Archeo n. 470, Aprile 2024

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FIDIA

NEL PORTO DI POZZUOLI YERKAPI

PARCO ARCHEOLOGICO DI MONTALE

SPECIALE LA RISCOPERTA DEL POLESINE ANTICO

Mens. Anno XXXIX n. 470 aprile 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ALLA SCOPERTA DEL POLESINE ANTICO

ARCHEOLOGIA SUBACQUEA

NEL PORTO DI POZZUOLI

EMILIA-ROMAGNA

3500 ANNI FA NELLA TERRAMARA DI MONTALE ROMA

IN MOSTRA IL GENIO DI FIDIA

HATTUŠA

NUOVE SCOPERTE NELLA

CAPITALE DEGLI ITTITI

www.archeo.it

2024

IN EDICOLA L’ 11 APRILE 2024

.it

PO SPEC LE IAL SIN E ww w. a rc E he o

ARCHEO 470 APRILE

SUL DELTA DEL PO

€ 6,50



EDITORIALE

NUOVI DETECTIVES DEL PASSATO Kurt Wilhelm Marek, in arte C.W. Ceram (1915-1972), è stato il primo giornalista a dedicarsi, con scrupolo e serietà, alla divulgazione archeologica. Esordí, nel 1949, con Il romanzo dell’archeologia (Civiltà sepolte nella traduzione italiana), destinato a diventare uno dei piú grandi successi editoriali del dopoguerra e che all’autore assicurò notorietà internazionale. Nel 1955 seguí il Libro delle rupi, in cui Ceram narrava la scoperta dell’impero degli Ittiti. Pubblicati dall’editore Einaudi, i volumi si avvalsero della prefazione, rispettivamente, di due giganti dell’archeologia italiana, Ranuccio Bianchi Bandinelli («Il lettore finirà per trovarsi arricchito di una prospettiva storica, che spesso manca alla nostra media cultura», scrive in apertura di Civiltà sepolte) e Giovanni Pugliese Carratelli. Nel 1968 Einaudi dà alle stampe I detectives dell’archeologia, una poderosa antologia critica in cui Ceram fa parlare direttamente i protagonisti dell’avventura archeologica, tra i quali l’orientalista Hugo Winckler (1963-1913). Gli scavi condotti da Winckler nella località di Boghazköy, nell’altopiano anatolico, portarono alla scoperta di migliaia di tavolette cuneiformi e all’identificazione del sito con l’antica capitale ittita, Hattuša. Ecco una sua testimonianza diretta, riportata nel volume di Ceram: «Questa volta – scrive Winckler nel 1913 – accadde ciò che non avevamo neppure osato sperare. Dopo circa venti giorni di lavoro, la trincea aperta tra i detriti sul fianco della montagna aveva raggiunto il primo muro divisorio. Sotto di esso venne ritrovata una tavoletta

meravigliosamente conservata (...) Le diedi uno sguardo e tutte le esperienze della mia vita divennero insignificanti. Qui stava scritto ciò che avremmo a malapena potuto augurarci in un momento di oziosa fantasticheria: Ramesse scriveva a Chattusil (...) circa il trattato bilaterale». La tavoletta riportava, in cuneiforme accadico, il celebre accordo di pace stilato tra il faraone egizio e il re ittita dopo la battaglia di Qadesh (1274 a.C.). Alle pagine 46-65 vi raccontiamo come, ancora oggi, la recente scoperta di «nuove» iscrizioni – questa volta all’interno di un monumento simbolo della capitale ittita – abbia suscitato sentimenti non dissimili da quelli provati, un secolo fa, da Hugo Winckler. Certo, gli strumenti a disposizione degli odierni detectives dell’archeologia (droni, laser scanner autotrasportati, elaborazioni fotogrammetriche raccolte in piattaforme georeferenziate…) sono nuovi e molteplici. Possiamo rendercene ben conto sfogliando tutti gli articoli di questo numero. Lo stesso Ceram, del resto, era consapevole delle potenzialità che la tecnologia avrebbe riservato anche alla ricerca archeologica. Ai nuovi metodi aveva dedicato, infatti, gli ultimi capitoli dei suoi detectives, spaziando dalla – per l’epoca rivoluzionaria – fotografia aerea, alla fisica atomica, alle prospezioni geofisiche messe a punto dall’ingegner Carlo Maurilio Lerici. Con un’intuizione, per un giornalista appassionato qual era, senz’altro memorabile.

In alto: modello 3D in false colors di un geroglifico ittita scoperto a Yerkapi (Hattuša) sottoposto a scansione ARTEC EVA a luce strutturata (vedi l’articolo alle pp. 46-65).

Andreas M. Steiner


SOMMARIO EDITORIALE

Nuovi detectives del passato

3

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

SCOPERTE Storie di gente di provincia ALL’OMBRA DEL VULCANO Qui ci vuole un robot

INCONTRI Gran finale ARCHEOFILATELIA Fra la terra e il mare

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46

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SCAVI

di Luciano Calenda

6

ARCHEOLOGIA SUBACQUEA

6

Nel porto «ospite del mondo» 32

8

di Mariano Nuzzo, Michele Silani, Michele Stefanile e Maria Luisa Tardugno

di Alessandra Randazzo

SCAVI Una devozione plurisecolare

Yerkapı. Una corona per la capitale ittita 46 testi di Andreas Schachner, Stefano de Martino, Metin Alparslan, Natalia Bolatti Guzzo, Massimiliano Marazzi, Leopoldo Repola, Vincenzo Morra, Celestino Grifa e Gianni Varriale

PARCHI ARCHEOLOGICI

di Giampiero Galasso

Come un giorno di 3500 anni fa

FRONTE DEL PORTO Memorie di una rivoluzione

di Andrea Cardarelli, Ilaria Pulini e Cristiana Zanasi

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12

68

di Valeria Casella e Alessandro D’Alessio

di Davide Orsini

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2024

w.a rc

IN EDICOLA L’ 11 APRILE 2024

it

PO SPEC LE IAL SIN E E he o.

ARCHEO 470 APRILE

€ 6,50

www.archeo.it

MOSTRE Fidia. Un genio tra leggenda e archeologia A TUTTO CAMPO Nuove visioni per i musei

In copertina tramonto sulla Sacca degli Scardovari (nel comune di Porto Tolle, in provincia di Rovigo) alle Foci del Po.

Presidente FIDIA

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Federico Curti

Comitato Scientifico Internazionale Mens. Anno XXXIX n. 470 aprile 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE LA RISCOPERTA DEL POLESINE ANTICO

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

PARCO ARCHEOLOGICO DI MONTALE

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

NEL PORTO DI POZZUOLI YERKAPI

Anno XL, n. 470 - aprile 2024 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

SUL DELTA DEL PO

ALLA SCOPERTA DEL POLESINE ANTICO

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto

ARCHEOLOGIA SUBACQUEA

NEL PORTO DI POZZUOLI

EMILIA-ROMAGNA

3500 ANNI FA NELLA TERRAMARA DI MONTALE ROMA

IN MOSTRA IL GENIO DI FIDIA

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HATTUŠA

NUOVE SCOPERTE NELLA

CAPITALE DEGLI ITTITI

28/03/24 10:58

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Carla Alfano, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Giulio Paolucci, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Jacopo Tabolli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Metin Alparslan è professore all’Università di Istanbul, Dipartimento di Lingue e Culture Antiche. Andrea Augenti è professore ordinario di archeologia medievale all’Università di Bologna. Sandra Bedetti è archeologa, Studio Agorà. Adria. Natalia Bolatti Guzzo è docente all’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, Napoli. Jacopo Bonetto è professore ordinario di archeologia classica all’Università degli Studi di Padova. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Andrea Cardarelli è professore ordinario di preistoria e protostoria presso Sapienza Università di Roma. Valeria Casella è funzionario architetto del Parco Archeologico di Ostia Antica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Alessandro D’Alessio è direttore del Parco Archeologico di Ostia Antica. Stefano de Martino è professore ordinario all’Università di Torino, Dipartimento di Studi Storici. Alberta Facchi è direttore del Museo Archeologico Nazionale di Adria, Direzione regionale Musei del Veneto. Giovanna Falezza è funzionario archeologo della Soprintendenza ABAP per le province di Verona, Rovigo e Vicenza. Luciano Frazzoni è archeologo. Giampiero Galasso è giornalista. Giovanna Gambacurta è professoressa associata di etruscologia e antichità italiche all’Università Ca’ Foscari, Venezia. Celestino Grifa è professore associato di petrologia e petrografia all’Università degli Studi del Sannio di Benevento. Massimiliano Marazzi è professore emerito all’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, Napoli. Vincenzo Morra è professore di petrologia e petrografia all’Università degli Studi di Napoli Federico II. Mariano Nuzzo è


Rubriche SCAVARE IL MEDIOEVO

Il pozzo delle ceramiche 104 di Andrea Augenti

104 TERRA, ACQUA, FUOCO, VENTO

Casseforti portatili

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di Luciano Frazzoni

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Il sultano e la principessa 110 di Francesca Ceci

LIBRI

112

80 SPECIALE

Antico Delta del Po. Storie, miti e tesori

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di Sandra Bedetti, Jacopo Bonetto, Alberta Facchi, Giovanna Falezza, Giovanna Gambacurta, Silvia Paltineri, Caterina Previato e Jacopo Turchetto, con un contributo di Sandro Vidali

soprintendente archeologo per l’Area Metropolitana di Napoli. Davide Orsini è direttore del SIMUSSistema Museale Universitario Senese e docente a contratto di storia della Medicina all’Università di Siena. Silvia Paltineri è professoressa associata di civiltà dell’Italia preromana all’Università degli Studi di Padova. Caterina Previato è professoressa associata di archeologia classica all’Università degli Studi di Padova. Ilaria Pulini è ricercatrice presso Goldsmiths, University of London, Department of Sociology, Londra. Alessandra Randazzo è giornalista. Leopoldo Repola è professore di disegno all’Università degli Studi di Napoli Federico II. Andreas Schachner è direttore della Missione Archeologica di Hattuša-Istituto Archeologico Germanico, Istanbul. Michele Silani è ricercatore in archeologia all’Università degli Studi della Campania «Luigi Vanvitelli», Napoli. Michele Stefanile è assegnista di ricerca in archeologia e culture del Mediterraneo antico presso la Scuola Superiore Meridionale, Napoli. Maria Luisa Tardugno è funzionaria archeologa della Soprintendenza ABAP per l’Area Metropolitana di Napoli. Gianni Varriale è ricercatore all’Università degli Studi di Napoli Federico II. Jacopo Turchetto è professore di topografia antica all’Università di Padova. Sandro Vidali è guida naturalistica. Cristiana Zanasi è curatrice della sezione Archeologia Etnologia del Museo Civico di Modena. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 36/37, 46/47, 49 (basso), 56 (basso), 80/81, 82/83, 86/87, 88/89, 98/99, 100/101 – Cortesia degli autori: pp. 3 (alto), 48/49, 51, 52-53, 59, 60-61, 62-63, 64, 110-111; Archivio della Missione di Scavo di Boğazköy: pp. 54, 54/55, 55 (alto e centro), 56 (alto); A. Dinçol-B. Dinçol: disegno a p. 55; Cooperazione italo-turco-tedesca a Hattuša: pp. 57 (alto), 58 – National Trust Images: Nathalie Cohen: pp. 6 (sinistra); James Dobson: pp. 6 (destra), 6/7, 7 – Parco Archeologico di Pompei: pp. 8-9 – Cortesia Soprintendenza ABAP per le province di Brindisi e Lecce: pp. 10-11 – Parco archeologico di Ostia antica: pp. 12-13 – Andreas M. Steiner: pp. 14-16 – Università degli Studi di Siena: Nicoletta Volante: p. 19 (alto); Archivio fotografico Museo di Scienze della Terra: p. 19 (centro, a sinistra e a destra) – Cortesia progetto «Tra Terra e Mare»: pp. 32/33, 34 (basso), 35, 37, 38-43 – Doc. red.: pp. 50, 106-108 – Cortesia Parco archeologico e Museo all’aperto della Terramara di Montale (Modena): pp. 68/69, 70-79 – Archivio Museo archeologico nazionale di Adria-Direzione regionale Musei Veneto: pp. 84-85 – Studio Agorà, Adria: pp. 87, 89, 92-93 – Università di Padova, Dipartimento dei Beni Culturali: pp. 90-91, 94-97, 102-103 – Parco Regionale Veneto Delta del Po: Rino Gastone Dissette: p. 100 – Cortesia Danilo Leone: pp. 104-105 – Cippigraphix: cartine alle pp. 34, 48 e 69; rielaborazione grafica a p. 82 (su base Studio Agorà, Adria).

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia srl Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Il Servizio Arretrati è a cura di: Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Srl - 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito: https://arretrati. pressdi.it

L’indice di «Archeo» 1985-2023 è disponibile sul sito https://ulissenet.comperio.it/ Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova


n otiz iari o SCOPERTE Regno Unito

STORIE DI GENTE DI PROVINCIA

L’

archeologia ha scritto un nuovo e importante capitolo della già lunga storia di Smallhythe, nel Kent (Inghilterra sud-orientale). Oggi gestito dal National Trust, il sito è da tempo noto per essere stato, fra il XIII e la metà del XVI secolo, uno dei piú importanti cantieri navali della Corona inglese, sviluppatosi grazie alla sua allora favorevole posizione sul fiume Rother. Le campagne di scavo condotte a piú riprese avevano ampiamente documentato la vicenda di un insediamento che arrivò a coinvolgere nella costruzione delle imbarcazioni molte decine di persone e nel quale furono realizzate anche navi di stazza considerevole, come la Marie

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o il George, aventi una stazza, rispettivamente, di 100 e 120 tonnellate. Agli inizi del Seicento, l’insabbiamento del fiume e il crollo di una diga che sbarrava uno dei suoi rami decretarono la fine delle attività cantieristiche. Come accennato, quello scenario, grazie a nuove indagini, si è ora arricchito in maniera significativa, perché sono venuti alla luce i resti di un insediamento di epoca romana, occupato fra il I e il III secolo d.C. Una frequentazione attestata dai molti reperti restituiti dallo scavo, uno dei quali, in particolare, ha attirato l’attenzione degli archeologi coinvolti nelle ricerche. Si tratta della testa di una statuetta raffigurante Mercurio, realizzata in argilla bianca, dello

A destra: la testa della statuetta raffigurante il dio Mercurio rinvenuta a Smallhythe, nel Kent. In basso, a sinistra: un vaso d’epoca romana rinvenuto integro nel corso degli scavi. In basso, a destra: frammento di tegola recante il bollo della flotta imperiale (CL[assis] B[ritannica]).


In basso: frammento di ceramica di produzione samia, della quale si intuisce, seppur molto consunta, la decorazione originaria.

stesso tipo di quella solitamente impiegata per la fabbricazione delle pipe. Il resto della figurina non è stato recuperato, ma è verosimile credere che il dio che i Romani consideravano patrono dei commerci e dei guadagni fosse stato raffigurato in piedi, avvolto in una clamide (un mantello corto) oppure nudo, con il caduceo, il suo tipico bastone intorno al quale sono avvinghiati due serpenti. Come ha dichiarato Matthew Fittock, un esperto di questo genere di reperti: «Le statuette di terracotta erano utilizzate soprattutto dai civili per la pratica religiosa privata, negli altari domestici e, occasionalmente, nei templi e nelle tombe dei bambini. Casi come quello di Smallhythe suggeriscono che rompere deliberatamente alcune teste di

statuette potesse essere una pratica rituale importante. A oggi, si conoscono poche teste singole di terracotta, alcune delle quali potrebbero dunque essere state offerte votive. Reperti come quello di Smallhythe offrono in ogni caso

informazioni preziose sulle credenze e le pratiche religiose delle popolazioni culturalmente miste delle province romane». È infine significativo segnalare che, finora, la Britannia romana aveva restituito in prevalenza statuette di divinità femminili, prima fra tutte Venere: una circostanza che dunque accresce l’eccezionalità del Mercurio ritrovato a Smallhythe. (red.)

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ALL’OMBRA DEL VULCANO di Alessandra Randazzo

QUI CI VUOLE UN ROBOT RIDARE UN SENSO A MIGLIAIA DI FRAMMENTI DI AFFRESCHI: È QUESTO UNO DEGLI OBIETTIVI DI REPAIR, IL PROGETTO BASATO SULL’IMPIEGO DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE E DELLA ROBOTICA AVVIATO DAL PARCO DI POMPEI IN COLLABORAZIONE CON PRESTIGIOSI ENTI ITALIANI E STRANIERI

L’

archeologia incontra l’intelligenza artificiale: è questo il cuore del progetto RePAIR, acronimo di «Reconstruction the past: Artificial Intelligence and Robotics meet Cultural Heritage», che vede coinvolti il Parco Archeologico di Pompei, l’Università Ca’ Foscari di Venezia (ente coordinatore), la Ben-Gurion University of the Negev di Be’er Sheva (Israele), l’IIT-Istituto Italiano di Tecnologia, l’Associacao do Instituto Superior Tecnico Para a Investigacao e Desenvolvimento del Portogallo, la Rheinische Friedrich Wilhelms Universitat di Bonn in Germania e il Ministero della Cultura. Avviata nel 2021, l’attività si avvale del supporto scientifico e strumentale di importanti istituti di ricerca internazionali nel campo della computer vision e dell’intelligenza artificiale con il supporto di enti impegnati nella conservazione dei beni culturali.

QUASI COME UN PUZZLE Oggetto di questa sperimentazione è la ricomposizione dei frammenti degli affreschi della Casa dei Pittori al Lavoro di Pompei, nell’Insula dei Casti Amanti, danneggiati sia dall’eruzione del 79 d.C., sia dai bombardamenti che colpirono la

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Sulle due pagine: immagini di varie fasi delle operazioni di documentazione e ricomposizione dei frammenti di affreschi e di ceramica condotte nell’ambito del progetto RePAIR.


città antica durante la seconda guerra mondiale. Mediante la creazione di una infrastruttura robotica ad hoc, installata presso la Casina Rustica del Parco archeologico, sarà possibile eseguire la scansione dei frammenti e il loro riconoscimento tramite un supporto software e un sistema di digitalizzazione 3D, cosí da poterli collocare, come in una sorta di puzzle tridimensionale, nella posizione originaria. Si tratta di migliaia di pezzi, attualmente conservati nei depositi, che sono anche oggetto di un programma di studio coordinato dall’Università di Losanna e dal professor Michel E. Fuchs, che, parallelamente al lavoro sperimentale del progetto RePAIR, viene portato avanti con metodi di studio «tradizionali», basati sulla comparazione stilistica e morfologica dei frammenti e sull’ingegno umano. Il secondo caso di studio è, invece, la ricomposizione dei frammenti di affreschi della Schola Armaturarum, l’importante complesso costruito lungo via dell’Abbondanza che probabilmente ospitava un’associazione militare come dimostrerebbero i numerosi dipinti con trofei e armi sulle pareti.

L’edificio balzò alla ribalta delle cronache nel 2010 per il suo parziale crollo: un evento che ebbe vasta eco, ma che, tuttavia, si è trasformato nel germe della rinascita del sito archeologico con l’avvio, nel 2015, sotto la direzione di Massimo Osanna, del Grande Progetto Pompei. Quest’ultimo, grazie ai suoi grandi cantieri di messa in sicurezza e restauro, uno dei quali ha appunto previsto il risanamento e la copertura dei resti della Schola Armaturarum, ha proiettato il sito UNESCO tra i migliori esempi di best practice per la conservazione e tutela del patrimonio archeologico. Il progetto RePAIR si avvale di una comunicazione aggiornata e costante tramite il suo sito internet (www.repairproject.eu) e tutti i piú importanti canali social (X, Instagram, Facebook, Linkedin), che coadiuvano la diffusione scientifica della ricerca, seguendo gli aggiornamenti e le curiosità sui vari partner coinvolti.

UN PROBLEMA ATAVICO «Le anfore, gli affreschi, i mosaici – spiega Gabriel Zuchtriegel, direttore del Parco archeologico di Pompei – vengono spesso riportati alla luce in frammenti, solo

parzialmente integri o con molte parti mancanti. Quando il numero dei reperti è molto elevato, con migliaia di pezzi, la ricostruzione manuale e il riconoscimento delle connessioni tra i frammenti sono quasi sempre impossibili o comunque molto laboriosi e lenti. Questo fa sí che i materiali giacciano a lungo nei depositi, senza poter essere ricostruiti e restaurati, né, tantomeno, restituiti all’attenzione del pubblico. Il progetto RePAIR, frutto di ricerca e competenza tecnologica, grazie all’ausilio della robotica, della digitalizzazione e dell’intelligenza artificiale, si pone l’obiettivo di risolvere un problema atavico». «Dal punto di vista scientifico e tecnologico – aggiunge Marcello Pelillo, coordinatore del progetto e professore di intelligenza artificiale all’Università Ca’ Foscari Venezia –, il progetto pone sfide importanti per affrontare le quali utilizzeremo le piú avanzate tecniche nel campo dell’intelligenza artificiale, della visione artificiale e della robotica». Il progetto ha inoltre ricevuto finanziamenti dal programma di ricerca e innovazione Horizon 2020 dell’Unione Europea, nell’ambito della Grant agreement n. 964854. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: PompeiiParco Archeologico; X: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.

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n otiz iario

SCAVI Puglia

UNA DEVOZIONE PLURISECOLARE

A

cinquant’anni dalle prime ricerche sistematiche, condotte dall’allora Soprintendenza Archeologica della Puglia, l’antica Vaste, nel comune di Poggiardo (Lecce), riserva ancora novità sorprendenti, in grado di aprire nuovi scenari nella ricostruzione del paesaggio antico. Già a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, gli scavi piú recenti si sono concentrati nell’area del Fondo Giuliano, dove sono stati messi in luce un edificio di culto paleocristiano e una vasta area cimiteriale a esso collegata. Proprio nell’ambito dell’ultima campagna, finanziata e sostenuta anche dall’amministrazione comunale di Poggiardo, un approfondimento effettuato nella navata settentrionale della basilica, datata alla seconda metà del VI secolo, ha messo in luce interessanti preesistenze di epoca messapica arcaica. L’ipotesi dell’esistenza di un luogo di culto messapico nel sito dell’edificio di culto, già formulata negli anni e ora confermata dalle

nuove indagini, si fondava sul reimpiego di numerosi elementi architettonici antichi nell’area cimiteriale. La continuità nella destinazione d’uso dell’area è verosimilmente dovuta all’orografia del sito, posizionato in un punto strategico, 2 km circa a nord di Vaste, sulle Serre, da cui si dominano la piana di Poggiardo verso sud-ovest e un tracciato stradale diretto a Otranto. L’area delle ricerche aveva finora restituito evidenze relative a tre chiese sovrapposte che si distribuiscono su un arco cronologico compreso tra il IV e il IX secolo: la piú antica di esse, costruita nella seconda metà del IV secolo, aveva la funzione di martyrion, intorno al quale col

In questa pagina, dall’alto, in senso antiorario: Vaste (Lecce), Fondo Giuliano: veduta generale della catacomba e della chiesa; lo scavo nell’area della navata della chiesa paleocristiana; una delle trincee di scavo.

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tempo va sviluppandosi un’estesa area necropolare. «Le recenti indagini – afferma Giovanni Mastronuzzi, direttore scientifico dello scavo – sono state finalizzate a chiarire la funzione di una struttura a blocchi, apparentemente collegata alla chiesa piú antica, posta all’interno della navata nord della basilica della seconda metà del VI secolo. La struttura indagata è realizzata con blocchi di calcarenite e si aggancia a un fronte di cava utilizzato in epoca messapica per estrarre pietra da taglio. Lo scavo stratigrafico ha permesso di riconoscere un edificio con pianta rettangolare, con un lato ricavato sul piano di roccia. Esso è privo di piano di calpestio e


al suo interno si è individuato un potente riempimento con terra e pietre calcaree riferibile al cantiere della piú antica delle chiese. I blocchi, invece, poggiano direttamente sugli strati messapici, senza alcuna fondazione, e sono collegati a lembi di terreno con manufatti del VI-V secolo a.C. Questi elementi permettono di riconoscere un edificio di epoca messapica arcaica, preesistente alle chiese paleocristiane. In merito alla funzione soccorrono le caratteristiche costruttive del vano: esso è interpretabile come un recinto, probabilmente privo di copertura, ma dotato di una cornice con raffinata decorazione scolpita a rosette e fiori di loto, che è tra gli elementi architettonici reimpiegati nel cimitero paleocristiano, insieme a due colonne, blocchi di stilobate e stipiti. Tutti questi elementi avevano suggerito che l’area avesse avuto una destinazione sacra fin da epoca messapica, a conferma della continuità nella sua destinazione, certamente imputabile alla natura stessa del luogo.

Un ulteriore saggio di scavo posizionato a ovest del muro di nartece della basilica ha permesso di verificare che davanti alla facciata della basilica si sviluppava uno spiazzo con piano di calpestio in calcare compatto. Piú distante da essa due file parallele di blocchetti lapidei non sono in relazione stratigrafica e cronologica con l’impianto ecclesiastico, ma piuttosto possono essere riferiti ad apprestamenti leggeri di epoca post-medievale. Tra i reperti mobili rinvenuti in questo settore si segnala un frammento di matrice per dischi fittili, risalente a epoca messapica». «Gli scavi archeologici – conclude la soprintendente Francesca Riccio – continuano dunque a rivelare nuove informazioni fondamentali per ricostruire la storia del popolamento nel Salento, in riferimento alla civiltà messapica, all’età romana, alle fasi paleocristiane, bizantine e medievali». Gli scavi nel Fondo Giuliano sono affidati in concessione dal

In alto: vasi in vetro di varia foggia e tipologia restituiti dallo scavo del cimitero paleocristiano. A sinistra: veduta aerea del recinto di epoca messapica individuato nell’area della navata della chiesa. Ministero della Cultura all’Università del Salento e condotti sotto la direzione scientifica di Giovanni Mastronuzzi, docente di archeologia classica dell’ateneo, in stretta sinergia con la SABAP per le province di Brindisi e Lecce, in particolare con la soprintendente Francesca Riccio e la funzionaria archeologa Serena Strafella. Coordinate sul campo dall’archeologa Valeria Melissano, le operazioni di scavo, sono state eseguite dai responsabili di saggio Francesco Solinas, Giacomo Vizzino e Giovanna Maggiulli, che hanno guidato un team di studenti del corso di laurea magistrale in archeologia e della Scuola di specializzazione in Beni archeologici dell’Università del Salento «Dinu Adamesteanu». Giampiero Galasso

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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

MEMORIE DI UNA RIVOLUZIONE SONO NUOVAMENTE VISITABILI LE TERME DEL NUOTATORE DI OSTIA. UN IMPIANTO DI MODESTE DIMENSIONI, MA DI STRAORDINARIA IMPORTANZA: OLTRE CINQUANT’ANNI FA, INFATTI, FU INTEGRALMENTE INDAGATO, CON GLI ALLORA INNOVATIVI METODI DELL’ARCHEOLOGIA STRATIGRAFICA

L

e Terme del Nuotatore (R. V, Is. X,3), balneum edificato nella tarda età flavia a servizio delle ricche abitazioni del quartiere, sono un edificio per cosí dire «mitico» di Ostia. Non tanto per la loro estensione e monumentalità, tutto sommato modeste, ma per essere state protagoniste di una stagione di importanza a dir poco capitale per la storia dell’archeologia italiana (e non solo). Era il 1966 quando Giovanni Becatti volle affidare all’Istituto di Archeologia dell’Università Sapienza di Roma, con lucida lungimiranza e in piena sintonia con l’allora soprintendente di Ostia, Maria Floriani Squarciapino, lo scavo di questo pur piccolo impianto termale. A dirigere le indagini, con una nutrita squadra di assistenti e allievi dell’ateneo romano, fu chiamato Andrea Carandini, che per la prima volta in Italia ebbe modo di applicare alla ricerca archeologica sul campo quel metodo stratigrafico che si sarebbe affermato di lí in avanti come teoria e prassi di scavo unanimemente condivisa. Le Terme del Nuotatore sono del resto ancora oggi le sole a Ostia delle quali si conosca l’estensione complessiva e di cui si sia potuta

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individuare e datare, appunto su base stratigrafica, l’intera sequenza di vita: dalla loro costruzione, alla fine del I secolo d.C., passando per la ristrutturazione del II e fino al loro abbandono, intorno alla metà del III secolo d.C. Non solo: grazie a Clementina Panella, che di quella squadra fece parte per tutto il periodo di svolgimento dello scavo e oltre, anche gli studi sulla cultura

materiale romana entravano finalmente e a pieno titolo nel novero della nostra disciplina. Una «rivoluzione», insomma, alla quale il Parco archeologico di Ostia antica non poteva non tributare il suo riconoscimento. Dopo anni di penosa incuria dovuta alla persistente carenza di fondi (un vulnus, questo, che inficia tuttora ampie porzioni della città antica),

Fotopiano delle Terme del Nuotatore.


In alto: una veduta dei resti delle Terme del Nuotatore, cosí come si presentano dopo l’intervento di restauro appena portato a termine. A destra: il frigidarium delle Terme del Nuotatore. In primo piano si riconosce il mosaico con la raffigurazione del nuotatore che ha dato nome all’edificio. l’edificio versava infatti in condizioni precarie, tanto e in primis di conservazione, quanto di visibilità e accessibilità. Grazie a un finanziamento straordinario concesso dalla Direzione Generale Bilancio del MiC (300 000 euro, di cui quasi i due terzi per lavori), si è cosí dato avvio a un primo e già importante intervento di recupero, messa in sicurezza e restauro del monumento, che ci si augura di integrare e completare nel piú prossimo futuro con l’ottenimento di ulteriori fondi dedicati.

SCELTE MIRATE Il cantiere ha avuto inizio nell’aprile del 2023 e si è concluso nello scorso gennaio. Considerata l’entità dei fondi a disposizione, è stato necessario operare scelte mirate nella predisposizione dell’intervento, dando priorità al nucleo centrale dell’edificio: frigidarium con vasca, atrio e corridoio. Buona parte delle strutture erano completamente ricoperte da edera, le cui radici, infiltrandosi profondamente nelle murature, avevano causato la disgregazione dei nuclei e delle malte, sia delle porzioni antiche che di quelle di restauro.

La rimozione della vegetazione è stata praticata contestualmente alla messa in sicurezza delle strutture stesse, con un’operazione di scopertura progressiva e che ha man mano rivelato le compagini murarie occultate. Si è proceduto quindi alla raccolta e catalogazione delle porzioni e dei materiali erratici, alla rimozione dei depositi stratificatisi nel tempo, al riallettamento e alla riadesione di singole porzioni, reintegrandole con elementi e malte matericamente compatibili e visivamente adeguate. Questa particolare attenzione al contesto è il dato caratterizzante dell’intervento eseguito, sia nell’ottica di non alterare le compagini murarie e la lettura stratigrafica degli elevati, sia per la necessità di armonizzare l’insieme e permetterne una visione unitaria.

UN CONTESTO ARTICOLATO La volontà di mantenere tale unitarietà di lettura del contesto ha inoltre indotto a privilegiare ulteriori scelte esecutive, quali la replica delle protezioni delle creste murarie con bauletti uniformi a quanti

precedentemente messi in opera, in cocciopesto con pochi elementi lapidei emergenti. Piuttosto che trattare le creste murarie quali nuclei esposti, si è cioè preferito uniformare l’immagine delle protezioni al già esistente, evitando dissonanti differenziazioni del contesto monumentale stesso, di per sé già molto articolato. Infine, sono stati messi in sicurezza le superfici pavimentali a mosaico (fra cui quella con la figura del nuotatore da cui le terme hanno preso nome) e gli intonaci dipinti, anche qui a partire dalla disinfestazione e fino alla riadesione delle porzioni distaccate. Le lacune pavimentali sono state da ultimo reintegrate con battuti di graniglia, a rendere i piani meno vulnerabili alle infestazioni vegetali e alle infiltrazioni d’acqua, garantendo cosí la maggior durata dell’intervento effettuato e una sua piú agevole manutenzione. L’obiettivo primario del progetto è stato in ogni caso raggiunto: le Terme del Nuotatore, infatti, sono ora nuovamente fruibili dai visitatori del Parco. Valeria Casella e Alessandro D’Alessio

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n otiz iario

MOSTRE Roma

FIDIA. UN GENIO TRA LEGGENDA E ARCHEOLOGIA

A

l piú grande scultore di tutti i tempi – perfino il padre della scultura moderna, August Rodin, nel 1911 aveva affermato che «nessuno supererà mai Fidia» – è dedicata una raffinata mostra allestita ai Musei Capitolini di Roma. Oltre 100 opere, tra reperti archeologici,

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originali greci e repliche romane, dipinti, manoscritti e installazioni multimediali, tracciano un percorso alla scoperta della vita e delle opere di questo geniale personaggio, protagonista dell’Atene al tempo di Pericle. Un personaggio di rilevanza universale la cui esistenza, però, Sulle due pagine, da destra, in senso orario: statua di Amazzone ferita nel tipo Sosikles, II sec. d.C.; disegno e foto di una brocchetta con iscrizione «Io appartengo a Fidia», dalla cosiddetta Officina di Fidia a Olimpia, 430 a.C. circa; Pericle ammira le opere di Fidia al Partenone, olio su tela di Gaspare Landi, 1811-1813; installazione multimediale dedicata al Partenone. rimane circondata da un alone di mistero e la stessa conoscenza delle sue opere – tra cui le decorazioni scultoree del Partenone, il celebre monumento costruito sotto la sua supervisione, la grande statua crisoelefantina («in oro e avorio») di Atena posta all’interno del tempio e quella, altrettanto colossale, dello Zeus di Olimpia, annoverata tra le sette meraviglie del mondo antico – si

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n otiz iario Teste dei Dioscuri, calchi in gesso provenienti dallo studio di Antonio Canova. Ravenna, Gipsoteca dell’Accademia di Belle Arti.

basa in massima parte su repliche e su fonti letterarie. Il percorso della mostra è articolato in 6 sezioni: «Il ritratto di Fidia»; «L’età di Fidia»; «Il Partenone e l’Atena Parthenos»; «Fidia fuori da Atene»; «L’eredità. di Fidia»; «Opus Phidiae: Fidia oltre la fine del mondo antico». La prima sezione presenta alcune testimonianze tra le piú dirette dello scultore: una testa in marmo del I secolo che forse ne riproduce il volto, una brocchetta in argilla e vernice nera (databile agli anni Trenta del V secolo a.C.) sulla quale è incisa la scritta Pheidiou eimi («io appartengo a Fidia»), due statuette in bronzo raffiguranti la figura di un artigiano, possibile identificazione con lo stesso Fidia. La seconda sezione illustra il contesto storico, politico e artistico

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dell’Atene agli inizi del V secolo a.C.; la terza sezione si sofferma sull’attività dello scultore nella stessa Atene, dove, per volere di Pericle, Fidia seguí in veste di episkopos (sovrintendente) i lavori di costruzione del Partenone. La quarta sezione illustra alcuni degli episodi piú significativi della carriera dello scultore fuori dalla sua città natale, in particolare a Olimpia, dove la sua officina, allestita presso il santuario di Zeus, venne usata da Fidia e dai suoi collaboratori per eseguire la colossale statua crisoelefantina del padre degli dèi. Il percorso prosegue con la sezione dedicata all’impatto che l’arte fidiaca – nonché le sue tecniche – esercitarono sulle successive generazioni di artisti, sia nella Grecia che in Magna Grecia e si

chiude con uno sguardo sull’Opus Phidiae, sulla fortuna e sulla fama del grande scultore in età moderna. Curata da Claudio Parisi Presicce, l’esposizione si pone come la prima di un ciclo di cinque mostre intitolato ai «Grandi Maestri della Grecia Antica», diretto a far conoscere al grande pubblico i principali protagonisti della scultura greca. (red.)

DOVE E QUANDO «Fidia» Roma, Musei Capitolini, Villa Caffarelli fino al 5 maggio Orario tutti i giorni, 9,30-19,30 Info tel. 06 06 08 (attivo tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museicapitolini.org



A TUTTO CAMPO Davide Orsini

NUOVE VISIONI PER I MUSEI LA PRINCIPALE MISSIONE DEL SISTEMA MUSEALE DELL’UNIVERSITÀ DI SIENA È IL CONTATTO CONTINUO CON LA SOCIETÀ CIVILE, RICERCATO ATTRAVERSO ESPERIENZE IN GRADO DI COINVOLGERE E DI EDUCARE IL VISITATORE A TUTTI I LIVELLI: DALL’IMPIEGO SPERIMENTALE DI UN AVATAR ROBOTICO AI LABORATORI DI RICERCA APPLICATA PER LE SCUOLE

C

on l’intenzione di incrementare la percezione dell’inclusione e, di conseguenza, la volontà di partecipazione, il SIMUS ha scelto di dotarsi di uno strumento che permette la visita alle persone che non possono fisicamente accedere ai musei, rendendoli spazi sempre piú inclusivi e praticabili. Si tratta di Atena, un dispositivo di comunicazione aumentativa alternativa, dedicato alle persone con difficoltà motorie, che possono in questo modo visitare da remoto gli ambienti museali e le collezioni attraverso un alter ego robotico: il dispositivo può essere teleguidato e permette di interagire anche con il personale del Museo, aspetto per noi fondamentale e irrinunciabile. L’esperienza della visita attraverso l’avatar robotico è autenticamente immersiva: il sistema consente di muoversi negli spazi, regolando audio, video e altezza del campo visivo in modo autonomo, per osservare gli oggetti in maniera ravvicinata e leggerne le didascalie. È possibile, inoltre, interagire con

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mezzo gradito soprattutto dagli istituti scolastici, che, attivando l’avatar attraverso i computer di classe, possono partecipare alle esperienze formative organizzate dai Musei, oltre a quelle che riescono a realizzare in presenza.

SOSTENIBILITÀ E BENESSERE

l’ambiente, in quanto il monitor e gli altoparlanti a bordo permettono al visitatore da remoto, qualora lo desideri, di rendersi visibile a distanza e di entrare in contatto con i visitatori e le guide presenti nel Museo. Atena può naturalmente essere utilizzato anche da chi non può, in un dato momento, recarsi di persona al museo, e si sta dimostrando un

Tali scelte operate dai Musei del SIMUS tendono a incrementare le libertà personali, le opportunità sociali e la conoscenza, che diventa una «risorsa collettiva», particolarmente attuale in un momento, come il presente, di ripensamento e riorganizzazione delle società verso principi di sostenibilità e benessere, anche in linea con l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. L’inclusione e l’accessibilità culturale presuppongono il diritto alla conoscenza e a un’educazione di qualità per tutti. Se questo è vero per ogni Museo, lo è ancor di piú per quelli universitari, che hanno origine dalla raccolta di strumenti didattici e dai risultati derivanti dalla ricerca applicata.


In tal senso il SIMUS ha dinanzi a sé una nuova, grande opportunità: far sí che i propri beni possano divenire strumenti sempre piú efficaci di partecipazione alla vita culturale e di comunicazione con l’esterno, con il territorio e con quanti lo abitano, anche per tempi relativamente brevi. I nostri Musei si configurano pertanto come un hub di partecipazione e di comunicazione scientifica, come luoghi di dialogo e di inclusione sociale, e svolgono una funzione essenziale nello sviluppo del benessere della società, contribuendo a realizzare quanto sancito dalla nostra Costituzione all’articolo 3, e cioè «il pieno sviluppo della persona umana». Vanno letti in quest’ottica i progetti che il SIMUS cura durante l’anno, dalla ricca offerta di percorsi didattici per le scuole attraverso il Progetto ESCAC (Educazione Scientifica per una Cittadinanza Attiva e Consapevole), alle iniziative per il Darwin Day, fino alla Festa dei Musei, in occasione della quale migliaia di persone partecipano ai laboratori allestiti nella cornice dell’Orto Botanico universitario.

A destra: Progetto ESCAC: la preistoria proposta agli studenti della scuola primaria alle Collezioni di Archeologia e d’Arte. Nella pagina accanto: la copertina della brochure del Progetto ESCAC per l’edizione 2023-2024.

In alto: l’avatar Atena al lavoro, durante la pandemia di Covid 19. Il dispositivo mette a disposizione dell’utente un alter ego robotico che consente la visita in remoto dei musei. A sinistra: Progetto ESCAC: un nuovo gioco sull’evoluzione al Museo di Scienze della Terra.

LA TERZA MISSIONE Durante il 2023 l’Ateneo senese, nell’ambito delle attività di terza missione, ha promosso varie iniziative sul tema Essere Umani, e il SIMUS vi ha preso parte organizzando appuntamenti nell’ambito di Bright-Night 2023–La Notte delle Ricercatrici e dei Ricercatori, rendendo cosí evidente a tutti che i Musei sono luoghi dove si fa ricerca, i cui risultati vengono diffusi attraverso canali che interessano non solo gli studiosi nei diversi ambiti disciplinari, ma l’intera cittadinanza. In tale occasione il SIMUS ha, tra l’altro, rinnovato il percorso espositivo all’interno del Palazzo

del Rettorato, scegliendo di esporre beni che, declinando il tema Essere umani, richiamano diversi progetti di ricerca e divulgazione che le varie realtà museali universitarie hanno in corso di svolgimento. Ciascun bene è stato accompagnato da un podcast (www.spreaker.com/show/imuseiuniversitari-senesi-raccontano) che, attraverso le voci degli operatori museali, illustra gli oggetti in mostra e il legame di ciascun bene culturale con il tema

scelto dall’Ateneo senese, evidenziando elementi importanti per la crescita culturale e sociale di tutti. I percorsi espositivi e quelli museali diffusi raccontano storie, e i direttori dei Musei invitano i lettori di «Archeo» a conoscerle, visitandone il sito web (www. simus.unisi.it), ascoltando i podcast e guardando i video presenti sul canale YouTube dedicato ai Musei del SIMUS. (2 – fine) (davide.orsini@unisi.it)

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n otiz iario

IN CROCIERA CON «ARCHEO»

ALLA SCOPERTA DEL GRANDE NORD

S

ono le grandi rotte artiche ad aver ispirato gli itinerari delle crociere di Swan Hellenic in programma fra giugno e luglio: Iceland in Depth (16-24 giugno), Arctic Islands & Fjords (24 giugno-7 luglio) e Svalbard Explored (7-14 luglio) sono l’occasione per scoprire la storia e le bellezze naturali di regioni di terre che le comunità umane hanno abitato e abitano sfidando condizioni spesso estreme. Iceland in Depth prende il via da Reykjavík, la capitale situata piú a nord nel mondo. Dal punto di vista geomorfologico, l’Islanda è una terra relativamente giovane ed è soggetta a periodici cambiamenti, determinati dall’attività vulcanica e sismica. È un’isola per lo piú montuosa e ricoperta di ghiacciai, i piú vasti in Europa, dai quali peraltro ha preso il suo nome, che, letteralmente, vuol dire appunto

Isola di Grímsey

Ísafjördur

Isola di Vigur Akureyri Cascate di Dynjandi

ISLANDA

Seyðisfjörður Djupivogur

Reykjavík

Heimaey

OCEANO ATLANTICO SETTENTRIONALE

In alto: una veduta di Ísafjördur, città di pescatori circondata dai Westfjords islandesi. Qui sopra: uno scorcio di Vigur, una delle due sole isole abitate nella regione dei Westfjords. A sinistra: la spettacolare cascata di Dynjandi, situata anch’essa nella regione dei Westfjords.

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In alto: un paesaggio nei pressi di Djupivogur, villaggio di origini vichinghe. A destra: una veduta di Longyearbyen, sull’isola di Spitsbergen (Svalbard). «terra dei ghiacci». Vulcanesimo, ghiacciai e geyser caratterizzano dunque i paesaggi naturali di questo Stato insulare che, pur distando appena 300 km dalle coste della Groenlandia e ben 900 da quelle scozzesi, per cultura, lingua, popolazione, presenta tratti nettamente europei. Come detto, Iceland in Depth prende il via da Reykjavík, che, nell’874, fu il primo insediamento scandinavo nell’isola. Per avere un’idea della città, si può prendere

l’ascensore che raggiunge la cima della Hallgrímskirkja, la grande chiesa realizzata su progetto dell’architetto islandese Gudjón Samuelsson, che è uno degli edifici simbolo della capitale. Ma la visita a Reykjavík sarebbe incompleta senza fare tappa alla Laguna Blu, famosa per le sue acque termali terapeutiche. Il secondo giorno è dedicato a una delle attrazioni naturali piú spettacolari del Paese: la cascata di Dynjandi, nella regione dei

Longyearbyen

MARE DI GROENLANDIA SVALBARD

Isola di Jan Mayen

Grimsey Ísafjördur

ISLANDA Reykjavík

MARE DI NORVEGIA

Westfjords. Nelle vicinanze, si può raggiungere Hrafnseyri, cittadina che diede i natali a Jón Sigurðsson, leader del movimento per l’indipendenza islandese del XIX secolo. Il locale museo include una tipica casa islandese di torba. Circondata dai Westfjords, Ísafjördur, terza tappa della crociera, è una vivace città di pescatori, nella quale spiccano le colorate case in legno del XVIII e XIX secolo della parte piú antica dell’abitato, Neskaupstadur. Nelle vicinanze, Sudavik è sede dell’Arctic Fox Centre, un centro di

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n otiz iario ricerca e di documentazione dedicato appunto alla volpe artica (Alopex lagopus), il solo mammifero terrestre indigeno dell’isola, che vive nella lussureggiante tundra della Riserva Naturale di Hornstrandir. Nella stessa giornata, si fa tappa a Vigur, seconda isola, per grandezza, dei Westfjords, e vero e proprio santuario degli uccelli marini. Stormi di sterne artiche, pulcinelle di mare, gazze e anatre marine nidificano sulle scogliere rocciose. Qui svetta anche l’unico mulino a vento dell’Islanda. La quarta tappa è Grímsey, un’isola remota, situata a 40 km al largo della costa settentrionale dell’Islanda. Il sito è meta obbligata per tutti coloro che desiderano provare l’ebbrezza di raggiungere il Circolo Polare Artico, poiché si tratta dell’unica località islandese in cui è possibile farlo. Da Grímsey si raggiunge quindi l’isola di Hrisey, nel fiordo di Eyjafjörður. Anche qui vive una fauna molto ricca, che comprende pulcinelle di mare, foche e balene. Dal monte Hriseyjarfjall si possono godere splendide vedute del

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A sinistra: una tipica formazione naturale nell’area delle Svalbard. In basso: crocieristi in escursione nelle acque artiche.

naturali, tra cui la regione di Myvatn, la cascata di Dettifoss, la cascata di Godafoss e il canyon di Asbyrgi. Ma prima di raggiungerle, vale la pena di dedicare un po’ di tempo anche alla città: da non perdere sono il pittoresco lungomare e il Lystigardurinn, il giardino botanico artico. Nel sesto giorno si viene accolti dalle case in legno, vivacemente dipinte, del porto di Seyðisfjörður, considerato il polo culturale della porzione orientale dell’isola, affermatosi come una vivace scena artistica. Il sito è circondato da una natura incredibile e la

paesaggio circostante e dell’ampia distesa del fiordo di Eyjafjörður. L’isola possiede inoltre un ricco patrimonio culturale e la sua comunità continua a praticare vari mestieri tradizionali islandesi, come la lavorazione a mano della lana e la lavorazione del legno. Chiamata «Città del sole di mezzanotte» o «Capitale dell’Islanda del Nord», Akureyri, la tappa successiva, è porta di accesso ad alcune meraviglie

vicina riserva naturale di Skálanes è nota per la sua ricca fauna selvatica – forte di oltre 47 specie di uccelli – e per le ancor piú numerose specie vegetali. Né mancherà l’occasione di incontrare renne, foche e delfini. Si fa quindi tappa a Djupivogur, un villaggio di pescatori che vanta origini vichinghe e nelle cui vicinanze si trova il Parco Nazionale di Vatnajökull, nel quale ricadono la piú grande calotta glaciale


Un esemplare di volpe artica (Alopex lagopus), specie che fa parte del ricco patrimonio faunistico delle Svalbard.

Stretto di Hinlopen Riserva naturale delle Svalbard nord-orientali Parco nazionale di Spitsbergen

SVALBARD

Longyearbyen Parco nazionale di Spitsbergen meridionale

Riserva naturale delle Svalbard sud-orientali

MARE DI BARENTS

d’Europa, il ghiacciaio Vatnajökull, fiumi e vulcani attivi. L’ottavo giorno è dedicato a Heimaey, un’isola di 13 km quadrati nelle Isole Westman, al largo della costa meridionale dell’Islanda. Qui è stanziata la piú grande colonia di pulcinelle atlantiche del mondo, che raggiunge la spettacolare cifra di 10 milioni di esemplari. La crociera termina là dove era iniziata, cioè a Reykjavík, uno scalo che dà modo di completare la conoscenza della vivace capitale della Repubblica d’Islanda. Arctic Islands & Fjords offre

l’opportunità di esplorare le regioni piú settentrionali del mondo, dall’Islanda alla Groenlandia orientale, l’isola di Jan Mayen e Svalbard, all’interno del Circolo Polare Artico. In Groenlandia si possono scoprire culture indigene di eccezionale interesse e conoscere gli stili di vita adottati in terre, come è questa, scarsamente popolate. E poi parchi nazionali, aree faunistiche protette e il sistema di fiordi piú esteso che si conosca. Il viaggio tocca anche l’isola di Jan Mayen, dove il sole di mezzanotte getta ombre sul

Esemplari di renne delle Svalbard (Rangifer tarandus platyrhynchus), la piú piccola sottospecie della renna, presente nelle regioni dell’Alto Artico.

paesaggio ghiacciato, nel quale non è difficile incontrare orsi polari, trichechi, foche e balene e milioni di uccelli marini. Protagonista di Svalbard Explored è la natura selvaggia dell’Alto Artico, all’interno del Circolo Polare Artico, tra i 74° e gli 81° di latitudine nord. Le Svalbard comprendono le isole Spitsbergen, Terra di Nord-Est, Edge, Barents, Prins Karls Forland, Kong Karls Land, Kvitøya, Hopen e numerosi isolotti e scogli adiacenti . Il territorio, aspro e inciso da fiordi, culmina a 1717 m nel Newtontoppen, sull’isola di Spitzbergen. Ricoperte dalla tundra artica e dai ghiacci, che bloccano i porti per nove lunghi mesi, le isole sono immerse nella notte polare per quasi un terzo dell’anno, mentre il sole di mezzanotte è visibile per 127 giorni consecutivi. Le Svalbard furono scoperte dai Vichinghi nel XII scecolo e riscoperte dal navigatore e cartografo olandese Willem Barents nel 1596. Nel 1920 il Trattato di Parigi le assegnò alla Norvegia, che ne prese possesso nel 1925. Info e prenotazioni: e-mail, enquiries@swanhellenic.com

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n otiz iario

INCONTRI Roma

GRAN FINALE

S

i conclude domenica 14 aprile la decima edizione di «Luce sull’Archeologia» la rassegna di storia e arte ospitata dal Teatro Argentina di Roma che quest’anno ha avuto come tema «La “villeggiatura” nell’antica Roma: l’otium come sentimento sublime di bellezza ed esperienza di civiltà». Un tema che ha permesso di approfondire il rapporto dei Romani con la terra e la natura, quando, alla fine dell’età repubblicana, ragioni storico-politiche e culturali determinano la trasformazione della mentalità e del costume delle élites, che prediligono sempre piú una vita lontano dalla città e dal centro del potere. «Luce sull’Archeologia» è un progetto del Teatro di Roma a cura di Catia Fauci, realizzato in collaborazione con la Direzione generale Musei del Ministero della Cultura, con il contributo dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, della rivista «Archeo» e della società Dialogues Raccontare L’arte, arricchito dagli interventi di

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Particolare di un festone a mosaico, recante una decorazione con maschera teatrale, foglie e frutta, dalla Casa del Fauno di Pompei. II sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. del tema da un punto di vista letterario, teatrale, giornalistico e con rimandi al tempo presente. Questi gli interventi che chiuderanno la manifestazione: Giuliana Calcani, Università di Roma Tre, Immagini dell’otium. Tra realtà e ricerca della perfezione; Monica Salvadori, Università di Padova, L’otium e l’arte di vivere nelle case romane; Paolo Di Paolo, scrittore, Il tempo pieno e vuoto del teatro. storia dell’arte di Claudio Strinati e dalle Anteprime del passato di Andreas M. Steiner. L’edizione 2024 ha aggiunto agli incontri un nuovo contributo per una prospettiva multifocale, dal titolo «La parola oltre il sipario»: si è trattato di un momento di riflessione e di approfondimento

DOVE E QUANDO «La “villeggiatura” nell’antica Roma: l’otium come sentimento sublime di bellezza ed esperienza di civiltà» Luce sull’Archeologia-X edizione Roma, Teatro Argentina 14 aprile Info www.teatrodiroma.net



n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

FRA LA TERRA E IL MARE Dal 2021 è in corso un progetto di ricerca inteso a 1 valorizzare e documentare le aree costiere flegree tra Pozzuoli e Bacoli (1) fino a Capo Miseno, con un 2 particolare riguardo alla parte archeologica sommersa. Oltre a presentare la parte tecnica del progetto, l’articolo d’apertura di questo numero (vedi alle pp. 32-43) racconta la storia di Pozzuoli e si concentra sul grande porto commerciale i cui resti sono oggi sotto il 3 livello del mare per effetto del fenomeno di bradisismo che è sempre attivo nella zona testimoniato dal 4 tempio di Serapide in un bel francobollo italiano (2). Le colonne di questo monumento (3), in realtà il macellum dei Romani, fino al 1983 sono state lo strumento di misurazione del bradisismo grazie alle tracce della presenza di molluschi marini. I 5 6 resti del porto erano visibili fino agli inizi del Novecento e fino al lago Lucrino e al Monte Nuovo emerso nel 1538 (4) e al Portus Iulius realizzato da Agrippa nel 37 a.C. Altro obiettivo del progetto è l’identificazione del tempio dei Nabatei, unico 7 santuario del genere fuori dalla madrepatria. Per quanto riguarda le origini della cittadina campana le fonti parlano di un gruppo di fuggiaschi provenienti dall’isola di Samo (5) in Grecia che avrebbero fondato la città di Dicearchia in un’area controllata da Cuma e che poi sarebbe diventata la Puteoli dei Romani e la Pozzuoli di oggi. Ciò avvenne nel 528 a.C. e Pozzuoli ha 8 9 10 festeggiato dal 15 al 31 dicembre del 1972 i 2500 anni dall’avvenimento con un annullo a bandiera (6). In età romana viene fondata la colonia marittima di Puteoli nel 194 a.C. e da questa data iniziano anche le notizie urbanistiche e archeologiche della città (poche) in 12 quanto essa oggi è praticamente sepolta dal famoso Rione Terra, centro di richiamo turistico internazionale 11 (7). Colonia marittima significava automaticamente porto commerciale e questo subito divenne lo snodo principale per tutti i traffici in arrivo dal Mediterraneo. 13 Olio e vino dalla Grecia (8), miele, argento e olio dalla Spagna (9), spezie, incenso e perle dall’Oriente (10), rose e prugne dalla Siria (11). Per non parlare IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT dell’Africa dalla quale arrivavano legni pregiati, (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si 14 schiavi, belve e animali esotici (12) per i giochi ma può scrivere alla redazione di «Archeo» o soprattutto grano (13) dall’Egitto e dalla Sicilia che al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai di fatto erano i granai di Roma. L’importanza di seguenti indirizzi: queste derrate è indirettamene confermata da Segreteria c/o Luciano Calenda Seneca (14), che, nel 64 d.C., in una sua lettera Sergio De Benedictis C.P. 17037 - Grottarossa descrive la comparsa all’orizzonte delle «navi Corso Cavour, 60 - 70121 Bari 00189 Roma segreteria@cift.club lcalenda@yahoo.it staffetta», che annunciavano l’arrivo da oppure www.cift.it Alessandria della flotta annonaria.

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CALENDARIO

Italia ROMA Dacia

L’ultima frontiera della Romanità Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano fino al 21.04.24

MILANO Vulci

Produrre per gli uomini. Produrre per gli dèi Fondazione Luigi Rovati fino al 04.08.24

NAPOLI Gli dei ritornano

I bronzi di San Casciano Museo Archeologico Nazionale di Napoli fino al 30.06.24

Lo sguardo del tempo

Il Foro Romano in età moderna Foro Romano, Tempio di Romolo fino al 28.04.24

La Colonna Traiana

Il racconto di un simbolo Colosseo fino al 30.04.24

Fidia

Musei Capitolini, Villa Caffarelli fino al 05.05.24

POMPEI L’altra Pompei

Vite comuni all’ombra del Vesuvio Parco Archeologico di Pompei, Palestra grande fino al 15.12.24

AOSTA Pietre parlanti nella Preistoria

La statuaria preistorica dalla Sardegna all’arco alpino Area Megalitica fino al 15.06.24

ASCEA (SALERNO) Elea: la rinascita Parco Archeologico di Velia fino al 30.04.24

LOVERE (BERGAMO) Lovere romana Dal tesoro alla necropoli Atelier del Tadini fino al 02.06.24 28 a r c h e o

RIO NELL’ELBA Gladiatori

Museo Archeologico del Distretto Minerario fino al 01.11.24

SESTO FIORENTINO Archeologia svelata a Sesto Fiorentino

Momenti di vita nella piana prima, durante e dopo gli Etruschi Biblioteca Ernesto Ragionieri fino al 31.07.24


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

TORINO Trad u/i zioni d’Eurasia

Frontiere liquide e mondi in connessione. Duemila anni di cultura visiva e materiale tra Mediterraneo e Asia Orientale MAO-Museo d’Arte Orientale fino all’01.09.24

TRENTO-SAN MICHELE ALL’ADIGE Sciamani Comunicare con l’invisibile Palazzo delle Albere (Trento) METS-Museo etnografico trentino San Michele (San Michele all’Adige) fino al 30.06.24

Germania BERLINO Il fascino di Roma

Maarten van Heemskerck disegna la città Kulturforum fino al 04.08.24 (dal 26.04.24)

Elefantina

Isola dei millenni James-Simon-Galerie e Neues Museum fino al 27.10.24 (dal 26.04.24) In alto: Maarten van Heemskerck, l’Arco di Tito. 1532-1536. A sinistra: bacino sacrificale di Tolomeo I.

Grecia ATENE Cheronea, 2 agosto 338 a.C.

Un giorno che ha cambiato il mondo Museo d’Arte Cicladica fino al 23.04.24 (prorogata)

Francia PARIGI Nella Senna

Ritrovamenti dalla preistoria ai giorni nostri Crypte archéologique de l’île de la Cité fino al 31.12.24

Il Met al Louvre

Paesi Bassi LEIDA Paestum

Città delle dee Rijksmuseum van Oudheden fino al 25.08.24 (dal 25.04.24)

Dialoghi di antichità orientali Museo del Louvre fino al 29.09.25

Ville romane nel Limburgo

NANTES Gengis Khan

Regno Unito

Come i Mongoli hanno cambiato il mondo Château des ducs de Bretagne Musée d’histoire de Nantes fino al 05.05.24

NÎMES Achille e la guerra di Troia Musée de la Romanité fino al 05.01.25 (dal 26.04.24)

SAINT-GERMAIN-EN-LAYE Da un mondo all’altro

L’autunno dell’antichità nel Medioevo Musée d’Archéologie nationale fino al 17.06.24

Rijksmuseum van Oudheden fino al 25.08.24 (dal 25.04.24)

Lastra dipinta di una tomba lucana della necropoli di Andriuolo (Paestum).

LONDRA Legionari

La vita nell’esercito romano British Museum fino al 23.06.24

Svizzera BASILEA Iberi

Museo delle antichità di Basilea e Collezione Ludwig fino al 26.05.24 a r c h e o 29


AG NUO GI VA ED O IZI R N ON AT E A

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

ROMA

LA VITA QUOTIDIANA • DOMUS E CASE POPOLARI • IL TEATRO • GLI SPETTACOLI GLADIATORI • LA NETTEZZA URBANA • L’EMERGENZA DEL FUOCO • LA PROSTITUZIONE • UN GIORNO ALLE TERME • MANGIARE E BERE IN TABERNA...


Ricostruzione del Foro Romano agli inizi del III sec. d.C., visto da sud-est. Dal lato sinistro, si riconoscono il Tempio di Vesta, il Tempio dei Castori, la Basilica Giulia con l’Arco di Tiberio, al centro la Tribuna dei Rostri, dietro il Tempio di Saturno, il tempio di Vespasiano e Tito, il Tempio della Concordia e dietro il Tabularium; sulla destra, l’Arco di Settimio Severo, la statua equestre di Domiziano e probabilmente il Tempio del Divo Giulio.

I

monumenti della Roma imperiale – basti pensare al Colosseo – si sono in piú di un caso conservati in condizioni straordinariamente vicine a quelle originali, che rendono dunque abbastanza agevole immaginare quali fossero le loro funzioni e il loro funzionamento. Piú difficile può essere, a volte, immaginare quegli spazi al tempo in cui furono creati, quando ad animarli erano gli abitanti di una città nella quale, secondo stime attendibili, viveva piú di un milione di persone. Ecco allora che questa nuova edizione della Monografia di «Archeo» dedicata alla vita quotidiana dei Romani si cimenta nel «rianimare» gli uomini e le donne che di quell’epoca furono gli attori, ricostruendone l’esistenza quotidiana, fatta di condivisione degli spazi domestici e, soprattutto, di quelli pubblici. Gli abitanti dell’Urbe, infatti, erano innanzitutto «gente di strada», che amava ritrovarsi nelle grandi piazze forensi, alle terme, nelle tabernae... Una moltitudine composita e vociante, sulla quale il potere imperiale manteneva ben saldo il controllo. Un potere, tuttavia, capace anche di garantire una rete di servizi efficiente e capillare: dalla gestione delle risorse idriche al sistema fognario, dall’illuminazione stradale alla prevenzione degli incendi, solo per fare alcuni degli esempi piú significativi. Una realtà, insomma, che potremmo definire moderna e che la Monografia descrive nel dettaglio, con l’abituale ausilio di un ricco corredo iconografico.

GLI ARGOMENTI • E DILIZIA PRIVATA E OPERE PUBBLICHE • LA RETE DEI SERVIZI • LA VITTORIA VAL BENE UN TRIONFO

in edicola

•A URIGHI E GLADIATORI

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ARCHEOLOGIA SUBACQUEA • CAMPANIA

NEL PORTO «OSPITE DEL

MONDO» Pozzuoli. Il grande altare con fori di incasso per betili aniconici facente parte degli arredi sacri del santuario nabateo localizzato al centro del vicus Lartidianus, uno dei quartieri suburbani, oggi sommersi, dell’antica Puteoli.


I RESTI DI UN GIGANTESCO SCALO COMMERCIALE, A LUNGO IL PIÚ IMPORTANTE DI ROMA, GIACCIONO A POCHI METRI SOTTO IL MARE ANTISTANTE L’ODIERNA POZZUOLI. LE IMPONENTI ROVINE SOMMERSE SONO OGGI AL CENTRO DI UN VASTO PROGRAMMA DI INDAGINE. CHE, FRA LE TANTE NOVITÀ, HA INDIVIDUATO IL LUOGO DI UN SANTUARIO NABATEO, IL PRIMO DEL GENERE NOTO AL DI FUORI DELL’ARABIA MAI PORTATO ALLA LUCE di Mariano Nuzzo, Michele Silani, Michele Stefanile e Maria Luisa Tardugno


ARCHEOLOGIA SUBACQUEA • CAMPANIA

N

el settore nord-occidentale del Golfo di Napoli, l’antico crater di Strabone, sul fondo della baia ben riparata del sinus Puteolanus, tra il promontorio tufaceo di Capo Miseno e i limiti della città di Neapolis, Roma organizzò sin dalla fine dell’età repubblicana e per buona parte dell’età alto-imperiale, uno dei piú grandiosi e articolati sistemi portuali del Mediterraneo. Approfittando della conformazione della costa, un susseguirsi di insenature e ridossi disegnati dai limiti dei crateri flegrei, e sfruttando l’ampia disponibilità locale di materiali da costruzione (su tutti quella pozzolana, pulvis Puteolanus, decantata da Vitruvio che, per la sua capacità di far presa anche in acqua, fu il segreto delle costruzioni marittime romane), fu possibile potenziare la portualità naturale dell’area, che già aveva favorito contatti e navigazioni nei secoli precedenti, verso un’organizzazione complessa e funzionale ai commerci, alle necessità e alla sicurezza dell’Urbe e dell’impero. Ortofoto della ripa Puteolana che permette di apprezzare la presenza delle strutture sommerse. Nella pagina accanto: planimetria dei resti localizzati lungo la ripa Puteolana: la cosiddetta Penisola Mediana, ai lati della quale si estendono i vici Annianus e Lartidianus.

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SP 333 SS7

Mondragone

Capua

Santa Maria Caserta Capua Vetere

SP 333

Castel Volturno

A1

Villa Literno

SS7qtr

Mar Tirreno

A30

SS7bis

Aversa Giugliano in Campania

Varcaturo

Afragola

Quarto Flegreo

A1

SS7qtr Pozzuoli

Bacoli

Procida Isola d’Ischia

Napoli Ercolano


I resti di quel gigantesco porto commerciale – che fu a lungo la piú importante porta d’ingresso di Roma e il maggiore hub di redistribuzione per il grano d’Egitto, i beni di lusso dall’Oriente e le produzioni dell’Occidente mediterraneo – sono oggi per gran parte sommersi a pochi metri di profondità per effetto del bradisismo, come nella vicina Baia, la pusilla Roma, e si distendono per oltre 2 km dal moderno porto di Pozzuoli. Quest’ultimo venne costruito intorno al gigantesco molo caligoliano (che, in realtà, nell’aspetto a noi noto, è piú probabilmente un’opera neroniana), visibile fino agli inizi del Novecento e poi occultato dal molo moderno, fino al bacino del Lucrino, al giovane vulcano del Monte Nuovo, emerso dal suolo nel 1538, e alle rovine sommerse del

Portus Iulius, capolavoro di Agrippa realizzato nel 37 a.C. per risolvere una volta per tutte la questione piratica e poco dopo convertito in bacino commerciale e laguna artificiale per itticoltura e ostricoltura.

QUARTIERI SOMMERSI Dal 2021, nell’ambito del progetto Tra Terra e Mare, un piú vasto programma di documentazione delle aree costiere flegree, la Soprintendenza ABAP per l’area metropolitana di Napoli, in convenzione con l’Università degli Studi della Campania «L. Vanvitelli», con il coordinamento, per la parte subacquea, della Scuola Superiore Meridionale, sta effettuando ricerche archeologiche in quest’area, concentrando gli sforzi in particolare sui quartieri sommersi della ripa Puteolana, noti da fonti epigrafiche come vicus Lar-

tidianus e vicus Annianus, finora poco documentati e nascosti alla vista dall’impattante presenza delle fabbriche della moderna Pozzuoli. È stato cosí possibile ricostruire la topografia dell’intera ripa, seguendo, da est a ovest, il progressivo accrescimento dello scalo puteolano fino alla connessione diretta con il Portus Iulius, riconoscendo nel dettaglio la lunga sequenza di horrea e strutture di stoccaggio merci del vicus Lartidianus e i giganteschi granai del vicus Annianus, già leggibili nell’unica planimetria finora disponibile, realizzata alla fine degli anni Ottanta dal gruppo di studiosi che, coordinati da Giuseppe Camodeca, per la prima volta analizzarono le fotografie aeree, calibrandone i dati con puntuali verifiche in acqua. Grazie ai nuovi strumenti a disposizione e al miglioramento della

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DICEARCHIA-PUTEOLI-POZZUOLI: I MILLENNI DI UNA CITTÀ Le fonti storiche raccontano che, nel 528 a.C., alcuni fuggiaschi provenienti da Samo, dove il tiranno Policrate aveva imposto la sua dittatura, avrebbero fondato a Pozzuoli una città chiamata Dicearchia, in un punto in cui già esisteva un approdo, precedentemente dipendente dalla colonia greca di Cuma. Purtroppo, non è possibile confermare questa notizia, sebbene suggestiva, e i dati archeologici che possano documentare questo primo insediamento sono ancora molto scarsi. Nulla è mai venuto alla luce dell’antica Dicearchia, tranne qualche modesta traccia di materiale ceramico sulla rocca del Rione Terra. Solo dall’età romana, infatti, piú precisamente dalla fondazione della colonia maritima di Puteoli nel 194 a.C., le evidenze archeologiche restituiscono informazioni importanti sulle vicende urbanistiche della città, che ricadeva in un punto strategico della costa, con una posizione topografica privilegiata per il controllo del commercio e delle rotte tirreniche.

Il cuore della colonia si trovava sul promontorio del Rione Terra e, già nelle fasi piú antiche, il forte condizionamento orografico impose un’organizzazione di questo pianoro per terrazze, al fine di sfruttare al massimo il pendio naturale, attraverso una maglia di strade ortogonali. Fenomeni di erosione, accompagnati al crollo di interi settori del costone di tufo, restituiscono oggi un’immagine fortemente ridotta della superficie originaria dell’insediamento, privata di interi isolati sprofondati in mare. La fortuna di Puteoli è legata al suo porto commerciale, che ben presto divenne, infatti, il porto di Roma, contribuendo a rifornire la capitale con le merci piú svariate provenienti dalla Sicilia, all’Africa, all’Oriente, alla Spagna. Le evidenze archeologiche note, oggi, restituiscono l’immagine di una città cosmopolita, affacciata sul Mediterraneo. Già in età repubblicana, infatti, l’impianto urbano di Puteoli si era esteso al di fuori dell’area circoscritta del Rione Terra, sfruttando le terrazze

I resti del macellum di Puteoli, sorto in età imperiale e tradizionalmente indicato come tempio di Serapide (o Serapeo) per la scoperta nel sito di una statua dell’omonimo dio egiziano. In basso: la planimetria di Puteoli realizzata da Giuseppe Camodeca alla fine degli anni Ottanta del Novecento. Nella pagina accanto, in basso: il Rione Terra di Pozzuoli visto da mare.

circostanti, dove si trovano, visibili ancora oggi, edifici pubblici monumentali che costituirono i nodi di un complesso sistema territoriale. Furono costruiti, ai piedi della rocca, il foro e l’emporium, mentre numerose ville di patrizi andavano occupando i punti piú panoramici. In età imperiale Puteoli si arricchí degli edifici piú importanti: due anfiteatri, il macellum, il foro, le terme, lo stadio. Insomma, una città diffusa e integrata nel suo contesto territoriale, con un sistema di infrastrutture definito, oggetto di una razionale opera urbanistica, con la creazione di terrazzamenti digradanti verso il mare che

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ospitavano edifici e ville residenziali. L’urbanizzazione del secolo scorso, insieme al cattivo stato di conservazione di molte evidenze, hanno però alterato in

modo irreversibile la percezione di questa sistemazione, che doveva certamente avere un impatto scenografico notevole, soprattutto per chi guardava da mare.

qualità delle acque in seguito alla chiusura di molte industrie, si è potuto andare oltre, identificando una penisola (la cosiddetta Penisola Mediana) al centro della ripa, tra horrea e granai, delimitata sui due lati da altrettante darsene, occupata da quello che, a prima vista, appare come un grandioso edificio con corte centrale, rivestito in marmo, e annunciato – per chi proveniva dal mare – da un monumento di segnalazione poggiante su un basamento perfettamente esagonale, nei pressi del quale sono state rinvenute colonne tortili. Sembra di cogliere nei resti sommersi, sconvolti dalle mareggiate ma ancora riconoscibili, un centro amministrativo per l’intera area pora r c h e o 37


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LA DOCUMENTAZIONE E L’IMPORTANZA DELLE NUOVE TECNOLOGIE ​​ Negli ultimi due decenni le attività di documentazione e rilievo dei siti archeologici, sia subacquei sia terrestri, hanno fatto registrare importanti sviluppi, grazie all’applicazione sempre piú sistematica delle tecniche di misurazione e rilevamento proprie del campo della geomatica e della geofisica. In particolare, per quanto riguarda i siti sommersi e, soprattutto, i relitti, l’applicazione di tecniche fotogrammetriche permette oggi di ridurre i tempi di immersione e di realizzare modelli tridimensionali di dettaglio ad alta precisione. Parallelamente, per la mappatura dei fondali su larga scala, le applicazioni di sistemi di telerilevamento acustico e, in particolare, dei sistemi sonar multibeam, consentono di produrre vere e proprie cartografie di precisione del sommerso. Per documentare siti archeologici a poca profondità nelle aree in prossimità della costa, come nel caso della ripa Puteolana, si possono utilizzare tecniche differenti: dall’analisi delle immagini satellitari e delle fotografie aeree, ora acquisite anche grazie all’utilizzo di sistemi RPAS (Remotely Piloted Aircraft Systems) o UAV (Unmanned Aerial Vehicles), piú semplicemente noti come droni, al rilievo sonar multibeam o airborne laser bathymetry, una tipologia particolare di laser scanner

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aviotrasportato che può penetrare nell’acqua limpida. Nell’ambito del progetto Tra Terra e Mare, è stata realizzata, allo stato attuale delle ricerche, una nuova copertura aerofotogrammetrica dell’intera area dei vici Lartidianus e Annianus mediante l’utilizzo di differenti modelli di droni. Tra dicembre 2021 e febbraio 2022, sfruttando le attuali condizioni ambientali, migliori rispetto ad alcuni decenni fa, sono stati realizzati voli ripetuti con diverse condizioni di luce, vento e onde per ottenere i migliori risultati possibili. L’elaborazione fotogrammetrica ha permesso di ottenere una nuova restituzione cartografica in scala 1:100 delle evidenze sommerse della ripa Puteolana e di favorire una nuova analisi archeologica delle strutture dei due vici oggetto d’indagine. Tutti i dati sono stati raccolti in una piattaforma GIS (Geographic Information System) dedicata, denominata RPIS (Ripa Puteolana Information System), connessa con un’interfaccia web per la condivisione immediata delle informazioni, relative alle singole strutture archeologiche sommerse, raccolte durante le esplorazioni subacquee e registrate in schede descrittive memorizzate all’interno di un geodatabase, a sua volta correlato con le strutture archeologiche cartografate.


In alto: resti di una scalinata forse utilizzata per lo sbarco nel corso delle operazioni di registrazione dei carichi prima dello stoccaggio. Sulle due pagine: un’immagine da drone del vicus Lartidianus. In basso, a destra: Pozzuoli in una incisione di James D. Harding. 1832.

tuale, forse da collegare alle complesse operazioni di registrazione dei carichi da svolgersi all’arrivo, ancor prima dello stoccaggio: a questo scopo si potrebbe attribuire anche la scalinata, ancora perfettamente visibile in mare nei pressi del monumento su esagono, che sembra invitare lo sbarco. A questa stimolante scoperta, ancora da studiare nel dettaglio, auspicabilmente anche con attività mirate di scavo subacqueo, si aggiunge la localizzazione del santuario dei Nabatei, cuore pulsante di una delle tante comunità di peregrini che a Puteoli, come in tutti i

grandi porti mediterranei, vissero e prosperarono a lungo. Si è per molto tempo sostenuto che il porto puteolano ebbe lunga vita, ma che ben presto, a seguito dell’apertura dei porti di Claudio e soprattutto di Traiano alla foce del Tevere, perse il suo ruolo chiave nel network commerciale marittimo di Roma. Oggi, anche grazie alle ricerche in corso, è possibile riconoscere una grande vitalità del porto di Puteoli almeno fino alla fine del IV secolo, quando si registrano poderose opere di ammodernamento e riparazione delle banchine, danneggiate dal mare evidentemente sempre piú vicino al piano di calpestio per effetto del bradisismo. Gli ingenti sforzi messi in campo da Roma nel tentativo di salvare le strutture portuali dal mare in continua risalita sono forse la prova piú evidente di un’importanza strategica ancora tutt’altro che secondaria.

STOCCARE LE MERCI «Oggi sono comparse improvvisamente le navi alessandrine, che di solito precedono la flotta e ne preannunciano l’arrivo: si chiamano “navi staffetta”. In Campania le vedono arrivare volentieri: tutta la popolazione di Pozzuoli si accalca sul molo e anche in mezzo a tante

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navi riconosce quelle alessandrine dal Un operatore tipo di vele: solo a esse è consentito spiesubacqueo in gare la vela di gabbia che tutte le navi attività nell’area alzano in alto mare». Cosí esordisce in cui è stata Seneca, probabilmente nel 64 d.C., localizzata la in una delle sue lettere a Lucilio (Ep. presenza di 77), descrivendo la comparsa delle numerosi dolia «navi staffetta» (naves tabellariae), che per lo stoccaggio precedono e annunciano l’arrivo delle derrate. del resto della flotta annonaria da In basso: Alessandria nel porto di Puteoli. planimetria delle Sono attese con fervore da tutta la strutture del vicus popolazione di Puteoli che si accalca Lartidianus. sul molo: è il segnale dell’arrivo del Nella pagina grano che rifornirà Roma. Si tratta accanto: di una delle piú importanti fonti di operazioni di guadagno per imprenditori e banrilievo delle chieri locali, tramite il noleggio di strutture depositi nei quali stipare il surplus sommerse. del grano annonario per poi rivenderlo nei periodi di carenza con grandi speculazioni. Speculazioni descritte da Cicerone

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e delle quali si è avuta una testimonianza diretta grazie alle preziosissime tavolette cerate ritrovate a Murecine, nei pressi dello scalo di Pompei lungo il fiume Sarno, pertinenti all’archivio dei Sulpicii, mercantibanchieri che svolsero tutta la loro attività proprio a Puteoli, prima di trasferirsi all’ombra del Vesuvio.

UNO SCALO COSMOPOLITA Non solo grano dall’Egitto, dall’Africa e dalla Sicilia: a Puteoli, «litora mundi hospita» («porto ospite del mondo») come la definiva Stazio nelle Silvae, confluivano merci da tutto il Mediterraneo. Dall’Africa venivano importati anche legni pregiati, schiavi, belve e animali esotici per i giochi gladiatori che si tenevano negli anfiteatri, mentre dall’Oriente giungevano spezie, incenso e perle. Non mancavano anche olio e vino dalla Grecia, miele, argento e olio dalla Spagna, lane e sete dall’Asia, rose e prugne dalla Siria e porpora da Tiro. È facile immaginare, quindi, la distesa di edifici e magazzini adibiti alla gestione di queste

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

merci, che doveva punteggiare l’intera costa da Puteoli al Portus Iulius. Horrea, ovvero magazzini, e granai sono ben riconoscibili tuttora nelle strutture sommerse, per effetto del bradisismo, lungo la costa a ovest di Puteoli, in due quartieri suburbani, i vici Lartidianus e Annianus. Nell’ambito delle recenti ricerche, la lettura di fotografie aeree e immagini satellitari e sistematiche ri-

cognizioni subacquee hanno permesso di riconoscere numerosi edifici per la conservazione delle merci e distinguerne alcune specifiche caratteristiche. Nel vicus Lartidianus, posto a est della Penisola Mediana, è stato possibile documentare due nuclei principali di magazzini con orientamenti differenti, costruiti a partire dalla fine dell’età repubblicana e in a r c h e o 41


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cognizioni subacquee portano a confermare la presenza di un lungo fronte continuo lungo quasi 250 m, composto da 26 edifici rettangolari delle dimensioni di 27 x 7,70 m (oltre 200 mq ciascuno), per una superficie totale di quasi 5500 mq. Rivolti verso terra e aperti su un viottolo di servizio, sono anch’essi difesi da una massiccia banchina in opera cementizia e sono costruiti con murature spesse 1,20 m in opera laterizia, con parti in opera reticolata, databili probabilmente in età tardorepubblicana o giulio-claudia. Strutture di tali dimensioni potevano certamente essere adatte a sostenere diverse tonnellate di merci stoccate all’interno, su robuste pavimentazioni in mattoni bipedali, sopraelevate rispetto al fondo al fine di isolare e proteggere dall’umidità il materiale qui conservato, verosimilmente grano. Lo spessore età augustea, con ricostruzioni e rifacimenti tra II e III secolo d.C., alle spalle di una linea di poderose banchine rivolte verso mare. Sebbene non sia possibile ricostruire con certezza l’alzato di questi magazzini, se non per confronto con edifici presenti in altri contesti portuali, vi sono alcuni elementi di particolare interesse che permettono di avanzare ipotesi circa la destinazione d’uso dei singoli horrea, come la presenza di una zoccolatura inclinata a 45° lungo il perimetrale interno degli ambienti, probabilmente per facilitare le operazioni di pulizia, oppure il rivestimento pavimentale realizzato con uno strato di calce di colore bianco, verosimilmente con funzione di isolante.

EDIFICI IMPONENTI Un semplice sguardo dall’alto alle strutture sommerse nel vicus Annianus, a ovest della Penisola Mediana, permette di distinguere invece edifici differenti, di dimensioni molto piú imponenti. Le ri42 a r c h e o


delle murature fa ipotizzare la presenza di un secondo o addirittura terzo piano come suggerisce anche la documentazione epigrafica del

già citato archivio dei Sulpicii: nelle tavolette cerate vengono descritti infatti i settori ima, media e superiora degli horrea di età giulio-claudia,

In alto: il basamento esagonale su cui poggiava un monumento di segnalazione, localizzato nell’area della cosiddetta Penisola Mediana. A sinistra: un magazzino del vicus Lartidianus pavimentato con calce bianca, forse a scopo isolante. Nella pagina accanto, in alto: una lastra con l’iscrizione Dusari sacrum, riferibile al santuario nabateo del dio Dushara (Dusares in latino).

probabilmente piani sovrapposti di uno stesso edificio.

I MERCANTI NABATEI Stranieri provenienti da Egitto, Siria, Betica, Egeo e da ogni angolo del mondo affollavano gli spazi del porto di Puteoli, gestendo traffici a lungo raggio con le terre d’origine e prosperando con Roma che, dal canto suo, garantiva spazi, libertà religiosa e sicurezza dello spazio marittimo. Particolarmente interessante è la presenza a Puteoli di mercanti nabatei: provenienti dall’area compresa tra le attuali Siria e Arabia Saudita, questi attivi commercianti rifornivano Roma di beni di lusso orientali attraverso i porti di Gaza e – forse via Alessandria – Puteoli. La loro presenza nello scalo flegreo era nota da tempo grazie al rinvenimento di iscrizioni in lingua nabatea e al recupero in mare, sin dal XVIII secolo, di altari e basi con dedica, in latino, al dio Dusares. Grazie alle attuali ricerche è stato possibile localizzare con precisione

il luogo d’origine di questi materiali sacri, al centro del vicus Lartidianus (vedi planimetria a p. 40): si tratta di un vero e proprio tempio sommerso, unico santuario nabateo finora noto al di fuori della madrepatria, decorato con abbondante marmo di Luni; sul fondo del mare sono ancora visibili un grande altare con fori di incasso per betili aniconici, simile ma non uguale a quello già visibile presso il Museo Archeologico Nazionale dei Campi Flegrei presso il Castello di Baia, insieme a una base di dimensioni minori, e a lastre iscritte. Ovunque, il testo si ripete uguale: Dusari sacrum. I Nabatei di Puteoli scrivevano in latino e il loro santuario era certamente un luogo di contatto e di scambi con i tanti commercianti del luogo, Romani e peregrini, sotto l’autor ità del dio supremo Dushara. Non è ancora possibile ricostruire integralmente la pianta dell’edificio – di cui si colgono per il momento due ambienti –, che fu realizzato in età augustea e poi, poco piú di un secolo piú tardi, intenzionalmente obliterato con una poderosa gettata di cementizio, andata a colmare ogni spazio e a occultare alla vista gli altari, fino a diventare piano di posa per un nuovo pavimento in cocciopesto. Verosimilmente, anche in base ai materiali rinvenuti, tuttora oggetto di studio, si può ipotizzare che i Nabatei abbiano prosperato nel porto puteolano per tutta l’età altoimperiale e che poi, al principio del II secolo, forse in occasione della conquista del loro territorio e della creazione della provincia di Arabia Petraea sotto Traiano, nel 106 d.C., abbiano a un certo punto perso i privilegi e le libertà di un tempo e, privati del ruolo commerciale, abbiano abbandonato i preziosi spazi lungo la ripa. Solo lo scavo del santuario potrà fornire risposte alle tante domande che la singolare parabola dei Nabatei di Puteoli suscita negli studiosi come nei curiosi. a r c h e o 43




SCAVI • TURCHIA

YERKAPI UNA CORONA PER

LA CAPITALE ITTITA NELL’AGOSTO DI DUE ANNI FA, L’OCCHIO ATTENTO DI UN ARCHEOLOGO TURCO SCOPRE LE SPETTACOLARI SEQUENZE DI DUE TEORIE DI ISCRIZIONI GEROGLIFICHE DIPINTE SUI BLOCCHI DELLA GALLERIA CHE CORRE NELLA COLLINA ARTIFICIALE DI YERKAPI, A HATTUŠA. IN OLTRE UN SECOLO DI ESPLORAZIONI, NESSUNO LE AVEVA MAI NOTATE E ORA QUELL’AUTENTICO TESORO NASCOSTO GETTA NUOVA LUCE SULLA CONOSCENZA DELLA LINGUA E DELLA SCRITTURA DEGLI ITTITI di Andreas Schachner, Stefano de Martino, Metin Alparslan, Natalia Bolatti Guzzo, Massimiliano Marazzi, Leopoldo Repola, Vincenzo Morra, Celestino Grifa e Gianni Varriale

N

el 1834, quando scoprí le rovine di un’antica città nei pressi del villaggio di Boghazköy nel cuore dell’altopiano anatolico (oggi Boghazkale, nella provincia di Çorum in Turchia), l’architetto e ricercatore di antichità francese Charles Texier (1802-1871) non fu in grado, date le conoscenze dell’epoca, di inquadrarla storicamente. L’identificazione di queste antiche rovine come appartenenti a Hattuša, la capitale dell’impero ittita del II millennio a.C., fu possibile soltanto nel 1906, con l’inizio degli scavi regolari condotti dai Musei Archeologici di Istanbul in collaborazione con 46 a r c h e o

la Società Tedesca degli Orientalisti (la Deutsche Orientgesellschaft). Da quel momento, fino ai nostri giorni (con le sole interruzioni dovute ai due conflitti mondiali), gli scavi sono continuati a cura dell’Istituto Archeologico Germanico in collaborazione con il Ministero della Cultura e del Turismo Turco e la partecipazione di numerose organizzazioni scientifiche internazionali. Già Texier fu però in grado, all’epoca della sua scoperta, di visitare il tunnel di Yerkapı, un’opera unica al mondo nel suo genere; questo monumento, infatti, era l’unico manufatto dell’antica capitale a non

Hattuša. Un tratto del tunnel scavato nella collina artificiale di Yerkapı, che corre per 70 m circa.


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SCAVI • TURCHIA

essere stato completamente ricoperto dalla terra nel corso dei secoli. L’architetto francese e i numerosi viaggiatori che lo seguirono, ci hanno lasciato le loro descrizioni fortemente influenzate dal fascino che questo passaggio sotterraneo ancora oggi emana e che, ancora nel corso del XX secolo, veniva utilizzato come riparo sicuro, percorribile nei momenti di maltempo, dalle greggi che pascolavano sull’altopiano.

LE PRIME RICERCHE Già durante il corso delle prime campagne di scavo, nel 1907, un’équipe di studiosi coordinata da Otto Puchstein (1856-1911) iniziò lo studio del monumento, stese le planimetrie e fece portare a Istanbul due sfingi, che decoravano la porta urbica posta alla sommità della collina artificiale di Yerkapı e che avevano subito gravi danni a causa di un incendio. Nel 1917 le sculture furono trasferite da Istanbul a Berlino per gli interventi di restauro. 48 a r c h e o

Nel corso degli anni Venti, una delle due sfingi tornò in Turchia, mentre la seconda, rimasta in esposizione nei Musei di Berlino, fu riportata solo nel 2011 a Boghazköy, dove è oggi visibile, insieme al suo pendant, nel locale Museo Archeologico. Sul luogo della loro collocazione originale se ne possono oggi ammirare le repliche fedeli. In alto: veduta generale, verso nord, dell’antica Hattuša, capitale del regno ittita. Il sito si trova presso l’odierna Boghazkale/ Boghazköy, 150 km a est di Ankara.

Lo studio condotto da Puchstein confermò che Yerkapı era una collina artificiale (della lunghezza di 250 m circa, di 70-80 m di larghezza e di un’altezza massima di 40 m circa) messa in opera dalle maestranze ittite. Per la sua costruzione furono spostate grandi masse di terra sia dal versante sud che da quello nord, dove il terreno digradava ver-

Mar Nero Istanbul

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A destra: carta topografica dell’area di Hattuša. L’abitato si articola in tre nuclei principali: la «Città Vecchia» (o«Città Bassa»), la «Città Nuova» (o «Città Alta») e l’Acropoli (Büyükkale). In basso: il terrapieno facente parte della cinta muraria meridionale.

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SCAVI • TURCHIA

so l’area della città, a formare un vallo imponente, con orientamento est-ovest. Su di esso fu fatta passare l’opera di fortificazione, ancora oggi visibile e il cui impianto risale al XVI secolo a.C., che forma un arco che chiude l’intera Città Alta sul versante meridionale. Mentre sulla sommità del vallo il passaggio pedonale avveniva attraverso la succitata Porta delle Sfingi, un tunnel di 70 m circa, con andamento nord-sud (quindi perpendicolare all’andamento del vallo), permetteva il transito alla base.

UN’OPERA PODEROSA La galleria fu costruita secondo le tecniche architettoniche in uso presso gli Ittiti: grandi massi rettangolari appena sbozzati di pietra cal-

carea erano posti l’uno sull’altro in modo che i massi superiori sporgessero progressivamente in avanti rispetto a quelli inferiori (la cosiddetta «falsa volta»); per evitare il collasso dei massi superiori e dare stabilità al manufatto, terra e pietre venivano ammassati mano a mano sulla parte posteriore esterna delle file dei blocchi, mentre la parte superiore del tunnel veniva resa stabile dall’inserimento di un masso che si inseriva a cuneo nel punto finale dove si incontravano le due pareti. La sezione del tunnel (che in architettura prende il nome di posterula) assumeva cosí una forma triangolare. È chiaro pertanto che la costruzione del passaggio sotterraneo si sia svolta di pari passo con quella della costituzione del vallo.

La porta e le Sfingi La Porta delle Sfingi è una delle cinque che si aprono nella cinta muraria di Hattuša, alla sommità della collina artificiale di Yerkapı. Le sculture visibili in situ e dalle quali la struttura prende nome sono repliche fedeli degli originali, oggi conservati nel Museo Archeologico di Boghazköy (foto in basso, a sinistra e a destra).

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Successivamente alle indagini sulla struttura del monumento condotte già agli inizi degli scavi a Hattuša, a cominciare dal 1978, parallelamente ai nuovi scavi nell’area della Città Alta, Peter Neve (1929-1994) avviò anche le opere di restauro di Yerkapı. Sulla base di una aggiornata e accurata documentazione degli elementi architettonici, i nuovi restauri si concentrarono sull’opera di fortificazione e sul pendio che caratterizzava il fronte esterno del


vallo. Grazie a questi interventi, che portarono, tra l’altro, alla scoperta di una tavola di bronzo contenente il testo di un trattato in scrittura cuneiforme al di sotto dei basoli della strada che conduceva verso l’interno della città, Yerkapı riacquistò l’imponenza e lo splendore originari. Coronamento di questi lavori fu la ricollocazione al loro posto originario delle repliche delle due sfingi che decoravano la porta urbica alla sua sommità.

UNA SCENOGRAFIA COMPLESSA Tenuto conto della contenuta differenza di altezza del Yerkapı sul versante interno che guarda la città, e della presenza, all’esterno, sui lati orientale e occidentale, di due scalinate monumentali che ne raggiugono la sommità, risulta poco credibile che il complesso di Yerkapı avesse un fine primario di carattere difensivo. È assai piú probabile che tutto l’impianto fosse in stretto rapporto con l’area templare che si estendeva all’interno della cerchia muraria, immediatamente sotto il suo versante settentrionale, e che, quindi – con la posterula, la Porta delle Sfingi e le scalinate monumentali esterne –, facesse parte della scenografia che ospitava celebrazioni e processioni legate alle feste e alle pratiche religiose. Dal momento che si tratta del punto piú alto dell’intero comprensorio urbano, visibile da qualsiasi punto della città, rappresenta, per riprendere l’espressione dell’architetto Bruno Taut, la «corona della città», simbolo del potere e della cultura ittita collocato ad hoc per marcare il territorio. La sua scoperta e le ricerche condotte nel corso degli anni lo hanno reso un monumento famoso e ben conosciuto. È stata quindi una enorme sorpresa quella che è avvenuta in un piovoso giorno d’agosto del 2022, quando un membro della missione archeologica, Bülent Genç, dell’Università

Artuklu di Mardin, ha visitato la posterula: la spettacolare scoperta di ben 251 iscrizioni, dipinte in caratteri geroglifici sui massi che formavano le pareti del tunnel. Un ritrovamento che non solo amplia le nostre conoscenze sulla storia e sull’uso del passaggio sotterraneo, ponendolo in una nuova prospettiva, ma rivoluziona quanto ritenevamo di sapere su questo sistema di scrittura proprio dell’Anatolia ittita, aprendo nuovi scenari sul suo uso al di fuori delle sole iscrizioni di carattere pubblico, religioso e politico.

SUL «MONTE SACRO» Si tratta, infatti, di iscrizioni da collegare con i mastri costruttori della posterula, due delle quali sembrerebbero fornire indicazioni anche sul significato che essa doveva avere per la popolazione dell’epoca. Sulla base anche di una nuova interpretazione data dallo studioso Hasan Peker (Università di Istanbul) a una nuova iscrizione geroglifica rinvenuta a Karakuyu, appare infatti possibile che il «monte sacro Tuthalija», identificato dal team di Hattuša in una serie di iscrizioni dipinte della posterula, si riferisse direttamente proprio alla collina artificiale di

Veduta a volo d’uccello di Hattuša: in primo piano, in basso, la collina artificiale di Yerkapı. In secondo piano, verso nord, l’area templare che caratterizzava la conca centrale della Città Alta.

Yerkapı. Si avrebbe in questo caso il trasferimento del nome di una importante montagna sacra su una collina, quella di Yerkapı, creata artificialmente in stretta connessione con l’area sacra su cui incideva. Allo stesso tempo, l’informazione fornita da un secondo gruppo di iscrizioni dipinte caratterizzerebbe, sotto il profilo funzionale, l’accesso e il transito del passaggio sotterraneo come via destinata alle carovane di asini. La nuova e accurata documentazione digitale, elaborata in questi ultimi due anni, e lo studio delle iscrizioni dipinte rinvenute nella posterula – a oggi un unicum nel panorama della civiltà ittita – sono il portato di una cooperazione internazionale fra studiosi tedeschi, turchi e italiani. Nello spazio di poco piú di un anno le nuove conoscenze acquisite hanno permesso di aprire prospettive prima impensabili nella storia degli studi ittitologici. Andreas Schachner a r c h e o 51


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IL REGNO ITTITA DI HATTI: MOLTE LINGUE E DUE SISTEMI GRAFICI di Stefano de Martino

I

l regno ittita di Hatti, che ha avuto una lunga vita, dal XVII a tutto il XIII secolo a.C. e ha dominato sul territorio dell’attuale Turchia e di parte della Siria, ci ha lasciato una cospicua documentazione scritta non solo in ittita, ma anche in altre lingue, quali il luvio, il hurrico, l’accadico e il sumerico. Nell’Anatolia in età ittita si usavano due diversi sistemi grafici: il cuneiforme e una grafia geroglifica. La scrittura cuneiforme era in uso in Mesopotamia già da un millennio e mezzo e, dunque, non è un’invenzione anatolica. Si ritiene, in genere, che sia stato il sovrano ittita Hattusili I – che ha regnato nella seconda metà del XVII secolo a.C. – a promuovere l’adozione del cuneiforme babilonese, facendolo adattare alle esigenze fonetiche della lingua ittita. Le conquiste militari di Hattusili I avevano trasformato il regno di Hatti da un piccolo potentato locale a un regno di vaste dimensioni. L’uso della scrittura era dunque uno strumento indispensabile per la gestione amministrativa del regno, le relazioni con altri paesi e la costruzione di un apparato celebrativo.

SEGNI E VALENZE Il sistema grafico cuneiforme ittita deriva da quello di età paleo-babilonese, ma in un corsivo in uso in Siria occidentale, regione che Hattusili I aveva conquistato. Esso si compone di un set di caratteri ridotto e semplificato rispetto a quello originario ed è costituito da segni con valenza vocalica, sillabica, e anche logografica, cioè con segni corrispondenti ciascuno a una pa52 a r c h e o

que una documentazione di carattere ufficiale. Esse comprendono documenti di carattere politico, come gli editti regi, testi di valenza giuridica – quali la raccolta delle leggi e i verbali di processo –, trattati internazionali, lettere scambiate tra sovrani e tra funzionari, documenti amministrativi, testi religiosi, rituali magici, tavolette di divinazione, e opere letterarie.

Tavoletta cuneiforme ittita con la descrizione delle cerimonie per i funerali reali. Nella pagina accanto: iscrizione in geroglifico di Šuppiluliuma (II) nella cappella ipogeica (la «Camera 2 di Südburg») della Città Alta. Fine del XIII-inizi del XII sec. a.C.

rola. Come supporto grafico, si utilizzavano tavolette di argilla, come in Mesopotamia. La dinastia che prende il potere in Anatolia e lo mantiene nel corso del tempo era di lingua ittita e, di conseguenza, ha imposto questa lingua come strumento di comunicazione ufficiale. Le raccolte di testi in ittita r invenute nella capitale ittita, Hattuša, e in altre città del regno sono in gran parte relative ad archivi palaziali e templari e sono dun-

UNA MINORANZA LINGUISTICA Tuttavia, dobbiamo tenere presente che l’Anatolia del II millennio a.C. era abitata anche da comunità diverse dagli Ittiti dal punto di vista etno-linguistico. Inoltre, i parlanti ittita erano una minoranza e la gran parte della popolazione parlava vernacoli riconducibili alla lingua luvia. Come l’ittita, il luvio è una lingua del gruppo indoeuropeo anatolico ed è documentata da tavolette in argilla scritte in cuneiforme e anche da testi redatti in un sistema grafico geroglifico. Questo sistema grafico è documentato almeno a partire dal XV secolo a.C. e resta in uso anche nel I millennio, fino all’VIII secolo a.C., quindi molto dopo il collasso e la scomparsa del regno di Hatti. In Anatolia sud-orientale e in Sirica occidentale si sono formate, a partire dal XII secolo a.C., realtà politiche che prendono il nome di regni siro-anatolici o regni neo-ittiti. Essi erano in parte abitati da comunità luvie e questo spiega la sopravvivenza del luvio e del sistema grafico geroglifico anatolico ben oltre la fine del regno di Hatti. Il sistema geroglifico è un’invenzio-


ne anatolica; esso si compone di segni vocalici, sillabici (soltanto sillabe aperte) e logografici. Sebbene nasca in un contesto luvio, il suo sviluppo si colloca in ambienti scribali in cui gli scribi avevano una doppia competenza, nella lingua ittita e nella lingua luvia. In un primo periodo, il luvio è utilizzato nelle legende dei sigilli, successivamente viene impiegato anche per iscrizioni su pietra. La valenza iconica che il geroglifico aveva rispetto al cuneiforme spiega la motivazione della scelta di questo sistema grafico

per supporti scrittori che riproducevano testi con funzione celebrativa. Inoltre, esso, in quanto esclusivamente anatolico, a differenza del cuneiforme, in uso in tutto il Vicino Oriente antico, aveva una valenza identitaria, come una scrittura identificativa del regno di Hatti. È stata avanzata l’ipotesi che il geroglifico venisse utilizzato anche su supporti scrittori diversi, quali lamine di legno, o tavolette di legno cerate. Verosimilmente, l’apprendimento del geroglifico era piú semplice, per la maggiore

possibilità di memorizzare segni che rimandavano a immagini, rispetto allo studio del cuneiforme, che richiedeva una formazione scolastica molto lunga. Si potrebbe allora ipotizzare che il numero di persone alfabetizzate in geroglifico fosse in qualche modo superiore a quello dei soli scribi professionisti che redigevano documenti in cuneiforme. Le recenti scoperte di iscrizioni geroglifiche a Hattuša, e piú precisamente a Yerkapı, descritte in queste pagine, sembrano proprio supportare tale ipotesi.

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LE ISCRIZIONI GEROGLIFICHE PRESENTI A HATTUŠA di Metin Alparslan

C

on l’inizio degli scavi regolari a Hattuša, la capitale degli Ittiti, nell’ormai lontano 1906, sono venute alla luce numerose testimonianze scritte. Esse sono rappresentate, nella maggioranza dei casi, da tavolette di argilla redatte in scrittura cuneiforme e in lingua ittita (che è la lingua propria della cancelleria del regno usata per tutti i documenti relativi agli affari interni), o in babilonese (che è la lingua franca dell’epoca, usata per le relazioni internazionali). Tuttavia, accanto alla scrittura cuneiforme gli Ittiti facevano uso di un secondo sistema scrittorio, definito dagli studiosi «geroglifico anatolico». Dislocate sul territorio del regno si sono rinvenute a oggi oltre quaranta iscrizioni monumentali redatte in questa scrittura, databili al periodo «imperiale» (fra la seconda metà del XIV e la fine del XIII secolo a.C.) e apposte su superfici rupestri o spazi ricavati su edifici e arredi pubblici. Si tratta per lo piú di iscrizioni regie, commissionate quindi dalla corte di Hattuša; in alcuni casi, tuttavia, esse appaiono essere state curate da personaggi influenti dell’apparato statale del regno.

L’ISCRIZIONE DELLA CAMERA 2 Fra le iscrizioni regie piú significative presenti nella capitale è certamente quella collocata nell’area settentrionale della cosiddetta Città Alta (chiamata convenzionalmente iscrizione del Südburg, dall’installazione militare di epoca frigia che occupa la zona; vedi foto alle pp. 54/55). La camera, sulla cui parete è apposta, è composta di 54 a r c h e o

grandi blocchi in pietra calcarea, probabilmente una sorta di cappella dedicata al culto ctonio. L’iscrizione, scalpellata a rilievo, si svolge in for ma bustrofedica sull’intera parete di destra, andando a occupare la superficie di sei grandi ortostati in larghezza e due in altezza. Essa narra le vittorie militari e le gesta dell’ultimo grande re ittita, Šuppiluliuma, nelle regioni meridionali dell’Anatolia; il suo nome è ricordato alla fine della prima riga di testo il cui incipit recita: «Quando il paese di Hatti sottomise tutte le regioni…». Si tratta quindi di un’iscrizione celebrativa, che rappresenta il monarca in forma eroica. Lo stesso monarca è rappresentato su un rilievo, accompagnato dall’indicazione del nome in caratteri geroglifici, posto sulla parete di fronte all’iscrizione (vedi foto qui sotto), Sulle due pagine: la cosiddetta Camera 2 dell’area di Südburg, nella quale è scolpita l’iscrizione geroglifica monumentale di Šuppiuliuma II. A destra: il rilievo raffigurante il re Šuppiuliuma II.


A sinistra e qui sotto: altri particolari dell’iscrizione geroglifica monumentale di Šuppiuliuma II.

eroe». All’inizio della narrazione delle sue imprese militari, il re fa quindi sfoggio della sua discendenza a sottolineare la forza e la saldezza del suo regno.

LE ISCRIZIONI MINORI Accanto a queste due famose e monumentali iscrizioni in scrittura geroglifica, si sono rinvenute a Hattuša numerose altre iscrizioni che potremmo definire «minori». Esemplificativa in tal senso è una stele pro-

Le «insegne» degli scribi Sono qui riprodotte, dall’alto verso il basso, le restituzioni grafiche di due «insegne» geroglifiche degli scribi di Hattuša. Nella prima, a sinistra, si può leggere il nome dei due scribi Armaziti e Šaušga-Runti e, piú in basso, compare il glifo indicante la professione di «scriba»; la seconda è l’«insegna» geroglifica dello scriba Šarija e, in questo caso, il glifo che indica la professione di «scriba» è ripetuto due volte nella parte inferiore.

mentre la parete di fondo è decorata dal rilievo della divinità del sole, sormontato dalla rappresentazione simbolica delle ali.

L’ISCRIZIONE RUPESTRE DEL NISHANTEPE Sempre nell’area settentrionale della Città Alta, sulla parete rocciosa che caratterizza le pendici orientali dell’altura di Nishantash, quasi di fronte all’area del Südburg, si trova una seconda iscrizione monumentale geroglifica a rilievo, anch’essa con andamento bustrofedico, la piú lunga a oggi conosciuta (vedi foto a p. 56, in basso). Essa faceva parte dell’accesso per mezzo di una rampa monumentale che su questo versante conduceva fino

alla sommità della collina stessa. La sua collocazione a cielo aperto l’ha molto danneggiata nel tempo rendendone in molti punti poco visibili a occhio nudo i glifi che la componevano. Solo in particolari condizioni di luce si possono identificare i segni che ne caratterizzavano la prima riga. Proprio nell’incipit si può leggere il nome del re che l’ha commissionata, lo stesso Šuppiluliuma II dell’iscrizione del Südburg, assieme a quello di suo padre, Tuthalija (IV) e di suo nonno, Hattušili (III). L’incipit, per quanto si può leggere a occhio nudo, recita «Io, il sole, gran re Labarna, Šuppiluliuma, re della terra di Hatti, eroe, figlio di Tuthalija gran re eroe, e nipote di Hattušili, gran re a r c h e o 55


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veniente da un edificio di culto facente parte di uno dei templi che occupano la parte centro-meridionale della Città Alta (il cosiddetto Tempio V). Su di essa è apposto il rilievo di una figura divina, sopra la cui mano sinistra corre l’iscrizione «Gran re Tuthalija» (vedi foto qui accanto); essa si riferisce verosimilmente a uno dei re ittiti aventi questo nome, il quale, essendo ormai morto, era stato, come d’uso, divinizzato. Accanto a queste iscrizioni di carattere pubblico, religioso o celebrativo, esiste una specifica categoria di iscrizioni graffite, le cosiddette «insegne degli scribi» (vedi disegni a p. 55, al centro e in basso), tutte di epoca molto tarda (fine del XIII secolo a.C.), che riportano il nome e l’indicazione della professione scribale, probabilmente da mettere in relazione con scribi facenti uso di tavolette di legno cerate che dovevano mettere a disposizione la propria arte scrittoria per fini privati, cioè a beneficio di un pubblico «analfabeta» (un’usanza In alto: la stele raffigurante il re divinizzato Tuthalija dall’area del Tempio V che si ritrova per un’epoca non della Città Alta di Hattuša. molto lontana anche in Europa). In basso: l’iscrizione geroglifica di Šuppiuliuma II sulla parete del Nishantepe.

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LE ISCRIZIONI DIPINTE DI YERKAPI di Metin Alparslan, Natalia Bolatti Guzzo e Massimiliano Marazzi

L

a scrittura geroglifica è un’invenzione degli Ittiti. Non a caso, si chiama «geroglifica»: i suoi segni, infatti, derivano da interpretazioni convenzionalizzate e stilizzate di oggetti, animali, parti del corpo, elementi architettonici propri del mondo anatolico che, di volta in volta, assumono, in base ai nomi o ai concetti astratti a cui rinviano, valore di logogramma (un segno per un’intera parola), fonogramma (un segno per una sequenza fonica complessa) o sillabogramma (un segno per una sillaba). È una scrittura che nasce insieme alla costituzione stessa dello Stato territoriale ittita (intorno alla prima metà del XVII secolo a.C.), essenzialmente per notare sui sigilli nomi e funzioni dei proprietari aventi una funzione politica, religiosa o amministrativa. Si tratta quindi di una scrittura che gli studiosi di antropologia della scrittura definiscono «specialistica». Nel XIV secolo a.C., quando il regno ittita assume una rilevanza internazionale, questa scrittura, proprio per le sue caratteristiche «iconiche», diventa espressione monumentale (fino ad allora estranea alla comunicazione scrittoria ittita), in cui scrittura fonetica e rappresentazione iconografica si fondono in composizioni che occupano grandi pareti rupestri o decorano spazi architettonici pubblici. Solo sul finire del XIII secolo a.C. questo sistema di scrittura si «linearizza»: dà cioè vita a veri e propri testi monumentali con svolgimento lineare, con una propria struttura sintattica, ma non legati al codice linguistico ittita (per il quale la scrittura cuneiforme su tavoletta d’argilla rimane il medio corrente), bensí a quello luvio, un dialetto strettamente imparentato con l’ittita, da sempre

presente in Anatolia, ma divenuto, nel periodo finale della storia politica del regno, lingua di maggiore diffusione a tutti i livelli sociali. Come la scrittura cuneiforme, cosí anche quella geroglifica, fino a tempi recenti, è stata ritenuta una «scrittura ufficiale», usata cioè esclusivamente per iscrizioni strettamente connesse con la vita politico-religiosa del regno e, in ogni caso, apposta per via diretta su supporti per lo piú in pietra (come sigilli, pareti rupestri o elementi architettonici), o incisa su oggetti metallici e fittili.

LE PRIME TRACCE DI UNA RIVOLUZIONE Solo negli ultimi decenni di vita del regno, e limitatamente alla capitale In alto: restituzione grafica di tubature fittili relative all’impianto idraulico del sito di Kushaklı (antica Šarišša): accanto agli esemplari portanti un segno di tipo geroglifico inciso in prossimità del foro di ispezione (a sinistra), è presente un esemplare in cui lo stesso segno è dipinto in colore rosso (al centro). In basso: Kayalıpınar (antica Šamuha). Restituzione grafica dell’attestazione in scrittura geroglifica dipinta in rosso sui massi del muro di un edificio pubblico del nome (A) e del titolo/professione (B) del «geometra» addetto alla costruzione.

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Hattuša, compaiono brevi iscrizioni geroglifiche graffite, eseguite cioè in tecnica semplice; il loro carattere appare essere estemporaneo e il loro fine «privato»: sono iscrizioni che indicano nomi e titoli di scribi oppure formule magiche, a testimonianza del fatto che laddove venivano apposte (pareti di edifici, strutture di porte urbiche, soglie di templi) sostavano scribi che offrivano i propri servizi scrittori, si conducevano pratiche di purificazione o, semplicemente, si affidava il proprio nome alla protezione di una divinità (si veda, per esempio, l’immagine in questa pagina). Il quadro che gli ittitologi si erano fatti della scrittura geroglifica fino a tempi recenti era tuttavia destinato a essere rivisto in maniera radicale. Le prime tracce di un diverso scenario sono venute in primis dai nuovi scavi intrapresi agli inizi di questo secolo in due importanti siti dell’Anatolia centrale: quello di Kushaklı, l’antica città di Šarišša, e Kayalıpınar, l’antica Šamuha. Lo studioso tedesco Andreas Hüser, nella sua pubblicazione del 2007 relativa al sistema idrico dell’antica Šarišša, attirò l’attenzione sul fatto che uno dei segni di «tipo geroglifico» presenti sulle tubature idriche fittili di questo sito non fosse inciso, come di regola, bensí dipinto (vedi il disegno a p. 57, in alto). Ma la conferma che l’esempio da Šarišša non fosse un caso isolato venne, una decina d’anni piú tardi, dagli scavi di Kayalıpınar. Qui, sui massi che formavano il muro di un importante fabbricato di epoca medio-ittita (databile intorno alla metà del XV secolo a.C.), furono ritrovate le tracce di una serie di segni dipinti in rosso, questa volta chiaramente attribuibili alla scrittura geroglifica; essi formavano (vedi il disegno a p. 57, in basso) il nome di un personaggio a cui si accompagnava, su un masso contiguo, un glifo composito che lo scavatore, Andreas Müller-Karpe, 58 a r c h e o

interpretò come l’indicazione della sua professione (qualcosa come il «geometra» dell’epoca) strettamente connessa, quindi, con la messa in opera della struttura stessa. Poiché il muro in questione doveva essere intonacato, l’iscrizione in oggetto non poteva certo avere né carattere «pubblico», né celebrativo: si tratta anche in questo caso (ma per un’epoca ben anteriore a quella dei graffiti di Hattuša) del «marchio» lasciato da chi aveva all’epoca diretto le maestranze, e, per di piú dipinto!

LA SCOPERTA A HATTUŠA Il ritrovamento di Kayalıpınar, forse perché di limitata entità, o forse perché pubblicato solo al margine del resoconto degli scavi (e documentato da una sola foto in bianco e nero), pur importante, non ebbe

sul momento molta eco nel mondo ittitologico, né indusse a particolari riconsiderazioni sull’aspetto di questo uso della scrittorietà ittita. Nell’estate del 2022, però, Hattuša fu teatro di un ritrovamento veramente rivoluzionario: durante una ricognizione nella posterula di oltre 70 m di lunghezza e 3 m circa di altezza massima, che passa sotto l’imponente sistema di difesa di Yerkapı, che chiude la parte meridionale della cosiddetta Città Alta, furono identificate, sui massi che formano le pareti, quasi 300 iscrizioni geroglifiche in pittura rossa. Nei giorni immediatamente susseguenti alla scoperta cominciò, da parte di un team di specialisti turchi e italiani, sotto la guida del direttore della missione tedesca di Hattuša, Andreas Schachner, il rilievo per Hattuša, Città Alta, Porta delle Sfingi di Yerkapı: un funzionario della corte ha lasciato inciso il suo nome sull’ala di una delle sfingi che decorano il lato interno della porta urbica.


In alto: la posterula di Yerkapı: sezione del passaggio al di sotto della fortificazione (da modello 3D), con proiezione delle rilevazioni ortofotografiche relative alle rispettive pareti e indicazione della distribuzione dei 6 tipi di iscrizioni (A-F) geroglifiche presenti sui massi che le compongono. In basso: la composizione A+D (nome di persona + titolo/professione) sulla parete orientale sulla base del tratto di parete intercettato dall’ortofoto 5 (qui rappresentata in basso in forma grafica).

mezzo delle piú avanzate tecnologie di documentazione digitale e il conseguente processo di decifrazione. L’intenso impegno di studio ha portato in poco piú di un anno a risultati davvero sorprendenti. Le oltre 250 iscrizioni si ripartiscono in numero quasi eguale sulle pareti est e ovest della posterula (per l’esattezza 123 sulla parete orientale, e 128 su quella occidentale), andando a occupare la parte centrale del passaggio sotterraneo (vedi la figura in questa pagina, in alto) e distribuendosi ciascuna su massi differenti (solo in un paio di casi la stessa iscrizione compare due volte sullo stesso masso). Sebbene il numero totale delle iscrizioni sia cosí alto, i tipi individuabili sono soltanto 6 (individuati dagli epigrafisti con le lettere da A a F). Questa iterazione di uno stesso tipo di iscrizione non è però casuale, ma corrisponde a criteri ben precisi: non solo i tipi si ripartiscono complementarmente sulle due pareti (nel senso che ogni parete è supporto di tipi che compaiono solo su di essa), ma vanno a occupare spazi ben precisi. Come si può vedere nell’immagine in alto, mentre sulla parete orientale compaiono solo le iscrizioni A e D, su quella occidentale si ritrovano solo le iscrizioni B, C, E e F; inoltre, sempre dalla stessa figura si evince come ogni tipo di iscrizione occupi sulle rispettive pareti sezioni ben determinate. Sono tuttavia concomitanti sulle stesse porzioni di parete (ma si dispongono sempre su massi differenti, ancorché contigui), le iscrizioni A e D per la parte orientale, e B ed E per quella occidentale. Perché tali comunioni di spazi? Esiste, inoltre, una ratio nel disporsi delle iscrizioni le une rispetto alle altre su tali porzioni comuni di parete?

LA DECIFRAZIONE La risposta è stata trovata nel momento in cui dall’analisi formale dei tipi e della loro disposizione, i ricera r c h e o 59


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catori sono passati alla decifrazione del significato di tali iscrizioni. Va tuttavia messo in evidenza come il lavoro di decifrazione, cioè di individuazione dei segni e della loro interpretazione, sia risultato subito molto piú difficile rispetto a quello di una qualsiasi iscrizione geroglifica a cui gli studiosi erano fino a quel momento abituati. Per la prima volta nella storia degli studi ittitologici, ci si trovava infatti di fronte a iscrizioni dipinte e non incise o scalpellate sulla pietra. La componente che potremmo chiamare «calligrafica» giocava in questo caso un ruolo fondamentale nel tracciato del segno e nel rapporto fra segni contigui, elementi questi fino a quel momento sconosciuti. Il primo passo è stata l’identificaA destra: esempi dell’iscrizione del tipo B presente sulla parete occidentale, con indicazione dei glifi componenti il nome teoforo Innara. In basso: l’iscrizione di tipo C «passaggio del/attraverso la montagna sacra Tuthalija» con l’individuazione del glifi che la compongono.

zione dell’iscrizione B della parete occidentale (composta da un segno stilizzato di corno di cervo unito a un tratto laterale con valore sillabico RA/RI) come nome di persona. Il cervo (o le sue corna quale pars pro toto) corrisponde al teoforo ittita Innara, e il tratto per RA/RI rappresenta quello che gli specialisti chiamano una complementazione fonetica, cioè l’indicatore che il nome in questione termina proprio con questa sillaba (vedi la figura in alto). Appurato, quindi, che sulla parete occidentale era presente un nome di persona, appariva evidente come anche su quella orientale dovesse comparire un pendant di carattere onomastico. Qui, esclusa l’iscrizione D (formata di un solo segno che trovava confronti su alcuni sigilli con funzione di logogramma individuante con 60 a r c h e o


Esempi dell’iscrizione del tipo A presente sulla parete orientale, con indicazione dei glifi componenti il nome teoforo Ari-Šadu.

verosimiglianza un titolo/professione), rimaneva la sola iscrizione A. Questa si presentava particolarmente complessa, perché formata da un certo numero di segni tracciati in forma molto sinuosa e sovrapponentisi fra loro in numerosi punti a formare una composizione unitaria. Il confronto delle sue diverse attestazioni permetteva di isolare una sequenza di tre segni, leggibili dall’alto verso il basso, come «due mani affrontate» (indicante il gesto del «dare») + «il profilo di una capra» (con valore fonetico /sa/) + «un segno quadrangolare» (con valore fonetico /tu/). La struttura del nome, anche in questo caso un teoforo, risultava pertanto interpretabile come «dato/ dono dal/del dio X». Nel caso specifico il nome del dio era quello (conosciuto nell’Anatolia ittita) di Sadu e la composizione poteva essere interpretata come Pija-Sadu o, piú verosimilmente, Ari-Sadu (con il primo elemento letto non in lingua ittita, ma hurrita). L’individuazione delle iscrizioni A e B come nomi di persona ha permesso di affrontare con cognizione

di causa le associazioni sulle due pareti rispettivamente di A con D (parete orientale) e B con E (parete occidentale). Come nel caso dell’iscrizione dipinta di Kayalıpınar, anche per quelle della posterula di Yerkapı tale associazione doveva indicare la giustapposizione di un nome di persona con una determinazione di titolo/mestiere. E di fatto, su entrambe le pareti, la collocazione dell’iscrizione indicante il nome di persona si presenta sempre su un masso posto sopra quello sul quale è apposto il presunto titolo/ mestiere, a formare (come evidenziato dalla figura a p. 59, in basso) una composizione a lettura verticale ben conosciuta anche per le testimonianze geroglifiche su glittica.

LE INCOGNITE F E C Guardando alla distribuzione dei tipi di iscrizione (vedi figura a p. 59, in alto), saltò subito all’occhio dei ricercatori che le due restanti iscrizioni, il tipo F e C, occupano uno spazio distinto sulla parete occidentale, all’inizio della posterula per chi, entrando, proveniva dall’esterno della città. Studiando nel dettaa r c h e o 61


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potesse riferirsi proprio alla posterula stessa che passa sotto l’imponente altura fortificata di Yerkapı che chiude il versante meridionale della Città Alta di Hattuša. Una simile indicazione relativa alla collocazione/funzione della posterula poteva, di conseguenza, essere attribuita anche alla iscrizione F, vista la sua collocazione proprio sulla parete occidentale all’entrata meridionale del passaggio (vedi la figura in questa pagina, in alto).

In alto: le tipologie delle iscrizioni lungo le due pareti della posterula. Qui sopra: la composizione B+E (nome di persona + titolo/professione) sulla parete occidentale sulla base del tratto di parete intercettato dall’ortofoto 21.

glio i segni che le componevano, fu possibile identificare la presenza, in entrambe le iscrizioni del segno geroglifico indicante «via/passaggio» (confronta l’iscrizione C nella figura a p. 60, in basso). Piú in particolare, nell’iscrizione C tale segno compariva collegato a 62 a r c h e o

quello relativo alla «montagna sacra Tuthalija» (il cui nome era indiziato dalla presenta del segno TU sotto a quello per «montagna sacra»). Non è sembrato quindi peregrino ritenere che il significato di «passaggio della/attraverso la» montagna sacra Tuthalija espresso dall’iscrizione

IL LAVORO CONTINUA Se molti aspetti del significato di questa incredibile scoperta cominciano a essere finalmente chiari, il lavoro che attende l’équipe internazionale degli epigrafisti si presenta ancora lungo e non privo di ostacoli. Certamente un punto nella storia della scrittura geroglifica in uso presso gli Ittiti è ormai chiaro. Questo tipo di scrittura, a differenza della cuneiforme, doveva avere un uso e una diffusione molto piú ampi rispetto a quanto fino a oggi immaginato, toccando ambiti e aspetti del quotidiano che si pensavano «illetterati». D’altra parte, che il «geroglifico dipinto» a Hattuša non sia un fenomeno limitato alla posterula di Yerkapı appare confermato da altri, seppur limitati, ritrovamenti provenienti sempre dall’area della Città Alta; si tratta, in un caso, di un frammento erratico di ortostato, verosimilmente proveniente all’origine da uno dei fabbricati della cosiddetta «area templare», sul quale sono conservate le tracce di un segno geroglifico eguale a quello che caratterizza l’iscrizione D della posterula di Yerkapı; altre tracce di pittura, purtroppo molto mal conservate, sono state individuate sul muro interno meridionale della cosiddetta Porta del Re. Siamo certamente all’inizio di un nuovo capitolo della storia culturale del regno ittita!


DIGITALIZZAZIONE 3D E DIAGNOSTICA DEL COMPLESSO ARCHITETTONICO DI YERKAPI di Leopoldo Repola, Vincenzo Morra, Celestino Grifa e Gianni Varriale

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a fortificazione di Yerkapı è una struttura monumentale r invenuta a Hattuša, capitale dell’impero ittita (XVII-XIII secolo a.C.), situato circa 200 km a est di Ankara, Turchia. La recente scoperta di oltre 250 iscrizioni geroglifiche dipinte nella posterula situata sotto la fortificazione ha indotto i ricercatori del Dipartimento di Scienze della Terra, dell’Ambiente e delle Risorse dell’Università Federico II di Napoli e del Dipartimento di Scienze e Tecnologie In alto: fasi di rilievo 3D mediante scanner tridimensionale Riegl VZ400. In basso: modello in punti alla Porta delle Sfingi ottenuto mediante rilievo laser scanner a tempo di volo.

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SCAVI • TURCHIA

dell’Università del Sannio, a sviluppare un programma di digitalizzazione 3D e di analisi mineralogica in situ, nell’ambito del «Progetto Hattuša» di cooperazione italo-turco-tedesca finanziato dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Obiettivo di questo studio multidisciplinare è, in primis, quello di ricostruire l’architettura della struttura e di comprenderne l’articolazione spaziale e le funzioni. La scoperta delle iscrizioni geroglifiche ha dato notevole impulso alle ricerche, potendo rileggere in esse simboli e percezioni che gli Ittiti vollero attribuire a questo complesso monumentale composto di un terrapieno alto circa 20 m, alla cui sommità fu eretta la Porta delle Sfingi e sotto il cui asse era collocato il camminamento lungo circa 70 m, costruito con grandi blocchi irregolari a sbalzi progressivi. Di tali

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iscrizioni si sono analizzate le geometrie e i pigmenti, insieme alle forme delle rocce sulle cui superfici sono collocate, e le sequenze all’interno dello spazio architettonico.

LE ATTIVITÀ SUL CAMPO Le campagne di digitalizzazione 3D nell’area della collina artificiale di Yerkapı sono state realizzate mediante fotogrammetria e l’uso del laser scanner Riegl VZ400. Tali attività hanno riguardato tutti i lati del monumento, inclusi i percorsi a

quota intermedia, le due scale ubicate sui prospetti est e ovest del monumento, la Porta delle Sfingi e i prospetti sud e nord in corrispondenza degli ingressi alla posterula. Le fasi di rilievo hanno previsto la localizzazione di target all’interno dell’area (tramite stazione totale), al fine di collegare i nuovi modelli ottenuti al sistema di riferimento locale definito dalla missione dell’Istituto Archeologico Germanico di Istanbul. Infine, i dati tridimensionali sono stati importati in specifici software di modellazione 3D, per mezzo dei quali sono stati prodotti modelli poligonali ad alta risoluzione. L’obiettivo delle procedure di acquisizione è stato di determinare con esattezza la connessione tra l’orografia della collina artificiale e le geometrie della doppia struttura muraria di Yerkapı. Inoltre, le attività di rilevo hanno portato al rinvenimento di un frammento di roccia vulcanica a forma di parallelepipedo irregolare, di circa 20 × 20 × 6 cm, decorato con un geroglifico di col o re o c r a ro s s a ( c a m p i o n e BO2‒0‒7008) simile a quelli rinvenuti sulle pareti della posterula.

LA POSTERULA E LE ISCRIZIONI I processi di acquisizione all’interno della posterula hanno permesso di dettagliare i blocchi del tunnel e le relative iscrizioni in un unico

In alto: modello ad alta risoluzione di una porzione del tunnel prodotto con scanner a luce strutturata ARTEC EVA. In basso: Yerkapı, Sezione Ovest: modelli ortofotogrammetrici con geroglifici, allineati sul modello numerico del tunnel e della Porta delle Sfingi.


modello ad alta risoluzione, riducendo le zone d’ombra dovute alla forte irregolarità dei massi. Lungo le pareti est e ovest sono state rilevate 12 aree contenenti rispettivamente 123 e 128 iscrizioni. Le 251 iscrizioni sono state rilevate mediante scansioni 3D a luce strutturata Artec EVA e acquisizioni fotogrammetriche. I modelli ortofotogrammetrici testurizzati sono stati poi trasferiti sul modello generale georeferenziato derivato da scansione laser, in modo da definire la corretta progressione delle iscrizioni sul modello poligonale del tunnel e da incrementare il livello di risoluzione dei segni geroglifici. L’uso dei modelli prodotti con scanner a luce strutturata e delle procedure di editing sulle texture in false colors hanno permesso la migliore caratterizzazione delle geometrie dei segni geroglifici, la cui interpolazione ha reso possibile l’individuazione di tracce di scrittu-

ra non visibili a occhio nudo; le traiettorie di queste ultime sono state rese attraverso geometrie vettoriali a supporto di una verifica comparata dei segni attraverso indici di curvatura. Le iscrizioni geroglifiche sono state anche oggetto di una specifica campagna di rilevazione diagnostica per lo studio dei geomateriali, il cui obiettivo è stato quello di comprendere la composizione del pigmento con cui i segni sono stati tracciati. Sono state effettuate analisi su 4 iscrizioni campione, che hanno consentito di determinare le caratteristiche tessiturali, mineralogiche e chimiche delle colorazioni rosse.

LA NATURA DEI PIGMENTI L’approccio multi-analitico e non invasivo utilizzato per indagare le superfici rocciose della posterula di Yerkapı ha svelato la composizione dei pigmenti rossi utilizzati per dipingere i geroglifici.

Tutti i dati acquisiti confermano l’utilizzo di un pigmento a base di ematite; inoltre, le immagini ottenute dalla microscopia digitale mostrano le particelle di colore rosso intrappolate nella superficie irregolare della roccia. In corrispondenza delle superfici rosse è stato possibile dedurre la composizione ricca di ferro del pigmento utilizzato per la decorazione. Questa evidenza è tipica dell’ocra rossa, un pigmento naturale molto diffuso e comunemente utilizzato fin dalla preistoria, in gran parte disponibile in depositi ricchi di ferro della crosta continentale, o prodotto artificialmente riscaldando l’ocra gialla. Coerentemente con la composizione chimica, le figure rosse sono composte da ematite come principale minerale portatore di ferro insieme alla calcite come principale fonte di calcio (e stronzio) attribuibile al bedrock calcareo.

Ambasciata di Türkiye - Ufficio Cultura e Informazioni Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Istituto per gli Studi sul Mediterraneo e l’Oriente - Roma Università di Napoli Federico II Università di Napoli Suor Orsola Benincasa Dipartimento di Studi Storici - Università di Torino

Nuove Scoperte dalla capitale ittita Hattuša Roma, 27 aprile 2024 Intervengono S.E. Paolo Bartorelli, MAECI Riza Haluk Soner, Direttore Ambasciata di Türkiye - Ufficio Cultura e Informazioni Adriano Rossi, Presidente ISMEO Stefano de Martino (Università di Torino), La rilevanza storica delle nuove iscrizioni dalla capitale ittita Andreas Schachner (DAI-Istanbul), The Monumental Structure of Yerkapı Metin Alparslan (Università di Istanbul), The Use of Anatolian Hieroglyphic in the Hittite Capital Hattuša Massimiliano Marazzi (ISMEO e Università Suor Orsola Benincasa Napoli), Le iscrizioni luvio geroglifiche dalla postierla di Yerkapı Leopoldo Repola (Università Federico II Napoli), Le rilevazioni fotogrammetriche della postierla di Yerkapı Per informazioni: turchia@turchia.it

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PARCHI ARCHEOLOGICI • EMILIA-ROMAGNA

COME UN GIORNO DI 3500 ANNI FA IL PARCO ARCHEOLOGICO DELLA TERRAMARA DI MONTALE FESTEGGIA I SUOI PRIMI VENT’ANNI DI ATTIVITÀ CON UN RICCO PROGRAMMA DI EVENTI. UN’OCCASIONE PER SCOPRIRE UN SITO DI ECCEZIONALE IMPORTANZA PER LA CONOSCENZA DI UNA DELLE PIÚ IMPORTANTI CULTURE AFFERMATESI NELL’ETÀ DEL BRONZO, PASSEGGIANDO FRA LE CASE DI UN VILLAGGIO FEDELMENTE RICOSTRUITO. E NEL QUALE SI PUÒ PLASMARE L’ARGILLA, FILARE LA LANA O FORGIARE ARMI E UTENSILI... di Andrea Cardarelli, Ilaria Pulini e Cristiana Zanasi 68 a r c h e o


Piacenza

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Montale Bologna

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L’interno di una delle case del villaggio dell’età del Bronzo ricostruito nel Parco archeologico e Museo all’aperto della Terramara di Montale, in provincia di Modena.

I

temente identitario della storia di questo territorio. Le vicende del sito archeologico di Montale, a pochi chilometri da Modena, si intrecciano, fin dal momento della sua scoperta, nella seconda metà dell’Ottocento, con la storia del Museo Civico di Modena, fondato nel 1871 per dare ricovero all’ingente mole di materiali che stava venendo alla luce, soprattutto dalle terramare del Modenese. La raccolta delle terramare, ar-

Ravenna Faenza

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Massa

l Parco archeologico e Museo all’aperto della Terramara di Montale, che nel 2024 celebra il suo ventennale, nasce come settore open air collegato al Museo Civico di Modena ed è dedicato alla valorizzazione delle terramare, abitati che si sono sviluppati nell’età del Bronzo, fra il 1650 e il 1150 a.C. Questa civiltà, a cavallo fra Europa e Mediterraneo, era diffusa nella parte centrale della pianura padana e costituisce un aspetto for-

Mare Adriatico

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Rimini

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ricchita da scavi eseguiti in anni piú recenti, rappresenta tuttora il nucleo piú caratterizzante dell’esposizione archeologica, ma, come avviene in tutti i musei «tradizionali», sconta quella frattura che inevitabilmente si crea fra oggetto e contesto di provenienza. L’individuazione di strategie alternative di valorizzazione dei reperti che favorissero una dimensione esperienziale e partecipativa è stata alla base della grande mostra che nel 1997 il Museo dedicò alle terramare, il cui successo evidenziò il bisogno del pubblico di iniziative che coniugassero scienza e divulgazione per conoscere e apprezzare l’archeologia. Contestualmente, erano riprese le indagini nella parte residua della terramara di Montale, non interessata dagli scavi e dalle attività di cava ottocenteschi.

UNA STORIA CHE VIVE A partire da questi presupposti ha preso corpo l’idea di creare un parco dedicato alle terramare presso l’area archeologica di Montale, sul modello degli open air museums del CentroNord Europa, fondati sui criteri della living history, con la riproposizione di strutture abitative, attività produttive e artigianali del passato. Il progetto ha ottenuto nel 1998 il sostegno della Commissione Europea nell’ambito di un programma triennale di cooperazione denominato «Archaeolive» che, nell’ottica a r c h e o 69


PARCHI ARCHEOLOGICI • EMILIA-ROMAGNA

di valorizzare l’età del Bronzo come momento di prima forte unità culturale del continente europeo, ha messo a confronto il Parco di Montale con due esperienze affini avviate nello stesso periodo dal Pfahlbaumuseum di Unteruhldingen sul lago di Costanza e dal Naturhistorisches Museum di Vienna. La collaborazione fra i tre partners europei si è basata sul comune presupposto che la realizzazione di un museo all’aperto potesse costituire lo strumento piú adeguato per valorizzare e promuovere la conoscenza di insediamenti dell’età del Bronzo, che, essendo costruiti con materiali deperibili come legno e terra, hanno lasciato resti strutturali poco «visibili». Grazie alle risorse europee e all’impegno congiunto dei Comuni di Modena e Castelnuovo Rangone, il Parco della Terramara di Montale, realizzato in un’area attigua al luogo in cui sorgeva l’abitato dell’età del Bronzo, è stato inaugurato nel 2004 per offrire al visitatore l’opportunità di vedere riunite in un’unica proposta museale l’area archeologica e la ricostruzione a grandezza naturale di una parte del villaggio basata sui dati emersi dagli scavi, con abitazioni, arredi, armi, ornamenti, utensili e altri oggetti d’uso quotidiano del villaggio di Montale, risalente a circa 3500 anni fa.

FRA EUROPA E MEDITERRANEO Nei secoli centrali del II millennio a.C. nel Mediterraneo orientale si erano già da tempo formate civiltà e imperi, come quello dell’antico Egitto o l’ittita. Nell’Egeo la civiltà micenea raggiungeva il suo apice e gli echi di quei tempi eroici ci sono giunti attraverso le gesta poi raccontate dai poemi omerici. A questo mondo cosí progredito faceva riscontro in Europa una società meno avanzata, ma non per questo priva di importanti e signifi70 a r c h e o


Sulle due pagine: la pianta del Parco archeologico e Museo all’aperto della Terramara di Montale. A destra: visitatori nell’area archeologica musealizzata di Montale. Nella pagina accanto: una veduta delle case del villaggio, realizzate come palafitte.

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PARCHI ARCHEOLOGICI • EMILIA-ROMAGNA

Montale, scavi 1998-2002: i pali delle strutture dell’abitazione di fase II (1500-1450 a.C.).

cative testimonianze. Anche se nessun cantore antico ci ha tramandato le storie dei popoli europei dell’età del Bronzo, i rinvenimenti archeologici ci fanno comprendere che nell’Europa di quei tempi esistevano comunità a base eroica e guerriera, capaci di raffinate produzioni artigianali, ispirate da un’ ideologia che rivela una forte spiritualità. I caratteri di queste società, pur differenziandosi secondo le varie aree, hanno molti elementi in comune ed evidenziano una sostanziale unità culturale, forse la piú antica del continente europeo. I traffici e gli scambi di beni, anche a lunga distanza, erano molto frequenti. L’approvvigionamento del rame e soprattutto dello stagno, necessario per realizzare una moltitudine di oggetti in bronzo, era la principale motivazione di questi contatti, ma molti altri beni, quale per esempio l’ambra, circolavano in Europa attraverso una fitta rete di rapporti che raggiungeva anche l’area micenea, dalla quale provenivano, con le loro merci, naviganti e artigiani che in certi periodi frequentarono assiduamente le coste italiane. 72 a r c h e o

Con i loro villaggi pianificati, la solida organizzazione economica e territoriale, l’assetto sociale delle loro comunità, partecipativo e non semplicisticamente egalitario, la grandiosa produzione artigianale, le terramare erano una delle società europee piú avanzate del tempo. Posizionate geograficamente a cavallo fra Mediterraneo ed Europa centrale, le terramare rappresentano uno degli aspetti archeologici piú significativi per comprendere la storia del continente europeo nel II millennio a.C.

TERRA DA CONCIME Nei primi decenni dell’Ottocento il nome «terremare» era utilizzato per indicare cave di terriccio organico scavate entro basse collinette, frequenti a quei tempi nel paesaggio della pianura padana. Questi rilievi avevano un’origine antropica e il terreno che le costituiva, venduto per concimare i campi, era ricco di resti archeologici. Solo dopo il 1860, quando in Italia cominciarono le ricerche scientifiche di preistoria, ci si rese conto che l’origine di queste collinette era at-

tribuibile a villaggi dell’età del Bronzo e, da allora, il termine terramara fu utilizzato dagli archeologi per indicare questi abitati. Grazie ai numerosi scavi le terramare divennero famose in tutta Europa e i loro resti arricchirono i musei della regione. Gli scavi effettuati negli ultimi quarant’anni anni hanno dimostrato


che le terramare erano villaggi fortificati databili fra l’età del Bronzo media e recente (1650-1150 a.C. circa), circondati da un terrapieno e da un fossato. La dimensione di questi abitati variava: da 1-2 ettari nelle fasi piú antiche fino a 20 ettari in quelle piú avanzate. Disposte nel villaggio secondo un modulo ortogonale, le case erano spesso costruite su impalcati aerei come le palafitte, a differenza delle quali, però, non sorgevano in aree lacustri o fluviali. I villaggi erano molto frequenti e tutta l’area comprendente la pianura emiliana e le zone di bassa pianura delle province di Cremona, Mantova e Verona era densamente abitata: il numero complessivo degli abitanti, molto alto per quel tempo, poteva aggirarsi attorno a 200 000 persone. L’economia delle terramare si basava su un’agricoltura intensiva, principalmente indirizzata verso la A destra: la sequenza stratigrafica del sito, occupato tra il 1600 e il 1250 a.C. (età del Bronzo Medio e Recente). In basso: ricostruzione della terramara di Montale, con le strutture dell’abitato circondate da un fossato.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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Spada a lingua da presa in bronzo rinvenuta negli scavi condotti sulla sommità dell’Alpe di Santa Giulia, nell’Appennino modenese, che hanno messo in luce un’importante area cultuale. 1300-1150 a.C.

cerealicoltura, resa piú produttiva da sistemi irrigui ottenuti con reti di canali artificiali. L’allevamento di caprovini, bovini e suini era molto sviluppato mentre la caccia era assai poco rappresentata. All’interno dei principali villaggi c’erano anche artigiani, che, nel caso della produzione metallurgica in bronzo, dovevano possedere una particolare specializzazione. Nelle fasi piú tarde le differenze fra i villaggi dovettero acuirsi e cominciarono a formarsi centri piú importanti accanto ad altri subalterni. Attorno al 1200 a.C. il mondo delle terramare entrò in crisi e, dopo qualche decennio, i villaggi furono abbandonati, probabilmente a seguito di una crisi ambientale determinata da un periodo di siccità. Il sistema produttivo ne risentí innescando un processo di crescente criticità economica e sociale che provocò il collasso di una civiltà che aveva prosperato per cinque secoli nella grande pianura del Po.

LA SCOPERTA DIVENTA ESPERIENZA Nel sito di Montale, a differenza di altre terramare, rase al suolo per «cavare» terreno fertilizzante, è presente una porzione di deposito pluristratificato integro nel suo spessore originale. La collinetta è stata preservata dai lavori di cava ottocenteschi grazie alla presenza, sulla sommità, di una chiesa settecentesca. Una parte di questo straordinario archivio di informazioni è stato indagato fra il 1998 e il 2002 con grande accuratezza, mettendo in evidenza una serie stratigrafica di oltre 3 m di spessore, datata con precisione fra il 1600 e il 1250 a.C. Il rinvenimento di resti di strutture abitative e produttive, la conservazione di resti lignei delle case, la ricchezza delle produzioni materiali, le analisi archeozoologiche – che hanno contribuito a chiarire aspetti dell’organizzazione economica e del regime alimentare degli abitanti 74 a r c h e o

IL PROGRAMMA DEL VENTENNALE La stagione primaverile del Parco apre al pubblico nelle giornate festive dal 31 marzo al 9 giugno con un programma ricco di attività. In particolare, a cavallo del ponte del 25 aprile si celebra il ventesimo compleanno del Parco. Nelle due case ricostruite i visitatori parteciperanno a una nuova esperienza immersiva, in cui la visita si arricchisce di suoni e rumori delle attività quotidiane e dell’ambiente circostante. Nel weekend del 27 e 28 aprile, partner italiani e europei si riuniranno a Montale per una due-giorni dedicata all’archeologia sperimentale. Il Parco festeggia i suoi primi vent’anni con dimostrazioni e laboratori a cura di tutti coloro che in questo periodo ne hanno condiviso il percorso, attraverso confronti, collaborazioni, scambi


di esperienze. Tornerà la coppia dei Binggeli, gli straordinari archeometallurghi svizzeri che, oltre a essere autori di molte repliche in bronzo presenti nelle case ricostruite, hanno trasmesso agli operatori del Parco il know how necessario per proseguire e implementare le sperimentazioni. Un’altra formatrice importante per lo staff sarà presente, Tiziana Aste, che studia da anni le tecniche di tessitura su telai antichi. Parteciperà l’Università di Exeter, partner del Parco in diversi progetti internazionali, con tre ricercatrici esperte in tecniche di intrecci, filati e lavorazione del cuoio. Presenti anche i parchi archeologici dell’Italia centrosettentrionale, da Travo al Parco della Val Senales dedicato a Ötzi, da Fiavè al Livelet, da Bovolone a Cetona per coprire tutti gli aspetti delle produzioni dell’età del Bronzo, con qualche incursione nei periodi precedenti. E ancora tanti archeotecnici per mettere in scena la realizzazione di frecce, la modellazione e cottura di forme ceramiche, la preparazione di alimenti, la tintura dei tessuti, la produzione di vetro a ambra. Tutte le iniziative saranno promosse attraverso una nuova identità visiva che accompagnerà la comunicazione e il sito rinnovato in chiave di accessibilità (il calendario delle iniziative è consultabile sul sito www.parcomontale.it). In alto: ricostruzione di un telaio verticale a pesi in una delle abitazioni. Nella pagina accanto, in basso: dimostrazione della fusione del bronzo.

delle terramare –, la raccolta di decine di migliaia di microresti e macroresti vegetali e le analisi polliniche hanno consentito di ricavare le informazioni necessarie per ricostruire non solo l’ambiente nel quale era sorta la terramara, ma anche una porzione di villaggio. Raccolti e interpretati i dati scientifici, si trattava di comunicarli efficacemente al pubblico nei diversi settori del parco con modalità che risultano tuttora efficaci. Il progetto scientifico, diretto da Andrea Cardarelli, e quello architettonico,

affidato a Riccardo Merlo, hanno tracciato le linee di una proposta museale che valorizzasse lo scavo e le r icostruzioni all’interno di un’ampia area verde. L’area archeologica, straordinariamente ricca di evidenze, è stata musealizzata con calchi, come se lo scavo fosse in corso rendendo fruibile al pubblico uno spazio che racconta i quattro secoli di vita dell’insediamento e i risultati della ricerca. La quantità e qualità dei contesti e dei materiali recuperati hanno determinato l’adozione di un metodo a r c h e o 75


PARCHI ARCHEOLOGICI • EMILIA-ROMAGNA

rigorosamente filologico nelle ricostruzioni del museo all’aperto, realizzato a poca distanza dall’area archeologica e cinto da argine e fossato. Due abitazioni sono state ricostruite fedelmente sulla base dei dati ottenuti dallo scavo, cosí come gli oggetti che le arredano. Nelle vicinanze sono stati realizzati due forni per la cottura della ceramica utilizzati per il vasellame di medie e grandi dimensioni e nello stesso spazio è stata replicata la fossa per la fusione del bronzo individuata nel corso dello scavo.

PER CONOSCERE IL TERRITORIO Il risultato immediatamente percepibile è quello di un dialogo fra area archeologica, come testimonianza tangibile di una ricerca, e museo all’aperto, come punto di arrivo di quella stessa ricerca. A partire da questa chiave di lettura è stata costruita l’offerta culturale per pubbli-

76 a r c h e o

co e scuole, con l’obiettivo di rendere disponibili i metodi della ricerca storico-archeologica e di soddisfare i bisogni della fruizione pubblica intesa non solo come attività ricreativa e del tempo libero, ma soprattutto come opportunità di conoscenza del territorio dal punto di vista storico e ambientale.

Il punto di forza ed elemento attrattivo nelle visite rivolte al pubblico sono le dimostrazioni di archeologia sperimentale o di antiche tecniche artigianali che accompagnano ogni visita. La sperimentazione e l’utilizzo di tecniche costruttive e produttive nel corso delle ricostruzioni del museo all’a-


A destra e qui sotto, sulle due pagine: immagini dello scavo della necropoli di Casinalbo, con tombe indicate da segnacoli.

Nella pagina accanto, in basso e a sinistra: disegni ricostruttivi che mostrano il rapporto spaziale fra la terramara di Casinalbo e la sua necropoli e la cerimonia che accompagnava la cremazione e la sepoltura dei defunti.

perto, grazie alla presenza di specialisti italiani ed europei, ha permesso di riproporle durante le giornate di apertura al pubblico, conferendo alla visita una dimensione esperienziale e coinvolgente. Il carattere di work in progress del Parco è garantito da un programma che si rinnova con il progredire degli scavi e delle ricerche: alle dimostrazioni si aggiungono infatti approfondimenti tematici su aspetti dell’economia produttiva, nuovi dati archeobotanici, archeozoologici e antropologici in forma di presentazione interattiva. Alle scuole è dedicato un itinerario didattico che anziché fare leva esclusivamente sulla dimensione emotiva favorita dalle ricostruzioni a grandezza naturale, racconta il Parco, coinvolgendo bambini e ragazzi nella procedura seguita dagli archeologi, dallo scavo alle repliche. Cosí, guidati dagli operatori, gli studenti sperimentano lo scavo stratigrafico e l’interpretazione di a r c h e o 77


PARCHI ARCHEOLOGICI • EMILIA-ROMAGNA

contesti e reperti, con l’obiettivo di percepire le ricostruzioni come un risultato raggiungibile solo attraverso la ricerca.

LE RICERCHE PROSEGUONO Da quando il Parco è stato inaugurato, la ricerca sulle terramare del Modenese non si è interrotta, grazie alla collaborazione fra Museo, Soprintendenza e Università. Le indagini a Montale hanno sviluppato altri filoni di ricerca, dalle sperimentazioni sulla produzione di oggetti in bronzo e vasellame in ceramica, a un recente studio coordinato da Serena Sabatini dell’Università di Göteborg. L’ingente quantità di fusaiole e pesi da telaio rinvenuti nel sito di Montale ha infatti consentito di ipotizzare una produzione che non soddisfacesse solo il consumo locale, ma generasse un surplus di filati e tessuti per lo scambio di materie prime non reperibili localmente, come il rame, lo stagno e l’ambra. La ricerca che piú di ogni altra ha aperto scenari inediti sul mondo delle terramare è quella sulla necropoli di Casinalbo, a pochi chilometri da Montale (vedi «Archeo» 78 a r c h e o

n. 362, aprile 2015: on line su issuu. com). La prolungata campagna di scavi (1994-2015) ha permesso di indagare con una metodologia pluridisciplinare una delle poche necropoli terramaricole note, che ha restituito oltre 600 sepolture. I risultati della ricerca hanno consentito di ricostruire la topografia della necropoli, che rispecchiava quella del vicino villaggio, i rituali funerari che in essa avvenivano e, attraverso le analisi sui contenuti delle urne, aspetti demografici e sociali di questa comunità. La terramara di Gaggio di Castelfranco Emilia ha portato in luce le difese perimetrali dell’abitato e tre distinte fasi di occupazione nell’ambito del Bronzo Medio, evidenziandone l’organizzazione planimetrica grazie al rinvenimento di molte strutture abitative e produttive, mentre quella di Baggiovara (Modena) ha rivelato una significativa successione stratigrafica riguardante le prime fasi delle terramare, fra Bronzo Medio 1 e 2. Infine, sulla sommità dell’Alpe di Santa Giulia (Comune di Palagano) indagini intraprese grazie ai lavori di consolidamento della Pieve di origine romanica posta sulla

Una visita guidata all’interno di una casa del villaggio di Montale. Nella pagina accanto: il Salone dell’Archeologia del Museo Civico di Modena nel quale sono esposti i materiali archeologici provenienti dalla terramara di Montale.

cima del monte hanno portato in luce un’importante area cultuale dell’età del Bronzo.

2004-2024: UN BILANCIO I 20 anni trascorsi dall’inaugurazione del 2004 hanno consolidato il ruolo del Parco di Montale fra ricerca e valorizzazione. Il sito è diventato un punto di riferimento per gli studiosi e le Università, che hanno apprezzato l’opportunità offerta dallo scavo di Montale di conoscenza di molti aspetti dell’età del Bronzo italiana. Le indagini e la musealizzazione hanno comportato anche la garanzia della salvaguardia di un’area archeologica e di un’area verde preservata dall’urbanizzazione, concretizzando quel concetto di tutela attiva che è stata alla base dell’attività del Museo Civico Archeologico di Modena. Il Parco è diventato una meta privilegiata per tutti coloro (famiglie con


LE SFIDE DIGITALI: FRA PASSATO E FUTURO In una realtà museale che ha il suo punto di forza nel dialogo fra un’area archeologica e le ricostruzioni a grandezza naturale di abitazioni, fortificazioni e impianti produttivi basate sui dati emersi dagli scavi, la sfida per innovare l’offerta culturale è oggi quella di coniugare reale e virtuale attraverso tecnologie digitali che consentano di ampliare la dimensione cognitiva e emotiva. Grazie al finanziamento dall’Unione europea-Next Generation EU, una innovativa videoinstallazione nell’area archeologica del Parco

consentirà di percepire con immediatezza la relazione fra resti archeologici e ricostruzioni, traducendo in un’esperienza immersiva il percorso della ricerca scientifica condotta nel sito di Montale. Una narrazione fra passato, presente e futuro che farà virtualmente riemergere dal terreno il villaggio di 3500 anni fa a partire dagli straordinari resti messi in luce dallo scavo archeologico. Per favorire l’inclusività e la fruibilità, il progetto intende ampliare l’accessibilità all’area archeologica e piú in generale ai

bambini in primis) che apprezzano un’archeologia alternativa a quella offerta dai musei tradizionali: esperienziale, coinvolgente, partecipativa. Un punto di riferimento anche per le scuole locali, extraprovinciali ed extraregionali per la conoscenza della pre-protostoria a partire da una realtà archeologica fortemente identitaria del territorio. Un altro aspetto positivo di questa esperienza è la creazione e il mantenimento di una rete e di una collaborazione mai venuta meno fra comuni dello stesso territorio, ma anche di una relazione ininterrotta con la dimensione europea, sia per il modello di museo sia per il confronto stretto con esperienze museali del continente, garantite dalla partecipazione a tre progetti europei e alla rete di EXARC, che riunisce parchi archeologici e professionisti di tutta Europa. Nel corso di questi vent’anni il Parco ha mantenuto e rinnovato le premesse dalle quali era partito, raggiungendo una serie di obiettivi, prima fra tutte la continuità di interesse da parte del pubblico e delle scuole: sono ormai quasi 300 000 i visitatori di questi 20 anni, con una media di 15 000 l’anno. Per conso-

lidare l’approccio esperienziale sono ormai giunte a 40 le diverse dimostrazioni proposte al pubblico nelle giornate di apertura e 35 sono le possibilità di laboratori per bambini. Nello stesso tempo, sono state create opportunità lavorative per giovani laureati e laureandi nelle discipline archeologiche e storiche, che hanno partecipato di volta in volta alle campagne di scavo e alle ricostruzioni e sono diventati protagonisti delle dimostrazioni e delle visite guidate a pubblico e scuole.

contenuti, a integrazione dell’intera visita al Parco di Montale, proponendo strumenti rivolti ai diversi pubblici, pensati per un uso flessibile, multisensoriale e non esclusivo da parte di una determinata categoria. Lo stesso approccio costituirà la chiave di lettura di un nuovo spazio espositivo dedicato alla valorizzazione delle ricerche sulla necropoli della vicina terramara di Casinalbo, per affiancare alla conoscenza della vita delle terramare anche quella della ritualità funeraria.

DOVE E QUANDO Parco archeologico e Museo all’aperto della Terramara di Montale Montale Rangone (Modena), via Vandelli (Statale 12-Nuova Estense) Info tel. 335 8136948 (attivo lu-ve, 9,00-13,00); tel. 059 532020 (negli orari di apertura del Parco); e-mail: museo@parcomontale.it; www.parcomontale.it; Facebook e Instagram: @parcomontale

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ANTICO DELTA DEL PO

STORIE, MITI E TESORI

U

n ramo secondario del Po si allarga con il suo corso sinuoso nelle golene, dove i pioppeti si alternano a radure piú selvagge, spesso allagate, lasciando intravedere piccoli centri al di là delle sue alte sponde. È il Po di Goro, incassato tra argini possenti, a segnare oggi il confine tra le province di Ferrara e Rovigo, tra Emilia-Romagna e Veneto, ripercorrendo con il suo corso un antico ramo dell’Eridano – cosí i Greci antichi chiamavano il gran-

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de fiume – ricordato col nome di Olana, menzionato da Polibio nel secondo libro delle Historiae, quando, nel descrivere il tracciato del Po, ricorda che presso questo ramo si trovava un porto in grado di fornire un sicuro approdo per chi giungeva dall’Adriatico. Lungo questa diramazione padana, nel comune di Ariano del Polesine (Rovigo), si incontra l’antico borgo di San Basilio, un angolo remoto immerso nelle campagne, circondato dai residui


LÀ DOVE IL PIÚ LUNGO FIUME D’ITALIA RAGGIUNGE IL MARE, LA NATURA E LA MANO DELL’UOMO HANNO DATO VITA A UN AMBIENTE UNICO NEL SUO GENERE E DI IRRIPETIBILE SUGGESTIONE. FRUTTO DI UNA STORIA PLURISECOLARE, DI CUI LE RICERCHE CONDOTTE A SAN BASILIO, NEL TERRITORIO DI ARIANO NEL POLESINE, STANNO SCRIVENDO UN CAPITOLO ECCEZIONALMENTE RICCO E SIGNIFICATIVO di Sandra Bedetti, Jacopo Bonetto, Alberta Facchi, Giovanna Falezza, Giovanna Gambacurta, Silvia Paltineri e Caterina Previato

Un paesaggio tipico del Po di Goro, ramo secondario del grande fiume che oggi segna il confine tra le province di Ferrara e Rovigo.

di cordoni di dune, che i locali chiamano «monti di sabbia», ancora oggi visibili da foto aeree tra Comacchio e la Laguna di Venezia, a tramandare la memoria di antichi apparati deltizi. Poche case rurali, una chiesetta romanica adagiata sulla cima di una duna (vedi box alle pp. 96-97), un Centro Turistico Culturale recentemente rinnovato (vedi box alle pp. 92-93) e un’area archeologica (vedi box a p. 89) raccontano le storie di questo luogo, lontano dai ritmi serrati

della civiltà contemporanea, un autentico snodo sulle rotte di scambi commerciali e culturali presso una foce dell’antico Delta. La fisionomia è quella di un centro multietnico e multiculturale sin dalla fine del VII secolo a.C., quando qui giunsero mercanti greci per attivare una rete di scambi con le terre feconde della pianura padana, dove abitavano genti etrusche e venete. La vivacità dell’area venne sfruttata e rafforzata dai Romani, a r c h e o 81


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con la precoce stesura, nel 153 a.C., della via Annia, che da Rimini giungeva qui per addentrarsi verso Adria, Padova e Altino fino ad Aquileia. L’attivazione, durante la prima età imperiale, di un percorso litoraneo della via Popillia diretto ad Altino, snodo fondamentale verso il Nord Europa e verso Aquileia, conferí un ulteriore impulso ai già fiorenti traffici commerciali. Dopo una fase in epoca tardo-antica che vede l’insediamento ancora attivo, tanto da ospitare una delle piú antiche comunità cristiane nel Delta, con il primo Medioevo si riduce notevolmente l’importanza di questo luogo, L’antico Delta

Qui sotto: cartina che mostra l’antica linea di costa nell’area del Delta del Po e i principali siti archeologici a oggi noti in questo comprensorio.

Chioggia

Este

testimonianze del VI-V secolo

Mare Adriatico

Rovigo Balone Sermide

Tarta ro Adria

Borsea

Gavello San Cassiano

Tartaro

San Basilio

a

an

Ol

Ferrara Località con testimonianze archeologiche Centri attuali Antica linea di costa Corsi d’acqua attivi nei secoli VI-V a.C Diramazioni padane (Po di Adria) attive nell’età del Bronzo

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Contarina Ca’ Zen

Copparo

Padoa Spina

Comacchio

anche se la presenza della piccola chiesa sulla duna testimonia una persistenza insediativa, seppure con un ruolo decisamente meno marcato rispetto ai secoli precedenti.

MOSAICI E MARMI DECORATI Le prime attestazioni di vestigia del passato in quest’area si hanno già nel corso del 1600, quando, durante una visita pastorale, il vescovo nota la presenza di un sarcofago tuttora esistente, addossato al muro della chiesa romanica. Piú di un secolo dopo viene data notizia di vari ritrovamenti di stele sepolcrali su alcune dune nelle vicinanze di San Basilio. Verso la fine dell’Ottocento anche la stampa locale pone particolare attenzione ad alcune significative scoperte. Si dà notizia di resti di abitazioni di pregio con pavimenti a mosaico, marmi decorati, come anche di monumenti funerari. Di particolare rilevanza sono i numerosi rinvenimenti monetali, tra i quali spicca la scoperta, nei primi decenni del Novecento, di un ripostiglio di denari e quinari d’argento databili tra il 207 e il 74 a.C., di cui purtroppo solo una ridotta parte è giunta fino a noi. Al 1905 risale il rinvenimento di una tazza figurata nel gusto che richiama le vicine produzioni venete, con le immagini di un cane/lupo e di una fiera alata, risalente al VI secolo a.C. (vedi foto a p. 84, in basso, a sinistra).


Il susseguirsi dei rinvenimenti alimenta il mito: si diffonde la leggenda della presenza dei paladini di Carlo Magno tra gli scheletri rinvenuti nel grande sarcofago posto davanti alla facciata della chiesa, che conserva ancora oggi al suo interno una colonna, alla quale in passato si attribuiva un potere taumaturgico per le donne, che dopo il parto non fossero state in grado di produrre il latte. Infine si narra che Dante, di ritorno da un’ambasciata a Venezia, per orientarsi tra le lagune del Delta e individuare la strada verso Ravenna – dove poi troverà la morte – salí su una grande quercia: questa è stata identificata idealmente nella «rovra di San Basilio», una farnia di oltre 500 anni, che possente ombreggiava l’argine del Po fino al giugno 2013. Miti, leggende e sensazionali scoperte aleggiano insomma in questi luoghi, a enfatizzare una storia ancora in buona parte sconosciuta, forse a causa della marginalità che li ha a lungo caratterizzati. Se infatti, ancora oggi, giungere a San Basilio, vuol dire addentrarsi tra strade tortuose, che seguono la direzione dei cordoni dunari, la situazione era ancora piú complicata tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, quando Gustavo Cristi, studioso locale, documentava una serie di significativi ritrova-

In alto: il segmento della Tabula Peutingeriana in cui compare la Mansio Hadriani, identificata con il sito di San Basilio. A sinistra, sulle due pagine: uno stormo di fenicotteri nelle acque del Delta.

menti, che però non suscitavano abbastanza interesse da mobilitare la Soprintendenza alle antichità con sede a Padova.

LA SVOLTA NELLE SCOPERTE Solo nel 1976 ha luogo la prima scoperta, che riesce a generare una svolta e dà inizio a una serie di campagne di scavo nella tenuta Forzello, a cura della Soprintendenza. In modo del tutto inatteso, in seguito a lavori di aratura e spianamento, affiora un vasto complesso di età romana, costituito da un numero cospicuo di ambienti, disposti in sequenza da nord a sud, che vengono considerati pertinenti a una villa rustica. Le strutture sono attribuibili a tre diverse fasi edilizie, dal I secolo a.C. al V d.C. Tra le aree a destinazione residenziale spicca un ambiente dotato di vasca, con fondo in cubetti di cotto e pareti in cocciopesto rivestite di lastre marmoree, di cui si conserva la conduttura di scarico delle acque, ricca di materiale ornamentale femminile. Nel settore adiacente viene individuata una struttura rustica, con una canaletta riempita di resti di carboni e mattoni sesquipedali disposti per file su quattro livelli, sulla cui destinazione si sono avanzate le ipotesi di un ambiente utilizzato per la produzione o essicazione di laterizi oppure funzionale al riscaldamento della sala con vasca. (segue a p. 86) a r c h e o 83


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L’ANTICO DELTA AL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI ADRIA Il ruolo di primo piano svolto in epoca antica dalla città di Adria, già evidenziato da autori greci e romani, è quello di raccordo e coordinamento dei traffici dal mare, che non a caso prende il nome proprio dall’antica città, verso l’entroterra. Chi visita oggi il Museo Archeologico Nazionale di Adria ben comprende queste dinamiche documentate dalle testimonianze scoperte nella città e nei centri posti lungo l’antica linea di costa. Dopo un primo esordio nell’età del Bronzo Medio-Recente, documentato dalla scoperta di un insediamento attivo tra XIV e XII secolo a.C., la

Qui sopra: frammento di un lydion (vaso per unguenti) importato dal Mediterraneo orientale, da San Basilio. VI sec. a.C.

città si impone agli inizi del VI secolo a.C. come uno dei piú importanti centri della Penisola, con uno scalo portuale lungo un corso fluviale, il Tartaro, in grado di attivare scambi con il mondo greco e strettamente connesso al mondo etrusco, in quell’epoca in forte espansione verso le località della pianura padana. San Basilio riveste un ruolo fondamentale per l’avvio di scambi strutturati dal Delta e da Adria verso le città della Grecia, che le conferisce una fisionomia multiculturale, chiaramente evidente nella varietà di tipologie ceramiche riscontrabile anche ad Adria. Ricchissima per quantità e In alto: bicchiere con decorazione a stralucido di produzione locale, da San Basilio. VI sec. a.C. A sinistra: tazza decorata con figure di animali, da San Basilio. VI sec. a.C. In basso: anello in bronzo con sigillo formato da due ovali entro i quali sono raffigurati il monogramma di Cristo e una colomba, da San Basilio.

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DOVE E QUANDO Museo Archeologico Nazionale Adria (Rovigo), via G. Badini 59 Info tel. 0426 21612; e-mail: drm-ven.museoadria@cultura.gov.it In alto: l’ingresso del Museo Archeologico Nazionale di Adria. A destra: bronzetto forse raffigurante Eracle cacciatore, dall’Etruria meridionale. 500 a.C. In basso, a sinistra: situla in bronzo con ansa in forma di kouros, da Adria, necropoli di Ca’ Cima. V sec. a.C. In basso, a destra: portaincensi a forma di busto maschile, da San Basilio. Fine del II-III sec. d.C.

qualità è la presenza di ceramica dal mondo greco, destinata a un ceto sociale elevato, per un utilizzo legato a occasioni cerimoniali. Sono presenti coppe corinzie e attiche o le piú rare produzioni dalla Ionia. Meno pregiate, ma indicative della presenza multietnica, risultano le produzioni locali, con una componente ridotta di forme tipiche del mondo veneto, mentre piú marcata è la presenza di raffinati prodotti importati dall’Etruria in bucchero nero e grigio, ma non

mancano gli esempi in ceramica etrusco padana. Fra i corredi funebri di Adria, databili al VI e V secolo, a.C. prevale la presenza di vasellame in bronzo di produzione etrusca. Spostandoci piú a nord, lungo l’antica linea di costa si trova Contarina, nel comune di Porto Viro, che ha restituito, nel 1855, una statuetta bronzea di fine fattura dall’Etruria meridionale interpretata come Eracle cacciatore, datata al 500 a.C. Le vie consolari Annia e poi Popillia creano un collegamento diretto tra Adria e San Basilio e inseriscono il Delta del Po nella rete viaria romana. Testimonianze di grandi e ricchi edifici pubblici, di domus con pavimenti a mosaico, di prezioso vasellame in vetro e ceramica, documentano la vitalità e la ricchezza di Adria fino alla fine del II secolo d.C., quando l’attivazione del percorso costiero della via Popillia sottrae alla città una parte del volume di traffici commerciali, favorendo i centri costieri. Oltre alla Mansio Hadriani di San Basilio, è infatti documentata la Mansio Fossis corrispondente al sito di Corte Cavanella di Loreo, un centro posto alla foce del fiume Adige. Le due stazioni di sosta compaiono nella Tabula Peutingeriana e in altri itinerari tardo-antichi e documentano una notevole vitalità

fino alla fine del V secolo d.C. Non solo le preziose suppellettili che arricchivano i due vasti complessi residenziali – marmi, intonaci dipinti e vetri da finestra –, ma anche le attestazioni di nuovi culti religiosi sono lo specchio della vivacità culturale che caratterizza i due centri. Dal sito di Corte Cavanella proviene un frammento in marmo del II secolo d.C. con scena del dio Mitra, mentre la cristianizzazione precoce a San Basilio è ben documentata dalla presenza del complesso paleocristiano e da oggetti rinvenuti nelle vicinanze databili al IV secolo che recano il chrismòn.


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La ricchezza di informazioni e di materiali significativi suscita un grande interesse nella popolazione locale. Si comprendono finalmente le potenzialità di un luogo cosí denso di storia, grazie anche alla guida appassionata di Umberto Dallemulle, ispettore onorario per il mandamento di Adria, che dirige gli scavi e coinvolge tanti volontari e appassionati locali nelle attività di ricerca. Emerge cosí l’importanza dell’area di San Basilio, che viene identificata con la Mansio Hadriani, una stazione di sosta lungo un percorso costiero delineato sulla Tabula Peutingeriana, di notevole importanza strategica in quanto collegava Ravenna, sede della flotta imperiale, con il caposaldo militare di Aquileia.Tuttavia, a San Basilio doveva esistere non una semplice villa rustica, bensí un insediamento piú ampio e organizzato, un vicus con estensione di circa 30 ettari, funzionale alle attività del municipium di Adria, al quale apparteneva tutta l’area dell’antico Delta, un territorio di estremo interesse, come confermano le varie presenze di insediamenti antichi e le fonti greche e latine. Successive indagini rivelano una storia molto piú antica: nel 1983, in seguito allo sbancamento di una duna, la Soprintendenza Archeologica del Veneto interviene nuovamente con un saggio di scavo in un’area a nord ri86 a r c h e o

L’area archeologica di San Basilio, presso cui sono visibili i resti di un horreum di età romana, un battistero medievale e una necropoli a esso collegata.

spetto all’insediamento romano, individuando tracce di un abitato preromano con resti di pavimentazioni in argilla indurita dal fuoco e frammenti d’intonaco, con impronte di rami e canne, materiali pertinenti a una o piú abitazioni. La ceramica restituita dagli strati piú antichi evidenzia notevoli affinità con i materiali conservati al Museo Archeologico Nazionale di Adria (vedi box alle pp. 84-85), rivelando uno stretto legame tra il centro costiero e la città che ha dato nome al Mare Adriatico. La compresenza nel sito di ceramica depurata etrusco-padana e di bucchero, forse prodotto in loco, di vasellame veneto a fasce rosse e nere, di materiale di importazione da Corinto e dall’Attica insieme a numerose anfore greche di età arcaica, segnano la caratteristica multiculturale del centro e la sua vocazione commerciale fin dagli inizi del VI secolo a.C., tanto da far pensare a una funzione dello scalo portuale di San Basilio quale avamposto per gli scambi con genti provenienti dalla Grecia verso le aree interne e i centri dell’Etruria padana.

UN SITO DA VALORIZZARE Le due scoperte conferiscono finalmente alla località un ruolo di primo piano nel panorama dell’archeologia dell’antico Delta del Po, consentendo una divulgazione piú ampia in


ambito scientifico e tra la comunità locale, che si arricchisce del nuovo «Centro Turistico Culturale di San Basilio», inaugurato nel 1995, per documentare la storia di questi luoghi, con l’esposizione di materiali rinvenuti da appassionati locali e nelle varie campagne di scavo. Mediante pannelli con illustrazioni e disegni ricostruttivi, viene dato risalto alle peculiarità dell’ambiente deltizio, con le sue morfologie mutevoli, l’articolata rete di vie d’acqua, la marcata organizzazione del sistema viario di epoca romana. Seguono ricerche programmate da parte della Soprintendenza Archeologica nella chiesa romanica, che portano a individuare quattro fasi costruttive dell’edificio di culto, la piú antica delle quali si colloca tra la fine del IX e il X secolo. Infine, una campagna di scavi avviata tra il 2003 e il 2007, ha messo in luce, ancora una volta nella tenuta Forzello, nell’area antistante alla via che costeggia lo scolo del Brenta, le fondazioni di un poderoso edificio rettangolare indagato per la lunghezza di 45 m. La struttura è stata interpretata come un magazzino per stoccaggio (horreum), utilizzato tra l’inizio dell’età imperiale e il II secolo d.C., al quale si affianca, tra il IV e il V secolo d.C., un complesso paleocristiano che comprende una chiesa, il suo battistero e una zona cimiteriale antistante. L’area viene presto

In alto: un’altra immagine dell’area archeologica di San Basilio. A destra: la facciata della chiesa di S. Basilio, della quale si ignora la data di fondazione, ma la cui prima menzione compare in un documento dell’anno 1233.

musealizzata e dotata di un’adeguata copertura per consentirne la visita.

IL QUADRO PALEOGEOGRAFICO L’avvio del progetto «Parco Archeologico dell’Alto Adriatico-PArSJAd», approvato con il Programma per la Cooperazione Transfrontaliera Italia-Slovenia 2007-2013, con l’obiettivo di valorizzare il patrimonio archeologico dell’area costiera dell’Alto Adriatico, dal litorale emiliano a quello sloveno, consente di approntare indagini utili a una comprensione del quadro paleo(segue a p. 90) a r c h e o 87


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LUCI SULL’AREA ARCHEOLOGICA I colori di fuoco al tramonto sul Po di Goro rievocano la drammatica caduta di Fetonte nell’Eridano, dopo la folle corsa sul carro paterno e preannunciano un nuovo suggestivo scenario: quello sull’area archeologica di San Basilio, che un nuovo sistema d’illuminazione consente di rendere visitabile anche in orari serali. Qui si può ripercorrere in tre distinte fasi una storia che va dal II al IX secolo d.C., a testimonianza della vitalità del sito. Legato al fervore di scambi commerciali della Mansio Hadriani in età romana è un grande edificio a pianta rettangolare orientato nord-sud, finora indagato per una lunghezza di 45 m, ma di dimensioni complessive certamente maggiori. Il lato lungo presenta una serie di contrafforti laterali, mentre l’articolazione interna prevedeva la suddivisione in due grandi ambienti e la presenza di possenti pilastri di sostegno, con mattoni sesquipedali disposti in piano nelle fondazioni. L’ipotesi piú probabile è che l’ampio stabile fosse utilizzato come horreum, un magazzino di grandi dimensioni per lo stoccaggio dei cereali, la cui presenza conferisce a San Basilio il ruolo di uno dei maggiori centri mercantili dell’età imperiale fino allo scorcio con l’epoca tardo-romana. Nel IV secolo il magazzino risulta ormai in abbandono, quando in una zona adiacente a ovest, si insediano una basilica paleocristiana e un piccolo

battistero ottagonale, entrambi con un’abside rivolta a est. La presenza dell’ampio edificio di culto, indagato solo in parte nel muro meridionale e nell’abside, attesta la presenza di una comunità cristiana, che qui si riuniva tra il IV e il V secolo. Tutto attorno, nello stesso periodo, si dispone una piccola necropoli, costituita da 37 inumati alcuni dei quali all’interno di tombe alla cappuccina, con una deposizione infantile in anfora, secondo la tipologia in enchytrismos. L’ultima fase di occupazione dell’area restituisce una situazione di minore agiatezza, rintracciabile nei resti di un successivo insediamento, che vede il riuso di materiali architettonici delle epoche precedenti e la presenza di un grande pozzo per il convoglio delle acque meteoriche. Due monete, una carolingia e una araba, segnano il definitivo abbandono dell’area, ma non del sito di San Basilio, che nella vicina chiesetta sulla duna manifesta il segno tangibile della persistenza di una piccola comunità anche nei secoli successivi.

In alto e in basso: due immagini della nuova illuminazione realizzata nell’area archeologica. Nella foto in basso si riconoscono alcune tombe a cappuccina. Sulle due pagine: la Sacca degli Scardovari, alle Foci del Po, al tramonto.

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geografico e a definire l’estensione e l’articolazione dell’insediamento, tra il I millennio a.C. e i primi secoli dell’era cristiana. La situazione che si viene a delineare è quella tipica delle aree costiere, in cui l’intervento dell’uomo è marcatamente evidente nella creazione di una rete di canali di collegamento con il mare, forse in funzione di una struttura portuale. Tali strutture potrebbero essere state attive in epoca imperiale, quando la linea di costa si era protesa verso est, e una serie di specchi d’acqua salmastra si immettevano in mare aperto, generando una sorta di baia riparata tra i cordoni di dune a est dell’abitato.

LE NUOVE INDAGINI Le ricerche archeologiche riprendono con nuovo vigore nel 2018 con il progetto «Da Ariano nel Polesine agli Euganei fra Etruschi e Veneti» e sono tuttora in corso con un altro articolato piano triennale avviato nel 2022, entrambi promossi e sostenuti da Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e dal Comune di Ariano nel Polesine. Le attività si svolgono in collaborazione con la Soprintendenza ABAP di Verona, Rovigo e Vicenza e la

Direzione Regionale Musei Veneto e vedono impegnate nella definizione dell’estensione e delle caratteristiche dell’abitato preromano le Università di Padova e di Venezia Ca’ Foscari, che, sin dal 2018, avevano intrapreso lo studio delle foto aeree e della cartografia storica e condotto una campagna di survey intensivo, carotaggi e saggi di scavo. Nel 2022, con l’avvio del nuovo progetto, l’ateneo di Padova si è posto l’obiettivo di approfondire le conoscenze anche presso l’insediamento romano, partendo dal riposizionamento degli scavi della fine degli anni Settanta, ma poi ampliando le indagini con una impostazione multidisciplinare. Sono state infatti avviate ricerche da remote e proximal sensing, che hanno visto l’impiego di un drone termico e di un drone multispettrale, survey con georeferenziazione dei dati mediante sistemi di mobile mapping, prospezioni magnetiche e carotaggi. Un altro fronte della ricerca ha visto la ricognizione dei dati d’archivio e la contestualizzazione dei materiali conservati nei depositi del Museo Archeologico Nazionale di Adria, sulla base della rilettura dei giornali di scavo del secolo scorso. Entrambi gli ate-

A sinistra: ripresa fotografica da drone con sensore multispettrale. L’eccezionale scatto ha rivelato la presenza di un edificio prima del tutto sconosciuto.

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In alto, sulle due pagine: veduta dall’alto delle aree interessate dagli scavi delle Università di Padova e di Venezia Ca’ Foscari.

nei svolgono le ricerche nell’ambito del settore preromano dell’insediamento con la partecipazione degli studenti e il coordinamento di archeologi specializzati e dottorati con l’obiettivo di giungere a una comune ricostruzione del paesaggio antico.

I PRIMI RISULTATI Pur essendo in una fase preliminare, gli esiti delle ricerche condotte negli ultimi anni sono già stati divulgati in varie presentazioni pubbliche, in un’ottica di promozione culturale nei confronti della collettività e degli enti

locali e di valorizzazione in rapporto con il Museo Archeologico Nazionale di Adria. Sono state organizzate conferenze e seminari di studio, ma anche periodiche visite ai cantieri di scavo, particolarmente apprezzate dalla popolazione locale. I primi risultati rivestono un particolare rilievo, in quanto attestano la vitalità di quest’area già dall’inizio del VI secolo a.C., conferendo al sito di San Basilio il primato di scalo portuale piú antico attualmente conosciuto nel delta del Po, che anticipa lo sviluppo di Adria (segue a p. 94) a r c h e o 91


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IL RIALLESTIMENTO DEL CENTRO TURISTICO CULTURALE La ricchezza d’acque e la presenza di una natura rigogliosa nell’ambiente naturale del Delta furono elementi molto attrattivi già in epoca antica per le popolazioni, che, non senza difficoltà, riuscirono a sfruttare al meglio la viabilità naturale offerta dai vari rami del Po, creando lungo le sue sponde un insediamento sicuro. Questi temi hanno caratterizzato fin dalla sua apertura, nel 1995, il Centro Turistico Culturale di San Basilio, una struttura nata per valorizzare le testimonianze dell’antico insediamento dall’epoca etrusca fino al Medioevo, ponendo l’accento sul rapporto tra uomo e ambiente. La nuova stagione di ricerca e valorizzazione ha consentito di dotare la struttura di un rinnovato ed elegante allestimento, inaugurato nello scorso gennaio. Un sistema espositivo anulare richiama concettualmente gli elementi naturali del territorio, focalizzandosi sul tema dell’«isola» e della «duna» – un chiaro richiamo all’isola di Ariano e ai suoi cordoni di dune fossili – ponendo al centro San Basilio, luogo paradigmatico della stratificazione storica del Delta. Il nuovo percorso ha integrato e rinnovato i tematismi dell’esposizione del 1995, che trovano spazio in due ali laterali, dedicate all’approfondimento degli aspetti legali alla quotidianità, alle attività commerciali e ai temi del costruire, mediante l’esposizione di vasellame da mensa di epoca etrusca e romana e di alcuni elementi architettonici pertinenti alla Mansio Hadriani. Lungo il percorso ad anello si dipana, in 5 «tappe», lo sviluppo storico del sito, illustrato attraverso monitor alternati a vetrine, che 92 a r c h e o

A destra e in basso, sulle due pagine: particolari del nuovo allestimento del Centro Turistico Culturale di San Basilio, inaugurato nello scorso gennaio.

espongono una nuova selezione dei reperti maggiormente rappresentativi e iconici rinvenuti a San Basilio e fino a questo momento conservati nei depositi del Museo Archeologico Nazionale di Adria. Partendo da una sezione introduttiva su «San Basilio, un centro multiculturale», nato sullo scorcio del VII secolo a.C. come primo approdo di scambi commerciali tra mondo italico, etrusco e mediterraneo, si prosegue con «Un porto dell’Etruria Padana», per approfondire il tema della presenza etrusca in rapporto con gli altri centri dell’Etruria padana, con

riferimento alla cultura materiale e alle tecniche costruttive. La parte centrale è dedicata a «La trasformazione del sito nell’età della romanizzazione», vera protagonista del percorso, che ospita un eccezionale tesoretto, di cui rimangono 124 denari e quinari d’argento di età repubblicana. All’edilizia della Mansio Hadriani è dedicata la quarta sezione, «Roma e San Basilio», mentre la quinta sezione si concentra su «San Basilio e la cristianizzazione del Delta», per esporre i materiali piú integri e significativi provenienti dai corredi funebri della necropoli


In alto: tesoretto di denari e quinari in argento. 207-74 a.C. A destra: veduta esterna del Centro Turistico Culturale di San Basilio, realizzato nel 1995 e recentemente rinnovato nel suo allestimento.

paleocristiana e rinvenuti presso il battistero paleocristiano. Il progetto museografico e la direzione del cantiere si devono a MACRO-Macchinenarrative (Lucca)Nicola Nottoli; organizzazione e coordinamento: Jacopo Bonetto

(Università di Padova-Dipartimento dei Beni Culturali), Marco Bruni (archeologo), Alberta Facchi (Direzione Regionale Musei VenetoMuseo Archeologico Nazionale di Adria), Giovanna Falezza (Soprintendenza Archeologia Belle

Arti e Paesaggio per le provincie di Verona, Rovigo e Vicenza). Il Centro Turistico Culturale di San Basilio di proprietà della Provincia di Rovigo è gestito dal Comune di Ariano nel Polesine e dall’Ente Parco Regionale Veneto del Delta del Po.

DOVE E QUANDO Centro Turistico Culturale di San Basilio località San Basilio, Ariano nel Polesine (RO), via San Basilio 12 Info tel. 0426 71200 oppure 392 9259875 a r c h e o 93


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e di Spina. Le indagini condotte dall’Università di Padova nell’abitato preromano stanno rivelando aspetti di particolare interesse per quanto riguarda le tecniche costruttive in ambienti umidi, che trovano analogie con quanto documentato a Spina. Una serie di allineamenti di buche di palo, in connessione con i resti di canalette di fondazione ortogonali, delineano il perimetro di un’abitazione disposta lungo le sponde di un canale. La pavimentazione è in battuto compatto di limo, argilla, sabbia e fine tritume di cocci. Caratterizza queste strutture l’impiego di una sorta di mattonelle in cotto disposte nelle sottofondazioni, forse con funzione impermeabilizzante. L’alzato era in materiale deperibile, come legname e incannucciato. Piú a nord è stata individuata un’area, pur-

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troppo compromessa dai lavori agricoli, uti- Sulle due pagine: lizzata per lavorazioni artigianali, forse con- studenti al lavoro nesse alla rifusione dei materiali in bronzo. sullo scavo della

LE DUNE E IL CANALE L’esteso insediamento era delimitato dalla fascia di dune costiere, mentre la presenza del canale, che presenta forme di compattazione delle sponde con spalmatura di limo, sembra abbia avuto un ruolo determinante nell’impostazione dell’abitato. Questo emerge dalle ricerche dell’Università di Venezia Ca’ Foscari, che si sono concentrate sulla definizione dell’estensione e strutturazione dell’abitato. Mediante survey e saggi di scavo è stato possibile intercettare la sponda dell’ampio canale, già individuato nelle foto aeree, che dettava l’orientamento delle strutture, verificarne le

«villa romana» di San Basilio.


diverse fasi di strutturazione, fino all’abbandono nel V secolo d.C.; è stato cosí confermato l’orientamento delle strutture abitative, coerente con quello della sponda. Sono state inoltre individuate quattro fasi costruttive con alternanza di elementi in legno e aree scottate, esito forse di incendi o di attività artigianali di cottura e fusione.

VASELLAME ETRUSCO E ROMANO I materiali di epoca preromana recuperati durante gli scavi delle Università di Padova e di Venezia Ca’ Foscari sono ancora in corso di studio e forniranno ulteriori dati per comprendere le dinamiche di occupazione dell’area. La ceramica piú antica, di produzione locale, presenta un repertorio di forme quali olle e recipienti troncoconici, realizzati senza l’uso del tornio. Notevole è la presenza di vasellame etrusco, con coppe e kyathoi in bucchero e recipienti, prevalentemente di forme aperte, in ceramica depurata; meno abbondante è la ceramica veneta a fasce rosse e nere, mentre appare significativa, nell’ambito degli scambi adriatici, la presenza di cera-

mica daunia. Dal mondo greco arrivano coppe mesocorinzie e ceramica attica. Per l’insediamento di epoca romana, le ricerche dell’Università di Padova sono state precedute dall’analisi dei dati d’archivio degli scavi condotti alla fine degli anni Settanta. La documentazione raccolta e l’avvio di nuove indagini hanno consentito la ridefinizione delle diverse destinazioni d’uso del complesso e, al tempo stesso, di intercettare e georeferenziare l’intera struttura, caratterizzata da un orientamento nord-sud. L’ampliamento delle indagini verso est e verso sud ha portato alla scoperta di nuovi ambienti pertinenti all’edificio, la cui estensione a oggi nota è pari a 80 x 30 m e che si presume fosse strettamente connesso alle funzioni della Mansio Hadriani. Alcuni materiali ritrovati possono essere chiari indicatori delle attività produttive e commerciali, che avevano come punto di forza una rete di scambi ad ampio raggio. La posizione geografica presso lo sbocco al mare di una diramazione padana, collegata, tramite la capillare rete di canali interni, a tutta l’area endolagunare presso (segue a p. 102)

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SPECIALE • POLESINE

LA CHIESA SULLA DUNA Adagiata sulla sommità di una duna, la piccola chiesa di S. Basilio domina i campi circostanti e racconta con le sue linee essenziali e con le calde tonalità dei mattoni una storia di piú di mille anni. Le sue origini sono del tutto sconosciute, tanto che non è possibile ipotizzare la matrice religiosa o politica che ha portato alla sua prima costruzione. L’unica ipotesi è quella legata alla continuità di vita di una comunità, le cui tracce fino al IX secolo, sono state ravvisate nell’ultima fase di occupazione dell’area archeologica posta piú a ovest. Le indagini stratigrafiche condotte in due momenti dalla Soprintendenza per i beni archeologici del Veneto, nel 1994 e nel 1998, hanno consentito di ricostruire la sua evoluzione nel tempo dalla fase piú antica, che si colloca attorno la fine del IX secolo, fino agli interventi piú recenti, verso la seconda metà del 1700. All’interno la pavimentazione lascia intravedere in trasparenza alcuni elementi di maggior interesse delle fasi antecedenti. La fase piú antica, costituita da un edificio con doppia abside a pianta quadrata della stessa larghezza dell’attuale, è in parte visibile sotto alla pavimentazione, a una profondità di 120 cm e conserva tracce di un pavimento in cocciopesto e di una vasca battesimale in trachite. All’esterno si notano gli interventi della fase successiva, quando le dimensioni si ampliano in lunghezza fino a coincidere con il perimetro attuale, con l’aggiunta dell’abside con la parete decorata

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In alto e a destra: vedute esterne di S. Basilio. In basso, a sinistra: disegno ricostruttivo della chiesa di S. Basilio, realizzato sulla base dei dati di scavo della seconda fase costruttiva, databile intorno al XII-XIII sec.

ad archetti pensili e di un piccolo nartece con un’apertura laterale ad arco. Questi interventi si collocano tra l’XI e il XIII secolo sulla base di valutazioni di tipo stilistico e architettonico, che trovano confronti nelle pievi dell’area ravennate e in alcuni elementi di partitura muraria presenti nell’abbazia di Pomposa. La pavimentazione posta a 1 m circa di profondità rispetto all’attuale, si caratterizza per il reimpiego di materiale di epoca romana, come mattoni sesquipedali e lacerti di pavimenti a mosaico a tessere bianche e nere. La chiesa viene anche menzionata per la prima volta in un documento del 1233, in cui risulta che l’arciprete Leone condivideva le decime del territorio di Ariano con il vescovo di Adria. Seguirono epoche di totale abbandono documentate da visite pastorali del 1535 e del 1569, fino alla trasformazione della chiesa in un ricovero per soldati intorno al 1645, in seguito alla guerra di Castro. Sola alla metà del Settecento si pose rimedio ai gravi danni subiti, riparando il tetto e ricostruendo il muro laterale a nord. La piccola chiesa, ormai conforme all’attuale, subí però lo stesso destino di tanti edifici di culto che in epoca napoleonica furono sconsacrati e, dopo una fase di abbandono, fu restituita al culto nel 1862 e alla piccola comunità locale, che continua a custodirla con tenacia e orgoglio, a memoria di un vivace passato.


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SPECIALE • POLESINE

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Il Po di Goro al tramonto.

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SPECIALE • POLESINE

I CONFINI SFUMATI DEL DELTA Una storia antica nella terra piú giovane d’Italia, un ossimoro che ben definisce il Delta del Po, una terra in continua trasformazione, dove è talvolta difficile individuare il confine tra cielo, terra e mare. Tutelato da due parchi regionali, perché nel corso dei millenni il fiume ha spostato la sua foce da Ravenna a Porto Tolle, dove sfocia oggi, costruendo quel territorio che si trova oggi nella parte piú a nord del litorale emiliano e in quella piú a sud della costa veneta e che possiamo considerare figlio del fiume in egual misura. Per questo oggi troviamo il Delta antico o fossile in Emilia-Romagna, dove sfociava l’antico ramo del Po, mentre in Veneto si trova il Delta idrografico, detto anche moderno, perché la conformazione odierna della foce del Po è il frutto di un’evoluzione iniziata quattro secoli fa, quando la Serenissima decise di deviare il fiume per impedire l’interrimento della Laguna Veneta da una parte e il desiderio degli Estensi di dar vita a un nuovo porto dall’altra: in poco piú di 400 anni, quella grandiosa opera di ingegneria idraulica, come la potremmo definire oggi, ha trasformato il mare in terra. Oggi il Delta è un vero e proprio

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mosaico di ambienti diversi: mare, spiagge, lagune, valli da pesca, fiumi, golene, boschi, pinete, campagne, risaie che, insieme, costituiscono un meraviglioso contenitore di biodiversità, tanto che l’UNESCO lo ha ufficialmente inserito, dal 2015, nella Rete Mondiale delle Riserve di Biosfera del Programma Man and Biosphere, con l’obiettivo di stabilire una base scientifica per il miglioramento delle relazioni tra le persone e il loro ambiente, incentivare e promuovere lo sviluppo sostenibile, conservare i paesaggi, gli habitat, gli ecosistemi, le specie e la diversità genetica e promuovere soluzioni per conciliare la conservazione della biodiversità e il suo uso sostenibile. Un territorio da scoprire con lentezza, la stessa con cui il fiume si muove per raggiungere il mare. Ecco allora che barca e bicicletta diventano i mezzi migliori per entrarci, per andare a scoprirne gli angoli piú nascosti, quelli che ancora oggi raccontano l’autenticità di una terra aspra e dolce nello stesso tempo. Gli argini dei suoi rami e delle lagune diventano cosí alti sentieri sinuosi, dai quali si domina il paesaggio privo di

verticalità, le foci dei suoi cinque rami offrono invece visioni quasi surreali: sottili lingue di sabbia dove nidificano gabbiani, sterne e beccacce di mare che si frappongono fra l’Adriatico e le sue lagune, fino a ieri miniere per le comunità locali, ricche di vongole, cozze e ostriche rosa; oggi quel settore è in balia di un alieno, il granchio blu. Anche questi sono segnali di un cambiamento climatico che, come il riscaldamento globale e il conseguente innalzamento dei


Sulle due pagine: il Delta del Po in una ripresa fotografica aerea, che ne evidenzia le ramificazioni. Nella pagina accanto, in basso: passerelle e percorsi che permettono la visita del Delta.

mari, mette in serio pericolo il futuro del Delta del Po. In questa terra cosí giovane costruita dal fiume e modellata dall’uomo, si svelano di tanto in tanto le tracce di una storia antica che si palesa nei pressi dei vecchi cordoni dunosi, che indicano la linea di costa del periodo etrusco e romano. Adria, Spina, Ravenna sono le città che nacquero e si svilupparono in queste epoche antiche grazie alla loro posizione tra fiume e mare, come provano le

testimonianze archeologiche e le numerose fonti di matrice greca e romana. La storia che si sta delineando con le ricerche a San Basilio, amplia decisamente il panorama in termini di vitalità di quest’ampia area costiera e arricchisce l’ambiente unico del Delta di una dimensione culturale ricca di suggestioni, che vede nelle dinamiche tra uomo e ambiente uno degli aspetti maggiormente attrattivi per chi visita questi luoghi. Sandro Vidali

DOVE E QUANDO Ente Parco Regionale Veneto del Delta del Po Ariano nel Polesine (RO), via G. Marconi 6 e-mail: info@parcodeltapo.org www.parcodeltapo.org Info e prenotazioni Consorzio Delta Pool Service Ariano nel Polesine (RO), via Matteotti, 40 tel. 346 6868151; e-mail: info@deltapoolservice.it


SPECIALE • POLESINE Lapide con iscrizione in marmo trovata nella «villa romana» durante lo scavo. III sec. d.C. Il testo ricorda le donazioni delle associazioni funerarie.

l’alto Adriatico, favoriva la navigazione interna e lo spostamento di merci anche di notevoli dimensioni, come dimostra il rinvenimento di una chiatta che trasportava grandi blocchi squadrati di calcare veronese. Un chiaro indicatore del volume di scambi commerciali, attivi anche nei secoli piú difficili del tardo impero, è documentato inoltre dal consistente ritrovamento di monete, piú di 450, per la maggior parte risalenti al IV secolo d.C., momento in cui la situazione economica generale meno favorevole determinò una produzione numeraria cospicua, con metalli meno pregiati e di minor valore. Ad attività ittiche rimandano invece i numerosi ami in bronzo insieme a pesi da rete in metallo e terracotta. Presso il complesso in corso di indagine è stata infine trovata un’iscrizione di particolare interesse, che celebra l’istituzione di una fon102 a r c h e o

dazione funeraria con cui venivano donate somme di denaro in favore di una donna di nome Sulpicia, per consentire al Collegium dei Fabri di adempiere all’impegno di onorare la defunta ogni anno tramite l’offerta di rose e altri doni sulla sua tomba. Il testo dell’iscrizione, databile al III secolo d.C., sembra indicare come sede del collegio il sito di Adria, a testimonianza della vitalità del municipium adriese


Gli studenti impegnati nello scavo della «villa romana» sotto la guida di Caterina Previato (al centro, in prima fila).

anche in quest’epoca, quando le testimonian- La stagione di ricerche iniziata nel 2018 sta ze archeologiche e documentarie sembrano fornendo nuove prospettive su un’area pardelineare una fase meno florida per la città. ticolarmente estesa, con una ricca raccolta di documentazione, che viene fatta confluire all’interno di una piattaforma GIS, che funUN FUTURO DI RICERCHE Già dai prossimi mesi, si prevedono la pro- gerà da base per lo sviluppo di un webGIS secuzione e l’ampliamento delle indagini, tematizzato, interamente dedicato al patrisulla scorta di quanto è emerso dalle attività monio archeologico di San Basilio. di survey, ma, soprattutto, dalle riprese con Quanto emerso in meno di cinquant’anni drone a sensori multispettrali e dalle indagi- di ricerche, ma soprattutto in questi ultimi ni di prospezione magnetica, che hanno re- anni, rende opportuno l’approfondimento stituito la sorprendente immagine di un e l’ampliamento delle indagini, per delineedificio romano prima del tutto sconosciuto, are piú di 1200 anni di storia, dalle origini indicandone la posizione e la precisa artico- di un importante scalo portuale, presso la lazione. Qui, dal prossimo mese di maggio, foce di un antico ramo del Po, primo apverrà aperta una nuova area di scavo. Anche prodo etrusco finalizzato ai commerci pronell’area dell’insediamento preromano pro- venienti dal mondo greco nell’alto Adriatiseguiranno le ricerche sul campo, costante- co, fino agli sviluppi di un insediamento mente affiancate da attività di studio e ana- vivace, un vicus in epoca romana che rimane attivo fino alle fasi finali dell’impero. lisi archeometriche. GLI ATTORI DEL PROGETTO Si deve al «Progetto San Basilio-Archeologia e natura sul Delta del Po (Ar.Na.Po)», la ripresa delle ricerche, la divulgazione dei risultati e la valorizzazione dell’area archeologica e del Centro Turistico Culturale di San Basilio, con una sinergia tra Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio delle Province di Verona, Rovigo e Vicenza, Direzione regionale Musei Veneto, Università di Padova Dipartimento dei Beni Culturali, Università di Venezia Ca’ Foscari Dipartimento di Studi Umanistici. La direzione scientifica per le indagini condotte in collaborazione con Giovanna Falezza e Maria Cristina Vallicelli della Soprintendenza ABAP delle Province di Verona, Rovigo e Vicenza è affidata per il sito preromano a Giovanna Gambacurta (Università di Venezia Ca’ Foscari) e a Silvia Paltineri (Università di Padova), per il sito romano a Jacopo Bonetto e Caterina Previato (Università di Padova) con la collaborazione dei ricercatori Jacopo Turchetto e Wieke De Neef. Tutte le azioni del progetto sono sostenute dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e dal Comune di Ariano nel Polesine.

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SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti

IL POZZO DELLE CERAMICHE A ORVIETO, L’AREA GIÀ CELEBRE PER LA PRESENZA DEL PIÚ IMPORTANTE SANTUARIO FEDERALE ETRUSCO, HA OFFERTO AGLI ARCHEOLOGI UN’OPPORTUNITÀ ECCEZIONALE PER CONOSCERE MEGLIO IL VASELLAME D’EPOCA MEDIEVALE. FINITO NEL FONDO DI UN POZZO...

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orsi e ricorsi dell’archeologia medievale italiana. Nel 1900 Giacomo Boni inizia lo scavo del Lacus Iuturnae, una fonte nei pressi del Foro Romano, e si imbatte in una scoperta del tutto inaspettata: decine e decine di brocche in ceramica di età medievale, i contenitori calati con una corda nella fonte per attingere l’acqua e poi caduti lí dentro, rimasti sul fondo per secoli. Quel rinvenimento è entrato nella storia dell’archeologia: da allora quelle strane brocche ricoperte da uno strato di invetriatura (da cui il nome: «ceramica a vetrina pesante») sono state studiate, scoperte in altri scavi, e si è capito che risalgono all’Alto Medioevo, piú precisamente a un periodo tra la metà dell’VIII e la fine del X secolo. Piú di cento anni dopo, una scoperta dalle dinamiche molto simili è stata fatta a Orvieto. Una missione dell’Università di Foggia diretta da Danilo Leone si è

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affiancata agli scavi di un’associazione Onlus, diretti da Simonetta Stopponi nella località chiamata Campo della Fiera, ai margini di Orvieto. Qui è stato portato alla luce un insediamento che ha attraversato molte epoche, dall’età etrusca al XVII secolo.

UNA LUNGA FREQUENTAZIONE Riassumendo, lungo una strada di notevole importanza – la via Sacra – in età etrusca si allineano tre templi. Siamo nel VI secolo a.C., al tempo del tiranno Porsenna, e altri edifici nella stessa area dimostrano l’intenzione di creare un ampio spazio sacro. Il santuario piú importante è il Fanum Voltumnae, un santuario federale di tutti gli Etruschi. Nel tempo, questa zona del suburbio di Orvieto continua a essere un polo piuttosto importante, occupato a piú riprese e in chiavi differenti. In età romana si registra la costruzione di una

grande residenza di età romana, una domus publica con ambienti pavimentati a mosaico, affiancata da un impianto termale. Quando la residenza viene dismessa, una chiesa ne occupa una parte, già nel corso del VI secolo. La chiesa ebbe una vita lunga: nel corso del tempo fu sottoposta a molte ristrutturazioni, proseguí la sua esistenza fino al pieno Medioevo e nel XIII secolo le venne affiancato un monastero: S. Pietro in vetere. Fin qui, abbiamo già una storia piuttosto speciale, ma le sorprese non sono finite. Proprio al centro del monastero, quando il luogo ha preso il nome di «Campo della Fiera» per via dei mercati che ciclicamente vi si tengono, c’è un pozzo. È profondo piú di 11 m e gli archeologi si concentrano sul suo scavo. E, proprio come Boni, a Roma, vengono premiati: individuano infatti una serie di strati di accumulo, la cui cronologia si spinge dal XIII fino al XVII secolo.


Qui accanto: assonometria ricostruttiva del pozzo di epoca medievale scoperto nei pressi di Orvieto, in località Campo della Fiera, e, in alto, ortofoto dell’area di scavo che ne evidenza la posizione. A destra: un campione del ricco repertorio ceramico restituito dallo scavo della struttura. Nella pagina accanto: disegno ricostruttivo della chiesa sorta sui resti della domus publica romana. La chiesa venne affiancata dal monastero di S. Pietro in vetere, al centro del quale è stato scoperto il pozzo.

Strati che contenevano… circa mille tra brocche, boccali e altri tipi di ceramiche, tutte perse da chi cercava di attingere l’acqua!

UN CONTESTO INTEGRO Questa straordinaria scoperta sta già avendo e avrà ripercussioni notevoli sulla nostra conoscenza della produzione di ceramica dell’Italia centrale in età medievale e moderna, con particolare riguardo all’opera dei vasai di Orvieto. E questo perché si tratta del primo scavo ben eseguito dal punto di vista metodologico che abbia portato alla luce un ampio campione di reperti integri, ben databili in progressione perché ritrovati in un contesto intonso, come si dice in gergo archeologico: «sigillato». Le ceramiche vanno dalle eleganti maioliche arcaiche – dalla caratteristica superficie

ricoperta di smalto bianco e poi dipinta in verde e bruno – alle coloratissime maioliche prodotte in Umbria, nel Lazio e in Toscana; e poi abbiamo le produzioni acrome, molto essenziali, decorate con incisioni geometriche. Un campionario vastissimo, un vero tesoro di tipologie e variazioni sui singoli temi: decorazioni vegetali, stemmi, armi, animali fantastici… Alcuni esemplari, poi, sono oggetti venuti male, probabilmente scarti di lavorazione, e ci aiutano a capire alcuni passaggi tecnici della fabbricazione dei vasi. Insomma: il pozzo di Orvieto si è rivelato una vera miniera di informazioni, e molte altre ne restituirà in futuro, poiché lo studio è appena cominciato. A volte la storia si nasconde nei luoghi piú impensati, anche nel fondo di un pozzo in aperta campagna.

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TERRA, ACQUA, FUOCO,VENTO Luciano Frazzoni

CASSEFORTI PORTATILI SOPRATTUTTO NEL CASO DEGLI ESEMPLARI A FORMA DI PORCELLINO, I SALVADANAI SONO UNO STRAORDINARIO ESEMPIO DI CONTINUITÀ. L’USO DI CUSTODIRE GLI SPICCIOLI IN QUESTI CURIOSI CONTENITORI È INFATTI AMPIAMENTE ATTESTATO GIÀ IN ETÀ GRECA E ROMANA

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egli Apophoreta (epigrammi dedicati ai doni che gli ospiti si portavano a casa dopo una cena), Marziale cita, tra i vari oggetti, i loculos (Epigrammi, XIV, 12-13), ossia piccoli scrigni destinati a conservare monete d’oro (se in avorio) o d’argento (se in legno), questi ultimi ritenuti dunque di minor valore. Tuttavia, il termine loculus, sebbene nessun autore antico ne parli, potrebbe riferirsi (il condizionale è d’obbligo) anche a oggetti di ancor meno valore, ossia ai salvadanai realizzati in ceramica, tutti dotati di una fessura per introdurvi le monete, ma privi di altra apertura, dunque destinati a essere frantumati per recuperare il gruzzolo al loro interno. Si conoscono diverse tipologie di questi oggetti, ma ancor piú interessante è cercare di contestualizzarli all’interno della vita quotidiana. Oltre a quelli realizzati al tornio, di forma globulare e con una presa nella parte superiore, che dall’epoca imperiale, percorrendo il Medioevo, sono giunti pressoché identici fino ai nostri giorni, si conoscono tre tipi realizzati a stampo, che presentano raffigurazioni e spesso anche iscrizioni relative al produttore. A partire dai primi studi di Hans Graeven (1901) e di Henry Thédenat (1904) per la compilazione del termine loculus nel Dictionnaire

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des antiquités greques et romaines de Daremberg et Saglio (consultabile al link https://dagr. univ-tlse2.fr/), si sono succeduti diversi contributi ed elaborazioni di classificazione di questa particolare categoria di manufatti ceramici, anche con differenti terminologie per lo stesso tipo. Fra i tipi a matrice piú diffusi vi sono quelli di forma cilindrica terminante a cono nella parte superiore, dove è la fessura per introdurvi le monete, chiamati a seconda degli studiosi ad alveare, a capanna o a tempietto rotondo terminante a cupola. Tutti presentano raffigurazioni a

Salvadanaio di produzione greca, da Priene. II sec. d.C. Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlung. stampo, strettamente legate alla natura del manufatto. Tra le divinità è spesso presente il dio Mercurio, entro un tempietto stilizzato con due o quattro colonne, con il caduceo in una mano e la borsa del denaro in

Salvadanaio di epoca romana, da Pfaffenhofen (Rosenheim, Germania). II-III sec. d.C. Monaco di Baviera, Archäologische Staatssammlung.


un’altra. Mercurio è infatti il dio garante delle transazioni commerciali, e la borsa simboleggia il guadagno che da esse deriva. La sua figura sui contenitori di monete richiamerebbe dunque l’importanza degli scambi mercantili come fonte di arricchimento. In un esemplare del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, già facente parte della collezione di Augusto Castellani, è invece rappresentata, sempre all’interno di un tempio tetrastilo, la dea Fortuna, con il timone nella destra (anche questo simbolo dei commerci via mare) e la cornucopia nella mano sinistra. Altre divinità raffigurate sono Ercole, Cerere, Vittoria, ma anche la triade capitolina, e, in un caso, la figura di un auriga vittorioso. Molti salvadanai di questo tipo presentano bolli con i nomi dei produttori: si ricordano Quintus Passerius Augurinus (bolli BAS AUGU) ed Aelius Maximus (bolli AEL MAX), entrambi attivi a Roma e dintorni tra l’età tardo-antonina e quella severiana (ultimo quarto del II-primo quarto del III secolo d.C.), ed entrambi produttori anche di lucerne e calamai.

SIMILI A LUCERNE Un altro tipo viene variamente definito a lucerna, a «caciotta» o di forma lenticolare, essendo realizzato dalla giustapposizione di due vaschette, come per le lucerne; anche questi salvadanai presentano nella parte superiore le figure di Mercurio, Fortuna, Eracle o Vittoria, mentre sotto è iscritto il nome del produttore: C IUN BIT, ossia Caius Iunius Bitus, PALLADI, ossia Palladius, e CIMON (Cimone); anora una volta si tratta di produttori anche di lucerne con sede a Roma e attivi tra l’età tardo-

nell’ambito delle festività delle Kalendae Ianuariae, legate all’anno nuovo. Un altro salvadanaio, rinvenuto a Ossirinco e ora al Museo di Bruxelles, reca la raffigurazione serpentiforme di due divinità egizie, Shai, personificazione del destino talvolta identificato con Serapide, e Iside; in questo caso le due divinità troverebbero la loro giustificazione su un salvadanaio come garanti della ricchezza. A eccezione di quest’ultimo esemplare, tutti quelli realizzati a matrice, sia del tipo a capanna che a lucerna, sarebbero tipici delle officine di Roma e dei suoi dintorni in un arco cronologico compreso tra il II e il III secolo d.C. Un quarto tipo è definito ad arca in quanto riproduce in piccolo i forzieri in legno con borchie di metallo (arcae ferratae) nei quali venivano conservate le monete, in genere collocati nell’atrio della casa. Questo tipo di salvadanaio sembra essere invece tipico di Pompei.

UNA FORMULA BENAUGURANTE Disegni dei dischi superiori di due salvadanai a lucerna provenienti entrambi da Labico (Roma): il primo, in alto, databile al III sec. d.C., raffigura Mercurio all’interno di un tempietto; sul secondo (I sec. d.C.), compare un’immagine della Vittoria alata. antonina e quella severiana. Un esemplare di questo tipo è invece ornato con la figura della Vittoria con lo scudo su cui è l’iscrizione di auguri per il nuovo anno «annum novum faustum felicem», formula frequente anche sulle lucerne databili al I secolo d.C., donate come oggetti benauguranti

Su un esemplare figurano un maiale, simbolo di ricchezza, benessere e fertilità, e la scritta FELIX, da intendersi piú come formula di buon augurio che riferita al nome del produttore. Salvadanai a forma di porcellino si producono anche oggi, anzi sono forse il soggetto piú frequente nell’immaginario collettivo. È interessante notare che i contesti di rinvenimento dei salvadanai sono tra i piú diversi, spaziando da quelli privati a quelli funerari (se ne sono trovati nei sarcofagi e nelle catacombe) ai luoghi pubblici. Tutti sono stati rinvenuti vuoti, a eccezione di un esemplare,

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Salvadanaio a capanna, forse da Roma. Fine del II-inizi del III sec. d.C. Baltimora, Johns Hopkins University. Sul lato principale, Mercurio in un tempietto; sull’altro, il bollo BAS AVGV, riferibile al produttore, Q. Passerius Augurinus. attualmente ai Musei Vaticani, proveniente dagli scavi condotti da Carlo Fea nel 1812 presso le Terme di Tito, sul colle Oppio, a Roma, con la raffigurazione della triade capitolina. Al suo interno vi erano 251 monete, 131 di epoca repubblicana (con una datazione dal 145-138 al 32-31 a.C.) e 120 di epoca imperiale, dall’epoca di Augusto a quella di Traiano. Secondo lo scopritore, il piccolo contenitore sarebbe appartenuto a un «questuante» attivo presso le terme nel momento del loro abbellimento da parte di Traiano. Cercando di contestualizzare i salvadanai nell’ambito della vita quotidiana, gli studiosi hanno formulato molteplici interpretazioni. Innanzitutto, si deve considerare che, data la loro capienza limitata, non erano destinati a conservare tesoretti, a

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eccezione forse per il gruzzoletto appartenuto, come si è detto, al questuante che chiedeva l’elemosina presso le terme di Tito al tempo di Traiano.

USI MOLTEPLICI Tra le ipotesi sul significato dei salvadanai, si può pensare a oggetti legati al mondo dell’infanzia, o a doni scambiati, insieme a dolci, miele, frutta secca, durante le Kalendae Ianuariae, legate al passaggio dall’anno vecchio a quello nuovo. C’è anche chi ha ritenuto di collegare i salvadanai a forma di tempietto rotondo al culto domestico, e che questi contenitori venissero collocati all’interno dei larari delle case romane; le strutture a tempietto entro cui sono raffigurate le varie divinità (Mercurio, Fortuna, Vittoria), richiamerebbero infatti le nicchie

adibite al culto dei Lari, non solo nelle abitazioni, ma anche all’esterno agli incroci delle strade, nei Lari Compitali. Per quanto riguarda la figura dell’auriga vittorioso, questi rappresenterebbe chi raggiunge la gloria attraverso i suoi successi, mentre il salvadanaio potrebbe rappresentare il premio della gara. Dunque, il salvadanaio costituisce un oggetto che non aveva una destinazione d’uso univoca, ma anzi poteva assumere utilizzi e significati diversi a seconda dell’ambito economico e sociale di appartenenza.

PER SAPERNE DI PIÚ Giulia Baratta, De brevissimis loculis patrimonium grande profertur (Tert. cult. fem. 1, 91, 19): i salvadanai, in Sylloge Epigraphica Barcinonensis, 10; pp.169-193.



L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

IL SULTANO E LA PRINCIPESSA UN DIRHAM IN ARGENTO DEL SOVRANO SELGIUCHIDE KAYKHUSRAW II MOSTRA UNA SINGOLARE COINCIDENZA «ZODIACALE» CON LA SERIE BATTUTA IN EGITTO PER ANTONINO PIO. E CONFERMA LA FORTUNA DEI TEMI LEGATI AL SOLE E AL LEONE

I

n ogni epoca, continente e religione il Sole è stato associato a una divinità e considerato per se stesso un dio fonte di vita. Basti pensare, nel mondo egiziano, al culto semimonoteistico di Aton, introdotto da Amenofi IV-Akenathon nel XIV secolo a.C., in cui il disco solare primeggia e mette in secondo piano il già ricco pantheon della civiltà faraonica. Ancora in Egitto, ma scendendo molto avanti nel tempo, ritroviamo il Sole insieme a tutti gli altri pianeti che reggono i segni dello Zodiaco celebrati in una importante serie monetale in bronzo. Detta appunto «dello Zodiaco», questa serie fu battuta ad Alessandria a nome dell’imperatore Antonino Pio (indicato sulle monete con le lettere L H) tra il 144 e il 145 d.C., nel suo 8° anno di regno, per celebrare l’anno sotiaco egiziano (quando Sirio toccava sull’orizzonte lo stesso punto toccato dal Sole). Il dritto è riservato all’imperatore, mentre al rovescio appare il segno zodiacale sormontato dalla divinità dell’Olimpo legata al pianeta o al luminare (Sole e Luna) corrispondente. Il Sole entra nel Leone nella calura estiva (23

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luglio-23 agosto) e il grande felide, simbolo di grandezza, forza e regalità, rappresenta l’energia e la spinta vitale del Sole, astro splendente e «luminare» per eccellenza. Nell’emissione antonina il rovescio presenta in alto un piccolo busto con corona radiata di Sol visto di profilo e accanto una stella; sotto vi è un possente leone. Per ciò che incarna e per la sua posizione dominante nel mondo animale, il leone fu scelto come simbolo sin dalle prime emissioni in elettro della Lidia, e conobbe una fortuna intramontabile nell’iconografia monetale. Igino motiva l’elevazione del leone a costellazione in quanto, molto semplicemente, è il re degli animali (De Astronomia, II, 24).

LUOGHI «ROMANI» Con un altro ampio salto nel tempo e nello spazio, si arriva al sultanato selgiuchide di Rûm, uno Stato musulmano turcopersiano creato nei territori dell’Anatolia (a cui fu dato il nome di Rûm, perché istituito in luoghi «romani» o bizantini) dai Turchi selgiuchidi in seguito al loro ingresso nella regione dopo la battaglia di Manzikert (1071). La capitale venne fissata dapprima a


Dirham in argento del sultano di Rûm di Kaykhusraw II, con leggenda in arabo e Leone con il Sole. 1243. Nella pagina accanto: dracma in bronzo della zecca di Alessandria, Antonino Pio, anno 8° (144-145 d.C.). Al dritto, la testa dell’imperatore e indicazione dell’anno in greco: al rovescio, leone con Helios e stella e, in esergo (L H= anno 8°). Nicea e poi a Iconio (Turchia) e di questa signoria rimangono rinomate testimonianze in campo artistico e architettonico. Il sultanato raggiunse l’apogeo tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, dopo aver conquistato i maggiori porti bizantini sulle coste del Mediterraneo e del Mar Nero, e raggiunto, a oriente, il lago Van. Il suo territorio si estendeva lungo importanti rotte commerciali allestite attraverso un sistema di caravanserragli e stretti erano anche i rapporti di scambio con i mercanti genovesi. Tuttavia, le crociate indebolirono i Selgiuchidi, che finirono con il soccombere all’invasione mongola nel 1243. Ultimo sovrano di rilievo di Rûm fu Ghiyath al-Din Kaykhusraw II, che regnò dal 1237 fino alla sua morte, nel 1246. Il suo regno dovette fronteggiare sia rivolte interne, sia, come detto poc’anzi, l’invasione mongola dell’Anatolia, e la conseguente sconfitta provocò in breve tempo il declino e la

disintegrazione dello Stato selgiuchide. Di Kaykhusraw rimane però una bella testimonianza numismatica nei suoi dirham in argento (il cui nome deriva da quello della dramma greca), emessi tra il 1240-1243, con legenda e datazione araba. Su un lato compare una iscrizione su tre righe relativa al sovrano: «Il Grande Sultano, Ghiyath al-Dunya wa-l-Din Kaykhusraw bin Kay Qubadh emesso a Konya (Quniya) nell’anno 641» (corrispondente al 1243 del calendario gregoriano). Sull’altro si legge «L’Imam Musta’sim bi-’llah comandante dei fedeli»; nel campo un leone in cammino verso destra e sopra il disco solare dal volto umano con due stelle intorno.

AMORE O PROPAGANDA? La scelta di tale composizione da parte del sultano è stata da alcuni romanticamente letta come la rappresentazione della costellazione del Leone posta

sotto il Sole, segno zodiacale della giovane, intelligente e amata terza moglie di Kaykhusraw II, Tamara, una principessa georgiana di religione ortodossa, che si convertí all’Islam per le nozze, assumendo il nome di Gürcü Hatun. Altri studiosi hanno voluto invece vedervi le immagini trasfigurate dei regnanti, lei il Sole, lui il Leone: probabilmente entrambe le supposizioni potrebbero essere veritiere e confluire in un’unica composizione di sapore cosmicoregale. Sebbene in generale la tradizione islamica non preveda rappresentazioni figurate del genere, queste splendide monete le adottano e sembrano sorprendentemente ispirarsi agli esemplari «zodiacali» della serie alessandrina di Antonino Pio, emessa piú di mille anni prima, con il leone avanzante, sole e stella. Si tratta solo di un caso o qualche esemplare d’epoca romana era giunto, chissà come, sino agli occhi del sultano?

a r c h e o 111


I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Iames Tirabassi, Roberto Macellari, Giuseppe Adriano Rossi (a cura di)

L’ATLANTE DI PALETNOLOGIA DEL REGGIANO DI DON GAETANO CHIERICI Edizioni della Deputazione di Storia Patria per le Antiche Provincie Modenesi, 148 pp., ill. col. e b/n + XXII tavv. s.i.p.

L’importanza del contributo di Gaetano Chierici agli studi di archeologia e di preistoria in particolare viene ribadita dalla pubblicazione di questo volume, che dà finalmente vita a uno dei progetti inediti del grande studioso. Nato a Reggio Emilia nel 1819, Chierici, uno dei padri della paletnologia italiana, ebbe il merito di dedicarsi alle culture del passato con un approccio moderno – nelle indagini sul campo, per esempio, fu tra i primi ad adottare il metodo di scavo stratigrafico – e questo Atlante, al quale lavorò negli anni Settanta 112 a r c h e o

dell’Ottocento, non fa che confermare la sua statura di ricercatore attento e meticoloso, aperto al confronto con quanto si andava facendo in archeologia non soltanto in Italia, ma anche in Europa. Un’apertura evidente anche nel progetto originario dell’opera ora data alle stampe, che, come si legge in uno dei contributi introduttivi, avrebbe dovuto «rappresentare la preistoria e protostoria del territorio attraverso una raccolta di tavole raffiguranti sequenze di manufatti ordinati per cronologie e industrie, oltre a illustrazioni di interesse topografico». Come detto, l’impresa non fu portata a termine: nel 1875 Chierici l’abbandonò, sia per «incomprensioni editoriali e contingenze collaterali», sia perché proprio il progresso delle ricerche che lo studioso seguiva con attenzione aveva reso ormai obsolete parte delle notizie riunite nell’Atlante. La nuova edizione dell’opera è l’esito di un importante lavoro di ricostruzione quasi «archeologica» delle tavole originali, la cui presentazione, valorizzata dal grande formato del libro, è preceduta da un ampio inquadramento storicocritico. Gli autori coinvolti (Mark Pearce, Alessandro Guidi, Massimo Tarantini, Roberto Marcuccio, Roberto Macellari e Iames Tirabassi) illustrano

infatti il contesto nel quale maturò l’ideazione dell’Atlante, lo inseriscono nel piú ampio fenomeno della pubblicazione di queste sintesi, ripercorrono il percorso professionale e accademico di Gaetano Chierici per poi dedicarsi all’esame analitico dell’opera qui edita. Che, a sfogliarla oggi, emana il fascino d’altri tempi del disegno manuale, al quale però si associa il valore documentario del modus operandi di un autentico precursore della disciplina. Stefano Mammini Francesca Radina (a cura di)

LA NECROPOLI NEOLITICA DI GALLIANO (PALAGIANO, TARANTO) Origines 37, Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze, 234 pp., ill. col. e b/n 60,00 euro ISBN 978-88-6045-102-6 (supplemento digitale disponibile in modalità Open Access) www.iipp.it

Scoperta grazie a un intervento di archeologia

preventiva, la necropoli neolitica di Galliano (nel territorio di Palagiano, in provincia di Taranto) ha offerto una preziosa testimonianza sulle pratiche funerarie di una comunità neolitica stanziata nella regione nella seconda metà del V millennio a.C. Il sepolcreto si componeva di dieci tombe a grotticella e di un pozzetto rituale, che si sono presentati integri e hanno dunque restituito un ricco corpus di materiali e di dati. Materiali e dati che già erano stati raccontati da una mostra temporanea allestita nel 2015 a Taranto e che ora vengono pubblicati in maniera sistematica in questo 37° titolo della collana Origines. Grazie ai contributi di Francesca Radina e degli altri studiosi coinvolti nella redazione del volume il sito viene esaminato in tutti i suoi aspetti distintivi – dalla tipologia dei materiali di corredo alle modalità di deposizione dei defunti –, integrati, per esempio, dalle osservazioni sui resti di fauna o sulla provenienza dei manufatti in ossidiana. Elementi sui quali sono imperniate le considerazioni conclusive, che ribadiscono come nel corso del Neolitico il territorio pugliese sia stato la culla di culture fra le piú importanti di quella stagione «rivoluzionaria». S. M.



presenta

MEDIOEVO

NASCOSTO

LUOGHI ♦ STORIE ♦ ITINERARI PARTE I: ITALIA CENTRO-SETTENTRIONALE

All’ombra dei grandi monumenti medievali italiani, dei celeberrimi gioielli delle città d’arte conosciuti in tutto il mondo, la nostra Penisola ospita uno straordinario e infinito patrimonio architettonico e artistico, talora definito, a torto, «minore». Centinaia, migliaia di borghi e interi quartieri cittadini, pievi e abbazie, castelli e fortificazioni compongono il «Medioevo nascosto» a cui è dedicata la nuova edizione del Dossier di «Medioevo», realizzata a oltre dieci anni dalla prima rassegna sull’argomento: una rassegna di monumenti probabilmente meno noti e inseriti in contesti paesaggistici che ne esaltano la suggestione e il fascino. A guidare la redazione dell’opera non è stata soltanto la volontà di valorizzare questi beni, ma anche l’auspicio che, scorrendo le pagine del Dossier, nasca il desiderio di vederli da vicino. Il viaggio si snoda attraverso le regioni del Settentrione e del Centro del Paese, dalla Valle d’Aosta all’Umbria e, naturalmente, al resto d’Italia sarà riservata la seconda parte del progetto. Qui, dunque, ci si muove dai castelli sorti lungo l’arco alpino agli insediamenti sviluppatisi nell’area padana, dalle rocche che punteggiano gli Appennini ai borghi della Maremma tosco-laziale... Un palinsesto di eccezionale ricchezza, le cui storie raccontano di ignoti cavalieri, mercanti, contadini, che però hanno spesso intrecciato le loro esistenze con le gesta di molti celebri protagonisti del Medioevo italiano ed europeo, come il re longobardo Desiderio o come san Colombano, il grande evangelizzatore irlandese. Storie avvincenti, che attendono solo di essere lette...

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