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ARCHEO 372 FEBBRAIO
ARCHEO
2016
ESCLUSIVA RITORNO A POPULONIA
RITORNO A POPULONIA
GRANDI MOSTRE
A BASILEA IL RELITTO DI ANTICITERA
SCAVI IN LIGURIA EURASIA
SPLENDORI
DAL
MONDO DELLE STEPPE
• GLI ANIMALI DORATI DI MAJKOP • STORIA E ARTE DEGLI SCITI
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SPECIALE L’ETÀ DEGLI SCITI
Mens. Anno XXXII n. 372 febbraio 2016 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
ANTICITERA A BASILEA
EURASIA
www.archeo.it
IO
EDITORIALE
RITORNO A POPULONIA
Il territorio di Populonia, con il suo magnifico paesaggio adagiato sulla costa tirrenica, è ben noto ai nostri lettori. Ne abbiamo riferito spesso, e non solo per esaltare le qualità intrinseche di una terra bellissima – in cui archeologia, storia e natura si fondono in una sintesi felice –, ma, soprattutto, per dare conto dell’impegno di archeologi e funzionari pubblici che alla salvaguardia di questo importante lembo di Toscana hanno dedicato – senza clamore e spesso avvolti nel piú totale silenzio dei mezzi di comunicazione – il loro preziosissimo lavoro. Grazie a esso, infatti, negli ultimi decenni si sono ottenuti risultati notevoli, sia per quanto riguarda l’indagine archeologica vera e propria, sia per la qualità dell’allestimento di musei e parchi, strumenti cosí indispensabili per la conservazione del nostro patrimonio e la trasmissione, piú ampia possibile, della sua conoscenza (si veda, a questo proposito, il n. 272 di «Archeo», dell’ottobre 2007). È con grande interesse, cosí, che abbiamo appreso la notizia di un nuovo cantiere di scavo, allestito proprio sulla riva del Golfo di Baratti e che, ancora una volta, rappresenta la dimostrazione di come sia possibile, anche nel non facile ambito dell’archeologia, escogitare e mettere in atto iniziative intelligenti e virtuose. Ne parliamo nell’articolo di apertura, rinnovando l’antico invito a visitare uno dei paesaggi culturali piú belli del nostro Paese. Prendono spunto, invece, da una mostra allestita al Palazzo di Città di Cagliari, gli articoli dedicati a un grande tema, di respiro davvero internazionale, quello delle civiltà nomadi dell’Eurasia. Nella città sarda sono approdati oltre trecento reperti, provenienti da una delle piú importanti raccolte archeologiche di tutto il mondo, quella inaugurata agli inizi del Settecento dallo zar di Russia, Pietro il Grande e confluita nelle sale dell’Ermitage di San Pietroburgo. Nei secoli, la collezione – continuamente alimentata dai risultati di nuovi scavi e scoperte – è diventata lo scrigno che accoglie le testimonianze di un universo culturale grandioso e immenso, come lo stesso territorio in cui visse e fiorí. E la cui arte, mirabilmente scolpita nell’oro e nell’argento, si avvalse di un millenario, irrinunciabile denominatore comune: quello degli animali. Sono loro i protagonisti assoluti di quello «stile animalistico» che, secondo il grande storico e archeologo russo, Michael Rostovtzeff (1870-1952) «sembra essere lo stile piú antico nella storia delle arti decorative dell’uomo». E che unisce, in un filo conduttore che dal IV millennio si estende fino a primi secoli dopo Cristo, la straordinaria statuetta «naturalistica» di un toro, rinvenuta nel tumulo di Majkop (ed esposta nella mostra cagliaritana) alla folgorante produzione dell’artigianato scitico-siberiano, illustrata da Massimo Vidale nello Speciale di questo numero. Andreas M. Steiner Nella foto, il borgo di Populonia, affacciato sul Golfo di Baratti.
SOMMARIO EDITORIALE
Ritorno a Populonia
DA ATENE 3
di Andreas M. Steiner
Attualità NOTIZIARIO
SCOPERTE Torna alla luce, in Norvegia, uno dei piú vasti insediamenti vichinghi a oggi noti
Alle frontiere dell’Attica 28 di Valentina Di Napoli
8
MOSTRE/2
SCAVI
Tutti insieme per Populonia
Genova
32
di Carolina Megale
Cagliari
Eurasia, alle soglie della storia
ALL’OMBRA DEL VESUVIO Alla scoperta delle case meno note, ma non certo meno povere, di via dell’Abbondanza 14
68
testi di Yuri Piotrovsky e Carlo Bertelli
PAROLA D’ARCHEOLOGO Eva Degl’Innocenti, neodirettrice del Museo Archeologico di Taranto, illustra i suoi progetti per il rilancio della collezione 16
Nuove ricerche definiscono il ruolo del limes nei rapporti fra le genti germaniche e Roma 26
60
di Andrea De Pascale
MOSTRE/3
8
DALLA STAMPA INTERNAZIONALE
Fra terra e mare
60
32 MOSTRE/1 Basilea
La nave di Anticitera di Esaú Dozio
46
68
In copertina placca di pettorale in oro. Già nella collezione siberiana di Pietro il Grande, VII-VI sec. a.C San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage.
Anno XXXII, n. 372 - febbraio 2016 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 0069.6352 Comitato Scientifico Internazionale
Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli,
Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Carlo Bertelli è storico dell’arte. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (IISL) e membro del Centro Studi Sotterranei di Genova. Valentina Di Napoli è archeologa. Esaú Dozio è curatore presso l’Antikenmuseum und Sammlung Ludwig di Basilea. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Carolina Megale è archeologa e coordinatrice del Progetto Archeodig. Yuri Piotrovsky è archeologo. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: Bridgeman Images: copertina (e p. 90) e p. 104 (sinistra); Boltin Picture Library: pp. 77, 86, 87, 88/89 – Cortesia Progetto Archeodig: pp. 36 (alto, destra), 38, 40-45; Ivo Parenti: pp. 32/33; Filippo Fior: pp. 3, 34, 36/37; Museo etrusco di Populonia Collezione Gasparri: pp. 34/35; Francesco Ghizzani Marcia: p. 36 (alto, infografica); Stefano Genovesi: p. 39 – Cortesia NTNU University Museum: Åge Hojem: pp. 8-9 – Museo Archeologico dell’Alto Adige: Samadelli: p. 10 (alto); A. Ochsenreiter: p. 10 (basso) – Cortesia Soprintendenza Archeologia della Liguria: pp. 11 (alto e centro) – ANSA: p. 11 (basso) – Cortesia Soprintendenza Archeologia della Puglia: p. 12 – Cortesia Soprintendenza Pompei: pp. 14-15 – Cortesia Museo Archeologico Nazionale di Taranto-MArTA: P. Buscicchio: pp. 16-19 – Cortesia Archäologie in Deutschland: pp. 26-27 – Cortesia progetto Borders of Attica: pp. 28-29 – Cortesia Antikenmuseum und
Rubriche IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO
Un precursore, sempre 96 di Daniele Manacorda
QUANDO L’ANTICA ROMA...
…sistemò i suoi rapporti con i Latini 100 di Romolo A. Staccioli
100
76 SPECIALE Eurasia
L’età degli Sciti
76
di Massimo Vidale
L’ORDINE ROVESCIATO DELLE COSE Discesa agli Inferi
106
di Andrea De Pascale
A VOLTE RITORNANO
Lo Svizzero tuttofare 104 di Flavio Russo
SCAVARE IL MEDIOEVO
A tavola con eleganza 108 di Andrea Augenti
Sammlung Ludwig, Basilea: pp. 46/47, 48 (basso), 48/49 (sfondo), 50-56 – Doc. red.: pp. 49 (basso), 78, 94, 95 (destra), 97 – Getty Images: Louisa Gouliamaki: p. 57; Axel Schmidt: p. 85 (alto) – Archivio Soprintendenza Archeologia della Liguria: pp. 60-67 – Cortesia Ufficio stampa mostra: pp. 68-75 – Shutterstock: pp. 76, 105 (alto) – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 79, 84 (basso); The Art Archive: p. 82; Electa: p. 101 (basso) – DeA Picture Library: A. Dagli Orti: pp. 82/83, 102; S. Vannini: p. 100 – Da: Scythian Gold. Treasures from Ancient Ukraine, New York 1999: pp. 84 (alto), 85 (basso), 86/87, 88 (riquadro), 91 – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Gérard Blot: p. 92 – Erich Lessing Archive/Magnum/Contrasto: p. 93 – Foto Scala, Firenze: p. 108; The Trustees of the British Museum: p. 95 (sinistra); su concessione MiBACT: p. 109 – Per gentile concessione degli eredi di Giacomo Boni: foto di Luigi Pellerano: p. 96 – Da: In sacra via. Giacomo Boni al Foro Romano, gli scavi, Milano 2014: pp. 98-99 – Cortesia degli autori: pp. 104 (destra), 105 (sinistra), 110-111 – Giovanni Belvederi: pp. 106-107 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 28, 34, 48/49, 80-81, 101. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
Piccoli (e grandi) capolavori in cerca di paternità
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di Francesca Ceci
LIBRI
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n otiz iari o SCAVI Norvegia
VICHINGHI IN FASE DI... ATTERRAGGIO!
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a località di Ørland, nella Norvegia sud-occidentale, nei pressi del fiordo di Trondheim, ospita la piú grande base aerea del Paese. Quando lo scorso anno il governo norvegese ha deciso di acquistare 52 velivoli F35 è stato chiaro che, per alloggiarli, sarebbe stato necessario ampliare gli spazi dell’aeroporto. La notizia è stata accolta positivamente dagli archeologi, perché ha fornito l’occasione di condurre indagini in un’area ad alto potenziale. Oggi
In alto, sulle due pagine: Ørland (Norvegia). Veduta dell’area nella quale sono venuti alla luce i resti di strutture riferibili a un villaggio vichingo di notevole estensione. A sinistra: una perlina in pasta vitrea blu restituita dai primi scavi condotti a Ørland.
8 archeo
qui si vedono campi coltivati, ma in epoca antica l’area era occupata da una baia e rappresentava un sito strategico di collegamento con i territori interni della Norvegia centrale e con la Svezia, e un luogo riparato per le imbarcazioni che seguivano le rotte costiere. I ricercatori del dipartimento di archeologia dell’Università di Trondheim NTNU, coordinati da Ingrid Ystgaard, archeologa e responsabile del progetto, si sono occupati dei lavori di ricognizione e i risultati non si sono fatti attendere: in breve sono affiorate le tracce di un importante villaggio vichingo, risalente a circa 1500 anni fa.
Secondo quanto dichiarato dagli archeologi, la ricchezza del sito è senza precedenti, dovuta non soltanto alle dimensioni, ma anche alle particolari condizioni del terreno. In quest’area, infatti, l’acidità tipica del suolo norvegese è mitigata dalla ingente presenza di frammenti di conchiglie, e questo ha permesso la conservazione di molti reperti che altrove sarebbero andati sicuramente distrutti. Per esempio, sono stati individuati alcuni immondezzai, contenenti numerose ossa di animali: mammiferi, pesci – salmoni e merluzzi – e volatili marini. Da qui sono emersi anche oggetti in
vetro e ambra, come perline ornamentali, e il frammento di una tazza la cui manifattura rimanda alla regione germanica e, in particolare, alla valle del Reno. Tale dato indica che gli antichi abitanti dell’insediamento dovevano godere di un discreto benessere e praticare un’economia di scambio che comprendeva il commercio di materie preziose come il vetro. Sono state isolate anche buche di palo relative a due case lunghe, una di 40 m e l’altra di 30, edificate parallele e collegate tra di loro da un altro edificio piú piccolo, determinando una configurazione a
ferro di cavallo. La maggiore delle due costruzioni mostrava tracce di almeno tre focolari, di cui uno utilizzato per cucinare. L’area da esaminare è enorme, oltre 91 000 mq, e i lavori pertanto procedono anche con l’uso di scavatori meccanici, rimuovendo strati di pochi centimetri di terreno alla volta e quindi operando manualmente nel momento in cui si incontrano resti archeologici. Le indagini proseguiranno nei prossimi mesi e gli archeologi sperano di individuare anche le sepolture connesse al villaggio, nonché i resti del porto. Paolo Leonini
archeo 9
n otiz iario
SCOPERTE Bolzano
OCCHI A MANDORLA PER GLI ANTENATI DI ÖTZI?
L
e ricerche sulla mummia dell’Uomo del Similaun, piú noto come Ötzi (del quale «Archeo» si è occupata a piú riprese: si vedano, in particolare i nn. 228 e 307, febbraio 2004 e settembre 2010), continuano a riservare sorprese: due importanti notizie al riguardo si sono susseguite a breve distanza l’una dall’altra nelle ultime settimane. La prima è stata la dimostrazione della presenza del batterio Helicobacter pylori nello stomaco di Ötzi. Il lavoro è stato condotto dai ricercatori dell’Accademia Europea di Bolzano (EURAC), il paleopatologo Albert Zink e il microbiologo Frank Maixner, in collaborazione con Thomas Rattei dell’Università di Vienna e numerosi studiosi internazionali. Le conclusioni sono state inaspettate, e hanno provato che il ceppo batterico in questione è asiatico e non europeo. Ciò indicherebbe che, contrariamente a quanto finora ritenuto, la nascita del ceppo europeo – a partire dalla ricombinazione di quelli asiatico e africano – è avvenuta all’indomani della sedentarizzazione delle popolazioni durante il Neolitico. L’altra scoperta riguarda invece le indagini sulla discendenza genetica di Ötzi, ed è stata illustrata in un recente articolo dalla biologa Valentina Coia dell’EURAC, assieme a numerosi studiosi italiani e internazionali. Ricerche precedenti erano state effettuate sul DNA mitocondriale (la linea materna di discendenza),
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In alto: Egarter Vigl e Albert Zink impegnati nel prelievo di un campione dalla mummia dell’Uomo del Similaun, piú noto come Ötzi. A sinistra: la ricostruzione dell’Uomo del Similaun realizzata nel 2011 dagli artisti olandesi Alfons e Adrie Kennis. ma non avevano portato a risultati esaustivi sulla sua origine e sulla sopravvivenza moderna. Questo studio si è avvalso di un confronto molto piú ampio, con oltre 1077 campioni di DNA, e ha rivelato che la linea materna dell’Iceman si è originata nella regione delle Alpi e non è rintracciabile nelle popolazioni moderne. La linea paterna, invece, era comune nell’Europa neolitica ed è presente ancora oggi. Per spiegare questo quadro evolutivo, i ricercatori hanno proposto uno scenario che vede la linea genetica paterna raggiungere l’Europa con migrazioni dall’Asia circa 8000 anni fa, combinarsi con la linea materna, che si origina nella regione alpina a partire da circa 2700 anni dopo, e quindi subire ulteriori modifiche per effetto di nuove migrazioni, che portano alla eventuale estinzione della linea materna. P. L.
SCOPERTE Liguria
QUELLA GHIOTTONERIA FINITA IN FONDO AL MARE...
I
n Liguria, sui fondali della Riviera di Ponente, al largo di Alassio, già dall’estate del 2013 era stata rilevata la presenza di reperti di epoca romana, grazie anche alla segnalazione di un pescatore nelle cui reti erano rimasti impigliati alcuni frammenti. Da allora, la collaborazione tra la Soprintendenza Archeologia della Liguria e l’Arma dei Carabinieri ha reso possibile la perlustrazione sistematica del tratto di mare in questione e ha portato alla
localizzazione di un importante relitto sommerso. L’imbarcazione, individuata a una profondità di oltre 200 m, a 5 km circa dalla costa, è stata raggiunta dagli agenti del Nucleo Carabineri subacquei di Genova, coordinati dal maggiore Luca Falcone, che hanno utilizzato per le operazioni il robot subacqueo filoguidato Pluto. Quest’ultimo ha filmato l’impressionante carico di anfore e quindi, sfruttando il braccio meccanico di cui è dotato, ne ha riportato in superficie un esemplare pressoché intatto. Come ha spiegato Simon Luca Trigona, funzionario archeologo della Soprintendenza, l’imbarcazione doveva essere un’oneraria, databile alla piena età
imperiale, tra il I e il II secolo d.C.; il carico trasportato è stimabile tra i 2000 e i 3000 pezzi, che fanno ipotizzare una lunghezza della nave compresa tra i 27 e i 30 m. Pur in assenza di resti del contenuto, è stato possibile, sulla base della forma, identificare le anfore come contenitori per il trasporto di garum, la salsa a base di pesce molto in voga nella cucina romana, uno dei cui centri di produzione principali era Cadice. È perciò verosimile che la nave sia naufragata mentre faceva rotta per Roma, di ritorno da un porto betico (forse proprio Cadice). L’ipotesi è suggerita dalla presenza di una coppia di anfore di probabile fattura umbro-laziale, interpretate come provviste di bordo, che farebbero pensare che il mercantile avesse iniziato il suo viaggio dal porto di Ostia. Mentre sono state disposte misure di sorveglianza per prevenire il trafugamento di reperti dal sito, si
In alto e a sinistra: due immagini delle anfore, ottenute grazie al robot subacqueo filoguidato Pluto. stanno definendo le strategie per la valorizzazione. Il soprintendente Vincenzo Tiné ha ipotizzato la realizzazione di un museo virtuale, come già avvenuto ad Albenga e a Santo Stefano al Mare. La scoperta avvalora l’ipotesi dell’esistenza di una importante rotta commerciale tra Roma e la penisola iberica lungo la costiera ligure, alternativa alle rotte d’altura, e lascia presagire che i fondali litoranei possano riservare ulteriori sorprese. P. L.
A destra: una delle anfore per il trasporto del garum, la salsa a base di pesce pressoché onnipresente sulle tavole dei Romani.
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n otiz iario
SCAVI Puglia
ULTIMISSIME DA MONTE SANNACE
I
l Parco Archeologico di Monte Sannace (Gioia del Colle, Bari) rappresenta un unicum nel panorama della Puglia centrale preromana per l’estensione dell’area visitabile e per lo straordinario stato di conservazione. Fulcro del sito è la collina dell’acropoli, che, tra l’età arcaica e quella ellenistica, accolse edifici pubblici polifunzionali e tombe monumentali destinate a personaggi eminenti. Da vent’anni, in accordo con la Soprintendenza Archeologia della Puglia, la Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici dell’Università degli Studi di Bari «Aldo Moro» effettua campagne di scavo presso il parco. «Le ultime indagini – spiega Paola Palmentola, direttore scientifico dello scavo – sono state condotte nello scorso autunno da studenti
dell’ateneo pugliese, seguiti dagli archeologi Savino Gallo, Giovanna Todisco e Virginia Stasi, e hanno interessato due settori distinti dell’insediamento peucezio. In continuità con le ricerche degli ultimi anni, si è intervenuti nell’insula III della città bassa, dove, al di sotto della fase di vita ellenistica dell’ambiente denominato T, sono state rinvenute due sepolture con corredo. La prima, una cassa litica inquadrabile nel V secolo a.C., ospitava un individuo probabilmente di sesso femminile, accompagnato da un piccolo corredo ceramico; una hydria era posta all’esterno come sema funerario, lungo la testata della cassa era un “ripostiglio” dal quale provengono otto manufatti, tra cui un poppatoio e alcuni recipienti di In alto: Monte Sannace (Bari). Il corredo di una sepoltura rinvenuta in occasione dell’ultima campagna di scavo. A sinistra: un settore dell’abitato.
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produzione locale che alludono al consumo del vino. La seconda deposizione, una fossa terragna destinata a un individuo adulto di sesso maschile, era accompagnata da un corredo ceramico, tra cui un’olla dotata di coperchio e sigillata, alcuni recipienti per bere (skyphoi e una coppetta) e un pentolino da fuoco, caratteristico dei corredi peucezi di età ellenistica. A connotare il sesso del defunto era una punta di giavellotto in ferro. Entrambi gli individui erano deposti in posizione rannicchiata sul fianco, come prevedeva l’uso funerario della Puglia, almeno fino alla romanizzazione». Gli scavi hanno interessato anche un nuovo settore dell’abitato, lungo il limite meridionale del parco archeologico. L’area, depredata in passato da scavatori clandestini e poi indagata negli anni Settanta con alcune trincee, ha rivelato un’alta densità di sepolture. In particolare, il recente saggio di scavo ha messo in luce almeno due ambienti contigui e, in ciascuno di essi, una tomba a semicamera. Seppure violata, una delle due tombe ha restituito parte di un corredo femminile, ovvero un unguentario e due valve di conchiglia pertinenti a un portacipria. Giampiero Galasso
ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi
UN «SIGNORILE DECORO» SU VIA DELL’ABBONDANZA, OLTRE AD ATTIVITÀ COMMERCIALI E DOMUS PRESTIGIOSE, SI TROVAVANO ANCHE CASE DEL CETO MEDIO POMPEIANO, POCO CONOSCIUTE AL PUBBLICO, EPPURE RAFFINATE
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razie ai recenti restauri eseguiti nell’ambito del Grande Progetto Pompei, sono stati riaperti al pubblico alcuni edifici fra loro vicini, che offrono un interessante spaccato sulla vita quotidiana che animava la via dell’Abbondanza. Di questo complesso fanno parte la fullonica di Stephanus – uno dei migliori esempi pompeiani di officina destinata alla lavorazione e alla tintura della lana – e varie domus signorili, come quella del Criptoportico (vedi «Archeo» n. 362, aprile 2015), dell’Efebo e di Paquius Proculus. Quest’ultima, attribuita a un influente personaggio locale, è famosa per il mosaico con il cane alla catena, fra porte semi-aperte, e per uno straordinario pavimento con immagini di animali, remi, timoni e testine umane, fra i piú estesi e meglio conservati della città. La dimora presenta inoltre una curiosa pianta trapezoidale, determinata dalla chiusura dei primitivi cubicula (stanze da letto), in seguito inglobati nella contigua casa di Fabius Amandius. «Poche case rendono, come questa, fresca e viva l’impressione di una modesta abitazione borghese che pur non rinuncia a un certo signorile decoro»: cosí Amedeo Maiuri, direttore degli scavi di
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Pompei dal 1924 al 1961, definí la casa di Amandio, un bell’esempio di piccola abitazione pompeiana destinata al ceto medio, per la sua forma stretta e allungata, quasi soffocata com’era fra la casa di Paquio Proculo, una taberna e il cortile di un’altra domus. Si tratta di una vera abitazione in miniatura se confrontata con le domus signorili, con stanze piú piccole e meno numerose, eppure decorate con eleganza e raffinatezza. Il piccolo atrio, nonostante le modifiche, è comunque proporzionato rispetto alla planimetria generale e presenta
l’impluvio con al centro la bocca della cisterna; le pareti sono dipinte in IV stile, con ampie campiture a fondo rosso e originali riquadri che racchiudono scene di paesaggi pastorali e sacrali. L’atrio è ricavato dai tre cubicula della casa di Paquius Proculus, le cui primitive porte si riconoscono ancora in parete perché trasformate in armadi. Il viridario, che si apre con una grande finestra sull’atrio, serviva a dare aria e luce alla casa: è un minuscolo giardino con pareti dipinte a motivi vegetali per dare l’illusione di uno spazio piú ampio. Nel tentativo di ovviare alla carenza
di spazio, i vani scala che conducevano al piú arioso piano superiore assunsero anche altre funzioni, come quello con un’apertura sulla strada, destinato forse anche a bottega tessile; al suo interno sono stati infatti ritrovati una decina di pettini da tessitore. La vicina casa del Sacerdos Amandus, cosí chiamata per le scritte elettorali dipinte sullo stipite sinistro dell’ingresso, ha invece una
forma piú irregolare, determinata dalle trasformazioni subite fra il II secolo a.C e il 79 d.C. Costruita in opus incertum, rivela diversi restauri in seguito al violento terremoto del 62-63 d.C. Le fauci (ingresso), lunghissime – dove almeno nove persone, fra adulti e bambini, cercarono invano di sfuggire all’eruzione –, indicano che gli ambienti sulla strada erano staccati rispetto al nucleo primitivo In alto: l’atrio della Casa di Fabius Amandius. A sinistra e nella pagina accanto: un affresco dell’ingresso e il triclinio della Casa del Sacerdos Amandus.
della residenza per farne evidentemente altro uso, per cui l’atrio è stato in un secondo momento ridimensionato e arretrato. Su questo si aprono gli ambienti piú importanti, un triclinio con pitture a tema mitologico in III stile (con Polifemo e la nave di Ulisse; Perseo e Andromeda; Ercole nel giardino delle Esperidi; il volo di Dedalo e Icaro) e un cubiculum dipinto dotato di armadio a muro. Elegante è anche il piccolo peristilio che includeva il giardino ombreggiato da un lussureggiante albero ancora segnalato dall’impronta della radice. Anche questa abitazione disponeva di un piano superiore, indipendente – accessibile dal vicino thermopolium forse appartenuto allo stesso proprietario della dimora –, del quale si riconosce ancora in facciata l’apertura di un balcone: qui si trovava l’officina di un tabellarius, un costruttore di tavolette cerate, trovate in grande quantità carbonizzate fra le macerie e i crolli dell’edificio.
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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri
IL MUSEO RITROVATO MENTRE STA PER CONCLUDERSI IL RIALLESTIMENTO DELLE SUE COLLEZIONI, L’ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI TARANTO SI PREPARA A SVILUPPARE I PROGETTI DI RILANCIO ELABORATI DAL SUO NUOVO DIRETTORE, EVA DEGL’INNOCENTI, CHE LI HA VOLUTI ANTICIPARE AD «ARCHEO»
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el 1985, per la copertina del suo primo numero, «Archeo» scelse una delle splendide oreficerie del Museo Archeologico Nazionale di Taranto. In occasione del trentennale della rivista, quell’immagine e il servizio sulla magnifica collezione tarantina ci sono tornati alla mente e ci siamo cosí recati nella città pugliese, per visitare il nuovo MArTA (il Museo Archeologico Nazionale di Taranto), ristrutturato e in parte riaperto al pubblico, dal dicembre 2013, con una nuova «veste». Da un paio di mesi, alla guida del museo c’è l’archeologa Eva Degl’Innocenti: 39 anni, toscana, ha conseguito un dottorato di ricerca in archeologia presso l’Università di Siena e ha alle spalle esperienze maturate sul campo in Italia, Francia e Inghilterra. Quasi leggendoci nel pensiero, previene la nostra prima, inevitabile, domanda: quando aprirà la sezione del museo dedicata alla Taranto piú antica, di epoca protostorica e classica? «Il secondo piano sarà finalmente visitabile prima dell’estate. Svilupperemo un percorso che va
Nella pagina accanto: un elegante orecchino in oro. IV sec. a.C. Taranto, MArTA, Museo Archeologico Nazionale.
A destra: la Sala XXV del MArTA, Museo Archeologico Nazionale di Taranto.
dal Neolitico fino al IV secolo a.C.: saranno esposte, tra gli altri, la celebre Tomba dell’Atleta, con il suo ricco corredo di anfore panatenaiche (vedi «Archeo» n. 219, maggio 2003), e la statua dello Zeus di Ugento, uno dei pezzi “faro“ della collezione del MArTA (vedi «Archeo» n. 354, agosto 2014). In questo modo il percorso dell’esposizione sarà completo». Per quali motivi l’apertura di questa sezione del museo ha richiesto tempi cosí lunghi? «Il progetto di ristrutturazione del MArTA era molto ambizioso. Non è facile adattare la struttura moderna
a quella antica – un convento dell’Ottocento – in cui sorge il museo. All’epoca in cui è stata avviata la ristrutturazione, si è scelto di privilegiare l’uniformità progettuale, procedendo per contesti cronologici e archeologici: per cui si è deciso di aprire intanto il primo piano, anziché attendere l’apertura del secondo». Qual è la sua idea, per il futuro del MArTA? «Occorre ripensare la struttura gestionale del museo, riorganizzare l’organico e farlo diventare efficiente dal punto di vista dei servizi. È fondamentale che il
Qui sopra: corona aurea a foglie di quercia. II sec. a.C. Taranto, MArTA, Museo Archeologico Nazionale.
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MArTA diventi un centro di eccellenza, di valorizzazione e fruizione della ricerca in Puglia. Prima era visto soltanto come un luogo deputato alla conservazione e alla tutela; con la riforma, invece, il museo ha acquistato un’autonomia finanziaria che ci permetterà di puntare sulla valorizzazione, anche attraverso nuove opportunità di raccolta fondi. Va poi potenziata la curatela di mostre tematiche, da esportare
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all’estero, come negli Stati Uniti o in Estremo Oriente, e vanno digitalizzati gli archivi: a oggi, infatti, non esiste una banca dati informatizzata dei reperti conservati nei depositi. C’è poi il capitolo dei servizi didattici e informativi, a cui stiamo lavorando a fini di promozione e comunicazione. Quello che manca è una strategia di marketing territoriale. Il museo non è una monade a sé stante. Deve inserirsi nel marketing economico e
turistico della Puglia. E creare un asse di ricerca con le Università, anche per materie non umanistiche, come l’ingegneria informatica». Sulle due pagine: ancora due manufatti facenti parte della collezione di oreficerie del MArTA. Una teca in argento dorato a forma di conchiglia (fine del III sec. a.C.); un orecchino in oro, pasta vitrea bianca e bruna, smalto verde (fine del II-inizi del I sec. a.C.).
A proposito di nuove tecnologie… che cosa «bolle in pentola»? «Il mio progetto è quello di un MArTA 3.0: la creazione di un fab-lab, cioè di un laboratorio creativo digitale che si occupi di informatizzare il museo e la sua fruizione, anche attraverso la realizzazione di App che agevolino la visita da parte dei soggetti disabili. Abbiamo in progetto l’utilizzo di stampanti 3D per la didattica ma anche per il
VISITIAMO INSIEME
Una raccolta sfavillante Riaperto nel 2013, il primo piano del Museo Archeologico di Taranto è dedicato alla storia della città in epoca magno-greca, dal IV secolo a.C., romana e tardo-antica. L’attenzione viene subito catturata dagli ori di produzione tarantina, che testimoniano per l’epoca ellenistica una tradizione artigianale di altissimo livello e del tutto originale. Collane fiorite, diademi con gemme, orecchini minuziosamente lavorati, pendenti in filigrana, anelli con castone in oro o in pietra dura, bracciali cesellati e monili dalle forme raffinate. Fra i materiali esposti, presentati in ordine cronologico e per contesto di rinvenimento, possiamo ricordare gli ornamenti provenienti da Crispiano, le parure delle tombe di Ginosa, oppure le corone con ricca decorazione floreale e vegetale, come quella della Tomba di Canosa, della seconda metà del III secolo a.C., con raffinate decorazioni in oro, pasta vitrea, gemme e granate. O, ancora, i bracciali tortili da Mottola, con terminazione a forma di testa di animale. Nelle vetrine della sezione romana, spiccano oreficerie arricchite da paste vitree e pietre colorate, terrecotte policrome di tradizione greca, oggetti in osso, avori, sarcofagi in marmo e vetri colorati importati, che caratterizzano le sepolture di età imperiale. E poi ci sono le particolarissime statuette fittili di danzatrici, le maschere teatrali in terracotta, le pedine da gioco, i mosaici di epoca imperiale e tardo-antica rinvenuti in edifici pubblici e ville private, che documentano l’alto livello raggiunto dall’edilizia urbana in epoca romana. DOVE E QUANDO MArTA, Museo Archeologico Nazionale di Taranto Taranto, via Cavour 10 Orario tutti i giorni, 8,30-19,30 Info tel. 099 4532112; www.museotaranto.org
merchandising, con la realizzazione di riproduzioni degli ori da vendere al pubblico». Lei ha lavorato a Parigi, come Project Manager per la curatela di mostre al Museo Nazionale del Medioevo, e in Inghilterra, dove ha diretto un museo archeologico. Cosa porta di tutto ciò a Taranto? «Nei musei francesi sono fondamentali il management e l’utilizzo dei fondi europei. L’allestimento del MArTA è ben fatto, ma si devono inserire supporti didattici per agevolare la fruizione da parte di un pubblico neofita o con una preparazione medio-bassa. In Francia, per esempio, vige il concetto dell’interpretazione offerta al pubblico: è questa la chiave di lettura di ciò che si vede nelle vetrine. Occorre coinvolgere il territorio, l’associazionismo giovanile, le cooperative sociali, e anche i piú piccoli. Da quando mi sono insediata, abbiamo creato laboratori per bambini dai 6 ai 12 anni, nei quali uniamo la didattica al gioco, usando bambole di terracotta realizzate dai ceramisti di Grottaglie che riproducono i personaggi della mitologia». E poi andrebbe sanata la cesura che, da sempre, separa la città vecchia di Taranto dal resto del tessuto urbano e sociale… «È fondamentale ricucire questa rottura: ho in mente percorsi tematici che leghino il MArTA alla città vecchia, con guide locali e applicazioni digitali. Stiamo avviando progetti europei di animazione creativa della città: abbiamo iniziato a collaborare con i teatri e con il Conservatorio per offrire eventi musicali, spettacoli di danza e concerti all’interno del museo, tenendolo aperto anche oltre l’orario di chiusura. La formula è quella che permette di accedere a tutti i servizi della programmazione culturale in città acquistando il biglietto del museo».
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n otiz iario
ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
TUTTE LE STRADE DELL’IMPERO Il CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica) ha ideato i «progetti collettivi»: piú collezionisti realizzano minicollezioni (da 12 o 16 fogli) su una parte di un argomento piú vasto. Dopo quelli dedicati alla Divina Commedia (con 100 collezioni, una per ogni canto), ai 150 anni dell’Unità d’Italia, alla Costituzione italiana, alla Sostenibilità e alla Grande Guerra, è ora la volta di «Tutte le strade parton da Roma». Si tratta, in questo caso, della descrizione, attraverso materiale filatelico, delle maggiori strade romane, sia in territorio italiano che oltralpe, in concomitanza con il ritorno in edicola della Monografia di «Archeo» Tutte le strade dell’impero. Si sono offerti 24 collezionisti (2 spagnoli) che hanno «coperto» tutte le strade piú o meno importanti: 14 sul suolo italiano e 10 all’estero. Con la tecnica della filatelia tematica sono stati richiamati luoghi, avvenimenti e personaggi in qualche modo collegati al percorso di ciascuna arteria, sia in epoca romana che in epoche successive. Insomma è un po’ quello che è stato già descritto nel fascicolo di ottobre di «Archeo» a proposito della via Appia e dell’iniziativa del giornalista Paolo Rumiz. A titolo di esempio vi proponiamo le pagine già realizzate da due collezionisti di Livorno, Paolo Bettarini e Carlo Doria, che si sono assunti l’impegno di descrivere la via Cassia, da Roma a Firenze e poi fino a Luni. Nei prossimi mesi non mancheremo di aggiornarvi sullo stato di avanzamento di questo progetto che potrà sicuramente interessare non pochi lettori. E, nelle previsioni del CIFT, c’è anche l’ipotesi che le oltre 280 pagine che verranno realizzate possano poi essere raccolte in un unico volume, come è stato fatto con gli altri progetti.
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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:
Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure
Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it
CALENDARIO
Italia ROMA Tesori della Cina Imperiale
L’Età della Rinascita fra gli Han e i Tang (206 a.C.-907 d.C.) Palazzo Venezia fino al 28.02.16
Symbola. Il Potere dei Simboli Recuperi archeologici della Guardia di Finanza Stadio di Domiziano fino al 15.04.16
Tra Roma e Bisanzio
La basilica di Santa Maria Antiqua e le sue pitture Foro romano, S. Maria Antiqua fino all’11.09.16 (dal 10.03.16) A sinistra: un esemplare di yong, ACQUI TERME campana in La città ritrovata bronzo. Il Foro di Aquae Statiellae e il suo quartiere 475-221 a.C. Museo Civico Archeologico fino al 31.03.16
MILANO L’isola delle Torri
Tesori dalla Sardegna Nuragica Civico Museo Archeologico fino al 14.02.16 (prorogata)
SAN GIOVANNI IN PERSICETO (BOLOGNA) Il cibo degli Dèi L’alimentazione nel mondo antico Palazzo Comunale fino al 29.02.16
TARQUINIA Tarquinia etrusca nell’arte di Adolfo Ajelli Museo Archeologico Nazionale fino al 31.03.16
ADRIA (ROVIGO) L’arte della guerra
Meraviglie dello Stato di Chu Museo Nazionale Archeologico fino al 25.09.16 (dal 12.03.16)
BOLOGNA Splendore millenario
Capolavori da Leiden a Bologna Museo Civico Archeologico fino al 17.07.16
BRESCIA Brixia. Roma e le genti del Po
TRENTO Ostriche e vino
Un incontro di culture. III-I secolo a.C. Museo di Santa Giulia fino al 15.02.16 (prorogata)
In cucina con gli antichi romani Spazio Archeologico Sotterraneo del Sas fino al 30.09.16
COLLEFERRO (ROMA) Il «Tesoro» dei Conti
VERONA Palafitte
Museo Archeologico del Territorio Toleriense fino al 31.03.16
ESTE (PADOVA) Il drago e la fenice
Meraviglie dello Stato di Chu Museo Nazionale Atestino fino al 25.09.16 (dal 12.03.16)
FIRENZE Il mondo che non c’era
L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue Museo Archeologico Nazionale fino al 06.03.16 24 a r c h e o
Un viaggio nel passato per alimentare il futuro Museo Civico di Storia Naturale fino al 10.04.16
VILLANOVA DI CASTENASO (BOLOGNA) Apparecchiare per i vivi e per i morti I Villanoviani di pianura a partire dagli scavi di Elsa Silvestri Museo della civiltà Villanoviana fino al 05.06.16
Un particolare delle pitture murali della Tomba degli Scudi in un dipinto di Adolfo Ajelli.
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
Austria
Arte della preistoria
VIENNA Monetazione e potere nell’antico Israele
Materiali dalle collezioni dell’Israel Museum di Gerusalemme In alto: tetradramma in Kunsthistorisches Museum argento di Antioco I Sotere. fino al 01.05.16 (dal 24.02.16) 282-261 a.C.
Belgio
Pitture rupestri dalla Collezione Frobenius Martin-Gropius-Bau fino al 16.05.16
Grecia
In alto: riproduzione ad acquarello di una pittura rupestre raffigurante una mano e una piccola figura umana, dal Gilf Kebir (Egitto). 4400-3.500 a.C.
ATENE Un sogno tra splendide rovine...
Una passeggiata nell’Atene dei periegeti, XVII-XIX secolo Museo Archeologico Nazionale fino all’08.10.15
BRUXELLES Sarcofagi
Sotto le stelle di Nut Musée du Cinquantenaire fino al 20.04.16
Djehoutihotep
100 anni di scavi archeologici in Egitto dell’Università Cattolica di Lovanio Musée du Cinquantenaire fino al 20.04.16
TONGRES I gladiatori
Eroi del Colosseo Musée Gallo-romain fino al 03.04.16
Francia
Slovenia
LE GRAND-PRESSIGNY Neandertal
LUBIANA Celti sui monti di smeraldo
Un mistero preistorico Musée de la Préhistoire fino al 16.05.16
Narodni Muzej Slovenije fino al 31.03.16
SAINT-ROMAIN-EN-GAL Il combattimento di Entello e Darete
Svizzera
Mosaici restaurati da Aix-en-Provence Musée gallo-romain fino al 24.04.16
Germania BERLINO Combattere per Troia
Le sculture del tempio di Egina contro i restauri di Bertel Thorvaldsen Altes Museum fino al 16.05.16
Qui sopra: il tempio di Zeus Olimpio, da Views in Greece (Londra, 1821).
HAUTERIVE Dietro la Grande Muraglia
La Mongolia e la Cina al tempo dei primi imperatori Laténium, parc et musée d’archéologie de Neuchâtel fino al 29.05.16
Qui sopra: il fregio orientale del tempio di Egina ricostruito.
USA PHILADELPHIA L’età d’oro del re Mida
Tesori dalla Turchia antica University of Pennsylvania Museum of Archaeology and Anthropology fino al 27.11.16 (dal 13.02.16)
Qui sopra: statuina di dama di corte. Han, 206 a.C.-220 d.C. a r c h e o 25
L’ARCHEOLOGIA NELLA STAMPA INTERNAZIONALE Andreas M. Steiner
A
rchäologie in Deutschland (AiD) è un bimestrale pubblicato in Germania e dedicato – come dichiara il titolo – soprattutto a scavi e scoperte nel territorio tedesco. Argomento centrale dell’ultimo numero sono le molte indagini che, in anni recenti, si sono incentrate intorno al complesso rapporto che intercorreva tra Roma e le popolazioni germaniche stanziate in prossimità del limes germanico, la lunga frontiera dell’impero romano che, partendo dalla foce del Reno nel Mare del Nord, raggiungeva – con un percorso lungo oltre 550 km – il Danubio. La serie dei contributi è introdotta da un saggio di Klaus Frank, nel quale l’archeologo della Soprintendenza della Renania ripercorre gli esordi delle ricerche sulle popolazioni germaniche al tempo dell’impero romano. Ricerche caratterizzate, da un lato, da notevoli ritardi scientifici, dovuti ancora alla scarsa disponibilità della documentazione archeologica (contrariamente a quanto si verificò, sin dagli inizi del secolo scorso, sul fronte opposto, quello delle ricerche volte a riportare alla luce le vestigia romane) e, dall’altro, al persistere, ben oltre la soglia del Novecento, di un’immagine stereotipata dell’antico popolo germanico, erede di una tradizione romantica e idealizzata, ampiamente diffusa durante il XIX secolo.
UNA FRONTIERA TRA DUE MONDI Non esiste altro contesto archeologico in cui emerga, con tanta evidenza, lo «scontro» tra mondi diversi come quello che si verificò, lungo la frontiera del limes, tra i rappresentanti
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dell’impero romano e gli abitanti della vicina Germania magna. Eppure, le indagini scientifiche, avviate in anni recenti e volte a definire la fisionomia di uno dei due gruppi protagonisti – quello delle popolazioni indigene della Germania al di là della frontiera dell’impero – hanno ancora risentito di un’immagine stereotipata, costituitasi nel corso del XIX secolo e rimasta saldamente ancorata nella convinzione popolare nel primo Novecento. Basti pensare alle fantasiose restituzioni riprodotte in monumenti, dipinti patriottici e nelle rappresentazioni teatrali dell’epoca, nelle quali imperversano individui dall’aspetto selvaggio, vestiti con pelli e copricapi a forma di corna d’animale, spesso decorati con gioielli e ornamenti di epoche palesemente piú antiche (dell’età del Bronzo, per esempio). I primi scavi sistematici furono intrapresi negli anni 1911-13 nella
necropoli di Leverkusen Rheindorf, lungo il basso corso del Reno. La quantità di reperti di importazione romana fece concludere allo scavatore Leonard Ennen che gli individui sepolti nella necropoli fossero «verosimilmente Germani del III e IV secolo d.C. che con i vicini Romani coltivavano rapporti di buon vicinato e che da essi avevano acquisito le stesse urne, utensili domestici e gioielli». Oggi, a distanza di piú di cento anni, il quadro del mondo germanico stanziatosi lungo il limes si è notevolmente arricchito e appare in tutta la sua complessità. I contatti tra popolazioni germaniche e mondo romano variano, infatti, notevolmente da regione a regione: le aree, in particolare, che poterono contare su un periodo relativamente lungo di stabilità e di assenza di conflitti, diedero vita a vere e proprie zone franche per il libero scambio, di cui approfittavano ambedue le parti. Numerosi indizi suggeriscono, per esempio, che il servizio prestato
all’interno dell’esercito romano rappresentasse – per molti abitanti germanici – una vera e propria «porta d’accesso» al mondo romano e che il limes, piú che frontiera chiusa, in talune zone fosse percepito come soglia di attraversamento tra due mondi separati, ma interconnessi. Perfino le regioni situate a una certa distanza dalla frontiera erano collegate al territorio imperiale attraverso una rete di apposite vie commerciali, come dimostrano i reperti di importazione romana rinvenuti in grande quantità anche nelle aree interne della Germania magna. Il quadro mutò sensibilmente quando l’equilibrio della zona
franca venne messo a repentaglio dall’irruzione di tribú germaniche provenienti dalle regioni interne: le loro scorrerie, però, che spesso raggiunsero l’interno della provincia della Germania superiore e della Rezia, dovettero danneggiare, indistintamente, tanto gli abitanti del territorio romano quanto gli insediamenti germanici nella zona di frontiera. Quale è stato, dunque - si chiedono gli autori delle indagini archeologiche di cui AiD rende minuziosamente conto - l’esito di questa potenzialmente promettente e plurisecolare convivenza lungo il confine germanico-retico? La risposta appare deludente. Non si hanno testimonianze di
In alto: tavola tipologica di reperti archeologici rinvenuti in Sassonia e riprodotti in ordine cronologico, dall’età della Pietra (in alto) al primo Medioevo. 1898. Nella pagina accanto: un gruppo di personaggi vestiti con costumi «di fantasia», ispirati a un immaginario mondo germanico. forme di «osmosi culturale», anzi, le differenze tra i due mondi separati dal limes rimasero, essenzialmente, immutate. Nonostante i contatti e gli scambi commerciali, sul piano culturale e su quello delle strutture economiche e sociali i Germani si dimostrarono, sostanzialmente, insensibili a ogni forma di «romanizzazione»…
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CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli
ALLE FRONTIERE DELL’ATTICA DOVE CORREVANO I CONFINI DI UNA DELLE REGIONI CHIAVE DELLA GRECIA ANTICA? E CON QUALI CRITERI ESSA GESTIVA IL SUO TERRITORIO? SONO QUESTE ALCUNE DELLE DOMANDE A CUI VUOLE RISPONDERE IL PROGETTO INCENTRATO SULLE TESTIMONIANZE ARCHEOLOGICHE DELLA PIANA DI MAZI 28 a r c h e o
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igliaia di pagine sono state dedicate allo studio della polis, l’unità insediativa principale della Grecia antica. Molto meno, però, è stato fatto per conoscerne i confini, che pure rappresentano un elemento imprescindibile per cercare di delimitarne lo spazio dal punto di vista politico, economico e religioso. Con un interessante approccio interdisciplinare, il progetto Borders of Attica (www.bordersofattica.org) s’interessa proprio al tema del confine, prefiggendosi di compiere uno studio geo-archeologico sistematico delle frontiere
GRECIA
Mar Egeo
Piana di Mazi Atene
Mar Ionio
In alto: i resti della fortezza di Eleutere, uno dei siti indagati dal Mazi Archaeological Project. La struttura difensiva fu verosimilmente innalzata nella prima metà del IV sec. a.C.
dell’Attica e affrontando la storia culturale ed economica di una delicata area di transizione. Diretto da Sylvian Fachard, ricercatore presso l’Università di Ginevra (che si avvale di fondi del Fonds National de la Recherche svizzero), il progetto, investiga i limiti del territorio dell’Attica in una prospettiva diacronica che parte dall’età arcaica e arriva fino all’epoca romana, cercando le cause degli eventuali spostamenti di confini e ragionando sull’impatto che ciò ha avuto sulla vita politica, religiosa, economica della regione. Scopo ultimo è quello di trovare nuove risposte alla storia dell’Attica e all’evoluzione dell’identità dei territori di confine, ma anche di offrire un punto di riferimento nel complesso studio delle frontiere nel mondo greco.
UN TEAM INTERNAZIONALE Momento centrale di questo programma di ricerca è il Mazi Archaeological Project (MAP: www.maziplain.org), per il quale Sylvian Fachard si avvale della collaborazione dei colleghi Alex Knodell (Carleton College) e Kalliopi Papaggelí (Soprintendenza Ellenica alle Antichità dell’Attica
Occidentale). Da due anni questo gruppo di lavoro – coadiuvato da un team di specialisti greci, svizzeri e statunitensi –, conduce ricognizioni di superficie nella piana di Mazi, che si estende nell’Attica nord-occidentale, nell’ambito della collaborazione avviata tra la Soprintendenza Ellenica alle Antichità dell’Attica Occidentale e la Scuola Svizzera di Archeologia in Grecia. Quello di Mazi è un fertile pianoro montuoso, attraversato da torrenti che confluiscono in un fiume; situato in un punto strategico, al confine tra l’Attica e la Beozia, esso si trova sulla via principale che da Eleusi conduceva a Tebe, ma anche in una posizione centrale tra vie regionali e interregionali. In questa piana spiccano il centro fortificato di Oinoe, nell’area orientale, il sito e la fortezza di Eleutere, nella zona occidentale, e, nel mezzo, la splendida torre di Mazi, una delle piú grandi dell’Attica. Tuttavia, il paesaggio non è mai stato studiato in maniera diacronica, al di là di queste ben note testimonianze. Pertanto, il Mazi Archaeological Project ambisce a occuparsi di questioni riguardanti l’occupazione antropica, l’interazione tra uomo e
In basso: Eleutere. Le fondazioni di un tempio dedicato a Dioniso Eleuterio. IV sec. a.C. La città, che era di origine beota, era ormai in rovina quando, nel II sec. d.C., fu visitata da Pausania. ambiente, territorialità, regionalità e flussi, dall’epoca preistorica fino ai giorni nostri; il metodo scelto per indagarli è ispirato all’archeologia del paesaggio di matrice mediterranea, quello del survey di superficie, esteso a livello regionale. A una campagna di studio geomorfologico ha fatto seguito l’esplorazione sul terreno, combinata ad altri metodi d’indagine, tra cui mappatura geomorfologica, immagini satellitari multispettriche e fotogrammetria aerea per creare modelli tridimensionali del paesaggio.
LE PROSPETTIVE FUTURE I risultati della campagna condotta nel 2015 sono stati molto promettenti, anche in vista delle ricerche future: è stata infatti completata la documentazione architettonica della fortezza e dell’insediamento di Eleutere e inoltre sono stati scoperti un rilevante insediamento preistorico e due siti di epoca bizantina. Lo studio di una regione anziché di un sito individuale, l’approccio diacronico che tende a documentare tutte le fasi dell’occupazione passata, ma anche l’uso di tecnologie all’avanguardia sono elementi che fanno del Mazi Archaeological Project un modello esemplare di ricerca. Inoltre, dal momento che il paesaggio è notevolmente mutato nei decenni post-bellici, a un ritmo molto piú frenetico rispetto ai cambiamenti che si verificavano in epoche antiche, non si può che essere grati a chi sta raccogliendo, prima che sia troppo tardi, informazioni che rischiano altrimenti di andare perdute per sempre.
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SCAVI • POPULONIA
TUTTI INSIEME
PER POPULONIA NEL TERRITORIO DELL’ANTICA E FIORENTE CITTÀ ETRUSCA È IN CORSO UN PROGETTO DI RICERCA CHE MIRA AD APPROFONDIRE LA DEFINIZIONE DELLA SUA VICENDA STORICA. UNO SCAVO IMPORTANTE, ANCHE PER LE SOLUZIONI CHE NE GARANTISCONO LA CONDUZIONE, FRUTTO DI UNA VIRTUOSA SINERGIA TRA ARCHEOLOGI PROFESSIONISTI E VOLONTARI di Carolina Megale
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opulonia fu l’unica tra le maggiori città etrusche a essere costruita direttamente sul mare; il suo nome antico, Pupluna o Fufluna, deriva dall’etrusco puple, «germoglio», da cui Fufluns, dio etrusco del vino. La sua posizione geografica, al centro delle rotte commerciali del Mediterraneo occidentale, le risorse metallifere dei monti del Campigliese e i ricchissimi giacimenti di minerale di ferro dell’isola d’Elba determinarono, sin dall’epoca eneolitica (IV-III millennio a.C.), la vocazione mineraria della città e del suo territorio. Come altri importanti centri dell’Etruria, Populonia sorse nel IX secolo a.C., acquisí importanza dal VII secolo a.C. e raggiunse il massimo splendore nel IV secolo a.C. Il passaggio della città nell’orbita di Roma avvenne intorno alla metà del III secolo a.C. Secondo quanto tramandato dai geografi greci Strabone e Tolomeo, l’abitato antico era composto da due nuclei distinti: la città alta, sviluppata sulle sommità dei Poggi della Guardiola, del Telegrafo e del Castello, nella quale – oltre alle abitazioni – sorgevano i templi e gli edifici pubblici dell’acropoli, e la città bassa, in prossimità del golfo, che ospitava il porto, sede delle attività mercantili e siderurgiche. Populonia era protetta da due cinte murarie, quella dell’acropoli e quella della città bassa. Le necropoli (le città dei morti) si estendevano – al di fuori del circuito difensivo – nella parte orientale e centrale del Golfo di Baratti e sui rilievi limitrofi. Commerci marittimi e industria siderurgica furono per secoli la base economica della città. A partire dall’età arcaica (VI secolo
a.C.), Populonia appare infatti inserita in una complessa rete di traffici che attraversava, da oriente a occidente, l’intero bacino mediterraneo. Alle banchine del suo porto le navi caricavano i preziosi lingotti di ferro elbano e i metalli dei monti del Campigliese, mentre scaricavano derrate e manufatti provenienti da ogni regione del Mediterraneo, che da qui ripartivano via terra verso le città dell’Etruria interna.
LA ROMANIZZAZIONE Nel III secolo a.C., quando anche l’Etruria venne romanizzata, il passaggio di Populonia sotto il dominio di Roma non arrestò la vocazione metallurgica della città: sappiamo infatti che la classe dirigente legata ad Augusto aveva importanti interessi economici nella produzione e nel commercio del ferro. Tuttavia i cambiamenti economici e sociali portati dal nuovo governo romano in questa porzione di Etruria costiera sono ancora sconosciuti nei dettagli. Le fonti scritte su questo argomento, infatti, sono avare di notizie e possiamo contare soltanto su tre capisaldi. Lo storico Tito Livio scrive che, nel 205 a.C., Populonia era alleata di Roma e supportò, inviando un’enorme quantità di ferrum, Publio Cornelio Scipione, che stava armando esercito e flotta per la spedizione contro Annibale, al tempo della seconda guerra Punica (XXVIII, 45, 15). Due secoli piú tardi il geografo greco StraboVeduta panoramica di Poggio del Molino e del Golfo di Baratti. Il sito, situato nella zona evidenziata, è compreso nel territorio dell’antica città di Populonia ed è oggetto di scavi sistematici dal 2008.
SCAVI • POPULONIA
ne, giunto via mare a Populonia, attraccò in un porto economicamente vivace, vide manifatture in cui ancora si produceva ferro e salí sulle colline per visitare la città quasi del tutto abbandonata.
PAROLE STRUGGENTI Nel 415 (o nel 417), Rutilio Namaziano, politico e poeta, sostò a Populonia durante un viaggio da Roma alla Gallia e lasciò ai posteri una delle pagine piú struggenti della poesia latina (De Reditu suo, vv. 399474). La città vista da Rutilio era irriconoscibile, i monumenti del passato «ridotti a immense rovine»; il paragone è tra la città e il destino degli uomini: «Non ci turbiamo se i corpi mortali scompaiono, e si ricordi: anche le città possono morire». Per colmare le lacune nella conoscenza della storia politica, economica e sociale di Populonia e del suo territorio in epoca romana, occorre quindi ricorrere alla ricerca archeologica. Ed è proprio quel che si sta facendo, dal 2008, sul sito di Poggio del Molino, oggetto di un importante progetto di ricerca di respiro internazionale, a cui questo articolo è dedicato. L’esistenza di «antichi ruderi» a Pog-
gio del Molino era nota da tempo. Sebbene non fosse compresa negli itinerari dei pochi viaggiatori attirati dalla fama dell’antica Populonia, si conserva la testimonianza del naturalista toscano Giorgio Santi (1746-1822), il quale, nei primi anni dell’Ottocento, visitò il sito e annotò la presenza di un «grandissimo stanzone sotterraneo con pavimento di mosaico a rabeschi». Anche l’archeologo Antonio Minto (1880-1954), Soprintendente alle Antichità d’Etruria dal 1925 al 1951, durante una ricognizione a Poggio del Molino nel 1915, vide i «cospicui ruderi» dell’edificio e sottolineò come il sito fosse «una zona archeologica del massimo interesse, anche per la storia piú tarda di Populonia, nella quale, investigazioni piú estese, in circostanze migliori, potranno dare risultati notevoli». Le prime ricognizioni sistematiche furono condotte agli inizi degli anni Settanta del Novecento dai volontari dell’Associazione Archeologica Piombinese e, nel 1984, un’équipe dell’Università di Firenze, diretta da Vincenzo Saladino, intraprese il primo scavo sistematico dell’insediamento, interrotto nel 1988 per mancanza di fondi.
UN’AREA RICCHISSIMA L’area archeologica di Poggio del Molino si estende sul versante settentrionale dell’omonimo promontorio, che funge da spartiacque tra la spiaggia di Rimigliano a nord e il Golfo di Baratti a sud.
Firenze
TOS C A N A
Mar Tirreno
In basso: il borgo di Populonia, sviluppatosi su una delle alture occupate fin dall’epoca etrusca.
Cartina del territorio di Populonia con l’indicazione dei siti principali. 34 a r c h e o
L’edificio antico si estende su un pianoro posto a circa 22 m slm, che domina, a occidente, il tratto di mare compreso tra la località di San Vincenzo e l’isola d’Elba e, a oriente, le colline del distretto metallifero di Campiglia Marittima e la pianura
occupata, in età antica, dalle acque del lago di Rimigliano. Oggi il terreno su cui insiste l’insediamento è di proprietà dell’Amministrazione comunale di Piombino e sottoposto a vincolo archeologico ai sensi del D.Lgs. 42/2004.
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IL PROGETTO ARCHEODIG Il Progetto Archeodig, esperienza pilota in Italia, ha come obiettivo la progettazione, la gestione e il coordinamento scientifico di scavi archeologici di ricerca, strutturati come cantiere-scuola per la formazione di studenti, giovani archeologi e volontari, italiani e stranieri. Dal 2008 al 2014, lo scavo archeologico è stato diretto dall’Università di Firenze in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica della Toscana. Nel 2014 il Comune di Piombino ha concluso l’esproprio del terreno su cui insiste l’insediamento e ha ottenuto dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo la concessione di scavo, affidandone la direzione scientifica all’Università di Firenze (Giandomenico De Tommaso). Dal 2008, le attività di Archeodig a Poggio del Molino – scavi, ricerche, pubblicazioni, didattica, laboratori, restauri, progettazione, opere di manutenzione, costruzioni, ecc. – sono interamente finanziate dai membri e dai sostenitori, perlopiú privati, dell’Associazione culturale Past in Progress (PiP). L’infografica, realizzata da Francesco Ghizzani Marcía, raccoglie le percentuali dei partecipanti alle attività di
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scavo archeologico a Poggio del Molino. I dati si basano sul numero complessivo delle persone coinvolte per almeno una settimana e approssimato per difetto. Non contempla dati relativi a visitatori giornalieri, ovvero singoli turisti, gruppi di studenti, partecipanti a eventi e aperture straordinarie.
Sul versante orientale e meridionale del promontorio, sono stati raccolti manufatti litici del Paleolitico Medio e Superiore che attestano come il Poggio del Molino sia stato frequentato e abitato fin da epoca preistorica. Durante l’età del Bronzo Finale (XI-X secolo a.C.), il versante orientale era occupato da un villaggio di capanne la cui economia era collegata alle risorse minerarie del Campigliese, in particolare alla lavorazione del rame e del piombo, e alle risorse del mare, quali commercio, pesca e raccolta di molluschi. Sulle due pagine: i resti della cetaria, lo stabilimento per la produzione di garum e salsamenta (salse di pesce ottenute con procedimenti differenti), realizzato a Poggio del Molino nella seconda metà del I sec. a.C.
Al villaggio era collegata una necropoli, sviluppatasi sul versante meridionale del poggio, da cui provengono una cinquantina di ossuari di forma globulare e biconica, riferibili alla facies protovillanoviana. Con l’età del Ferro, il sito fu abbandonato, la popolazione si concentrò attorno al Golfo di Baratti e Poggio del Molino tornò a essere abitato solo a partire dalla tarda età repubblicana.
L’AVAMPOSTO MILITARE Nella seconda metà del II secolo a.C. sul pianoro settentrionale del poggio sorse un imponente edificio fortificato: la scelta del luogo dovette rispondere a precise necessità strategiche di difesa e controllo politico e militare del territorio. In particolare, il forte sovrastava l’imboccatura al canale che dal mare immetteva nel lago di Rimigliano e l’approdo a esso collegato. L’edificio era cinto da un muro perimetrale molto spesso (1,5 m circa) che definiva un’area quadrangolare, la cui porzione settentrionale è franata a mare. Il ritrovamento di due blocchi di macigno con iscrizione
incisa (oggi al Museo Archeologico di Piombino; vedi «Archeo» n. 272, ottobre 2007) permette di conoscere le dimensioni del forte. Su una pietra si legge p(edes) CXCI (191 piedi= 56,54 m) e sull’altra p(edes) LXXXVIII (188 piedi= 55,65 m): quest’ultima misura corrisponde alla lunghezza del braccio meridionale del muro perimetrale, l’unico conservato per tutta la sua estensione. Se i due blocchi, dunque, riportano le misure lineari del muro perimetrale, l’area interna del forte doveva essere pari a 3145 mq circa. Al fortilizio si accedeva mediante due porte (larghe 3 m circa), che si aprivano sul lato orientale e su quello occidentale; entrambe erano fiancheggiate, sulla destra, da una torre difensiva a pianta rettangolare. In questo modo, in caso di attacco, gli assalitori che tentavano l’ingresso si sarebbero trovati con il fianco destro, quello privo della protezione dello scudo, vulnerabile agli attacchi sferrati dagli arcieri appostati sul tetto della torre. Lungo il lato meridionale, rivolta verso la città di Populonia, sorgeva una terza torre, questa volta di avvi-
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stamento. Essa permetteva di tenere sotto controllo il tratto di territorio a sud di Poggio del Molino, lungo il quale doveva passare la strada che, staccandosi dal diverticolo che collegava la via Aurelia con Populonia, giungeva al forte. La torre, inoltre, doveva comunicare con Populonia mediante un terzo avamposto, recentemente individuato sulle alture del Poggio San Leonardo.
GLI ALLOGGI DEI SOLDATI? Dell’articolazione interna del forte conosciamo al momento assai poco; le strutture murarie e pavimentali riferibili alle fasi successive, infatti, obliterano intere porzioni dell’insediamento, impedendo l’approfondimento delle indagini. Nel settore sud-occidentale, ipotizziamo la presenza di un porticato, di cui si conservano sei basamenti rettangolari 38 a r c h e o
(0,90 m circa di lato), mentre a nord sorgeva un edificio forse riferibile agli alloggi della guarnigione. Gli scarsi reperti provenienti dagli strati in fase con la frequentazione del forte rimandano a un orizzonte cronologico compreso tra la metà del II e la prima metà del I secolo
I blocchi facenti parte del muro di cinta del forte di Poggio del Molino, sui quali sono incise le misure che hanno permesso di stabilirne il perimetro: p(edes) LXXXVIII (188 piedi= 55,65 m) e, in basso, p(edes) CXCI (191 piedi= 56,54 m). Piombino, Museo Archeologico.
a.C. Si tratta, in particolare, di ceramica a vernice nera e a pareti sottili e di una moneta d’argento del magistrato monetale Calpurnio Pisone, che riporta sul diritto la testa laureata di Apollo rivolta a destra e sul rovescio un cavaliere che galoppa, anch’esso rivolto a destra. Il cattivo stato di conservazione della legenda non consente l’identificazione certa con Lucio Calpurnio Pisone Frugi, magistrato monetale nel 90 a.C., o con l’omonimo figlio Caio, che rivestí la stessa carica del padre nel 67 a.C. Il forte fu costruito per proteggere il territorio di Populonia dagli attacchi dei pirati che, tra il II e la prima metà del I secolo a.C., infestavano i mari e le coste tirreniche e di tutto il Mediterraneo. Le fonti scritte su questo argomento sono abbondanti ed esplicite. Sappiamo da Plutarco che, durante le guerre mitridatiche, i pirati erano diventati i padroni e i predoni dei mari; colpivano i naviganti, le isole e le città costiere; in molti luoghi avevano porti, arsenali e torri con fanali; avevano una flotta di navi con poppe dorate, vele color porpora e remi con borchie d’argento. Assediavano città e rapivano uomini e donne illustri, chiedendo riscatti per la loro liberazione.
GUERRA AI PIRATI Intorno al 74 a.C., i pirati attaccarono Brindisi e le coste dell’Etruria; mentre nel 70 a.C. il pretore Cecilio Metello vinse i pirati che infestavano la Sicilia e la Campania, e che avevano saccheggiato e bruciato le navi del porto di Ostia e di altre città dell’Italia. Nel 67 a.C., a seguito dell’emanazione della lex Gabinia (voluta dal tribuno della plebe Aulo Gabinio), Gneo Pompeo Magno ebbe il comando della guerra contro i pirati del Mediterraneo (bellum piraticum) sui quali, in quattro mesi, riportò una vittoria totale. Piú complesso risulta attestare la presenza di pirati basandosi esclusi-
vamente sulle fonti archeologiche. Da un lato, studi condotti sui relitti hanno delineato un quadro delle testimonianze che potrebbe documentare archeologicamente la portata del fenomeno pirateria: tra queste, per esempio, il ritrovamento di armi (elmi, spade, giavellotti e corazze) sulle navi mercantili è stato
messo in relazione con la presenza a bordo di uomini armati pronti a difendere nave e carico da eventuali attacchi. Dall’altro, fortezze, fortini, torri, strutture difensive e di avvistamento in genere eretti lungo la costa potrebbero costituire un valido indicatore archeologico della presenza dei pirati, se solo le ricer-
Dallo scavo alla ricostruzione Gli scavi in corso a Poggio del Molino hanno restituito una consistente mole di dati sull’assetto antico del sito, riepilogato in questa planimetria generale; piú in basso, si presenta un’ipotesi ricostruttiva del fortilizio: 1. torre difensiva alla porta Ovest; 2. torre difensiva alla porta Est; 3. torre d’avvistamento; 4. alloggi; 5. portico a pilastri.
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Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
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IL CANTIERE-SCUOLA Dal 2008, da maggio a settembre, il sito di Poggio del Molino si popola di studenti liceali e universitari, italiani e stranieri, desiderosi di conoscere i metodi della ricerca archeologica sul campo, per farne un mestiere o coltivare una passione. Il cantiere-scuola di archeologia è aperto a tutti, studenti delle scuole medie superiori e studenti di archeologia iscritti alle università italiane o straniere. Ciascuno versa un contributo per coprire le spese di vitto, alloggio e didattica sul campo. Le mansioni sono diversificate a seconda dell’età e della finalità della partecipazione: attività accessorie per i piú giovani (movimentazione e setacciatura della terra, pulizia, lavaggio e siglatura reperti, ecc.) e lavoro piú pesante per gli studenti universitari (dal piccone alla trowel, cazzuola da scavo, per poi passare alla redazione della documentazione descrittiva, fotografica e grafica). L’Università di Firenze invia ogni anno una trentina di studenti. Alcuni di loro tornano negli anni successivi, chiedono di poter studiare piccoli contesti dello scavo, ne fanno l’argomento di tesi triennali, che in alcuni casi approfondiscono per la laurea magistrale; cosí facendo crescono, diventano responsabili di piccole aree di scavo, coordinano altri studenti e arrivano a percepire un compenso per il loro lavoro. Gli studenti italiani lavorano fianco a fianco con i colleghi statunitensi e il galateo dell’ospitalità impone che la lingua «dello scavo» sia l’inglese. Il partner principale è la University of Arizona, il cui referente è il professor David Soren. L’accordo con UofA permette agli studenti di tutte le università americane di partecipare alla field school e ricevere, attraverso Arizona, i crediti formativi (tuition). Altri partner sono la Hofstra University di Long Island NY e lo Union College di Schenectady NY, con il quale partirà a breve un nuovo programma. Poggio del Molino ospita anche un cantiere-scuola di Conservazione e Restauro del Mosaico Romano, diretto dalla Fondazione RavennAntica e coordinato dalla Soprintendenza Archeologica della Toscana. Studenti e neorestauratori hanno la possibilità, rarissima, di mettere mano su mosaici di epoca romana imperiale ancora in situ. Il cantiere e gli studenti sono coordinati da due restauratori professionisti, tra cui la responsabile del Laboratorio di Restauro di RavennAntica, Paola Perpignani. Il programma di ricerca e didattica prevede inoltre l’allestimento di Laboratori di Antropologia Fisica e Archeologia Forense, coordinati dagli antropologi del progetto AnthroLab. L’obiettivo è quello di ricostruire modi di vita e di morte della popolazione di Populonia e del suo territorio in età etrusca e romana, attraverso lo studio di un campione di scheletri provenienti dagli scavi di Baratti-Populonia. Gli studenti dapprima imparano a pulire, riconoscere e riassemblare i reperti osteologici, poi ad analizzare le ossa per definire età, sesso ed eventuali patologie del defunto.
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Nella pagina accanto, in alto: moneta d’argento del magistrato Calpurnio Pisone (identificabile con Lucio, 90 a.C., o con il figlio Caio, 67 a.C.). Sul diritto, la testa laureata di Apollo; sul rovescio, un cavaliere al galoppo. Nella pagina accanto, in basso: un tratto del muro perimetrale del forte.
che, almeno sul versante tirrenico, fossero piú sistematiche. Venuto meno il pericolo costituito dai pirati, nella seconda metà del I secolo a.C., il forte fu trasformato in fattoria, una vera e propria villa rustica, con un quartiere residenziale e un settore per la produzione della salsa di pesce. Il primo fu ricavato nell’angolo sud-occidentale del forte, dove si trovava il portico a pilastri. Mentre la cetaria, ossia lo stabilimento in cui si producevano garum e salsamenta (salse di pesce ottenute con procedimenti differenti), fu impiantato nella porzione nord-orientale dell’insediamento. L’impianto produttivo, non ancora interamente messo in luce, era delimitato da un muro pertinente alla fase della fortezza. Al suo interno
sono state individuate oltre dieci vasche; di queste, alcune hanno forma quadrata, di 2 m circa per lato, mentre altre presentano pianta rettangolare e dimensioni maggiori. Tutte hanno l’interno rivestito di fine malta idraulica e presentano al centro del pavimento una depressione circolare, destinata a raccogliere lo sporco. Due vasche di forma rettangolare, di dimensioni maggiori e diverso rivestimento interno, erano forse destinate allo stoccaggio dell’acqua e del sale. In età augustea, l’abitato di Poggio del Molino doveva apparire agli occhi di Strabone come un grande insediamento isolato, che lui stesso definisce katoikía (nuclei insediativi sparsi), secondo un modello insediativo che si afferma in questo territorio nel I secolo d.C.
LA PESCA L’esistenza di un’economia basata sulle attività di pesca a Populonia è nota dalle fonti scritte. Ancora Strabone ci informa che, sotto il promontorio su cui sorgeva la città, si trovava
un thynnoskopeion, l’installazione per l’avvistamento dei branchi di tonni. La cetaria di Poggio del Molino rappresenta la testimonianza archeologica piú significativa di questa attività sul territorio. Fino a oggi l’unica documentazione archeologica era costituita da alcuni ceppi d’ancora (oggi al Museo etrusco di Populonia-Collezione Gasparri) che, collocati sul fondale marino, dovevano bloccare le reti da pesca, e dal ritrovamento, sulla spiaggia di Baratti, di una vasca rivestita in cocciopesto, che però, in assenza di altri elementi, non può essere considerata una cetaria. La scelta di realizzare un impianto produttivo sul Poggio del Molino fu dettata, oltre che dall’esistenza di un edificio da riconvertire, dalla vicinanza al lago di Rimigliano – dal quale approvvigionarsi di sale e pesce d’allevamento – e dalla presenza di un approdo, necessario per commercializzare le salse lungo le rotte tirreniche. A questo punto, oltre all’intervento sul campo, la ricerca pro-
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segue in due direzioni: da un lato il tentativo di individuare il contenitore utilizzato per commercializzare i prodotti di Poggio del Molino; dall’altro lo studio epigrafico per dare un nome al proprietario (o ai proprietari) dell’insediamento. A questo proposito, è in corso di studio il frammento epigrafico dipinto sul collo di un’anfora spagnola. In attesa dell’edizione scientifica, è possibile affermare che il frammento riporta un’iscrizione dipinta (titulus pictus) tracciata in rosso a lettere maiuscole dalla stessa mano e distribuita su tre righe.
CHI ERA CAIO CECINA? I tituli picti erano iscrizioni a carattere commerciale, generalmente apposte sulle anfore, che riportavano specifiche informazioni sull’origine e la natura del prodotto contenuto, la provenienza, la quantità, il commerciante, il destinatario, ecc. La prima riga non è ancora stata decifrata in maniera univoca, ma la seconda e la terza riportano chiaramente il nome di Caio Cecina Largo. Probabilmente, alla prima riga, l’iscrizione informa sul contenuto dell’anfora proveniente dalla Spagna e, alla seconda e terza riga, sul destinatar io della merce, C(aio) Caecina<e> Largo. Siamo dunque di fronte al proprietario della villa e della manifattura? E chi era costui? 42 a r c h e o
In alto, nel riquadro: il frammento d’anfora con l’iscrizione che menziona Caio Cecina Largo, il possibile proprietario della fattoria. Qui sopra, sulle due pagine: resti del laconicum e dell’impianto termale costruiti sulla cetaria della fase precedente.
VOLONTARI: UNA SPECIE ALIENA? «Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società», questo si legge all’articolo 4 della nostra Costituzione. E moltissimi cittadini, in tutto il mondo, sono coinvolti nella ricerca scientifica: diventano in questo modo citizen scientists, cittadiniricercatori, cittadini-scienziati, volontari del sapere. Lo scavo di Poggio del Molino ospita una vera e propria spedizione scientifica, organizzata in collaborazione con l’associazione no profit statunitense Earthwatch Institute, in cui i volontari entrano a far parte del mondo della scienza e traggono il massimo della soddisfazione nel conoscere e partecipare al progresso comune.
Forse il console del 42 d.C.? Oppure un suo omonimo? La produzione del garum cessò a Poggio del Molino nella seconda metà del I secolo d.C. e, intorno al successivo, l’intero edificio fu trasformato in villa marittima. Attorno a un ampio peristilio centrale, si affacciavano, a sud-ovest, il quartiere residenziale, a nord-est, il complesso termale e, a sud-est, il quartiere domestico-servile. La villa era delimitata dal muro perimetrale del forte tardo-repubblicano, di cui anche le antiche porte di accesso rimasero in uso: l’ingresso occidentale immetteva nella parte residenziale e termale, mentre quello orientale nel quartiere domestico e sul retro delle terme. Gli scavi in corso mostrano come all’esterno del muro perimetrale, nel settore sud-est, vi fosse un portico di cui restano i pilastri di mattoni.
MOSAICI BIANCHI E NERI Il quartiere residenziale era composto da camere da letto (cubicula) e sale da pranzo (triclinia), aperte sul corridoio che correva lungo il lato ovest e sud-ovest del peristilio. Le stanze completamente scavate sono cinque, e altrettante stanno venendo alla luce. Tutte conservano, piú o meno bene, il pavimento a mosaico,
Il ruolo dei volontari è quello di coadiuvare i ricercatori nella raccolta del dato grezzo sul campo. A loro volta, gli archeologi forniscono ai volontari gli strumenti per aiutarli sullo scavo, insegnano loro cosa fare e come operare correttamente, seguendoli con attenzione e dedizione. La ricerca scientifica viene condotta dai professionisti, mentre le attività accessorie sono svolte con l’aiuto dei volontari. Un aspetto non secondario per l’esperienza che viene condotta a Poggio del Molino è che i partecipanti a titolo volontario si fanno carico non soltanto del vitto e dell’alloggio, ma di tutte le spese necessarie alla copertura del budget per lo scavo (nel quale sono compresi i compensi degli archeologi).
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«SIAMO TUTTI MECENATI»… ALMENO A POGGIO DEL MOLINO Il coinvolgimento del pubblico – di fatto l’effettivo fruitore del lavoro dell’archeologo – sia esso un volontario che partecipa attivamente alla ricerca, uno studente, un membro della comunità locale, un turista di passaggio o chicchessia, è alla base della forma di finanziamento con cui abbiamo scelto di misurarci a Poggio del Molino: il crowdfunding. Dal 2008, un mecenatismo fatto di piccole donazioni liberali rende possibile la realizzazione dello scavo archeologico, del restauro dei mosaici romani e delle strutture murarie, la progettazione delle coperture temporanee degli ambienti restaurati e la loro costruzione per lotti, la manutenzione del sito, l’incremento dell’accessibilità, la divulgazione scientifica; permette anche di programmare interventi futuri e piano piano realizzarli. Il principale sostenitore di questa operazione è Past in Progress (PiP), l’Associazione culturale non lucrativa fondata nel 2010 per promuovere ricerca, valorizzazione e divulgazione dei beni archeologici, che da subito ha finanziato il Progetto Archeodig.
generalmente bianco e nero con decorazione geometrica o floreale. Il piú rappresentativo è senza dubbio quello del triclinio, portato alla luce negli anni Ottanta. È noto come «mosaico della Medusa», poiché al centro conserva un riquadro de-
La raccolta fondi si muove su diversi fronti: lo scavo archeologico è finanziato principalmente dai volontari di Earthwatch Institute che, come abbiamo visto, coprono la maggior parte del budget e intervengono sul campo svolgendo attività sí accessorie, ma necessarie, mentre gli studenti italiani e statunitensi danno il proprio contributo lavorando fianco a fianco con gli archeologi professionisti. Il Rotary Club di Piombino ha finanziato l’avvio dello scavo di un ambiente sotterraneo perfettamente conservato per il quale erano necessari operai e attrezzature da cantiere edilizio (carrucola, carriola a motore, generatore elettrico). Il restauro dei mosaici, avviato lo scorso giugno in collaborazione con la Fondazione RavennAntica, è stato per il primo anno – per i primi due mosaici – finanziato da PiP. La pubblicazione scientifica in fase di redazione è finanziata dalla Banca di Credito Cooperativo di Castagneto Carducci. Poi ci sono le elargizioni liberali, piccole, come quelle lasciate dai visitatori occasionali del cantiere, che al termine della presentazione dello scavo e del progetto
corato appunto con la testa di Medusa. Questa, leggermente rivolta verso destra, è realizzata in tessere policrome in pasta vitrea su fondo bianco; dai capelli spuntano coppie di serpenti, due dei quali si incrociano sotto il mento.
La terma era composta da due settori distinti, il laconicum e il quartiere termale canonico. Il laconicum aveva un corridoio d’ingresso che immetteva in uno spogliatoio, dotato di bacino per le abluzioni di acqua fredda; da qui si passava alla A sinistra: il mosaico «della Medusa», venuto alla luce nel triclinio della villa. Nella pagina accanto, in basso: un’altra immagine del laconicum compreso nell’impianto termale; sulla sinistra, si vedono i pilastrini in laterizio del vano adibito a sauna.
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donano un contributo che viene raccolto da PiP sotto la voce «1 € per Poggio del Molino»; e piú sostanziose, per le quali sono previste le agevolazioni fiscali dell’Art bonus (www.artbonus.gov.it/areaarcheologica-di-poggio-del-molino.html). Quest’ultimo prevede la possibilità di detrarre dalle imposte fino al 65% dell’importo donato per elargizioni liberali a sostegno del patrimonio culturale pubblico italiano (Legge n. 106 del 29 luglio 2014). Un esempio: grazie alla donazione del mecenate Ugo Fumagalli Romario è stato possibile affidare agli architetti Agostino Carpo, Erica Foggi e Chiara Nespoli (già progettisti del Museo etrusco di Populonia Collezione Gasparri) l’incarico della progettazione delle coperture dei mosaici (vedi l’immagine qui accanto) e prevedere la realizzazione della metà del primo lotto (tre stanze con pavimento a mosaico nel quartiere residenziale). Il lavoro da fare è ancora lungo: oltre allo scavo,sono in programma il restauro dei sei pavimenti musivi finora messi in luce, il secondo lotto di coperture del quartiere residenziale e di tutto il complesso termale; l’ambiente sotterraneo deve essere finito di scavare,
sauna, di cui restano in situ le colonnine in laterizi che sostenevano il pavimento riscaldato, o a una sala quadrangolare, probabilmente un destrictarium o unctorium, arredato con letti per detergere e massaggiare il corpo con olii profumati. Il quartiere termale vero e proprio si sviluppa lungo il corridoio set-
messo in sicurezza e reso accessibile per le visite; occorre progettare e realizzare un percorso per i visitatori, dotato di apparati didattico/illustrativi. Inoltre, è necessario sostituire la baracca di cantiere con una struttura ecocompatibile di supporto agli scavi, provvista di servizi per il pubblico. Il progetto si alimenta della partecipazione del pubblico. Il nostro ruolo è quello di mediatori tra passato e presente, con uno slancio verso il futuro per garantire alle generazioni che verranno la salvaguardia del loro patrimonio.
tentrionale del peristilio, ma l’estrema porzione nord, costruita a picco sul mare, è franata. Attualmente, sono stati riportati alla luce la sala per i bagni caldi (calidarium), con l’adiacente forno (praefurnium), e due vasche, una circolare e una ellittica, per i bagni freddi (frigidarium). Il quartiere domestico si articolava
intorno a una piccola corte scoperta, nella quale si trovavano un pozzo, una cisterna per lo stoccaggio dell’acqua e una piccola rimessa per gli attrezzi. Sui lati est e ovest della corte correva un corridoio sul quale affacciavano alcuni ambienti. L’unico interamente scavato è adiacente alla porta d’ingresso dell’insediamento ed è riferibile a una cucina, di cui si conservano, oltre alla suppellettile, i pilastrini di laterizi che sostenevano gli archetti del bancone di cottura. Sebbene gli altri ambienti siano in corso di scavo, alcune strutture murarie messe in luce nell’ultima campagna fanno pensare che questo settore prevedesse un piano superiore, destinato probabilmente all’alloggio del personale domestico. Le indagini mostrano che la villa subí un progressivo impoverimento a partire dalla metà del III secolo d.C. che culminò con l’abbandono definitivo agli inizi del IV. a r c h e o 45
MOSTRE • BASILEA
LA NAVE DI
Un particolare dell’allestimento della mostra in corso all’Antikenmuseum di Basilea, il cui progetto è stato curato dallo Studio Adeline Rispal di Parigi. 46 a r c h e o
I PRIMI RECUPERI AL LARGO DELL’ORMAI CELEBRE ISOLA GRECA FURONO EFFETTUATI OLTRE UN SECOLO FA. DA ALLORA, LE RICERCHE SULL’IMBARCAZIONE CHE HA RESTITUITO L’ALTRETTANTO FAMOSO «MECCANISMO» NON HANNO CONOSCIUTO SOSTE E OGGI, GRAZIE A UNA SPETTACOLARE MOSTRA ALLESTITA A BASILEA, SI PUÒ RIPERCORRERE L’INTERA VICENDA E SCOPRIRE LE ULTIME NOVITÀ di Esaú Dozio
ANTICITERA
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iamo verso il 70 a.C., la grande nave da trasporto, appesantita dal carico di sculture in marmo stivato a bordo, arranca sul mare in tempesta. Il vento aumenta ancora, il fasciame scricchiola sotto l’urto delle onde. Nonostante l’oscurità, l’equipaggio vede improvvisamente stagliarsi davanti alla prua la piccola isola di Anticitera. Ma il vascello è ormai ingovernabile e in balia degli elementi: l’urto sugli scogli è inevitabile e il destino accomuna il marinaio Pamphilos e la giovane passeggera con i suoi gioielli d’oro. Ben poco li avrebbe consolati sapere che questo naufragio è all’origine di una delle scoperte piú emozionanti nella storia dell’archeologia.
Salvo diversa indicazione, tutti i reperti riprodotti in queste pagine sono esposti nella mostra sul relitto di Anticitera allestita a Basilea e provengono dal Museo Archeologico Nazionale di Atene. a r c h e o 47
Mare Adriatico
MOSTRE • BASILEA
A
due millenni di distanza, nel 1900, il relitto viene localizzato da alcuni pescatori di spugne che informano immediatamente la Soprintendenza Generale alle Antichità della Grecia. Il recupero del materiale archeologico, che giace a oltre 50 m di profondità, è complesso e pericoloso (vedi box a p. 50). Le successive indagini, condotte nel 1976 dall’oceanografo francese Jacques-Yves Cousteau (1910-1997), si limitano a una piccola superficie del fondale, ma consentono comunque di arricchire le conoscenze sul relitto. In particolare, il ritrovamento di un tesoretto di monete d’argento permette ora di datare il naufragio dopo il 70 a.C. L’interesse della comunità scientifica si concentra a lungo e quasi esclusivamente sulle ormai celebri sculture e sul cosiddetto «meccanismo di Anticitera» (vedi box alle pp. 56-57). Soltanto pochi anni fa, grazie all’intuizione dell’allora diretIn alto, sulle due pagine: cartina del Mediterraneo sulla quale è indicata la possibile rotta seguita dalla nave affondata presso Anticitera.
Roma Ostia
Mar Tirreno
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Napoli
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Brindisi
Taranto
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Catania
Siracusa
tore del Museo Archeologico Nazionale di Atene Nikolaos Kaltsas, gli archeologi si dedicano allo studio dell’intero materiale proveniente dagli scavi. I risultati sono impressionanti, poiché fanno luce su una delle epoche piú affascinanti della storia del Mediterraneo. Questo ritrovamento, infatti, ci consente di scoprire, come in un fermo immagine, i fondamentali rapporti culturali tra Roma, la nuova superpotenza A sinistra: modellino ricostruttivo di una nave romana. Quella di Anticitera venne costruita con legno di quercia, che le analisi radiocarboniche hanno datato al 220+/-40 a.C.
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Paros
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Sparta
Citera
Anticitera
Creta Cnosso
In principio era lo scafo Sequenza che illustra le principali fasi costruttive di un’imbarcazione del tipo di quella colata a picco nelle acque di Anticitera: fu adottata la tecnica definita «shell-first», che consiste nel realizzare dapprima lo scafo e poi le parti interne. Michael Throckmorton, che per primo l’ha studiata, ha ipotizzato che la nave misurasse 30 m di lunghezza e 10 di larghezza massima e avesse una capacità di carico pari a 300 tonnellate. RUOTA DI PRUA
RUOTA DI POPPA
SCAFO
COSTOLE
CHIGLIA
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MOSTRE • BASILEA
mondiale, e il mondo greco, che sembrano anticipare molte delle problematiche odierne.
UN SECOLO DI RECUPERI Il 6 novembre 1900, il capitano di un’imbarcazione di pescatori di spugne, Dimitrios Eleuterios Kontos, scrive alla Soprintendenza Generale alle Antichità: «Durante la pesca delle spugne in acque greche ho rinvenuto sul fondale marino il braccio destro di una statua in bronzo». Un grande dispiegamento di mezzi viene messo a disposizione della prima indagine sottomarina della storia: la Marina militare ellenica coadiuva i pescatori di spugne nel difficile e rischioso recupero dei materiali, a una profondità di 52 m. A costo di sforzi sovrumani le grandi sculture in marmo del relitto vengono riportate in superficie. Si rinvengono, inoltre, vari frammenti di statue in bronzo, nonché vasellame in ceramica e in vetro. Anche i resti del cosiddetto «meccanismo di Anticitera» fanno parte dei ritrovamenti di questa prima campagna, benché la loro importanza venga notata solo il 18
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maggio 1902, quando ormai tutti i reperti sono stati trasferiti al Museo Archeologico Nazionale di Atene. Si deve attendere il 1976 per ulteriori immersioni nel luogo del ritrovamento. Questa breve campagna di scavi, a cui partecipa il leggendario oceanografo e cineasta Jacques-Yves Cousteau, consente il recupero di ulteriori reperti, senza però esaminare in maniera esaustiva il relitto. Solo nel 2014 gli archeologi greci, coadiuvati dalla Woods Hole Oceanographic Institution, avviano una moderna indagine archeologica davanti alle coste di Anticitera. Viene innanzitutto documentato il fondale marino, scansionato ad alta risoluzione, cosí da gettare le basi per le successive ricerche. Il relitto stesso, in effetti, non è ancora stato scavato: i pescatori di spugne hanno soltanto recuperato le opere visibili sul fondale. Durante questa ricognizione è stato probabilmente scoperto un secondo relitto inesplorato, che giace a poca distanza dal primo. Si ha l’impressione che le indagini siano a una svolta: dopo oltre un secolo dal ritrovamento sarà possibile, nei prossimi anni e grazie alle nuove tecnologie, fornire importanti risposte ai numerosi quesiti aperti riguardanti la nave e il suo carico.
IL DOMINIO DEI MARI Nel II secolo a.C., lo storico Polibio si sofferma sull’ascesa travolgente di Roma a unica potenza nel Mediterraneo. In un brevissimo lasso di tempo, tra la battaglia di Zama – che, nel 202 a.C., segna la fine della seconda guerra punica – e il 133 a.C. – anno in cui eredita il regno di Pergamo –, Roma impone il suo potere praticamente su tutte le coste del mare nostrum. Questa nuova egemonia non può che portare a profondi cambiamenti nella società romana: «A quel tempo lo Stato, a causa della sua grandezza, non poteva piú mantenersi puro, ma il dominio di tanti affari e tanti popoli vi aveva introdotto una mescolanza di tradizioni e stili di vita di ogni tipo» (Polibio). Da un lato, durante le ripetute In alto: operatori subacquei al lavoro durante le nuove campagne condotte nelle acque di Anticitera. A destra: ancora un’immagine dell’allestimento della mostra sulla nave di Anticitera in corso a Basilea. A sinistra, in basso: l’oceanografo francese Jacques-Yves Cousteau (al centro, affiancato da Albert Falco e Lazaros Kolonas) dopo il recupero di due statuette in bronzo, nel corso delle ricerche condotte nel 1976.
campagne militari, i Romani erano entrati in contatto diretto con i centri culturali del Mediterraneo orientale: «Laggiú per la prima volta un esercito del popolo romano sperimentò piaceri che non conosceva, l’amore e il vino; imparò ad apprezzare le opere d’arte, statue, quadri, vasellame cesellato» (Sallustio). D’altro canto l’afflusso di decine di migliaia di persone, sia volontariamente che come schiavi, dai territori di recente conquista all’Italia portava i Romani a dover reinventare la propria identità culturale. Questi profondi mutamenti erano controversi già all’epoca e creavano apprensione negli ambiti piú conservatori della politica romana, in particolare a causa del crescente influsso esercitato dall’arte e dalla cultura greca sulla nuova élite dell’Urbe. Suscitavano però anche le critiche degli storici antichi: «Infatti, quando i vincitori abbandonano le
loro abitudini di vita e fanno propri i gusti dei vinti (…) si può affermare senza tema di smentite che commettono un grave errore» (Polibio).
IL FILOSOFO INCANTATORE L’ambiguo atteggiamento romano nei confronti della cultura ellenica è incarnato al meglio dalla reazione di Catone alla cosiddetta ambasciata dei filosofi greci, nel 155 a.C. L’entusiasmo suscitato in questa occasione dai discorsi di Carneade era notevole: «Corse voce che un Greco assolutamente straordinario incantava e conquistava ogni cosa e che aveva ispirato ai giovani una passione sfrenata; ed essi, presi dalla smania della filosofia, avevano abbandonato gli altri piaceri e gli altri passatempi. Ciò dava soddisfazione ai Romani, che vedevano di buon occhio il fatto che questi ragazzi si accostassero alla cultura greca e frequentassero questi uomini d’eccezione. Invece
Catone si allarmò subito all’idea di questo fervore di discorsi filosofici che dilagavano in città. La sua paura era che la gioventú, perseverando in questo genere di ambizione, preferisse il lustro della parola alla gloria politica e militare» (Plutarco). Ma lo stesso Catone conosceva bene la lingua e la cultura greca, tanto che «nei suoi scritti si intrecciano varie massime e storie riprese dai Greci» (Plutarco). Lo stesso dilemma tra la passione per la cultura greca e la paura di subirne una eccessiva influenza si rileva anche, all’epoca del naufragio di Anticitera, negli scritti di Cicerone. Da un lato, agli esordi della sua carriera oratoria, egli fa condannare Gaio Verre, colpevole di aver spogliato le città della Sicilia dei loro tesori, in particolare delle sculture, per arricchire la sua collezione: «“L’ho comprato!”, dice lui. Per gli dèi immortali, che bella difesa! Abbiamo mandato a governare una provin-
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MOSTRE • BASILEA
cia un mercante (…) perché comprasse in blocco tutte le statue e i dipinti, tutto l’argento, l’oro, l’avorio, le pietre preziose, e non lasciasse nulla a nessuno!» (Cicerone). La smodata passione di Verre per l’arte greca, inoltre, non è compatibile con le tradizioni romane, anzi, il danno fatto alle città siciliane si capisce solo se si sa che «ai Greci piacciono in modo stupefacente questi oggetti di cui noi poco ci curiamo».
QUEI DOPPI BUSTI... Quasi contemporanee sono però le lettere di Cicerone a Tito Pomponio Attico, che ci permettono di scoprirne il vero sentimento verso la cultura greca: «Fammi spedire, te ne prego, quando la cosa non ti procurerà affatto disturbo, le statue acquistate per me e i doppi busti di Ermes ed Ercole, come mi scrivi. Aggiungi pure ogni altro oggetto artistico che troverai, il quale sia adatto all’ambiente che tu ben conosci, specialmente i pezzi che ti sembrerà che vadano bene per una palestra e un ginnasio». Proprio in questo contesto culturale si inserisce il viaggio fatale alla nave di Anticitera. Essa era, in effetti, carica di sculture, tra cui originali greci in bronzo, copie in marmo
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In alto: moneta in argento facente parte di un tesoretto di 36 pezzi trovato a bordo della nave. 85-76 a.C. Atene, Museo Numismatico. In basso: coppa lobata in vetro. Prima metà del I sec. a.C.
di famose sculture dei maggiori maestri, ma anche prodotti nuovi, realizzati direttamente in Grecia per il fiorente mercato romano. Le modalità di acquisto e trasporto non dovevano discostarsi dalle indica-
zioni che Cicerone fornisce ad Attico nelle sue lettere: «Lentulo mette a disposizione le sue navi» oppure «le statue, che mi hai procurato, sono state sbarcate a Gaeta. Io non le ho ancora viste, perché non ho avuto la possibilità di allontanarmi da Roma, ma ho mandato un mio incaricato a pagare le spese di trasporto». Purtroppo, non è ancora stato scoperto in quale atelier siano state realizzate le monumentali sculture in marmo pario naufragate con la nave. Tra le ipotesi formulate ci sono una produzione sull’isola di Delo oppure in un centro greco dell’Asia Minore, come per esempio Pergamo oppure Efeso. E, in effetti, tutti e tre i luoghi sono particolarmente importanti per la nave di Anticitera. Il carico recuperato dal relitto ci permette infatti di supporre che il porto di partenza sia da localizzare proprio in Asia Minore e che la nave abbia probabilmente fatto scalo a Delo prima del naufragio. Tra le mercanzie trasportate si trovavano ceramiche e monete di produzione pergamena, anfore, vasellame e monete di Efeso, nonché reperti che vanno certamente posti in
METTERE IN SCENA LA STORIA Le mostre archeologiche puntano spesso sulla qualità estetica dei reperti per catturare l’attenzione del pubblico. Anche nel caso di Anticitera, in effetti, il livello artistico degli oggetti in esposizione è notevole. In fase di progettazione, però, l’attenzione è stata posta soprattutto sulla storia che il relitto racconta. Tutti gli indizi possono essere concatenati, consentendo di presentare al visitatore, come in un film, un racconto coerente e intrigante. Fin dall’inizio si è deciso di narrare innanzitutto gli eventi, partendo dall’epoca del viaggio e passando poi all’affondamento e alla riscoperta. I marmi di Anticitera, con il loro sorprendente stato di conservazione, sono «attori» di eccezionale valore, capaci di trasmettere al pubblico le emozioni suscitate dall’archeologia e dalle ricerche sottomarine. Una notevole importanza, a Basilea, è stata data alla scenografia, affidata allo Studio Adeline Rispal di Parigi. Proprio questo approccio non
convenzionale al materiale archeologico, che permette un avvicinamento immediato alla tematica trattata, è uno dei punti chiave del progetto. I reperti rimangono, evidentemente, il fulcro dell’esposizione, ma sono inseriti in un contesto scenico molto suggestivo, che fa della visita un’esperienza a tutto tondo. Si mette dunque da parte il tradizionale timore di «profanare» i reperti attraverso la scenografia o l’utilizzo di un linguaggio facilmente comprensibile, ma al contempo si evita che la forma prenda il sopravvento sui contenuti e che il valore scientifico del prodotto venga ridimensionato. Il contesto di scavo, inoltre, riveste anche nelle mostre un ruolo sempre piú importante, consentendo, attraverso immagini e filmati, di rendere il visitatore partecipe delle profonde emozioni che accompagnano il lavoro dell’archeologo. Anche per quanto riguarda i criteri espositivi, l’archeologia classica si allontana dunque sempre piú dai tradizionali paradigmi classicisti.
relazione con Delo. In particolare, i letti da banchetto, con le ricche decorazioni bronzee, provengono con ogni probabilità da un atelier dell’isola, famosa appunto per questo tipo di prodotti. Proprio una tappa della nave a Delo sembra spiegare la presenza a bordo di mercanzie giunte dal Levante, come le coppe in vetro e la ceramica di Rhossos, e dall’Egitto, da cui provengono le coppe in vetro mosaicato di produzione alessandrina.
LE LAMENTELE RODIESI Delo era stata dichiarata porto franco fin dal 166 a.C., cosí da permettere a Roma di non limitare la propria egemonia agli ambiti politicomilitari, ma di estenderla all’economia del tempo, tramite il controllo indiretto dei commerci marittimi, trasformando l’isola nel crocevia dei traffici internazionali. Questa misura parrebbe aver avuto il successo sperato, tanto che la concorrenza di Rodi come polo commerciale viene rapidamente messa in discussione. Già nel 164 a.C. un’ambasceria rodia si lamenta davanti al Senato romano al riguardo: «La maggiore disgrazia per la nostra città, è il fatto che siano cessate le rendite del porto, perché voi avete reso Delo un porto franco (…) Nei tempi addietro le imposte doganali ci procuravano entrate per un milione di dracme, mentre ora ce ne procurano solo 150 000» (Polibio). E, in effetti, il controllo romano dei traffici commerciali nel Mediterraneo era reso possibile dalla presenza a Delo di un grande numero di mediatori e commercianti italici. Le dimensioni di questo fenomeno si evincono dal racconto della conquista dell’isola da parte dell’esercito di Mitridate VI nell’87 a.C., durante le guerre contro Roma, in Una delle vetrine allestite per la mostra, nella quale è esposta una selezione del vasellame in ceramica facente parte del carico recuperato dalla nave di Anticitera. a r c h e o 53
MOSTRE • BASILEA Statua in marmo pario raffigurante un giovane. Inizi del I sec. a.C. È probabile che si tratti di un lottatore che sta per dare inizio al combattimento.
seguito alla quale ben 20 000 persone, «perlopiú Italici» (Appiano), evidentemente commercianti che da qui gestivano l’insieme degli scambi e i trasporti, furono passati per le armi. Poco dopo aver lasciato Delo la grande nave da trasporto si avvicinò allo stretto passaggio tra Creta e il Peloponneso, in mezzo al quale si erge l’isola di Anticitera. Cicerone descrive i pericoli della navigazione in queste acque in una lettera scritta proprio a Delo alla metà di luglio del 51 a.C.: «Impresa dura è navigare e per giunta nel mese di luglio! Ho impiegato sei giorni per arrivare da Atene a Delo. Il 6 luglio abbiamo fatto vela dal Pireo per Zostere con un vento avverso che ci ha costretti a fare sosta là per il 7. Il giorno 8 abbiamo navigato con mare piacevole fino a Ceo. Di lí abbiamo proceduto per Giaro con vento furioso, ma non contrario. Quindi spostandoci a Siro, poi a Delo».
ACQUE PERICOLOSE L’isola di Anticitera è particolarmente esposta ai venti del Nord, cosicché il passaggio presso di essa doveva preoccupare non poco i marinai. Inoltre, in epoca ellenistica, i pirati approfittarono della sua posizione strategica per insediarvisi e attaccare i traffici mercantili. Un’iscrizione degli inizi del III secolo a.C., rinvenuta a Rodi, commemora i marinai che si sono distinti nell’attacco ai pirati dell’isola di Aigila, l’antico nome di Anticitera. Le ricerche archeologiche sull’isola sembrano confermare la presenza in questo luogo di un avamposto fortificato cretese, legato alla città di Falasarna. La distruzione di questo insediamento si situa probabilmente nel contesto della campagna condotta nel 69 a.C. da Quinto Cecilio Metello Cretico contro i pirati cretesi. 54 a r c h e o
In basso: statuetta in bronzo raffigurante un personaggio maschile, che alcuni studiosi hanno proposto di identificare con un ritratto del dio Hermes. Fine del II sec. a.C.
Frammento di spalliera in bronzo che in origine decorava un letto tricliniare (kline). 150-100 a.C.
Proprio negli anni in cui la nostra nave incontra il suo tragico destino, le rotte in questione sono dunque estremamente rischiose e non soltanto a causa dei venti tempestosi. La stessa isola di Delo, presso cui il nostro vascello aveva fatto scalo, viene saccheggiata nel 69 a.C. dai pirati. Ammettendo che la nave di Anticitera abbia effettivamente attraccato a Delo dopo il 70 a.C. (terminus post quem numismatico), si pone la domanda delle reali condizioni in cui versava allora l’isola. Un eventuale, parziale stato di abbandono nelle immediate fasi susseguenti l’attacco potrebbe aver favorito la spoliazione degli edifici pubblici di Delo per rifornire, con opere d’arte, il fiorente mercato romano. Già prima del 69 a.C., in ogni caso, Verre aveva tentato di depredare Delo di alcuni dei suoi capolavori artistici: «Eccolo arrivato a Delo. Là di
notte rubò di nascosto dal veneratissimo santuario di Apollo le statue piú belle e piú antiche e le fece ammucchiare sulla sua nave da carico. (…) All’improvviso scoppiò una tempesta cosí violenta che Dolabella, che pur lo desiderava, non solo non riusciva a partire, ma faceva addirittura fatica a rimanere in città: cosí enormi erano le ondate che il mare lanciava. Durante questa tempesta la nave di questo pirata, che era carica di sacre immagini, respinta dalla violenza dei flutti, fa naufragio» (Cicerone). È possibile che alcune delle statue rinvenute, in particolare i bronzi del IV-III secolo a.C. – tra cui il celeberrimo Filosofo –, provengano da luoghi pubblici greci, depredati in modo piú o meno legale dei loro tesori per far fronte alla crescente richiesta di capolavori scultorei da parte dei Romani.
OPERE APPENA ULTIMATE D’altro canto, le monumentali opere in marmo del relitto sono state certamente realizzate poco prima del trasporto e specificatamente per i committenti in Italia. Alcune di esse, per esempio il giovane atleta, recano ancora tracce di lavorazione: si tratta dunque di prodotti «freschi di atelier», imbarcati subito dopo il completamento. Stilisticamente molto vicine ai marmi di Anticitera e a r c h e o 55
MOSTRE • BASILEA
UNO STRUMENTO STRAORDINARIAMENTE SOFISTICATO Uno dei reperti piú sorprendenti rinvenuti a bordo del relitto è il cosiddetto «meccanismo di Anticitera». Si tratta di un raffinato planetario meccanico, per mezzo del quale era possibile riprodurre i cicli solari e lunari nonché calcolare la posizione dei pianeti e diversi fenomeni astronomici. Di questo eccezionale strumento si conservano 82 frammenti, venuti alla luce durante le indagini del 1900. Sono talmente fragili da impedirne il trasporto: a Basilea sono presenti modelli virtuali e ricostruzioni, tra cui quella di Michael Wright. Le analisi a cui essi sono stati sottoposti hanno rivelato il funzionamento di questo capolavoro della tecnologia antica. Il meccanismo, alto in origine una trentina di centimetri, si componeva di numerose ruote dentate e di altri ingranaggi in bronzo. Il quadrante anteriore era costituito da due indicatori concentrici, il piú esterno dei quali era suddiviso in 365 segmenti, corrispondenti a un anno solare, ripartiti nei 12 mesi del calendario egizio, mentre l’altro era uno zodiaco. Alcune lancette indicavano il Sole, la Luna e i
cinque pianeti al tempo conosciuti. Girando una manovella era possibile riprodurre la posizione di questi corpi celesti rispetto allo Zodiaco, nonché le fasi della Luna. Sul quadrante posteriore erano presenti due spirali, composte rispettivamente da 235 caselle quella superiore e 223 quella inferiore. Le 235 caselle corrispondono agli altrettanti mesi del ciclo detto «di Metone» (dal nome di un astronomo ateniese del V secolo a.C.). Già gli antichi avevano notato che un anno solare
forse prodotte dalla medesima officina, sono alcune sculture rinvenute in una villa di Fianello Sabino e ora conservate al Museo Nazionale Romano. Tale circostanza ci permette di inquadrare il viaggio della nostra nave in un piú ampio contesto di traffici marittimi, che raggiunge il suo apice proprio nel I secolo a.C. Centinaia di navi da carico fanno la spola tra il Mediterraneo occidentale e quello orientale, trasportando derrate alimentari, materie prime, schiavi, prodotti artistici e vari beni di consumo. A testimonianza del grande traffico
commerciale del periodo si possono ricordare le 100 onerariae che accompagnavano la flotta di Dolabella nel 43 a.C.
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non corrisponde a un numero finito di mesi lunari. Metone aveva proposto, per ovviare a questo problema, di basarsi su un ciclo di 19 anni, corrispondenti appunto a 235 lunazioni, cosí da correlare il calendario lunare e quello solare. Le 223 caselle del registro inferiore coincidevano invece con i mesi lunari che compongono il ciclo detto «di Saros», relativo alla ripetizione delle eclissi di Sole e di Luna. In effetti su alcune delle caselle sono leggibili delle abbreviazioni che indicavano il tipo Due degli oltre ottanta frammenti del meccanismo di Anticitera, recuperati in occasione delle prime campagne di ricerca sul relitto.
LO SCETTICISMO DI CATONE Si poteva dunque fare ricorso, in caso di necessità, a decine e decine di navi da trasporto di grandi dimensioni, che normalmente erano destinate proprio ai collegamenti tra le varie regioni del mondo antico. Lo stesso Catone, pur mostrandosi scettico nei confronti dell’influenza greca sulla società romana, non ave-
va disdegnato di dedicarsi «alla forma piú screditata di usura, il prestito marittimo, che funzionava cosí: a chi gli chiedeva denaro imponeva di formare una compagnia con molti altri e, quando questi avevano raggiunto il numero di cinquanta, con altrettante navi, egli, tramite un suo liberto, Quinzione, che prendeva parte a ogni affare e navigava con loro, otteneva una quota del capitale. Cosí rischiava su una piccola parte della somma, non su tutto, e con enormi guadagni» (Plutarco). In effetti, la percentuale di naufragi, in questo periodo, doveva essere piuttosto elevata. Si calcola che,
di eclisse e l’ora in cui essa sarebbe avvenuta. Un piccolo quadrante, posizionato presso la spirale superiore, si riferiva ai giochi panellenici previsti per l’anno in corso, correlando dunque i calendari astronomici con la tradizionale suddivisione del tempo in olimpiadi. Anche gli indicatori sul quadrante posteriore venivano mossi dalla medesima manovella, risultando dunque correlati alle indicazioni fornite sul lato anteriore. Il meccansimo di Anticitera, che risale al II secolo a.C., è l’unico strumento di questo tipo attestato archeologicamente. Nelle fonti scritte, in particolare Cicerone, vengono però menzionati congegni analoghi, come quello costruito da Archimede e arrivato a Roma da Siracusa come bottino di guerra nel 212 a.C. oppure un planetario realizzato da Posidonio di Rodi (135-51 a.C. circa). Questo congegno sofisticato si inserisce dunque in una precisa tradizione scientifica e meccanica e doveva costituire uno dei pezzi di maggior pregio trasportati dalla nave, essendo certamente destinato a uno dei personaggi pubblici piú influenti di Roma. A destra: veduta frontale della ricostruzione del meccanismo di Anticitera proposta da Michael Wright.
all’epoca, tra il 3 e il 5% delle navi andasse perso durante il viaggio. Un investimento ripartito su 50 vascelli, in ogni caso, garantiva guadagni in grado non solo di compensare le eventuali perdite, ma di generare profitti enormi. Alla luce di quanto visto finora, né il viaggio stesso della nave di Anticitera, né la sua tragica fine sono sorprendenti. Entrambi gli eventi si a r c h e o 57
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Nella pagina accanto: la testa del cosiddetto Filosofo. Si tratta del ritratto di un personaggio barbato, forse identificabile con un pensatore appartenente alla scuola dei cinici, quali potevano essere, per esempio, l’ateniese Antistene o Bione di Boristene. 230 a.C. circa. A sinistra: testa marmorea di una statua di Hermes. Inizi del I sec. a.C.
inseriscono in un preciso contesto cronologico e culturale. Al piú, la particolarità di questo vascello consiste nel fatto che esso e il suo carico si sono conservati fino ai giorni nostri, consentendoci una panoramica straordinaria sul microcosmo sociale a bordo di una grande nave di questo periodo e fornendo preziose informazioni sulle mercanzie trasportate, la provenienza e le modalità del viaggio. Oltre ai resti della nave stessa, costituiti da massicce tavole di quercia rivestite da una lamina protettiva in
La presenza dei passeggeri è attestata da resti umani, in particolare dal cranio di una giovane donna, scoperto nel 1976 in prossimità dei raffinati gioielli d’oro, che certamente non è attribuibile a un membro dell’equipaggio. Si deve supporre che si trattasse di passeggeri di rango, provenienti, come sembrerebbe attestare il tesoretto di monete d’argento rinvenuto durante la medesima campagna, dalla regione di Pergamo oppure Efeso. Certamente in possesso dell’equipaggio erano, per contro, i recipienti che recano ancora incisi i nomi dei proprietari, tra cui il già menzionato Pamphilos. L’utilizzo, per questi graffiti, dell’alfabeto greco, ci consente di indicare il Mediterraneo orientale come luogo di origine dei marinai. Al contempo, alcune monete bronzee di Catania e Palermo, anch’esse appartenute con ogni probabilità all’equipaggio, mostrano che la nave faceva la spola tra l’Occidente e l’Oriente. Il fasciame, datato con il carbonio14 al 220+/-40 piombo, vari ritrovamenti ci illu- a.C., indica per il nostro vascello strano in maniera plastica la vita una lunga carriera come «veicolo quotidiana di passeggeri ed equi- culturale» tra la Grecia e Roma. paggio. Oltre alle pedine in pasta vitrea e ai frammenti di flauto in DOVE E QUANDO osso, utilizzati nei momenti di svago, si sono conservati resti del menu «Il tesoro sommerso. di bordo, che rimandano ad alimen- Il relitto di Anticitera» ti facilmente conservabili, come lu- Basilea, Antikenmuseum Basel mache e olive. Una macina e un und Sammlung Ludwig mortaio, per contro, ci permettono fino al 27 marzo di pensare a una dieta piú elaborata, Orario martedí-domenica, corroborata, oltre che dalle indi- 10,00-17,00 (giovedí apertura spensabili riserve d’acqua, anche dal fino alle 21,00); chiuso il lunedí vino consumato in abbondanza. Info www.antikenmuseumbasel.ch a r c h e o 59
MOSTRE • GENOVA Fibula in bronzo a forma di delfino, con smalti, da Albenga, via Milano. I-II sec. d.C. Il reperto è stato scelto come immagine guida della mostra.
Salvo diversa indicazione, tutti gli oggetti riprodotti in queste pagine sono esposti nella mostra «Storie dalla Terra e dal Mare-Archeologia in Liguria 2000-2015», in corso a Genova, nel Museo di Palazzo Reale.
FRA
TERRA E MARE UNA MOSTRA ALLESTITA A GENOVA ILLUSTRA LE INDAGINI CONDOTTE DALLA SOPRINTENDENZA ARCHEOLOGIA DELLA LIGURIA. RICERCHE E SCOPERTE CHE HANNO SVELATO TESTIMONIANZE STRAORDINARIE E CONTRIBUISCONO A SCRIVERE LA STORIA DI UN TERRITORIO COMPLESSO, STRETTO TRA I MONTI E LA COSTA
di Andrea De Pascale A sinistra: frammento di sarcofago in marmo, da Genova, via della Maddalena. V sec. d.C.
I
l lavoro dell’archeologo può avere molte declinazioni, una delle quali è costituita dagli interventi «preventivi», cioè condotti per verificare la presenza di testimonianze del passato in un territorio o in un’area interessati, per esempio, da cantieri edili o infrastrutturali. Sono soprattutto questi interventi di archeologia preventiva e di emergenza a impegnare le soprintendenze territoriali del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, che, per svolgerli, si avvalgono anche di archeologi liberi professionisti e imprese. Interventi che spesso non ricevono la dovuta attenzione o, peggio, finiscono sotto i riflettori soltanto nel caso di ritardi nello svolgimento dei lavori determinati dalla necessità di eseguirli. Allestita a Genova nei suggestivi spazi del Teatro del Falcone di Palazzo Reale, la mostra «Storie dalla Terra e dal Mare. Archeologia in Liguria 2000-2015» racconta proprio gli straordinari ritrovamenti effettuati grazie all’azione della Soprintendenza Archeologia della Liguria e lo fa con un percorso espositivo che si articola in quattro grandi temi (Archeologia delle città, Archeologia dei porti, Archeologia del quotidiano e Archeologia del rituale) e presenta, per la prima volta, oltre 200 reperti. Per estensione del centro urbano e numero di interventi – spesso complessi, come nel caso della costruzione della metropolitana –, è Genova ad avere restituito il maggior numero di resti monumentali e di reperti di grande interesse.
Ma la prima sezione della mostra svela anche i risultati dei numerosi cantieri che hanno recentemente interessato i centri storici di Imperia, Sanremo, Albenga, Savona e Chiavari.
PROPOSTE INNOVATIVE È peraltro doveroso ricordare che, proprio in Liguria, è stata fondamentale per le indagini di archeologia urbana l’opera di Tiziano Mannoni (19282010), al quale si devono proposte metodologiche innovative e l’elaborazione di importanti contributi sull’archeologia medievale, l’archeometria, l’archeologia della produzione e l’archeologia del costruito.
Dal 2000, oltre un centinaio di interventi ha reso possibili scoperte di grande rilevanza per la comprensione della storia di Genova. Basti pensare ai suoli sepolti e alle tracce di presenza umana risalenti al Neolitico Medio (V millennio a.C.), alle strutture datate all’età del Bronzo Antico (III-II millennio a.C.) o al A sinistra: spada in bronzo a lingua di presa da Valbormida, recuperata grazie a un sequestro del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri di Genova. Età del Bronzo Finale, XII-XI sec. a.C. In basso: applique in ceramica raffigurante un volto (XVI-XVII sec.), da Savona, Ospedale San Paolo. Con altri scarti di fornace, il reperto proviene dal riempimento di vasche abbandonate di un’antica conceria.
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venute a S. Maria delle Grazie la Nuova, all’interno del basamento di una torre demolita alla fine del XII secolo e negli strati successivi che la sigillavano: si tratta di numerose scodelle smaltate e dipinte – attribuibili a una produzione dell’Italia meridionale della fine dell’XI secolo –, di un servizio da tavola con decorazione «a lustro metallico» e di alcuni esemplari di ceramica smaltata egiziana del XIII secolo, che provano la vitalità dei commerci mediterranei e il ruolo primario di Genova in quel periodo. Straordinaria, da scavi di archeologia urbana ad Albenga, è la fibula (spilla) in bronzo in forma di delfino decorata con smalti, datata al I-II secolo d.C., scelta come immagine guida della mostra.
RICERCHE SUBACQUEE Anche per la seconda sezione dell’esposizione, dedicata all’archeologia subacquea, non si può non ricordare come la Liguria abbia avuto un ruolo fondamentale a livello italiano e internazionale, grazie all’opera di Nino Lamboglia (1912-1977) e dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri da egli fondato. Le piú recenti scoperte presentate sono frutto del lavoro del Servizio Tecnico per l’Archeologia Subacquea della Soprintendenza Archeologia della Litumulo sepolcrale di tipo principesco della prima età del Ferro (prima metà del I millennio a.C.) che documentano l’antichità e la continuità insediativa nella zona della città (vedi anche «Archeo» nn. 299 e 336, gennaio 2010 e febbraio 2013). Testimonianze alle quali si aggiungono le ancora piú numerose strutture di età romana, medievale e moderna, tornate alla luce in varie aree della zona urbana. Tra i materiali in mostra colpiscono gli elementi decorativi in marmo risalenti al XIII secolo della distrutta chiesa di S. Francesco in Castelletto e le ceramiche medievali rin62 a r c h e o
In alto: Genova, via Garibaldi. Il primo tracciato stradale (1558-1571). Scavi 2012-2013.
A destra: guria, che, dal 1997, opera per la tutela, la ricerca e la valorizzazione Albenga. Scavi dei siti archeologici sommersi in nell’alveo del acque marine e interne, in collabofiume Centa. razione con le forze dell’ordine Qui sotto: Genova. (Carabinieri, Guardia di Finanza, Lo scavo della Polizia di Stato, Capitaneria di PorTorre degli to e Marina Militare). Embriaci, di cui si I materiali selezionati per la mostra conserva solo la sono in prevalenza frutto degli inporzione terventi compiuti nelle aree portuainferiore, li di Genova,Vado e Imperia e testiscampata alla moniano l’importanza di questi distruzione della approdi nel corso dei secoli. Eccefine del XII sec. zionali sono i resti di età etrusca e romana dal Porto Antico di Genova, un cannone di piccolo calibro («fal-
conetto») di produzione veneziana del XVI secolo anch’esso dal capoluogo ligure, un paiolo ancora ricolmo di pece datato al XVI secolo rinvenuto al largo di Punta Chiappa nei pressi di Portofino, nonché vari contenitori ceramici e un mortaio (segue a p. 66)
Sulle due pagine: falconetto (piccolo cannone) commerciale da 3 libbre, da Genova, Porto Antico. Produzione veneziana, seconda metà del XVI sec.
Piú di una scoperta ribadisce l’importanza dei porti della Liguria e il carattere internazionale della rete commerciale in cui essi operavano
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MOSTRE • GENOVA
QUINDICI ANNI CRUCIALI incontro con Vincenzo Tinè, soprintendente archeologo della Liguria La mostra in corso a Genova nasce dalla quotidiana e capillare attività della Soprintendenza Archeologia della Liguria, come spiega Vincenzo Tinè, che ne è attualmente alla guida.
◆ Soprintendente, come è nata
l’idea di «Storie dalla Terra e dal Mare»? «L’esposizione è stata sviluppata da un’idea della Soprintendenza Archeologia della Liguria, con il coinvolgimento di tutti i funzionari, restauratori e tecnici dell’Ufficio, in collaborazione con la Regione Liguria, il Comune di Genova e il Museo di Palazzo Reale, per svelare gli straordinari ritrovamenti effettuati sul territorio regionale in quindici anni di attività dal 2000 al 2015». ◆ Si tratta dei risultati di un lavoro intenso e spesso silenzioso... «Sí, i nostri funzionari e i collaboratori esterni della Soprintendenza compiono quotidianamente una preziosa attività di ricerca, conservazione e tutela nel territorio, che attraverso questa mostra ha ora anche il suo momento, altrettanto importante, di valorizzazione e restituzione alla comunità. Fondamentale è anche la stretta cooperazione con il Comando del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri di Genova e con i nuclei subacquei degli stessi Carabinieri e della Guardia di Finanza, che ci affiancano nelle attività di tutela». ◆ Quali sono gli obiettivi dell’esposizione? «Presentare i principali risultati della ricerca archeologica nel territorio, dimostrando, anche in
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quei casi dove gli scavi hanno comportato disagi e ritardi alle opere pubbliche a cui erano collegati, la loro utilità fondamentale per far luce sulle problematiche storiche della Liguria antica, medievale e moderna. In questo senso, il primo quindicennio del nuovo secolo ha segnato un deciso passo in avanti delle conoscenze archeologiche in Italia, grazie all’introduzione di norme fondamentali, come quella sull’“archeologia preventiva”, che ha enormemente ampliato le possibilità di intervenire a larga scala».
◆ Questa attività ha permesso
certamente il raggiungimento di risultati importanti e ha innescato a sua volta ulteriori progetti: vuole fare qualche esempio? «In Liguria questo nuovo corso dell’archeologia pubblica si è
tradotto in una serie di scoperte fondamentali, che interessano tutto il territorio regionale: da Ventimiglia a Luni, i due grandi capoluoghi di età romana che ancora oggi presidiano i suoi confini. Particolare rilievo è stato dato in mostra a tematiche di importante interesse storico e sociale, come i grandi cantieri di archeologia urbana e le indagini sottomarine condotte dal Servizio In basso: Chiavari. Lo scavo in via delle Vecchie Mura che, con altri, ha restituito le piú antiche testimonianze della Cittadella.
Tecnico di Archeologia Subacquea della Soprintendenza. Molto interessanti sono i recuperi nelle aree portuali di Genova e Vado. Di notevole impatto evocativo sono poi i corredi di sepolture e i contesti sacrificali delle necropoli degli antichi Liguri scoperte ad Albenga e Albisola. Tutti i materiali esposti, freschi di restauro e finora custoditi nei depositi della Soprintendenza,
sono presentati per la prima volta al pubblico, con l’augurio che possano trovare presto collocazione nelle sedi museali del territorio. Magari nei nuovi “musei della città” che centri ad alta vocazione turistica – penso a Genova, Chiavari, Albenga e Sanremo – meriterebbero e su cui Ministero ed enti locali hanno intrapreso una progettazione congiunta». Qui accanto: piatto da pesce smaltato con decorazione a «cobalto-manganese», da Genova, S. Maria delle Grazie la Nuova. XIII sec.
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MOSTRE • GENOVA
di produzione italica di età romana, provenienti dalle acque del porto di Vada Sabatia (Savona) e dall’approdo del Portus Maurici (Imperia). La successiva sezione dedicata all’Archeologia del quotidiano è forse quella che piú colpisce il visitatore, poiché lo avvicina a testimonianze della cultura materiale del passato che aiutano a comprendere comportamenti, abitudini, tecniche costruttive e produttive. In pratica si compie un viaggio nel vivere quotidiano dei gruppi umani che hanno abitato il territorio ligure nel corso dei millenni, che spesso sfugge alla storia ufficiale. Gli oggetti documentano la vita in Il corredo della sepoltura a incinerazione di una donna ligure scoperta a Nasino, Prato del Pilone. II-I sec. a.C. Ne fanno parte, tra gli altri, i bottoni in bronzo di forma conica tipici dell’abbigliamento di questa popolazione preromana.
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insediamenti all’aperto, castellari protostorici, domus di età romana ed edifici di epoca medievale e moderna, oltre che in fornaci e zecche, spaziando dal Neolitico all’Ottocento, perché anche le tracce piú recenti possono essere indagate archeologicamente.
GLI ATTREZZI DEI PRIMI CONTADINI Utensili in selce, diaspro e ossidiana, cosí come ceramiche di varie forme e dimensioni – tra cui alcuni vasi «campaniformi» (appartenenti cioè all’omonima cultura dell’età del Rame) –, dal sito di San Nicolao a Castiglione Chiavarese, raccontano stili e modi di vita degli agricoltori e allevatori del IV-III millennio a.C. che già praticavano la transumanza tra il mare e l’Appennino. Splendidi sono i materiali legati alla produzione metallurgica delle ultime fasi dell’età del Bronzo (XIII-XI
secolo a.C.) provenienti dalla Val Bormida, nell’entroterra savonese: asce, falcetti, alcune spade perfettamente conservate, e poi armille (bracciali) finemente incise, che vennero prodotte sfruttando i giacimenti minerari locali, come confermano le analisi chimiche condotte sui reperti e i ritrovamenti nella stessa area di scorie di fusione, frammenti di panelle (lingotti) e piccoli ripostigli di rottami raccolti in attesa di essere rifusi. La mostra si chiude con uno sguardo sul mondo funerario e cultuale, presentando alcuni contesti particolarmente significativi. Protagonista è ancora la Val Bormida, con elementi metallici appartenenti a sepolture dell’età del Ferro di varie fasi, tra cui una spada ad antenne in ferro ritualmente ripiegata per renderla inservibile ed essere cosí deposta nella tomba ad accom-
UNA CITTÀ DA SCOPRIRE documentano la potenza commerciale ed economica della Genova medievale. Un itinerario che permette di scendere realmente nel sottosuolo della città, per esempio in alcune delle stazioni della linea metropolitana, dove, grazie al progetto Archeometro, si trovano esposti reperti e apparati didattici che illustrano le scoperte piú recenti, o in diverse aree attrezzate per la visita nei fondi di palazzi e al di sotto di spazi pubblici nel centro storico, come ai Giardini Luzzati di piazza delle Erbe dove gli scavi condotti dagli anni Novanta del secolo scorso hanno riportato alla luce strutture di epoca romana, tra cui i resti di un piccolo anfiteatro.
L’esposizione in corso a Genova vuole essere un invito anche a visitare il territorio, per scoprire le tracce del passato presenti in Liguria. È cosí, per esempio, che sono stati ideati e organizzati, in collaborazione con il Comune di Genova, itinerari archeologici nel capoluogo ligure che, grazie al lavoro compiuto dalla Soprintendenza, aumentano l’offerta turistica della città. Genova si arricchisce in questo modo di un tassello di notevole valore, che conduce cittadini e turisti alla scoperta di monumenti fino a ieri inaccessibili. È ora possibile compiere un affascinante viaggio nei millenni, dall’insediamento preromano ai resti meno noti che
Spada in ferro ad antenne ritualmente ripiegata per renderla inutilizzabile, da Valbormida, Pallare, Rio Cavallera. Fine del VII-inizi del VI sec. a.C.
pagnare il defunto, risalente al VIIVI secolo a.C., e un elmo a calotta in ferro del IV-III secolo a.C. La tomba a incinerazione di una donna ligure del II-I secolo a.C., rinvenuta a circa 1300 m di altitudine nell’entroterra di Albenga, lungo lo spartiacque che separa la Liguria dall’alta Valle Tanaro in Piemonte, racconta, attraverso alcuni pendagli e i bottoni conici in bronzo, il caratteristico abbigliamento delle popolazioni indigene, ancora in uso al tempo della conquista del territorio da parte dei Romani.
E poi armi, ceramiche, elementi di abbigliamento e ornamenti, tra cui un elegante pettorale in osso rinvenuto in una delle sepolture a incinerazione della necropoli preromana di Albisola, insieme ai materiali ritrovati nelle tombe a cremazione con pozzetto e cassetta in pietra scoperte ad Albenga, rivelano le vicende dei Liguri del VII-VI secolo a.C. e i contatti già consolidati sia con il Mediterraneo e le rotte etrusche, sia con l’Europa interna e il mondo della cultura di Hallstatt (fiorita intorno all’XI secolo a.C.).
DOVE E QUANDO «Storie dalla Terra e dal Mare. Archeologia in Liguria, 2000-2015» Genova, Museo di Palazzo Reale-Teatro Falcone fino al 28 marzo 2016 Orario ma-sa, 10,30-17,30; do, 14,00-19,00; lu chiuso. Info tel. 010 27181; e-mail: sar-lig.comunicazione@ beniculturali.it; www.archeoliguria.beniculturali.it Catalogo Sagep Editori a r c h e o 67
MOSTRE • CAGLIARI
EURASIA ALLE SOGLIE DELLA STORIA
Statuetta in oro raffigurante un toro, dal tumulo di Majkop. Metà del IV mill. a.C. San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage. 68 a r c h e o
COME POSSIAMO SPIEGARE LA SORPRENDENTE SOMIGLIANZA TRA I TORI IN ORO E ARGENTO, RINVENUTI IN UN TUMULO DELLE STEPPE DELLA RUSSIA MERIDIONALE E GLI ANIMALI IN BRONZO DI PRODUZIONE NURAGICA? UNA MOSTRA A CAGLIARI SUGGERISCE ALCUNI AFFASCINANTI SPUNTI DI RIFLESSIONE... testi di Yuri Piotrovsky e Carlo Bertelli
Particolare di una statuetta in argento raffigurante un toro, dal tumulo di Majkop. Metà del IV mill. a.C. San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage.
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iú di trecento straordinari reperti provenienti dal Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo – oggetti d’uso comune e straordinari corredi funerari, importanti manufatti in oro e pietre preziose, bronzo e rame, databili dal V al I millennio a.C. – sono in questi giorni esposti a Cagliari, nella sede di Palazzo di Città, messi a confronto con altre cento opere selezionate nei musei della Sardegna. Un ideale «dialogo», volto a evidenziare – secondo il dichiarato intento degli organizzatori – i collegamenti e le vie di penetrazione di civiltà diverse che, in quell’immenso territorio che chiamiamo Eurasia, racchiuso tra il Mediterraneo e le infinite steppe dell’Asia centrale e orientale, furono le protagoniste di fondamentali trasformazioni culturali. In queste pagine presentiamo il contributo di uno dei promotori della mostra, l’archeologo Yuri Pio-
trovsky, dedicato alla scoperta e all’esplorazione di uno dei piú importanti siti dell’archeologia eurasiatica relativi all’età del Bronzo: il grande kurgan di Majkop, nella valle del fiume Kuban in Russia meridionale, da cui provengono gli affascinanti animali in oro e argento esposti in mostra e riprodotti in queste pagine. Il kurgan di Majkop, datato alla metà del IV millennio a.C., rappresenta l’età del Bronzo Antico del Caucaso; circa 30 km a nord di Majkop, invece, lungo le rive del Kelermes – un affluente del Kuban –, altri tumuli narrano un’epopea piú recente, quella di una civiltà protagonista delle steppe eurasiatiche, gli Sciti. Siamo, ormai, nel I millennio a.C., e l’arte «animalistica», nutritasi dall’apporto dei contatti con le grandi civiltà del Vicino Oriente, ha raggiunto il suo apogeo. Ma di questo ci parla Massimo Vidale nello speciale alle pp. 76-95. a r c h e o 69
MOSTRE • CAGLIARI
IL FENOMENO MAJKOP di Yuri Piotrovsky
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ell’Anatolia sud-orientale, presso l’insediamento di Çayönü (60 km a nordovest di Diyarbakir), sono state trovate centinaia di piccoli oggetti in rame e migliaia di pezzettini di minerale di rame, la malachite. Questi reperti metallici risalgono all’VIII millennio a.C., ma la loro precoce comparsa non è l’esito dell’avvento di una vera e propria metallurgia, in una regione, l’Anatolia, che pure era ricca di risorse minerarie. L’inizio dell’età dei metalli si può infatti collocare nel territorio balcanocarpatico, nel V millennio a.C., anche se ebbe un carattere effimero e i suoi centri di produzione decaddero repentinamente. Alla metà del IV millennio a.C. i territori che circondano il Mar Nero ridisegnarono lo scenario della metallurgia eurasiatica. Essi divennero il fulcro dello sviluppo produttivo e culturale nell’età del Bronzo Antico e Medio nella vasta area dei Balcani, delle steppe dell’Europa orientale, del Caucaso, dell’Anatolia,
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del Mediterraneo orientale, della Mesopotamia, dell’Iran. I piú antichi manufatti in metallo della regione transcaucasica risalgono a non prima del VI millennio a.C. e agli insediamenti tardo-neolitici ed eneolitici. Ma solo nell’età del Bronzo Antico il Caucaso nel suo complesso divenne uno dei maggiori centri di metallurgia e di lavorazione del metallo, non soltanto nell’ambito circumpontico, ma in tutta l’Eurasia.
mo affermare, con Viktor Trifonov, che «la principale area di diffusione dei monumenti della cultura di Majkop lungo tutto il periodo del suo sviluppo rimase relativamente limitata, una striscia di circa cento chilometri lungo le colline pedemontane della Ciscaucasia che si estendeva per 800 km lungo la direttrice Anapa-Machackala». Questa cultura rappresenta uno dei fenomeni piú eclatanti della provincia metallurgica circumpontica, e la cui fioritura veniva un tempo situata TUMULI MONUMENTALI Tra i monumenti dell’età del Bron- tra il 3300 e il 1900 a.C. zo Antico della Ciscaucasia (la Cau- Successive datazioni al casia settentrionale, n.d.r.), si distinguono le sepolture a tumulo (kurgan) situate nelle pianure e nelle colline pedemontane delimitate da valli fluviali. Questo gruppo di monumenti, che comprende anche numerosi insediamenti, ha preso il nome di cultura di Majkop. Essa abbraccia un vasto arco temporale, che va dall’inizio del IV all’inizio del III millennio a.C. Oggi possia-
radiocarbonio hanno ampliato i limiti cronologici dei complessi riferibili alla cultura di Majkop: dal 4050 al 3050 a.C. Il kurgan di Majkop è un monumento funerario straordinario, uno dei piú importanti dell’archeologia eurasiatica dell’età del Bronzo Antico. Si trova presso la località di Majkop (un tempo regione di Kuban, adesso Repubblica di Adigezia), nella zona nord-orientale della città. Sembra che le grandi dimensioni di questo kurgan, 11 m circa di altezza, cosí come quelle di altri, abbiano dato origine a una delle
leggende circasse sui cinque fratelli. L’ultimo fratello rimasto in vita, Proprio allora ricevette un nome Cemdež, raggiunse Kožoub e lo proprio: Ošad. colpí a morte. Lui stesso però riportò una ferita mortale. Gli eroi furoCINQUE EROICI FRATELLI no sepolti là dove erano caduti e per La leggenda narra di cinque fratelli, loro furono eretti i kurgan. audaci džigit (termine turco per Il 1° luglio 1897 la Terskie vedomosti «abile e coraggioso cavaliere», n.d.t.) (Gazzetta di Tersk) annunciava: «A – Ošad, Arym, Cencaucho, Koljasiž, Majkop è stato da poco portato a Cemdež – e della loro bella sorella, termine lo scavo di un antico kurSusao. Questa fu rapita, con il pro- gan, condotto per disposizione della prio consenso, dal bogatyr’ (eroe) Commissione archeologica. Lo scaKožoub. I fratelli si misero a dar vo si è protratto per circa un mese. loro la caccia, ma man mano che Nel kurgan è stato trovato un grande raggiungevano i fuggitivi, Kožoub li tesoro. Per esaminarlo è giunto da uccideva in duello, uno dopo l’altro. Pietroburgo il professor Veselovskij.
Nella pagina accanto, in alto: filo (?) di perline in oro, dal tumulo di Majkop. Metà del IV mill. a.C. San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage.
Placchette in oro con «leone che cammina sulla destra», dal tumulo di Majkop. Metà del IV mill. a.C. San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage.
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MOSTRE • CAGLIARI
DAL CAUCASO ALLA SARDEGNA Dediti alla pastorizia e all’allevamento, gli abitanti della Sardegna dovevano difendere le loro greggi e i loro beni da lotte interne e da attacchi dal mare. E inventarono i nuraghi. Realizzando armi per ferire e uccidere altri uomini e animali, o raschiatoi da usare per le pelli degli animali
Bronzetto raffigurante un uomo che cavalca un bove, da Nulvi, nuraghe S’Orcu. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.
uccisi, assai presto dovettero sviluppare pensieri sulla vita e sulla morte, sul destino individuale come su quello di un intero popolo. Molto prima del Neolitico, epoca in cui questi pensieri dovettero giungere a un grado notevole di sviluppo. Nell’età del Bronzo, nello stesso metallo delle armi si potevano fondere figurine, a volte di tori, altre di uomini armati con due scudi, elmi dalle lunghe antenne, infine modelli di navi, panieri e sgabelli. Lo scopo dei bronzetti nuragici (se ne conoscono circa 700) sfugge, ma poiché ne sono stati trovati in pozzi rituali, questa circostanza costituisce
un forte indizio per attribuire loro un legame con il culto. La cosa stupefacente, però, è che i bronzetti sardi non proiettano la divinità in un ambito remoto, ma ci danno una vera e vivace fotografia della società dell’epoca, riconoscibile per spiccati caratteri individuali. Giovanni Lilliu (1914-2012), grande esperto dell’archeologia nuragica, dette spiritosi nomignoli ai personaggi dei bronzetti, riconoscendovi il ritratto di persone concrete, benché per le raffigurazioni di tori e di donne sedute con bambini in braccio siano stati supposti i culti del Dio Toro e della Grande Madre. Le statuine
terra. La stessa tomba era divisa in tre settori da pareti: trasversalmente, a nord e a sud, e lungo l’asse della tomba, che divideva la metà settentrionale in due parti, occidentale e orientale. Ciascun settore del sepolcro conteneva resti di defunti «in posizione rannicchiata, con la testa a sud-est e le mani accanto alla testa».
Il corredo funebre si trovava lungo le pareti della tomba e sulle salme. Lungo la parete orientale della camera furono trovati gli oggetti in metallo. In un angolo, su una lettiga (di cui è impressa la traccia sugli oggetti in metallo), erano disposti dieci manufatti in rame arsenicale e nichel: una scure, scalpelli, asce, un’ascia (zappa), un’ascia-martello, un
I lavori di scavo per recuperare il tesoro sono andati avanti per ben tre giorni, durante i quali sono arrivati centinaia di curiosi».
PAVIMENTO DI CIOTTOLI La tomba principale era scavata nella terra e aveva la forma di un quadrilatero oblungo, con angoli arrotondati e pareti concave (la lunghezza era pari a 5,33 m, la larghezza a 3,7 m). Il fondo della tomba era ricoperto da uno strato di ciottoli e, in alcuni punti, da due strati. Agli angoli erano rimaste le buche dei pali verticali, mentre le pareti della camera erano rivestite di legno.Tutta la struttura era coperta da un doppio «impalcato» di legno, al cui interno era disposto uno strato di 72 a r c h e o
Un’altra immagine della statuetta in oro raffigurante un toro, dal tumulo di Majkop. Metà del IV mill. a.C. San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage.
sono quasi sempre vivacemente gesticolanti e, oltre alle madri, presentano personaggi che indossano mantelli e sembrano stendere un braccio come oratori, oppure guerrieri con uno o anche due scudi. Statuine plasmate in terracotta precedettero con ogni probabilità le fusioni in bronzo, ma i bronzisti erano abili e amavano il mestiere, come si deduce dal lavoro di cesello. La ricerca volge ora ad accertare la relazione tra i bronzetti e le cosiddette tombe dei giganti (tumbas de sos gigantes), grandi tumuli preceduti da un’esedra con un piccolo ingresso che poteva
Bronzetto raffigurante un personaggio identificato con un capotribú, da Uta, Monte Arcosu. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.
essere chiuso con un masso. Se ne contano ben 800. È però specialmente in alcuni raffronti che si punta oggi l’attenzione. I bronzetti nuragici di tori sono somigliantissimi al celebre toro d’oro di Majkop, trovato in un kurgan del Caucaso; e ci si chiede se questa prossimità sia solo apparente o se sottintenda un percorso di scambi dalla Mesopotamia al Caucaso e di lí al Mediterraneo. Carlo Bertelli
coltello, un «rasoio» – in parte piegato –, uno scalpellino e tre oggetti di pietra. Nel settore meridionale fu rinvenuto il vasellame «da cerimonia» in metallo: una ventina di vasi di diverse forme in argento e in oro; qui furono trovate anche parti di una mazza, la testa cava di pietra e rivestimenti in oro del manico.
UNA GRANDE VARIETÀ DI FORME E MATERIE PRIME Nel settore settentrionale furono trovati paioli, un secchio e delle coppe in rame arsenicale. Lungo la parete occidentale della camera erano stati disposti vari vasi di argilla. Nel settore meridionale, di fronte al vasellame da cerimonia realizzato con metalli preziosi, furono trovati otto vasi di argilla. Mentre nel settore settentrionale, davanti al vasellame in metallo meno pregiato, era stato deposto un grande contenitore per derrate (pithos). A sinistra: modello in argilla di casa o kibitka, dalla tomba 4 del tumulo 5 di Ulsky. Fine del IV mill. a.C. San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage. a r c h e o 73
MOSTRE â&#x20AC;˘ CAGLIARI
Il tumulo di Majkop ha restituito un corredo straordinariamente ricco: basti pensare che il peso complessivo dei manufatti in oro massiccio è pari a 3 chilogrammi, e 2 sono quelli in argento
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Nella pagina accanto: anelli di perline in oro e corniola e un pendente in forma di leone forse appartenenti al Tesoro di Staromyshastovskiy. Metà del IV mill. a.C. San Pietroburgo,
Museo Statale dell’Ermitage. In alto: vaso in argento con un motivo a «rosetta», dal tumulo di Majkop. Metà del IV mill. a.C. San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage.
Tra i vasi in argento si distinguono due coppe realizzate a cesello. Il corpo di una di esse presenta un «girotondo» di animali, nei quali, secondo il paleontologo Nikolai K. Verešcagin, andrebbero riconosciuti un uro, capre del Caucaso occidentale e, soprattutto, ghepardi con collari (?) e uccelli. Alla base del collo si vede un anello con ornamenti geometrici (che forse alludono all’acqua), mentre sul fondo vi è una complessa rosetta a dodici petali. Nel settore meridionale della tomba si trovava la sepoltura principale,
colorata di rosso con cinabro e letteralmente ricoperta di oggetti d’oro. Tra questi, placche cucite con immagini di animali: un leone rampante a destra (37 pezzi) un leone rampante a sinistra (33 pezzi), un toro rampante a sinistra (23 pezzi); anelli bombati (40 pezzi).
UN ABITO SONTUOSO? Tutte le placche presentano alle estremità fori praticati dall’interno. Molto probabilmente erano cucite su un tessuto o un abito. Migliaia di vaghi di diversi tipi e di varie di-
mensioni – in oro, argento, corniola, turchese – facevano parte, molto probabilmente, di un pettorale. Sul lato orientale, accanto ai resti dell’inumato, giacevano alcune asticelle cave a piú elementi formate da lamine d’argento arrotolate (la lunghezza complessiva dell’oggetto conservato è di 112 cm). La parte inferiore di quattro asticelle era decorata in oro e vi erano infilate statuette di tori (due in oro e due in argento), realizzate con stampi di cera. Una scultura a tutto tondo di un toro, ottenuta per fusione, rappresenta le fattezze dell’animale in modo naturalistico. Sul dorso ha un foro rotondo disposto verticalmente. Sulla testa, inclinate in avanti, corna molto divaricate. Sulla fronte, fra le corna, una decorazione geometrica realizzata con linee profonde. Linee profonde si trovano anche sulla coda e sono disposte a spirale per simulare il pelo. Nikolai I.Veselovskij riteneva che si trattasse di stendardi. Boris V. Farmakovskij ha suggerito che le asticelle a piú elementi e le placche cucite facessero parte di un baldacchino. Sotto al cranio dell’inumato sono stati trovati due nastri dorati, decorazioni del copricapo. Il peso totale degli oggetti in oro è di circa 2 kg, mentre di quelli in argento è di circa 3! Oggi il complesso dei kurgan di Majkop viene datato intorno alla metà del IV millennio a.C. DOVE E QUANDO «Eurasia. Fino alle soglie della storia. Capolavori dal Museo Ermitage e dai Musei della Sardegna» Cagliari, Palazzo di Città fino al 10 aprile 2016 Orario tutti i giorni, 10,00 18,00; chiuso il lunedí Info tel. 070 6776482; www.museicivicicagliari.it, www.cagliari2015.eu Catalogo Silvana Editoriale a r c h e o 75
SPECIALE • EURASIA
L’ETÀ DEGLI
SCITI
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AL VOLGERE DEL I MILLENNIO A.C., DAL CROGIOLO ASIATICO, EMERGONO GLI SCITI, POPOLO CAPACE DI RECITARE UN RUOLO DI PRIMO PIANO SULLO SCENARIO EUROASIATICO PER ALCUNI SECOLI. MA CHI ERANO VERAMENTE? E QUALE VISIONE DEL MONDO POSSIAMO LEGGERE NELLE STRAORDINARIE OREFICERIE CHE CI HANNO LASCIATO, RINVENUTE IN MONUMENTI FUNERARI DI ECCEZIONALE IMPONENZA? di Massimo Vidale
L
a nostra storia, cioè quella dell’Eurasia, è stata scritta, nei millenni, da «periferie» che si fecero (o vollero farsi) «centro», ma che, fatalmente, finirono con il soccombere alle pulsazioni del vero cuore di questo enorme, unico e instabile continente. Gli imperi dei Persiani, dei Macedoni, delle dinastie indiane, di Roma e Bisanzio, dei Cinesi e degli Arabi si sono succeduti ai margini di una immensa fascia di steppe e deserti abitati da allevatori nomadi, idealmente estesa, senza interruzioni dalle isole della Croazia a quelle del Giappone. Dominato da popolazioni di lingua proto-indoeuropea, poi da genti iraniche e turche, infine dall’Orda d’Oro dei Mongoli, lo sconfinato mondo delle steppe si è ciclicamente affacciato alle porte degli «Stati sedentari» dell’Oriente e dell’Occidente, ogni volta mutandone i destini. Un dato abbastanza certo è che, intorno alla soglia del 2000 a.C. e nei due secoli successivi, esplose in Eurasia una grande crisi sociale, forse acuita dal peggioramento delle condizioni climatiche, che si fecero meno favorevoli all’agricoltura sedentaria. In Mesopotamia, varie dinastie A destra: la testa della cosiddetta «Pantera di Kelermes» (vedi a p. 79). Nella pagina accanto: un leopardo asiatico, nome solitamente utilizzato per designare la pantera (Panthera pardus). a r c h e o 77
SPECIALE • EURASIA
nomadiche, unite in potenti federazioni tribali, si impadronirono di vaste porzioni del Paese, sino a sfiorare la costruzione di nuove compagini imperiali. In Asia Centrale, nell’altopiano iranico e nelle regioni nord-occidentali del mondo indiano, le metropoli dell’età del Bronzo si spopolarono e la vita civile rifluí in un vasto e dinamico mosaico di oasi fortificate, nelle quali l’accumulo delle armi e la conoscenza perfetta dei complicati rituali per ingraziarsi una divinità erano strumenti di controllo politico ben piú efficaci della scrittura e della burocrazia. L’allevamento del cavallo e del cammello permise ai nomadi, per la prima volta nella storia, di attraversare vasti tratti desertici, controllando mandrie di bovini, caprovini, cavalli e cammelli. Nasceva il nomadismo multi-animale su grande scala; e con esso – anche grazie alle precedenti «invenzioni» del carro su ruota solida in legno (4000 a.C. circa) e delle tecnologie della lana (3500 a.C. circa) –, la possibilità, per i capi, di ammassare e gestire politicamente grandi ricchezze. All’accumulazione si accompagnarono l’escalation delle capacità militari e l’enfasi attribuita al
Placca in oro in forma di cervo accovacciato, dal tumulo di Kul’Oba. V sec. a.C. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage. Elemento decorativo di uno scudo in ferro, il manufatto è un esempio tipico dell’arte scitica, caratterizzata da una combinazione di elementi realistici e astratti, nonché da un senso di compattezza e, al contempo, di dinamismo.
Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis
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ruolo dei guerrieri-corridori a cavallo. In un immenso triangolo senza oceani, ma con vasti mari interni, che aveva come vertici le distese interne della Mongolia e la Siberia meridionale a est, e le steppe del Kazakistan a ovest, crebbe un mosaico di società fortemente gerarchizzate secondo il rango, in perpetuo confronto.
REPERTI PIÚ PREZIOSI DELL’ORO I nuclei principali di insediamento, a giudicare dalle necropoli monumentali, furono a ovest il basso Dniepr e la regione tra il Mar Nero e il Mar d’Azov, la Crimea e la valle del Kuban nel Caucaso; a est, la regione dei monti Altai, in Siberia meridionale. Qui, grazie alle particolari condizioni climatiche, è stato possibile recuperare un eccezionale patrimonio di materiali organici perfettamente preservati – cuoio, legno, tessuti, corpi animali e umani –, un tesoro archeologico che per gli scienziati è ben piú prezioso dell’oro, dell’argento e dei gioielli che vi si accompagnano. Come ha sottolineato l’iranista Bruno Genito, queste società elaborarono un patrimonio parzialmente comune di idee e simboli, dominato dal culto degli
antenati e dei capi defunti, dalla venerazione di animali mitici spesso legati a culti solari e al fuoco. In questo nuovo universo simbolico, trovavano ampio spazio le armi in bronzo, soprattutto il coltello usato nei sacrifici, una delle fonti principali del prestigio; e poi le aquile, i cavalli, i felini e i cervidi, ma anche lupi, cinghiali e pesci; nonché gruppi di animali combattenti. Era un sistema di segni e allusioni mitiche che doveva rispecchiarsi in un patrimonio perduto di leggende, canti e cerimonie, dominato da idee di forza, aggressione, fertilità; quest’ultima legata (sono parole del già citato Genito) «a sua volta, alla speranza dell’aumento del numero degli animali da pascolo». In questo spazio storico si affermarono gli Sciti del confine europeo: i piú noti, in quanto bizzarri «vicini di casa» dei Greci del Mar Nero, erano quelli d’Europa; vi erano poi i Sauromati del bas-
La Pantera di Kelermes, da uno dei kurgan dell’omonima regione. VII-VI sec. a.C. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage. Il felino è realizzato in oro, a stampo, mentre gli occhi, l’orecchio e il naso sono stati ottenuti con la tecnica cloisonné, utilizzando smalti, vetro colorato e pietre preziose.
so Volga e delle sponde del Caspio, i Massageti delle attuali pianure del Turkmenistan meridionale, i Saka delle regioni del Kazakistan occidentale, i nomadi della cultura di Pazyryk nella regionedegli Altai, quelli della cultura di Tagar nella Siberia Meridionale, e quelli delle culture di Aldy-bel’ nell’alto bacino dello Yenisei.
VINO E LATTE DI GIUMENTA Gli Sciti dell’etnografia erodotea sono passati alla storia come barbari splendidi, ammaliati dall’oro e capaci di battersi come leoni. Bevevano il latte fermentato di giumenta, si ubriacavano di vino sorbito nel cranio dei nemici abbattuti, nelle tende si inebriavano di vapori di canapa, e celebravano i propri capi morti con riti complessi, che comprendevano sacrifici di massa di uomini e cavalli. (segue a p. 83)
«Pantera. Pantera splendente dagli occhi di brace. Pantera dall’orecchio finissimo: zampe di pantera veloce come il vento, pantere-unghie, pantere ritorte in una molla, pronte a balzare; coda pantera, pantera, pantera...»
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La carta mostra l’area interessata dalla presenza degli Sciti nel piú ampio contesto delle civiltà dei nomadi delle steppe euroasiatiche e, nel particolare ingrandito nel riquadro, la zona nella quale è attestata la maggiore presenza di siti riferibili alla loro cultura, concentrati soprattutto nelle regioni bagnate dal Mar Nero.
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SPACCATI, PIATTI E SIMMETRICI La «rappresentazione spaccata» che si osserva su molti manufatti scitici non è una loro prerogativa esclusiva. Claude Lévi-Strauss (1908-2009), in un saggio incluso nel suo «classico» testo Antropologia strutturale, stabilí un confronto tra le decorazioni corporee e vascolari degli indios Caduveo dell’Amazzonia e i modelli dell’arte cinese dell’antica età del Bronzo (dinastia Shang, 16001100 a.C. circa), in particolare con i taotie, maschere frontali del dragone celeste. Entrambe le espressioni figurative si basavano sul principio della «rappresentazione spaccata», in cui l’animale o il personaggio sono aperti in due profili simmetrici. Il medesimo espediente è stato sfruttato da culture del tutto indipendenti, come quelle degli Haida e Tlinglit
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della costa nordamericana nord-occidentale (per i pali totemici degli antenati dei clan), dai Maori della Nuova Zelanda e da altre culture del Pacifico, come in Mesoamerica dai Maya del periodo classico (600-900 d.C. circa). Lévi-Strauss, escludendo le ipotesi dei diffusionisti (che attribuivano le convergenze a remoti contatti transoceanici), le attribuí all’effetto indiretto dei tatuaggi e dell’uso delle maschere (da applicarsi sul corpo). Sia tatuaggi, sia maschere, spostati dall’originale supporto tridimensionale del corpo umano su un piano astratto, genererebbero immagini specularmente raddoppiate, anti-naturalistiche. Poiché maschere e tatuaggi sono comuni nelle società di rango dominate dai clan, dove gli sciamani assumono le spoglie dell’animale sacro del gruppo, l’antropologo francese stabiliva cosí una precisa e regolare corrispondenza tra strutture sociali ricorrenti, adottate in tempi e luoghi diversi, lo sviluppo di specifici codici grafici e di analoghe modalità percettive.
Sebbene i resoconti di Erodoto (490-425 a.C. circa) possano sembrare inverosimili – è probabile che il «padre della storia» abbia ceduto alla tentazione di stupire i suoi ascoltatori con racconti mirabolanti –, la critica moderna, confortata da piú di una conferma archeologica, accetta l’idea che egli abbia realmente viaggiato nell’entroterra della Scizia. Le sue note sono una combinazione accurata e bilanciata di osservazioni personali, resoconti di testimoni oculari di entrambe le nazioni, nozioni desunte dall’opera di geografi precedenti, piú o meno degni di fede, i libri dei quali sono stati perduti. Nell’ultimo quindicennio, le datazioni al radiocarbonio e nuovi studi dendrocronologici (basati sulle modalità di crescita e sulla corre-
Nella pagina accanto: frammento del rivestimento di una sella con una renna al galoppo, dal tumulo n. 2 di Pazyryk. V sec. a.C. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage. In basso: finimento equino in legno che propone una rappresentazione «spaccata» dell’animale. VI sec. a.C. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.
lazione degli anelli degli alberi in relazione alle variazioni annuali del clima) hanno permesso la verifica delle date basate sullo stile degli oggetti importati da altre aree culturali, e l’elaborazione, per la prima volta, di una solida cronologia unificata delle società nomadiche del I millennio a.C., dalla Cina settentrionale alla grande ansa del Danubio.
LA PAROLA ALLE IMMAGINI In archeologia, come nella storia dell’arte, si dovrebbe a volte avere il coraggio di lasciar parlare le immagini. Provate, per esempio, a osservare la celebre «Pantera di Kelermes» (conservata all’Ermitage di San Pietroburgo), e immaginate di sentir sussurrare, in una sorta di sibilo ritmato, accompagnato da colpi di tamburo, sullo sfondo del soffio di un vento gelido, in un cielo grigio e in una pianura sconfinata: «Pantera. Pantera splendente dagli occhi di brace. Pantera dall’orecchio finissimo: zampe di pantera veloce come il vento, pantere-unghie, pantere ritorte in una molla, pronte a balzare; coda pantera, pantera, pantera...».
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LE TAPPE DELLA SCOPERTA 1714 Pietro il Grande fonda a San Pietroburgo la Kunstkamera, il primo museo reale russo. 1715-1716 Funzionari imperiali donano allo zar raccolte di oggetti d’oro provenienti da kurgan siberiani. Ancora agli inizi del Novecento la raccolta veniva chiamata dagli studiosi «misteriosa e meravigliosa raccolta di antichità siberiane». 1700-1750 L’Accademia delle Scienze organizza ripetute spedizioni in Siberia e in Kazakistan alla ricerca di tesori sepolti. 1763 Il generale A. P. Melgunov scava un kurgan scitico del VI-VII secolo a.C. presso Elizavetgrad (ora Kirovograd) in Ucraina.
In alto: il kurgan di Aleksandropol in una tavola ottocentesca. A destra: sezione ricostruttiva di un kurgan.
In basso: pettine in oro decorato con una scena di battaglia, dal kurgan di Solokha (Ucraina). Arte greco-scitica, 530-490 a.C. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.
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1794 Prima corretta identificazione del sito greco di Olbia Pontica. 1830 Scoperta casuale e scavo del kurgan di Kul Oba, presso Kersh, con la ricchissima sepoltura di un capo scita del IV secolo a.C., della moglie e di un servo. Il tesoro raggiunge l’Ermitage nel 1831. 1853-1856 Scavo del kurgan di Alexandropol (IV-III secolo a.C.), con ricche sepolture di cavalli seppelliti con i riti descritti da Erodoto. Inizia la grande stagione degli scavi dei kurgan russi. Scoperta nei tumuli di oggetti egiziani, achemenidi e di foggia assira. 1901 Inizio degli scavi scientifici a Olbia. 1903 Scavi irregolari dei tumuli di Kelermes, con altri di notevole ricchezza. 1908-1909 Fine degli scavi a Ulski Aul, presso Kelermes (VI secolo a.C.): un enorme tumulo con elaborata struttura lignea e 360 cavalli sacrificati. 1913 Nel kurgan di Solokha viene in luce il famoso pettine aureo di foggia greca con scena di
duello tra due guerrieri sciti (400-350 a.C. circa). 1960-1970 In Ucraina, lavori per la costruzione di canali di irrigazione intorno al Mar Nero portano allo scavo di centinaia di tumuli del VI-V secolo a.C., ricchi di preziosi manufatti. Cresce la consapevolezza delle connessioni stilistiche tra Scizia europea, Caucaso, Armenia e Azeirbaigian. 1971 Nella stessa regione, il tumulo di Tolstaja Mogila restituisce il celebre torque in oro con scene di vita dell’aristocrazia scita. 1990-2014 Solo nelle due ultime decadi l’enfasi degli scavi in Ucraina e in Russia si sposta gradualmente dai complessi sepolcrali agli insediamenti e alle fortezze scitiche. Nel frattempo, le tombe gelate che si trovano tra i monti Altai, la Cina, il Kazakistan, la Mongolia e la Russia, con il loro carico di corpi mummificati, uomini e cavalli sacrificati, tessuti, selle e gioielli in legno dorato e oro, stanno per scongelarsi insieme al permafrost che le circonda, per effetto del riscaldamento globale.
Tazza a due manici in ceramica dipinta, da Olbia Pontica. VI sec. a.C. Kiev, Museo Nazionale di Storia dell’Ucraina.
In alto: la mummia del cosiddetto «Principe degli Sciti», da Pazyryk (Altai). V sec. a.C. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage. Si notino la presenza dei tatuaggi e l’eccezionale stato di conservazione del reperto.
Ebbene, questo, forse, è il senso ultimo di una simile immagine. Per gli archeologi, si tratta della figura di un grande felino dalla bocca fremente e ringhiante, lunga poco piú di 16 cm, realizzata colando l’oro in uno stampo. Per occhi, orecchio e naso fu invece adottata la tecnica cloisonné (vedi box alle pp. 90-91). Era l’emblema centrale dello scudo di un capo scita vissuto tra il VII e il VI secolo a.C. e sepolto sulle sponde del fiume Kuban, a nord della penisola di Crimea, in un complesso di kurgan (grandi tumuli sepolcrali) appartenuti a quelli che Erodoto chiamava gli «Sciti Reali». Questo leader politico e militare certo apparteneva a un clan, un lignaggio che si vantava di discendere da un antenato mitico, impersonato o miticamente legato alla figura di un primordiale e invincibile leopardo.
COMPOSIZIONI IRREALI Nell’arte dei nomadi delle steppe si intravedono alcune regole fondamentali ricorrenti, che dettano una precisa grammatica visuale. C’è sempre un animale che comanda visualmente e che, a volte, come nella Pantera di Kelermes, contiene se stesso, anche piú volte, in una sorta di irrazionale allitterazione. Gli animali sembrano aperti in due metà simmetriche («rappresentazione spaccata», vedi box alle pp. 90-91), rimandando al mondo delle maschere e dei tatuaggi; possono ritorcersi e avvolgersi su se stessi, a generare un ciclo ricorsivo («posa contorsionista»); altre volte (segue a p. 88) a r c h e o 85
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IL QUADRO STORICO Al momento del loro avvento, gli Sciti avevano già maturato una propria arte, i cui caratteri, nel tempo, si fusero con quelli delle popolazioni con le quali entrarono in contatto
PERIODI PRE-SCITICO E SCITICO INIZIALE 900-700 a.C. circa Le culture della tarda età del Bronzo delle steppe meridionali della Russia sono identificate con il popolo di stirpe iranica dei Cimmeri, che hanno lasciato il loro antico nome in quello moderno di Crimea. Tumuli reali di Arzhan, a Tuva, con enorme struttura lignea a forma di tenda, carro e cavalli; armi, ed equipaggiamento equestre in stile animalistico. Simili complessi in Kazakistan. Cultura di Tagar in Siberia meridionale.
PERIODO SCITICO ANTICO E MEDIO 700-500 a.C. circa Kurgan degli Sciti Reali a nord del Mar Nero.Tumuli reali di Kelermes, nel Caucaso nord-occidentale. I rituali funebri corrispondono alle descrizioni che ci ha lasciato Erodoto, , che è stato uno dei piú preziosi testimoni degli usi e dei costumi degli Sciti. Cresce il volume dei traffici commerciali con l’Egeo: da Olbia (colonia greca sul Mar Nero) giungono vasi in oro e argento, sigilli, vino, olio e armi di produzione greca. I Greci, a loro volta, importano schiavi e grano. Terminazione in bronzo in forma di ariete. VI sec. a.C. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.
PERIODO SCITICO CLASSICO
In alto: spillone in oro e faïence, dal tumulo di Kurhan. Produzione cimmeria, IX-VIII sec. a.C. Kiev, Museo dei Tesori Storici dell’Ucraina.
500-300 a.C. circa Tumuli reali di Pazyrik in Siberia e dei Sette Fratelli sulla sponda sinistra del Kuban. Mercenari e artigiani sciti ad Atene. Ceramiche corinzie e ateniesi in Scizia. Le rotte puntano al Dnepr, al Don e al Volga, fino agli Urali e ai confini della Siberia. Diffusione nelle steppe di stele monumentali in pietra con «eroi» in armi. Intorno al 450 a.C. si collocano le inchieste di Erodoto sui costumi degli Sciti, svolte nel corso di viaggi attraverso il Mar Nero e permanenze a Olbia, confluite nel IV libro della sua opera. I suoi resoconti sono, almeno in parte, dovuti a osservazioni in loco e testimonianze dirette.
Le terminazioni di un collare in oro configurate in forma di cavalieri. Arte scitica, IV sec. a.C. Collezione privata. a r c h e o 87
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l’animale principale si espande a includere interi corpi di altre creature («congiunzione zoomorfa»), oppure parti semanticamente rilevanti di altri esseri («pars pro toto»). In tutti i casi, l’animale protagonista si espande a dominare simbolicamente gli altri.
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Possiamo presumere che si tratti dell’animale totemico di un clan, raffigurato come detentore del predominio sugli altri. Altre volte le figure risultano congelate in un «galoppo volante» in spazi mitici sconfinati. Ma chi erano i creatori di queste splendide oreficerie? Sciti e Greci, all’opera per le rispettive committenze; ma, almeno nella cintura dei porti delle cittàstato della costa settentrionale del Mar Nero, anche al servizio di signori della cultura opposta. Capita cosí di imbattersi in faretre rivestite di lamina d’oro, come quella, famosissima, trovata nella
Nella pagina accanto, nel riquadro: pettorale in oro dal tumulo di Tovsta Mogila. Metà del IV sec. a.C. Kiev, Museo dei Tesori Storici dell’Ucraina. Sulle due pagine: un particolare della decorazione del manufatto.
tomba di Filippo II di Macedonia a Vergina, che recita in figure classiche la leggenda della fuga di Achille in un harem femminile, per sfuggire all’inevitabile morte nel conflitto troiano (un tema scitico, certo non favorevole alla propaganda greca). (segue a p. 92)
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Elementi di un lessico scitico KURGAN
Grande tumulo monumentale in terra, pietra e/o legname, eretto sopra una costruzione funeraria in legno o pietra (a volte costruita sul modello di una tenda) che ospita il defunto principale. Altre sepolture e deposizioni di oggetti preziosi compaiono spesso anche all’esterno, in terra o entro altre camere funerarie adiacenti.
SCIAMANESIMO
AMAZZONI
Popolazione di donne guerriere che i Greci assimilavano agli Sciti e collocavano tra l’Asia Minore nord-orientale e il Caucaso.
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Grande contenitore in bronzo con piedi rialzati, utilizzato dai nomadi centro-asiatici per cuocere la carne, anche in occasione di grandi cerimonie collettive. Poteva rappresentare un importante simbolo di ricchezza personale e del clan.
NOMADISMO MULTI-ANIMALE
Frutto della domesticazione di cavalli e cammelli (dromedari e cammelli battriani) alla soglia del II millennio a.C., è la tecnologia gestionale di grandi mandrie miste di bovini, pecore e capre, cavalli e cammelli sulla quale si è basata per millenni la ricchezza dei nomadi centro-asiatici.
Molti studiosi ritengono che l’ispirazione ultima per l’arte animalistica dell’Asia Centrale venga da pratiche sciamaniche. Individui di particolari poteri spirituali possono congiungersi con l’animale sacro o fondatore del gruppo, che funge da mediatore con il mondo sovrannaturale dove risiedono gli antenati.
Placca di pettorale in oro. Già nella collezione siberiana di Pietro il Grande, VII-VI sec. a.C San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.
CALDERONE
TRIADE SCITICA
I tre aspetti fondamentali delle culture delle steppe: armi tecnologicamente avanzate, finimenti equini in bronzo e l’arte animalistica, che permeava anche simbolicamente i primi due aspetti.
Per descrivere l’arte delle steppe
In alto: fibbia bronzea in forma di cavallo che salta. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.
CLOISONNÉ
Termine francese che indica una tecnica nella quale alla superficie metallica da abbellire si saldano strisce metalliche verticali che formano comparti geometrici, per poi riempire gli spazi cosí ottenuti con smalti, vetro colorato o intarsi di pietre preziose.
PARS PRO TOTO
L’espressione («una parte per il tutto») indica il principio iconografico per cui la singola parte di un animale significa simbolicamente la presenza dell’intera creatura.
POSA CONTORSIONISTA
Modo di rappresentare un animale come se questo si avvolgesse su se stesso, sino a risultare quasi irriconoscibile.
GALOPPO VOLANTE
Rappresentazione stilizzata delle icone animali con le zampe ripiegate sotto l’addome, o, all’opposto, estese al massimo nella corsa; simile alle convenzioni figurative della grande arte parietale del Paleolitico Superiore.
CONGIUNZIONE ZOOMORFA
Principio figurativo dell’arte animalistica per cui il corpo di una creatura, mitica o meno, è composto dalle icone di altri animali, o di parti del corpo di altri animali, in modo apparentemente irrazionale.
RAPPRESENTAZIONE SPACCATA
Principio figurativo secondo cui un animale o una figura umana vengono raffigurati come due parti perfettamente simmetriche, come se l’essere vivente fosse stato tagliato in due metà rispetto all’asse centrale, poi disposte sui due lati, come se fossero avvolte su una superficie e tre dimensioni.
A destra: calderone in bronzo dal kurgan di Melitopol’. IV sec. a.C. Kiev, Museo Nazionale di Storia dell’Ucraina.
TORQUE
Collare in oro, nella produzione tarda, finemente lavorato a giorno con complesse scene figurative.
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L’ENIGMA DELLE AMAZZONI: LA RISPOSTA DAGLI SCAVI ARCHEOLOGICI Le storie sulle Amazzoni iniziarono a trovare eco negli scritti degli autori classici a partire dal V secolo a.C. Erano favolose, imbattibili donne guerriere, che vivevano segregate dai maschi nel Nord-Est dell’Asia Minore, lungo la costa meridionale del Mar Nero, certamente un lembo di terra scitica. Sotto il comando di indomite regine, le Amazzoni, avevano l’abitudine di uccidere i prigionieri maschi, dopo aver concepito i loro figli. I figli maschi venivano eliminati, mentre le femmine erano sottoposte a una severa educazione fisica di ispirazione spartana. Combattevano a cavallo – proprio come gli Sciti –, con archi, frecce e lance, asce da battaglia, scudi a semiluna, protette da ampi cinturoni
Oppure possiamo constatare come un altro celebre ornamento di scudo – il grande cervo di Kul’Oba (vedi a p. 78) –, venga denigrato dai critici d’arte perché su un corpo organicamente scitico, fortemente stilizzato nei consueti tratti innaturali, sono sbalzati un grifone, una lepre, un leone e un cane dai tratti ellenizzanti. È difficile pensare che opere simili fossero create sotto le tende dei custodi delle grandi mandrie. La produzione di ornamenti aurei è un’attività cittadina, che richiedeva, oltre a mantici e fornaci, crogioli e forme di fusione, una vasta gamma di strumenti metallici, bilance e micropesi, nonché pietre di paragone; e poi il concorso di testatori di leghe, fonditori, cesellatori e mercanti di pietre dure.
ECHI DI UNA TRADIZIONE ANTICA Forse, proprio come avviene nell’attuale gioielleria dei nomadi turcomanni – nella quale rivivono non pochi aspetti dell’antica produzione scitica –, gli ornamenti in metallo prezioso erano fabbricati nelle città che sorgevano all’esterno dell’area migratoria principale: sino a poco tempo fa, i Turcomanni ottenevano l’oro sagomato secondo i propri codici estetici nei mercati stranieri di Kiva, Gorgan, Gonbad-i Qabus, Merv e Mazar-i Sharif. La traduzione delle immagini auree degli Particolare della decorazione di un vaso a figure rosse raffigurante un’Amazzone che combatte contro un guerriero greco. Produzione lucana, attribuita al Pittore delle Coefore, 380-370 a.C. Parigi, Museo del Louvre. 92 a r c h e o
da battaglia, ed elmi di tipo greco. Nell’unica occasione – racconta Erodoto – in cui le Amazzoni erano state sconfitte dai Greci in battaglia e fatte prigioniere, si erano ribellate ai vincitori; ma l’unico effetto fu un naufragio in terra scitica. Dall’unione tra Amazzoni e Sciti nacquero i Sauromati, stanziati tra il Don e il Volga. Le donne dei Sauromati non potevano sposarsi prima di aver abbattuto almeno un uomo. Per questo gli Sciti, continua Erodoto, chiamavano le Amazzoni oiorpata, ovvero «assassine di maschi» (ma sembra che il termine significasse in realtà «eminenti guerrieri»). Tutte fantastiche leggende? Scavi condotti tra il Don e il Danubio a partire dai primi
anni Novanta hanno portato alla luce centinaia di tombe femminili, le cui occupanti, in larga misura di età compresa tra i 15 e i 30 anni, erano state sepolte – oltre che con le consuete parure femminili – con frecce, lance e asce da battaglia. Alcune portavano i segni di ferite ricevute in combattimento. Oinochoe (brocca da vino) a figure nere con immagini di Amazzoni, da Spina. Pittore Shuvalov, 420-415 a.C. Ferrara, Museo Archeologico Nazionale.
«La mia ipotesi – ha scritto Valeri Guliaev, l’archeologo che ha scavato queste sepolture – è che per alcuni gruppi di donne e ragazze scite esistesse una sorta di servizio militare, come guardie a cavallo ad armatura leggera, che operava quando i maschi erano impegnati nelle loro incursioni». Mentre l’etimologia popolare greca faceva derivare il nome delle donne guerriere dell’Asia da un termine che significa «priva di una mammella» (legato alla diceria che le Amazzoni si tagliassero un seno per meglio tirare con l’arco), altri studiosi propongono una derivazione dal termine circasso (antico iranico) a-mez-a-ne, letteramente «Madre della Foresta».
Sciti in ridondanti, roboanti, gradasse cantilene e narrazioni mitologiche che celebrano la forza del clan di un capo o re defunto agli occhi dei concorrenti forse non rende piena giustizia al fascino ipnotico di queste preziose figure animali; ma la dice lunga sull’organizzazione sociale dei regni dei nomadi centro-asiatici del I millennio a.C. Nella tradizione scitica, alla morte di un grande capo o condottiero, il suo clan, oppure l’intera tribú, seppelliva insieme al suo corpo le sue mogli o concubine, gli schiavi e gli scudieri, i suoi cavalli, e tutti i suoi oggetti piú preziosi, inclusi i carri da parata, le pentole e i coltelli (con i quali i suoi uomini avevano cucinato la carne in occasione dei grandi banchetti collettivi), le sue armi, i gioielli personali. Uno sfarzo che poteva caratterizzare anche i funerali delle signore di alto rango.
«SCATOLE» PER GLI ANTENATI Come ha scritto ancora Bruno Genito «l’uso del kurgan (...) come forma di seppellimento monumentale, individuale o collettivo, si spiega con la necessità di erigere, sia sul piano simbolico, sia su quello materiale, “scatole’’ di antenati, manifestazioni fisiche di territorialità e località: speciali contenitori, dominanti nello spazio geografico, effetto di operazioni di affiliazioni familiari che costituirono, con la costruzione di spazi genealogici, una delle principali strategie di aggregazione sociale». Mediante a r c h e o 93
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QUANDO IL SIGNIFICATO VIENE DALL’EST Nelle ceramiche attiche, Amazzoni e Sciti vestono gli stessi panni: arco e faretra, soffice cappello a punta, tunica, una sorta di calzamaglia attillata, con intricati disegni geometrici, e stivali morbidi. Dagli scritti di Eschine, sappiamo che, dopo la battaglia di Salamina (480 a.C.), Atene aveva impiegato 300 arcieri sciti come schiavi o guardie di pubblica sicurezza. Nella seconda metà del V secolo a.C., fra i caratteri comici della commedia ateniese comparvero Sciti dal parlare aspro e grottesco, che imitava beffardamente le lingue iraniche. Dal 530 a.C. in poi, aggraziate ed esotiche immagini di Sciti e Amazzoni divengono comuni sui vasi attici. Secondo nuove teorie di vari linguisti, lo studio e l’interpretazione dei loro nomi, prima considerati «parole senza senso» tracciate da pittori analfabeti, se letti alla luce delle antiche lingue del Caucaso di ceppo iranico, rivelano non poche sorprese. Tutti i vasi che qui descriviamo sono a figure rosse e risalgono agli ultimi decenni del VI secolo a.C. Su un’anfora firmata dal pittore Euthymides, trovata a Vulci (oggi all’Antikensammlungen di Monaco di Baviera), un arciere scita di nome Khukhospi compare accanto a due compagni indicati con i nomi greci di Euthybolos e Thorykion. Nell’antico abcaso, khukhospi potrebbe significare «grido di battaglia». Su una kylix del J. Paul Getty Museum di Malibu attribuita a Oltos (nome peraltro raro ad Atene e forse riferibile a un artista straniero), tra nomi incomprensibili di Amazzoni, figura quello – impronunciabile – di Pkpupes, che sembra riprodurre un termine circasso dal significato di «degno dell’armatura».
In un altro vaso da Vulci (conservato anch’esso a Monaco di Baviera), un’Amazzone suona la tromba e reca, insieme al nome di Antiopea, il termine Kheukhe, che in circasso potrebbe significare «uno degli eroi» (l’antica lingua non distingueva il genere maschile da quello femminile). Su un’anfora trovata in una tomba etrusca della stessa città (e conservata al British Museum di Londra), un guerriero greco, Hippaichmos,
Restituzione grafica e foto della decorazione di un’anfora attica a figure rosse con la vestizione di un oplita (al centro), da Vulci. Opera di Eutimide, 500 a.C. circa. Monaco di Baviera, Antikensammlungen. Ai lati del giovane stanno due arcieri in costumi scitici: quello di sinistra è indicato con il nome Khukhospi, forse derivante da un vocabolo abcaso traducibile con «grido di battaglia».
In alto: restituzione grafica della decorazione di una hydria (vaso per acqua) attica a figure rosse con Amazzoni che si preparano alla battaglia, da Vulci. Opera di Hypsis, 500 a.C. circa. Monaco di Baviera, Antikensammlungen. La guerriera al centro, che suona una tromba, è indicata con il nome di Antiopea e l’epiteto Kheukhe, che potrebbe significare «uno degli eroi», dall’antico circasso.
conduce un cavallo verso un’Amazzone (o un arciere scita, la differenza è spesso difficile da stabilire, proprio per la già citata affinità dell’abbilgiamento), accompagnata dal termine Serague, che in circasso sembra significare «armato con la daga». Quanto al nome Barkida, che accompagna un’Amazzone
il seppellimento nel kurgan, che spesso avveniva all’interno di architetture funerarie che sembrano veri e propri cosmogrammi, lo stesso sconfinato paesaggio della steppa si trasformava in un albero genealogico di portata universale.
IL TERRITORIO, UNA GEOGRAFIA NEGATIVA Ancora oggi, molte culture nomadiche, nel concepire lo spazio come un insieme di percorsi ciclici dedicati a poche risorse scelte, piuttosto che come un territorio da occupare con il suo intero spettro di potenzialità economiche, si spostano in un mosaico di spazi virtuali, costretti da proibizioni rituali e funerarie; la «stupidità» dei sedentari si misura proprio nell’ignoranza di
dipinta accanto alla figura di Eracle su un’anfora oggi custodita al Museo del Louvre di Parigi, esso risulta essere un antico termine iranico che significa «principessa» o «nobildonna». Il ricordo degli asiatici e del loro speciale ruolo fu duro a morire. Su un vaso apulo dipinto in Magna Grecia intorno al 400 a.C., accanto all’arciere asiatico si legge l’incomprensibile parola noraretteblo. È un’espressione del circasso che significa qualcosa come «lo ha rubato nel giardino»; espressione quanto mai sensata, se pronunciata da una burbera guardia cittadina.
In alto, a sinistra: particolare della decorazione di un piatto a figure nere con l’immagine di un arciere in costumi scitici che suona una tromba, da Vulci. Attribuito a Psiax, 520-500 a.C. circa. Londra, British Museum.
questa geografia negativa. Allo stesso tempo, tuttavia, i grandi funerali dei capi sciti garantivano, con logica opposta, la trasmissione del prestigio e quindi dell’autorità politica a un diverso segmento della socieità nomadica. Costretto dalle logiche dell’onore e del prestigio pubblico a dimostrare la propria ricchezza distruggendola – si pensi allo spreco di oro, di lavoro e di vite umane e animali –, il clan del defunto cresceva nella memoria collettiva, pur perdendo un’autorità pratica. Contestualmente, l’uccisione rituale di molti dei membri dell’entourage del defunto eliminava dalla scena politica un possibile focolaio di aspre tensioni e rivendicazioni. La competizione per il primato poteva, idealmente, riprendere da zero, ad armi pari. a r c h e o 95
IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda
UN PRECURSORE, SEMPRE FORMATOSI COME ARCHITETTO, GIACOMO BONI SI DEDICÒ PRESTO ALLA RICERCA ARCHEOLOGICA, DISTINGUENDOSI SOPRATTUTTO PER GLI SCAVI NEL FORO ROMANO. INDAGINI CONDOTTE CON UN APPROCCIO DI CUI POSSIAMO ANCORA OGGI APPREZZARE LA STRAORDINARIA MODERNITÀ
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er me bambino, Giacomo Boni (1859-1925) era un signore sepolto sul Palatino, in un giardino meraviglioso dove mio padre a volte ci portava a giocare. Poi è diventato qualcos’altro, uno dei padri dell’archeologia moderna, al quale l’istituto Veneto di Storia Lettere ed Arti ha recentemente dedicato un bel convegno. Ritroviamo l’humus in cui avvenne la sua riscoperta leggendo Archeologia e cultura materiale (1979) di Andrea Carandini, che ci ricorda alcuni degli aspetti
innovativi della figura di Boni, validi agli albori del Novecento e ancora nuovamente validi due generazioni dopo. Aspetti innovativi che non si limitavano alla teoria e alla pratica dello scavo, ma toccavano nervi centrali dell’archeologia, del suo rapporto con le altre discipline, del suo ruolo sociale. Per quanto riguarda lo scavo, è superfluo rendere giustizia all’originalità del metodo di Boni, che mutuò le prime esperienze stratigrafiche di ambito pre-protostorico maturate nel Nord
Italia e per certi versi anticipò l’opera di Mortimer Wheeler, anche se non influenzò direttamente la tradizione britannica, nonostante l’immediata traduzione inglese del suo celebre saggio sul metodo. Una stratigrafia da lui elaborata nello scavo delle fondazioni del Campanile di S. Marco a Venezia, nel 1885, rappresenta ancora solo la sequenza costruttiva di una struttura architettonica (eppure, quanto già di nuovo in quel disegno!). Ma l’analisi stratigrafica del sottosuolo da lui sviluppata nel Nella pagina accanto: Venezia, 1902. Giacomo Boni presso le macerie del campanile di S. Marco. Nel 1885, Boni aveva condotto uno scavo delle fondazioni della struttura, applicando, già allora, l’analisi stratigrafica del contesto. A sinistra: l’architetto e archeologo veneziano in una foto a colori inedita, scattata sul Palatino il 27 maggio 1922.
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dall’humus positivistico nel quale maturò la sua formazione. Alcuni aspetti sociali del modo di guardare di Boni al mondo illuminano la sua capacità di cercare la totalità delle manifestazioni della realtà, i nessi che tengono insieme la cura di uno strato con la solidarietà umana. La sua osservazione sui guasti della società industriale, che tolse al lavoro «il conforto della varietà e il ritmo delle cantilene, concesso perfino agli schiavi condannati ad metalla», fa il paio con il ricordo dei forzati di un bagno penale (siamo nel 1892), quando «lo stridore, il tintinnio, il fruscio di tante migliaia di anelli di catene, sommato assieme, sembrava un gemito dell’umanità».
LE «ALLUVIONI UMANE»
testo che la accompagna è tuttora strabiliante, per l’attenzione al variare delle strutture sepolte, alle loro quote, alla natura dei materiali che le compongono. Aveva allora 26 anni. Una volta giunto nel sacrario del Foro a Roma, Giacomo Boni portò una rivoluzione nel modo di scavare, a partire dalla pratica di una documentazione grafica di altissima qualità, misurata anche dal budget che le veniva destinato.
GLI OGGETTI FANNO LA STORIA Qui possiamo sintetizzare il Boni scavatore con la semplice frase con cui giudicava le indagini abitualmente condotte in Italia ai suoi tempi: «Si rovista il sottosuolo come luogo nemico». Per lui, invece, la terra era innanzitutto amica.
Il suo potenziale innovativo non si limitava però allo scavo: sono tante le osservazioni che ci rivelano la sua profonda intuizione del senso di quella che noi oggi chiamiamo cultura materiale. Per Boni, «la vera storia di un popolo era nella sua vita quotidiana, attestata da quei semplici oggetti i quali finiscono per formare un tutto fisico con la gente che li usa, e non vi fa caso». «L’importanza del materiale da costruzione – scriveva – non dipende dalla sua rarità o dal valore commerciale, ma dall’uso che di esso si è fatto o si può fare». Possiamo ricordare anche la sua curiosità per identificare le orme di animali sui mattoni romani; oppure la ricerca di confronti per le antiche urne a capanna, ricorrendo alla fonte orale dei capannari del suo tempo, con un approccio etnoarcheologico, che traeva linfa
Per Giacomo Boni l’archeologia era «la geologia del periodo umano», e i monumenti architettonici erano «l’artistico e storico sedimento di umane alluvioni». Il suo approccio diacronico ai contesti archeologici lo portava a praticare indagini che oggi chiameremmo di archeologia urbana, con uno spazio dedicato al Medioevo, inusitato prima e nuovamente inusitato dopo di lui. Per questo abbiamo avuto bisogno di lui nella fase del mito di fondazione dell’archeologia stratigrafica negli anni Settanta. Poi, negli anni Novanta, si è aperta la fase laica della sua messa in discussione, quando ci si è accorti che Boni «non sempre e non ovunque» adoperava il metodo stratigrafico: il che mi pare ovvio, ma magari non lo era rispetto al «santino» che qualcuno poteva aver creduto di avere fra le mani. Il che nulla toglie al suo ruolo di precursore, che non può essere ridimensionato da una circostanza semplicemente normale nella prassi archeologica del tempo, mentre l’anormalità era semmai proprio la componente
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rivoluzionaria del suo metodo, quando applicato. In questi anni sono state rivolte a Boni molte critiche severe, e cioè che all’accuratezza degli scavi non fosse seguita l’edizione scientifica dei risultati; che le problematiche storiche delle sue indagini fossero piuttosto povere; per non dire dell’adesione in tarda età al fascismo. Di quest’ultima possiamo dire che – quale che sia stata la parabola umana e intellettuale di Boni – gli ardori nazionalistici e la sua adesione senile al fascismo nulla danno e nulla tolgono all’insieme della sua figura. Se Giacomo Boni fu uomo del suo tempo, lo fu anche nelle sue contraddizioni, da personalità profondamente morale e fondamentalmente aliena dalla politica, seppur conscio dei risvolti sociali della cultura. Il fascismo usò quel vecchio dal prestigio immenso e lui si fece consapevolmente usare, ricostruendo, per esempio, l’antico fascio littorio.
IL LIBRO DI PIETRA Quanto all’esiguità delle sue pubblicazioni scientifiche rispetto alla quantità delle stratificazioni indagate, la risposta è banale: non v’è alcun dubbio che Boni abbia lasciato un mare di inedito. Potremmo rispondere con quanto lui stesso diceva a chi lo sollecitava a scrivere di piú: «Il mio libro di pietra? È tutto disegnato!». Ma al di là delle battute, da quali pulpiti arrivano le prediche? Come mai non si rimprovera ai topografi sterratori della Roma umbertina e poi fascista la mancanza di una sia pur sommaria relazione dei loro scavi distruttivi? Perché dobbiamo pretenderle con il ditino alzato solo dagli scavatori provetti? Quanto al terzo argomento, quello della «povertà della problematica storica», la risposta potrebbe essere lapidaria: dipende dal concetto di storia. Se per storico
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intendiamo il mestiere di Theodor Mommsen (1817-1903) o Julius Beloch (1854-1929), Giacomo Boni non fu né l’uno, né l’altro, ma conosco pochi archeologi del suo tempo che abbiano guardato con occhi giovani alle antiche murature veneziane; e pochi archeologi (ancora adesso) che sappiano guardare come lui alle iscrizioni cosí come si guarda a un monumento iscritto. Fin da giovanissimo, infatti, Boni ebbe la percezione del ruolo storico della ricerca archeologica. Un solo esempio. Siamo sempre attorno al campanile, quando Boni analizza minutamente le specie arboree utilizzate nello zatterone di
fondazione: rovere, pioppo, ontano; e inquadra quelle presenze in una visione di lungo periodo. «I legnami di queste fondazioni – scrive – appartengono tutti a specie nostrane, legnami di pianura quali gli antichi Veneziani potevano rinvenirli sul litorale limitrofo della laguna. Passò qualche centinaio d’anni prima che i nostri padri, avendo esteso il loro dominio in terraferma, recidessero l’eccelse conifere dal pendio delle Alpi e incominciassero ad adoperare il rosso larice del Cadore, quando in principio del secolo XIV posarono le fondazioni del Palazzo Ducale». Fu un nuovo produttore di storia, o un produttore di «nuova storia»,
Roma, Foro Romano, 1900-1903. Lo scavo dell’area del sacello di Venere Cloacina al momento del recupero di una colonna integra.
prima che la «nouvelle histoire» ricevesse un nome, grazie a un approccio archeologico, filologico naturalistico, folklorico, linguistico che testimoniava la sua sete di globalità, alla fine di un secolo che aveva varato nelle accademie le «corazzate» delle discipline pronte a scontrarsi «a cannonate» nel secolo incipiente.
SUI CRITERI DI RESTAURO Che cosa resta dunque del santino degli anni Settanta un po’ rozzamente laicizzato venti anni dopo? Allora poco interessavano il Boni architetto (quello dei fecondissimi anni del Salento) e il tema del restauro, ora piú alla ribalta. Oggi ci affascina meditare sulla conservazione in situ dei manufatti, quando, a proposito di un mosaico di Salemi, afferma il principio che qualora un monumento non possa venir conservato sul posto, né trasportato, debba essere di nuovo seppellito per evitarne la rovina. E voi mi perdonerete se ancora una volta torno con la mente ai sotterranei del Colosseo, lasciati da un secolo, e insensatamente, in balia delle intemperie. Oggi ci interessa di piú meditare sulla scelta di conservazione/ valorizzazione da lui fatta nel Sepolcreto del Foro, quando sperimentò il riempimento delle fosse per tracciare alla superficie del terreno la planimetria delle tombe sottostanti. La preservazione dei monumenti era per lui «opera medica, non chirurgica»; e non possiamo non andar con la mente all’insegnamento di Giovanni Urbani e agli ostacoli che egli incontrò nell’amministrazione pubblica della tutela degli anni Ottanta. E oggi restiamo affascinati
quando scavava il senso delle parole «con lo stesso ardore con cui sfogliava gli strati terrestri», portando di peso la linguistica storica nell’interpretazione archeologica. Giacomo Boni fu pienamente consapevole del valore dell’autenticità, che per lui non Pagina autografa di Giacomo Boni con annotazioni sui ludi gladiatorii, conservata nel testo sugli scavi delle Gallerie Cesaree del Foro Romano.
aveva nulla a che vedere con il feticismo. «Custodite il pezzetto di cemento che includo – scriveva giovanissimo a William Caroë –, viene dalla seconda parte della facciata di Palazzo Ducale verso Piazzetta. Potete confrontarlo con l’altro». Non feticismo, dunque, ma la pratica del metodo del confronto esposta oltre cento anni prima da Caylus. «Vi mando un pezzo di quercia di quelle fondazioni – scrive a Philip Webb –, poiché è stato messo in opera nell’888 e ci dà un
buon saggio della durata di questa specie di legname». Non feticismo, dunque, ma scienza. Una scienza che si alimenta del concetto di contesto, e che ci fa desiderare di avere ancora come collega della porta accanto quel solitario sostenitore dell’idea di un museo diffuso, da opporre a quella dei grandi contenitori centralizzati, allora all’apice della fortuna.
PROFETA SENZA GLORIA Il suo metodo comparatista lo pone nel filone fecondo e libero della moderna antropologia e della scienza delle religioni. La sua denuncia del disinteresse dello Stato verso il patrimonio demoantropologico sembra lanciata ieri. La sua candida confessione della scarsa attitudine a collezionare bibliografie ce ne fa scoprire il suo lato non erudito, anzi insofferente dei limiti di quella «cultura puramente filologica, limitata alla sola civiltà e al periodo, cui volgono le indagini» che rimproverava a certi archeologi e ai dilettanti. Eleonora Duse lo definí un «profeta che leggeva il passato e capiva l’avvenire». E poiché nemo propheta in patria, l’architetto Boni dovette andare a cercare la sua consacrazione nelle lauree ad honorem che gli dettero Oxford e Cambridge. Quarant’anni fa la riscoperta di Giacomo Boni potè sembrare strumentale: tale era la forza di antesignano di quella figura, che se non fosse esistita, si sarebbe dovuta inventare. Oggi possiamo percepirla come una condivisione culturale, come una sintonia che almeno in me sorge spontanea con quel geniale architetto-archeologo, forse distratto dai troppi interessi, un uomo per certi versi «onnilaterale», come lo avrebbe forse definito Antonio Gramsci.
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QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli
…SISTEMÒ I SUOI RAPPORTI CON I LATINI PER QUASI DUE SECOLI, ROMA E LE GENTI DEL LAZIO ALTERNARONO LE ALLEANZE AI CONFLITTI. FINO A QUANDO, NEL 338 A.C., L’ARREMBANTE POTENZA CAPITOLINA NON ACQUISÍ IL TOTALE E DEFINITIVO CONTROLLO DELLA REGIONE
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atini e Romani – come s’addice a parenti stretti – ebbero spesso rapporti piú vicini alla conflittualità che all’amicizia. Anche nei momenti migliori, infatti, rimase sempre latente una malcelata rivalità. Fu, quindi, un autentico evento la sottoscrizione di un patto d’alleanza che, nell’anno 493 a.C., fu tra loro stipulato e che, dal nome del negoziatore romano, il console Spurio Cassio, è passato
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alla storia come Foedus Cassianum. Ne parlano, brevemente, Tito Livio, il quale scrive (II, 33) come il testo dell’accordo fosse stato columna aenea insculptum («inciso su una colonna di bronzo»), e Dionigi d’Alicarnasso (VI, 95), che invece quel testo riporta, non sappiamo quanto fedelmente, per intero. Il patto pose fine allo scontro che aveva lungamente opposto Roma e la «federazione» o Lega Latina,
quando, caduta la monarchia romana, alla fine del VI secolo a.C., i Latini avevano cercato di liberarsi dall’egemonia che la città dei sette colli aveva. Dopo essere riusciti a far fallire il tentativo di sostituirsi a Roma messo in atto dal re dell’etrusca Chiusi, Porsenna (sconfitto presso Ariccia, intorno al 506 a.C., con l’intervento determinante dei Cumani), i Latini erano stati a loro volta battuti dai Romani, nel 496, al lago Regillo, in territorio tuscolano. Ma la vittoria romana – benché esaltata ed enfatizzata, anche col ricorso all’intervento divino (i Dioscuri postisi alla testa della cavalleria capitolina!) – non era stata risolutiva. Il conflitto sarebbe
pertanto continuato se, a farlo cessare e a indurre Romani e Latini a sospendere le ostilità – e perfino ad allearsi – non fosse diventato un serio pericolo per entambi il dilagare nel Lazio, attraverso le valli dell’Aniene e del Liri, dei popoli appenninici Equi e Volsci, alla ricerca di terre in cui stabilirsi.
UN’ALLEANZA MILITARE Il Foedus Cassianum, dunque, fu soprattutto un trattato di alleanza militare che contemplava la possibilità di dar vita, ogni volta che fosse necessario, a un esercito comune, al quale ciascun contraente era tenuto a fornire un uguale contributo di forze e il cui comando sarebbe toccato alla parte che avesse sollecitato l’intervento. Ugualmente paritetica sarebbe stata la ripartizione delle conquiste e dell’eventuale bottino di guerra. Nel 486 a.C., al trattato aderirono anche gli Ernici, stanziati sulle alture prospicienti la valle del Sacco e minacciati anch’essi dall’espansionismo di Equi e Volsci (peraltro di stirpe affine alla loro). Non sappiamo molto delle guerre – difensive e (contr)offensive – della triplice alleanza. Al di là dei racconti e degli episodi dal sapore leggendario tramandati dagli annalisti romani (nostra unica fonte d’informazione), con le celebri imprese, tra le altre, di Cincinnato e di Coriolano. Ma di grande interesse risultano le notizie della fondazione, da parte degli alleati, di diverse «colonie» nei territori via via tolti o recuperati dai Volsci, come quelle degli anni Novanta del V secolo a.C. stabilite a Signia, Velitrae, Norba e Cora (oggi Segni, Velletri, Norma e Cori), destinate al ruolo di piazzeforti e giuridicamente equiparate alle città latine (e, come tali, accolte nella Lega e quindi nell’alleanza). Le guerre o, piuttosto, gli scontri «di confine», le scorrerie e le incursioni degli uni, le
In alto: la distribuzione delle popolazioni italiche in età preromana. Nella pagina accanto: Segni (Roma). La Porta Saracena, uno degli ingressi
all’antica città di Signia. VI sec. a.C. In basso: denario battuto dalla zecca di Roma sul quale compare l’immagine dei Dioscuri. III sec. a.C. sortite e i contrattacchi degli altri, durarono, con alterne vicende, per tutto il V secolo e buona parte del IV e andarono intrecciandosi con altre vicende nelle quali fu implicata soprattutto Roma. Per esempio, con la guerra, endemica, contro Veio, conclusasi nel 396 a.C. con la conquista della città etrusca e l’annessione del suo territorio, che fece di Roma di gran lunga lo Stato piú esteso della regione. Poi, con la scorreria dei Galli che, intorno al 390, portò al «sacco» della stessa Roma. Quest’ultimo
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evento dovette dar luogo a un momento critico per l’alleanza, giacché Latini ed Ernici assunsero un atteggiamento ambiguo nei confronti dei Romani, screditati dalla disfatta loro inflitta dai Galli nella battaglia del fiume Allia. La Lega, in quanto tale, si astenne dal rompere apertamente con Roma, ma Tivoli e Preneste, insieme agli Ernici, verso il 360, mossero contro l’alleata con un attacco risoltosi in un fallimento. Ciò che offrí alla stessa Roma il destro per imporre il rinnovo del foedus opportunamente ritoccato, con l’eliminazione delle condizioni di parità. Cosí, da alleati, i Latini diventarono «soggetti», mentre i due capi della Lega, i praetores (che avevano sostituito il magistrato unico precedente, il dictator) furono posti alle dipendenze dei consoli di Roma, ai quali spettò, in esclusiva, il comando militare. Sulla rinnovata «alleanza» Roma poté contare nella guerra che, nel 358 a.C., le mosse Tarquinia; poi, nel 349, per respingere una rinnovata minaccia dei Galli.
Ma, essendo stato respinto il loro «ultimatum», si staccarono dall’alleanza e strinsero intese con i Campani e con gli stessi tradizionali Altorilievo in terracotta policroma in forma di testa di guerriero, dal santuario della Mater Matuta di Satrico, una delle piú importanti città dei Volsci. V sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
LA MINACCIA SANNITA Ma il nuovo patto non durò a lungo. Mentre un ulteriore elemento di turbamento scaturiva dal bellicoso affacciarsi nel Lazio dei Sanniti, i Latini, sempre piú insofferenti nei confronti della potente alleata (alla quale, di fatto, dovevano recare aiuto senza contropartita) provarono a ribellarsi, chiedendo il ripristino dell’antica parità. Una loro ambasceria a Roma, fatto presente come fosse ormai tempo che non venissero piú trattati come «sudditi», giunse a proporre (come riferisce Livio, II, 5) che, insieme, «si crei un solo popolo, una sola repubblica», «con un console nominato a Roma, l’altro nel Lazio e un Senato composto in parti uguali dall’una e dall’altra gente».
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nemici Volsci, provocando la reazione dei Romani. Questi, insieme ai Sanniti diventati momentaneamente loro alleati (dopo lo scontro senza vincitori, né vinti che era stata la cosiddetta prima guerra sannitica, tra il 343 e il 341 a.C.), sconfissero Latini e Campani presso Sessa Aurunca. Poi, concessa la pace ai Campani, si concentrarono sui Latini e sui
Volsci. Ma, per averne ragione, ci vollero altre due campagne, che si conclusero nel 338 a.C. «E non ci si fermò – scrive Livio (VIII, 13) – prima di aver soggiogato tutto il Lazio, espugnandone ogni singola città o ricevendone la resa».
UNA PACE DURATURA Si presentò allora, per Roma, la necessità di sistemare una volta per tutte il rapporto coi Latini. E, «dato che ribellandosi troppo spesso – dice ancora Livio – essi creano fastidio», si doveva decidere «in che modo tenerli tranquilli con una pace duratura». Dalla stipula del Foedus Cassianum, era passato un secolo e mezzo e quel trattato era ormai solo un ricordo e sarebbe stato anacronistico rispolverarlo, sia pure nell’ultima versione. Era tempo, ormai, che Romani e Latini si unissero in un solo Stato che, a quel punto, non poteva essere che quello romano. Cosí, la Lega fu sciolta e ogni città costretta a stringere con Roma un vincolo speciale col quale a essa, singolarmente, si legava: alcune acquisendo la piena cittadinanza, altre una cittadinanza di «secondo grado», ma con la prospettiva d’arrivare alla «pienezza» in poco tempo; altre ancora nella condizione formale di alleate, ma a sovranità limitata. Mentre tutte venivano private d’ogni possibilità di intesa o di un qualche collegamento tra di loro. La sistemazione del Lazio ebbe conseguenze d’enorme portata. Essa costituí, infatti, il modello sul quale Roma impostò in seguito il suo sistema di controllo di una «confederazione» che, nel giro di un secolo, finí per coinvolgere tutti i popoli italici e fu, a sua volta, la premessa per la definitiva unificazione della Penisola: ossia per la «nascita» dell’Italia.
A VOLTE RITORNANO Flavio Russo
LO SVIZZERO TUTTOFARE L’IDEA DI RIUNIRE IN UN SOLO STRUMENTO COLTELLO, FORCHETTA E ALTRI UTENSILI FECE LA FORTUNA DELL’ARTIGIANO KARL ELSENER. MA LA SUA INVENZIONE NON ERA DEL TUTTO ORIGINALE...
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Il coltello multiuso rinvenuto in un forte nei pressi del Vallo di Adriano. III sec. d.C. Cambridge, Fitzwilliam Museum.
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ul finire degli anni Ottanta dell’Ottocento, un certo Karl Elsener – convinto nazionalista e intelligente artigiano, titolare con la madre Victoria, dal 1884, di un modesto negozio di posate a Ibach (una frazione di Svitto, nell’omonimo cantone) –, dopo aver osservato con disappunto che i coltellini in dotazione all’esercito della Confederazione erano solo di fabbricazione tedesca e mal si adattavano alle esigenze tattiche dei soldati, ne approntò uno alternativo. All’interno di un’unica impugnatura dalle guance di dura quercia, collocò varie lame indipendenti, ognuna destinata a una precisa funzione e bloccata da una propria molla antagonista. In virtú della sua destinazione, il piccolo
serramanico fu denominato Soldier Knife Modell 1890 e racchiudeva un punteruolo, un apriscatole, un cacciavite e, ovviamente, una lama. La sua efficacia fu subito riconosciuta e l’esercito elvetico decise di inserirlo nel proprio equipaggiamento. Negli anni successivi, le richieste crebbero costantemente, confermandone l’utilità, ma la vera e propria impennata si ebbe durante la seconda guerra mondiale, quando Elsener dovette A destra: rilievo ortogonale del coltellino conservato nel Fitzwilliam Museum dell’Università di Cambridge.
fare fronte alle forniture per l’esercito statunitense. Cosí, in pochi anni, il laboratorio di Ibach si trasformò in una grande fabbrica con migliaia di maestranze, che, in ossequio al nome materno, fu chiamata Victorinox Swiss Army.
UN SUCCESSO INARRESTABILE Da allora, successo e produzione del coltellino, dalle rosse guance marcate con la bianca croce svizzera, non hanno subito battute d’arresto, nonostante il proliferare di innumerevoli imitazioni, tra le quali si distinse, sin dai primi del
Un moderno coltellino svizzero multiuso, i cui primi esemplari furono realizzati a Ibach alla fine del XIX sec.
A sinistra: il coltello multiuso rinvenuto da Pietro Barocelli nella tomba 142 della necropoli romana di Albintimilium (Ventimiglia). II sec. d.C. Ventimiglia, Antiquarium.
eccezion fatta per la forchetta, collocata all’estremità dello stesso gambo del cucchiaio. Gambo a sua volta imperniato alle guance, sempre d’argento, tramite un occhiello che ne permetteva la rotazione. Entrambi gli esemplari sono privi di molle antagoniste, per cui le lame, per tagliare, si bloccavano solo per contrasto contro i due ribattini che fissavano le opposte guance, mentre quelle accessorie erano frenate dalla frizione dei rispettivi fulcri.
IN PUNTA DI FORCHETTA Novecento, quella della Wenger, una fabbrica di recente fagocitata dalla piú antica. Per gli Americani, il coltellino multiuso, svizzero per antonomasia, costituí una geniale quanto originale invenzione: geniale lo fu senza dubbio, originale assai di meno, dal momento che, pochi decenni piú tardi, nel 1917, l’archeologo Pietro Barocelli (187-1981), scavando la tomba 142 della necropoli di Albintimilium (Ventimiglia), ne rinvenne un archetipo del II secolo. Anche il singolare reperto, infatti, era un coltellino multiuso a serramanico, nel quale, tra due guance di spesso argento, si
racchiudevano, ripiegandosi, una lama, un punteruolo, una spatola e un pestello, ma, soprattutto, un cucchiaio e una forchetta a tre rebbi. Le preziose guance e la sofisticata concezione indussero a interpretare l’oggetto come una sorta di servizio da viaggio per ricchi patrizi, un’attribuzione in seguito mutata a favore di una piú plausibile dotazione militare, riservata agli alti gradi. A confortare tale ipotesi contribuí un secondo e piú recente reperto, rinvenuto sul finire del secolo scorso in un forte romano del Vallo di Adriano, simile al precedente per materiali, forma e dimensione,
La complessa e similare fattura dei due coltellini ne prova la produzione seriale: doveva cioè trattarsi di pregiate posate da campo, nelle quali l’argento non era stato utilizzato per ostentare un qualche lusso, ma per scongiurare la ruggine, altrimenti immediata a contatto coi sali e gli acidi delle pietanze. In altre parole, erano sofisticati combinati da pranzo, che certamente non si utilizzavano per il quotidiano rancio, ma per i pasti piú elaborati. La scoperta dei coltellini, peraltro, smentisce l’idea che tutti i Romani mangiassero abitualmente con le mani, o, al piú, con un cucchiaio, e che la forchetta a rebbi multipli sia comparsa soltanto nel tardo Medioevo.
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L’ORDINE ROVESCIATO DELLE COSE Andrea De Pascale
DISCESA AGLI INFERI PERTICARA, CITTADINA DELLA ROMAGNA ORIENTALE, HA A LUNGO LEGATO LA SUA FORTUNA AI GIACIMENTI DI ZOLFO, SFRUTTATI NELLA ZONA FIN DALL’ETÀ ROMANA. UNA VICENDA OGGI DOCUMENTATA DAL MUSEO SULPHUR E ALLA CUI RICOSTRUZIONE CONTRIBUISCONO LE RICERCHE IN CORSO NEL DEDALO DI GALLERIE CHE SI DIPANA NELLE VISCERE DELLA REGIONE
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li ambienti che, nei millenni, l’uomo ha realizzato nel sottosuolo possiedono molto spesso una notevole rilevanza storico-archeologica. Altrettanto spesso, però, questi mondi sotterranei sono luoghi ostili, pericolosi, nei quali solo ricercatori addestrati e muniti di attrezzature adeguate possono muoversi in sicurezza per esplorare, documentare e studiare ciò che le viscere della terra nascondono. Un caso emblematico è quello della Romagna orientale. Geologicamente, ci troviamo nel Gruppo della Gessoso-solfifera, in particolare nella Formazione di Sapigno, dove si conserva un importante patrimonio archeologico industriale, storico e sociale legato alle zone minerarie di estrazione dello zolfo. Qui, dal 2014, la Federazione
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Speleologica Regionale dell’EmiliaRomagna (FSRER) è impegnata nel progetto di ricerca dal titolo «Gessi e Solfi della Romagna orientale», nel quale spicca l’attività condotta presso il paese di Perticara (Novafeltria, in provincia di Rimini),
In alto: miniera di Perticara. Il livello 0, con la galleria di carreggio attrezzata con tre linee di binari per il trasporto del materiale estratto. In basso: la discenderia Ovest, con il muro di contenimento «Ripiena» nella zona priva di aria respirabile.
dove si trova quella che fu la miniera di zolfo piú importante d’Europa, al cui interno si snodano circa 100 km di gallerie.
ESPLORAZIONI AD ALTO RISCHIO... A Perticara, le prime tracce di esplorazione ed estrazione sono probabilmente riferibili ai Romani, ma certamente, dal Cinquecento, le attività estrattive divennero piú intense, spingendo per secoli l’uomo a rincorrere lo zolfo, con enorme fatica, lungo i filoni del minerale. Furono cosí scavati nella roccia chilometri di gallerie, su 9 livelli di coltivazione, scendendo fino a 740 m di profondità. In questa immensa miniera, una vera e propria città sotterranea, hanno lavorato oltre 1500 minatori negli anni di massimo sfruttamento, fino alla chiusura, decisa nel 1964, poiché l’impresa si era fatta ormai poco redditizia; nell’occasione, tutti gli accessi furono sigillati per motivi di sicurezza. Questo mondo sotterraneo è dunque da tempo isolato e gli ambienti ipogei sono stati perciò saturati dai risultati delle reazioni chimiche innescate dall’idrogeno solforato, che ha eliminato quasi totalmente l’ossigeno all’interno delle gallerie. Gli speleologi e i ricercatori che stanno documentando la miniera per contribuire a ricostruirne le vicende storiche devono pertanto affrontare particolari problemi per operare in sicurezza e, per esempio, vista l’assenza di aria respirabile, utilizzare gli autorespiratori. La preparazione delle esplorazioni ha preso le mosse da ricerche sulle antiche mappe conservate al Museo Sulphur e all’Archivio di Stato di Bologna. Dopo essere state digitalizzate, le carte sono state georiferite, con l’uso di software GIS, ottenendo uno sviluppo cartografico vettoriale della miniera, fondamentale per
ottenere dati come lo sviluppo delle gallerie, la loro posizione rispetto all’esterno e la profondità sotto la superficie. Le indagini stanno interessando diverse parti dell’antico giacimento, con l’obiettivo di spingersi in zone finora non raggiunte, quali l’area di collegamento tra la miniera di Perticara e la miniera Marazzana, che dovrebbe conservare le originarie tracce di lavorazione, oppure il Pozzo Vittoria, che riveste un grande interesse storico e documentario per i probabili resti degli antichi cantieri e delle strutture.
...E VISITE IN TUTTA SICUREZZA Chi voglia scoprire questo mondo sotterraneo ricco di storia, senza doversi addentrare nelle pericolose gallerie, può visitare il Museo Storico Minerario di Perticara, uno dei primi significativi esempi di archeologia industriale sorti in Italia. Il Museo Sulphur è uno strumento fondamentale, appassionante e piacevole, per la conoscenza delle miniere e la diffusione della cultura mineraria: allestito nelle suggestive strutture dell’ex Cantiere Solfureo Certino, insieme alle attrezzature minerarie
Il Sulphur-Museo Storico Minerario di Perticara, che ha sede nell’ex Cantiere Solfureo Certino. Inaugurato nel 1970, è uno dei primi significativi esempi di archeologia industriale sorti in Italia. all’aperto – tra cui la torre di manovra del pozzo Vittoria che domina il paesaggio quale antico simbolo del collegamento con l’immensa città sotterranea –, il museo consente di approfondire i temi della mineralogia e della geologia, ponendo particolare attenzione a secoli di attività mineraria condotta a Perticara.
DOVE E QUANDO Sulphur-Museo Storico Minerario di Perticara ex Cantiere Solfureo Certino Perticara, via Montecchio 20 Orario dal 21 marzo al 30 giugno: sa-do e festivi, 10,00-12,30 e 15,00-18,00; dal 1° luglio al 30 agosto: gio-ve, 16,00-19,00; sa-do e festivi, 10,00-13,00 e 16,00-19,00; dal 1° settembre al 13 dicembre: sa-do e festivi, 10,00-12,30 e 15,00-18,00 Info tel./fax 0541 927576; e-mail: info@museosulphur.it; www.museosulphur.it
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SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti
A TAVOLA CON ELEGANZA FIN DALL’ANTICHITÀ, I CERAMISTI NON HANNO MAI SMESSO DI RICERCARE NUOVI TIPI DI IMPASTO E FORME ORIGINALI. NEL MEDIOEVO, UNO DEGLI ESITI PIÚ FELICI DI QUESTO CONTINUO RINNOVAMENTO FU LA MAIOLICA ARCAICA, CHE CONOBBE UN SUCCESSO STRAORDINARIO E «TRASVERSALE»
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a ceramica è la «migliore amica» degli archeologi. Perché è stata (ed è ancora) usata in quasi tutte le culture, è praticamente indistruttibile e quindi si trova nella maggior parte degli scavi. Inoltre, cambia nel tempo: si modificano le tecniche di produzione, le forme dei recipienti, il modo di decorarli… Perciò, se ben datata nelle sue trasformazioni, può fornire indicazioni decisive sulla cronologia dei siti e delle loro fasi di frequentazione. Anche nel Medioevo le stoviglie in terracotta hanno svolto spesso un ruolo fondamentale: in cucina, in dispensa e a tavola, mutando ripetutamente il loro aspetto.
Una delle produzioni piú caratteristiche e famose dell’età di Mezzo fu la maiolica arcaica. In Italia, i recipienti realizzati con questo tipo di materia prima fanno la loro comparsa sul mercato nella prima metà del Duecento, a Pisa.
DARE «FORMA» AL VASO Si tratta di oggetti particolari: bacini (grandi piatti) dall’aspetto molto gradevole, con una superficie ricca di colori. La realizzazione di queste ceramiche è abbastanza complessa. Dapprima il vasaio foggia l’oggetto (quello che gli archeologi chiamano «la forma»), al tornio; poi lo cuoce nel forno, per indurirlo: il risultato è il «biscotto», cioè un semplice vaso In alto: boccale in maiolica arcaica decorato con motivi geometrici. Fine del XIII-inizi del XIV sec. Orvieto, Museo dell’Opera del Duomo. A sinistra: grande bacile in maiolica arcaica decorato con motivi floreali e due figure di pesci. Fine del XIII-inizi del XIV sec. Orvieto, collezione privata.
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in terracotta, privo di decorazione. La superficie viene quindi rivestita con uno smalto ricco di stagno, dal tipico colore bianco, sul quale si dipinge la decorazione, perlopiú usando gli ossidi come pigmenti: ramina per il verde, manganese per il bruno, cobalto per il blu. I motivi della decorazione sono soprattutto elementi vegetali (foglie, fiori, tralci), ma anche geometrici, animali e – talvolta – raffigurazioni umane; nonché stemmi araldici. Il resto del vaso (superficie interna se si tratta di un boccale, o esterna, nel caso di un bacino) viene rivestito con una semplice vetrina. A questo punto il contenitore subisce una seconda cottura, al termine della quale è
La ricostruzione di una cucina medievale nel Museo di Palazzo Davanzati, a Firenze.
pronto per l’uso. Il risultato è un prodotto di notevole e rara eleganza, che conquista presto un posto preferenziale sulle tavole delle classi sociali piú elevate. Dal XIV secolo la produzione della maiolica arcaica si diffonde in buona parte del Centro-Nord della Penisola e le forme si moltiplicano. Il fenomeno è ben documentato dalle fonti scritte – ricorrono con frequenza i riferimenti a questi oggetti – e in quelle iconografiche: gli affreschi coevi (per esempio quelli che hanno come soggetto l’Ultima Cena) includono puntualmente recipienti in maiolica arcaica. Proprio da quei dipinti apprendiamo che, inizialmente, la ceramica si affianca al legno, sulle
tavole imbandite: fino alla seconda metà del Cinquecento sono diffusi i taglieri in legno, sui quali venivano servite le vivande, spesso condivisi da due commensali. Solo in seguito si affermò il piatto individuale, nel quale ognuno poteva consumare il proprio pasto.
TUTTI LA VOGLIONO La maiolica, però, trova posto in tavola anche in molte altre forme: boccali, bicchieri, saliere, salsiere, che riscuotono un grande successo nel corso del Trecento, quando cresce considerevolmente il numero dei centri produttivi e la maiolica arcaica si diffonde in modo capillare nella società medievale, anche trasversalmente.
Ne è un esempio il castello di Montarrenti (nel territorio di Sovicille, Siena): analizzando i dati scaturiti dagli scavi che vi sono stati condotti, Federico Cantini ha potuto osservare che, tra la fine del XIII e il XIV secolo, la maiolica si trova soprattutto nella zona abitata dai proprietari del sito; ma subito dopo, tra la fine del XIV secolo e la metà del XV, compare anche nelle case dei contadini. Tale circostanza potrebbe indicare che la maiolica arcaica aveva perso il suo valore di status symbol, ma potrebbe anche suggerire – come ha proposto di recente Alessandra Molinari – una spiegazione piú sottile: forse, il benessere piú diffuso di quel periodo stimolò i ceti inferiori a emulare le abitudini delle classi dirigenti. In ogni caso, tali fenomeni ribadiscono come la ceramica possa fornire dati di notevole interesse sulla società medievale, da interpretare anche in chiave economica e sociale. La maiolica ha una storia lunga, che oltrepassa il Medioevo per arrivare al pieno Rinascimento; e si evolve nel tempo in altre produzioni, anch’esse di grande eleganza: la maiolica arcaica blu, la zaffera a rilievo e la maiolica italo-moresca. Il successo della maiolica arcaica è stato tale, che, ancora oggi, in alcuni centri esistono artigiani impegnati nella sua produzione, con spirito tutto antiquario: per esempio a Orvieto, a Deruta, o in vari borghi della Toscana. Tuttavia, se volete vedere la ricostruzione dell’intero ciclo produttivo, allora dovrete recarvi, nel mese di giugno, al Mercato delle Gaite di Bevagna, in Umbria. Sarà come salire in una macchina del tempo, ed entrare nella bottega di un vasaio medievale (www.ilmercatodellegaite.it).
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
PICCOLI (E GRANDI) CAPOLAVORI IN CERCA DI PATERNITÀ GLI INCISORI CHE DECORAVANO LE MONETE NON ERANO SOLITI FIRMARSI. E PRENDONO QUINDI NOME DALLE LORO OPERE MIGLIORI, COME IL «MAESTRO DEL SILENO»
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e raffigurazioni che compaiono sulla monetazione antica sono perlopiú anonime. Non si conoscono nomi degli incisori romani, spesso artefici di composizioni raffinate, mentre nella produzione greca si ritrovano, benché in scarso numero, le firme di alcuni artisti, i quali, consci del valore delle proprie creazioni, vi apposero il nome (e furono evidentemente autorizzati a farlo). Il fenomeno è attestato a partire dal IV secolo a.C., sia in Grecia che in Magna Grecia, ma è dalla Sicilia che provengono piú numerose le firme – una ventina, a oggi – e delle quali si dirà prossimamente. Anche fra gli artisti rimasti anonimi e testimoniati solo dai tipi-simbolo della città per cui operarono vi sono comunque personaggi di notevole levatura.
NEL SEGNO DI DIONISO Lo dimostra, per esempio, il caso di Naxos, prima colonia greca in Sicilia fondata dai Calcidesi intorno al 735 a.C., poi conquistata da Gela nel 490, spopolata sotto Ierone di
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L’interno di una kylix (coppa a due manici) attica a figure rosse raffigurante un Satiro nudo e itifallico, seduto su un’anfora. Opera di Onesimos, 500 a.C. circa. Boston, Museum of Fine Arts. Siracusa nel 476, quindi ripopolata nel 461, sino al suo abbandono, nel 403 a.C. Le prime coniazioni risalgono alla metà del VI secolo a.C. e hanno quale emblema Dioniso e il suo mondo: un chiaro riferimento alla fiorente produzione (ed esportazione) del vino. L’evoluzione artistica delle monete riflette le vicende dell’insediamento: nella prima fase,
campeggia sul dritto il volto nobile del dio, ritratto come un uomo maturo, con una ricca barba a punta, mentre sul rovescio si staglia un grappolo d’uva; il tutto secondo i canoni dello stile arcaico. Dal 460 a.C., sul rovescio di dramme e tetradrammi compare un nuovo tipo: un Sileno accosciato a terra su una pelle ferina, itifallico e con in mano una tazza a due manici
(kantharos) sollevata, con il volto di profilo, rivolto verso il vaso. Il disegno si deve a un artista di altissimo livello, capace di elaborare un’originale e ardita composizione frontale e di tre quarti nel contempo, incentrata sull’atletica corporatura del satiro resa con accurato naturalismo e armonia ritmica della posizione; la totale nudità ne esalta la virilità libera e sensuale e all’elemento dionisiaco si accosta quello della fertilità prorompente della natura selvaggia. L’immagine possiede caratteristiche tali da suggerire l’intervento di un maestro, che però non si è firmato. Va peraltro rilevato che altre monete di Naxos databili alla fine del V secolo a.C. recano il In basso: tetradramma di Naxos (Sicilia), emesso dal 460 a.C. Berlino, Altes Museum. Al dritto, testa barbuta di Dioniso, coronato di foglie d’edera e pettinatura con chignon; al rovescio, Satiro accosciato con kantharos.
SEDUTO SU UN’ANFORA
In alto: il Fauno Barberini, statua in marmo raffigurante un Satiro che dorme, vinto dall’ebbrezza. Opera di età ellenistica, da un originale pergameno in bronzo del III sec. a.C. Monaco di Baviera, Gliptoteca.
Colui che è stato dunque ribattezzato «Maestro del Sileno» doveva certo conoscere altri modelli di Satiri accosciati, sdraiati o seduti. Lo confermano alcuni confronti, come quello con la coppa a due manici (kylix) di Onesimos, al cui interno è dipinto un Satiro nella stessa posizione della moneta di Naxos, ma seduto su un’anfora. La familiarità tra le due raffigurazioni è stringente, nel potente corpo frontale e nel volto di profilo. Il mondo dionisiaco e del simposio è indicato nella moneta dal kantharos e nella coppa dalla grande anfora, che si può
immaginare appena svuotata dal Satiro, coronato d’edera, con lo sguardo estatico e mentre cerca di tenersi in equilibrio sull’anfora. Infine, un raffronto ancora piú alto avvicina la moneta di Naxos al piú tardo e celebre Fauno Barberini, una superba opera ellenistica di scuola pergamena che replica un originale in bronzo del III secolo a.C. Rinvenuta nel XVII secolo nel fossato di Castel Sant’Angelo, a Roma, la magnifica scultura passò nella Collezione Barberini e oggi fa bella mostra di sé nella Gliptoteca di Monaco di Baviera.
nome di Prokles, il quale ben riprende il tema del Sileno, ma senza eguagliare la resa delle serie anonime precedenti.
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Giovanni Brizzi
70 D.C. La conquista di Gerusalemme Editori Laterza, Roma-Bari, 426 pp. 24,00 euro ISBN 978-88-581-1979-2 www.laterza.it
Tra gli avvenimenti della storia che hanno generato un’onda d’urto i cui effetti si protrassero ben oltre la data stessa in cui si sono verificati, quello della presa di Gerusalemme del 70 d.C., da parte delle legioni romane capeggiate dal futuro imperatore Tito, occupa un posto d’eccezione. A quel drammatico evento fa esplicito riferimento, sin dal titolo, la trattazione che Giovanni Brizzi, ordinario di storia romana all’Università di Bologna, ha dedicato al conflitto tra Romani ed Ebrei. Un conflitto che l’autore definisce come una «guerra ai limiti del genocidio, segnata dalla totale incomunicabilità tra
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le due parti». Il volume, che nel panorama librario italiano rappresenta un’importante novità, prende in esame le complesse vicende che hanno scandito quel difficile e complesso rapporto: a partire dagli antefatti, risalenti a un periodo in cui Roma, lontana ancora dai fasti imperiali, strinse un’alleanza strategica – in funzione «antisiriana» – con i rappresentanti della dinastia gerosolimitana dei Maccabei (i quali, negli anni 175-135, erano insorti contro la politica di ellenizzazione messa in atto dal sovrano seleucide) per giungere, dopo la repressione della seconda rivolta giudaica nel 135/36 d.C., alla definitiva sottomissione della Giudea, seguita dalla trasformazione – sotto l’imperatore Adriano – di Gerusalemme in Aelia Capitolina e la creazione della provincia Syria-Palaestina. Un periodo di quasi trecento anni – segnati da un ostinato «rifiuto» nei confronti di Roma, opposto da parte di una popolazione militarmente inferiore ma armata di un irriducibile attaccamento alla propria identità – che l’autore rievoca, narrandone gli eventi non solo dal pur fondamentale punto di vista militare, ma anche approfondendo le componenti ideologiche di uno dei più tragici e sanguinari «scontri di civiltà» della storia antica. A. M. S.
Sebastiano Tusa
SICILIA ARCHEOLOGICA I caratteri e i percorsi dell’isola dal Paleolitico all’Età del Bronzo negli orizzonti del Mediterraneo Edizioni di storia e studi sociali, Scicli (RG), 318 pp., Ill. b/n 20,00 euro ISBN: 978-88-99168-05-6 www.edizionidistoria.com
Sebastiano Tusa riunisce in questo volume nove saggi (che in parte costituiscono la ripubblicazione, in forma
riveduta e aggiornata, di contributi già editi), con i quali spazia ad ampio raggio nel non meno vasto ambito della preistoria siciliana e non solo: il lettore potrà cosí muoversi tra le considerazioni sull’«identità italica» della piú antica storia d’Italia e le riletture dell’operato di Paolo Orsi, oppure fra un’analisi della religiosità delle genti preistoriche della Sicilia e le osservazioni sul popolamento delle regioni costiere fra
Mesolitico e Neolitico. O, ancora, riflettere sul confronto che Tusa propone tra la dinamica del popolamento delle Eolie e quella di cui fu invece teatro Pantelleria. Merita poi d’essere segnalato che le trattazioni di carattere specialistico sono precedute da un testo di taglio autobiografico, nel quale l’autore ripercorre oltre trent’anni di attività nell’isola di Pantelleria ed esordisce con un ricordo del padre, Vincenzo Tusa (1920-2009), archeologo al quale la tutela e la valorizzazione del patrimonio isolano devono un contributo fondamentale.
Raffaele Renzulli
LA VALLE DEI DOLMEN SUL GARGANO Megaliti e riti del sole nel territorio di Monte Sant’Angelo Andrea Pacilli Editore, Manfredonia (FG), 254 pp., ill. col. 25,00 euro ISBN 978-88-96256-55-8 www.buenaventura comunicazione.it
Architetto animato da una profonda passione per l’archeologia, Raffaele Renzulli si dedica da anni all’esplorazione e alla documentazione del patrimonio custodito dal territorio garganico e, nel territorio di Monte Sant’Angelo, ha individuato un corpus di strutture dolmeniche, la cui importanza sta ottenendo negli ultimi anni riconoscimenti sempre piú convinti. Il volume è una sorta di diario, nel quale l’autore ripercorre le investigazioni condotte, corredando il resoconto con un ricco e puntuale apparato fotografico e cartografico. Un’opera (e un’impresa) che testimonia l’importanza del contributo che anche un non addetto ai lavori può dare alla conoscenza e alla salvaguardia del nostro passato. Patrizia Fortini
LA RAMPA IMPERIALE Scavi e restauri tra Foro Romano e Palatino Electa, Milano, 214 pp., ill. col. e b/n 50,00 euro ISBN 978-88-9180-710-6 www.electaweb.it
Pubblicato in occasione della sua recente riapertura, il volume illustra la storia e l’archeologia della rampa che Domiziano fece realizzare per creare un raccordo tra i settori dei palazzi imperiali situati al livello del Foro Romano e quelli che si trovavano
sul sovrastante colle del Palatino. Le prime indagini sulla struttura e i successivi restauri si devono all’infaticabile operato di Giacomo Boni, il quale, nel 1903, poté dichiarare concluso l’intervento (anche se si trattò di una ricostruzione solo parziale). Di lí a pochi anni, però, nel 1907, insorsero problemi che obbligarono alla chiusura
della rampa, dando inizio a una «sospensione» che viene ora finalmente sanata. Nei vari capitoli l’intera vicenda viene minuziosamente ripercorsa, offrendo una trattazione che alterna la descrizione delle ricerche d’archivio a quella degli interventi archeologici e di restauro. Nel complesso, si può dunque disporre di una mole di dati considerevole, che permette di inquadrare la struttura nel piú ampio contesto del sistema ForoPalatino. Enrico Giorgi e Paola Buzi (a cura di)
BAKCHIAS. DALL’ARCHEOLOGIA ALLA STORIA
Bononia University Press, Bologna, 434 pp., ill. b/n 60,00 euro ISBN 978-88-7395-896-3 www.buponline.com
PER I PIÚ PICCOLI Arianna Capiotto, Elena Sala; illustrazioni di Luca Tagliafico
IL LADRO DI SCARABEI Ante Quem, Bologna, 48 pp., ill. col. 9,50 euro ISBN 978-88-7849-098-7 www.antequem.it
Delle ricerche condotte dall’Università di Bologna nel sito egiziano di Bakchias (villaggio tolemaico-romano che ricade nell’area archeologica di Kom Umm el-Athl, nel Fayyum nord-orientale) «Archeo» ha dato conto in maniera sistematica nel corso degli anni e questo volume, di taglio specialistico, costituisce ora lo strumento ideale per quanti desiderino approfondire l’argomento e conoscere quali esiti abbia avuto lo studio dei materiali recuperati. L’opera presenta una sintesi delle acquisizioni scaturite in un decennio di missioni sul campo e, forte del concorso di piú specialisti, è articolata in due parti: nella prima viene ricostruita la storia dell’insediamento, mentre la seconda analizza le testimonianze archeologiche.
L’antico Egitto, con i suoi riti e usi religiosi, può essere una fonte d’ispirazione inesauribile e questo racconto per bambini ne è la riprova. La vicenda prende spunto (ma i lettori lo scopriranno, naturalmente, solo alla fine) da un pettorale in faïence conservato nel Museo Civico Archeologico di Bologna che conserva l’apertura destinata a ospitare uno «scarabeo del cuore». Ed
è proprio quest’ultimo a «rivivere» nell’avventura che ha come protagonisti principali i piccoli Miriam e Adam, Cecilia – mamma archeologa della prima – e il bizzarro Lord Ossius. (a cura di Stefano Mammini) a r c h e o 113