Archeo n. 354, Agosto 2014

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2014

pakistan

drago cinese/1 zeus di ugento

barca di ercolano

SPECIALE le ceneri di augusto

€ 5,90

Mens. Anno XXX numero 8 (354) Agosto 2014 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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archeo 354 AGOSTO

SOTTO il

segno DEL

STORIA E ARCHEOLOGIA DI UN SIMBOLO MILLENARIO

DRAGO

PAKISTAN

ANIMALI E MAGIA DI 5000 ANNI FA

ERCOLANO

UNA NAVE IN FUGA DAL VULCANO

PUGLIA

LA SCOPERTA DELLO ZEUS DI UGENTO

SPECIALE

AUGUSTO E L’INVENZIONE DELLA NUOVA ROMA

www.archeo.it



editoriale

simbologie imperiali e non solo Può sembrare scontato ricordare che le nostre ferie d’agosto non esisterebbero se non ci fosse stato il «riposo» del primo imperatore di Roma (Feriae Augusti, appunto), in onore del quale venne rinominato il mese fino ad allora chiamato sextilis, come scrive Romolo A. Staccioli nella sua rubrica dedicata al calendario romano. E di Augusto (del quale, come sappiamo, questo… agosto ricorre il bimillenario della morte) e di una sua grandiosa opera architettonica e politica ci parla, invece, Vincent Jolivet: la creazione di un nuovo quartiere di Roma, in una zona (il Campo Marzio) che, fino a Cesare, era una parte della città non costruita, destinata ad azioni militari e dove neppure il sottoproletariato romano avrebbe mai voluto abitare. Jolivet ci propone un’affascinante promenade architecturale, che culmina nei magnifici giardini del Pincio, sopra l’odierna piazza del Popolo, narrandoci le tappe di uno sviluppo urbanistico che trasformò in poco tempo il Campo Marzio nel cuore della nuova città augustea. Cosí Strabone, durante la sua ultima visita a Roma (nel 7 a.C.), poteva scrivere: «Le opere situate tutt’intorno e il terreno verdeggiante di erbe tutto l’anno e le corone dei colli che arrivano al fiume fino all’alveo offrono una veduta scenografica dal cui spettacolo non puoi staccarti (…) tutta la rimanente città può stimarsi quasi un sobborgo del Campo Marzio». E proprio qui, nel Campo Marzio, l’imperatore costruí il suo mausoleo, ispirato ai grandi tumuli dei principi orientali… Di una simbologia altra, calata nelle profondità di un passato lontano nello spazio e nel tempo, ci forniscono una testimonianza le immagini dell’articolo di apertura di questo numero. Quegli oggetti, piccoli vasi decorati (osserviamo lo straordinario labirinto circondato da stambecchi che orna il fondo del piatto riprodotto in questa pagina) e sculture di animali di quasi 5000 anni fa, provengono dalle terre dell’Indo e suggeriscono il sentimento di un’arte primordiale, che trasforma la quotidianità in mistero, in necessaria esperienza soprannaturale. In essi possiamo riconoscere una pietas rivolta agli animali e un’attenzione per gli oggetti d’uso che, in fondo, non è cosí difficile riscontrare anche in noi moderni. Basti pensare alla venerazione/idealizzazione che riserviamo ai nostri animali domestici o, ancora, alla personificazione/eroizzazione di cui investiamo gli «indispensabili» feticci della nostra esistenza, dalla tazza di caffè alla nostra… automobile. Andreas M. Steiner

Piatto in argilla decorato con motivi geometrici e animali. Cultura di Kulli (Baluchistan, Pakistan), 2600-2300 a.C. circa.


Sommario Editoriale

Simbologie imperiali e non solo

da atene 3

di Andreas M. Steiner

Attualità notiziario

30

di Valentina Di Napoli

6

scoperte La tomba KV40 della Valle dei Re, presso Tebe, restituisce una testimonianza straordinaria dei familiari dei faraoni 6 preistoria A Isernia La Pineta è stato (finalmente!) trovato il primo resto fossile, un dente da latte, attribuibile a un bambino della specie Homo heidelbergensis 8 parola d’archeologo Marco Minoja, Soprintendente archeologo di Cagliari e Oristano, ci racconta la «nuova vita» dei giganti di Monte Prama 10

dalla stampa internazionale Il viaggio intorno al mondo di una lamina assira

È festa per i tesori di Creta

34

mostre

Pakistan, la magia delle origini di Massimo Vidale, Giovanna Lombardo, Elisa Cortesi e Dennys Frenez; reportage fotografico di Edoardo Loliva

34

civiltà cinese/2 Il drago

Uno, nessuno e centomila

50

di Marco Meccarelli

50

IN EDICOLA A SETTEMBRE La nuova monografia Cina archeologica

28 In copertina Pechino, Città Proibita. Statua in bronzo di un animale mostruoso, a metà fra cane e leone. Le fattezze ibride della creatura la rendono simile a un drago.

Anno XXX, n. 8 (354) - agosto 2014 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 21768.507 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca

Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Luciano Calenda è presidente del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Domenico Camardo è capo archeologo dell’Herculaneum Conservation Project. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Elisa Cortesi è Elisa Cortesi è membro del Progetto tedesco-pakistano a Sohr Damb/Nal. Sarah Court è responsabile per la Comunicazione dell’Herculaneum Conservation Project Valentina Di Napoli è archeologa. Cristina Ferrari è archeologa e giornalista. Dennys Frenez è assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Bologna. Maria Paola Guidobaldi è direttore degli Scavi di Ercolano nell’ambito della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Pompei Ercolano e Stabia. Vincent Jolivet è direttore di ricerca del CNRS. Paolo Leonini è storico dell’arte. Giovanna Lombardo è curatore delle collezioni del Vicino e Medio Oriente del Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci». Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Daniele F. Maras è docente del dottorato di ricerca in storia linguistica del Mediterraneo antico presso l’Università IULM di Milano. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Marco Meccarelli è storico dell’arte orientale. Mario Notomista è archeologo dell’Herculaneum Conservation Project. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso Sapienza Università di Roma. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 50/51, 88, 90/91 (con fotomontaggio a cura della redazione), 105 – Edoardo Loliva: pp. 3, 34-35, 40-49 – Cortesia Università di Basilea, dipartimento di Egittologia: p. 7 – Cortesia Università di Ferrara: p. 8 – Soprintendenza per i Beni archeologici per le province di Cagliari e Oristano/Alessandro Usai: p. 10 (alto) – Soprintendenza per i Beni archeologici per le province di Cagliari e Oristano/Araldo De Luca: pp. 10 (basso, destra), 11, 12 (primo piano) – Soprintendenza per i Beni archeologici per le province di Cagliari e Oristano/Valentina Leonelli: disegno a p. 12 (sfondo) – Cortesia degli autori: pp. 16, 52-54, 55 (primo piano), 59, 70-79, 80/81 (foto Mario Letizia), 84-86,


gli imperdibili

scavi

La folgore e l’aquila

di Domenico Camardo, Sarah Court, Maria Paola Guidobaldi e Mario Notomista

Ercolano e il mare

Zeus di Ugento

62

di Daniele F. Maras

70

70

Rubriche il mestiere dell’archeologo C’è chi dice sí

100

di Daniele Manacorda

antichi ieri e oggi

Tutti in «feriae» 104 di Romolo A. Staccioli

a volte ritornano

La «cavalletta» di Erone

108

di Flavio Russo

l’altra faccia della medaglia

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La bella addormentata 110 di Francesca Ceci

libri 89 (alto), 91-93, 95, 97-99, 100-103, 110 – Staatliche Museen zu Berlin, Vorderasiatisches Museum/Olaf M. Tessmer: pp. 28-29 – Per gentile concessione di K. Athanasaki: pp. 30-31 – © Ute Franke: p. 36/37, 38/39 – Doc. red.: pp. 39, 55 (sfondo), 58, 66, 96, 104 – Bridgeman Art Library: pp. 56, 106 – Corbis Images: Asian Art & Archaeology: pp. 57, 60 – DeA Picture Library: G. Dagli Orti: pp. 62-65, 68 – Studio Inklink, Firenze: p. 67 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 81, 89 (basso), 109; Leemage: p. 108; Album: p. 111 – Marka: Image Broker: p. 87 – Glénat-Edizioni BD/Gilles Chaillet: p. 94 – Cippigraphix: cartine alle pp. 6, 36, 64. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Archeo è una testata del sistema editoriale

PAST PASSIONE PER LA STORIA

Editore: My Way Media S.r.l. Presidente: Pietro Boroli Amministratore delegato: Federico Curti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Segreteria marketing e pubblicità: segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 21768.507 Direzione: via Ludovico d’Aragona 11, 20132 Milano tel. 02 21768 507 fax 02 21768 550 Sede legale e operativa: via Ludovico d’Aragona 11, 20132 Milano

speciale Le ceneri di Augusto

80

di Vincent Jolivet

112 Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1 Stampa: Amilcare Pizzi - Officine Grafiche Novara 1901 S.p.A., Cinisello Balsamo (MI) Abbonamenti: Direct Channel srl - Via Pindaro, 17, 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18 ] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: arretrati@mywaymedia.it Fax: 02 21768550 Posta: My Way Media Srl - Via Ludovico d’Aragona 11, 20132 Milano On-line: http://eshop.mywaymedia-store.it/ Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl – titolare del trattamento – al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Ludovico d’Aragona, 11, 20132 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.


n otiz iari o SCoperte Egitto

anche i faraoni «tenevano famiglia»...

U

tomba di Tutankhamon (KV62), gli archeologi hanno rinvenuto ben 50 resti di mummie, tra cui sono stati identificati alcuni appartenenti alle famiglie dei faraoni Thutmosi IV e Amenofi III (1400-1350 a.C. circa). Oltre all’incredibile quantità e ricchezza dei reperti, la scoperta, che ha avuto luogo nel corso dell’ultima campagna di scavi, è particolarmente significativa,

na scoperta eccezionale ha coronato le ricerca che l’Università di Basilea, in collaborazione con il Ministero per le Antichità egiziano, conduce da tempo nella Valle dei Re, nell’ambito del Kings’ Valley Project. Durante gli scavi in una tomba identificata con il codice KV40 e posizionata in una valle laterale, a 300 m circa dalla

1 (Ramesse VII)

Mar Mediterraneo

Cairo

Sinai

ARABIA S U D I TA N ilo

Valle dei Re

EGITTO

Mar Rosso

Lago Nasser

2 (Ramesse IV)

3 62 (Tutankhamon) 8 (Merneptah)

46 (Yuya e Tuia)

7 (Ramesse II)

4 (Ramesse XI)

5

(Ramesse VI) 9

57 (Horemheb)

35 (Amenhotep II) 48 (Amenemope)

(Tausert) 14

29

47 (Siptah)

38 (Thutmosi I) 15 (Sethi II)

45 (Userhat) 44

16 11 (Ramesse III) 17 (Ramesse III) (Sethi I) 10 (Amenmete)

61

13

6 (Ramesse IX)

58 56

12

36 (Maiherpi)

55

18 54 (Ramesse X)

21 20 (Hatshepsut)

Tomba nella quale sono state ritrovate le mummie

40 26 30

28 27

60

19 (Mentuherkhepershef)

59 43 (Thutmosi IV)

31 37

32 42

N 34 (Thutmosi III)

6 archeo

0

75 m

perché contribuisce a colmare l’ampia lacuna relativa all’identità degli occupanti delle tombe non regali della Valle dei Re. La tomba era già nota alla comunità scientifica, che ne ipotizzava un uso non regale, ma fino a oggi non era ancora stata esplorata. Negli scorsi anni il team di ricercatori guidato da Susanne Bickel aveva provveduto alla rimozione dei detriti che ostruivano l’ingresso della tomba e al consolidamento del pozzo di accesso. Inoltre, durante i lavori per l’installazione di una struttura protettiva a copertura dell’ingresso, è stata svelata l’entrata di un’altra tomba, denominata KV64. La KV40 si trova a 6 m circa di profondità nel sottosuolo e si compone di un corridoio di accesso e quattro stanze, in cui gli archeologi hanno trovato materiali in uno stato molto alterato e frammentato. Questo è da imputarsi ad almeno tre fasi di profanazione a cui la tomba è andata incontro, sia nell’antichità, sia in epoche piú recenti (a cavallo tra il XIX e il XX secolo), nonché a un incendio, probabilmente causato dai saccheggiatori. La ricognizione architettonica della struttura è stata effettuata applicando il sistema di coordinate del Theban Mapping Project (http://thebanmapping project.com) e utilizzando sistemi di misurazione laser. I materiali ritrovati includono, oltre ai resti umani, centinaia di frammenti di vasellame, lembi di tessuto, frammenti di cartonnage (il termine designa un materiale Pianta della Valle dei Re con l’indicazione della tomba in cui è avvenuta la scoperta e degli altri sepolcri piú importanti.


costituito dalla sovrapposizione di strati di stoffa di lino o di papiro pressati e induriti con gesso e utilizzato frequentemente per i rivestimenti maschere delle mummie, n.d.r.) e pezzi di legno facenti parte di sarcofagi o mobilio. L’esame preliminare del contenuto ha indicato che la tomba è stata

usata per sepolture multiple, principalmente in due momenti: durante la XVIII dinastia (1543-1292 a.C.) e durante la XXII (945-715 a.C.). I frammenti di cartonnage ritrovati sono stati classificati in due gruppi sulla base di criteri tecnici e tipologici: un primo, risalente alla XVIII dinastia, riunisce frammenti

In alto: resti mummificati emergono tra frammenti di sarcofagi, brandelli di tessuto e vasellame.

In basso: vasi in ceramica in corso di restauro a partire dalle centinaia di frammenti emersi dalla tomba KV40.

realizzati in fibra di lino e con una colorazione a strisce gialle e nere, un secondo è composto di pezzi policromi ricoperti di una pittura a base di uovo, riconducibile alla XXII dinastia. Sono stati inoltre individuati almeno 11 diversi tipi di collante utilizzati nell’assemblaggio dei sarcofagi o del mobilio. Dall’analisi delle iscrizioni rituali sul vasellame i ricercatori sono riusciti a ricostruire l’identità di oltre trenta individui sepolti: tra questi, almeno otto vengono nominati come «figlia del re» e quattro come «figlio del re». Tra i resti umani sono stati individuati anche numerosi bambini e infanti, sicuramente di alto rango data la cura nella loro mummificazione. Oltre alle sepolture principesche, le iscrizioni hanno permesso di isolare anche un gruppo numeroso di personaggi femminili, non appartenenti alla famiglia reale e dai nomi stranieri: potrebbe verosimilmente trattarsi delle ancelle che accompagnavano le principesse di altri Paesi, portate in Egitto dai faraoni in occasione di matrimoni politici. Paolo Leonini

archeo 7


n otiz iario

SCOPERTE Molise

l’uomo, finalmente!

N

el sito preistorico di Isernia La Pineta (situato nelle immediate vicinanze del capoluogo molisano), dopo 35 anni di ricerche, il gruppo di ricerca internazionale guidato da Carlo Peretto, dell’Università degli Studi di Ferrara (che coinvolge anche le Università di Roma «Sapienza», Firenze, Siena e numerosi studiosi stranieri), ha raggiunto un traguardo eccezionale, con il ritrovamento della prima testimonianza diretta della presenza dell’uomo preistorico: si tratta di un dente da latte di un bambino vissuto 600 000 anni fa. La scoperta è avvenuta nella scorsa primavera, durante le operazioni di setacciatura del terreno che fanno parte della consueta procedura di scavo; tutto il materiale viene passato in una maglia di 1 mm di spessore che serve a raccogliere i microframmenti dispersi, e viene quindi sottoposto a lavaggio per ripulirlo dai sedimenti. Il dente ritrovato è un primo incisivo superiore da latte di un bambino deceduto all’età di circa 5-6 anni. Misura 6 mm circa di diametro ed è stato attribuito alla specie Homo heidelbergensis, sulla base delle sue caratteristiche, delle dimensioni e della cronologia del livello in cui il ritrovamento ha avuto luogo.

8 archeo

In tutti questi anni di scavo le tracce di frequentazione umana emerse erano inequivocabili. Erano state trovate selci lavorate, ossa di animali con striature di selce e fratture intenzionali, tutti indicatori di un habitat preistorico antropizzato. L’uomo, infatti, ritoccava i margini degli strumenti in selce per renderli affilati e li utilizzava anche per tagliare la carne degli animali uccisi; quando nell’operazione il bordo dell’utensile toccava l’osso, lasciava una traccia evidente che gli archeologi oggi possono leggere. Le ossa venivano anche spaccate per esporne l’interno e cibarsi del midollo: la morfologia delle fratture ritrovate sul sito si era dimostrata coerente con i test di fratture artificiali effettuate dai ricercatori. Finalmente adesso è arrivata anche la «prova regina» della presenza dell’uomo. Si tratta del primo reperto di questo genere nella penisola italiana e la scoperta è di eccezionale importanza per le informazioni che può fornire sulla specie Homo heidelbergensis e sulla sua variabilità, che pare molto pronunciata. Infatti mentre i resti umani piú recenti in ambito italiano denotano una persistenza di caratteri arcaici al confronto con il

5 mm

In alto: il dente da latte (un primo incisivo) di un bambino rinvenuto nel giacimento preistorico di Isernia La Pineta e attribuito a Homo heidelbergensis. 600 000 anni fa circa. In basso: uno dei settori di scavo del sito molisano. resto dell’Europa, il dente ritrovato a Isernia mostra invece caratteristiche di maggiore gracilità e un aspetto meno bombato. L’Homo heidelbergensis è noto agli studiosi per un altro reperto, una mandibola umana ritrovata a Mauer (Germania) nel 1907, che presenta però una configurazione diversa e ben piú massiccia. Progenitore di questa specie è l’Homo antecessor (1,2-0,7 milioni di anni fa) a cui sono stati attribuiti ritrovamenti ad Atapuerca (Spagna). Sono adesso in programma altre indagini sul dente, oltre allo studio degli aspetti morfologici, che è già stato affrontato e in corso di pubblicazione, e grande importanza avranno i risultati degli esami radiologici, come laTAC, per esaminare gli aspetti interni del dente. Questo aiuterà gli studiosi a definire meglio la posizione del ritrovamento nella linea evolutiva umana sia nei confronti del suo predecessore, l’Homo antecessor, sia del suo successore, l’Uomo di Neandertal. P. L.



parola d’archeologo Flavia Marimpietri

la «seconda vita» dei giganti le straordinarie sculture colossali antropomorfe di monte prama hanno finalmente trovato una collocazione adeguata. e la ripresa degli scavi sul sito getta nuova luce sul contesto in cui furono realizzatE. ce ne parla marco minoja, Soprintendente ai Beni archeologici di Cagliari e Oristano

A

lcuni imbracciano l’arco, altri indossano scudo e schinieri. Altri ancora ci fissano immobili con occhi cerchiati. Vestiti di pietra e alti molto piú del vero, sono i giganti di Monte Prama: statue di guerrieri, di oltre 2 m di altezza, risalenti all’epoca nuragica (VIII secolo a.C.), casualmente rinvenute negli anni Settanta del secolo scorso. E rimaste nei magazzini del Museo di Cagliari fino a pochi mesi fa. Ce ne eravamo occupati quando ancora «dormivano» nei depositi del museo (vedi «Archeo» n. 272, ottobre 2007), e poi all’indomani della conclusione dei restauri di cui erano stati fatti oggetto e in occasione della mostra a loro dedicata a Sassari (vedi «Archeo» n. 323, gennaio 202; anche on line

10 a r c h e o

Qui sopra: Marco Minoja, soprintendente archeologo per le province di Cagliari e Oristano. A destra: statua di «pugilatore», del quale, nonostante la frammentarietà, si intuisce la posizione del braccio sinistro, piegato sulla testa a sostenere un grande scudo ricurvo di forma rettangolare. VIII sec. a.C.


su archeo.it). Oggi i guerrieri sono finalmente esposti al pubblico: alcuni sono in mostra nel Museo Archeologico di Cagliari, mentre altri sono visibili nel museo di Cabras, Comune nel quale vennero rinvenute. E da circa un mese è ripreso lo scavo dell’area archeologica di Monte Prama, nell’ambito di un piú ampio progetto di studio dell’area in cui furono trovate le statue. Ce ne parla Marco Minoja, Soprintendente ai Beni archeologici di Cagliari e Oristano. «L’obiettivo del progetto avviato nell’area di Monte Prama – spiega – è dare un contesto storico e archeologico alle statue, svelarne i segreti e risolvere i problemi di carattere scientifico che questa eccezionale scoperta – fatta per caso 40 anni fa da un contadino – pone al mondo archeologico. Il piano si divide in due interventi. Il primo, finanziato dalla Regione con 140mila euro, coinvolge la Soprintendenza per i Beni Archeologici di Cagliari e Oristano, le Università di Sassari e di Cagliari, il Comune di Cabras e il carcere di Oristano (i cui detenuti aiutano nella manodopera): prevede la ricognizione del territorio e indagini geofisiche realizzate con un particolare georadar a 16 canali, unico al mondo. Il secondo intervento, condotto dalla Soprintendenza di Cagliari e Oristano, è uno scavo archeologico sistematico finalizzato ad ampliare le aree dei vecchi scavi». Fin dalla loro scoperta, i giganti di Monte Prama hanno esercitato un forte fascino: non esistono testimonianze simili nella cultura nuragica, né sono mai state rinvenute sculture a tutto tondo antropomorfe in Sardegna. I giganti sono un unicum. E testimoniano un’arte matura ed evoluta, prima della grande statuaria greca. Che cosa ci dicono, in proposito, gli ultimi studi?

«Confermano che queste statue sono una testimonianza eccezionale, di cui non esistono altri esempi. A oggi ci sono soltanto un frammento di testa da Narbolia, nell’Oristanese, che è simile, e qualche riproduzione di figura

Nella pagina accanto, in alto: Monte Prama (Cabras, Oristano). Il cantiere di scavo, aperto nell’area in cui, negli anni Settanta, erano stati condotti i primi interventi d’emergenza, dopo la scoperta casuale delle statue. A sinistra: statua di guerriero con corta tunica e corazza. VIII sec. a.C. animale (non umana però). Per il resto non esiste nulla di confrontabile con le statue di Monte Prama, che in tutta la Sardegna rimangono un unicum. Le sculture ricomposte dopo il restauro (a partire dai 5178 frammenti recuperati dalle campagne di scavo del passato, per un peso complessivo di 10 t) sono risultate in totale 38: cinque arcieri, quattro guerrieri, sedici pugilatori, tredici modelli di nuraghe». Dove avete iniziato a scavare nell’area di Monte Prama? «Le nuove ricerche insistono sugli scavi degli anni Settanta, per approfondire e completare le indagini che la Soprintendenza di Cagliari, all’epoca, aveva affrontato con urgenza e velocità. Nel 1975 Alessandro Bedini aveva esplorato sommariamente la zona settentrionale dell’area archeologica e scavato – in pochissimi giorni – una parte della necropoli di Monte Prama, dove erano emersi i primi frammenti delle statue. Nel 1979 Carlo Tronchetti riprese le indagini, scavando nell’area meridionale della necropoli e portando alla luce la maggior parte delle sculture. Gli scavi di quest’anno si concentrano nelle immediate pertinenze dei saggi precedenti, dove bisogna completare lo scavo di alcune evidenze non sondate, tra cui una capanna nuragica e altre strutture importanti. Vogliamo comprendere il contesto in cui sono state realizzate le statue e da dove vengono, cosa che ancora non sappiamo con precisione».

a r c h e o 11


parola d’archeologo Dunque, ancora si ignora la provenienza delle sculture? «Sí, anche perché le statue non vennero trovate in posizione originaria, ma accatastate le une sulle altre, al di sopra della necropoli: erano state evidentemente rimosse dalla loro collocazione originaria e sistemate in un cumulo in epoca punica, intorno al IV secolo a.C.». Ci sono novità sulla cronologia? «Sembra essere confermata la datazione all’età del Ferro, in contemporanea con la necropoli. Secondo me siamo intorno all’inizio dell’VIII secolo a.C. Ma lo scavo è appena iniziato, ci sono ancora pochi elementi per dirlo. Finora abbiamo ripulito l’area di cantiere e aperto i primi saggi di scavo, ma al momento ancora non abbiamo dati. Stiamo intervenendo nelle aree in cui le prospezioni geomagnetiche e geoelettriche hanno evidenziato anomalie nel terreno». Che cosa le fa pensare che i giganti siano databili all’inizio dell’VIII secolo a.C.? «I pochi resti ceramici riportano all’età del Ferro: gli strati indicano una frequentazione dell’inizio dell’VIII secolo a.C. Inoltre, c’è il corredo della tomba 25 della necropoli di Monte Prama, l’unica che abbia restituito alcuni oggetti di corredo, che io propongo di datare all’VIII secolo a.C.». Esiste un rapporto tra le tombe della necropoli e le statue? «Sí. Dobbiamo ancora capire in quale relazione siano, ma l’ipotesi è che tombe e statue siano manifestazioni uniche nello spazio e nel tempo». Le sculture dei guerrieri potevano avere una funzione di segnacolo delle sepolture? «Non si può dire, per ora. Tutto l’apprestamento deve essere ricondotto, comunque, a un atto unitario molto particolare di monumentalizzazione dell’area funeraria». Quale idea vi siete fatti del

12 a r c h e o

contesto storico in cui i giganti sono stai realizzati? Sembra una produzione artistica evoluta… «Da quanto possiamo desumere dalla cronologia della zona e dall’inquadramento culturale, si può agevolmente ipotizzare che questa espressione artistica sia legata a una fase evoluta della civiltà nuragica, anche grazie al contatto con il mondo fenicio. I Fenici avevano iniziato a frequentare gli approdi dell’Oristanese già dal IX secolo

Uno scudo di forma circolare probabilmente associabile alla statua di guerriero (foto alla pagina precedente), come illustrato dal disegno ricostruttivo. a.C. e, a pochi chilometri da Monte Prama, nel VIII secolo a.C., sorse la città fenicia di Tharros». Quindi è stato il contatto con i Fenici a dare l’impulso culturale che ha portato alla produzione delle statue di Monte Prama? «Sí. L’impressione è che questo incontro tra culture e civiltà differenti, con i Fenici, abbia influenzato la produzione artistica nuragica determinando un fenomeno artistico del tutto originale e autonomo, come queste sculture. Anche il sigillo scaraboide in steatite proveniente dalla tomba 25 della necropoli di Monte Prama, che sembra essere di produzione siro-palestinese, documenta con certezza contatti con l’Oriente. La fibula di bronzo trovata nell’area archeologica, è invece una produzione di area etrusca tirrenica». Quindi, nell’VIII secolo a.C., la civiltà nuragica aveva scambi con i Fenici e, al tempo stesso, con gli Etruschi? La Sardegna sembra un mondo in grande fermento… eppure la civiltà nuragica era alle sue ultime fasi di vita, o sbaglio? «Prima si pensava che in quest’epoca il mondo nuragico fosse in declino, in una fase terminale poco attiva, dal momento che poi di fatto, nell’ambito dell’VIII-VII secolo a.C., la civiltà nuragica sfuma in orizzonti nuovi ed entra nell’orbita fenicia e poi punica. L’elemento nuovo è che c’è una transizione piuttosto sfumata, con elementi di continuità importanti con il mondo nuragico. I giganti di Monte Prama testimoniano proprio questo momento di passaggio, in cui la cultura nuragica è ancora viva e vivace, data la manifestazione artistica che riesce a produrre con queste sculture».



CALABRIA

musei Campania

I Fasti di Sibari

storie di guerra e di mare

Dal 22 al 24 agosto, il parco archeologico Timpone della Motta-Macchiabate (Francavilla Marittima, Cosenza) ospita il I Festival Internazionale della Sibaritide, intitolato «Città di Lagaria». La rassegna intende rievocare lo splendore dei territori di Sybaris (Sibari) importante polis della Magna Grecia, decantata dagli storici per la sua potenza e la sua ricchezza. Nelle sue vicinanze sorse Lagaria, città dalla collocazione ancora incerta, anche se tutti gli indizi offerti dalle ricerche condotte dall’archeologa olandese Marianne Kleibrink, suggeriscono che l’antico abitato vada identificato proprio con il sito del Timpone della Motta-Macchiabate. Vuole una leggenda che Lagaria sia stata fondata da una colonia di Focesi guidati da Epeo, il costruttore del cavallo di Troia. Nel corso del festival si ripercorrono le tappe piú significative dell’incontro tra la popolazione indigena, gli Enotri, già presenti nei territori dell’Alto Ionio dal IX-VIII secolo a.C., e i Greci che approdarono sulle coste dell’Italia Meridionale. Nell’ambito della manifestazione nasce inoltre il progetto «TÈMENOS, arte contemporanea tra archeologia e territorio», una sorta di viaggio alla scoperta della storia, dei luoghi sacri e dei miti e dell’antica Grecia. Curato da Giovanni Viceconte, in collaborazione con l’Archivio arthub.it e l’associazione freeUnDo.Net, il progetto realizzerà un’opera di videoarte 2video, permettendo agli artisti, Michela Pozzi e il duo Fonte&Poe (Alessandro Fonte e Shawnette Poe), di confrontarsi e avere come fonte di ispirazione la piana di Sibari.

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A

llestito nel Palazzo del Trono di Cetraro, il Museo dei Brettii e del Mare è una tra le piú attive realtà archeologiche della costa tirrenica cosentina. Impostato secondo criteri didattici, con un percorso topografico e cronologico insieme, esso offre un quadro della realtà insediativa di questa parte di Calabria, grazie a reperti provenienti da indagini effettuate nei territori di Cetraro, Belvedere Marittimo, Acquappesa e Bonifati. L’area è caratterizzata da un’orografia difficile, che ha condizionato la presenza umana, limitandone lo sviluppo a momenti storici ben definiti. Tutti i siti indagati, infatti, risalgono in prevalenza al primo periodo ellenistico (IV-III secolo a.C.), quando qui vivevano genti italiche di origine osco-sabellica. «L’organizzazione dell’esposizione museale – afferma Gregorio Aversa, funzionario archeologo responsabile di zona – è stata concepita proprio in funzione di una

Sostegno di specchio in bronzo in forma di figura femminile che indossa un peplo. Seconda metà del V sec. a.C. tale concentrazione di attestazioni che, per la facies ellenistica, risponde alla logica di stanziamenti a carattere sparso, relativi a un popolo che, grazie alle fonti letterarie e numismatiche, sappiamo essere quello dei Brettii. I connotati sociali di tale popolazione erano connessi al mondo della guerra, ma, nel medesimo tempo, rivolgevano la propria economia a base agricola sulla gestione del territorio, che qui era stretto tra il marTirreno e la catena appenninica costiera». Giampiero Galasso

Dove e quando Museo dei Brettii e del Mare Cetraro, Palazzo del Trono Orario lu-ve, 10,30-12,30 e 17,30-19,30; sa-do, su prenotazione Info tel. 0982 972751; e-mail: museo@comune.cetraro.cs.it; museodeibrettiiedelmare.it

ferrara

Comunicare l’antico Il Laboratorio di Antichità e Comunicazione dell’Università di Ferrara organizza, dall’8 al 13 settembre, nello stesso capoluogo emiliano, il I Workshop su «Scrivere, comunicare e divulgare l’Antichità ed i Beni Culturali». L’iniziativa si rivolge a diplomati, laureati e a tutti gli interessati che intendano approfondire specifiche competenze nella divulgazione e comunicazione dell’antichità, della storia e dei beni culturali, focalizzando l’attenzione sull’editoria (giornali, riviste e libri), sulla documentaristica e divulgazione televisiva e nei nuovi media. Sono partner del Workshop, tra gli altri, «Archeo» e «Medioevo». Le attività didattiche saranno articolate in cinque giorni, da lunedí 8 a venerdí 13 Settembre, con attività laboratoriali, per complessive 45 ore. I migliori progetti verranno pubblicati o realizzati. Info: tel. 0532 455236; 329 4084925 (attivo lu-ve, 10,00-18,00; e-mail: lac@unife.it).



n otiz iario

archeofilatelia

Luciano Calenda

un fascino eterno Il recente articolo dedicato a Omero, Troia e Heinrich Schliemann (vedi «Archeo» n. 352, giugno 2014) ha ispirato questa puntata di Archeofilatelia, strutturata con un’impostazione diversa da quella consueta. Infatti, i singoli argomenti sono già stati trattati in passato, utilizzando quasi tutto il materiale esistente; ora vengono presentati altri pezzi, mai mostrati prima, secondo un ordine che potremmo definire «logico-temporale». In primis, ci sono due francobolli turchi che raffigurano lo Stretto dei Dardanelli (1) e la cittadina di Çanakkale (2), passaggi obbligati per raggiungere Troia, sia dalla Grecia che da Istanbul, e che individuano, piú o meno, il teatro delle vicende omeriche. Poi c’è, temporalmente parlando, Troia, o Ilios, o Wilusa (come recita il cartello posto all’inizio del percorso archeologico del sito); anche in questo caso ci sono altri due francobolli turchi che raffigurano il teatro romano (3) e una ricostruzione fantasiosa del famoso cavallo di legno (4), che è il soggetto anche di un francobollo greco (5) sul quale è riprodotto il particolare di quella che, a oggi, è considerata la sua piú antica immagine, plasmata sul collo di un’anfora cicladica trovata a Mykonos e datata intorno al 670 a.C. Il cavallo naturalmente introduce, secondo l’ordine che abbiamo scelto, Omero e molti sono i francobolli e gli annulli che hanno riprodotto il volto o il busto del cantore cieco. Qui si mostrano alcun i pezzi inediti, cominciando dal foglietto del Lussemburgo che riproduce il mosaico romano di ben 60 mq scoperto a Vichten nel 1995 (6) e che rappresenta le Nove Muse; la tessera centrale raffigura Omero e Calliope (7). Un altro francobollo inedito per questa rubrica è quello della Cambogia (8) sul quale compaiono Omero e Dante nel Parnaso di Raffaello. Infine, Heinrich Schliemann. Anche per lui ci sono pezzi finora non utilizzati, tranne un esemplare della Grecia (9), perché viene affiancato a quello della Germania (10) di uguale soggetto: entrambi sono stati emessi nel centenario della morte del’archeologo. Poi ci sono tre francobolli di una società privata tedesca di recapito postale (Biber Post) autorizzata a emettere propri valori: sono i ritratti dell’archeologo (11) e della moglie Sofia (12) tratti da vecchie foto, cosí come è una foto d’epoca quella che lo raffigura, ma in questo caso a Micene, davanti alla Porta dei Leoni (13). Infine l’annullo che riproduce il Museo di Berlino dedicato al piú grande archeologo «dilettante» della storia (14).

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17126 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it



calendario

Italia roma Siria, Splendore e Dramma

Civita Castellana Eracle tra i Falisci

La gloria dei vinti

cortona Seduzione Etrusca

Campagna per la salvaguardia del patrimonio culturale in Siria Palazzo Venezia fino al 31.08.14

Il sogno dell’immortalità Museo Archeologico dell’Agro falisco, fino al 09.11.14

Pergamo, Atene, Roma Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps fino al 07.09.14

Dai segreti di Holkham Hall alle meraviglie del British Museum Palazzo Casali fino al 30.09.14 (prorogata)

L’arte del comando

fiesole Fiesole e i Longobardi

L’eredità di Augusto Museo dell’Ara Pacis fino al 07.09.14

Museo Civico Archeologico fino al 31.10.14

La biblioteca infinita

fossombrone La statua della Vittoria Augusta di Kassel a Forum Sempronii

I luoghi del sapere nel mondo antico Colosseo fino al 05.10.14

Un ritorno nel Bimillenario Augusteo Chiesa di S. Filippo, Corte Alta fino al 15.09.14

Le leggendarie tombe di Mawangdui Arte e vita nella Cina del II secolo a.C. Palazzo Venezia fino al 16.02.15

montesarchio Rosso Immaginario

Bolzano Frozen stories

Il racconto dei vasi di Caudium Museo Archeologico del Sannio Caudino fino al 30.09.14

Reperti e storie dai ghiacciai alpini Museo Archeologico dell’Alto Adige fino al 22.02.15

orvieto Sethlans

Castelnovo ne’ Monti (Re) Antichissima Bismantova

Il sito pre-protostorico di Campo Pianelli. 150 anni di ricerche Biblioteca Comunale «Raffaele Crovi» fino al 02.11.14

chianciano Terme Petala Aurea

I bronzi etruschi e romani nella Collezione Faina Museo «Claudio Faina» fino al 31.08.14 Laminetta aurea in forma di leone.

Lamine di ambito bizantino e longobardo dalla Collezione Rovati Museo Civico Archeologico fino al 28.09.14

chieti Secoli augustei

Messaggi da Amiternum e dall’Abruzzo antico Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo fino al 30.09.14 Palazzo de’ Mayo fino all’11.01.15

cividale del friuli Fortini antichi erano all’intorno di Cividale Archeologia e castelli nel Friuli nord-orientale Museo Archeologico Nazionale fino al 07.09.14

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paestum (capaccio) e Santa Maria Capua Vetere Immaginando Città Racconti di fondazioni mitiche, forma e funzioni delle città campane Museo Archeologico Nazionale di Paestum e Museo Archeologico dell’Antica Capua fino al 30.10.14

palermo Del Museo di Palermo e del suo avvenire

Il «Salinas» ricorda Salinas 1914/2014 Museo Archeologico Regionale «Antonino Salinas» fino all’08.11.14

tivoli-Villa Adriana Adriano e la Grecia

Villa Adriana tra classicità ed ellenismo Antiquarium del Canopo fino al 02.11.14

Una delle videoproiezioni realizzate a partire dai vasi figurati esposti a Montesarchio.


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

torino I Greci a Torino

Saint-romain-en-gal Cassio

Storie di collezionismo epigrafico Museo di Antichità fino al 26.10.14

Il fumetto in mostra Musée gallo-romain fino al 31.08.14

Germania

Vallo della Lucania (SA) Cilento patrimonio dell’umanità

bonn Un’avventura orientale

Dalla Preistoria al Risorgimento. Storia di una civiltà Fiere di Vallo, Località Pattano fino al 31.12.14

Max von Oppenheim e la scoperta di Tell Halaf Bundeskunsthalle fino al 30.08.14

vetulonia, orvieto e grotte di castro Circoli di Pietra in Etruria

Una forma peculiare di sepoltura dell’Italia centrale tra il Bronzo Finale e la prima età del Ferro Vetulonia, Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» Orvieto, Museo Archeologico Nazionale Grotte di Castro, Museo Civico Archeologico «Civita» fino all’11.01.15

Protome di calderone in bronzo di produzione orientale.

Viterbo 5000 anni di gioielli estoni

Londra Antiche vite, nuove scoperte

Otto mummie dall’Egitto e dal Sudan The British Museum fino al 30.11.14

Paesi Bassi

Museo Nazionale Etrusco (Rocca Albornoz) fino al 14.09.14

amsterdam Spedizione Via della Seta Tesori dall’Hermitage Hermitage Amsterdam fino al 05.09.14

vulci Principi Immortali

I fasti dell’aristocrazia vulcente Museo Archeologico Nazionale fino al 14.09.14

leida Medioevo dorato

Rijksmuseum van Oudheden fino al 26.10.14

zuglio (ud) In viaggio verso le Alpi

Itinerari romani dell’Italia nord-orientale diretti al Norico Civico Museo Archeologico Iulium Carnicum fino al 31.08.14

Gran Bretagna

Coppia di mani in argento, da Vulci. Seconda metà del VII sec. a.C.

Belgio

Svizzera berna Le palafitte

Ai bordi dell’acqua e attraverso le Alpi Museo Storico di Berna fino al 26.10.14

Ename L’eredità di Carlo Magno

Un arco e la sua faretra rinvenuti in un sito palafitticolo e associati al disegno che ne ricostruisce l’utilizzo.

Provinciaal Erfgoedcentrum fino al 30.11.14

Francia les-eyzies-de-tayac Grandi siti dell’arte maddaleniana

La Madeleine e Laugerie Basse 15 000 anni fa Musée national de Préhistoire fino al 10.11.14

Moneta in argento di Ardashir I.

basilea Roma eterna

2000 anni di scultura dalle collezioni Santarelli e Zeri Antikenmuseum fino al 16.11.14 a r c h e o 27


l’archeologia nella stampa internazionale Andreas M. Steiner

l’incredibile VIAGGIO DI UNA piccola lamina D’ORO

L

a copertina dell’autorevole rivista tedesca Antike Welt rievoca la tragedia culturale e umana che, da anni ormai, investe la Siria. L’immagine ritrae l’arco romano sulla via Dritta di Damasco, la via recta, il decumano massimo della città romana. All’interno, un reportage elenca i principali siti monumentali colpiti dalle distruzioni: la grande moschea omayyade di Aleppo (il cui minareto di età selgiuchide è stato polverizzato), il Krak des Chevaliers (il celebre castello crociato, colpito dall’artiglieria e da bombardamenti), siti di inestimabile valore archeologico quali Palmira, Apamea (vedi «Archeo» n. 349, marzo 2014), Bosra,Tel Halaf (vedi «Archeo» n. 338, aprile 2013). Al tema dei beni culturali nel contesto delle guerre civili in corso nei Paesi vicino-orientali dedicheremo prossimamente un ampio servizio. Nello stesso numero, però, Antike Welt riporta – rimanendo in ambito bellico – la cronaca di un singolare «ritorno»: quello di un piccolo, ma preziosissimo documento scrittorio, proveniente non dalla Siria, ma dal vicino Iraq, e, precisamente, dall’antica città di Assur.

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Nel settembre del 1913, una missione archeologica tedesca sta esplorando i resti del tempio di Ishtar nell’antica Assur (sulla riva destra del Tigri, nel Nord dell’odierno Iraq, in quella che all’epoca era ancora una provincia dell’impero ottomano) quando dagli scavi vengono alla luce due lamine con segni cuneiformi incisi, una d’argento, l’altra d’oro. Il testo riportato su entrambe le facciate della piccola lamina aurea fa riferimento ad ampi lavori di ricostruzione del tempio dedicato alla mesopotamica dea della guerra. Nell’agosto dell’anno successivo, a conclusione della campagna archeologica, il prezioso oggetto viene caricato, insieme ai numerosi altri reperti di scavo, su una nave mercantile (la Cheruskia) che da Bassora è diretta in Germania. Ma le vicende politiche prendono il sopravvento: il 1° agosto, pochi giorni dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, la nave raggiunge La piccola lamina aurea (26,40 x 41 mm) messa a confronto con quella d’argento (29,80 x 52,50 mm), scoperte entrambe ad Assur nel 1913.

il porto di Lisbona, dove viene posta sotto sequestro. Un anno piú tardi l’intero carico è confiscato dal governo portoghese e la lamina d’oro portata, insieme agli altri oggetti, all’Università di Oporto. Nel 1926, però, le autorità portoghesi decidono di restituire i reperti alla Germania, dove giungono il 2 settembre dello stesso anno. Dal 1934 fino al 1939 la lamina è esposta nella «sala assira» dell’appena costruito Pergamonmuseum di Berlino, quando un altro evento bellico – l’inizio della seconda guerra mondiale – interviene a turbare nuovamente il destino dei reperti assiri. Nel maggio del 1945 l’esercito sovietico prende possesso dei musei berlinesi e gran parte delle collezioni archeologiche è trasferita a Mosca e Leningrado. Passano i decenni e, nell’aprile del 2006, una lettera proveniente dalla cittadina di Mineola (New York) informa la direzione del Vorderasiatisches Museum di Berlino (il Museo per il Vicino Oriente) della presenza, tra il lascito


di un cittadino americano, di un «amuleto» aureo, verosimilmente identificabile con l’antico documento disperso nel 1945. Il defunto proprietario, Riven Flamenbaum, un sopravvissuto dell’Olocausto, aveva acquistato il reperto da un soldato sovietico in cambio di un pacchetto di sigarette. La lamina, raccontano oggi i suoi discendenti, era diventata per lui un potente talismano durante i difficili anni in cui, emigrato negli Stati Uniti, dovette ricostruirsi una nuova esistenza. A partire dallo scorso aprile il prezioso reperto è nuovamente esposto nel Museo per il Vicino Oriente di Berlino. Minuscolo

(misura appena 26 x 41 mm) è, si stenta a crederlo, in ottimo stato di conservazione. La sua datazione viene definita dalla menzione del nome di Tukulti Ninurta, re degli Assiri dal 1243 al 1207 a.C. Il testo, in cui si ricorda come Tukulti Ninurta abbia completamente rinnovato il vecchio tempio caduto in rovina e in cui si esortano i futuri regnanti a ricordare l’impresa, a evitare ogni altra futura distruzione, nonché a ripristinare, in caso di nuove distruzioni, il nome del re che lo aveva fatto rinascere, è identico a quello che appare sulla tavoletta d’argento (di poco piú grande) rinvenuta, insieme a quella aurea, nel lontano 1913 e rimasta in

I due lati della lamina incisa con caratteri cuneiformi, rinvenuta ad Assur (odierno Iraq) nel 1913. Il testo narra dei lavori di restauro e ricostruzione del grande tempio di Ishtar, intrapresi dal re assiro Tukulti Ninurta (1243-1207 a.C.). Berlino, Vorderasiatisches Museum.

possesso dei musei berlinesi. Sarebbe forse auspicabile, visto il «potere» insito nella lamina e nelle esortazioni regali che riporta, ricondurla in giro per la sua terra d’origine, l’antica Mesopotamia, affinché a essa rechi nuova fortuna e possa debellare la maledizione che, in questi anni, ha colpito l’intera regione.

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corrispondenza da Atene Valentina Di Napoli

è festa per i tesori di creta Dopo sette anni di chiusura, sebbene quasi mai totale, il Museo Archeologico di Iraklio si presenta nella sua nuova veste

A

lla fine dell’Ottocento, quando Creta faceva ancora parte dell’impero ottomano, un’associazione culturale, il Filekpaideutikòs Syllogos di Iraklio, chiese e ottenne dalle autorità il permesso di occuparsi della raccolta e della tutela delle antichità cretesi. Venne cosí a costituirsi il cuore del futuro Museo Archeologico di Iraklio, uno dei piú vecchi, dunque, del moderno Stato greco. Chi l’abbia visitato non potrà dimenticare di avervi ammirato molti capolavori dell’arte greca, dall’enigmatico disco di Festòs al policromo sarcofago di Haghia Triada, dalle sculture di Dreros fino agli splendidi affreschi minoici e alla statuaria di età imperiale, quando Gortina era la capitale della provincia di Creta e Cirenaica.

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Il primo Museo di Iraklio fu costruito nel triennio 1904-1907, là dove, in precedenza, sorgeva il monastero cattolico di S.

Iraklio (Creta), Museo Archeologico. La sala dedicata alla statuaria (in alto) e uno scorcio di quella in cui sono esposti gli affreschi (in basso).


Francesco, distrutto dal terremoto del 1856. Questo museo tuttavia, ampliato nel 1912 con la costruzione di una nuova ala, progettata dal Segretario della Società Archeologica di Atene, Panagiotis Kavvadias, assieme al celebre architetto e archeologo tedesco Wilhelm Dörpfeld, rimase incompiuto. Solo nel 1935 fu avviata la costruzione dell’attuale Museo Archeologico di Iraklio, su progetto dell’architetto greco Patroklos Karantinòs. L’edificio, un lodevole esempio di architettura Bauhaus, s’ispirava al disegno e ai colori dei palazzi minoici e si segnalò per il largo impiego della luce naturale per l’illuminazione dell’interno, che per l’epoca fu una vera innovazione.

l’ora del rinnovamento Tuttavia, col tempo, si era sentita l’esigenza di un rinnovamento. I lavori sono cominciati nel 2007 e gli spazi espositivi non sono quasi mai stati completamente chiusi al pubblico, poiché una selezione di 400 reperti di epoche diverse è stata temporaneamente allestita in un’ala dell’edificio. Ciononostante, soprattutto alla vigilia della conclusione dei lavori, a causa delle esigenze dei lavori e della cronica carenza di personale di custodia, era esposta solo una parte ridottissima dei reperti.

Dida digendis poreic tem iust et qui dus eicat pratia dita que omnis nem videlessent aut ut volorat emporit iostia quiasintiur alitatem denimol orepero enihici dellat eicatur? Modi beribus aperior possimos reiciUcil et autectempos sunt illitas

La lunga attesa è finalmente stata premiata: infatti, il Museo Archeologico di Iraklio ha appena riaperto le porte al pubblico in via definitiva, con un allestimento completamente rinnovato; un contributo decisivo alla riuscita dell’impresa è venuto dal laboratorio di restauro, intervenuto sui materiali in vista della nuova collocazione. Le spaziose vetrine danno l’impressione che gli oggetti «respirino», senza essere affollati come nelle vecchie esposizioni, e alcune sono fruibili da tutti i lati. Sintetici pannelli esplicativi in greco e in inglese offrono le informazioni principali, in un linguaggio accessibile anche ai non specialisti; e anche la nuova illuminazione aggiunge un importante tassello al nuovo

La vetrina che illustra la dieta alimentare piú diffusa in epoca minoica, attraverso stoviglie, vasellame da mensa e utensili. allestimento. La novità piú evidente risiede a nostro avviso nel criterio espositivo scelto per gli affreschi minoici, protetti da teche e incorniciati come quadri. L’effetto è elegante e assai minimal, ma la soluzione desta qualche perplessità, in quanto dà la fuorviante impressione di essere in una galleria d’arte moderna. Anche se, si potrà obiettare, nel momento stesso in cui gli affreschi sono stati asportati dal loro contesto originario, si sono sottratte loro informazioni vitali, riducendoli a meri oggetti d’arte. Quel che piú conta, però, è che la ristrutturazione sia stata portata a termine; un obiettivo raggiunto grazie all’uso sapiente dei fondi, soprattutto comunitari, che ha consentito il coronamento di un’impresa impegnativa, anche nella Grecia di oggi, Paese simbolo della crisi economica.

Dove e quando Museo Archeologico di Iraklio Iraklio, Xanthoudidou 1 Orario estivo: tutti i giorni, 8,00-20,00, invernale: lu, 11,00-17,00; ma-do, 8,00-15,00 Info http://odysseus.culture.gr

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Pakistan LA MAGIA DELLE ORIGINI a un esame superficiale, i manufatti che vi presentiamo Potrebbero sembrare prodotti di artigianato contemporaneo. Invece quei vasi e quelle figurine di animali risalgono a piú di 4000 anni fa e racchiudono un universo di sentimenti e di simboli lontano, eppure vicino. Una vicenda rocambolesca ha fatto sí che questi oggetti straordinari si trovino oggi in Italia. Dove li abbiamo fotografati, e dove, ancora per qualche settimana, possiamo «incontrarli»... di Massimo Vidale, Giovanna Lombardo, Elisa Cortesi e Dennys Frenez; reportage fotografico di Edoardo Loliva I reperti presentati nell’articolo provengono dal Baluchistan (Pakistan) e sono attualmente esposti a Roma, nella mostra «Simboli Vivi», allestita fino al 21 settembre al Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci».

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A sinistra bicchiere decorato con una doppia fila di triangoli. Cultura di Kulli, fase B, 2350-2000 a.C. circa. Nella pagina accanto: figurina in forma di toro. Cultura di Kulli, fase A, 2600-2350 a.C. circa.


I

ncastonato tra le piane dell’Indo, l’Asia centrale e l’altopiano iranico, il Baluchistan (lo sconfinato territorio che si estende dai rilievi costieri del confine irano-pakistano fino alle pendici delle montagne dell’Hindukush), in età neolitica fu una delle culle dell’agricoltura e della vita se-

dentaria. Esso coincide con le Indo-Iranian borderlands, le «terre di confine» tra il margine orientale dell’altopiano iranico e, a sud-est, le porte del subcontinente indo-pakistano. Le borderlands sono una enorme massa continentale semi-arida, arroventata dal sole e percorsa da catene montuose e deserti.

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scoperte • pakistan

Vi scorrono fiumi che – non riuscendo a trovare sbocchi fino al mare –, si estinguono in vasti bacini interni paludosi che si trasformano in distese di sale. Questa era l’antica Gedrosia, nota ai geografi ellenistici dai resoconti fatti da Nearco e dai generali macedoni della fine del IV secolo a.C. Era abitata da pastori nomadi, e, sulla costa, nota ai Persiani con il nome di Maka (oggi forse sopravvissuto nel moderno toponimo di Makran), dal popolo degli Ittiofagi («I mangiatori di pesce»), che vivevano ignorando l’uso dei metalli e l’agricoltura, nutrendo con pesce persino gli animali domestici, e costruendo le capanne con ossa di grandi cetacei.

Mun Mu Mun nd diig dig i a ak k

Der D De e a Is sma ma aill K Kha ha h an

K dah Kan harr Kiil Kil K ili Gu ull M Mu Muh uhamm uh am ad am ad

Sh Sha S hah ha hrrr--i Sokt hrk ha a

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Sohr-Damb/Nal Meh M eh hi Mii i Qala M Mir allat a

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Kulli

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250 Km Siti archeologici Città moderne

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Kar K ara ach ac ch c hi Dho ho olav av vir iira rra a Sur urkot ur kot otta ada d

Raj R Ra ajk kot o

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Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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IL QUADRO CRONOLOGICO Anni a.C. Mesopotamia

Sohr Damb/Nal

3500-3100

Tardo Uruk

Periodo I

Cultura del Ravi (Punjab)

3100-2900

Jemdet Nasr

Periodo II

Cultura di Kot-Diji (Sindh)

2900-2600

Dinastico Antico I

2600-2350

Dinastico Antico II e III

Periodo III

Kulli A

Harappa 3A

2350-2000

Periodo Accadico, Ur III

Periodo IV

Kulli B

Harappa 3B-Harappa 3C

Nella pagina accanto: cartina del Pakistan, con i siti citati nel testo. In basso: il sito di Sohr Damb/Nal.

Kulli

«Sopra gli Ittiofagi – scrisse Arriano di Nicomedia (95-175 circa) – (...) sono i Gedrosi infra terra, in paese aspro e arenoso, nei quali luoghi l’esercito di Alessandro, ed egli insieme, sofferse molti disastri» (Anabasi di Alessandro, VIII). Nel 325 a.C., infatti, le truppe di Alessandro, sulla via della Mesopotamia, avevano subito perdite disastrose: per sete e mancanza di cibo, dissenteria, subitanee alluvioni, nonché per l’ostilità delle genti locali. In sessanta giorni di marcia Alessandro perse almeno 12 000 uomini, piú di un terzo delle sue forze. Dopo la morte del Macedone, uno degli eredi dell’impero, Seleuco I Nicatore (358-281 a.C.), fu ben lieto di liberarsi di queste remote terre, cedendo tutte le regioni a est dell’Hindukush al nascente regno dei Maurya (321-185 a.C.) in cambio di mezzo migliaio di elefanti. In condizioni climatiche che oggi sembrano estreme, ma che 10 000 anni fa dovevano essere piú favorevoli, cacciatori nomadi e raccoglitori si erano sedentarizzati in questa terra, sino a divenire agricoltori e allevatori semi-nomadici già a partire dal VII millennio a.C. Intorno al 3000 a.C., i siti del Baluchistan erano parte di un vasto reticolo di interessi e attività commerciali. Le rovine di questi antichissimi insediamenti, come le loro necropoli, dormivano il profondo sonno dell’oblio della storia, appena di-

Civiltà dell’Indo

sturbate da qualche solitaria visita di esploratori e archeologi occidentali. Le cose dovettero cambiare, però, con i convulsi eventi bellici dell’ultimo trentennio. In vaste aree di questo territorio frammentato, divenne molto difficile per gli archeologi e le forze di sicurezza controllare gli scavi clandestini che iniziavano ad alimentare gli interessi economici di antiquari e trafficanti senza scrupoli. Negli ultimi trent’anni, essi hanno imperversato, contrabbandando in Occidente ceramiche, sigilli, collane in pietre semipreziose, utensili in bronzo, vasi e oggetti rituali in alabastro e clorite, provenienti dalle vaste necropoli saccheggiate.

ALLA SCOPERTA DELLA CULTURA DI NAL Era il 1903 quando Mirza Sher Muhammad, un impiegato dell’Imperial Gazetteer of India (l’annuario statistico dell’amministrazione britannica in India), condusse scavi in un monticolo chiamato Sohr Damb (La Collina Rossa) presso il villaggio di Nal (nel Jahlawan, Stato di Kalat) portando in luce una cinquantina di vasi. L’attenzione di Muhammad era stata attirata da file di questi vasetti erosi dalle piogge e allineati sulla superficie della «Collina Rossa», un rilievo artificiale che misurava 300 x 200 m circa, e si estendeva per una superficie pari a 5-6 ettari. a r c h e o 37


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STORIA DI un SEQUESTRO Nell’estate del 2005, i Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale di Monza, nel corso di un controllo di routine in una manifestazione fieristica, avevano notato in libera vendita sui banchi di esposizione vasi della cultura detta di Nal (3500-2000 a.C. circa) e altri vasi e statuette animali in terracotta nello stile della cultura di Kulli (2600-2000 a.C. circa). Gli oggetti provenivano dalle valli del Baluchistan centromeridionale, in territorio pakistano; la cultura di Nal precede, nelle sue fasi formative, il fiorire della civiltà dell’Indo, mentre quella di Kulli è a essa sostanzialmente contemporanea. Dopo la riconsegna dei manufatti al legittimo proprietario – la Repubblica Islamica del Pakistan – la collezione è rimasta custodita nei locali dell’Ambasciata pakistana, a Roma, sino a che, nel mese di giugno 2014, è diventata l’oggetto della mostra «Simboli vivi/Living symbols», in corso al Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» di Roma.

Nel 1904, lo scavatore di MohenjoDaro, Sir John Marshall (18761958), allora direttore dell’ASI (Archaeological Survey of India), aveva segnalato la scoperta con un breve articolo. Descrisse un’insolita ceramica fine, ben cotta, con decorazioni geometriche policrome (nero, rosso, giallo, bianco e azzurro) applicate dopo la cottura. Nel 1908, operò sul luogo un reggimento di fanteria dell’esercito di Sua Maestà Imperiale, il 106° Hazara Pioneers, formato da rifugiati di etnia Hazara r ifugiati nell’India br itannica dall’Afghanistan, che alacremente dissotterrarono altri 250 vasi; in seguito, nel 1925, fu la volta di Harold Hargreaves, inviato da Marshall, che vi scavò per un’unica stagione. 38 a r c h e o

Probabilmente Marshall, che stava scavando nella vicina MohenjoDaro (distante poco piú di 200 km), cercava prove di contatti diretti tra la valle dell’Indo e le contemporanee culture dell’antica Mesopotamia.

In alto: Sohr Damb (La Collina Rossa)/ Nal. La Trincea I aperta nel sito dalla Missione tedesco-pakistana guidata da Ute Franke. Nella pagina accanto, a sinistra: ritratto di Sir Aurel Stein (1862-1943); a destra: John Marshall (1876-1958).

un legame con la mesopotamia Hargreaves trovò stanze e cortili fatti di pietre squadrate e grossi ciottoli, fluviali, con alzati in mattone crudo; alcune stanze erano forse adibite a uso funerario, dato che erano colme di vasi, integri, dipinti a vivaci colori disposti in file e resti ossei umani.Vi erano sepolture che contenevano, oltre alle ceramiche, figurine di tori, utensili in rame e

ornamenti in pietre semipreziose. Mandato a Nal in cerca di lumi, Hargreaves aveva finito col creare un quadro archeologico ancora piú ingarbugliato. Scrisse infatti che «la speranza che gli scavi avessero potuto fornire prove di contatti tra le civiltà arcaiche della Mesopotamia e la valle dell’Indo era stata disattesa, e i legami con Harappa e MohenjoDaro erano scarsi». Molti decenni piú tardi, nel 2001,


Archeologia e colonialismo Marc Aurel Stein è il nome inglesizzato di Márk Aurél Stein. Nato a Budapest nel 1862 in una famiglia ebraica, suddito dell’impero austro-ungarico, Stein studiò in scuole cattoliche; poi, convertitosi per opportunità di carriera al luteranesimo, divenne il piú grande esploratore e archeologo delle immense distese dell’Asia interna, nonché orgoglioso cittadino e baronetto di un altro e piú longevo impero, quello britannico. Si specializzò nello studio del sanscrito e fu poi curatore archeologo delle collezioni orientalistiche di Cambridge, Oxford e Londra. In India, diresse le piú prestigiose università; quindi, senza famiglia e particolari legami affettivi, iniziò a viaggiare. Un’insaziabile curiosità portò la sua tenda in Kashmir, nello Swat, nel deserto del Taklamakan, sui monti del Pamir, nel corridoio di Wakhan (ai confini tra Afghanistan e Cina), e ancora in Tibet, attraversando i confini di Cina a Russia. A Dunhuang, nella provincia cinese del Gansu, riuscí a ottenere da un monaco ben 7000 manoscritti vecchi di secoli, che cambiarono la storia del buddhismo, della Via della Seta e dell’intera Eurasia. Negli ultimi anni, Stein esplorò parti dell’Uzbekistan, dell’Afghanistan, della Persia e dell’Iraq, inseguito dalla nomea di spia; morí a Kabul, acclamato come un eroe, nel 1943. Se Stein rappresenta il culmine dell’archeologia coloniale, l’inglese John Marshall (1876-1958) ne rappresenta la senescenza, il declino e la transizione a piú equilibrate archeologie nazionali. Marshall fu il piú importante Direttore Generale dell’Archaeological Survey of India (ASI), attivo dal 1902 al 1928. A lui si deve la fondazione di importanti musei in India e in Pakistan, lo scavo su vasta scala dell’antica città di Taxila (dal 1913) e la scoperta della Civiltà dell’Indo, prima completamente sconosciuta, con lo scavo estensivo delle metropoli protostoriche di Mohenjo-Daro e Harappa (dal 1920). Marshall allargò la gestione e la conduzione di progetti archeologici ai cittadini indiani, rompendo il tradizionale monopolio da parte degli intellettuali e storici inglesi.

una missione tedesco-pakistana, guidata da Ute Franke, riaprí gli scavi di Nal. La sequenza archeologica della «Collina Rossa» fu suddivisa in tre periodi successivi. Il Periodo I di Sohr Damb/Nal è ora datato dal 3500 al 3100 a.C. e comprende una necropoli di 17 tombe. I resti dei defunti erano anche parte di sepolture secondarie (cioè con ossa traslate e manipolate dopo la decomposizione). I vasi contenenti le ossa erano collocati all’interno di camere di mattoni crudi conservate fino a un’altezza di a r c h e o 39


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UN MONDO DI COLORI PERDUTI L’accesa policromia è certo l’aspetto piú sorprendente delle ceramiche di Nal, e suggerisce che i colori dovevano dilagare su cesti, abiti, ornamenti, sul mobilio e nei cosmetici. Il bianco si otteneva da argille ricche di alluminio, dal gesso o dal talco. Il nero tracciava i contorni dei motivi, mentre pigmenti neri, rossi, gialli e verdi e azzurri erano usati come

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riempimento. Se applicato prima della cottura, il nero si preparava con ossidi di ferro o manganese. Se applicato sui vasi già cotti, il nero era carbone vegetale, probabilmente fissato con leganti organici. Il rosso ha sempre veicolato idee di forza, sensualità e fertilità. I rossi e i gialli visibili sulle ceramiche sono ematite, goethite e limonite. Nell’Induismo, ancor oggi,


rosso e giallo sono legati alla casta degli Kshatriya, aristocratici e guerrieri, e sono di buon auspicio in occasione di matrimoni e nascite. Con vesti color zafferano, i guerrieri simbolicamente ritornavano al sole, creatore della propria casta. Il blu si otteneva dal lapislazzuli, dalla sapiente manipolazione di solfuri e cloruri di rame e piombo e dall’indaco.

In alto: vasetto biconico in ceramica grigia dipinto di nero, con motivi circolati, croci dentellate e triangoli dentellati. 3100-2600 a.C. circa. A sinistra: bicchiere cilindrico con motivi geometrici policromi. Cultura di Sohr Damb/Nal, Periodo II, 3100-2900 a.C. circa. A destra: ciotola emisferica dipinta in rosso e in nero. Cultura di Sohr Damb/Nal, Periodo I, 3500-3100 a.C. circa.

60 cm. Tra le offerte funerarie vi erano vasi in ceramica, conchiglie riempite di polvere di ocra usata come cosmetico, pesi conici in pietra e perle in pietre semi-preziose come steatite, cornalina e lapislazzuli. I vasi contenenti le ossa sono simili alle celebri ceramiche delle culture preistoriche della valle di Quetta, nel nord del Baluchistan; sono spesso decorati con figure di capre e disegni geometrici in marrone scuro-nero su una spessa ingubbiatura (il rivestimento dei vasi per mezzo di un finissimo strato di argilla diluita, n.d.r.) rossa. Da notare è l’uso di piú colori sulla

superficie ceramica, come bianco abbinato a rosso e marrone scuro. Dopo l’impiego funerario dell’area, questa sembra essere stata temporaneamente deserta.

due millimetri di spessore Il successivo Periodo II, datato dal 3100 a.C. al 2900 a.C., che coincide con la cultura oggi detta «di Nal», vide una forte espansione della superficie abitata. A circa 2 m di profondità dalla superficie attuale sono venuti in luce ambienti domestici, dotati di piattaforme in fango che sorreggevano le macine, i mortai e i pestelli in pietra

usati per la preparazione della farina. Il villaggio sorgeva nei pressi di boscaglie di ripa, con pioppi, acacie e tamerici, in condizioni climatiche simili alle attuali; l’economia si basava sull’allevamento dei capriovini e soprattutto dei bovini domestici, che, nella dieta, divennero sempre piú importanti, mentre a orzo e grano, culture invernali, si aggiungevano quelle estive di miglio e sesamo. Della dieta facevano parte anche fichi, cocomeri e uva. Nella produzione ceramica piú fine, lo spessore delle pareti dei vasi fatti al tornio raggiungeva a malapena i 2, 3 mm e i pennelli, molto a r c h e o 41


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sottili, vi tracciavano intricati disegni campiti con colori brillanti come rosso, giallo e azzurro: fregi e metope quadrate con croci e triangoli, linee ondulate, spezzate e scalariformi, losanghe; ma anche foglie di pipal (il baniano dalle tipiche foglie cuoriformi; vedi box a p. 44), pesci, insetti, uccelli e grifoni, animali fantastici come felini e stambecchi alati, creature con criniere di leone, corna di capra, zampe e becchi di uccelli. Questi vasi erano diffusi tra le montagne centro meridionali del Baluchistan: dalla zona del Jhalawan, fino a Quetta, nel nord del Baluchistan, a nord-est nella pianura del Kacchi, e nella valle di Las Bela a nordovest di Karachi. Il Periodo III di Sohr Damb/Nal si colloca dal 2600 a.C. al 2350 a.C., e corrisponde all’apice dello sviluppo

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urbano della vicina civiltà dell’Indo; i depositi archeologici si sviluppano in 6 m di stratigrafia, rivelando edifici domestici dotati di focolari, fornaci e grandi giare, con soffitti di mattoni crudi e travi in legno. La ceramica conosce diverse innovazioni tecniche e stilistiche. Supporti cavi in ceramica, a forma di tronco di cono rovesciato, cominciarono a essere centrati sul tornio per facilitare la costruzione seriale dei vasi, che quindi assumevano una sagoma carenata. I disegni piú elaborati del tradizionale stile di Nal sono sostituiti da linee semplici, i corpi di tori e In basso: piccola giara globulare con figura di felino dal grande occhio circolare, di fronte a un albero di pipal, riconoscibile dalle foglie cuoriformi. Cultura di Kulli, fase B, 2350-2000 a.C. circa.


Nelle ceramiche di Kulli, all’eleganza delle forme create dal tornio si combina la danza continua di rapide pennellate

Qui accanto: coppa su alto piede, di cui è illustrato anche l’interno (foto a sinistra, in alto). L’esterno è dipinto con una sequenza di linee orizzontali alternate, semplici e ondulate, mentre l’interno presenta un disegno di cerchi concentrici e festoni. Cultura di Kulli, fase A, 2600-2350 a.C. circa.

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Foglie a forma di cuore Comune, sui vasi, è il disegno della foglia di pipal (Ficus religiosa L.). Questo albero, considerato sacro per millenni, è il primo di cui si abbia una raffigurazione nell’arte del Pakistan e dell’India. Alto fino a 30 m, con fusto che può raggiungere i 3 di diametro, ha foglie a forma di cuore. Nelle foreste delle rive dell’Indo, i suoi fichi rosso-violacei attraggono insetti e altri animali, mentre serpenti e roditori vivono nelle cavità del tronco. Nei villaggi, la sua vasta ombra ospita

sfaccendati e viandanti, mentre commercianti e compratori si danno alle contrattazioni quotidiane. Duemila anni dopo la fondazione delle città dell’Indo, il Buddha, a Bodhgaya, nella valle del Gange, raggiunse l’illuminazione sotto un pipal. Nel Pakistan moderno, le tombe dei santi musulmani si trovano spesso sotto la protezione di questi magnifici alberi.

A destra: bicchiere cilindrico con fregio di foglie di pipal. Cultura di Sohr Damb/Nal, Periodo II, 3100-2900 circa. In basso: piatto dipinto internamente con croce centrale, linee concentriche e una teoria di 18 stambecchi dalle lunghe corna ben evidenti. Cultura di Kulli, fase A, 2600-2350 a.C. circa.

Un trofeo ambito Gli stambecchi sono segnalati dalle ampie corna ricurve che ricorrono, a volte quasi ossessivamente, nei vasi della cultura di Kulli, ma anche in alcuni manufatti di Nal. L’ibex del Sindh, o Capra aegagrus blythi, ambito trofeo dei cacciatori, è venerato, ancora oggi, dalle popolazioni Kalash del Kafiristan. Alcuni vasi della cultura di Kulli mostrano anche l’immagine della tigre. Nel folklore del subcontinente è una creatura selvaggia, che ammalia le sue vittime con discorsi ingannevoli prima di divorarle. Al culmine della catena alimentare, la tigre ha il diritto di nutrirsi degli altri animali, ma quando tale diritto travalica in abuso e crudeltà, essa dev’essere a sua volta cacciata e annientata senza scrupolo alcuno. Nelle decorazioni vascolari, tigri, stambecchi e zebú sono spesso legati da lacci multipli ad alberi di pipal o di acacia, o a pali lignei che sembrano accuratamente sagomati e forse alludono a pratiche sacrificali.

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pesci sono solidi, campiti in nero e tracciati con minor cura. Il Periodo IV fu una fase abitativa limitata agli ultimi secoli del III millennio a.C. Sulla superficie del sito sono rimasti resti mal conservati di fondazioni in pietra e buche di scarico, con ceramiche nello stile di Kulli (vedi oltre) e di altre regioni del Baluchistan.

SIMBOLI ASTRATTI Nelle antiche terre del Pakistan, motivi geometrici e naturalistici di varia complessità decoravano vasi già dai primi secoli del IV millennio a.C. Per interpretarne il senso, possiamo solo riflettere sui significati che tali segni e simboli avrebbe assunto nelle epoche e nelle culture piú vicine a noi. E possiamo scomodare anche la psicologia, tenendo comunque conto che spesso ci si addentrerà in congetture, piú che in ipotesi. Nei motivi che decorano i nostri vasi, alcuni studiosi riconoscono concetti astratti legati alla fi-


Lo zebú, alleato prezioso Altrettanto rilevante nei disegni è lo zebú (Bos indicus), con la tipica gobba di grasso, una grande giogaia e lunghe orecchie cadenti. Adattato a temperature elevate come alla scarsità d’acqua, lo zebú è diffuso in tutte le regioni tropicali del pianeta. Addomesticato in Asia meridionale almeno 12 000 anni fa, come rivelano gli studi genetici, era la principale risorsa dei locali sistemi rurali. Nel III millennio a.C., le ossa dei bovini trovati negli scavi mostrano la forte dipendenza delle prime comunità preistoriche da questi animali. Allora lo zebú era usato nei lavori agricoli e se ne consumavano le carni. La sua importanza ideologica è ribadita dalle figurine in terracotta deposte nelle tombe della cultura di Kulli e dalle sue immagini nei sigilli

gurazione metaforica dell’ordine cosmico; altri sospettano che i motivi alludano a componenti reali del mondo e della cultura materiale di allora; ma i simboli potevano riferirsi, in modo conscio o inconscio, anche a aspirazioni piú semplici e immediate come fortuna, fertilità e protezione. I motivi piú semplici sono linee rette e ondulate, che corrono in fasci paralleli attorno ai vasi come demarcazione dei diversi registri o come elementi decorativi principali. Il cerchio può simboleggiare il confine, la dicotomia fra interno e esterno e quindi, per estensione, valori di identità e protezione, materiale o «magica», dal mondo esterno. Cerchi o archi intrecciati potevano assumere il significato di comunità e solidarietà. I mandala delle successive tradizioni filosofico-religiose del subcontinente indo-pakistano, prendono il nome proprio dalla parola sanscrita per «circonferenza».

un occhio contro il buio L’estensione grafica piú comune del cerchio è l’occhio di dado, potente simbolo apotropaico o solare, capace di allontanare il buio e il male che in esso dimora. Fasce di archetti sovrapposti come squame

della civiltà dell’Indo. Nei vasi di Kulli, le sagome degli zebú sono innaturalmente allungate; sulle cosce, nel corpo e sulle spalle si aprono dei campi figurativi campiti a reticoli e tratteggi, che replicano le stesse decorazioni geometriche degli arti delle figurine in terracotta. Le teste sono globulari, con enormi occhi dilatati; il muso è una appendice rettangolare; lo stesso modello cognitivo traspare nelle teste delle figurine, anch’esse sferiche, con corto muso cilindrico.

potrebbero alludere al pesce, che nella successiva iconografia buddista e induista simboleggia la fertilità femminile e la conoscenza; vasetti dipinti a scaglie di pesce erano forse usati in rituali o come regali di matrimonio. Altro segno archetipale, il triangolo rivolto verso l’alto indica ascensione, aspirazione e forza creatrice maschile, mentre quello rivolto in basso può alludere alla forza creatrice femminile. Combinati in losanghe, o in fregi continui contrapposti, i triangoli animano le pareti dei vasi di Nal di una componente dinamica. In metope quadrangolari, croci, motivi a «T» e linee scalariformi separano e oppongono riempimenti a vivaci colori. La croce traccia gli assi cardinali del cosmo e nello stesso tempo identifica, al centro, l’esperienza dell’individuo.

Piccola giara che reca su entrambe le facce uno zebú legato a un albero o un arbusto con un doppio laccio. Cultura di Kulli, fase A, 2600-2350 a.C. circa.

Tali geometrie potrebbero legarsi a idee pervasive sulla struttura del mondo, l’organizzazione del tessuto urbano e del paesaggio antropizzato. L’ordine assiale e la geometria scalariforme (per esempio, nelle coperture a mattoni aggettanti, o nelle grandi scalinate dei monumenti principali) sono infatti i temi centrali nell’architettura delle prime grandi città del’Indo. A ciò possono rimandare anche i frequenti motivi a griglie e scacchiere. I riempimenti a graticcio entro fasce, quadrilateri, ovali ricordano, piú materialmente, le trame delle stuoie, che sappiamo essere state usate anche nelle intelaa r c h e o 45


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iature delle finestre delle comuni abitazioni, ma anche le reti usate per pesci e uccelli.

LA CULTURA DI KULLI La cultura di Kulli fu scoperta da Sir Aurel Stein (1862-1943) nelle valli del Baluchistan centromeridionale. Ungherese di nascita, Stein è ricordato per missioni di studio che rivoluzionarono il mondo dell’orientalismo e diedero alla nozione della «Via della Seta» significati completamente nuovi (vedi box a p. 39). La scoperta di Kulli è di circa un ventennio successiva a quella di Nal.Tra l’inverno del 1927 e l’aprile del 1928, mentre John Marshall ultimava gli scavi di MohenjoDaro, partendo dalla valle dello Swat, presso il confine afghano, Stein, dopo aver passato le frontiere dell’altopiano iranico, lo attraversò interamente, fino alle sponde del lago di Urmia, ai confini del Vicino Oriente. In Baluchistan, Stein aveva esplorato due siti chiamati Mehi e Kulli, scoprendo in entrambi i casi porzioni di edifici costruiti in pietra squadrata. I ruderi contenevano manufatti in pietra semipreziosa e figurine umane fortemente stilizzate.Vi erano anche statuette di zebú e una ceramica rivestita di colore rosso, coperta da immagini animali stilizzate attorniate e quasi saturate da labirinti di segni enigmatici. A Mehi, inoltre, Stein trovò sepolture a cremazione, con ceneri poste in giare insieme a vasi di dimensioni minori, figurine umane e di zebú. Stein aveva scoperto una cultura del III millennio a.C., contemporanea alla civiltà della valle dell’Indo (2600-1900 46 a r c h e o

Figurina in terracotta di zebú, vista frontalmente (qui sotto) e di profilo (in basso). Cultura di Kulli. L’animale è qui rappresentato con il corpo slanciato in avanti, la gobba e le spalle prominenti e le corna evidenziate da una serie di anelli dipinti.


Le statuine di zebĂş, deposte nelle tombe a cremazione, accompagnavano le genti del Baluchistan in vita come in morte

Figurina di zebú caratterizzata da gorgiera accentuata e dalla naturalezza del modellato del muso, su cui è impressa una doppia fila di puntini a sottolineare il triangolo rovesciato della fronte. Cultura di Kulli.

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scoperte • pakistan Figurina di zebú con il corpo coperto da incrostazioni calcaree che nascondono l’originaria decorazione dipinta. Cultura di Kulli.

a.C. circa), ma con caratteri in apparenza autonomi. Come nel caso di Nal, le scoperte archeologiche rivelavano un quadro di culture regionali indipendenti e fortemente differenziate (almeno sul piano della cultura materiale). Negli anni Cinquanta e Sessanta le ricerche nel territorio di Kulli si limitarono a brevi esplorazioni di superficie. Siti della stessa cultura si trovano intorno al massiccio centrale del Makran e nella valle del Porali, a nord-ovest di Karachi, naturale sbocco al mare del Baluchistan meridionale. Nel 1957, l’archeologa inglese Beatrice De Cardi (nata nel 1914 e oggi centenaria) aveva effettuato un saggio a Nindowari, un sito lungo quasi 1 km e largo 500 m (quindi di dimensioni «urbane») e trovato altri siti della cultura di Kulli con grandi complessi architettonici in pietra. Tra il 1959 e il 1960 Walter Fairservis (1921-1994) scoprí, nella valle di Las Bela, sulle sponde del Porali, strutture terrazzate simili a piramidi a gradoni, mai piú scavate. Nel 1962, Jean-Marie Casal (190548 a r c h e o


Figurina isolata di ariete, in argilla molto fine non dipinta e corna ricurve ben modellate, applicate in un secondo momento. Cultura di Kulli.

1977), che aveva già esplorato in Afghanistan la città di Mundigak (4000-500 a.C. circa), e nel Sindh, in Pakistan, il sito di Amri (3000-1900 a.C. circa) iniziò a scavare Nindowari. In tre anni emerse parte di una cittadella occupata da un intrico di stanze interne, spesso poste su diversi livelli e collegate da scale, con ambienti rettangolari allungati, allineati alle possibili mura esterne. Il centro era dominato da una cittadella ben costruita e fortificata. Forse vi risiedevano i ceti superiori, ma non sappiamo se fossero palazzi, complessi religiosi o semplicemente fortilizi. Come ha scritto l’archeologo Greg Possehl (1941-2011) «Nindowari, per le sue enormi dimensioni, rientra nella definizione di città. Le strutture monumentali di carattere chiaramente pubblico, certamente dovute agli sforzi organizzati di un’intera comunità, sono coerenti con la concezione urbana suggerita dalle sue dimensioni (...) come i segni visibili sulle sue ceramiche, che potrebbero rappresentare un locale sistema di scrittura». Dal 1996, la già citata missione tedesco-pakistana di Ute Franke, oltre

a scavare Sohr Damb/Nal, ha portato il novero dei siti di Kulli a piú di 100, segno di una cultura vasta e organizzata. In alcuni casi, poiché le architetture in pietra affioravano in superficie, fu possibile tracciarne la planimetria: Kasota Buthi, per esempio, presenta strade ortogonali, blocchi di grandi abitazioni a piú stanze e file di unità modulari affacciate sulle vie interne, simili alle costruzioni di Mohenjo-Daro.

ste un legame sottile, quasi amorevole, che pervade la sensibilità delle due culture per quanto riguarda le immagini degli animali, soprattutto le figurine di tori e altri bovini. Un’attenzione riconducibile al ruolo fondamentale che essi giocarono, per millenni, nel processo di formazione delle prime città dell’Indo.

Si ringraziano gli altri membri del gruppo di lavoro «Simboli vivi»: Lorenza Campanella, Anna Maria Fossa, Rosanna Rosicarello, Caterina Pastrade ortogonali La cultura di Kulli, pur avendo ola Venditti, Samantha Iovenitti, punti in comune con la contempo- Gianfranco Calandra ranea civiltà dell’Indo (alcuni la considerano una sua manifestazione dove e quando «provinciale» di altura), mantenne una sua precisa identità. Le genti di «Simboli Vivi. Kulli gestivano i percorsi di transu- Il potere delle immagini manza tra le pianure del Punjab e nella preistoria del Pakistan» del Sindh e le valli dell’entroterra Roma, Museo Nazionale montano occidentale, e, con essi, i d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» flussi commerciali verso l’altopiano fino al 21 settembre iranico. Le relazioni tra le due cul- Orario ma, me e ve, 9,00-14,00; ture erano probabilmente fatte di gio, sa, do e festivi, 9,00-19,30; integrazione e mutui interessi eco- lu chiuso nomici, piuttosto che di annessione Info tel. 06 46974832; e dipendenza politica. www.simbolivivi.beniculturali.it Infine, potremmo affermare che esi- Catalogo Artemide a r c h e o 49


civiltà cinese • il drago

uno, nessuno e centomila Simbolo dell’unità politica e culturale della cina, il drago è una presenza costante in tutte le espressioni artistiche elaborate sin dalla piú antica preistoria. una figura ubiqua e dalle infinite varianti, il cui significato, però, rimase sostanzialmente omogeneo di Marco Meccarelli

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Pechino. Statua in bronzo di un animale mostruoso, posto a guardia della Città Proibita. Le fattezze ibride della creatura, a metà fra cane e leone, la rendono simile a un drago.


«C

osí il gran dragone, il serpente antico, che è chiamato diavolo e Satana, che seduce tutto il mondo, fu gettato sulla terra; con lui furono gettati anche i suoi angeli» (Apocalisse 12,9). Nella tradizione europea e in quella cattolica, in particolare, il drago, benché di natura complessa, incarna in genere il «maligno», associato alla Bestia e a Satana; allo stesso tempo evoca le forze telluriche, primigenie e oscure, che l’arcangelo Michele o san Giorgio avrebbero annientato: il drago che infesta o dorme nelle viscere della terra, dove sono celate le energie magiche che solo uomini dalle integerrime qualità morali sanno utilizzare, sintetizza in sé tutte le forze della natura. E la caverna è un’allegoria della via «interiore», sotterranea per l’appunto: qui il drago alberga allo stato latente, come addormentato, ma sempre pronto al risveglio. Le leggende legate all’animale mi-

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civiltà cinese • il drago

tico sono presenti a tutte le latitudini e in tutte le culture del mondo: racconti epici e testi sacri, aztechi ed egizi, greci, vichinghi ed eschimesi, hanno narrato di eroiche battaglie, nei mari e nei cieli, in grotte e palazzi, contro creature serpentiformi. E in Cina? Anche qui le teorie sull’origine del drago (long) e sul suo significato sono numerosissime: possiamo sostenere, però, che è considerato un animale acquatico e sebbene all’origine delle sue raffigurazioni ci sia, secondo alcune ipotesi, il timore degli antichi nei confronti del suo aspetto terrifico, la simbologia legata all’animale ha avuto un valore quasi sempre propiziatorio. Anzi, la civiltà cinese, fra tutte le altre, ha elevato e, soprattutto, conservato nel tempo, il drago quale emblema incontrastato della propria identità culturale, se si considera che ancora oggi i Cinesi indicano se stessi come «discendenti del drago» (long de chuanren), anche se piuttosto in disuso, quale simbolo ufficiale della Cina moderna.

il drago «pauroso» Sulle sue origini ci sono diverse interpretazioni. Nell’antichità, per esempio, i fossili di dinosauro e di paleofauna, cosí come le ossa oracolari utilizzate come ingredienti per la farmacopea cinese, venivano chiamate «ossa di drago», alimentandone, nel corso dei secoli, il mito: la moderna definizione cinese di «dinosauro» (konglong), infatti, è «drago» (long) «pauroso» (kong), cosí come specie autoctone di dinosauri rinvenuti in Cina vedono spesso il suffisso «-long» divenire parte integrante del loro nome. Un caso eclatante sono stati i resti fossilizzati in gruppi, risalenti a quasi 140 milioni di anni fa e scoperti nel 2004, ascrivibili a un tipo di dinosauro, trovato in posizione dormiente e a forma di spirale, definito Meilong, vale a dire «drago che dorme», probabilmente morto nel sonno a causa di una catastrofe naturale. Antiche fonti scritte (Huayang guo zhi, Annali di Huayang, IV secolo), 52 a r c h e o

LE PRIME FONTI SCRITTE Se nel Neolitico troviamo manufatti in giada e terracotta che presentano forme e pitture di draghi dalle numerose varianti, solo nelle ultime fasi dell’epoca Shang (1600-1050 a.C.) l’immagine del drago viene rappresentata, anche graficamente, sulle ossa oracolari (scapulomanzia) e sui gusci di tartaruga (plastromanzia), con pittogrammi che ne raffigurano l’aspetto cornuto e serpentiforme, chiaro antecedente del drago neolitico. I caratteri cinesi presenti nelle iscrizioni, appartenendo alla pittografia, riproducono le numerose varianti iconografiche elaborate nel corso dei millenni: sono stati decifrati, per esempio, almeno 70 generi differenti di pittogrammi «long», ma si è soliti suddividerli in un tipo semplificato e in uno composto, sulla base della riproduzione segnica delle corna, delle scaglie e delle zampe. Nell’ambito della scapulomanzia e della plastromanzia, l’animale veniva consultato per pronostici relativi soprattutto alle condizioni atmosferiche, poiché si credeva fosse capace di muovere le nuvole e provocare la pioggia: da un lato ciò segnala la considerevole necessità, da parte della popolazione, di salvaguardare la produzione agricola che costituiva il principale sostentamento economico; dall’altro lato attesta il crescente culto attribuito all’animale sacro, soprattutto da parte dell’élite al potere, che partecipava ai rituali. Nel 1990 il linguista Michael Carr ha riconosciuto oltre 100 tipi di draghi citati nei classici letterari cinesi. La quasi totalità presenta comunque il suffisso «-long». La classificazione proposta da Carr rimanda a sette categorie principali: draghi della pioggia, draghi volanti, draghi-serpente, draghi-wug (verme, insetto e/o animale/rettile di piccole dimensioni), draghi-coccodrillo, draghi delle colline e draghi «vari».

Sulle due pagine: pendenti in giada a forma di drago con corpo ad anello. Qui sotto: drago-maiale (zhulong), scoperto nella Mongolia Interna. Cultura Hongshan, 4700-2900 a.C. Balin Youqi (prefettura di Chifeng), Museo. Nella pagina accanto, in alto: pendente rinvenuto nel Lingjiatan (contea di Hanshan, Anhui), sagomato a motivo di uroboro (drago che si morde la coda). 3500-3000 a.C Nella pagina accanto, in basso: dragone con le fauci spalancate, due corna e pinna dorsale dentellata, dalla tomba dell’imperatrice Fu Hao ad Anyang (Henan). Epoca Shang, XII sec. a.C. Anyang, The Garden Museum of Yin Ruins.


«IMPRONTE» NEOLITICHE Immagini riferibili al drago si diffondono sin dal Neolitico. La prima ad averle adottate sembra essere stata la cultura di Xinglongwa (6200-5400 a.C. circa) nella Cina nord-orientale (Mongolia interna e provincia di Liaoning). Segue poi quella di Zhaobaogou (5400-4500 a.C., Mongolia interna e Hebei). Entrambe avrebbero dato origine alla cultura di Hongshan (4700-2900 a.C), dal momento che tutte e tre sembrano condividere alcuni aspetti, soprattutto rituale e religiosi. Oltre a vasellame decorato e oggetti in terracotta, tra cui figure femminili simbolo di fertilità, alla cultura di Hongshan si possono attribuire importanti esempi di lavorazione della giada, come cerchi, anelli, manufatti a forma di nuvola o dal piú caratteristico motivo del «drago-maiale» (zhulong). Nel volto di questi esseri spiccano, di solito, i grandi occhi e la bocca, provvista di zanne incise sulla superficie dell’oggetto. In un esemplare rinvenuto a Sanxingtala, l’animale ha il muso affusolato, mentre dalla testa e lungo parte del corpo si distingue una sorta di cresta che termina a ricciolo. È probabile che le genti di questa cultura avessero credenze religiose locali, tra cui una forma iniziale di culto degli antenati officiato da una classe sacerdotale. Dall’analisi di queste antiche testimonianze, secondo alcuni studiosi, la zona in cui ha avuto origine il primo, significativo culto del drago cinese, andrebbe ricercata in Mongolia Interna. La cultura di Hongshan fu contemporanea ed entrò in contatto con quella di Yangshao (5000-3000 a.C.), localizzata piú a sud, lungo la valle del Fiume Giallo (Henan, Shaanxi e Shanxi). Qui le testimonianze di draghi si riferiscono, in pratica, a pitture su materiali fittili. Una situazione simile è attestata nel sito di Taosi (Shanxi), verosimilmente ascrivibile alla

fase tarda della cultura di Longshan dello Shanxi meridionale, nota anche come fase di Taosi (2300-1900 a.C.). Tra i numerosi reperti, va segnalato un bacile in terracotta, probabilmente per le abluzioni rituali, al centro del quale è stato raffigurato un drago-serpente. Spostandoci ancora piú a sud, ritroviamo i reperti draghiformi in giada: a Lingjiatan (3500-3000 a.C., Anhui), importante sito preistorico, è stato scoperto quasi un migliaio di reperti raffiguranti draghi, aquile, tartarughe, tigri, conigli, maiali e altri animali, tra cui cicale. Poco piú a sud, nell’area del delta del Fiume Azzurro (Zhejiang, Jiangsu, Anhui), dove si afferma la cultura di Liangzhu (3300-2200 a.C.), la quantità di giada rinvenuta è impressionante, tanto da comporre fino al 90% dei corredi funerari. La cultura coincide con la fase piú significativa della lavorazione della pietra, che raggiunge un alto grado di raffinatezza non solamente da un punto di vista stilistico, ma anche simbolico, come attestano le molteplici decorazioni dalle articolate figure composite che rievocano il ricco patrimonio mitologico e sacrale della Cina antica, tra cui il motivo del drago. Gli oggetti si elevano chiaramente a emblema di rango, autorità e ricchezza, inalienabili anche dopo la morte. Probabilmente, l’utilizzo di queste giade era quasi esclusivamente cerimoniale, come suggerisce anche la loro precisa distribuzione all’interno delle sepolture.


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motivo delle nuvole a linee curve, derivato dall’esigenza degli antichi di rappresentare i lampi del cielo. Tale teoria giustificherebbe il motivo per cui, assieme all’acqua, il drago è simbolicamente connesso anche con il cielo. Solo in seguito sarebbe andato definendosi in un animale composito di natura zoomorfa, comprendendo in sé anfibi e animali striscianti.

forme mutevoli La caratteristica di essere costituito da parti anatomiche provenienti da altri animali, possono farlo avvicinare, se non confondere con la chimera e la manticora della mitologia greca, le quali, però, hanno da subito ostentato e mantenuto una natura tendenzialmente eterogenea, che si riflette nella forma mutevole, a seconda di cosa venisse loro associato; il drago, invece, nonostante le numerose varianti antiche, ha mantenuto, soprattutto con la nascita dell’impero, le sembianze

Pendente a forma di drago, in giada verde scuro, con corpo a «C» e lunga cresta terminate a ricciolo, da un sito di cultura Hongshan, nella Mongolia Interna. 3000 a.C. circa. Pechino, Museo Nazionale della Cina.

inoltre, documentano la scoperta nel 300 a.C. di «ossa di drago» nella provincia del Sichuan. La sua rappresentazione con il corpo arrotolato sul fondo di bacili (pan), utilizzati come contenitori d’acqua per le abluzioni rituali, ha indotto la studiosa Sarah Allan a ipotizzare che il drago fosse associato, sin dall’antichità, alle profondità marine e alle «Sorgenti Gialle», come rappresentante del mondo degli oceani sotterranei. Il legame con l’acqua, infatti, è alla base della simbologia dell’animale mitico: non è un caso, probabilmente, che molti dei fiumi cinesi presentino l’ideogramma «long». Per questo motivo, alcuni hanno considerato il drago come la versione stilizzata dei coccodrilli, in particolare, dei progenitori di maggiori dimensioni del Crocodylus porosus di acqua salata, capaci di percepire l’arrivo delle perturbazioni, in quanto sensibili ai cambi di pressione dell’aria. Secondo altri, invece, l’origine della rappresentazione del drago andrebbe ricercata nell’evoluzione del 54 a r c h e o

DAL TAOTIE ALLA FENICE Le placche in bronzo con intarsi in turchese, che riproducono un volto mostruoso con occhi circolari, naso piccolo e orecchie o corna elaborate, scoperte a Erlitou (Henan, 1900-1500 a.C.), sembrano costituire uno dei modelli di riferimento, assieme ai volti/maschere scolpite sulle giade neolitiche (cultura di Liangzhu, 3300-2200 a.C.), per il motivo del taotie. Si tratta di una maschera zoomorfa priva di mandibola dai grandi occhi, corna e fauci enormi su di un corpo spiraliforme, che, con il drago, ha invaso tutte le decorazioni di oggetti rituali Shang. Entrambi i motivi «decorativi» sono il risultato della contaminatio, cioè della fusione di attributi di piú animali, già caricati singolarmente di valenze simboliche, tra cui quella di totem di un clan. Ciò fa perdere il valore ornamentale del motivo ibrido che, entrato nel

repertorio decorativo dei bronzi rituali, assurge piuttosto a simbolo di aggregazione, ideologica e culturale, della civiltà Shang. La decorazione zoomorfa dalla valenza composita dei bronzi arcaici mantiene un valore fortemente totemico: «imprigionare» l’effigie dell’animale, tributo di un clan, in un oggetto utilizzato in specifici riti consente allo sciamano di controllare anche la potenza che incarna; non a caso, l’iconografia punta su occhi sbarrati, sguardi feroci, ampie bocche e denti digrignanti, quasi a conferire un carattere misterico e innaturale, di cui i detentori del potere, gli sciamani, si servono per incutere timore e mantenere cosí inalterati i propri privilegi all’interno di una «società schiavistica», cosí come è stata definita quella Shang. Da soggetto iconografico privilegiato, assieme al drago con


A sinistra: drago musivo in tessere di turchese dal corpo serpentiforme e volto mostruoso, rinvenuto in una sepoltura maschile a Erlitou, nella contea di Yanshi (Henan). Cultura di Erlitou, XVIII sec. a.C.

cui è strettamente connesso, in tutta l’età del Bronzo (XXI-VI secolo a.C.), il taotie scompare progressivamente. Durante l’epoca degli Han Anteriori (206 a.C.-8 d.C.) è praticamente assente, ma il drago è sempre piú spesso associato ad altri animali, soprattutto alla fenice, motivo già presente dal Neolitico, particolarmente caro alla tradizione figurativa cinese ed estremo-orientale. Anche in questo caso si tratta di un ibrido: il corpo è quello di un cigno selvatico, la gola di una rondine, il becco di una gallina, il collo di un serpente, la schiena di una tartaruga e, infine, il ciuffo sulla

sommità della testa, di un drago mandarino. In un contesto semantico estremamente complesso, il drago condivide con la fenice la valenza di animale composito e la funzione di esclusivo attributo regale, rispettivamente dell’imperatore e dell’imperatrice, mantenendo anche altre valenze già consacrate dalla tradizione, come quella di buon augurio, quella magico-taumaturgica o di veicolo sciamanico. A destra: fenice in giada, dalla tomba dell’imperatrice Fu Hao ad Anyang (Henan). Epoca Shang, XII sec. a.C.

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e un valore simbolico «tendenzialmente» omogenei. Altri studiosi, infine, hanno sentito l’esigenza di estendere l’analisi al campo dell’antropologia, interpretando la natura composita dell’animale mitico come l’unione di piú totem, appartenenti a diverse entità tribali della Cina, ognuna espressione di realtà locali peculiari: l’immagine del drago sarebbe, dunque, la manifestazione tangibile del sincretismo culturale oltreché dell’unificazione territoriale, caratterizzante l’origine dell’impero cinese, sintesi simbolica di un vero e proprio mosaico di popoli ed etnie. Il drago va cosí a incarnare l’unità territoriale, ma anche l’unitarietà politica e culturale, e contestualmente mitica e sacrale della Cina, sin dalle sue origini. E proprio la grande mitologia cinese, in effetti, attesta il lungo processo di interazione, talora complice e talora conflittuale, tra draghi ed esseri umani, eroi ed eroine, mitici

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imperatori, figure teriantropiche, dall’aspetto terrifico eppure docile, cruento ma inaspettatamente compassionevole.

un processo millenario Se spostiamo l’interesse sull’iconografia, possiamo sostenere che, prima di assumere la fisionomia a noi nota, la raffigurazione del drago si è sviluppata per stadi, in un millenario processo di elaborazione operato da popoli e culture, che hanno fatto derivare le sue origini nel contesto piú arcaico, come testimonia la ricca documentazione archeologica in nostro possesso. Dalle iscrizioni su ossa oracolari, gusci di tartaruga e decorazioni di bronzi e giade di epoca Shang (1600-1050 a.C. vedi «Archeo» n. 337, marzo 2013; anche on line su archeo.it) è stato possibile riconoscere le prime attestazioni scritte di «long» (drago) che, come pittogramma, era composto da una

testa di considerevoli dimensioni, provvista di corna, su un corpo serpentiforme. Prima ancora, prototipi di raffigurazione del drago compaiono su manufatti cinesi risalenti al Neolitico, come dimostrano per esempio le decorazioni su vasellame in ceramica dipinta della cultura Yangshao (5000-3000 a.C. scoperte, per esempio, a Wushan, versante superiore del fiume Wei), nei luoghi che rientrano, peraltro, nella vasta area di influenza controllata, secondo la leggenda, dall’Imperatore Giallo (Huangdi). Ma il motivo piú caratteristico pare riallacciarsi all’uroboro, al serpente che si morde la coda, un’immagine presente in molte culture del mondo, solitamente associata all’alchimia, allo gnosticismo e all’ermetismo, persino simbolo esoterico dell’iniziazione e del potere di maghi e occultisti, ma, in fondo, personificazione dell’eterno ritorno, della natura ciclica delle cose. A essere precisi, però, nella


IL DRAGO NEI MITI CINESI Non deve stupire che numerose rappresentazioni di personaggi mitici, come Fuxi e Nüwa, rispettivamente l’eroe che creò gli otto diagrammi, insegnando agli uomini a pescare e a coltivare, e l’eroina, protettrice dell’umanità, che creò l’uomo con l’argilla, presentino corpi serpentiformi; altrettanto si verifica per la Regina Madre dell’Occidente (Xiwangmu) la dea della fecondità, la guardiana dei frutti dell’immortalità, che regnava anche sui destini umani e sull’Occidente; cosí come il demone delle grandi acque Gong Gong, mentre il leggendario Imperatore Giallo (Huangdi), pare abbia utilizzato un serpente come suo stemma, arricchito, di volta in volta, dagli attributi araldici sottratti ai totem dei nemici sconfitti: le corna del cervo, le

zampe dell’aquila, ecc., come spiegazione della natura composita del drago. Huangdi, inoltre, ascese al cielo con un drago, l’imperatore mitico Zhuan Xu (o Gaoyang) andò con un drago sui quattro mari, cosí come Yu il Grande, secondo la tradizione il fondatore della dinastia Xia, usò un drago per sconfiggere un’inondazione. Risulta problematico, invece, stabilire la correlazione tra il drago cinese e i naga, le creature serpentiformi, del Subcontinente indiano. Si tratterebbe, in questo caso, di una sorta di razza pre-umana di abitatori della terra piuttosto che di «creature» senzienti, che sembrano condividere con il drago solo l’aspetto estetico (anche se di solito i naga non hanno le zampe e possono essere policefali) e il comune habitat marino-lacustre. A sinistra: piatto in ceramica dipinta al cui interno compare una figura di drago serpentiforme, da Taosi (Shanxi). 2500-2000 a.C. Pechino, The Institute of Archaeology.

Nella pagina accanto: statuetta di ceramica raffigurante un animale mitologico, probabilmente un drago. Dinastia Han, 206 a.C.-220 d.C. Norfolk, University of East Anglia.

«versione» cinese, l’animale serpentiforme, il drago, non arriva quasi mai a mordersi la coda! In Mongolia interna (a Nasitai e a Sanxingtala) e nella Cina settentrionale (Liaoning, a Dongshanzui e a Niuheliang), tra i corredi tombali, vari manufatti – ornamenti, anelli privi di un segmento (pendenti jue) o dalle forme semicircolari (huang), con una o due teste di drago, cosí come dal muso di maiale (zhulong) – risalirebbero almeno alle ultime fasi della cultura neolitica di Hongshan (4700-2900 a.C vedi «Archeo» n. 336, febbraio 2013; anche on line). La loro scoperta sembra elevare il simbolo del drago alla sfera del sacro, all’interno dei riti celebrati dalle società agricole primitive, assieme al culto della fertilità in cui, presumibilmente, si offriva in sacrificio il maiale, animale molto apprezzato e di cui sono state rinvenute carcasse in varie tombe.

Proprio queste suppellettili a spirale che sembrano, a eccezione della testa, riprodurre la forma del serpente, funsero da tramite per lo sviluppo dei successivi amuleti in giada draghiformi della dinastia Shang e, soprattutto, per la formazione del pittogramma rappresentante, per l’appunto, il «drago».

ceramiche e giada I pendenti, inoltre, vengono affiancati a reperti iconograficamente simili che sono stati individuati in altre culture neolitiche, tra cui, per esempio, un piatto in ceramica dipinta con una raffigurazione di un drago-serpente arrotolato in spire, scoperto nella Cina centro settentrionale (a Taosi, Shanxi, 2500-2000 a.C.), e, ancora piú a sud, un anello in giada decorato con quattro prototipi di draghi (contea di Yuhang, Zhejiang, cultura neolitica di Liangzhu 3300-2200 a.C. circa).

Le raffigurazioni fin qui menzionate risalgono al contesto neolitico cinese e presentano un’immagine costituita da elementi di due o tre animali con una testa piuttosto pronunciata e un corpo semicircolare oppure avvolto a spirale. Possiamo sostenere che, sebbene non rappresenti un animale reale, la sua immagine è comunque composta dall’unione di piú attributi relativi al contesto faunistico esistente. Le piú antiche raffigurazioni di draghi in regioni, clan, periodi e soprattutto origini culturali differenti, rivelano caratteristiche distinte, ma presentano la comune esigenza da parte delle popolazioni del periodo di formularne l’iconografia. In ambito figurativo, i draghi neolitici presentano parti del corpo ancora non completamente sviluppate, che tuttavia sprigionano una ricercata vitalità e un dinamismo espressivo, in cui si combinano reaa r c h e o 57


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tre mondi di seta Il celebre stendardo in seta del II secolo a.C. è stato trovato, straordinariamente intatto, nella tomba n.1 di Mawangdui (Changsha, Hunan) dove fu seppellita la marchesa di Dai. A livello iconografico può essere suddiviso in tre piani: nella parte inferiore viene rappresentato il mondo sotterraneo, nei due terzi superiori della banda verticale viene raffigurato il mondo terrestre, mentre la parte superiore è riservata al mondo celeste. Tra i vari soggetti spiccano, ai lati della composizione, in un movimento perfettamente simmetrico, due draghi che si incrociano al centro, passando attraverso un disco, raffigurazione di un bi, oggetto rituale in giada, già attestato almeno nella cultura neolitica di Liangzhu. I draghi andrebbero in tal caso associati al volo dell’anima della defunta verso l’immortalità, come testimonierebbe il ricercato simbolismo, nella sezione superiore dello stendardo, incentrato sulla luna e sul sole con i rispettivi emblemi faunistici e sulla figura centrale, metà essere umano e metà serpente, di incerta identificazione. Oltre alla falce di luna, infatti, con la lepre e il rospo lunare, la parte alta dello stendardo mostra anche il sole con il corvo, suo emblema, e, infine, la figura centrale che presenta un corpo umano con una coda di

lismo e astrazione. Ma l’elemento che contraddistingue il drago sin dalle sue origini, è la natura composita, con una costante: il corpo rettiliforme. Confortati dai manufatti scoperti negli scavi archeologici, possiamo sostenere che il drago sia una sorta di «serpente deificato»: non è un caso, infatti, che il segno del «serpente», nello zodiaco cinese, venga spesso chiamato, a livello popolare, «piccolo drago» (xiaolong), cosí come troviamo scritto, nelle 58 a r c h e o

serpente, interpretata tra l’altro come Nüwa, divinità femminile creatrice dell’umanità, o come la Regina Madre dell’Occidente (Xiwangmu), o come l’anima della stessa defunta, al termine della sua ascesa verso l’immortalità. Vi è espresso un forte richiamo a figure mitologiche, talora composite, come la coppia di draghi, uno dei quali anche provvisto di ali, al di sotto dei simboli del sole e della luna, probabilmente attinti dalla mitologia o da considerarsi come ulteriori tappe dell’ascensione. I draghi assumono infatti un’ulteriore valenza perché oltre a guidare l’anima del defunto nell’al di là, essi si presentano anche come «veicoli» per gli esseri soprannaturali o per le divinità. Inoltre, il disco in giada rappresentato nello stendardo, dove si incrociano i due draghi dai corpi colorati, l’uno di rosso e l’altro di blu screziato di bianco, già durante i Zhou Occidentali (1050-771 a.C.) viene probabilmente associato, per la sua forma circolare, al cielo, mantenendo tale attributo nelle epoche successive e conservando altresí la connotazione di simbolo di buon augurio.


fonti storiche (Shiji, Le memorie di del Fiume Giallo (Huanghe), a est. ricchirsi anche dell’emblema escluuno storico, II secolo a.C.) che «il In queste zone, infatti, si assiste a un sivo della regalità, e diventa un modrago diventa serpente ma non cambiamento radicale: il drago ini- tivo iconografico da un lato e uno cambia il modo di scriverlo» (shehua zia il suo lento ma graduale proces- strumento di potere dall’altro. wei long, bu bian qiwen). Curioso è so verso un’uniformità iconografi- Il drago si trasforma in emblema constatare che anche l’etimologia ca, coincidente con l’assemblaggio politico e viene considerato come del «drago» occidentale, derivata dal delle molteplici forme e valenze di la sintesi dei tre piani dell’essere greco drakon, mantiene l’analogo cui era stato depositario nel tempo. (cielo, terra e mondo ctonio); è il significato di serpente! E a proposi- Con la semimitica dinastia Xia drago, infatti, che conferisce al re – to dello zodiaco cinese, anche qui, (2070?-1600? a.C.), assieme ad al- e successivamente all’imperatore – le qualità dei vari animali vengono cuni manufatti serpentiformi e a il potere assoluto, perché è agente assimilate dall’unico animale mitico misteriosi mosaici di migliaia di attivo nei sacrifici del culto regale pezzi di turchese che ne riproduco- degli antenati: la sua valenza ideolodell’oroscopo: il drago! Alcuni studiosi cinesi (Liu Zhixiong no la forma e ne convalidano il gica, sacrale e regale diventa simboe Yang Jingrong) hanno tentato di culto (Erlitou, Henan, XVIII secolo lo distintivo del re, in un contesto in distinguere almeno quattro tipolo- a.C.), altri draghi già presentano cui politica, religione e arte risultagie principali di draghi raffigurati un’iconografia piú «moderna»: arti- no indissolubilmente integrate. A livello iconografico il durante il Neolitico, e svidrago Shang presenta spesluppatesi in maniera indipendente: nel Nord-Est Con l’avvento degli Shang, so sulla testa, come variandue corna cilindriche: si dell’attuale Cina sembra nel drago si fondono i tre te, desume che l’immagine di affermarsi per lo piú il geun animale domestico nere col muso di maiale; piani dell’essere: cielo, cornuto sia stata assimilata nel Nord-Ovest, invece, terra e mondo ctonio all’interno dell’iconografia quello del drago-salamandel drago, che continua dra; nel Sud-Est prevale il drago-tigre; mentre nella zona cen- gli di uccelli e una pinna dorsale comunque a essere raffigurato anche trale della Cina, soprattutto lungo il dentata, talora però con un’unica con il muso di maiale e con il corpo corso del Fiume Wei (Weihe), si testa su due corpi (frammenti di con scaglie. La forma di un pendendistinguerebbero perlopiú tipologie ceramica dipinta, cultura di Erlitou, te, tra i tanti manufatti in giada del ricchissimo corredo funebre della a Dengfeng, Henan). di pesce-coccodrillo-serpente. Anziché derivare da un unico ge- Con gli Shang assistiamo a un pri- regina Fu Hao (XII secolo a.C., ad nere di animale, il drago cinese, mo, evidente, segnale di unificazio- Anyang, Henan), attinge indubbianell’antichità, fu considerato piut- ne territoriale, politica e culturale mente dai draghi delle culture neotosto come la sintesi di specie di- che coincide con un apparato stata- litiche (da Hongshan a Yangshao), verse, sebbene, sia stata poi quella le complesso, un’elevata tecnologia ma la testa che accenna a due corna del pesce-coccodrillo-serpente, a del bronzo e una scrittura già per- e la pinna dorsale dentata, ne aggiorprevalere iconograficamente sulle venuta a uno stadio di piena matu- nano lo stile. altre, soprattutto perché generata rità. In questo contesto, la natura Associato ai potenti fenomeni della nelle aree geografiche riconosciute composita permette al drago di ar- natura come il vento, la pioggia, il tuono e il fulmine, il drago assume come il nucleo formativo della cispecifici connotati riferibili al cielo: viltà cinese, tra la media oltre a dare il nome a una costellavalle del Fiume Wei, a zione, in un cofanetto laccato della ovest, e la bassa valle seconda metà del V secolo a.C. (tomba del Marchese Yi, Hunan), l’animale mitico viene raffigurato assieme a una tigre e al carattere cinese dell’ Orsa Maggiore (dou), Nella pagina accanto: lo stendardo in seta dipinta della marchesa di Dai. Dinastia Han, II sec. a.C. Changsha, Museo provinciale dello Hunan. A sinistra: coppia di pendenti in giada, in forma di draghi a doppia S. Periodo degli Stati Combattenti (475-221 a.C.).

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contornato dai simboli delle 28 costellazioni. Nel periodo che precede la nascita dell’impero cinese, nel 221 a.C., i draghi su giada vengono realizzati con un intaglio che ne enfatizza la postura, sempre piú vivace e dinamica. Talora è modellato o scolpito a tutto tondo, talora è invece inciso o intagliato in bassorilievo e disposto in fasce decorative quasi astratte, composte da singoli motivi reiterati.

intermediario celeste Le numerose varianti iconografiche mantengono in comune il corpo sinuoso, gli occhi e le fauci. Ma è durante la dinastia imperiale Han (206 a.C.-220 d.C.; vedi «Archeo» n. 340, giugno 2013; anche on line) che, assumendo sempre piú la valenza di intermediario tra la terra e il cielo e inserito in un contesto storico in cui il culto nell’aldilà assume connotati senza precedenti, il drago è spesso raffigurato come tramite tra il mondo dei vivi e dei morti. Un esempio evidente è lo stendardo in seta del II secolo a.C., straordinariamente intatto, della marchesa di Dai (vedi box a p. 58). Il passaggio è significativo: l’immagine del drago, con la fondazione dell’impero, mantiene la valenza sacrale, regale e quindi di strumento di potere, che aveva conseguita già almeno dal II millennio a.C., ma si configura oramai come emblema dell’imperatore e dei suoi domini; dal II secolo a.C. viene praticamente raffigurato in ogni classe di oggetti relativi alla produzione artistica cinese: dai bronzi alle giade, fino a includere lacche, stucchi, pitture parietali, decori architettonici, mattonelle e lastre tombali incise, tegole, vasellame in oro e argento ageminati, e, infine, su sigilli e tessuti serici. La sua forma, che differisce leggermente, a seconda del materiale usato per la realizzazione, presenta la testa dalle grandi dimensioni, la bocca aperta, i denti taglienti e prominenti, mentre la lingua e le corna sono strette e allungate, il collo pic60 a r c h e o

Manufatto cilindrico in bronzo in forma di drago rampante con testa simile a quella di un ariete, corpo serpentiforme e coda di fenice, dal pozzo sacrificale I di Sanxingdui. XII-XI sec. a.C. Guanghan, Sanxingdui Museum.

colo come le ali e la coda piuttosto pronunciata. La sua immagine raggiunge la standardizzazione definitiva: un insieme di significati e funzioni ne determina la fisionomia dalla triplice natura, attinente alla terra (zampe artigliate), all’acqua (corpo rettiliforme/squamato) e al cielo (ali), per poi predisporsi a simboleggiare i domini di pertinenza dell’imperatore (terra, cielo e tutto ciò che è nel mezzo), in quanto garante supremo dell’ordine cosmico.

l’iconografia ufficiale Prendendo spunto da antichi dizionari enciclopedici (Erya, probabilmente scritto nel III secolo a.C.), il confuciano Wang Fu (78 circa-163) forní ai posteri l’iconografia ufficiale del drago imperiale: «Le corna somigliano a quelle di un cervo, la testa a quella di un cammello, gli occhi di un demone, il collo di un serpente, la pancia di un mollusco, le scaglie di una carpa, gli artigli di un’aquila, le zampe di una tigre e le orecchie di un bovino». Il drago riacquista l’eterogenea componente zoomorfa conferitagli sin dal Neolitico, e condensa in sé i vari attributi degli animali; la sintesi attuata non è solo artistica ma ideologica, politica e culturale. Da questo momento in poi il drago diventa una creatura mutante: può trasformarsi in un baco da seta o invece ingigantirsi sino a coprire l’universo intero. La sua affinità con l’elemento acquatico gli permette di immergersi tra i flutti ma anche di nascondersi tra le nuvole; si trasforma in acqua, origina fenomeni meteorologici come la pioggia, si mimetizza con l’ambiente circostante sino a divenire invisibile. Simbolo di potenza, rimane comunque una creatura ambivalente che è espressione solo di chi è in grado di domarne il potere sovrannaturale: il signore degli stati mutevoli dell’essere, dalle dirompenti potenzialità ancestrali, è finalmente diventato imperatore. (2 – continua)



gli imperdibili • ZEUS DI UGENTO

Veduta laterale dello Zeus di Ugento, rinvenuto nella città pugliese nel 1961. 530 a.C. circa. Taranto, Museo Archeologico Nazionale di Taranto. Capolavoro della bronzistica arcaica magno-greca, la statua raffigura il padre degli dèi nell’atto di scagliare il fulmine con la mano destra, mentre nella sinistra reggeva un’aquila (di cui restano solo gli artigli).

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la folgore E

l’aquila agli operai che per primi lo intravidero sembrò solo un fastidioso ingombro: e, invece, vincendo gli odori nauseabondi della fossa in cui giaceva, il dio di ugento si rivelò presto in tutta la sua arcaica magnificenza. scambiato inizialmente per poseidone, venne infine identificato come il padre degli dèi, colto nell’atto imperioso di scagliare un fulmine di Daniele F. Maras

N

el dicembre del 1961, poco prima del Natale, un gruppo di operai incaricati di scavare le fondamenta della veranda di una casa privata di Ugento (Lecce) si imbatté in quella che sembrava una grossa pietra che intralciava i lavori. Dovendo eliminare l’ostacolo, gli scavatori furono costretti a liberare la roccia dalla terra, scoprendone cosí la forma quadrango-

lare e la superficie lavorata. Si trattava, in realtà, di un robusto capitello dorico in pietra leccese, decorato con rosette a rilievo, che una volta rimosso, si rivelò il coperchio di una buca dal diametro quasi identico al suo tappo improvvisato. All’interno della cavità, tutelata dalle ingiurie del tempo, si trovava una preziosissima statua in bronzo di fattura arcaica, raffigurante un dio

nell’atto di scagliare un’arma con la mano destra, che mancava assieme a una gamba. Ben protetta dalla copertura, la cavità era stata tuttavia raggiunta dai liquami di scarico delle fosse settiche delle abitazioni vicine, che avevano impregnato la statua, conferendole un odore nauseabondo. Per questo motivo, l’importantissimo reperto venne lasciato a «svaporare» qualche a r c h e o 63


gli imperdibili • ZEUS DI UGENTO

metro piú in là e quasi con sollievo gli operai accettarono di consegnarlo al progettista della veranda, che aveva chiesto di portarlo via. Fortunatamente l’allora ispettrice onoraria della Soprintendenza, Sofia Nicolazzo, venne a sapere della scoperta e fece condurre ulteriori scavi sul sito, vagliando con attenzione la terra di riporto, fino a trovare i pezzi mancanti e ricomporre la statua cosí come la vediamo oggi. La prima interpretazione quale Poseidone fu corretta in

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Zeus, per via dei resti delle zampe di un’aquila – uccello sacro al padre degli dèi –, che la statua reggeva nella mano sinistra. Nella destra pertanto il dio non brandiva un tridente, bensí un fulmine: la piú temuta e potente delle armi divine.

bronzisti provetti La statua è alta 74 cm e poggia su una basetta rettangolare, in origine fissata a un incavo sulla sommità dello stesso capitello che chiudeva la cavità in cui è stata trovata. Si

Mare Adriatico Foggia Bari Brindisi Taranto Mar Tirreno

Lecce

Mar Ugento Ionio

tratta di un’opera d’arte che prova l’alto livello tecnico raggiunto dai bronzisti tarantini già in epoca arcaica, capaci di accogliere spunti formali e tecnologici da diverse


Sulle due pagine: ancora due immagini dello Zeus. A lungo interpretato come Poseidone, il bronzo è stato riconosciuto come la suprema divinità greca da Nevio Degrassi nel 1981.

carta d’identità dell’opera • Nome • Definizione

Z eus di Ugento Statua di culto realizzata in bronzo a fusione cava • Cronologia 530 a.C. circa • Luogo Ugento, ritrovamento città messapica del Salento • Luogo Taranto, di conservazione Museo Archeologico Nazionale • Identikit Idolo religioso

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gli imperdibili • ZEUS DI UGENTO

nella casa dello zeus Chi voglia incontrare il dio di bronzo, che dopo essere stato dimenticato per secoli e aver subito l’oltraggio degli scarichi organici è tornato a mostrarsi in tutto il suo splendore, dovrà attendere la prossima apertura della sezione corrispondente al Museo Archeologico Nazionale di Taranto. Nel museo, infatti, sono in corso lavori di riallestimento, che hanno già visto l’inaugurazione di gran parte delle sale e, nel corso di alcune stagioni, porteranno all’apertura dell’intero considerevole percorso espositivo. In attesa che lo Zeus originale torni a farsi ammirare, una replica perfetta è in mostra nel Museo Civico di Archeologia e Paletnologia di Ugento, assieme a un ricco apparato illustrativo della cultura messapica, con particolare riguardo agli aspetti religiosi. Il museo ugentino, che ha sede nel quattrocentesco convento dei francescani di S. Maria della Pietà, nel centro storico della città, ospita anche un’ampia collezione di antichità locali, in cui spicca la cosiddetta tomba dipinta «dell’Atleta», poco piú recente della statua di Zeus.

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Nella pagina accanto: ricostruzione grafica di una libagione nel recinto che accoglieva la statua dello Zeus in età messapica. In basso: contenitore in argento dorato a forma di conchiglia con figura di Nereide, dalla Tomba degli Ori di Canosa (BT). IV-III sec. a.C. Taranto, Museo Archeologico Nazionale di Taranto. Istituito nel 1887, il museo tarantino ospita collezioni greche, romane e apule, che hanno nelle oreficerie uno dei loro punti di forza.

correnti artistiche della madrepatria greca, proponendo un proprio stile eclettico e originale. Il dio è raffigurato completamente nudo, cinto da due corone sulla ricca chioma che ricade sulle spalle in trecce ed è acconciata a riccioli convergenti sulla fronte; la barba a punta e i baffi a rilievo sono completati da sottili incisioni ondulate e parallele e gli occhi, oggi perduti, erano realizzati a parte, forse in avorio e pasta vitrea, come era comune nella statuaria classica in bronzo. Come si è detto, il braccio destro sollevato brandiva un fulmine metallico di cui resta la traccia nel pugno chiuso, mentre la mano sinistra sorreggeva delicatamente un’aquila, di cui sopravvive oggi soltanto l’attacco degli artigli.

una nuova tridimensionalità La rigida anatomia dei muscoli, che richiama una maniera ancora arcaica, coesiste con esperienze innovative di tridimensionalità nella particolare disposizione degli arti, che invadono lo spazio e danno vita a un movimento deciso ed elegante. La statua offre allo spettatore due diversi punti di vista: dal fianco destro e di tre quarti, il che dimostra che i fedeli potevano girarle intorno. Lo Zeus era infatti posto su una colonnina, secondo una consuetudine tipica dei santuari messapici, come illustrano anche alcune raffigurazioni piú tarde su vasi apuli a figure rosse. La tradizione religiosa dei Messapi non prevedeva edifici di culto ampi

e sfarzosi, paragonabili ai templi greci; le divinità erano piuttosto venerate in sacelli all’aperto, spesso consistenti in semplici recinti che ospitavano un idolo, uno o piú altari e apprestamenti destinati ad accogliere le offerte. Lo stesso capitello che faceva da base al nostro Zeus (posto su una colonna che si stima alta 1,60 m circa) aveva sui bordi una serie di fori, presumibilmente destinati, come si è immaginato in altri casi, ad alloggiare perni di legno per appendere ghirlande e bende in occasione di cerimonie e riti di offerta (vedi disegno ricostruttivo alla pagina accanto). La modestia degli apparati religiosi non mancò di stupire i Greci, per i quali templi e santuari erano le massime espressione di cultura e ricchezza di una città. Un famoso passo di Ateneo di Naucrati (scrittore greco del II secolo d.C.) racconta che gli abitanti della Iapigia – antico nome della Puglia –, benché discendessero dai Cretesi, avessero adottato costumi molli e sfarzosi e un atteggiamento di disprezzo nei confronti delle divinità, al punto che «sottraevano dai santuari le statue degli dèi, invitando le migliori tra loro a trasferirsi altrove». Sembra evidente che qui si alluda alla povertà delle strutture di culto, di fronte alle manifestazioni di lusso privato: una situazione che non mancò di suscitare lo sdegno degli dèi, i quali colpirono gli empi «con fuoco e bronzo dal cielo (…) e le tracce del bronzo che li colpí furono a lungo visibili in seguito. Ancora oggi – dice Ateneo – i loro discendenti si rasano il capo e vivono in lutto per le ricchezze che un tempo appartenevano loro». È lecito domandarsi se lo sdegno manifestato dagli dèi non fossero altro che scariche di lampi, che colpirono statue di bronzo poste all’aperto – come il nostro Zeus – quali formidabili parafulmini di metallo. Nell’antichità l’abbattersi di una folgore era infatti considerato un chiaro segno della collera divina e per esempio a Roma esisteva un complesso rituale di origine etrusca


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gli imperdibili • ZEUS DI UGENTO

per «seppellire il fulmine» (fulgur conditum), che prevedeva l’interramento degli oggetti colpiti dalla scarica. Questa circostanza ha permesso in alcuni rari casi la sopravvivenza di antiche statue, salvate dalla rifusione in quanto oggetto di sepoltura rituale. È dunque possibile che anche lo Zeus di Ugento sia giunto fino a noi pressoché intatto perché «toccato» dal cielo e quindi sepolto ritualmente nel luogo stesso del prodigio. In alternativa,

come è stato proposto, la scultura potrebbe essere stata messa al riparo in occasione di una guerra, come quelle tra Messapi e Tarentini nel V secolo a.C. o al momento della conquista romana nel 267-266 a.C.

«ascolta, o zeus!» Negli anni successivi alla scoperta, la statua di Ugento venne restaurata a Roma, presso i laboratori dell’allora Istituto Centrale per il Restauro, e fu oggetto dell’interesse sia locale che nazionale, con studi di Antonio Franco, Salvatore Zecca e soprattutto Nevio Degrassi, all’epoca Soprintendente Archeologo della Puglia. In questi primi studi la statua veniva ancora considerata un Poseidone nell’at-

to di scagliare un tridente, con un equivoco che ricorda l’analoga incertezza di attribuzione della ben piú famosa statua di Capo Sunio. E proprio a Nevio Degrassi si deve il riconoscimento degli attributi di Zeus, grazie a uno studio pubblicato nel 1981, in cui tutte le caratteristiche iconografiche e stilistiche della statua sono state analizzate. In tempi piú recenti, tra il 2002 e il 2004, Ugento ha dedicato una splendida mostra alla statua e al suo contesto archeologico e culturale, con ampi contributi sulla religione degli antichi Messapi (vedi «Archeo» n. 215, gennaio 2003). Con l’occasione, importanti studi sono stati dedicati al contesto di rinvenimento dello Zeus, con ricostruzioni dell’aspetto del luogo di culto quando era ancora in funzione. Il titolo dell’esposizione, Klaohi Zis, era ispirato al testo di alcune iscrizioni votive messapiche, che si traduce letteralmente come: «Ascolta, o Zeus!». Si tratta di un’invocazione al padre degli dèi rivolta da devoti pellegrini, simili a quelli che veneravano l’idolo di bronzo di Ugento. per saperne di piú

Veduta integrale dello Zeus di Ugento. Una replica dell’originale è attualmente visibile nel Museo Civico di Archeologia e Paletnologia di Ugento

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Nevio Degrassi, Lo Zeus stilita di Ugento, Giorgio Bretschneider, Roma 1981 Antonio Colicelli, Lo Zeus di Ugento. Iconografia e religiosità dei Messapi, in Klearchos 33/34, 1991-1992; pp. 49-76 Francesco D’Andria, Antonietta Dell’Aglio (a cura di), Klaohi Zis. Il culto di Zeus a Ugento, catalogo della mostra (Ugento, 14 luglio 2002-14 febbraio 2003), Moscara, Cavallino 2002

nella prossima puntata • L’Olpe Chigi



ercolano e il mare

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In alto: Ercolano. Il Padiglione realizzato nel 2009 per ospitare la barca riportata alla luce nel 1982. In basso: calchi, ricollocati in situ, degli scheletri rinvenuti nei fornici di Ercolano, luogo in cui morirono circa 300 fuggiaschi che cercavano rifugio dall’eruzione vesuviana del 79 d.C.

Nel 79 d.C. una lancia di soccorso tenta invano di salvare gli Ercolanesi rifugiatisi sulla spiaggia. Nel 1982 gli scavi riportano alla luce la spiaggia, i corpi delle vittime, i resti dell’imbarcazione e del suo ufficiale. Oggi, un nuovo museo espone la nave restaurata e racconta la vita marinara della città testi di Domenico Camardo, Sarah Court, Maria Paola Guidobaldi e Mario Notomista

L’

antica Ercolano, distrutta dall’eruzione vesuviana del 79 d.C., era una città di mare che, come ci racconta lo storico Lucio Cornelio Sisenna (118 circa-67 a.C.), disponeva di porti protetti in tutte le stagioni. Buona parte della sua popolazione viveva di pesca, come dimostra la forte erosione dei denti anteriori individuata dagli antropologi su alcuni degli scheletr i r invenuti sull’antica spiaggia. Tale patologia è stata infatti messa in relazione con l’abitudine dei pescatori di tirare con i denti la lenza utilizzata per riparare le reti. Un’ipotesi confermata dal rinvenimento di una barca di circa 10 m di lunghezza, realizzato nel 1982 sull’Antica spiaggia, e dalla scoperta di una serie di straordinari reperti legati al mare rinvenuti nel corso degli anni nel sito archeologico. Nel 2009 la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia (SAPES), grazie a un finanziamento europeo erogato nell’ambito del POR Campania 2000-2006, ha realizzato un padiglione nel quale esporre la barca e alcuni degli oggetti legati alle attività marinare, restituendo cosí una testimonianza palpabile dello stretto rapporto della città con il mare e della tragedia provocata dal vulcano.

LA riscoperta DELL’anticA SPIAGGIA Agli inizi degli anni ottanta del Novecento, grazie a un’intuizione dell’allora Direttore degli Scavi di Ercolano Giuseppe Maggi, l’esplorazione archeologica nella città romana fu approfondita nel settore delle Terme Suburbane, fino a raggiungere la sabbia vulcanica dell’antica spiaggia, dimostrando in modo incontrovertibile la posizione del litorale davanti all’area urbana. Condotto in condizioni precarie dovute alla continua fuoriuscita dell’acqua di falda, lo scavo si rivelò subito di grande interesse e ricco di sorprese: sulla spiaggia, e soprattutto nei magazzini che si aprivano su di essa, si rinvennero oltre trecento corpi di Ercolanesi che, nella notte dell’eruzione, avevano cercato ripaa r c h e o 71


scavi • ercolano A destra: pianta di Ercolano con i siti citati nel testo: A. il luogo di rinvenimento della barca; B. i fornici; C. le terme dell’Insula nord-occidentale. In basso: pianta dell’area dei fornici, con il posizionamento dei corpi dei fuggiaschi e dei resti della barca.

ro all’interno di quelle robuste arcate, denominate «fornici», ricavate al di sotto dell’Area Sacra e della Terrazza di M. Nonio Balbo, sperando forse nell’arrivo di soccorsi dal mare (vedi «Archeo» n. 315, maggio 2011; anche on line su archeo.it). Gli abitanti dovevano aver lasciato senza troppa fretta le proprie abitazioni, giacché le analisi antropologiche degli scheletri hanno mostrato che fra loro c’erano anche bambini e persone non autonome che

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C

era stato necessario aiutare a camminare. Particolarmente toccante fu la scoperta del corpo di una giovane donna incinta e prossima al parto; dalla stessa furono recuperati i resti di un bambino mai nato, di circa otto mesi. I fuggiaschi furono sorpresi nel cuore della notte dall’arrivo della prima nube ardente che, con una temperatura di oltre 400° e una velocità di 80 kmh, raggiunse la città e provocò la morte istantanea,

B

A

per shock termico, di tutti gli abitanti. L’arrivo delle ondate di fango vulcanico dal Vesuvio ricoprí poi i resti dei loro corpi, sigillandoli nella posizione in cui si trovavano al momento della morte. Dallo studio di questi scheletri sono stati ricavati importanti dati biologici sull’alimentazione e sulle malattie degli antichi ercolanesi. Degli scheletri rinvenuti sotto le arcate sono stati realizzati calchi fedelissimi, ricollocati nella posizione ori-


Il gruzzolo di monete (a sinistra), e il cinturone con gladio e pugnale (in basso, a destra) appartenuti al soldato rinvenuto sulla spiaggia di Ercolano, accanto alla barca. In basso, a sinistra: i resti di un feto di circa otto mesi, mai nato a causa dell’eruzione, recuperato nel grembo della giovane madre.

ginale, che trasmettono un’immagine toccante della tragedia che colpí la città nel 79 d.C. I fuggiaschi avevano portato con sé oggetti preziosi, come gruzzoli di monete e gioielli, ma anche lucerne per farsi luce nella fitta oscurità provocata dall’eruzione e le chiavi di casa, segno che avevano avuto il tempo di chiudere le porte prima di fuggire. Sulla spiaggia fu anche rinvenuto lo scheletro di un soldato, alto quasi 1,80 m: indossava un cinturone riccamente ornato da cui pendeva un gladio e un pugnale; sulla spalla portava una borsa con un fascio di scalpelli e un martello; in un’altra borsa aveva raccolto i suoi risparmi, 12 denari d’argento e due monete d’oro. M. P. G.


scavi • ercolano

LA scoperta Presso il corpo del soldato, il 3 agosto del 1982, iniziò a emergere dal fango vulcanico la chiglia di una barca rovesciata dalla furia dell’eruzione. Essa poggiava su uno strato composto da travi, pezzi di legno, tegole, coppi e materiale da costruzione trascinati dalle case della città fin sulla spiaggia dal primo flusso vulcanico. In particolare, alcune grandi travi che provenivano dai tetti e dai solai avevano sfondato la chiglia e avevano piegato il fasciame, rimanendovi incastrate. La barca fu poi 74 a r c h e o

sepolta dai flussi piroclastici, rimanendo sigillata in questa coltre di fango vulcanico che si indurí rapidamente garantendo, per via dell’assenza di ossigeno, la conservazione dei legni. Dopo le prime fasi di scavo, la barca venne rivestita da uno strato di gomma siliconica, sul quale poi venne applicata della vetroresina. Si creò cosí un guscio, che permise di contenere i resti carbonizzati ed evitare il collasso della struttura dell’imbarcazione. Al suo interno, infatti, essa presentava ancora il riempimento di fango vulcanico, che aveva un peso di 40 q circa. Fu quindi necessario progettare e realizzare un telaio rotante in ferro per riportare la barca nella giusta posizione, senza pericolo di schiacciamenti. Quindi, dopo averla ribaltata e parzialmente svuotata, fu trasferita nell’area destinata alla futura musealizzazione. Il trasporto, estremamente delicato, fu realizzato nel maggio del 1990, lungo la rampa di collegamento con l’antica spiaggia, con l’ausilio di argani. Per molti anni la barca è stata quindi conservata al di sotto di una tettoia di protezione presso l’edificio dell’Antiquarium di Ercolano, e, solo dal 2009, è stata musealizzata nel Padiglione appositamente creato all’interno del sito archeologico, dopo essere stata sottoposta a un complesso intervento di restauro. Nella prima fase dei lavori la barca è stata svuotata dal fango vulcanico che restava ancora al suo interno ed è stato poi affrontato il restauro della delicata struttura in legno (vedi box a p. 76). S. C. A sinistra: la chiglia dell’imbarcazione poco dopo la scoperta avvenuta nel 1982, ancora parzialmente imprigionata dai flussi vulcanici, e, in alto, un momento delle operazioni di trasporto, effettuato nel maggio 1990, dal litorale all’area scelta per la musealizzazione del natante.


le caratteristiche tecniche DELLA BARCA Come già detto, la barca era lunga 10 m circa, aveva una larghezza massima di 2,20 m circa e un’altezza massima al bordo di 1 m circa. La linea somigliava quindi a quella di un grosso gozzo marinaro moderno. Prevedeva la presenza di tre scalmi per lato e poteva quindi essere mossa da tre coppie di remi. Straordinariamente ben conservata è la zona di poppa, dove è stata ritrovata la forcella d’appoggio per il timone, che era del tipo a remo esterno ed era bloccato alla forcella da una corda, anch’essa rinvenuta durante lo scavo. Lo scafo esterno è formato da tavole dello spessore di 3 cm circa, collegate tra loro da incassi con un si-

sbarco e soccorso che come rimorchiatore. Il rinvenimento presso la stessa di un militare con gladio e pugnale, che portava sulla spalla una borsa con un fascio di scalpelli e un martello, potrebbe suggerire la presenza di un ufficiale (un geniere?) sbarcato da una nave militare sul litorale di Ercolano e imessenze diverse, come il pino, la pegnato in una missione di soccorquercia, e l’ontano, mentre un cam- so alla popolazione. D. C. pione prelevato da un’ordinata ha permesso di identificare il faggio (Fagus sylvatica). Quest’ultimo ha il pregio di curvarsi se trattato con il vapore diventando poi piú resistente. Era quindi particolarmente indicato proprio per la realizzazione delle ordinate che costituivano l’ossatura della barca. Il natante prevedeva quindi un equipaggio di tre rematori per lato e di un timoniere. Come ha recentemente ipotizzato Flavio Russo, un simile equipaggio appare poco adatto a una barca da pesca, ma sicuramente piú rispondente a quello di una lancia in dotazione a una nave militare, che poteva essere utilizzata sia come scialuppa da Dall’alto: l’interno, una ricostruzione grafica e la poppa della barca di Ercolano.

stema di mortase e tenoni (rispettivamente, elementi pieni e vuoti che consentono gli incastri, n.d.r.), bloccati poi al fasciame con cavicchi di legno. Con cavicchi è realizzata anche la giunzione con le ordinate, che misurano 5 x 7 cm circa, anche se poi questo collegamento era stato ulteriormente rinforzato con chiodi di rame a testa bombata. Gli interventi di restauro eseguiti all’interno della barca hanno poi mostrato che le ordinate non erano a vista, ma nascoste da un rivestimento di tavole di legno. Lo scafo si presentava quindi a doppio fasciame. Prelievi di campioni di legno da varie zone della barca, realizzati durante il restauro, hanno permesso di individuarne i diversi tipi utilizzati per la sua costruzione. Per il fasciame, è stato accertato l’utilizzo di

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scavi • ercolano

IL RESTAURO E LA MUSEALIZZAZIONE Il primo intervento di restauro conservativo della barca, realizzato nel 1982 subito dopo la scoperta, vide la messa in opera di uno strato di garza e di carta di riso per bloccare fenomeni di distacco e fessurazioni legati allo stato di conservazione del reperto e al ritiro del legno carbonizzato che si andava progressivamente asciugando. Creato lo strato di isolamento con la carta di riso, lo scafo fu poi rivestito da uno strato di gomma siliconica di circa 1 cm di spessore. Infine fu realizzato un guscio esterno in vetroresina che contenesse la barca. L’intervento di restauro compiuto negli anni 2008-2009 ha previsto il taglio della vetroresina all’interno e nella parte superiore dello scafo e la rimozione dello strato di gomma siliconica nonché del velatino messo a protezione della barca. Sono stati poi realizzati lo scavo del deposito vulcanico, che ancora riempiva parte dello scafo, e la rimozione delle porzioni di fasciame ripiegato all’interno della barca. Si è quindi proceduto al delicato lavoro di pulizia del legno e al riposizionamento e microincollaggio dei frammenti e alla stuccatura delle lesioni. Nel contempo è stata realizzata una pulitura meccanica dei chiodi in bronzo. Per riposizionare le parti distaccate sono stati quindi realizzati supporti in vetroresina opportunamente colorati. Questo intervento ha permesso di mettere in luce l’interno della barca e la parte esterna fino al fascione che segnava la parte alta dello scafo, mentre la sua parte inferiore è ancora contenuta da un guscio di vetroresina. In questo modo si è potuto giungere a una prima esposizione dell’eccezionale reperto, ormai stabilizzato, in attesa del completamento dei lavori di restauro. L’intervento di restauro e musealizzazione della barca di Ercolano è stato realizzato dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia (SAPES) nell’ambito del finanziamento europeo, mediato dalla Regione Campania, P.O.R. 2000-2006. Responsabile del Procedimento è stato Ernesto De Carolis (SAPES). La Direzione dei Lavori è stata dell’architetto Valerio Papaccio (SAPES), con l’assistenza del Restauratore Conservatore Giuseppe Zolfo (SAPES) e del C.T. Geom. Salvatore Palazzo (SAPES). I lavori di restauro sono sati eseguiti dall’impresa A. De Feo Restauri. L’allestimento scientifico è stato realizzato dagli archeologi della Soc. Sosandra sotto la direzione di Maria Paola Guidobaldi, Direttore degli Scavi di Ercolano. Maria Paola Guidobaldi

le terme trasformate in DEPOSITO Nel Padiglione, accanto alla barca, alcune vetrine espongono preziosi oggetti in legno e altri materiali deperibili – conservatisi grazie alle particolati condizioni del seppellimento di Ercolano – che rivelano quanto fosse stretto il rapporto della città con il mare. Negli scavi degli anni Novanta del secolo scorso, nell’area del complesso ter male r invenuto presso il litorale nell’Insula Nordoccidentale della città, sono stati scoperti numerosi reperti che attestano come le terme fossero fuori uso al momento dell’eruzione, probabilmente a causa del forte bradisismo che colpí la città nel periodo immediatamente precedente la catastrofe. Nel 79 d.C. esse erano utilizzate per il rimessaggio di barche e il deposito di attrezzature legate alle attività marinare. Dal complesso provengono infatti una piccola barca, attualmente in restauro, e un accumulo di assi di legno curve che sembrano appartenenti al fasciame

Qui sopra: un dritto di prora in legno, scolpito a forma di testa di serpente e con tracce di colore rosso. A sinistra: la rimozione del fango vulcanico che ancora riempiva l’imbarcazione durante i restauri del 2008-2009.

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In alto: resti di un telo di cuoio e di un rotolo di corda in cui si riconosce una «gassa d’amante», nodo ancora oggi utilizzato dai marinai.

di un’altra imbarcazione. Questi materiali rivelano la presenza di un’attività di manutenzione e rimessaggio alla quale rimanda anche il rinvenimento di uno straordinario dritto di prora in legno a forma di testa di serpente dipinta in rosso, che trova numerosi confronti in affreschi pompeiani. In quelle che erano ormai le ex terme sono stati recuperati anche un timone in legno e sei remi della misura giusta per equipaggiare una barca da pesca. E all’ambito marinaro rinvia anche la scoperta di un rotolo di corda in cui si può individuare un nodo ancora ben conosciuto e utilizzato dai marinai: la gassa d’amante. Accanto alla corda è stato poi sco-

perto un telone in cuoio, nel quale si possono distinguere i punti di cucitura, evidentemente utilizzato per proteggere le barche o le attrezzature. Non potevano mancare una rete da pesca e numerosissimi pesi da rete in piombo. Lo stesso contesto ha infine restituito un eccezionale argano verticale in legno, che tecnicamente si definisce «cabestano». Esso conserva ancora gli incassi per le assi di manovra e le ali verticali per la raccolta della corda. Appare quindi interpretabile come un argano utilizzato per tirare in secca le barche e trova precisi confronti in modelli in legno utilizzati fino al XIX secolo sulle navi o nei porti. D. C.

Argano verticale in legno e ricostruzione grafica della sua utilizzazione per tirare in secca le barche.

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scavi • ercolano

GLI STRUMENTI DA PESCA Nel mondo romano vi erano diversi modi e tecniche di pesca. Il pescatore isolato adoperava di preferenza la lenza (linea) e l’amo (hamus), in tutto simili ai nostri. Il mezzo preferito dai pescatori consisteva invece in ampie reti fatte con fibre vegetali, in prevalenza lino, appesantite in basso con piombi e provviste agli orli di sugheri (sagena). Un pescatore, da solo, poteva anche utilizzare, direttamente dalla spiaggia, una rete da lancio (iaculum), simile a quelle ampiamente usate nel golfo di Napoli fino al secolo scorso. Di forma conica, questa rete veniva lanciata con l’apertura rivolta verso il basso; dopo che aveva toccato il fondo, veniva recuperata, chiudendo l’apertura con tiranti, in modo da impedire ai pesci di uscirne durante l’emersione. Una rete da pesca, ancora provvista dei piombi originali, è stata recuperata nell’edificio termale dell’Insula Nord-occidentale di Ercolano e da tutto il sito vengono anche numerosi ami in bronzo, di ogni dimensione, e pesi in piombo che attestano un’intensa e diffusa attività di pesca collegata alla naturale vicinanza della città al mare. Tale realtà è confermata anche dal rinvenimento di numerose forcine in bronzo utilizzate per rammendare le reti e di galleggianti in sughero miracolosamente giunti fino a noi. Lo stretto rapporto di Ercolano con il mare è confermato anche dall’abbondanza di lische di pesce, appartenenti a resti di pasto, rinvenute nel

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recente scavo nel deposito organico della fogna dell’Insula Orientalis II realizzato nell’ambito dell’Herculaneum Conservation Project. Nel Padiglione della barca è anche esposto un oggetto eccezionale, In alto: cestino in vimini contenente un rotolo di lenza con pesi di piombo e ami in bronzo rinvenuto in uno dei fornici di Ercolano, in cui si può riconoscere un «palamito» o «coffa», strumento ancora oggi utilizzato per la pesca nel Mediterraneo con le modalità illustrate dalla ricostruzione grafica.

r invenuto in uno dei fornici dell’antica spiaggia vicino ai corpi delle vittime. Aprendosi direttamente sulla spiaggia, l’ambiente doveva essere utilizzato dai pescatori come deposito e da qui proviene,


appunto, un cestino di vimini chiuso da un coperchio, al cui interno si riesce a individuare un rotolo di lenza da pesca. L’esame radiografico del reperto ha permesso di accertare che si era in presenza di un palamito o coffa, un attrezzo ancora oggi utilizzato dai pescatori nel Mediterraneo. Si tratta di un recipiente al cui interno è ordinatamente riposto un lungo cordino principale, al quale

sono legati, a intervalli regolari, gli ami e i piombi, tramite spezzoni di lenze. Le dimensioni degli ami utilizzati determinano quelle dei pesci che si intendeva catturare, realizzando quindi una pesca selettiva. Un ulteriore elemento di collegamento tra Ercolano e il mare viene dalla grande conchiglia del genere Charonia, comunemente nota come tritone, esposta nel Padiglione. Si tratta di uno dei piú grandi Ga-

steropodi esistenti nel Mediterraneo. Questa presenta la punta mozzata cosí da ricavarne una sorta di tromba, che poteva essere utilizzata dai pescatori come strumento di richiamo e segnalazione. M. N. per saperne di piú

ANFORE E COMMERCI Ercolano era situata in una posizione favorevole per ricevere via mare i prodotti provenienti da ogni angolo dell’impero. Per questo motivo, nel Padiglione della barca, sono esposti esemplari dei tipi di anfore rinvenute negli scavi dell’antica città e del suo territorio. I pregiati vigneti campani assicuravano una ricca produzione di vino, esportato ben oltre i confini dell’Italia, fin nelle regioni piú lontane dell’impero, in anfore del tipo Dressel 2/4, i cui esemplari sono stati ritrovati in Spagna, Gallia, Britannia, nel Nord Africa e perfino nella lontanissima India. Nell’area vesuviana si produceva anche un’apprezzata salsa di pesce, denominata garum.

In basso: esemplari di anfore esposte nel Padiglione della barca, che testimoniano dei commerci da e per Ercolano.

Ma una simile salsa era anche importata dalla Betica, una regione della Spagna meridionale, con le anfore comunemente riconosciute come Dressel 7. Dal Nord Africa giungevano a Ercolano, in capaci anfore, i rifornimenti d’olio dalla Tripolitania, una regione costiera appartenente all’odierna Libia. Pregiate qualità di vino arrivavano poi dall’Egeo, come il vino cretese contenuto nelle panciute anfore del tipo Agorà G197. Prodotti particolari come la frutta secca (datteri o susine) erano poi contenuti nelle anfore tipo Camulodunum 189, che provenivano dall’Egeo orientale e in particolare dall’area palestinese. M. N.

Luigi Capasso, I fuggiaschi di Ercolano. Paleobiologia delle vittime dell’eruzione vesuviana del 79 d.C., «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2001 Angela Maria Ferroni, Costantino Meucci, Prime osservazioni sulla Barca di Ercolano: il recupero e la costruzione navale, in Il restauro del legno, I, Atti del Convegno, Nardini Editore, Firenze 1989; pp. 105-112 Maria Paola Guidobaldi, Ercolano. Guida agli scavi, Electa Napoli, Napoli 2006 Giuseppe Maggi, Ercolano fine di una città, Kairos, Gorgonzola 2013 Flavio Russo-Ferruccio Russo, 79 d.C. rotta su Pompei. Indagine sulla scomparsa di un ammiraglio, ESA, Torre del Greco 2013

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le ceneri di augusto Nel Campo di Marte, un luogo considerato sacro, infestato dagli spiriti e adatto soltanto alle operazioni militari, il primo imperatore promosse un grandioso progetto urbanistico. In quell’area a ridosso del Tevere fece erigere edifici di interesse collettivo, portici e meravigliosi giardini pubblici. E qui, in questa nuova Roma del futuro, volle il suo mausoleo. Ecco il racconto di uno straordinario esempio di propaganda del potere… di Vincent Jolivet

«A

mici miei, che ve ne pare: ho recitato bene la commedia della vita?» L’uomo che a Nola, in punto di morte, il 19 agosto del 14 d.C., avrebbe pronunciato queste parole, è l’imperatore Augusto. Può sembrare sconfortante pensare che il politico che aveva contribuito, in modo cosí decisivo, al collasso della repubblica romana e delle sue istituzioni, il generale che portò la guerra fino ai confini del mondo conosciuto, l’uomo ambiguo che esercita ancora oggi un fascino cosí profondo su noi moderni, abbia considerato la propria esistenza come una semplice parte teatrale, addirittura di una commedia, o di una farsa. Queste parole, tuttavia, oltre a riflettere un atteggiamento filosofico d’ispirazione stoico-cinica davanti alla morte, s’inseriscono in un programma estremamente coerente: alla grandiosa messa in scena delle sue opere tramite il testo delle Res Gestae – inciso sulle tavole di bronzo affisse ai lati della porta della sua tomba monumentale – faceva da

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eco, destinato a diventare perenne, l’operato da lui svolto nella trasformazione urbanistica di Roma, ormai concepita come teatro del potere di un solo uomo. La sua azione propagandistica proponeva in modo ossessivo un concetto che è arrivato fino a noi, tramite Svetonio, come un vero e proprio slogan di regime: trovando una Roma di laterizi, egli l’aveva lasciata di marmo. Anche se tale affermazione risulta, ovviamente, esagerata, l’elenco dei monumenti della città costruiti, ricostruiti, o largamente restaurati da Augusto – o dal suo fedele compagno Agrippa – dimostra che, per i suoi contemporanei, il salto di qualità nel loro quadro di vita quotidiana dovette essere notevole. Tra questi monumenti, alcuni rivestivano un significato particolare, in quanto piú direttamente connessi con la persona stessa di Augusto. Essi si concentrarono perlopiú in una zona della città fino a quel momento non interessata dallo sviluppo urbanistico: le parti centrale e settentrionale del Campo Marzio,


Statua colossale di Augusto, dal teatro antico di Arles. Inizi del I sec. d.C. Arles, Musée départemental Arles Antique. Sullo sfondo: veduta aerea del Campo Marzio settentrionale, che, insieme al Palatino, è la zona di Roma piú strettamente legata alla costruzione dell’immagine del fondatore della dinastia giulio-claudia.

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speciale • augusto e il campo marzio

dove il principe scelse di costruire la propria potevano anche caratterizzarsi come un camtomba gentilizia, a fondamento del nuovo pus, simile a quello che Agrippa possedeva sul potere dinastico da lui ideato. lato opposto della via Flaminia, fino alla sua morte, nel 12 a.C., all’indomani della quale Augusto lo donò al popolo romano. Anche i un autentico status symbol In questa zona, il successore di Giulio Cesare dintorni del mausoleo erano infatti circondapoteva disporre di ampi spazi, verosimilmen- ti, secondo Strabone, da «un ampio bosco, te concepiti – sebbene non siano indicati con mirabili passeggiate», distribuiti secondo come tali dalle fonti – come horti, un partico- una divisione simbolica probabilmente legata lare tipo di residenza dell’aristocrazia romana alla funzione funeraria del monumento: dadella fine della repubblica, vero e proprio vanti a esso, un giardino accuratamente disestatus symbol per i suoi membri. Quegli spazi gnato; dietro, una fitta foresta. Ricostruzione grafica dell’area del Campo Marzio. Gli assi stradali creati in età repubblicana e augustea hanno determinato lo sviluppo urbanistico della zona (da Les voyages d’Alix. Rome, di Jacques Martin e Gilles Chaillet/© CASTERMAN).

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Il Campo Marzio aveva offerto ad Augusto l’opportunità di sorpassare i suoi rivali o, meglio, di collocarsi a un livello diverso, piú alto. Prima di tutto, i suoi giardini non erano riservati all’ozio privato, ma erano pubblici; inoltre, nonostante si ricollegassero alla tipologia del paradeisos orientale, alludevano esplicitatamente anche alla tradizione repubblicana della tomba gentilizia sita all’interno di un hortus o di un hortulus, il genere di giardino che dette il suo nome a una collina di Roma, il collis hortulorum, oggi chiamato Pincio.

Non a caso, l’ara Pacis suggella nel marmo la tipologia di strutture leggere in legno, quali se ne trovavano nei giardini dell’aristocrazia e spesso riprodotte nelle pitture. Allo stesso modo della casa di Augusto sul Palatino, che l’agiografia antica ci presenta come umile – sebbene gli scavi abbiano dimostrato che tale pretesa era infondata – questi giardini offrivano dunque ai Romani, e alle loro élite, un modello superiore, profondamente ancorato al passato della città, che riaffermava con forza i valori tradizionali della cultura romana.

Piramidi

Tempio della Fortuna

Mausoleo di Augusto

Meridiana di Augusto Altare della Pace

Ustrinum di Augusto

Colonna di Marco Aurelio

Pantheon

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speciale • augusto e il campo marzio Dall’età di Augusto in poi, la topografia antica del Campo Marzio settentrionale fu strutturata secondo forti assi visivi che collegavano tra di loro, in chiave ideologica, monumenti contemporanei, oppure ascrivibili a periodi diversi.

Il Campo Marzio centro-settentrionale conta quattro principali monumenti di età augustea: già nel 29 a.C., all’indomani del ritorno di Ottaviano dall’Egitto, iniziarono i lavori per il mausoleo, mentre quelli dell’ara Pacis e dell’orologio solare furono verosimilmente avviati nel 13 a.C., poco prima che Augusto compisse cinquant’anni, e si conclusero nel 9 a.C. L’«ustrino», allestito nel luogo dell’incinerazione del corpo dell’imperatore, chiude questa lista, ma la sua posizione fu probabilmente decisa ben prima del 14 d.C., anno 84 a r c h e o

della morte di Augusto. La collocazione di questi monumenti, come quella di qualsiasi insieme di strutture pubbliche, o destinate ad avere un impatto pubblico, in una città antica, non fu lasciata al caso.

topografia e ideologia Essa venne accuratamente pianificata, secondo assi topografici preesistenti, reali (come nel caso della presenza fortemente strutturante della via Flaminia, in senso nord-sud, e dell’asse oggi ricalcato da via dei Coronari e via


delle Coppelle, in senso ovest-est) o ideali (assi solari e riferimenti astronomici), preoccupandosi comunque di mettere in relazione tra di loro i diversi edifici, in modo da caricarli di un ulteriore significato ideologico. Nel caso di Augusto, l’asse della via Flaminia, a ovest del quale sappiamo con certezza che si estendeva il parco, sembra avere avuto scarsa importanza nella scelta della posizione del monumento piú antico, il mausoleo, il cui ingresso era rivolto a sud. Esso venne edificato su un asse ideale, parallello alla strada, che si univa ad angolo retto, verso est, con una direttrice che lo collegava con un luogo sacro costruito sulla sommità del Pincio: un tempio dedicato alla Fortuna, documentato in età repubblicana e forse risalente all’epoca di Servio Tullio, oggi sepolto sotto il «Parnaso» di Villa Medici. Tale asse nord-sud assume un’importanza decisiva per l’erezione dell’ara Pacis, la cui sola facciata posteriore guardava verso la Flaminia, e per l’horologium, il cui gnomon poggiava su una base chiaramente orientata – qualunque sia la restituzione che se ne propone – in modo da materializzare la linea ideale che collegava tra di loro i diversi monumenti. L’insieme di questo programma indir izzava i pensieri di chi passeggiava nei giardini circostanti il mausoleo verso due regioni distinte dell’Oriente. Il riferimento piú immediato, sul piano architettonico, era quello all’Asia Minore, a quel regno di Caria di cui fu re Mausolo, la cui tomba, costruita dalla moglie (e sorella) Artemisia, era entrata a far parte del novero delle sette meraviglie del mondo. Seppur sorpassato dall’opera di Alessandro Magno, che conquistò e distrusse Alicarnasso nel 334 a.C., si trattava di un modello estremo, che realizza una potente sintesi tra suggestioni orientali e tumuli principeschi dell’Italia centrale, già oggetto di varie imitazioni nel mondo romano repubblicano, come nel caso dell’heroon di Enea a Lavinio.

Ma l’accenno all’Egitto, la cui conquista aveva consentito ad Augusto di accedere al potere, sbarazzandosi del rivale Antonio ad Azio, sembra pervadere tutta la zona, quasi a sottolineare che, se Cesare aveva portato Cleopatra a Roma, egli, invece, vi aveva trascinato l’intero Egitto sottomesso.

Planimetria del Campo Marzio settentrionale con la disposizione dei monumenti antichi e il loro rapporto con gli assi stradali piú importanti.

echi d’egitto Il primo obelisco di Roma, quello eliopolitano di Psammetico II – ricomposto nel 1589 e oggi in piazza Montecitorio –, fu adattato a gnomon dell’orologio solare, e a esso fecero quindi eco i due monoliti gemelli posti davanti al mausoleo (attualmente sull’Esquilino e sul Quirinale), nonché, probabilmente, costruzioni minori decorate con motivi egiziani. La pianta stessa del parco doveva riprodurre la forma di una piramide (o di un delta), riecheggiata dal cinquecentesco «Tridente», che riprende almeno due assi antichi, corrispondenti alle attuali via di Ripetta e via del Corso. La base del triangolo doveva grosso modo coincidere, a sud-est, con il percorso dell’aqua Virgo; a nord-est, con la strada antica ricalcata dalla via delle Coppelle; mentre i suoi lati corrispondevano, a ovest, con via di Ripetta, e a est, probabilmente, con via del Babuino. L’estensione totale di quest’area, verosimilmente divisa tra campus Augusti a ovest, e campus Agrippae a est, doveva raggiungere al massimo i 50 ettari circa, e dunque di poco superiore a quella ipotizzata per i grandi horti tardo-repubblicani, come per esempio quelli di Sallustio. A nord, presso la punta del triangolo oggi coincidente, non a caso, con l’obelisco di piazza del Popolo, furono costruiti due monumenti singolari, concordemente ritenuti due piramidi, che chiudono la strada in una morsa. Le loro fondazioni, che disegnano un quadrato di 100 piedi (30 m) di lato, sono state viste dal XVI secolo in poi sotto la facciata delle due chiese gemelle costruite da Carlo Rainaldi: S. Maria dei Miracoli e S. Maria di Montesanto. Le due struta r c h e o 85


speciale • augusto e il campo marzio

ture vengono tradizionalmente interpretate come tombe, per il confronto con quella di Caio Cestio, che presenta le medesime dimensioni (peraltro simili, sembra, a quelle della piramide che sorgeva nel quartiere di Borgo), ma in realtà per esse non è mai stata segnalata alcuna camera funeraria.

un ingresso trionfale La rilettura topografica dell’intera area suggerisce di considerare le due strutture piuttosto come segnacoli monumentali, posti all’ingresso dei giardini circostanti il mausoleo, per rinforzarne in chiave trionfale la connotazione egiziana (con un effetto che possiamo immaginare simile a quello raggiunto dai propilei egittizzanti disegnati da Luigi Canina nel 1822 per il parco di Villa Borghese, parzialmente distrutti nel 1938). L’altezza delle strutture augustee doveva aggirarsi, come quella della piramide di Cestio, intorno ai 37 m (125 piedi), ed era quindi di poco inferiore a quella proposta per la ricostruzione del mausoleo stesso (40 m circa al basamento della statua dell’imperatore).

Alle due piramidi si potrebbe applicare la frase che la guida seicentesca di Roma dell’abate Filippo Titi usa per le due chiese (poco adatte invece, secondo Stendhal, alla maestà divina): «Rendono l’ingresso in Roma tanto maestoso e ben s’argumenta da questo principio quante meraviglie possa in se racchiuder città si famosa». In effetti, i Romani potevano vantarsi di aver riunito nella loro città tutte le meraviglie del mondo antico: un mausoleo, che sfidava quello di Alicarnasso; le piramidi, come in Egitto; i giardini pensili, sul Pincio, come a Babilonia; un colosso dell’imperatore, come a Rodi, sulla sommità del mausoleo; una statua di Giove in marmo e oro, come quella di Fidia ad Atene, nel tempio capitolino; un immenso tempio di Diana sull’Aventino, emulo di quello di Efeso. Ed è facile imaginare un faro, forse una torre di giardini, come quella di Mecenate, o forse costruito sulla ripa del Tevere, a completare questo novero. I vasti giardini del Campo Marzio erano ovviamente sede delle divinità tutelari predilette dall’imperatore: posti sotto la protezione della Fortuna del collis hortulorum che li domi-

Grazie a questa sistemazione, i giardini di Augusto, sempre esclusi dal pomerio della città, insieme a quelli di Agrippa, tesi alla celebrazione del nuovo regno, diventavano cosí l’ingresso piú monumentale alla città di Roma, facendo da maestosa cornice al rettifilo che iniziava con il ponte Milvio. Esso conduceva, dopo un percorso di poco meno di 2 km, dall’attuale piazza del Popolo fino al tempio di Giove Capitolino, costeggiando alcuni dei piú importanti monumenti costruiti sotto il regno di Augusto nel Campo Marzio: la porticus Vipsania, i Saepta, il Pantheon, le terme di Agrippa... ma anche, probabilmente solo piú tardi, il piú grande santuario dedicato a una divinità egiziana di Roma, l’Iseo Campense.

na, essi si riferivano, in primis, a Marte, nel cui demanio era stato ritagliato lo spazio necessario per crearli, e al quale l’imperator doveva le sue vittorie e il suo potere. La sua figura veniva tuttavia bilanciata dalla presenza speculare della Pace, con l’altare votato nel 13 a.C., nei cui rilievi, oltre alla sua personificazione, compaiono anche – in posizione diametralmente opposta – Marte stesso, nonché la Dea Roma, a significare il connubio fatale delle due divinità nel destino della città. Con l’horologium, risulta fondamentale anche la figura del Sole-Apollo, omnipresente nella casa palatina di Augusto e nel suo programma ideologico, ma anche quella di un altro dio che faceva parte della cerchia ristretta degli olimpici: Ercole. La presenza tutelare di

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In questa pagina: disegno che mette a confronto il mausoleo di Augusto (al centro) con il monumento del re Mausolo ad Alicarnasso (a sinistra) e un tumulo etrusco (a destra). Di quest’ultimo, il monumento augusteo sembra costituire una interpretazione «smisurata».


quest’ultimo si può desumere dall’accurata descrizione lasciata da Strabone della kaustra, il monumento costruito nel luogo in cui Augusto era stato cremato, che noi chiamiamo ustrinum, tradizionalmente localizzato accanto al mausoleo, lungo la via Flaminia.

quel monumento di «pietra bianca»... In realtà, piú d’un indizio consente di situarlo, con buona probabilità, sul modesto rilievo oggi occupato dal palazzo di Montecitorio. Tra l’altro, elementi architettonici curvi rinvenuti in questa zona, la cui scoperta ci è stata tramandata da Piranesi, potrebbero essere pertinenti al monumento circolare di «pietra bianca» descritto da Strabone. All’interno della recinzione metallica del monumento, egli riferisce – con una precisione piuttosto rara – che l’area era piantata a pioppi (mentre sul mausoleo crescevano piante sempreverdi), alberi che Greci e Romani associavano esclusivamente a Ercole. La kaustra di Augusto sembra dunque riferirsi al rogo funerario per eccellenza, quello di Ercole, eretto sul monte Eta, che consentí all’eroe di salire all’Olimpo. Un processo analogo si stava mettendo in atto a Roma, in quegli stessi anni, per assicurare ai principes la loro divinizzazione dopo la morte e, tramite

questa, riaffermare la legitimità della continuità dinastica, garante del proseguimento dell’età dell’Oro inaugurata da Augusto. Nei primi anni dell’impero, il complesso concepito da Augusto nel Campo Marzio centrale e settentrionale, ricco di monumenti connessi tra loro da potenti assi topografici e visivi, segnava la topografia di questa parte della città, finora esclusa dal suo arredo monumentale. La collina del Pincio, dominata dal piccolo tempio della Fortuna, era occupata dai famosi horti di Lucullo, passati in età augustea nelle mani dell’oratore Valerio Messalla Corvino, prefetto dell’Urbe nel 26 a.C., e curatore delle acque dopo la morte di Agrippa, nel 12 a.C. Né le fonti, né l’archeologia ci consentono di ricostruire con sufficiente precisione la fisionomia della collina durante questo periodo. Pochi decenni piú tardi, sotto Claudio, i suoi pendii si trasformarono invece nelle quinte di una scenografia straordinaria, concepita in stretta relazione con il programma ideologico voluto e suggellato nella pietra da Augusto. L’artefice di questa trasformazione, che segnò in modo profondo l’intera area, tanto da essere ancora oggi percettibile, non era di stirpe romana: Decimo Valerio Asiatico era infatti un Gallo, nato a Vienna, capitale del popolo degli Allobrogi. Egli venne molto presto a

L’ingresso del mausoleo di Augusto era fiancheggiato da due obelischi, oggi sull’Esquilino e sul Quirinale, le cui basi sono state riportate alla luce nel corso di recenti scavi condotti dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali.

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L’obelisco oggi eretto davanti a Montecitorio fungeva da ago (gnomon) dell’orologio solare monumentale voluto da Augusto nel Campo Marzio. Sulla cima, il monolite era sormontato da un globo di bronzo (nella pagina accanto), attualmente conservato presso i Musei Capitolini.

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A sinistra: la stampa di Giovanni Battista Cipriani, del 1823, mette a confronto i dodici obelischi allora conosciuti a Roma.

contatto con la corte imperiale, sotto Tiberio, e soprattutto sotto Caligola, di cui fu amico e commensale abituale, salvo poi a partecipare al suo assassinio. Tacito racconta che questo audace straniero, all’indomani dell’omicidio di cui si era reso complice, tentò invano di salire sul trono imperiale, incontrando l’opposizione del Senato, motivata tra l’altro dalle sue origini non romane. La sua carriera, però, non si fermò lí: Asiatico accompagnò il nuovo imperatore, Claudio, nella sua spedizione in Britannia nel 43, e fu nominato console per la seconda volta nel 46, carica dalla quale si dimise presto, forse consapevole di aver suscitato accese gelosie.

processo sommario Gli eventi precipitarono all’inizio dell’anno seguente: accusato di complotto dalla moglie dell’imperatore, Messalina, ansiosa di impadronirsi dei suoi splendidi giardini, Asiatico fu arrestato a Baia, processato in modo sbrigativo e segreto nella camera stessa dell’imperatore, nel palazzo del Palatino, e costretto al suicidio. Tacito riferisce che si tagliò le vene, anziché ascoltare i pareri dei suoi amici, che gli consigliavano l’inanizione, una morte volontaria causata dalla soppressione dell’alimentazione, ritenuta perciò piú adatta a un anziano. La notizia prova che, nono-

stante la prestanza e il fascino che esercitava, tra l’altro sulla stessa Messalina, Asiatico doveva ormai essere un uomo anziano. Fino a pochi anni fa, quella di Tacito era l’unica testimonianza sulla vicenda, che è una delle pagine piú buie della storia del regno di Claudio. Scavi estensivi eseguiti sulla collina del Pincio dalla Soprintendenza Archeologica di Roma in collaborazione con l’École française de Rome hanno rivelato la presenza di un monumento in grado di illustrare in modo straordinario questo racconto, e che può aiutare a comprendere le ragioni della caduta in disgrazia e della morte di Asiatico. Prima di queste indagini, numerosi disegni rinascimentali, e, soprattutto, un nutrito corpus di schizzi e di ricostruzioni di Pirro Ligorio, documentavano la presenza, nella parte nord del giardino di Trinità dei Monti, di un ampio edificio a emiciclo, tradizionalmente identificato con la villa di Lucullo. Gli scavi hanno consentito di rivederne sia la ricostruzione finora proposta, sia la datazione.

il teatro della vita Si tratta, in realtà, di una grandiosa struttura di giardino, conformata a mo’ di teatro, direttamente addossata, a nord, alla villa stessa, situata sotto Trinità dei Monti e le cui sostruzioni sono tuttora parzialmente accessibili. Una scelta quest’ultima forse non casuale, ma che sottolinea il riferimento ad Alicarnasso, dove un teatro occupava la collina di Göktepe, di fronte al mausoleo. Parallelo alla via Flaminia, un enorme muro di sostegno scandito da grandi nicchie – il «Nicchione» barocco oggi visibile lungo la via di San Sebastianello ne conserva le proporzioni e il ricordo – era lungo quasi 200 m; esso conteneva la mole di un poderoso giardino pensile, che riproduceva la cavea di un teatro, dominato da un portico lungo 180 m e dotato di almeno un piano superiore. Il fortunato ritrovamento di uno dei grandi capitelli di questo portico, decorato con aquile e fulmini, ci offre una triplice chiave di lettura del complesso: cronologica, funzionale, e ideologica. Si tratta, infatti, di un’opera di età claudia, verosimilmente ascrivibile agli anni finali della vita di Asiatico; una datazione confermata dalla ceramica a r c h e o 89


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rinvenuta nell’ingente riporto di terra che costituisce il terrazzamento artificiale del giardino. La sua decorazione, del tutto inconsueta, ci consente di identificare il complesso con il piú monumentale ninfeo di Roma, e dell’intero mondo romano, ricordato come «ninfeo di Giove» nei Cataloghi Regionari (una raccolta di due redazioni, la Notitia urbis Romae e il Curiosum Urbis Romae regionum XIIII, elaborate forse in età dioclezianea e conservate in vari codici dall’VIII secolo in poi, che elencano, divisi secondo le 14 regioni augustee, i principali monumenti della città, n.d.r.). È probabile che fosse stato concepito come grandiosa mostra d’acqua terminale dell’aqua Claudia, iniziata nel corso del regno di Caligola, e portata a termine da Claudio: il viale della Trinità dei Monti, creato nel XVII secolo, ne nasconde oggi la facciata, le cui nicchie, documentate da piante rinascimentali, dovevano ospitare fontane zampillanti, come quella del ninfeo del Divo Claudio sul Celio, che potrebbe averne tratto ispirazione.

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L’impatto di questo enorme complesso sulla città doveva essere considerevole: esso è paragonabile, in questo senso, a quello del Vittoriano sulla città attuale (anche se la fronte di quest’ultimo si sviluppa su una lunghezza nettamente inferiore). Non a caso, il monumento fu costruito esattamente di fronte al mausoleo di Augusto, sull’asse ideale che lo collegava con il tempio della Fortuna sulla sommità del Pincio; un asse che, molto piú tardi, venne forse evidenziato dalla costruzione, o dal progetto di costruzione della porticus milliaria, un doppio colonnato, lungo 1000 piedi (300 m), che poteva trovare posto tra il pendio della collina e la via Flaminia, attribuito da Giulio Capitolino, nella Storia Augusta, all’imperatore Gordiano (238-244).

nel nome della fortuna Tale circostanza apre uno spiraglio su diversi aspetti interpretativi del monumento che sul piano topografico e ideologico legava s Asiatico ad Augusto. Nella sua nuova veste, il

Nella pagina accanto, in alto: pianta e prospetti dell’ingresso ai giardini di Villa Borghese in età barocca. Dotato di obelischi e piloni, offriva un altro esempio di entrata trionfale concepita in chiave egittizzante.


vecchio tempio della Fortuna fu monumentalizzato su una scala inaudita, e il pendio della collina assunse una fisionomia che riecheggia quella del piú famoso santuario della dea, quello di Palestrina. Tale trasformazione si spiega, probabilmente, con la volontà di far radicare questa potente e antichissima divinità a Roma, per vincolarla al culto imperiale. Sotto Tiberio, un tentativo in questo senso, riferito da Svetonio, fallí, forse perché nell’Urbe la dea non aveva trovato una sede degna di sé: le sortes, legate alla sua funzione mantica, portate a Roma, sparirono dalla teca nella quale erano state deposte, per riapparire solo quando questa fu riportata a Palestrina.

un rivale pericoloso La sistemazione concepita negli antichi giardini di Lucullo presentava tutta la necessaria monumentalità; ma forse questa mutevole divinità fu anche la causa della caduta dell’ideatore del complesso eretto in suo onore. Scegliendo di rendere omaggio alla dinastia giulio-claudia con la realizzazione, nei suoi giardini privati, di un’opera di dimensioni pubbliche (paragonabile alla mole del teatro di Pompeo, il piú grande di Roma, capace di accogliere 20 000 persone circa), che associava la sua persona alla Fortuna, a Giove e ad Augusto, Asiatico dovette apparire come un pericoloso rivale agli occhi dell’imperatore: per le sue doti fisiche e morali, per le sue ingenti ricchezze, e per le pericolose amicizie che poteva vantare presso Galli e Germani. Sappiamo da Tacito che Valerio Asiatico, prima di tagliarsi le vene, fece erigere per sé, nei

A sinistra, sulle due pagine: fotomontaggio con la probabile posizione delle due piramidi erette in età augustea come ingresso monumentale a Roma, ma anche alla parte del Campo Marzio settentrionale che si erano divisi i conquistatori dell’Egitto, Augusto (a ovest) e Agrippa (a est). L’ubicazione delle strutture coincide con quella delle chiese «gemelle» di piazza del Popolo: S. Maria dei Miracoli e S. Maria di Montesanto. L’obelisco, le sfingi e i leoni della piazza ottocentesca riprendono, in modo inconsapevole, questa tematica egiziana.

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speciale • augusto e il campo marzio

Campo Marzio, una funzione simbolica importante. Il complesso monumentale antonino sorto in quest’area, di cui la colonna di Marco Aurelio è l’unico elemento conservato nel sito originario, ne costituisce una testimonianza indiscutibile.

memoriali delle cremazioni Questo complesso è formato da una serie di ustrina o, piuttosto, di monumenti funebri eretti là dove un imperatore era stato cremato: era il luogo della sua consecratio e della sua divinizzazione, nel quale non si procedeva a ulteriori cremazioni. La pianta adottata dai tre monumenti conosciuti è quella di un recinto quadrato di 100 piedi (30 m) di lato, delimitato da cippi collegati da una transenna metallica, che richiudeva un secondo recinto, forse piantato con alberi, al centro del quale doveva trovarsi un altare monumentale (una sistemazione non dissimile da quella del monumento ai Caduti per la causa di Roma italiana eretto dall’architetto Giovanni JacoA sinistra: lo scenario egittizzante del tempio di Iside nel Campo Marzio, qui fantasiosamente ricostruito da Athanasius Kircher, comprendeva obelischi e statue di divinità o di animali, alcuni dei quali tuttora collocati nelle strade di Roma. In basso: la restituzione grafica dell’emiciclo del Pincio realizzata da Pirro Ligorio nel 1564 lascia ampio spazio all’immaginazione.

suoi giardini, un’alta pira funeraria: la possiamo imaginare posta al centro del ninfeo-teatro, di fronte al mausoleo e al monumento circondato da pioppi che commemorava, poco piú a sud, il luogo della cremazione di Augusto. È probabile che la decorazione dei giardini facesse eco a quella del Campo Marzio, come suggeriscono due statue egiziane oggi conservate al Museo del Louvre, che proverrebbero proprio da questa zona. Imperatore mancato, confinato nei propri giardini, Asiatico visse i suoi ultimi momenti da saggio stoico e, come il suo modello, recitò la «commedia della vita» sulla scena del suo grandioso teatro di verdura. I roghi funerari di Asiatico e di Augusto, cosí legati dalla topografia e da questi eventi, hanno avuto destini ben diversi: mentre il ricordo del primo fu accuratamente cancellato da un’oculata opera di damnatio memoriae, il secondo, monumentalizzato, e probabilmente situato su una piccola altura corrispondente al palazzo di Montecitorio, conservò a lungo, nonostante il periodico allagamento del 92 a r c h e o


bucci, nel 1941, vicino alla chiesa di S. Pietro in Montorio, sul Gianicolo, che si ispirò probabilmente alle strutture rinvenute a Montecitorio all’inizio del XX secolo). Tali monumenti, rigidamente standardizzati, si inserivano in una pianificazione – almeno iniziale – ricostruibile in modo ipotetico come un quadrato di 180 m di lato, suddiviso da un reticolato in 36 quadrati, al centro del quale si trovava probabilmente la kaustra di Augusto. L’asse centrale nord-sud di questo sistema, parallelo alla via Flaminia, è stato impiantato ripristinando un asse augusteo che collega l’abside del tempio di Adriano, che si trova poco piú a sud, con il centro del mausoleo; tale linea è segnata chiaramente, piú a nord, dalla base dell’obelisco che funge da gnomone dell’horologium e che presenta, per questa ragione, una spiccata divaricazione rispetto al suo asse normale. L’ideatore di questo straordinario programma dinastico fu probabilmente Adriano, desideroso di ricollegarsi alla figura di Augusto (che aveva già emulato, sulla sponda opposta del fiume, con la costruzione del secondo grande mausoleo dinastico di Roma, e del quale, nella sua villa tiburtina, riprese in maniera sfarzosa il filone egitizzante). Il sito dell’altare di consacrazione di Adriano (morto nel 138) non è mai stato identificato con certezza, ma è probabile che egli abbia sfruttato per primo l’area monumentale cosí accuratamente delineata, occupando forse, per la moglie Sabina e per se stesso, la parte nord del complesso; l’altare di consacrazione di Antonino Pio (morto nel 161), preceduto da una colonna commemorativa spoglia che poggiava su una base raffigurante, di fronte all’altare, l’apoteosi dell’imperatore e della moglie Faustina, occupava l’angolo nord-ovest; mentre la presenza della colonna di Marco Aurelio (morto nel 180), a sud-ovest, consente di ipotizzare la presenza di un altare di consacrazione a lui dedicato a ovest dell’attuale piazza Colonna.

La colonna di Marco Aurelio faceva parte del complesso dei roghi funerari antonini del Campo Marzio, eretti intorno a quello di Augusto.

dalla pace alla guerra Non sappiamo per quanto tempo questo complesso fu in uso (probabilmente almeno fino in età severiana), né quanti imperatori, o membri della famiglia imperiale, vi furono commemorati con un monumento di culto. La colonna bellica di Marco Aurelio, che per noi costituisce l’ultima testimonianza dell’arredo monumentale di questa zona, rompe con il messaggio ideologico che, probabilmente, ispirava in origine questo grandioso complesso: la celebrazione della Pax, esaltata a r c h e o 93


speciale • augusto e il campo marzio

in età augustea dall’ara Pacis, e ripresa da Adriano nella spettacolare scenografia scultorea del suo tempio, che delimitava il complesso verso sud. Attraverso l’architettura, veniva cosí ripreso un messaggio ideologico elaborato e materializzato nello spazio della città da Augusto, la cui figura rimase per secoli, sia per aspiranti imperatori che per imperatori in carica, un modello insuperabile.

una «cintura verde» Confische e donazioni piú o meno spontanee consentirono ai Giulio-Claudi, da Augusto a Nerone, di creare, intorno al centro densamente abitato della città, una «cintura verde» di proprietà imperiale, successivamente inglobata nel circuito delle Mura Aureliane. Nonostante quello che riferiscono gli autori antichi, è poco verosimile che tale politica sia stata dettata soltanto dall’avidità o dalla ricerca sfrenata della luxuria di principi folli o sadici. Piú probabilmente, essa rivela una preoccupazione di carattere urbanistico, che mirava ad arginare lo sviluppo anarchico del centro della città, a contenere gli incendi, e a facilitare le comunicazioni tra le diversi sedi del potere imperiale. Cosí, alla fine del I se-

colo d.C., il fisco imperiale controllava direttamente, tra altri, i grandi horti di Domizia, Agrippina e Cesare sulla riva destra del Tevere e, sulla riva sinistra, quelli di Asinio, Servilio, Mecenate, Sallustio e Lucullo. Il regno di Traiano segnò non solo la fine di questa politica, ma anche un ritorno al passato, con la restituzione ai privati di beni entrati a far parte del demanio imperiale.Tale fu la sorte degli horti di Lucullo, allora ritenuti da Plutarco come uno dei giardini piú belli dell’imperatore. Essi passarano alla potente famiglia degli Acilii, che la stabilità gentilizia, dall’inizio della repubblica fino all’impero, e il gusto per rimanere nell’ombra del potere designavano come un candidato ideale per il possesso di un sito già dimostratosi – con Lucullo, Asiatico o Messalina –, potenzialmente pericoloso, e al quale gli alti muri di sostegno conferivano l’aspetto di una vera e propria fortezza antistante la città. È probabile, del resto, che la loro creazione da parte di Lucullo, al suo ritorno dall’Oriente, fosse legata proprio alla necessità di far accampare i suoi 3000 soldati alle porte della città, davanti alla quale dovette fermarsi per quasi tre anni, dal 66 al 63 a.C., nell’attesa

Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis

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In basso: una recente ricostruzione grafica del complesso del Pincio. Sebbene in gran parte fantasiosa, offre un’immagine verosimile del carattere spettacolare del ninfeo voluto da Valerio Asiatico.


dell’esito del processo in corso contro di lui, che non gli consentiva di celebrare l’ambito trionfo. Piú tardi, i suoi proprietari furono gli Anicii, probabilmente in virtú dei legami familiari con gli Acilii; ma non sappiamo perché sia stato un ramo meno noto della loro famiglia, quello dei Pincii, a dare nome a questa sfarzosa domus. Divenuti domus Pinciana, gli horti Luculliani cambiarono statuto sullo scorcio del IV secolo d.C. Anicia Faltonia Proba, la loro proprietaria, la cui ardente fede cristiana è documentata dalla corrispondenza con san Girolamo, li trasformò in una sorta di cenacolo religioso che doveva comprendere un’annessa basilica, dedicata a san Felice e forse costruita nel vecchio vestibulum del palazzo, sull’attuale via di Porta Pinciana. Ma le minacce gravavano sempre piú pesantemente sul giovane impero d’Occidente, e sul suo primo imperatore, Onorio. Nel 410 d.C., il re dei Visigoti, Alarico, prese Roma dopo un lungo assedio, e si accaní sui luoghi del potere imperiale: il Palatino fu devastato, e la splendida residenza degli horti di Sallustio interamente distrutta.

La lunga decadenza Sebbene la capitale dell’impero fosse stata allora trasferita a Ravenna, l’evento traumatico indusse molti nobili a lasciare la città, e segnò l’inizio di una lunga decadenza. Sospettata di avere aperto le porte della città ad Alarico, forse per ragioni umanitarie, Faltonia Proba partí per l’Africa. Al suo ritorno a Roma, la sua residenza pinciana fu comprata, o confiscata dal fisco imperiale, per aggiungersi e sostituirsi a quella, vicina, dei giardini di Sallustio. La riunione di questi ultimi con i giardini di Lucullo, ambedue risalenti alla tarda età repubblicana, formò un nuovo predio imperiale, nella zona che conosciamo, ancora oggi, sotto il nome di «collina del Pincio». Tale circostanza, fino a pochi anni fa desumibile solo da fonti letterarie, è stata definitivamente confermata da una scoperta fortuita compiuta nel 1990 sul piazzale di Villa Medici e seguita da uno scavo estensivo ivi realiz-

Pianta di Roma con la suddivisione augustea. I giardini, molti dei quali erano di proprietà imperiale, formano una cintura verde intorno al centro urbanizzato della città.

zato nel 1999 (vedi «Archeo» n. 178, dicembre 1999), nonché dal rinvenimento, nel 2004, di un complesso termale coevo situato piú a sudovest, nel giardino di Trinità dei Monti. Questi due edifici sono stati costruiti con mattoni bipedali che recano il bollo REI PVBL(ICAE), a testimoniare che non si trattava di costruzioni private. Lo scavo del piazzale di Villa Medici ha consentito di riportare alla luce, per tutta la sua estensione, un edificio di 750 mq circa, costruito nella prima metà del V secolo d.C., in modo da adeguare la domus Pinciana degli Anicii alla sua nuova funzione di residenza imperiale. A prescindere dalla funzione delle tre grandi sale di rappresentanza in esso individuate – la piú importante delle quali è una sala semicircolare (avente un diametro di 14 m) lussuosamente rivestita di marmo –, è chiaro che la posizione dell’edificio è tutt’altro che fortuita. Costruito sull’orlo del pendio, esso presenta in facciata un ampio portico a emiciclo, pavimentato con un raffinato opus sectile di marmo, che non è orientato, come gli edifici anteriori, verso il complesso monumentale augusteo del Campo Marzio, ma verso il cuore stesso della città: il Campidoglio e, al di là di questo, verso la grande basilica di S. Paolo fuori le Mura, ristrutturata in forme monumentali dalla fine del IV secolo, al tempo di Teodosio, e consacrata durante il regno del figlio Onorio (395-423). Questo padiglione, appoggiato a una cisterna-corridoio anteriore, e che presentava almeno un piano superiore, era chiaramente concepito sia per vedere che per essere visto. Mentre il palazzo vero e proprio doveva trovarsi piú a sud, in corrispondenza della residenza di età giulio-claudia, sotto il convento di Trinità dei Monti, esso costituiva una vera e propria vetta, destinata ad affermare la presenza dell’imperatore all’interno di Roma. L’Urbe aveva visto tramontare la sua importanza come centro politico, ma aveva conservato intatta tutta la sua potente carica simbolica. Piú tardi,Villa Ricci, poi Medici (vedi box a p. 98), volta verso S. Pietro, avrà una funzioa r c h e o 95


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ne simile, anche se incompiuta, come strumento mirante a favorire l’ascesa al soglio pontificio dei due ambiziosi cardinali che ne furono proprietari. Nella gerarchia ecclesiastica dell’epoca, la loro posizione era equiparata a quella dei senatori dell’antichità, come quel Pincius inventato nel corso di questi anni per legittimare ulteriormente le loro ambizioni, mentre il sommo pontefice occupava il posto dell’imperatore.

un’attrazione... fatale Tuttavia, il ricollegarsi di Onorio a luoghi emblematici della città – sia che appartenessero a un passato di cui si conservava la memoria, come il Campidoglio, sia che fossero invece figli di un futuro auspicato, come la basilica di S. Paolo fuori le Mura –, piuttosto che al suo primo imperatore, non significa che il potere di attrazione della figura di Augusto fosse allora definitivamente tramontato. Una figura riportata in auge, nei secoli successivi, da molti grandi personaggi, ma piú spesso grazie ai riferimenti letterari, che non attraverso i resti archeologici reali. Scavi eseguiti di recente a Villa Medici offrono una la sorprendente dimostrazione del fatto che, alla fine del Rinascimento, il complesso del Campo Marzio era ancora in grado di ispirare nuove grande opere miranti a sfruttare l’immagine dell’imperatore. Il «Bosco» di Villa Medici è una terrazza artificiale, alta 5 m, in fondo alla quale è stata eretta una collina, altrettanto artificiale, alta 13,50 m, per un diametro alla base di 45 m,

oggi conosciuta sotto il nome di «Parnaso». L’insieme di questo progetto venne pianificato da Ferdinando de’ Medici già dal 1576. Un sondaggio archeologico aperto nel 1995, nonché lavori di risistemazione ivi eseguiti nel 2004 e nel 2005, accompagnati da un’indagine archeologica finanziata dalla Soprintendenza Archeologica di Roma, consentono ora di stabilire che la creazione della collina ha comportato la distruzione e il seppellimento di due importanti monumenti di età imperiale (III-IV secolo d.C.) affiancati l’uno all’altro, a pianta centrata, l’uno rotondo, a ovest, l’altro, a est, a esaconca (circolare con sei nicchie). Di diametro pari a 22 m circa, essi sono probabilmente due templi dedicati rispettivamente a Fortuna e a Spes, menzionati dai Cataloghi Regionari. La logica di quest’opera di cancellazione radicale del passato romano diviene palese se la leggiamo – come c’invita a farlo la sua piú antica denominazione di «mausoleo» – come un vero e proprio tumulo etrusco, non a caso eretto in un’epoca nella quale i Medici rivendicano fieramente, in chiave antiromana, le loro origini tuscaniche. La scoperta di sale sotterranee finora sconosciute, sotto la sommità della collina, connesse l’una all’altra da porte trapezoidali, potrebbe indicare che fossero state realizzate camere vere e proprie, a imitazione di quelle funerarie, e simili a quelle che si vedono su un progetto di mausoleo concepito da Leonardo da Vinci, e oggi conservato al Museo del Louvre. La presenza di un’estesa rete di gallerie sotNella pagina accanto, in alto: Trinità dei Monti, un ampio complesso di sale antiche costituiva il terrazzamento della villa sovrastante, costruita da Valerio Asiatico. A sinistra: particolare del pavimento marmoreo del palazzo imperiale sotto il piazzale di Villa Medici.

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terranee scavate nel sottostante banco tufaceo suggeriva ai letterati dell’epoca un raffronto immediato con il labirinto della tomba etrusca piú famosa nel Rinascimento, quella di Porsenna, re di Chiusi, accuratamente descritta da Plinio. Di fronte alla villa, il primo obelisco rialzato a Roma, nel 1576, da Ferdinando de’ Medici, rinforzava questo quadro: all’epoca, infatti, si pensava che il monolite fosse legato alla figura dell’ultimo re etrusco di Roma, Tarquinio il Superbo. Tra il convento di

i due agrippa Tuttavia, in questo caso, l’affermazione dell’etruscità dei Medici si accompagna all’esaltazione della figura di Augusto, modello dichiarato del padre di Ferdinando, Cosimo I. La posizione scelta per l’erezione della collina dimostra che il legame tra mausoleo e altura, iscritto nella topografia da Valerio Asiatico, era rimasto ben saldo, mentre un’iscrizione oggi perduta, ma di cui sappiamo che esisteva nel padiglione mediceo eretto sulla sommità della collina artificiale, esplicita ancora piú chiaramente questo riferimento. Essa celebrava Marco Vipsanio Agrippa, il genero di Augusto, per aver portato l’aqua Virgo a Roma, e l’ingegnere idraulico del cardinale Ricci e di Ferdinando, Camillo Agrippa, per essere riuscito, tramite un complesso sistema di pompe, a sollevarla, per circa 50 m di altezza, fino alla sommità della collina artificiale. Qui l’acqua alimentava una fontana, nonché grandi cisterne costruite a quota piú bassa, sfruttando cosí l’intero complesso come un castello d’acqua, fondamentale in un’epoca in cui

Trinità dei Monti e Villa Medici, il grande ninfeo teatriforme di Valerio Asiatico presenta dimensioni paragonabili a quelle del piú grande teatro antico di Roma, quello di Pompeo, qui sovrapposto all’immagine dei resti antichi e moderni.

nessun acquedotto era ancora in grado di rifornire la collina. Attraverso il paragone tra i due Agrippa, Ferdinando esaltava la propria figura, assimilandola a quella di Augusto, e quella della sua presunta stirpe, posta a confronto con quella romana. Gli scavi hanno inoltre consentito di scopria r c h e o 97


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re, a ridosso del «Parnaso», una piccola loggia rinascimentale finora sconosciuta, che si apriva sul viale di accesso principale della villa (il «viale degli Aranci»), di fronte a una nicchia che ne segnalava ulteriormente la presenza e l’importanza. Il suo muro posteriore era formato dal paramento esterno dell’edificio rotondo, la cui muratura in opera vittata mista doveva essere lasciata visibile al suo interno: si trattava di un vero e proprio luogo della memoria, probabilmente corredato da qualche iscrizione oggi dispersa, che serbava il ricordo dei due grandi monumenti del genio romano sommersi

sotto il tumulo etrusco di Ferdinando, e Sul piazzale di Villa tramite il quale si poteva accedere a grotte Medici, lo scavo di gusto rustico, chiuse nel XVII secolo. estensivo ha

il sogno incompiuto Se poco dopo non avesse lasciato Roma per salire sul trono granducale di Toscana, Ferdinando de’ Medici avrebbe probabilmente realizzato anche un sogno architettonico di cui ci è rimasta solo una raffigurazione pittorica di Jacopo Zucchi. Il documento si trova nella stanza fatta allestire dal cardinale, a uso privato, in una torre delle Mura Aureliane, alla base della quale una porta consentiva di

due cardinali per una villa Nell’area in cui, nella prima metà del XVI secolo, sorgeva la casina della famiglia Crescenzi, il cardinale Giovanni Ricci da Montepulciano iniziò, nel 1564, la costruzione di un palazzo imponente, affidandolo all’architetto fiorentino Nanni di Baccio Bigio, che integrò una parte delle strutture preesistenti. Nel 1574, alla morte del cardinale, i lavori non erano ancora stati terminati e, nel 1576, subentrò un altro porporato, Ferdinando de’ Medici (1549-1609), che ne aveva acquistato il terreno nel 1576. Il nuovo proprietario incaricò l’architetto fiorentino Bartolomeo Ammannati di trasformare la residenza in un palazzo magnifico, degno dei Medici. Amante dell’antichità, Ferdinando de’ Medici concepí la villa come un museo, allestendovi una galleriaantiquarium per la sua collezione di antichità e fece inserire bassorilievi di epoca classica, nella facciata orientata verso il giardino. Anche il parco venne realizzato con effetto scenografico, sul modello dei giardini botanici creati a Pisa e Firenze: vi si potevano trovare piante rare e molte opere antiche. A sud, le rovine di due templi vennero interrate per lasciare spazio a un belvedere, il Parnaso, dal quale si poteva godere la vista di gran parte della città e di quella che, al tempo, era la campagna circostante. Passato agli Asburgo-Lorena dopo la morte dell’ultimo Medici, verso la metà del XVIII secolo, il palazzo fu acquistato nel 1803 da Napoleone come nuova sede dell’Accademia di Francia, creata da Luigi XIV nel 1666, per ospitare gli artisti venuti a cercare modelli per le loro creazioni nel campo della scultura o della pittura. L’Accademia, che è sede di mostre e manifestazioni culturali, accoglie oggi «pensionnaires» dalle attività molto varie, dalle arti plastiche alla musica, al cinema e alla fotografia, alla storia dell’arte, che rimangono ospiti dell’istituzione per una durata di uno o due anni.

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rivelato strutture databili tra il V sec. a.C. e il XVI sec., tra cui gli imponenti resti di parte di un palazzo di età tardo-imperiale, probabilmente costruito per l’imperatore Onorio.


entrare con discrezione in città (o di uscirne): il dipinto mostra un grande ninfeo che doveva coprire tutto il pendio della collina, davanti alla facciata esterna della villa. Questo progetto grandioso che, ancora una volta, si affaccia verso il mausoleo del fondatore dell’impero, si ricollega a realizzazioni antiche, sia per la posizione che per la funzione, e anticipa l’ultima grande sistemazione urbanistica della collina: la scalinata costruita da Francesco De Sanctis, intorno al 1725, davanti alla chiesa della Trinità dei Monti. Quest’ultima è permeata da influssi antichi, probabilmente legati a questa stessa zona, attraverso il fantasioso disegno di Pirro Ligorio, ma ormai rompe con il riferimento alla sistemazione augustea del Campo Marzio settentrionale. Curiosamente, la singolare connotazione eg iziana dell’ingresso piú monumentale alla città di Roma fu ritrovata e riproposta in due tempi a piazza del Popolo: dapprima con l’erezione dell’obelisco voluta da SistoV, nel 1589, e poi con la grandiosa sistemazione della piazza, realizzata da Valadier nel 1818, che completò la scenografia all’egiziana ideata già in età augustea, installando quattro leoni ai lati dell’obelisco, nonché sfingi sulle balaustre dei due emicicli. L’ultimo progetto urbanistico di ampio respiro eseguito nella zona risale alla fine degli anni Trenta, in occasione della commemorazione del bimillenario della nascita di Augusto: la sistemazione di piazza Augusto Imperatore inquadrò strettamente due dei piú

prestigiosi edifici augustei, il mausoleo e l’ara Pacis (ricomposta), tra quinte architettoniche corredate da statue e bassorilievi, destinate a esaltare la politica del regime, e che portarono alla demolizione di un intero quartiere e alla costruzione di enormi portici. Sembra che Benito Mussolini avesse progettato di riutilizzare il mausoleo per la propria sepoltura, raggiungendo cosí un livello esasperato di identificazione con il suo modello storico.

nel segno del travertino La distruzione dell’edificio costruito nel 1938 dall’architetto Vittorio Morpurgo per ospitare la ricostruzione dell’ara Pacis, e la sua sostituzione con quello progettato da Richard Meier – il cui rivestimento in travertino grezzo rimanda sia all’antico che alla sistemazione fascista della piazza – costituiscono la sola impresa architettonica di rilievo realizzata nel centro di Roma per l’anno giubilare del 2000. Essa testimonia l’importanza storica e ideologica che il complesso augusteo conserva e che sarebbe stata ulteriormente segnata, nel progetto originario, dall’innalzamento di un obelisco, una sorta di inconscio rimando alla connotazione egiziana conferita a questa zona dal primo imperatore romano. A distanza di duemila anni, «tra speranza e vecchia sfiducia», e nell’anno di nuove commemorazioni, le ceneri di Augusto, il politico che diventò dio bruciando sul rogo laddove si decide oggi la sorte dell’Italia, non si sono ancora del tutto spente.

A sinistra: il «Parnaso» di Villa Medici è una collina di terra di riporto, eretta a imitazione di un tumulo etrusco, seppellendo due grandi monumenti tardo-antichi, verosimilmente i templi della Fortuna e della Speranza, le cui piante sono indicate nella foto dalle linee puntinate. In basso: francobollo da 75 centesimi emesso in occasione del bimillenario augusteo del 1938 sul quale compare la riproduzione della testa in bronzo di Augusto trovata a Meroe (Sudan) e oggi conservata al British Museum di Londra.

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il mestiere dell’archeologo Daniele Manacorda

c’è chi dice sí la proposta di realizzare un campo da golf in un’area a ridosso delle mura aureliane di roma ha suscitato vibrate proteste. eppure, a ben vedere, una simile «riconversione» potrebbe avviare la rinascita di questo nobile contesto

I

l centro di Roma conserva spazi reconditi e remoti. A volte si tratta di grandi ville, dimore di magnati o ambasciatori, a volte di anfratti rimasti miracolosamente a margine dei percorsi della vita quotidiana e delle folle dei turisti. A volte, di luoghi che la storia ha separato dal vortice frenetico della città moderna per il destino che li ha accompagnati, segnato anche, per fortuna, dalle nostre leggi urbanistiche e di tutela che li hanno preservati da edificazioni selvagge o usi impropri. Sono luoghi di memorie, che hanno bisogno di essere conosciuti, cioè visti e frequentati: pena la loro caduta

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nell’abbandono, nel degrado, nell’oblio. Uno di essi si trova a pochi passi dai ruderi maestosi delle terme di Caracalla, a ridosso di uno dei settori meno noti delle Mura Aureliane, quello modificato dal Sangallo nel Cinquecento per dotare Roma di un bastione difensivo al passo con i tempi.

un luogo senza vita Il luogo ha il fascino che possono avere le aree appartate, dove il tempo si dilata, e la mestizia di certi spazi nei quali la vita sembra aver smesso di respirare. Ebbi la fortuna di visitarlo trent’anni fa. Era una distesa di erbacce e cespugli che, a

mano a mano che si procedeva verso i torrioni delle mura (che i Romani possono vedere solo dal loro lato esterno), si trasformavano in una boscaglia fitta e spinosa, dove la natura aveva ripreso con decisione il sopravvento. Rare affioravano le tracce di vita, se non presso il bastione, nelle cui vicinanze apparivano cumuli di frammenti architettonici di ogni tipo e stile, provenienti da chissà quali demolizioni delle tante che ha subito Roma. Nella boscaglia, stretti sentieri indicavano una frequentazione umana, che non era difficile attribuire al mestiere piú antico del mondo: l’area adiacente


al traffico convulso della via Cristoforo Colombo era dominio di una prostituzione di tipo antico, dal sapore vagamente pasoliniano. Quell’area è balzata all’attenzione dell’opinione pubblica negli ultimi tempi, quando i giornali hanno dato spazio a una notizia di cronaca giudiziaria: il TAR del Lazio aveva infatti dato ragione ai proprietari del terreno per una parte del lungo contenzioso che li oppone al nostro Ministero per i Beni Culturali. Le cronache non entrarono tanto nel merito del contenzioso (che riguardava l’obbligo da parte della Pubblica Amministrazione di meglio argomentare i propri dinieghi relativi alle iniziative che la proprietà voleva avviare in quel terreno), quanto sul fatto che un’ipotesi d’uso di quell’area privata ne prevedeva la trasformazione in un campo di golf! Estemporanei comitati NO GOLF si sono subito mobilitati lancia in resta contro quello che veniva percepito come un ennesimo attacco all’integrità e alla dignità del patrimonio storico e archeologico. Tuttavia, c’è qualcosa che non va: anzi, troppe cose non vanno. Cominciamo dalla proprietà. Se l’area è cosí importante per la storia del paesaggio di Roma, da non potersi tollerare una sua destinazione d’uso di carattere sportivo, che venga espropriata e resa pubblica! Personalmente sarei contrario, non tanto per la difficoltà di trovare le risorse finanziarie, quanto perché un parco pubblico nelle immediate vicinanze c’è già. È il parco di S. Sebastiano, tra l’omonima via e la via Cristoforo Colombo. È un luogo bellissimo, che si stende alle spalle della chiesa di S. Cesareo: un deserto (non ci sono quartieri abitati nelle vicinanze), abbandonato al degrado piú sconfortante e allo spaccio di droga. Le amministrazioni pubbliche dimostrino di avere un progetto credibile di gestione di un parco cosí affascinante e delicato quale

potrebbe essere quello dei Bastioni del Sangallo, e si proceda all’esproprio. Ma se questo progetto non c’è, o non è realisticamente praticabile, per quale motivo si dovrebbe impedire una destinazione d’uso per il pubblico di una proprietà privata?

Nella pagina accanto: Roma. Una veduta dell’area a ridosso delle Mura Aureliane, nei pressi del bastione del Sangallo, di cui è stata proposta la trasformazione in campo da golf. In basso: i resti del mausoleo a pianta circolare compreso nell’area, reso quasi invisibile dalla vegetazione.

confusione di piani

questo uso può avere una valenza pubblica. Anzi, l’uso pubblico dell’area sarebbe – a guardar bene – la migliore risposta in positivo alla negatività della vicenda giudiziaria. Una discussione e anche un negoziato sulla destinazione dell’area può quindi essere il terreno socialmente utile di una vicenda che non merita di essere discussa solo nelle aule giudiziarie. Ma – si osserva – vogliono farci un campo di golf! E allora? Che cosa c’è che non va? Confesso che, quando alcuni mesi fa ho avuto la fortuna di tornare in quel luogo dopo tanti anni, superato il dislivello segnato nel terreno dalla presenza dei resti sepolti dell’acquedotto che alimentava le terme di Caracalla, rimasi senza fiato alla visione di un amplissimo e curatissimo terreno erboso, che disegnava ai suoi margini il tracciato delle mura: un’area ariosa, da cui era sparita ogni traccia della boscaglia e del degrado che mi erano rimasti impressi dalla mia visita precedente.

E qui c’è un secondo aspetto del problema: la confusione dei piani. Nella rappresentazione della vicenda data dalla stampa è sorta una strana commistione tra due facce del problema che non hanno alcun collegamento concettuale fra di loro: la natura del contenzioso Stato/privati e la possibile destinazione d’uso dell’area. Si è detto che la proprietà vi ha condotto nel passato lavori edilizi abusivi. Se è cosí, bene hanno fatto le Amministrazioni pubbliche a denunciare il fatto alla magistratura. Chi ha sbagliato è giusto che paghi, tanto piú in un’area cosí importante e protetta. Che il lungo iter giudiziario faccia il suo corso, che la magistratura si pronunci, e che ciò che è stato abusivamente costruito (serre o capannoni) venga abbattuto o sanato a norma di legge. Ma che cosa c’entra tutto questo con la destinazione d’uso? Nulla, evidentemente. Perché il divieto di praticare abusi edilizi sul proprio terreno non implica anche il divieto di usarlo. Tanto piú se

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Alla sua estremità – nascosto da un boschetto di allori – sorge uno dei piú grandi mausolei circolari di Roma dopo Castel S. Angelo e l’Augusteo: un monumento del tutto sconosciuto, che conserva il fascino dei ruderi della Roma del Cinquecento. Dalla sua sommità il panorama fin verso i Colli Albani ricorda quello delle vedute romane del tempo del Grand Tour. Pensai che l’idea di attrezzare quel prato per praticarvi il golf fosse addirittura geniale, e per piú di un motivo. Il golf richiede infatti la presenza di un prato ben tenuto, ma non ha bisogno di alcun intervento nel sottosuolo: nessun rischio dunque per i possibile resti antichi sepolti. In quell’area, peraltro, non c’è spazio per un vero

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campo da golf, ma sí per qualche buca, sufficiente ad allenarsi o meglio a creare una scuola di golf, aperta alla popolazione e in primo luogo agli scolari.

il fascino della storia In quel parco privato, protetto e aperto al pubblico, potrebbero svolgersi – pensavo – attività sportive ed educative, e al tempo stesso si potrebbe passare tempo piacevole a contemplare il fascino della storia e del suo rapporto con la natura. Basterebbero interventi minimi: un locale per le attrezzature di gestione del prato, un piccolo vano per i servizi igienici e un chiosco per un piccolo ristoro. Pensai anche che l’archeologia, per

nulla minacciata da un intervento cosí soffice, ne potrebbe trarre grandi vantaggi di conoscenza: la linea dell’antico acquedotto potrebbe essere portata alla luce per dare carattere al luogo di cui costituisce una sorta di spina dorsale; i bastioni cinquecenteschi potrebbero essere aperti alle visite e riqualificati; i resti delle demolizioni dei palazzi di Roma, che giacciono abbandonati da decenni, potrebbero essere recuperati come arredi dell’area e ridotati di un senso oggi perduto. Alcuni saggi di scavo potrebbero cercare il tracciato ancora ignoto dell’antica via Ardeatina, che attraversava l’area di questa propaggine dell’Aventino uscendo dalla perduta Porta Nevia.


Le fotografie aeree e le cartografie storiche ne fanno supporre il percorso, che domani potrebbe diventare l’asse di orientamento della progettazione topografica del soprassuolo e della sua viabilità pedonale. Per non parlare della splendida valorizzazione a cui si prestano le rovine del mausoleo dimenticato. Dov’è dunque il problema? Non si può trarre da un contenzioso giudiziario una via d’uscita che individui un comune obiettivo per la proprietà e per i possibili utenti? Non va bene il golf? Ci si spieghi il perché, visto che, se in Italia questa pratica mantiene un certo carattere elitario, in tutto il mondo il golf è ormai uno sport di massa, che coinvolge milioni di appassionati.

Non va bene il golf? Ci si può giocare a cricket, o esercitare al tiro con l’arco, i bambini possono divertirsi cavalcando qualche poney o le mamme passeggiare con le carrozzine e qualche pensionato potrebbe farsi una bella passeggiata passando un’ora su una panchina in un piccolo paradiso. Ci sarà da pagare un biglietto? Forse quello sarà il prezzo perché l’area sia tenuta in ordine e non abbandonata allo squallore del parco pubblico di S. Sebastiano.

una morsa da spezzare Quel che piú accora è che la contrarietà alla sola proposta di una tale destinazione d’uso è giunta innanzitutto da alcuni ambienti della cultura italiana: una cultura, che sembra stretta in una morsa di conservazione due volte preoccupante, perché rinuncia a praticare l’innovazione e perché chiusa in una prospettiva perdente. L’Italia è un Paese in cui la corruzione, l’evasione fiscale, la mancanza di senso del bene pubblico e della centralità di quelli che si chiamano oggi beni comuni sono purtroppo dati strutturali, è vero. Ma la politica del diniego, del blocco, del freno a ogni progetto di cambiamento non aiuta a proteggere meglio il patrimonio. Dire sempre e comunque no significa piuttosto alimentare quelle condizioni che danno vigore al cambiamento mosso da motivazioni estranee al bene

In alto: materiali architettonici provenienti dalle demolizioni operate in età fascista a Roma e depositati nell’area del Bastione del Sangallo. Nella pagina accanto: la pianta di Roma realizzata da Giovanni Battista Nolli nel 1748, in cui si vedono il mausoleo (cerchiato in rosso) e il tracciato dell’acquedotto (indicato dalla linea nera che corre alla sua destra, fino a raggiungere le terme Antoniane, cioè di Caracalla). pubblico, quando non alla legge, a quello che mette in conflitto proprietà privata e bene comune invece di trovare obbiettivi da raggiungere insieme. In un’area sottratta da decenni a ogni attenzione, non dico a ogni possibile godimento anche pubblico, ho sentito gridare solo «No golf»: ma perché non sento mai gridare «no prostituzione fra i ruderi», «no tuguri di sbandati fra i ruderi», «no sterpi fra i ruderi», «no immondizie fra i ruderi», «no recinzioni fra i ruderi», dove entrano solo i marioli o i poveri emarginati in cerca di riparo? Che i bambini delle scuole di Roma vadano a imparare i rudimenti del golf (o facciano qualcos’altro…) in un paradiso dominato dai bastioni del Sangallo e da un fantastico mausoleo ignoto a tutti e recuperato a un uso condiviso e negoziato alla luce del sole, a me pare quasi un sogno… Un sogno che ha bisogno di un po’ di passione visionaria per diventare possibile realtà.

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antichi ieri e oggi Romolo A. Staccioli

tutti in «feriae» nei giorni che in origine formavano il sesto mese dell’anno e che poi furono posti sotto la «tutela» di augusto, roma viveva un’autentica girandola di feste: si cominciava con la celebrazione delle vittorie ottenute dall’imperatore a filippi e ad alessandria e, dopo riti e cerimonie quasi quotidiani, si finiva rendendo omaggio al dio volturnus

L

e «ferie di agosto» (feriae Augusti, donde il nostro Ferragosto) furono una festa relativamente recente del calendario romano. Naturalmente, ebbero a che fare con Augusto, dopo che in suo onore, nel 27 a.C., venne ridenominato il mese fino ad allora chiamato sextilis (in quanto sesto del calendario che cominciava un tempo col mese di marzo). In particolare, furono legate a due episodi della vicenda politico-militare del primo imperatore che, in anni diversi, ebbero entrambi luogo alle calende di agosto. Il primo era stato la battaglia di Filippi, con la quale, nel 42 a.C., fu sconfitto l’esercito di Bruto e Cassio e vendicato l’assassinio di Cesare. Il secondo fu la presa di Alessandria, in Egitto, avvenuta nel 30 a.C., dopo la vittoria riportata l’anno prima, ad Azio, contro Antonio e Cleopatra. Proprio per celebrare questo secondo avvenimento – che segnò la fine del lungo periodo delle guerre civili – il Senato decretò che le calende di agosto diventassero un giorno di festa. Purtroppo, non sappiamo come questa venisse celebrata. È però molto probabile che la nuova festa

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abbia avuto un carattere popolare e che, in ogni caso, abbia incontrato un grande favore nel popolo.

da augusto all’assunta Sarebbe questo il motivo che indusse la Chiesa cristiana a farla propria, trasferendola tuttavia al quindicesimo giorno del mese e

consacrandola all’Assunta. È pure probabile che della festa divenuta cristiana siano sopravvissute, insieme al nome, alcune delle usanze che ancora oggi la caratterizzano, dalle «scampagnate» ai regali e alle mance, che, ovviamente, con la

festività religiosa della Madonna hanno ben poco a che fare. Quanto allo spostamento alla metà del mese, non ne conosciamo le ragioni. È tuttavia significativo che in quel periodo o, piú esattamente tra il 12 e il 17, cadessero, nell’antico calendario romano, varie feste legate all’anniversario del dies natalis, il giorno della dedica di diversi templi. Ciò che capitava, del resto, alle stesse calende quando cadevano la ricorrenza anniversaria del Tempio di Pietas, al Foro Olitorio, dedicato nel corso della prima guerra punica, e quella dei due templi della Vittoria, sul Palatino: quello eretto nel 294 a.C. (nel quale fu provvisoriamente collocata la «pietra nera», simulacro aniconico della dea Cibele o Magna Mater, proveniente da Pessinunte, in Asia Minore) e quello, adiacente, eretto cento anni dopo, ex multaticia pecunia (con denaro proveniente dalle multe), per la Victoria Virgo. Il giorno 12 cadeva la festa di Ercole Invictus, che si celebrava nel Foro Boario, presso il tempio costruito accanto all’Ara Maxima, il «grande altare» dedicato all’eroe, secondo la tradizione, dal re Evandro, a


titolo di ringraziamento per aver egli liberato gli Arcadi del Palatino dalle angherie del gigante Caco. E il rito religioso si svolgeva, in due tempi, al mattino e alla sera, al modo greco, con l’officiante a capo scoperto (capite aperto), anziché velato, e coronato d’alloro, mentre al banchetto che seguiva, con le carni del giovenco sacrificato, i commensali non si distendevano sui letti tricliniari, ma vi stavano seduti. Il giorno 13 – quello delle Idi – era la festa di Diana, celebrata presso il tempio edificato sull’Aventino, in onore della dea, dal re Servio Tullio il quale intese cosí trasferire a Roma un culto della nazione latina che aveva luogo nel Nemus Aricinus, un «bosco sacro» nei pressi di Ariccia e del lago di Nemi (che a esso deve il suo nome), dove

si recavano in processione, recando fiaccole, ghirlande e doni votivi, le donne che onoravano la dea come Lucina o protettrice dei parti. In ricordo dell’origine servile del re, alla festa partecipavano anche gli schiavi per cui quel giorno era menzionato anche come servorum dies. Per l’occasione, inoltre, i cacciatori si astenevano dalla caccia e consacravano alla dea armi e utensili, denti di cinghiale e corna di cervo, e portavano al tempio i loro cani per metterli sotto la protezione divina.

nei pressi del fiume Il giorno 17 si celebravano i Portunalia, in onore del dio Portunus, protettore di ogni luogo di passaggio dal quale si entra e si esce, e quindi anche dei porti, sicché il rito religioso si volgeva

In alto: Roma. Il tempio di Portunus, dio protettore dei luoghi di passaggio la cui festa si celebrava il 17 agosto. Nella pagina accanto: il mese di agosto, rappresentato dall’attività venatoria, alla quale allude il simulacro di Diana, la dea cacciatrice, particolare del mosaico dei mesi di Thysdrus (oggi El Djem, Tunisia). III sec. d.C. Sousse, Museo Archeologico. davanti al tempio costruito per quel dio presso il Porto Tiberino, all’altezza del Ponte Emilio (l’attuale Ponte Rotto). Ma le feste principali del mese erano altre. Il 19 c’era una delle due che, durante l’anno, erano dedicate al vino: quella dei Vinalia rustica (o «di campagna»), celebrati alla stregua di una «vendemmia virtuale», in anticipo, come buon

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auspicio per quella vera, imminente. Il sacerdote officiante era quello di Giove, il Flamen Dialis, il quale coglieva la prima uva matura, dopo aver ottenuto il responso favorevole della divinità e sacrificato un agnello.

l’altare nascosto Il giorno 21 era la volta dei Consualia, in onore del dio Consus, che derivava il suo nome dal verbo condere («nascondere, riporre») e aveva un altare sotterraneo presso il lato curvo del Circo Massimo. Si festeggiava con essi la fine della mietitura e dei lavori agricoli in generale e si metteva sotto la protezione del dio il raccolto «nascosto», cioè immagazzinato, nei granai. La festa era celebrata nell’arena circense attigua al santuario, con corse di cavalli e di carri la cui origine era fatta risalire a Romolo, che avrebbe ideato lo spettacolo per trasformarlo nella «trappola» che doveva condurre al celebre «ratto delle Sabine». Per questa connessione con la figura del Fondatore, i riti religiosi erano officiati dal Flamen Quirinalis, che era il sacerdote addetto al culto di Romolo/Quirino.

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Alla chiusura delle cerimonie, l’altare, che era stato appositamente «riesumato», veniva nuovamente sotterrato. Il giorno 23 toccava ai Volcanalia – la festa per molti versi piú importante del mese – in onore del dio del fuoco, Vulcano. A esso era stato dedicato uno dei piú antichi santuari della città, il Volcanal (o Area Volcani), con un altare all’aperto situato nel Comizio presso il Foro: quello che la tradizione associava alla tomba di Romolo ed era stato ricoperto, come luogo funesto, da una «pietra nera» (il Lapis niger). I riti sacri venivano però compiuti presso il tempio che sorgeva nella zona del Circo Flaminio e comportavano il sacrificio di un vitello e di un maiale rossi, mentre si gettavano tra le fiamme pesciolini, pure rossi, contro il pericolo – e l’incubo – degli incendi che tanto spesso scoppiavano nella città. Questo culto acquistò particolare vigore dopo il devastante incendio dell’anno 64 e quando Domiziano fece erigere un altare in ognuna delle regioni della città per indicare i limiti raggiunti dal fuoco, quando Roma per novem dies arsit

Rilievo con scena di sacrificio a Ercole. 1766 circa. New Haven, Yale Center for British Art. Il 12 agosto cadeva la festa di Ercole Invictus, celebrata nel Foro Boario. neronianis temporibus («quando Roma bruciò durante nove giorni, al tempo di Nerone»), e per il capillare espletamento dei sacrifici in onore del dio, incendiorum arcendorum causa («al fine di scongiurare gli incendi»), come stava scritto sugli altari.

il Mundus Il giorno 24 veniva aperto – e lo restava per tre giorni di seguito (come avveniva anche il 5 ottobre e l’8 novembre) – il Mundus, una sorta di pozzo che sarebbe stato scavato al tempo di Romolo e nel quale questi e i suoi compagni avrebbero gettato manciate di terra dei rispettivi luoghi di origine e primizie di vario genere per il rito di fondazione della città. Compiuto questo rito, il Mundus, sarebbe stato sormontato da un altare. Il giorno 25 era la festa della dea Ops, venerata con l’epiteto di Consiva che la ricollegava a Conso e perciò all’immagazzinamento dei raccolti. Il rito era officiato, presso l’altare situato all’interno della Regia, dal Sacerdos Publicus il quale indossava per l’occasione lo stesso suffimen (il velo bianco listato di porpora e fermato sotto la gola da una fibula) che le Vestali – pure protagoniste del rito – tenevano sul capo durante le cerimonie sacre. Le preghiere si facevano stando seduti e toccando il suolo con le mani a significare il diretto rapporto con la terra apportatrice di ogni ricchezza per il genere umano. Finalmente, il giorno 27, il mese di agosto si concludeva coi Volturnalia, la festa del dio Volturnus che col suo nome (da alcuni etimologicamente connesso al verbo volvere, «scorrere»), continuava forse il nome piú antico del Tevere al quale era in ogni modo collegato.



a volte ritornano Flavio Russo

La «cavalletta» di Erone dalle campagne di traiano in dacia ai fronti della grande guerra: è questa la singolare parabola di un’antica arma da lancio

I

l riferimento a un’eclissi lunare, verificatasi nel 62 d.C., fa ritenere che Erone di Alessandria, uno dei massimi scienziati dell’antichità, sia vissuto nel I secolo. Una delle sue invenzioni meno note è una macchina da lancio che, per le ragguardevoli prestazioni, le ridotte dimensioni e la semplicità costruttiva si meritò l’attenzione di Traiano, che la fece adottare nella campagne daciche, stando alla testimonianza della Colonna Traiana. Sulle sue spire, infatti, l’arma compare in varie circostanze, sia in allestimento statico che ippotrainato: immagini che confermano ulteriormente l’importanza assegnatale, essendo le uniche pervenuteci di catapulte e baliste nell’arco di quasi cinque secoli! Quanto alla paternità inventiva di Erone, essa si evince da un singolare codice sulla cheiroballistra, in latino manuballista, sopravvissuto in appena quattro copie e a lui attribuito, pur con molte riserve (il Codex Parisinus Inter Supplementa Graeca 607). Senza entrare nello specifico, già esposto in passato (vedi «Archeo» n. 311, gennaio 2011; anche on line su archeo.it), va ricordato che le novità dell’arma erano la struttura in ferro e l’inversione della rotazione dei bracci. Piú leggera e piú robusta di quelle tradizionali in legno, essa riusciva ad accumulare per la maggiore torsione delle

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A sinistra: calco di un rilievo della Colonna Traiana in cui si riconosce una manuballista. II sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà Romana. Nella pagina accanto: un soldato francese della prima guerra mondiale con la sauterelle (cavalletta), una sorta di balestra lanciagranate, in una fotografia del 1917.

matasse elastiche – passata dai 50°55° delle eutitone (a torsione dritta) ai quasi 160° delle palintone (a torsione rovescia) – una potenza di tiro inusitata, con gittate di 400 m circa. Significativamente, l’inversione del moto dei bracci, fino ad allora esclusivo delle sole baliste palintone (dal greco palin-, al contrario, e tonos, tensione), di gran lunga le piú potenti artiglierie elastiche, non si prestava, proprio per le sue forti sollecitazioni, alla adozione nei telai di legno delle catapulte tradizionali. Che l’arma delle guerre daciche fosse del tipo di quella del manoscritto, e quindi di Erone, è confermato dalla concordanza fra i rilievi della Colonna e i disegni del codice di due connotazioni: i contenitori delle matasse appaiono molto distanziati, soluzione obbligata nelle armi palintone, e la barra superiore di ferro che li accoppia è arcuata al centro, una conformazione ideale per la punteria. Si trattava, in definitiva, di una piccola balista manesca. L’arma, che dovette debuttare alcuni anni prima dell’impresa di Traiano, ebbe modo di dimostrare la sua efficacia, e fu in seguito

certamente migliorata da ulteriori perfezionamenti, tra cui l’adozione dei vistosi cilindri atti a proteggere dalla pioggia le delicate matasse.

La «cavalletta» francese Sin dall’inizio del primo conflitto mondiale fu evidente che la guerra, pur con l’ausilio della nuove e devastanti artiglierie, sarebbe scaduta in uno scontro di posizione, effettuato da trincee contrapposte, spesso distanti fra loro poche decine di metri. Ogni tentativo di superarle, con un assalto o con un contrassalto, complici i grovigli di filo spinato e le micidiali raffiche delle mitragliatrici, si esauriva senza alcun avanzamento e con massacri spaventosi. Né lo stallo poteva essere infranto dai cannoni, perché l’eccessiva vicinanze delle trincee ne frustrava l’impiego. L’offensiva, dunque, insisteva soltanto sul lancio delle granate a mano. Tristemente celebri come «bombe a mano», esse trovarono larghissimo impiego: basti pensare che la sola Francia ne produsse ben 75 000 000 di pezzi! Per allungarne il tiro, ci si ricordò

delle antiche macchine da lancio che, previa sostituzione delle matasse elastiche con molle d’acciaio, risultavano di costruzione rapida ed economica, e d’impiego elementare. Ricomparvero allora la frombola meccanica, la fionda a forcella, l’onagro romano e una sorta di manuballista, la migliore del gruppo per gittata e leggerezza. E, dal momento che dopo ogni lancio saltellava, fu ribattezzata sauterelle, cavalletta. In linea di massima, era formata da due spessi tondini d’acciaio, fissati anteriormente a un teniere di legno, sagomati in foggia di molle verticali alle cui rispettive estremità, protese in avanti e fungenti da bracci, era avvinta la corda arciera, munita al centro di una sorta di sacca destinata alla granata. Il caricamento si effettuava mediante un verricello a cremagliera a doppia manovella, azionato da un servente a cavalcioni della sua minuscola sella: tirando la corda, si torcevano i bracci caricando le molle, fino a fargli assumere la forma di una «V», con il vertice bloccato dalla leva di sgancio. Posta la granata nella sacca, la «cavalletta» era pronta al tiro che, stando al libretto d’istruzione, poteva raggiungere i 130 m, con una cadenza di quattro colpi al minuto. Anche trascurandone il costo irrisorio, il suo vantaggio erano l’assenza di rombi e di lampi rivelatori, per cui le sue granate si abbattevano all’improvviso, di giorno e di notte, senza alcun preavviso. Restò in funzione per lungo tempo, e alcuni esemplari sopravvissuti sono oggi conservati nei musei militari.

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l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci

La bella addormentata raccontato e celebrato da poeti e letterati, lo struggente episodio dell’abbandono di Arianna a Nasso venne rivisitato anche dagli incisori di monete e medaglie

O

ltre a favorire la ricostruzione della storia economica dell’antichità e la conoscenza di opere d’arte e monumenti scomparsi, le monete romane offrono allo studioso l’immagine che la capitale dell’impero voleva dare di sé. La ricchezza tipologica della monetazione imperiale è eccezionale, ma con immagini spesso ripetitive e usate nel corso del regno di ciascun principe secondo programmi ideologici che poco concedevano all’estro dell’incisore del conio. Una maggiore idea di libertà creativa promana invece dalle monete provinciali romane che, come abbiamo piú volte sottolineato, erano volutamente incentrate sulla celebrazione delle glorie patrie – fossero esse divinità locali, forme cultuali precipue, edifici e paesaggi –, rese con uno stile e un gusto che possono definirsi barocchi.

modelli dimenticati Confrontando queste emissioni con quelle romane «occidentali», quest’ultime appaiono quasi ripetitive e piatte, ferma restando la loro innegabile bellezza, rispetto alle fantastiche e variegate immagini delle altre. Come di regola, il dritto è riservato al ritratto imperiale (o a quello di una divinità eponima), mentre sul rovescio si ritrovano a volte modelli inusuali, adottati in un momento particolare e sotto un determinato regnante e poi, chissà perché, dimenticati. Ne è un esempio l’abbandono di Arianna a Nasso da parte di Teseo,

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un tema caro all’iconografia cosí come alla letteratura antica e moderna. La storia è celeberrima: Arianna viene lasciata a Nasso da un Teseo fuggiasco o fedifrago, mente dorme un sonno ristoratore al riparo di una grotta, stanca per la fuga da Creta dove aveva aiutato l’eroe, del quale si era innamorata, nell’uccisone del Minotauro. I motivi del tradimento di Teseo sono stati variamente spiegati, ma unanime è la narrazione del dolore

tremendo di Arianna, che, consolata da Dioniso, ne diviene la sposa e divina compagna di tiaso (una sorta di confraternita alla quale si veniva ammessi per iniziazione e che aveva lo scopo di celebrare riti in onore dello stesso Dioniso, n.d.r.). Il lamento della giovane cretese ispirò anche composizioni operistiche, tra cui emerge il seicentesco frammento dell’Arianna di Claudio Monteverdi.

Innumerevoli declinazioni Il racconto patetico e a lieto fine della sposa di Dioniso conobbe grandissimo successo, fornendo lo spunto alla realizzazione di opere d’arte d’ogni tipo. Sulle monete il tema è invece rarissimo, attestato solo per i Severi nella loro produzione provinciale, e compare su alcuni eleganti medaglioni di Settimio Severo battuti a Pergamo in Misia (Anatolia) sotto Claudianus Terpander, che rivestiva la carica locale di stratega. Forte dell’antico rapporto tra la città e Dioniso – riproposto sulle emissioni preromane prima e imperiali poi attraverso il tipo della cista mistica con i serpenti sacri al dio –, Settimio Severo o, comunque, l’entourage locale a cui era delegata la monetazione, scelse per il dritto la coppia imperiale affrontata, con al centro una piccola contromarca incusa (incavata rispetto al piano della moneta, n.d.r.) con il volto di Caracalla, e, per il rovescio, la scoperta di Arianna dormiente da parte del corteggio bacchico.


La resa dell’episodio da parte dell’anonimo incisore risente senza dubbio di modelli celebri che dovevano essere conosciuti in tutto il mondo greco-romano, tanto da ricalcare fedelmente la statuaria posizione di Arianna e l’ambientazione pittorica con gli altri personaggi di contorno. La giovane è mollemente distesa, abbandonata nel sonno mentre disvela le sue forme avvenenti evidenziate dal braccio destro sulla testa e dal sinistro morbidamente disteso lungo il fianco. La scenografia rupestre è resa con cerchielli su cui la giovane si adagia,

al di sopra dei quali si affacciano un Satiro con in mano un pedum (il bastone ricurvo usato dai pastori per badare agli animali e attributo del dio Pan) e una Menade, con il tirso appoggiato alla spalla e un serto nella mano che tende verso la fanciulla dormiente. L’omaggio della Menade sembra annunciare il dono di nozze che Arianna ebbe da Dioniso, un diadema d’oro forgiato da Efesto che poi divenne la costellazione della Corona, corona che allude alla sacra unione, alla nascita di numerosi figli e alla definitiva divinizzazione della donna mortale.

Affresco pompeiano raffigurante Dioniso che trova Arianna addormentata. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: medaglione di Settimio Severo (193-211); al dritto, i busti dell’imperatore e della moglie Giulia Domna; al verso, Arianna addormentata in una grotta a Nasso, scoperta dal corteo di Dioniso. Zecca di Pergamo, emesso sotto lo stratega Claudianus Terpander.

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i libri di archeo

DALL’ITALIA Liliana Giardino e Gianluca Tagliamonte (a cura di)

devozione tributate alle piú importanti divinità del pantheon greco-romano e/o italico.

archeologia dei luoghi e delle pratiche di culto Atti del Convegno (Cavallino, 26-27 gennaio 2012) Edipuglia, Bari, 310 pp., ill. b/n 50,00 euro ISBN 978-88-7228-710-1 edipuglia.it

In sede di Introduzione, i curatori del volume sottolineano il considerevole sviluppo di quella che chiamano «archeologia della religione». L’incontro svoltosi a Cavallino nel 2012 ne ha offerto una riprova significativa, con contributi che si sono concentrati nelle regioni comprese tra l’Italia meridionale e l’area egeo-anatolica. I contesti culturali di riferimento sono assai diversificati e vanno dal Neolitico del Vicino Oriente a un caso di studio relativo a eventi svoltisi tra l’età di Giustiniano e quella di Eraclio. Nell’insieme, prende corpo un panorama articolato, nel quale è facile cogliere alcuni degli aspetti ricorrenti nella pratica del culto – in termini, per esempio, di materiali donati come ex voto o nella selezione delle specie animali offerte come sacrificio –, ma anche mettere a fuoco le specificità di volta in volta evidenziate dalle ricerche presentate. Specificità molto spesso dettate da rielaborazioni in chiave locale delle forme di

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dall’estero Philippe Barral, Jean-Paul Guillaumet, Marie-Jeanne Roulière-Lambert, Massimo Saracino, Daniele Vitali (a cura di)

i celti e l’italia del nord. prima e seconda età del ferro

Actes du XXXVIe colloque international de l’AFEAF. Verona, 17-20 maggio 2012 Revue archéologique de l’Est-36e supplément, Dijon, 740 pp., ill. col. e b/n 55,00 euro ISBN 2-915544-27-1 afeaf.org

Quello dei Celti è un universo che potrebbe essere definito quasi sconfinato, tale è la capillarità della loro presenza nel contesto dell’Europa antica. Una presenza significativa e duratura, capace di lasciare un’eredità culturale di cui spesso possiamo ancora cogliere le tracce. Non deve perciò sorprendere il fatto che, pur concentrandosi su una regione e un

momento storico ben definiti, il convegno internazionale tenutosi a Verona nel 2012 e di cui si dà ora conto abbia avuto un cosí ampio respiro. Ricchissimo è il palinsesto dell’iniziativa: la pubblicazione dei numerosi contributi si articola in due sezioni tematiche e in una vasta rassegna delle piú recenti acquisizioni. Ne scaturisce un quadro molto dettagliato, nel quale trovano spazio considerazioni e analisi su tutte le espressioni della cultura materiale, cosí come sulle strategie di insediamento e di sussistenza. Un tassello dunque prezioso per la sempre migliore conoscenza delle genti celtiche, che si pone come sintesi imprescindibile per gli studi futuri.

John Robb, Oliver J.T. Harris (a cura di)

The body in history Europe from the Palaeolithic to the Future Cambridge University Press, New York, 287 pp., ill. b/n 115,00 USD ISBN 978-0-521-19528-7 cambridge.org

Accade spesso, per esempio in un contesto ben lontano da quello dell’archeologia quale è quello delle telecronache sportive, di sentir evocare il «linguaggio del corpo»: un’espressione non priva di fascino e che, in realtà, rimanda a un concetto le cui prime elaborazioni sono verosimilmente antiche quanto l’uomo. È un po’ questo, in estrema sintesi, il punto di partenza del saggio curato da Robb e Harris, che, pur nella sua compattezza, riesce a offrire un quadro ricco e ragionato di come, dalla preistoria all’età moderna, il corpo umano sia stato percepito, osservato e rappresentato. Un tema dunque eccezionalmente vasto, nel quale si succedono testimonianze assai eterogenee, che vanno, per esempio, dalle stele istoriate di Göbekli Tepe e dalle Veneri del Paleolitico alle miniature e ai dipinti del Medioevo e del Rinascimento, offrendo al lettore considerazioni e stimoli di grande acutezza e interesse. (a cura di Stefano Mammini)



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