Archeo n. 357, Novembre 2014

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2014

RAQQA

INSEGNARE LA STORIA

MARZABOTTO

PORCELLANA CINESE

SPECIALE CRISTIANESIMO IN ORIENTE

€ 5,90

Mens. Anno XXX numero 10 (357) Novembre 2014 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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DAULTIM PO E NO M VITà PE I

archeo 357 NOVEMBRE

CRISTIANI

LUCE D’ORIENTE SALVIAMO LA MEMORIA DELLE PRIME COMUNITà

I monasteri nel deserto

Le piú antiche chiese in Arabia

Nel villaggio dove si parla la lingua di Gesú

POLITICHE CULTURALI

PERCHé NON POSSIAMO NON INSEGNARE LA STORIA

RAQQA

DA GEMMA DELL’ISLAM A ROCCAFORTE DELL’ISIS

www.archeo.it



editoriale

la lunga notte dell’oriente

I cristiani d’Oriente sono i custodi di tradizioni che affondano le loro radici nell’antichità. Nei deserti dell’Egitto e della Siria nacque il monachesimo; i cristiani d’Egitto, i Copti, fanno risalire il loro credo alla predicazione dell’apostolo Marco e, al contempo, si ritengono i veri eredi della civiltà faraonica. Ancora durante il dominio della dinastia dei Fatimidi – quattrocento anni dopo la conquista musulmana del Paese – metà della popolazione egiziana era cristiana. In Siria, nel villaggio di Maalula e in altre due località vicine nelle montagne dell’Antilibano, a poca distanza da Damasco, ancora oggi vivono comunità cristiane che parlano l’aramaico occidentale, un’evoluzione dell’aramaico parlato da Gesú, la lingua franca usata duemila anni fa, prima che venisse soppiantata dal greco. Da qualche anno, i cristiani di molti Paesi islamici sono vittime di violenze, omicidi e persecuzioni, e c’è chi paventa la loro scomparsa. Se in nazioni come l’Egitto la popolazione cristiana è talmente numerosa da rendere poco probabile uno scenario del genere, diversa è la situazione dei cristiani iracheni: i Caldei (o anche i Nestoriani, la cui dottrina della natura sia spirituale sia umana di Cristo si era diffusa fino alle terre dell’Asia centrale), sono tra le piú antiche comunità cristiane in Oriente, e il loro numero si è ridotto, nel corso degli ultimi decenni, a poche centinaia di migliaia di persone. Un quadro drammaticamente simile si è venuto a creare in questi mesi per i cristiani di Siria (circa il dieci per cento della popolazione totale), che rischiano di diventare vittime delle lotte interislamiche. Il rapporto tra cristianesimo e Islam nelle terre che per prime accolsero la predicazione di Gesú ha una storia antica quanto travagliata; la cui ombra, come possiamo verificare ascoltando le notizie o leggendo i quotidiani, si prolunga minacciosa fino ai giorni nostri. È una storia millenaria di sofferenze, distruzioni, ma anche di straordinarie rinascite. Ce ne parla, nello speciale di questo numero, la storica del cristianesimo Renata Salvarani, profonda conoscitrice dei luoghi santi e del complesso e variegato patrimonio liturgico cristiano vicino-orientale. Scopriremo, cosí, come la storia, pur non ripetendosi mai, spesso percorre vie alquanto simili. Andreas M. Steiner Il monastero greco-ortodosso di Mar Saba, fondato nel 439 nei pressi di Betlemme.


Sommario Editoriale

La lunga notte dell’Oriente 3 di Andreas M. Steiner

Attualità

la notizia del mese L’esplorazione del grandioso tumulo funerario di Anfipoli continua a svelare tesori davvero eccezionali

dalla stampa internazionale Un ricordo appassionato (e un po’ romanzesco) di Klaus Schmidt, lo scopritore di Göbekli Tepe 34

storia

Le Mille e una Notte di Raqqa di Marco Di Branco

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di Stefano Mammini

notiziario

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8

attualità

scavi Nella regione spagnola di Murcia tornano alla luce i resti di quello che si candida a essere il primo palazzo d’Europa 8

S.O.S. Storia

scavi

Kainua, «città nuova»

all’ombra del vesuvio Comincia con questo numero una nuova rubrica, che fa il punto sui progetti avviati per far tornare Pompei al suo splendore 12 aree archeologiche Riapre al pubblico il grandioso mausoleo voluto da Massenzio per il figlio Romolo 20

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di Fabrizio Polacco

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di Giuseppe Sassatelli, Elisabetta Govi e Paolo Baronio, con un contributo di Paola Desantis

mostre

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Gli Etruschi nell’aldilà 66 di Elisabetta Govi e Alfonsina Russo Tagliente In copertina Gerusalemme, Santo Sepolcro. Un frate francescano appartenente alla comunità a cui, dal 1342, è affidata la custodia dei Luoghi Santi.

Anno XXX, n. 11 (357) - novembre 2014 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 0069.6352 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo

Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Paolo Baronio è allievo della Scuola di Specializzazione in Archeologia. Stefania Berlioz è archeologa. Luciano Calenda è presidente del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Paola Desantis è direttore del Museo Nazionale Etrusco «Pompeo Aria» e dell’area archeologica di Marzabotto. Marco Di Branco è ricercatore di storia bizantina e islamica all’Istituto Storico Germanico di Roma. Cristina Ferrari è archeologa e giornalista. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Elisabetta Govi è professore in etruscologia e archeologia italica all’Università di Bologna. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Marco Meccarelli è storico dell’arte orientale. Fabrizio Polacco è coordinatore nazionale del «PRISMA». Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Alfonsina Russo Tagliente è soprintendente ai Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale. Renata Salvarani è ricercatore di storia del cristianesimo e delle chiese presso l’Università degli Studi Europea di Roma. Giuseppe Sassatelli è professore ordinario di etruscologia e archeologia italica all’Università di Bologna. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso Sapienza Università di Roma. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: Corbis Images: Lynn Johnson/National Geographic Society: copertina; Arctic-Images: pp. 44/45; Leemage: p. 46: Abedin Yaherkenareh/EPA: pp. 84/85; Pascal Deloche/ Godong: p. 91; Hanan Isachar/Demotix: p. 99 – Doc. red.: pp. 3, 12-16, 34-35, 38 (centro e destra), 40, 88-89, 92, 98, 104, 109, 110 (basso) – ANSA: p. 6, 7 (basso) – AP Photo/Hellenic Ministry of Culture and Sports: p. 7 (alto) – Cortesia Universitat Autònoma de Barcelona (UAB): p. 8 – Cortesia Soprintendenza dei Beni Culturali e Ambientali di Palermo: p. 9 – Cortesia Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma: p. 10 – Cortesia Deutsche Archäologische Institut, Berlino: p. 11 – Cortesia Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche: p. 18 – Cortesia Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali: p. 20 – Cortesia Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale: p. 22 – Getty Images: Chris Bradley: p. 36 – DeA Picture Library: pp. 43, 52, 76, 102;


civiltà cinese/5 La porcellana

Sublimi riflessi

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di Marco Meccarelli

72 antichi ieri e oggi

La grande abbuffata 104 di Romolo A. Staccioli

a volte ritornano Il «doppio gioco» di Erone

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di Flavio Russo

scavare il medioevo Il dente del santo

Rubriche

di Daniele Manacorda

84 speciale

l’altra faccia della medaglia

il mestiere dell’archeologo

Prima «fortunate» e poi dimenticate

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di Andrea Augenti

Un fiume di lacrime 110 100

di Francesca Ceci

libri

A. Dagli Orti: pp. 38 (sinistra), 47, 78, 82; G. Dagli Orti: pp. 50, 77; S. Vannini: p. 51; L. Pedicini: pp. 80/81; M. Borchi: pp. 86/87 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 39, 42; Electa/Sergio Anelli: p. 41: Electa/Mauro Magliani: p. 108 – Shutterstock: pp. 48-49, 93, 96/97 – Marka: Danilo Donadoni: pp. 54/55, 57 – Cortesia degli autori: pp. 56, 58-60, 61 (foto Iago Corazza), 62-75, 79, 80, 106 (alto), 107, 110 (alto), 111 – Foto Scala, Firenze: Fine Art Images/Heritage Images: p. 94; Art Media/Heritage Images: pp. 94/95 – AFP: p. 95 (alto) – Jacques Descloitres, MODIS Rapid Response Team, NASA/GSFC: pp. 100/101 – E. Lessing Archive/Magnum/Contrasto: p. 105 – Bridgeman Images: Hagley Museum & Library, Wilmington, Delaware, USA: p. 106 (basso) – Cippigraphix: cartine alle pp. 6, 37, 54, 88/89, 90/91. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Errata corrige con riferimento all’articolo Nella tana dell’orso (vedi «Archeo» n. 356, ottobre 2014) desideriamo precisare che le immagini accreditate come «Cortesia Jean Clottes: pp. 4243, 44», sono invece © Chauvet/Brunel/Hillaire. Dell’errore ci scusiamo con gli interessati e con i nostri lettori.

Editore: My Way Media S.r.l. Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Segreteria marketing e pubblicità: segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 00696.346 Direzione, sede legale e operativa: via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 00696.352

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Cristiani d’Oriente

Come fiori nel deserto

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di Renata Salvarani

Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1 Stampa: Amilcare Pizzi - Officine Grafiche Novara 1901 S.p.A., Cinisello Balsamo (MI) Abbonamenti: Direct Channel srl - Via Pindaro, 17, 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18 ] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: arretrati@mywaymedia.it Fax: 02 00696.369 Posta: My Way Media Srl via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano On-line: http://eshop.mywaymedia-store.it/ Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl – titolare del trattamento – al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.


la notizia del mese Stefano Mammini

un magnifico rapimento

È

difficile trovare un paragone calzante con la vicenda del tumulo monumentale di Anfipoli, non tanto per l’eccezionalità del contesto (che è comunque innegabile), quanto per i risvolti mediatici dell’evento. L’esplorazione del sepolcro continua infatti a essere sulle prime pagine della stampa internazionale, seguendo il flusso delle notizie che vengono diramate dagli archeologi impegnati nella ricerca. Né sono mancate le polemiche su questa erogazione «controllata», che sarebbe secondo alcuni dettata da volontà politiche e non dall’effettivo svolgersi delle operazioni: ne è convinta, per esempio, la redazione del periodico tedesco Spektrum, che

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in un recente articolo (http:// www.spektrum.de/news/eingrab-gegen-die-krise/1313792) ha perfino avanzato l’ipotesi che le clamorose novità vengano centellinate per tenere costantemente viva l’attenzione e generare un entusiasmo collettivo capace di scacciare i venti di crisi che scuotono l’attuale governo ellenico. Polemiche a parte, potremmo dire che quanto sta succedendo ad Anfipoli sembra evocare i tempi del celebre telegramma con cui Howard Carter annunciava a Lord Carnarvon la scoperta di «qualcosa di meraviglioso» nella Valle dei Re (che si rivelò poi essere la tomba di Tutankhamon, con il suo sfarzoso tesoro), in un’epoca in

Anfipoli

GRECIA

Mare Egeo

Atene

Mar Ionio

In alto: Anfipoli. Il grande mosaico policromo raffigurante il ratto di Persefone da parte di Ade, che la porta con sé su un carro trainato da due cavalli, preceduti dal dio Ermes. Fine del IV-inizi del III sec. a.C.


Qui accanto: disegno ricostruttivo della tomba corredato da un fotomosaico che riassume i principali ritrovamenti finora succedutisi. In basso: particolare dell’immagine di Ermes che compare nel mosaico con il ratto di Persefone. La scena si ispira, con ogni probabilità, a una raffigurazione avente il medesimo soggetto scoperta nel Grande Tumulo di Verghina.

Tutti i «tesori» di Anfipoli Il disegno ricostruttivo è corredato da un fotomosaico che riassume i principali ritrovamenti che si sono finora succeduti nel corso dello scavo della tomba di Anfipoli. Partendo dall’immagine posta in alto, a destra e scorrendo la sequenza in senso orario, si possono dunque riconoscere: la coppia di sfingi collocate al di sopra dell’ingresso alla stanza coperta da una volta a botte; alcuni particolari della facciata e i filari inferiori del

muro che sigillava l’ingresso; il mosaico pavimentale dell’anticamera; una lastra in pietra, lunga piú di 4 m, che conserva tracce di colore blu, rosso e oro ed è l’unica superstite di quelle che costituivano la copertura della prima camera; le cariatidi che ornavano l’accesso alla seconda camera; la parte superiore del muro, che presentava un foro nell’angolo di sinistra. Il disegno non comprende una terza camera, che è tuttora in corso di scavo.

cui la diffusione delle notizie non viaggiava certo ai ritmi del web. Ma proprio perché gli aggiornamenti si susseguono a ciclo continuo, torniamo a occuparci della tomba ad appena un mese dall’ultimo resoconto della nostra corrispondente dalla Grecia, Valentina Di Napoli (vedi «Archeo» n. 356, ottobre 2014): nel giro di poche settimane, il panorama si è ulteriormente arricchito e, fra le nuove acquisizioni, vi è quella di un magnifico mosaico pavimentale. La composizione, che occupa una superficie di 4,5 x 3 m circa raffigura il ratto di Persefone da

parte di Ade: il dio dell’oltretomba porta la giovane accanto a sé, su un carro, prima del quale si riconosce Ermes, che sembra fare da battistrada, correndo davanti alla pariglia aggiogata al veicolo. L’opera è di qualità eccezionale ed è stato ipotizzato che sia stata realizzata ispirandosi a una scena analoga, dipinta all’interno della cosiddetta «tomba di Persefone», scoperta nel Grande Tumulo di Verghina. Anche sulla scorta di questo confronto, il mosaico di Anfipoli dovrebbe essere databile tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C.

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n otiz iari o SCAVI Spagna

il primo palazzo d’europa?

I

mportanti novità sono state svelate dall’ultima campagna di scavo nel sito di La Almoloya (regione di Murcia, Spagna), condotta da ricercatori della Universitat Autònoma de Barcelona (UAB). Noto già dal secondo dopoguerra, l’abitato, databile all’età del Bronzo e ascrivibile alla cultura di El Argar (attestata tra il 1800 e il 1300 a.C. circa), è stato oggetto di ricerche approfondite, che hanno portato alla scoperta di numerose sepolture, con corredi funerari in ottimo stato di conservazione, e di un complesso urbanistico composto da vari edifici. Tra questi, spicca un vasto nucleo di stanze adiacenti, che è stato interpretato come una struttura palaziale, e, addirittura, si candida a essere il primo edificio dell’Europa occidentale espressamente dedicato a funzioni di governo. Il team guidato da Vincente Lull, Rafael Micò, Cristina Rihuete e Roberto Risch ha infatti identificato il fulcro di questo

insieme in una sala di circa 70 mq, in grado di contenere oltre 60 persone, allineate su sedili lungo le pareti. Secondo i ricercatori, in questo ambiente, che mostra anche tracce di una pedana e di un focolare cerimoniale, venivano

A sinistra: La Almoloya (Murcia, Spagna). L’interno della tomba principesca, contenente gli scheletri di un uomo e di una donna e il loro corredo funebre.

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In alto: La Almoloya (Murcia, Spagna). Veduta degli edifici principali. A sinistra: particolare di una sepoltura in cui si riconoscono, accanto al cranio, dischi dilatatori dei lobi auricolari in oro a argento. prese importanti decisioni politiche, destinate certamente a influire sulle sorti delle comunità stanziate nella zona. A fianco della grande sala è stata rinvenuta la piú significativa delle tombe scavate, occupata da un uomo e una donna sepolti con i corpi in posizione flessa, deposti con un corredo composto da una trentina di oggetti in argento e altri metalli e vasellame decorato. Intorno alla testa della defunta è stato ritrovato un diadema in argento di enorme valore, non solo economico, ma anche scientifico e culturale: infatti, a tutt’oggi, si conoscono solo quattro oggetti simili recuperati nell’area di El Algar nell’Ottocento, nessuno dei quali è oggi conservato in Spagna. Tra gli altri reperti, notevoli sono un piccolo bicchiere in terracotta con sottilissimi strati d’argento sul bordo e sull’esterno, e un punteruolo in argento e bronzo, inusuale per l’epoca, che ha stupito per la sua finissima fattura. Paolo Leonini


SCAVI Sicilia

storie di antichi latifondisti

S

i è conclusa la seconda campagna di scavo nel sito archeologico di Santa Marina, in contrada Pellizzara, nel Comune di Petralia Soprana (Palermo). Il contesto indagato è emerso a seguito di lavori agricoli realizzati nel secolo scorso dai proprietari del fondo, in occasione dei quali venne alla luce la porzione di un

portico colonnato: una struttura che, insieme ai reperti mobili, fece subito pensare a una villa rustica di età imperiale, forse impiantata già in età ellenistica e frequentata, quasi ininterrottamente, tra il III secolo a.C. e il V d.C. «Le indagini hanno portato alla scoperta di muri a secco – spiega Rosa Maria Cucco, archeologo dell’Unità Operativa 5 della Soprintendenza dei Beni Culturali e Ambientali di Palermo – realizzati con pietrame di varia pezzatura, e crolli di tegole: i muri delineano due vani rispettivamente a ovest e a sud dell’area porticata, che,

collocandosi a una quota superiore rispetto al piano di calpestio del portico, fanno ipotizzare un complesso disposto su terrazze, impostato secondo l’inclinazione del pendio. Nel terrazzo a est del

portico è stata rinvenuta una tomba a inumazione in fossa terragna, priva di oggetti di corredo, pertinente a una fase posteriore e a una mutata destinazione d’uso della villa di età imperiale». Che un settore della villa avesse potuto avere anche funzioni cimiteriali era già stato attestato, lo scorso anno, dal ritrovamento di un’altra sepoltura, che ospitava i resti di un individuo di sesso maschile di età compresa tra i 35 e i 45 anni, alto circa 1,66 m e di corporatura robusta, abituato al trasporto di oggetti molto pesanti.

Qui accanto: placchetta d’osso in forma di testa di sileno. A sinistra: un settore del cantiere di scavo della villa di Santa Marina (Petralia Soprana). Gli scavi del 2013 avevano anche rivelato strati di terreno con tracce di bruciato posteriori alla realizzazione della struttura, a testimonianza di come la distruzione dell’insediamento avvenne probabilmente in due fasi. Tra i reperti recuperati si segnalano un frammento di tegola con incisioni a caratteri greci, una testina decorativa di lucerna, ceramica sigillata di produzione italica e africana, vetri di età romana, ma anche frammenti ceramici di età medievale. Il prosieguo delle indagini nella villa rustica di Santa Marina potrà offrire utili informazioni per comprendere l’assetto di un insediamento connesso alla vita del latifondo in quest’area delle Madonie, cuore della Sicilia, importante zona di produzione cerealicola dall’età romana. Del resto, l’insediamento non è l’unico noto per l’età romana nel comprensorio madonita: non lontano, infatti, è quello di contrada Muratore (Castellana Sicula), probabile sede di un vicus (villaggio), inserito nel ricco contesto agricolo che contribuí all’approvvigionamento granario di Roma. Giampiero Galasso

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n otiz iario

SCoperte Roma

lavoro e preghiere

R

ecenti indagini condotte nell’area della Crypta Balbi (nel centro di Roma) hanno portato alla scoperta di una fullonica (un impianto adibito a lavanderia) e di un sacello dedicato a divinità greche e orientali. Questi risultati ampliano il percorso archeologico del quartiere antico addossato all’esedra della Crypta, nato nel II secolo d.C. e che mostra una fiorente attività fino ai primi anni del VII secolo. A differenza del basolato che caratterizza gli ambienti scavati in precedenza, la nuova area è pavimentata in opus spicatum. Il primo dei vani conserva i resti di una piccola fullonica, che dovette essere in uso nel corso del II secolo; l’impianto era costituito da vaschette in cocciopesto, con

In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto do dolorest lorest, ut exereca taspisci.

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all’interno un catino, e separate da muretti. Lungo uno dei lati delle vaschette è visibile un canale di cocciopesto per lo scolo dell’acqua. Altre due vasche, foderate anch’esse in cocciopesto e profonde circa 1 m, contenevano l’acqua per il lavaggio. Sopra l’ambiente della fullonica, una grande sala presenta un pavimento riscaldato con ipocausto di cui rimangono le suspensurae (i pilastrini che, sorreggendo il

In alto: cratere in ceramica invetriata. I- II sec. d.C. Qui accanto: torso in marmo, forse riferibile al mitico cacciatore Meleagro per la posa della mano portata sul retro. II sec. d.C. A sinistra: l’altare messo in luce all’interno del sacello. pavimento, creavano l’intercapedine in cui circolava l’aria calda, n.d.r.). Il secondo ambiente è identificabile con un sacello, in uso nel II-III secolo, dedicato a divinità di tradizione greca e orientale: Artemide, Meleagro, Afrodite di Afrodisia, Iside e Dioniso, di cui si sono ritrovate le immagini scultoree (di prossima esposizione nel Museo Nazionale Romano). Le statuette delle divinità erano poste su un altare-bancone strutturato ad arco con un piano laterizio; al di sotto, vi era una vaschetta foderata in cocciopesto e delimitata da un cordolo. Nella zona anteriore dell’area, nel pavimento, si legge l’impronta di un podio quadrangolare, forse in cocciopesto intonacato, con funzione di altare o per l’alloggiamento di un’ara. In una delle pareti era stata ricavata una nicchia per un’immagine di culto. Una volta caduti in disuso, entrambi gli ambienti recano tracce di frequentazione nel corso del V e del VI secolo. P. L.


SCoperte Cina

I pantaloni piú antichi del mondo

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i «cap» e giacche da concorso non c’era ancora traccia, ma i pantaloni da equitazione li avevano già. Se tremila anni fa fosse esistita una pubblicità di moda, forse avrebbe recitato: «Un capo innovativo, adatto all’uomo contemporaneo, dallo stile di vita sportivo e dinamico». Infatti, secondo quanto scoperto da un gruppo di ricercatori tedeschi guidati da Ulrike Beck, al lavoro nella Cina occidentale, quest’indumento, simile al nostro abbigliamento moderno, nasce proprio come vestiario per andare a cavallo. Il cimitero di Yanghai, vicino all’oasi di Turfan, ha restituito ampi frammenti di un paio di pantaloni in lana, che il radiocarbonio ha datato tra il XIII e il X secolo a.C. Sono realizzati in tre lembi di tessuto cuciti assieme: due, rettangolari, per le gambe, e uno a forma di croce per giungerli al cavallo, mentre in vita erano assicurati con un laccio. Si tratta dell’esemplare del genere piú antico mai rinvenuto: in precedenza ne era stato ritrovato un tipo simile sull’Uomo di Cherchen, scoperto nel 1978 nella stessa regione, ma di 400 anni piú recente. Gli archeologi ai quali si deve la scoperta hanno messo in relazione lo sviluppo dell’indumento con l’inizio degli spostamenti

A destra: i pantaloni rinvenuti, in eccezionale stato di conservazione, in una tomba a Yanghai, nei pressi dell’oasi di Turfan (Cina occidentale). Il prezioso reperto è stato datato con il 14C tra il XIII e il X sec. a.C. In basso: i resti di Jiaohe, nei pressi dell’oasi di Turfan, nelle cui vicinanze, all’interno della necropoli di Yanghai, è stata effettuata la scoperta.

dell’uomo a cavallo e con la diffusione della pastorizia nomade in questa parte dell’Eurasia. I pantaloni avrebbero avuto un’origine funzionale, per rendere piú confortevole la seduta durante la cavalcata. Gli scienziati hanno rilevato che le pezze non sono state

tagliate per modellarle sul corpo, ma sono state tessute a misura. Il filato che compone i tre lembi (sia ordito e trama, sia le cuciture), è congruente per colore e qualità, a suggerire che tra la figura del tessitore e quella del «sarto» c’era una stretta collaborazione, quando addirittura non coincidevano nella stessa persona. Nella tomba, sono stati rinvenuti anche altri oggetti di corredo, che identificano il defunto come un guerriero a cavallo: un morso, un frustino, una coda di cavallo e varie armi. L’eccezionale stato di conservazione del ritrovamento si deve al clima caldo e secco della regione dell’oasi, che ha preservato il tessuto, impedendone la decomposizione. P. L.

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ALL’OMBRA DEL VULCANO

pompei, si volta pagina da meno di un anno massimo osanna guida la soprintendenza a cui spettano la tutela e la valorizzazione della città vesuviana: con lui abbiamo tracciato un primo bilancio e, soprattutto, passato in rassegna le iniziative messe in cantiere

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ue milioni di metri cubi di strutture murarie antiche, 17mila mq di intonaci, 12mila mq di pavimenti, il tutto distribuito su una superficie di 44 ettari. Stiamo parlando di Pompei, uno dei piú vasti e celebri siti archeologici al mondo, oggetto, negli ultimi anni, di un’esposizione mediatica senza precedenti. Crolli, incuria, scandali, una gestione a singhiozzo: tutto ha contribuito a fare, di queste antiche rovine, una metafora del dissesto italiano. Ma, tra una polemica e l’altra, ora a Pompei si lavora, e finalmente con risultati positivi. Lo testimonia la recente riapertura al pubblico di dieci splendide domus che stanno incantando i visitatori di tutto il mondo. Degli interventi in corso e dei programmi futuri abbiamo parlato con il nuovo Soprintendente di Pompei, Massimo Osanna, studioso di fama internazionale (ha studiato, e poi insegnato, nelle piú prestigiose università e istituzioni italiane ed europee), ma, soprattutto, archeologo abituato a lavorare sul campo. E questo, a Pompei, sembra stia facendo la differenza. «Archeo» intende offrire il proprio tributo a Pompei, impegnandosi a istituire una sorta di osservatorio sul campo attraverso cui, mese per

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mese, tenere alta l’attenzione su quanto, alle pendici del Vesuvio, si sta facendo e con quali risultati. Soprintendente, ci faccia un bilancio dei suoi primi sei mesi «sul campo»: quali sono i principali problemi da lei riscontrati a Pompei, come li sta affrontando e con quali priorità? I problemi che affliggono Pompei sono numerosi, e non riguardano esclusivamente l’area archeologica ma anche la struttura amministrativa e tecnica. La SAPES (la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia, n.d.r.) eredita un personale entrato in servizio in gran parte negli anni Settanta, quando la realtà, anche a livello nazionale, era completamente diversa e diverse erano le politiche di gestione e di salvaguardia del patrimonio archeologico. Avvertiamo oggi la mancanza di tutta una serie di professionalità, sia a livello amministrativo che tecnico, indispensabili per far fronte alle impegnative sfide pompeiane. Molti uffici sono depotenziati e, soprattutto, mancano figure apicali, professionisti effettivamente qualificati, in grado di operare in maniera moderna e competitiva.

A giugno è stata firmata una convenzione con la società a partecipazione statale Ales per l’assunzione di 29 unità di personale, entrate in servizio il 6 ottobre, che andranno a coprire in parte le deficienze del comparto amministrativo e informatico: ci saranno legali con esperienza in diritto amministrativo e figure di supporto a tutti gli uffici in sofferenza. La carenza di personale altamente specializzato è ancora piú evidente sul versante tecnico-scientifico. Facciamo qualche esempio: esiste un ufficio tecnico, ma vi sono strutturati solo architetti. Mancano figure di ingegneri, dallo strutturista allo specialista in geodinamica: un’assurdità, se si pensa che uno dei problemi piú urgenti da affrontare a Pompei è quello del dissesto idrogeologico. Non avere professionisti interni in grado di valutare e monitorare in maniera diretta le strutture a rischio può creare seri problemi se non veri e propri disastri, come quello del crollo della schola armaturarum. Ancora, lamentiamo la mancanza un ingegnere


Nella pagina accanto, sopra il titolo: una veduta del Capitolium di Pompei; sotto il titolo: Massimo Osanna (al centro), nel corso dell’incontro presso la redazione di «Archeo». In basso: uno scorcio del Quadriportico dei Teatri: si tratta di una sorta di foyer, nel quale gli spettatori dei due vicini edifici per spettacoli potevano passeggiare negli intervalli o cercare riparo in caso di pioggia. idraulico, eppure quella dello smaltimento delle acque è una questione di primaria importanza per un sito archeologico visitato ogni giorno da migliaia di persone. Il governo è stato prontamente informato della situazione e nel D.L. n. 83 del 31 maggio 2014 il Ministro Dario Franceschini ha voluto inserire la creazione di una segreteria tecnica per la Soprintendenza di Pompei. È uscito proprio in questi giorni il bando; saranno assunti a tempo determinato 20 professionisti, soprattutto ingegneri e architetti. Questa squadra avrà il compito di affiancare la Soprintendenza per tutta la durata del Grande Progetto che, come noto, prevede massicci interventi finalizzati alla salvaguardia, alla tutela e alla valorizzazione di questo straordinario patrimonio archeologico. Entriamo nel merito della bellezza di Pompei. Quali sono le criticità dell’area archeologica? Cosa non è stato fatto in passato e quali, oggi, i possibili interventi? Pompei è un ecosistema estremamente complesso e delicato, la cui salvaguardia necessita di una progettazione a lungo termine e di una visione quanto piú ampia e multidisciplinare possibile, perché molteplici, ma strettamente connessi, sono i fronti di intervento. Purtroppo negli ultimi anni questa visione d’insieme è mancata, i problemi si sono accumulati e in qualche modo

incancreniti. Questo per diversi motivi, non ultimo quello della mancanza di una gestione continuativa nel tempo. Durante la gestione commissariale (2008-2010, n.d.r.), per esempio, i maggiori sforzi sono stati indirizzati verso la valorizzazione, come nel caso del restauro del Grande Teatro e dell’acquisto di tutte le infrastrutture e strumentazioni necessarie alla rappresentazione di spettacoli. È mancata, invece, la dovuta attenzione alla messa in sicurezza di tutte le aree scavate (e non mi riferisco solo a quelle aperte al pubblico) e alla creazione di un piano di manutenzione ordinaria. Non dobbiamo dimenticare che Pompei è una città di 44 ettari di rovine, molte delle quali a cielo aperto, quindi esposte a tute le intemperie. I piccoli crolli che si sono verificati negli ultimi anni non ci debbono stupire, sono fisiologici. Spesso hanno ceduto strutture già precarie al momento dello scavo e malamente rabberciate, per non parlare dei restauri moderni. A essere mancata

è, inoltre, una pianificazione degli interventi strutturali. Una delle principali cause dei grandi crolli degli ultimi anni ha un nome ben preciso: dissesto idrogeologico. Cerchiamo di spiegare di cosa si tratta. Le aree non scavate, costituite da depositi vulcanici, tendono a spingere sui fronti delle aree scavate. Nel caso di forti piogge le acque di falda salgono di quota e può capitare che intercettino le fondamenta delle strutture o superino la quota base delle aree scavate, indebolendone le resistenze meccaniche. Una situazione di grande rischio, che impone interventi strutturali di risoluzione a monte del problema. Proprio la mitigazione del dissesto idrogeologico è una delle maggiori sfide che si pone il Grande Progetto Pompei (vedi box a p. 15). Interverrete anche sul piano della fruizione del sito? Le questioni legate alla fruizione dell’area archeologica non sono assolutamente secondarie ai miei occhi. A Pompei arrivano ogni anno quasi tre milioni di visitatori e il

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trend è in continua ascesa: si stima, per il 2014, un incremento delle visite del 12 per cento. L’iniziativa «Domenica gratis al museo» (ingresso gratuito per tutti i visitatori ogni prima domenica del mese, n.d.r.), varata a luglio dal Ministro Franceschini, ha avuto un successo straordinario: il 7 settembre sono state contate 18mila presenze, una cifra record, anche per Pompei. Non possiamo rimanere indifferenti innanzi a questi numeri, né possiamo esimerci dal riflettere su come migliorare la qualità della visita, tenendo conto che il pubblico di Pompei non è solo enorme, ma anche assai diversificato per interessi e cultura. Ma qual è il modo piú giusto di intervenire? Entrano qui in gioco altre questioni, ben piú profonde, che hanno a che fare con la nostra percezione dell’antico e con l’immagine di Pompei che dobbiamo – e che è lecito – restituire al pubblico. Sono dell’opinione che Pompei non debba essere snaturata nella sua essenza. Il fascino di quest’antica città risiede tutto nelle sue rovine senza tempo, nella quiete delle sue mura domestiche, nel verde dei

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suoi giardini. È nostro dovere fare interventi non troppo invasivi che distolgano l’attenzione del visitatore dall’antico. Pensiamo per esempio al piú classico dei problemi: l’orientamento del visitatore all’interno dell’area archeologica. Gli interventi, nel passato, sono stati numerosi, dalle eleganti targhe in marmo con i nomi delle strade e degli edifici volute da Giuseppe Fiorelli (Direttore degli scavi di Pompei dal 1860 al 1875, n.d.r.), ai moderni totem posizionati in punti chiave dell’area archeologica. A tutti i visitatori viene inoltre offerta, gratuitamente, una piantina della città, ma per molti risulta difficile orientarsi. E cosí abbiamo deciso di inserire, nell’ambito del Grande Progetto, uno specifico bando per la progettazione di un nuovo e moderno sistema informativo. Un secondo problema con il quale ci stiamo confrontando è quello della diversificazione degli itinerari di visita. Ho notato che i grandi gruppi percorrono sempre lo stesso itinerario: entrano dall’ingresso di Porta Marina, visitano il santuario di Apollo, il

In alto: il giardino con peristilio della Casa degli Amorini dorati. Nella pagina accanto: affresco raffigurante un convito di etere, nella Casa dei Casti amanti. Foro, le Terme Stabiane, via dell’Abbondanza e le domus che su di essa si affacciano. In alcuni giorni questa strada diventa affollatissima, sino al completo intasamento. Eppure abbiamo recentemente riaperto al pubblico splendide case – come quella di Marco Lucrezio Frontone –, che si raggiungono lungo la parallela di via dell’Abbondanza, via di Nola. Qui i visitatori non arrivano, forse per mancanza di adeguate indicazioni o per la pigrizia di chi guida. Stiamo individuando percorsi alternativi, itinerari diversificati anche dal punto di vista tematico: la vita pubblica, gli spazi del sacro, la vita privata, i giardini (da integrare, questi ultimi, con la visita all’orto botanico). A questi itinerari tematici verranno agganciati piccoli poli museali destinati a esposizioni mirate, a partire dallo splendido laboratorio di scienze applicate, ospitato nella


vecchia direzione di Fiorelli, dove sono conservati i materiali organici. In cantiere è un percorso legato alle arti e ai mestieri. Una piccola anticipazione: i visitatori potranno passeggiare lungo la via dei profumieri (via degli Augustali), entrare nelle botteghe e carpire i segreti della creazione di un’essenza profumata. Sarà questo, tra l’altro, un modo coinvolgente di presentare al pubblico i risultati delle straordinarie ricerche effettuate dall’équipe coordinata dal Centre Jean Bérard di Napoli, istituzione impegnata da tempo in un importante progetto di ricerca sulle produzioni artigianali pompeiane. Infine, riserveremo una particolare attenzione ai calchi delle vittime dell’eruzione del Vesuvio, la testimonianza piú impressionante e commovente di quell’immane tragedia. Un richiamo fortissimo, non c’è turista che non chieda dove siano. Purtroppo sono attualmente conservati, in una situazione non ottimale, presso le Terme del Sarno e in varie domus pompeiane. Oltre al restauro e al protocollo di conservazione stiamo pensando a una nuova e piú consona collocazione.

Come si intende muovere sul piano della ricerca scientifica? In generale intendo rilanciare progetti di ampio respiro, coordinare le ricerche in modo da renderle omogenee – gli studi su Pompei si perdono in migliaia di rivoli – e informatizzare tutti i dati: la

creazione di un database completo è fondamentale, un insostituibile strumento di conoscenza e di lavoro. Sto inoltre cercando di intensificare le collaborazioni con università e istituzioni straniere: il confronto con metodologie e scuole di pensiero differenti è

il grande progetto pompei

Cinque «piani» nel segno della trasparenza

Il Grande Progetto Pompei è stato avviato nell’aprile del 2012. Giovanni Nistri (già alla guida del Comando TPC dei Carabinieri) è il direttore generale. Da record la cifra stanziata: 105 milioni di euro, di cui 78 a carico della comunità europea. Il progetto, finalizzato alla salvaguardia, alla tutela e alla valorizzazione dell’area archeologica di Pompei si articola in cinque piani esecutivi, tra loro connessi. Il «piano delle opere» comprende gli interventi diretti sul patrimonio archeologico (restauro, manutenzione e messa in sicurezza delle strutture e degli apparati decorativi in tutta l’area scavata) e gli interventi su criticità quali il dissesto idrogeologico, la messa in sicurezza dei fronti di scavo. Il «piano della conoscenza» prevede la programmazione di attività diagnostiche finalizzate al monitoraggio dello stato di conservazione delle strutture archeologiche; verrà sviluppato un sistema informativo, per archiviare tutti i dati, che rappresenterà la base della progettazione e della programmazione futura di tutti gli interventi di manutenzione.

Il «piano di capacity building» mira al potenziamento delle capacità operative e gestionali della Soprintendenza, attraverso l’acquisto di attrezzature e la formazione del personale per sviluppare nei tempi previsti il GPP; prevede inoltre il rafforzamento di personale e la redazione del Sistema Informatico che gestirà l’intero sito di Pompei. Il «piano della sicurezza» è finalizzato alla realizzazione di interventi mirati alla sicurezza del sito, dalla nuova recinzione all’illuminazione dell’area perimetrale degli scavi, al rafforzamento della videosorveglianza. Il «piano della fruizione e comunicazione» prevede infine la realizzazione di progetti finalizzati al miglioramento dell’offerta al pubblico, di mostre e convegni. Sono attualmente in corso, nell’ambito del piano delle opere, cantieri per circa 44 milioni di euro. La scadenza del Grande Progetto è fissata nel dicembre del 2015. Gli ultimi mesi di quest’anno sono quindi decisivi: se tutto procede senza intoppi, sarà possibile riuscire a rispettare le scadenze.

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Il termopolio di via dell’Abbondanza, nel quale si conserva il bancone con i dolia per le derrate alimentari.

sempre proficuo. Attualmente sono impegnate a Pompei decine di missioni straniere, in particolare tedesche, francesi, spagnole e statunitensi. Vorrei che aumentassero, mi piacerebbe rinnovare quell’apertura internazionale che ha caratterizzato gli anni dell’illuminata direzione di Pier Giovanni Guzzo (1995-2010, n.d.r.). Tra i progetti promossi dalla SAPES mi sta particolarmente a cuore quello sulla storia urbanistica di Pompei, dalla nascita della città, nel VI secolo a.C., sino all’eruzione del Vesuvio. Ho già coinvolto varie istituzioni tra cui l’Istituto Archeologico Germanico, l’Università Sapienza di Roma, l’Università di Napoli 2, il Politecnico di Bari. Il progetto prevede anche ricerche sul campo. Stiamo partendo con indagini non invasive realizzate con sofisticate strumentazioni che consentono di individuare strutture al di sotto dei depositi vulcanici. Sulla base dei risultati effettueremo saggi di scavo mirati, in profondità, nelle aree già indagate in passato. Tutte queste ricerche confluiranno in una grande mostra che, spero, sarà inaugurata entro il prossimo anno nella splendida cornice del Museo di Villa Giulia. Saranno

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esposte, tra l’altro, le straordinarie terracotte votive di fase sannitica (III-II secolo a.C.) rinvenute nel santuario di Apollo. Sono inedite: le abbiamo ritrovate nei depositi della Soprintendenza. Soprintendente, un flashback: il suo primo giorno a Pompei in qualità di soprintendente. Prime impressioni e primi provvedimenti... Nonostante la pubblicità negativa – per mesi Pompei è stata nelle prime pagine di tutti i giornali, nazionali e internazionali – la mia primissima sensazione è stata tutto sommato positiva, senza dubbio superiore alle aspettative. Accompagnato nella visita da Grete Stefani, direttrice dell’Ufficio Scavi di Pompei, ho trovato l’area archeologica pulita e ordinata. Solo in un secondo momento, approfondendo e ripetendo quotidianamente i sopralluoghi, ho cominciato a notare una diffusa mancanza di decoro. Via dell’Abbondanza era stata in parte transennata, nel clima di tensione seguito al crollo della schola armaturarum. Il mio disappunto non era, ovviamente, rivolto alla chiusura dell’area per motivi di sicurezza. A rendermi perplesso era il modo in cui era stata transennata, con transenne disordinate, poste al

centro della strada e dissuasori a bande rosse e bianche. Non si circondano monumenti antichi come fossero cantieri stradali! Sono andato in giro personalmente a togliere questi obbrobri e li ho fatti sostituire con nuovi dissuasori a corde. Con i giovani funzionari, un gruppo di 20 efficienti professionisti, tra architetti e archeologi, stiamo progettando sistemi di schermatura degli edifici temporaneamente chiusi, utilizzando per esempio foto storiche. Tra i primi provvedimenti: l’inserimento, nel sito della SAPES (www.pompeiisites.org), di un portale della trasparenza. Qui viene pubblicato, in tempo reale, tutto quello che stiamo facendo: i bandi di gara, chi li vince, lo stato di avanzamento dei lavori, quanto e come abbiamo speso. Come secondo atto ho firmato una convenzione per l’assunzione di 30 unità di personale destinato alla vigilanza del sito, che ci ha permesso di riaprire al pubblico ben dieci nuovi edifici all’interno dello scavo. Veri e propri gioielli come la Casa del Larario di Achille, la Casa di Marco Lucrezio Frontone, le Terme Stabiane. Sarebbe un delitto non venire a visitarle, ora che sono finalmente aperte. (a cura di Stefania Berlioz)



n otiz iario

SCAVI Marche

quando urbino era urvinum metaurense A sinistra: Urbino. I resti delle strutture scoperte nell’area del Giardino del Belvedere, che coincide con un settore dell’antica Urvinum Metaurense.

U

n intervento di archeologia preventiva condotto nel Giardino del Belvedere (ex convento di S. Chiara), nel centro antico di Urbino, hanno evidenziato una stratigrafia urbana complessa che testimonia una continuità di vita della zona a partire dall’età repubblicana. Le indagini sono state attuate nell’area di quello che doveva essere il nucleo abitativo della romana Urvinum Metaurense, interna sia alla cinta muraria del III-II secolo a.C., che al circuito murario di epoca medievalerinascimentale della città. «L’indagine archeologica – spiega Maria Gloria Cerquetti, funzionario Lacerto di mosaico policromo, con un motivo vegetale.

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archeologo responsabile di zona della Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche – ha portato alla luce un edificio di pregio realizzato su piani terrazzati, risalente alla fase romanorepubblicana, con conservate su tre lati, in alzato, le strutture murarie in pietra calcarea, mentre il lato verso valle presenta quattro pilastri e non una fondazione continua. All’interno, su una preparazione in cocciopesto, sono stati rinvenuti due lacerti di mosaico in corrispondenza delle paraste con tre tipi di cornici geometriche in bianco e nero e l’angolo di un tappeto con decorazione vegetale policroma, l’imposta di una scala

per salire al piano superiore, una soglia in pietra che permetteva l’accesso all’esterno (forse una terrazza). È stata inoltre accertata la presenza di un imponente opera muraria (spessore max 2,00 m), la cui fondazione risulta composta da blocchi in pietra di riutilizzo, legati con malta non molto tenace, recuperati probabilmente dalla cortina di età repubblicana (blocchi squadrati di travertino) e dal vicino edificio teatrale (mensole e pietre calcaree lavorate). Nella fase romano-imperiale parte dell’edificio, come si ricava sulla base di successivi rinvenimenti, viene ampliato e convertito, per prevalenti necessità, in struttura difensiva costituita da un torrione di forma quadrata e forse riferibile alla cinta aureliana o relativa al periodo goto-bizantino. Esternamente al perimetro del torrione si depositano strati di terreno con andamento solidale all’acclività della scarpata i quali, in epoca medievale, vengono parzialmente tagliati nel momento della creazione di una struttura per lo smaltimento delle acque. La struttura si appoggia alla parete esterna orientale del corpo di fabbrica ed è costituita da mattoni con spallette laterali e condotto voltato a perdere, a esclusione del piano inclinato dello scivolo che risulta realizzato da grandi lastre di pietra calcarea bianca e rosa. A valle rilevata la presenza di un ambiente risalente al periodo medievale, i cui muretti delimitano un’area rettangolare con un piano di calpestio ricavato incidendo direttamente il banco di arenaria sterile». G. G.


TURISMO Malta

dall’apostolo paolo ai cavalieri di san giovanni

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alta, gioiello del Mediterraneo ambito da molti popoli nel corso dei secoli: Fenici, Cartaginesi, Romani, Bizantini, Arabi, Normanni, Angioini, Aragonesi, Cavalieri di San Giovanni, Francesi e Inglesi. Tutti hanno lasciato una traccia della loro influenza, dando vita a un tessuto culturale ricco e variegato. La prosperità del periodo romano si riflette

nei resti della Domus Romana e nel suo fantastico mosaico. La splendida dimora, abitata almeno fino al III secolo d.C, ha restituito anche pregevoli statue conservate nel museo annesso. Le orme dell’apostolo Paolo, sbarcato a Malta nel 60 d.C. e fautore dell’evengelizzazione delle popolazioni locali, si possono ripercorrere visitando la Grotta di San Paolo a Rabat. Accanto sono situate le Catacombe di San Paolo risalenti al III e al IV secolo d.C. Sia la

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In alto: una veduta di Mdina, dominata dalla Cattedrale di S. Paolo A sinistra: Rabat. La Grotta di S. Paolo Qui sotto: Rabat. Le catacombe di S. Paolo (foto di Daniel Cilia). In basso: Valletta. Una veduta della città, con, in primo piano, il poderoso circuito murario.

Grotta che le Catacombe sono poste al di fuori delle mura di Mdina, l’antica capitale medievale. Anticamente chiamata Melita, da cui il nome dell’isola, oggi è soprannominata la «città del silenzio» e, con i suoi labirintici vicoli, rappresenta una splendida commistione di stili architettonici arabo-normanni. Mdina diviene «la città notabile» quando nel 1566 i Cavalieri di San Giovanni, dopo il grande assedio dei Turchi, iniziano a costruire Valletta: la barocca capitale, grazie alla ricchezza di opere d’arte e di edifici storici, è stata riconosciuta dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità.

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aree archeologiche Roma

sia lode al giovane romolo

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opo una chiusura imposta dalla necessità di condurre importanti interventi di restauro e protrattasi per oltre vent’anni, torna a offrirsi all’ammirazione del pubblico il grandioso mausoleo di Romolo, sulla via Appia Antica, situato all’interno del complesso della villa di Massenzio. Il monumento dinastico fa parte dei tre edifici che componevano la villa imperiale, assieme all’imponente circo e ai resti del palazzo imperiale. Fin dagli anni Sessanta del Novecento l’area è stata oggetto di scavi e restauri, che hanno portato all’apertura al pubblico del sito nel 1980. La struttura del mausoleo, a pianta circolare, è circondata da un imponente quadriportico che si apre direttamente sulla via Appia Antica: era destinata a contenere le spoglie dei membri della famiglia imperiale e quasi certamente fu il luogo di sepoltura del giovane figlio dell’imperatore Massenzio, Romolo, scomparso prematuramente nel 309 d.C., a soli 15 anni. La costruzione prevedeva due livelli, uno inferiore e seminterrato che possiamo

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Due immagini del grandioso mausoleo di Romolo, nell’area della villa di Massenzio, sulla via Appia Antica.

osservare oggi, adibito a cripta funeraria, e un secondo, superiore, che non fu mai realizzato. La cripta, priva di decorazioni, è a pianta circolare, con un imponente pilastro centrale intorno al quale si sviluppa un corridoio anulare. Nelle pareti si aprono le nicchie per la deposizione dei sarcofagi e un’apertura mette in comunicazione il corridoio con un ampio vestibolo quadrangolare, pensato probabilmente come collegamento verso il piano superiore. É oggi possibile accedere al monumento dall’ingresso originario, che affaccia sul prospetto dell’edificio opposto alla via Appia Antica, murato nei secoli passati e riaperto durante i restauri.

Per la visita al mausoleo non è necessaria la prenotazione; il sito è raggiungibile con il trasporto pubblico urbano dal centro di Roma, servendosi della linea 118, con partenza dalla fermata Circo Massimo, ogni 30 minuti. P. L.

Dove e quando Villa di Massenzio Roma, via Appia Antica 153 Orario ma-do, 10,00-16,00; 24 e 31 dicembre, 10,00-14,00; giorni di chiusura: lunedí, 25 dicembre, 1° gennaio, 1° maggio Info tel. 060608 (attivo tutti i giorni, 9,00-21,00); e-mail: info@ villadimassenzio.it; www.villadimassenzio.it



aree archeologiche Tarquinia

la tomba dei misteri

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ornata recentemente al centro dell’attenzione per la scoperta di alcuni graffiti che ne documentano il riuso da parte di un gruppo di cavalieri dell’Ordine del Tempio, la Tomba Bartoccini della necropoli tarquiniese dei Monterozzi è stata riaperta al pubblico. Il sepolcreto, dichiarato nel 2004 Patrimonio Mondiale dell’Umanità, si sviluppa su un’altura posta a sud del grande altopiano della Civita dove sorgeva la città etrusca di Tarquinia. Delle migliaia di tombe portate alla luce, circa 200 hanno restituito pitture che, con colori intensi, raccontano attraverso scene vivaci la vita degli Etruschi di Tarquinia, tra banchetti, danze, musica e giochi. Uno scenario che commuove lo spettatore contemporaneo, soprattutto per il contrasto tra la destinazione funeraria degli spazi e la vitalità

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delle immagini in essi rappresentate; l’estrema speranza di una immortalità fortemente agognata. La Tomba Bartoccini, che risale alla fine del VI secolo a.C., stupisce per la decorazione «ad arazzo» del soffitto e delle pareti della camera centrale che avvolge chi vi entra come in un morbido tessuto colorato e per la scena di banchetto resa miniaturisticamente. Nelle camere laterali la decorazione a scacchiera in bianco e rosso, i colori della divisa dei Cavalieri Templari, ha forse costituito il motivo della scelta proprio di questa tomba per i riti segreti di iniziazione dell’Ordine cavalleresco, attivo nel 1200, a distanza di quasi 700 anni dalla realizzazione della tomba da parte degli Etruschi. Le nuove modalità di fruizione del monumento permettono al

In alto: Tarquinia, necropoli dei Monterozzi. Le pitture che ornano una delle pareti della Tomba Bartoccini. Fine del VI sec. a.C. pubblico di rivivere atmosfere suggestive e misteriose, ma anche di conoscere, attraverso un filmato posto all’ingresso della sepoltura, il lavoro minuzioso dei restauratori che ha consentito di riportare alla luce i colori degli Etruschi e i graffiti dei Templari. (red.)

Dove e quando Necropoli dei Monterozzi Tarquinia, Strada provinciale Monterozzi Marina Orario ma-do, dalle 8,30 a un’ora prima del tramonto; chiuso lu, 25 dicembre e 1° gennaio Info tel. 0766 856308; www.cerveteri.beniculturali.it



n otiz iario

Luciano Calenda

archeofilatelia

cristiani d’oriente Lo Speciale di questo numero è dedicato alle molte testimonianze archeologiche delle comunità cristiane insediatesi nel Vicino Oriente fin dai primi secoli dopo Cristo (vedi alle pp. 84-99); molte di esse sono scomparse per il sopravvento dell’Islam ma qualcuna, o almeno i suoi resti, è giunta fino a noi. L’articolo è molto approfondito e la sola «chiave filatelica» possibile è la documentazione di alcuni dei luoghi citati dall’autrice, seguendone il medesimo ordine logico. Si comincia dai mosaici della chiesa di S. Giorgio a Madaba, nell’attuale Giordania: essi raffigurano, come si vede dai vari francobolli, la pianta di Gerusalemme (Israele, 1) la via dei pellegrini per giungere in Terra Santa (Giordania, 2) e ancora la pianta della città con i toponimi greci di circa 150 cittadine (Giordania, 3; si noti che i francobolli 2 e 3 sono ingranditi). Sull’ultimo sono evidenziati il Santo Sepolcro (anche Vaticano, 4) e mura e porte di Gerusalemme (anche Israele, 5). Poi viene citata la località siriana di Dura Europos, nella quale sono stati rinvenuti i resti di un mitreo, una 6 sinagoga con molti affreschi (Israele, 6) e altri locali per riti cristiani. Altri luoghi importanti per la storia del cristianesimo furono le città in cui si tennero famosi concili, come quello di Nicea convocato da Costantino (annullo italiano, 7), quello di Costantinopoli sotto Teodosio (Francia, 8: un 7 tratto delle antiche mura della città), quello di Efeso (Turchia, 9: la chiesa della Vergine) con Teodosio II e quello di Calcedonia (Vaticano, 10, XV centenario) con Marciano. Poi viene citato l’insediamento cristiano sull’isola di Failaka, oggi 9 Kuwait (Kuwait, 11, 12, 13). Ultima citazione è quella della località di Maalula (ricordata solo da un francobollo del Brasile per un gemellaggio turistico tra Rio de Janeiro e Maalula!, 14), tra le rocce a nord-est di Damasco. Naturalmente tra i luoghi che hanno fatto la storia e la leggenda della cristianità possono essere 14 documentati anche Betlemme (Vaticano, 15) e Nazareth (Israele, 16).

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

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Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17126 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it



calendario

Italia roma La biblioteca infinita

chieti Secoli augustei

I luoghi del sapere nel mondo antico Colosseo fino all’11.01.15 (prorogata)

Messaggi da Amiternum e dall’Abruzzo antico Palazzo de’ Mayo fino all’11.01.15

Le leggendarie tombe di Mawangdui Arte e vita nella Cina del II secolo a.C. Palazzo Venezia fino al 16.02.15

Le Chiavi di Roma La Città di Augusto Museo dei Fori Imperiali nei Mercati di Traiano fino al 12.04.15

Cividale del Friuli All’alba della storia

Qui sotto: replica di un elmo gladiatorio trovato a Pompei.

Artegna Il Castrum Artenia nel ducato longobardo di Forum Iulii

gambettola Dalla fattoria al Palazzone Storie di Gambettola Biblioteca Comunale fino al 03.05.15

Modena Mimmo Jodice. Arcipelago del mondo antico

Gladiatores e agone sportivo

Armi ed armature dell’impero romano Stadio di Domiziano fino al 30.03.15

Genti antiche dal territorio cividalese Museo Archeologico Nazionale fino al 24.05.15

Statua virile con testa ritratto, da Foruli.

Mostra fotografica Foro Boario fino all’11.01.15

montesarchio Rosso Immaginario

Castello Savorgnan fino al 13.11.14

Il racconto dei vasi di Caudium Museo Archeologico del Sannio Caudino fino al 31.01.15 (prorogata)

Bolzano Frozen stories

ravenna Imperiituro

bondeno (FE) Aquae

Sant’Agata Bolognese (BO) La villa nel pozzo

Reperti e storie dai ghiacciai alpini Museo Archeologico dell’Alto Adige fino al 22.02.15

Acque e bonifiche a Bondeno dal Neolitico ad oggi Centro Sociale 2000 fino al 31.05.15

Qui sopra: bronzetto da Costne (UD). III-II sec. a.C.

Renovatio Imperii. Ravenna nell’Europa Ottoniana Museo TAMO e Biblioteca Classense fino al 06.01.15

Un insediamento rustico romano a Sant’Agata Bolognese Sala «Nilla Pizzi» fino al 31.03.15

Qui sopra: il pozzo scoperto a Sant’Agata Bolognese.

udine Adriatico senza confini

Via di comunicazione e crocevia di popoli nel 6000 a.C. L’esposizione presenta le piú importanti acquisizioni scaturite dalle indagini condotte nell’Adriatico orientale da parte di Italia, Slovenia e Croazia. Il periodo trattato è marcato da cambiamenti economici cruciali, quali l’introduzione dell’agricoltura e dell’allevamento. L’uomo diviene un fattore ecologico determinante, capace di lasciare ovunque traccia del suo passaggio: i paesaggi naturali divengono lentamente spazi abitati e coltivati, le comunità umane si radicano nel territorio ed esprimono la loro identità culturale essenzialmente attraverso i materiali, in particolare nell’espressione decorativa dei manufatti ceramici.

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Dove e quando Udine, Castello fino al 22 febbraio 2015 Orario ma-do, 10,30-17,00 Info tel. 0432 271591; www.udinecultura.it


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Vallo della Lucania (SA) Cilento patrimonio dell’umanità

les-eyzies-de-tayac Grandi siti dell’arte maddaleniana

La Madeleine e Laugerie Basse15 000 anni fa Musée national de Préhistoire fino al 10.11.14

Dalla Preistoria al Risorgimento. Storia di una civiltà Fiere di Vallo, Località Pattano fino al 31.12.14

Saint-Germain-en-Laye La Grecia delle origini, tra sogno e archeologia Musée d’Archéologie nationale fino al 19.01.15

vetulonia, orvieto e grotte di castro Circoli di Pietra in Etruria

Una forma peculiare di sepoltura dell’Italia centrale tra il Bronzo Finale e la prima età del Ferro Vetulonia, Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» Orvieto, Museo Archeologico Nazionale Grotte di Castro, Museo Civico Archeologico «Civita» fino all’11.01.15

villanova di castenaso Giovanni Gozzadini e la scoperta del villanoviano MUV-Museo della civiltà Villanoviana fino al 02.06.15

Belgio bruxelles Principi immortali

Fasti dell’aristocrazia etrusca a Vulci Musée du Cinquantenaire fino all’11.01.15

Protome di calderone in bronzo di produzione orientale.

Germania berlino I Vichinghi

Martin Gropius Bau fino al 04.01.15

Völklingen Egitto. Dèi, uomini e Faraoni Tesori del Museo Egizio di Torino Völklingen Ironworks fino al 22.02.15

Gran Bretagna Londra Antiche vite, nuove scoperte Otto mummie dall’Egitto e dal Sudan The British Museum fino al 19.04.15 (prorogata)

Paesi Bassi

Lascaux

leida Cartagine

Ename L’eredità di Carlo Magno

Svizzera

Musée du Cinquantenaire fino al 15.03.15 (dal 14.11.14)

Provinciaal Erfgoedcentrum fino al 30.11.14

Francia parigi Splendori degli Han

La fioritura del Celeste Impero Musée national des arts asiatiques-Guimet fino al 01.03.15

I Maya

Rivelazioni su un tempo senza fine Musée du quai Branly fino all’08.02.15

Qui sotto: maschera funeraria moche, da Huaca de la Luna. VI-VII sec. d.C. In basso: avorio neo-assiro in forma di sfinge, da Nimrud. IX-VIII sec. a.C.

Rijksmuseum van Oudheden fino al 10.05.15 (dal 27.11.14)

ginevra I sovrani moche Divinità e potere nell’antico Perú Museo Etnografico fino al 03.05.15

USA new york Dall’Assiria all’Iberia all’alba dell’età classica The Metropolitan Museum of Art fino al 04.01.15

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l’archeologia nella stampa internazionale Andreas M. Steiner

L

a scorsa estate è morto, durante un bagno nel Mar Baltico, l’archeologo preistorico tedesco Klaus Schmidt. Aveva 61 anni. La sua figura di studioso è legata al rinvenimento e allo scavo del complesso monumentale di Göbekli Tepe, la piú importante scoperta archeologica del nostro secolo. Ecco come rievoca, con toni forse eccessivamente immaginifici, pur tuttavia suggestivi, la straordinaria vicenda il giornalista Ertugrul Özkök, per molti anni direttore del quotidiano turco Hürriyet.

QUEL MISTERO SOTTO L’ALBERO DI GELSO «Tutto iniziò nel 1963, quando una delegazione di archeologi delle università di Chicago e di Istanbul si recò su una collina distante 10 km dalla città di Sanliurfa. Sulla cima gli studiosi notarono la singolare presenza di un albero, un gelso, la cui sagoma si stagliava solitaria sullo sfondo delle brulle colline. I locali lo chiamavano “albero dei desideri”: sin da tempi immemori la gente vi si reca in pellegrinaggio, per implorare l’intervento del gelso, cui si attribuiscono poteri magici. Mentre gli archeologi esaminavano l’albero, uno di loro notò una collinetta a poca distanza, la cui superficie mostrava una composizione del suolo diversa da quella del terreno circostante. Furono effettuati dei piccoli sondaggi e dalla terra emersero alcuni frammenti di pietre calcaree lavorate.

A destra: le colline nei pressi di Sanliurfa, Turchia sud-orientale. Qui sotto: l’archeologo Klaus Schmidt (1953-2014). In basso, a sinistra: le stele di Göbekli Tepe, sottostanti l’albero di gelso.

Poco dopo, gli archeologi tornarono a Chicago e nel loro rapporto di scavo annotarono che la collina non nascondeva nulla di particolare: le pietre, affermavano, appartenevano verosimilmente alle tombe di un avamposto bizantino. Per loro il caso era chiuso. Insomma, il gelso aveva lanciato un suo primo segnale che, però, non fu recepito». Il racconto di Özkök prosegue con un episodio verificatosi 25 anni piú tardi: nel 1988, un contadino che viveva nelle immediate vicinanze dell’albero di gelso, trovò una coppia di oggetti in pietra scolpita. Dopo un consulto familiare decise di portare i misteriosi oggetti al museo della città di Sanliurfa (l’antica Edessa). Dopo un lungo e faticoso viaggio presenta le due pietre al direttore. Il quale, però, non le attribuisce alcuna importanza: «Non servono a niente –gli dice- se li porti via». E il contadino gli risponde, irritato: «Cosa me ne faccio? Tenetele voi!». Cosí, il direttore prende le due sculture e le rinchiude nei magazzini del museo. Anche questa volta, il segnale lanciato dal miracoloso albero non era stato colto.

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Passano altri sei anni prima che qualcuno rivolga nuovamente l’attenzione alla collina nei pressi del gelso e alle due statue nascoste nel museo. È lo studioso tedesco Klaus Schmidt, dell’Istituto Archeologico Germanico di Berlino. Nel 1994, dopo aver letto il rapporto dei colleghi americani, il 41enne archeologo decide di andare e verificare di persona: conosce abbastanza bene l’area in questione e ritiene del tutto improbabile che quelle pietre siano di epoca bizantina. Deve esserci qualcos’altro, qualcosa di importante, di molto importante. L’antico messaggio del gelso aveva, finalmente, raggiunto il suo destinatario! La straordinaria vicenda della scoperta dei templi neolitici di Göbekli Tepe (la «collina a forma di pancia»), iniziata nel 1995, è nota ai nostri lettori (vedi «Archeo» n. 279, maggio 2008, anche on line su www.archeo.it). Meno conosciuti sono, invece, i due rinvenimenti del 2010 che, in un caso, ebbero per Klaus Schmidt un risvolto spiacevole. Ecco come li ricorda il Ertugrul Özkök: «Alla vista della pietra incisa appena venuta alla luce, Schmidt ebbe un sussulto: questa volta gli ignoti artisti non avevano raffigurato animali, bensí

una donna, una donna nuda. La parte superiore della stele assomigliava alla testa di un leone, al centro era la figura della donna, in basso la raffigurazione di un bebè. Tutt’intorno le spire di un serpente! Per Schmidt, questi elementi confluirono fondendosi con quelli della sua memoria cristiana: c’era una donna nuda, forse la prima donna, c’era il serpente, e c’era l’albero, l’albero sotto il quale giacevano le vestigia del piú antico, forse del primo santuario dell’umanità. E se il frutto consumato da quella donna nuda raffigurata sulla stele non era la mela del paradiso, ma la nera mora del gelso?» Sempre nel 2010, un’altra stele stava per emergere dagli scavi sotto il gelso di Göbekli Tepe: quando gli archeologi interruppero il lavoro, a tarda sera, la stele era stata portata alla luce per metà. La mattina dopo, un’assistente di scavo bussò alla porta di Schmidt allarmato: la stele era scomparsa, evidentemente trafugata da scavatori clandestini. Sebbene tutti sapessero che l’archeologo tedesco non aveva alcun ruolo nella faccenda, Schmidt venne fatto oggetto di sospetti e accuse. In seguito, la questione si appianò. La stele, però, non venne mai piú ritrovata.

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storia • raqqa

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Raqqa (Siria). La Porta di Baghdad, nell’angolo sud-est della città, ornata con un magnifico fregio in mattoni.


Le Mille e una Notte di Raqqa Quale sarà il destino riservato a questa gemma dell’Islam? Costruita sulle rive dell’Eufrate, nel luogo in cui era sorto un antico centro fondato, pare, dallo stesso Alessandro Magno, fu una delle più ricche e raffinate capitali del mondo islamico. Oggi, proprio per la sua storia gloriosa e per il suo forte richiamo simbolico (nel 796 divenne residenza del celebre califfo Harun al-Rashid) la siriana Raqqa è scelta dallo «Stato Islamico dell’Iraq e del Levante» come base di partenza da cui riorganizzare l’assetto politico e culturale della regione... di Marco Di Branco

I

l cosiddetto Stato Islamico rapito il gesuita Paolo Dall’Oglio, bisognose e il rigido controllo sui dell’Iraq e del Levante, triste- noto per aver rifondato in Siria la costi dei beni primari. mente noto al grande pubblico comunità di Mar Musa, erede di Ma uno degli elementi piú curiosi con l’acronimo di ISIS, controlla un’antica tradizione monastica; ve- che emergono dall’inchiesta è il ormai da tempo l’importante città di, in questo numero, lo Speciale alle pp. richiamo in città di funzionari, posiriana di Raqqa (sul Medio Eufra- 84-99); dall’altro, la capacità dei litici ed economisti di fede musulmana provenienti da tutto il te), che ne è divenuta una delmondo islamico, allo scopo di le capitali. Una inchiesta pubTu r c h i a al-Qamishli riorganizzare in senso fondablicata dal quotidiano britanTig ri mentalista l’assetto della regionico Independent (www.indeAleppo Harim ne. È questa una consuetudine pendent.co.uk/news/world/ Raqqa Saraya Euf Marqadah rate che si rifà esplicitamente alla middle-east/life-under-isisDeir-ez-Zor tradizione in uso nelle grandi Baniyas for-residents-of-raqqa-is-thisHamah S i r i a al-Mayadin compagini islamiche del passareally-a-caliphate-worse-thanHoms Tartus Euf rate Tadmur to: dalla Baghdad degli Abbasideath-9715799.html) ha messo Iraq di alla Samarcanda di Tamerlain luce, da un lato, la brutalità Libano Duma no, era ben radicato l’uso di dell’occupazione, con il taglio Damasco N convocare a corte i migliori delle comunicazioni fra Raqqa Des er to Sir iac o intellettuali della comunità e il resto del mondo, l’applica- Israele Dar’a 0 160 Km Giordania musulmana, invitati a mettere zione della legge islamica, la le proprie competenze al serviproibizione assoluta degli alcolici, la chiusura obbligata dei nego- membri dell’ISIS di guadagnarsi il zio dei sovrani. zi negli orari della preghiera e la consenso della popolazione locale D’altra parte, Raqqa non è stata cacciata, il rapimento o l’uccisione attraverso il ripristino dei servizi di scelta a caso dalle truppe dell’ISIS. dei dissidenti e degli «infedeli» prima necessità, un reddito di sus- La sua storia affascinante, infatti, si (nella zona di Raqqa sarebbe stato sistenza garantito alle famiglie piú ricollega in maniera diretta al pea r c h e o 37


storia • raqqa

riodo aureo del califfato islamico. Ed è proprio questa storia che vorremmo ora raccontare, convinti che, oggi piú che mai, la conoscenza del passato costituisca l’unica vera chiave per comprendere il presente di questa travagliatissima area del Medio Oriente. Secondo Plinio il Vecchio, la città fu fondata da Alessandro Magno (su un insediamento preesistente forse

da indentificare con il centro babilonese di Tuttul), mentre per lo storico Appiano di Alessandria il suo fondatore sarebbe stato Seleuco I.

il doppio nome Nota inizialmente come Nicephorium, fu poi chiamata anche con il nome di Callinicum, forse in onore del sovrano ellenistico Seleuco II Callinico (246-226 a.C.) o di un

omonimo sofista dell’epoca dell’imperatore Gallieno. Dopo la costituzione del regno partico, Nicephorium/Callinicum ne venne a farne parte. Non molto a Nord della città era Carrhae, l’odierna Harran, teatro della celebre battaglia che fece registrare una delle piú terribili sconfitte delle armate romane e la morte di Marco Licinio Crasso. Con l’avanzata romana verso orien-

Fondatori e ri-fondatori Da sinistra: testa in bronzo dorato di Alessandro Magno (II sec. a.C.; Roma, Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci»); busto in marmo dell’imperatore bizantino Leone I (V sec. d.C.; Parigi, Museo del Louvre) che ricostruí e fortificò Raqqa, ribattezzata in suo onore Leontopoli; ritratto di Seleuco I Nicatore, re di Siria, al quale lo storico Appiano di Alessandria attribuí la fondazione della città (I-II sec. d.C.; Parigi, Museo del Louvre).

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te, iniziata dai Flavi e portata alla sua massima espansione da Traiano, Nicephorium/Callinicum entrò a far parte dell’impero, ospitando probabilmente unità scelte di limitanei, truppe armate alla leggera il cui compito era quello di sorvegliare i confini, mentre alcuni chilometri piú a ovest, a Sura, si trovava il campo della legione XVI Flavia Firma, posta a guardia dell’Eufrate. Tra il III e il VI secolo d.C., la città fu al centro di una continua contesa fra i Persiani e i Romani prima e i Bizantini poi. Presso di essa, nel 297 d.C., il re sasanide Narsete sconfisse l’imperatore Galerio Massimiano. Un’immagine emblematica delle sconfitte epocali inflitte ai Romani dai Sasanidi può vedersi ancora oggi nel cuore della Persia, non lontano da Persepoli: nel celebre sito di Naqsh-i-Rustam, presso le tombe degli Achemenidi, alcuni bassorilievi sasanidi rappresentano infatti gli imperatori romani sconfitti, nell’atto di sottomettersi al sovrano persiano.

le mura di leone I Nel V secolo d.C., Nicephorium/Callinicum fu ricostruita da Leone I (457-474 d.C.), che la dotò di imponenti fortificazioni, tanto che, in suo onore, la città fu per un breve periodo ribattezzata Leontopoli. Altre fortificazioni vi aggiunse poi Giustiniano, ma il suo generale più famoso, Belisario, venne sconfitto nei pressi della città nel 531 d.C. nel corso del conflitto con il re sasanide Kavadh, e, nove anni dopo, essa fu conquistata e distrutta da Cosroe I (540 d.C.). Le truppe musulmane lanciate alla conquista della Siria e dell’Iraq conquistarono Nicephorium/Callinicum nel 639/40, sotto la guida del generale Iyad bin Ghanm, che divenne il primo governatore della regione denominata al-Jazira (nel Nord-Est della Siria attuale). Da allora in poi, la città, che si trasformò rapidamente

A destra: frammento di lastra decorata a rilievo con tralci di vite, dal Palazzo B di Raqqa. Primo trentennio del IX sec. d.C. In basso: capitello islamico con motivi a foglia, da Raqqa. 800 d.C. circa.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

in un centro urbano islamico, dotato di una grande moschea congregazionale, fu chiamata Raqqa. Per tutto il periodo del califfato umayyade (661-750) essa mantenne il suo ruolo di guarnigione militare, ma il a r c h e o 39


storia • raqqa

Raqqa e la sua «compagna»

periodo della sua maggiore fioritura ha inizio con la fondazione del califfato abbaside, quando accanto a Raqqa, per ordine del secondo califfo di questa dinastia, al-Mansur (754-775 d.C.), viene costruita una città totalmente nuova chiamata alRafiqa, cioè «la Compagna» (di Raqqa), ispirata, dal punto di vista urbanistico, al modello di Baghdad e protetta da una cinta muraria di 5000 m con 132 torri, un fossato e un vallo esterno.

a ferro di cavallo Originariamente, si accedeva alla città, dalla pianta a ferro di cavallo, da tre grandi porte metalliche disposte in asse con le principali vie di comunicazione, la cui imponenza e bellezza furono celebrate da molti autori arabi. Uno dei monumenti piú importanti di al-Rafiqa era la grande moschea costruita in mattoni crudi, rivestita in mattoni cotti e circondata da torri rotonde e con il tetto sostenuto da arcate poggianti su pilastri: una tipologia

palazzo di harun al-rashid

porta nord mura

porta occidentale

edificio di età romano-bizantina

mura

al-Rafiqa kallinikos

cittadella ayyubide

Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis

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porta di baghdad


In alto: Harun al-Rashid nella sua tenda con i sapienti d’Oriente, olio su tela di Gaspare Landi. 1813. Napoli, Museo di Capodimonte. Nella pagina accanto, in alto: planimetria dell’antico agglomerato urbano di Raqqa. Nella pagina accanto, in basso: un tratto della cinta muraria della città abbaside, in mattoni crudi e cotti.

architettonica del tutto nuova, che serví da modello per le piú tarde moschee del Venerdí di Baghdad e di Samarra. L’insieme costituito dalle due città «compagne» di Raqqa e Rafiqa formava il piú grande agglomerato urbano della Siria e della Mesopotamia settentrionale, forse superato dalla sola Baghdad, nella Mesopotamia centrale. Fu dunque assolutamente logica la scelta di Harun alRashid, il celebre califfo delle Mille e una Notte (vedi box in questa pagina), che, nel 796, decise di spostare la sua residenza a Raqqa, rimanendovi fino all’808. Durante il perio-

do della sua permanenza in città, il califfo rafforzò le mura e fece costruire un grande quartiere palatino a nord di Raqqa e Rafiqa. Questa magnifica residenza, che si estendeva su un’area di quasi 10 kmq, includeva edifici riservati alla famiglia di Harun («Il palazzo della pace», Qasr al-Salam), dove vivevano sua moglie Zubayada con i suoi figli al-Amin, al-Ma’mun e al-Qasim, e una guarnigione, e fu continuamente abbellita e ingrandita nel corso di piú di un decennio di lavori. Per portare acqua al palazzo, furono costruiti due canali che attingevano rispettivamente al vicino Eufrate e alle lontane montagne del Nord dell’Anatolia.

Capitale del califfato In questo periodo, Raqqa/Rafiqa divenne l’autentico centro politico e militare del califfato abbaside: di qui si lanciavano campagne contro l’impero bizantino; di qui partivano verso Mecca le grandi carovane del pellegrinaggio. Presso la città sorgo-

la «dolce vita» di harun al-rashid Harun al-Rashid (786-809), figlio del califfo Muhammad ibn ‘Abd Allah, detto al-Mahdi, fu uno dei piú celebri sovrani islamici. Il suo regno fu prospero, sia in campo culturale sia in quello politico e diplomatico. La sua figura e la sua corte sono state soggetto di molti aneddoti: la famosa silloge favolistica delle Mille e una Notte contiene molte storie ispirate al mito della «dolce vita» di Harun. Tra gli episodi piú celebri del suo califfato si annoverano le missioni diplomatiche che, tra il 797 e l’807, scambiò con Carlo Magno. Accompagnate da scambi di doni esotici (all’imperatore franco fu inviato perfino un elefante) le ambascerie misero in contatto due civiltà, l’occidentale cristiana e l’orientale musulmana, che circa tre secoli piú tardi entrarono in conflitto cruento con la prima crociata.

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storia • raqqa

no ancora oggi le imponenti rovine di un monumento che celebrava le vittorie del califfo, probabilmente costruito con le spoglie delle chiese della regione, distrutte per ordine di Harun nell’806/7 d.C. e che, per la sua morte improvvisa, avvenuta nell’808, rimase incompiuto. Fuori dalla città si trovavano anche molti laboratori artigianali, che producevano una caratteristica ceramica e vetri pregiati, decorati a rilievo o con la tecnica del lustro. La morte di Harun al-Rashid fu un colpo durissimo per la sua nuova capitale: nell’809, a meno di un anno dalla scomparsa del califfo, sua moglie Zubayada organizzò il trasferimento del grande tesoro degli Abbasidi a Baghdad, dove suo figlio al-Amin fu proclamato califfo. Quando quest’ultimo entrò in conflitto con suo fratello al-Ma’mun, che conquistò Baghdad nell’813, a Raqqa/Rafiqa scoppiò una rivolta che causò la distruzione del grande mercato collocato nell’area di confine fra le due città gemelle. Per controllare la situazione, alMa’mun, che nel frattempo aveva assunto il potere, inviò a Raqqa il generale Tahir bin al-Husayn in qualità di governatore della regione di al-Jazira, carica che fu trasmessa anche ai suoi discendenti.

il declino... In questo periodo, ha inizio un rapidissimo declino delle strutture cittadine, interrotto solo da una breve ripresa nell’epoca del califfo al-Mu‘tasim, in connessione con l’ultima grande spedizione militare partita da Raqqa contro l’impero bizantino, che condusse, nell’838, alla conquista della famosa cittadella di Amorio, importantissimo snodo strategico e commerciale. Sotto alMu‘tasim si procedette infatti alla 42 a r c h e o

costruzione di nuove strutture nel suburbio che divideva le due città e la grande moschea di Rafiqa fu arricchita di nuove decorazioni in stucco. Tuttavia, il numero di abitanti diminuí radicalmente e l’area urbana effettivamente occupata si ridusse in maniera drastica. Da allora, come riferiscono gli storici arabi, Raqqa/Rafiqa divenne una sede privilegiata per sovrani caduti in disgrazia o esiliati.

...e la rinascita Il declino della città si accentuò considerevolmente tra il X e l’XI secolo, quando l’impero abbaside entrò in una crisi irreversibile, ma nel 1135 Raqqa fu conquistata da Imad al-Din Zangi, fondatore di una grande dinastia che ebbe come capitali prima Mosul e poi

Damasco. Suo figlio, il celebre Nur al-Din (che le fonti medievali occidentali chiamano «Norandino»), si impegnò a fondo per riportare la città alla sua passata grandezza, ricostruendo alcuni palazzi, restaurando la grande moschea, che venne dotata di un grande minareto cilindrico, e facendo edificare ex novo un ospedale e alcune scuole coraniche. Tuttavia, ora la città occupava solo la metà orientale della città abbaside. A essa si accedeva attraverso la Porta di Baghdad, ornata da una decorazione di mattoni tanto semplice quanto splendida. Dopo aver accolto Alessandro Magno e Harun al-Rashid, nel 1182, Raqqa ricevette la visita di un altro celebre sovrano, Salah al-Din alAyyubi, meglio noto come Saladino. In quell’anno, infatti, la città passo sotto il controllo degli Ayyubidi, la dinastia fondata da Saladino. Anche in questo caso, fu il figlio di saladino, al-Malik al-’Adil, a dotare la città di nuovi edifici: le fonti ricordano in particolare la costruzione di palazzi, bagni e giardini. Sotto gli Ayyubidi, Raqqa divenne famosa per la sua produzione di ceramica invetriata, di straordinaria perfezione tecnica e artistica, che fu esportata in tutto il mondo islamico e anche fuori dai suoi confini. Le officine degli artigiani, che sono state ritrovate dagli archeologi negli anni Venti del XX secolo, erano poste nelle immediate vicinanze della città, a sud della grande moschea e presso il tratto orientale delle mura.

mongoli e circassi Dopo la caduta degli Ayyubidi, avvenuta alla metà del XIII secolo, nel 1259, Raqqa subí l’invasione mongola, in seguito alla quale venne totalmente abbandonata, per essere


Nel blu dipinto di blu: la ceramica di Raqqa Nel centro di Raqqa sono stati rinvenuti numerosi frammenti ceramici e scarti di fornace, nonché oggetti interi, frutto di scavi clandestini iniziati già all’inizio del XX secolo. Si tratta in gran parte di ceramica prodotta nell’epoca ayyubide (XII-XIII secolo) e caratterizzata da un’invetriatura monocroma blu/turchese che in

alcuni casi si sovrappone a elementi decorativi dipinti in nero. Un’altra produzione tipica di Raqqa è il lustro, di un bel colore marrone che spicca sull’invetriatura alcalina, spesso con l’aggiunta di blu cobalto. Le forme maggiormente in uso sono coppe su piede e bicchieri, mentre la decorazione utilizza largamente il

repertorio calligrafico (in caratteri cufici o corsivi), la fauna (pavoni, uccelli, pesci, lepri e pantere), la flora e disegni geometrici radiali, caratterizzati da un’eccezionale raffinatezza compositiva. Le fornaci di Raqqa adibite alla produzione della ceramica furono completamente distrutte nel sacco mongolo del 1259.

città abbaside, conservata per circa due terzi. Le mura avevano originariamente un doppio spessore ed erano rinforzate ogni 35 m da un centinaio di torri rotonde.All’angolo Sud-Est della fortificazione si eleva la Porta di Baghdad, che, secondo gli studiosi, risalirebbe alla metà del XII secolo, decorata da un fregio di mattoni in stile tipicamente mesopotamico. Al centro dell’area racchiusa dalle mura si eleva la grande moschea, di

cui oggi resta solo l’alto minareto e una parte del colonnato della corte centrale. C’è solo da sperare che i fantomatici leader dell’ISIS rispettino questo straordinario complesso archeologico. Anche se la distruzione della moschea di Giona a Mosul e di altri edifici religiosi considerati «eretici» da parte di milizie dello Stato Islamico dimostra che anche i monumenti della gloriosa tradizione musulmana non possono considerarsi al sicuro.

Sulle due pagine: esempi di ceramiche prodotte a Raqqa. A destra: coppa invetriata monocroma blu-turchese con l’immagine di un pavone. XII sec. Washington, Freer Gallery of art Smithsonian Institution. Nella pagina accanto: vaso decorato a rilievo. XII-XIII sec. Sèvres, Musée National de la Céramique.

riportata in vita, come avamposto militare, solo all’inizio dell’epoca ottomana. Il sito tornò a essere popolato solo alla fine del XIX secolo, quando il governo turco vi insediò un gruppo di Circassi per controllare la regione. Da allora, anche grazie all’intenso sfruttamento agricolo dell’area, l’insediamento non ha mai cessato di ampliarsi e svilupparsi, divenendo capitale di provincia e attivissimo centro agricolo e industriale.

l’ora dell’archeologia L’antica e favolosa storia di Raqqa capitale imperiale, però, non è mai stata dimenticata, come testimoniano anche le recenti vicende. I primi scavi archeologici nel centro urbano medievale risalgono al 1944. Successivamente sono state condotte varie campagne da parte del Servizio Siriano delle Antichità e dell’Istituto Archeologico Germanico di Damasco, concentratesi soprattutto su quattro grandi palazzi (A, B, C, e D) di epoca abbaside. Recentemente, si è cercato di ricostruire un largo tratto della cinta muraria semicircolare in mattoni crudi e cotti della

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inchiesta • la scuola e la storia

s.o.s. storia

Cosa accadrà al nostro prodigioso patrimonio culturale se di esso le future generazioni non ne sapranno nulla? Ne conseguiranno incuria, disinteresse, disprezzo. Ma a ciò sta portando il crollo generalizzato e progressivo della memoria storica, determinato da provvedimenti scolastici che sembrano mirati a cancellare l’insegnamento della storia e della geografia. Affrettiamoci, allora, a correggere quello che potrebbe risultare un errore fatale di Fabrizio Polacco

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut restrum Un gruppo di studenti visita la Casa del Menandro, una delle più quatiur grandi dimore di Pompei. Gli eicaectur, testo blaborenes ium attuali programmi scolastici, dal 2004, relegano l’insegnamento della storia antica (fino al quos non etur reius nonem Medioevo) solo alla scuola primaria (quartaquasped e quinta elementare), escludendoli dalle medie. quam rest magni Un ulteriore provvedimento legislativo del 2010 ha expercipsunt tolto alla storiaquos la dignità di disciplina autatur apic teces enditibus autonoma anche nel primo biennio delle scuole superiori, fondendola con teces. la geografia.

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E

siste un provvedimento legislativo di non difficile attuazione, che nel giro di alcuni anni possa contribuire a risollevare un importante settore dell’economia, a creare nuovi posti di lavoro e magari anche a rinsaldare l’unità nazionale e la coesione europea, o – addirittura –, a favorire l’integrazione degli immigrati provenienti dai Paesi piú disparati? Certo che esiste. E però quasi nessuno ne parla. Non per una congiura del silenzio, ma per una generalizzata disattenzione. Eppure, da qualche tempo alcuni esponenti della classe politica e imprenditoriale italiana girano attorno a que-

sto provvedimento, a volte lo sfiorano nelle loro dichiarazioni d’intenti e programmatiche: senza tuttavia mai riuscire a centrarlo.

i buoni propositi Per esempio, quando affermano che bisogna valorizzare il nostro patrimonio artistico, monumentale e archeologico; o che si dovrebbe far risalire all’Italia la graduatoria mondiale dei Paesi mèta del turismo internazionale (nella quale siamo scesi dal primo al quinto posto); o che occorre tutelare e rendere maggiormente fruibili i nostri beni culturali, salvaguardandoli allo stesso tempo dal degrado, dall’incuria e

dalle intemperie; o che sarebbe opportuno dotare tutti i cittadini – italiani, europei o di origine extracomunitaria – di un patrimonio di valori minimi condivisi nei quali possano ritrovare il senso e il significato di un destino che potrebbe essere, o diventare, comune. E però, a dispetto di tanti buoni propositi, quando si passa dagli intenti ai provvedimenti concreti ci si trova di fronte a misure talvolta sacrosante, sí, ma marginali, che sono ben lungi dall’afferrare il toro per le corna. Per esempio: si prova a reperire qualche fondo in piú per il restauro e la protezione di beni culturali, cosa sempre meno facile in tempi di crisi; a infor-

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inchiesta • la scuola e la storia

matizzarne dati, contenuti, cataloghi; ad ampliarne orari e giorni di apertura al pubblico sperando di attirare piú visitatori; a offrire occasioni di accesso notturne e gratuite; a lanciare campagne pubblicitarie mirate, per invogliare i turisti a prolungare i propri soggiorni e visitare anche i siti ritenuti minori, ma in realtà solo meno noti. Sono tutte iniziative encomiabili; ma destinate, purtroppo, a fallire l’obiettivo principale. Infatti, mentre i migliori amministratori e governanti si affannano su questi provvedimenti, sfugge loro il disastro che si sta veri-

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ficando intorno allo splendido e prodigioso patrimonio culturale di cui il nostro Paese dispone: il disastro è un’enorme voragine di ignoranza e di oblio, e quindi di trascuratezza e di indifferenza, che si allarga sempre piú e che come un gorgo inarrestabile è destinata a farlo progressivamente collassare.

una volta nella vita Una serie di provvedimenti legislativi e regolamentari scolastici presi nell’ultimo decennio (esattamente a partire dal 2004) fanno sí che di quello straordinario patri-

In basso: La morte di Giulio Cesare, olio su tela di Joseph Désiré Court. 1827. Montpellier, Musée Fabre. Nella pagina accanto: La filosofia, formella in marmo di Luca della Robbia raffigurante Platone e Aristotele mentre discutono. 1437. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.

monio le nuove generazioni ormai non sappiano – o non capiscano – praticamente nulla. Se centinaia di milioni di potenziali viaggiatori di tutto il globo sognano di vedere un giorno il Colosseo, o il teatro greco di Taormina,


o le tombe dipinte di Tarquinia, ebbene, buona parte degli Italiani ne sente ormai parlare una volta sola nella vita. Quando? In quarta e quinta elementare. Infatti, sembra incredibile, ma nella patria dei Cesari, di Tacito, di Cicerone, di Virgilio e di Orazio, di Archimede e di Vitruvio, Greci e Romani sono stati totalmente espulsi dalle scuole medie (per non parlare degli Etruschi, dei Fenici di Mozia o dei Sardi dei nuraghi). Non ridimensionati, attenzione: ma eliminati totalmente, poiché, secondo i programmi attuali, tutto l’arco temporale storico si studia una volta sola, tra le elementari e le medie. E non piú due volte, una in ciascuno dei due cicli scolastici, come opportunamente si faceva prima di questa riforma, varata appunto nel 2004. Sembra una modifica da poco e invece si r ivela devastante, e i suoi effetti sono paradossali.

ricordi vaghi Da un lato, infatti, a nove, dieci anni (quando magari si hanno ancora problemi di semplice lettura) si può comprendere e approfondire ben poco di un mondo tanto diverso dal nostro come quello delle civiltà antiche; e difatti all’ingresso delle medie (per non parlare delle superiori) di quelle epoche ci si ricorda poco, o nulla, confondendo storia e mito, realtà e fiaba. Trascrivo qui un episodio, svoltosi in una prima media, e riportatomi qualche mese fa da una lettera di un’insegnante sconfortata: «I nostri ragazzi giungono in I media senza una formazione storica di

base, e non per colpa dei docenti della scuola primaria. Alla scuola primaria la storia si fa, ma come può essere fatta all’età dei bambini che frequentano la primaria. – Qual è la differenza tra la preistoria e la storia? “Facile! – Dicono i ragazzi – La preistoria viene prima della storia”. “Ma che differenza c’è? È solo

ria prima dell’ingresso alla scuola media, è un mix di fatti, nomi, fiabe, miti e leggende!!!! Un’ora e mezza alla settimana…Ma come si fa? Si può iniziare il percorso di I media (Medioevo) senza preoccuparsi minimamente della totale ignoranza delle fasi storiche che l’hanno preceduto? Qualcuno lo fa, preferisce far finta di nulla e partire da dove si può. Come si fa? L’età antica della storia non serve piú? Non è storia? Il mondo classico è stato relegato a un ambito esclusivamente mitologico?». Ma dall’altro lato vi è poi un’ulteriore, quasi paradossale conseguenza di questa situazione: fino ai quattordici anni nessun alunno ha piú un’idea d’assieme dell’intero percorso stor ico; in pratica, arrivati in pr ima media questi poveri ragazzi non hanno mai sentito parlare di Rinascimento e Illuminismo, di Rivoluzione francese e di guerre napoleoniche; e, fino alla terza media, addirittura non hanno la piú pallida idea di che cosa siano l’unità d’Italia, le guerre mondiali, il fascismo, il comunismo e l’Olocausto.

perché va collocata in un tempo antecedente?”. “Certo!!! La preistoria viene prima della storia, lo dice la parola, no?”. E poi, dalla pietra scheggiata, inizia una successione di immagini e parole spesso sovrapposte, senza ordine di alcun tipo: “Ulisse è storia?” “Sí. Perché è dopo la preistoria”. Pericle e il Minotauro hanno pari dignità storica; e la storia romana, ultimo argomento di scuola prima-

l’assenza di un sostrato culturale Ed eccone gli effetti, sempre riportati da una lettera di chi li constata «di prima mano»: «Un tempo i bambini giungevano alla scuola media con le medesime competenze storiche di oggi, ma avevano sentito nominare vicende e personaggi storici almeno una volta nella vita. Cioè, se leggevano un testo narrativo ambientato al a r c h e o 47


inchiesta • la scuola e la storia

i magnifici cinquanta Ecco l’elenco dei siti e dei monumenti che l’UNESCO ha dichiarato Patrimonio dell’Umanità 1979 • Arte rupestre della Val Camonica 1980 (e 1990) • Centro storico di Roma, le proprietà extraterritoriali della Santa Sede nella città e S. Paolo fuori le Mura 1980 • La chiesa e il convento domenicano di S. Maria delle Grazie e il Cenacolo di Leonardo da Vinci 1982 • Centro storico di Firenze 1987 • Venezia e la sua Laguna • Piazza del Duomo a Pisa 1990 • Centro storico di San Gimignano 1993 • I Sassi e il Parco delle Chiese Rupestri di Matera 1994 • La città di Vicenza e le ville del Palladio in Veneto 1995 • Centro storico di Siena • Centro storico di Napoli • Crespi d’Adda • Ferrara, città del Rinascimento, e il Delta del Po 1996 • Castel del Monte • Trulli di Alberobello • Monumenti paleocristiani di Ravenna • Centro storico di Pienza 1997 • La Reggia di Caserta del XVIII con il parco, l’acquedotto Vanvitelli e il complesso di S. Leucio • Residenze Sabaude • L’Orto botanico di Padova • Portovenere, Cinque Terre e Isole (Palmaria, Tino e Tinetto) • Modena: Cattedrale, Torre Civica e piazza Grande • Aree archeologiche di Pompei, Ercolano e Torre Annunziata • Costiera amalfitana • Area archeologica di Agrigento • La villa romana del Casale di Piazza Armerina • Villaggio nuragico di Barumini 1998 • Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano, con i siti archeologici di Paestum, Velia e la Certosa di Padula • Centro storico di Urbino • Zona archeologica e basilica patriarcale di Aquileia 1999 • Villa Adriana (Tivoli) 2000 • Isole Eolie • Assisi, la basilica di S. Francesco e altri siti francescani • Città di Verona 48 a r c h e o

2001 • Villa d’Este (Tivoli) 2002 • Le città tardo-barocche della Val di Noto (Sud-Est della Sicilia) 2003 • Sacri Monti del Piemonte e della Lombardia 2004 • Necropoli etrusche di Cerveteri e Tarquinia • Val d’Orcia 2005 • Siracusa e le necropoli rupestri di Pantalica 2006 • Genova, le Strade Nuove e il sistema dei Palazzi dei Rolli 2008 • Mantova e Sabbioneta • La ferrovia retica nel paesaggio dell’Albula e del Bernina 2009 • Dolomiti 2011 • I Longobardi in Italia. Luoghi di potere • Siti palafitticoli preistorici delle Alpi 2013 • Ville medicee 2013 • Monte Etna 2014 • Paesaggi vitivinicoli del Piemonte: Langhe-Roero e Monferrato


Sulle due pagine: due dei 50 siti italiani dichiarati dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità. A sinistra: Tivoli, Villa d’Este. La Fontana dell’Ovato, detta anche «di Tivoli», uno dei giochi d’acqua che rendono celebre la dimora voluta da Ippolito d’Este alla metà del XVI sec. Nella pagina accanto: Agrigento, Valle dei Templi. Il cosiddetto Tempio della Concordia. 440-430 a.C.

tempo del Risorgimento italiano, sicuramente non possedevano una visione chiara e critica del periodo in oggetto, ma sapevano che era esistito un periodo in cui l’Italia non era ancora l’Italia e che c’erano state tante guerre e difficoltà per arrivare all’unificazione; sapevano persino che l’Italia non era nata come repubblica e poi… altro ancora: sapevano che un giorno era stata scoperta l’America e che questo aveva comportato grandi differenze nel modo di vivere, sapevano di una Rivoluzione francese, di un Napoleone, di Garibaldi. Oggi chiedi a ragazzi di I e II media: “Chi era Garibaldi?”. Non lo sa nessuno; al massimo qualcuno ti risponde che “Sí, al paese del nonno c’è una strada che si chiama cosí”. Si può arrivare all’adolescenza senza aver mai sentito che negli ultimi cento anni ci sono state due guerre mondiali? Si può leggere un racconto o vedere un film o un’opera d’arte e capirne qualcosa? È solo un problema di povertà lessicale o, piuttosto, manca completamente un sostrato culturale?».

Si dirà: ma poi i ragazzi arrivano alle superiori, e finalmente studiano la storia come si deve, e fin dal principio. Errore: anche per coloro che intraprendono gli studi liceali si è operato in maniera tale da rendere pressoché impossibile una conoscenza altro che minimale della storia antica. Infatti, è bene che tutti – governanti e governati – sappiano che la storia, come disciplina autonoma, dotata di un distinto spazio orario e di un voto, oramai nel biennio liceale non esiste piú.

scelte discutibili Con un altro dissennato provvedimento, introdotto nel 2010, la si è assurdamente accorpata alla geografia; inoltre, alle due discipline sono state assegnate in tutto tre ore settimanali: che fanno, se l’aritmetica non è un’opinione, un’ora e mezza ciascuna. Si tratta di uno spazio orario inferiore a quello di qualsiasi altra disciplina (esclusa religione, che però è facoltativa): anche dell’educazione fisica. Per di piú, nell’uso comune si è in-

trodotto, importandolo da esperienze straniere, il termine di «geostoria» per definire questo ibrido insensato. Insensato perché, se è possibile trovare collegamenti tra lo studio storico delle civiltà classiche e mediorientali e le aree europea e mediterranea, ben piú tortuoso risulta trovarne con importanti Paesi extraeuropei. In realtà, questo accorpamento delle due discipline sembra tanto una «foglia di fico», messa lí perché non si voleva mostrare pubblicamente una grande vergogna: e cioè che alla storia e alla geografia, materie che in un Paese benedetto dal suo passato come il nostro dovrebbero essere una delle strutture portanti del sistema scolastico, non veniva assegnata che una miserabile ora e mezza ciascuna. Un insegnante che sia onesto con se stesso sa bene che in tre ore settimanali – e per di piú da quando dalle elementari e dalle medie gli alunni arrivano con quel vuoto che si è visto – si può studiare al massimo una disciplina, non due. Anche perché, contemporaneamente, alle scuole medie le ore destinate alla storia sono sensibilmente diminuite, visto che il docente di lettere è passato dall’avere undici ore settimanali totali (comprendendo in esse italiano, geografia, e, appunto, storia) ad averne solo nove. Si domanderà: ma che cosa c’entra questo con i nostri beni culturali? C’entra, eccome. Quale rispetto, quale considerazione potremo offrire, quale rilancio potremo prospettare per i monumenti e le opere d’arte del nostro Paese se i futuri cittadini non li conoscono, non li comprendono e non sono piú in grado di apprezzarli, poiché nessuno ha dato loro l’occasione di farlo? Andrebbe inoltre spiegato a qualcuno degli autori di questi piccoli, ma micidiali provvedimenti, che la parola monumento viene dal latino monumentum, ed è la stessa cosa che monimentum; entrambi i termini significano innanzitutto «ricordo», «memoria». E quale considerazione volete che abbia dei nostri monimenti, colui che non ne ha piú mea r c h e o 49


inchiesta • la scuola e la storia

moria, poiché nessuno gliel’ha data? E cioè, a partire da alcuni anni a questa parte, la stragrande maggioranza dei cittadini italiani? È da qui che derivano e deriveranno sempre piú incuria, disinteresse, addirittura disprezzo per le testimonianze del passato. Per una sorta di strabismo dell’attenzione, gran parte della classe politica (ma anche intellettuale, va detto) si accorge e si straccia pubblicamente le vesti per i piccoli danni materiali, per i crolli di tratti delle mura antiche, per gli sgretolamenti sempre piú frequenti dovuti alle intemperie o alle piogge acide; e però non vede, non sa vedere, questo crollo generalizzato e progressivo della memoria storica, e quindi non ha sinora mosso un dito affinché vi si ponga rimedio. Va detto, a onor del vero, che l’attuale ministro è forse il primo, dopo decenni, a essersi affacciato sull’orlo della voragine, senza tuttavia spingere lo sguardo fino in fondo: e ha annunciato che, nei primi anni di tutti quei licei che ancora non la prevedono, verrà introdotta la storia La presa della Bastiglia, evento chiave della Rivoluzione francese, in un dipinto ottocentesco.

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dell’arte. Sarebbe già qualcosa, se però lo sfascio dei programmi e degli spazi orari di storia e di geografia alle elementari e alle medie non impedisse anche a chi arriva al liceo di inquadrare qualsiasi opera d’arte nel suo contesto temporale e spaziale: il che, per interpretare e valorizzare un’opera, è tutto o quasi.

studiare il contesto Il Campidoglio e i templi di Agrigento, le tombe di Tarquinia e la Colonna Traiana, non poggiano sul vuoto pneumatico, ma il loro apprezzamento e la loro comprensione sono possibili solo quando se ne conosca il fondamento storico, sociale, culturale. E allora anche i tentativi dei piú volenterosi e preparati docenti di storia dell’arte – ci scommettiamo? – sprofonderanno nelle sabbie mobili. E non è tutto. L’Italia non ha solo la responsabilità nei confronti dell’umanità intera di preservare ben 50 dei siti che sono patrimonio universale, secondo l’UNESCO (vedi tabella a p. 48). È anche la principale de-

positaria di una cultura, quella greco-latina, la quale, oltre che archeologica e storica, è letteraria, artistica, filosofica, scientifica e politica (visto che le prime istituzioni consiliari, assembleari, le piú antiche democrazie e la stessa riflessione politica sono nate nella Grecia arcaica, o lo abbiamo dimenticato?). E infatti il nostro Paese era finora, grazie all’esistenza del liceo classico (il cui primo biennio, ricordiamolo, è una delle opzioni dell’ultima fase dell’età dell’obbligo), quello al mondo in cui una qualche conoscenza del greco e del latino non è riservata ai soli specialisti – come si trattasse del sanscrito o dell’assiro –, ma è ancora diffusa in una percentuale non irrilevante di persone. Vale a dire, siamo ancora un Paese in cui gli architetti possono, volendo, leggere Vitruvio in lingua originale; e lo stesso potrebbero fare gli storiografi con Tacito e Tucidide, i medici con Ippocrate e Galeno, i politologi con Aristotele e Polibio, i matematici con Euclide, i giurisperiti con il dirit-


La lingua italiana Quella che qui riportiamo è parte di una lettera indirizzata all’autore dell’articolo da una docente di scuola media.

to romano e il Codice Giustinianeo, i fisici e gli astronomi con i sorprendenti frammenti degli scienziati di età ellenistica.

i fondamenti della nostra civiltà Letture inutili, superflue? Non tanto, se si pensa che il mondo moderno, che ha creato la scienza sperimentale, lo Stato di diritto, il libero pensiero e le democrazie rappresentative, lo ha fatto proprio ripartendo dalla riscoperta degli autori antichi, dall’Umanesimo in poi. Ma ora, l’onda lunga di questi ignorati ma micidiali colpi di maglio su storia e geografia rischia di spazzar via anche il liceo classico, condannandolo a lenta, progressiva estinzione. Infatti, se durante tutte le scuole medie nessun alunno ha mai udito né conosciuto, non dico qualche frasetta di latino o l’alfabeto greco, ma neppure i nomi di Greci e Romani, Etruschi ed Ebrei, Cesare e

Ritratto di Napoleone Bonaparte negli abiti della incoronazione a imperatore dei Francesi (18 maggio 1804), particolare dell’olio su tela di Anne-Louis Girodet de Roussy-Trioson. 1812. Durham, Castello di Barnard, Bowes Museum.

Dal 2010 le ore di Lettere nella scuola secondaria di I grado sono 9, generalmente cosí ripartite: 5 ore di italiano, 2 ore di storia, in cui deve essere compreso l’insegnamento di Educazione alla Costituzione; 2 ore di geografia, piú un’ora di approfondimento della lingua italiana, spesso inutile perché non può essere effettuata dall’insegnante di classe, non è prevista alcuna valutazione, quindi…per i ragazzi non esiste. Però, a noi insegnanti di Lettere si fa notare che i nostri alunni non comprendono i testi, sono carenti in grammatica… insomma, che dovremmo inventare piani per il miglioramento degli apprendimenti e nel contempo non ostacolare l’ampliamento dell’offerta formativa, che prevede progetti trasversali e tutto ciò che riduce ancor piú l’orario di lezione. I ragazzi devono effettuare uscite, viaggi d’istruzione, tornei sportivi, devono andare al museo, al cinema e al teatro. Giusto. Ma poi, con 5 ore, riusciamo a fare tutto, ivi compreso il miglioramento sostanziale delle competenze relative alla lingua italiana? Vogliamo aggiungere che nella scuola secondaria di I grado i tagli relativi alle ore di sostegno sono stati notevoli? E che i docenti, oltre a dover provvedere all’apprendimento e al miglioramento della lingua italiana, devono anche ottemperare al recupero, al potenziamento, e ancora, all’individualizzazione e alla personalizzazione del percorso formativo di alunni con disturbo specifico dell’apprendimento o con i nuovi bisogni educativi speciali? Ai tempi non antichissimi in cui si potevano utilizzare 7 ore di italiano, si portavano avanti attività molto piú mirate all’inclusione di ragazzi con bisogni culturali speciali: in classe si leggeva il giornale, il testo di narrativa, si faceva teatro, recupero, ecc. Oggi non possiamo piú fare nulla del genere. Non c’è tempo. a r c h e o 51


inchiesta • la scuola e la storia

Alessandro, Pericle e Augusto, ebbene perché mai qualcuno dovrebbe spontaneamente e consapevolmente scegliere di frequentare un corso superiore le cui materie portanti sono il greco e il latino? È sconfortante notare come al liceo classico si vada ormai solo per tradizione familiare o per volontà dei genitori: per «ius sanguinis», insomma. Altro che la tanto decantata scuola come «ascensore sociale». Altro che il sacrosanto mandare avanti «i capaci e i meritevoli» come recita la nostra dimenticata Costituzione (a proposito: qualcuno si è

chiesto che cosa ne è stato dell’educazione civica, ovviamente accorpata alla storia, in seguito a queste improvvide contrazioni d’orario? Sparita, semplicemente sparita...).

una scuola elitaria Altro, insomma, che la tanto invocata o deprecata «scuola di massa»: per quanto riguarda il nostro piú antico e illustre passato, di massa è rimasta solo l’ignoranza. Latini e Greci stanno tornando a essere privilegio culturale di una ristretta élite che si perpetua di padre in figlio: un po’ come ai tempi del con-

Garibaldino della spedizione dei Mille. 1866. Palermo, Museo del Risorgimento.

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te Monaldo Leopardi, che, grazie alla sua sterminata erudizione e alla ricca biblioteca domestica, poteva assicurare al figlio quella cultura che ne ha fatto un poeta universale. Non è abbastanza per affrettarsi a correggere questi insensati errori? Anche perché c’è dell’altro. Si è chiesto qualcuno come pensiamo di integrare davvero, e non nei discorsi d’occasione e nelle dichiarazioni programmatiche, quel dieci per cento circa di alunni stranieri che frequentano le nostre scuole, se penalizziamo proprio quelle materie – l’italiano, la storia, la geografia e l’educazione civica – che sono quelle piú caratterizzanti la cultura di ciascuna nazione (mentre matematica e scienza, sono, come è ovvio, identiche sia qui che a Pechino o a Mogadiscio)? E si è chiesto qualcuno come sia possibile dare uno spirito e un sentire comune ai cittadini dell’Unione Europea, se non li si informa nemmeno, fin dai banchi di scuola, che i loro progenitori hanno vissuto una vicenda storica comune? In molti dei Paesi europei, infatti, la situazione dell’insegnamento della storia è altrettanto grave. E dunque perché non far loro sapere – sintetizzo grossolanamente – che ai Sumeri e alle altre civiltà mesopotamiche dobbiamo lo Stato con le prime leggi e la prima letteratura, ai Romani la scienza giuridica, ai Fenici l’alfabeto, agli Ebrei la religione monoteista e il piú antico dei libri sacri, ai Greci la democrazia e le basi del nostro pensiero razionale? E l’Italia, un Paese come l’Italia, non potrebbe e dovrebbe darsi da fare, nelle opportune sedi europee e internazionali, affinché ai tutti i cittadini del continente (e magari a quelli delle altre sponde del Mediterraneo che con noi hanno condiviso un passato comune, soprattutto nell’antichità), sia riconosciuto il diritto – sí, il diritto, perché tale dovrebbe essere – di sapere chi sono e da dove vengono? E magari, con ciò, permettere loro di provare a farsi un’idea anche di dove, tutti insieme, potrebbero andare?



scavi • marzabotto

kainua,

«città nuova» FONDATA DAGLI ETRUSCHI INTORNO AL 500 A.C., MARZABOTTO CONTINUA A ESSERE INDAGATA CON SUCCESSO DAGLI ARCHEOLOGI. lE RICERCHE PIÚ RECENTI hanno permesso di ACQUISIrE DATI PREZIOSI, CHE GETTANO LUCE SULLA SUA STORIA E, PIÚ IN GENERALE, SU QUELLA DELL’INTERA ETRURIA PADANA di Giuseppe Sassatelli, Elisabetta Govi e Paolo Baronio, con un contributo di Paola Desantis

D

a quasi duecento anni (i primi rinvenimenti risalgono al 1839) la città etrusca di Marzabotto occupa un posto di primo piano nel dibattito scientifico. Dopo le grandi scoperte del XIX secolo (a opera di Giovanni Gozzadini, 1810-1887, ed Edoardo Brizio, 1846-1907) e le intense esplorazioni del secolo scorso (condotte da Guido Achille Mansuelli, Piacenza

1916-2001), negli ultimi due decenni la città ha acquisito un’importanza sempre maggiore negli studi sugli Etruschi per le molte novità derivate da nuovi scavi dell’Università di Bologna e della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna e anche da nuove ricerche su vecchi dati. Marzabotto è l’unico esempio di città etrusca regolare e pianificata, Adige

Po

Po

Parma Ferrara Reggio

A p nell’Emila p e n n i n o T o La Spezia Massa

Mar Ligure 54 a r c h e o

Mare Adriatico

Modena

Bologna Ravenna

Marzabotto

Faenza

s c o E m i l i a n o Arno

Forlí Cesena

Rimini

Sulle due pagine: un settore della necropoli che si estende all’esterno della città etrusca di Marzabotto, l’antica Kainua. Le prime scoperte nell’area dell’abitato, fondato intorno al 500 a.C., risalgono al 1839 e nuove, importanti indagini si ebbero nel secolo scorso.


conservata e leggibile in tutti suoi settori. Ed è sul suo impianto urbano che si è polarizzata l’attenzione degli studiosi, specie in questi ultimi vent’anni. Oltre alla scoperta del nuovo e grande tempio urbano di Tinia (divinità assimilabile allo Zeus dei Greci, n.d.r.), che

ha cambiato il volto della città, «laica» e razionale, desunta dal monsono molte altre le novità. do greco. Forse è anche per questo che la città si chiamava in etrusco Kainua (il toponimo è un’altra imAlla maniera greca Per la realizzazione della città, for- portante novità degli ultimi anni). Il temente permeata di «religiosità» termine infatti si ricollega al greco all’atto della fondazione, gli Etru- kainòs/kainòn che significa «nuovo» schi adottarono una forma urbana per cui di fatto la città era chiamata a r c h e o 55


scavi • MARZABOTTO A sinistra: planimetria generale della città, che ne evidenzia l’impianto urbanistico regolare. Nella pagina accanto: resti di edifici compresi in uno dei quartieri della città, il cui impianto regolare rispetta l’ortogonalità delle strade. In basso: veduta aerea di un settore dell’antica Kainua.

tive (metalli e ceramiche), oltre che in grandi botteghe affacciate sulla via principale, erano bene inserite anche all’interno delle singole abitazioni condizionandone la planimetria, come è apparso chiaro nella Casa 1 della R. IV.2, scavata di recente e da poco pubblicata.

a ogni ceto la sua casa L’architettura domestica della città riveste grande interesse, poiché offre uno dei rari esempi di domus (la casa ad atrio) databile al V secolo. A Marzabotto, però, non esisteva questo unico modello planimetrico, ma c’erano vari tipi di case a seconda della dislocazione topografica e della diversificazione sociale (le grandi in etrusco la «[città] nuova», esattamente come Neapolis in Magna Grecia, Nola e Nocera (neuo/ nou+okr= nuova rocca/città) in ambito italico. Oggi sappiamo anche chi furono i suoi fondatori grazie alla documentazione epigrafica che restituisce molti nomi gentilizi con la terminazione in -alu (Kraikalu, Vetalu, Rakalu, ecc.), tipica dell’Etruria padana, per cui possiamo dire che essa fu fondata attorno al 500 a.C. da Etruschi di area padana nell’ambito di un piú generale riassetto di tutto il territorio. La città si presenta fin dall’inizio della sua storia bene inserita nei circuiti culturali e commerciali con il mondo greco, attraverso il mare Adriatico, e con l’Etruria tirrenica, attraverso la Valle del Reno. Perfettamente organizzato all’interno in tutti i suoi aspetti urbanistici (viabilità e infrastrutture idriche), l’abitato mostra una spiccata vocazione artigianale. Le attività produt56 a r c h e o


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scavi • MARZABOTTO

case ad atrio delle famiglie di spicco erano distribuite lungo la strada principale nord-sud) o anche della diversa funzionalità interna. Due, infine, sono i piú recenti indirizzi della ricerca dell’équipe dell’Università di Bologna: l’indagine di uno spazio pubblico assimilabile all’agorà delle città greche, a lungo cercato qua e là dai nostri predecessori, che va forse localizzato accanto al tempio di Tinia; verificare la sequenza cronologica delle varie fasi dell’abitato che è piú complessa di quanto si è sempre pensato. La città «nuova», nata agli inizi del V secolo, infatti, ricalca, correggendone l’orientazione e regolarizzandone le strutture, un abitato precedente già organizzato sul piano urbanistico che risale alla metà del VI secolo o poco dopo. Sulle dinamiche e sulle ragioni di questa «rifondazione» convergono gli interessi della ricerca piú attuale e di quella futura. Giuseppe Sassatelli

Un tempio per Tinia All’interno di un isolato, regolarmente inserito nella maglia urbanistica della città, sorse il tempio dedicato a Tinia, sommo dio degli Etruschi. La posizione dell’edificio è strategica, all’incrocio tra la plateia A, l’asse viario principale sul quale affacciano le abitazioni piú prestigiose e le botteghe, e la plateia B,

che conduceva direttamente sull’acropoli. Il tempio in città era dunque collegato con gli edifici sacri dell’acropoli, rispetto ai quali si trovava sullo stesso allineamento visivo. Secondo le concezioni cosmologi-

che etrusche, che a ogni dio assegnavano una sede celeste in base a una divisione astronomica, questa era proprio la posizione dedicata a Tinia (a nord/nord-ovest), quasi fosse stata trasposta sulla terra. L’area sacra del tempio di Tinia (a sinistra) e, in alto, frammenti di una lastra in terracotta facente parte della decorazione del tetto. Costruito nel V sec. a.C., l’edificio aveva dimensioni imponenti, tali da avvicinarlo ai santuari dell’Etruria tirrenica e del Lazio.

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Il tempio fu costruito all’interno di un’area delimitata da mura di temenos e aperta a sud con un ingresso monumentale. Alcuni ambienti di servizio e un pozzo/cisterna, funzionali alle pratiche di culto, affiancano l’edificio, che ha pianta rettangolare (21, 92 x 35,50 m), orientata in senso nord-sud. Si tratta di un periptero, una categoria architettonica che gli Etruschi assunsero dal mondo greco reinterpretandola, documentata anche in alcune città dell’Etruria meridionale e del Lazio (Cerveteri, Pyrgi, Vulci, Satricum, Roma). Le colonne sono distribuite su un podio, che in origine doveva essere esternamente modanato, seguendo l’allineamento della cella, suddivisa in un pronao in antis, cella e adyton bipartito.

legno e travertino Una scalinata centrale, posta a sud, contribuiva a rispettare il principio dell’assialità, peculiare dell’architettura sacra etrusca. L’edificio è conservato solo al livello delle fondazioni, intercettate in epoca moderna dai lavori agricoli (le fosse per l’alloggiamento della vite). Alcuni frammenti riferibili alla decorazione del tetto lasciano intuire che il tempio era ornato con lastre di terracotta a bassorilievo policrome che coprivano la travatura lignea, secondo la consuetudine dell’architettura templare etrusca. Legno e travertino furono i materiali utilizzati per la costruzione. Sia per le dimensioni, davvero ragguardevoli, sia per l’aspetto metrologico (il piede attico) e sia per la tipologia architettonica «alla greca», che rivela una precisa scelta culturale della città, il tempio di Tinia trova i suoi paralleli piú vicini nelle In alto: disegno ricostruttivo del temenos del santuario di Tinia A destra: planimetria del santuario, con sovrapposizione tra il rilievo e la pianta ricavata dall’indagine metrologica (in rosso), che evidenzia la compatibilità tra la situazione rivelata dalle indagini archeologiche e l’ipotesi ricostruttiva proposta.

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scavi • MARZABOTTO

principali città dell’Etruria meridionale, dimostrando il pieno inserimento di Marzabotto nei piú vitali circuiti di collegamento che attraversavano l’intera Etruria. Elisabetta Govi

La fabbrica del tempio Lo scavo del santuario di Tinia ha permesso di indagare per la prima volta in maniera esaustiva la pianta di un tempio appartenente alla categoria dei peripteri etrusco-italici. Pertanto è stato possibile effettuare un’analisi volta a ricostruire il procedimento grafico seguito nel V secolo a.C. dall’architetto del tempio, cercando di individuare i rapporti geometrici insiti nella pianta dell’edificio e l’unità metrica utilizzata per il progetto. La tipologia del tempio risulta evidente dall’ottimo stato di conservazione dei circoli in ciottoli che definiscono le singole fondazioni di colonna della peristasi (il colonnato che circonda il tempio, n.d.r.). Questa particolare circostanza ha permesso di misurare con sufficiente attendibilità le diverse parti dell’edificio, in modo da rica-

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In alto: restituzione grafica dei prospetti e della pianta del tempio di Tinia, nella ricostruzione elaborata sulla scorta dei dati di scavo. In basso: restituzione grafica della fronte posteriore dell’elevato del tempio di Tinia.

vare un rilievo completo di gran parte delle sue strutture murarie per poi effettuare uno studio metrologico approfondito. Si tratta di un’indagine rara nell’ambito dell’edilizia etrusca, che a Marzabotto è stata resa possibile dall’eccellente stato di conservazione delle fondamenta del santuario, dovuto alle particolari condizioni del sito archeologico. Tuttavia, per comprendere il procedimento seguito dall’antico architetto nel disegnare la pianta del tempio, è necessario in primo luogo individuare l’unità di misura utilizzata e, poi, comprendere quale rapporto leghi i vari elementi edilizi del complesso. In altre parole bisogna individuare le geometrie che sottendono il progetto. L’unità di misura utilizzata nella costruzione del tempio di Tinia fu, con tutta probabilità, il piede attico di 29,6 cm, adottato ufficialmente da Atene nell’epoca di Solone e poi diffuso in ambito italico. L’analisi metrologica ha tenuto conto sia degli intervalli di tolleranza (quantificati in ± 10 cm per le misure principali), sia delle forme geometriche che le


La signora di Kainua Manufatto di eccezionale qualità, la statuetta in bronzo che qui si descrive (vedi foto in basso) rappresenta l’ultimo «tesoro», in ordine di tempo, restituito dalla città di Kainua e, in particolare, dal suo settore nord-orientale, dove gli scavi condotti dalla Soprintendenza (2001-2005) hanno individuato i resti di un’area sacra monumentalizzata, ai margini del pianoro, in uscita verso il fiume e poi verso Felsina, in significativa vicinanza con i resti del Santuario Fontile scoperto negli anni Settanta del secolo scorso. Certamente infissa su uno dei trenta cippi in travertino rinvenuti, la statuetta riprende, in dimensioni (30 cm) che non hanno eguali nel panorama dell’Etruria, e non solo padana, il tipo delle korai greche databili al periodo tardo-arcaico (inizi del V secolo a.C.). È infatti immortalata nella posa di raccogliere la veste analogamente

alle aristocratiche fanciulle dell’Acropoli che sollevano su un lato con eleganza i loro lunghi chitoni in una movenza di evidente riverenza e omaggio, peraltro enfatizzata dal gesto dell’offerta del fiore con la mano protesa in avanti. Altrettanto fastoso è il suo abbigliamento, descritto a incisione in modo calligrafico, sia nell’acconciatura che nei gioielli e nei ricami delle vesti. Se le caratteristiche della statuetta ne suggeriscono la pertinenza a una produzione bronzistica in grado non solo di recepire ma anche rielaborare con raffinatezza e autonomia i modelli greci, è possibile ritenerla prodotto dell’officina locale, ben attestata nella città, della quale essa rappresenterebbe, al momento, il prodotto di maggiore raffinatezza sia dal punto di vista tecnico che propriamente creativo.

La grande Kore di Marzabotto (conservata nel Museo Nazionale Etrusco «P. Aria» di Marzabotto), infatti, ritrae una protagonista dell’aristocrazia locale che, all’inizio della fase urbano-classica della città, si autorappresenta secondo i modelli colti giunti direttamente dalla Grecia, sia per lo stile che per l’iconografia. Ma gli apporti ellenici paiono utilizzati per sottolineare una originalità e alterità ribadite dalla traduzione in lingua etrusca dei segni distintivi di quel rango, per cui l’himation rettangolare greco diventa la tebenna etrusca, a bordi arrotondati mentre i calzari indossati dalle fanciulle greche sono sostituiti dai calcei repandi, tipicamente etruschi, in una contaminatio che è prova evidente dell’originalità e autonomia culturale dell’antica città. Paola Desantis

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scavi • marzabotto

cosí nacque il tempio di Paolo Baronio Fase 1 Sul terreno viene tracciato il perimetro dell’edificio e sono scavate le trincee per le fondamenta del tempio. Le fosse sono riempite da filari sovrapposti di ciottoli e rinforzate agli angoli con elementi in travertino.

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Fase 2 Il podio del tempio è rivestito da blocchi modanati in travertino. Questo involucro si addossa a una spessa muratura in ciottoli che include le fondazioni delle colonne e si lega a quelle della cella grazie al riempimento in terra battuta.

Fase 3 Le murature della cella vengono elevate sino all’altezza delle colonne. Ogni colonna è realizzata in conci di pietra e coronata da un capitello di travertino sul quale si impostano le trabeazioni lignee della peristasi.

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Fase 4 La copertura è realizzata con un’orditura di travi sorrette da una serie di pseudo capriate in legno. Sopra l’assito del tetto viene disposto un manto di embrici e coppi, decorati lungo le gronde da antefisse in terracotta policroma.

strutture del tempio vengono di volta in volta a comporre relazionandosi tra loro. Si è trattato, quindi, di trasformare le misure in metri in lunghezze definite da numeri interi o sottomultipli di unità lineari antiche. In seguito è stata verificata la com62 a r c h e o

patibilità tra le forme geometriche riconosciute in planimetria e le lunghezze espresse in piedi attici, al fine di restituire la pianta del santuario quotata secondo le unità di misura originali. Ne è emerso che il rapporto tra i due fronti del podio, lunghi rispettivamente 35,5 m

e 21,92 m, risulta 1,619: un numero vicinissimo a quello che caratterizza la relazione tra i lati del «rettangolo aureo», ossia quel particolare rettangolo definito dalla proporzione 1:1,618. Il basamento corrisponderebbe cosí a un parallelepipedo di 120 x 74


le fasi del progetto antico Analisi geometrica della pianta del tempio Fig. 1 L’ingombro del podio venne definito come un rettangolo di proporzioni auree pari a 120 x 74 piedi attici.

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Fig. 2 Dopo aver delimitato l’area del podio, il progettista vi inserí all’interno un secondo rettangolo di 110 x 68 piedi, corrispondente al perimetro della peristasi. Tra le due figure venne lasciato un bordo di 7 piedi sul fronte principale del tempio e di 3 piedi lungo gli altri lati. Fig. 3 Una distanza di 3 piedi venne ripresa come modulo all’interno della peristasi (1 modulo = 3 piedi attici). Una fascia esterna pari a 2 moduli ospitò le fondazioni del colonnato, mentre un’ulteriore distanza di 4 moduli delimitò i lati della cella. La scala del podio venne definita da 3 x 12 moduli. Fig. 4 Le colonne furono disposte prima agli angoli del rettangolo di peristasi, poi sul fronte e sul retro del tempio in asse con le murature laterali della cella. Per lo spessore del muro della cella è stato assunto un valore pari a 1 modulo. Figg. 5, 6, 7 Una base circolare fu posta al centro del colonnato posteriore, che risultò avere cosí una colonna in piú rispetto al portico del fronte principale. Lungo i fianchi della peristasi le colonne vennero distribuite in modo da avere un interasse centrale di 20 piedi e interassi laterali di 21 piedi. Fig. 8 In seguito venne ripartito lo spazio interno alla cella. L’area del naos fu dimensionata come un rettangolo di proporzione aurea avente per lato minore l’ampiezza della cella. Naos e pronaos furono separati da una parete spessa 2,5 piedi, dotata di una porta larga 3 moduli. Fig. 9 Nella parte settentrionale del naos fu ricavato un adyton composto da due vani di 2 x 4 moduli. Infine l’area del pronaos venne disegnata come un quadrato. In tal modo la cella assunse la forma di un rettangolo di 75 x 32 piedi attici.

piedi attici, dimensioni che si discostano di pochissimi centimetri dalle misure rilevate sul campo. La peristasi, inoltre, presenta intercolunni di ampiezza differenziata. I lati lunghi sono composti da quattro interassi di 21 piedi e da uno mediano di 20, mentre l’interasse

centrale del fronte è di 29 piedi (8,5 m); una misura davvero colossale, tanto piú se rapportata a quella di «soli» 16,5 piedi dei suoi interassi laterali. Se ne ricava un colonnato di 110 x 68 piedi, il cui rapporto tra i lati è ancora una volta caratterizzato da una proporzione simile a

quella aurea. Possiamo quindi supporre che le dimensioni del podio e del colonnato del tempio furono studiate dall’architetto in modo da relazionarsi tra loro secondo un preciso schema geometrico. Ma non solo: come già riscontrato nel tempio B di Pyrgi e in quello del a r c h e o 63


scavi • MARZABOTTO

vel rafi, un virtuoso del regolo Le scarse informazioni sulla figura dell’architetto nell’Etruria antica non consentono di tracciarne un profilo socio-culturale definito. Possiamo però farci un’idea dello status di un architetto etrusco dalla raffigurazione scolpita su un’urna perugina di epoca ellenistica, in cui compare un uomo con lunga veste, che regge in mano un regolo graduato. Un arco incornicia la figura del defunto, il cui nome, Vel Rafi, è scritto sul bordo dell’urna. L’importanza attribuita al regolo, un vero e proprio oggetto da esibire, derivava dalla sua capacità di misurare lo spazio, che permetteva di definire le distanze attraverso un numero preciso di unità. Il suo utilizzo era quindi fondamentale in sede di progetto, poiché garantiva l’esatta esecuzione dell’opera e permetteva di quantificarne anzitempo l’estensione e il costo dei materiali. Il regolo graduato si componeva di un’asticella in legno o metallo, di lunghezza pari all’unità di misura piú utilizzata in edilizia e in carpenteria, scandita sull’asta da tacche che ne indicavano i sottomultipli. Altri strumenti fondamentali, e sicuramente familiari anche agli architetti etruschi, erano il compasso e la squadra. Il compasso, in latino circinus, era composto da due aste rettilinee con estremità inferiori appuntite, mentre le parti superiori ospitavano un perno che permetteva l’apertura e la chiusura dello strumento. Esso era correntemente utilizzato sia nelle fasi progettuali sia in cantiere, dove era impiegato anche per definire elementi della decorazione pittorica e scultorea. Come il compasso, anche la squadra poteva essere realizzata in legno, ferro o bronzo. Veniva usata da architetti, muratori, tagliatori di pietre e carpentieri non solo per tracciare angoli retti, ma anche per verificare la perpendicolarità di

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linee e superfici sospendendo al suo vertice un filo a piombo. Ma se questi erano i principali attrezzi degli architetti antichi, come avveniva la loro formazione e quali tecniche si adottavano per la progettazione? Purtroppo le scarse informazioni a riguardo non fanno piena luce su tali aspetti. Sappiamo, però, che già nel VI secolo a.C. era attribuito grande valore alla pratica di bottega, mentre, a partire dal IV, il teorico latino Vitruvio racconta di una prima elaborazione della paideia dell’architetto da parte del greco Pytheos, autore del tempio di Athena a Priene e, insieme con Satyros, del mausoleo di Alicarnasso. Paolo Baronio


In alto: strumenti da cantiere di età romana: peso per filo a piombo, squadra, compasso e riga chiudibile in bronzo. Collezione privata. Nella pagina accanto: l’urna funeraria dell’architetto Vel Rafi. III sec. a.C. Perugia, Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria.

Portonaccio a Veio, l’indagine metrologica effettuata sul tempio di Marzabotto ha evidenziato l’utilizzo di un modulo di 3 piedi attici per definire gran parte degli elementi dell’edificio. La cella, infatti, dista 12 piedi dalle fondazioni di colonna e anche le dimensioni dell’adyton e della scala di accesso al podio possono essere definite da moduli di 3 piedi.

ricostruire gli alzati Per la restituzione dei prospetti, vista l’assenza di elementi architettonici conservati in elevato, si è fatto riferimento alle proporzioni dei templi tuscanici fornite da Vitruvio: «[le] colonne abbiano il diametro inferiore pari a 1/7 dell’altezza, e l’altezza a 1/3 della larghezza del tempio; la rastremazione in alto sia di 1/4 del diametro inferiore. Le basi siano alte la metà del diametro (…). Sopra le colonne si pongano travi di commessura con quei moduli di altezza richiesti dalla

grandezza dell’edificio» (Vitruvio, De Arch. IV, 2-4). Il trattato è composto da una serie di notazioni teoriche, che nonostante la loro posteriorità, possono fornire un ausilio importante per ipotizzare lo sviluppo dell’alzato del tempio. Applicando le proporzioni vitruviane al tempio di Marzabotto otteniamo colonne di 3 piedi di diametro e 21 di altezza, mentre dalla somma di base, colonna e capitello, si hanno sostegni alti complessivamente 7,55 m. Inoltre, vista l’enorme ampiezza dell’interasse centrale della peristasi si possono ipotizzare trabeazioni lignee di notevole spessore, con elementi di minori dimensioni per le restanti parti della copertura, che verosimilmente poteva avere una inclinazione di falda simile a quella riscontrata in altri templi tuscanici e compresa tra i 15° e i 18°. Sommando le dimensioni ipotizzate per i vari elementi strutturali se ne ricava un edificio imponente, alto quasi 14 m: un tempio colossale che doveva rivaleggiare in grandezza con quelli dei piú famosi santuari dell’Etruria tirrenica e del Lazio.

un rapporto perfetto Il perfetto inserimento del santuario nella geometria urbana suggerisce che la costruzione del tempio rientrasse nella progettazione della città di Kainua sin dalla sua fondazione. Il temenos, di 120 x 180 piedi attici, occupa infatti l’ampiezza di un intero isolato, mentre il disassamento del tempio in favore dell’angolo nord-ovest del recinto sembra dovuto a un preciso intento progettuale, volto a risparmiare all’interno del lotto un grande cortile a «L». Anche la disposizione dei piccoli edifici addossati al recinto farebbe pensare alla realizzazione contestuale delle varie strutture che, come evidenziato dall’ingresso monumentale all’area sacra, in asse con la porta del tempio, sarebbero stati concepiti dall’architetto secondo allineamenti volti a regolarizzare la planimetria del santuario. Paolo Baronio

per saperne di piú Elisabetta Govi (a cura di), Marzabotto una città etrusca, Bologna 2007 Giuseppe Sassatelli, Elisabetta Govi (a cura di), Culti, forma urbana e artigianato a Marzabotto: nuove prospettive di ricerca (Atti del Convegno di Studi, Bologna 3-4 giugno 2003), Bologna 2005 Elisabetta Govi, Giuseppe Sassatelli (a cura di), Marzabotto. La casa 1 della Regio IV-Insula 2, 2 voll., Bologna 2010 Giuseppe Sassatelli, Il tempio di Tinia a Marzabotto e i culti della città etrusca, in Altnoi. Il santuario altinate: strutture del sacro a confronto e i luoghi di culto lungo la via Annia (Atti del Convegno, Venezia 4-6 dicembre 2006), Roma 2009; pp. 325-344 Paolo Baronio, Un architetto per il tempio di Tinia a Marzabotto, Ocnus 20, 2012; pp. 9-32. Paola Desantis-Luigi Malnati, La signora di Marzabotto. Influenze elleniche nella bronzistica dell’Etruria padana, in Francesco Nicosia. L’archeologo e il soprintendente. Scritti in memoria, Notiziario Soprintendenza Beni Archeologici della Toscana 8, Suppl. 1, 2012; pp. 163-179

dove e quando Come arrivare, in treno: linea Bologna-Porretta Terme, stazione di Marzabotto; all’uscita dalla stazione, proseguire diritto fino a incrociare la via Porrettana, girare a sinistra e seguire il marciapiede della Porrettana per 300 m fino all’ingresso del Parco Archeologico; in auto: uscita A1-Sasso Marconi e seguire le indicazioni stradali per Marzabotto; passato il paese dopo 300 m, a sinistra si trova l’ingresso al Parco Archeologico. Info visite guidate e attività didattiche: tel. 334 9303338; e-mail: stefano.santocchini@ unibo.it a r c h e o 65


mostre • l’aldilà degli etruschi

Replica virtuale e sviluppo della decorazione della Situla della Certosa (VI sec a.C., Bologna, Museo Civico Archeologico), presentata a Roma.

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A destra: particolare dell’opera originale e ricostruzione virtuale in 3D a grandezza naturale del Sarcofago degli Sposi (530-520 a.C. circa, Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia), e (nella pagina accanto, in alto) la spettacolare scena della frammentazione, due momenti dell’installazione dedicata al reperto, nel Museo della Storia di Bologna.

gli etruschi nell’aldilà

due mostre allestite in contemporanea a bologna e roma hanno riunito grandi capolavori e tecnologie avanzate per raccontare l’immaginario dell’antico popolo tirrenico di Elisabetta Govi e Alfonsina Russo Tagliente

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l Museo della Storia di Bologna è una realtà fortemente innovativa nel tema e nella struttura espositiva (un efficace intreccio di «materialità» e «virtualità» dell’intero percorso museale). Il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, a Roma, è invece una delle piú illustri raccolte di tradizione post-unitaria. Seppur cosí diverse, le due istituzioni hanno dato vita a un progetto concepito come un’occasione di crescita e di scambio, che offre un esempio innovativo e per alcuni aspetti unico del linguaggio

che i musei dovrebbero adottare mellaggio tra queste istituzioni e la per comunicare efficacemente con collaborazione con la Cattedra di il pubblico del XXI secolo. Etruscologia dell’Università degli Studi di Bologna hanno consentito di intraprendere un percorso conle due anime diviso, concretizzatosi in una dudi un progetto Il piú importante museo etrusco plice iniziativa espositiva, correlata del mondo mette a disposizione attraverso «finestre» tecnologiche dell’altro alcuni suoi capolavori; il aperte su entrambe le sedi. Una piú moderno museo «di città» e il mostra a Bologna e una a Roma CINECA hanno prodotto tecno- dunque, virtualmente collegate. logia innovativa anche per Villa L’esposizione bolognese si articola Giulia, in un’iniziativa davvero in due settori distinti, anche se pronuova con due anime: una storico- fondamente intrecciati. Uno, dediartistica e una tecnologica. Il ge- cato alla realtà virtuale, è costituito a r c h e o 67


mostre • l’aldilà degli etruschi

dalla ricostruzione digitalizzata in scala reale (modello 3D mapping) del Sarcofago degli Sposi, inserito in una spettacolare presentazione nella Sala della Cultura del Museo della Città. Il sarcofago, in terracotta, è il simbolo di Villa Giulia (un esemplare simile è esposto a Parigi al Museo del Louvre; vedi «Archeo» n. 353, luglio 2014). Capolavoro potentissimo nella sua capacità di emozionare ed evocare, per la forma artistica particolarmente raffinata e per il significato che riveste nell’ideologia funeraria degli Etruschi con il riferimento al tema del banchetto attraverso la raffigurazione di una coppia coniugale, in sottile ma esplicita tensione erotica, sdraiata su un raffinato letto da convivio e immaginata in un aldilà altrettanto raffinato e sereno.

le pitture e le stele L’altra parte della mostra è piú specificamente dedicata all’ideologia funeraria degli Etruschi e quindi alla ricostruzione del viaggio verso l’aldilà attraverso l’esposizione di alcuni capolavori del Museo di Villa Giulia: ceramiche figurate, sculture in pietra e una tomba dipinta di Tarquinia (quella della Nave), le cui pareti affrescate sono state «strappate» dalla camera originaria e rimontate in pannelli. Accanto a queste opere vengono esposti materiali

della Bologna etrusca e, in particolare, tre stele felsinee figurate, di cui una di recentissima scoperta, una classe di monumenti molto importanti per la ricostruzione dell’ideologia funeraria della città e segnatamente per la rappresentazione del viaggio del defunto verso l’aldilà. Per tenere fede al progetto di collaborazione tra i due musei e tra le due città, a Roma sono presenti una stele etrusca di Bologna e il modello 3D della Situla della Certosa. A Villa Giulia viene inoltre proiettato un nuovo capitolo del film di animazione 3D Apa l’Etrusco alla scoperta di Bologna, realizzato dal CINECA in co-produzione con Genus Bononiae, già premiato al FIAMP 2012 di Montreal (il Festival Internazionale dell’Audiovisivo su Musei e Patrimonio) come miglior medio-metraggio. Il nuovo cartoon ha comportato l’acquisizione e la modellazione di opere quali la statua di Apollo, la testa di Hermes, il frontone e molti particolari del tempio di Portonaccio a Veio. Parallelamente è nato un nuovo personaggio etrusco, Ati, cugina di Apa, che, guadagnandosi la simpatia del pubblico con un carattere originale, trasmette, nel volgere di pochi minuti, nozioni storico-artistiche tutt’altro che banali. I materiali in mostra a Bologna sono il frutto di una selezione che,

attraverso l’eterogeneità tipologica (statuaria, ceramica, oreficeria e anche pittura parietale) e la varietà delle classi di produzione (etrusca, greca, italica), documenta la straordinaria complessità del tema della mostra e del viaggio verso l’aldilà.

acquisizioni recenti La percezione della morte e le strategie messe in atto per la sepoltura sono l’aspetto meglio documentato della civiltà degli Etruschi e da sempre oggetto di studi, che si rinnovano con la ricerca. L’esposizione nasce dunque anche dall’esigenza di fare il punto sulle piú recenti conquiste del dibattito scientifico e i materiali presentati al pubblico ne sono una buona, seppur circoscritta, esemplificazione.

In alto: Palazzo Pepoli, sede del Museo della Storia di Bologna. A sinistra: Roma. Una sala del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

La scelta ha privilegiato un arco cronologico compreso tra la metà del VI e la fine del IV secolo a.C., un periodo nel quale in Etruria si elabora e si consolida un immaginario visivo dell’aldilà che, nelle sue distinte e molteplici formulazioni, testimonia l’evoluzione nel tempo dell’ideologia funeraria e della società da cui promana. Tutti i monumenti e gli oggetti sono accomunati dalla provenienza da tombe e fanno quindi parte del complesso sistema di autorappre68 a r c h e o


In alto: elaborazione di un affresco della Tomba della Caccia e Pesca di Tarquinia, posta come scena di apertura al secondo quadro dello spettacolo virtuale del Sarcofago degli Sposi.

Qui sopra: il teatro virtuale nel Museo della Storia di Bologna, in cui si proiettano il filmato 3D Apa l’etrusco e documentari sulla storia della città.

monumenti realizzati per segnalare la tomba e il suo ingresso (le sculture in pietra) e la tomba a camera della Nave di Tarquinia.

sentazione del defunto e del gruppo sociale a cui appartiene, un sistema coerente che si riflette nel tipo di sepolcro, nelle offerte per il morto, nelle rappresentazioni figurate e che muta a seconda delle tradizioni locali (per esempio, nel V secolo a.C., a Tarquinia vi sono le tombe dipinte, a Bologna le stele figurate) e dei codici espressivi elaborati dalle classi al potere. In mostra figurano oggetti selezionati in antico per rientrare nel corredo del defunto (in particolare ceramiche),

dioniso e il simposio Il filo rosso che unisce i materiali è la capacità di veicolare pregnanti contenuti ideologici inerenti alla morte, che nel mondo etrusco non è quasi mai rappresentata in sé, ma richiamata attraverso metafore, costruite spesso con i potenti mezzi espressivi e narrativi offerti dalla mitologia greca. Centrale è il riferimento al simposio e a Dioniso che ne è il nume tutelare: il nesso tra vino e morte è strettissimo nell’ideologia etrusca e, du-

rante il V secolo a.C., si traduce nella raffigurazione del simposio come meta finale che il defunto raggiunge dopo la morte, cosí come mostrano la tomba dipinta della Nave, ma anche la stele felsinea A, nella quale il testone di un sileno indirizza e guida il viaggio su carro del defunto. L’idea che con la morte inizi un percorso, scandito per tappe talvolta anche rischiose, che conduce nell’aldilà, è resa visivamente in una molteplicità di modi, ma ricorrente è la metafora dell’attraversamento e dell’immersione nel mare. Confine geografico da superare per approdare nel simposio dei Beati – come mostrano il viaggio della grande nave della tomba dipinta di Tarquinia e anche la cornice delle stele felsinee decorate con onde correnti –, il mare è anche dimensione dalla quale si riemerge rinnovati a nuova vita, come i delfini, esseri anfibi che evocano l’esperienza della metamorfosi. Il mare, inoltre, con i suoi abissi abitati da mostri ed esser i fantastici, è espressione dell’incognito che spaventa, delle ansie che la morte comporta e che devono essere dominate in una prospettiva salvifica. Sulle stele felsinee, i gesti dei demoni psicopompi rivelano la volua r c h e o 69


mostre • l’aldilà degli etruschi

La morte dell’eroe La scena dipinta su una delle facce del magnifico cratere attico di Eufronio recuperato in una tomba della necropoli ceretana di Greppe Sant’Angelo: il corpo di Sarpedonte viene raccolto dalle personificazioni del Sonno e della Morte, alla presenza di Hermes e di due guerrieri troiani. 515 a.C. circa. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. A destra della testa di Hermes si legge «Eufronio dipinse».

A cavallo dei flutti Scultura in nenfro raffigurante un giovane che cavalca un ippocampo, rinvenuta agli inizi del XX sec. nella necropoli vulcente di Poggio Maremma. 550-540 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. La statua, realizzata da maestranze locali che tuttavia recepiscono modelli greci (in questo caso ionici), era destinata alla decorazione di un sepolcro monumentale. Il tema dell’opera è legato all’ultimo viaggio del defunto, al quale si vuole alludere con la metafora dell’attraversamento del mare.

ta ambiguità giocata sul tema del prelevamento del defunto e del rapimento amoroso, mentre, sul monumentale cratere detto dell’Aurora, Eos trasporta sul suo carro il giovane Kephalos, sorvolando un mare minaccioso.

il carro del defunto I cavalli alati e i demoni alati, che sulle stele felsinee guidano il carro del defunto, sono efficaci simboli del passaggio dalla sfera terrena a quella celeste, potenti marcatori di 70 a r c h e o


Qui accanto: foto e restituzione grafica della parete sinistra della Tomba della Nave. V sec. a.C. Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale. Sulla sinistra si riconosce l’imbarcazione che dà nome al sepolcro e allude al viaggio verso l’aldilà. A centro pagina, a destra: un fotogramma del film di animazione sulla storia di Bologna, presentata da Apa, un abitante della città «resuscitato» per l’occasione.

esso per mare o per terra o nel cielo, attraversa dunque tutti i materiali esposti, testimonianze della complessità dei processi di elaborazione ideologici che nel mondo etrusco ruotano attorno alla morte. La Mostra «Il Viaggio oltre la vita. Gli Etruschi e l’Aldilà tra capolavori e realtà virtuale» nasce da una idea condivisa di Genus Bononiae-Museo della Storia di Bologna e del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma, in collaborazione con l’Università di Bologna Dipartimento di Storia Culture Civiltà, con il Museo Civico Archeologico di Bologna, con le Soprintendenze per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale e dell’Emilia-Romagna e con il CINECA.

Qui sopra: stele felsinea con un defunto prelevato benevolmente da un demone alato che lo condurrà nell’aldilà. Seconda metà del V sec. a.C. Bologna, Museo Civico Archeologico.

un mutamento di stato che interviene con la morte, ispirati al patrimonio iconografico offerto dalla ceramica attica. Il cratere attico di Eufronio recuperato in una tomba della necropoli di Greppe Sant’Angelo di Cerveteri, sul quale Hypnos (il Sonno) e Thanatos (la Morte) trasportano il corpo dell’eroe Sarpedonte (vedi foto alla pagina accanto), chiarisce il duplice fenomeno della selezione da parte degli Etruschi dei vasi attici e dell’appropriazione delle immagini tratte dal mito greco, adattate al contesto funerario e alla ideologia funeraria etrusca che conserva le proprie specificità. Il tema del viaggio verso l’aldilà, sia

dove e quando «Il viaggio oltre la vita. L’Aldilà degli Etruschi tra capolavori e realtà virtuale» Bologna, Palazzo Pepoli-Museo della Storia di Bologna fino al 22 febbraio 2015 Orario ma-do, 10,00-19,00 (gio, 10,00-22,00); lu chiuso Info tel. 051 19936305; www.genusbononiae.it «Apa l’Etrusco sbarca a Roma. Gli Etruschi del Nord al Museo di Villa Giulia» Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 22 febbraio 2015 Orario ma-do, 8,30-19,30; lu chiuso Info tel. 06 3226571; villagiulia.beniculturali.it a r c h e o 71


civiltà cinese • la porcellana

sublimi riflessi

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evoluzione «naturale» del vasellame in terracotta, le porcellane si diffondono in cina forse già in età remota. ma la vera svolta si registra piú tardi, con l’affinamento delle tecniche e dei forni di cottura: È l’avvio di una produzione che cresce e si arricchisce a ritmo vertiginoso e non tarda a mietere successi anche in occidente, dove, non a caso, si moltiplicano i tentativi di imitazione di Marco Meccarelli

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opo l’approfondimento sulla lacca (vedi «Archeo» n. 356, ottobre 2014) che da materiale prediletto per i rivestimenti protettivi è d i ve n t a t a s u b l i m e espressione artistica dell’Asia, fino a conquistare l’esotica creatività del Seicento e Settecento europeo, non poteva mancare l’analisi di un altro prodotto cinese che, grazie alle sue linee sinuose, tra colori luminosi ed eccellente manifattura, ha improntato indelebilmente l’epopea artistica del Rococò. Si tratta della porcellana, il piú sofisticato procedimento di raffinamento del grès (miscela di argilla con alcuni ossidi metallici, cotta a circa 1200 °C). Si distingue da Esempi di porcellane cinesi attribuibili alla «famiglia verde», decorate con fiori e uccelli. A sinistra: vaso con coperchio. Epoca Qing, 1644-1911. Shenyang, Collezione privata. Nella pagina accanto: un grande piatto. Epoca Qing, imperatore Kangxi, 1662-1722. Parigi, Musée national des arts asiatiques-Guimet.

qualsiasi altro impasto ceramico sia per le temperature di cottura (12801400 °C), sia per le caratteristiche di durezza, compattezza, impermeabilità, traslucenza, sonorità (se percossa) e biancore. Viene generalmente suddivisa in due tipi: quella dura o vera, scoperta dai Cinesi e perfezionata durante la dinastia Tang (618-906), e quella tenera, d’imitazione, realizzata in Europa non prima del XVI secolo. La porcellana è principalmente composta da un’argilla bianca, refrattaria, chiamata caolino, e da una roccia feldspatica, detta petunzè. Le due sostanze, una volta portate ad alte temperature, fondono e producono un caratteristico rivestimento vetroso (invetriatura).

come una conchiglia Il termine «caolino» deriva dai monti Gaoling (provincia cinese del Zhejiang), mentre petunzè, in cinese baidunzi (piccoli blocchi bianchi), fu adoperato dai Gesuiti nel XVIII secolo, per indicare la roccia feldspatica che, ridotta in forma di mattoni, veniva inviata agli opifici per lavorarla. «Porcellana» dovrebbe invece derivare da «porcella», conchiglia di alcuni molluschi, dall’aspetto traslucido trasparente. In cinese per definirla si utilizza di solito l’ideoa r c h e o 73


civiltà cinese • la porcellana

gramma «ci», applicato a tutto il materiale ceramico cotto ad alte temperature. Icona della civiltà cinese e sintesi di empirici procedimenti chimici, abilità manuale, competenze tecniche e gusto estetico, la «parente» piú nobile della terracotta ha una storia che nasce dalle prime testimonianze sull’uso del vasellame quale oggetto «quotidiano». Ma la questione è a dir poco problematica, perché le scoperte dei piú antichi frammenti di terracotta in Cina hanno a che fare con le prime attestazioni di coroplastica al mondo. Nel 2009 in un articolo pubblicato dai Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), la ceramica rinvenuta presso il sito in grotta di Yuchanyan (Hunan) viene fatta risalire a 18 000-17 000 anni fa. Lavorati a mano e cotti a bassa

temperatura, i frammenti presentano le superfici interne ed esterne ricoperte da impressioni di corda. Nel 2012 nella rivista Science, il vasellame scoperto nel sito in grotta di Xianrendong (Jiangxi) viene datato addirittura a 20 000 anni fa.

cacciatori e... ceramisti? Queste scoperte attesterebbero che, almeno in questa parte del mondo, la ceramica fosse appannaggio di popolazioni dedite alla

caccia e alla raccolta. In attesa che gli scavi sistematici e gli studi sulle prime ceramiche cinesi offrano un quadro piú chiaro, possiamo affermare con sicurezza che, tra le culture neolitiche, la Yangshao (50003000 a.C.), il cui nucleo originario va rintracciato nel cuore della Pianura Centrale (Henan, Shaanxi e Shanxi), debba la sua fama proprio al livello raggiunto nella produzione di un tipico vasellame, prevalentemente rosso chiaro, lavorato a mano, dalle pareti spesse e non del tutto regolari, cotto a 900 °C circa, in forni a camera ricavati nel terreno. Non a caso la Yangshao è anche conosciuta come la «cultura della ceramica rossa/dipinta»: vasi globulari, scodelle, tripodi (ding), bacini (pen), ciotole (bo), bottiglie (hu o ping) e giare sono i manufatti su cui ven-

DAI FORNI AI SIGILLI Per l’invenzione della porcellana è stato di fondamentale importanza l’utilizzo delle fornaci con cui raggiungere le alte temperature. Dai forni a camera doppia (una per la combustione l’altra per la cottura) del V-III millennio a.C. (Banpo, Shaanxi) successivamente si distinsero soprattutto due tipi di forni: quello piú corto a mantou (pagnottella) con pianta a ferro di cavallo e copertura a volta che si affermò soprattutto nel Nord della Cina; quello piú lungo detto long (drago), sviluppatosi soprattutto con i Song e costruito sul fianco di una collina, con l’aiuto di mattoni di argilla refrattari e con camera di combustione costruita sul pendio, che si diffuse soprattutto nel Meridione. Come per tutte le opere d’arte cinesi, anche per la porcellana era fondamentale il marchio a sigillo, già utilizzato almeno dal II millennio a.C. per lasciare un’impronta a rilievo su un materiale molle, come l’argilla, che, in seguito, si induriva. Esso serviva per autenticare un documento o renderlo immune da manomissioni o come segno di riconoscimento di un bronzo o infine per decorare un

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oggetto di terracotta. Già nel I millennio a.C. il sigillo è largamente usato. Tutto poteva essere rappresentato con il sigillo: un nome, un motto, una poesia, un elemento decorativo, ma poteva riferirsi anche a una determinata autorità o pubblico ufficio. In genere durante le ultime due dinastie cinesi i timbri degli imperatori regnanti portavano quattro caratteri con la seguente dicitura: «sigillo dell’imperatore» (Zhi Yin) con il nome del sovrano. La grafia poteva essere diversa a seconda dei vari stili: dalla rappresentazione di pittogrammi, alle varie calligrafie succedutesi nel trascorrere dei secoli fino a raggiungere forme piú o meno astratte. Sebbene il marchio a sigillo possa essere utile per l’identificazione storica delle porcellane, è necessario prestare molta attenzione, per le falsificazioni o per la volontà degli imperatori di utilizzare sigilli piú antichi, come segno di reverenza nei confronti del passato. Esiste, per esempio, una ricca produzione tardo-ottocentesca in stile capace di mettere alla prova anche i piú esperti.


introducendo paglia bagnata che abbassa rapidamente la temperatura e sprigiona un denso fumo. Utilizzata per fini rituali, la terracotta comprende contenitori per liquidi (lei) con manici e coperchio, e scatole cilindriche con coperchio (he). Degna di nota è la relativa standardizzazione delle forme. L’alta qualità raggiunta si deve all’uso del tornio e al miglioramento dei forni, di dimensioni gono tracciati i motivi decorativi, minori, cosí da controllare meglio zoomorfi e geometrici, in nero, ros- l’immissione del calore. so e marrone, che comprendono alcune tra le piú antiche rappresen- l’evoluzione dei forni tazioni di figure umane in Cina I piú antichi esempi di proto-por(come nel caso di un bacile in ter- cellana si riferiscono, invece, a framracotta scoperto a Banpo, Shaanxi, menti di vasi con tracce di invetriadatabile al V millennio a.C.). tura, rinvenuti in diversi siti dislocaSuccessivamente la ceramica della ti nel Nord e nel Sud della Cina, cultura Longshan (3000-2000 a.C.), tutti appartenenti alla dinastia che estende il proprio dominio Shang (1600-1050 a.C.; Anyang, in nell’attuale Cina centro-orientale Henan; lungo la media valle del (soprattutto Shaanxi, Shanxi, Shan- fiume Dongtiaoxi, nel Zhejiang; e a dong), raggiunse un elevato livello Daxinzhuang, nello Shandong). A di raffinatezza anche per la produ- quel tempo, infatti, la cottura poté zione di vasellame, tipicamente ne- raggiungere i 1200 °C, grazie alle ro e lucido, in genere privo di de- fornaci piú sofisticate e ai progressi corazioni, dalle pareti sottili, «a gu- conseguiti nel campo della metalscio d’uovo». La ceramica nera so- lurgia, con cui furono forgiati elastituisce quella rossa delle epoche borati utensili decorati, che sanciroprecedenti e viene cotta in atmosfe- no il potere raggiunto dalla classe ra riducente (povera di ossigeno), dominante. Nella pagina accanto: vaso in ceramica nera lucida dalle pareti sottili, a «guscio d’uovo», della cultura neolitica Longshan (3000-2000 a.C.). In basso: bacile in terracotta rosso chiaro con pareti spesse, decorato con figure di pesci e una maschera a volto umano, da Banpo, Shaanxi. Cultura neolitica Yangshao, V mill. a.C. Xi’an, Museo di Banpo.

Dall’analisi dei reperti fin qui menzionati, possiamo sostenere che, in Cina, la notevole maestria conseguita con le cosiddette «arti del fuoco», come la bronzistica e la coroplastica, sia direttamente proporzionale all’abilità mostrata dai maestri artigiani nel controllare i vari gradi di temperatura: la ceramica neolitica, infatti, va considerata come la conditio sine qua non per lo sviluppo ininterrotto che, attraverso il perfezionamento delle tecnologie, soprattutto dei forni, ha portato alla «scoperta» della porcellana. A seguito della nascita dell’impero, nel periodo degli Han (206 a.C.220 d.C.), fu introdotta anche la tecnica dell’invetriatura a base di piombo, già nota nel Mediterraneo e probabilmente giunta in Cina attraverso l’Asia Centrale, grazie alla Via della Seta. La ceramica cotta a bassa temperatura, presenta una colorazione che varia dal bruno ambrato (per la presenza di ferro) al verde (per l’ossido di rame). Enorme, inoltre, fu la produzione dei cosiddetti «oggetti splendenti» (mingqi) che, prendendo il posto dei sacrifici umani, iniziarono a invadere il corredo funebre, riproducendo figure antropomorfe, zoomorfe, modellini

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di architetture e utensili in minia- azzur ro che sembra costituire mento dei forni, a camera unica o tura. Questi manufatti, cotti a bas- l ’ a n t e s i g n a n o d e l c è l a d o n . ascendenti, dotati di prese d’aria, sa temperatura (700-800 °C), ve- Quest’ultimo è un termine adot- si giunse alla realizzazione della nivano solitamente ricoperti con tato per ogni tipo di invetriatura vera e propria porcellana. Vengoun rivestimento di pigmenti colo- verde ottenuta a temperatura ele- no quindi perfezionate tutte le rati (ingobbio) o con un’invetria- vata, in un ambiente riducente, fasi di lavorazione: dalla selezione tura al piombo, prima di e preparazione dell’imessere dipinti con pigpasto all’applicazione Sui vasi ricorrono menti naturali. dell’invetr iatura, dal Ulteriori progressi si recontrollo della temperaspesso le immagini dei gistrano fra il III e il VI tura del forno alle tecnisecolo d.C.: dall’utilizzo che di modellazione, fi«quattro nobili» e dei di recipienti in argilla no al decoro. Caratteri«tre amici dell’inverno» refrattaria per contenere stico della ceramica Tang il vasellame al r iparo è il vivace ed elegante dalla caduta della cenere e da che trae il proprio colore dalla cromatismo, combinato con un sbalzi eccessivi di temperatura, presenza del ferro. eccentrico «stile cosmopolita», fino all’invenzione, nel regno di All’epoca della dinastia Tang che si riflette nel modellato, Yue (Zhejiang e Jiangsu), di un (618-907) la produzione ceramica Quest’ultimo tende a esaltare forvasellame in ceramica dura e so- raggiunse alte vette per qualità e me e immagini allora estranee alla nora con un rivestimento oliva- creatività artistica: tra il VII e il IX tradizione cinese: un fenomeno stro, bruno-giallastro o verde- secolo, infatti, grazie al migliora- che scaturisce dai proficui scambi commerciali e dai contatti instaurati con i numerosi popoli stranieri con i quali l’impero intrattenne una fitta rete di relazioni. La novità del periodo è indubbiamente la ceramica a «tre colori» (sancai), realizzata prevalentemente per uso funerario, che unisce la precedente tradizione delle invetriature monocrome al rame, al ferro, al cobalto, al manganese e ad altri agenti coloranti. L’invetriatura è talmente fluida che cola e si mescola liberamente, dando luogo a caratteristici effetti cromatici, nei quali prevalgono il verde, il marrone e il bianco o blu. Con i Song (960-1279) si distinguono due principali centri di produzione della porcellana: Jingdezhen (Jiangxi), la cui attività pare abbia avuto origine addirittura in A sinistra: vaso tripode (ding) in ceramica nera con corpo a forma di uccello. Cultura neolitica Yangshao, 5000-3000 a.C. Pechino, Museo Nazionale della Cina. Nella pagina accanto: statue funerarie in terracotta mingqi, a forma di cane e di gufo (policromo). Dinastia Han, I sec. a.C. Parigi, Musée Cernuschi.

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I MOTIVI DECORATIVI Soprattutto nel Neolitico Medio (5000-3000) il repertorio decorativo presenta elementi tendenzialmente ornamentali e geometrici, spesso combinati, in modo sorprendente, con elementi figurativi, attinti soprattutto dal ricco contesto mitologico. Con l’età del Bronzo (dal 2000 a.C.), particolarmente significative sono le maschere zoomorfe e gli animali stilizzati, uniti a elementi geometrici modulari, ritratti su utensili finalizzati ai riti dell’élite dominante. Col tempo i bronzi vengono anche istoriati con scene di caccia e di guerra, di leggende e di eventi storici, cosí come le ceramiche dure presentano decorazioni impresse, ravvivate eccezionalmente da decorazioni zoomorfe. Con la fondazione dell’impero (dal 221 a.C.), spirali e volute, nubi e vortici si muovono tra figure reali o mitiche, creando un dinamico spazio animato. Modelli ceramici in scala ridotta, che riproducono figure zoomorfe (animali reali o mitici), antropomorfe (servitori, musicisti, ancelle, soldati) e architettoniche (torri di guardia, granai, porcili) popolano le tombe dei ceti agiati di epoca Han. Dal III secolo in poi, decori appartenenti al repertorio buddhista si accompagnano all’iconografia tradizionale. Forti sono anche gli influssi provenienti dall’Asia centrale: rosoni, file di perle, palmette e medaglioni con figure danzanti documentano il gusto dei Cinesi per le decorazioni esotiche, che si protrae fino al periodo Tang. Il carattere cosmopolita della dinastia cinese è visibile nella produzione ceramica dai motivi eclettici, fino ad allora estranei alla tradizione. Col succedersi delle varie dinastie il gusto verso la porcellana monocroma convive sempre piú con tematiche appartenenti ai motivi

decorativi cinesi come fiori, uccelli, figure umane, paesaggi che si confondono talora con motivi lineari esotici e, a partire dal XVI secolo, con stili e tematiche finalizzate al fiorente commercio della porcellana da esportazione. Particolarmente ritratti sulle porcellane sono i «quattro nobili» o «quattro amici» che comprendono quattro specie di piante, rappresentanti ognuna una stagione: l’orchidea (la primavera), il pruno asiatico (l’estate); il crisantemo (l’autunno) e il bambú (l’inverno). Ma non mancano anche il susino, il pino e il bambú, spesso associati insieme e chiamati «i tre amici dell’inverno» per la loro resistenza ai rigori della stagione fredda, e detentori di una ricca simbologia (perseveranza, integrità morale, purezza, rinascita). Ogni animale, pianta o figura mitica raffigurata sulla porcellana detiene molteplici significati tra cui: l’anatra (fedeltà coniugale); carpa (buon auspicio); cavallo (emblema regale); cervo (simbolo di immortalità); cicala (immortalità); drago (imperatore); farfalla (longevità); fenice (imperatrice); gallo (apotropaico); gru (immortalità/lunga vita); loto (buddhismo); melograno (fertilità); pavone (regalità); peonia (bellezza e amore); perla (saggezza); pesca (immortalità); pipistrello (buona fortuna); tartaruga (immortalità).

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L’ITALIA E LA PORCELLANA TENERA IN EUROPA A partire dal XV secolo alchimisti e vasai tentarono di imitare la porcellana. A Venezia col «vetro di latte» (porcellana contraffatta) si vollero richiamare il suo candore e la sua lucentezza, cosí come i maiolicari impiegarono un ornamento turchino di evidente ispirazione estremo-orientale. I principi italiani (Urbino, Ferrara, Piemonte) provarono a imitarla in diversi modi ma il primo effettivo risultato concreto, seppur di pasta tenera, piú affine alla maiolica, si ottenne nel XVI secolo, in numero limitato (una quarantina di pezzi), dalla famiglia Medici (porcellana Medici), a Firenze. Era decorata in turchino e con parti anche in rilievo. Nel XVII secolo Claudio Réverend, vasaio di

epoca Han, e sia continuata fino ai tempi piú recenti; Longquan (Zhejiang), centro specializzato per il celebre cèladon, dalla tipica invetriatura declinante tutti i toni pallidi del verde, assai apprezzata in Cina, perché evocativa del colore della giada (vedi «Archeo» n. 336, febbraio 2013; anche on line su archeo. it). Anzi, in un’epoca segnata dal forte gusto per l’arcaismo, ma anche dalla qualità della materia, dall’eleganza dei profili e dalle tinte tenui e monocrome, alcuni vasi riprodussero anche le sofisticate forme neolitiche degli utensili in giada. Si voleva cosí evocare il bagaglio di 78 a r c h e o

Parigi vissuto in Olanda (Delft divenne il maggiore centro dell’impiego degli stili cinesi) continuò a produrre la fragile «porcellana tenera», come quella di P. Chicaneau a Saint-Cloud presso Parigi. Questa produzione venne piú volte imitata nel XVIII secolo (a Lilla, a Parigi, a Chantilly, a Mennecy, a Vincennes, e infine a Sèvres, presso Parigi, dove divenne «manifattura reale»). Sèvres continuò a produrre «porcellana tenera», in omaggio alla tradizione, fino al 1804. Altre fabbriche vennero fondate in Olanda, a Delft, in Germania, a Mannheim, in Inghilterra, a Fulham (Londra), Bow, Chelsea, Derby, Bristol, Worchester, Lowestoft, Caughley. Quest’ultima si specializzò nella produzione della porcellana calcarea o a ceneri di ossa, detta «Bone China».

valenze magiche, calmanti, rasserenanti e lenitive degli stati d’animo, ma anche culturali e sociali, perché espressione di regalità, virtú, longevità e fortuna, di cui la «nobile pietra» era depositaria: con una delicata semplificazione dei contorni, la spessa invetriatura del cèladon, percorsa da «screpolature» (craquelure) irregolari, conserva anche la stessa levigatezza e luminosità della giada.

il blu «maomettano» Tra le scoperte piú significative, è da segnalare anche la produzione di ru, vasellame in porcellana, utilizzato soprattutto a corte, dalle spesse in-

A sinistra: fiori in «porcellana tenera» policroma, prodotti nella manifattura di Vincennes-Sèvres. XVIII sec. Saronno, Museo Giuseppe Gianetti. La messa a punto di questa variante si deve agli esperimenti condotti nel XVI sec. dalla famiglia Medici. Nella pagina accanto: vaso a forma di leone-drago in ceramica invetriata. Dinastia Jin occidentale, 265-317 d.C. Shanghai, Shanghai Museum.

vetriature bluastre o verdastre, ricche di screpolature artificiali a imitazione del ghiaccio, che danno un senso di untuosità. Inoltre la produzione di porcellana bianca leggermente bluastra (qingbai), decorata con motivi floreali e zoomorfi, pare preannunciare il famoso «bianco e blu» dell’epoca Yuan (1279-1368). Con la dinastia mongola, infatti, si assiste a una produzione che vede l’utilizzo del cobalto puro importato soprattutto dalla Persia e comunemente definito «blu maomettano»: è il risultato di una mirabile combinazione tra il commercio islamico e le tecniche cinesi, grazie all’intensità cromatica del cobalto, unito alla qualità traslucida della porcellana. Dai grandi piatti lobati con motivi floreali e iscrizioni in caratteri cufici tratte dal Corano e destinate ai Paesi islamici, la produzione comprende anche vasi a collo stretto (meiping), piatti e brocche, con motivi decorativi cinesi, fino a raggiungere l’apice per qualità ed equilibrio compositivo con l’imperatore Xuande (1426-1435) della dinastia Ming (1368-1644). Racchiusa in un cartiglio che delimita esattamente la superficie del vaso, la porcellana diventa piú alta e la superficie piú ampia rispetto al passato, cosí da accogliere tutto il ricchissimo repertorio iconografico e sacrale, consacrato dalla storia. La pittura (soggetti raffigurati), la calligrafia (iscrizioni e sigilli) e la «scultura» (forme dei vasi), sempre all’insegna di uno spiccato senso decorativo, trovano nell’arte della porcellana un comune «codice» comunicativo.


Con i Ming, la Cina diventa «l’im- si ispirano ai bronzi arcaici, quasi li in Cina a cominciare dai Portopero dell’oro bianco». Di notevole come un atto di devozione nei ghesi, giunti a Canton nel 1514. prestigio fu la porcellana dai «colo- confronti dell’arte metallurgica per Un secolo dopo venne fondata la ri contrastanti» (duocai), in cui i il contributo offerto all’invenzione Compagnia delle Indie Orientali e motivi decorativi presentano smal- della porcellana; il motivo icono- gli Olandesi presero il posto dei ti policromi (rosso, verde, giallo e grafico predominante, tra fenici, Lusitani per le esportazioni in Eubruno porpora) e contorni blu peonie, rami di pruno fioriti, sim- ropa della porcellana sottile, leggera, decorata con motivi cobalto. Nel genere a floreali, uccelli, piante, «cinque colori» (wucai), Con i Song si diffonde il animali e figure umane, tipico dell’era Wanli vivace gusto decorati(1573-1620), la gamma gusto per l’imitazione della dal vo, nota come «kraak». cromatica include il gialSembra che il termine lo, il blu, il rosso-ferro, il giada, cosí da evocarne derivi dalla storpiatura in turchese e il verde, a volanche il valore simbolico olandese del portoghese te combinati con il blu «carraca», una classe di nasottocoperta (rivestimento decorativo precedente all’inve- boli benaugurali, è indubbiamente ve a cui apparteneva un bastimenil drago long, emblema dell’impe- to che, con il suo prezioso carico triatura e alla seconda cottura). Le forme si arricchiscono anche di ratore (vedi «Archeo» nn. 354 e di oltre 100 000 pezzi del tipo «bianco e blu», nel 1604 cadde in influenze straniere e imitano i re- 355, agosto e settembre 2014). cipienti metallici sia islamici che Una svolta decisiva si registra con mano agli Olandesi. Vasellame di tibetani (boccale a «cappuccio di la porcellana da esportazione, a tipo kraak fu spesso raffigurato nel monaco», seng-mao hu). In altri casi seguito dell’arrivo degli occidenta- XVII e XVIII secolo, nei dipinti

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civiltà cinese • la porcellana

LA GERMANIA E LA PORCELLANA DURA IN EUROPA In Europa la mancanza di caolino o di altra argilla bianca refrattaria, i cui giacimenti non erano ancora stati utilizzati, ritardò di molto la produzione di porcellane. Occorre infatti aspettare i primi anni del XVIII secolo prima che la fabbrica di Meissen in Germania, fortemente voluta da Augusto II, re di Polonia ed Elettore di Sassonia, produca, su imitazione cinese e giapponese (celebri i grandi vasi detti di 80 a r c h e o

Augustus Rex), la prima porcellana dura europea. Perfezionata la tecnica, con modellatori e pittori (Johann Gregor Herold, Johann Joachim Kändler, Camillo Marcolini, ecc.), la produzione si dedicò alla creazione d’una ricchissima serie di servizi, statuette di genere e oggetti d’ornamento. A Vienna venne fondata anche una fabbrica imperiale. Ormai il segreto della

porcellana era incontenibile e ogni nazione voleva la sua fabbrica: in Germania (Höchst, Berlino, Fürstenberg, Nymphenburg, Frankenthal, Ludwigsburg, ecc.); in Francia (Sèvres, Sceaux, Niederviller, Limoges, Marsiglia, Parigi); in Danimarca (Copenaghen); in Svezia (Marieberg); in Svizzera (Zurigo e Nyon); in Olanda (Weesp e Loosdrecht); in Belgio (Schaerbeek, Bruxelles); in Inghilterra (Plymouth,


A sinistra: statuette in porcellana dura raffiguranti una coppia di orientali, prodotte nella manifattura di Meissen (Sassonia, Germania). XVIII sec. Sorrento, Museo Correale di Terranova. Nella pagina accanto: cèladon che imita nella forma e nel colore un utensile neolitico chiamto cong. Dinastia dei Song Meridionali, 1128-1279. Collezione Saatchi.

Shelton, Staffordshire); in Portogallo (Vista Alegre e Lisbona). L’Italia non fu da meno, come testimoniano le fabbriche a Venezia dei fratelli Vezzi; a Doccia, presso Firenze, del marchese Carlo Ginori; a Capodimonte, presso Napoli (poi trasferita nei pressi di Madrid); a Portici, sempre a Napoli; a Nove (Vicenza) per opera degli Antonibon; a Vinovo (Torino), con Giovanni Vittorio Brodel e Vittorio

Amedeo Gioanetti. Quest’ultimo inventò una porcellana magnesiaca (porcellana italiana), utilizzando i silicati di magnesia piemontesi. Fu dunque un fenomeno largamente europeo, dapprima stimolato dall’amore dell’esotico e delle chinoiseries, successivamente dallo spirito di emulazione fra i vari Stati, infine da riflessi di ordine economico e pratico che assunsero un’enorme portata.

fiamminghi, soprattutto nelle nature morte. Nel frattempo, anche la porcellana bianca, prodotta soprattutto a Dehua (Fujian) e conosciuta come «blanc de Chine», con cui vennero ritratte statuine buddhiste e incensieri, riscosse un notevole successo non solo in Europa (porcellana di Meissen nel XVIII secolo), ma anche in Giappone. Con l’imperatore Kangxi (16621722) della dinastia Qing (16441911), la manifattura di Jingdezhen conosce un periodo di grande splendore: fra le porcellane monocrome si segnalano soprattutto le langyao, note come «sangue di bue» per la particolare intensità di rosso brillante, ottenuto con l’uso di rame nella vetrina. Assecondando le crescenti richieste provenienti dai mercati esteri, i cabinets des chinoiseries, allestiti secondo una bizzarra ispirazione esotica, conquistarono l’inflessione gioiosa del Rococò e invasero l’Europa. Notevole fu l’importazione della porcellana a smalti policromi, mentre le grandi manifatture di ceramica in Olanda e in Francia (Delft, Nevers, Rouen) ne copiarono le tecniche e i motivi. Gli artigiani cinesi, su richiesta dei Gesuiti entrati a corte, produssero enormi quantità di articoli a soggetto religioso (porcellana dei Gesuiti) e decorarono anche i propri oggetti con motivi occidentali che da Canton raggiunsero l’Europa (stile di Canton). È il momento in cui la tecnica raggiunge una perfezione eccezionale, anche se il manierismo dell’ornamento denota per certi versi la sua decadenza.

un catalogo per le «famiglie» Molto piú tardi Albert Jacquemart ed Edmond Le Blant nel libro Histoire Artistique Industrielle et Commerciale de la Porcelaine, pubblicato a Parigi nel 1862, diedero un ordine «definitivo», seppur generico, alle numerose porcellane cinesi, aggiungendo la «famiglia verde» e la «famiglia rosa» alla «faa r c h e o 81


civiltà cinese • la porcellana

la versione GIAPPONESE Anche in Giappone la produzione di porcellana iniziò solo ai primi del Seicento, essendo stati fino ad allora preferiti il grès e la terracotta, piú adatti alla famosa «cerimonia del tè». Il Giappone, infatti, fu noto in Europa, a partire dal XVI secolo, per le importazioni di lacche, e solo dopo oltre un secolo per la porcellana. Famosa fu quella Imari, realizzata nella città di Arita, a nord-ovest dell’isola di Kyushu, che dal porto di Imari partiva per l’esportazione. Generalmente è dipinta con una decorazione di piante e temi floreali, in blu e in rosso. Quella in stile kakiemon, prodotta negli opifici di Arita, a partire dalla metà del XVII secolo, ha molto in comune con lo stile della famiglia verde. La superba qualità della decorazione a smalto l’ha resa assai pregiata in Occidente, dove fu abbondantemente imitata dai maggiori produttori europei di porcellana.

miglia gialla» e alla «famiglia nera», in base ai colori predominanti nella decorazione: da allora queste definizioni entrarono a far parte del vocabolario comune di collezionisti, esperti, studiosi e antiquari occidentali.

quel colore pallido... La «famiglia rosa», il cui smalto è chiamato «porpora di Cassio», dal nome dell’olandese Andreas Cassius di Leida che lo scoprí nel 1671, può essere considerato forse l’unico contributo dato dall’Europa alla Cina in questo campo. Il colore, infatti, derivato dal cloruro d’oro e reso opaco con l’aggiunta di ossido di stagno, viene chiamato dai Cinesi «colore straniero» (yangcai) o «colore pallido» (fencai): probabilmente fu introdotto in Cina intorno al 1720 dai missionari occidentali, particolarmente lodati dall’imperatore Kangxi, per le loro conoscenze in ambito scientifico e artistico. La famiglia verde di quest’epoca presenta uno squisito effetto di iridescenza che circonda l’invetriatura degli smalti translucenti, esaltando anche il brillante candore della porcellana sottostante: l’equilibrio composito tra senso decorativo e qualità artistica raggiunse i massimi livelli nei paesaggi, fiori e uccelli e simboli iconografici decorati su vasi, brocche e piatti. La storia della porcellana in Cina è il risultato di un lungo processo che parte dalle origini della civiltà cinese: le ceramiche neolitiche e la porcellana, infatti, condividono non solo la materia prima (argilla) e talora alcune forme comuni dei vasi, ma anche quel valore conferito alle decorazioni che, sin dall’antichità, hanno conservato un codice altamente simbolico. Dai primi segni sulla terracotta, fino Statuetta giapponese in porcellana Imari, prodotta dalla manifattura di Arita. Periodo Edo, XVII sec. Saronno, Museo Giuseppe Gianetti. Produzioni come questa ebbero grande successo in Europa, come testimoniano anche i ripetuti tentativi di imitazione.

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Prezzi a sei zeri Ancora oggi la porcellana continua a essere considerata un prodotto di altissimo pregio: una piccola ciotola a fondo rosso corallo, decorata a smalti della famiglia verde con tema di fiori e uccelli, è stata venduta presso la casa d’aste Sotheby’s di Londra, il 13 maggio 2013, per ben 446 500 sterline. Nel 2010 è stato venduto un vaso Qing (era Qianlong 1711-1799), a 32,58 milioni di dollari. Ma il record mondiale per la porcellana cinese lo detiene un miliardario cinese, Liu Yiqian, che ha acquisito lo scorso aprile a Hong Kong una ciotola con motivo policromo su sfondo bianco di epoca Ming (era Chenghua, 1465-1487) per ben 36 milioni di dollari. La porcellana in questione è stata definita, non a torto, da Nicholas Chow, vice presidente di Sotheby per l’Asia, «il Sacro Graal dell’arte cinese».

ai motivi dei paesaggi o dei fiori e uccelli, ogni soggetto raffigurato detiene forti valenze magico-taumaturgiche, apotropaiche ed è anche espressione di regalità, virtú, longevità e fortuna, in un costante dialogo tra arte e artigianato, linguaggio colto e popolare, sacralità e superstizione. I lucenti rivestimenti, monocromi e policromi, e alcuni effetti particolari, come le cavillature che, in una rete sottile e impalpabile di screpolature, avvolgono i corpi dei manufatti hanno permesso alla porcellana di offrirsi al piacere estetico in una perfetta armonia fra forma, invetriatura e apparati decorativi. Non deve stupire che in inglese porcellana venga detta anche «China»: la straordinaria storia di cui è stata testimone si basa, in fin dei conti, sulla trasmissione di una cultura materiale, ideale e artistica che lega due poli estremi del mondo. E da simbolo legato indissolubilmente alla civiltà cinese, ne è diventata una delle icone piú emblematiche. (5 – continua)



speciale • cristiani d’oriente

Chaldoran (Iran). Il monastero cristiano armeno di Sourb Thade (S. Taddeo), sorto nel XIV sec. su un preesistente edificio di culto fondato, secondo la leggenda, dall’apostolo Taddeo.

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Come fiori nel

deserto


Le comunità che per prime accolsero la predicazione di Gesú dovettero, ben presto, confrontarsi con il dominio dell’Islam. Ebbe inizio, cosí, una storia durata piú di mille anni, segnata da distruzione, oblio e sopravvivenza. Di questo mondo ancora oggi si conservano testimonianze archeologiche straordinarie. Un patrimonio culturale unico che rischiamo di perdere... di Renata Salvarani

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ul pavimento della chiesa di S. Giorgio a Madaba (nell’odierna Giordania) milioni di tessere colorate raffigurano l’area tra il Libano, la Siria e il delta del Nilo: fiumi, vallate, deserti, monti, valichi e, soprattutto, luoghi e comunità cristiani (vedi foto alle pp. 86-87). Sono centocinquanta le città e i villaggi indicati con il toponimo greco: mete di devozione, ma anche centri abitati e monasteri. In mezzo al grande mosaico sta Gerusalemme, descritta al culmine del suo splendore bizantino, cosí com’era intorno al 570, con il monumentale Santo Sepolcro costantiniano preceduto da un portico affacciato sul cardo, la basilica Nea – dedicata alla Vergine –, le mura, le porte. A realizzarlo furono maestri locali ingaggiati dal vescovo che allora vi risiedeva e che volle, forse, un’illustrazione per i pellegrini che arrivavano lí prima di raggiungere la Città Santa, una sorta di visualizzazione dell’Onomasticon di Eusebio di Cesarea (l’opera che ha veicolato nel cristianesimo il valore dei luoghi memoriali ebraici). Ne risultò molto di piú. Durante il dominio degli Omayyadi, all’inizio dell’VIII secolo, la «mappa» fu mutilata di tutte le figure e, mentre mani ignote scalpellavano i volti della Vergine, degli Angeli e degli Apostoli che vi erano inseriti, altre mani, in tutto il Vicino Oriente, si affrettavano a far scomparire interi gruppi cristiani. Nel 746 un violento terremoto danneggiò la zona e la comunità locale non ebbe mai piú la forza e le risorse per ricostruire la basilica: l’abbandono e la sabbia la ricoprirono nascondendola, fino al secolo scorso, accomunandola, cosí, alla sorte di buona parte delle chiese e dei santuari rappresentati.

ricordi lontani Quella che oggi il mosaico restituisce è una trama di presenze cristiane perlopiú cancellate deliberatamente, il ricordo lontano di rapporti fitti di persone, scambi, liturgie, viaggi, contatti con l’intera ecumene, con Costantinopoli, il Mediterraneo, l’Africa e le piste carovaniere attraverso l’Asia. Prima che l’Islam si imponesse, l’estensione di quel mondo era in realtà ben piú ampia. Oltre i confini spesso deboli e mutevoli dell’impero romano (e poi bizantino), arrivava all’Anatolia profonda, al Caucaso, alla Siria, a tutta la Penisola Arabica, al Golfo Persico, alla Mesopotamia, alla Persia e, da lí, all’Asia centrale, all’Indo, a Ceylon e Socotra, fin dove l’annuncio dei primi discepoli fu testimoniato da a r c h e o 85


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missionari, eremiti, mercanti, militari, viandanti. Lí, molto precocemente, si erano formati gruppi di credenti. La popolazione dell’antico regno assiro dell’Adiabene (regione dell’antica Mesopotamia, situata tra i corsi del Piccolo e del Grande Zab, n.d.r.), avrebbe avuto come primo vescovo Pkidha, già nel 104. La sua metropoli fu uno dei fulcri della cristianità siriaca orientale, con sede ad Arbela (l’odierna Erbil), fino al Basso Medioevo, quando subí gli attacchi dei Mongoli, che – con l’aiuto dei Curdi – scatenarono violente persecuzioni, riducendola a un’esigua minoranza.

dall’eufrate al caucaso A Dura Europos, la città ellenistica romana distrutta dai Sasanidi nel 256, oltre a un mitreo e a una sinagoga, sono stati rinvenuti un’ampia sala rettangolare utilizzata per i riti cristiani, e un battistero affrescato, entrambi della fine del secolo precedente. Rusafa (in età romana nota come «Sergiopoli») una trentina 1. la scritta di chilometr i a sud in greco dell’Eufrate, aveva una vi- HAGHIAPOLISIEROUSA, vace comunità cristiana «la Santa città ben prima che il soldato Gerusalemme». romano Sergio fosse martirizzato, all’epoca di Diocleziano, e che le sue reliquie ne facessero il centro 2. la porta di pellegrinaggio maggio- di Damasco, ancora oggi re dell’Oriente bizantino, la piú bella porta nonché meta di devozione d’accesso alla Città per gli Arabi, in particolare Vecchia da nord. per i Gassanidi (dinastia di Ricostruita da Solimano emiri che ebbe origine da il Magnifico nel XVI una tribú di beduini, forse secolo, le sue origini provenienti dall’Arabia risalgono al dominio meridionale, n.d.r.). L’area adrianeo. di Gabala, oggi in Azerbaijan, era fitta di comunità cristiane già nei primi due secoli: solo nel III e 3. Il cardo nel IV, per la pressione mi- massimo, la lunga via litare dei Persiani sasanidi, i colonnata che loro componenti trovaro- attraversava la città no rifugio fra le montagne da nord a sud. di Shaki, Balakan e Nij, dove restano oggi le chiese piú antiche e piú belle dell’Albània caucasica. 4. la chiesa Le culle orientali del cri- del Santo Sepolcro, stianesimo erano cosí fer- costruita per volere di venti e attive che proprio Elena tra il 326 e il 335 d.C. qui si definirono i dogmi 86 a r c h e o

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la «chiesa nuova» fatta costruire da Giustiniano e dedicata a Maria.

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o «dei Leoni», conduceva alla Via Dolorosa.


Una «carta» di pietre colorate

La «carta di Madaba» è la piú antica rappresentazione cartografica della Terra Santa cristiana e, in particolare, di Gerusalemme. Metà del VI sec. d.C. Madaba (Giordania), chiesa di S. Giorgio.

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4

piú importanti, tra violente dispute dottrinali che coinvolsero la corte di Costantinopoli, con significative implicazioni politiche. Furono una sorta di grande crogiolo di idee, devozioni, meditazioni teologiche, ascetismi e riti che, irrigidendosi in gerarchie autonome,

diede vita anche alle eresie maggiori, condannate dai concili ecumenici. A Nicea (325), Costantinopoli (381), Efeso (431 e 449) e Calcedonia (451) venne fissato il Credo, furono sviluppati una precisa cristologia e si affermò la maternità divina di Maria. a r c h e o 87


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Sulle due pagine: la diffusione del cristianesimo in Asia prima dell’anno 1000. Nella pagina accanto, in basso, a sinistra e in questa pagina: affreschi della Domus Ecclesiae di Dura Europos (Siria) raffiguranti la parabola delle vergini sagge e delle vergini stolte e la guarigione del paralitico. Nella pagina accanto, in basso, a destra: una veduta di Maalula, città in cui sopravvive l’uso dell’aramaico, la lingua parlata da Gesú.

Metropoli, da sinistra: nestoriani, melchidi, giacobiti Arcivescovadi Monasteri nestoriani r Amu

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Tuttavia, ogni assise fu accompagnata da un processo dialettico di accettazione e rifiuto, nel quale affondano le radici delle divisioni che ancora oggi separano le diverse Chiese. Che cosa accadde con l’avvento dell’Islam? In che modo i seguaci del Vangelo passarono da larghissima maggioranza a minoranza esigua o, addirittura, scomparvero? La rapida diffusione della dottrina islamica fu favorita anche dalla parcellizzazione dei gruppi cristiani e dalle contraddizioni dottrinali che li opponevano. La predicazione di Maometto e dei suoi primi seguaci dovette essere percepita come una delle possibili declinazioni di un tessuto religioso quanto mai composito, vissuto come mutevolmente incerto. Fecero il resto l’avanzata militare, le conversioni forzate, l’assimilazione, la pressione migratoria e demografica araba, i vantaggi eco-

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nomici e il potere assegnati a chi si univa ai nuovi dominatori, abbandonando un sistema ormai esausto. Già alla fine del VII secolo le comunità cristiane dell’area compresa fra il Vicino Oriente e la Mauritania si ritrovarono a essere un mosaico di gruppuscoli superstiti, all’interno di un contesto profondamente mutato, in cui l’Islam andava istituzionalizzandosi, generando una nuova élite e una nuova organizzazione politico-amministrativa. Il 638 segnò la resa di Gerusalemme al califfo Omar ibn al-Khattab, dopo un assedio concluso senza spargimento di sangue per la mediazione del patriarca Sofronio. Di lí a poco, i rapporti fra i musulmani e i «popoli del libro», Ebrei e cristiani, furono regolati da accordi su base consuetudinaria, fondati sul principio che ai dhimmi (sudditi non musulmani, soggetti alla sharia, la legge islamica, n.d.r.) veniva concessa protezione, in cambio di nette limitazioni.

Nella pagina accanto: affresco raffigurante la consacrazione del Tabernacolo e il suo sacerdote, della Sinagoga di Dura Europos. Metà del III sec. d.C. New York, Museo Ebraico. Sulle due pagine: cartina raffigurante le varie fasi dell’espansione dell’Islam.

tributi e divieti Il cosiddetto «patto di Omar», messo per iscritto in realtà nei secoli successivi e considerato ancora oggi una base giuridica, consentiva ai cristiani e agli altri non musulmani di andarsene in sicurezza. Se avessero deciso di restare, avrebbero dovuto pagare un tributo annuo e rispettaPoitiers Tours 732 re vari divieti, primo

un destino comune Nel mondo islamico Ebrei e cristiani hanno condiviso per secoli un destino comune, uniti dalla condizione di dhimmi, protetti ma inferiori. Furono cacciati insieme dalla Penisola Arabica a partire dalla metà del VII secolo, dal califfo Omar, succeduto ad Abu Bakr (il quale, come Maometto, non aveva introdotto un aut aut per chi non si convertiva). Dopo la battaglia dello Yarmuk (636) in cui gli Arabi sconfissero i Bizantini, furono loro imposti accordi di sottomissione un po’ in tutto il Vicino Oriente. Le comunità giudaiche si sovrapposero in piú punti (nelle città maggiori) ai gruppi cristiani, divenuti anch’essi minoranze. Ciascuno sviluppò forme di organizzazione che permettevano di negoziare con i dominatori e di far fronte al pagamento dei tributi. L’impero ottomano sancí questa parcellizzazione di autonomie su base

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confessionale con il sistema dei millet (diritti e prerogative concessi alle comunità religiose, n.d.r.), che lasciava un ampio margine di discrezionalità alle autorità locali, ma garantiva una sorta di ordine duraturo che regolava le discriminazioni. È ben documentabile che diversi Ebrei raggiunsero un buon livello di cultura e di prosperità economica, ma è altrettanto evidente che, a piú riprese, vissero periodi di persecuzione, confische arbitrarie, tentativi di conversione forzata, pogrom. Quasi tutto dipendeva dall’atteggiamento e dalle scelte del sultano regnante, cosí come dalla capacità politica del Hakham Bashi, il rabbino capo di Istanbul, che rappresentava l’intera comunità. Le restrizioni erano le medesime che valevano per i cristiani (jizya, abiti che permettano l’identificazione, divieto di usare armi e cavalcature).

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L'Islam al tempo di Maometto Conquiste dei «quattro califfi» (632-661)

Malesia Arcipelago delle Mentawai

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Espansione sotto gli Omayyadi (661-750)

Sulawesi (Celebes)

Espansione del califfato abbaside (750-850 circa) L'Islam oggi Le principali battaglie della conquista araba

Giava

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rinascere, sempre La resilienza è la capacità di risalire, di riemergere alla vita e alla luce dopo essere scomparsi, affogati, inghiottiti in un gorgo di dolore, paura, disperazione. In psicologia è l’insieme dei meccanismi che permette a un individuo di rinascere dopo un lutto, una grave perdita che ha messo in forse la sua stessa sopravvivenza identitaria (o fisica). Lo stesso concetto può spiegare comportamenti di gruppo: famiglie, villaggi, intere società possono trovare nuovo slancio dopo traumi collettivi, consolidando la propria identità e la propria forza di persistenza. In che modo e con quali caratteristiche i cristiani del Vicino Oriente sono esempi di comunità resilienti? Quali sono i motivi della loro capacità di rigenerazione? Quelli che meglio emergono sul piano storico, analizzando le loro complesse vicissitudini sono insiti nel cristianesimo stesso. Il primo è la virtú della speranza, che si fonda sulla certezza della Resurrezione, di Cristo e degli uomini, acquisita per tutti, garanzia di beatitudine eterna per i credenti, maxime per i martiri. In piú, il carattere universale del Vangelo non permette l’identificazione della fede con un popolo o un’etnia, lasciando sempre aperta la possibilità che anche uno sterminio induca nuove conversioni e una nuova moltiplicazione di fedeli: il valore della testimonianza va, cosí, ben oltre la sopravvivenza del singolo o di un intero gruppo o di una specifica tradizione. Anche l’interazione con i persecutori è piú profonda della semplice resistenza: implica l’obiettivo della loro conversione, l’inclusione nella preghiera, l’annuncio anche attraverso la rinuncia estrema, alla vita stessa. Inoltre la predicazione del perdono e della riconciliazione non solo permette di ricreare legami spezzati drammaticamente, ma può preludere all’assimilazione di elementi esterni e all’inserimento

di componenti diverse in una società rinnovata. Altri motivi, invece, sono propriamente locali, sviluppati in un’area che da sempre è un crocevia di popoli, una sorta di faglia fra culture diverse, che lí si scontrano e si sovrappongono. Lí questi meccanismi sono stati affinati sia in città cosmopolite, sia nelle reti degli eremi e dei monasteri. Lo sviluppo di tradizioni plurime e composite, la duttilità dell’adattamento, la capacità di mediare con piú interlocutori, il patrimonio di una memoria ininterrotta che attinge agli esempi dei santi e si esplica nelle liturgie particolari e nel senso di appartenenza, sviluppato durante le celebrazioni possono favorire la resilienza, aiutando a superare i momenti piú estremi di perdita e sradicamento. Vi si aggiungono, da una parte, la volontà di inserimento nelle società arabe, la partecipazione alle loro vicende generali con contributi originali e, dall’altra, l’inserimento in reti esterne di Chiese e comunità cristiane e di gruppi di emigrati in tutto il mondo. Infine, in alcuni contesti nazionali che l’hanno resa possibile, resta un elemento di forza dei cristiani l’attivazione di sistemi di istruzione piú evoluti e piú inclusivi rispetto a quelli dominanti.

Due immagini della chiesa nestoriana di Jubail (Arabia Saudita), databile al IV sec., uno dei piú antichi edifici di culto cristiani al mondo.

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Maalula (Siria). Il monastero di S. Tecla.

fra tutti quello di predicare e fare proseliti, ma anche di costruire nuove chiese (e monasteri) o riparare le esistenti, di manifestare pubblicamente la loro fede (né con simboli, né, tantomeno, con celebrazioni all’esterno), di suonare campane o altri strumenti, di portare armi e muoversi usando cavalcature (quest’ultima imposizione, di fatto, impediva di lasciare la città o il villaggio di residenza). Erano inoltre tenuti a mostrare sempre rispetto nei confronti dei musulmani e a cedere loro il posto nei luoghi pubblici, a indossare abiti che li rendessero riconoscibili, a contrassegnare le loro merci con marchi diversi da quelli dei musulmani, a seppellire i morti in cimiteri separati. Si tratta di uno dei tanti accordi su cui si è basata la soggezione di cristiani ed Ebrei all’interno della umma, la comunità dei musulmani che si impone politicamente. Poiché la vera salvezza può venire solo dal credo predicato da Maometto, la condizione di dhimmi è considerata temporanea: la via della conversione resta sempre aperta ed essa sola fa venire meno ogni restrizione. Il versamento della jizya (un’imposta pro capite pagata dai non musulmani alle autorità islamiche, n.d.r.) non è solo il riconoscimento della superiorità dei dominatori, ma è ripetuto e il suo importo è variabile, come una sorta di monito perpetuato a rinnovare la scelta o a mutarla, per sé e per la propria famiglia. Questi provvedimenti hanno determinato ovunque una massiccia riduzione numerica delle componenti non islamiche.

la chiesa sotto la sabbia Nella Penisola Arabica le comunità cristiane autoctone, cosí come le altre componenti che non hanno accettato di convertirsi, sono state nullificate già nel corso del VII secolo, per conversione o per fuga ed emigrazione. La loro consistenza doveva essere tale che tutt’oggi, dopo quattordici secoli di demolizioni e oblio, restano tracce archeologiche anche imponenti di alcune chiese e monasteri. È il caso di Jubail, dove una grande chiesa siriaca del IV secolo a pianta rettangolare con decorazioni in stucco ed edifici annessi, è stata rinvenuta sotto la sabbia nel 1986. Sull’isola di Sir Bani Yas, a un centinaio di chilometri a sud ovest di Abu Dhabi, si conservano le rovine di un centro di culto nestoriano, attivo fino al 750, probabilmente grazie alla sua posizione isolata (vedi foto a p.97). Ancora piú longevo, ma poi scomparso definitivamente, fu l’insediamento cristiano nestoriano a r c h e o 93


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Conversione e apostasia Nell’osmosi profonda di gruppi che condividono gli spazi quotidiani, è inevitabile che qualcuno decida di cambiare religione. Se per cristiani ed Ebrei questo non comporta conseguenze, per i musulmani il prezzo da pagare è stato molto spesso la vita. Emblematica è la passio di sant’Abo di Tiblisi. Nato da padre arabo e cresciuto come musulmano, nel 776 lasciò Baghdad per la Georgia, dove si dedicò allo studio della Bibbia e completò la sua adesione al Vangelo, peregrinando in diverse aree del Caucaso e del Mar Caspio. Decise poi di tornare in patria, ben sapendo che l’apostasia veniva punita con la morte. L’esito era segnato. La venerazione per i suoi resti ha dato origine a una forte tradizione di venerazione locale. Piú complessa è la vicenda biografica di Giovanni di Damasco, che, come la sua famiglia, era fra i collaboratori di corte del califfo: divenne responsabile dell’amministrazione ed era ritenuto «amico dell’Islam» o musulmano tout court. Caduto in disgrazia presso il suo protettore, fu processato per apostasia e gli fu amputata la mano sinistra. Allontanatosi da Damasco, si fece monaco a San Saba, dove scrisse testi

sull’isola di Failaka, oggi in Kuwait, durato fino al IX secolo. In generale, quando furono attuate politiche di uniformazione politicoreligiosa su base islamica, nel contesto mediorientale si realizzò una dialettica diversificata tra forme di soggezione graduate fino alla persecuzione, resistenza e resilienza, convivenza. Comunità cristiane nelle città hanno mantenuto il ruolo di sede episcopale e hanno consolidato liturgie proprie, accentuando via via il loro isolamento. In altri casi, i mutamenti politici hanno stravolto l’organizzazione istituzionale ecclesiastica, con la cancellazione delle diocesi o una loro continuità solo nominale. La pressione maggiore è stata però esercitata sulle famiglie dei laici, piú soggetti a ritorsioni e limitazioni economiche e piú esposti alle violenze. Cosí le aree rurali e montane, per la loro marginalità, sono diventate luogo di insediamento di gruppi divenuti minoritari.

un salvataggio prodigioso Il nome di Maalula, una località in mezzo alle rocce desertiche a nord-est di Damasco, significa «entrata», «porta». Insieme con Jubb’adin e Al-Sarkha-Bakhan, è uno dei tre villaggi in cui sopravvive l’aramaico occidentale. Fra i suoi monasteri, il piú importante conserva le reliquie di santa Tecla, discepola di san Paolo. Secondo la leggenda, inseguita dai sicari del padre, che voleva farla uccidere perché si era convertita, le gole della montagna si aprirono per proteggerla. Lo stesso è 94 a r c h e o


teologici di importanza capitale, tanto da essere definito il «San Tommaso d’Oriente». Morí nel 749. Il termine per indicare l’abbandono dell’Islam è riddah (o irtidad), e quello per la relativa pena hadd al-riddah. In che cosa consista quest’ultima non è esplicitato nel Corano, ma in due detti, hadith, di Maometto: quello di ‘Ikrimah (uno dei suoi compagni di lotta) e quello dell’imam Awza’i (vissuto a Damasco nell’VIII secolo, giurista degli Abbasidi). Entrambi prevedono la morte. Anche se non sono considerati vincolanti sul piano giuridico, sono stati (e sono tuttora) utilizzati per giustificare punizioni esemplari, perlopiú con connotazione politica. In altre parole, quando si percepisce l’Islam come totalizzante e uniformante, chi si sottrae a una piena adesione reca danno alla sua crescita. Si pone quindi al centro il problema dell’umma, della comunità. L’apostata, il neoconvertito è guardato come un individuo che distrugge la compattezza sociale del gruppo e della famiglia stessa. Per i familiari e per la sua comunità la sua eliminazione fisica assume quindi i connotati del dovere. Nella pagina accanto: icona raffigurante sant’Abo di Tiblisi, musulmano convertito al cristianesimo e condannato per apostasia nell’VIII sec. In basso: Veduta di Tiblisi, dipinto di Nikandor Grigorievich Chernetsov. 1830.

avvenuto, piú e piú volte, per i cristiani che si sono rifugiati fra quegli strapiombi, fino a oggi. Celle di anacoreti e monasteri hanno dato prova di una straordinaria continuità, strutturandosi come isole-fortezza autosufficienti nei deserti. In alcuni casi, la loro forza di continuità lungo i secoli è tale da superare devastazioni e abbandoni con vere e proprie rifondazioni. Deir Mar Musa al-Habashi, il monastero di san Mosé l’Etiope, a nord di Damasco, sorge in un luogo frequentato da eremiti fin dagli albori del cristianesimo. Fra loro fu anche il fondatore eponimo, figlio di un re africano, morto martire. Riedificato e affrescato a piú riprese nel Medioevo, dopo l’abbandono, fu rifondato nel 1982 dal gesuita padre Paolo Dall’Oglio come comunità ecumenica (cattolica e ortodossa) dal nome di al-Khalil («l’amico di Dio»). L’esperienza è stata troncata nel 2012 dall’espulsione dalla Siria e dal successivo sequestro e scomparsa del sacerdote. Mar Benham, vicino a Qaraqosh nel nord dell’Iraq, risale al IV secolo (fu fondato dal re assiro Sennacherib come penitenza per avere ucciso due figli divenuti cristiani); fu rinnovato nell’XI e nel XIII secolo (quando divenne luogo di conversioni per i Mongoli); passò ripetutamente dall’ambito della Chiesa siro-ortodosossa a quella siro-cattolica melchita; fu abbandonato nel 1819 e riaperto vent’anni dopo; rifondato nel 1986, è stato recentemente svuotato dei suoi monaci per le violenze dei jihadisti dell’ISIS

vitalità e persistenza Ma a cosa si devono la vitalità e la secolare capacità di permanenza delle comunità cristiane del Vicino Oriente? La condizione di minoranza, la pressione islamica e l’isolamento dal resto dell’ecumene cristiana hanno favorito lo sviluppo di alcuni caratteri dei singoli gruppi, accentuando motivi di resistenza all’assimilazione, elementi particolari, scelte linguistiche, accentuazioni di devozioni locali, insieme alla forte identificazione del cristianesimo come motivo connotativo, associato anche a elementi etnico-politici. I regni di Armenia, le esperienze statuali della Georgia (cosí come i regni cristiani di Etiopia e Sudan in Africa) hanno tratto dalla professione del Vangelo fonti di legittimazione in chiave di opposizione antislamica, garantendo la continuità della fede e sviluppando fortissime tradizioni culturali proprio nelle aree che sono state a lungo ferite vive dello scontro di civiltà. Tuttavia, queste paraa r c h e o 95


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bole politiche sono solo uno degli elementi di una dialettica piú ampia e complessa, forse neanche il piú rilevante. Significative appaiono, piuttosto, le varabili locali e, soprattutto, i mutamenti dello scenario. Nel X secolo, l’ascesa dei Fatimiti al califfato del Cairo comportò una rigida applicazione della sharia (la legge islamica) come fattore di controllo politico sui comportamenti dei singoli. Ne fu la conseguenza l’ulteriore marginalizzazione di Ebrei e cristiani: ogni elemento estraneo alla versione ismailita dell’Islam avrebbe dovuto essere eliminato. Chiese e sinagoghe dovevano essere dipinte di nero per essere meno visibili possibile; i cristiani furono esclusi da molte attività, anche commerciali; furono soppressi tutti i cani, considerati impuri. L’abbattimento del Santo Sepolcro a Gerusalemme, per ordine del califfoimam al-Hakim, nel 1009, fu soltanto l’acme di una serie di devastazioni che rispondevano a una precisa logica di uniformazione politico-religiosa. A quel vulnus, impresso come un trauma nella coscienza dell’intera cristianità, fecero ripetutamente riferimento le predicazioni delle spedizioni armate che, novant’anni piú tardi, portarono alla conquista crociata di Gerusalemme. La presenza di latini – monaci e mo-

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nache, presbiteri, eremiti e pellegrini – in tutta la Terra Santa è attestata ininterrottamente anche nei secoli precedenti, cosí come i contatti di monasteri e santuari con i papi di Roma. Ciò che cambiò per opera degli armati guidati da Goffredo di Buglione e dagli altri capi feudali fu la creazione di istituzioni politico-militari e l’introduzione di una gerarchia ecclesiastica che avrebbe dovuto, in qualche modo, raccordare tutte le presenze cristiane e unificarle intorno alla visione ecclesiologica della riforma romana gregoriana.

LINGUE, RITI e DEVOZIONI In realtà, il complesso confronto fra le fonti ecclesiastiche e liturgiche delle nationes presenti nei regni crociati fa emergere forme di subordinazione poco piú che nominali rispetto al patriarca latino e ai vescovi provenienti dall’Europa. Questi ultimi affermavano la loro superiorità soprattutto nelle celebrazioni maggiori, ma la vita quotidiana delle comunità e la percezione da parte dei fedeli laici sembra registrare, piuttosto, una variegata e problematica convivenza che nulla ha tolto alla ricchezza composita della cristianità locale. Lingue, riti, devozioni, attaccamenti a singole chiese e luoghi memoriali si sono perpetuati, pronti a essere riaffermati con

Sulle due pagine: il monastero siro-cattolico di Deir Mar Musa al-Habashi (Monastero di san Mosè l’Etiope) in Siria, arroccato nel Qalamun montagnoso e desertico a nord di Damasco. Fondato nel VI sec. e restaurato nell’XI e XV sec., l’edificio sacro è stato rifondato nel 1982 da padre Paolo Dall’Oglio, rapito dagli jihadisti nel luglio 2013, ma nuovamente abbandonato nel 2012.


enfasi appena le condizioni generali l’avessero consentito. Anzi, alle tessere di quel mosaico si aggiunsero con grande evidenza i colori della componente latina, rafforzata da nuovi arrivi di pellegrini. La sua eredità fu raccolta nel XIII secolo – e dura fino ai giorni nostri – dai Francescani, che segnarono un radicale cambiamento di paradigma nelle modalità della testimonianza in mezzo ai musulmani, agli Ebrei e agli altri cristiani. Le offensive militari di Salah al-Din al-Ayyubi (Saladino), sultano d’Egitto, Siria e Hijaz dagli anni Settanta del XII secolo, non solo misero fine alla vita del Regno Latino di Gerusalemme, ma inaugurarono un atteggiamento nuovo verso gli Ebrei e i diversi gruppi cristiani. Ai primi fu concesso di tornare a risiedere e a pregare stabilmente nella città santa: verso gli altri si adottò il principio del divide et impera, assegnando privilegi e concessioni ora agli uni ora agli altri, sempre in modo diseguale, accentuando fratture e rivalità. Ne derivarono ulteriori parcellizzazioni e un generale isolamento delle singole comunità, sia rispetto al resto dell’ecumene cristiana, sia in loco.

le gabelle del pascià I Mamelucchi (la dinastia che succedette agli Ayyubidi nella guida dell’Egitto e della Siria, n.d.r.) si trovarono davanti un coacervo incomprensibile di situazioni e insediamenti, rispetto al quale non misero in atto una politica unitaria, limitandosi a massacri localizzati e imposizioni di tasse a seconda del fabbisogno. Ad approfittarne fu invece l’impero ottomano, che, nella sua secolare esperienza di sovranità diversificata su territori immensi, realizzò modalità graduate di controllo delle minoranze.Visir e pascià applicavano gabelle

diverse e variabili nel tempo, talvolta delegando la riscossione alle stesse gerarchie ecclesiastiche. Era inevitabile, cosí, che si creassero contrasti anche pesanti all’interno delle comunità: seguiva la disaffezione di molti, preludio per conversioni piú o meno rapide a seconda delle situazioni e delle condizioni economiche. Carestie, limitazioni commerciali, variazioni delle rotte o cambiamenti dei sistemi di coltivazione potevano ulteriormente peggiorare i contesti, contribuendo a mantenere i gruppi cristiani in uno stato di esiguità e debolezza, anche se di sostanziale continuità. Tutto questo valeva anche per i monasteri che però, grazie alla loro autosufficienza alimentare e alla radicale povertà, hanno mantenuto in gran parte esistenze immutate, perpetuando liturgie, lingue e ritmi di vita. La presenza presso i luoghi santi maggiori, a Gerusalemme e Betlemme, risulta ininterrotta, scandita da decine e decine di firmani e con-

In alto: foto zenitale del monastero cristiano nestoriano sull’isola di Sir Bani Yas (Emirati Arabi), fondato intorno al 600 e attivo fino al 750.

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il caso del santo sepolcro I Luoghi della Morte e Resurrezione di Gesú sono stati oggetto di venerazione già dai discepoli e non sono mai stati abbandonati. Cosí, quando le divisioni interne hanno dato vita a Chiese diverse, ciascuno ha voluto mantenere nel complesso un proprio gruppo, che celebrasse e accogliesse i pellegrini. I rapporti reciproci, tutt’altro che facili, sono stati variamente regolati su base consuetudinaria. Nel 1187, Saladino, conquistata Gerusalemme, estromise i cristiani dal Santo Sepolcro, che restò chiuso per tre giorni e tre notti, poi ne affidò la custodia a una famiglia musulmana (ancora oggi le chiavi sono simbolicamente tenute da un custode palestinese). Successivamente riassegnò, per concessione, altari e cappelle, favorendo gli uni a scapito degli altri, di volta in volta, anche in relazione alle ostilità o ai negoziati in atto con le madre patria dei diversi gruppi. Cosí fecero poi i Turchi, quando la presenza presso i luoghi santi divenne merce di scambio nello scacchiere diplomatico internazionale. Tutt’oggi, all’interno, i rapporti sono regolati dallo Status quo, una sorta di codice non scritto che fissa luoghi di uso esclusivo o parziale, tempi per le celebrazioni, sequenza dei riti e posizione spaziale del clero e dei rispettivi gruppi di pellegrini. La responsabilità di garantire l’ordine e la sicurezza in caso di tafferugli è della polizia israeliana. Delicatissima resta la questione delle manutenzioni e dei restauri: poichè chi finanzia e interviene acquisisce una sorta di diritto sull’uso di uno spazio, le controversie possono essere tali da bloccare qualsiasi lavoro.

cessioni che, di volta in volta, la Sublime Porta o i governatori locali assegnavano ai Francescani e ai rappresentanti delle altre Chiese e nationes.Alla morte delle singole autorità, tutto doveva essere di nuovo richiesto, documentato, rinegoziato e, forse, infine, riconfermato. Ciò che veniva dato agli uni poteva risultare contraddittorio rispetto alle acquisizioni di altri, generando cosí infiniti contrasti, risentimenti striscianti, rivendicazioni. Che cosa significa vivere da perseguitati continuando a mantenere la propria fede e la propria identità, senza poterla diffondere se 98 a r c h e o


le altre minoranze Lo yazidismo è la religione di un popolo d’origine curda, che conta 300 000 individui circa, insediati perlopiú in Iraq. È una combinazione sincretistica di zoroastrismo, manicheismo, ebraismo e cristianesimo nestoriano, sui quali si sono innestati elementi islamici sciiti e sufi. Fanno parte del credo yazide il battesimo, il divieto di mangiare certi cibi, la circoncisione, il digiuno, il pellegrinaggio e la trasmigrazione delle anime. La divinità principale è un angelo con sembianze di pavone. Lo zoroastrismo (o mazdeismo) è una religione e filosofia basata sugli insegnamenti di Zarathustra o Zoroastro. Sembra fosse la piú diffusa in Asia centro-occidentale fino all’avvento dell’Islam. In seguito non si estinse, e piccole

In alto: donne druse in pellegrinaggio alla tomba del profeta Nabi Shu’ayb, in Galilea (Israele). Nella pagina accanto: una veduta dell’interno del Santo Sepolcro di Gerusalemme.

comunità zoroastriane permangono a oggi in Iran, Tagikistan, Azarbaijan e India. Il fulcro del credo è la costante lotta tra bene e male. I Drusi sono i seguaci di una religione, di derivazione musulmana, fondata nell’XI secolo in Egitto. L’etimologia della parola deriva dal nome dell’egiziano al-Darazi, che sosteneva l’identificazione dell’imam fatimita al-Hakim (996-1021) con Dio. In Egitto i Drusi vennero perseguitati dai sunniti e ciò li portò a rifugiarsi in Libano, Siria e Israele (tutt’oggi sono tra le etnie di religione non ebraica a servire nell’esercito regolare israeliano). Solo chi è figlio di Drusi può essere considerato parte del gruppo. Poiché praticano la monogamia e sono stati continuamente

perseguitati, il loro numero è in costante diminuzione. I Dom (Doma, Domi o Domari) sono un gruppo indo-ariano diffuso nel Nord Africa, Medio Oriente, Caucaso e Asia centrale. Sono perlopiú nomadi e hanno caratteri comuni con i rom e i gitani. Seppur parzialmente assimilati all’Islam, mantengono proprie tradizioni e credenze religiose. I Gassanidi sono discendenti di gruppi di Arabi che all’inizio del III secolo migrarono dalla Penisola Arabica meridionale al Levante, dove si fusero con le comunità cristiane greche, dando vita anche a un’entità politica autonoma alleata dei bizantini contro i persiani, gli arabi e i beduini. Non accettarono mai l’islamizzazione e oggi sono perlopiú confluiti nelle comunità melchite siriache.

si determinava un sostanziale isolamento rispetto all’esterno, soprattutto nelle frequenti fasi di conflitto, in cui i contatti con i cristiani dell’Europa occidentale, o della Russia, erano motivo di sospetto e di rischio. Al contempo, la presenza della comunità cristiana si è radicata come componente profonda delle società mediorientali, legata alle specificità locali, alle lingue, agli aspetti etnici, culturali e sociali di quel mondo, di cui ha maturato forme proprie di appartenenza. Per questo, per tutti i loro motivi di forza, sia pur colpite, insanguinate e nascoste fra la sabbia, quelle tessere sono ancora là, nonostante tutto, a brillare di vitalità e differenze per arricnon con l’esempio? Quale mentalità e quale chire con la loro testimonianza il mosaico cultura si crea? Secoli passati in questo modo universale dell’ecumene cristiana tutta. hanno sviluppato attitudini di adattamento e atteggiamenti specifici, come il rafforzamen- PER saperne di piú to dell’identità per contrapposizione rispetto ai dominatori, anche grazie alla fissazione di Camille Eid, A morte in nome di Allah. I tradizioni mantenute rigide e immutate.Vi si martiri cristiani dalle origini dell’islam a oggi, aggiungevano l’attaccamento alle proprie Piemme, Casale Monferrato 2004 gerarchie (le uniche in grado di interloquire Michele Piccirillo, Arabia cristiana. Dalla con le autorità e di ottenere qualche vantag- provincia imperiale al primo periodo gio), la volontà di differenziarsi a tutti i costi, islamico, Jaca Book, Milano 2002 non solo rispetto alla maggioranza, ma anche Paolo Pieraccini, Gerusalemme, luoghi santi nei confronti degli altri gruppi minoritari, e comunità religiose nella politica per poter negoziare in forma separata. Infine, internazionale, EDB, Bologna 1997 a r c h e o 99


il mestiere dell’archeologo Daniele Manacorda

prima «fortunate» e poi dimenticate l’ipotesi che il nuovo mondo fosse stato scoperto già in epoca antica ha piú di un fondamento. se cosí fosse, la sua «scomparsa» sarebbe derivata, nei lunghi secoli dell’impero romano, dalla scelta di ignorarne l’esistenza, ponendo cosí le premesse per l’impresa compiuta da cristoforo colombo nel 1492

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’eravamo lasciati nel Mar dei Caraibi, anzi nell’arcipelago delle Piccole Antille, che un recente studio (Lucio Russo, L’America dimenticata. I rapporti tra le civiltà e un errore di Tolomeo, Mondadori, Milano 2013) propone di identificare con quelle che gli antichi chiamavano le Isole Fortunate. L’ipotesi non è nuova (la troviamo, per esempio, adombrata in un lavoro di Valerio M. Manfredi risalente a circa venti anni fa), ma viene generalmente respinta dalla critica storica, che preferisce collocare quelle misteriose isole oceaniche là dove oggi si trova l’arcipelago delle Canarie, che, in effetti, era assai piú facilmente raggiungibile dalle coste atlantiche dell’Africa. Eppure Russo non ha dubbi: nei testi geografici ellenistici, usati dal geografo Tolomeo per redigere nel II secolo d.C. una carta del mondo corredata delle coordinate di latitudine e longitudine, con il nome di Isole Fortunate si intendevano proprio le Piccole Antille, che gli antichi dunque conoscevano. In casi simili, l’onere della prova tocca a chi si discosta da un’ipotesi largamente accettata e ne sostiene una assai piú audace, tanto audace da poter esser facilmente accantonata come fantasiosa e assurda. Ma Russo è sicuro di sé, ed essendo uno storico della

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scienza, non è tipo da porre superficialmente la sua opinione a confronto delle altre possibili: uno scienziato opera attraverso dimostrazioni, e talora attraverso calcoli. Bene, sono proprio «semplici calcoli» – per usare le sue parole – che ci permettono di affermare che il limite occidentale del mondo conosciuto dagli antichi al momento del massimo sviluppo della scienza ellenistica e descritto in particolare dal geografo Ipparco (II secolo a.C.), al quale Tolomeo si riallaccia, «coincide con una precisione che lascia sconcertati con la longitudine media delle Piccole Antille, che evidentemente erano state incluse da Ipparco tra le terre conosciute.».

contatti regolari Insomma, ciò significa che, all’epoca di Ipparco, navi provenienti dal Mediterraneo non solo dovevano essere giunte fino ai Caraibi, ma ne erano anche ritornate, avendo a bordo «personale in grado di effettuare misure di latitudine e di longitudine». Non possiamo quindi pensare – continua Russo – a un contatto isolato. È anzi ragionevole supporre che i contatti – forse già stati stabiliti dai navigatori Fenici o Cartaginesi – fossero in atto da tempo, anche se la notizia trapelò nel mondo greco solo piú tardi,

Foto satellitare delle Piccole Antille, disposte ad arco tra la Florida e le coste orientali del Venezuela, nel Mar dei Caraibi. Lo storico della scienza Lucio Russo ha proposto di identificare l’arcipelago con le Isole Fortunate, finora individuate nelle Canarie: un’ipotesi che dilaterebbe notevolmente gli orizzonti del mondo conosciuto nell’antichità.


forse proprio in seguito alla caduta di Cartagine nel 146 a.C. Che le fonti di Tolomeo conoscessero con precisione le coordinate della Piccole Antille si ricava dal fatto che la sua opera, a qualche secolo di distanza dalla fine della civiltà ellenistica, contiene due errori connessi tra di loro, e cioè: l’errata valutazione delle dimensioni della Terra e la deformazione costante delle longitudini, sistematicamente dilatate. E poiché questa errata dilatazione è costante, una volta misurata e riconosciuta pari a circa 1,4 il valore reale, è possibile ristabilire quelle che erano le conoscenze esatte della geografica matematica ellenistica e ricollocare al loro posto i confini del mondo. Ecco dunque che la longitudine della mitica Thule, dispersa nelle nebbie dei mari del Nord, viene a coincidere perfettamente con l’intersezione tra il circolo polare e la costa orientale della Groenlandia, e che la longitudine assegnata alle Isole Fortunate non è quella delle Canarie, bensí proprio ed esattamente quella delle Piccole Antille.

la terra rimpicciolita Questo errore di scala commesso sulle longitudini ha prodotto a livello cartografico un rimpicciolimento della Terra, che però – nella visione di Russo – è stato a sua volta anche il portato di un restringersi degli orizzonti geografici, a seguito di «un generale collasso culturale, per lo piú ignorato, avvenuto a metà del II secolo a.C.». Non ci soffermiamo su questa spiegazione di carattere storico-culturale, che implica approfondimenti che vanno ben al di là questa rubrica. Tuttavia, ci limitiamo a osservare che, quali che siano state le cause che hanno portato a una perdita di conoscenze geografiche nel passaggio tra l’età ellenistica e quella dell’imperialismo romano, appare plausibile che, cambiando l’identificazione del limite

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occidentale dell’ecumene, dovette cambiare di conseguenza anche la localizzazione delle Isole che lo identificavano. Le Isole Fortunate sono state quindi riaccostate al vecchio continente perché si era persa finanche la memoria storica di quegli antichissimi contatti e il mondo romano, nella sua immensa dimensione territoriale, si era invece contratto su se stesso per quanto riguarda l’espansione marittima oceanica. Dopo la conquista di Cartagine, i Romani non si curarono infatti di subentrare ai Punici nel controllo delle rotte marittime atlantiche, accontentandosi di praticare quelle che, costeggiando Iberia e Gallia, conducevano in Britannia.

e pitea non era un visionario... Apparentemente, le spedizioni transatlantiche ebbero cosí una brusca fine, che portò con sé – riportiamo sempre il pensiero di Russo – «la perdita di conoscenze geografiche da parte del ceto dirigente dello Stato romano». Anche se queste rotte, «ignorate da geografi e generali», continuarono a essere frequentate da piccoli gruppi di navigatori dediti alla pesca o alla pirateria. Accadde cosí che il piú celebre

resoconto di viaggi atlantici, il trattato del marsigliese Pitea, risalente al IV secolo a.C., fu considerato inattendibile, non fu piú copiato e andò perduto. Ma Pitea non raccontava fandonie: quando affermava che a Thule, intorno al solstizio d’estate, il sole non tramontava, mentre d’inverno non sorgeva mai e che, a un giorno di navigazione, verso nord il mare era solidificato, raccontava quel che aveva visto spingendosi sino alle acque congelate delle regioni artiche. Ora, l’errore sulle longitudini commesso da Tolomeo comportava che Thule, terra misteriosa ma reale, sarebbe finita piú a Oriente della Britannia: è questo il motivo per cui la sua carta è costretta a far «indietreggiare» la Scozia, protendendola forzosamente verso oriente, per cercare di mantenere la sua relazione geografica con Thule, che nel frattempo era ormai uscita dalla geografia ed entrata nella leggenda. Antonio Diogene (scrittore greco vissuto forse nel I secolo a.C., n.d.r.) compose addirittura 24 libri sulle incredibili meraviglie «al di là di Thule», mettendo nel suo romanzo anche la Luna, e un altro scrittore greco, Luciano di Particolare di un bassorilievo raffigurante una nave oneraria (da carico) romana. I sec. a.C. Aquileia, Museo Archeologico Nazionale.

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Samosata (120 circa-180 circa) n.d.r.) – negli anni in cui Tolomeo scriveva il suo trattato – raccontò nella sua parodistica opera intitolata Storia vera di quei luoghi fantastici dove il mare era di ghiaccio, mescolando senza alcun vaglio critico dati reali a notizie ormai di seconda o terza mano.

nel regno delle ombre Insomma, sia gli antichi naviganti con le loro ripetute esperienze, che gli scienziati ellenistici con le loro rappresentazioni matematiche dell’ecumene, conoscevano l’Oceano Atlantico e i suoi confini assai piú e meglio di quanto poi lo avrebbero conosciuto i Romani e gli Europei nel corso del Medioevo. Lo stesso nome di Isole Fortunate doveva riflettere una percezione e una narrazione di quei luoghi come un mondo paradisiaco baciato dalla natura. Torneremo un’altra volta sul nome interessantissimo di Thule. Qui finiamo solo con un accenno al nome della Scozia. Nonostante i dizionari etimologici brancolino nell’incertezza, o sarebbe meglio dire «nel buio», appare probabile, almeno a me, che quella terra ricevette sí il suo nome dalla popolazione degli Scoti, che la raggiunse dall’Irlanda nella tarda antichità. Ma questi a loro volta sarebbero stati cosí chiamati dai naviganti che dal Mediterraneo dovettero raggiungere le isole britanniche piú volte nella loro rotta verso Thule. Se skotía in greco altro non significa che «ombra», la parte settentrionale di quell’arcipelago era infatti la terra che per lungo tempo piombava nell’oscurità: la terra dove, allora come adesso, nei mesi invernali regnava, appunto, l’ombra. Da oriente a occidente, dal Nord al Sud, i nomi dei popoli antichi e delle loro terre si prestano a vere e proprie indagini «archeologiche», sulle quali sarebbe affascinante tornare. (2 – fine)



antichi ieri e oggi Romolo A. Staccioli

la grande abbuffata appuntamento centrale del mese di novembre erano i ludi plebei, una festa che, dagli originari due giorni, arrivò a protrarsi per ben due settimane! e che aveva il suo momento culminante in un sontuoso banchetto, consumato nel nome di giove

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ebbene fosse il mese di due importanti eventi dell’anno agricolo, quali l’aratura e la semina (o, forse, proprio per questo e cioè per l’impegno che le due operazioni richiedevano), novembre non aveva feste di antica tradizione contadina. E nemmeno ricorrenze legate a particolari divinità o alla dedica di templi in loro onore. Press’a poco come il mese di settembre. E, come questo, fu pertanto «riservato» – almeno a partire dal 216 a.C. quando se ne ha la prima menzione – a una speciale manifestazione, i Ludi Plebeii, che, da votivi quali erano inizialmente, divennero annuali e, via via prolungati, finirono per occupare quasi tutta la prima metà del mese. Istituiti in contrapposizione ai Ludi Romani (o Magni), i piú antichi e solenni, che pur riguardando l’intera cittadinanza, erano considerati una prerogativa del patriziato (tanto da essere organizzati dagli edili curuli), furono voluti – e concessi – come manifestazione propria della plebe (e perciò organizzati dagli edili plebei), ben distinta dai primi e di pari «dignità». Erano strutturati come i Ludi Romani e, come quelli, avevano il «momento» culminante nel

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cosiddetto Epulum Iovis (il «Convivio di Giove»), il sacro banchetto dedicato, il giorno delle Idi (ossia il 13), al padre degli dèi e alle altre due divinità della triade capitolina, Giunone e Minerva.

spettacoli e giochi A sentire Tito Livio (XXV, 2,10), proprio da quella celebrazione i

Ludi sarebbero derivati (Iovis epulum fuit ludorum causa) e, prolungati dapprima di due giorni – nel 213 a.C. –, ebbero in seguito una durata di quindici giorni, a partire dal giorno 4, dopo che l’Epulum fu preceduto da nove giorni di rappresentazioni sceniche e seguito da tre giorni di «giochi» nel circo, che s’aprivano

il giorno 14 con la Probatio equitum, la rassegna e la «verifica» dei cavalli che avrebbero partecipato alle corse. Lo stesso giorno delle Idi si svolgevano riti sacri anche in onore di due divinità «minori» alle quali erano molto devote le famiglie della plebe: Fortuna e Feronia. La prima (con l’appellativo di Primigenia) aveva il suo tempio in colle, cioè sul Quirinale. La seconda in campo, nel Campo Marzio, dove l’edificio del culto potrebbe coincidere con il cosiddetto Tempio C, i cui resti si conservano nell’Area sacra di largo Argentina. Tornando al Banchetto di Giove, è da dire che si trattava, all’atto pratico, di un «sacrificio» in forma conviviale, durante il quale venivano offerti agli dèi i cibi tipici della tradizione piú genuina, dal farro al pane fermentato, dalla «polenta» di farina alla carne (specialmente di agnello e di maiale), dal formaggio ai pesci, i fichi secchi, l’olio e il vino.

sacerdoti... gaudenti Esso mantenne sempre la semplicità delle origini, ma, col tempo, venne affiancato da un altro banchetto, piú sontuoso e succulento, tanto che gli speciali sacerdoti ai quali fu affidato, nel


196 a.C., il compito di organizzare l’intera «manifestazione», gli Epulones – dapprima in numero di tre, poi di sette e infine di dieci, come sullo scorcio del I secolo a.C., al tempo del piú noto di essi, il titolare della Piramide di Caio Cestio, a Roma, che tuttavia nell’epigrafe funeraria continua a

qualificarsi VIIvir(um) epulonum – divennero – e sono rimaste fino ai nostri giorni – l’esempio di persone dedite, in maniera smodata, ai piaceri della mensa («senza alcun rispetto dei limiti igienici e morali», come scrivono i piú accreditati e recenti vocabolari).

In alto: natura morta con testa di pecora, affresco da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: Novembre, rappresentato da sacerdoti che celebrano gli Hilaria in onore di Iside, dal mosaico dei mesi di Thysdrus (oggi El Djem, Tunisia). III sec. d.C. Sousse, Museo Archeologico.

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a volte ritornano Flavio Russo

il «doppio gioco» di erone una coincidenza singolare segnò la guerra aerea combattuta al di là e al di qua della manica nel secondO CONFLITTO mondiale: entrambi i contendenti, infatti, RIELABORARONO ALTRETTANTI strumenti ideati dal grande scienziato alessandrino

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gli inizi del 1943, il moltiplicarsi delle segnalazioni circa l’approntamento di missili per colpire Londra da 250 km di distanza, suggerí di bombardare a tappeto le loro rampe e gli stabilimenti che li producevano. Dopo le prime distruzioni, però, le fabbriche furono ricollocate in gallerie e miniere che le resero invulnerabili, e l’offensiva aerea fu dunque spostata sulle ferrovie che trasportavano ai siti d’impiego tali armi e i relativi carburanti. L’operazione causò devastazioni

A destra: la cupoletta in plexiglas dell’astrodome: la borchia metallica centrale, collegata a un filo, ospita una resistenza che previene l’appannamento dovuto alla condensa.

A sinistra: la copertina del DuPont Magazine pubblicato nel settembre-ottobre 1944, raffigurante un bombardiere B29 alleato. In evidenza è l’astrodome, la cupoletta sotto la quale operava il navigatore che manovrava l’astrocompass, lo strumento elaborato sulla base della diottra messa a punto da Erone di Alessandria nel II sec. d.C.

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enormi, poiché ben pochi convogli sfuggirono alle oltre 50 000 t di bombe sganciate in un anno nel Nord della Francia. La reazione tedesca non si fece attendere e si concretizzò nell’impiego di nugoli di intercettori contro i bombardieri alleati, i quali, per ridurre le perdite, si videro costretti a operare solo di notte.

colpire alla cieca Cosí facendo, le perdite, in effetti, si ridussero, ma diminuí nel contempo la precisione dei lanci, dal momento che pochi navigatori riuscivano a stabilire nell’oscurità dove si trovassero esattamente, finché non ricevettero in dotazione uno strumento capace di fornire la posizione dell’aereo con facili rilevamenti astronomici. Denominato astrocompass, richiese l’installazione sulla carenatura dorsale dei bombardieri B17, B24, e poi anche degli enormi B29, di una cupoletta in plexiglas,


denominata astrodome, sotto la quale il navigatore maneggiava lo strumento, che altro non era se non la miniaturizzazione della diottra di Erone (vedi «Archeo» n. 292, giugno 2009; anche on line su archeo.it)! La storia, a volte, offre esempi di sincronicità paradossali: nel precedente articolo sulla V1 (vedi «Archeo» n. 356, ottobre 2014) si era evidenziato come la caduta sul bersaglio fosse comandata da

un’altra miniaturizzazione di uno strumento di Erone, l’odometro.

leggere gli angoli Senza dubbio alcuni dei militari germanici addetti ai lanci ne conoscevano l’origine, ma nessuno, tra loro, suppose che quei micidiali bombardamenti fossero guidati da uno strumento ideato anch’esso dallo scienziato alessandrino. Stando alla sua In alto: particolare dei goniometri incisi sul piatto della ricostruzione moderna della diottra di Erone (a sinistra), eseguita da Michele Fratino su progetto dell’autore.

dettagliata descrizione, tradotta dal fisico Giovanni Battista Venturi (1746-1822), la diottra constava di un piatto sorretto da tre perni verticali, sul quale ruotava una forcella che, a sua volta, sosteneva un traguardo dotato di crocefilo. Tramite due viti senza fine ingranate su altrettante ruote dentate, si poteva far girare il traguardo nel piano orizzontale e, al contempo, in quello verticale, consentendo la lettura dei relativi angoli sui goniometri incisi sul piatto e sul settore verticale. Anche nell’astrocompass, il piatto goniometrico è sorretto da tre perni e le due rotazioni del traguardo, munito ugualmente di crocefilo, avvengono agendo su di una coppia di viti, leggendone gli angoli sui goniometri del piatto e del settore verticale. Per l’accennata miniaturizzazione, il traguardo, che è di circa 50 cm nello strumento di Erone, è di appena 5 cm nell’astrocompass.

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scavare il medioevo Andrea Augenti

Il dente del santo vuole la tradizione che le spoglie dell’evangelista luca siano conservate a padova: ma è davvero cosí? Il vescovo della città veneta ha provato ad accertarlo e ne è scaturita un’indagine archeologica, ma non solo, davvero esemplare

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rcheobotanica, archeozoologia, geoarcheologia… Anche per l’archeologia medievale l’incrocio con le discipline che si occupano dell’ambiente attraverso le indagini di laboratorio è ormai all’ordine del giorno. Uno scavo che voglia essere completo deve oggi includere anche questo tipo di studi e di analisi, che danno risposte a molti interrogativi: qual era la dieta degli abitanti di un determinato luogo, come si presentava e come si è trasformato nel tempo il paesaggio, quali animali era possibile incontrare e quali venivano usati per consumi alimentari o per l’industria artigianale… E la nostra conoscenza del passato si amplia, non è piú limitata soltanto all’uomo e alle sue azioni, ma riguarda anche la sua interazione con il mondo circostante.

un «archivio» prezioso A questo proposito, stavolta parliamo di denti. Sí, perché proprio nei denti sono contenute molte informazioni, grazie alla presenza dello smalto: il rivestimento che li protegge durante il ciclo di vita, ma che poi resta al suo posto anche dopo la morte. Sui denti – per esempio – è possibile condurre le analisi sul DNA mitocondriale, che ci dicono molto in termini di «biografia» del defunto. Un caso recente e straordinario è quello raccontato con maestria ed entusiasmo dal genetista Guido Barbujani nel suo

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ultimo libro, Lascia stare i santi (Einaudi, Torino 2014). È una storia di genetica applicata all’archeologia medievale. In poche parole, nel 1999, il vescovo di Padova decide di aprire il sepolcro di san Luca (l’evangelista), conservato nella basilica di S. Giustina. Risoluto a vederci chiaro, il vescovo riunisce una équipe interdisciplinare di cui fanno parte storici, paleoantropologi, numismatici, paleografi e altri ancora, tra cui – appunto – un genetista: Barbujani. Ma perché vederci chiaro? È semplice: perché non era per

Padova, S. Giustina, Cappella di San Luca. Trasporto del corpo del Santo dall’Oriente, scena superstite del ciclo raffigurante episodi della vita dell’evangelista, affrescato da Giovanni Stornato. 1436-1438 circa. niente sicuro a chi davvero appartenesse quel corpo. Davvero si tratta di san Luca? Nel Medioevo si faceva un gran commercio di reliquie e corpi santi, oggetti di enorme importanza per quel periodo: si pensava che avessero poteri taumaturgici, e su di loro venivano fondate chiese e monasteri. Questo commercio,


però, era alimentato da molti furti e truffe, e quindi già sull’identificazione del corpo di Luca (come di molti altri) erano leciti non pochi dubbi: basti pensare che in Europa circolavano diciotto prepuzi di Gesú Cristo! E poi, sempre ammesso che fosse proprio lui, quando, come e da

dove era arrivato Luca a Padova, visto che tradizioni diverse dicono che era morto a Tebe, oppure a Patrasso, o a Efeso?

confronto decisivo Queste erano alcune delle domande piú urgenti, alle quali la squadra di scienziati era chiamata a rispondere con il suo lavoro. E che cosa ha fatto Barbujani? Ha rotto un dente a san Luca, per estrarne la sequenza del DNA, e contemporaneamente si è recato in Siria, ad Aleppo (Luca era un Siriano di Antiochia), per prelevare campioni di sangue di altri siriani da poter confrontare con il DNA del presunto Luca. A questo punto, incrociando le indagini della genetica con le altre condotte sul corpo e sul sepolcro, sono state raggiunte conclusioni importanti. Innanzitutto, il corpo conservato a Padova è probabilmente quello di un Siriano, morto nel II secolo d.C.; quel corpo viene poi spostato a Costantinopoli intorno alla metà del IV secolo; da lí viene trasportato in una barca, di nascosto, coperto dal frumento (sulle spoglie sono stati trovati Immagini relative all’apertura della bara di piombo in cui è conservato il corpo attribuito a san Luca, avvenuta il 17 settembre 1998, e l’esposizione dello scheletro alla presenza di monsignor Antonio Mattiazzo, vescovo di Padova.

resti di insetti che si cibano di frumento); e in seguito – forse passando da Brindisi, il principale porto dell’Adriatico per le navi che provengono dall’Oriente per rifornire l’Italia – viene trasportato a Padova, forse in seguito a un accordo tra il vescovo di Padova e quello di Antiochia. Qui viene trasferito dentro a una cassa, nella quale è poi rimasto fino ai giorni nostri. Ma c’è un altro piccolo giallo: dentro la cassa sono stai trovati gli scheletri di alcuni serpenti, e di mezzo ghiro. Che cosa ci facevano, lí dentro? E quando ci erano entrati? I serpenti sono comunissimi biacchi, un tipo molto diffuso in Italia; probabilmente erano entrati da un buco della cassa.

il pasto del serpente Ma attenzione: grazie alle analisi eseguite con il metodo del carbonio 14, è stato possibile datare le ossa dei rettili alla metà del V secolo, il che ci dice che l’arrivo del corpo a Padova risale all’età tardo-antica. E il ghiro? Molto semplicemente, si tratta del resto del pasto di uno dei serpenti, il che spiega perché ce ne fosse solo una metà. Per concludere questa storia avvincente, a cavallo tra archeologia, storia e genetica: il corpo di Padova è in effetti quello di un Siriano, arrivato in Italia nel IV secolo (mentre una tradizione finora ritenuta attendibile voleva che fossero stati i crociati, a prenderlo nel 1204). Che poi si tratti davvero dell’evangelista Luca non lo si può escludere, ma è impossibile affermarlo con certezza, su base scientifica. Però ora, queste nuove indagini, stimolate – con grande lungimiranza, bisogna dirlo – dal vescovo di Padova, dimostrano che quando l’archeologia si incrocia con la genetica, è possibile affrontare con successo anche temi scottanti, che riguardano la storia con la «S» maiuscola. E persino la fede.

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l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci

un fiume di lacrime FAMOSO PER LA TERRIBILE PUNIZIONE A CUI APOLLO LO SOTTOPOSE PERCHé REO DI AVERLO VOLUTO SFIDARE IN UNA GARA MUSICALE, IL SATIRO MARSIA ERA GIà NOTO IN FRIGIA, DOV’ERA OGGETTO DI UN CULTO CHE LO ASSOCIAVA A UNO DEI CORSI D’ACQUA LOCALI

«L

o piansero le divinità dei boschi, i Fauni delle campagne // e i Satiri suoi fratelli, lo piansero Olimpo a lui sempre caro // e le Ninfe, e con loro tutti quanti su quei monti // pascolano greggi da lana e armenti con le corna. // Di quella pioggia di lacrime s’intrise la terra fertile, // che in sé madida le accolse, assorbendole nel fondo delle vene; // poi mutatele in acqua, le

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liberò disperdendole nell’aria. // Da lui prende il nome quel fiume che tra il declinare delle rive // corre rapido verso il mare, Marsia, il piú limpido della Frigia» (Ovidio, Metamorfosi, VI, vv. 382-400). Uno degli episodi mitologici piú truci e violenti ruota intorno alla figura del satiro Marsia, il quale, sconfitto da Apollo in una sfida musicale, viene anche scuoiato dal dio, che lo punisce cosí per


aver osato competere con lui. Prima di essere il tragico protagonista della vicenda, che ebbe ampio successo nella letteratura e nell’arte (si veda la raccolta di fonti e delle varianti in www.iconos.it), Marsia era venerato nella patria di origine, la Frigia, quale daimon (essere divino) ed eroe «idrogeografico». Un culto particolare gli venne tributato ad Apamea Kibotos, la città delle ceste (o casse, kibotoi, in greco): qui, infatti, si aggiravano giocosi, nei boschi limitrofi, Marsia suonatore di doppio flauto e il suo corteggio silvano, segnando con la loro presenza la feracità e la ricchezza naturale dei luoghi. Sempre qui la tradizione colloca la storia del suo sfortunato rapporto con le divinità dell’Olimpo, e lí era visibile la spoglia del povero satiro.

da Apollo con la pelle di Marsia (Senofonte, Anabasi, I, 2, 8; Erodoto, Storie, 7, 26,3). Questi tristi fatti non compaiono sulle monete locali, che adottano invece altre tipologie, tutte accattivanti e originali. I due fiumi sono infatti rappresentati attraverso simboli che alludono agli idronimi: il Marsyas è personificato dal satiro che allegramente suona il doppio flauto a piene gote, e al Meandro si allude con una decorazione appunto a meandro sulla quale poggia Marsia.

Passione per la musica

il finale «censurato»

Ma da dove deriva la passione di Marsia per il doppio flauto? Alcune fonti letterarie gli attribuiscono l’invenzione di questo strumento, anche se la versione piú diffusa è quella che la assegna ad Atena, ispirata dal

Apamea di Frigia dedica ampio spazio, nella monetazione autonoma e poi in quella provinciale romana (133-184 a.C.), al suo ricco patrimonio religioso: insieme all’arca del Diluvio (vedi «Archeo» n. 356, ottobre 2014), onora le divinità locali con i loro miti, con particolare attenzione alla figura di Marsia e alle sue vicende, senza però menzionare il drammatico finale. La città sorgeva infatti alla congiunzione tra i fiumi Meandro e Marsyas, e quest’ultimo – che scorreva entro l’area urbana – aveva come personificazione il satiro omonimo, che va dunque visto originariamente come una divinità fluviale. Il fiume scaturí dal suo supplizio, sia che sgorgasse dal sangue versato o, forse meglio, dalle lacrime affrante dei Satiri e Ninfe locali, suoi compagni. Nei pressi delle sorgenti del fiume, in una grotta era appesa, si diceva, l’otre fatta

lamento emesso dalle Gorgoni affrante per la morte della sorella Medusa e freddamente riproposto in un consesso divino, soffiando attraverso due canne giustapposte. Ma il suonare, deformandole il volto, fece sí che gli altri numi deridessero Atena, la quale,

Nella pagina accanto, a destra: moneta in bronzo di Apamea di Frigia. 133-148 a.C. Al dritto, testa turrita di Artemide; al rovescio, Marsia cammina suonando il doppio flauto e poggia su un motivo a meandro. Nella pagina accanto, in basso: Atena getta l’aulos davanti a Marsia, disegno ottocentesco della scena dipinta dal Pittore di Codrus (450-400 a.C.) su un vaso a figure rosse da Vari (Attica). Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlung. In basso: rovescio di un nominale in bronzo di Settimio Severo battuto ad Apamea di Frigia, con il gruppo di Atena e Marsia. stizzita, gettò via le canne. Attratto dal suono, Marsia che si trovava nei paraggi (quindi la vicenda si localizza sempre nei pressi di Apamea), si avvicinò e raccolse lo strumento, suonandolo ben presto con tale perizia da osare sfidare Apollo stesso. Il gruppo di Atena e Marsia era celeberrimo nell’antichità, primo tra tutti quello creato dallo scultore Mirone di Eleutère nel 450 a.C. circa ed esposto nell’Acropoli di Atene, noto da repliche e riprodotto in molteplici varianti anche su vasi e monete. Un’emissione in bronzo di Apamea ripropone questo momento, in una composizione complessa che pare ispirata o da una pittura o da un gruppo statuario: al centro campeggia Atena che, seduta su di una roccia, suona il doppio flauto e si rispecchia sull’acqua (il lago Aulukrene, presso Apamea). Da sinistra, dietro una roccia, fa capolino Marsia, che alza le braccia in segno di stupore, incantato dal suono di quel nuovo strumento, melodioso e triste, suggerito dal pianto delle Gorgoni, strumento che, di lí a poco, divenne suo e lo condusse a una morte terribile. (2 – continua)

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i libri di archeo

DALL’ITALIA Marta Berogno, Generoso Urciuoli

piramidi e pentole Un approccio gastronomico alla grammatica egizia Ananke, Torino, 92 pp., ill. b/n 13,00 euro ISBN 978-88-7325-580-2 ananke-edizioni.com

«Dimmi come mangi e ti dirò chi sei»: è un po’ questa la filosofia del volumetto curato da Berogno e Urciuoli, che si cimentano con una piccola storia della gastronomia e dell’arte culinaria degli Egiziani. L’operazione si sviluppa attraverso l’analisi di una serie di caratteri geroglifici riferibili ad altrettanti ingredienti delle pietanze che piú di frequente dovevano figurare sulle mense di quell’antico popolo e alle operazioni necessarie per la loro preparazione. Ne risulta una vera e propria incursione fra le mura domestiche e soprattutto tra i fornelli, suggellata da una scelta di ricette che, in assenza di testimonianze dirette, sono state ricostruite

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proprio sulla scorta delle informazioni che piú spesso ricorrono nel patrimonio epigrafico egiziano. Stefano Mammini Massimo Saracino

dalla terra al fuoco La tecnologia ceramica degli antichi Veneti Scienze e Lettere, Roma, 176 pp., ill. col. e b/n 35,00 euro ISBN 978-88-6687-052-4 scienzeelettere.com

Saggio di taglio specialistico, questo

teorico e metodologico, che offre a Saracino l’opportunità di ripercorrere l’evoluzione fin qui vissuta dagli studi che, come il suo, si sono sforzati di ricostruire l’identità degli uomini ai quali si devono, in questo caso, il vasellame ceramico o altri manufatti fittili. Il fine, in realtà, non è soltanto quello di tracciare uno o piú identikit, ma di ricostruire, per esempio, anche i vari anelli della catena operativa che portava dall’estrazione dell’argilla all’utilizzo dei contenitori dopo la loro cottura e l’eventuale rifinitura. Un’indagine che, come dimostra anche questo volume, può avere «ricadute» decisive nella definizione dei caratteri culturali, intesi nella piú ampia accezione del termine, delle antiche comunità. S. M. Elisabetta G. Rizzioli

Archimede volume nasce dalla tesi di dottorato dell’autore e, inserendosi nel solco dell’«archeologia della produzione», offre spunti di riflessione che vanno ben oltre la specificità del contesto analizzato (che è quello del Veneto antico, esaminato attraverso i materiali restituiti da scavi condotti in una trentina di siti, primo fra tutti quello che ha interessato un insediamento scoperto a Oppeano, presso Verona). La classificazione e l’analisi tipologica dei reperti sono infatti precedute da un’ampia disamina di carattere

Immagini, iconografie e metafore dello scienziato siracusano dal Cinquecento all’Ottocento Edizioni Osiride, Rovereto, 360 pp., ill. col. e b/n 30,00 euro ISBN 978-88-7498-191-5 osiride.it

La fama del suo prodigioso intelletto e delle molte invenzioni che gli sono state attribuite hanno fatto di Archimede una figura quasi leggendaria. In realtà, i riscontri storici, a cominciare dalle testimonianze di molti suoi contemporanei,

sono numerosi e piú che bastevoli a fugare (quasi) ogni dubbio su quale

sia stato il suo effettivo contributo allo sviluppo degli studi scientifici. Eppure, proprio perché personaggio geniale ed eccezionalmente eclettico, il matematico e filosofo siracusano è stato oggetto di omaggi che hanno spesso finito con il mitizzarlo. Un esempio eloquente è costituito dalla vastissima fortuna artistica di Archimede, che è appunto l’oggetto di questo corposo saggio, nel quale viene presa in esame la produzione «pitagorica» concentrata tra il XVI e il XVIII secolo. Nel volume, dunque, non si parla di archeologia in senso stretto, ma soprattutto di storia dell’arte, anche se, innegabilmente, il confronto con la storia e con l’archeologia è costante. Scorrendo i vari capitoli del saggio, si scopre quanto ricco sia il repertorio ed è altresí possibile constatare le numerose riletture del personaggio, che, di volta in volta, per motivi stilistici o affinità


di pensiero, viene associato ad altre grandi figure del passato, come per esempio san Girolamo. Ed è altrettanto interessante osservare la «messa in scena» di alcuni degli episodi chiave della sua vicenda, prima fra tutti l’uccisione per mano di un soldato romano dopo la presa di Siracusa da parte delle truppe guidate dal console Marcello, che riuscí ad avere la meglio sulle macchine ideate da Archimede per respingerne l’assedio. S. M.

sterminato, al quale l’artista si è accostata nel corso di ripetuti viaggi e soggiorni, corroborati dalla rilettura delle fonti antiche. Al di là delle valutazioni sullo stile delle composizioni, che non potrebbero essere altro che soggettive, colpisce l’immutata vitalità di un patrimonio che, ancora oggi, può costituire una fonte di ispirazione dotata di una forza davvero formidabile. S. M.

Grecia, l’Aspropotamo, e una divinità fluviale legata alle acque che scorrono e alla loro regimentazione. Inoltre era un dio con un ruolo nei passaggi di condizione e connessioni con il mondo dei morti. L’autrice fa parlare Acheloo in prima persona: la divinità inizia narrando come ha perduto uno dei suoi due corni e l’evento è

per i piú piccoli Helga Di Giuseppe

Fernanda Facciolli

Acheloo

con pausania sulle tracce di esiodo

Scienze e Lettere, Roma, 44 pp., ill. a colori di Emanuele Carosi 13,00 Euro ISBN 978-88-6687-060-9 scienzeelettere.it

Quando gli Eroi erano ancora fiumi, i Giganti erano ancora montagne e le Ninfe erano ancora fonti Marcianum Press, Venezia, 151 pp., ill. col. e b/n 19,00 euro ISBN 978-88-6512-253-2 marcianumpress.it

Una storia in 36 quadri, che, in questo caso, sono tali nel senso piú letterale del termine. Il volume raccoglie infatti le opere

che Fernanda Facciolli ha concepito ispirandosi ai luoghi e ai miti dell’antica Grecia. Un patrimonio

Il volume inaugura Monstra, una collana rivolta a giovani e ai giovanissimi lettori che l’editore Scienze e Lettere ha dedicato alle figure ibride «in parte uomini, in parte animali e in parte qualcosa d’altro» della mitologia. Helga Di Giuseppe ha scelto di narrare le storie legate ad Acheoloo, un personaggio raffigurato in genere come un toro dal volto umano, ma con la capacità di mutare d’aspetto e di trasformarsi, per esempio, in un uomo con attributi taurini, o in un serpente dal volto umano ma sempre con gli attributi di un toro. Egli veniva considerato la personificazione del piú importante fiume della

l’occasione per ricordare la figura di Eracle che riuscí a strapparglielo nel corso di una lotta furiosa. Una lite sorta davanti al re dell’Etolia, Oineo, di cui entrambi volevano sposare la figlia Deianira. Dal confronto ne uscí sconfitto e Deianira sposò Eracle, ma Acheloo incontrò altri amori che furono felici: veniva considerato il padre delle Sirene, delle Ninfe e di alcune sorgenti. La perdita del corno da parte di Acheloo (le corna simboleggiavano le curve che i fiumi fanno lungo il loro corso) significava che si poteva modificare il corso di un fiume e violarlo per dare nuove terre all’agricoltura, ma che l’operazione andava fatta con grande attenzione per non suscitarne le ire e la divinità doveva, in una qualche maniera, essere

risarcita: il mito continua a insegnare a noi uomini. Giuseppe M. Della Fina

dall’estero David Blackman e Boris Rankov

shipsheds of the ancient mediterranean Cambridge University Press, Cambridge, 598 pp., ill. b/n 160,00 USD ISBN 978-1-107-00133-6 cambridge.org

Oggetto del volume sono i cantieri navali e gli edifici adibiti al rimessaggio delle imbarcazioni: una tipologia di strutture che nel mondo mediterraneo, naturalmente vocato alla marineria, ebbero grande importanza. Gli autori passano in rassegna numerosi siti, molti dei

quali concentrati lungo la costa tirrenica della Penisola, offrendo un panorama articolato e aggiornato alle aquisizioni piú recenti. Ne risulta una sorta di atlante, capace di dare la misura delle capacità ingegneristiche e organizzative affinate da quanti erano coinvolti nell’attività armatoriale. Stefano Mammini

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