulli tematici italiani, apposto su una cartolina dell’epoca (2, 2a). Il primo dei 5 francobolli è dedicato al teatro greco di Siracusa (3) e riporta anche l’anniversario citato; questo celeberrimo monumento era già stato mostrato in un francobollo turistico del 1984 (4) e in molti annulli tematici sulle rappresentazioni classiche. Il secondo francobollo 8 9 onora il teatro greco di Segesta (5, III-II secolo a.C.), 10 rimediando, in qualche modo, al ritardo nel celebrare un monumento reso pressoché unico dalla sua posizione naturale (come peraltro avevamo già auspicato in passato, vedi «Archeo» n. 439, settembre 2021; on line su issuu.com). Il terzo valore ci porta a Lecce e 11 al suo Teatro Romano (I-II secolo d.C.), praticamente inurbato nella realtà cittadina (6) e riscoperto solo nel 1928. Con il quarto francobollo 12 risaliamo fino a Volterra, dove fanno bella mostra di sé i resti del Teatro Romano (inizi del I secolo a.C.), interrati in epoca medievale e riscoperti negli anni Cinquanta del Novecento (7). L’ultimo francobollo è stato riservato al meno noto degli anfiteatri romani, quello di Suasa (8) risalente al I secolo d.C., nonostante sia sempre rimasto visibile, al contrario delle altre vestigia della città antica, tornate alla luce solo agli 13 14 inizi degli anni Settanta. Il Parco archeologico della cittadina marchigiana è stato sempre molto attivo, come prova un annullo realizzato nel 1991 in occasione di una mostra di Filatelia Archeologica proprio al suo interno (9). Ci sembra infine doveroso citare alcuni dei molti edifici di età antica esistenti in Italia che hanno ospitato, o tuttora ospitano, spettacoli teatrali e/o musicali e che siano stati onorati con 15 16 francobolli o annulli. Tra i piú famosi ci sono l’Arena di Verona (10), le Terme di Caracalla a Roma (11) e il teatro grecoIL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filateromano di Taormina (12); e possiamo poi ricordare lia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere Tindari (Messina, 13), Sepino (Campobasso, 14), alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, Pietrabbondante (Isernia,15) e Cattolica Eraclea ai seguenti indirizzi: (Agrigento, 16). Chiudiamo rimandando al numero di Segreteria c/o Luciano Calenda luglio della rivista, nel quale un articolo sui teatri Sergio De Benedictis C.P. 17037 - Grottarossa greco-romani del Mediterraneo, sarà l’occasione per Corso Cavour, 60 - 70121 Bari 00189 Roma un’altra rassegna di monumenti, questa volta situati segreteria@cift.club lcalenda@yahoo.it oppure www.cift.it al di fuori della Penisola.

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CALENDARIO

Italia ROMA Interno pompeiano

Fotografie di Luigi Spina Castel Sant’Angelo fino al 16.06.24

Teatro

Autori, attori e pubblico nell’antica Roma Museo dell’Ara Pacis fino al 03.11.24

Un museo per l’École

La collezione di antichità dell’École française de Rome École française de Rome, Galleria (piazza Navona, 62) fino al 20.12.24

DeVoti Etruschi

Da Veio a Modena e ritorno Museo delle Antichità etrusche e italiche. Sapienza Università di Roma fino al 31.03.25

GAVARDO (BRESCIA) L’età del Legno. 4000 anni fa al Lucone

Manufatti in legno e tessuti dal sito palafitticolo dell’età del Bronzo Museo Archeologico della Valle Sabbia fino al 31.12.24

MILANO Vulci

Produrre per gli uomini. Produrre per gli dèi Fondazione Luigi Rovati fino al 04.08.24

NAPOLI Gli dei ritornano

I bronzi di San Casciano Museo Archeologico Nazionale di Napoli fino al 30.06.24

AOSTA Pietre parlanti nella Preistoria La statuaria preistorica dalla Sardegna all’arco alpino Area Megalitica fino al 15.06.24

BACOLI (NAPOLI) La pittura della voce

L’alfabeto prima e dopo Cuma Castello aragonese di Baia, Museo archeologico dei Campi Flegrei fino al 30.06.24

POMPEI L’altra Pompei

Vite comuni all’ombra del Vesuvio Parco Archeologico di Pompei, Palestra grande fino al 15.12.24

CARRARA Romana marmora

Storie di imperatori, dèi e cavatori CARMI, Museo Carrara e Michelangelo fino al 12.01.25

COMO Il catalogo del mondo

Plinio il Vecchio e la Storia della Natura Ex chiesa di S. Pietro in Atrio e Palazzo del Broletto fino al 31.08.24 36 a r c h e o

RIO NELL’ELBA (LIVORNO) Gladiatori

Museo Archeologico del Distretto Minerario fino al 01.11.24


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

SESTO FIORENTINO Archeologia svelata a Sesto Fiorentino

Momenti di vita nella piana prima, durante e dopo gli Etruschi Biblioteca Ernesto Ragionieri fino al 31.07.24

SIRACUSA Il regno di Ahhijawa

I Micenei e la Sicilia Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi» fino al 09.10.24

TORINO Trad u/i zioni d’Eurasia Reloaded

Frontiere liquide e mondi in connessione. Duemila anni di cultura visiva e materiale tra Mediterraneo e Asia Orientale MAO-Museo d’Arte Orientale fino all’01.09.24

La Scandalosa e la Magnifica 300 anni di ricerche su Industria e sul culto di Iside in Piemonte Galleria Sabauda, Spazio Scoperte fino al 10.11.24

TRENTO Con Spada e Croce

Il Met al Louvre

Dialoghi di antichità orientali Museo del Louvre fino al 29.09.25

NÎMES Achille e la guerra di Troia Musée de la Romanité fino al 05.01.25

SAINT-GERMAIN-EN-LAYE Da un mondo all’altro

L’autunno dell’antichità nel Medioevo Musée d’Archéologie nationale fino al 17.06.24

Germania BERLINO Il fascino di Roma

Maarten van Heemskerck disegna la città Kulturforum fino al 04.08.24

Elefantina

Isola dei millenni James-Simon-Galerie e Neues Museum fino al 27.10.24

In alto: Maarten van Heemskerck, l’Arco di Tito. 1532-1536.

Longobardi a Civezzano Castello del Buonconsiglio fino al 20.10.24

TRENTO-SAN MICHELE ALL’ADIGE Sciamani

Comunicare con l’invisibile Palazzo delle Albere (Trento) METS-Museo etnografico trentino San Michele (San Michele all’Adige) fino al 06.10.24

TRIESTE Un tesoro ritrovato

Banditi e carovane sul Carso nel Medioevo Museo d’Antichità «J.J. Winckelmann» fino al 29.09.24

Francia PARIGI L’olimpismo

Un’invenzione moderna, un’eredità dell’antico Museo del Louvre fino al 16.09.24

Nella Senna

Ritrovamenti dalla preistoria ai giorni nostri Crypte archéologique de l’île de la Cité fino al 31.12.24

Paesi Bassi LEIDA Paestum

Città delle dee Rijksmuseum van Oudheden fino al 25.08.24

Ville romane nel Limburgo Rijksmuseum van Oudheden fino al 25.08.24

Lastra dipinta di una tomba lucana della necropoli di Andriuolo (Paestum).

Regno Unito LONDRA Legionari

La vita nell’esercito romano British Museum fino al 23.06.24 a r c h e o 37


L’I C NU M O O PE S VA RA TA ED TO N IZIO RE T NE DI IN CR O IS TO

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

COSTANTINO «sotto questo segno vincerai»


L

Affresco raffigurante Costantino che offre a papa Silvestro I la tiara imperiale, simbolo del potere temporale. 12431254. Roma, chiesa dei Ss. Quattro Coronati, cappella di S. Silvestro.

e vicende di molti grandi protagonisti della storia antica sono state tramandate attraverso cronache e testimonianze che hanno finito con il consegnare ai posteri stereotipi suggestivi, piú che profili biografici attendibili. E Costantino ne è uno degli esempi emblematici: da sempre, infatti, viene tradizionalmente esaltato e celebrato come il primo imperatore «cristiano», l’uomo saggio e pio grazie al quale i seguaci della dottrina diffusa trecento anni prima da Gesú in Terra Santa avevano finalmente potuto professare il loro culto. Ma fu veramente cosí? Prova a rispondere la nuova Monografia di «Archeo» che ripercorre la lunga vicenda politica e personale di Flavio Valerio Costantino, costellata a piú riprese da episodi quasi romanzeschi. Primo fra tutti, il sogno fatto alla vigilia della decisiva battaglia combattuta contro Massenzio nell’ottobre del 312 d.C. al Ponte Milvio, a Roma, che avrebbe ispirato all’imperatore la decisione di far incidere il monogramma cristiano sugli scudi e sui vessilli delle sue truppe. Accanto a fatti dal sapore leggendario, c’è però la concretezza delle lotte per il potere, della ridefinizione delle strutture amministrative dell’impero, degli intenti autocelebrativi, culminati nella decisione di rifondare nel suo nome Bisanzio, elevandola a seconda capitale imperiale. Mosse che rivelano il carattere volitivo e deciso del personaggio, che, di fatto, suggellò la sua effettiva conversione al cristianesimo solo in punto di morte, accettando di ricevere il battesimo.

GLI ARGOMENTI

• ALFIERE DI UN MONDO NUOVO • LA TETRARCHIA NEL CAOS • 28 OTTOBRE 312: LA RESA DEI CONTI • UN SOLO IMPERATORE • UN GRANDIOSO ARCO TRIONFALE

in edicola

• IL RITORNO DEL COLOSSO

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SCAVI • VENETO

MONSELICE, IL SEGRETO DEI LONGOBARDI 40 a r c h e o


L

EDIFICI TURRITI, UN CIMITERO E UNA CHIESA DEDICATA A SANTA GIUSTINA: GLI SCAVI DELL’UNIVERSITÀ DI PADOVA RIPORTANO ALLA LUCE L’AFFASCINANTE STORIA DI UNA ROCCA CON VISTA SUI COLLI EUGANEI, INSIEME ALLE VICENDE DEI SUOI ABITANTI di Elena Percivaldi Veduta a volo d’uccello di Monselice (Padova), che permette di apprezzare la posizione dominante della Rocca e il circuito delle mura.

a vista, dall’alto, è a dir poco spettacolare: da una parte il dolce profilo dei Colli Euganei e le alte cime delle Prealpi venete, dall’altro la brulicante Pianura Padana, oggi fitta di insediamenti ma un tempo impaludata, giú fino a Chioggia e all’Adriatico, seguendo il corso dell’Adige. Ed è senza dubbio per questa sua posizione invidiabile, oltre che per l’abbondanza di cave di selci di trachite – da cui il nome «mons silicis», «monte della selce» –, che Monselice fu abitata sin dai tempi remoti e poi fortificata in epoca tardo-antica, cosí da presidiare le importanti vie di comunicazione che dai Colli conducevano alla pianura e alle vie d’acqua. Nel 568, quando giunsero in Italia, i Longobardi presero quasi subito Vicenza, Verona e altre città della Venetia, ma non Monselice, che, come Padova, rimase inizialmente sotto il controllo bizantino. Cadde in mano longobarda, racconta Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum, solo un trentennio piú tardi, seguendo le sorti della città patavina, che cedette nel 601603 alle armate di re Agilulfo. Seguirono nel 639, con Rotari, la presa di Altino e infine, nel 669, di Oderzo, conquiste che compirono la definitiva frattura tra la terraferma, dominata dai discendenti di Alboino, e l’area costiera, ancora controllata dall’impero, dove piú tardi sorse Venezia. Separati da lembi di terra scarsamente popolati e via via destinati a impaludarsi, nel corso dell’Alto Medioevo entroterra e laguna ebbero per secoli storie e interessi assai diversi. Con il passaggio al dominio longobardo, il castrum Mons Silicis, che controllava la strada da Patavium (Padova) a Bononia (Bologna), divenne capoluogo di un ampio distretto territoriale, mentre Padova perse il proprio ruolo giuridico di città e, per quasi due secoli, sparí a r c h e o 41


SCAVI • VENETO

dalla storia, ricomparendovi solo in età carolingia. La presenza dei Longobardi a Monselice è stata confermata dagli scavi condotti da Gian Pietro Brogiolo tra 1989 e 1992 (vedi box in basso, sulle due pagine), che hanno riportato alla luce 5 sepolture – per un totale di 7 individui: 4 adulti maschi e 3 subadulti – dotate di corredi composti da armi (spada, scramasax, umbone; vedi box e foto alle pp. 4445), fibule e, in un caso, da una crocetta aurea decorata con motivi animalistici intrecciati e al centro un monogramma: il cimitero di una guarnigione militare, dunque, uno dei pochi – altri se ne trovano a Castelseprio, nel Varesotto, e a Sirmione, sul lago di Garda – a oggi rinvenuti all’interno di un castrum.

LA FONDAZIONE: UN PROBLEMA APERTO Ma se i dati archeologici – soprattutto la ceramica di importazione – documentano l’esistenza di un insediamento sul colle di Monselice sin dal VI secolo, non è però chiaro se esso sia stato fondato dalle truppe

Cortina d’Ampezzo Trentino Alto Adige

Lago di Garda

Vicenza

Verona

Belluno

Friuli Venezia Giulia

Treviso Padova

Monselice

Venezia

Rovigo Emilia Romagna

bizantine per proteggere il territorio di Padova dagli attacchi dei Longobardi dopo la caduta di Vicenza nel 569 – ipotesi che al momento trova il maggior consenso tra gli studiosi -, oppure se la fondazione del castello debba piuttosto essere fatta risalire ancora prima, alla campagna di fortificazioni che Teodorico ordinò di realizzare nell’Italia settentrionale nella prima metà del VI secolo, allo scopo di potenziare il sistema difensivo del regno ostrogoto contro i tentativi di espansione dei Franchi.

35 ANNI DALL’INIZIO DEGLI SCAVI Le prime ricerche archeologiche sul Colle della Rocca, sostenute tra il 1989 e il 1992 dalla Società Archeologica Veneta e dirette da Gian Pietro Brogiolo, punto di riferimento dell’archeologia medievale italiana dalla sua nascita, miravano a verificare la potenza e la qualità stratigrafica dei depositi archeologici risparmiati dalle cave di trachite grazie a ricognizioni, rilievi, analisi stratigrafiche delle architetture conservate in elevato e saggi di scavo. In concreto, le indagini documentarono alcuni tratti della cinta altomedievale e portarono alla scoperta di una torre con sepolture longobarde dotate di ricchi corredi di armati. La seconda

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stagione di ricerche, svolta tra il 1995-1996 e coordinata dallo stesso Brogiolo, ha visto indagini in estensione sulla sommità del colle che oltre a mettere in luce murature pertinenti alla chiesa di S. Giustina, ha permesso di identificare due edifici definibili come «domus incastellate» o «palazzi turriti», una tipologia architettonica costituita da una torre affiancata da un blocco architettonico rettangolare che in città come Padova compare a partire dall’XI secolo. Una terza stagione di ricerche, affidata nel 2021-2022 all’Università di Padova sotto la direzione di Alexandra Chavarría Arnau, ha portato allo scavo integrale della chiesa di S. Giustina


e della sua area cimiteriale, del palazzo a nord del pianoro e di una delle torri della fortificazione e, a mezza costa, di una serie di strutture e piani d’uso di cronologia altomedievale. Queste ultime indagini sono state possibili grazie alla collaborazione tra l’Università di Padova, la Regione del Veneto e Veneto Edifici Monumentali Srl, che le hanno finanziate nell’ambito di un piú ampio programma di interventi per la valorizzazione del Colle. Gli scavi sono condotti in regime di concessione da parte del Ministero di Cultura (Decreto del Direttore Generale rep. n. 484 del 27.04.2023).

Veduta dall’alto della Rocca di Monselice e del cantiere di scavo aperto ai piedi della struttura fortificata, nel quale opera l’Università di Padova. Nella pagina accanto: Gian Pietro Brogiolo, al quale si deve l’avvio degli scavi di Monselice, durante la campagna del 1989.

Di certo, dal punto di vista strategico e militare, la fortificazione di Monselice svolse un ruolo di primaria importanza grazie alla posizione geografica particolarmente felice. Posto alle pendici di un’altura isolata, dalla cui sommità la vista spazia a 360 gradi, il castrum consentiva infatti di tenere sotto controllo l’ampio territorio compreso tra le Prealpi e l’Adriatico con Ravenna, capitale prima gota e poi bizantina, e di seguire il corso dell’Adige, all’epoca ben diverso, giacché cingeva il colle della Rocca e poi proseguiva verso est, fino a sfociare in laguna. Un percorso oggi non piú esistente in quanto mutato radicalmente a

seguito dello spostamento dell’alveo di circa una ventina di chilometri verso sud generato, secondo la tradizione storica, dall’alluvione – passata alla storia come la «rotta della Cucca» – verificatasi il 17 ottobre 589 per lo straripamento dell’Adige a causa delle forti piogge. Anche se oggi gli studiosi tendono a minimizzare l’evento, che, in realtà, potrebbe essere stato un processo piú lento, iniziato già in epoca preromana, ma intensificatosi dopo la fine dell’impero per il progressivo abbandono delle terre bonificate in epoca classica e il peggioramento delle condizioni clima(segue a p. 46) a r c h e o 43


SCAVI • VENETO Ricostruzione grafica dell’abbigliamento e dell’equipaggiamento di un guerriero longobardo, alla quale sono associati reperti restituiti dagli scavi condotti a Monselice.

Puntale Controplacca ageminata

Placchetta di rinforzo

Fibbia con placca ageminata

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I LONGOBARDI DEL MONTE DELLA SELCE

Umbone

Scramasax

Fibbia con placca in ferro

Le cinque sepolture maschili longobarde, messe in luce nel 1989 accanto a una delle torri della cinta muraria e databili alla prima metà del VII secolo, cosí come gli oggetti di corredo deposti accanto ai defunti testimoniano il processo di assimilazione e acculturazione allora in corso tra i Longobardi immigrati e le popolazioni autoctone di matrice cristiano-romana. Accanto alle armi che accompagnavano i defunti nel rituale funebre pagano di tradizione germanica, si trovano infatti oggetti che denotano il contatto con le cultura cristiana degli Italici. Emblematica, da questo punto di vista, appare la crocetta aurea rinvenuta nella tomba bisoma n. 748-749 tra il capo dei due defunti, in origine cucita come di consueto sul sudario (o velo) funebre. L’uso delle crocette auree si riscontra, tra i Longobardi, solo dopo il loro ingresso nella Penisola, introdotto molto probabilmente sotto influenza bizantina, ed è stato interpretato come segno del loro progressivo avvicinamento al cattolicesimo cosí come dell’adesione agli orientamenti politico-culturali ostentati dalle aristocrazie. L’iconografia presente su questi oggetti vede peraltro convivere spesso elementi pagani (intrecci, animali, maschere umane barbute e con la tipica capigliatura a scriminatura centrale probabilmente allusive alla principale divinità del pantheon germanico, Godan/Wotan/Odino) accanto a motivi squisitamente cristiani (colombe, oranti, monogrammi) ed è fortemente probabile che rivestissero, come suggerisce la loro collocazione in corrispondenza del volto o sul petto,

una funzione apotropaica e magica contro il male e i pericoli. L’uso delle crocette passò, tramite i Longobardi, ad altre popolazioni germaniche con cui essi erano in contatto, in particolare gli Alamanni e Baiuvari: da quest’ultima stirpe, peraltro, proveniva la regina Teodolinda, alla quale si deve l’avvio del processo di conversione dei Longobardi al cattolicesimo. Anche la crocetta di Monselice comprende elementi di matrice sia pagano-germanica che cristianomediterranea: se ogni braccio è ornato da intrecci di nastri terminanti verso l’esterno con un motivo a «U» (l’occhio di un animale?) e verso l’interno con due fascette di tre linee (le sue zampe?) secondo i dettami del II stile zoomorfo, al centro della croce è inciso a sbalzo il monogramma IHS, trascrizione latina del nome greco di Gesú, racchiuso all’interno di un cerchio radiato. Altrettanto degno di nota è, dalla tomba 729, il puntale di cintura in lamina d’argento con decorazione «a punto e virgola» su una faccia e a motivi zoomorfi stilizzati sull’altra. Sotto a questi ultimi compare un monogramma, la cui lettura è «Ihoannis», che trova puntuali confronti con simboli analoghi che compaiono su una croce in lamina d’oro da Trezzo sull’Adda (Milano) e un puntale d’argento da Offanengo (Brescia), ma anche su un mattone dalla basilica di S. Giusto a Lucera e, piú tardi, un denaro in argento di papa Giovanni VIII (872-882). Si tratta di un nome latino largamente usato tra la fine del VI e il VII secolo, ma potrebbe anche essere un’invocazione o una dedica all’Evangelista con probabile valore apotropaico. a r c h e o 45


SCAVI • VENETO

IL «MASTIO FEDERICIANO», SIMBOLO DI UN NUOVO POTERE L’assetto difensivo voluto da Federico II e realizzato dal suo vicario Ezzelino può essere analizzato nel dettaglio grazie alle strutture oggi conservate e alle notizie fornite dai documenti. L’imponente mastio quadrangolare con basamento tronco-piramidale di 8,5 x 9 m, fatto realizzare direttamente sulla distrutta chiesa di S. Giustina, presenta un paramento esterno in grandi conci di trachite ben squadrati di varie dimensioni. All’interno del basamento, costruito in muratura massiccia, furono ricavati una cisterna, alimentata dalla pioggia raccolta dal tetto e il vano di scarico delle latrine. La torre si ergeva in origine su tre piani per oltre 20 m di altezza ed era accessibile dall’ingresso aperto sul lato ovest, a circa 8,8 m da terra. L’ingresso era servito da un ponte di legno collegato a una scala a doppia rampa addossata alla torre romanica antistante. Al suo interno il mastio era dotato di tutti i comfort necessari per gli occupanti: due bagni (uno per piano), un pozzo per attingere l’acqua della cisterna e due vani abitativi indipendenti collegati da una scala interna. Contemporaneo al mastio è anche il sistema difensivo che cinge il pianoro sommitale, costituito da una cinta ellittica lunga 210 m circa, che racchiude un’area di circa 0,27 ettari. A ovest la cortina muraria si addossa a un edificio con torre – la «palazzo o domus turrita» –, che rimase in uso con funzione residenziale. L’accesso al ridotto fortificato era probabilmente localizzato nell’angolo nord-orientale della cinta, in corrispondenza dell’attuale portale ricostruito in stile medievale agli inizi del Novecento. L’intero complesso fu voluto dall’imperatore come simbolo del controllo acquisito dai ghibellini sul territorio padovano e che limitava le libertà comunali di cui Monselice aveva fino ad allora goduto.

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tiche documentato nel VI secolo e conosciuto come LALIA (Late Antique Little Ice Age). Le nuove campagne di scavo condotte dall’Università di Padova, iniziate nel 2021, si propongono dunque di definire le caratteristiche dell’insediamento altomedievale e la sua sequenza fino al momento in cui Ezzelino III da Romano, vicario di Federico II in terra veneta, distrusse – correva l’anno 1239 – alcuni tra i piú importanti edifici che sorgevano sulla sommità del colle per sostituirli con l’imponente mastio, che tuttora vi campeggia, e la cinta di fortificazioni che lo delimitavano, oggi visibili solo in parte (vedi box in questa pagina). Scomparvero invece per sempre la monumentale chiesa intitolata a santa Giustina e due grandi edifici di potere, situati uno a ovest e l’altro a nord del pianoro di Monselice.

LA CHIESA «FANTASMA» Cosí come avvenne per altre fortificazioni di grandi dimensioni di epoca postclassica quali le già citate Castelseprio e Sirmione, anche Monselice conobbe la fondazione, in momenti differenti, di diversi edifici


di culto cristiano, posti sia all’interno sia all’esterno delle mura. Le funzioni di queste chiese non sono sempre chiare: a volte si tratta di chiese pievane, altre di cappelle private, altre ancora di basiliche legate a complessi monastici. Sicuramente all’epoca altomedievale risalgono la chiesa di S. Giustina, posta sulla sommità del colle, e le chiese di S. Paolo e di S. Maria di Mezzo Monte a mezzacosta, mentre fuori dalle mura furono edificate quelle di S. Paolo, S. Tommaso e S. Martino in Monte. Tra tutte, la piú antica era senz’altro S. Giustina (vedi box a p. 49), ricordata dalle fonti scritte sin dal 968 come chiesa pievana ma probabilmente fondata in epoca precedente, forse – come potrebbe suggerire l’intitolazione – addirittura in età ostrogota. Gli scavi hanno permesso di ricostruirne nel dettaglio la pianta: si trattava di un edificio rettangolare di dimensioni imponenti – largo 17 m e lungo ben 32 –, costituito da tre navate e un abside semicircolare, orientato est-ovest e completato da una cripta triabsidata. Il pavimento della chiesa era realizzato a mosaico – lo testimonia il ritrovamento di numerose tessere bianche e nere – e in opus sectile, composto cioè da lastrine di pietra tagliate in forme geometriche; quello della cripta era invece in malta e cocciopesto. Alla cripta si accedeva dall’interno della chiesa, attraverso tre arcate poggianti su due colonne centrali. Le strutture superstiti riportate alla luce consentono di rilevare, nella muratura dell’angolo sud-ovest,

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

In alto: il saggio aperto nel 2024 a mezza costa, dove sono apparse murature e materiale archeologico soprattutto altomedievale. A destra: un’altra immagine, da nord, della Rocca di Monselice. Si riconoscono anche un edificio in corso di scavi, le mura che vi si addossano e il mastio. Nella pagina accanto: Monselice e la sua Rocca in un disegno del XV sec. a r c h e o 47


SCAVI • VENETO

verso la facciata, una tecnica costruttiva diversa e ipotizzare quindi due distinte fasi di realizzazione dell’edificio: la prima altomedievale e la seconda romanica. Al cantiere di quest’ultima apparterrebbe anche il piccolo forno per la fusione o forgiatura del ferro rinvenuto appena fuori dal muro sud. A suggerire l’esistenza di una chiesa precedente a quella romanica è anche il rinvenimento, sotto la muratura meridionale e sotto il pavimento della cripta, di numerose tombe che la datazione al radiocarbonio ha dimostrato essere anteriori al IX secolo. Il cimitero accoglie numerose sepolture (vedi box a p. 50), quasi tutte orientate est-ovest, alcune delle

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In alto: l’epigrafe del prefetto Opilione, fondatore di una chiesa e di un oratorio in onore della martire Giustina a Padova intorno al 522. Qui sotto: planimetria della chiesa di S. Giustina nella quale sono evidenziate la fase altomedievale (verde) e romanica (arancione). In basso: frammenti del pavimento a mosaico della chiesa di S. Giustina.


GIUSTINA E L’ISCRIZIONE DI OPILIONE L’intitolazione della chiesa di Monselice a santa Giustina è molto interessante, perché il culto di questa martire di origine padovana – che, secondo la tradizione, fu uccisa dai soldati dell’imperatore Diocleziano il 7 ottobre 304, ai piedi del Pontecorvo – è documentato solo a partire dal 520, quando Opilione, prefetto del pretorio della corte del re ostrogoto Teodorico, costruí – come testimonia un’iscrizione – una basilica con annesso oratorio in Prato della Valle, nel suburbio della città di

Padova, dove in seguito venne edificato un potente monastero. Dal VI secolo in poi il culto si diffuse anche nei territori vicini, come comprovano, per esempio, le intitolazioni a santa Giustina delle pievi di Pernumia, Lova e, appunto, la chiesa di Monselice, ma anche in altri siti fortificati probabilmente da epoca gota come la chiesa del castrum di Santa Giustina nella Val di Gresta (Trento). L’intitolazione potrebbe quindi essere un indicatore dell’origine gota del castello di Monselice.

In alto: Santa Giustina, scomparto del Polittico di San Luca, tempera su tavola di Andrea Mantegna. 1453-1454. Milano, Pinacoteca di Brera. A sinistra: lo scavo nell’area della cripta di S. Giustina, sotto il cui pavimento in malta sono state rinvenute numerose sepolture datate tra VII e IX sec. con il C14.

quali composte da casse costruite in muratura e contenenti molteplici deposizioni, altre invece piú antiche, in nuda terra. Lo scavo ha restituito alcuni oggetti di corredo, purtroppo fuori contesto, databili in età altomedievale, tra cui un frammento di cintura multipla longobarda. La distruzione della chiesa, avvenuta come accennato nel Duea r c h e o 49


SCAVI • VENETO

COSA RACCONTANO GLI SCHELETRI? Gli scavi nel cimitero di S. Giustina hanno portato a individuare, a oggi, 25 sepolture, 13 delle quali strutturate, e 12 in nuda terra, per un totale di circa un centinaio di individui. Le tombe sembrano relative a due fasi distinte della chiesa. Quelle piú tarde, successive all’edificazione della chiesa romanica, furono realizzate principalmente con ciste di pietra o in muratura in trachite, e contenevano i resti di numerosi individui deposti in momenti successivi, mentre una era stata utilizzata come ossuario. Tutte le tombe in nuda terra, invece, anteriori sia per stratigrafia sia per le datazioni radiocarboniche, accoglievano un solo inumato. L’analisi antropologica delle ossa, attualmente in corso, ha permesso di stabilire che l’80% circa dei defunti sono adulti di sesso maschile e il 20% di sesso femminile; pochi invece gli infanti; il loro stato di In alto: cranio di un maschio adulto con una vistosa contusione sub-circolare, che ha interessato parte del frontale e del parietale sinistro. In basso: una delle tombe utilizzate per sepolture multiple in muratura.

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salute, cosí come l’igiene dentale, appare nel complesso piuttosto buono. Tra i resti spiccano quelli di tre individui con segni evidenti di traumi – uno alla testa, gli altri agli arti inferiori – ai quali sopravvissero, ma che, almeno in due casi, causarono menomazioni – il primo a livello delle vie

cento per erigere il mastio, comportò l’abbandono totale del cimitero, con l’unica eccezione della sepoltura di un giovane individuo di sesso maschile, collocata direttamente sullo strato di demolizione davanti a quella che era l’abside principale della chiesa: un indizio eloquente dell’attrazione che il ricordo del prestigioso edificio ormai scomparso continuava a esercitare.

DUE PALAZZI TURRITI E UN NUOVO RECINTO Un altro elemento di interesse, oltre alla chiesa, è un palazzo con torre situato a nord-ovest del pianoro sommitale, un edificio successivamente inglobato nel sistema difensivo realizzato in età federiciana. Si tratta di una costruzione simile a quella già individuata nel 1996 davanti alla chiesa di S. Giustina e in-

respiratorie, l’altro nella motricità – che ebbero pesanti conseguenze sulla qualità della loro vita. Lo studio in laboratorio sugli scheletri è appena agli inizi e molte informazioni – dalla dieta alle parentele, fino alla provenienza – restano ancora da scoprire e raccontare.

terpretata come residenza dei canonici della pieve. La torre, a pianta quadrata di 8 m per lato, è costruita con piccoli conci di trachite rettangolari disposti in corsi orizzontali, secondo una tecnica muraria che si ritrova in altri edifici del centro storico di Monselice, databili tra l’XI e il XII secolo. Potrebbe trattarsi della sede in cui il funzionario designato dall’imperatore gestiva il potere prima del suo spostamento, avvenuto nel corso del XIV secolo, nel grande palazzo – impropriamente definito «castello» – posto ai piedi della Rocca, acquisito nel 1935 dal conte Vittorio Cini e che da lui prende il nome. Gli archeologi hanno rinvenuto lo strato di abbandono dell’edificio, che includeva un deposito di piccoli oggetti di ferro probabilmente staccati dalla porta e da altre parti lignee per essere riciclati ma che per cause ignote rimasero abbandonati. Il complesso fortificato di Monselice era però molto piú composito e complesso. Diversi disegni e un affresco del XVII-XVIII secolo mo-

In alto: lo scavo di una delle sepolture altomedievali. A destra: resti di un forno per attività metallurgica utilizzato in rapporto alla realizzazione della fase romanica di S. Giustina.

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strano vari recinti fortificati a mezza costa, tra cui quello con una chiesa di S. Pietro, purtroppo distrutto dalle cave, e un altro con una chiesa intitolata a santa Maria «de Medio Monte», oggi scomparsa, ma immortalata in un disegno della fine dell’Ottocento. Proprio per rintracciare la chiesa, il recinto fortificato ed eventuali altre strutture ancora ignote, l’Ateneo di Padova ha effettuato quest’anno una serie di saggi di valutazione che hanno permesso

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di documentare, finora, una potente muratura e riportare alla luce ceramiche databili tra l’Alto Medioevo e l’epoca rinascimentale, tra le quali spicca un frammento di fiaschetta a stralucido con decorazione a stampiglia, tipica della prima occupazione longobarda. Oltre agli scavi, gli archeologi medievisti di Padova, con la direzione di Alexandra Chavarría Arnau, e in collaborazione con il Centro Interdipartimentale di Ricerca di Geo-

A destra: S. Maria de Medio Monte in un disegno del 1866 (o 1868). Nella pagina accanto, in alto: lo scavo della torre individuata nell’area nord del pianoro che si addossa all’edificio turrito.

Proposta ricostruttiva della sommità del colle di Monselice con la chiesa di S.Giustina e i due edifici residenziali dell’XI-XII sec.

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SCAVI • VENETO

La Resurrezione di Cristo, olio su tavola (trasferito su tela) di Giovanni Bellini. 1475-1479. Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie. Sulla destra, si riconosce la Rocca di Monselice, inserita come elemento del paesaggio. 54 a r c h e o


matica (CIRGEO) dell’Università, stanno predisponendo rilievi 3D della Rocca con moderni sistemi di rilevamento LiDAR e sul terreno (SLAM), per documentare le strutture architettoniche ed eseguirne la ricostruzione dello stato attuale e della forma originaria. A loro volta, specialisti di restauro e di ingegneria hanno condotto analisi diagnostiche con termocamere e prove soniche sul «Castello In alto: palazzo turrito o incastellato dell’XI-XII sec., rinvenuto a nord-ovest del pianoro, in corso di scavo. In basso: un insieme di oggetti di metallo, forse accumulati dopo l’abbandono e lo smontaggio degli elementi metallici della porta, rinvenuto davanti all’ingresso dell’edificio nord.

Cini» per identificare con precisione i restauri neomedievali promossi negli anni Trenta del secolo scorso dal conte Vittorio Cini. Questi studi hanno inoltre individuato una serie di danni nelle murature dovuti a eventi sismici, forse il grande terremoto che sconvolse la Pianura Padana nel 1117.

Oltre a svelare importanti dati di carattere storico, queste e altre ricerche offrono materiale per ulteriori progetti di ampio respiro per la conservazione e la valorizzazione della Rocca, un ecosistema complesso, costituito non solo da numerose strutture architettoniche, ma anche da terrazzi sostenuti da muretti a secco, danneggiato dalle cave di trachite e dai sempre piú evidenti effetti del cambiamento climatico. DOVE E QUANDO Per informazioni sulle attività didattiche realizzate alla Rocca di Monselice e per visite guidate, si può scrivere a: info@castellodimonselice.it.

PER SAPERNE DI PIÚ Gian Pietro Brogiolo, Alexandra Chavarría Arnau (a cura di), Monselice. Archeologia e architetture tra Longobardi e Carraresi, SAP Società Archeologica, Quingentole (Mantova) 2017 Gian Pietro Brogiolo (a cura di), Este, l’Adige e i Colli Euganei. Storie di paesaggi, SAP Società Archeologica, Quingentole (Mantova) 2017 Paolo Vedovetto, Archeologia a Monselice. Scavi sul Colle della Rocca e ricerche sull’abitato medievale, SAP Società Archeologica, Quingentole (Mantova) 2023 a r c h e o 55




INCHIESTE • ATLETA DI FANO

LE AVVENTURE DI UN «GIOVANE

VITTORIOSO» IL RECENTE PRONUNCIAMENTO DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO HA RIACCESO I RIFLETTORI SULLA VICENDA DELL’ATLETA DI FANO, LA MERAVIGLIOSA STATUA IN BRONZO ATTRIBUITA A LISIPPO E DETENUTA DAL GETTY MUSEUM. MA CHE SI SPERA DI VEDERE PRESTO TORNARE IN ITALIA di Mariateresa Curcio, Rachele Dubbini e Giuditta Giardini

L

a seconda vita dell’Atleta di Fano ha inizio al largo della costa marchigiana nell’estate del 1964, quando la statua in bronzo fu issata sul peschereccio Ferruccio Ferri, battente bandiera italiana e registrato presso la Capitaneria di Porto di Fano. Dal momento in cui la scultura, ricoperta da pesanti incrostazioni, è stata portata a bordo del vascello, essa è entrata non soltanto «in territorio italiano», come è stato ribadito, recentemente, dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ma anche nell’immaginario culturale dei Fanesi. Ogni abitante della cittadina marchigiana la cui famiglia faccia parte delle schiere dei cosiddetti «portulot» (termine dialettale che indica gli abitanti del porto, n.d.r.), è depositario di un aneddoto, tramandato oralmente, legato al ritrovamento del bronzo. C’è chi narra di come la statua sia stata rocambolescamente portata dal peschereccio 58 a r c h e o

Sulle due pagine: immagini della statua in bronzo a oggi variamente denominata, ma per la quale si predilige qui il nome di Atleta di Fano, perché portata a terra nella cittadina marchigiana. L’opera, attribuita a Lisippo, risale all’epoca ellenistica. È attualmente esposta nel Getty Museum di Malibu (California, USA).


alla piccola casa a schiera di Romeo Pirani, dove venne nascosta nel sottoscala; chi aggiunge dettagli olfattivi, come l’odore di pesce marcio, e, ancora, chi narra di visite segrete e riunioni di marinai locali per consigliare Pirani sul da farsi.

NASCOSTO FRA I CAVOLI Anche sul presunto trasporto della statua dal porto di Fano alla vicina località di Carrara si moltiplicano gli aneddoti: per alcuni Pirani dovette farsi prestare una Fiat 600 Multipla, una vettura extra large, dunque, tanto era grande il bronzo, mentre altri raccontano che, per coprire il fetore emanato dalle incrostazioni marine, la statua venne sepolta in un campo di cavoli (anche se non erano di stagione). Di certo, dopo il breve soggiorno fanese, la statua venne acquistata dalla famiglia Barbetti, imprenditori di Gubbio, che la collocarono nella vasca da bagno della canonica del prete eugubino don Giovanni Nagni. A questo punto la leggenda assume una dimensione internazionale. A Gubbio, come racconterà l’ex a r c h e o 59


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L’IMPORTANZA DEL NOME Giovane Vittorioso (Victorious Youth), Atleta Vittorioso, Getty Bronze, Atleta di Fano, Lisippo di Fano o anche, semplicemente, il Lisippo, particolarmente sentito dalla cittadinanza di Fano. Alcuni legati all’iconografia della statua, altri ad ambiti territoriali, altri ancora alla supposta attribuzione a Lisippo, ciascuno di questi nomi è specchio ed espressione delle diverse attenzioni e punti di vista non solo interpretativi, ma anche socio-culturali di cui essa è stata oggetto. Tra questi, le denominazioni Getty Bronze e Atleta di Fano contengono riferimenti territoriali e culturali che vanno diretti al punto, cioè alla questione della proprietà e del diritto di conservare ed esporre al pubblico la scultura, opponendo i poli del contenzioso internazionale sulla sua legittima destinazione: Stati Uniti d’America o Italia.

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San Marino

Pesaro

Mare Adriatico

Fano

Senigallia

Urbino

Ancona

Marche Fabriano

Lago Perugia Trasimeno

Macerata Civitanova Marche

San Severino Marche San Benedetto del Tronto

Tev ere

Umbria

Ascoli Piceno

Teramo

Nella pagina accanto: un’altra veduta dell’Atleta di Fano. In basso: l’unica foto a oggi nota della statua dopo il recupero, ancora coperta da pesanti incrostazioni.

1973. Nel luglio 1973, i Carabinieri del Comando TPA (oggi TPC, Tutela del Patrimonio Culturale) informavano la Procura della Repubblica di aver accertato la presenza della statua presso l’atélier del «noto» antiquario Herzer. Fu cosí istituito dalla Pretura di Gubbio un procedimento (n. 993/1973), definito tre anni dopo, il 29 maggio 1976, con sentenza di non doversi procedere per essere rimasti ignoti gli autori del reato. Fu quella la genesi del primo procedimento penale tedesco iscritto il 3 agosto 1973 per ipotesi di ricettazione, conclusosi quasi venti giorni dopo con ordine di sospensione del procedimento (a cui farà seguito un

direttore del Metropolitan Museum Thomas Hoving, i curatori dei piú ricchi musei del mondo, come Dietrich von Bothmer, specialisti di case d’aste e mercanti d’arte, come Elie Borowski, tirano la tenda della vasca da bagno del prete per dare un’occhiata a questo incredibile ritrovamento e fanno un’offerta.

IL SEQUESTRO MANCATO A incrinare il vetro dell’omertà del mondo marinaio e del mercato dell’arte, c’è sempre un gossip «buono». Quando la notizia del ritrovamento giunse anche alla Procura di Gubbio, fu aperta un’indagine che si risolse rapidamente in un nulla di fatto. Il decreto di perquisizione del 24 giugno 1965 a fine di sequestro non ebbe esito, perché la statua era stata tempestivamente trafugata dal luogo segnalato (la famosa canonica), rendendo vano ogni intervento. Nel frattempo, l’Atleta venne acquistato ed esportato illegalmente dall’Italia da Heinz Herzer, un mercante d’arte di Monaco di Baviera, in qualità di socio del consorzio londinese Artemis, costituito ad hoc per gestire l’operazione di fuoriuscita, restauro e successiva vendita della statua. Herzer fu il detentore materiale dell’opera fra il 1971 e il

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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secondo processo, anch’esso archiviato). La richiesta di assistenza giudiziaria italiana del 9 gennaio 1974 verso la polizia tedesca per il sequestro della statua venne rigettata in quanto l’esportazione clandestina, al tempo, non era un reato passibile di estradizione in Germania. Le prime indagini e i primi procedimenti fallirono per tre ordini di ragioni: la prima e principale è la condotta criminosa del consorzio che cercò in ogni modo di occultare la statua, rifiutandosi di for-

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nirne prova fisica; vi è poi l’assenza di collaborazione tra le procure e le forze di polizia straniere; mentre la terza ragione, che è conseguente alle precedenti, riguarda l’impossibilità di stabilire la coincidenza tra la statua reclamata e quella posseduta da Herzer sia in Germania, sia, successivamente, nel Regno Unito. Fino a quel momento, infatti, non erano note alla Procura le fattezze della scultura, ma solo i fatti costituenti reato. Mentre nel luglio 1977, nonostante

il parere contrario del suo fondatore, ormai deceduto, il Paul Getty Museum decideva di procedere all’acquisto del bronzo per 3 950 000 dollari da Antiken Herzer & Co. (quale agente di Etablissement, società del Lichtenstein interamente posseduta da Artemis Consortium), in Italia veniva aperto un secondo procedimento (n. 1367/1977), sulla base di un esposto anonimo. A suffragio dell’esposto vi erano, tra le varie risultanze, le dichiarazioni di un antiquario di Imola,


Renato Merli, il quale aveva esibito e consegnato l’unica fotografia della statua presente in Italia (che la mostra ricoperta dalle incrostazioni) e la prova che i documenti di esportazione dall’Italia non erano stati rilasciati da competenti autorità dello Stato, ma dallo studio legale Graziadei-Manca, legali dello stesso Artemis, cosí come i pareri legali pro parte per il via libera all’acquisto. Ciononostante, e a dispetto della documentazione acquisita, nel novembre del 1978, il A destra: la prima pagina del numero del marzo 1992 del Lisippo, Il Mensile di Fano. La scelta del periodico locale di prendere nome dall’artista greco e dalla statua a lui attribuita è un segno evidente del legame fra gli abitanti della cittadina marchigiana e il bronzo conteso. A sinistra: la copia dell’Atleta di Fano realizzata dell’artista fanese Paolo Furlani e collocata lungo la passeggiata del porto della città, detta «del Lisippo».

procedimento eugubino si concluse con sentenza 212/1978 di non doversi procedere per essere rimasti ignoti gli autori del fatto.

LA «COSTRUZIONE» DI UN’IDENTITÀ Come accade spesso con l’immissione sul mercato di beni archeologici di recente scavo clandestino, chi vende deve dimostrare al potenziale acquirente che l’opera d’arte è genuina, ha un’origine ben precisa, un esatto luogo di rinvenimento e magari porta su di sé ancora tracce di terra o concrezioni marine a riprova dell’autenticità; mentre l’acquirente deve restituire al pubblico l’idea che l’opera d’arte abbia tutte le carte in regola per passare di mano o, addirittura, essere esposta in un museo. Di questa operazione fu incaricato Herzer, il quale, se da un lato, con i suoi resoconti teneva aggiornato

sulle peripezie della statua il curatore del Getty Museum, Jirí Frel (uomo non lontano dagli ambienti del traffico illecito di opere d’arte italiane), dall’altro schivava perquisizioni e sequestri, riscrivendo la storia dell’opera. Nello studio che Jirí Frel preparò per il comitato di acquisizione del Getty Museum la provenienza dell’Atleta è immacolata, non c’è alcun riferimento alle vicende processuali che interessavano la statua o al suo essere stata trovata in Italia: l’opera restituita dal mare viene attribuita a Lisippo, come era già stato ipotizzato da Herzer e da Bernard Ashmole, a cui Paul Getty aveva chiesto di esaminarla prima dell’acquisto; è quindi greca e viene battezzata The Getty Bronze, letteralmente il «Bronzo del Getty». Mentre in Italia continuavano a piú riprese i processi di vario grado a r c h e o 63


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contro i marinai che avevano rinvenuto la statua in mare, ormai resi noti dalle indagini, fino ad arrivare alla pronuncia conclusiva dalla Corte di Cassazione del 30 novembre 2018, n. 22, che ratificava l’ordine di confisca del Giudice di Pesaro dell’8 giugno 2018, a Malibu continuava l’operazione di re-branding, sulla falsariga di quella che, anni prima, aveva interessato i Marmi «del Partenone» al British Museum, ribattezzati «The Elgin marbles» cioè i «Marmi di Elgin». Questo processo di re-branding di opere d’arte originate altrove venne consacrato dalla teoria dell’internazionalismo culturale postulata dal professore della Scuola di Legge della Università di Stanford (vicina al Getty Museum), John Henry Merryman nel libro Thinking about the Elgin Marbles. Nel saggio, Merryman sostiene che le opere d’arte appartengono al mondo intero o comunque a chi abbia piú finanze per garantire le migliori opportunità di conservazione e valorizzazione, condannando il protezionismo degli Stati d’origine. Non fu quindi un caso, se nel 2018, la vicepresidente del Getty Museum, che in precedenza lavorava a Stanford, commentò sulle pagine del sito del museo la sentenza della Cassazione italiana con un articolo intitolato «Talking about the Getty Bronze», in cui ribadiva ciò che già risultava chiaro dal nome del bronzo, ossia l’indiscussa proprietà del Getty Museum, da piú di quarant’anni.

UN VERO CAPOLAVORO? Della statua in bronzo che raffigura un giovane nell’atto di incoronarsi, di dimensioni leggermente inferiori al vero, realizzata in epoca ellenistica da una bottega verosimilmente greca e rinvenuta in mare non lontano dalla costa marchigiana, non abbiamo notizie ulteriori rispetto a quelle qui elencate. Si tratta di un’opera per la quale mancano indizi archeologici e di cui restano ignoti l’effet64 a r c h e o

LA STATUA CONTESA, CRONISTORIA DELL’ATLETA DI FANO 1964 La statua in bronzo dell’Atleta viene rinvenuta a largo della costa marchigiana e issata a bordo del peschereccio Ferruccio Ferri. Dal porto di Fano viene collocata dalla famiglia di imprenditori Barbetti, che l’ha appena acquistata senza darne comunicazione allo Stato, nella vasca da bagno della canonica di Gubbio 1965 La procura di Gubbio procede a una perquisizione a fine di sequestro della statua, ma senza successo, poiché l’Atleta è già stato trafugato dalla canonica. 1971-1973 La statua è nelle mani dell’antiquario e mercante d’arte Heinz Herzer di Monaco di Baviera. L’antiquario viene indagato in Germania (grazie a un procedimento aperto in Italia) per il sequestro e la ricettazione dell’opera, ma prosciolto . 1977 Il Paul Getty Museum acquista la statua nel Regno Unito, da Antiken Herzer & Co, per la somma di 3 950 000 dollari. L’Italia


La sala del Getty Museum di Malibu in cui è esposto l’Atleta di Fano. In basso: la didascalia che ripercorre la storia del ritrovamento della statua.

apre un secondo procedimento per esportazione illecita, ma senza successo. 1978 La statua viene esposta al Getty Museum di Malibu e battezzata The Getty Bronze (Il bronzo del Getty). 2007 L’associazione culturale marchigiana «Le cento Città» presenta un esposto alla Procura della Repubblica di Pesaro per l’esportazione illecita della statua. 2007-2024 Il Tribunale di Pesaro ordina per tre volte la confisca della statua e la sua restituzione all’Italia. Il Getty Museum ne rivendica la proprietà e presenta ricorso. 2024 La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo respinge il ricorso contro l’ordinanza del giudice di Pesaro. La sentenza dà il via libera alla rogatoria (già depositata nel 2019) presso gli Usa per la restituzione della statua all’Italia.

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UNA BATTAGLIA VINTA, PER ORA Il 2 maggio scorso, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha rigettato il ricorso con il quale il Getty Museum lamentava la presunta violazione da parte dell’Italia dell’articolo 1 del Primo Protocollo della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, ossia del diritto di godere della proprietà della statua senza interferenze. Per ribadire la decisione presa, la Corte EDU ha scelto con cautela di riferirsi al bronzo come Alteta Vittorioso, Atleta di Fano o anche Lisippo di Fano. Il ricorso alla Corte di Strasburgo è un procedimento incidentale e separato dalla ratifica dell’ordine di confisca del Giudice pesarese. L’Attorney General sta al momento verificando che il processo svoltosi in Italia (fino in Cassazione) non abbia violato il due process sostanziale e processuale del museo statunitense e poi, se cosí sarà, la Corte Distrettuale federale californiana darà il via libera alla confisca.

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tivo contesto di ritrovamento e, soprattutto, di esposizione originaria, insieme alla funzione, alla cronologia e allo specifico modello di riferimento. Per contro, essa ha goduto e gode tuttora di una fama particolare, che l’ha fatta entrare nella cerchia dei capolavori dell’arte greca. L’eccezionalità dell’Atleta, infatti, risiede innanzitutto nella materia in cui è plasmata: a causa dell’esiguo numero di statue in bronzo

pervenuteci dall’antichità (in epoca post-antica quasi tutte le opere in metallo, tranne alcune fortunate eccezioni, sono state rifuse) e alla mancanza, come in questo caso, di dati archeologici esaustivi, la tendenza degli studiosi è stata quella di trattare ciascun esemplare come una creazione unica, da attribuire al nome di un artista famoso. In questo caso gli studi tradizionali, come quelli di Jirí Frel, Paolo Mo-

L’Eros dal relitto di Mahdia (Tunisia), probabilmente realizzato a partire dallo stesso modello dell’Atleta di Fano. Tunisi, Museo del Bardo. Nella pagina accanto: ancora un’immagine dell’Atleta di Fano.

reno e Antonietta Viacava, hanno tentato, su base stilistica, di attribuire l’opera alla mano del famoso scultore Lisippo di Sicione, attivo alla corte di Alessandro Magno. D’altronde, come ricorda Plinio nella sua Storia Naturale (XXIV, 37), a questo autore (alla sua bottega) erano attribuite ben 1500 opere: una produzione straordinaria di statuaria, che rispondeva a commissioni provenienti da diverse parti del Mediterraneo e che quindi, secondo gli studiosi, poteva ben comprendere anche il giovane atleta ritrovato nelle acque marchigiane.

STILI DI LUNGA DURATA Varie caratteristiche formali riconducono l’opera a uno stile «lisippeo», come la testa piú piccola rispetto al corpo, le proporzioni slanciate grazie anche al busto e agli arti allungati, il movimento sinuoso e libero nello spazio, l’espressione intensa del volto. Caratteristiche che, tuttavia, non sono esclusive della scuola lisippea: le fattezze anatomiche in nudità del giovane rappresentano sostanzialmente i tratti distintivi di uno stile generale riferito al trattamento del corpo maschile, sviluppato dalla cultura greca già in epoca classica e quindi affermatosi come espressione canonica dei valori classici per secoli. E proprio la longevità di questi canoni rende l’opera straordinariamente difficile da valutare solo su base stilistica: gli stessi curatori del Getty Museum, nelle pubblicazioni piú recenti, inquadrano la statua come una rielaborazione della scuola lisippea, collocandone l’esecuzione in un arco cronologico che spazia tra il 300 e il 150 a.C. Come già detto, l’attribuzione a Lisippo nasce da motivazioni di carattere prettamente economico e basate un ragionamento di tipo predittivo, per cui l’effetto determina la causa: dal momento che le statue di bronzo conservate fino a oggi sono poche, queste risultano per noi eca r c h e o 67


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cezionali e, di conseguenza, se sono eccezionali, non possono che essere attribuite a un’artista famoso. È quindi il riconoscimento collettivo (di studiosi, musei, pubblici, comunità) che ha permesso a questo oggetto di non essere trattato come una «semplice» statua, ma di essere ascritto a uno dei pochi artisti noti dell’antichità: il processo di riconoscimento artistico ne ha fatto un’opera d’arte straordinaria a livello mondiale, utile sostegno alla «teoria dell’internazionalismo culturale» e alla causa del Getty. L’attribuzione del pezzo a Lisippo e la sua interpretazione quale raro bronzo originale greco cementano, inoltre, il rapporto dell’opera con il mondo greco, mettendone in dubbio il legame storico con il contesto di rinvenimento e le ragioni culturali della restituzione all’Italia.

In alto: Fano. La Porta di Augusto, ingresso monumentale della via Flaminia. Nella pagina accanto: l’Idolino di Pesaro, un altro bronzo che può essere accostato all’Atleta di Fano e appartenente allo stesso contesto geografico. Seconda metà del I sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

nalità doveva essere legata a un contesto d’eccezione: uno spazio pubblico e in particolare – tra gli spazi pubblici in cui a una statua di vincitore poteva essere garantita la massima visibilità a livello mediterraneo – un santuario panellenico come quello di Olimpia. Si è arrivati di conseguenza a credere che l’opera fosse stata creata per essere esposta in tale contesto e che qui si trovava quando sarebbe stata portata via, come bottino o come oggetto di commercio, dai Romani. L’imbarcazione romana che in epoca antica avrebbe trasportato l’Atleta dalla Grecia all’Italia, percorrendo le rotte adriatiche, sarebbe quindi naufragata a sud del promontorio del Conero, cosí che la statua non UN GIOVANE ADRIATICO Secondo i curatori del Getty Mu- avrebbe mai toccato terra nel nostro seum, se la statua è un’opera artisti- Paese, prima di arrivare al porto di ca del mondo greco, la sua eccezio- Fano negli anni Sessanta. Di conse68 a r c h e o

guenza, non ci sarebbe alcuna ragione per considerarla parte del nostro patrimonio culturale. Tuttavia, una simile argomentazione non ha fondamento: non esiste alcuna prova del fatto che la statua si trovasse su un’imbarcazione proveniente dalla Grecia. In generale, non abbiamo elementi a supporto dell’ipotesi che l’Atleta fosse parte del carico di una nave antica. Facendo invece riferimento a un dato conosciuto, anche se relativo, come il numero dei relitti finora individuati in Adriatico, sono testimoniati naufragi avvenuti sostanzialmente in tutte le epoche storiche. Cosí come è stata considerata l’ipotesi che la statua viaggiasse su un’imbarcazione antica, bisogna vagliare seriamente la possibilità che, in età antica, la scultura fosse esposta in un contesto dell’area


adriatica (o perché commissionata o acquistata da un sito di cultura greca già in epoca ellenistica o perché acquisita in una fase successiva all’interno del mercato romano) e che qui si trovasse al momento del suo trafugamento, che può essere avvenuto in epoca medievale (è nota, per esempio, la spoliazione di cui furono vittime vari siti del Mediterraneo per ornare la nuova capitale dell’impero romano d’Oriente) o moderna. Il medio e alto Adriatico era costellato di siti greci o con una forte componente greca già in epoca classica (per esempio, Spina) e la componente culturale greca si rafforza ulteriormente proprio in epoca ellenistica, in relazione alla politica di Dionigi di Siracusa, come dimostra il caso della città di Ancona. In questa prospettiva, nulla esclude che la statua sia stata prodotta da una bottega greca attiva in Italia per un contesto greco o di cultura greca situato nella nostra penisola.

UN MODELLO DI SUCCESSO Una prova del legame storico dell’opera al contesto di rinvenimento è comunque fornita dalla notorietà di questo tipo di atleta vincitore nella cultura romana. Ancora in epoca imperiale, stando alla testimonianza del periegeta Pausania, la maggior parte di statue di atleti dedicate all’interno dei santuari greci (gli «originali» creati da autori famosi) era ancora al proprio posto. Per soddisfare quindi la richiesta dei modelli piú celebri (si pensi solo al caso del Discobolo, per esempio) da impiegare per la decorazione di edifici pubblici (terme, teatri, stadi, ecc.) e privati (sedi di associazioni atletiche, ville aristocratiche, ecc.) esisteva già in epoca ellenistica una produzione e un mercato specifici di copie, curati da botteghe greche. A Roma, dalla fine dell’età repubblicana il mercato dell’arte era in a r c h e o 69


INCHIESTE • ATLETA DI FANO

QUALE FUTURO IN ITALIA? Al momento dell’auspicata restituzione all’Italia, è molto probabile che la statua venga inizialmente esposta al pubblico a Roma, presso il Museo dell’Arte Salvata, allestito per ospitare temporaneamente le opere trafugate, disperse, vendute o esportate illegalmente dall’Italia e poi restituite al nostro Paese. La richiesta della città di Fano di poter essere il luogo deputato all’esposizione permanente della statua è stata seriamente presa in considerazione dal Ministero della Cultura nell’ambito del progetto di istituire, su tutto il territorio nazionale, varie succursali del museo, intese come gli istituti designati dallo Stato per valorizzare il patrimonio culturale italiano proveniente da operazioni di recupero, nel contesto del proprio territorio di pertinenza e appartenenza. In tale prospettiva, Massimo Osanna, Direttore generale Musei presso il Ministero, ha proposto di istituire a Fano la sede marchigiana del Museo dell’Arte Salvata.

grado di soddisfare le richieste di collezionisti facoltosi alla ricerca di pezzi dal gusto antiquario: non solo statue veramente antiche, ma anche nuove produzioni, sia fedeli al prototipo prescelto, sia pastiches in cui si mescolavano stili e modelli diversi. In questa prospettiva, l’utilizzo del bronzo non era destinato a opere eccezionali, ma, al contrario, era funzionale a una piú rapida riproduzione in serie di tali modelli. In conclusione, lungi dall’essere una produzione unica del mondo greco, il giovane atleta proveniente – almeno a oggi – dall’Adriatico era probabilmente una rielaborazione, in una scala leggermente inferiore al vero, di un prototipo

statuario molto noto e ricercato nel mondo antico, che – a seconda del committente e della funzione decorativa della nuova produzione – poteva anche essere rimodellato nelle proporzioni e aggiungendo le ali, cosí da trasformare un giovane atleta in un Eros bambino.

monia quanto poco unica fosse in antichità la statua adriatica. In questa prospettiva, la raffigurazione del fanciullo che si incorona (o che, piú modestamente, si toglie la corona della vittoria per dedicarla agli dèi; vedi foto a p. 67) può essere letto in chiave intimistica, come tema di genere, molto ricercato e apprezzato nel mondo ellenistico e quindi romano per la decorazione di abitazioni e spazi privati, piuttosto che come rappresentazione «reale» di un atleta vincitore. Nel contesto medio-adriatico, simile all’Atleta, per dimensioni e libertà compositiva, è il famoso Idolino di Pesaro, una rielaborazione in bronzo di uno o di piú modelli di atleta di ambito policleteo (vedi foto a p. 69). La statua doveva decorare la ricca domus della famiglia senatoria degli Aufidii Victorini a Pesaro, qualche chilometro a nord di Fano.

VARIAZIONI SUL TEMA È questo il caso della statua in bronzo rinvenuta nel relitto di Mahdia, in Tunisia, che, insieme alle altre numerose copie del tipo dell’atleta vincitore, prodotte dall’età ellenistica per tutta l’epoca imperiale con funzioni e qualità diverse tra loro (opere scultoree e di toreutica, coroplastica, gemme e monete), testi-

L’interno della Porta di Augusto a Fano, databile al 9-10 d.C.

PER SAPERNE DI PIÚ Jessica Clementi, Mariateresa Curcio e Rachele Dubbini (a cura di), Un Atleta venuto dal mare. Criticità e prospettive di un ritorno, «L’Erma di Bretschneider», Roma 2023 70 a r c h e o



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MOSTRE • CAMPANIA

Il Castello aragonese di Baia, i cui spazi ospitano il Museo Archeologico dei Campi Flegrei, sede della mostra «La pittura della voce. L’alfabeto prima e dopo Cuma».

UNA STORIA FATTA DI SEGNI VIVIAMO NEL PIENO DI UNA RIVOLUZIONE DEI MEZZI E DELLE MODALITÀ DELLA COMUNICAZIONE SCRITTA: UNA TRANSIZIONE PARAGONABILE A QUELLA, CRUCIALE, DELLA DIFFUSIONE DELL’ALFABETO? UNA RAFFINATA MOSTRA ALLESTITA NEL CASTELLO ARAGONESE DI BAIA AFFRONTA LA QUESTIONE, ESPONENDO UN’ANTOLOGIA DELLE PIÚ SIGNIFICATIVE MANIFESTAZIONI DELLA SCRITTURA NELL’ITALIA ANTICA di Fabio Pagano, Carlo Rescigno e Matilde Civitillo 74 a r c h e o


In alto: lekythos di tipo protocorinzio di produzione pithecusano-cumana. Fine dell’VIII sec. a.C. Cuma, Museo archeologico dei Campi Flegrei. In basso: la kotyle nota come Coppa di Nestore, della necropoli di Pithecusae, Valle San Montano. Seconda metà dell’VIII sec. a.C. Lacco Ameno (Ischia), Museo Archeologico di Pithecusae.

N

el 1928, uno tra i piú celebri filologi classici, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff (1848-1931), concepiva la «creazione» dell’alfabeto (greco) come fatto puntuale, avvenuto a opera di un famoso «ignoto benefattore dell’umanità». Tale invenzione avrebbe costituito uno dei piú prodigiosi vettori di civilizzazione e progresso della civiltà greca (e, con essa, di quella occidentale), segnando un cambiamento epocale anche nel progresso cognitivo dell’umanità. Tuttavia, sembra oggi piú verosimile che la diffusione di tale potente strumento non sia da interpretare in termini di monogenesi, a r c h e o 75


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ma come frutto di un lungo processo – contraddistinto da una intricata rete di stimoli, creazioni indipendenti, sperimentazioni locali –, al quale parteciparono diversi intermediari in diversi momenti e in diversi luoghi. In questa pagina: cippo recante un’iscrizione in scrittura messapica, da Nardò (Lecce). Seconda metà del VI a.C. Lecce, Museo Sigismondo Castromediano. Nella pagina accanto, in alto: oinochoe con iscrizione in alfabeto «nocerino», da Nocera Superiore, località Pareti. VI sec. a.C. Nocera Inferiore, Museo Archeologico Provinciale dell’Agro Nocerino. Nella pagina accanto, in basso: anforetta in bucchero con iscrizioni graffite sul corpo del vaso, da Veio, località Monte Aguzzo. 630-620 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. 76 a r c h e o

LE PRIME SPERIMENTAZIONI L’inizio di questo labirintico percorso si colloca nel Levante della seconda metà del II millennio a.C., dove era in uso una pluralità di alfabeti consonantici, tra loro correlati e in fase di vivace sperimentazione, che si stavano gradualmente sviluppando nel repertorio di forme segniche che si troverà poi standardizzato nelle attestazioni piú antiche dell’alfabeto consonantico fenicio. Da questo, intorno al IX secolo a.C., sarebbero derivati, per adeguamento dei caratteri fenici alle esigenze della lingua greca, gli alfabeti regionali greci, finché

uno di questi, quello euboico, sarebbe poi approdato sulle coste campane nell’VIII secolo a.C. La mostra «La pittura della voce. L’alfabeto prima e dopo Cuma» narra, attraverso l’esposizione di alcune tra le piú significative iscrizioni alfabetiche a oggi rinvenute, riunite per la prima volta nel Museo archeologico dei Campi Flegrei nel Castello di Baia, il passaggio dell’alfabeto greco in Occidente e la graduale nascita della costellazione di alfabeti che furono in uso dell’Italia antica. Dopo la sua introduzione da parte dei naviganti euboici prima a Pithecusa e poi a Cuma, infatti, la pratica della scrittura si diffuse rapidamente e, nel corso del VI secolo a.C., assunse un valore identitario, dando vita a tradizioni grafiche diverse, derivate dall’alfabeto greco direttamente o attraverso la mediazione etrusca o latina. Mentre gli alfabeti in uso nell’Italia meridionale (scritture enotria, au-


ne ottica realizzata in occasione dell’evento, il limite meridionale del Lazio, da dove la scrittura si diffuse alle culture dell’Italia centrale.

INCROCI DI LINGUE Nessuno degli alfabeti documentati nell’esposizione è presentato come entità monolitica. Le iscrizioni selezionate, infatti, ben rappresentano i singolari «incroci» tra lingue e tradizioni grafiche, colti in una precoce fase di adattamento. Un esempio significativo è una kylix a vernice nera di tipo attico proveniente da Nola, che presenta un’iscrizione in alfabeto etrusco e lingua osca (che dichiara l’appartenenza dell’oggetto a Lucio Nevio; vedi foto a p. 78, in basso) a ben rappresentare l’incrocio tra lingue diverse nella Campania interna del V secolo a.C. Ancor di piú lo è, forse, l’iscrizione presente sull’olla di Osteria dell’Osa, che testimonia la prima diffusione dell’alfabeto euboico nel Lazio già nell’VIII secolo a.C. (vedi foto a p. sone, messapica, sicula, elima e lucana) derivano direttamente da un modello greco, quello etrusco, pure a base greca, venne trasmesso e adattato sin dall’epoca alto-arcaica ad altre lingue di area centro-settentrionale (come quelle latina, falisca, leponzia, paleo-italiche, camuna, retica, veneta, umbra, pre-sannitica, osca). Infine, assai piú tardi, dal modello latino gemmarono nuove scritture derivate (come quelle ernica, peligna, vestina, marrucina, volsca, tardo-umbra e tardo-lucana). Narrare questo lungo processo è, dunque, lo scopo della mostra, che non a caso è ospitata nel Castello aragonese di Baia. Dalla sua terrazza superiore, infatti, è possibile abbracciare con lo sguardo non solo Ischia e Cuma, luoghi di approdo dell’alfabeto greco in Occidente, ma anche, attraverso un’installazioa r c h e o 77


MOSTRE • CAMPANIA

80). Composta di cinque lettere, questa rappresenta una singolare intersezione fra differenti alfabeti e lingue, essendo stata interpretata come un testo greco (eulin, euoin, eunin o eulis) o latino (Ni lue), se non come una pseudo iscrizione, dimostrando come, a una quota cronologica cosí alta, la stabilizzazione di un codice univoco per una data lingua risultasse ancora labile. Parallelamente, la scelta dei manufatti esposti intende costruire anche un percorso di riflessione piú ampio, centrato sul significato della scrittura in rapporto alle culture e sulle forme alternative di trasmissione del sapere, spingendoci a riflettere sulle variabili della comunicazione. Cosí come nella fase cruciale

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A destra: fibula in oro «a drago» con staffa allungata, nota come Fibula Prenestina, da Palestrina. Metà del VII sec. a.C. Roma, Museo delle Civiltà. In basso: kylix con iscrizione pre-sannitica, da Nola. Metà del V sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.


Nell’antichità come oggi, la comunicazione orale e quella scritta non sono fenomeni tra loro contrapposti

della piú ampia diffusione dell’alfabeto Platone si fa promotore di una famosa invettiva contro il discorso scritto, intrisa di timore per la progressiva espansione del veicolo alfabetico a scapito della trasmissione orale delle conoscenze e della funzione della memoria come custode di esse, cosí anche oggi è percezione largamente diffusa quella di vivere nel pieno di una rivoluzione dei mezzi, degli strumenti e delle modalità della comunicazione scritta.

sua codificazione iconico-simbolica stia ritrovando spazi che non aveva piú da millenni. A ben guardare, tuttavia, la comunicazione orale e quella scritta emergono – nell’antichità come oggi –

In basso: ciottolo iscritto in alfabeto osco, da Altilia (Saepinum). Fine del III-inizi del I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Vi si legge: «Chi (sei) tu? Io sono una pietra. Di chi? Di Adius figlio di Aefinius».

UNA «DERIVA» IDEOGRAFICA? Viviamo, dunque, in una ennesima fase di transizione tra diversi modi di comunicare, certo non la prima nella storia delle società umane, ma contraddistinta dalle stesse incertezze e domande. Dopo secoli di uso dell’alfabeto fonetico, i mutamenti che segnano la comunicazione scritta, in cui sempre piú largo uso è accordato a segni di natura iconica, hanno infatti spinto a chiedersi se non ci stiamo nuovamente avviando verso forme di comunicazione di tipo ideografico e se questa «deriva», in definitiva, non possa adombrare il ritorno a una nuova cultura dell’oralità, dove il gesto e la a r c h e o 79


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non come fenomeni contrapposti, secondo un paradigma tradizionale che vorrebbe un passaggio graduale, netto e irreversibile dalla prima alla seconda. Infatti, non solo le due forme di comunicazione sono state e sono perennemente coesistenti nella trasmissione del pensiero, ma la

scrittura stessa trova le sue radici in segni grafici dapprima comunicanti un significato culturale e poi, eventualmente e gradualmente (ma mai linearmente), selezionati per ricevere anche una codifica linguistica. Nel 1964, nel famoso saggio Il gesto e la parola, André Leroi-Gourhan

(1911-1986) indagava l’evoluzione della comunicazione umana a partire dal gesto, e suggeriva che, a partire dai mitogrammi, il pensiero razionalizzante avrebbe preso il sopravvento su quello mitico, linearizzando i simboli e producendo i primi segni grafici, donde sarebbe derivata la scrittura. Gli studi piú recenti, sebbene condotti su basi documentarie e attraverso metodologie piú attuali, confermano che la scrittura emerge da precedenti pratiche di comunicazione eminentemente iconica, attestate su supporti e provviste di finalità diverse a seconda delle culture nell’ambito delle quali emergono, non sempre facili da ricostruire.

UNITÀ DINAMICHE Tuttavia, se l’evoluzione culturale, nel Mediterraneo antico, ha privilegiato una codifica dei segni di scrittura in senso fonetico, producendo scritture alfabetiche, i segni di qualunque scrittura (sia provvista di una componente ideografica, sia logo-sillabica, sia alfabetica) sono A sinistra: olla recante un’iscrizione che testimonia la prima diffusione dell’alfabeto euboico nel Lazio, dalla necropoli di Osteria dell’Osa, presso Gabii. VIII sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano.

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Sima frontale con antefissa, da Sibari, Parco del Cavallo, Plateia A. 580-560 a.C. Sibari, Museo Nazionale Archeologico della Sibaritide.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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sempre unità intrinsecamente dinamiche nel rimando a «significanti» che costruiscono testi comprensibili solo attraverso l’interazione con i lettori, i quali li interpretano secondo ciò che hanno «imparato a vedere» in quei segni e nei precisi contesti di ricorrenza degli stessi. E, dunque, ci sono il «gesto» (e il canto, la declamazione) e, insieme (eventualmente), la sua notazione fonetica, non l’evoluzione teleologica dall’uno all’altra. La tradizionale visione alfabetocentrica (ed eurocentrica) della 82 a r c h e o

A sinistra: aryballos corinzio iscritto, dall’area tarantina. 570 a.C. circa. Grottaglie, Museo della Ceramica. A destra: piramide iscritta a sezione rettangolare, da San Mauro Forte (Matera). Fine del VI sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: pisside stamnoide con serie alfabetica in lettere greche, da Metaponto, necropoli di Contrada Casa Ricotta. Inizi del V sec. a.C. Metaponto, Museo Archeologico Nazionale.

scrittura, invece, basata sulla riflessione aristotelica e sostanziata da influenti riflessioni, come quella dell’orientalista statunitense Ignace Gelb (1907-1985), ci aveva insegnato a concepire la storia delle scritture come caratterizzata da

uno sviluppo unidirezionale lungo una traiettoria che si sarebbe sviluppata da forme semasiografiche di pre-scrittura (immagini per i concetti), attraverso l’impiego del principio del rebus (riconoscimento dei suoni della parola rappresen-


tata nel segno, ancora fortemente iconico), fino a diversi stadi della fonografia (sistemi logosillabici, sillabici e poi alfabetici), laddove ogni passo avrebbe rappresentato un progressivo miglioramento rispetto ai sistemi scrittori precedenti.

Di conseguenza, sulla base delle sue caratteristiche strutturali (prima fra tutte, l’economicità derivante dal ristretto numero dei segni che lo compongono) e della sua grande diffusione, la scrittura alfabetica è stata vista come il mo-

mento apicale nel lungo processo che, a partire dai primi «esperimenti» condotti nel Vicino Oriente antico o nell’Egeo protostorico, avrebbe visto l’avvicendarsi di diversi sistemi scrittori che, complessivamente, venivano implicitamena r c h e o 83


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te o esplicitamente relegati a stadi primitivi di un presunto «progresso» che avrebbe condotto filogeneticamente alla pratica alfabetica. Questa visione per cosí dire «darwiniana» dello sviluppo delle scritture è stata oggi superata per lasciare spazio a una interpretazione della scrittura (non solo alfabetica) come fenomeno flessibile, vivo e cangiante, sempre al servizio di lingue e culture diverse, che ne fecero uso per disparate finalità. E dunque non esisterà (ieri come

oggi) una scrittura (o, piú in generale, una modalità di comunicazione scritta) «piú perfetta» di un’altra, ma piú adeguata a precisi scopi comunicativi.

COME UN’ANTOLOGIA Per questo motivo, i contesti – insieme ai materiali, agli strumenti di esecuzione delle iscrizioni, agli scriventi e ai lettori-fruitori – non sono da intendersi come mero corredo documentario annesso ai testi, ma come chiave imprescin-

Laminetta aurea iscritta, da Thurii, tomba monumentale del Timpone grande. IV sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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dibile per intendere questi ultimi, poiché, nella loro codificazione, «preparano» il lettore al contenuto che avrà imparato ad aspettarsi in quel definito contesto comunicativo. Per questo motivo, nella scelta dei manufatti in mostra è stata posta grande attenzione affinché essi potessero rappresentare una sorta di piccola antologia delle manifestazioni delle scritture alfabetiche dell’Italia antica. Affidati a strumenti e supporti diversi, eseguiti da svariati scriventi e


destinati a un «pubblico» variabile, essi rappresentano una carrellata dei «generi» delle piú antiche manifestazioni scritte provenienti dalla nostra penisola: dalle iscrizioni di dono alle firme di artista, dalle maledizioni alle istruzioni per il viaggio nell’Ade, dalle dediche ai versi di sapore omerico, dalle compravendite alle prescrizioni religiose, dalle iscrizioni di possesso ai manifesti elettorali. In un viaggio tra contesti privati, funerari, simposiali, religiosi e politici.

La mostra «La pittura della voce. L’alfabeto prima e dopo Cuma» fa parte di un progetto cofinanziato dallo Stato Italiano e dalla Regione Campania, l’esposizione ed è stata promossa dal

Parco archeologico dei Campi Flegrei in collaborazione con il Dipartimento di Lettere e Beni Culturali dell’Università degli Studi della Campania «Luigi Vanvitelli». Del comitato scientifico che l’ha realizzata hanno fatto parte: Giuseppe Camodeca, Matilde Civitillo, Giovan Battista D’Alessio, Gianluca Del Mastro, Silvia Ferrara, Cherubino Gambardella, Louis Godart, Massimo Osanna, Fabio Pagano, Cristina Pepe, Antonio Perri, Paolo Poccetti, Carlo Rescigno, Michele Stefanile.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces. Papiro con testo in demotico, dal Fayyum (Egitto). Fine del III-inizi del II sec. a.C. Salerno, Università degli Studi, Dipartimento di Studi Umanistici.

DOVE E QUANDO «La pittura della voce. L’alfabeto prima e dopo Cuma» Bacoli (Napoli), Museo archeologico dei Campi Flegrei-Castello aragonese di Baia fino al 30 giugno Orario martedí-domenica, 9,00-20,00; chiuso il lunedí Info tel. 081 5233797; https://pafleg.cultura.gov.it a r c h e o 85


SPECIALE • EGITTO

AMMONE E L’ORACOLO NEL DESERTO

SIWA, LA PIÚ SETTENTRIONALE FRA LE OASI EGIZIANE SITUATA NEI PRESSI DELL’ATTUALE CONFINE CON LA LIBIA, FU UNO DEI PIÚ CELEBRI CENTRI ORACOLARI DELL’ANTICO MONDO MEDITERRANEO. NELL’ANNO 331 A.C. VENNE CONSULTATO DA UN VISITATORE D’ECCEZIONE, ALESSANDRO IL MACEDONE. ECCO UN VIAGGIO – E UN’INDAGINE – ALLA RISCOPERTA DI UN LUOGO MITICO di Stefano Struffolino Umm ‘Ubayda, oasi di Siwa (Egitto). Il muro superstite di un luogo di culto che è stato a lungo identificato con la sede dell’oracolo di Ammone e nel quale è stato invece riconosciuto il «secondo tempio» in onore del dio, menzionato da Diodoro Siculo.

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P

rima di lasciare spazio al grande mare di sabbia che si perde nelle profondità del continente africano, il tavolato su cui poggia l’infuocato e pietroso deserto della Marmarica crolla in un arco di depressioni che nella sua parte orientale – la grande area di al-Qattara – raggiunge i 133 m sotto il livello del mare, andando poi a chiudersi oltre l’odierno confine libico con la piccola oasi di Giarabub. Siwa, oggi in territorio egiziano e a circa 300 km di distanza dalla costa mediterranea, occupa il punto mediano di quest’arco e si allunga da ovest a est per 82 km e, da nord a sud, nel punto di massima estensione, raggiunge i 30 km, coprendo una superficie complessiva di circa 800 km², che scende dagli 11 ai 22 m sotto il livello del mare. Al viaggiatore che, dopo una discesa di 200 m, supera i maestosi contrafforti di roccia scolpiti dal vento che segnano il confine settentrionale della depressione, o che, da sud, si lascia alle spalle le infinite dune del Sahara, si schiude un panorama lussureggiante, dominato dalla verde distesa di palme da dattero, olivi, sorgenti e giardini irrigati. Il colore grigio-azzurro dei laghi salati, contrasta con il deserto e le brulle montagne rocciose e caratterizza in modo spettacolare il paesaggio dell’oasi. Della località divenuta famosa in antico per il culto oracolare del dio grecoegizio Ammone e ricordata soprattutto per la visita e la consultazione da parte di Alessandro Magno, non troviamo traccia lungo quasi tutta la storia dell’Egitto faraonico, quando le oasi del deserto occidentale passavano dall’essere considerate territori stranieri abitati da popolazioni spesso ostili, utili avamposti


SPECIALE • EGITTO

commerciali e difensivi, o punti strategici lungo vie di comunicazione terrestri alternative alla navigazione fluviale. Risale alla VI dinastia egiziana (2350-2190 a.C.) la prima testimonianza letteraria di spedizioni carovaniere, immortalata nell’Autobiografia di Herkhuf, governatore dell’Alto Egitto inviato dai faraoni Merenra e Pepi II a esplorare i territori del deserto occidentale. La terza spedizione, in particolare, impegna una carovana di trecento asini lungo la «strada di Uhat»: una vera e propria via delle oasi. Il termine egiziano wahat, che compare qui per la

Cairo Oasi di Siwa

N ilo

E G I T TO

Mar Rosso Lago Nasser

APOLLONIA KYRENE BARKE

ANTIPYRGOS

BERENIKE KATABATHMOS PARAITONION ALEXANDREIA CORNICLANUM

NAUKRATIS

MEMPHIS GIARABUB QATTARA AUGILA AMMON GARAMANTI

AREG SITRA

EL FAYYUM HERAKLEOPOLIS

BAHREIN OASI DI BAHARIYA

F. NILO

OASI DI FARAFRA

ABYDOS OASI DI DAKHLA

OASI DI CUFRA

THEBE

OASI DI KHARGA

F. NILO CIAD - NIGER

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In basso: cartina nella quale sono indicate le oasi distribuite fra il corso del Nilo e la Libia. Sottolineata in verde, è l’oasi «di Ammone», l’odierna Siwa.

Mar Mediterraneo


Sulle due pagine: veduta panoramica dell’oasi di Siwa, con, in primo piano, la collinetta di Aghurmi: qui sono stati individuati i resti del complesso templare comprendente l’oracolo di Ammone.

prima volta, significa infatti «oasi», e tramite il greco aúasis/óasis, costituisce la base etimologica dell’analoga parola latina e di quella in uso in quasi tutte le lingue indoeuropee. Per l’area settentrionale e le zone a occidente del delta del Nilo abbiamo testimonianza, sin dall’Antico Regno, di genti di etnia libica avvicendatesi nel tempo e rappresentate nell’arte con specifiche caratteristiche distintive, come le piume fra i capelli, la pelle chiara, l’uso dei tatuaggi e il vestiario variopinto. Esempi ben noti sono l’affresco nella tomba del principe Chnumhotep a Beni Hasan, risalente al Medio Regno, e la scena delle «quattro razze umane» nella tomba di Sethi I della XIX dinastia (1324-1279 a.C.), dove, oltre ai Libi, sono presenti gli Asiatici del deserto orientale, i Nubiani dalla pelle scura e gli Egiziani. Sono tuttora dibattute l’esatta identificazione, la provenienza e l’area di movimento di questi gruppi seminomadi, che avevano sicuramente le loro basi d’appoggio nelle oasi che da Siwa si estendono oltre l’odierno confine libico a sud della Cirenaica e

nel Fezzan: i piú antichi Tehenu, poi i Temehu, a cui vengono ad aggiungersi nei testi dell’annalistica ramesside i Rebw e i Meshwesh. Nella grande iscrizione di Karnak, che celebra la vittoria di Merenptah (1224-1214) sui Libi, c’è un’interessante descrizione dello stile di vita di queste popolazioni che «vagavano per il territorio lottando quotidianamente per riempire lo stomaco e giunsero nella terra d’Egitto per trovare di che sfamare le loro bocche», mentre la Stele d’Israele riporta che lo stesso sovrano «è penetrato nella terra dei Temehu per ispirare eterna paura nel cuore dei Meshwesh; ha fatto rigirarsi indietro i Libi (Rebw) che avevano invaso l’Egitto», finché «Il vile vinto, il capo di Libia (Rebw), fuggí col favore della notte, solo, senza piuma sulla testa».

GENESI DI UNA DIVINITA’ Un culto del dio egizio Amon con prerogative oracolari aveva certamente trovato la sua sede nell’oasi di Siwa ben prima dell’epoca nella quale, come ci testimoniano le fonti classiche, questo luogo sacro divenne celebre

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L’ARMATA SCOMPARSA Erodoto racconta il tentativo persiano del 523 a.C. di assoggettare l’oasi di Ammone e distruggere l’oracolo: la fanteria del re Cambise, marciando da Tebe lungo la pista del deserto occidentale, non giunse mai a destinazione, sopraffatta e seppellita da una tempesta di sabbia. A nulla o a poco sono finora serviti i vari tentativi di rintracciare nel deserto le tracce dell’armata scomparsa. Già Giovanni Battista Belzoni, nel maggio del 1819, si

in tutto il mondo mediterraneo; ma come e quando questo sia avvenuto resta oggetto di ipotesi e plausibili ricostruzioni. Intorno alla metà del X secolo a.C., quando Sheshonq I, discendente dei Meshwesh e generale di un clan libico stanziato nella zona di Bubasti, prese il potere, si presentò sin da principio come continuatore e rappresentante del culto tebano di Amon, che aveva fortemente condizionato gli ultimi eventi della XX dinastia e tutta la storia della XXI. Tefnakht (732-720 a.C.), fondatore della XXIV dinastia, riuscí a riunire in un’alleanza le frammentate realtà politiche circostanti e a espandere la sua influenza da Menfi fino alla costa mediterranea, rivolgendo poi lo sguardo anche verso il Sud del paese e dando cosí inizio a quella contrapposizione con la dina-

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era imbattuto in una serie di tumuli formati da ossa umane e terra che immediatamente aveva messo in relazione con le sepolture dei soldati persiani, ma il naturalista François Cailliaud, che pochi mesi dopo passò per lo stesso luogo, riconobbe in quelle sepolture il ricordo ben piú recente di una battaglia combattuta dai soldati di Muhammad ‘Ali. Piú di recente gli esploratori italiani Alfredo e Angelo Castiglioni, in una zona situata un centinaio di

Nella pagina accanto: xilografia colorata raffigurante l’armata persiana di Cambise II colpita dalla tempesta di sabbia che finí con il seppellirla nel 523 a.C., da un originale di Gustave Doré. In basso: i resti del tempio dell’oracolo.

stia nubiana di Kush che caratterizzò la storia dell’Egitto per oltre mezzo secolo. Il culto di Amon-Ra continuò a essere tenuto in grande considerazione dai faraoni kushiti della XXV dinastia (760-656 a.C. circa), anch’essi di origine straniera, ma decisi a farsi accettare onorando e rispettando le tradizioni religiose. Kashta, l’iniziatore della dinastia, venne incoronato a Tebe dai sacerdoti, e i suoi successori attuarono una politica edilizia che ebbe come interesse principale proprio quello di glorificare, attraverso il restauro o la costruzione di nuovi edifici templari, il culto del dio tebano. Il grande complesso di Gebel Barkal a Napata e gli edifici fatti costruire a Kawa da Taharqa ne sono l’esempio piú eminente. La conquista di Menfi da parte di Piye, come


chilometri a sud di Siwa, oltre a numerose ossa umane hanno trovato alcune punte di freccia, monili e un finimento per le briglie di una cavalcatura apparentemente di fattura achemenide. Purtroppo, per mancanza di autorizzazioni, non sono mai state eseguite datazioni del materiale organico recuperato, né avviati scavi piú approfonditi. Comunque sia, negare o confermare la veridicità dell’episodio non cambierebbe di molto la realtà

storica di un’occupazione territoriale e politica da parte di una potenza straniera che non si arrestò ai confini dell’Egitto, ma incorporò anche tutta la Cirenaica in quella che divenne la sesta satrapia. Considerata dunque l’estensione del dominio persiano in Africa, è difficile pensare che una località come l’oasi di Ammone, anche solo per il fatto di trovarsi su una delle principali vie di collegamento, non fosse passata sotto il controllo achemenide.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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reazione alle mire espansionistiche di Tefnakht, e la sconfitta di Boccori per opera del successore Shabaka – che diede formalmente inizio al dominio kushita su tutto il paese – ebbero come conseguenza, dal punto di vista religioso, l’ulteriore consolidamento del culto di Amon nel Basso Egitto, in particolare nella sua forma strettamente legata alle prerogative oracolari: quella che da Tebe si era saldamente stabilita a Napata. I passi in cui Erodoto definisce gli Ammoni di Siwa discendenti di coloni egiziani ed etiopi e il loro un culto d’origine tebana sembrano costituire un’ulteriore conferma di questo scenario.

NUOVI ASSETTI GEOPOLITICI Tra il VII e il VI secolo a.C., con la colonizzazione greca della Cirenaica, quella fenicia in Tunisia e con la nascita del regno di Meroe nell’Alta Nubia, si viene a creare un sistema potenzialmente interessato a trasformare brevi rotte stagionali in piú articolati percorsi di interscambio: un network che metteva in connessione regioni distanti fra loro lungo fasce o aree di contatto. Con l’inizio dell’Epoca Tarda egiziana, intervengono importanti mu-

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tamenti nello scenario geopolitico dell’Africa settentrionale, ma le prime informazioni sull’esistenza di percorsi sviluppati su lunghe distanze nell’entroterra risalgono solo alla metà del V secolo a.C. e sono quelle che Erodoto ha raccolto e riportato nella sua opera, che comprende anche la principale testimonianza sulla geografia e l’etnografia della Libia, nel senso piú esteso che nell’antichità si attribuiva a questo termine. Ormai menzionata dagli autori greci come oasi degli Ammoni o di Zeus-Ammone, Siwa diviene un punto di passaggio obbligato, un vero e proprio crocevia fra il Nilo, le oasi meridionali, la Cirenaica, l’entroterra libico e la costa mediterranea. Il culto oracolare dell’Amon-Ra tebano e nubiano si era verosimilmente impiantato su un preesistente culto libico dell’acqua e della vegetazione, elementi fondamentali in un panorama circondato dalle distese desertiche. Con la fondazione delle colonie doriche in Cirenaica, l’incontro con lo Zeus greco è sicuramente alla base del sincretismo che ha dato origine all’Ammone con le corna d’ariete della divinità egizia e la folta barba di quella greca,

Particolare dal muro del tempio di Umm ‘Ubayda raffigurante il principe Wenamun che rende omaggio al dio Ammone in trono.


L’interno del tempio dell’oracolo con la cella del dio sullo sfondo.

secondo un’iconografia destinata ad avere ampia fortuna sia nelle raffigurazioni monetali, soprattutto cirenee, sia nella statuaria e nella coroplastica greco-romana.

MAESTRANZE GRECHE I resti del tempio oracolare di Ammone svettano ancora sulla sommità della collinetta rocciosa di Aghurmi: uno spiazzo delimitato da muri precede la facciata con il portale in stile egizio abbellito da due semicolonne doriche, a riprova del fatto che alla costruzione del complesso dovevano aver partecipato maestranze greche della vicina Cirenaica. Due camere conducono alla cella che doveva ospitare la statua di culto; ai lati, un’altra stanza e uno stretto corridoio dovevano fungere da

ricovero per gli attrezzi cerimoniali e da passaggio utilizzato dai sacerdoti per mettere in comunicazione un ingresso posteriore con un locale situato al di sopra della cella. L’esistenza di un secondo piano è infatti confermata da una cornice aggettante a circa tre quarti dell’alzato delle pareti, su cui doveva poggiare una copertura verosimilmente realizzata con assi ricavate da tronchi di palma. La cella è l’unica parte del tempio in cui le pareti sono ricoperte di iscrizioni geroglifiche e rilievi figurati. Sulla parete a destra dell’ingresso si riconosce l’immagine di un faraone che porta sul capo la corona rossa del Basso Egitto; l’identificazione di questo re dipende dalla corretta lettura del cartiglio che si trova a fianco della figura e che ripora r c h e o 93


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ta il nome di intronazione del faraone Amasi (XXVI dinastia), che regnò sull’Egitto dal 570 al 526 a.C. L’accattivante ipotesi, avanzata dall’archeologo Sandro Stucchi, di un’originaria struttura libia su cui si sarebbe successivamente impiantata la nuova costruzione, sebbene assolutamente verosimile, viene oggi trattata con estrema cautela da quanti fanno giustamente notare l’assenza nell’oasi di qualsiasi traccia materiale di elementi chiaramente riconducibili a una cultura indigena preesistente, nonché l’inesistenza o l’impossibilità di individuare una tradizione architettonica in base alla quale poter proporre eventuali paralleli e considerazioni. Gli scavi condotti negli ultimi decenni dall’Istituto Archeologico Germanico hanno con-

fermato in modo sorprendente la descrizione tramandata da autori classici come Diodoro Siculo e Curzio Rufo relativamente ad altri edifici presenti sulla collina: locali destinati alle donne, ai figli e a un corpo di guardia possono essere oggi identificati con i resti di una serie di strutture murarie in pietra locale, fra le quali si nota soprattutto quello che sembra essere un corridoio o una sala trasversale che dà accesso a cinque vani piú piccoli, interpretati come alloggi privati. Fra le iscrizioni geroglifiche presenti sulla parete est della cella del tempio, un gruppo di segni è stato letto e integrato come Ta n.djerw, anche sulla base di analoghi riferimenti rinvenuti nei siti vicini. Sarebbe questo, secondo Klaus Kuhlmann, responsabile della missione

LA FONTE DEL SOLE Sin dalla prima descrizione che ne fece Erodoto, grandissimo interesse e curiosità suscitò durante tutta l’antichità e anche in epoca successiva la celeberrima Fons solis: la sorgente di Siwa la cui acqua avrebbe cambiato temperatura nel corso della giornata, diventando fredda a mezzogiorno, tiepida al tramonto e addirittura bollente a mezzanotte. Appare evidente come la spiegazione di questo fenomeno debba ricercarsi nel contrasto che veniva a crearsi con le escursioni termiche dell’ambiente circostante, che, durante le ore piú calde, fanno sembrare fredda la tiepida acqua della sorgente. Questa fonte è stata arbitrariamente identificata con quella che attualmente prende il nome di ‘Ayn al-Hammam, «la sorgente del bagno», situata proprio al centro della strada che, attraversando i palmeti, collega i templi di Amon con la zona meridionale dell’oasi, e oggi nota come «bagno di Cleopatra», probabilmente per

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analogia con una presunta dimora della regina tolemaica sul litorale mediterraneo, menzionata da Plutarco e Cassio Dione, presso la quale è stata individuata una vasca naturale ricavata nella scogliera. Piú di recente è stata avanzata l’ipotesi che la Fons solis dovesse probabilmente essere un bacino lustrale di forma rettangolare inserito nella compagine architettonica del santuario di Umm ‘Ubayda e funzionale ai riti oracolari. Le leggende fiorite attorno a questa mirabilia trovarono ampia eco nella tradizione classica e vennero accolte anche dal mondo islamico, se è corretto interpretare il «Bicorne» della Sura XVII del Corano come Alessandro Magno nelle sembianze di Ammone, e l’accenno a una sorgente che ribolle situata all’estremo occidente proprio come un retaggio del mito della Fons solis di Siwa. Una lontana eco di questa storia si può forse ravvisare anche nella leggenda della sorgente della vita eterna, ricorrente nella letteratura dell’Europa medievale.

In basso, a sinistra: moneta in argento recante il profilo di Alessandro Magno con le corna d’ariete, attributo tipico del dio Ammone. 286-281 a.C. Oxford, Ashmolean Museum.


In basso, sulle due pagine: la vasca della ‘Ayn al-Hammam, «la sorgente del bagno», nella quale alcuni hanno proposto di identificare la Fons solis citata dalle fonti.

archeologica a Siwa, il nome egiziano del costruzione. Anche in questo caso la collocaluogo, traducibile come «(l’oasi) sul confine», zione cronologica del tempio, o almeno di oppure «che si trova nel punto piú lontano». una parte di esso, è stata possibile grazie alla lettura di alcuni cartigli riconducibili al regno di Nectanebo II (359-341 a.C.), sovrano delIL SECONDO TEMPIO Scendendo a valle e percorrendo circa 400 m la XXX dinastia. Il muro oggi visibile faceva verso sud, nella zona dell’oasi che oggi pren- parte della parete orientale della cella, che de il nome di Umm ‘Ubayda, si apre sulla si- doveva essere preceduta da un cortile con nistra un vasto spiazzo nel palmeto dove si grosse colonne, i cui resti dei rocchi e dei erge l’unico muro superstite di quel «secondo capitelli palmiformi si possono ancora vedere tempio di Ammone» menzionato da Diodoro tutt’attorno crollati al suolo. e scambiato per decenni dai viaggiatori euro- Dedicato, oltre che ad Amon, anche al culto pei con la sede dell’oracolo. Divenuto in un funerario del principe locale Wenamun – rafmomento successivo parte integrante del figurato in ginocchio davanti al dio –, questo complesso cultuale, questo edificio è stato santuario, che nell’aspetto rientra pienamente gravemente danneggiato da un terremoto nel nei canoni egiziani e, contrariamente al tem1811 e dal massiccio reimpiego dei blocchi di pio oracolare, era ricoperto di rilievi e iscri-

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zioni, sorgeva come emblema di un’identità locale sempre piú improntata alla cultura della Valle, ed è probabilmente da lí che questa volta doveva essere giunto personale specializzato per contribuire alla sua costruzione. L’ingresso dell’edificio era rivolto verso la collina di Aghurmi, in modo tale che i due templi, in asse fra loro, fossero direttamente collegati da una via processionale lastricata; questo nuovo assetto ha probabilmente fatto sentire l’esigenza di una rivalutazione della via d’accesso alla sede oracolare, ampliata con la costruzione del cortile antistante, del pilone e di una rampa monumentale. A fornire la prova piú importante della forte indipendenza politica di cui doveva godere questa località del deserto occidentale sono le raffigurazioni e le iscrizioni della cella del tempio oracolare, che pongono sullo stesso piano il faraone Amasi e il sovrano locale, entrambi ugualmente impegnati a ricevere il corteggio delle divinità. Inoltre, Sethirdis – questo il nome del dinasta sotto il quale venne monumentalizzato il santuario oracolare – si presenta con il capo adornato dalla tipica

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piuma, ed è indicato nella titolatura come «re dell’Alto e del Basso Egitto», alla stregua di un faraone, ma anche come «capo dei due deserti», un onorifico che rimanda immediatamente alla tradizione gerarchica dei Libi. Altre interessanti testimonianze provengono dalla tradizione classica: Erodoto fa riferimento a un «Etearco re degli Ammoni», mentre Diodoro Siculo parla degli stretti rapporti del generale spartano Lisandro con un altro sovrano dell’oasi di nome Libys. Ne emerge l’immagine di un territorio governato da una serie di sovrani di etnia libica: una autentica dinastia, fedele alle proprie tradizioni, ma, allo stesso tempo, inserita nella struttura politico-culturale egiziana e strettamente relazionata con il mondo greco. È probabile che sovraintendessero anche alle attività religiose e oracolari, riservandosi l’avvicendamento nella carica di sommo sacerdote.

I MITI GRECI Lo spirito inventivo dei Greci e dei Romani ha saputo ben presto elaborare, a posteriori, racconti mitici che potessero ricondurre que-

Nella pagina accanto, in alto: particolare del profilo di Zeus Ammone su una moneta di Cirene. In basso, sulle due pagine: un’altra veduta del tempio dell’oracolo. In basso, a destra: testa in marmo di Zeus Ammone di produzione romana. Età imperiale, 120-160 d.C. New York, The Metropolitan Museum of Art.

sto culto oracolare d’origine straniera nell’ambito del loro patrimonio tradizionale. Secondo lo storico e sacerdote egiziano Manetone (III secolo a.C.),Ammone sarebbe stato in origine un personaggio realmente esistito e avrebbe regnato per trent’anni durante la I dinastia, succedendo a Eracle e ad Apollo. Anche Diodoro Siculo (vissuto tra l’80 e il 20 a.C.) riporta un mito che vede in Ammone un antico re della Libia, il quale, dopo essersi unito in matrimonio con Rea, si innamora della bella Amaltea e con lei genera Dioniso. Quest’ultimo, sempre piú celebre per le sue imprese contro le bestie feroci che infestavano il paese e per aver insegnato alla popolazione il metodo di coltivazione della vite, avrebbe fondato l’oracolo, intitolandolo al padre. Secondo una versione differente, tramandata da Ermippo di Smirne (III-II secolo a.C.), citato da Igino, e ripreso da altri autori, Dioniso, durante le sue imprese di conquista delle regioni africane, ritrovatosi a errare nel deserto in preda alla sete si sarebbe salvato grazie all’incontro con un ariete che lo condusse presso una sorgente;

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proprio in quel punto, in ricordo dell’accaduto, il futuro dio avrebbe fondato un tempio ad Ammone, rappresentandolo con le corna ritorte dell’animale. Ma il piú interessante mito di fondazione dell’oracolo, dietro al quale si può forse scorgere un nucleo di verità storica che sembra ben corrispondere alle probabili fasi originarie dello sviluppo cultuale, è sicuramente quello che riferisce Erodoto in relazione alla comune origine tebana dei centri oracolari di Siwa e Dodona. Lo storico riporta tre versioni del racconto: secondo la prima, appresa dai sacerdoti di Tebe, alcuni Fenici avrebbero portato via dalla città egiziana due donne che, vendute rispettivamente in Libia e in Grecia, sarebbero state le prime a trapiantare il culto nelle nuove località. Segue la versione narrata a Erodoto dalle sacerdotesse di Dodona, che sembra essere una mitizzazione del resoconto precedente: questa volta sono due colombe nere a essere volate da Tebe per raggiungere Siwa e Dodona e ordinare alla popolazione di fondare da una parte un culto di Ammone e dall’altra uno di Zeus. Al fine di conciliare e razionalizzare le due versioni, Erodoto propone un’interpretazione secondo cui le due sacerdotesse rapite sarebbero state chiamate colombe dai Greci per indicare la loro origine straniera e il loro linguaggio incomprensibile simile al verso di questo volatile; inoltre, il colore nero indicherebbe proprio la provenienza africana. È evidente come il racconto contenga elementi assolutamente inverosimili (come l’origine egiziana del culto epirota), ma il riferimento alla provenienza tebana del culto di Siwa non lascia dubbi, e l’accostamento con Dodona si rivela semmai una conferma del fatto che l’idea di un’origine molto antica del santuario libico fosse ben presente nella mentalità greca, poiché in Grecia era comunemente accettata l’idea che quello di Dodona fosse in assoluto il piú antico oracolo che la civiltà ellenica avesse conosciuto, come confermano anche vari passaggi dell’epos omerico.

VISITATORI ILLUSTRI La lista degli illustri visitatori che attraversarono il deserto per recarsi a consultare l’oracolo si perde fra le nebbie del mito, per assumere poi i contorni piú netti della tradizione storiografica. La prima visitatrice sarebbe 98 a r c h e o

Tombe ipogee scavate nella collinetta calcarea di Gabal al-Mawta.

stata la leggendaria regina Semiramide, la quale, nel racconto riportato da Diodoro Siculo, nel corso delle sue imprese militari sarebbe giunta dalla lontana Battriana fino all’Egitto e alla Libia, dove non avrebbe perso l’occasione di consultare il dio a proposito della sua sorte futura. Il faraone Boccori, che regnò nella penultima decade dell’VIII secolo a.C., è il protagonista del secondo episodio di consultazione oracolare che le fonti letterarie greche e latine ci hanno trasmesso. È Tacito a riportare per primo questa storia dai risvolti antisemiti: «in Egitto, essendo sorta una pestilenza che deturpava i corpi, il re Boccori, consultato l’oracolo di Ammone per chiedere un rimedio, ebbe l’ordine di purificare il regno e di trasferire in altre terre questa razza invisa agli dèi». Nel racconto erodoteo in cui il re di Lidia Creso (560-547 a.C. circa), allarmato dalla preoccupante crescita della potenza persiana che minacciava sempre piú da vicino il suo territorio, manda a consultare gli oracoli, quello di Ammone compare menzionato insieme a illustri centri divinatori del mondo antico quali Delfi, Dodona e Mileto. Passando al mondo greco, sono noti i legami del poeta Pindaro con l’oracolo africano


grazie alle sue frequentazioni libiche, che lo portarono poi, tra il 474 e il 462 a.C., a comporre le famose odi in onore dei vincitori cirenei ai giochi Pitici. Alcuni secoli piú tardi, Pausania ci informa che Pindaro scrisse anche un inno proprio al dio Ammone e che lo incise poi su una stele a tre lati che inviò al tempio nell’oasi. In età classica, stando al racconto di Plutarco, Cimone fu il primo politico ateniese a inviare degli uomini per consultare l’oracolo in occasione dell’assedio di Cipro del 451 a.C. Il dio avrebbe predetto la morte dello stratega, che effettivamente ebbe luogo in quella circostanza. Sempre secondo Plutarco, qualche decennio piú tardi, Alcibiade ordinò che fosse consultato l’oracolo di Ammone in merito alla spedizione in Sicilia del 415 a.C.: il vaticinio incoraggiante secondo il quale gli Ateniesi avrebbero preso tutti i Siracusani si sarebbe avverato con la cattura di una nave che trasportava le liste dei cittadini, mentre – come è ben noto – l’impresa ateniese si risolse in una terribile disfatta. Anche i rapporti di Sparta con l’oracolo libico sono testimoniati dai legami e dalle visite del generale Lisandro, la cui famiglia

In alto, a destra: particolare delle pitture parietali nella camera sepolcrale di una tomba di Gabal al-Mawta.

vantava coi sovrani dell’oasi un antico vincolo di ospitalità, come testimoniato ancora da Plutarco e da Diodoro.

E POI VENNE ALESSANDRO... L’evento che piú di tutti determinò nei secoli a venire la fama di questo centro oracolare e dell’oasi in cui sorgeva è sicuramente la celeberrima visita di Alessandro Magno nel 331 a.C. Dagli ultimi anni del XIX secolo gli storici cominciarono a domandarsi quale racconto tra quelli tramandati dagli autori greci e romani contenesse la versione piú attendibile di questa consultazione: se ciò che spinse il Macedone a percorrere il lungo tragitto nel deserto fosse davvero stato il desiderio di emulare i suoi pretesi antenati Perseo ed Eracle, come sostengono Callistene e Arriano, o se invece giocò un ruolo determinante l’irrefrenabile desiderio che spronava il giovane esploratore verso le avventure piú ardue e i luoghi piú remoti; se in questa decisione ebbe veramente un peso la volontà, riportata da Pompeo Trogo, di liberare la madre Olimpiade dall’accusa di adulterio per aver tradito Filippo con il dio Ammone nelle sembianze di serpente. a r c h e o 99


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Ma, soprattutto, quali furono le domande poste da Alessandro e le risposte del dio? L’ammissione della paternità divina fu parte integrante della rivelazione oracolare o fu un semplice saluto che il Macedone seppe sfruttare a suo vantaggio? O addirittura, come riporta Plutarco, nacque da un errore del sacerdote, poco avvezzo alla lingua greca, che in luogo di «ò paidíon» (figliolo) disse «ò paidíos», che suonava come «ò pai Diòs» (figlio di Zeus)? E quanto avrà pesato l’esito futuro delle sue imprese di conquista e l’avvenuta vendetta degli assassini del padre Filippo? La risposta piú convincente l’hanno data probabilmente alcuni storici italiani: nel 1940 Gaetano De Sanctis parlava di una «verità ufficiale che per noi conta anche piú della effettiva», in quanto, da allora, il dogma della filiazione divina di Alessandro si impose, e dovette imporsi, non tanto sugli Egiziani, per i quali il fatto non si distaccava di molto dalle comuni concezioni sulla discendenza dei loro regnanti, quanto sui Greci, presso i quali l’oracolo libico aveva giocato nei secoli precedenti un forte ruolo politico, e fondamental-

mente politico sarebbe stato quindi il pellegrinaggio del Macedone. Sulla stessa linea si pone Lorenzo Braccesi, il quale parla esplicitamente dei «riflessi propagandistici» che la consultazione dell’oracolo dovette avere in Grecia, dove il riconoscimento come figlio di Zeus sarebbe servito ad Alessandro come strumento per superare gli obblighi nei confronti delle città-stato derivati dalla necessità di rispettare la pace comune stipulata a Corinto nel 338 a.C. dopo la battaglia di Cheronea.

UN SILENZIO SINGOLARE In sostanza queste interpretazioni ci riportano alle parole di uno dei massimi studiosi della questione: Alberto Gitti, che, negli anni Cinquanta del secolo scorso, notava come il singolare silenzio di Arriano sulle domande che Alessandro avrebbe posto all’oracolo e sulle relative risposte dovesse logicamente derivare da un’analoga reticenza di Tolomeo e Aristobulo (le sue fonti), indice di una precisa reazione all’eccessiva diffusione di leggende intorno a questo episodio; come dire che la consultazione fu un

Il tenente generale Minutoli nell’oasi di Siwa, olio su tela di Carl Friedrich Schulz. 1823 circa. Berlino, Staatliche Museen, Ägyptisches Museum.

I PRIMI ESPLORATORI EUROPEI La memoria dell’oasi di Ammone rimase per secoli legata ai racconti sulla visita di Alessandro Magno, e riferimenti sulla sua ubicazione si possono rintracciare solo nelle opere dei geografi arabi, che la ribattezzarono Santariyah, probabilmente dall’originario toponimo egiziano. Si dovette attendere la fine del XVIII secolo per la prima spedizione organizzata dal londinese William George Browne, il quale, sulla scorta degli autori classici, sfidando il deserto e l’ostilità delle tribú locali, seppe ritrovare quel luogo ormai mitico, ricco di palme, acqua e sorgenti. Nel corso del XIX secolo molti altri esploratori vollero addentrarsi fra le sabbie per raggiungere l’oasi: l’agente segreto di Napoleone Vincent-Yves Boutin, il piemontese Bernardino Drovetti, diplomatico per conto del regno di Francia e primo mecenate del Museo Egizio di Torino, il naturalista di Nantes Frédéric Cailliaud, il barone prussiano Heinrich von Minutoli, che nel 1820 guidò una vera e propria spedizione scientifica con zoologi, etologi, architetti e topografi; purtroppo, solo una piccola parte della sua ricca collezione di reperti si salvò dal naufragio di una nave da trasporto alla foce del fiume Elba. Il primato della riscoperta del tempio dell’oracolo va però attribuito allo scozzese James Hamilton, il quale,

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nel 1853, fu in grado di riconoscere sulla collinetta di Aghurmi le mura dell’edificio sacro e la cella con le iscrizioni geroglifiche, il tutto oramai completamente occultato e fagocitato dalle abitazioni della popolazione locale, che vennero rimosse solo in occasione dei primi scavi sistematici realizzati dall’archeologo egiziano Ahmed Fakhry negli anni Settanta del secolo scorso.


Particolare dell’interno della cella del tempio, con i rilievi, le iscrizioni geroglifiche che riportano il toponimo egiziano dell’oasi e la cornice che reggeva il soffitto ligneo.

fatto privato fra il condottiero e il sacerdote nel chiuso della cella, e qualsiasi illazione in proposito oltre che inutile è destinata a rimanere priva di fondamento. È interessante infine rilevare come nel racconto di Plutarco sui rapporti fra Lisandro e l’oracolo si dice che mentre il generale spartano «cingeva d’assedio la città di Aphytis in Tracia gli fosse davvero apparso in sogno Ammone: per questo, come se gliel’avesse ordinato il dio, aveva tolto l’assedio, raccomandando agli Afitei di sacrificare ad Ammone». Un culto di Ammone è effettivamente attestato ad Aphytis, come testimoniano un passo di Pausania e gli scavi archeologici che hanno messo in luce un tempietto dorico, datato alla seconda metà del IV secolo a.C., dedicato a questa divinità. Il sito presso il mare è particolarmente ricco di vegetazione, con cascate e sorgenti d’acqua; Stefano di Bisanzio sembra confermare che questo santuario potesse funzionare anche come sede oracolare. L’ipotesi è che la presenza di un culto di Zeus Ammone nella penisola Calcidica, conquistata dalla Macedonia nel 348 a.C., avrebbe

determinato l’assunzione o quanto meno la conoscenza di questa divinità presso la corte degli Argeadi e, di conseguenza, sarebbe stata alla base della decisione di Alessandro Magno di consultare l’oracolo libico: il re, quindi, avrebbe voluto rendere omaggio a una divinità che faceva parte da sempre del suo patrimonio mitico e religioso. La consultazione avvenne secondo le modalità caratteristiche dei centri oracolari egiziani: all’esterno, lungo la via processionale che univa i due templi, sfilava il corteo con la barca sacra e l’omphalòs tempestato di pietre preziose di cui ci parlano le fonti, mentre Alessandro veniva introdotto nel sancta sanctorum in udienza privata.

L’ETÀ GRECO-ROMANA Con l’età ellenistica non abbiamo piú notizie di consultazioni illustri e anche l’attività oracolare sembra subire un certo declino; in compenso, l’oasi assume sempre maggiore importanza come crocevia nel contesto dei percorsi carovanieri, grazie anche alla fama di tre prodotti pregiati la cui esportazione doveva aver procurato alla comunità locale discre-

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SPECIALE • EGITTO

ti introiti economici. Oltre a elogiare il clima mite dell’oasi di Ammone e la grande varietà di alberi da frutto, le fonti letterarie fanno riferimento alla quantità e alla qualità di palme da dattero e olivi. Teofrasto menziona i datteri dell’Ammonio fra le migliori varietà conosciute: venivano commercializzati freschi, pressati o fatti seccare al sole. Ancora oggi la qualità del dattero di Siwa è universalmente riconosciuta, tanto da aver ricevuto la certificazione di Presidio Slow Food. Olive e olio d’oliva erano prodotti ugualmente rinomati: soprattutto per l’epoca romana abbiamo varie testimonianze di papiri documentari che menzionano l’olio ammoniaco e i prezzi piuttosto alti e talvolta proibitivi a cui veniva venduto. Inoltre i ritrovamenti archeologici negli insediamenti orientali dell’oasi ci hanno restituito i resti di veri e propri centri di produzione olearia: per l’età imperiale, presso l’attuale località di alQurayšat, tutt’intorno alle rovine in stile greco-egizio del tempio centrale, si possono facilmente individuare circa quaranta presse per l’olio, oltre a numerosissimi cocci di vasellame che affiorano dal terreno, nonché vari contenitori e vasche quadrangolari in pietra. Un altro villaggio mantiene nella toponomastica araba il riferimento a una coltura ancora oggi sfruttata: az-Zaytun, sulla riva dell’omonimo lago, significa infatti «gli olivi».

SALE DI PRIMA QUALITÀ Senza dubbio, però, fin dai tempi piú remoti, il prodotto piú famoso dell’oasi doveva essere il salgemma, che ancora oggi si presenta in distese superficiali prodotte dall’evaporazione dell’acqua salmastra dei laghi interni o portato in superficie dalle sorgenti il cui deflusso raccoglie le sostanze minerali del sottosuolo. Lo storico Dinone, citato da Ateneo, racconta che i Persiani, durante l’occupazione dell’Egitto, pretendessero, fra i tributi richiesti, una certa quantità di «sale ammoniaco». Arriano parla del suo impiego nelle cerimonie religiose e dice che veniva trasportato in cesti di palma, mentre altre fonti lo descrivono come piú puro del cristallo e di sapore gradevolissimo. In epoca romana il sal hammoniacus, insieme a una particolare resina prodotta da un arbusto locale, trovò larghissimo impiego come ingrediente nella preparazione di farmaci per le piú disparate patologie. I costi elevati, dovuti anche alla distanza del luogo di produzione, 102 a r c h e o

determinarono ben presto la diffusione di prodotti simili provenienti da luoghi piú accessibili, meno pregiati, ma commercializzati con lo stesso nome. Fino a tutta l’età ellenistica le fonti non sono esaustive a proposito dello status politico dell’oasi di Ammone, che sicuramente aveva goduto di una certa autonomia ma che, trovandosi nel mezzo, doveva anche aver subito gli effetti delle ambizioni tolemaiche sulla Cirenaica, contesa fra i vari sovrani d’Egitto e i loro generali. Sappiamo da Pausania dell’invio di un altare dedicatorio da parte del sovrano Tolomeo I. Notizie piú precise ci soccorrono per quanto riguarda l’epoca romana: se inizialmente il geografo del I secolo d.C. Pomponio Mela ci dice che l’oracolo di Ammone era compreso nel territorio della provincia di Cirenaica, poco piú tardi Plinio il Vecchio annovera l’oasi fra i distretti (nomòi) dell’Egitto. Una conferma a quest’ipotesi sembra provenire da alcune monete del regno di Traiano che recano al diritto il busto laureato dell’imperatore con la titolatura e, al rovescio, la figura di Zeus Ammone con un lungo scettro e un piccolo ariete ai suoi piedi. La legenda recita, in greco, «Ammonites» o «Ammonites nomòs». Uno stratego del nomòs Ammoniaco è attestato poi da La fortezza di alcuni papiri del II e III secolo d.C. Shali, nell’oasi Tra la fine dell’età ellenistica e lungo tutta di Siwa. l’età imperiale l’oasi conosce anche un certo rinnovamento edilizio, con la costruzioni di nuovi edifici di culto, tempietti funerari in stile egizio ma a pianta greca e il continuativo riutilizzo di varie necropoli ipogee sia nelle aree periferiche che in quelle centrali dell’oasi, come è il caso della collinetta calcarea di Gabal al-Mawta con le sue famose camere sepolcrali affrescate con scene improntate ai canoni egiziani, ma con particolari stilistici e decorativi che rivelano un influsso di modelli culturali del mondo classico. Nella tomba di Siamun, per esempio, il defunto è raffigurato accanto al figlio, in una posa che ricorda in modo sorprendente molti rilievi funerari attici d’epoca classica; inoltre alcuni particolari, come la capigliatura a ricci e la barba nera, nonché la clamide indossata dal figlio, hanno fatto pensare a un ricco mercante che si era trasferito a Siwa da Cirene per sfruttarne le potenzialità di centro carovaniero, e si era adattato agli usi locali tanto da mutare il suo nome e farsi seppellire secondo


la tradizione egiziana; al contrario altri hanno preferito vedere in Siamun un egiziano, o ancora meglio, un indigeno di ceto elevato che aveva ceduto alla moda greca da tempo apprezzata nell’oasi. A ulteriore conferma di un sincretismo fra tradizioni artistiche diverse, in alcune tombe sono stati rinvenuti graffiti greci che riportano i nomi di artigiani e costruttori che dovevano sicuramente provenire dall’ambiente alessandrino o dalla Cirenaica.

BARBA E CORNA DI ARIETE Il culto di Ammone continua a diffondersi in tutto il mondo mediterraneo, raggiungendo anche le oasi interne della Tripolitania e mantenendo sempre una stretta connessione con gli snodi commerciali e i luoghi ricchi d’acqua e di vegetazione; l’iconografia del volto barbuto con le corna di ariete venne utilizzata nella propaganda imperiale come simbolo del dominio sulle province africane. Con il riassetto amministrativo dell’impero voluto da Diocleziano è verosimile che l’oasi di Ammone sia stata accorpata nella nuova provincia della Libya inferior o sicca, come attestano ancora fino alla fine del XIII secolo le

liste bizantine delle circoscrizioni. Atanasio ci dice che nel IV secolo d.C. l’oasi era divenuta un luogo d’esilio per gli eretici scacciati dalla Tebaide, mentre Eusebio di Cesarea lascia intendere che l’oracolo avesse cessato definitivamente di funzionare. La storia di Siwa naturalmente proseguí attraverso i secoli, restando tenacemente attaccata ai costumi e alle tradizioni della sua peculiare cultura; resistette strenuamente all’impetuosa corrente della religiosità islamica e soltanto nel 1820 una spedizione inviata per ordine di Muhammad ‘Ali riuscí a sottomettere i suoi abitanti e a portare questo estremo lembo di terra fertile entro i confini dell’Egitto moderno. PER SAPERNE DI PIÚ Stefano Struffolino, L’oasi di Ammone. Ruolo politico, economico e cultuale di Siwa nell’antichità. Una ricostruzione critica, Aracne editrice, Roma 2012 www.dainst.org/forschung/projekte/ noslug/2392 a r c h e o 103


SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti

LA MEMORIA È NEL NOME DAL NORD AL SUD DELLA PENISOLA SONO NUMEROSE LE CITTÀ SCOMPARSE, «SOPRAVVISSUTE» GRAZIE ALLA FONDAZIONE DI COMPLESSI MONASTICI CHE NE RIEVOCANO L’ESISTENZA

L

e città sono organismi: nascono, si sviluppano, possono entrare in crisi e, a volte, morire. Soprattutto prima dell’anno Mille, quest’ultima eventualità si è verificata piú volte e queste scomparse sono in media fenomeni piuttosto lenti: molto spesso i centri antichi impiegano piú secoli, per morire definitivamente... o quasi. Le fonti scritte e l’archeologia fanno infatti luce su un aspetto diffuso dal Nord fino al profondo Sud della Penisola: le città abbandonate, in molti casi, vengono sostituite da edifici ecclesiastici o monasteri. Già esistenti al momento della scomparsa del centro urbano, oppure fondati in un momento successivo, questi monumenti possono trovarsi dentro la città o ai suoi margini, ma progressivamente

restano soltanto loro. E, spesso, contribuiscono a tenere in vita la memoria della città scomparsa attraverso le loro denominazioni.

UNA DISLOCAZIONE Prendiamo il caso di Pedona, una città romana del Piemonte meridionale che terminò la sua esistenza intorno al IV-V secolo. Qui, nell’area di un cimitero suburbano, viene costruita nel VI secolo una chiesa, che poi – nell’VIII secolo – diventa il nucleo centrale di un complesso monastico: l’abbazia di S. Dalmazzo. È uno di quei casi in cui si verifica una dislocazione, rispetto al luogo originario del centro urbano, e quindi il toponimo «Pedona» viene mantenuto in vita, la sua memoria tramandata, ma in connessione a

un luogo periferico rispetto alla città romana. Nell’XI secolo la chiesa fu completamente ricostruita in forme romaniche e, nel XII, raggiunse il suo massimo sviluppo. L’abbazia attirò poi intorno a sé un abitato, primo nucleo dell’odierna Borgo San Dalmazzo (Cuneo). Diverso è il caso di Classe, la città portuale legata a Ravenna. Qui gli

Borgo San Dalmazzo (Cuneo). In alto, la facciata della chiesa parrocchiale, che sorge in corrispondenza dell’area occupata dall’abbazia di S. Dalmazzo in Pedona, la cui fisionomia è documentata dal modellino riprodotto nella foto qui accanto. scavi condotti nell’area del porto hanno individuato una serie di progressive trasformazioni e di abbandoni a partire dalla prima metà del VII secolo. La città però non è ancora deserta: molteplici tracce archeologiche, riferibili anche ad attività artigianali, si datano perlomeno fino all’VIII secolo. La chiesa di S. Severo viene costruita, nella seconda

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Plastico ricostruttivo della basilica di S. Severo, fondata a Classe, il porto di Ravenna, nella seconda metà del VI sec.

metà del VI secolo, nella zona meridionale della città, non lontano dalle mura urbane. Ma nella seconda metà del IX secolo, quando Classe è decisamente avviata verso la sua scomparsa, accanto alla chiesa viene costruito un grandioso monastero benedettino. Il complesso rimase a lungo in vita, ben oltre la morte di Classe; venne pesantemente ristrutturato nel corso del XII secolo (la sua epoca d’oro, anche dal punto di vista economico) e fu smantellato soltanto nel Quattrocento. Per secoli, quindi, il monastero di S. Severo fu uno dei pochi monumenti superstiti in un ampio paesaggio con rovine. In seguito, dopo la sua scomparsa, il toponimo «in Classe» venne mantenuto dall’altro monastero della zona: quello di S. Apollinare, che in origine si trovava molto piú

a sud della città, in pieno suburbio e presso la tomba del primo vescovo di Ravenna.

CRISI E SOPRAVVIVENZA Simile è la vicenda di Falerii Novi (presso l’odierna Civita Castellana, in provincia di Viterbo). Falerii diventa sede vescovile nel V secolo, ma va incontro a una crisi profonda intorno alla seconda metà del VI secolo. Le ultime indagini archeologiche hanno segnalato tracce che sembrano indicare un certo grado di sopravvivenza dell’abitato nei secoli dell’Alto Medioevo. Si tratta, probabilmente, di un’occupazione in scala molto ridotta, addensata soltanto in alcune zone. Ma i segni di una ripresa piú consistente li abbiamo tra l’XI e il XII secolo, quando viene fondato il monastero di S. Maria di Falleri. Anche questo complesso fu per La facciata della chiesa di S. Maria di Falleri (Civita Castellana, Viterbo).

secoli il solo monumento dell’area e il suo nome garantí nel tempo la memoria della città scomparsa. Pedona, Classe, Falerii Novi sono solo tre esempi di un fenomeno le cui modalità restano sempre le stesse: tra il IX e l’XI secolo, nei luoghi, o nelle immediate vicinanze di una antica città abbandonata, un edificio ecclesiastico o un monastero vengono potenziati, oppure fondati. Queste chiese e monasteri sono i veri eredi delle città presso le quali erano stati costruiti, e di queste assumono anche i toponimi. Esistono senz’altro validi motivi pratici, per fondare una chiesa o un monastero presso un centro urbano abbandonato: prima tra tutti, l’ampia disponibilità di materiale da costruzione da recuperare e riutilizzare, cosí come la presenza di infrastrutture (strade, prima di tutto) in base alle quali organizzare le proprie attività. Dietro alle nuove fondazioni, però, vi sono sicuramente anche motivi ideologici: il potersi agganciare – dal punto di vista topografico e materiale – al passato, a una antichità percepita come lontana e gloriosa, era un fattore che rafforzava enormemente l’identità e il peso politico di quelle stesse comunità di religiosi. E cosí, proprio grazie a queste nuove fondazioni si è tramandata nel tempo la memoria storica dei centri abbandonati.

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TERRA, ACQUA, FUOCO,VENTO Luciano Frazzoni

IL ROSSO E IL NERO SONO I COLORI DOMINANTI DEL VASELLAME DA MENSA E DELLE STOVIGLIE IN USO PRESSO I ROMANI. TINTE OTTENUTE ATTRAVERSO LA DIVERSIFICAZIONE DEI PROCESSI DI COTTURA E SCELTE PER ANDARE INCONTRO AI GUSTI DELLA COMMITTENZA

U

n archeologo che si trovi a scavare in contesti di ambito romano che coprono un arco cronologico ampio – per esempio, dal periodo tardo-repubblicano (II secolo a.C.) a quello imperiale (II-III secolo d.C.) – noterà un evidente cambiamento «cromatico» nel materiale ceramico che viene alla luce dalle stratigrafie. La ceramica «fine da mensa», ossia quella utilizzata quotidianamente per contenere i liquidi e i cibi, cambia aspetto nel corso del tempo, soprattutto tra il IV e la metà del I secolo a.C., per una serie di fattori che vanno dal cambiamento di gusto della committenza, dell’organizzazione della produzione, ma anche in seguito a profondi mutamenti nelle tecniche di fabbricazione. Andando a ritroso nella cronologia stratigrafica, si potrà dapprima rilevare la forte presenza di ceramica di colore rosso, con

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In alto: piatto etrusco a vernice nera con decorazione a stampiglia e rotellature, da una tomba della necropoli ellenistica di Castiglioncello (Livorno). Castiglioncello, Museo Archeologico Nazionale. A sinistra: hydria a vernice nera. IV sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale. tonalità che vanno dall’arancione al rosso corallo lucido, per arrivare, nelle fasi piú antiche, a una prevalenza di ceramiche colorate di nero. Vediamo allora quali sono le caratteristiche di due tra le classi ceramiche piú diffuse, la «vernice nera» e la «sigillata italica». La ceramica a vernice nera comprende produzioni diverse,


accomunate dall’avere un rivestimento vetroso di colore nero, ottenuto immergendo il manufatto in argilla ben depurata e diluita, a cui segue una cottura in ambiente con atmosfera prima ossidante (con presenza di ossigeno), poi riducente. Dopo la prima fase, durante la quale la temperatura raggiunge i 900/950°, nella fornace vengono immesse sostanze fumogene, che creano l’atmosfera riducente: la vernice acquista il colore nero per la trasformazione dell’ossido ferrico (rosso) in ossido ferroso (nero). I risultati finali dipendono spesso dalla durata della cottura alla temperatura massima; se, come spesso accade, il procedimento non viene ultimato, i vasi possono avere la superficie caratterizzata da sfumature bruno-rossastre, o addirittura con una parte di colore nero e l’altra di colore rosso.

UN’INVENZIONE GRECA La ceramica a vernice nera deriva da quella prodotta in Grecia, soprattutto in Attica, che giunge in Italia e nel Mediterraneo

occidentale, e viene presto imitata in Sicilia, Magna Grecia, Campania e nelle colonie e negli empori greci. La Campana A viene prodotta a partire dalla fine del III secolo a.C. in alcune officine del Golfo di Napoli e a Napoli stessa, e viene esportata tra II e I secolo a.C. in tutto il bacino del Mediterraneo. È caratterizzata da un impasto di colore rosso o rosso-marrone, e presenta una vernice nera spessa e lucidissima, iridescente e metallica. Impilata entro casse o ceste sulle navi In alto: frammento di ceramica aretina con la figura di una donna che suona l’arpa. Fabbrica di Rasinius. Arezzo, Museo Archeologico Nazionale Gaio Cilnio Mecenate. A sinistra: l’interno di una coppa a vernice nera del «Gruppo des petites estampilles». III sec. a.C.

onerarie come merce d’accompagno delle derrate alimentari prodotte in Campania, principalmente contenute nelle anfore vinarie, la vernice nera conosce una diffusione enorme fino al 40 a.C. circa. Comprende forme che vanno dai piatti da pesce, alle patere e alle scodelle, alle coppe, di frequente decorate con motivi a rosette, palmette e foglie, al centro o in posizione radiale, spesso con rotellature. Si possono trovare anche vasi ornati da racemi sovradipinti. I motivi decorativi tendono comunque a scomparire alla fine del II secolo a.C. A questo tipo di ceramica fa probabilmente riferimento Orazio, quando parla di «campana suppellex» (Satire I, 6, 116-118) per descrivere le poche suppellettili presenti sulla sua tavola da pranzo.

VASI FIRMATI La ceramica definita Campana B da Nino Lamboglia, è invece una produzione dell’area etruscolaziale, che si sviluppa dagli inizi del II secolo a.C. come evoluzione di altre produzioni dell’Etruria settentrionale costiera del IV e III secolo a.C., come la ceramica di Malacena, il tipo Volterrano D e il Gruppo delle anse a orecchia. Presenta una vernice nera lucida o nero-bluastra e un impasto color nocciola. Le forme, molto semplificate sono piatti e coppe, che riprendono modelli in metallo. A differenza della Campana A, che risulta una ceramica anonima, alcuni esemplari, nel corso del I secolo a.C., presentano, oltre alle stampiglie a palmetta e fiori di loto, alcuni bolli con il nome dei vasai come C.V., Q.AF e SEX. Tra il 150 e il 50 a.C. un’altra produzione assai diffusa è la Campana C, in realtà prodotta in Sicilia orientale, probabilmente a Siracusa. Le forme sono piatti e scodelle con impasto grigio o

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Esemplari di coppe in terra sigillata appartenenti al tipo Dragendorff 37. Bad Homburg, Römerkastell Saalburg. marrone scuro, che presentano una vernice spessa di colore grigio scuro, di qualità scadente. Per finire questa breve carrellata sulla vernice nera, occorre accennare al «Gruppo des petites estampilles», come è stato definito da Jean-Paul Morel in un famoso e fondamentale articolo del 1969. Queste ceramiche sono cosí chiamate appunto per la presenza di piccole stampiglie sul fondo delle forme aperte, consistenti in palmette, rosette, piccole figurine, mani, delfini, lettere, isolate al centro o disposte parallelamente in gruppi di tre, quattro o cinque. La vernice è di colore nero scuro brillante, ma anche con riflessi bluastri, oppure opaco-lucente con riflessi rossastri. Tale produzione è localizzabile quasi sicuramente a Roma e in alcune succursali nel Lazio meridionale (Segni, Lanuvio), nell’Etruria (Cerveteri, Tarquinia) e nell’area falisca (Lucus Feroniae) ed è databile tra il 310 e il 270/265 a.C. circa., dunque prima del grande sviluppo della Campana A. Verso la metà del I secolo a.C. si assiste a un deciso mutamento nella produzione ceramica romana, quando si introducono nuove tecniche di lavorazione, nuove modalità di organizzazione delle officine e cambiano anche i gusti delle committenze. Quando cessa la produzione della ceramica a

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vernice nera Campana A, intorno al 40 a.C., la produzione «industriale» si sposta ad Arezzo, dove, probabilmente verso la metà del secolo, fu elaborato il passaggio dai vasi a vernice nera a quelli a vernice rossa, grazie a una nuova tecnica di cottura. Mediante l’utilizzo di fornaci con tiraggio verticale, in cui i gas di combustione venivano incanalati in condutture in terracotta, e nelle quali i vasi venivano impilati, ma senza venire a contatto diretto con il fuoco, assicurando in questo modo un’atmosfera ossidante continua, le stesse officine aretine che producevano un tipo di vernice nera cominciano a realizzare la sigillata di colore rosso, destinata a caratterizzare la produzione di ceramiche fini da mensa per tutta l’epoca imperiale. Tale metodo di cottura determinava infatti la produzione di ossido ferrico, che, vetrificando la vernice, conferiva alla superficie esterna un colore rosso brillante.

PICCOLE FIGURE Oltre al cambiamento nel gusto, dal nero al rosso, si registrano profondi mutamenti sia per quanto riguarda le forme, che comprendono tutto il vasellame da tavola (coppe, bicchieri, piatti, scodelle, vassoi, bottiglie), sia le decorazioni e, fattore non di poco conto,

l’organizzazione della produzione stessa. Il termine «terra sigillata», con il quale si definiscono tutte le ceramiche fini da tavola a vernice rossa di epoca romana prodotte tra il II secolo a.C. e il VII secolo d.C., deriva da sigillum, diminutivo di signum, piccola statua o figurina, e si riferisce alle figure a rilievo realizzate a matrice che decorano i vasi. L’espressione non compare nelle fonti antiche, ma fu coniata dall’erudito aretino Francesco Rossi alla fine del Settecento, e poi ripresa da Hans Dragendorff nel 1895, entrando cosí nella letteratura scientifica. Il termine ha poi finito con il comprendere tutte le ceramiche a vernice rossa o arancione, sia a pareti lisce che decorate, distinte secondo le aree di produzione (terra sigillata italica, sud-gallica, iberica, africana). Come detto, in questa fase si attua anche un profondo cambiamento nell’ambito della politica commerciale delle fabbriche. Innanzitutto perché i produttori prendono l’abitudine di imprimere sui vasi i loro nomi o quelli dei proprietari delle officine, e poi perché molti di questi, anziché esportare i loro prodotti via mare, preferiscono impiantare succursali nelle zone in cui i mercati erano piú ricettivi, dapprima in area italica e in seguito nelle province galliche, soprattutto sul limes renano e danubiano, dove era forte la domanda da parte dei contingenti militari qui stanziati a partire dal 13 a.C., quando cominciano le operazioni contro i Germani. La ceramica aretina (la cui produzione, però, non interessò solo Arezzo, ma anche altri centri italici, tanto che oggi è piú corretto parlare di terra sigillata italica), conobbe una diffusione su larghissima scala, raggiungendo tutti i territori dell’impero, dal Mar Nero e dall’Asia Minore, fino alla Britannia e al Sahara, e soprattutto nelle Gallie e nelle zone del limes.



L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

BELLA TRA LE BELLE ICONA DELL’AVVENENZA FEMMINILE, IL GRUPPO STATUARIO DELLE TRE GRAZIE HA GODUTO PER MOLTI SECOLI DI UNA FORTUNA ECCEZIONALE

I

l grande successo conosciuto dal gruppo delle Tre Grazie (vedi «Archeo» n. 471. maggio 2024; on line su issuu.com), tra i piú celebri dell’antichità e alla cui fortuna non fu estranea l’accattivante, perfetta e giovanile nudità muliebre dell’immagine, si consolida nel corso dell’età romana, che le intende come personificazione della fertilità della natura benigna e dei sentimenti positivi derivati dall’amabilità e dalla bellezza che esse generano in chi le osserva, influendo positivamente sul nostro essere al mondo e donandoci un’auspicabile joie de vivre. Dopo un medievale periodo di oblio, quando non poteva venire apprezzata e tanto meno raffigurata per la sua nudità, l’immagine ricompare nel Quattrocento, divenendo famosa con il gruppo scultoreo romano delle Tre Grazie, appartenuto al cardinale Prospero Colonna e acquistato dall’arcivescovo di Siena Francesco Todeschini-Piccolomini (il futuro papa Pio III) ed esposto nella monumentale e splendida Libreria Piccolomini nel Duomo di Siena. Seguace del neoplatonismo di Marsilio Ficino, TodeschiniPiccolomini vedeva nell’antica statua l’incarnazione dell’elevazione spirituale derivante dall’amore e dalla contemplazione del bello: «Il vero Amore non è altro che un certo sforzo di volare alla divina bellezza, desto in noi dallo aspetto della corporale bellezza» (Marsilio Ficino, Sopra lo Amore, ovvero il Convito di Platone, 1469,

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cap. XVI). Proprio per la loro leggiadria, capace di innalzare il pensiero umano, le Tre Grazie non sono altro che il collegamento

Tre Grazie, copia romana da un originale ellenistico. Siena, Duomo, Libreria Piccolomini.


spirituale tra la Terra e il Cielo e ben si collocavano all’interno di una preziosa e umanistica biblioteca papale. In età moderna, le Grazie piú celebri sono senza dubbio i due gruppi realizzati da Antonio Canova tra il 1812 e il 1817 e oggi esposti al Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo e al Victoria and Albert Museum di Londra.

MATRIMONIO CON MEDAGLIA Assodata la valenza spirituale e filosofica delle tre belle fanciulle nude nel corso del Quattrocento, esse vennero scelte come significative protagoniste di un’opera del celeberrimo medaglista Niccolò di Forzore Spinelli, detto anche Niccolò Fiorentino (1430-1514), il quale creò circa 150 medaglie tra le piú belle della sua epoca, cinque delle quali firmate e una per Lorenzo il Magnifico. Adottò sempre la tecnica della fusione a cera persa, come nella medaglia realizzata per il matrimonio tra Giovanna degli Albizzi con Lorenzo Tornabuoni nel 1486, che reca, al dritto, l’elegante busto della giovane, con legenda VXOR LAVRENTII DE TORNABONIS IOANNA ALBIZA, e, al rovescio, le Tre Grazie nude, denominate CAS/ TITAS PVLCHRITVDO A/MOR, che, in un armonioso intreccio, si toccano le rispettive spalle, mentre quella di sinistra tiene in mano alcune spighe e quella di destra un rametto. Va notato che la Grazia centrale, Pulchritudo, resa di spalle, ha il viso girato verso destra e nell’acconciatura si riconosce il ritratto di Giovanna. Sul dritto il busto della sposa è volto a destra; indossa un corpetto scollato e una collana con un gioiello a forma di quadrifoglio e

Medaglia in bronzo di Niccolò Fiorentino (al secolo Niccolò di Forzore Spinelli). 1486. Washington, National Gallery of Art. Al dritto, il busto di Giovanna degli Albizzi; al rovescio, le Tre Grazie. una grande perla pendente. L’acconciatura è a boccoli che scendono sulla guancia, i capelli sono lisci sul capo e raccolti in uno chignon con treccia sulla nuca. Le Tre Grazie sono redatte sul modello iconografico noto dalle monete imperiali romane. Nella visione neoplatonica nella quale si inserisce la medaglia del

Fiorentino, esse non mantengono i nomi della tradizione classica, ma divengono Castitas, Pulchritudo e Amor, concetti peraltro congeniali a un matrimonio. Essi trovano risconto nel neoplatonismo dell’epoca e ricorrono anche nel già menzionato Marsilio Ficino nel suo El libro de l’Amore (1491, cap. I) e in una sua lettera indirizzata a Giovanni Cavalcanti del 1473 (De constantia adversus fortunam comparanda), dove queste idee significano ordine, armonia e beltà spirituale, specchio comunque di quella fisica. Celebre per la sua avvenenza immortalata nei ritratti che le fecero Domenico Ghirlandaio e Sandro Botticelli, Giovanna degli Albizzi fu una delle donne piú in vista dell’alta borghesia fiorentina dell’epoca, imparentata con i Medici proprio per il matrimonio con Lorenzo Tornabuoni. Le loro nozze furono fastose, con festeggiamenti pubblici e, per l’occasione, Sandro Botticelli affrescò la loggia di Villa Tornabuoni con scene allegoriche, tra le quali una dedicata alla sposa, con Venere e le Tre Grazie che offrono doni a una giovane, certamente Giovanna. Nonostante i buoni auspici raffigurati sulla medaglia matrimoniale, la sorte non fu benigna con gli sposi: Giovanna ebbe subito un primo figlio e poi l’anno dopo, nel 1488, di nuovo in attesa, morí di parto a vent’anni. Meno di un decennio piú tardi, Lorenzo venne arrestato e decapitato nel 1497, a 32 anni, nell’ambito delle faide e delle congiure cittadine. In questo caso le Grazie della cultura neoplatonica nulla poterono contro il fato crudele e la sanguinosa politica interna fiorentina.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Maurizio Giovagnoli

SOCIETÀ, ECONOMIA, RELIGIONE DELLE CITTÀ ERNICHE: ALATRI, ANAGNI, CAPITULUM HERNICUM, FERENTINO E VEROLI Urbana Species 7, Edizioni Quasar, Roma, 239 pp., ill. b/n e col. 15,00 euro ISBN 978-88-5491-384-4 edizioniquasar.it

con Roma, Maurizio Giovagnoli passa all’esame sistematico delle testimonianze riferibili a ciascuno degli insediamenti: Aletrium (Alatri), Anagnia (Anagni), Capitulum Hernicum (sulla cui identificazione non c’è ancora accordo unanime degli studiosi), Ferentinum (Ferentino) e Verulae (Veroli). Ne risulta un quadro variegato, che si fa chiave di lettura delle singole storie cittadine. Ivano Ascari e Rosa Roncador

KARNYX DI SANZENO Tra storia, archeologia e musica Provincia autonoma di Trento, Trento, 215 pp., ill. col. ISBN 978-88-7702-542-5 www.cultura.trentino.it (il volume è scaricabile gratuitamente)

Il volume nasce dalla tesi di dottorato dell’autore e riunisce per la prima volta l’intero patrimonio epigrafico a oggi noto dei centri situati nella Valle del Sacco, nel Lazio meridionale. Si tratta di città riferibili alla popolazione degli Ernici e le cui vicende vengono ripercorse, a partire dalle iscrizioni, muovendosi nel solco della storia sociale. Dopo un inquadramento di carattere generale, nel quale viene evidenziato uno dei fili conduttori della trattazione, ovvero il rapporto, inizialmente conflittuale, delle genti erniche 112 a r c h e o

Forte di una veste grafica elegante e riccamente illustrato, il volume presenta i risultati del progetto di ricerca «Karnyx di Sanzeno», avviato nel 2008, quando l’archeologa Rosa Roncador, che insieme a Ivano Ascari ha curato la pubblicazione del libro, riconobbe in alcuni materiali rinvenuti negli anni Cinquanta del Novecento da Giulia Fogolari a Sanzeno, in Val di Non, altrettanti frammenti di due karnykes. L’identificazione nasceva dal confronto con un esemplare trovato in Francia, a Tintignac, che,

20,00 euro ISBN 978-88-6973-831-9 www.salernoeditrice.it

fino ad allora, era uno dei pochi casi certamente interpretabili in tal senso. Il karnyx era un grande corno da guerra, che doveva emettere un suono terrificante, reso ancor piú impressionante dalle dimensioni dello strumento e dalla sua configurazione: si tratta, infatti di manufatti che potevano raggiungere i 2 m di altezza e avevano una terminazione in forma di muso di cinghiale o di serpente. Tutto questo viene illustrato in maniera dettagliata del volume, soprattutto grazie al contributo decisivo dell’archeometria e dell’archeologia sperimentale, la cui combinazione ha offerto elementi essenziali per ricostruire le modalità di fabbricazione e di utilizzo del karnyx. Livio Zerbini

COMMODO L’imperatore gladiatore che diede inizio al declino di Roma Salerno Editrice, Roma, 224 pp.

Figlio di Marco Aurelio, Commodo fu l’ultimo degli Antonini e ascese al potere a soli diciannove anni, nel 180 d.C., alla morte del padre, che già lo aveva designato come successore. Come scrive Livio Zerbini, al di là dell’intento biografico, questo saggio si propone «di ricostruire la figura di questo controverso imperatore e di meglio definire i tratti del suo principato». Da sempre, infatti, Commodo viene annoverato tra le «anime nere» della storia di Roma, come Caligola o Nerone, ma, in realtà, il suo operato è senza dubbio meritevole della revisione critica compiuta dall’autore del volume. Che, incrociando il contributo delle fonti con l’analisi storiografica, consegna al lettore un profilo inedito e di sicuro interesse. (a cura di Stefano Mammini)



presenta

MEDIOEVO

NASCOSTO LUOGHI ♦ STORIE ♦ ITINERARI PARTE II: ITALIA CENTRO-MERIDIONALE Continua il viaggio alla scoperta del «Medioevo nascosto» italiano, di quello straordinario e infinito patrimonio architettonico e artistico, talora definito, a torto, «minore». All’ombra dei grandi monumenti medievali, dei celeberrimi gioielli delle città d’arte conosciuti in tutto il mondo, la nostra Penisola è infatti costellata da centinaia, migliaia di borghi e interi quartieri cittadini, pievi e abbazie, castelli e fortificazioni, protagonisti della nuova edizione del Dossier di «Medioevo», realizzata a oltre dieci anni dalla prima rassegna sull’argomento. A guidare la redazione dell’opera non è stata soltanto la volontà di valorizzare questi beni, ma anche l’auspicio che, scorrendo le pagine del Dossier, nasca il desiderio di vederli da vicino. La seconda tappa si snoda attraverso le regioni del Meridione e le isole del Paese, dal Lazio alla Sardegna. Da Sutri, tappa obbligata per i pellegrini diretti a Roma, ma anche luogo di sosta e soggiorno di re, papi e imperatori, si scende fino all’estrema punta dello stivale, nel borgo calabrese di Pentedattilo, la città delle «cinque dita», arroccata sul Monte Calvario e che fu a lungo un importante presidio strategico. E da dove ci si può idealmente imbarcare per raggiungere la vicina Sicilia e poi risalire fino alle coste sarde. Un percorso ricco di storie e di sorprese, nel quale brillano come gemme di una collana luoghi che hanno contribuito a scrivere la storia del millennio medievale e che di quella stagione conservano testimonianze illustri.

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