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2014
tel shadud
leopoli
primi fornai seduzione etrusca
parco di montale
speciale da gerusalemme a milano
Mens. Anno XXX numero 5 (351) Maggio 2014 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
w. ar
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archeo 351 maggio
GRANDI SCAVI
NELLA CITTà DI LEONE IV
sensazionale scoperta in israele
IL SIGNORE DI TEL SHADUD
€ 5,90
I SEGRETI DI HOLKhAM HALL DA GERUSALEMME A MILANO Alle origini del Cristianesimo SPECIALE
PARCHI ARCHEOLOGICI
A MONTALE l’età delle terramare
CORTONA
www.archeo.it
editoriale
le nostre glorie Statua del Galata suicida, dall’area degli Horti Sallustiani, a Roma. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps.
Di recente ci è capitato di assistere, in occasione della presentazione di una mostra, a uno sconcertante dialogo dell’incomprensione. O forse sarebbe meglio parlare di monologo. Protagonisti, da una parte, un esponente del governo, dall’altra alcuni tra i principali rappresentanti della nostra cultura archeologica. I toni garbati con i quali il primo ha introdotto l’evento, complimentandosi per i risultati scientifici e culturali che la mostra ha reso evidenti, non hanno potuto mascherare lo sgomento che si delineava sul volto degli astanti mentre il discorso veniva scandito da termini quali «risorse», «giacimenti», «miniera» e consimili, riferiti all’oggetto di studio cui i secondi avevano dedicato, e tuttora dedicano, la loro esistenza professionale e intellettuale. Il bene culturale (preferiamo questa espressione a quella, seppur legittima, di «patrimonio») equiparato a una «fonte» di reddito rappresenta, infatti, una metafora ingannevole e fuorviante: le risorse naturali si sfruttano, fino al loro, inevitabile, esaurimento; mentre il messaggio dei grandi prodotti dell’intelletto si moltiplica all’infinito, ogni volta che la mente umana, anche dopo secoli e millenni, si riavvicina a loro per interrogarli… È quanto è accaduto sotto i nostri occhi, proprio in questi giorni, quando, uno dei massimi interpreti del nostro passato classico, l’archeologo Filippo Coarelli, ha presentato la sua rilettura di un insieme di sculture, quelle del cosiddetto Piccolo Donario di Pergamo (cosí chiamato perché, a differenza del Grande Donario di Pergamo, le sue sculture ritraggono i personaggi a due terzi dal vero). Il complesso scultoreo, che conosciamo grazie alle copie marmoree di età romana (l’originale in bronzo si trovava sull’Acropoli di Atene), rappresenta parte del grande ex voto per le vittorie ottenute da Attalo I (269-197 a.C.) sulle popolazioni celtiche dei Galati, stanziate in Asia Minore. In questi giorni i marmi sono riuniti, per la prima volta insieme, in una mostra dal titolo «La gloria dei vinti», allestita in occasione del quinto centenario della loro riscoperta (avvenuta a Roma nel 1514), nel romano Palazzo Altemps che, tra le opere esposte in permanenza, annovera il celebre Galata che uccide se stesso, appartenente, invece, al Grande Donario. «La piena comprensione di queste opere – spiega Coarelli – impone non solo di allargare lo sguardo anche ad altre espressioni artistiche che, in Italia, si ispirano alla cultura figurativa pergamena, dalle urne etrusche ai sarcofagi imperiali, ma anche il riflesso che di esse si coglie in molte opere di periodo rinascimentale e barocco». Far rivivere le grandi opere d’arte del passato, che un destino fortunato ci ha miracolosamente conservate: in questo senso, semmai, è lecito parlare dei nostri beni archeologici come di una risorsa, addirittura vitale. Cosa saremmo, e come vivremmo, infatti, se non li avessimo? Andreas M. Steiner
Sommario Editoriale
Le nostre glorie
3
di Andreas M. Steiner
Attualità la notizia del mese
Scoperta una nuova, magnifica testimonianza della dominazione egizia nella terra di Canaan 6 di Andreas M. Steiner
notiziario
8
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scoperte Sequestrato in Germania un ricco tesoro del V secolo: che sia davvero il leggendario «oro dei Nibelunghi»? 8
dalla stampa internazionale
scavi Le nuove ricerche nell’area archeologica di S. Omobono offrono dati decisivi per la storia del sito e della Roma arcaica 10
scavi
parola d’archeologo Archeologia e turismo religioso: passa anche di qui il ritorno alla normalità dell’Iraq 12
scoperte
Recenti ricerche italo-iraniane riscoprono l’importanza dell’olivicoltura in Persia 18
Nella città di Leone
22
di Letizia Ermini Pani, Maria Carla Somma e Francesca Romana Stasolla
Il profumo del grano tostato di Cecilia Conati Barbaro
38
50
In copertina particolare di un sarcofago antropomorfo in terracotta recentemente rinvenuto a Tel Shadud (Israele). Tarda età del Bronzo, XIII sec. a.C.
Anno XXX, n. 5 (351) - maggio 2014 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Marialuisa Rossignoli Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 21768.507 Comitato Scientifico Internazionale
Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro,
Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Stefania Berlioz è archeologa. Donatella Caporusso è direttrice del Civico Museo Archeologico di Milano. Andrea Cardarelli è professore ordinario di protostoria europea presso Sapienza Università di Roma. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Cecilia Conati Barbaro è ricercatore confermato di preistoria e protostoria presso Sapienza Università di Roma. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Paola Di Silvio è archeologa. Clara Forte è docente di lingua latina. Letizia Ermini Pani è stata professoressa di archeologia medievale presso Sapienza Università di Roma. Cristina Ferrari è archeologa e giornalista. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Giovanni Giavini è biblista. Paolo Leonini è storico dell’arte. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Anna Provenzali è conservatore del Civico Museo Archeologico di Milano. Ilaria Pulini è direttrice del Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena. Giorgio Rossignoli è dottore in scienze politiche. Maria Carla Somma è professore di archeologia cristiana e medievale presso l’Università «G. D’Annunzio» di Chieti-Pescara. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso Sapienza Università di Roma. Francesca Romana Stasolla è professore di archeologia cristiana e medievale presso Sapienza Università di Roma. Cristiana Zanasi è coordinatore del Parco archeologico e Museo all’aperto della Terramara di Montale. Guido Zavattoni è avvocato e cultore della materia. Illustrazioni e immagini: Clara Amit/cortesia Israel Antiquities Authority: copertina e pp. 6, 7 (alto e basso, a sinistra) – Cortesia Ufficio stampa: pp. 3, 50, 51 (alto), 52, 53 (sinistra), 54-55, 56 (destra), 57-59 – Doc. red.: pp. 7 (basso, a destra), 13, 18, 81, 86-87, 101 – Corbis Images: Torsten Silz/epa: p. 8; Skyscan: p. 56 (sinistra); Hanan Isachar/Demotix: p. 80; Claudio Peri/ ANSA: p. 100 – Getty Images: AFP: p. 9 – Cortesia Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali-Università del Michigan-Università della Calabria: pp. 10, 11 (alto e centro) – Cortesia Università degli Studi di Cagliari: p. 11 (basso) – Cortesia dell’autore: pp. 14 (sinistra, alto e basso), 92/93, 94 (alto), 95 (sinistra: alto, centro e basso), 96, 97, 111 (basso) – Rocco D’Errico: pp. 22/23, 24/25, 28, 28/29, 29 (alto), 31 (basso, a destra), 32/33 (alto), 35 – Archivio di Stato di Roma: p. 25 (alto) – Archivio Progetto Cencelle, Sapienza Università di Roma: pp. 25 (basso), 26-27, 32 (basso), 33 – Mauro Benedetti (Soprintendenza per i Beni Archeologici per l’Etruria Meridionale): pp. 29 (centro), 30 (alto e basso), 31 (alto e basso, a
mostre
That’s Etruria!
antichi ieri e oggi
La dea delle donne e i fantocci nel fiume
50
di Giuseppe M. Della Fina
parchi archeologici Montale, la terramara che vive
scavare il medioevo 60
di Andrea Cardarelli, Ilaria Pulini e Cristiana Zanasi
di Paola Di Silvio
I Vichinghi in America
60
92
108
di Andrea Augenti
Rubriche
Misteri d’etruria C’è un enigma nel parco...
104
di Romolo A. Staccioli
il mestiere dell’archeologo
l’altra faccia della medaglia
Un’idea, un concetto, un’idea... 100 di Daniele Manacorda
Sulla montagna sacra 110 di Francesca Ceci
libri
112
speciale
Da Gerusalemme a Milano. Alle origini del cristianesimo 74
74 sinistra), 34 – Paolo Rosati: p. 32 (sinistra) – Stefano Mammini: pp. 36-37, 45, 48 – Cortesia Missione archeologica Portonovo, Sapienza Università di Roma: pp. 38-43, 46-47 – Cortesia Parco Naturale del Conero: p. 44 – DeA Picture Library: G. Nimatallah: pp. 51 (basso), 53 (destra); S. Vannini: p. 95 (destra) – Cortesia Parco Archeologico e Museo all’aperto della Terramara di Montale: pp. 60-61, 62 (basso), 62/63, 63 (alto), 64-69, 70/71, 72-73 – Riccardo Merlo: disegni alle pp. 63 (basso), 70 – Cortesia Civico Museo Archeologico di Milano: pp. 74, 76-78, 83 (basso), 84/85, 89-91 – A.M. Steiner: pp. 74/75, 82, 83 (alto), 88 – Da Necropoli dell’Etruria rupestre, Viterbo 1986: disegni alle pp. 94, 96 – Marka: Marco Scataglini: pp. 9899 – Da L’invenzione dei Fori Imperiali, demolizioni e scavi: 1924-1940, Roma 2008: pp. 102, 105 – Bridgeman Art Library: pp. 104, 110 – Foto Scala, Firenze: su concessione MiBACT: p. 106 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 108/109 – Shutterstock: p. 111 (alto) – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 6, 24, 40, 62 (alto), 79, 93, 109. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
Archeo è una testata del sistema editoriale
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di Donatella Caporusso, Anna Provenzali, Giovanni Giavini, Clara Forte e Guido Zavattoni
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la notizia del mese Andreas M. Steiner
Quell’antico signore nella valle di Esdraelon La sensazionale scoperta, in Israele, di un sarcofago egiziano del XIII secolo a.C. rievoca l’epoca del dominio dei Faraoni nella terra di Canaan In alto e nella pagina accanto: il sarcofago di Tel Shadud al momento LIBANO del ritrovamento.
Lago di Tiberiade
Haifa Mar Mediterraneo
Nazaret Tel Shadud
Beit She’an
Hadera
Tel Aviv Petach Tikva
Giordan o
Netanya
CISGIORDANIA Ashdod
Gerusalemme
Ascalona
ISRAELE 6 archeo
Mar Morto
Deir el-Balah Beersheva
Masada
C
i fu un tempo, nella tarda età del Bronzo (ovvero nel XIII secolo a.C.) in cui l’antica terra di Canaan (che in seguito avrebbe assunto le denominazioni di Israele, Palestina e Terra Santa o Promessa) era posta quasi interamente sotto il dominio faraonico. C’è chi, addirittura, parla di Canaan come di una provincia dell’Egitto. Ed è un fatto del tutto logico che, durante il periodo in cui i faraoni governarono questo lembo di terra tra il Giordano e il Mediterraneo, usi e costumi
egiziani abbiano esercitato una forte influenza sulla popolazione indigena; in particolare, naturalmente, su quella parte di essa in grado di «assorbire» i nuovi messaggi culturali proposti dai dominatori, ovvero gli esponenti della classe agiata cananea. All’interno di questo quadro si inscrive la sensazionale scoperta, avvenuta poche settimane fa nella valle di Jezreel (la piana di Esdraelon di biblica memoria), degli archeologi della Israel Antiquities Authority (la
soprintendenza alle antichità di Israele): durante i lavori per la messa in opera di una conduttura del gas nei pressi del sito di Tel Shadud, sono emersi i resti di una necropoli della tarda età del Bronzo, tra cui un grande sarcofago in argilla, di forma cilindrica, con un coperchio che, in stile egiziano, riproduce il volto e le mani incrociate di un individuo. Intorno al sarcofago sono stati trovati numerosi frammenti di recipienti per alimenti, stoviglie e ossa animali.
alla maniera egizia Lo scheletro all’interno del sarcofago appartiene a un uomo adulto ed era accompagnato da altri recipienti in terracotta, un pugnale, una coppa e una lamina, tutti manufatti di bronzo. Secondo gli scopritori Edwin van den Brink, Dan Kirzner e Ron Be’eri, potrebbe trattarsi di un alto funzionario, di stirpe cananea, a servizio del governo egiziano, o, altrimenti, di un facoltoso esponente dell’aristocrazia locale affascinato dai costumi funerari in uso nel Paese del Nilo. A favore della prima ipotesi testimonia, però, anche un altro reperto rinvenuto insieme allo scheletro: si tratta di uno
«scarabeo» incastonato in una forma d’oro e originariamente parte di un anello. Il sigillo riporta il nome di Sethi I (il faraone che governò l’Egitto nel XIII secolo a.C.). Sethi era il padre di Ramesse II, il faraone identificato da alcuni studiosi come il protagonista del racconto biblico che narra l’esodo degli Israeliti dall’Egitto. Per quanto raro, quello di Tel Shadud non è però l’unico sarcofago antropomorfo egiziano rinvenuto in Israele: frammenti di una cinquantina di esemplari furono trovati nell’antica città di Beit She’an (situata all’incrocio tra la valle del Giordano e la valle di Jezreel), al tempo importante centro amministrativo egiziano, e a Deir el-Balah (nella Striscia di Gaza), anch’esso un avamposto fortificato egizio nella terra di Canaan durante la tarda età del Bronzo, fino all’anno 1150 a.C. circa, quando l’area costiera di Canaan venne conquistata dai Filistei. Nella necropoli di Deir el-Balah, scavi condotti durante il decennio 1972-1982 hanno portato alla luce un cospicuo numero di sarcofagi antropomorfi. Alcuni di essi sono stati restaurati e sono attualmente esposti all’Israel Museum di Gerusalemme.
In basso: il sigillo con il nome del faraone Seti I. A destra: i sarcofagi antropomorfi di Deir el-Balah esposti all’Israel Museum di Gerusalemme.
archeo 7
n otiz iari o SCoperte Germania
il tesoro dei barbari
U
n tesoro di valore inestimabile è stato ritrovato in Germania, nella regione della Renania-Palatinato. Scodelle d’argento, piccole statue in bronzo, numerose spille e gioielli di finissima fattura: è quanto un «cercatore di tesori» ha scavato clandestinamente e cercato di rivendere sul mercato nero, prima d’essere intercettato nel febbraio scorso dalle autorità tedesche. La datazione degli oggetti proposta dagli archeologi, gli inizi del V secolo, ha fatto correre il pensiero di molti al mitico «oro del Reno», il tesoro dei Nibelunghi dell’omonima saga nordica, da cui Richard Wagner trasse ispirazione per la sua opera. In realtà, al di là della vicinanza cronologica con la caduta della stirpe regale dei Burgundi, non sono emersi altri elementi che attestino l’esatta provenienza del tesoro. È certo, invece, che le improprie metodologie di scavo con cui i reperti sono stati recuperati hanno cancellato per sempre informazioni preziose sull’esatta posizione e le condizioni di ritrovamento. Per esempio, il
In alto e a destra: le statuine originariamente appartenenti alla sella curule del tesoro trovato a Magonza. Inizi del V sec. Qui sotto: un pendente in oro, probabile ornamento di una veste cerimoniale.
ricchissimo corredo di pendenti e spille, che si ipotizza costituissero l’ornamento di una veste cerimoniale, forse presentava al momento del ritrovamento resti di fibre tessili; e, potenzialmente, nello scavo si sarebbero potuti ritrovare anche altri frammenti della sella curule (una sedia pieghevole, a forma di «X», simbolo del potere, riservata ai comandanti romani e a personaggi di rango, n.d.r.) dalla quale sembrano provenire le piccole statue. Axel von Berg, archeologo capo della Renania-Palatinato, ha dichiarato che oggetti di tale fattura sono coerenti con la figura di un personaggio altolocato. Il tesoro potrebbe essere il bottino di una delle numerose razzie che si verificarono in questi territori dopo la battaglia di Magonza del 406 d.C.: la sconfitta dei Franchi, «foederati»
A sinistra, in basso: scodella in bronzo con gemme incastonate. dell’impero romano, contro un’alleanza di Vandali, Svevi e Alani, segnò l’inizio del dilagare dei barbari nella provincia romana e inaugurò una lunga stagione di saccheggi. Questa ipotesi è avvalorata dal fatto che, se alcuni oggetti, sono ascrivibili ad artigiani romani per la lavorazione a incisione, altri reperti, come una scodella con gemme incastonate, presentano una lavorazione dai tratti piú «nordici». Sono in corso indagini per individuare il luogo esatto del ritrovamento e verificare se l’autore della scoperta abbia recuperato altri oggetti senza consegnarli alle autorità. Il tesoro dei barbari sarà prossimamente esposto a Magonza e a Spira. Paolo Leonini
L’Editore e la Redazione di «Archeo» ricordano Piero Gamacchio, venuto a mancare lo scorso mese di marzo. Aveva 82 anni. Archeologo di formazione, intellettuale raffinato ed eclettico, profondo conoscitore della storia e della cultura del continente africano, nei primi anni Sessanta era stato direttore editoriale della casa editrice Lerici, per ricoprire in seguito lo stesso ruolo presso la ERI (Edizioni Rai Italia). Dal 1984, come direttore editoriale della società Editing di Roma, è stato tra i principali promotori delle riviste «Archeo» e «Medioevo», che ha contribuito a fondare, rispettivamente nel 1985 e nel 1997.
tutela Israele
Gerusalemme, sequestro in pieno centro
L
o scorso mese di marzo l’Israel Antiquities Authority (IAA, l’ente preposto alla tutela del patrimonio archeologico israeliano) ha sventato un traffico illecito di reperti antichi recuperando undici ossuari provenienti dall’area circostante Gerusalemme. Gli ossuari, datati al periodo del Secondo Tempio, intorno ai 2000 anni fa, riportano in alcuni casi incisioni, con i i nomi dei defunti. Secondo la pratica funeraria ebraica dell’epoca, i defunti non venivano sepolti, bensí deposti in una grotta per un anno, trascorso il quale le ossa venivano recuperate e trasferite in questi speciali contenitori. L’IAA è già in possesso di numerosi
esemplari di ossuari, ma, come ha sottolineato il suo direttore Eitan Klein, ogni ulteriore ritrovamento è significativo, poiché può fornire nuove informazioni sulle modalità delle pratiche funerarie. Inoltre, dopo aver esaminato le incisioni e il contenuto dei reperti, Klein ha allontanato ogni sospetto che si tratti di falsi, destinati al mercato antiquario, dichiarando che si tratta di oggetti autentici. Il recupero è avvenuto nel centro di Gerusalemme, quando la polizia ha notato quattro individui intenti a trasferire i contenitori tra due automobili. Appurato che si trattava di traffico illecito di materiale di rilevanza archeologica, i quattro sono stati arrestati ed è stata allertata l’IAA.
Non è chiaro in che modo i trafficanti siano entrati in possesso degli ossuari. Klein ha avanzato due ipotesi: che siano andati a saccheggiare una grotta sepolcrale già nota, oppure che la grotta sia stata scoperta fortuitamente, durante un recenti lavori di costruzione o di scasso del terreno. Gli ossuari sono ora in corso di studio, mentre la polizia sta portando avanti le indagini per chiarire le circostanze del ritrovamento. P. L. Gli ossuari recentemente sequestrati a Gerusalemme. I reperti risalgono all’epoca del Secondo Tempio (2000 anni fa circa) e, in alcuni casi, recano il nome del defunto.
archeo 9
n otiz iario
SCoperte Roma
un tempio antichissimo alle pendici del campidoglio
L’
ultima campagna di scavo nell’area archeologica di S. Omobono – situata tra la pendice meridionale del Campidoglio e l’Isola Tiberina – ha compreso il primo vero e proprio intervento in profondità, con un saggio subito a ridosso dell’esterno dell’abside della chiesa che dà nome al sito. Al di sotto di una stratigrafia di circa 6 m, è stato messo in luce il muro del lato ovest del tempio arcaico piú antico, consentendo di raccogliere informazioni ulteriori non solo sull’andamento del muro ma anche sul tipo di materiale da costruzione utilizzato. La grande difficoltà dello scavo, svolto a una certa profondità e per buona parte al di sotto della falda acquifera, non ha comunque ostacolato la lettura stratigrafica e il recupero di numeroso materiale archeologico attualmente in corso di restauro. L’area di S. Omobono presenta problematiche storiche e archeologiche di grande rilevanza e complessità, dal punto di vista cronologico, topografico e architettonico. Basti ricordare il dibattito sull’assetto dell’area, sulla
10 a r c h e o
struttura e la decorazione architettonica del piú antico tempio finora scoperto (tempio est) o sulle diverse fasi di frequentazione dei templi di Mater Matuta e Fortuna, dal passaggio del culto pagano a quello cristiano, che vede il sovrapporsi delle chiese di S. Salvatore in Portico e poi di S. Omobono alla cella del tempio est. Ma le vicende storico-archeologiche non si fermano semplicemente all’area sacra: nella zona, infatti, era collocata la Porta Triumphalis e l’intero sito in età post antica era interessato da pozzi e da spazi dedicati ad attività produttive. Le prime ricerche nell’area archeologica si devono ad Antonio Maria Colini (1937), proseguite poi con fasi alterne tra gli anni Sessanta e Ottanta. Tali ricerche hanno aperto prospettive importanti per la conoscenza di un settore dell’antica Roma fino ad allora praticamente sconosciuto. Le nuove indagini, intraprese nel 2009 attraverso una collaborazione tra Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, Università del
Michigan e Università della Calabria (Dipartimento di Studi Umanistici), e tuttora in corso, stanno dando risultati importanti per l’approfondimento e l’ampliamento delle ricerche precedenti. Le moderne indagini impongono una revisione completa e una nuova impostazione rivolta a cogliere le differenti fasi dell’evoluzione complessiva del sito, dalla prima occupazione fino al quartiere moderno, per restituire quindi alla città di Roma un’area compresa e valorizzata secondo una prospettiva scientifica. Il nuovo intervento, dopo una prima fase di digitalizzazione e riordino dell’archivio relativo alle indagini precedenti, si è concentrato nelle attività sul campo di rilievo, documentazione e restauro e infine di scavo. Si sono cosí potute acquisire, per esempio, informazioni sulla successione delle pavimentazioni e si è potuta accertare la presenza di una fase di occupazione post antica mai rilevata precedentemente. Tra i piú importanti interventi è da
SCAVI Sardegna
Nuove scoperte a Nora Nella pagina accanto: l’area archeologica di S. Omobono, nella quale, dal 2009, sono ripresi gli scavi.
segnalare il sondaggio effettuato nella metà meridionale della cella del tempio ovest, che ha consentito di individuare e datare la successione dei pavimenti interni, l’ultimo dei quali, in opus signinum e attualmente visibile, si colloca posteriormente alla metà del III secolo a.C. Il sito rappresenta un banco di prova per gli studiosi dell’équipe di ricerca, ma anche un laboratorio didattico per dottorandi, laureati e studenti di archeologia che hanno una occasione di applicazione unica al mondo. Oltre alle due Università, promotrici della collaborazione con la Sovrintendenza Capitolina, è da sottolineare la partecipazione annuale di borsisti di ricerca dell’Istituto Svedese di Roma. Il progetto rappresenta un caso esemplare di come, attraverso la collaborazione internazionale e l’unità di intenti dei diversi soggetti coinvolti, si sia concretizzata una occasione unica per riqualificare una parte di Roma ormai dimenticata dalla maggior parte dei cittadini e dei turisti. (red.)
Qui sopra e in alto: due immagini del muro individuato nel corso dell’ultima campagna di scavo, riferibile alla fase arcaica piú antica del tempio ovest dell’area di S. Omobono.
L’
Università degli Studi di Cagliari ha concluso la prima campagna di ricerca del Progetto «Isthmos» a Nora, la città fenicia e romana sul capo di Pula. Le testimonianze localizzate grazie alle ricosgnizioni hanno consentito di definire due aree di indagine (alfa e beta) nelle quali sono stati eseguiti scavi stratigrafici. «Nel settore corrispondente all’angolo sud-est della particella indagata (area alfa) – spiega Simonetta Angiolillo, docente di archeologia e storia dell’arte greca e romana presso l’ateneo cagliaritano, che condivide con Marco Giuman la direzione scientifica del progetto – sono venuti alla luce vari paramenti murari, relativi a strutture ancora difficilmente interpretabili, ma i cui adiacenti strati di terra hanno restituito materiale di pregevole fattura, come vasellame da mensa finemente decorato e terrecotte con rappresentazioni di temi mitologici. Le successive campagne di scavo, unite all’analisi dei manufatti rinvenuti già avviata dai collaboratori della cattedra, consentiranno di comprendere maggiormente le fasi di vita di questo settore di Nora. Alla luce dei dati attualmente in nostro possesso, si può comunque ipotizzare la presenza di un’area di culto dismessa, particolarmente interessante nell’ottica di una rilettura degli spazi urbani della città romana. La seconda area (beta) ha restituito un tratto di strada – della lunghezza di 8 m e della larghezza di 4,70 – pavimentata da basoli di grosse dimensioni e dotata di un’apertura di accesso alla canalizzazione delle acque fognarie. La presenza di un battuto pavimentale su un lato della strada documenta l’esistenza di un marciapiede e costituisce un dato importante nel contesto urbano di Nora. È stata evidenziata anche una struttura muraria di una certa consistenza, che dovrà essere indagata nella prossima campagna di scavo». Giampiero Galasso
Qui sopra: Nora. Il tratto di strada basolata con l’accesso alle canalizzazioni del sistema fognario.
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parola d’archeologo Flavia Marimpietri
ritorno nella terra di abramo il cammino verso la normalità dell’iraq passa anche attraverso il recupero e la valorizzazione del suo patrimonio archeologico. ne abbiamo parlato con habeeb al-sadr, ambasciatore della repubblica irachena presso la santa sede e con il direttore del museo nazionale di baghdad
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er la prima volta dopo decenni di chiusura, l’Iraq ha aperto le porte ai cristiani italiani che, nello scorso dicembre, con una delegazione dell’Opera Romana Pellegrinaggi (ORP), hanno potuto percorrere le terre dell’antica Mesopotamia (vedi «Archeo» n. 350, aprile 2014). Un evento di portata storica, di cui abbiamo parlato in esclusiva con S.E. Habeeb Al-Sadr, Ambasciatore della Repubblica dell’Iraq presso la Santa Sede. Eccellenza, in questi anni «italiani», lei ha dato prova di essere particolarmente sensibile al tema del dialogo interculturale e interreligioso: quali sono le sue riflessioni e i suoi suggerimenti per riallacciare i «ponti» tra le diverse civiltà e abbattere cosí i muri della diffidenza? «Oggi, purtroppo, il dialogo tra civiltà esiste soltanto a livello teorico, sul tavolo dei dibattiti tra pensatori, religiosi e studiosi, oppure sui mezzi comunicazione. L’umanità, invece, ha bisogno di un dialogo serio, attivo e fruttuoso, non solo esteriore. E la base di questo dialogo è la comunanza di fede tra le tre religioni abramitiche, fondate sull’unicità dello stesso dio. Quello che noi proponiamo è una cultura della tolleranza che promuova la continuità tra i popoli
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e le religioni. Per questo sarebbe auspicabile che i governi del mondo adottassero un codice etico condiviso, nell’ambito di un’organizzazione internazionale come quella per i Diritti Umani dell’ONU, per esempio, e che si impegnino a farlo rispettare». Il viaggio compiuto nello scorso dicembre da una delegazione del Vaticano e dell’Opera Romana Pellegrinaggi su invito del governo iracheno è destinato a rimanere un evento isolato o ci saranno sviluppi? «Quel pellegrinaggio ha dato risultati importanti sia per gli Iracheni che per i cristiani, facendo rivivere la speranza in un Paese che è stato culla delle religioni, come la Mesopotamia. Dal punto di vista archeologico, oltre a Ur, l’Iraq ospita monumenti di epoca sumera e accadica, risalenti al 2500 a.C. Il viaggio nella terra di Abramo era il grande sogno di papa Giovanni Paolo II e anche papa Francesco ha espresso il desiderio di visitare l’Iraq, non appena sarà possibile. Apprezzo l’impegno di monsignor Andreatta e l’intenzione dell’ORP di organizzare altri pellegrinaggi nella storica Ur, portando i visitatori anche nelle città di Najaf, Babilonia e Baghdad. A questo proposito il 27 marzo scorso è stato firmato un memorandum
d’intesa tra il Ministero Iracheno del Turismo e delle Antichità e l’ORP: un accordo bilaterale che inquadra le possibilità di effettuare pellegrinaggi in Iraq, in particolare nel Sud del Paese. Cosí, per la prima volta dopo decenni, nel catalogo dei viaggi dell’organizzazione è stato incluso un itinerario iracheno. È pronta anche una road map. L’Iraq si è mostrato disponibile a facilitare l’accoglienza dei pellegrini italiani, agevolarne gli spostamenti in loco e favorirne l’alloggio in hotel in condizioni di massima sicurezza. È in programma, poi, tra maggio o giugno prossimi, un’altra visita dei fedeli dell’Opera Romana Pellegrinaggi». Passando dal Sud dell’Iraq al Nord del Paese, ci sono, anche in quella regione, luoghi importanti per la cristianità... «L’Iraq è ricco di siti e monumenti cristiani. A Tell Kukhi (Seleucia), per esempio, una località situata 35 km a sud-ovest di Baghdad, si possono visitare le vestigia della prima chiesa fondata in Iraq, costruita nel 70 d.C. (anno della conquista di Gerusalemme da parte di Tito, n.d.r.). Stiamo parlando dello stesso periodo dell’Anfiteatro Flavio: un tempo in cui i cristiani, in Mesopotamia, esercitavano la loro confessione
con molta libertà, mentre a Roma, nello stesso periodo, venivano perseguitati. Nell’Iraq settentrionale, inoltre, ci sono monasteri importanti, risalenti ai primi secoli dopo Cristo, visitabili senza problemi di sicurezza. Si può andare in pellegrinaggio a Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno, dove la presenza cristiana è maggiore che in altre zone del paese. Si può visitare l’antica città assira di Ninive, che ospita peraltro interi villaggi cristiani. Attualmente, Nord e Sud del Paese sono sicuri, solo l’Iraq centrale, invece, non lo è (a parte Nassiriya, dove c’è il contingente militare
internazionale). Ma un giorno i pellegrini potranno visitare anche il centro; ora, però, c’è ancora molto da fare: abbiamo bisogno di alberghi e di rinnovare l’aeroporto di Nassiriya». E quali programmi ci sono, sul fronte dell’archeologia? Ci sono scavi i corso? «Attualmente nel nostro Paese lavorano archeologi italiani, tedeschi e inglesi (questi ultimi presso la chiesa di Tell Kukhi, Seleucia). Il Pontificio Istituto per l’Archeologia Cristiana, invece, ha espresso il desiderio di scavare la chiesa cristiana di Uqayser, nella provincia di Kerbala, che risale al II secolo d.C. Stiamo già
In alto: veduta aerea della ziqqurat di Ur (III mill. a.C.), che torna a essere una delle piú importanti mete turistiche dell’Iraq. Nella pagina accanto: S.E. Habeeb Al-Sadr, Ambasciatore della Repubblica dell’Iraq presso la Santa Sede, nell’incontro con «Archeo». collaborando per avviare le indagini: il ministro iracheno alle Antichità, nel corso dell’ultima visita in Italia, ha già dato la sua disponibilità. Il governo iracheno, inoltre, ha stanziato 500 milioni di dollari per la provincia di Nassiriya, destinati a ricostruire, tra l’altro, il Museo della città e un palazzo per la cultura...».
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nel segno della cooperazione
La casa degli Italiani a Baghdad
Notizie importanti giungono dalla Terra tra i due Fiumi: la riapertura, prevista per il prossimo giugno, del Museo Archeologico Nazionale dell’Iraq e un dono particolare fatto dal governo iracheno all’Italia: una casa, proprio nel cuore della capitale. Ne abbiamo parlato con Qais Hussein Rashid, Direttore dell’Iraq Museum di Baghdad. Dottor Qais, a undici anni dalla caduta del regime, quali sono le attuali politiche di salvaguardia e valorizzazione del patrimonio archeologico iracheno? Le linee guida sono state individuate e perseguite dal 2007. Ci siamo inizialmente concentrati sul patrimonio archeologico diffuso nel territorio, con azioni mirate al controllo e al monitoraggio dei siti oggetto di scavo clandestino. Contestualmente è stata lanciata una campagna per la salvaguardia delle emergenze archeologiche situate nella delicatissima area delle paludi nel Sud del Paese, alla confluenza del Tigri con l’Eufrate. Sono state istituite vere e proprie task force di ingegneri e architetti per avviare i lavori di manutenzione – ordinaria e straordinaria – dei maggiori siti archeologici. Siamo intervenuti, tra l’altro, a Ninive, Assur, Hatra e nei Khan («caravanserraglio») delle città sante di Najaf e Kerbala, alcuni dei quali saranno trasformati in musei. Ora stiamo approntando un piano per una nuova mappatura dei siti archeologici, con una verifica sul terreno delle emergenze monumentali e delle area a rischio. Particolari sforzi sono stati e sono attualmente rivolti al recupero dei reperti trafugati nelle istituzioni museali e nei siti archeologici. I risultati ci sono, e sono incoraggianti: a oggi sono stati recuperati oltre 130 000 reperti, la maggior parte dei quali proveniente da scavi illegali. Agli occhi della comunità internazionale, il Museo Nazionale rappresenta il simbolo della Terra tra i due Fiumi e delle civiltà che in essa sono fiorite. Che cosa può dirci del suo stato? Il Museo sta lentamente tornando ai suoi antichi fasti. Sono state inaugurate nuove sale – la galleria della scultura assira,
la sala dell’arte islamica, il cortile centrale – completamente restaurate e con nuovi allestimenti ed è stato ultimato e reso operativo un imponente complesso che si affianca al nucleo storico del museo; qui sono ospitate tutte le strutture di servizio, dagli uffici del personale al book shop a una caffetteria con un calendario che si prevede denso di iniziative culturali. Come anteprima, vi comunico che nel mese di giugno il museo sarà ufficialmente e permanentemente riaperto al pubblico, anche straniero. Abbiamo in animo una grande inaugurazione, a cui parteciperanno delegazioni provenienti da tutto il mondo. Qual è, oggi, il contributo della cooperazione internazionale? Parlare di cooperazione nel campo dei beni culturali significa, per noi Iracheni, parlare dell’Italia. Consideriamo il vostro Paese il partner e amico «numero 1» dell’Iraq. Grandi sforzi, anche finanziari, sono stati sostenuti dall’Italia per la riabilitazione del Museo Nazionale dell’Iraq. L’Italia ha fornito tutte le strumentazioni e i materiali per il riallestimento del laboratorio di restauro del museo, saccheggiato e irreparabilmente danneggiato nell’aprile del 2003. Sotto la supervisione di specialisti italiani sono stati restaurati reperti archeologici di incommensurabile valore storico, tra i quali il vaso di Warka, capolavoro dell’arte sumerica risalente alla fine del IV millennio a.C. Particolare attenzione è stata anche rivolta alla formazione del personale iracheno, attraverso corsi realizzati in Iraq, Giordania e Italia. In occasione di una recentissima visita in Italia, il Ministro delle Antichità e del Turismo dell’Iraq ha annunciato che il vostro governo ha fatto dono all’Italia di una casa a Baghdad. Ci può dare qualche particolare? La casa degli italiani si trova nel centro storico di Baghdad, sulla riva destra del fiume Tigri, proprio di fronte al Palazzo di alQushla, antica sede amministrativa del governo ottomano a Baghdad e successivamente del governo iracheno. L’edificio donato all’Italia, interamente restaurato nel 2007, si sviluppa su due piani e conta oltre cinquanta stanze. Sino agli anni Novanta del secolo scorso ha ospitato l’Istituto per il Restauro e la Conservazione dei Beni Archeologici della Lega degli Stati Arabi: a quei tempi l’Iraq era il Paese guida nel campo del restauro e della conservazione, tra queste mura sono stati formati restauratori e professionisti provenienti da tutto il mondo arabo. Un buon auspicio, per la futura collaborazione tra i nostri paesi. (a cura di Stefania Berlioz) In alto: Qais Hussein Rashid, Direttore dell’Iraq Museum di Baghdad. Qui accanto e in alto, a sinistra: due immagini dell’edificio donato all’Italia dal governo iracheno.
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calendario
Italia roma Spinario
Diario della città sepolta
Scritto nelle Ossa
Artegna (UD) Il Castrum Artenia nel ducato longobardo di Forum Iulii
Federico Eusebio e i protagonisti dell’archeologia albese Museo Civico «Federico Eusebio» fino all’08.06.14
Storia e fortuna Musei Capitolini fino al 24.05.14 Vivere, ammalarsi e curarsi a Roma in età imperiale Museo della Via Ostiense fino al 31.05.14
Castello Savorgnan fino al 13.11.14
Bolzano Frozen stories
Mostri
Creature fantastiche della paura e del mito Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo fino all’01.06.14
Reperti e storie dai ghiacciai alpini Museo Archeologico dell’Alto Adige fino al 22.02.15
Principi Immortali
I fasti dell’aristocrazia vulcente Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 10.06.14
calci (pi) Kenamun, l’undicesima mummia
Gli Etruschi e il Mediterraneo
Castelnovo ne’ Monti (Re) Antichissima Bismantova
Museo di Storia Naturale fino al 29.06.14
La città di Cerveteri Palazzo delle Esposizioni fino al 20.07.14
Il sito pre-protostorico di Campo Pianelli. 150 anni di ricerche Biblioteca Comunale «Raffaele Crovi» fino al 02.11.14
La gloria dei vinti
Pergamo, Atene, Roma Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps fino al 07.09.14
La biblioteca infinita I luoghi del sapere nel mondo antico Colosseo fino al 05.10.14
Alba Il passato nel bicchiere Il Vino nell’Antico Egitto Chiesa di S. Domenico fino al 19.05.14
Qui sotto: replica di una pittura murale con suonatrice di liuto.
Qui sopra: mano in argento, dalla tomba delle Mani d’Argento di Vulci. In basso: Sheikh abd el-Qurna, tomba di Nakht. Pittura murale con scena di vendemmia e di pigiatura in un tino delle uve.
Cortona Seduzione Etrusca
Dai segreti di Holkham Hall alle meraviglie del British Museum Palazzo Casali fino al 31.07.14
firenze Cortona, l’alba dei principi
Museo Archeologico Nazionale fino al 31.07.14
Qui sopra: sezione di una tomba a incinerazione con ossuario della necropoli di Campo Pianelli a Bismantova.
A sinistra: cinerario in bronzo, da Cortona. Fine del VII sec. a.C. 16 a r c h e o
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
Francia milano Da Gerusalemme a Milano
parigi Io, Augusto, imperatore di Roma
Imperatori, filosofi e dèi alle origini del cristianesimo Civico Museo Archeologico fino al 20.06.14
Grand Palais fino al 13.07.14
Germania
montesarchio Rosso Immaginario
karlsruhe L’impero degli dèi
Il racconto dei vasi di Caudium Museo Archeologico del Sannio Caudino fino al 30.09.14
Iside-Mitra-Cristo. Culti e religioni nell’impero romano Badisches Landesmuseum fino al 18.05.14
pescara Grandi Madri Grandi Donne
Percorsi d’Arte dalla Preistoria al Rinascimento Museo Casa Natale di Gabriele d’Annunzio fino al 30.06.14
Gran Bretagna Londra I Vichinghi
orvieto Sethlans
Vita e leggenda The British Museum fino al 22.06.14
I bronzi etruschi e romani nella Collezione Faina Museo «Claudio Faina» fino al 31.08.14
Paesi Bassi
San Giovanni in Persiceto (Bo) Sotto gli auspici dell’archeologia»
leida Medioevo dorato
Rijksmuseum van Oudheden fino al 26.10.14
Raffaele Pettazzoni: testi, documenti, reperti Palazzo Comunale fino al 30.06.14
berna Le palafitte
Villa Adriana tra classicità ed ellenismo Antiquarium del Canopo fino al 02.11.14
Ai bordi dell’acqua e attraverso le Alpi Museo Storico di Berna fino al 26.10.14
Treviso Magie dell’India
USA
Dal tempio alla corte, capolavori dell’arte indiana Casa dei Carraresi fino al 31.05.14
e il Patrimonio ritrovato Museo Archeologico Nazionale fino al 31.05.14
zuglio (ud) In viaggio verso le Alpi
Qui sopra: spillone vichingo in oro, argento e ambra, da Hunterston (Scozia).
Svizzera
tivoli-Villa Adriana Adriano e la Grecia
vulci I Predatori dell’Arte a Vulci
A sinistra: busto in argento di Giove Dolicheno.
New York L’ago di Cleopatra
The Metropolitan Museum of Art fino all’08.06.14 Qui sopra: formella con busto femminile. Dinastia Gupta.
Itinerari romani dell’Italia nord-orientale diretti al Norico Civico Museo Archeologico Iulium Carnicum fino al 31.08.14
Regni perduti
Sculture indo-buddhiste dell’asia sud-orientale antica. V-VIII secolo The Metropolitan Museum of Art fino al 27.07.14 A destra: statua in arenaria di Ganesa, dal Vietnam centrale, fine del VII-inizi dell’VIII sec. a r c h e o 17
l’archeologia nella stampa internazionale Andreas M. Steiner
EX ORIENTE… OLEA Secondo l’opinione comune, e non senza buoni motivi, l’ulivo è tradizionalmente considerato una pianta tipicamente mediterranea. Eppure, come sembra dimostrare una ricerca congiunta dell’Istituto di Biogenetica e Biotecnologia di Teheran e dell’Istituto di Bioscienze e Biorisorse di Perugia, il primato della complessità genetica di questo albero spetterebbe nientemeno che all’Iran. I risultati delle indagini, riportati in
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un articolo apparso nelle pagine scientifiche del quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, ricordano che, se l’ulivo è stato coltivato nei Paesi del Mediterraneo orientale già da piú di 5000 anni, esso apparve nelle terre dell’antica Persia almeno da 4000 anni. Nel X e XI secolo d.C. la coltivazione dell’ulivo in quella terra giunse alla sua massima fioritura, mentre oggi essa è circoscritta alla regione intorno al Mar Caspio. Dal confronto delle analisi molecolari eseguite su campioni iranici e mediterranei emerge la stretta parentela tra i due ceppi: quello iranico, però, ha evidenziato una propria, separata linea evolutiva, caratterizzata, inoltre, da una varietà genetica notevolmente superiore rispetto alla variante mediterranea.
L’analisi genetica degli ulivi persiani offre importanti suggerimenti circa le loro origini: abituati da millenni a dover crescere in un clima estremamente arido, caratterizzato da precipitazioni annue inferiori ai 300 mm, essi sono, inoltre, esposti a escursioni termiche che, nel corso dell’anno, variano dagli 8 gradi sotto zero del periodo invernale a picchi che, nella stagione estiva, raggiungono i 46 gradi. Queste antiche e resistentissime piante sono ancora troppo trascurate – come spiegano gli studiosi – mentre rappresentano una riserva biogenetica preziosa, qualora si ponesse la necessità, niente affatto remota, di dover allevare una nuova specie in grado di resistere ai mutamenti climatici prossimi venturi.
scavi • leopoli-cencelle
nellA CITTà di leonE di Letizia Ermini Pani, Maria Carla Somma e Francesca Romana Stasolla
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I resti della cinta muraria di Leopoli-Cencelle, città fondata nell’854 da papa Leone IV per accogliere gli abitanti di Centumcellae (l’odierna Civitavecchia) in fuga dalle incursioni saracene. Il sito è oggi compreso nel territorio del Comune di Viterbo.
minacciati dalle incursioni saracene, gli abitanti di centumcellae (sulla costa laziale) chiedono aiuto a papa leone IV, che, nell’854, per loro fonda una nuova città. ecco la storia di leopoli, un centro altomedievale racchiuso da una cinta muraria che ancora oggi domina il paesaggio dell’entroterra di civitavecchia. e la cui vita quotidiana viene raccontata dagli scavi archeologici in corso
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Saraceni che tra l’VIII e il IX secolo imperversavano lungo le coste tirreniche con scorrerie e saccheggi non immaginavano certo che le loro gesta avrebbero indirettamente dato vita a una nuova città, destinata a durare nel tempo. Il Liber Pontificalis della Chiesa romana – cronaca annalistica delle gesta dei papi – racconta che gli abitanti di Centumcellae (l’odierna Civitavecchia), il grande porto romano a nord di Roma, particolarmente colpiti dagli attacchi arabi, si rivolsero a papa Leone IV in cerca di soccorso. Il papa fondò per loro una nuova sede, 12 miglia all’interno della costa, su una collina dotata,
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scavi • leopoli-cencelle
DOVE SI TROVA CENCELLE Leopoli-Cencelle si trova a nord di Roma, nel territorio del Comune di Tarquinia (VT), lungo una derivazione che si diparte al km 80 della via Aurelia. Nascosta tra i colli, emerge con le sue mura solo alla fine delle strade, solo parzialmente asfaltate, che si percorrono seguendo l’apposita segnalazione. È attualmente in proprietà privata. Sorge su un’altura rocciosa, articolata in due colli: il primo scelto per la nuova città, il secondo a settentrione, denominato Uliveto di Cencelle; ambedue sono interessati da insediamenti preesistenti, il primo in età etrusca, il secondo nella piena età del Bronzo, con continuità d’uso in epoca etrusca e in età tardo-repubblicana. L’intera collina è posta in vicinanza del fiume Mignone, che le corre a ovest, e del rio Melledra, che la circonda da ovest a nord, garantendo a breve distanza non solo acqua, ma anche sabbia per l’edilizia, come hanno documentato le analisi effettuate sulle malte utilizzate nella costruzione dei suoi edifici. La comunicazione era assicurata da due assi viari, l’Aurelia lungo la costa e la Cornelia nell’entroterra, che ripercorreva il tracciato etrusco verso Tarquinia. A questi si doveva unire una rete di percorsi di raccordo per gli insediamenti minori, in un rapporto tra Viterbo l’entroterra e l’attività portuale della romana Centumcellae, poi Rieti Tarquinia Civitas vetula. Il territorio circostante la civitas Centumcellensis Leopoli-Cencelle doveva essere adatto all’attività agricola, come documenta in età Civitavecchia classica la presenza, attestata archeologicamente, di numerose Tivoli Roma villae rustiche, accanto ad altre di maggiore lusso ubicate lungo la costa. Per il rifornimento del legname, necessario per la vita Ostia Frosinone quotidiana, fuoco e attrezzi, e anche per l’edilizia, non dovevano Anzio mancare boschi e selve, ancora oggi presenti in un paesaggio che Latina Mar ha mantenuto in buona parte le caratteristiche antiche; il territorio Tirreno offre cave per il materiale utilizzato nelle strutture della città.
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riporta la fonte scritta, di acqua e di legna, ben protetta naturalmente grazie alla sua conformazione orografica. Il 15 agosto dell’854 una solenne processione, guidata dal pontefice, effettuò per tre volte il giro delle mura e benedí la città, concludendosi con le rogationes, i donativi al clero e al popolo, secondo il cerimoniale imperiale. La città, dotata di due chiese, una dedicata a san Pietro e l’altra a san Leone, venne chiamata Leopoli, dal nome del suo fondatore. L’identificazione di questo racconto con il sito archeologico è avvenuta alla fine dell’Ottocento, quando sui Monti della Tolfa venne ritrovata una grande iscrizione monumentale. Sia pure in pezzi e parzialmente mutila, era inequivocabilmente riIn alto: la tenuta di Cencelle, dal Catasto Cingolani. XVII sec. Roma, Archivio di Stato. A destra: planimetria del sito, con le piú importanti strutture a oggi individuate. In basso: un momento dello scavo della chiesa romanica di S. Pietro (XII sec.) e dell’annessa area cimiteriale in uso tra il XII e la prima metà del XV sec.
feribile a papa Leone IV, come riportava il monogramma su una delle due anse laterali e come confermato dalla ricostruzione del testo, che si riferiva chiaramente alle parole del Liber Pontificalis riservate alla città (vedi box a p. 26).
le prime ricerche La città rimase di fatto inesplorata, pur essendo oggetto di interessi locali e costituendo una parte integrante della storia di Civitavecchia, fino al 1994, quando l’Università di Roma «Sapienza», in collaborazione con altre istituzioni, come l’Università di Chieti e l’École Française de Rome, avviò la prima campagna di scavi archeologici, che, da allora, si sono susseguiti a cadenza annuale, portando a scavare centi-
Area del palazzo pubblico Chiesa di S.Pietro Ceramista
Fornace per campana Cimitero medievale Mugnai Tavernieri
Fabbri Fabbri
Porta orientale con epigrafe monumentale
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scavi • leopoli-cencelle
L’ISCRIZiONE DI PAPA LEONE IV A suggello della sua fondazione, papa Leone IV volle far inserire nella muratura della porta orientale della città, la principale, un’iscrizione monumentale, con due anse che ricordano il suo nome e la sua carica. Eccone il testo: Leonis q(uarti) papae Quamvis in parvo co[ns]stat condita [loco] urbs haec nulla hominum se[d bel]la nocere va[lebunt] desinat hinc bellato[r atr]ox iam desinat hostis non hanc ut [quisquam valea]t urbem violare. («Benché questa città si erga fondata in un piccolo spazio, tuttavia nessuna guerra di uomini sarà in grado di nuocerle; si ritiri di qui il feroce soldato, si ritiri ormai il nemico in quanto che nessuno può violare questa città»). La grande lastra ansata fu recuperata all’inizio del secolo scorso dal marchese Benedetto Guglielmi, proprietario della tenuta che comprendeva l’insediamento urbano di Leopoli-Cencelle. Collocata dapprima nel palazzo comunale di Civitavecchia, ove fu colpita nel bombardamento dell’ultimo conflitto mondiale perdendo alcune sue parti, è stata poi conservata nel locale Museo Archeologico. La lastra è incorniciata da una treccia viminea che denuncia la sua provenienza da botteghe di marmorari di età carolingia, in stretta connessione con il monogramma papale – Leonis papae – inciso sulle sue ansae, che le danno un valore celebrativo. Il testo dell’epigrafe, composto verosimilmente nello scriptorium pontificio, richiama due passaggi della biografia di Leone IV nel Liber Pontificalis, il riferimento allo spazio ristretto della città – in parvo loco (epigrafe), loci angustia (Liber Pontificalis) – e l’augurio che questa non sia mai violata – non hanc ut quisquam valeat urbem violare (epigrafe), ne umquam ab hostibus capiatur vel invagatur (Liber Pontificalis) – confermando quindi la diretta committenza papale. Al momento della riedificazione delle mura, nella città comunale, l’epigrafe fu reinserita nella ristrutturazione della porta, come elemento identificativo e celebrativo della città, in posizione inclinata verso l’osservatore, cosa che ne ha provocato il taglio del bordo inferiore. 26 a r c h e o
naia di studenti e di archeologi. A distanza di vent’anni, la storia della città è nota almeno nelle sue linee generali, ed è stata riscritta alla luce dell’archeologia. Proviamo allora a ripercorrerne i momenti topici.
La fondazione La città voluta da Leone IV è stata programmata da un magister militum di nome Pietro, e quindi secondo le regole delle città fortificate canonizzate alla metà del VI secolo dagli architetti dell’imperatore Giustiniano e che insistevano sui requisiti di sicurezza, di inaccessibilità, di disponibilità di materie prime, a cominciare dall’acqua, di controllo del territorio. Effettivamente, Leopoli presenta tutti questi requisiti, dal momento che sorge su una modesta altura con grande visibilità fino alla costa. Non a caso, già in età etrusca, vi era stato fondato un insediamento, di cui si conservano pochi tratti di mura, inglobati nelle successive medievali, e i resti di almeno due sarcofagi, uno dei quali con iscrizione, l’altro pressoché integro, prodotto nell’area di Tuscania. La città doveva prevedere il complesso episcopale – essendosi qui trasferito anche il vescovo di Centumcellae – posto sulla cima della collina, con una chiesa a tre navate, il battistero e la necropoli, posta fra
Sulle due pagine: fotomosaico con integrazioni grafiche dei frammenti dell’epigrafe di Leone IV, inserita nella porta orientale di Leopoli a celebrarne la fondazione.
l’aula di culto e le mura. Proprio la presenza di un’area funeraria intramuraria rappresenta uno degli elementi di riflessione sulle modifiche ormai introdotte dai nuovi canoni urbanistici, che vanno riferiti anche all’assetto viario, di cui sono state riconosciute alcune direttrici. L’edilizia abitativa doveva essere in larga parte in legno, capanne semicircolari con fosse per la conservazione delle derrate annesse. Il passaggio all’uso della pietra nell’edilizia privata, che prevede periodi di uso misto dei due tipi di materiale, sembra concluso alla fine dell’XI secolo, subito prima della fase di ristrutturazione della città. Gli abitanti della romana Centumcellae che si erano trasferiti nel nuovo centro faticarono ad adottarne il nome; ad appena ottant’anni dalla fondazione, nella documentazione Leopoli è già divenuta castrum Centumcellensis, da cui la corruzione, nel tempo, in Cencelle. Questa situazione determinò il cambiamento di denominazione nella città portuale, che divenne Civitas Vetula (Civitavecchia), vecchia rispetto alla nuova Cencelle.
Veduta aerea di parte del sito, con i resti delle mura, del palazzo pubblico, e della chiesa di S. Pietro.
nasce il comune Il costituirsi di un governo comunale fu per Cencelle l’occasione di una riorganizzazione urbanistica, i a r c h e o 27
scavi • leopoli-cencelle
cui effetti sono ben visibili anche a seguito della ricerca archeologica. All’inizio del XII secolo il polo religioso fu riorganizzato; nell’area del complesso episcopale, decaduta la dignità vescovile nel riassetto delle diocesi altolaziali, trova ora posto una nuova struttura. Nel 1108 il vescovo di Tuscania effettua un donativo in favore del priore di Cencelle ad templum edificandum, per la costruzione – o la ricostruzione – di un edificio di culto. I dati architettonici e archeologici concorrono a fissare questa datazione per l’avvio del cantiere del nuovo complesso religioso romanico.
la campana di guido Rispetto alla chiesa altomedievale, l’orientamento dell’aula di culto venne ruotato di 90°, ponendone l’abside a sud, cosí che la facciata venisse a trovarsi verso la sede del potere politico della città. L’area venne quindi completamente ridisegnata: di fronte al palazzo pubbliIn alto: i resti della chiesa di S. Pietro. In basso: i resti del palazzo pubblico.
co si elevava la chiesa a tre navate, le cui absidi si estendevano al di fuori del circuito murario, ponendosi quindi come un elemento di impatto paesaggistico di particolare rilevanza, ben visibile a chi si avvicinava alla città. A sinistra dell’aula di culto si elevava il campanile, la cui campana era con ogni probabilità stata fusa nella grande fornace aperta nella navata sinistra, marcando il pavimento con il profilo del forno, a menzione di un’operazione fusoria che aveva una valenza non casa-torre
palazzo pubblico
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solo tecnologica, ma anche rituale. Non a caso, un Guido campanarius è ricordato nel 1220 tra i cittadini di Cencelle. All’interno, la parte terminale della navata destra ospitava l’apparato per la somministrazione del battesimo, incentrato attorno a una vasca ottagonale di grandi dimensioni, il cui pavimento, in lastre di mamo bianco di spoglio, riutilizzava parte dell’arredo scultoreo altomedievale. Anche in questo caso, la decisione di disporre alcune delle lastre con la torre
faccia decorata verso l’alto, quindi pienamente visibile, risponde a criteri di scelta simbolica della trasmissione del passato, piuttosto che di estetica.
nella necropoli A sinistra della chiesa si estendeva una grande area funeraria, in uso tra il XII e la fine del XIV-prima metà del XV secolo, con accesso diretto dalla strada. La necropoli prevedeva tombe privilegiate, edificate in muratura e collocate a ridosso della chiesa, una delle quali addirittura in facciata e sormontata da un arcosolio, e sepolture comuni, disposte in sarcofagi, in casse litiche, fino alle semplici fosse nella nuda terra. I defunti, in genere avvolti in sudari, presentano modesti corredi funerari, in genere limitati a manufatti di abbigliamento, e si accalcano in spazi ristretti. A partire dal XII secolo, l’architetIn alto: stoviglie da mensa in maiolica arcaica, decorata con i classici colori del blu/verde e del bruno. XIV sec.
le scodelle di BENENCASA Benencasa è un un produttore e forse anche rivenditore di ceramiche, che, nella prima metà del XIII secolo, aveva la sua attività a Cencelle; il suo nome e la sua qualifica professionale compaiono in un documento del 1220 che, fra l’altro, elenca i rappresentanti della comunità cittadina. La sua fabbrica di ceramiche si trovava in una posizione privilegiata, al centro della città, fra la basilica romanica e la torre, ed era ospitata in un grande edificio quadrangolare, forse solo parzialmente coperto. La definizione di scutellarius (fabbricante di scodelle) si diffonde alla fine del XIV secolo in riferimento ai produttori di maioliche e pertanto il nostro ceramista doveva produrre ceramiche rivestite e decorate, ben presenti in area laziale proprio corso del XIII secolo, a cominciare dalla ceramica laziale. Probabilmente proprio questo tipo di produzioni rivestite consentí alla bottega di avviare una produzione di maiolica arcaica, il cui mercato si avvia dalla metà del XIII secolo. Attorno a questa data l’impianto produttivo viene ristrutturato e finisce con l’essere ospitato al piano terreno di un complesso palaziale a due piani. Vengono creati tre ambienti diversi legati alle varie fasi di lavorazione: preparazione dell’argilla, con grandi vasche a caduta per la decantazione, tornitura e cottura di manufatti, decorazione e presumibilmente vendita. La presenza di un’officina in pieno centro urbano è un fenomeno noto anche in altre città – per esempio a Pisa, ma anche nella vicina Tuscania –, ma attesta la relazione tra centri produttivi e potere cittadino, che potrebbe essere stato l’artefice della riorganizzazione della bottega in forme piú ampie e che consentivano una maggiore produzione, destinata a un mercato piú ampio di quello urbano. Un evento calamitoso, ricondotto al terremoto del 1349, provocò la defunzionalizzazione della bottega e la fine della produzione. Il ricordo della lavorazione resta in un piccolo boccale, intenzionalmente deposto all’interno di una della vasche di decantazione dell’argilla, riempite di sabbia al momento della dismissione. a r c h e o 29
scavi • leopoli-cencelle
I reperti archeologici provano che a Cencelle l’attività artigianale doveva essere molto intensa
tura residenziale prevede case-torri che si affiancano, o sono affiancate poco dopo la loro costruzione, da altri corpi di fabbrica, dando l’impressione di costituire il nucleo di aggregazioni di edifici che potrebbero aver costituito la residenza di consorterie urbane raccolte attorno a famiglie di spicco della comunità. Non mancano i palazzi, a due piani, con elementi decorativi nelle rifiniture delle aperture. Intorno al XIII secolo, a Cencelle la vita doveva fervere. Un documento del 1220 riporta l’atto di sottomissione effettuato dai cittadini di Cencelle nei riguardi di Corneto.
case a schiera Gli scavi hanno evidenziato anche aree del tessuto urbano frutto delle lottizzazioni bassomedievali in cui l’edilizia abitativa è rappresentata da case a schiera sviluppate su due piani. Questa tipologia sembra caratterizzare molte parti del tessuto urbano, In questa pagina, dall’alto: ferri di cavallo e staffe; un boccale da litro in maiolica arcaica; frammenti di ceramica; dadi e altri accessori da gioco; manici di coltello.
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soprattutto lungo le arterie viarie principali, costituendo la risposta edilizia alla crescita della popolazione e alle necessità scaturite dal forte incremento delle attività produttive e commerciali che caratterizza la vita cittadina almeno fino alla metà del XIV secolo (vedi box alle pp. 32-33). La città comunale di Cencelle ci è nota attraverso fonti di diverso tipo, la cui integrazione consente di comprenderne almeno le linee generali. Particolarmente interessante a questo proposito è un documento del 2 settembre 1220 che sancisce la sottomissione della comunità cencellina al comune di Corneto (l’odierna Tarquinia), alla presenza dell’intera comunità, sotto la guida del suo sindaco, Henricus de Accettante. L’interesse di questa fonte scritta sta nella restituzione di un’articolazione sociale del piccolo Comune molto ricca, almeno in confronto con altre comunità dell’area tolfetana, e nella possibilità di comparazione con i dati archeologici. Sappiamo quindi della presenza di due marchesi, di un magister, di un giudice, i quali ci sarebbero altrimenti ignoti sulla base della documentazione archeologica. Noti anche da dati materiali sono invece alcuni artigiani, che dovevano rappresentare il ceto produttivo della città: sono infatti presenti due fabbri, Matheus, figlio di Alexii, e Guarnerius; un fabbricante di stoviglie, Benencasa, definito appunto scu-
tellarius (vedi box a p. 29); un calzolaio, Henricus; alcuni mugnai, Martinus, Guidectus, Guido e un Benencasa Guidonis; alcuni tavernieri, Adamus Blasius Iohannis, Ranaldus Iohannis e uno Ioannis, probabilmente padre degli altri due.
la lavorazione dei metalli La realtà archeologica è stata, in questo caso, sorprendentemente generosa nel restituire i luoghi nei quali questi artigiani dovevano esercitare i loro lavori. Nel quartiere sud-orientale della città sono state rinvenute almeno due aree di lavorazione dei metalli, con resti degli impianti produttivi e delle strutture per la lavorazione del ferro e di leghe metalliche; arricchiscono la documentazione archeologica il ritrovamento di lingotti, di materiali da rifondere, di scorie di fusione, oltre che di un buon numero di manufatti certamente frutto del lavoro dei fabbri. La loro collocazione all’ingresso della porta principale della città favoriva sicuramente anche l’attività di ferratura degli animali, che in questo modo non dovevano attraversare il centro abitato: anche in questo caso, il ritrovamento di ferri per cavalli e muli è un importante indicatore materiale. Nel centro della città si trovava invece l’impianto di lavorazione di Benencasa, il ceramista, che operava in una complessa struttura proprio In questa pagina, dall’alto: forbici, fuseruole e ditali; uno scacco in osso in forma antropomorfa e alcuni dadi; scorie di fusione e chiodi.
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scavi • leopoli-cencelle A destra, sulle due pagine: un tratto delle mura che cingevano la città fin dalla sua fondazione, in gran parte ristrutturate tra il XII e XIII sec. Qui sotto: ricostruzione del sistema di raccolta delle acque piovane. In basso, sulle due pagine: resti di case a schiera bassomedievali a due piani.
in connessione con la sede del potere politico di Cencelle, producendo ceramica non rivestita in una prima fase, quindi maiolica arcaica, con una diffusione sicuramente piú ampia del mercato cittadino.
giochi da taverna Per i tavernieri, invece, non abbiamo informazioni sulla loro collocazione, che pure dobbiamo prevedere diffusa, stante il loro numero; in uno degli ambienti lungo la via principale della città, quella che dalla porta orientale sale verso il centro, una concentrazione di boccali da litro e di dadi da gioco farebbe ipotizzare la collocazione di una taverna, attività che spesso non lascia tracce architettoniche. Ben documentata è l’attività dei mugnai e la presenza di strutture molitorie è attestata all’esterno delle mura, lungo il fiume Mignone e lungo il rio Melledra, entrambi in prossimità della città; solo in seguito al terremoto della metà del XIV secolo assistiamo all’allestimento di impianti per la macinazione dei cereali entro le mura, segno, forse, che i mulini extraubani avevano subito danni irrecuperabili, almeno in tempi brevi. Di particolare interesse risulta la
i modi dell’abitare Al momento della fondazione, almeno alcune parti dell’area urbana presentavano edifici in materiale deperibile: capanne di forma ellittica, affiancate all’esterno da silos per la conservazione delle derrate, una delle quali è stata individuata nella sua interezza. Entro l’XI secolo tale struttura è stata sostituita da un’altra, anch’essa lignea, ma di forma rettangolare, fornita di un focolare; nel XII secolo viene sostituita da un edificio in muratura, forse un’abitazione plurifamiliare. La grande ristrutturazione urbana che si avvia nel XII secolo porta alla fioritura di un’ampia gamma di abitazioni che rispecchia la stratificazione sociale della popolazione e costituisce un eccezionale campionario dell’edilizia abitativa bassomedievale. Tra le prime abitazioni attestate per questa fase vi è una abitazione plurifamiliare, a un solo piano con un pilastro centrale funzionale al sostegno del tetto, ma anche alla partizione dello spazio interno. Il XII secolo è caratterizzato dalla presenza delle case-torri, caratteristiche delle città medievali, espressione delle classi elevate sia aristocratiche che legate alla nascente classe imprenditoriale, delle quali esalta nel suo sviluppo verticale il desiderio di imporsi anche visivamente sullo spazio urbano e, al tempo stesso, di garantirsi buone condizioni di difesa in caso di necessità. Le sue peculiarità sono lo sviluppo verticale, articolato in piú 32 a r c h e o
presenza di uno joculator, Ranucius Berte; si tratta di un personaggio dal profilo complesso, tra il menestrello, il musicista, il poeta, l’organizzatore di eventi ludici e insieme rappresentativi della città e del suo potere. Il fatto che il Comune di Cencelle potesse prevedere una figura stabile di questo tipo, ancorché, immaginiamo, di profilo modesto, denota una relativa floridezza della città e il rango dei suoi abitanti. In effetti, comparando il profilo sociale della popolazione di Cencelle con quella degli altri centri vicini, emerge una preminenza
di professionalità legate alle attività artigianali, piuttosto che esclusivamente a quelle agricole e pastorali, insieme alla presenza di figure di una certa levatura sociale. Indizi di un certo benessere e, soprattutto, di un’articolazione sociale abbastanza ampia sono ricavabili anche dai manufatti rinvenuti nelle aree abitative oppure utilizzati come corredo nelle sepolture medievali: la presenza di bottoni decorati e rivestiti in argento o in oro, di cinture decorate, di gioielli, sebbene modesti, costituisce il riscontro archeologico del documento scritto e
chiarisce i modi con i quali la società di Cencelle esprimeva la sua strutturazione interna.
sulla via del declino La città comunale di Cencelle appare interessata dal terremoto del 1349, come molti centri del Lazio settentrionale, ma si riprende e la realtà archeologica testimonia di numerosi restauri volti a mantenerne la fisionomia urbana. Cencelle fa parte del Patrimonium Tusciae e ne segue le vicende storiche ed economiche, soprattutto a seguito del trasferimento della sede papale ad Avignone. L’in-
tera area, stante anche la difficoltà di una stabilizzazione del potere di controllo del territorio da parte papale, che subiva ripetutamente abusi e usurpazioni da parte di singoli, diventa instabile e poco sicura. Vari centri minori finiscono con l’essere di fatto poco gestibili e quindi ceduti a gruppi familiari; la stessa Cencelle, nel 1396, passa dal papa ai di Vico, dietro il simbolico compenso di un falcone all’anno. Dal 1414 la città viene inglobata nei possedimenti di Angelo Lavello Tartaglia, a cui viene riconfermata con atti successivi nel 1419 e 1421. A partire dalla metà del XV secolo tutta l’area dei Monti della Tolfa viene interessata da un importante fenomeno, l’avvio dello sfruttamento dell’allume. Questa sostanza, indispensabile nell’industria tessile, per fissare i colori alle stoffe, ma utilizzato anche in altri settori, come la realizzazione di miniature e la lavorazione del cuoio, non era piú disponibile liberamente in Occidente dopo la battaglia di Lepanto del 1453 e la conseguente occupazione turca dei territori di estrazione. L’individuazione di giacimenti di alunite sui Monti della Tolfa diede l’avvio a un’imponente operazione di estrazione e di trasformazione del
piani, solitamente divisi da solai lignei, ognuno occupato da un unico ambiente, con scale solitamente in legno che garantivano il collegamento da un piano all’altro; la copertura poteva essere terrazzata, soprattutto se erano fornite di merlatura. Nel caso di Cencelle non sono isolate nello spazio, ma sono affiancate da altri corpi di fabbrica, dando l’impressione di costituire il nucleo di aggregazioni di edifici che potrebbero aver costituito la residenza di consorterie urbane raccolte attorno a famiglie di spicco della comunità. L’edilizia abitativa di prestigio prevede anche palazzi, caratterizzati da un volume compatto, articolato su due piani indipendenti: quello terreno, che può svilupparsi in piú ambienti con accesso dalla strada, e un piano superiore, raggiungibile tramite un profferlo (scala esterna), che doveva avere una funzione non solo abitativa, ma anche di rappresentanza delle maggiori cariche cittadine. Frutto delle lottizzazioni bassomedievali sono le case a schiera a due piani: quello terreno leggermente interrato con accesso dalla strada poteva esser adibito ad attività artigianali e/o commerciali, mentre il piano superiore era riservato all’abitazione vera e propria. Tale tipologia risponde alla crescita della popolazione e alle necessità scaturite dal forte incremento delle attività produttive e commerciali che caratterizza la vita cittadina almeno fino alla metà del XIV secolo. a r c h e o 33
scavi • leopoli-cencelle
UN luccio per SIGILLO Un luccio campeggia in uno sfondo di trifogli in un typarium in bronzo rinvenuto a Cencelle. Il tipario è una matrice piatta in bronzo, con disegno incavato, che, premuto su cera, genera un sigillo; si tratta di un oggetto strettamente personale, utilizzato per operazioni di autentica, tanto che termina con una presa cilindrica traforata a forma di trifoglio, allo scopo di consentire il passaggio di una catenella di sicurezza. Nel nostro caso doveva appartenere a un privato, che deve averlo perso, o a cui è stato rubato. La legenda lungo il bordo indica il nome del proprietario, un tal Bricaut o Brichut de Chaudere, proveniente dall’area francese e venuto in Italia tra la fine del XIII e il XIV secolo. La scelta del luccio come elemento identificativo fa di questo tipario un esemplare cosiddetto «parlante»: infatti, nel francese dell’epoca, il luccio è detto brochet, che deriva da broche (latino broccus), nome che si avvicina a quello del suo possessore, il Brichut della legenda. Il fatto che ne venga indicato solo il nome e non l’eventuale qualifica prova che siamo di fronte a un sigillo personale. Rimane da chiarire la ragione per cui un francese di un certo rango si sia trovato a Cencelle nei secoli centrali del Medioevo. La sua presenza va forse inquadrata nell’ambito della dominazione angioina di Roma, fra il 1263 e il 1335. Era provenzale anche il castellano di Civitavecchia, i cui grascierii (funzionari addetti ai rifornimenti annonari), nel 1383, molestarono a tal punto gli abitanti di Cencelle da richiedere un intervento del papa Martino IV direttamente presso Carlo I d’Angiò. Come eredità di questa presenza, tra il 1304 e il 1370, due castellani di Cencelle hanno nomi di origine francese. In tale orizzonte politico e culturale, anche una città posta all’interno dei Monti della Tolfa poteva giocare un ruolo non secondario; non si tratta, infatti, di un centro di passaggio, dove un viaggiatore può far scalo casualmente, al contrario ogni presenza è attestazione del suo inserimento nel complesso quadro altolaziale.
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Nella pagina accanto: l’area presbiteriale della chiesa romanica di S. Pietro, costruita sulla preesistente basilica. Rispetto al precedente edificio sacro, la nuova chiesa venne ruotata di 90°, in modo tale che la facciata venisse a trovarsi di fronte al palazzo comunale. In basso: il typarium (sigillo) in bronzo rinvenuto nell’abitato, con l’immagine di un luccio, di proprietà del francese Bricaut o Brichut de Chaudere, come indicato nella scritta lungo il bordo.
minerale in allume, fino al suo trasporto attraverso i porti tirrenici, in particolare quello di Civitavecchia. Lo sviluppo di questa attività modificò le dinamiche del popolamento di tutta l’area, poiché i luoghi di estrazione tendevano ad accentrare molta della popolazione. La documentazione scritta ci attesta che nel 1532 Cencelle, ormai definita come tenuta, è affittata al cardinal Farnese e, nel 1582, passa definitivamente alla Camera Apostolica.
le «tenute» La menzione della tenuta di Cencelle si colloca in relazione alla presenza, nel territorio, di molte aziende agricole, definite appunto «tenute», che sostituiscono la precedente organizzazione agraria e sono collegate alla produzione dell’allume. I catasti seicenteschi, infatti, codificano con precisione il numero e la funzione di tali tenute, che potevano essere prese in affitto dai concessionari delle allumiere di Tolfa; ognuna era specializzata nel fornire materiali o servizi per tali impianti: nel caso di Cencelle, si trattava di legname, in analogia con altri centri. La realtà archeologica ha evidenziato la persistenza di un abitato e di attività almeno fino al XVII secolo, e la presenza di numerosi manufatti in ferro relativi a strumenti agricoli, asce, picconi, oltre che ferri da cavallo e soprattutto da mulo appare compatibile con lo sfruttamento boschivo e con il relativo trasporto del legname verso le allumiere, che doveva avvenire appunto a dorso di mulo. Lo studio delle fasi piú tarde della vita nella città è di particolare interesse proprio per la trasformazione di un centro urbano in un centro gestionale rurale. Tracce di frequentazione sono diffuse in tutta l’area interna alle mura, dove le strutture abitative dovevano essere ancora utilizzate, ma senza ulteriori ristrutturazioni. Cencelle subí un forte decremento demico, in quanto l’attività delle
allumiere rappresentava un potente attrattore della popolazione dell’area tolfetana, per le opportunità di lavoro che offriva, ma una quota di popolazione residente è comunque attestata dal dato archeologico. Gli scavi hanno documentato profonde trasformazioni nell’area sommitale della collina, quella occupata dalla chiesa di S. Pietro, ormai defunzionalizzata sotto il profilo liturgico, ma utilizzata proprio come centro dell’azienda agricola. Le strutture della chiesa, non piú tale, vengono private di accessi, che, a cominciare dalla porta principale, verso il centro della città, appaiono ormai murati; sui tre lati dell’edificio, quelli che risultano interni all’area urbana, si scava un fossato (operazione che ha asportato l’intero deposito archeologico) che arriva al piano geologico. Attorno ai muri perimetrali della chiesa viene innalzata una muratura continua realizzata a secco, senza malta, e inclinata a scarpa. Le modalità costruttive di questo muro, che utilizza conci di riutilizzo privi di alcun legante, ma allettati nella terra che riempie lo spazio fra questo e i mu-
ri perimetrali della chiesa, la sua modesta altezza, la mancanza nelle murature della chiesa di ogni traccia di cedimento strutturale, sono elementi che fanno scartare una sua funzione statica. L’edificio, ormai privo di connotazione religiosa, si erge isolato, difficilmente accessibile, se non da una piccola porta laterale al presbiterio, mentre un accesso di maggiori dimensioni, che consente il passaggio anche di un carro, viene aperto nella curva dell’abside maggiore della cripta. Tale passaggio permette di accedere alla cripta, e attraverso le scale al piano superiore, quello dell’ex presbiterio della chiesa, direttamente dall’esterno delle mura.
da chiesa a deposito L’impressione è che l’ormai defunzionalizzato edificio ecclesiastico sia stato trasformato nel centro gestionale di un’azienda agricola, destinato quindi anche all’immagazzinamento delle derrate e alla conservazione degli attrezzi, che, sorgendo ormai in campagna, ha necessità di avere garantita la sicurezza, qui ottenuta mediante l’isolamento della
struttura mediante il fossato e il lungo muro a scarpa e la riduzione degli accessi dalla parte dell’abitato. L’ormai ex chiesa è ora un edificio isolato, le cui navate laterali sono state parcellizzate in piccoli ambienti con tramezzi che rispettano la cadenza degli intercolumni, e che spesso hanno avuto nuove pavimentazioni in lastre di materiale litico; l’area della navata centrale, anch’essa oggetto di una almeno parziale nuova pavimentazione, era forse scoperta, come una sorta di corridoio fra piccoli ambienti. Negli spazi di risulta si impiantano aiuole per coltivazioni specializzate, almeno in alcuni casi identificate dalle analisi paleobotaniche con la pianta di sambuco, che aveva anche un utilizzo medicinale. L’area del presbiterio rimane apparentemente inalterata nelle sue strutture perimetrali, ma subisce profonde trasformazioni architettoniche e funzionali. Il crollo del pavimento del presbiterio ha di fatto sigillato una situazione stratigrafica di grande interesse, che evidenzia la presenza di una vita «a doppio registro» dell’area presbiteriale, superioa r c h e o 35
scavi • leopoli-cencelle
re, rispetto a quella dell’ex cripta, inferiore. Al piano superiore doveva vivere, in modo stabile o con frequentazione stagionale, legata al ciclo agricolo, il gestore della tenuta, come testimoniano le ceramiche rivestite che gli appartenevano.
farina di ghiande Al livello sottostante, invece, i contadini della tenuta conservavano attrezzi e olle da cucina. Proprio nella cripta è stato rinvenuto un interessante contesto archeologico, costituito dai resti di strutture combuste e da moltissimi resti archeobotanici. Le analisi vi hanno riconosciuto ghiande di quercia che hanno subito il processo di tostatura. La mancanza di carboni di quercia fa capire che alla presenza di ghiande non erano associate legna di quercia o ramaglie. Proprio la tostatura costituisce la spia interpretativa del contesto: le ghiande infatti, molto utili per l’alimentazione animale, possono essere utilizzate per il consumo umano solo dopo la tostatura, appunto: la farina di
«Vedere» Cencelle Plastico ricostruttivo della città di Cencelle in età comunale, con evidenziata l’area occupata dalla chiesa di S. Pietro e dal palazzo comunale (nel tondo).
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ghiande doveva costituire con ogni probabilità uno degli alimenti base dell’alimentazione dei contadini e dei lavoranti della tenuta. In effetti, anche altre tenute del comparto delle allumiere erano destinate alla produzione di ghiande, la cui incidenza nel consumo umano doveva avere una certa consistenza. Un’altra delle attività svolte nella tenuta, per cosí dire a latere della funzione principale dell’azienda, doveva essere legata al recupero e alla vendita di marmi antichi. Sempre nell’area del presbiterio sono stati rinvenuti molti resti marmorei, anche di cospicue dimensioni, tutti risalenti all’età romana. Si tratta di basi e di fusti di colonne, di capitelli, di iscrizioni funerarie, di fronti di sarcofagi, oltre che di moltissime lastre anepigrafi, evidentemente recuperate da scavi nel territorio attorno a Cencelle, particolarmente ricco di ville in età romana, e con ogni probabilità destinati al mercato romano, con destinazione antiquaria oppure per la meno nobile produzione di calce.
Immagini della mostra dedicata alla città di Leopoli-Cencelle, allestita fino al 27 luglio ai Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali a Roma.
dove e quando «Forma e vita di una città medievale. Leopoli-Cencelle» Roma, Mercati di TraianoMuseo dei Fori Imperiali fino al 27 luglio Orario tutti i giorni, 9,00-19.00; lu chiuso Info tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-21,00); www.mercatiditraiano.it, www.zetema.it Catalogo Fondazione CISAM, Spoleto
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scoperte • portonovo
il profumo del grano
tostato S oltre settemila anni fa, gruppi di agricoltori stanziati ai piedi del monte conero diedero vita a un impianto «industriale» per la lavorazione dei cereali. costruirono decine di forni, il cui scavo sta scrivendo una pagina inedita e affascinante della preistoria italiana
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di Cecilia Conati Barbaro
iamo nelle Marche, ai piedi del Monte Conero e a meno di 1 km dal mare, che però da qui non si vede: sono queste le coordinate essenziali del sito neolitico di Portonovo-Fosso Fontanaccia. Un insediamento che, come si dice in questi casi, rappresenta a tutt’oggi un unicum nel panorama della preistoria italiana. Gli scavi condotti nel corso degli ultimi anni hanno infatti portato alla
Portonovo (Ancona). Una veduta dell’area collinare in cui, in località Fosso Fontanaccia, è stato scoperto un sito del Neolitico antico caratterizzato dalla presenza di strutture identificabili come forni, forse destinati alla tostatura dei cereali e comunque connessi alle attività agricole. L’uso di questi impianti si colloca intorno alla metà del VI mill. a.C.
luce i resti di un impianto finora sconosciuto nella Penisola, caratterizzato dalla presenza di numerosi forni – a oggi ne sono stati localizzati 18 –, la cui funzione possiamo al momento solo ipotizzare, ma che sembra comunque riferibile alla produzione e al consumo dei cereali e di altri alimenti. Ma facciamo un passo indietro. La scoperta del sito ebbe luogo negli anni Novanta del secolo scorso per
opera di appassionati cultori della preistoria locale, i quali segnalarono una ricca concentrazione di materiali litici e ceramici alla Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche.
le prime ricerche e le ultime scoperte Per accertare la consistenza del deposito archeologico vennero, quindi, condotti alcuni sondaggi nel 1999, successivamente ampliati nel 2006 sotto la direzione di Mara Silvestrini. Le ricerche furono poi sospese fino al 2011, quando si è deciso di avviare nuove campagne di scavo, che vengono svolte ogni anno da una missione della Sapienza Università di Roma, diretta prima da Alessandra Manfredini e attualmente da chi scrive. Come già accennato, le indagini hanno finora portato alla localizza-
zione di 18 strutture a base circolare con rivestimento di argilla cotta. L’eccezionale rinvenimento di 6 esemplari intatti ha permesso di comprenderne le modalità di costruzione: i forni venivano scavati lungo il pendio collinare, a diverse quote, all’interno di un deposito colluviale. La loro disposizione – le strutture sono allineate a piccoli gruppi su ampi avvallamenti – indica una precisa sequenza di operazioni: dapprima veniva realizzata una fossa e poi, lungo la parete a monte, si scavavano i forni veri e propri, secondo un modulo costruttivo abbastanza standardizzato. Infatti, il diametro alla base varia tra 1,80 e 2 m, la volta è a cupola fortemente schiacciata, tanto che l’altezza al centro del forno è tra i 40 e i 50 cm, e l’imboccatura raggiunge gli 80 cm di larghezza. Il rivestimento interno è costituito a r c h e o 39
scoperte • portonovo
in parte dalla cottura del sedimento naturale, in parte da aggiunte di un impasto argilloso applicato sulle pareti e sul piano di base, dove appare sempre accuratamente lisciato. In qualche caso, durante la fase di costruzione doveva essere utilizzata un’intelaiatura di rami per sostenere la volta, poiché sono state riconosciute impronte di elementi vegetali sull’argilla. Nel tempo, l’erosione naturale e l’attività agricola hanno, influito sulla conservazione del sito archeologico: per questo motivo i forni che si trovano nella parte piú a monte sono conservati solo parzialmente, mentre quelli a valle, protetti da una coltre piú spessa di terreno, sono integri. I materiali archeologici associati ai forni sono assai scarsi, ma permettono di inquadrare il sito nel contesto del Neolitico antico (vedi
«Archeo» n. 347, gennaio 2014). Si tratta di frammenti ceramici – alcuni decorati a impressioni nello stile tipico dell’Italia centrale adriatica – riconducibili a forme molto semplici, come ciotole, scodelle, vasi a collo, olle, e di manufatti in pietra.
to alla selce era impiegata, se pur raramente, anche l’ossidiana, della quale sono stati rinvenuti pochi elementi: le analisi chimiche hanno determinato la loro fonte nell’isola di Lipari. Numerosi sono invece i manufatti in calcare e arenaria non scheggiata, come macine e pestelli, strumenti che ben si collegano alla connotazione produttiva del sito. Mancano del tutto gli oggetti in materiale organico (per esempio legno, pelli, intrecci vegetali), che si conservano solo in condizioni particolari, ma che presumiamo abbia-
strumenti da taglio Le caratteristiche tecniche di questi ultimi testimoniano la scheggiatura in loco della selce, che si trova in abbondanza sia sul Monte Conero che lungo i corsi d’acqua delle valli limitrofe. L’obiettivo era quello di realizzare San Marino Pesaro Mare lame e lamelle che poFano Adriatico tevano essere inserite in Fossombrone Senigallia manici (di legno o altro materiale organico), inAncona Marche tere o frammentate, e Portonovo-Fosso Fontanaccia utilizzate come strumenti da taglio. AccanFabriano Macerata Civitanova Marche
Lago Perugia Trasimeno
Tev e
re
Umbria
San Severino Marche San Benedetto del Tronto Ascoli Piceno
Teramo
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no costituito una parte consistente dell’attrezzatura quotidiana delle popolazioni preistoriche. Altra particolarità è l’assenza, a tutt’oggi, di tracce riferibili a un abitato: i forni, cosí numerosi in un’area limitata (finora sono stati indagati circa 300 mq) sembrerebbero costituire un impianto esclusivamente «industriale», forse utilizzato solo in alcuni periodi dell’anno da una o piú comunità di agricoltori. E, di conseguenza, uno degli obiettivi futuri della ricerca è proprio la localizzazione del villaggio (o dei villaggi) lungo la valle.
Dallo scavo al laboratorio Molte indicazioni importanti sono fin qui venute dalle datazioni al 14C, che hanno permesso di collocare la frequentazione del sito alla
In alto: il frammento di un contenitore in ceramica la cui superficie è decorata con motivi a impressione tipici delle culture neolitiche dell’Italia centrale adriatica. In generale, i materiali associati ai forni sono molto scarsi, segno che l’abitato dei loro utilizzatori doveva trovarsi altrove.
A sinistra e qui sopra: alcuni dei forni scoperti a Portonovo in corso di scavo. Ricavate nel banco argilloso della collina, le strutture venivano con ogni probabilità realizzate in occasione del loro utilizzo stagionale, in quanto la loro deperibilità rendeva piú conveniente e veloce la costruzione ex novo dell’eventuale restauro. È questa una delle possibili ragioni della loro elevata concentrazione: a oggi ne sono state scoperte 18, impiegate, in momenti diversi, intorno alla metà del VI mill. a.C.
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scoperte • portonovo
In alto: foto zenitale dell’area di scavo, che evidenzia la concentrazione dei forni, ben riconoscibili per la loro conformazione circolare. In basso: frammento di intonaco in argilla, con tracce dell’incannucciato che ne costituiva lo scheletro.
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metà del VI millennio a.C. in cronologia calibrata, cioè circa 7500 anni fa. In particolare, dal forno 5 sono state ottenute le date di 6500±50 BP (= 5560-5350 a.C. cal 2 σ) e di 6418±50 BP (= 54805310 a.C. cal 2 σ); e, dal forno 14, è stata ricavata la data del 6555±45 BP (=5620-5460 a.C. cal 2 σ). Ma informazioni preziose sono state acquisite anche grazie ad altre analisi specialistiche. Per esempio, le indagini PXRD (diffrattometria a raggi X su polveri) effettuate dal Dipartimento di Scienze della Ter ra e Geoambientali dell’Università di Bari su campioni del rivestimento interno dei forni hanno rilevato che la tem-
In alto: nuclei, lame e lamelle in selce; queste ultime, fissate a manici in legno, venivano impiegate come strumenti da taglio. In basso: la pulitura e la prima inventariazione dei materiali recuperati nello scavo.
Lame e lamelle venivano ricavate da selce di provenienza locale, sfruttando i ricchi giacimenti del Monte Conero peratura raggiunta non superava i 500°C. Questo dato ci fa escludere l’utilizzo dei forni per cuocere la ceramica – per la quale sono necessari almeno 800°C –, ma può far pensare ad altre attività, come la cottura del pane e di altri alimenti, l’essiccazione di carne, pesce, vegetali, la tostatura dei cereali o il trattamento termico della selce, che, se scaldata, risulta piú facilmente lavorabile.
legni selezionati Un altro aspetto interessante riguarda il combustibile utilizzato: l’analisi dei carboni prelevati all’interno dei forni (condotta da Alessandra Celant del Laboratorio di a r c h e o 43
scoperte • portonovo
un PARCO da scoprire Un monte a strapiombo sull’Adriatico che regala scorci incantevoli e itinerari escursionistici che strizzano l’occhio al turismo sostenibile. Una ricca offerta di tipicità e qualità; storia e cultura. Tutto questo è il Parco del Conero, gemma incastonata nelle Marche. Istituito nel 1987, è esteso per 6011 ettari, e include gran parte di Ancona, Camerano, Sirolo e Numana. Quest’Area Protetta costiera offre ambienti variegati da cui spicca il Monte Conero, nato da una lunga azione di sedimentazione marina iniziata nel Giurassico, emerso nel Pliocene, 5 milioni di anni fa. Dall’alto dei suoi 572 m, dal Gargano fino alla costa triestina, è l’unico baluardo roccioso composto da formazioni calcaree con litotipi della maiolica e della scaglia bianca e rossa, fin da epoca antica luogo di estrazione di pietra. Già approdo nel IV secolo a.C. dei Greci che hanno risalito le coste meridionali in cerca di città da fondare e dove i Dori hanno gettato le ancore e fissato la dimora, chiamando Komaros (corbezzolo) il promontorio e Ancon (gomito) la sua curva settentrionale. La presenza
In alto: la chiesa romanica di S. Maria di Portonovo, compresa nell’area del Parco Naturale del Conero. Sulle due pagine: una delle baie del Parco, ai piedi del promontorio.
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dell’uomo, accertata a partire da almeno 100 000 anni fa, ha lasciato numerose testimonianze. Relative al popolo dei Piceni (IX-III secolo a.C.), tra le tombe che hanno restituito ricchi corredi funerari, è famosa quella della Regina di Numana e Sirolo, custodita nell’Area dei Pini di Sirolo. I reperti sono esposti nel museo Archeologico di Ancona e nell’Antiquarium di Numana, mentre una tomba picena è stata ricostruita nel Centro Visite del Parco. Le testimonianze spaziano inoltre dalle incisioni rupestri alle grotte romane, dai monasteri benedettini e francescani, alle strutture difensive come il Fortino Napoleonico e la Torre Clementina a Portonovo. Poi ci sono la chiesa romanica di S. Maria di Portonovo e il Monastero di S. Pietro al Conero, in cui si sono stabiliti, fin dall’anno Mille, in
alternanza, vari ordini religiosi. Per quel che riguarda la flora e la fauna, nei secoli, l’insediamento di un elevato numero di specie è cresciuto a vista d’occhio, rendendo la ripida falesia calcarea, le colline, i fondovalle, il fiume Musone, le aree umide, le dune costiere e i laghetti salmastri di Portonovo, habitat ricchi di biodiversità. Le pendici del Monte, in buona parte, sono ricoperte dalla macchia mediterranea. Grande attenzione viene data all’agricoltura di qualità, con l’Ente Parco promotore di progetti, come «Terre del Conero» (vedi box a p. 46). Ma c’è dell’ altro: per quanti vogliano scoprire il cuore del Monte, una fitta rete sentieristica si ramifica in 18 itinerari. Si può viverla in bicicletta, a piedi e a cavallo. Da soli o
dove e quando Ente Parco Regionale del Conero via Peschiera 30, Sirolo 60020 (AN) Info tel. 071 9331161; e-mail: info@parcodelconero.eu; www.parcodelconero.eu Centro Visite Info tel. 071 9331879; e-mail: infoconero@forestalp.it
accompagnati da guide esperte della Cooperativa Forestalp. La prima economia del territorio è il turismo. Anche in questo caso l’Ente Parco del Conero dà una forte risposta alla richiesta di quel comparto in crescita, che è il turismo sostenibile. È attivo nel mettere in campo azioni e progetti importanti, come il recente ottenimento della certificazione CETS, Carta Europea del Turismo Sostenibile.
Paleobotanica e Palinolog ia dell’Università Sapienza) ha messo in evidenza una precisa scelta di legni duri e compatti, come quelli di leccio e carpino, che, bruciando piú lentamente, producono un calore prolungato. Un dettaglio, questo, non irrilevante in relazione ai possibili utilizzi di queste strutture, ancora in parte enigmatiche.
l’importanza di un «incidente» Dall’ultima campagna di scavo sono, in realtà, emersi altri indizi interessanti: da tre dei cinque forni rinvenuti intatti nel settembre 2013 sono state raccolte decine di cariossidi (cosí si chiamano in botanica i frutti delle graminacee, detti nella lingua corrente «chicchi») carbonizzate di cereali, attualmente in corso di studio per determinarne genere e specie. Grazie a questo «incidente» avvenuto nella fase di tostatura dei grani, una pratica preliminare sia all’uso che alla conservazione dei cereali, abbiamo ottenuto una preziosa testimonianza delle specie coltivate e del trattamento a cui venivano sottoposte. E naturalmente anche un’indicazione in piú per capire a cosa servissero tanti forni. Non pensiamo certo che i 18 forni finora rinvenuti fossero in uso contemporaneamente: si tratta, infatti, di strutture fragili, facilmente soggette all’erosione degli agenti atmosferici e alterabili dalla ripetuta esposizione al fuoco. Molto probabilmente venivano abbandonati man mano che si rovinavano: crolli parziali della volta, ma anche semplici fessurazioni, impedivano la conservazione del calore e ne diminuivano l’efficienza. Doveva quindi essere piú semplice costruirne di nuovi, piuttosto che riparare i danni del tempo e dell’uso. Per comprendere meglio i tempi di costruzione, le modalità d’uso e il processo di abbandono dei forni sarà di fondamentale importanza il contributo dell’archeologia sperimentale: prevediamo, infatti, nei prossimi mesi, di costruire una
In alto: due forni al termine dello scavo. Seppur parzialmente crollate, sono ben riconoscibili le coperture a cupola delle strutture.
struttura analoga a quelle neolitiche, scavandola nella medesima formazione geologica, con la stessa tecnologia. Proveremo poi a utilizzarla e successivamente ne registreremo i modi e i tempi di deterioramento naturale.
sacralità del fuoco La scoperta di tre sepolture ha anche suggerito la possibilità di un utilizzo rituale dei forni. Nel corso dei sondaggi del 2006 erano stati rinvenuti tre inumati, in cattivo stato di conservazione, deposti sulle basi di due forni. L’indagine antropologica (effettuata da Paola Catalano e Stefania Di Giannantonio della Soprintendenza Speciale per i a r c h e o 45
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Beni Archeologici di Roma) ha permesso di riconoscere, in un caso la sepoltura di due individui di circa 30 anni, e, nell’altro la deposizione di un maschio di oltre 55 anni, un’età considerevole per quei tempi. Inoltre, nel 2012, è venuta alla luce una sepoltura a incinerazione di una donna di circa 20 anni, i cui resti erano stati raccolti in un contenitore di materiale organico che non si è conservato. Possiamo ipotizzare che, nel momento in cui i forni furono impiegati come strutture tombali, avessero già perso la loro funzione primaria, ma che conservassero un ruolo simbolico per la comunità che aveva deciso di seppellirvi i propri defunti. La pratica di riutilizzare aree o strutture domestiche è ben conosciuta durante il Neolitico e potrebbe essere legata al desiderio di rimarcare la continuità tra il mondo dei vivi e quello dei morti e il senso di appartenenza di una o piú comunità al proprio territorio.
Molte domande Le domande che emergono a questo stadio della nostra ricerca sono molte: ad alcune cercheremo di trovare risposte attraverso nuove indagini e analisi di laboratorio, altre ancora rimarranno forse senza una risposta soddisfacente, e a queste se ne aggiungeranno molte ancora, come sempre avviene nel corso di uno studio. Chi ha costruito i forni? Dai dati in nostro possesso possiamo essere certi che si tratti di gruppi di agricoltori, che coltivavano cereali e, forse, leguminose, e allevavano animali domestici: oltre alle ca-
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In alto: una delle sepolture deposte all’interno di uno dei forni. Sono finora due i casi accertati di reimpiego a scopo funerario delle strutture. Qui sotto: il vaglio della terra di riempimento dei forni, che, come in questo caso, ha permesso di recuperare numerosi chicchi di cereali carbonizzati.
riossidi carbonizzate, infatti, troviamo resti ossei di pecora, maiale e bue, probabili residui dei pasti consumati in prossimità dei forni. Non erano però state abbandonate del tutto le attività di caccia e soprattutto di pesca, favorita dalla vicinanza del mare e del vicino corso d’acqua, che in quel periodo correva a una quota piú alta e con una portata maggiore. L’adozione di un regime alimentare basato su uno scarso apporto di carboidrati e su un maggiore consumo di proteine di origine acquatica è confermato dall’analisi degli isotopi stabili del collagene delle ossa degli inumati rinvenuti nei forni condotta dagli studiosi del Dipar-
timento di Biologia dell’Università di Roma «Tor Vergata». Perché i forni venivano costruiti cosí vicini gli uni agli altri? Erano, forse, utilizzati da piú gruppi o famiglie che popolavano il territorio circostante e che frequentavano il sito in occasione di attività collettive, come, per esempio, la lavorazione dei cereali dopo il raccolto? I confronti con altri siti neolitici in Italia non ci vengono in aiuto: sono rare le testimonianze di forni e i pochi conosciuti, come quelli di Ripatetta e Torre Sabea in Puglia, Trasano in Basilicata e Favella in Calabria, sono singoli e di dimensioni decisamente minori. Comune è forse il ruolo di strutture comuni-
tarie e non destinate all’uso di una singola famiglia, poiché anche queste sono collocate in spazi aperti e non all’interno di abitazioni. La cosa non ci stupisce poiché il forno, soprattutto quello per cuocere il pane, è stato fino alla metà del secolo scorso, in molte regioni non solo italiane, un impianto condiviso da tutta la collettività.
prospettive e obiettivi futuri Tra gli obiettivi delle ricerche future, vi è, come abbiamo detto, la realizzazione della replica sperimentale di un forno, per comprenderne meglio le fasi costruttive e il funzionamento. Per quanto riguar-
In alto: un’immagine ravvicinata di un forno in corso di scavo. Nella pagina accanto, in basso: un’altra veduta del settore indagato nella campagna del 2013. A oggi, i forni di Portonovo rappresentanoun unicum nel quadro della preistoria italiana. In basso: sezione di un settore del sito che mostra come la disposizione dei forni assecondasse il naturale andamento del pendio collinare.
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scoperte • portonovo Ancora un’immagine di uno dei forni di Portonovo-Fosso Fontanaccia in corso di scavo.
da gli scavi, la campagna del prossimo autunno avrà tra i suoi scopi quello di rintracciare l’abitato di riferimento, attraverso sondaggi. Un aspetto che ci sta molto a cuore è quello di far conoscere le nostre ricerche a un pubblico piú ampio, non di soli specialisti. Purtroppo le strutture sono troppo delicate per pensare a una loro musealizzazione all’aperto: per questo abbiamo pensato alla realizzazione di un modello in 3D, coinvolgendo gli ingegneri del DICEA, dell’Università Politecnica delle Marche, coordinati da Eva Malinverni. Una volta elaborati i dati, si potrà esplorare virtualmente il sito e scoprirne tutte le caratteristiche, altrimenti non visibili. Per il momento, nel vicino centro visite del Parco Naturale Regionale del Monte Conero (vedi box alle pp. 44-45), a Sirolo, sono a disposizione alcuni pannelli con foto e informazioni sia sui forni di Portonovo, sia su altri siti archeologici dell’area. Inoltre, nell’Antiquarium di Numana sono esposti alcuni manufatti provenienti dalle prime raccolte di superficie degli anni Novanta del secolo scorso. Nel corso delle tre campagne di
Una collaborazione nel segno del pane Lo scavo di Portonovo-Fosso Fontanaccia si avvale della generosa collaborazione degli imprenditori di «Terre del Conero», una filiera agroalimentare di qualità che riunisce circa 60 aziende agricole con coltivazioni e allevamenti compresi nell’area del Conero e vuole valorizzare le produzioni agricole locali e favorire metodi di coltivazione piú rispettosi dell’ambiente. Il progetto è promosso dalla Società Cooperativa Agricola Terre del Conero e dal Parco Naturale del Conero e coinvolge anche operatori turistici e commerciali, ristoratori, trasformatori alimentari ed enti locali. Tra i prodotti di Terre del Conero, figura il pane, uno dei progetti speciali promossi dalla filiera e dal Parco Naturale del Conero e che, oggi, si è anche trasformato nel filo rosso che lo lega alle ricerche in corso nel sito ® di Portonovo-Fosso Fontanaccia, dalle quali è emersa, appunto, una realtà legata alla lavorazione dei cereali. Info: www.terredelconero.org
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scavo abbiamo registrato un crescente interesse da parte della popolazione e delle istituzioni locali, tanto che nel 2013 abbiamo dato il via a una fruttuosa collaborazione con l’Ente Parco del Conero e con gli imprenditori delle Terre del Conero (vedi box in questa pagina), che ci ha permesso di proseguire le ricerche sul campo, altrimenti messe in forse dalla scarsità di fondi. Un esempio, questo, di una possibile sinergia virtuosa tra pubblico e privato, che nel 2014 vedrà anche la partecipazione del Comune di Ancona, e che ha come obiettivo la conoscenza e la valorizzazione di un territorio ricco di risorse naturali e culturali.
mostre • seduzione etrusca
come e quando nasce l’amore della gran bretagna per la civiltà etrusca? un’affascinante mostra allestita a Cortona svela i retroscena di quello che, tra sette e ottocento, fu un vero e proprio colpo di fulmine
that’s
etruria! 50 a r c h e o
di Giuseppe M. Della Fina
A sinistra: bronzo votivo in forma di testa barbata, in precedenza fissato a una base, dall’Etruria. 425-400 a.C. Londra, The British Museum. Tutti i reperti e i documenti riprodotti nell’articolo sono attualmente esposti nella mostra «Seduzione etrusca», allestita in Palazzo Casali, a Cortona, fino al 31 luglio.
Tra i reperti esposti in mostra vi è il cosiddetto «putto Graziani», facente parte delle collezioni del Museo Gregoriano Etrusco (qui messo a confronto con la riproduzione realizzata per il De Etruria Regali di Thomas Dempster). Databile nella prima metà del II sec. a.C., l’opera in bronzo raffigura un fanciullo seduto a terra con le braccia protese e allargate, che tiene un volatile nella mano destra. Dal suo collo pende una bulla di notevole dimensioni che ne segnala la condizione di persona libera. Un’iscrizione in etrusco, incisa sulla gamba destra, lo caratterizza come dono votivo a una divinità protettrice dell’infanzia.
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mostre • seduzione etrusca
I
l mondo degli Etruschi entrò nel pieno del dibattito culturale italiano ed europeo durante il Settecento e l’Ottocento per via di un inquieto adolescente inglese. La vicenda, che può sembrare singolare, fa da spunto alla mostra «Seduzione etrusca», inaugurata nelle scorse settimane a Cortona. Proviamo a ripercorrere dall’inizio i fatti, che videro coinvolti granduchi distratti, dotti eruditi, precettori severi e antiquari avveduti. Anzi, si può andare ancora piú indietro nel tempo, sino agli anni Dieci del Seicento, quando giunse in Toscana uno scozzese, Thomas Dempster (vedi box in questa pagina) che riuscí a ottenere una cattedra presso l’Università di Pisa. L’uomo, grato a Cosimo II de’ Medici per l’accoglienza rice- Matrice in rame del busto del vuta, volle dedicargli un’opera in- granduca Cosimo III, inserito nel centrata sugli Etruschi. frontespizio del De Etruria Regali.
il granduca etruscofilo Immaginava che il suo sforzo sarebbe stato gradito al granduca, dato che l’interesse per gli Etruschi era ben presente all’interno della corte medicea. Pochi decenni prima, Cosimo I (granduca dal 1534 al 1574) ne aveva fatto il perno della sua ideologia e della sua azione politica, tesa ad acquisire il controllo dell’intera Toscana, non tra-
XVIII sec. Norfolk, Holkham Hall.
scurando di gettare uno sguardo interessato sui territori già etruschi e compresi entro i confini dello Stato Pontificio. Egli arrivò al punto di fregiarsi del titolo di Magnus Dux Etruriae e di riunire una splendida collezione di antichità, nella quale confluirono tre grandi bronzi che riuscí a procurarsi nel volgere di un venticinquennio, tra il 1541 e il 1566 : la
uno scozzese in «esilio»: thomas dempster Studioso dagli interessi molteplici, Thomas Dempster fu autore di commenti ai testi classici, di ricerche sul diritto romano e scrisse varie opere sulla storia della Scozia, dove era nato, a Cliftbog, nel 1579. Lasciata l’Inghilterra e presentatosi come perseguitato religioso in quanto cattolico, venne accolto prima a Roma e poi a Pisa, dove insegnò diritto civile nella locale Università. Dalla Toscana, si trasferí a Bologna, continuando l’insegnamento universitario; in questa città morí nel 1625. La sua fama si deve soprattutto all’opera De Etruria Regali, stampata solo un secolo dopo la sua morte.
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celebre Chimera di Arezzo, la Minerva, anch’essa di Arezzo, e la statua nota come Arringatore. In meno di tre anni, alternando lo studio all’insegnamento, Dempster riuscí a scrivere l’opera piú completa dedicata agli Etruschi sino a quel momento. Sperava che il suo manoscritto venisse pubblicato tempestivamente e che l’opera gli permettesse di entrare nel novero dei maggiori antiquari toscani, conseguendo una fama notevole anche a Roma e nelle altre capitali della cultura.
fuga a bologna Cosí non accadde: Cosimo II aveva meno interesse per gli Etruschi rispetto all’insigne antenato e, nel frattempo, la politica medicea aveva cambiato obiettivi; lo stesso Thomas Dempster dovette lasciare frettolosamente Pisa e la Toscana per motivi privati. Si racconta che ne sarebbe stato in qualche modo costretto a causa dei comportamenti disinvolti dell’avvenente consorte. Vero o falso che sia, andò a insegnare a Bologna e quindi fuori dal granducato di Toscana. Il manoscritto rimase dimenticato (o quasi) a Firenze e venne ritrovato a Palazzo Pitti dal letterato Anton Maria Salvini, una vera autorità in fatto di erudizione nei decenni iniziali del Settecento. Con il suo tramite,Tho-
La statua bronzea dell’Arringatore è una delle opere piú celebri della collezione di antichità riunita dai Medici. Rinvenuta nel 1566, la scultura raffigura un personaggio di età matura, vestito con una toga corta e tunica, nell’atto d’invitare al silenzio. Un’iscrizione, incisa in lingua etrusca, sulla falda della toga, consente di riconoscervi un Aulo Metello, esponente di una delle famiglie piú in vista di Perugia e del suo territorio. Una datazione attorno all’80 a.C. sembra la piú probabile. In questa pagina è messa a confronto con la matrice in rame della tavola che la raffigura nel De Etruria Regali.
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mostre • seduzione etrusca
mas Coke, l’adolescente inglese ricordato in apertura (vedi box in questa pagina), riuscí ad acquistarlo. Partito dall’Inghilterra nel 1712 all’età di quattordici anni accompagnato da due istitutori, l’inglese Thomas Hobart e l’italiano Domenico Antonio Ferrari, e seguito da uno stuolo di servitori, il ragazzo aveva attraversato mezza Europa ed era arrivato in Italia, fermandovisi tra il 1715 e il 1717, per completare la formazione classica ritenuta a quel tempo fondamentale nell’educazione di un giovane aristocratico. Coke si rese conto del valore dell’opera e decise di pubblicarla a sue spese, affidandone la cura e l’aggiornamento a Filippo Buonarroti, uno dei maggiori antiquari di quegli anni: «Quando mi capitò di sfogliare l’originale di questo trattato che si trovava fra i miei manoscritti, il tema che veniva affrontato, la molteplice profondità di erudizione e il modo stesso di esprimersi mi piacquero a tal punto da persuadermi a rendere disponibile anche agli altri il piacere e l’utilità di leggerlo».
fuori dalle tenebre Proprio a Buonarroti venne l’idea di corredare lo scritto con un apparato illustrativo cosí ricco da non avere precedenti o uguali nell’editoria dell’epoca. Nella sua visione le opere d’arte, gli oggetti, assumevano un valore simile a quello delle fonti letterarie, come indica nelle Explicationes che volle aggiungere allo studio: «con l’autorità degli stessi monumenti o con la loro reciproca collazione molti aspetti relativi alla civiltà etrusca che mai si sarebbe potuto sperare di trovare negli autori antichi, vengono ora esibiti come se fossero svelati dalle tenebre». Anche per questo approccio innovativo, l’opera, pubblicata in due tomi nel 1726 (i frontespizi riportano comunque le date del 1723 e del 1724), ottenne un successo immediato e notevolissimo: ebbe la 54 a r c h e o
forza di dare vita a una stagione culturale nota come «etruscheria», capace di attraversare l’intero secolo e arrivare a lambire l’Ottocento. Essa fu caratterizzata da un’attenzione spasmodica per il mondo etrusco, considerato come la culla della civiltà italiana e, in una certa misura, mediterranea. Agli Etruschi venne riconosciuto ogni primato: nelle arti, attribuendo loro l’intera produzione ceramica greca; nelle istituzioni politiche (il loro supposto assetto istituzionale federale venne esaminato con attenzione dai filosofi della politica, che
il viaggio in italia di thomas coke Il recupero e la valorizzazione del De Etruria Regali si devono a un giovane inglese, Thomas Coke. Nato nel 1697, rimase orfano e di lui si occuparono il nonno e un cugino, i quali vollero che – con Thomas Hobart come precettore – compisse un viaggio di formazione, che durò dal 1712 al 1718. Coke soggiornò a lungo in Italia dove poté conoscere il mondo classico, un’esperienza ritenuta essenziale nell’educazione di un futuro esponente della classe dirigente. Tornato in Inghilterra, ricoprí incarichi importanti e fece costruire la residenza di Holkham Hall, nella quale riuní le opere d’arte che era riuscito a raccogliere e una nutrita biblioteca. Morí nel 1759.
Nella pagina accanto, in alto: piccolo vaso in terracotta policroma in forma di leone in combattimento, dall’Etruria. 340-300 a.C. Londra, The British Museum Qui accanto: confronto tra il bronzetto raffigurante un cane (III sec. a.C., Firenze, Museo Archeologico Nazionale) e il suo disegno nel De Etruria Regali (XVIII sec. Norfolk, Holkham Hall).
A sinistra: pagina miniata di un’edizione manoscritta dell’Historia di Tito Livio. XV sec. Norfolk, Holkham Hall. Nella pagina accanto, in basso: set di posate per viaggio in argento. Già collezione Tommasi. Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona.
lo immaginarono applicabile per una ancora lontana e auspicata riunificazione della penisola italiana); nelle invenzioni scientifiche e, addirittura, nella bellezza femminile.
un ragazzo appassionato La figura di Thomas Coke e la vicenda della pubblicazione del De Etruria Regali occupano uno spazio di rilievo nell’esposizione cortonese: in apertura vengono ripercorse le tappe del tour del giovane aristocratico inglese; i tempi e i modi del suo viaggio, simili a quelli di altri viaggiatori illustri del tempo; vengono illustrati i suoi interessi cultua r c h e o 55
mostre • seduzione etrusca
gli echi palladiani di Holkham Hall Subito dopo essere tornato in Inghilterra ed essersi sposato con Lady Margaret Tufton, figlia del sesto conte di Thanet, Thomas Coke iniziò a ipotizzare la costruzione di una residenza che nelle forme architettoniche rinviasse al mondo classico e, in particolare, romano. I lavori – negli anni Venti – non poterono procedere con la velocità auspicata, dato che Coke si trovò a fronteggiare un investimento finanziario sbagliato, ma fu possibile, comunque, approfondire il progetto e svolgere alcuni lavori preparatori. Nel 1733, finalmente, si poté dare avvio alla costruzione vera e propria sotto la direzione dell’architetto William Kent, che Coke aveva conosciuto e apprezzato proprio in Italia. I lavori per il completamento di Holkham Hall proseguirono a lungo anche dopo la morte del progettista, avvenuta nel 1748 (dal 1740 i coniugi Coke avevano iniziato ad abitare nel padiglione padronale della villa), e dello stesso conte e furono portati a termine dalla vedova Lady Margaret. Nella residenza spicca lo spazio prescelto per accogliere la biblioteca che occupava l’intero piano nobile del padiglione riservato alla famiglia. Coke e Kent la vollero simile alla biblioteca del monastero di S. Giorgio Maggiore a Venezia che avevano ammirato, insieme, da giovani, nel luglio del 1714 e che credevano realizzata da Palladio: l’Italia non era dimenticata.
rali, che mostrano la precoce predilezione per le vicende della Roma repubblicana: sono esposte – ed è la prima volta in Italia – alcune antiche copie manoscritte dell’opera di Tito Livio che il ragazzo acquistò in Francia. C’è da osservare che la storia romana repubblicana era particolarmente cara all’aristocrazia inglese e alcuni singoli personaggi venivano presi come modello di virtú da seguire. Si passa, quindi, all’acquisto e alla 56 a r c h e o
Qui sopra: veduta di Holkham Hall. A destra: estremità superiore di un porta utensili bronzeo, sormontato da un satiro e una menade. 350-325 a.C. Londra, British Museum.
etruschi a londra Il British Museum possiede una ricca collezione di reperti che illustra la civiltà degli Etruschi dai suoi primi passi sino alla piena romanizzazione. Antichità etrusche erano presenti – attraverso la raccolta di Sir Hans Sloane – già nel nucleo originario del museo, fondato nel 1753. Incrementi notevoli si ebbero nei decenni finali del Settecento e durante l’Ottocento grazie a donazioni e ad acquisti sul mercato antiquario. Nelle collezioni del museo londinese sono pervenuti anche vasi appartenuti originariamente a Luciano Bonaparte, il fratello di Napoleone che portò alla luce le necropoli di Vulci.
valorizzazione del lavoro di Thomas Dempster: una copia manoscritta è esposta in mostra e ha lasciato – per la prima volta – gli archivi di Holkham Hall, la lussuosa residenza fatta erigere da Thomas Coke, divenuto adulto e conte di Leicester, nel Norfolk, e ancora oggi abitata dai suoi discendenti. Insieme a essa figurano lettere e documenti (disegni preparatori, matrici in rame delle tavole del volume, elenchi delle spese sostenute), in buona parte inediti, che consentono di ricostruire le tappe dell’avventura editoriale del De Etruria Regali.
L’urna in travertino dal sepolcro dei Tite Vesi (Perugia, Museo Archeologico Nazionale) e il disegno del rilievo che ne orna la fronte, raffigurante un mostro con corpo umano e testa di lupo che esce da un puteale.
il confronto con i disegni I curatori della mostra – Paolo Bruschetti, Bruno Gialluca, Paolo Giulierini, Suzanne Reynolds e Judith Swaddeling – hanno voluto proporre l’accostamento tra alcune tavole del testo relative a opere di particolare impegno e gli originali: è il caso, per esempio, della statua dell’Arringatore e del cosiddetto «putto Graziani», una statuetta votiva in bronzo rinvenuta nel 1587 in località Sanguineto, in prossimità del lago Trasimeno. a r c h e o 57
mostre • seduzione etrusca
Il percorso espositivo prosegue seguendo gli esiti del successo del De Etruria Regali e soffermandosi sull’attenzione del mondo anglosassone per gli Etruschi, che non si è fermata certo agli anni Venti del Settecento. I poliedrici Thomas Jenkins e James Byres, per esempio, nella seconda metà del Settecento, promossero ricerche a Tarquinia e fecero realizzare copie degli affreschi e delle iscrizioni rinvenute, suscitando un interesse notevole. A Cortona due inglesi, James Fits Stuard (1737) e George De Nassau Clavering (1780 e 1781), ricoprirono la carica di Lucumone, cioè presidente, dell’Accademia Etrusca, l’associazione culturale sorta nel 1726 per iniziativa dei fratelli cortonesi Marcello e Ridolfino Venuti e sviluppatasi proprio durante la stagione dell’etruscheria. E anche che altri inglesi afferirono alla prestigiosa istituzione.
la prima volta del british museum In questa sezione della mostra, hanno un ruolo di primo piano i materiali giunti dal British Museum, che costituiscono la piú ampia collezione di reperti etruschi mai prestata dal prestigioso museo londinese. Le opere – raccolte soprattutto nell’Ottocento – documentano il perdurare dell’interesse per la civiltà etrusca in Gran Bretagna, ben testimoniato dall’ottima riuscita di una mostra organizzata a Londra nel gennaio del 1837 dai Campanari, una famiglia di mercanti d’arte originaria di Tuscania, in occasione della quale vennero sperimentate soluzioni espositive innovative, come la ricostruzione in scala delle tombe e la riproposizione, al loro interno, degli oggetti del corredo funerario vero o presentato come tale. L’evento non fu soltanto commerciale, ma capace di suscitare un’autentica passione per le terre d’Etruria. In proposito si può ricordare il viaggio compiuto, dopo avere visitato l’esposizione, da Elisabeth Hamilton Gray che ne dette conto – con freschezza e ironia – nel libro 58 a r c h e o
Tour to the Sepulchres of Etruria in 1839, pubblicato a Londra nel 1840 e che ebbe, nel volgere di pochi anni, diverse ristampe. Quello che si proponeva la scrittrice era chiaro: «gentile lettore, ti chiedo di essere comprensivo nei confronti miei e degli errori o delle omissioni che si possono trovare in questo lavoro. Non dubito che ve ne siano molti, ma il mio scopo è suscitare la curiosità piuttosto che soddisfarla e spingerti a recarti di persona in questi luoghi piuttosto che accontentarti di ciò che ho visto e descritto». L’invito della Hamilton Gray venne fatto proprio – qualche anno dopo – da un giovane George Dennis, il quale, a seguito di lunghi soggiorni in Italia e di avventurose escursioni compiute nelle zone meno frequentate dell’Etruria, scrisse The Cities and Cemeteries of Etruria, apparso in prima edizione, per l’editore londinese John Murray, nel 1848, e destinato a divenire un classico che si può leggere ancora oggi con piacere e qualche utilità.
prestiti eccellenti Tra i prestiti giunti dal British Museum, si può segnalare una testa maschile in bronzo a grandezza naturale rinvenuta – almeno secondo la documentazione disponibile – su una delle due isole presenti nel lago di Bolsena. Nella scultura, acquistata a Roma tramite il mercante d’arte James Byres, già ricordato, può
essere riconosciuto un dono votivo offerto in un santuario e realizzato da un bronzista esperto, attivo probabilmente a Velzna (Orvieto) tra il 375 e il 350 a.C. Oppure il bronzetto di notevole finezza raffigurante un offerente togato e rinvenuto in località Pizzidimonte, nei pressi di Prato e a poca distanza dall’insediamento etrusco di Gonfienti, individuato nel 1996. La statuetta, uscita da una bottega dell’Etruria settentrionale, viene datata al 480-460 a.C. O, ancora, un cippo funerario da Chiusi decorato a bassorilievo, che rientra in una serie che si segnala per la sua eleganza stilistica: è decorato con scene di musica e danza. Infine può essere menzionato un askos a forma di anatra proveniente da Vulci e databile nel terzo venticinquennio del IV secolo a.C.; la sua produzione sembra riferibile a ceramisti attivi a Chiusi. La mostra è ospitata all’interno di Palazzo Casali e quindi – lasciando gli spazi a essa riservati – si possono visitare le sale del Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona (MAEC), i cui materiali danno conto dell’importanza della polis di Cortona nell’ambito delle dinamiche politiche e sociali dell’Etruria e, al contempo, della vivacità e delle relazioni internazionali dell’Accademia Etrusca, una delle associazioni culturali italiane piú antiche e con maggiore tradizione.
Due immagini dell’allestimento della mostra attualmente in corso in Palazzo Casali, a Cortona. Nella foto di destra si riconoscono tre delle opere piú importanti: l’Arringatore, il Putto Graziani e una copia della Chimera di Arezzo.
il visconte emozionato All’attuale visconte Thomas Coke si deve un contributo importante alla realizzazione della mostra cortonese. Egli ha consentito, infatti, che preziosi documenti e significative opere d’arte raccolte dall’illustre antenato, di cui porta il nome, venissero esposte negli spazi di Palazzo Casali. In proposito ha osservato che questa è stata: «La piú grande collaborazione che abbiamo mai intrapreso, e porta alla luce alcuni tra i piú preziosi tesori della collezione». Molti di questi dipinti, disegni e manoscritti non sono generalmente esposti al pubblico.
Gorgone in rilievo a traforo, probabilmente piede di un braciere, dall’Etruria. 500-475 a.C. Londra, The British Museum.
dove e quando «Seduzione etrusca Dai segreti di Holkham Hall alle meraviglie del British Musem» Cortona, Palazzo Casali fino al 31 luglio 2014. Orario tutti i giorni, 10,00-19,00 Info e prenotazioni tel. 0575 637235; e-Mail: info@cortonamaec.org; web: cortonamaec.org a r c h e o 59
Montale la terramara che vive di Andrea Cardarelli, Ilaria Pulini e Cristiana Zanasi
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dieci anni fa, i risultati delle indagini in uno dei piú importanti insediamenti protostorici della pianura portano alla realizzazione di un grande parco archeologico. Un progetto che, oggi, rappresenta una realtà di punta nell’ambito della divulgazione e della sperimentazione Sulle due pagine: ricostruzioni di case, attività di archeologia sperimentale e «scene di vita quotidiana» nel Parco Archeologico e Museo all’aperto della Terramara di Montale (Modena).
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l Parco Archeologico della Terramara di Montale ha festeggiato il suo decimo compleanno proprio in questi giorni (vedi «Archeo» n. 350, aprile 2014), ma la sua realizzazione è stata l’approdo di una lunga stagione di ricerche scientifiche iniziate già in precedenza e ancora oggi in corso. E proprio questo rapporto costante e osmotico fra ricerca e divulgazione, attraverso il quale il pubblico viene reso partecipe e consapevole di tematiche scientifiche altrimenti riservate solo agli specialisti, ha determinato il duraturo successo del parco. La storia comincia intorno al 1990 quando il Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena iniziò una ricerca sulle terramare modenesi per individuarne posizione, stato di conservazione e potenzialità archeologiche. In questo contesto Montale, che è la terramara piú rappresentata fra le raccolte del Museo, fu oggetto di un’attenzione particolare.
ma che Cos’è una terramara? Il nome «terramara» deriva dalla denominazione data al terriccio da concime cavato da alcune collinette che si ergevano per pochi metri nell’area centrale della pianura padana. All’inizio degli anni Sessanta dell’Ottocento, quando ci si rese conto che queste collinette altro non erano che i resti di abitati pluristratificati dell’età del Bronzo, la
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ponte di accesso al villaggio
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ricostruzioni di abitazioni dell’età del bronzo fornaci per la cottura delle ceramiche
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ricostruzione del fossato
tracce della cinta
fortificazioni e porta del villaggio
museo all’aperto
area di scavo
t ra e d cce d de el t el f lla err os te a p s a t rra ien o m ar o a
area delle coltivazioni sperimentali
area di sosta attrezzata
percorso di visita
ss.12 - Nuova Estense
ricerca ebbe un enorme sviluppo e in pochi anni le terramare divennero note in tutta l’archeologia europea, configurandosi come il principale campo d’azione della nascente paletnologia italiana e del suo principale esponente: Luigi Pigorini. Con l’inizio del XX secolo la notorietà delle terramare diminuí sensibilmente e furono criticate le interpretazioni sviluppate nei decenni precedenti. Solo a partire dalla fine degli anni Settanta e piú consistentemente negli anni successivi fino a oggi, le terramare hanno riacquisito il ruolo primario che a loro spetta nell’età del Bronzo italiana ed europea. Oggi sappiamo che gran parte del-
ingresso
le interpretazioni ottocentesche non era lontana dal vero. Le terramare sono abitati pluristratificati dell’età del Bronzo Medio e Recente (1650-1150 a.C.), di norma di forma quadrangolare, circondati da un fossato percorso da acqua e fortificati con un argine. Le abitazioni erano disposte secondo un ordine quadrangolare, spesso sopraelevate su assiti lignei per isolarle dall’umidità del terreno. L’economia delle terramare si basava sull’agricoltura intensiva, principalmente indirizzata verso la cerealicoltura, resa piú produttiva da sistemi irrigui ottenuti con reti di canali artificiali. L’allevamento di ovini, bovini e suini era molto sviluppato,
In alto: pianta del Parco Archeologico e Museo all’aperto della Terramara di Montale. Nella pagina accanto, in basso: ricostruzione della sequenza stratigrafica dell’abitato, che ha attestato una frequentazione compresa tra il 1600 e il 1250 a.C. (età del Bronzo Medio e Recente). In basso, a sinistra: pali in legno di una delle abitazioni in corso di scavo. Qui sotto: ricostruzione grafica della stessa abitazione, sopraelevata su assito ligneo.
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mentre la caccia era assai poco rappresentata. Nei villaggi c’erano anche artigiani, che, nel caso della lavorazione del bronzo, dovevano possedere una particolare specializzazione. Le necropoli erano a cremazione in Emilia, mentre a nord del Po e a est del Mincio inizialmente è attestata l’inumazione, a cui fece seguito un periodo di biritualità e poi l’affermazione del rito incineratorio. La società prevedeva una differenziazione basata sul rango, dato che non vi sono evidenze di particolari concentrazioni di ricchezza: al vertice della comunità erano i guerrieri e le loro consorti. Nell’età del Bronzo Medio il sistema politico appare caratterizzato da una certa uniformità nella forma e dimensione degli abitati, mentre alla fine di questo periodo e soprattutto nel Bronzo Recente, sono evidenti forme di organizzazione gerarchica del territorio con villaggi che arrivano fino a 20 ettari di estensione e abitati verosimilmente satelliti che non superano i 2. Alla fine del Bronzo Recente (1150 a.C.), probabilmente a
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carotaggi evidenziarono tre aspetti fondamentali: l’area del sito, per quasi tutta la sua estensione (1 ettaro), era miracolosamente scampata alla crescita edilizia che aveva interessato il moderno paese di Montale negli ultimi decenni; il deposito archeologico era stato quasi totalmente asportato da una cava ottola ripresa degli scavi centesca, ma un settore, prossimo Nel 1994, a circa un secolo dagli alla chiesa parrocchiale, risparmiato ultimi scavi nella terramara di dall’azione dei cavatori, era ancora Montale, ricerche di superficie e ben conservato; l’insediamento era seguito di una crisi ambientale determinata da un periodo di siccità, il sistema produttivo delle terramare entra in crisi, innescando un processo di crescente criticità che, in pochi decenni, provoca il collasso di una civiltà che aveva dominato per cinque secoli la grande pianura del Po.
In alto: le ricostruzioni di due abitazioni, nell’area del Museo all’aperto. A destra: repliche sperimentali di asce dell’età del Bronzo, impiegate nella ricostruzione delle case. Nella pagina accanto, in alto: l’area archeologica della terramara, musealizzata; in basso: si lavora alla realizzazione della ricostruzione della porta del villaggio.
circondato da un grande fossato perimetrale difensivo. Questi risultati convinsero l’Amministrazione Comunale di Castelnuovo Rangone a destinare l’area a parco archeologico. Ma questa era ancora soltanto un’intenzione sulla carta, seguita, nel 1996, dalla riapertura del fronte di cava ottocentesco, che permise di rilevare dettagliatamente la complessa e articolata stratigrafia della terramara. La vera svolta si ebbe nel marzo del 1997 con l’inaugurazione a Modena della grande mostra «Le Terramare. La piú antica civiltà padana», visitata da decine di migliaia di persone. Il successo e le indicazioni provenienti dai visitatori dimostrarono che i tempi erano maturi per costruire un parco archeologico dedicato alle terramare sul modello di quelli diffusi in Europa centrale e settentrionale. Grazie a un finanziamento europeo e alla partecipazione delle ammini-
strazioni locali (Comune e Provincia di Modena, Comune di Castelnuovo Rangone), nel 1998 cominciò l’avventura che avrebbe portato all’inaugurazione del parco nell’aprile del 2004. Il progetto prevedeva la creazione di un parco archeologico e di un open air museum in cui l’elemento visivamente portante era rappresentato dalla porzione ancora evidente della collinetta artificiale formata dal deposito archeologico, su cui insistono la chiesa e gli annessi fabbricati storici, e dallo spazio verde che coincide sostanzialmente con l’estensione dell’area archeologica.
al centro del paese La terramara è collocata al centro del paese, pertanto il parco archeologico si sarebbe dovuto misurare anche con la funzione di parco urbano, mentre al museo all’aperto sarebbe stato destinato uno spazio
adiacente, senza interferire direttamente con i resti archeologici. Il progetto scientifico, diretto da Andrea Cardarelli, e quello architettonico, affidato a Riccardo Merlo, furono quindi indirizzati alla realizzazione di un’unica proposta museale tale da coniugare l’area archeologica destinata a valorizzare i resti antichi e il settore open air, che avrebbe ospitato le ricostruzioni del villaggio. Per il raggiungimento di questi obiettivi erano però necessari riscontri scientifici che dovevano essere individuati attraverso nuove ricerche archeologiche. Fu cosí avviato lo scavo sistematico di una a r c h e o 65
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Il lavoro del vasaio...
Immagini della fabbricazione di vasi con tecniche analoghe a quelle in uso all’epoca delle terramare. L’argilla viene modellata in forme di tipi e dimensioni differenti, a cui poi si possono poi aggiungere i manici ed eventuali decorazioni. La cottura avviene solo dopo un ulteriore periodo di essicazione, in fornaci costituite da una camera di combustione circolare a cupola, realizzata con terra impastata con fibre vegetali.
La preparazione del forno e la cottura
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...e quello del metallurgo Vari momenti della produzione di manufatti in bronzo. Per raggiungere la temperatura di fusione del metallo (oltre 1000°), si utilizzano mantici in pelle (a sinistra). La lega viene quindi colata nella forma di fusione in pietra; dopo il raffreddamento, si passa alla rifinitura dell’oggetto.
Il metallo prende forma
porzione del deposito archeologico, realizzato con la collaborazione di Donato Labate e numerosi giovani archeologi. La cura con cui furono condotte le indagini, assieme a una certa dose di fortuna, per misero di ottenere una quantitĂ straordinaria di dati archeologici, archeobotanici e archeozoologici, che arricchirono il parco di inediti contenuti. Il riconoscimento di una serie stratigrafica di oltre 3 m di spessore datata con precisione fra il 1600 e il 1250 a.C., il rinvenimento di
resti di strutture abitative e produttive, la conservazione di resti lignei delle case, la ricchezza straordinaria delle produzioni materiali, la raccolta di decine di migliaia di macroresti vegetali e animali, le analisi polliniche per la ricostruzione ambientale hanno alla fine permesso di ricostruire un quadro storico piuttosto preciso della terramara di Montale e della vita che vi si svolgeva 3500 anni fa. Raccolti e interpretati i dati scientifici, si trattava di comunicarli correttamente al pubblico nei diversi a r c h e o 67
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casa del guerriero L’interno di una delle abitazioni ricostruite, attribuita a un ipotetico membro dell’élite guerriera. Nell’ambiente centrale, attorno al focolare e sulla parete di fondo, si trova una panoplia completa di armi, tra cui spada, pugnali, giavellotti, arco e frecce.
settori del parco con modalità che, individuate nel corso della progettazione, sono tuttora efficaci. Nell’area archeologica è possibile visitare lo scavo come se fosse ancora in corso, mentre vari pannelli, attraverso esemplificazioni immediatamente comprensibili, evidenziano aspetti normalmente piuttosto ostici per il pubblico, quali l’interpretazione delle testimonianze strutturali in uno scavo protostorico, i cambiamenti nella produzione materiale attraverso il tempo, le modificazioni nella fauna e nell’ambiente intervenute nei secoli di vita della terramara, i reperti archeobotanici legati alle coltivazioni, che, con ogni probabilità, hanno compreso anche l’incipiente introduzione della viticoltura alla fine del XIV secolo a.C.
un largo fossato Nel museo all’aperto le ricostruzioni, destinate a restituire l’aspetto che doveva avere l’abitato, hanno comportato la realizzazione di un fossato largo oltre 20 m e delle fortificazioni costituite da un imponente terrapieno e da una porta edificata con la tecnica a cassoni lignei, sul 68 a r c h e o
modello di quelli individuati negli scavi ottocenteschi della terramara di Castione dei Marchesi. Le due case all’interno del museo all’aperto sono state ricostruite a partire dai dati strutturali individuati nello scavo, replicandone precisamente la posizione. Entrambe si riferiscono alle fasi piú antiche della terramara di Montale (fase centrale e fase evoluta del Bronzo Medio), misurano rispettivamente 58 e 67 mq, sono sopraelevate su assito ligneo e suddivise internamente in tre navate con un portico sul lato destro. La costruzione è stata in parte effettuata con asce e altri strumenti da carpenteria in bronzo attestati nelle terramare, mentre per l’arredo interno sono stati riprodotti in archeologia sperimentale vasellame in ceramica, telai per la tessitura, oggetti in corno e in bronzo di tipo terramaricolo. La restante parte delle suppellettili è stata invece realizzata sulla base di confronti con contesti coevi della protostoria italiana ed europea. Per diversificare l’arredo e rendere evidenti alcune differenze sociali, una casa è stata interpretata come la residenza di un personaggio dell’élite
guerriera e l’altra come la dimora di un abitante di rango non elevato, dedito ad attività artigianali, quali la fabbricazione di oggetti in corno di cervo e di attrezzi in legno.
il know how dei metallurghi Il rapporto fra ricerca e divulgazione non si è però arrestato con l’inaugurazione del parco. Ricerche di archeologia sperimentale, riguardanti soprattutto la realizzazione della ceramica e di oggetti in bronzo, si sono poi trasformate in iniziative divulgative rivolte al grande pubblico durante le visite al parco. Fra quelle ancora in corso di realizzazione vi è «Smiths in Bronze Age Europe», nell’ambito del Progetto Europeo Openarch, con la quale si tenterà di definire sperimentalmente alcune tecniche fusorie e di lavorazione di manufatti in bronzo, misurando il grado di know how necessario per la costruzione di oggetti di particolare significato nell’età del Bronzo (asce, pugnali a manico fuso, spade a lingua da presa). Contemporaneamente sono state portate avanti, attraverso l’iniziativa
casa dell’artigiano La seconda abitazione ricostruita è invece quella di un artigiano, di ceto non elevato. L’esterno e la suddivisione interna non presentano sostanziali differenze rispetto alla casa del guerriero, ma si notano la scarsità e il minor pregio degli arredi. Un’attenzione particolare è stata dedicata alla ricostruzione delle aree artigianali per la tessitura e la lavorazione del corno di cervo e del legno.
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parchi archeologici • montale Disegno ricostruttivo della terramara di Montale, con le abitazioni circondate da un fossato.
del Museo Archeologico di Modena, da cui il parco dipende, le pubblicazioni degli scavi che riguardano, oltre a Montale, anche altre terramare, fra cui imminente è quella della necropoli di Casinalbo, terramara che dista da Montale solo pochi chilometri. Anche in questi casi la ricerca ha trovato il modo di essere divulgata al pubblico «in presa diretta» nel parco, attraverso le dimostrazioni delle metodologie di lavoro e dei risultati, fornite da archeologi, antropologi, archeozoologi e archeobotanici.
scienza e divulgazione La già ricordata mostra sulle terramare del 1997 aveva evidenziato le potenzialità che avrebbe avuto un parco open air come veicolo di proposte capaci di coniugare scienza e divulgazione, ma l’elaborazione di un progetto richiedeva una verifica della sostenibilità dell’intera operazione. Sul versante economico il Museo Archeologico di Modena poteva contare sul sostegno dei Comuni di Modena e Castelnuovo Rangone, di cui fa parte Montale, ma soprattutto sul decisivo apporto di risorse e know how del progetto europeo Archaeolive. Nell’orientare il piano dell’offerta culturale sono stati valutati rischi e potenzialità: in primo luogo, l’elemento di assoluta novità della proposta e l’assenza di realtà analoghe nelle immediate vicinanze facevano ragionevolmente ritenere di poter fare leva su un bacino territoriale 70 a r c h e o
che, come nel caso della mostra «Le Terramare», andasse oltre i confini regionali. Certamente, però, si era consapevoli di dover fare i conti con un territorio che, nonostante le attrattive culturali e turistiche, ancora stenta a individuare una propria vocazione. La stessa ubicazione del parco, se da un lato può definirsi strategica quanto ad accessibilità, presenta un appeal turistico-ambientale modesto, al contrario del «modello europeo» che privilegia l’ambientazione naturale, a volte a scapito della vicinanza del sito archeologico, che invece è un valore aggiunto per il parco di Montale. I programmi del parco sono stati concepiti tenendo presente due principali categorie di utenza, individuate con ragionevole certezza grazie alla lettura dei flussi di pubblico della mostra modenese sulle terramare: studiosi, studenti, ma, soprattutto, appassionati di proposte culturali di carattere archeologico (perlopiú famiglie con bambini) durante i week end, e scuole nei giorni infrasettimanali. A questi settori di pubblico ci si è poi rivolti con proposte mirate che da un lato hanno massicciamente coinvolto le scuole, anche grazie all’attinenza con il programma scolastico, dall’altro hanno garantito al parco una frequentazione e una fidelizzazione di visitatori superiore a quella prevista grazie alla varietà di attività che si affiancano alla visita tradizionale coinvolgendo attivamente il pubblico. Il Parco di Montale è un esempio di
come un sito archeologico di straordinaria importanza sia stato valorizzato attraverso un progetto di ricostruzione filologica, fino a diventare un punto di riferimento privilegiato nella conoscenza della preistoria per pubblico e scuole del territorio.Anche grazie al parco, e al suo modo di coinvolgere il visitatore, il termine «terramare» è tornato a essere uno degli elementi costitutivi dell’identità storica della regione.
da scavatori a guide Il positivo rapporto con il pubblico che il parco ha consolidato nei dieci anni di attività va ascritto anche al ruolo degli operatori: uno staff di archeologi che in gran parte ha partecipato sia agli scavi sia alle ricostruzioni e che, pertanto, ha sviluppato un forte senso di appartenenza che il visitatore percepisce come un valore aggiunto. La visita al Parco nelle giornate festive (limitate ai mesi piú favore-
voli dell’anno dal punto di vista climatico) è sempre accompagnata dalla presenza di un operatore che, nel guidare il pubblico dall’area archeologica al museo all’aperto, non solo illustra scavi e ricostruzioni ma si sofferma sugli aspetti scientifici che sottendono la realizzazione del complesso. L’apertura festiva è accompagnata da un programma di dimostrazioni di archeologia sperimentale o di antiche tecniche artigianali, che variano di volta in volta, offrendo sempre nuove occasioni di approfondimento nell’arco della stagione. Protagonisti delle attività sono talvolta esperti artigiani provenienti da musei e parchi italiani o europei, ma in gran parte sono gli stessi archeologi dello staff, ai quali il Museo ha fornito nel corso degli anni svariate occasioni di formazione che, corroborate dall’impegno e dalla passione, hanno consentito di sviluppare competenze spendibili anche al di fuori del parco, in ambito nazionale e internazionale. Poiché l’utenza a cui il parco in
uno sguardo oltre il confine Il Parco di Montale è inserito in una dimensione europea fin dal momento della sua progettazione e da anni, attraverso collaborazioni a vasto raggio, ha sviluppato sinergie con importanti musei archeologici open air del continente a partire dal suo coinvolgimento in Exarc, un’organizzazione europea che riunisce Parchi Archeologici e Musei all’aperto con l’obiettivo di sviluppare una sempre maggiore qualità della ricerca scientifica e della divulgazione. La realizzazione del Parco è avvenuta nell’ambito di un piú vasto progetto sostenuto dalla Commissione Europea che ha coinvolto per quattro anni, a partire dal 1999, accanto al museo Civico Archeologico Etnologico di Modena, il Museo di Storia Naturale di Vienna per il sito di Halstatt e il Museo delle Palafitte di Unteruhldingen sul Lago di Costanza. Il progetto, denominato Archaeolive, ha messo a confronto tre esperienze affini di parchi archeologici della protostoria europea con il proposito di valorizzare un periodo storico caratterizzato da una forte unità culturale. Il 2007 ha visto la nascita di una rete di cooperazione internazionale, liveARCH, alla quale hanno partecipato attivamente otto musei di altrettante nazioni europee, compresa l’Italia, rappresentata dal parco di Montale. La rete liveARCH aveva l’obiettivo di promuovere la conoscenza della storia piú antica attraverso ricostruzioni di luoghi, ambienti, attività del passato, sulla scorta dei dati archeologici. Dal 2011 il Parco di Montale è partner italiano del team di OpenArch, progetto europeo quinquennale di cui fanno parte 9 musei archeologici all’aperto europei e l’Università di Exeter (UK). L’obiettivo principale del progetto è quello di creare una collaborazione permanente tra musei archeologici open air d’Europa, incrementandone la qualità, l’attrattiva e i servizi per i visitatori.
Ricostruzioni di abitazioni palafitticole del Neolitico e dell’età del Bronzo nel Museo delle Palafitte di Unteruhldingen, sul lago di Costanza (Germania).
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parchi archeologici • montale
Il bilancio di 10 anni Fin dalla sua apertura il Parco è stato recepito come un’eccellenza sul fronte delle realizzazioni museali in ambito nazionale e internazionale, sia per la peculiarità dell’offerta che per l’alto livello qualitativo della proposta culturale. La coerenza scientifica che ne sottende la realizzazione e lo stretto collegamento con la ricerca in ambito archeologico differenziano profondamente questa realtà dai parchi a tema che presentano il passato in una dimensione evocativa o ludica. Il positivo bilancio del Parco, oltre che dai riconoscimenti del pubblico e dell’ambiente scientifico, è sostenuto dal numero di visitatori: dall’inaugurazione a oggi 164 000 visitatori fra pubblico e scuole hanno scelto il parco come meta di una gita o di una visita d’istruzione. Sono oltre 95 000 i bambini e ragazzi che hanno partecipato ai percorsi didattici. Le classi provengono per il 50% da Modena e provincia, per la restante percentuale dalla regione e in misura minore (10% circa del totale) da fuori regione. Ogni anno, dopo circa un mese dall’inizio delle prenotazioni, le disponibilità del parco per le scolaresche vengono esaurite e si forma una lunga lista di attesa. Percentuali simili emergono dall’analisi della provenienza dei visitatori dei giorni festivi che possono usufruire di circa 22 aperture all’anno (domeniche e festivi da aprile a metà giugno e da metà settembre a fine ottobre) con una media di 210 visitatori giornalieri. Questi dati confermano la validità e il successo della proposta culturale e delle scelte finora effettuate; tuttavia, occorre proseguire nel percorso di innovazione e ricerca che ha contraddistinto il progetto, arricchendo le proposte di attività che affiancano la visita sia con l’introduzione di nuove tematiche, sia con un’estensione degli approfondimenti scientifici che accompagnano le dimostrazioni. Se dunque energie e risorse devono sostenere il progetto di rinnovamento del parco, elementi di criticità, peraltro condivisi da altre realtà simili, possono insorgere sul fronte delle manutenzioni, che, in relazione a strutture costruite in materiale deperibile e sottoposte a frequentazioni di massa, devono essere effettuate con continuità e comportano investimenti onerosi. In momenti, come quello attuale, di diminuzioni di budget, la riduzione o la mancanza di questi interventi rappresenta un rischio concreto per realtà, come gli open air museum, che sono un irrinunciabile veicolo di divulgazione e conoscenza del passato. Questa è l’attuale composizione dello staff che assicura lo svolgimento delle attività svolte dal Parco Archeologico della Terramara di Montale: Elisa Fraulini (organizzazione); Francesco Benassi, Valentina Caselli, Ilaria Cassetta, Marianna Comeri, Valentina Gazzi, Valentina Longo, Antenore Manicardi, Giulia Mastrolorenzo, Marika Minghetti, Laura Parisini, Alessia Pelillo, Elisa Richeldi, Maria Elena Righi, Diana Vezzelli (visite guidate, percorsi didattici e laboratori); Monia Barbieri, Claudio Cavazzuti, Elisa Govi, Gianluca Pellacani, Luca Pellegrini, Federico Scacchetti (dimostrazioni di archeologia sperimentale).
L’archeologia sperimentata dai bambini «Scava, esamina il reperto che hai recuperato e cercalo nella sua forma ricostruita all’interno delle case»: sono queste le attività che impegnano bambini e ragazzi delle scuole.
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Qui sopra: piccoli visitatori del parco, impegnati come veri archeologi nel «cantiere di scavo», eseguono la setacciatura della terra di risulta. Nella pagina accanto: i bambini sperimentano la costruzione delle pareti delle case, intrecciando le canne e spalmando l’intonaco.
dove e quando
primo luogo si rivolge è quella della famiglie, ogni dimostrazione è accompagnata da un workshop dedicato ai bambini: se la dimostrazione ha come oggetto la produzione ceramica, i piccoli visitatori possono modellare un vaso di tipo terramaricolo; se si mostrano le tecniche usate per la ricostruzione delle case i bambini possono sperimentare la realizzazione di pareti con canne, frasche e intonaco; se l’attività sperimentale riguarda la fusione del bronzo, anche i piú piccoli possono cimentarsi nella fusione di pugnali e spilloni, ma utilizzando... la cioccolata.
un patrimonio comune I percorsi formativi, rivolti alle scuole primarie e secondarie, oltre a favorire la scoperta di un’importante realtà archeologica, devono assolvere al compito di educare alla conoscenza del bene culturale, come patrimonio comune da con-
Parco Archeologico e Museo all’aperto della Terramara di Montale Montale Rangone (Modena), via Vandelli (Statale 12-Nuova Estense) Orario domeniche e festivi dei mesi di aprile, maggio, giugno, settembre e ottobre, 10,00-13,30 e 14,30-19,00 (18,00 in ottobre) Info tel. 059 2033100; e-mail: info@parcomontale.it; web: parcomontale.it
servare e tutelare. Proprio per questo è stata data un’impronta metodologica all’esperienza, in modo da favorire in ogni bambino e ragazzo la consapevolezza del valore della ricerca. Montale si presta a un percorso che attraverso la sperimentazione delle diverse tappe del lavoro dell’archeologo, faccia comprendere quanti e quali dati può fornire uno scavo archeologico condotto scientificamente e come, attraverso un ulteriore lavoro di ricerca, queste informazioni possano contribuire all’interpretazione e ricostruzione. La dimensione evocativa delle ricostruzioni del villaggio si affianca (e non si sovrappone) al presupposto
scientifico rappresentato dagli scavi e il percorso di visita non è soltanto un viaggio nelle atmosfere di un villaggio dell’età del Bronzo, ma un modo per scoprire come si intraprende una ricerca. A questo scopo, all’interno dell’area archeologica, è stata realizzata una struttura che ripropone il «cantiere di scavo», affiancata da un laboratorio attrezzato dove i ragazzi possono sperimentare i metodi di interpretazione dei reperti. Effettuare la visita del museo all’aperto successivamente a questo approccio favorisce la percezione della ricostruzione come punto di arrivo di un percorso di ricerca e ne evidenzia le caratteristiche filologiche.
per saperne di piÚ • Maria Bernabò Brea, Andrea Cardarelli, Mauro Cremaschi (a cura di), Le Terramare. La piú antica civiltà padana (catalogo della mostra), Electa, Milano 1997 • Cristiana Zanasi, Il percorso didattico Esplorando una terramara: bambini al lavoro fra sperimentazione e gioco, in Archeologie sperimentali. Atti del Convegno (Comano Terme-Fiavè, settembre 2001), Provincia autonoma di Trento, Trento 2003 • Ilaria Pulini, Cristiana Zanasi, Guida al Museo Civico Archeologico Etnologico, Nuova Grafica, Modena 2008 • Andrea Cardarelli (a cura di), Guida del Parco archeologico e Museo all’aperto della Terramara di Montale, Nuova Grafica, Carpi 2009 • Andrea Cardarelli, Insediamenti dell’età del bronzo fra Secchia e Reno. Formazione, affermazione e collasso delle terramare, in Atlante dei Beni Archeologici della Provincia di Modena, III, Tomo 1, All’Insegna del Giglio, Firenze 2009 • Maria Bernabò Brea, Mauro Cremaschi (a cura di), Acqua e civiltà nelle terramare. La vasca di Noceto, Skira, Milano 2009. a r c h e o 73
speciale • da gerusalemme a milano
Da Gerusalemme a Milano Alle origini del cristianesimo di Donatella Caporusso, Anna Provenzali, Giovanni Giavini, Clara Forte e Guido Zavattoni
Il contesto storico, politico e religioso della Giudea al tempo di Gesú, il rapporto conflittuale del nuovo credo con il potere imperiale e le vicende che portarono al suo progressivo affermarsi come religione di stato sono al centro di una affascinante mostra allestita al Civico Museo Archeologico di Milano 74 a r c h e o
Salvo diversa indicazione, tutti gli oggetti raffigurati in queste pagine sono attualmente esposti nella mostra «Da Gerusalemme a Milano», allestita presso il Civico Museo Archeologico di Milano fino al prossimo 20 giugno.
Sulle due pagine: particolare della patera di Parabiago, grande piatto in argento sul quale è raffigurato a rilievo il viaggio trionfale della dea Cibele e di Attis. Seconda metà del IV sec. d.C. Nella pagina accanto: pendente a croce greca con iscrizione, facente parte del tesoro di epoca bizantina ritrovato nella fortezza di Cesarea (vedi a p. 83).
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speciale • da gerusalemme a milano
dal circo al monastero In alto: la chiesa di S. Maurizio e l’area del Monastero oggi occupata dal Civico Museo Archeologico. Sulle due pagine: disegno ricostruttivo del circo romano di Milano, voluto dall’imperatore Massimiano Erculeo (fine del III sec. d.C.). Nell’VIII-IX sec., una delle due torri, poste sul lato breve, all’inizio del circo, fu trasformata nel campanile della chiesa di S. Maurizio (foto qui sotto).
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l Civico Museo Archeologico di Milano, allestito nell’area dell’antico Monastero Maggiore di S. Maurizio (nella centrale via Magenta) e, da pochi anni, anche nella palazzina di via Nirone che della sede storica costituisce un prolungamento moderno, è una delle piú importanti istituzioni museali del nostro Paese (vedi «Archeo» n. 307, settembre 2010, anche on line su archeo.it). Della sua collezione fanno parte oggetti celeberrimi, basti citare la Patera di Parabiago, un grande piatto d’argento massiccio, decorato con la scena del trionfo di Cibele e di Attis, o la altrettanto famosa Coppa di Trivulzio, un vaso in vetro diatreta (traforato), entrambi del IV secolo d.C. Non tutti sanno, però, che l’area museale sorge all’interno di un contesto storico e architettonico straordinario, di cui, ancora oggi, testimoniano, oltre alle strutture stesse del Monastero (fondato, secondo la tradizione, in età longobarda o carolingia), due imponenti torri della fine del III secolo d.C.: una, a pianta poligonale, faceva parte dell’ampliamento delle mura cittadine voluto da Massimiano, l’altra, a pianta quadrata e trasformata in campanile della chiesa di S. Maurizio, era, in origine, una delle torri dei carceres, il punto di partenza dei cavalli che correvano nel grande circo, edificato anch’esso per volere dell’imperatore. Del Museo, inoltre, fa parte anche un vasto ambiente sotterraneo, la cripta della chiesa di S. Maurizio, restaurato di recente e adibito a spazio espositivo. E proprio qui è allestita una mostra solo in apparenza piccola, ma che ha come argomento una delle storie piú importanti e affascinanti della nostra civiltà, quella della nascita e dell’affermazione del cristianesimo. Il titolo «Da Gerusalemme a Milano» fa riferimento, come si intuirà, alle celebrazioni dei 1700 anni dalla promulgazione del cosiddetto editto del 313, con cui l’imperatore Costantino, proprio dal palazzo imperiale di Milano, concesse la libertà di culto in tutto l’impero, ponendo le basi, cosí, per l’affermazione del cristianesimo come religione di Stato. Ma vi è anche un altro aspetto, minore eppure significativo, che lega le due città: nei primi anni Sessanta del secolo scorso, una missione archeologica ita-
liana patrocinata dall’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere e diretta da Antonio Frova, scavò il teatro di Caesarea Maritima (in Israele), la città sul Mediterraneo voluta da Erode il Grande. Tra i reperti piú significati provenienti dagli scavi di Frova figura la lastra che nomina Ponzio Pilato, l’unica attestazione archeologica a oggi nota del celebre personaggio. Il reperto originale è, oggi, conservato all’Israel Museum di Gerusalemme, e un calco fedele è esposto nella cripta sotto S. Maurizio. La mostra milanese, aperta fino al 20 giugno, affronta un vasto arco di temi con mirabile completezza, sintesi e qualità didattica: dalla nascita del cristianesimo in Giudea al rapporto della nuova religione con le filosofie classiche, alla sua diffusione in Egitto, alla «convivenza» con i cosiddetti culti misterici fino alla sua affermazione come religione unica, universale ed esclusiva. Nelle pagine seguenti presentiamo un percorso scelto tra i numerosi argomenti e interrogativi affrontati dalla mostra e riassunti dalle curatrici Donatella Caporusso e Anna Provenzali. Per chi voglia saperne di piú, consigliamo la lettura del catalogo edito dallo stesso Civico Museo Archeologico di Milano. Andreas M. Steiner a r c h e o 77
speciale • da gerusalemme a milano
LA GIUDEA AL TEMPO DI GESÚ di Anna Provenzali
Ossuario da Gerusalemme. Gli ossuari sono le tipiche cassette in calcare usate come sepoltura secondaria a Gerusalemme, dall’età erodiana agli inizi del II sec. d.C.
La terra conosciuta storicamente come Iudaea, poi chiamata definitivamente Palaestina dall’imperatore Adriano, occupa geograficamente una piccola area del Levante mediterraneo, ma le vicende di cui fu teatro tra il I secolo a.C. e i primi secoli dell’era cristiana hanno lasciato una traccia indelebile e duratura nella nostra cultura e nella nostra storia. Epicentro del giudaismo, testimone della vicenda umana di Gesú Cristo, la Giudea era entrata a far parte del mondo ellenistico in seguito alla conquista di Alessandro Magno. Teatro poi, nel II e nel I secolo a.C., di eventi drammatici che culminarono nella
rivolta dei Maccabei e nella salita al trono della dinastia degli Asmonei, entrata nell’orbita romana a seguito della spedizione di Pompeo Magno nel 63 a.C., la Giudea fu di nuovo unificata sotto il regno di Erode il Grande (37-4 a.C.). Al volgere dell’era cristiana, il panorama economico e sociale di questa terra era alquanto sfaccettato, per la coesistenza di Giudei, divisi in varie correnti, Samaritani e «gentili», ossia pagani, particolarmente numerosi nelle città costiere. Equiparati agli altri abitanti dell’impero in materia fiscale, i Giudei beneficiano, come gli altri, di un’autonomia giuridica che implica la tutela e l’applicazione del loro diritto (la Torah). Già Augusto aveva stabilito che i precetti religiosi venissero rispettati e i Giudei fossero esonerati dal servizio militare. D’altro canto, l’autorità romana trova un appoggio
Se esiste qualcosa di certo per quanto riguarda la vita sulla terra di Gesú e che egli fu un ebreo che espresse opinioni originali e fastidiose riguardo a ciò che il giudaismo doveva significare e che fu ucciso per ordine di un praefectus romano che aveva poche o nessuna idea su ciò che significava il giudaismo» (Fergus Millar)
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La data di nascita di Gesú e la festa del Sol Invictus La data di nascita di Gesú e sconosciuta e non se ne fa menzione nei Vangeli; sembra ormai certo che non nacque all’inizio convenzionale dell’era cristiana, fissata dal monaco bizantino Dionigi il Piccolo (metà del VI secolo d.C.), ma piú indietro. Piú difficile è definire un anno preciso, anche se si propende per il 6 a.C., che soddisfa dati diversi, primo fra tutti quello della nascita di Gesú negli ultimi anni del regno di Erode, morto nel 4 a.C. Del dies natalis (giorno di nascita) di Gesú non vi è alcun accenno in nessuna fonte e il Natale iniziò a essere festeggiato solo nel IV secolo d.C. La scelta della data, fissata verso la fine del regno di Costantino, non fu certo casuale: il 25 dicembre era il giorno che, secondo i pagani, segnava il momento in cui la durata della notte iniziava a diminuire e il sole a «trionfare», ed era perciò oggetto di festa. L’imperatore Aureliano (270-275 d.C.) aveva ufficializzato il culto solare edificando un tempio sulle pendici del Quirinale e consacrandolo il 25 dicembre 274, festa del «dies natalis Solis Invicti». La Chiesa trasformò la solennità pagana del dio Sole nella festa della nascita di Cristo, vero sole che illumina ogni uomo. La traccia della festa pagana non scomparve con l’affermarsi del cristianesimo: nel V secolo, papa Leone Magno era costretto nell’omelia di Natale a polemizzare con i cristiani romani che, ancora legati alla tradizione pagana, prima di entrare in S. Pietro per la liturgia di Natale, si giravano sui gradini del tempio e si inchinavano a venerare il sole che sorgeva.
cancellate dal suo successore Antonino Pio, La Terra Santa al ma con questa data cessano le speranze di volgere dell’era autonomia della Giudea. cristiana.
il processo a Gesú Gesú fu crocifisso a Gerusalemme la vigilia della pasqua ebraica del 30, verosimilmente venerdí 7 aprile. Ricostruire le ultime fasi che precedettero la condanna a morte e le responsabilità da parte giudaica e da parte roDa D Dam ama a as asc scco s Tiro Tir o Tolema maide ide de d e (Accco) (Ac co)
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nella classe sacerdotale che regola il Tempio di Gerusalemme, la quale, tuttavia, gode di sempre minor prestigio presso il popolo. Dal regno di Erode in poi. infatti, il Sommo Sacerdote appare uno strumento nelle mani del potere civile, da cui viene scelto. La situazione è particolarmente tesa sotto alcuni prefetti romani, spesso inadeguati a fronteggiare la realtà locale, che mal comprendono. Sollevazioni popolari e provocazioni da parte delle autorità romane si alternano nei primi decenni del I secolo d.C. per poi sfociare, nel 66, nella Prima Rivolta Giudaica. Nel 70 Tito, non ancora imperatore, con 60 000 uomini al seguito, prende Gerusalemme, sconvolta dalla guerra civile, e distrugge la città e il Tempio (29 agosto 70). Dal 70 la Giudea diventa provincia imperiale indipendente dalla Siria con a capo un governatore, rappresentante diretto dell’imperatore (legatus Augusti pro praetore). Il mezzo shekel pagato tradizionalmente dai Giudei al Tempio viene trasformato in una tassa che ogni Giudeo deve pagare in onore di Giove Capitolino. Poco prima del regno di Traiano (98-117) la provincia di Iudaea passa dal rango pretoriano al rango consolare. La Seconda Rivolta (detta «di Bar Khokba»), che esplode quando Adriano avvia la ricostruzione di Gerusalemme nella colonia di Aelia Capitolina, viene repressa nel 135. Già nel 133-134 il nome stesso della provincia viene cambiato in «SyriaPalaestina», togliendo cosí qualsiasi allusione al popolo giudaico e vietando ai Giudei l’accesso a Gerusalemme. Le leggi antiebraiche promulgate da Adriano saranno poi
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viene quindi portato da Pilato. Per poter essere accolto dal tribunale romano il capo di imputazione assume una connotazione politica – Gesú inciterebbe alla sedizione – di cui resta evidente traccia nel titulus (iscrizione) «Rex Iudeorum» presente sulla croce. Il solo Luca ci informa che Pilato cerca di demandare l’imputato a Erode Antipa, il figlio di Erode il Grande che aveva giurisdizione sulla Galilea, luogo di nascita di Gesú. Fallito questo espediente, Pilato ricorre all’applicazione del «privilegio pasquale», l’abitudine del governatore romano di rilasciare un prigioniero a scelta del popolo in occasione della Pasqua. Alla definitiva condanna da parte dei presenti, Pilato compie il gesto di lavarsi le mani, gesto simbolico che nella tradizione giudaica ha un preciso significato di purificazione e che difficilmente possiamo immaginare compiuto da Pilato. La pena per crocifissione non era prevista dal diritto giudaico, ma era la modalità di esecuzione prescritta dal diritto romano per gli schiavi.
CESAREA MARITTIMA. UNA CITTÀ TRA PAGANI, EBREI, CRISTIANI E SAMARITANI di Giovanni Giavini e Anna Provenzali
Veduta aerea dell’area archeologica di Caesarea Maritima (Israele). Si riconoscono il teatro (in basso), il grande stadio/ ippodromo (al centro), le strutture portuali e l’acquedotto (in alto).
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mana nella sua condanna vuol dire entrare in un dibattito senza possibilità di soluzione, per mancanza di fonti che non siano di parte cristiana. L’unica fonte di cui disponiamo sono, infatti, i Vangeli, nella cui redazione si riflettono questioni teologiche e un particolare contesto storico, quello del primo cristianesimo, che vive un complesso rapporto sia con i Giudei, sia con l’autorità romana. Interrogato dal Gran Sinedrio, Gesú viene condannato a morte dalle autorità giudaiche per aver collegato l’avvento del regno di Dio al suo operato. Per essere eseguita, la pena richiede l’assenso dell’autorità romana. Gesú
Cesarea sorge sulla costa israeliana, 45 Km a sud di Haifa. Fondata probabilmente nel IV secolo a.C. da un re di Sidone di nome Stratone (da cui il nome di «Torre di Stratone») e ancora piccolo scalo in epoca ellenistica, Caesarea costituisce il piú grande e ambizioso progetto architettonico-urbanistico di Erode il Grande, il quale sceglie il sito per la sua importanza strategica e come importante scalo per il traffico mercantile. Costruita in dieci anni dal 22 a.C. con imponenti strutture pubbliche dedicate ai membri della casa imperiale e inaugurata con grandiose celebrazioni, Cesarea era dotata di un porto all’avanguardia, protetto da potenti frangiflutti. Sul porto si affacciava in posizione dominante il tempio dedicato ad Augusto e Roma, «visibile ai naviganti da lontano», mentre piú a sud gli scavi condotti negli anni Sessanta del secolo scorso da una missione archeologica italiana hanno portato alla luce il teatro, sempre erodiano. Elevato su podio, il tempio di Augusto e Roma era il centro di una festa annuale che comprendeva sia una processio-
PONZIO PILATO, prefetto di giudea Ponzio Pilato rivestí la carica di prefetto della Giudea dal 26 al 36 d.C., anno in cui fu destituito dal legato della provincia romana di Siria, da cui dipendeva. Da Giuseppe Flavio sappiamo che Pilato, nei primi anni della sua amministrazione, aveva compiuto delle azioni provocatorie nei confronti dei Giudei: aveva, infatti, fatto introdurre a Gerusalemme le insegne dell’esercito con le immagini imperiali, causando una violenta reazione. Dopo una brutale repressione, Pilato era stato costretto a ritirare le insegne. Non pago, Pilato aveva cercato di introdurre gli «scudi dorati» recanti un’iscrizione in onore dell’imperatore e aveva prelevato parte del tesoro del Tempio per costruire un acquedotto. Pilato fu, infine, deposto dai Romani per aver fatto giustiziare dei Samaritani accusati di sedizione.
Gli scavi italiani condotti da Antonio Frova nel teatro di Cesarea, oltre a documentare le varie fasi di rifacimento dello stesso, portarono al rinvenimento di diversi elementi di decorazione architettonica e di scultura, insieme a un gran numero di lucerne. Ma la scoperta che suscitò maggiore scalpore e interesse fu il rinvenimento di un’ epigrafe che nominava Ponzio Pilato, prefetto di Giudea. L’iscrizione (foto in questa pagina) è di estrema importanza in quanto si tratta dell’unica attestazione coeva, ufficiale e diretta del prefetto. Nell’epigrafe, frammentaria, in cui Ponzio Pilato porta il titolo di praefectus Iudaeae, si legge: «Ponzio Pilato, prefetto di Giudea [dedicò/restaurò e dedicò] il Tiberieum [per i naviganti/per gli abitanti di Cesarea]. La scritta commemora, dunque, la costruzione o il restauro di un edificio dedicato a Tiberio.
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speciale • da gerusalemme a milano A destra: lucerne in terracotta rinvenute nel teatro di Cesarea Marittima. I sec. d.C. Nella pagina accanto, in alto: una delle due lamine in piombo rinvenute nel teatro di Cesarea. Si tratta di cosiddette defixiones, termine che designale maledizioni di carattere magico scritte su un supporto che poi veniva nascosto. Nella pagina accanto, in basso: il tesoro di epoca bizantina (VI-VII sec. d.C.), rinvenuto dagli archeologi italiani nel 1962 nella fortezza costruita intorno al teatro di Cesarea.
ne, sia spettacoli che si svolgevano nello stadio/ippodromo. Questa struttura era collegata fisicamente al palazzo sul promontorio, elaborato complesso in prossimità del teatro. Giuseppe Flavio cita anche l’esistenza di granai coperti a volta che servivano a ospitare le merci in transito nel porto. Dopo la morte di Erode nel 4 a.C., Cesarea andò con il resto della Giudea al figlio Archelao, per poi passare dal 6 d.C. sotto il diretto dominio romano, ove rimase per piú di 600 anni, fatta eccezione per il periodo 37-44 d.C., quando appartenne al regno di Erode Agrippa I, che vi mori drammaticamente.
ricca e cosmopolita Subito dopo la sua fondazione Cesarea divenne una città marittima prospera, con una popolazione etnicamente mista e un’aura cosmopolita. I rinvenimenti – le monete, i piccoli oggetti cosí come la scultura – attestano l’internazionalità dei commerci e l’importanza della citta. Quartier generale di Vespasiano, che per l’aiuto nella Prima Rivolta Giudaica gli diede il titolo di Colonia Flavia, la città divenne la residenza del governatore romano (prima un praefectus, come attestato dall’epigrafe di Ponzio Pilato, poi un procurator), centro amministrativo e militare della provincia (prima Iudaea, poi, dopo la rivolta del 135, Syria et Palaestina). A partire dal III secolo la popolazione, stimata in 70 000 abitanti, è formata da pagani, Ebrei, cristiani e Samaritani; questi ultimi, in particolare, occupano posti di rilievo nell’am82 a r c h e o
ministrazione romana. Importante centro di studio di grammatica e retorica, nonché di legge, nei secoli III e IV Cesarea è un centro intellettuale di primaria rilevanza, che può vantare la presenza di un’importante accademia rabbinica e di una accademia cristiana fondata da Origene nel 254 d.C., alla cui guida vi furono prima Panfilo e poi Eusebio (vescovo tra il 313 e il 339). A Cesarea nacque e fu educato Procopio, lo storico dell’imperatore Giustiniano, ma le notizie sulla città nei secoli IV-VI sono scarse, a parte i riferimenti ecclesiastici. La rivolta samaritana del 529-530 culmina con l’uccisione o la riduzione in schiavitú di centinaia di Samaritani, con il risultato che il territorio agricolo circostante rimase spopolato. Nel 614 la città, attaccata dai Persiani sasanidi, si arrende senza opporre grande resistenza. Cesarea è di nuovo in mano bizantina per un breve periodo dopo il 628, ma capitola nel 641 agli Arabi, dopo un lungo assedio. Conquistata dai Crociati nel 1101, ripresa dagli Arabi e nuovamente da Crociati nel 1251, la città viene, infine, distrutta dal sultano Baybars nel 1265.
La città cristiana Cesarea è ricordata in piú occasioni negli Atti degli Apostoli; è teatro (Atti, 10, 1-48) di un episodio importante: la conversione del centurione Cornelio. Cornelio è un «gentile», cioè un pagano, descritto come uomo «timorato di Dio». Il suo battesimo da parte di Pietro, che poi fu incarcerato a Cesarea per
comitato milanese insieme a diversi enti lombardi e diretta da Antonio Frova tra il 1959 e il 1964. Il teatro di Cesarea è l’unico scavato in Giudea risalente a Erode e il primo a introdurre nella regione questo edificio per spettacoli. Costruito in occasione della fondazione della città, il teatro, che doveva ospitare 4000 spettatori, fa parte del programma edilizio monumentale che interesso l’intero sito e le caratteristiche costruttive cosí come la decorazione, che videro diversi rifacimenti, documentano la sua importanza nella vita della città. L’edificio rimase in uso dalla sua costruzione fino al V secolo, con diverse trasformazioni, per poi essere inglobato, in epoca bizantina, in una fortezza con torri semicircolari. La celebre iscrizione di Ponzio Pilato fu reimpiegata come gradino in una scaletta aggiunta all’estremita nord della cavea. volere di Erode Agrippa I, segna l’inizio della predicazione della Buona Novella non solo ai Giudei, ma anche ai «gentili». La città e menzionata anche come la patria di Filippo diacono, detto evangelista, «uno dei sette» (Atti, 21,8). Paolo passò piú volte a Cesarea durante i suoi viaggi e vi fu anche imprigionato (Atti, 23, 23-35); sempre a Cesarea morí Erode Agrippa I, persecutore della Chiesa. La comunità cristiana subí il martirio durante le persecuzioni di Decio (250-251), Valeriano (257-260) e Diocleziano (303-304). Panfilo (martirizzato nel 309; in Oriente le persecuzioni continuarono sotto Galerio e Licinio) raccolse e copiò gli scritti di Origene, fondando una biblioteca che secondo l’Historia Ecclesiastica (VII, 32.25) comprendeva 30 000 volumi, non solo di filosofia e storia, ma anche di scienza greca, poesia, retorica e scritti di autori giudaici di lingua greca, di cui restano tracce negli scritti di Eusebio.
la scoperta nel teatro Malgrado non abbia mai raggiunto l’importanza ecclesiastica di Alessandria, Roma e Antiochia, Cesarea vanta i nomi piú importanti della Chiesa piú antica: Origene, che vi si era trasferito da Alessandria nel 231 ed Eusebio (260 circa-340), vescovo dal 313 al 340. Nel V secolo una chiesa ottagonale sorse sopra il tempio dedicato ad Augusto e a Roma. Situato nella parte meridionale di Cesarea e orientato verso il mare per motivi acustici, il teatro fu scavato dalla Missione Archeologica Italiana promossa e finanziata da un a r c h e o 83
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I CRISTIANI E L’IMPERO di Donatella Caporusso
La vita nel mondo romano era fortemente condizionata dalla religione tradizionale: il culto degli dei e il rispetto delle antiche tradizioni assicuravano la protezione allo Stato, la tranquillità sociale e garantivano il successo militare.Vi era, tuttavia, tolleranza verso altri culti e associazioni religiose, che venivano accettati a condizione che non turbassero l’ordine pubblico. A Roma, crogiolo di tutte le razze, e in tutto il bacino del Mediterraneo, quando il cristianesimo cominciò a diffondersi intorno alla meta del I secolo, i culti stranieri erano innumerevoli, ognuno con il suo tempio, i suoi sacerdoti e le sue cerimonie: Iside, Cibele, Mitra avevano adoratori dappertutto. Ogni cittadino era libero di scegliere gli dèi che preferiva e di praticare il culto ritenuto piú confacente. Le sole regole da osservare erano quelle dell’ordine pubblico e del rispetto della morale; per il resto lo Stato non si intrometteva in una questione considerata di dominio privato. Perché, dunque, i Romani, cosí tolleranti in fatto di religioni, perseguitarono i cristiani? ll rapporto tra impero romano e cristiani è stato visto per lungo tempo come «una inin-
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terrotta serie di persecuzioni tra il I e il IV secolo».Tale visione, basata sulla ricostruzione degli eventi fornita da Tertulliano, scrittore cristiano del II secolo, è stata fortemente ridimensionata negli ultimi decenni: le posizioni degli imperatori e, soprattutto, dei magistrati locali nelle province di competenza furono infatti varie e diversificate nei riguardi del cristianesimo, con ampi margini di discrezionalità nell’applicazione delle norme e con brevi e drammatici episodi di intolleranza, sempre, però, di portata locale e non di massa. Le grandi persecuzioni contro i cristiani, estese capillarmente in tutto l’impero e determinate da un provvedimento imperiale, avvennero però nel III e agli inizi del IV secolo: quella sotto Decio, nel 250, fu di breve durata ed ebbe scarso effetto, mentre particolarmente cruente furono quelle sotto Valeriano nel 257 e Diocleziano nel 304.
Una minaccia per la pax deorum In tali frangenti i cristiani furono avvertiti come un pericolo, in quanto la loro «empietà» minacciava la pax deorum e alienava all’impero la protezione divina. L’atteggiamento dei cristiani di fronte all’impero nei primi secoli fu sostanzialmente (salvo alcune frange oltranzi-
Grande sarcofago in lamina di piombo, da Beit Safafa (Gerusalemme). Seconda metà del V sec. d.C. In Palestina, la produzione di sarcofagi in piombo copre circa due secoli, dal tardo periodo romano al primo periodo bizantino, e risponde alla crescente domanda di sarcofagi per la deposizione primaria del defunto, in questo caso un cristiano, come si evince dalle croci che ornano la cassa e il coperchio. Il sarcofago è stato donato al Civico Museo Archeologico dallo Stato di Israele nel 1965.
ste) non di avversione all’ordine costituito, ma di estraneità nei riguardi della politica e della società, sentendosi i cristiani cittadini di una patria celeste. Tale estraneità, pur trovando punti di riferimento in alcune correnti filosofiche (stoici, epicurei ,neoplatonici) induceva diffidenza e sospetto agli occhi dei pagani. Ma soprattutto il deciso rifiuto, per ragioni di fede, del culto imperiale e la credenza in un solo dio, che escludeva la partecipazione a qualsiasi altro culto, costituiva per l’opinione pubblica pagana un chiaro segno di ribellione e insubordinazione politica che minava la compattezza sociale dell’impero.
roma, giudei e cristiani Analogamente, anche gli Ebrei avevano un unico dio, ma, rispetto alla nova religio dei cristiani, l’origine antichissima del loro culto ne permise il riconoscimento di religio licita. Cosí, benché sia cristiani sia Giudei fossero entrambi athei secondo la religione romana, i Giudei ebbero a lungo un trattamento privilegiato, mentre i cristiani, che non prendevano parte alle attività civili, religiose e al servizio militare, si configurarono agli occhi di molti pagani come individui asociali, estranei alla religione tradizionale e quindi potenzialmente pericolosi in quanto gli dèi, offesi per l’abbandono del culto dovuto, non avrebbero garantito piú allo Stato la dovuta protezione. Sotto il principato di Claudio (41-54) esplodono a Roma, intorno al 49, tumulti giudaici
a causa di un tale Chrestus, che provocano l’allontanamento dall’Urbe dei dissidenti (Ebrei ed Ebrei cristiani). Dalla Lettera ai Romani di Paolo (datata tra il 54-55 o il 56-57) risulterebbe, infatti, che la comunità cristiana di Roma era composta all’epoca da fedeli provenienti sia dal giudaismo sia dal paganesimo.
l’incendio di nerone Il primo effettivo persecutore dei cristiani fu, però, l’imperatore Nerone, il quale, secondo la testimonianza di Tacito (Annales, XV, 44, 4-9), per discolparsi dall’accusa circolante, che lo individuava come principale responsabile dell’incendio che aveva devastato Roma nella notte tra il 18 e il 19 luglio del 64, riversò la colpa sui cristiani, già guardati con sospetto dall’opinione pubblica, incline ad accusarli di pratiche riprovevoli e di seguire una funesta superstizione (exitiabilis superstitio). Lo storico Svetonio accusa apertamente Nerone di aver provocato l’incendio, ma la colpa attribuita ai cristiani è quella di superstitio nova et malefica, cioè di seguire un nuovo culto che implica atti malvagi (come l’infanticidio, l’incesto o l’odio verso gli altri uomini). All’epoca di Traiano (98–117) e documentato un carteggio intercorso fra il 109 e il 111, tra l’imperatore e il governatore (legatus pro praetore) della Bitinia (regione sulla costa orientale del Mar Nero a nord dell’attuale Turchia), Plinio il Giovane. Questi, coinvolto in alcune denunce contro cristiani e non sapendo bene come comportarsi, chiese direttive all’imperatore: il quesito di base era se bisognasse ricercare e punire (con la morte) i cristiani soltanto per il fatto di esserlo oppure solo se avessero commesso delitti infamanti in connessione al nome di cristiani.Traiano rispose fissando una regola abbastanza ambigua, che rimase pero in vigore per oltre un secolo: «conquirendi non sunt». I cristiani non andavano ricercati d’ufficio in quanto tali e non si doveva tenere conto neppure delle delazioni anonime a loro carico. Ma, se denunciati in maniera circostanziata, dovevano essere processati e, se confessi, condannati. I cristiani che avessero comunque rinnegato la loro fede e sacrificato agli dèi, andavano assolti. Pochi anni piú tardi, nel 124-125, l’imperatore Adriano (117-138) indirizza al proconsole d’Asia Minicio Fundano un rescritto in cui ribadisce il «conquirendi non sunt» del suo predecessore, ma rende piú gravoso il divieto delle denunce anonime, ordinando la condanna di quelli che non producono prove a sostegno delle accuse contro i cristiani. a r c h e o 85
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Antonino Pio (138-162) ebbe un atteggiamento contradditorio: da un lato confermò, attraverso vari rescritti, la politica del suo predecessore, raccomandando «di non innovare nulla sui cristiani» (Eusebio, Hist. Eccl., IV, 26, 10), dall’altro promulgò disposizioni contro magia, astrologia e nuove religioni che favorirono l’applicazione restrittiva delle leggi contro i cristiani da parte di alcuni magistrati non solo nelle province, ma anche a Roma stessa.
«Sacrileghi, briganti e ladri» Il regno di Marco Aurelio (162-180) segna una svolta nella politica imperiale, con l’intensificarsi dei processi contro i cristiani. L’inasprimento persecutorio è attestato in tutto l’impero e in particolare da un provvedimento del 176 che prevede la ricerca d’ufficio di «sacrilegi latrones, plagiari et fures» («sacrileghi, briganti, ladri di schiavi altrui e ladri di beni altrui»; Digesta, 1,8,13; 49,13,4,2). I cristiani sono annoverati nella categoria dei sacrileghi (per l’offesa arrecata al culto tradizionale) e dunque oggetto di arresto anche senza denuncia di accusatori, come era invece previsto dal rescritto traianeo; da ciò scaturisce il processo e la condanna a morte dei martiri di Lione nel 177 (Origene, Contra Celsum, 7, 69). L’intervento deciso contro i cristiani va probabilmente collegato alla diffusione, intorno al 170, del montanismo, una dottrina di matrice marcatamente ascetica che prende il nome da Montano e ha origine in Frigia (una regione dell’attuale Turchia), di cui fornisce notizie Eusebio (Hist. Eccl. V, 14, 19). L’accentuato rigorismo morale si manifestava in un atteggiamento apertamente anti-statale con rifiuto del servizio militare e delle cariche pubbliche, proprio mentre l’aumentata pressione dei bar-
caracalla 211-217 d.C 86 a r c h e o
elagabalo 218-222 d.C
traiano 98-117 d.C
nerone 54-68 d.C
bari ai confini e la diffusione di pestilenze e carestie rendeva ancora piu necessaria la solidarietà dei cittadini verso lo Stato.
un periodo di tolleranza Con il figlio di Marco Aurelio, Commodo (180-192), l’atteggiamento dell’imperatore verso i cristiani e favorevole probabilmente grazie alla moglie Marcia, di sentimenti filocristiani.L’imperatore imposta un rapporto, anche se non ancora ufficiale, con la Chiesa, che diviene, di fatto, legittima proprietaria dei luoghi di culto e di sepoltura. Con la dinastia dei Severi si apre un lungo periodo di pace per l’impero e il cristianesimo. Settimio Severo (193-211) è africano di origine e la moglie Giulia Domna siriana. La famiglia imperiale favorisce il culto di divinità straniere poco familiari ai Romani e in questo clima di sincretismo anche il cristianesimo si colloca agevolmente, nonostante un breve momento, nel 202, in cui Giudei e
decio 249-251 d.C
gallieno 253-268 d.C
adriano 117-138 d.C
marco aurelio 162-180 d.C
cristiani vengono apertamente osteggiati con una disposizione imperiale che vieta la conversione al giudaismo e al cristianesimo. Passato questo periodo, il cristianesimo e ampiamente tollerato anche grazie all’accettazione da parte di molti cristiani, delle regole della convivenza politica. Con Caracalla (211-217), che succede al padre Settimio Severo, il cristianesimo ha ormai un ruolo centrale pubblicamente riconosciuto. La tolleranza e il favore verso i cristiani si accentuarono con l’imperatore Elagabalo (ucciso dalle truppe nel 222) e poi con il cugino, Severo Alessandro, ultimo imperatore della dinastia dei Severi. L’esaltazione del dio Sole e la subordinazione a esso di tutti gli altri dèi avviano al culto del dio supremo, di cui gli altri dèi sono manifestazioni. In questo nuovo culto è naturale che il cristianesimo, come il
commodo 180-192 d.C
settimio severo 193-211 d.C
giudaismo, trovi posto, insieme alla piú antica religione di Roma. Nel 244 assunse il potere imperiale M. Giulio Filippo, prefetto del pretorio di origine araba, dalla regione di Bosra, già sede di una
La conversione di Costantino e i rapporti con la chiesa cristiana e il mondo pagano La storiografia moderna si è spesso interrogata sulla sincerità della conversione di Costantino ricordando che, dopo essersi liberato del suocero e di tre cognati, Costantino nel 326 fece mettere a morte anche la moglie Fausta e il figlio Crispo. Anche se non è di particolare rilevanza il battesimo dell’imperatore solo poco prima di morire (si trattava infatti di una pratica diffusa, probabilmente per garantire un piú sicuro accesso al Regno dei Cieli), va ricordato che ancora nel dicembre del 320 Costantino disponeva la consultazione degli aruspici nel caso di folgori cadute su edifici pubblici, pur vietando contestualmente i sacrifici privati. In realtà la religiosità di Costantino, incentrata sull’idea dell’alleanza con il dio piú forte, capace di garantire la difesa dell’impero, è tipica della tradizione romana ed è strettamente collegata agli interessi dello Stato; riguarda quindi l’imperatore e non l’uomo, e non comporta perciò un mutamento nella vita interiore per la salvezza dell’anima. Sul versante opposto è la tradizione del cristianesimo orientale, secondo cui Costantino è da equiparare a un Santo, al tredicesimo apostolo (fu sepolto non a caso a Costantinopoli nella basilica dei SS. Apostoli), probabilmente per il ruolo svolto dall’imperatore nei concili e per i grandi favori elargiti alla Chiesa. Non va infine trascurato il ruolo della madre dell’imperatore, Elena, convertita forse al cristianesimo ariano, il cui viaggio in Oriente, a cui si ricollega la leggenda del ritrovamento della Croce, segnò l’inizio dei pellegrinaggi in Terra Santa.
costantino 306-337 d.C a r c h e o 87
speciale • da gerusalemme a milano
fiorente chiesa cristiana e di una scuola teologica dagli inizi del III secolo. Filippo man- Perché il cristianesimo divenne la tenne il potere, grazie al favore dell’esercito, religione preponderante nell’impero per cinque anni, prima di essere ucciso a Romano? tradimento dal suo successore, Decio. La notizia che Filippo fosse cristiano e riportata da Nel 150 d.C., sotto Marco Aurelio, l’impero fu colpito da una diverse fonti cristiane della fine del IV secolo devastante epidemia, probabilmente di vaiolo, che durò circa (Paolo Orosio, Contra Paganos, VII, 20,2-3; quindici anni e in cui si stima che morí da un terzo a un quarto Girolamo, De viris illustribus, LIV; Eusebio, della popolazione, tra cui l’imperatore stesso. Un secolo dopo, Hist. Eccl., VI,34), ma viene considerata non una nuova epidemia, altrettanto devastante, si diffuse sufficientemente comprovata da molti stu- nell’impero. Gli scrittori dell’epoca riferiscono del disastro diosi, anche se e comunque innegabile un demografico, che ebbe probabilmente un ruolo nel declino di atteggiamento particolarmente favorevole al Roma, con lo spopolamento di vasti territori dell’impero in cui cristianesimo. La storiografia pagana ha la- vennero stanziati barbari che vennero cosí inseriti nell’esercito. sciato, forse anche per questa ragione, un’im- È possibile che anche le epidemie abbiano avuto un ruolo nella magine negativa di Filippo l’Arabo, descritto diffusione del cristianesimo. A fronte della totale carenza di come un vile e un incapace, a cui si contrap- strutture pubbliche capaci di elargire servizi sociali, i vescovi pone l’ esaltazione del suo successore Decio cristiani infatti, oltre a offrire conforto in tali frangenti con la «restauratore del paganesimo». certezza di una vita celeste per i cristiani defunti invitavano i Agli inizi del 249 si scatenò ad Alessandria fedeli a prendersi cura degli ammalati, indipendentemente dal d’Egitto una selvaggia caccia ai cristiani, fo- fatto che fossero cristiani o pagani, e inoltre a occuparsi degli mentata dagli ambienti piú tradizionalisti del orfani e delle vedove e a dare Senato e dal fanatismo del popolo, sempre tiassistenza ai poveri. moroso della vendetta degli dèi a causa La forza del cristianesimo non dell’empietà dei cristiani. Filippo risiede quindi solo nella venne ucciso a tradimento in promessa di compensi Tracia e gli successe Traiano ultraterreni per le Decio (249-251), un illirico sofferenze di questa vita, convinto rappresentante ma anche e soprattutto della restaurazione religionella creazione di «uno sa pagana, che impose nel stato assistenziale in 250, attraverso un editto, miniatura in un impero in l’obbligo – ovunque – di gran parte carente di servizi sacrificare individualmensociali» (Peter Brown, Genesi te agli dèi, certificato su della tarda Antichità). un libello da un’apposita commissione. Si trattò della prima disposizione imperiale stabilí, oltre alla pena di morte per vescovi, anticristiana di validità generale su presbiteri e diaconi previa semplice identifitutto il territorio dell’impero e quindi della cazione, di privare della loro dignità e dei beni prima effettiva persecuzione di massa. anche i cavalieri e i senatori cristiani e di apVetro dorato con iscrizione e croce plicare la pena di morte in caso di persistenza monogrammatica, nel dichiararsi cristiani. editti contro la chiesa La situazione peggiorò notevolmente per i forse usata per la Gallieno (260–268), appena subentrato al padre Valeriano, provvide a revocare la prececristiani con Valeriano (253-260), che im- chiusura di un dente normativa contro i cristiani, restituenpresse una svolta decisiva ai rapporti tra impe- loculo, di do loro anche quanto era stato confiscato. ro e Chiesa. Infatti non piú i singoli individui, provenienza Inoltre, riconobbe il cristianesimo come relima anche la Chiesa stessa con la sua gerarchia ignota. Si legge, gio licita, cosí come lo era, da molto tempo, il e la sua struttura divennero oggetto di perse- in parte, il nome giudaismo. Il quarantennio, tra l’editto di cuzione, attraverso due minuziosi editti del del defunto Gallieno e la grande ultima persecuzione 257 e 258, con cui vennero dapprima condan- (Ceci …/Ve …). di Diocleziano (260 e 303), è segnato nate e mandate in esilio le piú alte cariche Al lato e il da un periodo di coesistenza pacifiecclesiastiche (vescovi, presbiteri, diaconi) che Chrismon, il ca tra la Chiesa cristiana e lo Stato, avessero rifiutato di partecipare alle celebrazio- monogramma di ni ufficiali pagane, proibite le riunioni cristia- Cristo e, in basso, ufficialmente pagano, con la presenza di cristiani tra i magistrati ne, pena la morte, confiscate le proprietà (luo- un rametto. e i funzionari dello Stato. ghi di culto e cimiteri). Nel secondo editto si IV sec.d.C. 88 a r c h e o
Con l’avvento di Diocleziano (284) e la successiva creazione della tetrarchia (governo di quattro, due Augusti e due Cesari, dal 293, allo scopo di controllare meglio il territorio) l’impostazione religiosa tradizionalistica ridivenne la base della politica imperiale: gli imperatori appoggiavano il loro potere sugli dèi della vecchia religione olimpica e in particolare Iuppiter conservator Augusti. Diocleziano prese il titolo di Giovio e Massimiano quello di Erculeo. Nonostante l’attaccamento alla religione degli antichi dèi, Diocleziano tenne per quasi vent’anni di regno un comportamento prudente e moderato verso i cristiani, che costituivano una minoranza forte e ben Frammento di integrata nelle funzioni vitali dell’impero. coperchio di
una decisione dettata dalla crisi A provocare l’imperatore Diocleziano sarebbe stata la denuncia degli aruspici, i sacerdoti della antica religione etrusco-romana, contro i cristiani, contrari ai sacrifici cruenti praticati dagli aruspici che leggevano nelle viscere degli animali il responso degli antichi dèi. Tuttavia, il fatto che Diocleziano si decidesse a perseguitare i cristiani nel 303, dopo ben diciannove anni di tolleranza, è stato interpretato da alcuni studiosi in funzione prettamente utilitaria: a seguito della crisi economica, la produzione era diminuita e i prezzi saliti alle
sarcofago in marmo bianco con san Paolo e santa Tecla, rinvenuto in un muro della basilica di S. Valentino sulla via Flaminia a Roma. IV sec.d.C. Roma, Musei Capitolini, Centrale Montemartini.
stelle, con conseguente sviluppo del mercato nero. Da ciò la necessita di reperire mezzi economici a ogni costo per arginare la crisi e rimpinguare le casse dello Stato: le disposizioni di Diocleziano miravano, infatti, a colpire i beni mobili e gli edifici, ma non comminavano la pena di morte, perlomeno in un primo momento. Incalzato dal cesare Galerio, animato da un odio feroce verso i cristiani, Diocleziano emano infine, il 23 febbraio del 303, il primo editto con cui ordinava la confisca delle chiese, il rogo delle sacre scritture, la proibizione di riunioni tra cristiani e l’infamia (perdita dei diritti civili e degradazione sociale) per i cristiani che persistessero nella loro fede, senza però spargimenti di sangue. Nel 305 con l’abdicazione di Diocleziano e Massimiano, le persecuzioni ebbero esiti diversi: in Occidente furono subito interrotte, mentre in Oriente, con Galerio e il collega Licinio, la persecuzione proseguí fino al 311 e in alcune province, anche se in maniera discontinua, fino al 313. Galerio continuò accanitamente le persecuzioni fino a quando, in punto di morte, firmò a Serdica un Editto di tolleranza verso i cristiani nell’aprile del 311. Un anno dopo l’editto di Serdica, nell’ottobre del 312, Costantino porterà il monogramma di Cristo sulle sue insegne nella battaglia che lo vedrà vittorioso su Massenzio al Ponte Milvio, alle porte di Roma.
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IL CRISTIANESIMO DA RELIGIONE LECITA A RELIGIONE DI STATO di Donatella Caporusso, Clara Forte e Guido Zavattoni
Flavio Valerio Costantino nacque intorno al 280 in Illiria (l’attuale Serbia) da Costanzo Cloro, uno dei tetrarchi d’Occidente e da Elena. Proclamato Augusto (imperatore) nel 306 dalle truppe del padre in Britannia, strinse alleanza con Massimiano Erculeo, il tetrarca che risiedeva a Milano, sposandone la figlia Fausta, e con Galerio, l’Augusto d’Oriente. Dopo aver sconfitto il rivale Massenzio nel 312 ed essere divenuto signore dell’Occidente, Costantino si incontrò a Milano nel febbraio del 313 con Licinio, nuovo signore dell’Oriente e da quell’incontro nacque la disposizione di legge conosciuta come editto di Milano.
tra religione e politica Il testo è probabilmente frutto del compromesso tra Costantino, spinto sia da un personale interesse religioso sia da un calcolo politico, e Licinio, meno interessato agli aspetti religiosi, ma comunque incline a ingraziarsi i cristiani al fine di mobilitare tutte le possibili risorse nella sua lotta contro Massimino. Va ricordato che questa opportunità non sfuggí allo stesso Massimino, il quale, poco prima della definitiva disfatta a opera di Licinio (313), nel disperato tentativo di ottenere l’aiuto dei cristiani, emanò un editto concedendo loro la libertà di culto e la restituzione dei beni sequestrati nel corso delle persecuzioni dioclezianee. Per la parte relativa alla cessazione delle persecuzioni e al ripristino dei diritti dei cristiani, l’editto di Milano molto deve agli editti restitutivi dei predecessori, tra i quali lo stesso Massenzio, che aveva già posto fine alla persecuzione dioclezianea, disponendo, nel 311, la restituzione dei beni confiscati alle chiese cristiane e già in precedenza aveva intrattenuto ampi rapporti con la comunità cristiana, intervenendo nelle controversie sull’episcopato romano in modo non dissimile da quanto fece in seguito Costantino. L’aspetto innovativo dell’editto è invece dato dall’affermazione del principio che la divinità, qualunque sia nel cielo, possa essere adorata da chiunque e che, di conseguenza, proprio per assicurarsene l’appoggio, viene concessa «ai cristiani e a tutti» la libertà di seguire la religione che vogliono. La menzione specifica dei cristiani probabilmente non ha 90 a r c h e o
Nella pagina accanto: due lucerne in terra sigillata, entrambe databili al V sec. d.C.: l’esemplare in basso è decorato con il motivo veterotestamentario degli esploratori inviati da Mosè nella terra di Canaan («Giunti alla valle di Escol, tagliarono un tralcio con un grappolo d’uva e lo portarono con una stanga in due», Numeri, 13, 23). Il tralcio con il pesante grappolo d’uva è segno della fertilità della Terra Promessa. L’esemplare in alto, invece, è decorato con il simbolo cristiano del chrismòn, il cristogramma costituito dalla sovrapposizione delle prime due lettere del nome greco di Cristo, X (l’equivalente del latino «ch») e P (che indica il suono «r»).
Statua in marmo bianco di Iside, di provenienza ignota. Prima metà del II sec.d.C.
Ebrei e cristiani: una convivenza difficile Il cristianesimo nasce nell’alveo della religione ebraica, assumendo come testo sacro la Bibbia ebraica. Solo agli inizi del II secolo d.C. si cominciarono a distinguere i seguaci di Cristo dagli Ebrei e nella seconda metà del II secolo il termine «cristiani» fu applicato in modo esclusivo ai seguaci di Gesú non ebrei. A partire dal II secolo si accentuò la polemica cristiana contro gli Ebrei, a cui fu attribuita la responsabilità della morte di Gesú. Secondo un testo apocrifo, il Vangelo di Pietro, a emanare la condanna non è piú Pilato, ma Erode Agrippa. Nell’Omelia sulla Pasqua di Melitone da Sardi i Romani sono scomparsi ed è Israele che ha ucciso il suo Signore. Nei secoli successivi comparvero scritti apocrifi, il cosiddetto «Ciclo di Pilato», il cui fine era di sminuire il ruolo dei Romani e di Pilato nella morte di Gesú, facendone ricadere la responsabilità esclusivamente sul popolo ebraico. La politica costantiniana fu improntata a una certa tolleranza, non disgiunta però dal disprezzo (le richieste degli Ebrei sono definite «miserabiles preces»), a condizione che gli Ebrei non interferissero con la Chiesa e si astenessero dal proselitismo: un editto del 315 tutelò, infatti, le conversioni dal giudaismo al cristianesimo, minacciando severissime pene a chi le avesse osteggiate o impedite, vietando contemporaneamente le conversioni al giudaismo.
sanzioni per eretici e dissidenti. Nel 388 fu promulgato il divieto di riunione e di celebrazione di riti per i non cristiani, con obbligo di ricerca dei rei da sottoporre al giudice per un severo supplizio. Infine, nel 392 fu emanato l’editto di proibizione non solo dei sacrifici pagani e della semplice frequentazione di un tempio non cristiano, ma anche dei culti domestici dei Lari e dei Penati. La soppressione di qualsiasi forma di culto non cristiano trovò il suo completamento con i successori di Teodosio. I templi furono spogliati delle poche statue rimaste, gli altari furono distrutti, gli edifici ridotti a uso pubblico e i fedeli perseguitati con gli stessi strumenti in nuove persecuzioni Il percorso di trasformazione del cristianesi- precedenza usati per i cristiani: divieto di acmo in religione di Stato giunse a compimen- cesso alle carriere civili e militari, limitazioni to con Teodosio (379-395). Nel 380 l’impe- successorie e di accesso alla giustizia, confische ratore emanò – insieme con i colleghi Gra- e anche la pena capitale per quelli sorpresi a ziano, che ricoprí la carica di Pontifex Maxi- compiere sacrifici, «benignamente» convertita mus fino al 379, e Valentiniano – il cosiddetto nel 423 nella confisca dei beni e nell’esilio. «editto di Tessalonica», contenente la definitiva affermazione dei principi di Nicea e la condanna dell’arianesimo, con minaccia di necessariamente il significato di farne una religione privilegiata, ma deriva piuttosto dallo scopo contingente dell’editto di porre fine alle persecuzioni nei loro confronti, anche se questo non fu che il primo passo per un effettivo coinvolgimento dei cristiani nella tutela dell’impero. Il cristianesimo non venne piú soltanto tollerato e riconosciuto lecito, come ai tempi di Gallieno, ma si affianco, con uguali diritti, alle altre religioni dell’impero.
dove e quando «Da Gerusalemme a Milano. Imperatori, filosofi e dèi alle origini del Cristianesimo» Milano, Civico Museo Archeologico fino al 20 giugno 2014 Orario ma-do, 9,00-17,30; lu chiuso Info tel. 02 88445208 e-mail: c.museoarcheologico@ comune.milano.it; web: comune.milano.it/ museoarcheologico a r c h e o 91
storia • etruria dei misteri
c’è un enigma nel parco...
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di Paola Di Silvio
Volterra
Arezzo
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Il dono di larth Un altro nome attribuito all’acropoli è quello di Marturanum, un toponimo desunto da fonti medievali e che sembra trovare conferma in una iscrizione etrusca: [min]i turuce larth manthureie ( «io sono stato donato da Larth di Manthura») incisa sul frammento di un grande contenitore in terracotta (pithos), ritrovato all’interno di una tomba. Nel periodo romano la città, posta a
Fiesole
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S
ul finire dell’Ottocento, tra i Monti della Tolfa e la via Cassia, circa 2 km a nord-est del moderno abitato di Barbarano Romano (Viterbo), fu localizzato un piccolo, ma significativo, centro etrusco. Si estendeva sul pianoro denominato San Giuliano, dal nome del santo qui venerato, in una suggestiva chiesetta, eretta nel Medioevo. Circondata e delimitata da profonde valli di incisione fluviale, l’altura tufacea fu occupata da un insediamento stabile già durante il Villanoviano (VIII secolo a.C.), ma che conobbe il periodo di maggiore prosperità nel corso del VI secolo a.C., grazie alla sua posizione, naturalmente fortificata, sulla via che da Cerveteri conduceva a Orvieto. In questa fase l’abitato appare strettamente legato, almeno dal punto di vista culturale, a Cerveteri, ma in seguito, in concomitanza con il declino di quest’ultima città, divenne un avamposto di Tarquinia verso Roma. Alcuni vorrebbero identificarlo con Cortuosa, che Livio cita, insieme a Contenebra, come fortificazione (oppidum) tarquiniese conquistata dai Romani nel 388 a.C.
Pisa
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presso l’odierno borgo di barbarano romano, in provincia di viterbo, si conserva una delle piú spettacolari necropoli rupestri dell’alto lazio. È quella di san giuliano, alla quale appartiene un tumulo principesco ancora avvolto dal mistero...
Chiusi Populonia Vetulonia Saturnia
Perugia Orvieto
Vulci
San Giuliano
Tarquinia
Mar Tirreno
Veio Cerveteri Roma
In alto: cartina dell’Etruria con la localizzazione del sito di San Giuliano. Sulle due pagine: Barbarano Romano (Viterbo), necropoli di San Giuliano. Un gruppo di tombe rupestri nel settore del sepolcreto denominato Chiusa Cima. Le deposizioni coprono un arco cronologico compreso tra il VII e il II sec. a.C.
non molta distanza dalle consolari Cassia e Clodia, continua a godere di un certo benessere, ma durante l’età imperiale ha inizio la sua decadenza, fino al definitivo trasferimento della popolazione nella vicina Barbarano, nominata per la prima volta in un documento del 1188. L’intera zona, data l’alta valenza culturale e paesaggistica, è compresa nell’ambito del Parco Regionale «Marturanum», istituito nel 1984 (vedi box a p. 98). All’interno di questo splendido scenario naturalistico, tra forre e valloni che si susseguono quasi senza discontinuità, immersa in una vegetazione, a tratti impenetrabile, di carpini e noccioli, felci e orchidee selvatiche, si estende la vasta necropoli rupestre di San Giuliano, una delle piú ricche e rappresentative dell’Etruria meridionale interna. Essa offre un panorama completo dello sviluppo dell’architettura funeraria etrusca, facendo registrare un dinamismo tipologico eccezionale. Passeggiando lungo gli ombrosi sentieri del parco, si resta stupefatti di fronte alla varietà e al a r c h e o 93
storia • etruria dei misteri
numero delle tombe, i cui ingressi oscuri si aprono improvvisi tra la vegetazione. Come in ogni necropoli rupestre, le tombe piú antiche si trovano sugli altipiani, o ai loro margini, mentre le successive, per non occupare aree fertili e produttive, si dispongono lungo gli scoscesi pendii. Tombe a fossa, a tumulo, a forma di dado, a tetto displuviato, tombe a portico, non riscontrabili altrove, a nicchia, testimoniano un fervore incredibile di vita economica e artistica dal VII al II secolo a.C. Ricchi sono gli apparati decorativi, che risentono soprattutto dell’influenza ceretana: profili e modanature finemente elaborati, porte inquadrate da cornici doriche, banchine, soffitti a doppio spiovente.
strade e scalinate Dall’esterno delle tombe provengono numerosi cippi, a forma di casa, colonna, obelisco, o sculture di animali fantastici, in tufo e peperino. Ai margini dei percorsi, che ricalcano sovente la viabilità antica, si aprono piazzette artificiali, che fanno dedurre un uso familiare di quello spazio, forse destinato a particolari cerimonie funebri. Fra le gole, sul cui fondo piccoli corsi d’acqua corrono a confluire nel fosso Biedano, si ritrovano tracce di strade e camminamenti inerpicati su costoni di tufo, mentre strette scalinate, intagliate nella roccia, consentono l’accesso ai diversi livelli della necropoli. Giungendo dal piccolo centro di Barbarano Romano, il primo settore della necropoli che si incontra è quello noto con il toponimo di Chiusa Cima, dal nome dell’altura che lo ospita. Le tombe occupano il piano e le pendici settentrionali di una collina che si affaccia sull’omonimo fosso, a sud-est dell’abitato antico. Al limite orientale è situato il grandioso tumulo Cima, che della necropoli è il monumento piú complesso ed enigmatico. Questa sontuosa e articolata sepoltura è nota sin dal 1921, quando Gino Rosi ne curò in parte lo sterro, se94 a r c h e o
un monumento grandioso
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Planimetria del tumulo Cima, sepoltura monumentale utilizzata tra il VII e il VI sec. a.C.: 1. il lungo dromos (corridoio) di accesso; 2. la camera principale con il letto funebre in peperino; 3. il vestibolo della camera principale, con soffitto a cassettoni, su cui si affacciano altre due camere; 4-5. l’ambiente che precede il vestibolo sul lato sinistro, il cui soffitto presenta un motivo «a ventaglio» scolpito nel tufo, a imitazione dei tetti di rami e paglia utilizzati nelle abitazioni.
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storia • etruria dei misteri
la piattaforma dei misteri Planimetria del tumulo Cima e della piattaforma a esso collegata. Il complesso, probabilmente destinato al culto funerario, è di forma rettangolare con 17 basi di cippi, disposte su doppia fila (vedi anche la foto in basso), e un alloggiamento circolare, che forse ospitava un altare.
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Cippo modellato a obelisco, rinvenuto all’esterno di una tomba in località Chiusa Cima Valle. IV sec. a.C. Barbarano Romano, Museo Archeologico delle Necropoli rupestri.
guendo però una strategia che impedí la corretta comprensione della labirintica planimetria interna del sepolcro, sistematicamente scavato e restaurato solo fra il 1962 e il 1975.
defunti di rango Ricavato nella roccia, il tumulo ha un diametro di circa 25 m, e fu realizzato nella seconda metà del VII secolo a.C., per contenere una ricca tomba aristocratica, e successivamente utilizzato per circa un secolo per ospitare i defunti della stessa famiglia in camere sepolcrali piú modeste, che si aprono lungo il suo perimetro. È questa la testimonianza piú significativa degli stretti rapporti tra San Giuliano e la vicina Cerveteri: i monumentali com-
plessi a tumulo, che caratterizzano l’architettura funeraria ceretana tra il VII e il VI secolo a.C., si ritrovano anche in quest’area dell’Etruria interna, espressione di una committenza che sta emergendo nell’ambito cittadino e sta accumulando nelle proprie mani tutto il potere economico e politico. Il tumulo Cima è caratterizzato da un enorme tamburo, ricavato in gran parte nel tufo, decorato da modanature, solo parzialmente conservate. La tomba principale si apre sul lato settentrionale del monumento e presenta un lungo corridoio (dromos) di accesso, che immette in un vestibolo quadrangolare, sul quale si affacciano due camere laterali, collegate con altri due
vani che si aprono sul dromos poco prima dell’ingresso. La copertura del vestibolo è caratterizzata da un soffitto a cassettoni, intagliato nel tufo. In alcune delle parti a rilievo è possibile vedere i resti della originaria decorazione pittorica policroma con palmette. La camera principale, restaurata di recente dopo un crollo, ha quattro pilastri che sorreggono il soffitto piano, decorato a riquadri simili a quelli del vestibolo. A sinistra è collocato un monumentale letto funebre di peperino, con gambe a rilievo e cuscino semilunato, aggiunto successivamente alla costruzione dell’ambiente. Lungo quasi tutto il perimetro della camera corre una bassa banchina. Le pareti dovevano in origine essere rivestite di pitture, realizzate direttamente sul tufo e di cui sono state individuate scarse tracce sulla parete di fondo. Si tratta del motivo di chiara ascendenza orientale dei felini in schema araldico. Tracce di decorazione pittorica in rosso sono visibili anche intorno alle porte che si affacciano sul vestibolo, a imitare un architrave di stile dorico.
a imitazione delle case Di estremo interesse è l’ambiente che precede il vestibolo sul lato sinistro, tripartito da coppie di lesene scanalate. Queste sorreggono timpani, risparmiati nel tufo, su cui poggia un soffitto a doppio spiovente, con rappresentazione della trave centrale (columen) e dei travetti trasversali, chiara «traduzione» nel tufo di un padiglione a soffitto ligneo. La parte anteriore dell’ambiente presenta un singolare soffitto in cui è riprodotta una travatura disposta a ventaglio, che rievoca una copertura in legno e materiale stramineo, tipica delle capanne. Al centro del pavimento sorge una a r c h e o 97
storia • etruria dei misteri Una veduta della necropoli rupestre di San Giuliano, con le sepolture che si aprono lungo i pendii.
Alla scoperta del parco
Il Parco Regionale Marturanum, nei cui confini ricade la necropoli etrusca di San Giuliano, si trova nel territorio del comune di Barbarano Romano (VT) e si estende per circa 1240 ettari in una zona collinare ai margini nord-orientali dei monti della Tolfa e a breve distanza dai monti Cimini. È agevolmente raggiungibile da Roma (65 km circa) e da Viterbo (30 km circa), percorrendo la S.S. 2, Cassia, fino al km 60; di lí, si seguono le indicazioni stradali fino a Barbarano Romano o per l’area di sosta attrezzata di Caiolo. All’ingresso del paese di Barbarano Romano, provenendo da Roma, è attivo il Centro Visite-Museo naturalistico (aperto venerdí, sabato e domenica, dalle 10,00 alle 13,00 e dalle 14,00 alle 18,00). Offre una prima occasione di conoscenza del territorio del Parco. Qui è disponibile materiale divulgativo (mappe, depliant, pubblicazioni) ed è possibile vedere filmati. Fornisce informazioni per la visita nell’area protetta e su prenotazione organizza visite guidate. Questi, invece, sono i recapiti degli uffici del Parco, aperti dal lunedí al venerdí: tel. 0761 414507 oppure 414601; fax 0761 414495; e-mail: marturanum@parchilazio.it; sito web: www.parchilazio.it
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base, risparmiata nel banco tufaceo, che probabilmente reggeva un altare funerario perduto, ligneo o costruito in blocchi di tufo, forse riservato alle cerimonie cultuali.
i pilastri e l’altare Ma l’elemento che riveste maggiore interesse, per l’unicità della sua concezione, è la grande piattaforma rettangolare – di 9 m di lunghezza e oltre 3 di ampiezza – ricavata nella roccia in un spazio appositamente creato sul lato orientale del tumulo. Essa era in origine coronata da due file parallele di imponenti cippi, forse del tipo a obelisco, di cui restano le basi quadrangolari ricavate nel tufo. Questi 17 pilastri, di cui oggi su intuisce solo la forma
piramidale, trovano un confronto calzante con l’esemplare conservato presso il Museo Archeologico di Barbarano, un unicum in Etruria. Si tratta di un cippo a obelisco di tufo, su base modanata, alto oltre 2 m, ritrovato nel 1963 all’esterno di una tomba, in località Chiusa Cima Valle, e risalente al IV secolo a.C. Sulla stessa platea, al centro della fila anteriore di queste basi, è riconoscibile un alloggiamento circolare che potrebbe essere stato utilizzato per accogliere una piccola ara. Di fronte a questa originalissima sistemazione, che non ha confronti altrove, è stata ricavata una piazzola che si raccorda al fossato del tumulo mediante due gradini, delimitata da una sorta di banchina, forse una
una sequenza di terrazze e di piazze Al di sotto del tumulo Cima, la pendice del pianoro che guarda verso l’acropoli della città antica fu trasformata nel VI secolo a.C. in una successione di terrazze disposte ai lati di un percorso in trincea. Gli ingressi delle tombe si aprono su «piazze», forse riservate alle cerimonie funebri, raccordate tra loro da scale. Cornici doriche decorano gli ingressi che adducono a semplici camere dal tetto displuviato e dai letti scolpiti, che si alternano a piccole nicchie per incinerati, piú o meno decorate. Tra le sepolture monumentali si segnala la tomba Costa, una tomba a semidado del V secolo a.C., il cui interno si distingue per un soffitto riccamente scolpito e per la presenza di tre porte con cornice dorica realizzate con un cordolo a rilievo al centro delle pareti, le due laterali reali, quella di fondo finta. La suggestione della finta porta è tale che a essa non ha saputo resistere, in passato, lo «sfortunato» scavatore clandestino, che ha inutilmente tentato di aprirne lo specchio a picconate, per cercare di entrare in una inesistente camera di fondo.
A destra: l’interno della tomba Costa. Sulla finta porta scolpita nella parete di fondo sono evidenti i segni delle picconate lasciati da scavatori convinti che la struttura celasse un’altra camera sepolcrale.
seduta per ipotetici spettatori. Infatti l’interpretazione piú plausibile del complesso è che si tratti di uno spazio riservato al culto funerario, destinato a sacrifici e libagioni in onore degli antenati, o a rappresentazioni e cerimonie in onore dei defunti, data la collocazione in ambito cimiteriale e la presenza di una platea per radunare il gruppo parentale. Il significato simbolico da attribuire ai cippi e alla loro disposizione resta ancora un enigma. a r c h e o 99
il mestiere dell’archeologo Daniele Manacorda
un’idea, un concetto, un’idea... torna d’attualità il dibattito sul futuro di via dei fori imperiali, a roma. ma come intervenire su una questione (e un contesto) cosí... delicati? innanzitutto, abbattendo steccati ideologici e aprendo un confronto tra chi ha il diritto (e il dovere) di parola
I
l progetto di scavo e valorizzazione dei Fori Imperiali di Roma e il destino della omonima via che li attraversa avevano diviso aspramente l’opinione pubblica trent’anni fa. Poi le discussioni si sono placate, mentre una stagione di scavi ha messo a nudo gran
parte del Foro di Traiano e indagato quelli di Cesare, di Nerva e della Pace di Vespasiano. Sin dall’inizio, quel Progetto Fori fu visto sotto tante diverse angolazioni, come un’occasione per scavare, per cancellare una strada fortemente segnata dall’ideologia fascista, per pedonalizzare un’area del centro storico e via dicendo…
problemi irrisolti Ora che molte indagini sono state fatte, le nostre conoscenze sono considerevolmente aumentate. Ma ciò non toglie che i problemi di quell’area siano ancora tutti lí.
E anche se oggi guardiamo con maggiore distacco di un tempo agli aspetti ideologici di quegli sventramenti, dobbiamo stare attenti a non farci offuscare la vista da una visione rozzamente storicistica del problema (quello che è stato fatto ormai c’è ed è bene che resti cosí com’è). Anche le pedonalizzazioni sono state fatte, a ritmi alterni. Ma questo non ha impedito che l’area dei Fori – soprattutto intorno al Colosseo – sia oggi una sorta di Far West urbano, dove i turisti sono preda di comportamenti sociali inaccettabili per una Capitale,
Un tratto di via dei Fori Imperiali durante una delle chiusure al traffico, al momento attuate in via sperimentale.
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Fotomosaico dell’area archeologica centrale di Roma, composto da immagini scattate prima della demolizione degli edifici abbattuti per consentire la realizzazione di via dei Fori Imperiali. peraltro a breve distanza da luoghi di grande degrado urbano, come quelli testimoniati dall’inglorioso «buco nero» dello splendido Palazzo Rivaldi e del suo giardino abbandonati da decenni. Quale che sia la visuale che privilegiamo, tutte mettono comunque in luce un groviglio di problemi che pretende l’uso contemporaneo di molti occhiali diversi per essere almeno messo a fuoco. L’Associazione «Bianchi Bandinelli» ha recentemente chiamato un gruppo di studiosi a discutere dei grandi nodi dell’archeologia di Roma (dal Progetto Fori all’Appia Antica) e ha di fatto riaperto il dibattito, proprio mentre in libreria esce un corposo volume di Raffaele Panella (su cui avremo modo di tornare) che propone dopo anni di studi un progetto integrale di trasformazione e valorizzazione di quell’area centrale di Roma, compresa tra piazza Venezia e la Valle del Colosseo. Insomma, la questione Fori Imperiali sembra ufficialmente riaperta. Che sia la volta buona? La previsione di una gestione futura di quest’area cosí ricca di
simboli e di storia ha visto incrociarsi (e ignorarsi) molti modelli diversi. C’è chi ha proposto la demolizione della strada per dare spazio agli scavi e alla riunificazione dei Fori e chi ne ha difeso l’intangibilità; chi la vorrebbe salvare, ma solo a metà, e chi vorrebbe trasformarla in un viadotto. Dai diversi modelli nascono i progetti: da quello ormai antico di Leonardo Benevolo a quello recentissimo di Panella, a quello delineato dall’attuale assessore all’urbanistica di Roma, Giovanni Caudo, a partire dalla rilettura critica delle previsioni proposte dalla Commissione istituita dieci anni fa dal Comune, dopo che il Ministero per i Beni Culturali aveva imposto addirittura un vincolo sulla via dei Fori imperiali, una scelta di «non fare» che ha anch’essa un valore progettuale di fatto.
superare le divisioni Questi progetti vanno conosciuti, capiti, confrontati, integrati, perché poi ciascuno possa assumersi le necessarie responsabilità. Ma non prima di una riconciliazione delle diverse prospettive, che deve pur essere tentata nella consapevolezza che è possibile raggiungere una sintesi di qualità a un livello piú alto. Questo è certamente il compito della politica, ma anche – credo – del mondo della cultura, delle professioni,
dell’associazionismo culturale. Troppe divisioni hanno ingarbugliato il problema e reso ancor piú difficile la ricerca di una soluzione condivisa su un tema che divide l’opinione pubblica. Da archeologo, penso che sia necessario formulare alcune domande, tanto preliminari, quanto centrali. Si parla spesso di istituire in quest’area centrale di Roma un «parco archeologico»: siamo convinti che questo sia l’aggettivo giusto in un contesto in cui il tema di fondo sembra essere piuttosto il rapporto antico/ moderno in una città viva con tremila anni di storia alle spalle? Possiamo allora interrogarci sul ruolo e i diritti delle discipline che intervengono nel dibattito? È bene che gli archeologi lavorino in pace, certo. E cosí gli architetti e gli urbanisti. Ma diciamoci anche che nessuna di queste categorie ha il diritto di scegliere la soluzione, e tanto meno quello di porre veti, dal momento che le scelte spettano piuttosto alla politica, se sa essere colta e partecipata. Gli archeologi (o almeno molti di loro) hanno imparato che allo scavo urbano fa seguito – in genere – il reinterro dei resti (ed è bene che sia cosí). L’esito dello scavo non può imporre la scelta; la deve sí orientare. E cosí l’architettura comincia a interrogarsi sul fatto che anche la scelta di non costruire, a volte anzi di demolire, è un atto
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La demolizione della casa detta «di Sisto IV», in via Alessandrina, in una fotografia del 1929. Roma, Museo di Roma, Archivio Fotografico Comunale. architettonico, un segno altrettanto forte. Anche la sottrazione è progetto, come indicava peraltro il progetto Benevolo trent’anni fa, proponendo l’eliminazione di tante superfetazioni che impediscono una lettura organica del complesso antico. Certo, sul piano teorico la sottrazione non è diversa dal diradamento o – non vi scandalizzate! – da quella che Mussolini nella sua enfasi sventratoria chiamava la «necessaria solitudine» dei monumenti. La differenza la fa il senso del progetto, il valore urbano che si vuole mettere al centro di quell’intervento. Se partiamo dalla necessità del progetto, la domanda si sposta su alcune scelte progettuali di fondo che orientano le scelte operative: l’esito urbano dell’area riprogettata deve privilegiare la forma architettonica e urbanistica, rendendo comprensibili i monumenti allo stato di rudere, o il racconto storico, rendendo comprensibili le vicende che li hanno frammentati? Dobbiamo risarcire queste forme o solo alludere a esse? La riposta è solo progettuale, non certo manualistica, dal momento che solo l’analisi contestuale può indirizzare a prendere l’una o l’altra
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delle diverse strade. Certo, chi vi parla sogna che un giorno venga riallestita l’arena del Colosseo, che oggi sciaguratamente scoperchia alla vista le sue cantine, in omaggio a uno degli esempi piú limpidi di quell’archeologia necrofila che ama esporre in città le interiora dei corpi morti e non l’armonia degli edifici.
rovine e non-rovine Domandiamoci anche dove finiscano nell’area dei Fori le rovine. E dove comincino le non-rovine, cioè quei muri frammentati che sono il prodotto professionale e colto dell’archeologia contemporanea, che ha riportato alla luce brandelli di strutture che rovine non sono stati mai. A parte il Colosseo, la via dei Fori conosce come vere e proprie rovine rimaste da sempre nel paesaggio urbano le famose Colonnace del Foro di Nerva e le colonne del tempio di Marte Ultore. Il resto rovina non è, e come tale va guardato e trattato. Che cosa vogliamo fare della non-rovina del Ludus Magnus, il piccolo anfiteatro da allenamento a ridosso del Colosseo, che da decenni espone inconsapevole il suo non-senso? Qualcuno ha un progetto per quell’area cervellotica osservata ogni giorno da migliaia di persone?
Ecco allora che il problema che tutti gli altri ricomprende è forse quello degli usi sociali di queste aree archeologiche una volta restituite alla città. Raffaele Panella ha fatto un primo passo avanti, tentando di categorizzare i possibili frequentatori di queste aree urbane e ci invita ad approfondire il discorso. Siamo sicuri che parliamo sempre di visitatori? Certo che no: quelle aree – osserva l’assessore Caudo – potranno essere un giorno attraversate anche da una «signora con la borsa della spesa». Quelle aree, dunque, si prestano davvero solo a un uso contemplativo, estetico, scientifico? Già trent’anni fa il soprintendente Adriano La Regina apriva i cancelli del Foro Romano perché quelle aree – diceva – fossero «frequentate» dalla cittadinanza. Pensiamo allora a che cosa intendiamo per un Parco urbano nel centro della città, certo strutturalmente connesso con il grande Parco dell’Appia antica che da lí si diparte, ma con caratteristiche evidentemente del tutto diverse. Pensiamo a un parco come luogo di visita, ma anche e soprattutto di vita, espressa nelle sue diverse funzioni, come luogo di sosta, di ristoro, di riparo e condivisione, luogo di gioco o di contemplazione, di tempo vissuto, non necessariamente di studio o di ammirazione superficiale, pur legittima, ma di profonda cura di sé. L’opposto, insomma, di certi nostri siti archeologici ridotti ormai a non-luoghi, per i quali dobbiamo davvero riprogettare le forme umane dell’uso. Il problema, in fondo, non è concettualmente diverso da quello che ci propone una riflessione su un uso radicalmente diverso degli spazi residenziali dei palazzi aristocratici nei quali sono ospitate tante nostre pinacoteche. Lo so, i problemi sono molto complessi, ognuno ha bisogno dei suoi approfondimenti e non si risolvono tutti insieme. Ma provare a percepirli insieme aiuta a risolverli meglio.
antichi ieri e oggi Romolo A. Staccioli
La dea delle donne e i fantocci nel fiume cadevano in maggio le feste per bona dea, riservate all’altra metà del cielo, e quelle che evocavano, forse, il viaggio italiano di ercole
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entre erano ancora in corso – quasi una coda del mese precedente – i festeggiamenti dei Floralia (vedi «Archeo» n. 350, aprile 2014), alle calende di maggio, ossia il primo giorno del mese, era la volta di un’altra festa speciale: quella di Bona Dea, una divinità latina antichissima, originariamente legata alla terra e alla «bontà» dei suoi frutti (e perciò confusa, volta a volta, con Cerere, Tellus e Maia); poi, per influsso della cultura greca, venerata anche per le sue virtú salutari e terapeutiche. Stando a una certa tradizione, si sarebbe trattato di una driade, o ninfa delle piante, moglie (oppure figlia) di Fauno, il quale, prese le spoglie d’un serpente, l’avrebbe violentata dopo averla fatta inebriare col vino. Per questo la dea veniva rappresentata, seduta in trono, oltreché con lo
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Nella pagina accanto: Primavera, olio su tela di Sir Lawrence Alma-Tadema che evoca l’uso di raccogliere piante e fiori in occasione delle feste in onore di Bona Dea. 1894. Los Angeles, Getty Museum. In basso: sacrificio di un ariete a Mercurio, una delle divinità a cui era dedicato maggio, particolare del mosaico dei mesi di Thysdrus (oggi El Djem, Tunisia). III sec. d.C. Sousse, Museo Archeologico.
chiamata saxum, donde l’appellativo, dato alla dea, di Subsaxana. Le donne, accompagnate dalle Vestali, portavano al tempio, in offerta, ogni tipo di erbe e di fiori, fatta eccezione del mirto, sacro a Venere, e vi libavano abbondantemente col vino, che però era chiamato «latte» e contenuto in un recipiente destinato alla conservazione del miele, detto mellarium.
insulti e riti notturni
scettro (o la cornucopia) nella mano sinistra, con un tralcio di vite che le s’incurvava sul capo e un serpente al fianco oppure attorcigliato al braccio destro e nell’atto di «abbeverarsi» a una pàtera che la dea stessa reggeva in mano. La festa – e il culto – erano rigorosamente riservati alle donne. In particolare, alle matrone, le donne sposate delle famiglie «bene», che, per la circostanza, dovevano essersi astenute durante alcuni giorni da qualsiasi contatto con gli uomini. Le cerimonie ufficiali si svolgevano presso il tempio della dea, inaugurato il 1° maggio di un anno che non ci è noto, e restaurato, al tempo di Augusto, da Livia. Esso sorgeva a ridosso del costone tufaceo che formava l’angolo orientale del Piccolo Aventino rivolto verso il Circo Massimo: sub saxo, ossia sotto la sommità dell’altura
Tra suoni, canti e libagioni, la Vestale Massima celebrava il sacrificio di una scrofa pregna che, dall’appellativo di Damia col quale s’invocava la dea (dopo che essa era stata assimilata a quella divinità greca, «importata» da Taranto nella prima metà del III secolo a.C.), veniva chiamato damium, mentre l’officiante era indicata col nome di damiatrix. Durante il sacrificio la dea veniva apostrofata con ogni genere di male parole: cosa questa che, insieme al vino «mascherato» da latte, era una chiara allusione alla violenza compiuta da Fauno. La parte del culto piú caratteristica e riservata – fino alla segretezza propria dei culti misterici – veniva però celebrata di notte, nell’abitazione di uno dei magistrati rivestiti di imperium (consoli e pretori). Da essa si dovevano allontanare, per la circostanza, tutti i maschi, compresi gli eventuali animali domestici, mentre la moglie del capofamiglia – la padrona di casa – presiedeva ai sacri riti, i quali, per quel che ne sappiamo, consistevano nella rievocazione e nella simulazione simbolica dei misteri della natura e della vegetazione. Solo in età imperiale, col generale rilassamento dei costumi e la degenerazione delle antiche cerimonie, ai «misteri» di Bona Dea cominciarono a essere ammessi, piú o meno apertamente, gli uomini. Almeno, stando a Giovenale il quale, nella celebre satira contro le donne, stigmatizza pure gli eccessi e le sfrenatezze delle matrone che, in
quella circostanza, «coi lombi eccitati dal flauto» e «stravolte dal suono del corno e dal vino», s’abbandonavano a danze libidinose, agitando i capelli e ululando «come menadi di Priapo» nella bramosia di amplessi lascivi. Ancora al tempo di Cesare, nel 62 a.C., invece, aveva suscitato enorme scalpore il sacrilegio compiuto dal giovane Clodio il quale, per incontrarsi con Pompeia, la terza moglie del futuro dittatore, grazie alla compiacenza di un’ancella (al corrente della relazione), s’era fatto introdurre furtivamente, vestito da donna e con gli strumenti d’una flautista, nella sua casa, che quell’anno ospitava i riti di Bona Dea, essendo Cesare pretore (oltreché pontefice massimo). Clodio, però, invece di starsene nascosto, andava aggirandosi qua e là, e cosí, benché al buio, fu sorpreso da una schiava che lo riconobbe dalla voce. E che – come scrive Plutarco (Ces. 10) – «subito corse, urlando, dov’era la luce e dove stava una folla di donne, e rivelò d’aver scoperto un uomo». Allora la madre di Cesare, Aurelia, che presiedeva i riti, «fece immediatamente interrompere la funzione, ricoprí gli arredi sacri, ordinò di chiudere le porte e al lume delle lucerne perlustrò la casa» alla ricerca dell’intruso. Questi riuscí a scamparla, ma lo scandalo fu enorme.
La moglie di Cesare... Il processo che ne seguí, tuttavia, dopo aver appassionato per qualche tempo tutta Roma, finí con la «manovrata» assoluzione del sacrilego. Quanto a Cesare, egli s’affrettò a ripudiare Pompeia e al giudice che, durante la sua deposizione in tribunale, gli chiedeva se quel ripudio non fosse in contraddizione con la sua asserita «ignoranza» dei fatti, rispose – com’è noto – che sulla moglie di Cesare non sarebbe dovuta cadere nemmeno l’ombra del sospetto.
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I tre giorni dal 9 al 13 del mese erano riservati ai Lemuria, che la tradizione voleva istituiti da Romolo per placare lo spirito del fratello Remo da lui ucciso. I Lemures, infatti, erano «le ombre vaganti degli uomini morti prima del tempo», come li definisce una fonte antica, capaci di insidiare il mondo dei vivi. Occorreva pertanto allontanarli con riti apotropaici che Ovidio descrive nei Fasti (V, 420 e segg.).Tutto avveniva in privato: in ogni casa, a mezzanotte, il capofamiglia, a piedi nudi, faceva ripetutamente schioccare le dita, poi si lavava le mani con acqua di fonte e, messe in bocca nove fave nere, faceva il giro della casa lanciandole dietro di sé, una per una. Ogni volta, ripeteva una sorta di giaculatoria: «Queste fave io lancio e con queste fave redimo me e i miei congiunti». Si lavava poi nuovamente le mani e, battendo fragorosamente su recipienti di bronzo, aggiungeva, ancora per nove volte, la frase: «Ombre degli avi uscite».
accompagnato Ercole in Italia e a Roma prendendo dimora nella «città» fondata sul Campidoglio da Saturno (oppure in quella fondata da Evandro, sul Palatino). Secondo Ovidio, invece (Fasti III,791), si sarebbe trattato sempre di compagni di Ercole, che però
sacrifici umani
i compagni di ercole? Alla metà del mese – le idi, o il giorno prima – veniva celebrato il rito degli Argei (Sacra Argeorum): il lancio nel Tevere, dal ponte Sublicio, da parte delle Vestali, dei simulacra scirpea, i fantocci di giunco rappresentanti «personaggi» chiamati Argei e conservati durante l’anno in speciali sacraria, o sacelli, sparsi per la città. Da questi, i fantocci, uno per uno, venivano tratti, per l’occasione, e portati in una processione che toccava tutte le quattro «regioni» in cui Servio Tullio aveva suddiviso l’abitato. Il significato del rito, però, non era chiaro nemmeno agli antichi che erano di pareri discordi. Varrone (LL 5,45-54), seguito da molti altri autori, riconosceva negli Argei i principes che avevano
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avevano chiesto, in punto di morte, d’essere gettati nel Tevere, per poter cosí raggiungere il mare e fare ritorno in patria (ma i Romani, dopo averli sepolti, avrebbero gettato nel fiume i loro... rappresentanti). Poi, però, lo stesso Ovidio scrive che il lancio dei fantocci alludeva all’antica usanza di sbarazzarsi degli anziani per far largo ai giovani: un’usanza nata dal detto sexagenari de ponte, che si riferiva invece all’esclusione degli ultrasessantenni dal voto dei comizi (per esprimere il quale occorreva superare il «ponte» o la «passerella» che portava al palco con le urne).
Due teste di Vestali facenti parte di un rilievo raffigurante una cerimonia cui partecipavano le sacerdotesse. Età antonina. Roma, Museo Palatino.
Macrobio, da parte sua (Sat. I,11,47), vedeva nei fantocci la raffigurazione dei compagni che Ercole aveva perduto nel corso delle sue imprese. Plutarco, infine (Quaest. Rom. 32,86), riconosceva nel rito la sostituzione incruenta (attribuita allo stesso Ercole) di antichissimi sacrifici umani e ne prospettava il significato espiatorio. In realtà, mettendo da parte Ercole e gli Argivi, si potrebbe pensare al nome Argei come derivato dal verbo arceo («tengo lontano»), nel qual caso la spiegazione del rito rientrerebbe nella funzione purificatoria del fiume e nell’auspicio dell’allontanamento da Roma di ogni sorta di «indesiderabili», rappresentati simbolicamente – o, piuttosto, magicamente – dai fantocci. C’è però da chiedersi se un simile rito – tanto piú se fondato in origine su sacrifici umani, altrimenti difficilmente spiegabili – non possa essere inteso come rivolto a scongiurare e a tenere lontane – cioè, com’è proprio il caso di dire, ad «arginare» – le piene e le inondazioni del Tevere tanto frequenti e rovinose.
scavare il medioevo Andrea Augenti
i Vichinghi in America le scoperte nel sito di anse-aux-meadows, sull’isola di terranova, sono la prova piú convincente dell’ipotesi secondo la quale, il 12 ottobre 1492, cristoforo colombo sarebbe arrivato secondo...
«L
eif fa scendere la nave in mare, e naviga a lungo e trova quelle terre di cui non aveva saputo nulla. Là c’erano campi di grano nato da solo e allignavano i vigneti. Là c’erano quegli alberi che si chiamavano “mösur”». Cosí si legge nella Saga di Erik il Rosso, scritta nel XIII secolo, e queste poche righe sono la prima menzione dell’America nella letteratura europea. Infatti, gli uomini di Leif (Eiriksson, navigatore vichingo figlio dello stesso Erik il Rosso, vissuto tra il X e l’XI secolo, n.d.r.) erano giunti nella terra che chiamarono «Vinland» e che corrisponde alla zona costiera orientale del Canada, tra il Labrador, Terranova e la Nuova Scozia. Non a caso, si pensa che gli alberi chiamati mösur non siano altro che gli aceri, la cui foglia divenne poi il simbolo del Canada. I Vichinghi sono uno tra i popoli piú studiati e celebrati dell’Alto Medioevo, e proprio in questo periodo una grande mostra allestita al British Museum di Londra ne racconta le gesta (fino al prossimo 22 giugno). Ma la scoperta dell’America e i tentativi di avviare la colonizzazione di quei luoghi sono senza dubbio uno dei capitoli ancora poco conosciuti e piú avvincenti della storia dei guerrierinavigatori scandinavi. Oltre a quanto raccontano le saghe, l’archeologia ha contribuito notevolmente ad aumentare le nostre conoscenze in proposito, grazie agli straordinari ritrovamenti avvenuti presso la località di Anse-
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aux-Meadows (il cui nome è in realtà la corruzione del francese Anse-aux-Méduses, cioè l’Ansa delle Meduse), situata all’estremità settentrionale dell’isola di Terranova, presso il golfo di San Lorenzo. Gli scavi, iniziati negli anni Sessanta del secolo scorso, sono stati poi ripresi in piú occasioni fino al 2002. L’archeologo Helge Ingstad e sua moglie, Anna Stine Ingstad, per primi portarono alla luce i resti di un insediamento dalle dimensioni ridotte, ma piuttosto articolato, che consiste in tre grandi abitazioni, ognuna circondata da piccoli edifici, accanto ai quali furono localizzati ripari per custodire le imbarcazioni.
origini europee Le indagini successive hanno puntualizzato meglio le scoperte degli Ingstad. E che cosa sappiamo,
oggi, di questo sito piccolo ma fondamentale per la storia dei rapporti tra Europa e America? Si tratta di un piccolo giallo, tutto giocato sugli indizi. Innanzitutto, pochi reperti di fattura e di origine europea dimostrano la provenienza dei suoi abitanti: tra questi, alcuni acciarini di diaspro (che le analisi indicano provenire dall’Islanda e dalla Groenlandia); una spilla con testa ad anello, usata per fermare il mantello, molto comune in Norvegia tra il IX e il X secolo; un probabile elemento di cintura in rame; e un piccolo contenitore in corteccia di betulla simile a molti altri trovati in Svezia. Inoltre, anche il tipo e la forma delle abitazioni (cosí come la loro tecnica costruttiva, con pali portanti in legno e perimetrali in zolle d’erba) rimanda a modelli scandinavi: le skálar, cioè le grandi case a piú
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Epaves Bay
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stanze tipiche dell’Islanda e della Groenlandia. In queste case e nelle vicinanze, a l’Anse-aux-Meadows si svolgevano diverse attività: si lavoravano i metalli, soprattutto per la riparazione delle barche, e si producevano tessuti (il che dimostra che era presente perlomeno una donna, dal momento che nella società vichinga la tessitura era una prerogativa femminile). Le dimensioni dell’insediamento ci dicono poi che esso poteva accogliere al massimo un centinaio di persone, e che ebbe una vita breve: le case non avevano fondazioni stabili in pietra, e non furono mai riparate. Ancora: i pochissimi oggetti ritrovati dimostrano che l’abbandono avvenne con calma e sistematicità, con il tempo necessario per ogni abitante di recuperare i propri averi.
un gruppo di esploratori? A questo punto possiamo cercare di risolvere questo enigma americano. Che tipo di villaggio era
In alto: pianta del sito di Anse-aux-Meadows: 1. casa a piú stanze; 2. piccola struttura usata forse come riparo e come deposito; 3. capanna; 4. piccola capanna, forse utilizzata come laboratorio per la tessitura; 5. capanna utilizzata come laboratorio e forse come ricovero; 6. struttura dotata di un forno per la fusione del ferro; 7. ricostruzioni di case scandinave. USA
Ocaeno Artico Canada
Russia
Polo Nord
Anse-aux-Meadows Groenlandia
Ocaeno Atlantico del Nord
Europa
Qui sopra: cartina con la localizzazione di Anse-aux-Meadows. A sinistra: una delle case scandinave ricostruite nel parco archeologico.
questo, a cosa e a chi fu utile? La soluzione piú probabile è che si tratti del campo base di un gruppo di Vichinghi provenienti dalla Groenlandia, decisi a esplorare la zona circostante. Lo proverebbe anche il ritrovamento di un genere particolare di noci, tipiche di zone situate molto piú a sud di Terranova, e che quindi furono evidentemente portate qui in seguito a una spedizione esplorativa. Il campo venne occupato per poco tempo, e le datazioni al 14C indicano una data compresa tra la fine del X e i primi decenni dell’XI secolo. Nessun segno di sfruttamento agricolo della zona: i Vichinghi dovevano essere alla ricerca di siti migliori, e non avevano intenzione di stabilirsi proprio qui. La storia di Anse-aux-Meadows riassume molto bene la relazione tra i Vichinghi e l’America (o Vinland, come la chiamavano loro: la «terra del vino»). È la storia di una colonizzazione tentata, ma finita male. La Groenlandia, il posto piú vicino da cui salpare verso quelle terre sconosciute, era troppo lontana: 1500 km in linea d’aria, ma quasi il doppio per via delle rotte da seguire: fino a sei settimane di viaggio! E poi c’era un altro problema, per nulla secondario: i nativi americani. I Vichinghi si trovarono da subito in un ambiente ostile, che li respinse in blocco e con la forza delle armi. E cosí, morendo a causa di una freccia indiana, uno dei primi colonizzatori, Thorvald, figlio di Erik il Rosso, disse: «Abbiamo trovato una terra ricca, c’è molto grasso attorno alla mia pancia. Abbiamo trovato un luogo con molte buone risorse, ma difficilmente potremo goderne». Una profezia piú che esatta. Oggi il villaggio di Anse-aux-Meadows fa parte di un parco archeologico, e del Viking Trail, un percorso che porta sulle tracce di quei Vichinghi che provarono a spingersi fino alla fine del mondo, e ne uscirono sconfitti. Il 1492 era ancora lontano.
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l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci
sulLa montagna sacra il sentimento religioso ha da sempre visto nelle alte vette la sede naturale della divinità. molto spesso, perciò, la costruzione dei luoghi di culto si è tradotta in una vera e propria ascesa
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in da tempi remoti, l’uomo ha visto nelle montagne la sede del sacro e il luogo in cui la divinità si manifesta. Nelle cosmogonie, poi, i grandi rilievi sono spesso considerati all’origine, insieme al caos primordiale, dell’universo. E la valenza simbolica della montagna ricorre nelle piú antiche e ardite manifestazioni architettoniche dell’umanità, si pensi, per esempio, alle ziqqurat dell’area mesopotamica, templi in mattoni il cui nome significa appunto «casa del dio», o alla piramide egizia. Quest’ultima, benché riservata alla sepoltura, è comunque legata al contatto con il mondo superiore, tanto che alcune delle possibili etimologie del nome sono connesse alla fiamma zampillante e a «ciò che sale in alto». Non si contano, poi, i luoghi di culto innalzati sulle acropoli delle città o costruiti sulle cime di montagne, basti pensare all’Acropoli di Atene o al tempio di Giove Capitolino a Roma.
una città in samaria Immagini di templi eretti su cime sacre ricorrono nella monetazione greca e romana; le emissioni provinciali, in particolare, sono spesso contraddistinte da composizioni prospettiche che provano il virtuosismo calligrafico degli antichi incisori. Tra le tante, complessa e mirabile è l’immagine creata nel II secolo d.C. per i conii destinati a Neapolis, in Samaria,
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Denario emesso al tempo di Macrino, imperatore nel 217-218. Collezione privata. Al rovescio, in alto: l’immagine del monte Gerizim, sulla cui sommità si staglia il tempio costruito dai Samaritani in onore di Jahvè e poi ri-dedicato, dapprima a Zeus Xenios o Hellenios e infine a Zeus Hypsistos («l’Altissimo»); al dritto, qui sopra: figura maschile in nudità eroica.
dedicata al tempio di Zeus sul monte Gerizim (o Garizim, 868 m), di biblica memoria, nei cui pressi sorgeva la città di Sichem. Insieme alla piú alta cima dell’Ebal, il monte è considerato ancora oggi sacro dai Samaritani ed è luogo di numerosi episodi riportati nella Bibbia e nei Vangeli. Qui Jahvè era venerato in un tempio costruito dai Samaritani in opposizione a quello canonico di Gerusalemme e sulla sua cima ritenevano fosse avvenuto anche il mancato sacrificio di Isacco per opera del padre Abramo. Ai piedi del monte si trova una sorgente di acqua pura, il pozzo di Giacobbe, dove ebbe luogo il celebre dialogo tra Gesú e la Samaritana (Giovanni, 4). Al tempo di Alessandro Magno, i Samaritani, con il loro governante Sanballat, vi eressero un tempio (Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, 11, 322), che nel 168 a.C. Antioco IV, nell’ambito di un radicale processo di ellenizzazione della regione, ridedicò a Zeus Xenios o Hellenios. Nel 128 a.C. l’edificio fu distrutto dal re sacerdote di Giudea Giovanni Ircano. Neapolis venne fondata da Vespasiano nel 72 d.C., all’indomani della prima guerra giudaica, e denominata Flavia Neapolis Samareias (oggi Nablus) La città crebbe rapidamente di importanza per la sua ubicazione lungo itinerari nevralgici, sino a divenire uno dei centri principali
della Palestina. Sotto Settimio Severo fu punita per aver appoggiato nel 193-4 d.C. l’avversario Pescennio Nigro, che vi batté moneta; successivamente, con Filippo l’Arabo, ottenne il titolo di colonia, riportato sulle monete (Colonia Iulia Sergia Neapolis).
In alto: resti di strutture sul monte Gerizim; a destra, nel fondovalle, si riconosce la moderna città di Nablus.
Il tempio dell’Altissimo Alla conclusione delle guerre giudaiche, Adriano dedicò il santuario sul sacro monte Gerizim a Zeus Hypsistos («l’Altissimo»), apponendovi le porte di bronzo del distrutto tempio di Gerusalemme. L’epiteto dato a Zeus va letto nell’ambito dell’accettazione del monoteismo dei Samaritani da parte di Roma, dato che uno degli epiteti di Jahvè nella Bibbia è appunto Hypsistos (Genesi, 14.18; Deuteronomio, 32.8). Gli scavi archeologici sul monte hanno riportato alla luce resti di edifici difficilmente databili e riferibili a varie fasi costruttive: l’apporto dell’iconografia numismatica alla ricostruzione dell’area è dunque prezioso, almeno per il suo aspetto in età
Qui sopra: rovescio di un medaglione di Antonino Pio emesso dalla zecca di Neapolis, in Samaria. 159-161 d.C. Si riconosce, ancora una volta, il complesso santuariale del monte Gerizim. L’uso commemorativo dei medaglioni suggerisce il legame con un evento particolare di cui la città doveva essere stata protagonista, ma che non è tramandato dalle fonti letterarie antiche.
imperiale. Le monete e i medaglioni di Neapolis con il monte Gerizim, coniati a partire da Antonino Pio sino a Treboniano Gallo, ripropongono accuratamente, benché schematizzata e in prospettiva «aperta», l’organizzazione del santuario, come una sorta di conciso itinerario per immagini. In basso vi è l’accesso all’area sacra, tramite un colonnato con due arcate che immette su una lunga e ripida scalinata, lungo la quale si distinguono piccole edicole. Sulla sommità del monte, che nella realtà è molto ampia, si erge un tempio colonnato, posto di tre quarti. A destra è raffigurata una seconda altura pietrosa, raggiungibile attraverso quello che sembra un viale, sulla quale si erge una forma allungata, interpretata come un altare o come un obelisco-betilo. L’apporre il tempio sulle emissioni di Neapolis doveva celebrare ed esaltare l’antica sacralità del monte Gerizim, luogo prescelto da un sincretistico «Altissimo», pagano o giudaico, come sua atavica dimora. (5 – continua)
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i libri di archeo
DALL’ITALIA John Thornton
Le guerre macedoniche Carocci editore, Roma, 230 pp., figg. b/n 17,00 euro ISBN 978-88-430-7114-2 carocci.it
Quando il re di Siria Antioco IV Epifane occupa l’Egitto, cercando di acquisire territori in cambio della liberazione di Alessandria dall’assedio, viene raggiunto a Eleusi dal legato romano Popilio Lenate. Questi compie il celebre gesto di tracciare un cerchio nella sabbia intorno al re, intimandogli di decidere se accettare o meno la sottomissione alla volontà del senato prima di varcarne i confini. Un episodio particolarmente esemplificativo dell’affermazione ormai incontrastata di Roma in seguito alla definitiva caduta del regno di Macedonia. In questo saggio, scorrevole e incisivo, John Thornton si cimenta con la trasformazione
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epocale che, in meno di un secolo, si è consumata nel bacino del Mediterraneo, partendo dalla prima guerra macedonica per giungere alla creazione della provincia d’Asia. Quel che qui interessa è soprattutto la ricerca di un punto di vista diverso da quello dei Romani vincitori e dei vari basileis che, di volta in volta, si trovarono a confrontarsi con la nuova potenza egemone: cioè di quello delle potenze minori del mondo ellenistico, le città e gli Stati federali coinvolti nel conflitto che subirono le conseguenze piú drammatiche e laceranti – potremmo dire «collaterali» – all’interno della logica strategico-diplomatica delle guerre. È la nascita del mondo grecoromano, insomma, figlio dell’incontro tra Occidente e mondo ellenistico, avvertita in tutto il suo impatto dalle poleis greche, che, pur identificando Romani e Macedoni in un comune motivo antibarbarico, non riescono a formare un fronte compatto. Al contrario, si moltiplicano le divisioni interne e le contraddizioni di un mondo frammentato, che lascerà un segno indelebile nella cultura romana, come apprendiamo dallo storico (sempre affiancato dal «politico») Polibio, la fonte per eccellenza per il periodo compreso tra il III e il II secolo. Giorgio Rossignoli
Vincenzo Tiné e Loretta Zega (a cura di)
Archeomusei. Musei archeologici in Italia, 2001-2011 Atti del Convegno, Adria, Museo Archeologico Nazionale, 21-22 giugno 2012 All’Insegna del Giglio, Firenze, 168 pp., ill. col. e b/n 25,00 euro ISBN 978-88-7814-582-5 insegnadelgiglio.it
Il convegno svoltosi ad Adria poco meno di due anni fa aveva offerto una ricognizione di grande interesse sul nostro patrimonio museale archeologico e i progetti di volta in volta presentati e discussi sono ora i protagonisti del volume che dà conto dell’incontro. Ai contributi e alle testimonianze sull’opera di Franco Minissi (1919-1996), l’architetto italiano che ha aperto la strada a un modo nuovo di concepire l’allestimento delle raccolte di antichità, fanno seguito i saggi presentati nei due giorni del convegno. A parlare sono archeologi e architetti coinvolti in
alcune delle realizzazioni piú significative degli ultimi anni, che hanno compreso sia fondazioni ex novo (come il Museo Retico di Sanzeno o il Museo delle Palafitte di Fiavé), sia, e si tratta della maggioranza dei casi, ristrutturazioni di collezioni storiche (tra cui il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia e il Museo Nazionale Archeologico di Taranto). Ne scaturisce un panorama variegato, di cui è importante cogliere, soprattutto, il valore di testimonianza: testimonianza di una volontà progettuale e di un desiderio di comunicazione che cercano di affermarsi e guardare al futuro nonostante le difficoltà causate dalle ripetute riduzioni dei fondi destinati alla tutela e alla valorizzazione del nostro patrimonio. Stefano Mammini Elena Di Filippo Balestrazzi
Sculture romane del museo nazionale concordiese di portogruaro Giorgio Bretschneider Editore, Roma, 296 pp. + LXXVIII tavv. 180,00 euro ISBN 978-88-7689-265-3 bretschneider.it
Opera di taglio specialistico, il volume propone il catalogo sistematico dei materiali scultorei provenienti dall’antica città di Concordia Sagittaria, ma, al di là di tipologie e datazioni, permette anche di gettare uno
sguardo sulla vicenda della costituzione di una raccolta che aprí i suoi battenti nel 1888. Il riordino delle collezioni del museo di Portogruaro ha fatto da motore alla catalogazione, che si è dunque trasformata anche in uno studio di tipo storico e archivistico, grazie al quale è possibile ripercorrere l’illuminato operato dei personaggi che, tra la metà e la fine del XIX secolo, furono i primi artefici della riscoperta dell’antica Iulia Concordia. S. M. Luca Scarlini
Siviero contro hitler La battaglia per l’arte Skira, Milano, 140 pp. 16,00 euro ISBN 978-88-572-2190-8 skira.net
Si legge quasi come un romanzo d’avventura, ma è qualcosa di piú: questo Siviero contro Hitler è la fotografia, nitida e ricca di particolari, di una vicenda cruciale nella storia del nostro patrimonio artistico. Ne è protagonista Rodolfo Siviero (1911-1983), uomo dei servizi di informazione che, dopo avere militato nei ranghi del fascismo, aderí alla Resistenza e, soprattutto nei primi anni del dopoguerra, si impegnò con straordinaria tenacia nel recupero delle molte opere d’arte che dall’Italia erano finite in Germania. Come scrive Scarlini, molti dei segreti che tuttora avvolgono l’operato di Siviero sono forse destinati a rimanere tali, ma è sotto gli occhi di chiunque frequenti i nostri musei l’importanza di quei recuperi. Valga per tutti il magnifico Discobolo Lancellotti, una delle migliori repliche dell’originale di Mirone (scelto per la copertina del volume), che nel 1948 venne finalmente caricato sul carro con il quale cominciò il suo viaggio di ritorno «a casa»… S. M.
dall’estero Antonino De Francesco
the antiquity of the italian nation The Cultural Origins of a Political Myth Oxford University Press, Oxford, 288 pp. 55,00 GBP ISBN 978-0-19-966231-9 oup.com
interessanti del volume, dedicato alle avventure coloniali dell’impero mussoliniano, vissute nell’evocazione e nel tentativo (infausto) di emulare le imprese di Augusto e dei suoi successori. S. M. Robert M. Edsel
saving italy
Che la storia possa essere riletta alla luce delle ideologie non è certo una novità e questo denso saggio di Antonino De Francesco ne offre una conferma significativa, analizzando l’approccio scelto dall’Italia nei confronti del suo passato nel corso degli ultimi centocinquant’anni. La visione delle antiche civiltà che abitarono la Penisola e, soprattutto, la considerazione della straordinaria parabola di Roma hanno cosí vissuto stagioni anche molto diverse. Nell’arco del periodo considerato, numerosi storici e archeologi si sono succeduti nello studio delle genti italiche ed è dunque interessante osservare come spesso le loro sintesi abbiano finito con il trasformarsi, piú o meno consapevolmente, nei puntelli di teorizzazioni politiche di varia collocazione. Il caso piú clamoroso è naturalmente quello del fascismo e del suo recupero della romanità, al quale si lega anche uno dei capitoli piú
The Race to Rescue a Nation’s Treasures from the Nazis Norton & Company, New York, 454 pp., ill. b/n. 16,95 USD ISBN 978-0-393-34880-4 wwnorton.com
Sull’onda del successo planetario del precedente Monuments Men (in larga parte decretato dal suo adattamento cinematografico), Edsel torna sul luogo del «delitto» e si concentra su quanto accadde in Italia negli ultimi anni del secondo conflitto mondiale, documentando le operazioni compiute dallo speciale reparto dell’esercito statunitense in favore del nostro patrimonio artistico. S. M.
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