Archeo n. 374, Aprile 2016

Page 1

2016

eo .it ch

ww

w. ar

EG SPECI IT ALE TO

ARCHEO 374 APRILE

ESCLUSIVA

DIONYSIAS

I SEGRETI DELL’OASI

ETRUSCHI A PRATO MUSEO DI NEPI

MOSTRE PRATO

L’OMBRA DEGLI ETRUSCHI

MOSTRE BOLOGNA

FARAONI. SPLENDORE MILLENARIO

SPECIALE

NELLA RETE DELL’ORO STORIA DI UN POTERE INTRAMONTABILE

€ 5,90

SPECIALE IL POTERE DELL’ORO

Mens. Anno XXXII n. 374 aprile 2016 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

EGITTO A BOLOGNA

ARCHEOLOGI ITALIANI INDAGANO UNA MISTERIOSA CITTÀ DELL’ANTICO EGITTO

www.archeo.it



EDITORIALE

LA BELLEZZA CHE AIUTA A RICORDARE Aveva 29 anni Louis-François Cassas, architetto e pittore di Azay-le-Ferron (Francia centrale), quando giunse nell’oasi di Palmira. L’impresa gli era riuscita solo al secondo tentativo: la prima volta – era il maggio del 1785 – aveva provato ad attraversare il deserto camuffandosi con vesti arabe, ma fu derubato e costretto a tornare indietro. Ripartí poco dopo, accompagnato da un nutrito stuolo di guardie armate. Gli anni dal 1778 al 1783 Cassas li aveva trascorsi in Italia, a Roma, punto di partenza per una serie di viaggi che lo avrebbero portato nelle terre del regno di Napoli, in Sicilia, e poi in Istria e in Dalmazia (da quelle esperienze, agli inizi dell’Ottocento, vengono ricavate due importanti opere, il

Voyage pittoresque et historique de l’Istrie et de la Dalmatie e le Grandes vues pittoresques des principaux sites et monumens de la Grèce et de la Sicile, et des sept collines de Rome). Il suo soggiorno a Palmira – avvenuto trentaquattro anni dopo che i britannici Robert Wood e James Dawkins avevano, per la prima volta, risvegliato l’interesse del pubblico occidentale per questo luogo cosí remoto del mondo classico – decretò l’ingresso di Cassas nel novero degli orientalisti. Ma, a differenza di altre sue opere (Cassas era un vedutista consumato, e le sue tavole, non di rado, sono popolate e ravvivate da scene di quotidianità), i disegni delle rovine dell’antica

Tempio di Bel. I disegni di Louis-François Cassas (1756-1829) sono attualmente esposti al Museo Wallraf-Richartz di Colonia.


EDITORIALE

città (oggi esposti in mostra a Colonia e di cui pubblichiamo qui alcune tavole), sono il risultato di uno sguardo analitico e di una vocazione documentaristica eccezionale: nel giro di poco piú di un mese, Cassas procede alla misurazione esatta dei monumenti, ne ritrae minuziosamente ogni singolo particolare architettonico, «ricostruendo» (talvolta evidenziando le aggiunte con una diversa coloritura) quegli elementi che il trascorrere dei secoli aveva trasformato fino alla sparizione. La qualità estetica dei rilievi eseguiti da Cassas fu riconosciuta immediatamente: vale la pena ricordare che, ad attenderlo a Roma (dove fece ritorno nel 1787, dopo due anni di viaggi in Oriente), vi fu nientemeno che Johann Wolfgang Goethe, il quale, nel suo Viaggio in Italia (di cui quest’anno ricorre il bicentenario della prima pubblicazione), annotava che «le cose del Cassas sono straordinariamente belle»…

Arco monumentale (sezione)


EDITORIALE

Arco monumentale (vista frontale)


EDITORIALE

Torre funeraria di Giamblico (particolare del piano terra)

Louis-François Cassas era affascinato da questa città-miraggio, posta al punto d’incontro tra l’Occidente ellenistico e le grandi civiltà dell’Oriente. Un sentimento condiviso dagli archeologi e dai viaggiatori che, nei secoli successivi, si dedicarono alla sua riscoperta. La scorsa estate, i monumenti cosí meticolosamente documentati dal Cassas sono stati distrutti dalle milizie dell’ISIS: il santuario di Baal Shamin, il grande tempio di Bel, la torre funeraria di Giamblico, l’Arco monumentale da cui si accedeva alla celebre Via Colonnata. Rimangono ancora senza vera risposta le

Torre funeraria di Giamblico


EDITORIALE

domande che, da quel momento, continuiamo a porci: perché i terroristi hanno distrutto monumenti antichi che non rappresentano un pericolo per nessuno? Perché compiere questa cancellazione della memoria storica? Perché assassinare con barbara ferocia l’archeologo Khaled al-Asaad, un anziano uomo di scienza, «colpevole» di essersi dedicato per una vita intera allo studio e alla conservazione dei monumenti che tanto avevano entusiasmato il Cassas? Durante un incontro svoltosi lo scorso 6 marzo al Teatro Argentina di Roma (nell’ambito del ciclo di conferenze intitolato «Luce sull’Archeologia», promosso anche dalla nostra rivista) studiosi e persone di cultura – tra cui Paolo Matthiae, lo scopritore di Ebla, e Francesco Rutelli, già ministro della Cultura e sindaco di Roma – hanno affrontato l’altra domanda che, sin dalla notizia delle prime distruzioni, si è imposta alla nostra riflessione: è possibile – e, se sí, come – ricostruire il patrimonio perduto? Gli interventi sono disponibili sul sito del Teatro Argentina: www.teatrodiroma.net/doc/4164/ rinascita-dell-antichità-perduta-si-può-ricostruire-

Tempio di Baal-Shamin

il-patrimonio). Per far rinascere i monumenti del passato (materialmente o – come ultimo, seppur rassegnato, baluardo contro la barbarie – solo idealmente) ogni documento atto a sorreggere la loro memoria è un dono imprescindibile. Forse, lo aveva già intuito – 250 anni fa – il genio di Louis-François Cassas. Andreas M. Steiner

Torre funeraria di Giamblico (particolari della decorazione scultorea)


SOMMARIO EDITORIALE

La bellezza che aiuta a ricordare

3

di Andreas M. Steiner

Dionysias, città dei segreti

LA NOTIZIA DEL MESE Il sito di Mudhmar Est, in Oman, restituisce una panoplia di armi in bronzo «in miniatura», nascosta in una stanza senza porte... 12

14

MOSTRE

L’ombra degli Etruschi

58

di Paola Perazzi e Gabriella Poggesi

SCAVI

Attualità

NOTIZIARIO

Siponto, in Puglia, «recupera» il suo assetto originario e grazie all’arte e al design 22

34

di Emanuele Papi, con contributi di Gabriella Carpentiero, Luca Passalacqua e Leonardo Bigi

34

MUSEI

La porta d’Etruria

66

di Stefano Francocci e Daniela Rizzo

48

SCOPERTE Una pisside della tomba tarquiniese dell’Aryballos dipinto custodiva i resti della piú antica tintura a base di porpora 14 ALL’OMBRA DEL VESUVIO Un nuovo itinerario, ideato in occasione della mostra «Mito e natura», riscopre i giardini delle domus pompeiane 20 PAROLA D’ARCHEOLOGO La basilica medievale nel parco archeologico di S. Maria di

MOSTRE

Cercando un altro Egitto

48

di Stefano Mammini In copertina portale in calcare dipinto dalla cappella familiare di Userhat, ad Abido. XVIII-XIX dinastia (1543-1186 a.C.). Leida, Rijksmuseum van Oudheden.

Anno XXXII, n. 374 - aprile 2016 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 0069.6352 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca

Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Leonardo Bigi è dottorando di ricerca in archeologia. Cristina Boschetti è collaboratore di ricerca presso il Dipartimento dei Beni Culturali: Archaeologia, storia dell’arte e della musica, Università di Padova. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Alba Cappellieri è direttore del Museo del Gioiello, Vicenza. Gabriella Carpentiero è dottore di ricerca in archeologia. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Nadezhda A. Dubova è ricercatore presso l’Istituto di Etnologia e Antropologia, Accademia Russa delle Scienze, Mosca. Stefano Francocci è direttore del Museo Civico Archeologico di Nepi. Margarita Gleba è ricercatore presso il McDonald Institute for Archaeological Research, University of Cambridge. Paolo Leonini è storico dell’arte. Vakhtang Licheli è direttore dell’Istituto di Archeologia dell’Università di Tiblisi. Sabina Malgora è direttore del Centro Ricerche Mummy Project. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Florence Monier è ricercatore presso AOROC, UMR 8546, CNRS-École normale supérieure, Parigi. Francesca Morandini è Responsabile Servizio specialistico di supporto ai Musei d’Arte, presso il Comune di Brescia. Elisabetta Neri è dottore di ricerca in archeologia. Emanuele Papi è professore ordinario di archeologia classica all’Università di Siena. Luca Passalacqua è dottore di ricerca in archeologia. Paola Perazzi è funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia della Toscana. Gabriella Poggesi è funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia della Toscana. Daniela Rizzo è funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia del Lazio e dell’Etruria Meridionale. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova.


74

SCAVARE IL MEDIOEVO Danimarca, nazione d’Europa

108

di Andrea Augenti

108 ARCHEOTECNOLOGIA

Un colosso per Caligola 74 di Flavio Russo

STORIA

Rien ne va plus! 82 a cura della Redazione

Rubriche

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO

di Francesca Ceci

Uomini, dèi e lottatori

Superare le apparenze 102

110

SPECIALE

di Daniele Manacorda

Nella rete dell’oro 86

QUANDO L’ANTICA ROMA... …liberò il mare dai pirati di Romolo A. Staccioli

104

LIBRI

Illustrazioni e immagini: Cortesia Ufficio stampa mostra: copertina e pp. 3-7, 24, 26, 50 (alto), 52-64 – Cortesia Mission archéologique française en Oman central: Raphaël Hautefort: p. 12; Guillaume Gernez: p. 13 – Cortesia degli autori: pp. 14/15, 16 (alto e basso), 18, 22-23, 67-69, 70 (basso), 71 (alto), 72, 75-79, 86, 90-94, 96-103, 108, 109 (alto), 110 (centro e basso), 111 (centro e basso) – Doc. red.: pp. 15, 28, 66/67, 88 (basso) – Cortesia Margarita Gleba: p. 16 (centro) – Cortesia Soprintendenza Archeologia della Toscana: p. 18 – Cortesia Soprintendenza Pompei: pp. 20-21 – Jacques Descloitres, MODIS Rapid Response Team, NASA/GSFC: pp. 34/35 (sfondo) – Cortesia Università di Siena: pp. 35, 36, 38 (alto e basso), 39-46 – Getty Images: The Print Collector: p. 37; AFP Photo/Ben Stansall: p. 87; Heritage Images: pp. 88 (alto), 89 (basso) – DeA Picture Library: C. Sappa: pp. 38/39 (sfondo), 47; G. Dagli Orti: p. 83; G. Nimatallah: p. 110 (alto) – Stefano Mammini: pp. 48, 50 (basso), 51 – Cortesia Soprintendenza Archeologia per il Lazio e l’Etruria Meridionale: pp. 70 (alto), 71 (basso), 72/73 (alto) – Shutterstock: pp. 74/75, 89 (alto), 94/95, 111 (alto) – Flavio Russo: disegni alle pp. 80-81 – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Hervé Lewandowski: pp. 82, 84 – Bridgeman Images: p. 85 – Foto Scala, Firenze: p. 104 – Mondadori Portfolio: Leemage: p. 106 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 12, 34, 49, 66, 109. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Editore: My Way Media S.r.l. Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Segreteria marketing e pubblicità segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 00696.346 Direzione, sede legale e operativa via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 00696.352

86

112

di Cristina Boschetti e Massimo Vidale

Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. - via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1 Stampa: NIIAG Spa - Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti: Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18 ] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Fax: 02 252007333 Posta: Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl – titolare del trattamento – al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.


LA NOTIZIA DEL MESE Paolo Leonini

«NOMEN… OMAN!» IL SITO DI MUDHMAR EST, NELL’OMAN CENTRALE HA RESTITUITO UNA PANOPLIA ECCEZIONALE: ARMI IN TUTTO E PER TUTTO IDENTICHE A QUELLE REALI, MA FORGIATE NEL BRONZO A DIMENSIONI RIDOTTE. UN AUTENTICO TESORO, CON OGNI PROBABILITÀ DESTINATO A FUNZIONI RITUALI

«A

rabia Felix» era detta anticamente l’area che oggi include i territori dello Yemen e dell’Oman, ed effettivamente tale si è rivelata, nelle scorse settimane, per la missione archeologica francese del CNRS (l’equivalente transalpino del nostro CNR, il Consiglio Nazionale delle Ricerche), alla quale si deve un ritrovamento clamoroso e del tutto inedito nel sito di Mudhmar Est, nella regione di Adam, nell’Oman centrale. Le indagini sono dirette da Guillaume Gernez, archeologo che fa parte del laboratorio Archéologies et sciences de l’Antiquité, e si svolgono in collaborazione con il laboratorio Archéorient (CNRS, Université Lyon 2).

I ra n Go l fo d i Om an

G olf o Pe r s ic o

Suhar

Mascate E mira ti Ar a bi Uniti

Ibra

Sur

Mudhmar Est Ar a bia Sa udit a

al-Khalif

Duqm

Ma re Ara bico Ye men

12 a r c h e o

Salalah

Il sito di Mudhmar Est era stato individuato già nel 2009, alle pendici del Jabal Mudhmar, nei pressi di un importante crocevia commerciale e di una delle piú grandi valli dell’Oman. Qui è emerso un complesso formato da due edifici principali e altre costruzioni minori. All’interno

In alto: Mudhmar Est, Oman. Veduta dall’alto dell’edificio principale dell’insediamento, riportato alla luce dagli scavi della missione del CNRS. Le armi in bronzo sono state ritrovate nel piccolo vano, apparentemente privo di accessi, situato al centro della costruzione, sulla sinistra.


Dall’alto, in senso orario: le faretre con le frecce, l’arco piatto e un’ascia. Tutte le armi sono in bronzo e si datano all’età del Ferro II (900-600 a.C.). dell’edificio piú grande (15 m di lunghezza), realizzato in blocchi di arenaria e mattoni di terra, è avvenuta la sensazionale scoperta: in un piccolo ambiente, apparentemente privo di ingresso, è stato rinvenuto un cospicuo insieme di armi interamente realizzate in bronzo e databili all’età del Ferro II (900-600 a.C.). I reperti si presentavano sparsi sul terreno, divisi in due nuclei. Il primo formato da due faretre, di dimensioni inferiori al reale (35 cm di lunghezza), ciascuna contenente sei frecce. Il secondo

comprendente cinque asce da battaglia, cinque pugnali ricurvi con pomello a mezzaluna, circa cinquanta punte di freccia e cinque archi piatti completi di corde, anch’esse in metallo (70 cm di lunghezza, in media). Le dimensioni ridotte, i materiali impiegati per la loro realizzazione e, in alcuni casi, la mancanza di rifinitura, hanno portato gli archeologi a concludere che si tratti di oggetti non funzionali, ma concepiti per un impiego rituale o al centro di pratiche sociali ancora ignote. Significativo, a questo

proposito, è anche il rinvenimento, nell’altro edificio principale, di piccoli serpenti in bronzo e di alcuni frammenti di incensieri in ceramica, oggetti spesso collegati a una funzione rituale. Va sottolineato che faretre e archi come questi (interamente in metallo e per uso simbolico), rappresentano un ritrovamento unico per l’Arabia, e si tratta perciò di una scoperta di importanza capitale, non solo per lo studio delle armi e della metallurgia, ma anche ai fini della migliore comprensione dei sistemi politici e sociali esistenti nell’area.

a r c h e o 13


n otiz iari o SCOPERTE Tarquinia

PORPORA ETRUSCA

L

e tombe etrusche dipinte di Tarquinia ritraggono, fra il VI e il V secolo a.C., serene scene di banchetti familiari e feste, allietati da musici, danzatori e giocolieri. I partecipanti alle cerimonie sono contornati da arredi, addobbi e servitú e manifestano, soprattutto nell’abbigliamento, il loro benessere e la loro dignità aristocratica. I caratteri tipicamente etruschi si riconoscono nel gusto per stoffe dai colori vivaci, con svariate decorazioni ricamate, applicate o dipinte, tanto che lo storico Tito Livio esaltava l’estro tirrenico nell’ornare la persona; in particolare, all’epoca dei re Tarquini,

14 a r c h e o

lo stesso autore ricorda che utilizzare abiti etruschi color porpora fu un vezzo che sedusse proprio i Romani. L’eleganza dell’abbigliamento etrusco è confermata dalla recentissima indagine condotta su lembi di tessuto gelosamente custoditi all’interno di un contenitore cilindrico (pisside) in bronzo laminato e sbalzato, trovato sigillato e sistemato ai piedi di una donna adulta, vestita con una decina di preziose fibule (con elementi in oro, ambra e osso): la signora fu deposta, insieme alla cremazione del probabile figlio, all’interno della tomba a camera

ribattezzata «dell’Aryballos sospeso» (vedi «Archeo» n. 345, novembre 2013), databile agli ultimi decenni del VII secolo a.C., rinvenuta intatta nel 2013 durante gli scavi condotti dall’Università degli Studi di Torino e dalla In alto, sulle due pagine: Tarquinia, necropoli della Doganaccia. La Tomba dell’Aryballos sospeso. Fine del VII A destra: Tarquinia, necropoli dei Monterozzi. La Tomba degli Auguri. 530-520 a.C. circa. Sulla parete di fondo, due personaggi maschili in atto di compianto, ai lati di una porta finta, che allude alla soglia dell’aldilà; sulla destra, giochi in onore del defunto.


DOVE E QUANDO

Alla scoperta dei colori Chi desideri avere un’idea della vivacità che contraddistingue le pitture murali etrusche di Tarquinia, non può mancare la visita delle tombe scoperte nella necropoli dei Monterozzi. Per esigenze di conservazione, i monumenti vengono aperti al pubblico a rotazione; ecco dunque l’elenco delle tombe attualmente visibili: Baccanti, Bettini (5513), Caccia e Pesca, Cacciatore, Cardarelli, Caronti, Cristofani (3242), Due Tetti (5636), Fior di Loto, Fiorellini, Giocolieri, Gorgoneion, Leonesse, Leopardi, Moretti (5591), Pallottino (3713), Pulcella. Prima della visita, è in ogni caso consigliabile verificare le effettive disponibilità, rivolgendosi alla Soprintendenza Archeologia del Lazio e dell’Etruria meridionale (centralino: tel. 06 3226571; area archeologica della necropoli dei Monterozzi: tel. 0766 856308; www.cerveteri.beniculturali.it).

a r c h e o 15


n otiz iario

Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale nel sepolcreto tarquiniese della Doganaccia. Accanto alla pregiata scatolina femminile si trovavano una coppa dipinta e un bacile in bronzo, colmi di offerte funerarie. L’apertura in laboratorio della pisside ne ha rivelato il contenuto: assieme a frammenti di fili e tessuti, erano conservati tre aghi in bronzo e un dente molare, forse appartenuto alla stessa defunta. Il carattere del contenuto sembrerebbe qualificare la figura femminile come ricamatrice, un’attività verosimilmente praticata in vita. D’altronde, le lussuose coperte e stoffe che arricchiscono le pitture tombali dimostrano l’alta capacità del mondo femminile etrusco nel confezionare vesti e arredi tessili molto elaborati, all’epoca rinomati in tutto il Mediterraneo. Margarita Gleba e Romina Laurito del Centre for Textile Research, nell’ambito di uno studio destinato a creare una banca dati sui tessuti e sulle tecniche di filatura e ricamo dell’antichità, hanno analizzato i campioni dalla tomba tarquiniese: e, quando si ha a che fare con un complesso archeologico intatto, le novità non tardano ad arrivare.

A destra: la pisside in bronzo subito dopo il recupero. Qui sotto: frammento di tessuto dalla pisside, con fili di di colore chiaro verdastro e di colore violaceo. In basso: il bacile, la pisside e la coppa dipinta ancora in situ.

In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto do dolorest lorest, ut exereca taspisci.

In questo caso l’importanza della scoperta riguarda, in particolare, l’identificazione del frammento di un tessuto di lana di pecora, colorata con porpora di murice. Le indagini hanno inoltre svelato delle presenze «aliene» sui tessuti: ospiti microscopici, costituiti da vari insetti che stanziavano sugli abiti antichi, e di cui le analisi entomologiche potranno precisare la specie. Il ritrovamento tarquiniese testimonia l’uso da parte degli Etruschi del colorante a base di porpora, una sostanza che deriva dal liquido prodotto da

16 a r c h e o

molluschi marini (del genere Murex e Purpura), nell’antichità molto ricercata e diffusa dai Fenici per conferire alle stoffe un color viola rossastro. Date le condizioni generalmente non favorevoli per la conservazione dei materiali organici, il rinvenimento dei pezzi tessili nella Tomba dell’Aryballos sospeso costituisce una straordinaria opportunità per ricavare importanti informazioni sulle tecnologie tessili utilizzate nell’Etruria arcaica. I resti tarquiniesi sorprendono per la loro finezza di esecuzione: il tessuto color violaceo dalla pisside è singolare per la sua qualità, in quanto realizzato con fili raddoppiati. L’unico confronto finora identificato è con un tessuto da Hallstatt (Austria), piú grossolano di quello etrusco: una circostanza che indica come nelle élite dell’Europa centrale si impiegassero tessuti simili o ispirati a quelli etruschi. L’uso della porpora di murice in Etruria era documentato finora in reperti di età ellenistica dalla zona di Perugia e quindi il ritrovamento tarquiniese si impone adesso come il tessuto tinto con porpora piú antico d’Italia. Alessandro Mandolesi



n otiz iario

SCOPERTE Chiusi

DALLE TERRE DI PORSENNA

L

a scoperta di una nuova tomba a Chiusi è la prova di come l’Etruria possa continuare a sorprendere. Sull’altura di Poggio Renzo, situata 1,5 km a nord-ovest della città odierna, una recente ricognizione aerea aveva segnalato la presenza di una cavità, probabilmente imputabile a uno scavo clandestino. Il successivo sopralluogo, effettuato da Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Firenze, da funzionari della Soprintendenza Archeologia della Toscana e da membri del Gruppo Archeologico «Città di Chiusi», ha portato alla scoperta di una sepoltura etrusca. Le ricerche sono all’inizio e, al momento, sembra che ci si trovi di fronte a una tomba a camera articolata in due ambienti con un atrio centrale e dotata di un dromos (corridoio di accesso). Tracce di pittura di colore rosso incorniciano la porta di accesso di una delle camere. La tipologia costruttiva suggerisce che il monumento funerario risalga agli inizi del V

18 a r c h e o

secolo a.C., vale a dire a un periodo di grande rigoglio per la polis di Chiusi: quegli anni, infatti, erano ancora caratterizzati dall’azione politica del re Porsenna, che dette alla città della Valdichiana un ruolo di primo piano nelle dinamiche politiche dell’Italia centrale.

Chiusi, località Poggio Renzo. Due immagini della tomba etrusca appena scoperta: un particolare della cornice di colore rosso che incornicia una delle porte di accesso (in alto) e l’area esterna del sepolcro in corso di scavo. Al momento, la tomba non sembra essere indicata nelle planimetrie note dell’area di Poggio Renzo, che pure è stata indagata in maniera intensiva dagli anni Trenta dell’Ottocento e nella quale operò con successo, tra gli altri, l’archeologo Alessandro François, che, nel febbraio del 1846, vi rinvenne la Tomba della Scimmia. Indagini altrettanto fortunate vennero quindi portate avanti dalla Società Colombaria di Firenze e, ancora piú tardi, da Doro Levi che vi scoprí la Tomba della Pellegrina (1928). A questi e piú recenti rinvenimenti si aggiunge ora quello della nuova tomba a camera, di cui il prosieguo delle ricerche potrà chiarire l’importanza per l’archeologia chiusina. Giuseppe M. Della Fina



ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

I CUORI VERDI DI POMPEI CONCEPITO COME COROLLARIO IDEALE DELLA SEZIONE POMPEIANA DELLA MOSTRA «MITO E NATURA», UN SUGGESTIVO ITINERARIO CHE SI SNODA LUNGO LA VIA DELL’ABBONDANZA SVELA LE ELEGANTI OASI DI PACE CHE IMPREZIOSIVANO LE PIÚ FAMOSE RESIDENZE DELLA CITTÀ VESUVIANA

C

omporre giardini era, nell’antichità, una vera e propria arte e, a Pompei, lo spazio verde, grande o piccolo che fosse, oltre a essere amabilmente curato, veniva riprodotto nelle pitture delle domus, come nella Casa del Frutteto (vedi «Archeo» n. 373, marzo 2016). Oggi un inedito itinerario di visita che si sviluppa nella parte meridionale degli scavi permette di rivivere le atmosfere primaverili dei migliori angoli verdi della città: infatti, in occasione della riedizione pompeiana della mostra «Mito e Natura. Dalla Grecia a Pompei» (curata da Massimo Osanna, Grete Stefani e Michele Borgongino), cinque tappe rappresentative costituite da edifici con giardini appena ripristinati offrono un percorso fra spazi verdi reali e immaginari, che si integrano con la selezione di reperti organici «naturali» esposti nella piramide allestita nell’anfiteatro. Dall’anfiteatro, il «percorso verde» prevede un cammino lungo l’omonimo vicolo, fino a raggiungere la via dell’Abbondanza. Qui, l’intero isolato posto nell’angolo formato dalle due strade è occupato dai Praedia di Giulia Felice, uno dei primi edifici scoperti a Pompei durante gli scavi

20 a r c h e o

settecenteschi. Il complesso delle proprietà di Giulia Felice sorge alla fine del I secolo a.C., in seguito all’accorpamento di precedenti costruzioni in un’unica soluzione edilizia, organizzata come una «villa urbana», caratterizzata dalla prevalenza di ampie aree verdi. La proprietà si articola in vari nuclei: un impianto termale; un’osteria con letti e tavoli per clienti; un grande triclinio concepito come una grotta animata da giochi d’acqua; un giardino con fontane e pergolati sotto cui passeggiare e meditare come nei ginnasi greci; un

vasto parco destinato a frutteto dove sono state ripiantate specie arboree dell’epoca. Il nome di Giulia Felice è riportato su una iscrizione dipinta in facciata dopo il terremoto del 62 d.C. (oggi conservata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli), in cui la proprietaria annuncia l’affitto di parte della sua proprietà. Proseguendo sulla via, nell’isolato successivo, troviamo la Casa della Venere in conchiglia, che subí nel tempo molte trasformazioni. Come nella famosa Casa dei Vettii, qui il tablino viene sacrificato a favore


del giardino circondato da un elegante peristilio, un «cuore verde» attorno cui ruota l’intera domus. Sul giardino si affacciano cosí eleganti ambienti affrescati, tra cui il grande oecus (sala di rappresentanza), secondo per dimensioni solo a quello della Casa del Menandro. La parete di fondo del peristilio è decorata con lo scenografico affresco di Venere, protettrice di Pompei, accanto alla quale, oltre una transenna dipinta, è raffigurato un lussureggiante giardino con piante e animali esotici: qui si può apprezzare al meglio lo stretto rapporto tra verde reale e verde dipinto. Ancora sulla via dell’Abbondanza, segue la Casa di Octavius Quartio (un membro del collegio degli Augustali, dediti al culto degli imperatori), una versione in miniatura delle grandi ville aristocratiche diffuse fuori città, all’interno della quale troviamo un originale e vasto giardino, con piante e specchi d’acqua, ristrutturato dopo il terremoto.

Lo spazio verde è articolato in due aree poste a quote diverse e solcate da due canali d’acqua artificiali (euripi) perpendicolari fra loro, animati da cascatelle e da un’incredibile varietà di fontane fra pergolati ombreggianti. Impreziosiscono il giardino statue e arredi molto accurati, che fanno di questo spazio una delle migliori testimonianze di architettura da giardino della città. Dopo aver visitato le mirabili pitture della Casa del Frutteto, si raggiunge, risalendo la via dell’Abbondanza verso nord, la via In alto: il giardino compreso nei Praedia di Giulia Felice. Nella pagina accanto: il piccolo giardino della Casa di Marco Lucrezio, dotato di una fontana alimentata da un getto d’acqua che sgorgava dalla statua di un Sileno. A sinistra: il giardino della Casa di Loreio Tiburtino.

Stabiana: accanto alle monumentali Terme centrali, troviamo la Casa di Marco Lucrezio, frutto della fusione di due abitazioni piú antiche (come è evidente dalla sua pianta irregolare, con due atri disposti ad angolo retto e a livelli diversi). L’interesse della casa risiede proprio nel piccolo e grazioso spazio verde, che sovrasta l’atrio come una quinta scenica: il giardino è accurato e ingentilito da un ricercato arredo scultoreo. Una fontana a cascatella in marmo veniva alimentata da un getto d’acqua che sgorgava da una statua di Sileno; l’acqua confluiva quindi in una vasca centrale, attorno alla quale si disponevano erme di menadi e sileni, nonché statue di grande qualità ispirate dall’arte ellenistica, come quella del satiro che guarda lontano. La casa prende il nome dal quadretto in cui sono rappresentati strumenti per la scrittura, tra cui una lettera indirizzata a Marco Lucrezio, decurione di Pompei e sacerdote di Marte.

DOVE E QUANDO «Mito e natura. Dalla Grecia a Pompei» Scavi di Pompei, Anfiteatro fino al 15 giugno Orario tutti i giorni, 9,00-19,30 (ultimo ingresso alle 18,00); chiuso il 1° maggio Info www.mostramitonatura.it

a r c h e o 21


PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

RICOSTRUIRE CON L’ARTE CONSERVATA SOLO AL LIVELLO DELLE FONDAZIONI, LA BASILICA MEDIEVALE DELL’ANTICA SIPONTO, IN PUGLIA, È TORNATA A RIVIVERE GRAZIE A UN’AVVENIRISTICA INSTALLAZIONE. UNA SCOMMESSA CORAGGIOSA, DI CUI CI PARLA IL SOPRINTENDENTE LUIGI LA ROCCA

L’

arte può «ricostruire il tempo», suggerendo i volumi perduti di un monumento antico e restituendoli in maniera scientifica, efficace e non invasiva. Nasce da questa intuizione il progetto di riqualificazione del parco archeologico di S. Maria di Siponto, da poco inaugurato ai piedi del Gargano, presso Manfredonia (Foggia).

Ne parliamo con Luigi La Rocca, Soprintendente Archeologo della Puglia. «L’intervento realizzato nel Parco Archeologico di S. Maria di Siponto – esordisce – è senz’altro un esperimento riuscito. Si tratta di un’operazione molto innovativa: un’esperienza unica di dialogo fra arte contemporanea e contesto archeologico. Non solo perché il

sito diventa contenitore dell’arte, ma perché l’installazione artistica sostanzia di significati il contesto archeologico, restituendone la terza dimensione. Esistono altri esempi di opere d’arte ospitate in aree archeologiche, ma nessuno che abbia un impatto altrettanto forte. L’installazione sulla basilica ha, poi, una forte valenza didattica: aiuta i non addetti ai lavori a comprendere il monumento e la sua funzione originaria». In questo caso, dunque, il restauro affida a un’opera d’arte e al suo potere evocativo il compito di ricostruire l’antico. Come nasce questa singolare soluzione? «La scelta è nata in primo luogo da un’esigenza di carattere conservativo, nell’ambito della riqualificazione dell’intero parco archeologico di S. Maria di Siponto. La copertura delle antiche strutture della basilica paleocristiana, in particolare dei mosaici, è stata progettata per consentire la visita da parte dei turisti. Nel corso del processo di progettazione, quindi, l’intento è stato quello di coniugare gli aspetti ricostruttivi dell’alzato della chiesa con le esigenze di conservazione. E lo abbiamo fatto con questa struttura metallica che suggerisce senza ricostruire, Parco archeologico di S. Maria di Siponto (Manfedonia, Foggia). Un particolare dell’installazione che ricostruisce la basilica medievale.

22 a r c h e o


riproducendo perfettamente le forme della basilica: l’abside, i pilastri, le colonne e le capriate. Quello che emerge è trasparenza e leggerezza». L’opera è stata realizzata da una squadra di giovani creativi, sulla base di un progetto condiviso con gli archeologi, i quali, nel frattempo, hanno ultimato gli scavi nella basilica. La ricostruzione «artistica», quindi, ha una diretta valenza scientifica? «Certo. Il progetto è stato sostenuto e promosso dalla Soprintendenza Archeologia della Puglia, proprio perché l’opera è del tutto rispondente alle metodologie del restauro conservativo contemporaneo: è interamente reversibile e ha solide basi filologiche e scientifiche. Si tratta di un’ipotesi, ma è basata sullo studio scientifico del contesto. E, ci tengo a sottolinearlo, l’installazione artistica dà valore aggiunto a tutto l’intervento di valorizzazione del parco archeologico, finanziato con i fondi europei 2007-2013». L’investimento complessivo è stato di 3,5 milioni di euro, 900 000 dei quali sono stati spesi per realizzare l’opera artistica. Crede che, investendo nell’innovazione e nell’industria creativa, sia davvero possibile re-immettere il parco archeologico di Siponto nel circuito turistico del Gargano? «Ragioniamo in termini attrattivi per il turismo: all’interno di un parco archeologico interessante, ma non unico al mondo, come quello di Siponto, anche una basilica paleocristiana conservata in fondazione può essere resa attraente e unica». Ci vuole anche un pizzico di coraggio per valorizzare in un modo cosí «alternativo» un piccolo sito come Siponto… «Siamo stati coraggiosi per aiutare la fruizione, ma, soprattutto, la comprensione del sito, cosa che

–altrimenti – sarebbe stata difficile. Non è facile immaginare la terza dimensione di un edificio a partire dalle fondazioni, a meno che non ci si trovi a Pompei. Noi non lo abbiamo fatto con l’anastilosi o la ricostruzione in muratura, ma con l’opera di ingegno di un artista». All’interno del parco archeologico, che cosa si può visitare dell’antica Sipontum? «Tutta la città di epoca romana è stata scavata, ma è molto difficile assicurarne la manutenzione, per cui ci siamo concentrati sulla basilica: uno dei monumenti piú rappresentativi dell’intero contesto archeologico. L’aspetto caratteristico dell’edificio, fondato alla fine del V secolo d.C., è che Una delle colonne della basilica medievale di Siponto «ricostruita» con rete metallica, cosí da restituirne la fisionomia originaria.

riutilizza i resti in opus reticolatum di una domus di età augustea, ancora oggi ben visibili in fondazione. Non dimentichiamo che Sipontum, fondata nel 189 a.C., fu una della prime colonie romane. Il progetto prevede, in futuro, la valorizzazione dell’insediamento antico e altomedievale, che arriva fino al XIII secolo. I resti archeologici piú consistenti sono riferibili alla città altomedievale. Le fasi dell’XI, XII e XIII secolo sono state ampiamente scavate: l’obiettivo è presentarle al pubblico con una mostra allestita presso il complesso abbaziale di S. Leonardo di Siponto. Qui valorizzeremo le fasi successive al 1200, periodo in cui, in seguito a un terremoto, la città viene progressivamente abbandonata». Il parco archeologico di S. Maria di Siponto rappresenta, come lei ha sottolineato, un’esperienza ben riuscita di valorizzazione di un piccolo sito archeologico. Cosa che – ahimè – non sempre accade in Puglia. Quali sono gli interventi prioritari, a suo avviso, per «risollevare» le sorti delle tante testimonianze archeologiche che offre il territorio pugliese? «Grazie ai fondi europei, stiamo già conducendo l’importante opera di recupero e valorizzazione dei siti archeologici pugliesi. Ciò che manca – perché occorre coinvolgere gli Enti locali – è mettere in rete tutti questi beni e definire modelli di gestione che ne consentano la piena valorizzazione, l’accesso, la fruizione, il funzionamento e la manutenzione. Su questo siamo ancora indietro. La situazione, sul territorio, è a macchia di leopardo. Ci sono siti archeologici lasciati a se stessi e altri chiusi al pubblico. In questo senso, Siponto rappresenta una sfida: riuscire a dare impulso allo sviluppo del territorio attraverso la valorizzazione delle testimonianze archeologiche».

a r c h e o 23


n otiz iario

MOSTRE Cortona

COSÍ SCRIVEVANO GLI ETRUSCHI

L

a diffusione della scrittura etrusca è un tema affascinante, che evoca l’introduzione di una lingua e di una cultura per mezzo di conquiste, contatti commerciali, scambi di idee, diretti o mediati, in tutto il bacino del Mediterraneo fra il VII e il I secolo a.C. Caratteristica saliente di questo idioma è che, a oggi, nonostante le acquisizioni scaturite dagli studi e benché l’etrusco si possa leggere con una certa facilità (utilizza un tipo di alfabeto greco), non è ancora ben compreso, soprattutto nei significati specifici delle parole, che non presentano parentele comuni con lingue antiche piú note (soprattutto quelle indoeuropee, come il greco e il latino). Questo ritardo dipende essenzialmente dai pochi testi lunghi disponibili (e,in

particolare, dalla perdita di tutta la letteratura etrusca), e dalla brevità e ripetitività di altri tipi di testo, di natura funeraria, giuridica o commerciale. Tutto ciò ha contribuito a creare intorno alla lingua e al popolo etrusco un alone di mistero, alimentato anche dalla distorsione della loro immagine, derivata dagli scavi archeologici ottocenteschi, che miravano a indagare i sepolcri, con tutto quel che ne consegue rispetto al tema della ritualità, e dell’idea immanente di preparazione meticolosa al momento della morte. Le recenti scoperte di epigrafi etrusche nel sito di Lattes, presso Montpellier, che attestano la presenza stabile di probabili mercanti etruschi in terra francese; il ritrovamento, pochi anni orsono, a Cortona, del terzo testo etrusco piú lungo al mondo, la Tabula Cortonensis; nonché il progredire degli studi hanno portato il Museo del Louvre, il Museo Henri Prades di Lattes, e il MAEC di Cortona – da tempo legati da rapporti scientifici –, a progettare una mostra che dà conto delle ricerche piú recenti sul tema. Una scelta di documenti, tra i quali alcune testimonianze maggiori dell’epigrafia etrusca (dalla Mummia di Zagabria alle lamine di Pyrgi), e piú in generale della pratica della scrittura nel La Tabula Cortonensis, una lamina bronzea contenente sui due lati un’iscrizione di carattere giuridico, che, con le sue circa 200 parole, è il terzo testo etrusco per lunghezza a oggi noto. II sec. a.C. Cortona, MAEC.

24 a r c h e o

Mediterraneo antico, illustra la diversità dei supporti e delle tecniche della scrittura, ma anche le acquisizioni della ricerca. L’esposizione fa luce su tutti questi aspetti, dimostrando, con un nuovo catalogo, il progredire degli studi nella sintassi e nella grammatica, attraverso una rilettura o nuova presentazione di molteplici epigrafi, alcune delle quali di novità assoluta. In particolare, le iscrizioni, spesso pertinenti a oggetti di uso quotidiano, di culto, oppure veri e propri atti giuridici, statue, vasi, vengono inquadrate per settori di appartenenza: dalla sfera del rito, a quella del sacro, dall’ambito funerario a quello giuridico, per spiegare come, nel tentativo di comprendere un documento scritto, sia necessario riferirsi anche al contesto nel quale esso era collocato. Un altro aspetto importante riguarda i supporti e le tecniche scrittorie, le modalità di insegnamento e di trasmissione dell’alfabeto, le tipologie letterarie attestate, le vicende, talora avventurose, di alcuni testi lunghi (la mummia di Zagabria, la Tabula Cortonensis, la Tabula di Capua, il cippo di Perugia, le lamine di Pyrgi). (red.)

DOVE E QUANDO «Etruschi maestri di scrittura» Cortona, MAEC-Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino al 31 luglio Orario tutti i giorni, 10,00-19,00 Info tel. 0575 637248; e-mail: info@cortonamaec.org; http://etruschimaestridiscrittura. cortonamaec.org Catalogo Silvana Editoriale



n otiz iario

MOSTRE Piemonte

NEL SEGNO DELLA CONTAMINAZIONE

U

na selezione delle opere di uno dei maestri del Novecento, Enrico Colombotto Rosso (1925-2013), è esposta, nella suggestiva cornice del Deposito Museale di Pontestura (Alessandria), insieme a reperti egizi. Personaggio coltissimo e dalla mente vivace, Colombotto Rosso – definito da Vittorio Sgarbi come un «puro spiritualista estraneo a ogni contaminazione con la realtà, in nome di un aristocratico distacco di una pittura dell’anima nella quale, come spiegava Bataille, c’è spazio anche per il male, per gli abissi dove l’uomo rischia di perdersi senza possibilità di riscatto» (in Surrealismo Padano, catalogo della mostra, Milano 2002) – aveva subito il fascino dell’antico Egitto, tanto da arrivare a esporre alcune sue opere al Museo Egizio di Torino, nel 2003. I materiali egizi, mummie di animali e umane, provengono da una collezione inedita del Museo delle Scienze di Brescia, e, uniti a una ricca documentazione fotografica, descrivono le tematiche della mostra: la dualità, la metamorfosi, gli dèi multiformi, gli animali divini, la vita, la morte, il misticismo, le mummie. Un connubio di due mondi, un legame sofisticato, non necessariamente artistico, ma filtrato attraverso la metamorfosi, la vita, la morte, il macabro, l’antropologia e l’interesse verso l’essere umano e gli animali. La mostra è un viaggio tra elementi naturali, ancestrali e duali: tra vita e morte, luce e buio, dolore e piacere; un ponte attraverso il tempo.

26 a r c h e o

A destra: Testa (Mezzo Busto), tempera su cartoncino di Enrico Colombotto Rosso. 2000. In basso: testa di una mummia maschile. Epoca Tarda (774-332 a.C.). Brescia, Museo di Scienze Naturali. Un percorso storico e artistico che vuole essere colto e raffinato, ma anche forte e coraggioso, e nel quale la fusione tra la ricerca iconografica e lo studio scientifico porta il visitatore a guardare un’opera e un reperto con occhi nuovi e da un punto di vista inedito. Sabina Malgora

DOVE E QUANDO «Rosso egizio. Dialogo iconografico tra Colombotto Rosso e l’antico Egitto» Pontestura (Alessandria), Deposito Museale fino al 23 ottobre Orario la mostra è visitabile dalle 10,00 alle 12,30 e dalle 16,00 alle19,00, nei seguenti giorni: 10 e 24 aprile, 8, 15 e 29 maggio, 12 e 26 giugno, 10 luglio, 11 e 25 settembre, 9 e 23 ottobre; aperture straordinarie su prenotazione Info tel. 0142 79051 (Labirinto); e-mail: mummyproject@libero.it; depositomusealepontestura@ gmail.com; Fb Deposito Museale Pontestura, fb Rosso Egizio



n otiz iario

INCONTRI Roma Luciano Calenda

OMAGGIO A UN MAESTRO

I

l prossimo 23 maggio, l’Odeion della Sapienza Università di Roma ospita il convegno internazionale «The gods of the others, the gods and the others. Forms of acculturation and construction of difference in the Egyptian religion. Journée d’études in memory of Sergio Donadoni» («Gli dèi degli altri, gli dèi e gli altri. Forme di acculturazione e costruzione della differenza nella religione egiziana. Giornata di studi in memoria di Sergio Donadoni»). Il convegno intende esplorare in che modo la nozione di altro sia stata recepita dalla religione dell’Egitto faraonico, soffermandosi tanto sulla sfera dell’immaginario, quanto su quella del reale. Gli altri e gli dèi saranno dunque i

ARCHEOFILATELIA partire dai gruppi sociali che lo hanno prodotto. Alla giornata di studi è prevista la partecipazione di autorevoli studiosi italiani e stranieri, tra cui: Paola Buzi (Sapienza Università di Roma), Christiane Zivie-Coche (Paris, École pratique des Hautes Études), Angelo Colonna (Sapienza Università di Roma), Dimitri Meeks (Montpellier, CNRS), Marilina Betrò (Università di Pisa), Verena Lepper (Ägyptisches Museum und Papyrussammlung, Berlin), Manfred Bietak (Österreichische Akademie der Wissenschaften), Francesca Iannarilli (Università Ca’ Foscari, Venezia), Martin Bommas (University of Birmingham), Valeria Turriziani (Sapienza Università di Roma). (red.) The Gods and Their Makers, olio su tela di Edwin Long. 1878. Burnley (Lancashire), Towneley Hall Art Gallery and Museum.

due principali assi di riflessione e il rapporto che tra essi intercorre verrà esaminato a diversi livelli: dèi stranieri nel pantheon egiziano, dèi egiziani attivi o mobili attraverso spazi e tempi altri, carattere liminare di specifiche divinità e relative peculiarità cultuali, ecc. Principale obiettivo dell’incontro è quello di definire il modo in cui l’altro è stato assorbito nel sistema religioso egiziano e come ha agito nel plasmare personalità divine e nello strutturare (dis)connessioni, a

28 a r c h e o

DOVE E QUANDO «The gods of the others, the gods and the others. Forms of acculturation and construction of difference in the Egyptian religion. Journée d’études in memory of Sergio Donadoni» Sapienza Università di Roma, Facoltà di Lettere e Filosofia, Odeion 23 maggio 2016 Info www.lettere.uniroma1.it

È SEMPRE ORO QUEL CHE LUCE Nello scorso gennaio, l’Università di Padova ha ospitato un seminario internazionale che ha trattato tutti gli aspetti dell’influenza del «metallo giallo» sulla vita e sulla società fin dal suo nascere (vedi, in questo numero, lo Speciale alle pp. 86-101). Alcuni temi degli interventi presentati ben si prestano a flash «filatelici» attraverso i quali si può seguire lo stesso percorso dell’incontro. L’oro venne creato dalla collisione di due supernove e si disperse nell’universo (1) in embrioni di pianeti, tra cui la terra, anche se in quantità veramente minima, ove è stato recuperato, e lo è tuttora, sotto forma di pepite fluviali (2), oppure scavando in miniere a cielo aperto, come quella di Kilo-Moto nella Repubblica Democratica del Congo (3) o sotterranee, come la piú profonda al mondo, quella di Tau-Tona in Sud Africa a 3900 m (4). Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, oggi la maggior quantità di oro non è stivata nei caveau delle banche sotto forma di lingotti (5), ma trasformata in gioielli e monili femminili (6); e proprio di questo impiego nel mondo antico si sono occupati gli studiosi convenuti a Padova. Si è parlato del tesoro di Varna, in Bulgaria, che comprende circa 3000 oggetti d’oro (7), cosí come dei manufatti scoperti nei tumuli funerari della Georgia occidentale, risalenti al III-II millennio a.C. La tradizione aurea georgiana è poi proseguita fino al VI-IV secolo a.C., con ricchissimi ritrovamenti


di oggetti d’oro (8), a conferma che proprio la Georgia (chiamata in antico Colchide) era la terra del viaggio di Giasone alla ricerca del «vello d’oro» (9). Molti reperti aurei provengono da altri Paesi, come il Kazakistan (10) o la Macedonia (11) e, tra questi, vanno annoverati i famosi ori dei Macedoni trovati a Verghina (12). Né si possono dimenticare quelli trovati da Heinrich Schliemann a Micene (13) e Troia (primo fra tutti, il magnifico pettorale fatto indossare dall’archeologo tedesco alla moglie Sofia,14) e poi i numerosi manufatti che attestano le vette di eccellenza raggiunte dai maestri orafi etruschi (15). Inoltre, l’oro è sempre stato, nei secoli, simbolo di ricchezza, adoperato per guarnire tessuti, anche religiosi (16), mosaici, come quelli di Ravenna, i troni dei regnanti (17) o i mobili nelle case nobiliari (18) fino ai soprammobili (come la saliera cesellata da Benvenuto Cellini, 19). Il seminario di Padova ha offerto ai partecipanti anche l’occasione di visitare il Museo del Gioiello di Vicenza, nella prestigiosa Basilica Palladiana (20), e quello di Santa Giulia, a Brescia, che conserva la famosa Croce gemmata detta «di Desiderio», perché convenzionalmente attribuita all’ultimo re dei Longobardi (21).

1

2

3

5

6

4

9

7

8

12

10

13

11

16

14

15

17

18 20

19

21

IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it

a r c h e o 29


CALENDARIO

Italia

NAPOLI Mito e natura

ROMA Symbola. Il Potere dei Simboli

Recuperi archeologici della Guardia di Finanza Stadio di Domiziano fino al 15.04.16

Campidoglio

Mito, memoria, archeologia Musei Capitolini fino al 19.06,16

ADRIA (ROVIGO) L’arte della guerra

Qui sopra: Modern Rome. Campo Vaccino, olio su tela di William Turner. 1839.

Meraviglie dello Stato di Chu Museo Nazionale Archeologico fino al 25.09.16

RAVENNA S.I.R.I.A.

Identità storia memoria di una comunità Sala di Città del Municipio fino al 29.05.16

COLLEFERRO (ROMA) Il «Tesoro» dei Conti

TORINO Il Nilo a Pompei

Museo Archeologico del Territorio Toleriense fino al 30.06.16 (prorogata)

Un esemplare di yong, campana in bronzo. 475-221 a.C.

FINALE LIGURE (SAVONA) Sulle orme del passato

in viaggio con l’archeologo sulle Vie della Seta e delle Spezie Museo Archeologico del Finale fino al 26.06.16

MANTOVA Salvare la Memoria (la bellezza, l’arte, la storia) Storie di distruzioni e rinascita Museo Archeologico Nazionale fino al 05.06.16

La devozione religiosa a Pompei antica e moderna. Antiquarium degli Scavi fino al 27.11.16 (dal 30.04.16)

SAN LAZZARO DI SAVENA (BOLOGNA) Aqva Fons Vitae

Capolavori dal Museo Ermitage e dai Musei della Sardegna Palazzo di Città fino al 10.04.16

Meraviglie dello Stato di Chu Museo Nazionale Atestino fino al 25.09.16

Un artigiano alla corte dei Faraoni Palazzo Zuckermann fino al 19.06.16

Salvezza, Illuminazione e Redenzione nell’Iconografia dell’Architettura-Mosaici pavimentali siriani TAMO, Tutta l’Avventura del Mosaico fino al 06.01.17

CAGLIARI Eurasia. Fino alle soglie della storia

ESTE (PADOVA) I suoni del Fiume Azzurro

PADOVA Pashedu

POMPEI Per grazia ricevuta

Tra Roma e Bisanzio

La basilica di Santa Maria Antiqua e le sue pitture Foro Romano, S. Maria Antiqua fino all’11.09.16

Dalla Grecia a Pompei Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.16

In basso: veduta di Palmira, in Siria.

Visioni d’Egitto nel mondo romano Museo Egizio fino al 04.09.16

TRENTO Ostriche e vino

In cucina con gli antichi romani Spazio Archeologico Sotterraneo del Sas fino al 30.09.16

VERONA Palafitte

Un viaggio nel passato per alimentare il futuro Museo Civico di Storia Naturale fino al 10.04.16

VILLANOVA DI CASTENASO (BOLOGNA) Apparecchiare per i vivi e per i morti I Villanoviani di pianura a partire dagli scavi di Elsa Silvestri MUV, Museo della civiltà Villanoviana fino al 05.06.16

30 a r c h e o

Qui sotto: particolare della ricostruzione della tomba di Pashedu, artigiano e artista dell’era di Ramesse II.

Qui sopra: Hama (Siria), Palazzo Azem. Mosaico raffigurante il Santo Sepolcro, VI sec. d.C.


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Austria VIENNA Monetazione e potere nell’antico Israele

Materiali dalle collezioni dell’Israel Museum di Gerusalemme Kunsthistorisches Museum fino al 01.05.16

Belgio BRUXELLES Sarcofagi

Sotto le stelle di Nut Musée du Cinquantenaire fino al 20.04.16

Djehoutihotep

100 anni di scavi archeologici in Egitto dell’Università Cattolica di Lovanio Musée du Cinquantenaire fino al 20.04.16

Francia PARIGI Sciamani e divinità dell’Ecuador precolombiano Musée du quai Branly fino al 15.05.16

Arte della preistoria

Pitture rupestri dalla Collezione Frobenius Martin-Gropius-Bau fino al 16.05.16

COLONIA Palmira, cosa rimane?

Louis-François Cassas e il suo viaggio nell’Oriente Wallraf-Richartz Museum fino all’08.05.16

Gran Bretagna LONDRA Sicilia: cultura e conquista The British Museum fino all’14.08.16 (dal 21.04.16)

Grecia ATENE Un sogno tra splendide rovine...

Una passeggiata nell’Atene dei periegeti, XVII-XIX secolo Museo Archeologico Nazionale fino all’08.10.16

Svizzera HAUTERIVE Dietro la Grande Muraglia

Da Ercole a Dart Fener Musée du Louvre, Petite Galerie fino al 04.07.16

La Mongolia e la Cina al tempo dei primi imperatori Laténium, parc et musée d’archéologie de Neuchâtel fino al 29.05.16

LE GRAND-PRESSIGNY Neandertal

USA

Miti fondatori

Un mistero preistorico Musée de la Préhistoire fino al 16.05.16

SAINT-ROMAIN-EN-GAL Il combattimento di Entello e Darete

Mosaici restaurati da Aix-en-Provence Musée gallo-romain fino al 24.04.16

Germania BERLINO Combattere per Troia

Le sculture del tempio di Egina «contro» i restauri di Bertel Thorvaldsen Altes Museum fino al 16.05.16

Qui sotto: la triscele dipinta su un vaso da Palma di Montechiaro. 650-600 a.C.

Qui accanto: statuina in terracotta policroma di dama di corte. Epoca Han, 206 a.C.220 d.C.

NEW YORK Pergamo e i regni ellenistici del mondo antico The Metropolitan Museum of Art fino al 17.07.16 (dal 18.04.16)

PHILADELPHIA L’età d’oro del re Mida

Tesori dalla Turchia antica University of Pennsylvania Museum of Archaeology and Anthropology fino al 27.11.16 A destra: Friedrich (von) Thiersch, L’Acropoli di Pergamo. 1882. a r c h e o 31


EGITTO • DIONYSIAS

DIONYSIAS

CITTÀ DEI SEGRETI SENZA SCAVARE, MA AVVALENDOSI DELLE METODOLOGIE D’INDAGINE PIÚ AVANZATE, GLI ARCHEOLOGI DELL’UNIVERSITÀ DI SIENA HANNO AVVIATO NUOVE RICERCHE NEL SITO GRECO-EGIZIANO. EMERGONO COSÍ LA PIANTA DELL’INSEDIAMENTO E LA STRAORDINARIA VARIETÀ DELLE SOLUZIONI ADOTTATE PER NASCONDERE GLI AMBIENTI PIÚ ESCLUSIVI DEL TEMPIO CITTADINO

Qasr el-Sagha Bakchias

Soknopaiou Nesos Karanis

Qa ru n Dionysias

Bir

kt Philadelphia

Philoteris Euhemeria Theadelphia

Crododilopolis / Arsinoe Hawara

di Emanuele Papi, con contributi di Gabriella Carpentiero, Luca Passalacqua e Leonardo Bigi Sulle due pagine: foto da satellite dell’area corrispondente al Basso Egitto, nella quale si riconosce l’oasi del Fayyum (i cui siti piú importanti sono indicati nella cartina). 34 a r c h e o

Lahun

Narmouthis Fayyum

Tebtynis

N

E G IT TO 0

20 Km

N

il

o


Dionysias. Il tempio di Sobek fotografato dall’aquilone.

L’

antica Dionysias era un villaggio abitato da contadini, artigiani, sacerdoti e carovanieri greco-egiziani, nonché da soldati dell’esercito romano. Con altre decine di borghi, venne fondato, all’indomani della bonifica (vedi box a p. 36), dai Tolomei, la dinastia greco-macedone che regnò in Egitto dopo la morte di Alessandro Magno (323 a.C.) fino al suicidio di Cleopatra e all’annessione da parte dell’impero di Roma nel 30 a.C. I sovrani tolemaici avevano riformato l’Egitto e la sua amministrazione: Dionysias fu assegnata al distretto di Arsinoe, cosí chiamato dal nome della madre e della sorella/moglie di Tolomeo II Filadelfo (308-246 a.C.). Per battezzare i nuovi villaggi del

Fayyum, i sovrani si ispiravano anche agli dèi piú venerati, come Dioniso, al quale Dionysias fu appunto dedicata. Il villaggio entrò quindi a far parte dell’impero di Roma e di Bisanzio; l’ultimo documento che lo nomina è un papiro del VI secolo d.C. Poco piú tardi, il centro venne abbandonato a causa dell’insabbiamento dei sistemi di irrigazione, come alla metà del XIII secolo attestò anche il governatore della regione ‘Uthman Al-Nabulsi.

UN EQUIVOCO... RIVELATORE Il sito si trova ai margini del deserto a tre chilometri dal lago Qaroun (l’antico Moeris), quasi completamente coperto dalla sabbia e segna-

to dalla mole di un grande tempio di pietra, restaurato una trentina di anni fa dal Supreme Council of Antiquities (la Soprintendenza alle Antichità, n.d.r.) del Governo egiziano. In superficie affiorano i resti dell’insediamento antico: muri, statue, decorazioni, macchinari e suppellettili di pietra, ceramiche. Fuori dall’abitato si innalza la tomba di un’eminente famiglia del posto, costruita nel III secolo d.C. a forma di tempietto greco-romano. Dal 1600 e sino alla fine dell’Ottocento, Dionysias ha goduto di una fortuna immeritata e... fondata su un equivoco. Nel V secolo a.C. lo storico greco Erodoto aveva visitato e descritto un famoso labirinto del Fayyum, che lo aveva a r c h e o 35


EGITTO • DIONYSIAS

Bonifiche e sistemi di irrigazione Il sito di Dionysias, oggi chiamato Qasr Qaroun, si trova nel Fayyum, una depressione di 18 000 kmq nel deserto occidentale egiziano, a un centinaio chilometri dalle piramidi di Giza. La regione, nella quale confluisce un corso d’acqua parallelo al Nilo, il Bahr Youssef (l’antico Tomis), è stata bonificata tre volte: nel II millennio a.C. dai faraoni della XII dinastia Sesostri II (1898-1881 a.C.) e Amenemhat III (1861-1813), poi verso la metà del

impressionato piú delle stesse piramidi: un edificio enorme, provvisto di ben 3000 stanze, metà delle quali erano cripte segrete. Era il tempio-tomba del faraone Amenemhat III, qui sepolto nel 1801 a.C. L’edificio era stato riscoperto nel XVII secolo, basandosi sulle notizie offerte dai testi antichi, dall’erudito gesuita Athanasius Kircher (1602-1680), il quale, con una certa immaginazione, ne aveva ricostruito anche la pianta. Fu definitivamente identificato a Hawara, nella seconda metà del XIX secolo, dall’archeologo britannico Sir William Flinders Petrie. (1853-1942). Fino ad allora si era però creduto che il tempio di Dio36 a r c h e o

III secolo a.C. per iniziativa del sovrano Tolomeo II e sotto la direzione dell’ingegnere Cleone e, infine, circa un secolo fa, nel periodo del protettorato inglese sull’Egitto (1914-1922). Irrigate dall’acqua attinta da canali con sistemi tradizionali a leva (shaduf) e con ruote idrauliche (sakia), le terre erano utilizzate per le coltivazioni in un paesaggio non molto diverso da quello attuale: palme, olivi, alberi da frutta, legumi, ortaggi e cereali.

nysias fosse il labirinto di Erodoto e numerosi viaggiatori, esploratori e archeologi avevano affrontato gli itinerari nel deserto per visitare quei famosi resti.

AUTOGRAFI ILLUSTRI La storia di queste esplorazioni è segnata sulle pareti del tempio dalle decine di firme lasciate dai visitatori, che spesso descrissero e disegnarono anche le rovine: antiquari di Luigi XIV, missionari gesuiti, vescovi della Chiesa anglicana, ingegneri al seguito di Napoleone, archeologi tedeschi, insieme a tanti altri meno famosi; anche il viaggiatore ed egittologo padovano Giovanni Battista Belzoni (1778-1823) aveva rag-

giunto Dionysias nel 1819, ma il suo autografo non è stato trovato. Gli scavi iniziarono alla fine dell’Ottocento. Bernad P. Grenfell e Arthur S. Hunt, i famosi cercatori di papiri per conto dell’Egypt Exploration Fund (avevano scoperto i papiri di Ossirinco oggi al British Museum), indagarono il sito tra il 1898 e il 1899, ma, delusi dalla penuria dei ritrovamenti, abbandonarono l’impresa; a loro si deve la corretta identificazione delle rovine con il villaggio di Dionysias citato dai papiri (vedi box a p. 37). Nel 1940 e nel 1950 si aprirono gli scavi dell’Università di Ginevra e dell’Institut Français d’Archéologie Orientale del Cairo che porta-


A sinistra: il tempio di Dionysias, situato in fondo alla via processionale. In basso: acqua attinta dal Nilo con il sistema dello shaduf, una sorta di grande bilanciere, in una foto scattata intorno al 1890. L’uso di simili dispositivi è attestato già nel III mill. a.C.

rono alla luce il forte dei soldati romani (l’ala quinta Praelectorum), una costruzione di quasi 6000 mq, impiantata agli inizi del IV secolo d.C. per ospitare un manipolo di cavalieri con compiti amministrativi, di controllo delle tribú del deserto e di polizia. Le caserme erano attraversate da una via colonnata, in fondo alla quale si trovava il quartier generale con il tempio dedicato alla dea Nemesi, circondato dagli alloggi dei soldati e dagli altri edifici necessari ai militari (magazzini, armerie, infermerie, archivi, mentre le terme si trovavano fuori le mura). A Philadelphia, una città distante una sessantina di chilometri da Dionysias, è stato rinvenuto

NOTIZIE DAI PAPIRI E DELLE ISCRIZIONI L’esistenza di Dionysias è attestata già nel 229-228 a.C.: in greco veniva chiamato «villaggio di Sobek» o «villaggio nuovo di Dionysias», in demotico «P3 ‘wj Tjwnss». All’epoca della fondazione era abitato da 1200-1500 persone. La popolazione era composta da Greci (forse il 20%) e da Egiziani, i militari inviati da Roma erano reclutati sul posto o stranieri. Nei primi anni, le terre erano coltivate soprattutto a cereali e parte della produzione annua ammontava a oltre 10 000 artabe, pari a circa 300 000 litri (= 200 tonnellate circa). Nel 185-184 a.C. il birraio Sochotes pagò una tassa per la produzione della birra. Un certo Heliodoros figlio di Eudaimon, magistrato dei lavori pubblici nel villaggio, aveva costruito la via processionale davanti al tempio nel 185 (o nell’85) a.C. Nel 155 d.C. dieci cammellieri trasportarono il grano del villaggio in un altro distretto del Fayyum. Nei pressi della città si trovavano miniere di rame. Nel 283 d.C. il governo romano procedette alla manutenzione dei canali. Nel III secolo d.C. 300 abitanti risultavano evasori fiscali, il numero piú alto di tutti i villaggi del Fayyum.

a r c h e o 37


EGITTO • DIONYSIAS

l’archivio di Flavius Abinnaeus, il comandante del forte alla metà del IV secolo a.C. Ottanta papiri ci informano sulla vita che si svolgeva nelle caserme e sulle tasse che gli agenti di Abinnaeus riscuotevano dai contadini. Gli scavi portarono alla luce anche alcune abitazioni, un’officina per la produzione di vetri, parte del reticolo stradale e un quartiere periferico.

LA RIPRESA DELLE INDAGINI Nel 2009, l’Università di Siena, avvalendosi del sostegno del Ministero degli Affari Esteri, ha avviato nuove ricerche a Dionysias. Il progetto non prevede scavi e viene realizzato con un lavoro di squadra, integrando tecniche e metodologie per conoscere il sito attraverso la sua storia, costruendo ed elaborando nuove informazioni. Il rilievo 3D del terreno con un GPS satellitare ha creato la base cartografica e rivelato il potenziale archeologico; l’analisi delle fotografie scattate con un aquilone e delle immagini satellitari ad alta

risoluzione, insieme alle indagini geofisiche e al rilievo delle strutture ancora visibili, hanno ricostruito l’urbanistica dell’insediamento; la mappatura e il disegno dei macchinari in pietra hanno identificato alcune importanti produzioni agricole e i procedimenti di fabbricazione dell’olio; la raccolta e la classificazione dei materiali di superficie hanno permesso di conoscere i prodotti trasportati nelle anfore, i luoghi di origine e i commerci a lunga distanza; il rilievo del tempio con stazione totale e fotogrammetria 3D ha consentito, per la prima volta, di comprendere

Le installazioni militari Planimetria delle caserme romane scavate nel 1948 a Dionysias dall’Università di Ginevra e dall’Institut Français d’Archéologie Orientale del Cairo e, nella foto sulle due pagine, i resti delle strutture a esse riferibili.

38 a r c h e o

La firma del vescovo In alto: la firma incisa sul tempio di Dionysias dal vescovo anglicano Richard Pococke (1704-1765) associata a un suo ritratto, in abiti di foggia orientale, dipinto nel 1740 da Jean-Etienne Liotard e conservato presso il Musée d’Art et d’Histoire di Ginevra. A destra: la fantasiosa ricostruzione del labirinto erroneamente situato a Dionysias, elaborata da Athanasius Kircher. La struttura, descritta da Erodoto nel V sec. a.C., era stata costruita come tempio-tomba del faraone Amenemhat III.


il piú importante monumento della città e di localizzare le numerose stanze segrete.

IL CONCIME DELLA STORIA Sebakh e sebakhin sono parole importanti nel lessico archeologico del Fayyum e dell’Egitto in generale. Il sebakh è il dissolvimento delle strutture antiche costruite con il fango che contiene materiali organici con nitrati e sali di potassio e costituisce un ottimo concime per la terra. I sebakhin sono i contadini che si dedicavano, e si dedicano tutt’oggi, al suo recupero. I siti antichi abbandonati si presentano come montagnole di fango decomposto e sono cave disponibili a cielo aperto da cui estrarre il sebakh. Alla distruzione dei siti egiziani causata da tale pratica «contribuí» in maniera determinante la guerra civile americana: il conflitto fece infatti bruscamente diminuire la produzione del cotone d’oltreoceano, che venne compensata dallo sviluppo intensivo delle piantagioni

a r c h e o 39


EGITTO • DIONYSIAS

logiche. Nelle pareti di alcune fosse di spoliazione si vedono i livelli stratificati (ritmiti) del lago Qaroun/Moeris prima della bonifica di Tolomeo II. Dionysias, infatti, sorse in parte sopra il lago prosciugato e in parte sulla calcarenite naturale.

egiziane, il cui sfruttamento ebbe come conseguenze l’impoverimento dei terreni e la necessità di ingrassare i suoli. Dal sebakh, inoltre, si ricavava il salnitro per le polveri da sparo. E molti siti del Fayyum sono stati in gran parte distrutti dall’attività dei sebakhin. A Dionysias il rilievo 3D del terreno è stato eseguito per creare una base cartografica e anche per identificare quali parti del villaggio fossero state rimosse e quali si fossero invece conservate e avrebbero quindi potuto restituire informazioni archeo-

40 a r c h e o

In alto: il deposito formato dai livelli del lago Qaroun/Moeris prosciugati durante la bonifica del III sec. a.C. e sul quale venne fondato il villaggio. Nella pagina accanto: tipi di macine olearie in uso a Dionysias. In basso: ricostruzione dell’insediamento basata sulle prospezioni geofisiche.

NEL GIORNO DEL SOLSTIZIO La città fu progettata con riga e squadra, partendo da un punto nel quale si intendevano costruire i tabernacoli del tempio e tirando una linea verso un secondo punto, nel quale il sole compare all’orizzonte il 21 dicembre, giorno del solstizio d’inverno (l’azimut di 118.5° determinò quindi l’orientamento). Su quell’asse fu costruito il tempio e tracciata la via delle processioni (dromos) che terminava con un ingresso monumentale («chiosco»). Gli isolati di forma quadrata o rettangolare furono innalzati a partire da questa via processionale, usando


una misura egiziana: il khet = 100 cubiti reali = 52,3 m. Le vie avevano misure fisse a seconda della loro importanza, che oscillano tra i 6,5 metri e i 50 cm. All’interno degli isolati si trovavano case-torri a cortile, tipicamente egiziane, due altri luoghi di culto – che in base ai papiri possiamo attribuire ad Arpocrate (figlio di Iside e di Osiride) e a Bubaste (la dea gatta) –, almeno tre terme, magazzini e granai, botteghe, officine e oleifici. La maggior parte delle strutture furono costruite impiegando la calcarenite locale, reperibile negli affioramenti vicino al villaggio. Analizzando i metodi di lavorazione dei blocchi, la messa in opera e i lavori di rifinitura, si distinguono 12 tipi di tecniche edilizie, adottate a seconda della destinazione degli edifici (per esempio i templi) e delle disponibilità economiche dei committenti.

PER IL DIO COCCODRILLO I mattoni crudi, che caratterizzano la costruzione della maggior parte degli altri villaggi del Fayyum, risultano poco utilizzati a Dionysias, cosí come i mattoni cotti, usati solo per alcune stanze dei bagni pubblici. Del tutto assenti sono i materiali per l’edilizia importati, come i marmi o i graniti egiziani, impiegati solo in qualche macina da cereali. L’acqua veniva attinta, probabilmente con ruote idrauliche, da due canali artificiali che scorrevano a sud della città e che servivano anche come vie di comunicazione e per il trasporto di uomini e merci. Non sappiamo come arrivasse nell’abitato, attraverso quali sistemi e condutture, e forse veniva trasportata anche a dorso di animale o a piedi. Il tempio era dedicato alla principale divinità del Fayyum: Sobek o Suchos in greco. Era il dio della fertilità e del potere, delle acque e delle inondazioni. Nelle immagini di Dionysias è rappresentato nella sua forma naturale o con il corpo di (segue a p. 44)

BUONO SOLO PER FAR LUCE L’olio era una produzione importante del Fayyum. Durante il regno dei Tolomei, lo Stato imponeva una pressione fiscale elevata sui prodotti e controllava la fabbricazione dell’olio spremuto dai semi di ricino, sesamo, cartamo, lattuga, lino e moringa, ai quali, gradualmente, si aggiunse anche quello di oliva e di rafano. Nel I secolo a.C. il geografo e viaggiatore greco Strabone menzionò i grandi olivi del Fayyum, da cui si otteneva un olio di scarsa qualità, buono solo per l’illuminazione. Dai papiri di età romana sono noti alcuni fabbricanti, tra i quali troviamo il veterano dell’esercito L. Bellienus Gemellus, che affittava anche i suoi oleifici in diversi centri della regione tra cui Dionysias. Nelle prospezioni del sito sono stati individuati circa 250 componenti in pietra dei macchinari impiegati negli oleifici: mortai, macine cilindriche e semisferiche. Sono stati anche identificati 31 locali per la produzione, databili alle ultime fasi di vita del villaggio.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

a r c h e o 41


EGITTO • DIONYSIAS

Ferma nel tempo

Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis

Gli abitanti di Dionysias – Egiziani, Greci, Romani e forestieri – vissero in un contesto tipicamente egiziano, che rimase uguale per secoli, segnato dal tempio, dal suo recinto mastodontico e dalla strada delle processioni. Anche gli dèi appartenevano al pantheon egiziano. Non c’erano portici, ginnasi, piazze o decorazioni delle architetture che richiamassero stili greco-romani, né di altre tradizioni del Mediterraneo. La maggior parte delle suppellettili di terracotta e delle anfore veniva fabbricata sul posto e raramente proveniva da fabbriche piú lontane. Le caserme costruite nel IV secolo d.C. adottarono un modello militare e internazionale e, nei due secoli di stanziamento dell’esercito, rimasero un mondo a parte e inaccessibile, insieme alla loro dea Nemesi. I soldati erano riforniti anche con prodotti importati dall’Egeo, dalla Tripolitania e dalla Tunisia, come vino, salse di pesce e olio di buona qualità, forse acquistati anche dagli abitanti che se lo potevano permettere. Solo le terme, con le vasche nelle sale circolari, replicavano il modello introdotto dal mondo greco e adottato da tutti senza ulteriori cambiamenti. In quel contesto omogeneo e quasi immutabile, solo il forte dei soldati e la tomba a forma di tempietto greco-romano, visibile uscendo dalla città, dovevano apparire edifici insoliti e forse stravaganti.

A sinistra: le sale in infilata del tempio con il sacello e i tabernacoli in fondo. 42 a r c h e o


I numeri del tempio 29,30 m di lunghezza 19,75 m di larghezza 10 m circa d’altezza 6000 mc di volume 53 stanze, di cui 30 cripte e vani occulti 70 000 circa i blocchi lavorati e impiegati per la costruzione 5000 t circa il loro peso complessivo

A sinistra: la planimetria del piano terreno del tempio. In basso: la cappella dell’attico (wabet) con le immagini di Sobek e del faraone.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

a r c h e o 43


EGITTO • DIONYSIAS

uomo e la testa di coccodrillo (i coccodrilli oggi scomparsi facevano parte del paesaggio antico); in una mano tiene l’ankh (la croce ad anello della vita) e nell’altra lo scettro was (un bastone con un’estremità ricurva e una biforcuta). Sobek era accompagnato da altri dèi (synnaioi theoi) che appaiono in varie raffigurazioni: Miysis, il dio leone, Maat, la dea dell’ordine con la piuma sulla testa,Tauret, con la testa di ippopotamo e il ventre gravido, Ammone e Anubi. Fino a oggi il tempio era conosciuto solo attraverso sei disegni incompleti, pubblicati tra il 1714 e il 1999. Le nuove esplorazioni e il rilievo sono stati quasi ultimati e hanno consentito di conoscere l’edificio nella sua interezza, superando non pochi ostacoli: l’oscurità, la difficoltà di penetrare nelle cripte, i crolli, le colonie di pipistrelli e le

Come un caveau A destra: sezione nord-sud del tempio: in rosso, le stanze occulte. Ne sono state individuate almeno 30, ricavate sotto i pavimenti, nello spessore dei muri e dietro alle pareti. Nella pagina accanto: ricostruzione grafica di alcuni sistemi di chiusura delle stanze.

44 a r c h e o

tane delle volpi (anche se i lavori si sono svolti in inverno e almeno i rettili erano in letargo). Il tempio non era visibile dall’esterno, perché circondato da un alto muraglione costruito in mattoni crudi: i sacerdoti potevano entrare e uscire da un grande portale (pylon) di fronte alla

Processione divina Rilievo proveniente dal tempio nel quale si riconosce un corteo di divinità: il secondo da destra è Sobek, il dio titolare del santuario.

via delle processioni, o da una porta secondaria sul retro. Gli edifici all’interno del recinto non si sono conservati e giacciono sotto la sabbia; in altri contesti religiosi del Fayyum troviamo le abitazioni dei sacerdoti, archivi e biblioteche, magazzini e granai, laghetti sacri e cappelle, e anche allevamenti di coccodrilli sacri. Al tempio si accedeva da una porta monumentale sulla facciata e da una seconda porta laterale. Il primo ambiente era un vestibolo con colonne, seguito da un’infilata di tre sale comunicanti, i cui pavimenti si alzavano progressivamente mentre i soffitti si abbassavano (creando un effetto «a cannocchiale»). L’ultima sala immetteva nel recesso piú sacro, quasi un tempio nel tempio, nel quale erano alloggiati tre tabernacoli, chiusi da sportelli per le statue principali del culto (la forma allungata consente di


ipotizzare che si trattasse di mummie o immagini di Sobek a forma di coccodrillo). Gli architravi delle porte principali erano decorati con il disco solare al centro e file di cobra in attacco (uraei) mentre le porte secondarie erano sormontate da modanature lisce («gole egizie») o da semplici architravi. Accanto alle sale centrali del piano terra si trovavano altri ambienti non comunicanti tra loro: cappelle, ripostigli per gli oggetti di culto e una stanza per il guardiano accanto alla porta secondaria. Due rampe di scale portavano al primo piano, articolato in due gruppi di stanze situate sui lati lunghi del santuario e, di lí, al terzo piano, con cortili e ambienti serviti da corridoi. In cima si trovava l’attico a cielo aperto, con una cappella (wabet o luogo puro), nella quale, in occasione del nuovo anno, si celebrava l’unione delle statue di culto e

Testa ritratto di un giovane faraone, dal tempio di Dionysias. La scultura è stata recuperata in occasione dell’intervento di restauro che ha interessato il santuario una trentina di anni fa.

delle mummie con il sole; nel muro di fondo si è conservata l’immagine di Sobek di fronte a un faraone con le braccia piegate in atto di fare un’offerta al dio.

LE STANZE SEGRETE In aggiunta alle 23 stanze accessibili, furono costruiti almeno 30 ambienti segreti (quasi 1/3 dello spazio complessivo), sotto i pavimenti, nello spessore dei muri e dietro alle pareti. L’ingresso a questi ambienti era complicato da macchinosi sistemi di chiusura, dei quali abbiamo identificato sette tipi: dalla semplice lastra pavimentale che nasconde una botola sottostante ai conci sagomati, incastrati l’uno nell’altro e indistinguibili dal resto della muratura, che dovevano essere sbloccati e rimossi; da blocchi che bisognava spingere in un determinato ordine e direzione a lastre verticali «a ghigliottina» da sfilare. Esistevano percorsi contorti e solo chi conosceva la posizione degli accessi e i vari meccanismi di aper-

a r c h e o 45


EGITTO • DIONYSIAS

tura poteva accedere alle stanze segrete nella quasi completa oscurità. Primo esempio: per entrare in un sotterraneo sotto ai tabernacoli era necessario accedere al sacello piú interno e sacro del tempio, poggiare una scala sul muro di fondo e rimuovere un blocco, entrare in una prima stanza segreta, aprire una botola, calarsi in un pozzo, scendere una rampa di scale e sbloccare nuovamente le pietre della parete che si parava di fronte e finalmente entrare in questa cripta segretissima.

A PROVA D’INTRUSO Secondo esempio: nello spessore dei muri perimetrali fu lasciato uno spazio vuoto verticale (come la tromba di un ascensore), suddiviso in tre settori; era possibile introdursi in quello piú in alto, sollevando una lastra del pavimento del terzo piano; per accedere a quello mediano, si doveva entrare in una stanza al piano terreno, usare una scala e rimuovere i blocchi del muro; per la cripta al piano terreno le cose erano ancora piú complicate e occorreva sollevare una pietra del pavimento, calarsi in una botola,

togliere una lastra «a ghigliottina», A destra: l’interno scendere alcune scale e sbloccare i del tempio di conci nel muro. Sobek, dio della Altre cripte si trovavano sotto le fertilità e del soglie delle porte e sotto i corridoi, potere, delle erano divise in parti separate con acque e delle ulteriori vani dietro ai muri. La inondazioni. funzione di queste stanze segrete non è sempre chiara: alcune servivano per il culto ed erano allestite con nicchie per ospitare mummie o statue di coccodrilli, altre per nascondere beni preziosi, come una sorta di caveau blindati e inaccessibili, tranne per chi conosceva gli accessi e la combinazione delle lastre e dei blocchi. Il tempio era completato da un sacello esterno appoggiato al muro di fondo di cui sono rimaste poche tracce (nel gergo archeologico è definito con il termine inglese di «contra-temple»). Non abbiamo informazioni precise sui rituali quotidiani, che dovevano verosimilmente comprendere le offerte, il lavaggio, l’unzione e la vestizione delle statue, né sulle liturgie particolari e periodiche. I percorsi interni e i sistemi di chiusura delle porte indicano che esistevano spostamenti e accessi differenziati e che

A sinistra: il rilievo con la stazione totale di una serie di cripte del tempio, profonde 7 m.

46 a r c h e o


Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

si poteva accedere al sacello principale e alle cappelle laterali da ingressi complementari senza aprire tutti i portoni delle sale centrali.

UNA DATAZIONE ANCORA INCERTA Per datare il tempio disponiamo di pochi dati, che si riferiscono a un periodo piuttosto ampio. I papiri attestano che il villaggio esisteva già nel 228 a.C. e abbiamo visto come da un punto di fronte ai tabernacoli si sia originata la pianta del tempio, della via delle processioni e del villaggio, traguardando il sorgere del sole il 21 dicembre.

Il santuario potrebbe essere stato previsto già nel progetto, ma la sua costruzione potrebbe essere durata a lungo (in verità molte parti non furono mai rifinite). Nel 185 (o nell’85) a.C. era stata allestita la via processionale ed è probabile che anche il tempio risalga a quel periodo come indicano due architravi intagliati nel legno dell’albero del dattero del deserto (Balanites aegyptiaca) e sui quali, con un pennello, era stato scritto in demotico «portare a nord», probabilmente per indicare la messa in opera. Le analisi con il metodo del carbonio 14 dei due elementi della carpenteria hanno

indicato una cronologia compresa tra il 182 e il 22 a.C. Nei magazzini che custodiscono tutti i reperti rinvenuti nel Fayyum sono stati recuperati statue e rilievi di faraoni, sacerdoti e dèi, rinvenuti trent’anni fa, durante la rimozione della sabbia dal tempio per i lavori di restauro. Centinaia di papiri e testi su frammenti di terracotta (ostraka) sono stati documentati e sono in corso di studio e certamente contribuiranno a fornire ulteriori dati sul villaggio e sul tempio, insieme alle nuove informazioni che abbiamo ricreato con il progetto fin qui descritto. a r c h e o 47


MOSTRE • BOLOGNA

48 a r c h e o


CERCANDO I

l Rijksmuseum van Oudheden (Museo Nazionale di Antichità) di Leida è una delle maggiori raccolte olandesi e la sua collezione egittologica è considerata fra le prime 10 al mondo per l’importanza e la ricchezza dei reperti che la compongono. Ma fino al prossimo 17 luglio, per ammirare il meglio di questo corpus, basta raggiungere Bologna, perché è lí – negli spazi espositivi del Museo Civico Archeologico – che le statue di Maya, sovrintendente al tesoro RACCONTARE CON UN APPROCCIO NUOVO reale di Tutankhamon, e di sua Meryt, cantrice del dio E «RIVOLUZIONARIO» LA STORIA DELLA TERRA moglie Amon, insieme a centinaia di DEI FARAONI: È QUESTO L’INTENTO DICHIARATO altre opere di altissimo pregio, trovano riunite. DI UNA MOSTRA AL MUSEO CIVICO siQuesta opportunità eccezionaARCHEOLOGICO DI BOLOGNA, CHE OSPITA le – dopo il rientro in Olanda, maggior parte dei reperti NUMEROSI CAPOLAVORI DEL CELEBRE MUSEO la difficilmente tornerà a essere NAZIONALE DI ANTICHITÀ DI LEIDA E LI concessa in prestito – è uno dei dell’accordo quinquennaAFFIANCA ALLA PROPRIA COLLEZIONE. frutti le stipulato dal Rijksmuseum UN’OCCASIONE DA NON PERDERE... van Oudheden (RMO) e dal Civico Archeologico. di Stefano Mammini In vista della chiusura per riallestimento della sezione olandese (la riapertura è prevista per il prossimo autunno), i due Mar Mediterraneo musei iniziarono a valutare la possibilità di trasferire una Po to Por t Said congrua selezione della raccolAlessssa Ale Al ss ssa an ndr nd drria a ta in Italia: il progetto espositivo, curato da Paola Giovetti e Ell Ala A mei me n Daniela Picchi, è stato quindi sposato da un finanziatore privato e dall’amministrazione Ca airro Abu Rawash comunale felsinea (da alcuni Sue Su S ue ez Sinai anni, il capoluogo emiliano si è Giza Giz a

UN ALTRO

EGITTO

Saqqara

Menfi Menfi Men Ain n Su ukhn hna hn

Fayyu Fay yu yum y um um

Nilo

Gha Gharib ha arib rib b

Golffo G di S ezz Su

De

All Min Minya ya y a

rt o

Tell el-Amarna

se

Ben Be B eni Hass e as an an

Qui accanto: cartina del Basso Egitto, con le località citate nel testo. Nella pagina accanto: portale in calcare dipinto dalla cappella familiare di Userhat, «capo scultore del signore delle due terre», ad Abido. XVIII-XIX dinastia (1543-1186 a.C.). Già collezione d’Anastasi. Leida, RMO. a r c h e o 49


MOSTRE • BOLOGNA

dotato di una struttura, l’Istituzione Bologna Musei, che coordina l’attività delle raccolte cittadine), permettendo cosí di realizzare la mostra. Allestita nei 1000 mq degli ambienti un tempo compresi nell’Ospedale di S. Maria della Morte e ora completamente ristrutturati, l’esposizione presenta 540 oggetti, che abbracciano una gamma vastissima dal punto di vista tipologico e, suddivisi in sette sezioni, ripercorrono una vicenda storica che si dipana dal IV millennio a.C. – prima ancora, quindi, dell’avvento delle dinastie regali – fino al III secolo d.C., quando il Paese dei faraoni era stato da tempo assoggettato da Roma.

STORIE PARALLELE Il progetto espositivo, tuttavia, non è soltanto andato incontro al desiderio di continuare ad assicurare, almeno in parte, la fruizione della raccolta olandese: esso è nato, anche e soprattutto, dal desiderio di mettere a confronto due collezioni che, per molti versi, condividono la stessa storia e lo stesso sviluppo. Entrambe le rac-

2. Stele in calcite (alabastro) di Abneb, «conoscente del re, sovrintendente del palazzo, direttore del mitrw», da Saqqara. III dinastia (2700-2680 a.C.). Già Collezione G. d’Anastasi. Leida, Rijksmuseum van Oudheden.

colte, infatti, prendono forma tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo ed entrambe si arricchiscono considerevolmente nell’Ottocento, quando sia a Leida che a Bologna

Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis

50 a r c h e o

giungono i materiali recuperati nel corso degli scavi condotti nella regione di Menfi e, in particolare, nella necropoli di Saqqara. Nei decenni successivi le strade divergono: a Bologna, nonostante il museo riceva in dono, nel 1861 la collezione del pittore Pelagio Palagi (che tuttora costituisce l’ossatura della sezione egiziana), la scoperta delle testimonianze etrusche e villanoviane catalizza l’attenzione generale, mentre in Olanda, il museo continua ad arricchirsi, attraverso l’acquisizione di importanti raccolte private, come quelle dell’egittologo tedesco Friedrich Wilhelm von Bissing e dell’olandese Jan Herman Insinger, e poi, dalla metà degli anni Cinquanta del Novecento, con gli 1. Particolare di una statua in granodiorite che ritrae Ankh, funzionario vissuto all’epoca della III dinastia, durante il regno di Djoser (2680-2660 a.C.), forse da Beit Khallaf. Già Collezione d’Anastasi. Leida, Rijksmuseum van Oudheden.


1

2

3

3. Il volto di un’altra statua in granodiorite del funzionario Ankh, forse da Beit Khallaf. III dinastia, regno di Djoser (2680-2660 a.C.). Già Collezione d’Anastasi. Leida, Rijksmuseum van Oudheden.

scavi nella necropoli di Abu Rawash, una trentina di km a sud di Saqqara. È importante sottolineare che il confronto fra Leida e Bologna viene sviluppato anche dall’esposizione stessa: ai materiali prestati dall’Olanda, infatti, si affiancano costantemente reperti della raccolta emiliana e, in alcuni casi, anche oggetti provenienti da altre collezioni, coa r c h e o 51


MOSTRE • BOLOGNA

me quelle dei Musei Egizi di Firenze e Torino. Al contempo, «Egitto. Splendore millenario» è nata anche con l’intento di proporre un approccio diverso e innovativo alla storia della civiltà fiorita sulle sponde del Nilo. Una volontà di cui è espressione emblematica la scelta di non proporre un percorso espositivo «ingabbiato» dalla cronologia, bensí sviluppato per temi, inseriti comunque all’interno di una successione storica, ma senza far sí che le periodizzazioni tradizionali si trasformino in altrettanti recinti. Tale scelta è infatti apparsa la piú adeguata alla multiformità dell’antico Egitto, che, a differenza di quanto spesso può capitare di leggere, non fu affatto una realtà sempre uguale a se stessa – nonostante l’innegabile tradizionalismo di molte

Qui sotto: statua votiva in bronzo dorato che raffigura il dio Osiride nella sua iconografia piú nota. Provenienza sconosciuta, XXVI dinastia (664-525 a.C.). Già Collezione G. d’Anastasi. Leida, Rijksmuseum van Oudheden.

sue espressioni culturali – e, come è logico immaginare in un ambito territoriale che aveva un’estensione notevolissima, vide maturare numerose elaborazioni locali, per esempio nell’ambito dell’arte.

PRIMA DEI FARAONI Date queste coordinate, il viaggio si apre con le fasi pre- e protodinastica, documentate esclusivamente da reperti provenienti da Leida. Una circostanza derivante dagli sviluppi storici già in precedenza ricordati: l’interesse per queste fasi d’esordio della civiltà egiziana cominciò a manifestarsi solo dopo le ricerche condotte dal grande egittologo inglese William Flinders Petr ie (1853-1942; fu il primo studioso ad affrontare sistematicamente lo studio delle fasi pre- e protodinastica), dunque tra la fine del XIX e gli

LA TRIPLICE NATURA DEL DIO CHE RINASCE Osiride fu il dio forse piú importante del pantheon egiziano, poiché sintetizzava gli aspetti piú cospicui e originali della religione e della cultura: la fondamentale componente agraria, l’istituto della regalità sacra e il culto dei morti. Il ciclo di Osiride può apparire come un corpo a sé nella religione egiziana: culti e miti che lo riguardano sembrerebbero avere assunto i crismi dell’ufficialità solo in un secondo momento nella storia culturale del Paese, e tuttavia la figura di Osiride trae origine da epoche remote, rinviando a un essere collegato con l’idea di morte e fecondità la cui concezione primitiva risale alla preistoria. Il mito di Osiride è stato frammentariamente tramandato dai testi delle piramidi (2480-2190 circa) e, per intero, da Plutarco: secondo tale narrazione, Osiride viene ucciso dal fratello Seth; il suo corpo è fatto a pezzi e gettato nel Nilo; la sorella-sposa di Osiride, Iside, lo ricompone e ha da lui un figlio, Horo, il quale vendicherà il padre, uccidendo Seth. Si tratta di un mito fondamentale per la teologia regale egiziana, in quanto ogni re morto viene

52 a r c h e o

identificato con Osiride, mentre il suo successore s’identifica con Horo. Ma è anche fondamentale per la componente agraria della religione egiziana: si festeggiava il seppellimento di Osiride nell’ultimo mese della stagione dell’inondazione del Nilo, come se la morte di Osiride servisse alla fertilità della terra, al modo con cui lo era l’inondazione stessa. Il tutto era poi proiettato in una dimensione cosmogonica: quasi il ritorno del caos, con l’inondazione e la morte di Osiride, finché con la riemersione della terra si aveva una sorta di rinascita del mondo. Infine, il mito della morte di Osiride concerneva le concezioni sull’oltretomba: una volta ucciso, Osiride, anche se il suo corpo era stato ricomposto, restava sempre un dio-morto, piú precisamente il dio dei morti che accoglieva i defunti nel suo regno. Cosí si esprimeva la certezza di un prolungamento dell’esistenza individuale dopo la morte: cosí come Osiride, pur ucciso e fatto a pezzi, non scompare, anche l’uomo non scomparirà dopo la fine della sua vita terrena.


inizi del XX secolo e, mentre Leida a quell’epoca continuava ad acquistare nuovi materiali, Bologna aveva rivolto i suoi interessi prevalentemente all’archeologia italica. Le vetrine presentano un campionario pressoché completo delle produzioni tipiche di queste fasi, riferibili in particolare alla cultura di Naqada, di cui, oltre a varie tavolozze in pietra, compaiono numerosi vasi dipinti, come quello che reca una vivace scena con struzzi, colline e acque. Sul fondo della sala, introducono alla sezione successiva, dedicata all’Antico Regno, due statue in granodiorite che ritraggono Ankh, che visse al tempo di Djoser, faraone della III dinastia e dovette essere uno dei piú alti funzionari di quell’epoca. Fra i due ritratti, fa bella mostra di sé una stele in calcite, riferibile a un personaggio di nome Abneb, definito «conoscente del re, sovrintendente del palazzo, direttore del mitrw» (quest’ultima carica ancora oggi non è chiaramente comprensibile, ma potrebbe riferirsi a un capo dei lavoranti del palazzo). L’uomo compare due volte: in piedi, con gli attributi tipici delle élite di potere, il bastone e lo scettro; e seduto, di fronte a una tavola su cui si riconoscono sei pagnotte e altre offerte che costituiscono le provviste per l’aldilà.

IL GIOCO DEL SERPENTE Poco piú avanti, si incontra uno degli oggetti piú curiosi dell’intera esposizione: è un disco circolare, in calcare, scolpito in forma di serpente acciambellato, in tutto e per tutto

mente legata al rituale funerario (vedi box a p. 51). Ancora una volta, la scelta dei materiali – perlopiú stele – risponde al desiderio di offrire una lettura almeno in parte alternativa a quella piú diffusa: si è cercato cioè di dimostrare come l’aspirazione a identificarsi con Osiride non fosse, almeno inizialmente, un sentimento condiviso da tutti gli Egiziani, ma costituisse una prerogativa delle classi sociali piú elevate. E proprio le stele radunate nella sala, provenienti da Abido e originariamente deposte lungo la via processionale, fra il tempio e il cenotafio del dio, stanno Tavola da gioco in calcare dipinto a a dimostrarlo: si tratta, infatti, di forma di serpente, che, nella parte opere riferibili a personaggi di spicterminale, si trasforma in un’anatra. co, come Khu, sovrintendente al Antico Regno (2700-2195 a.C.). distretto, Antefiker, scriba dei campi, Leida, Rijksmuseum van Oudheden. o Upuat-aa, di cui si ricorda che ricoprí numerose cariche, fra cui simile alle tavole usate per il gioco- quelle di governatore, grande prete mehen, che prende nome da un mi- e sovrintendente dei sacerdoti. tico dio serpente. A farne un unicum è però l’assenza degli alloggiamenti DALLA TERRAZZA per le pedine necessarie alla pratica DEL DIO del gioco e il fatto che la figura del Dal punto di vista dell’allestimento, rettile si chiude trasformandosi in il percorso propone una delle soluun’anatra. Dovrebbe in ogni caso zioni piú suggestive: al centro della trattarsi di un manufatto realizzato sala infatti è collocato il portale nel corso dell’Antico Regno, in della cappella familiare di un persoquanto solo in questa fase è attesta- naggio di nome Usherat, fatta cota la pratica del gioco-mehen. struire in un’area situata a ridosso Superata la ricostruzione in scala di del tempio di Abido chiamata teruna piramide, si accede alla sezione razza del dio e riservata appunto a dedicata al Medio Regno, al cui questo genere di sacelli, nonché a interno viene sviluppato uno dei ospitare statue e stele. temi forti dell’intero percorso, vale a Composta dall’architrave e dai due dire quello del culto che gli Egiziani stipiti, la struttura inquadra una eletributavano al dio Osiride, la divini- gante statua in bronzo dorato di tà forse piú importante del loro pan- Osiride (databile alla XXVI dinatheon, soprattutto perché stretta- stia), creando una prospettiva di a r c h e o 53


MOSTRE • BOLOGNA

notevole effetto scenografico, che sembra sottolineare la centralità del tema affrontato. Nella stessa sezione è inserita la stele dell’arpista e cantante Neferhotep, il quale è stato raffigurato nell’atto di toccare il cibo per l’aldilà posto sulla tavola delle offerte: si tratta di un particolare commovente, in quanto il musicista era cieco e dunque il desiderio di toccare le vivande non nasceva da un accesso di ingordigia, ma dalla necessità di verificare la natura delle vivande. Una rappresentazione che mostra un aspetto insolito e rafforza l’idea che l’arte egiziana sia assai meno ripetitiva e convenzionale di quanto si tenda a considerare.

I MISTERIOSI HYKSOS La filosofia non muta nel passare al capitolo dedicato all’esercito, sviluppato affidandosi a pochi reperti (soprattutto perché, in questo caso, si è potuto attingere unicamente alla collezione di Leida, dal momento che la raccolta bolognese non comprende armi), comunque significativi e soprattutto sufficienti a proporre un’analisi che va oltre il mero dato bellico o funzionale. I conflitti, infatti, non furono soltanto occasioni di scontro, ma ebbero ripercussioni sul piano sociale sicuramente importanti: basti pensare agli effetti che dovette comportare l’arruolamento di truppe che non avevano origini egiziane o all’avvento della dinastia ramesside, a cui fece da preludio l’ascesa al trono di Horemheb, che prima di diventare re era stato un generale. Per non dire degli Hyksos, da sempre considerati come invasori, ma che, alla luce degli studi piú recenti, sembra costituissero una presenza 54 a r c h e o


stabile e radicata in buona parte delle regioni settentrionali del Paese. E un anello, che reca appunto il nome di un sovrano Hyksos, testimonia questa presenza. La sezione imperniata sui materiali provenienti dalla necropoli di Saqqara offre gli spunti piú significativi e, senza dubbio, i materiali di maggior pregio. Qui il gioco delle integrazioni fra la raccolta olandese e quella italiana si fa ancor piú serrato e, grazie anche ai contributi di Firenze e Torino, vi sono vari contesti riuniti per la prima volta: è il caso della tomba di Amenhotep Huy, di cui sono esposti due pyramidion, una cista per contenere i vasi canopi, vasellame, il modello di un cubito e di una tavoletta da scriba oltre a una parte di uno sgabello. Poco oltre, c’è anche uno dei vasi

canopi destinati agli organi interni di suo figlio Ipy, che mostrano una curiosa singolarità: analizzando le iscrizioni, si è constatato che non c’è corrispondenza, infatti, tra i contenitori e i loro coperchi.

QUASI UNA CACCIA AL TESORO È il segno di come, nell’Ottocento, al momento dello scavo e del recupero, si fosse proceduto a smistamenti che non tenevano piú di tanto in considerazione l’integrità del contesto. Un dettaglio che, implicitamente, offre un’idea eloquente di quanto tumultuosa sia stata la stagione delle esplorazioni condotte a Saqqara nel XIX secolo. Non meno interessante è il rilievo in calcare proveniente dalla tomba di Merymery, custode del tesoro

A sinistra: cista per canopi di Amenhotep Huy, da Saqqara. XVIII dinastia, Amenhotep III (1387-1348 a.C.). Leida, RMO. A destra: statua in calcare di Maya, dalla tomba del sovrintendente e di sua moglie Meryt a Saqqara (raffigurati anche nel gruppo scultoreo in calcare riprodotto nella pagina accanto). XVIII dinastia, regni di Tutankhamon-Horemheb (1328-1292 a.C.). Leida, Rijksmuseum van Oudheden.

reale di Menfi, nel quale è rappresentato il rituale dell’apertura della bocca: si tratta di una testimonianza importante, poiché scarsi sono i testi che descrivono questa cerimonia. E dalla stessa tomba proviene una lastra con una scena di lamentazione, che colpisce per il a r c h e o 55


MOSTRE • BOLOGNA

realismo della composizione e la ricchezza dei dettagli. Opere squisite, che preludono alla presenza piú illustre: il già ricordato gruppo statuario che ritrae Maya e Meryt. Il ritratto della coppia entrò a far parte della collezione di Leida nel 1829 e, in poco meno di duecento anni, non aveva piú lasciato la sua seconda casa, trasformandosi ben presto in una delle icone della raccolta olandese. Ragion per cui è piú che verosimile credere che dopo la parentesi bolognese il «sovrintendente di tutti i lavori del re» – scelto per tale carica al tempo di Tutankhamon – e sua moglie non affronteranno altre trasferte (e questa eccezione, se mai ce ne fosse ancora bisogno, è una delle attestazioni piú significative del credito che i responsabili del Rijksmuseum hanno dato al progetto espositivo realizzato dal Museo Civico Archeologico).

CAPOLAVORO INCOMPIUTO Seppure incompleti – come prova, per esempio, la lavorazione soltanto abbozzata dello sgabello – i ritratti, originariamente collocati in prossimità del passaggio centrale della tomba monumentale allestita per i due coniugi, furono senz’altro utilizzati: non sarebbe altrimenti spiegabile la presenza di alcuni lacerti del sottile strato di gesso preparatorio sul quale venivano successivamente stesi i pigmenti. Il gruppo, a buon diritto inserito nel novero dei capolavori dell’arte egiziana, emana sensazioni diverse, che oscillano dalla soggezione indotta dagli sguardi pacati ma al tempo stesso austeri della coppia alla curiosità che desta la fattura grossolana dei piedi. Un particolare quest’ultimo, spiegabile con la diversa importanza assegnata alle diverse parti dell’opera – l’elemento che piú interessava e che dunque 56 a r c h e o

veniva meglio rifinito era la parte superiore, comprendente il volto dei committenti –, ma anche con l’uso di scolpire i piedi come se, pur essendo nudi, fossero provvisti delle calzature, consistenti in sandali simili agli infradito. È altresí importante ricordare che Maya e Meryt sono stati i «promotori» delle attività di ricerca che il Rijksmuseum ha avviato in Egitto: le prime missioni nell’area di Saqqara furono infatti organizzate con il fine di ritrovare la tomba del sovrintendente e di sua moglie: un obiettivo finalmente raggiunto nel 1986.

IL GRANDE GENERALE Per certi versi parallela è la vicenda del monumento funerario di Horemheb, del quale sono stati per la prima volta riuniti i rilievi, attualmente detenuti, oltre che da Leida e Bologna, dall’Egizio di Firenze. Si tratta, quindi di un’altra ricomposizione inedita, che offre una lettura pressoché integrale del grandioso apparato decorativo e suggerisce al tempo stesso il prezioso valore di testimonianza che i materiali oggi custoditi nei diversi musei hanno assunto: il contesto originario, infatti, patisce i danni causati dal deterioramento del calcare utilizzato per scolpire le varie scene e, in assenza di validi rimedi, le parti ancora in situ sono destinate a svanire. Anche per questo il Museo Civico Archeologico di Bologna ha avviato un progetto che mira alla scansione integrale del monumento, cosí da assicurarne almeno la conservazione di una memoria tridimensionale e non soltanto grafica e fotografica. Le scene che si susseguono nei vari registri dei rilievi compongono una sorta di versione figurata delle res gestae di romana memoria, alternando battaglie, combattimenti a mani nude, costru-


In alto: rilievo in calcare dipinto con prigionieri nubiani, dalla tomba di Horemheb a Saqqara. XVIII dinastia, regno di Tutankhamon (1328-1318 a.C.). Già Collezione P. Palagi. Bologna, Museo Civico Archeologico. Nella pagina accanto: sarcofago antropoide in legno stuccato e dipinto di Peftjauneith, da Saqqara. XXVI dinastia (664-525 a.C.). Leida, Rijksmuseum van Oudheden.

zione degli accampamenti, celebrazione delle vittore… un grande racconto d’ispirazione guerresca, insomma. Né avrebbe potuto essere altrimenti, visto che, come già ricordato, Horemheb si distinse innanzitutto come generale. Tuttavia, sarebbe riduttivo valutare l’insieme come una mera esaltazione del personaggio, perché uno dei maggiori motivi d’interesse dell’opera è stato individuato nel carattere innovativo e sperimentale delle

diverse figurazioni. Scorrendo i rilievi, spiccano infatti i modi di rappresentare le figure umane, ma non solo, che si distaccano dal solco della tradizione e dei canoni.

L’ERRORE SVELATO Una «rivoluzione» attuata da una mente creatrice che sembra aver colto impreparati gli esecutori materiali del progetto, come suggerisce la vorticosa scena nella quale, in un brulichio di uomini e cavalli, a ben guardare, si scoprono vistose incongruenze. Errori all’epoca sapientemente dissimulati con stucco e pigmenti e che a noi si sono svelati in seguito al loro distacco. Nelle sezioni finali, le tipologie dei materiali esposti si moltiplicano, cosí da gettare lo sguardo su un mosaico ancor piú variegato di temi sociali, culturali ed economici: dal benessere che caratterizza l’Egitto del Nuovo Regno, al culto nei con-

fronti degli animali, dall’evoluzione delle tecniche di fabbricazione dei sarcofagi al diffondersi di influenze prima ellenistiche e poi romane. Un autentico caleidoscopio, che fa da preludio all’epilogo suggerito al visitatore, ovvero la visita della sezione permanente del Museo Civico Archeologico, in questo caso intesa come riepilogo e approfondimento ulteriore dei molti temi fino a quel momento affrontati. DOVE E QUANDO «Egitto. Splendore millenario» Bologna, Museo Civico Archeologico fino al 17 luglio Orario ma-gio, 9,00-18,30; ve, 9,00-22,00; sa, do e festivi, 10,00-18,30 Info tel. 051 0301043 (lu-ve, 10,00-17,00, esclusi giorni festivi) Catalogo Skira a r c h e o 57


MOSTRE • NOME MOSTRA

In questa pagina: stele di Sansepolcro con due fregi sovrapposti, raffiguranti una scena di banchetto e un cavaliere. Fine del VI sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: la stele del guerriero Larth Ninie, rinvenuta nei dintorni di Fiesole. MetĂ del VI sec. a.C. Firenze, Casa Buonarroti. 58 a r c h e o


L’OMBRA DEGLI

ETRUSCHI N

LE SALE DEL PALAZZO PRETORIO DI PRATO OSPITANO UNA MOSTRA CHE SOTTOLINEA L’IMPORTANZA ASSUNTA DALLA CITTÀ TOSCANA GIÀ IN EPOCA ETRUSCA. E SALUTANO IL «RITORNO» (VIRTUALE) DI UNO DEI REPERTI PIÚ CELEBRI CHE A QUEL MOMENTO STORICO APPARTENGONO: IL BRONZETTO DELL’OFFERENTE DI PIZZIDIMONTE

egli ultimi decenni, la storia dell’archeologia della porzione di pianura a nord-ovest di Firenze – compresa fra Prato e Campi Bisenzio, delimitata a nord dal preappennino e a sud dalla panoramica catena del Montalbano – è stata decisamente riscritta per quanto riguarda le fasi piú antiche: i rari indizi in precedenza disponibili – alcuni bronzetti, qualche isolato frammento ceramico o litico – hanno trovato la giusta collocazione all’interno di un complesso quadro di popolamento e di rapporti economici e culturali che quest’area seppe instaurare con il territorio circostante. Stabili ed estesi stanziamenti umani sono documentati fino dalla media e tarda età del Bronzo (XVII-XIII secolo a.C.), confermando forti relazioni oltre la catena appenninica con le genti che vivevano nella Pianura Padana e stretti rapporti con le popolazioni dell’area medio-tirrenica, delineando, fin dalla protostoria, quelle che saranno anche nei periodi successivi le direttrici privilegiate di collegamento.

di Paola Perazzi e Gabriella Poggesi

NASCITA DI UNA CITTÀ In età etrusca, poco a sud di Prato in località Gonfienti, all’insediamento protostorico se ne sovrappone uno etrusco di età arcaica (VI-V secolo a.C.), razionalmente pianificato come città di nuova fondazione: le stesse fertili terre della pianura, ora centuriate, vengono organizzate con pozzi e canali per essere facilmente irrigate e coltivate; gli a r c h e o 59


MOSTRE • PRATO

stessi percorsi viari vengono riconfermati e potenziati per raggiungere sia l’Etruria meridionale verso sud-ovest che le coste dell’Adriatico verso nord-est. Il territorio, definibile «fiesolano» dal nome del centro etrusco di Fiesole, culturalmente egemone, mostra fin dall’età arcaica la stessa matrice culturale; siamo dunque di fronte a una sorta di koiné, in grado di elaborare un linguaggio iconografico comune. Questo fenomeno traspare attraverso diversi elementi, quali alcune produzioni artigianali o scelte decorative – dai kyathoi (calici a un manico) con anse a corna tronche e cave ai grandi bacili di bucchero su alto piede ispirati ai modelli in metallo – ma soprattutto attraverso la capillare presenza delle cosiddette «pietre fiesolane», ovvero cippi e stele realizzati in pietra arenaria con funzione funeraria, che segnano il territorio fra pianura e collina, di-

60 a r c h e o

stribuiti perlopiú a nord dell’Arno, da Fiesole alla piana Firenze-PratoPistoia, dal Montalbano al Mugello con la Val di Sieve.

QUANDO L’ARNO ERA NAVIGABILE Il fiume Arno, all’epoca per lunghi tratti navigabile, costituiva una via di comunicazione strategica per il transito di uomini e merci dalle aree interne fino allo sbocco sul mar Tirreno a Pisa. Scorrendo parallelo all’Appennino, l’Arno accoglie da destra numerosi affluenti (quali Sieve, Bisenzio e Ombrone), che scendono dai monti incidendo le relative vallate, anch’esse vie di comunicazione naturali verso i passi montani (Futa, Croci di Calenzano, Montepiano, Collina), che delimita-

no a nord il territorio e lo collegano all’Etruria padana. Accanto alla via fluviale dell’Arno, doveva correre un percorso pedemontano, come indicano le sepolture e i cippi che dal guado dell’Arno, nella conca dove in età romana sorgerà Firenze, si allineano secondo una direttrice ovest-nord che raggiunge Sesto Fiorentino, Calenzano-Travalle, Prato-Gonfienti e Pistoia. Per quanto le «pietre fiesolane» siano sempre state recuperate in giacitura secondaria, riutilizzate come materiale da costruzione o a scopo decorativo, appaiono comunque distribuite lungo le direttrici stradali che in età arcaica collegavano i centri etruschi alla viabilità principale determinata dai commerci sia in senso trasversale che longitudinale. Ma queste «pietre» sono preziose anche perché, attraverso le raffigurazioni che vi sono scolpite, ci suggeriscono la persistenza di alcuni temi cari all’ari-


stocrazia etrusca di VI e V secolo a.C., che vi si autorappresenta insieme alle proprie ideologie e ai propri valori, come in una sorta di manifesto, indicandoci, nel contempo, l’ampia rete di rapporti in essere e il quadro culturale di riferimento. In particolare, si delinea una stretta connessione con le produzioni scultoree dell’area interna volterrana (Velathri/Volterra) e dell’Etruria settentrionale costiera, soprattutto con gli atelier di età arcaica nell’area pisana che si rifornivano di marmi apuani, produzioni in cui si mettevano a punto modelli artistici che troveranno un notevole apprezza-

mento in ambiente felsineo (Bologna) dalla metà del V secolo a.C. Il popolo etrusco traspone se stesso nelle figure di pietra in occasione della morte, e fa altrettanto, in occasione della preghiera, servendosi delle figure di bronzo. Proprio a Gonfienti e nello spazio immediatamente circostante, fin dal Settecento sono noti esemplari di offerenti, talvolta prodotti in serie, ma anche di elevato livello artistico. Lo stesso elevato livello artistico che traspare dalla grande kylix (coppa a due manici) a figure rosse attribuita al pittore ateniese Douris/Duride – che veniva tenu-

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

In alto: cippo di via de’ Bruni. VI-V sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: l’interno della kylix (coppa a due manici) attica a figure nere attribuita al pittore Douris/Duride, da Gonfienti. 475-470 a.C. Soprintendenza Archeologia della Toscana A destra: cippo di San Tommaso. VI-V sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

a r c h e o 61


MOSTRE • PRATO

L’OFFERENTE TORNA A CASA Il connubio fra tecnologia e rigore scientifico ha permesso di riportare a casa l’Offerente di Pizzidimonte, in occasione della mostra «L’ombra degli Etruschi». Fino al 30 giugno, infatti, è possibile ammirare in versione tridimensionale l’elegante bronzetto (che dal 1824 fa parte delle collezioni di antichità del British Museum) anche senza la presenza fisica dell’originale, rimasto a Londra. Venuto alla luce nel 1735 ai piedi della Calvana (non molto distante da Gonfienti), il bronzetto è stato oggetto di un sofisticato lavoro di ricerca svolto dal laboratorio Vast-Lab del PIN-Polo Universitario «Città di Prato» e dall’associazione culturale «Prisma», in collaborazione con il Museo di Palazzo Pretorio e la Soprintendenza Archeologia della Toscana. Il team di «Prisma» e Vast-Lab, in trasferta al Museo londinese, ha prodotto un modello tridimensionale dell’Offerente, avvalendosi delle tecnologie di scansione 3D e delle tecniche di elaborazione dei modelli digitali. Alta 17 cm e risalente al V secolo a.C., la statuetta, tuttora fissata al piedistallo originale in piombo, ritrae un uomo giovane, vestito di una tunica bordata (tebenna) e con ai piedi calzature dalla punta ricurva. La figura si presenta ritta, a piedi uniti, con la veste che sottolinea il corpo ben proporzionato e muscoloso. Il giovane protende in avanti il braccio destro, mentre tiene il sinistro piegato sul fianco; non ha barba, e la capigliatura, raccolta nella parte posteriore, sopra il collo, ricade sulla fronte, formando una massa compatta. Se paragonata al corpo, la testa risulta piuttosto grande: una soluzione che ricorre spesso nelle creazioni degli scultori etruschi e che permetteva loro di riprodurre con grande cura ogni dettaglio. In questo caso, per esempio, spicca la delicatezza con la quale sono resi capelli, occhi, ciglia e sopracciglia. L’Offerente di Pizzidimonte sfoggia inoltre un sorriso che lo avvicina ai canoni della scultura greca arcaica.

62 a r c h e o


Sulle due pagine, da sinistra, in senso orario: l’originale del bronzetto noto come Offerente di Pizzidimonte (V sec. a.C.; Londra, British Museum); una fase della realizzazione della replica; la replica stessa, esposta nella mostra in corso a Prato.

sca, testimonia in modo inequivocabile l’elevato livello economico e culturale raggiunto dagli Etruschi di Gonfienti e il loro pieno inserimento entro una vasta rete commerciale, in grado di intercettare i prodotti dalla Grecia attraverso i mercati dell’Adriatico.

ta appesa con un chiodo a una parete della sala da pranzo della piú grande residenza finora riportata in luce a Gonfienti – riccamente decorata con rappresentazioni mitologiche legate sia al mondo degli dèi e degli eroi che dell’Oltretomba. La coppa, ormai diventata il simbolo piú raffinato di questa città etruDOVE E QUANDO «L’ombra degli Etruschi. Simboli di un popolo fra pianura e collina» Prato, Museo di Palazzo Pretorio fino al 30 giugno Orario tutti i giorni (salvo i martedí non festivi), 10,30 alle 18,30 Info tel.0574 19349961 (attivo lu-ve, 9,00-18,00 e sa, 9,00-14,00); e-mail: museo.palazzopretorio@ comune.prato.it; www.palazzopretorio.prato.it

UNA NUOVA FIORITURA Questa stessa parte di territorio fiesolano, dopo un lungo periodo di abbandono, recupera vitalità in età romana, a partire dall’età repubblicana: la stessa direttrice che aveva costituito il fulcro dello sviluppo etrusco arcaico venne ricalcata dalla via Cassia-Clodia, che collegò Florentia (Firenze) a Pistoria (Pistoia), Luca (Lucca) e Luna (Luni). Sempre in età romana lo stesso territorio viene fortemente segnato, come dimostra la toponomastica che identifica ciascun luogo mediante la relativa distanza in miglia dal centro della colonia di Firenze: Terzolle, Quarto, Quinto Fiorentino, Sesto Fiorentino, Settimello. In età romana vengono costruiti complessi edilizi con funzione agricola, artigianale e commerciale, come suggeriscono gli scavi effettuati dalla Soprintendenza Archeologia della Toscana negli ultimi quindici anni: dall’edificio con grande cortile centrale e piccola officina emerso a Gonfienti nell’area dello scalo-merci dell’Interporto, a quello individuato vicino alla chiesa de La Querce, ai piedi di Pizzidimonte, a quello lambito dal torrente Marina, nei pressi della stazione di Calenzano. Sono tre realtà collegate al nuovo a r c h e o 63


MOSTRE • PRATO A sinistra: stele con scena di commiato fra due guerrieri. Inizi del V sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. In basso: statuetta votiva femminile in bronzo. Prato, Raccolta Guasti Badiani.

slancio che la colonia romana di Florentia (fondata nel 59 a.C.) infonde, fra la tarda età repubblicana e la prima età imperiale, al riassetto generale del territorio, con la costruzione di importanti arterie stradali – prima di tutte la via CassiaClodia con la mansio ad Solaria, ricordata dalla Tabula Peutingeriana e forse identificabile con il complesso edilizio rimesso in luce presso la stazione di Calenzano – e con lo sfruttamento delle acque mediante la realizzazione del grande acquedotto che dall’invaso de La Chiusa nella valle del torrente Marina raggiunge Firenze dopo circa venti chilometri di percorso.

64 a r c h e o



Bassano in Teverina

Vitorchiano

Bagnaia

Soriano nel Cimino

Vasanello

Canepina

Carbognano

Lago d i Vico

Poggio Cavaliere

Fabrica di Roma

e

Riserva Naturale Lago di Vico

ver

S. Martino al Cimino

Otricoli

e F. T

Vignanello

erina

Gallese Borghetto

Falerii Novi

Civita Castellana

Ronciglione

Falerii Veteres Via

Capranica

a

Via

ini

Nepi

Sutri

Bassano Romano

m Fla

Sulle due pagine: un tratto della via Amerina, la strada realizzata nel III sec. a.C. dai Romani, ma che ricalcava tracciati piú antichi che attraversavano l’Agro Falisco, toccando anche Nepi.

Guadamello

Orte-Scalo

Via Am

66 a r c h e o

SS 67 5

A1

I

n un paesaggio non molto mutato rispetto a quello che quasi due secoli fa l’archeologo e diplomatico inglese George Dennis (1814-1898) paragonava alla campagna del Surrey o del Devonshire, un cinquantina di chilometri a nord di Roma, sorge la cittadina di Nepi. Le sue origini sembrano risalire alla fine dell’VIII secolo a.C., epoca alla quale si datano le prime attestazioni sullo sperone tufaceo che poi ospitò il centro abitato, ricordato come Nepet da Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia. Il passato plurisecolare dell’insediamento ha lasciato tracce importanti,

Gualdo

Orte

Ca

Roma

ss

ia


PORTA D’ETRURIA LA

SU UNO SPERONE TUFACEO DELLA TUSCIA VITERBESE SORGE L’ANTICO ABITATO DI NEPI. UN MUSEO DI RECENTISSIMA INAUGURAZIONE NE RACCONTA LA STORIA PLURISECOLARE di Stefano Francocci e Daniela Rizzo

Tutti gli oggetti illustrati sono esposti nel Museo Civico Archeologico di Nepi (Viterbo).

testimoni di una grandezza che trova ancora oggi espressione nella monumentale catacomba di S. Savinilla e nel complesso difensivo della Rocca dei Borgia. Ciononostante, Nepi resta uno dei centri meno noti di tutta la Tuscia, l’attuale territorio della Provincia di Viterbo, almeno per quanto concerne le fasi piú remote della sua storia.

IL SILENZIO DELLE FONTI A questa sorta di anonimato hanno concorso vari fattori e, in particolare, la scarsità di dati storiografici. Le fonti romane, infatti, citano raramente Nepi, che sembra rimanere

In basso: la ricostruzione di una tomba a camera scoperta in località Gilastro nel 1988, inserita nel percorso espositivo del Museo Civico di Nepi.

per lungo tempo segnato il passo. Dopo gli studi effettuati alla fine dell’Ottocento, nell’ambito della redazione della Carta Archeologica d’Italia, e alcuni sporadici scavi svolti fra il XIX e l’inizio del XX secolo, solo nella seconda metà del Novecento sono state avviate ricerche sistematiche che, seppur interessando piú ampiamente l’Agro Falisco, hanno contribuito a migliorare la conoscenza della topografia del suo territorio in età antica.

DAGLI SCAVI AL MUSEO Soltanto negli anni Ottanta del Novecento, tuttavia, ha preso avvio una nuova stagione di studi, incentrata su attività di scavo e di ricognizioni di superficie, mirate ad acquisire nuovi dati, utili per comprendere i processi di formazione e di sviluppo dell’antica città falisca. Un contributo decisivo è quindi venuto, nel 2014, dall’inaugurazione della nuova sede del locale Museo Civico (vedi box alle pp. 70-71). Ancora poco nota risulta la topografia della Nepi preromana: la sovrapposizione della città moderna

al margine delle vicende storiche succedutesi nel lungo arco di tempo che va dalla deduzione di una colonia latina, intorno al 383 a.C., sino all’età tardo-antica. Solo Tito Livio descr ivendola come la «porta dell’Etruria», insieme alla vicina Sutri, le riconosce un ruolo strategico di primo piano per la sua collocazione geografica. In effetti, la città era posta al confine occidentale del territorio falisco, lungo un percorso che, tramite Sutri, la collegava all’Etruria interna e in diretta connessione con Falerii Veteres (l’odierna Civita Castellana), Narce e Veio. Anche la ricerca archeologica ha a r c h e o 67


MUSEI • NEPI

con l’antico abitato ha infatti permesso di indagare aree estremamente limitate. Uno scavo effettuato nel giardino del palazzo vescovile fra il 1991 e il 1992, nell’ambito del «Nepi Project» avviato da Timothy Potter e Simon Stoddart, ha portato alla luce alcuni ambienti residenziali di epoca arcaica e una sequenza stratigrafica che documenta l’occupazione dell’area dalla fine del VII secolo a.C. sino all’età romana. La sola testimonianza oggi visibile della città antica è un piccolo tratto della cinta muraria, realizzata in opera quadrata, genericamente da-

tata alla fine del V secolo a.C. o di poco successiva. Dati indicativi sono, invece, giunti dalle indagini svolte nelle aree circostanti l’abitato, compiute dall’allora Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale, sotto la guida di Daniela Rizzo. Un numero inaspettato di sepolture è stato infatti scoperto nelle località di San Paolo, Cerro e Sante Grotte. In particolare, gli scavi degli anni Ottanta nelle necropoli del Cerro e di San Paolo hanno documentato le fasi media e recente dell’Orientalizzante (680-580 a.C.). Il primo dei due 68 a r c h e o

In alto: Nepi: La Rocca dei Borgia, che presenta oggi l’assetto acquisito fra il XV e il XVI sec. A sinistra: scodella carenata in ceramica di impasto, con piede mobile, dalla tomba 7 della necropoli del Cerro. VII sec. a.C. Sul vaso si imposta un’ansa a forma di coppia di cavalli (di cui uno solo rimanente), che si abbeverano a una coppetta.

sepolcreti è ancora in parte leggibile nella sua struttura, essendo collocato lungo una tagliata viaria, che è probabilmente quanto rimane di un tracciato che da Nepi si dirigeva verso ovest in direzione di Sutri.


Disposte su piú ordini, le tombe comprendono una camera a pianta quadrangolare, preceduta talvolta da un piccolo corridoio d’accesso. Le poche camere tuttora visibili si presentano spoglie, senza tracce di decorazione. In alcuni casi la parete tufacea risulta lavorata in corrispondenza delle banchine o dei loculi, a simulare i blocchi d’appoggio del letto funebre. Le sepolture sono perlopiú a inumazione, all’interno di loculi, su banchine o su tavolati lignei che poggiano su blocchi di tufo squadrati. La presenza di nicchie testi-

mente compromessa dallo sviluppo urbanistico, è stata interessata a piú riprese da attività di scavo, nel 1992, 2000 e 2005. Come nella necropoli del Cerro, le tombe a camera si presentano di dimensioni modeste, occupate mediamente da due o tre deposizioni.

UN USO PROLUNGATO NEL TEMPO A differenza della precedente, quest’area cimiteriale presenta, però, una frequentazione piú prolungata, che arriva sino al periodo romano, e la cui indagine è stata accompa-

gnata dal recupero di reperti di rilevante interesse. Le campagne del 2000 e del 2005 hanno infatti restituito eccezionali materiali archeologici, costituiti da alcune raffinate ceramiche di produzione attica a figure nere e figure rosse, attualmente in corso di studio. L’inserimento di Nepi nell’ampia Qui sotto: un particolare dell’allestimento del museo. In basso: kantharos (tazza a due manici) in ceramica d’impasto con decorazione incisa raffigurante una teoria di uccelli. VII sec. a.C.

monia, inoltre, il perdurare, nel VII secolo a.C., del rito dell’incinerazione, che vede l’uso di olle come contenitore per le ceneri. Lo scavo ha interessato una serie di sepolture parzialmente violate dai clandestini, portando al recupero di corredi costituiti prevalentemente da vasellame d’impasto inciso. I materiali trovano confronti nelle produzioni ceramiche provenienti dal territorio falisco, Narce in particolare, e diffuse nelle aree limitrofe. La necropoli di San Paolo, fortea r c h e o 69


MUSEI • NEPI A sinistra: necropoli di Sante Grotte. La tomba 3 al momento dell’apertura. In basso: scarabeo inciso su corniola raffigurante Eracle con arco e nacchere, dalla tomba 3 della necropoli di Sante Grotte.

poli di Gilastro – da considerare come un’unica area cimiteriale insieme a quella contigua di Sante Grotte –, di un bel cratere con decorazione a figure nere che riproduce su un lato Eracle contro il leone nemeo, oggi conservato nel Museo dell’Agro Falisco di Civita Castellana.

rete commerciale che attraverso la Valle del Tevere vedeva l’arrivo di prodotti dall’Oriente era già emerso in maniera evidente grazie agli scavi condotti da Enrico Stefani all’inizio del Novecento, che avevano portato al ritrovamento, in località La Massa, di corredi funerari caratterizzati dalla presenza di pregevole ceramica di produzione attica. A questi reperti va sommato il rinvenimento, nel 1926, nella necro-

ACQUISIZIONI IMPORTANTI Anche gli scavi della necropoli di Sante Grotte hanno portato a ritrovamenti eccezionali. Il sepolcreto era stato già parzialmente indagato dallo Stefani, il quale, nel 1910, aveva riportato alla luce due tombe a fossa con loculo sepolcrale e quattro tombe a camera violate. Poi, nel 1988, fu scoperta fortuitamente una tomba a camera contenente sei deposizioni, due delle quali – una maschile e una femminile – all’interno di sarcofagi

L’UNIONE FA LA FORZA L’Organizzazione Museale Regionale del Lazio si è arricchita di una rete di musei, il «Sistema Museale Territoriale della Via Amerina», composta dai Musei Civici dei Comuni di Gallese, Nepi, Orte, Vasanello e dal Museo d’Arte Sacra di Orte. Il Sistema si sviluppa nel «Comprensorio della Via Amerina e delle Forre», un territorio del Viterbese che si estende fra la riva destra del Tevere e i Monti Cimini e che corrisponde in larga parte all’Agro Falisco. La romanizzazione dell’area portò, nel III secolo a.C., alla realizzazione della via Amerina, percorso stradale destinato a collegare Roma con l’Umbria. Questo tracciato, rimasto in uso sino all’età moderna, ha costituito nei secoli uno strumento di coesione per i centri abitati dell’Agro Falisco ed è stato perciò scelto come elemento caratterizzante del Sistema. La rete museale si pone l’obiettivo di

70 a r c h e o

contribuire alla crescita culturale delle singole comunità locali e di tutelare e valorizzare il ricco patrimonio artistico che le contraddistingue. Fra le strutture del «Sistema Museale della Via Amerina», occupa un posto di rilievo il Museo Civico Archeologico di Nepi, la cui nuova sede è stata inaugurata nel 2014. Nato dalla collaborazione fra l’Amministrazione Comunale e la Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale (oggi Soprintendenza Archeologia per il Lazio e l’Etruria Meridionale), il museo intende riportare a Nepi una parte importante dei reperti recuperati negli ultimi trent’anni. L’esposizione si articola in un percorso sviluppato cronologicamente e topograficamente e che sintetizza l’evoluzione storica di Nepi e del suo territorio dalla preistoria al Rinascimento.


in tufo con copertura costituita da coppi e tegole disposte a doppio spiovente. Le scoperte piú interessanti sono avvenute, però, a seguito delle indagini effettuate fra il 2003 e il 2004, che hanno permesso di localizzare sei tombe a camera e venti tombe infantili a fossa. Le camere scavate nel banco tufaceo, di forma quadrangolare, presentano dimensioni superiori rispetto a quelle delle necropoli del Cerro e di San Paolo e sono precedute da un pronunciato corridoio d’accesso. Il numero di individui sepolti al loro interno supera talvolta le dieci deposizioni per camera. Le tombe individuate non conservano decorazioni; in un solo caso il soffitto presenta una lavorazione a doppio spiovente. Nel complesso, prevale la sepoltura a inumazione all’interno di loculi parietali disposti su piú ordini e chiusi da tegole secondo una tipologia tipica dell’Agro Falisco e diffusa anche in ambito sabino-tiberino. Accanto ai loculi sono poi variamente associate sepolture a inumazione all’interno di sarcofagi, su banchine realizzate con blocchi di tufo e su tavolati lignei. Nelle tom-

Ampio spazio è dedicato alla fase preromana della città. Per questo periodo le conoscenze sulla società locale provengono quasi esclusivamente dai contesti funerari circostanti l’abitato: Cerro, San Paolo, Fosso del Cardinale, Gilastro-Sante Grotte. La scoperta di sepolture intatte ha permesso di raccogliere importanti dati sulle pratiche funerarie e sulla tipologia delle deposizioni, oltre a mettere in luce il notevole potenziale economico raggiunto dai componenti dell’aristocrazia di questo centro situato al confine occidentale del territorio falisco. Molto suggestive sono le ricostruzioni della tomba in località Gilastro, caratterizzata dalla presenza di due sarcofagi in tufo, e della tomba n. 3 in località Sante Grotte, che ha restituito corredi di particolare prestigio. La sezione romana è costituta principalmente da un

A sinistra: orecchini in lamina d’oro decorati con fili godronati, dalla tomba 3 della necropoli di Sante Grotte. Fine del IV sec. a.C. In basso: la tomba 1 della necropoli di Sante Grotte al termine dello scavo (2003): l’unica, fra i sei sepolcri a camera individuati, che presentava la volta crollata a seguito di attività antropiche.

piccolo lapidario, ma è destinata ad arricchirsi di altri reperti, attualmente in corso di restauro. Un plastico in scala 1:1 ricostruisce una delle importanti scoperte effettuate sul percorso della via Amerina, a nord di Nepi: si tratta di un colombario di età giulio-claudia, costituito da sepolture a incinerazione poste all’interno di nicchie scavate sulle pareti e sul piano del banco tufaceo. L’età tardo-antica è rappresentata da materiale ceramico proveniente dalla catacomba di S. Savinilla, una fra le piú monumentali catacombe del Centro Italia. L’esposizione si conclude con la sala dedicata al Medioevo e al Rinascimento e detta «dei Borgia», perché presenta come oggetto piú significativo uno stemma marmoreo di Lucrezia Borgia che fu «Signora di Nepi» fra il 1499 e il 1501.

a r c h e o 71


MUSEI • NEPI

zione che verosimilmente richiama quella semisdraiata sul fianco sinistro, assunta simbolicamente dai defunti durante la celebrazione del banchetto funebre. Tale pratica funeraria, che dal mondo greco si era diffusa in quello etrusco e falisco, trova una straordinaria attestazione nel ritrovamento di spiedi in ferro per la cottura delle carni. Una coppia di questi reperti, trovati appoggiati alla parete di fondo della tomba 5, conserva ancora residui orgaUNA PRATICA DIFFUSA Nell’Agro Falisco, la pratica di uti- nici, probabilmente una porzione di lizzare sepolcri per piú generazioni cibo riservata al defunto. diviene comune dall’età arcaica. Altri importanti oggetti legati alle Talvolta si procedeva a spostare le attività rituali provengono dalla sepolture per fare spazio a nuove tomba 3: accanto alle ceramiche per deposizioni; è il caso di una tomba attingere e versare il vino, sul paviscoperta nel 1988, nella quale i resti mento della camera si trovavano un ossei di un’inumazione erano stati ampio bacile e un piccolo kyathos rimossi e raccolti fra i blocchi squa- (coppa a un manico), entrambi in drati di tufo che fungevano da ap- bronzo. Il kyathos aveva l’ansa stacpoggio a uno dei due sarcofagi. Nel caso della tomba 3 di Sante Grotte, una sepoltura successiva era stata ricavata nel piano pavimentale della camera, in prossimità dell’ingresso. All’interno di un loculo della stessa tomba, inoltre, è stata rinvenuta una sepoltura bisoma, che, in tempi diversi, accolse le spoglie di un uomo e di una donna. La scoperta arricchisce il quadro delle conoscenze sulla società locale e le sue usanze funerarie. Un dato interessante, per esempio, è la posizione dei defunti all’interno dei loculi, che sembra rispettare uno schema preciso, con il corpo adagiato in posizione supina, le braccia distese lungo i fianchi e il capo sempre posto nella parte destra del loculo. Una posibe 3 e 14 sono presenti anche alcune incinerazioni. All’interno delle tombe sono stati rinvenuti corredi che coprono un arco temporale che va dal VII al III secolo a.C., indice del loro prolungato utilizzo. Un dato confermato dalle tracce di tamponature, segno di ripetute aperture, riscontrate sui grandi blocchi tufacei che sigillavano alcuni degli ingressi delle tombe.

Qui accanto: materiali facenti parte del corredo della tomba 14 della necropoli di Sante Grotte: un amphoriskos (replica miniaturizzata di un’anfora) in pasta vitrea di produzione orientale (VI sec. a.C.) e una oinochoe (brocca da vino) in bronzo (V sec. a.C.). 72 a r c h e o


Nepi, necropoli di Sante Grotte, tomba 14. All’interno della camera, oltre alle numerose sepolture ad inumazione, sono state rinvenute quattro nicchie, chiuse da tegole, contenenti sepolture a incinerazione databili fra la fine del V e l’inizio del IV sec. a.C.

cata e collocata al suo interno, secondo una pratica frequentemente documentata e che comporta l’annullamento della funzionalità terrena dell’oggetto, destinato all’uso esclusivo da parte del defunto. Il manufatto piú singolare è stato, però, rinvenuto appoggiato alla parete di fondo della camera. Si tratta di un oggetto bronzeo, sicuramente legato alla pratica del simposio, composto da un contenitore a vasca troncoconica traforata, su cui si innesta un lungo manico cavo terminante con due eleganti teste di cigno. Simili oggetti sono variamente atte-

stati in ambito etrusco e romano e, accanto alle brocche, facevano solitamente parte del corredo mestoli, colini e imbuti. Uno strumentario complesso, necessario per versare il vino e filtrarlo. Dato il gusto un po’ acidulo, la bevanda veniva, poi, resa piú gradevole aggiungendo miele o altre sostanze. Con la sua forma allungata e la vasca traforata, l’oggetto di Nepi farebbe pensare a un originale imbuto o a una sorta di antico infusore all’interno del quale venivano inserite le fragranze per insaporire il vino.

VASI D’IMPORTAZIONE La tomba 3 di Sante Grotte è anche quella che ha restituito i corredi piú sontuosi, indice dell’alto livello sociale della famiglia proprietaria del sepolcro. È presente un nutrito numero di ceramiche d’importazione, fra le quali spiccano un’olpe (brocca) attica a figure nere con scena di Satiro che porta in spalla una Menade e una kylix (piatto a due manici) a figure rosse, decorata con eleganti immagini di giovani atleti intenti alla lotta. Il rango dei defunti è manifestato anche dagli ornamenti personali, costituiti, oltre che da armille e fibule in bronzo, da orecchini in oro e in argento e da pendenti di varia fattura e provenienza. Fra questi, singolare è il ritrovamento di uno scarabeo egizio, che non è stato recuperato all’interno di un loculo, ma davanti a una delle tegole di chiusura, quasi a protezione della sepoltura. Le tombe infantili, ricavate nel banco tufaceo all’esterno delle tombe a camera, consistevano in una fossa rettangolare con un largo incavo che permetteva l’alloggio della chiusura, costituita da un blocco di tufo squadrato. I corredi associati erano limitati a pochi oggetti, mediamente tre per sepoltura, fra i quali i caratteristici poppatoi, cioè piccoli vasi muniti di beccuccio forato utilizzati per allattare. I dati acquisiti grazie a queste sco-

perte colmano, almeno in parte, le lacune circa la conoscenza della Nepi preromana, offrendo la visione di una società ben organizzata, già all’inizio del VII secolo a.C., all’interno della quale emerge la presenza di un ceto aristocratico che poteva disporre di un consistente potenziale economico. La differenziazione sociale tende ad accentuarsi dal VI secolo a.C., come attestano i materiali restituiti dalle necropoli di San Paolo e Sante Grotte, che comprendono beni di prestigio di produzione greca e orientale. L’analisi dell’architettura funeraria e dei corredi tombali evidenzia la ricezione di influenze culturali provenienti dalle vicine città falische ed etrusche, ma anche la capacità, seppur limitata, di rielaborare e fare propri questi modelli. E, proprio nell’eclettismo, va forse ricercata la prerogativa di questo centro dell’Agro Falisco. Il quadro che va delineandosi è quello di una città di frontiera, pienamente partecipe dei moti e dei processi di sviluppo che interessano il territorio circostante e il cui ruolo di centro «minore» va ancora definito. Il proseguimento delle attività di survey, svolte in questi ultimi anni in larga parte dalla British School at Rome attraverso il «Tiber Valley Project», e la ripresa dello scavo della necropoli di Sante Grotte porteranno sicuramente a nuove importanti scoperte capaci di precisare il quadro finora accennato. DOVE E QUANDO Museo Civico Archeologico di Nepi Orario invernale (ott-mag): mar-ven 11,00-13,00; 16,00-18,00 sab-dom 10,00-13,00; 15,00-18,00 Orario estivo (giu-set): mar-ven 11,00-13,00; 16,00-18,00 sab-dom 10,00-13,00; 16,00-19,00 lunedí chiuso Info tel. 0761 570604; e-mail museo@comune.nepi.vt.it Fb. www. facebook.com/museociviconepi a r c h e o 73


ARCHEOTECNOLOGIA • NAVE DI CALIGOLA

UN COLOSSO PER

CALIGOLA

L’OBELISCO CHE TRONEGGIA IN PIAZZA S. PIETRO VIENE DALL’EGITTO. FU TRASPORTATO A ROMA NEL 37 D.C., A BORDO DI UNA NAVE ENORME, DESCRITTA DA PLINIO IL VECCHIO COME LA PIÚ SBALORDITIVA FINO AD ALLORA VARATA. GIUNTA A OSTIA, L’IMBARCAZIONE VI RIMASE ORMEGGIATA PER UN VENTENNIO E, A CAUSA DELLE SUE DIMENSIONI MASTODONTICHE, NON POTÉ PIÚ ESSERE UTILIZZATA. OGGI, LE SCOPERTE NELL’AREA DEL PORTO DI TRAIANO SEMBRANO SVELARNE IL DESTINO… di Flavio Russo


L

a città del Sole, la mitica Eliopoli, conserva ben poco del suo remoto splendore, essendo ormai un caotico e rumoroso sobborgo del Cairo. Pressoché nulla resta dei suoi splendidi templi, dei tanti edifici sacri e dei numerosi obelischi, eretti sin dal II millennio a.C. Dei primi permangono, forse, le fondazioni sotto

l’odierno abitato, dei secondi neppure quelle, essendo stati sistematicamente asportati dai vincitori di turno. Se ne ammirano, perciò, a Londra, a New York e, soprattutto a Roma, dove i tre monoliti piú grandi svettano in piazza S. Giovanni in Laterano, in piazza Montecitorio e in piazza S. Pietro. A differenza degli altri,

Qui sopra: Chiesa di Santa Maria della Febbre, Roma, olio su tavola di Pieter Jansz Saenredam. 1629. Washington, National Gallery of Art. Nel dipinto, basato su un disegno realizzato un secolo prima da Maerten van Heemskerck, l’artista olandese mostra l’Obelisco Vaticano prima del suo spostamento, nel 1586, in piazza S. Pietro, dove da allora si trova, come si vede nella foto a doppia pagina.


ARCHEOTECNOLOGIA • NAVE DI CALIGOLA

l’ultimo, detto anche Vaticano (o Grande Obelisco), non fu mai abbattuto, né mutò di molto la collocazione, stagliandosi sempre sul colle Vaticano, sebbene spostato, nel 1586, di un centinaio di metri dalla collocazione primitiva. Fu realizzato per volere del faraone Amenemhat II, nel XX secolo a.C. ed eccedeva i 44 m di altezza contro i 25 attuali: un monolito di granito 76 a r c h e o

rosso di oltre 700 tonnellate! Agli inizi del principato di Augusto, su iniziativa di Cornelio Gallo, governatore della nuova provincia di Egitto, lo si traslò nel Forum Iulii di Alessandria, spezzandolo. Il frammento maggiore fu eretto dove previsto, ricavandosene dal restante il basamento. Pochi anni piú tardi, Caligola lo volle sulla spina del suo circo sul colle Vaticano (la spina

era l’elemento che percorreva nel senso della lunghezza la pista, dividendola a metà, n.d.r.), imitando quanto aveva fatto Augusto per il similare, detto Flaminio, nel 10 a.C., collocato nel Circo Massimo. Il trasporto dall’Egitto avvenne nel 37, con una nave di straordinaria grandezza, cosí ricordata da Plinio il Vecchio: «Di sicuro sul mare non si é mai visto nulla di piú sbalorditivo di


questa nave: 120 000 moggi di lenticchie [circa 800 t] fungevano da zavorra» [N.H. XVI, 76, 201]. Dopo la traversata, la nave attraccò a Ostia e l’obelisco, risalito il Tevere, raggiunse il sito d’impianto, restandovi per i successivi quindici secoli, mentre l’enorme scafo restò ormeggiato per un ventennio, troppo grande per qualsiasi impiego.

UN’OPERA GRANDIOSA Nel 42 d.C., quando l’imperatore Claudio avviò la costruzione del nuovo, gigantesco porto di Roma – 200 ettari di superficie tra due smisurate dighe foranee, ciascuna delle quali lunga quasi 1,5 km, adibite internamente a moli –, ci si ricordò della nave ormai prossima a marcire, per ricavarne il basamento di una torre di controllo presso l’imbocco del bacino. Si decise, infatti, di trasformarla in una gigantesca cassaforma impropria, colmandola di calcestruzzo prima di affondarla, come Plinio non mancò di rievocare: «Il divo Claudio fece condurre e affondare per la costruzione del porto di Ostia, edificandovi sopra una torre a piú piani con inerti di Pozzuoli, la piú mirabile nave che si fosse mai vista sul mare, che era stata importata da Caligola e si era conservata fino ad allora» (N.H. XXXVI, 9, 70). Precisò inoltre che: «Per la sua lunghezza occupò gran parte del lato sinistro del porto di Ostia. Lí, infatti, fu affondata, durante il principato di Claudio, per edificarvi sopra una torre di tre piani con inerti e pozzolana trasportata appositamente da Pozzuoli. La circonIn alto: il porto di Ostia nella versione colorata di un’incisione del cartografo Jan Blaeu. 1640 circa. A destra: foto aerea del grande bacino esagonale fatto costruire da Traiano nell’ambito della ristrutturazione del porto di Ostia. 110-112 d.C. a r c h e o 77


ARCHEOTECNOLOGIA • NAVE DI CALIGOLA

LA PIETRA DI POZZUOLI Una prima interpretazione del brano citato vorrebbe lo scafo affondato lungo il molo di sinistra; una seconda, piú semplicemente, che l’affondamento avvenne nel porto. In ogni caso, lo scopo era quello di ampliare la larghezza di uno dei due

preminente sviluppo verticale, ma quasi mai un faro. Non si può tuttavia escludere che un vero faro sia stato edificato sulla poderosa scogliera formata dinnanzi all’imbocco del porto dopo il 62, quando, stando a Tacito (Ann. XV,18), una violentissima mareggiata vi affondò centinaia di imbarcazioni. Forse quell’intervento venne attuato tra il 100 e il 112, durante la riqualificazione dell’intero impianto voluta da Traiano, con la costruzione di un inedito bacino esagonale, piú interno, di

circa 30 ettari, con 2 km di banchine. Proprio in quei paraggi, sono stati di recente identificati i resti di un isolotto artificiale abbastanza allungato, correttamente identificato con la supposta diga e basamento del faro, senza contare che documenti dell’XI secolo fanno riferimento a due fari ancora visibili tra i ruderi del porto.

moli per potervi erigere sopra un’alta torre, di tre piani. Che l’impresa implicasse una titanica gettata sottomarina si deduce dall’inciso sull’utilizzo della pozzolana, appositamente trasportata da Pozzuoli per la sua risaputa peculiarità di rapprendersi sott’acqua. Che fosse destinata a formare il basamento di un faro non è affatto scontato, vuoi perché quelli romani non venivano impiantati sui moli, ma piuttosto sulle alture limitrofe per renderli visibili da piú lontano di notte e di giorno per il loro fumo, vuoi ancora perché il termine turris designa tutte le costruzioni in muratura o in legno a

In alto: la poderosa struttura in calcestruzzo scoperta nell’area del porto di Traiano durante la costruzione dell’Aeroporto «Leonardo da Vinci»: è possibile che contenga i resti della nave utilizzata per il trasporto dell’Obelisco Vaticano, trasformata nel basamento di una torre. Nella pagina accanto, in alto: la planimetria dei porti di Claudio e di Traiano elaborata dall’ingegner Otello Testaguzza: è evidenziata l’area in cui emerse la struttura in calcestruzzo. Nella pagina accanto, in basso: la raffigurazione di un faro scolpita su un blocco in travertino forse proveniente da una tomba ostiense. Età imperiale. Ostia, Museo Ostiense.

ridotte imbarcazioni per ricavarne casseforme improprie, per le enormi difficoltà delle gittate subacquee isolate nel mare, preferirono sempre la tecnica dell’ accumulo di macigni. Cosí, per esempio, Plinio il Giovane la descrisse durante la costruzione del porto di Centocelle a Civitavecchia: «Una baia naturale viene convertita a tutta velocità in un porto. Il braccio sinistro è già stato rafforzato da una solida talpa e il diritto è in corso di costruzione.All’ingresso del porto un’isola artificiale inizia a sporgere dall’acqua, per fungere da frangiflutti quando il vento soffia verso l’interno, e in modo da dare un passaggio sicuro per le navi che entrano da entrambi i lati. Per la sua

ferenza del suo albero era tale che occorrevano quattro uomini per abbracciarlo [circa 150 cm di diametro] e si sente abitualmente che tronchi da impiegare come alberi navali si vendono a 80 000 sesterzi» (N.H. XVI, 40, 201).

78 a r c h e o

CUMULI DI MACIGNI Sebbene i Romani, nella formazione di isolotti artificiali, abbiano spesso fatto ricorso a vecchie e mal-


costruzione, che vale la pena di vedere, massi enormi sono portati da grandi chiatte e gettati fuori uno sopra l’altro di fronte al porto, provvedendo il loro peso a tenerli in posizione e la pila sale gradualmente in una sorta di bastione (…) In seguito una torre sarà costruita sulle fondamenta di pietra, e col passare del tempo somiglierà a un’isola naturale» (Epistolae, IV, 31). Diviene pertanto poco credibile che la nave di Caligola fosse stata impiegata per formare un isolotto artificiale: anche supponendo uno scafo di 12-13 m di altezza dalla chiglia al ponte, il riempimento di pietrisco non poteva superare gli 8-10 m, per lasciare sotto lo scafo

stesso ancora un po’ d’acqua, cosí da poterlo posizionare prima dell’affondamento. Ma, una volta adagiata la carena sul fondo, come sarebbe stato ultimato il riempimento? Quanti carichi di piccole imbarcazioni sarebbero occorsi e, soprattutto, in che modo se ne sarebbe versato il contenuto nel relitto? Pertanto delle due ipotesi circa il punto di affondamento del grande scafo, quella a fianco della diga foranea appare di gran lunga piú plausibile, poiché avrebbe potuto consentire l’afflusso del calcestruzzo con carovane di carri condotti sulla sommità della diga larga abitualmente almeno 5 m. a r c h e o 79


ARCHEOTECNOLOGIA • NAVE DI CALIGOLA

LA NAVE DI PIETRA

La mole della torre, la cui struttura doveva somigliare, sia pure con dimensioni minori, a quella del Faro di Alessandria, insisteva sul blocco di calcestruzzo ottenuto per riempimento della grande nave di Caligola.

N

el 1957, l’area del porto di Claudio, ormai trasformatasi in una bassa piana sabbiosa, fu sconvolta dai lavori per l’aeroporto internazionale «Leonardo da Vinci»: gli sbancamenti fecero affiorare cospicue sezioni delle due dighe foranee e una strana e colossale massa di calcestruzzo, che il

Lo scafo della nave, una volta posizionato, venne fatto parzialmente affondare per pochi metri, dopo averne sfondato la carena e parte della fiancata. In questo modo venne adagiato orizzontalmente sul basso fondale, per poterlo agevolmente colmare di pietre e calcestruzzo.

80 a r c h e o

direttore dei lavori, l’ingegner Otello Testaguzza, identificò con quell’antico riempimento. Tagliandosene l’estremità meridionale per condurvi la via De Pinedo, la sezione che ne risultò sembrò, per colorazione, tipologia d’inerti e contorni geometrici, confermare l’intuizione. I successivi, meticolosi rilievi dell’ ingegnere portarono, in breve, alla definizione di una sagoma, tipica di uno scafo, lunga circa 100 m e larga circa 20, che, con un’altezza complessiva di 12-13 m, darebbe un dislocamento (la quantità di acqua spostata dallo scafo) di oltre 7000 tonnellate, congruo per una nave adibita a un trasporto tanto gravoso. L’identificazione di Testaguzza, tuttavia, non è pienamente accettabile, soprattutto per aver interpretato la lunga teoria di fori schierati alla stessa altezza in quella massa muraria – con un interasse di un paio di metri –, come i vuoti lasciati dai bagli (elementi che sostengono i ponti e collegano le murate, n.d.r.) della nave, marciti nel tempo. Quei fori, e la loro presenza in altri ruderi di moli

romani – tra cui quello di Anzio – lo conferma, sarebbero stati invece lasciati dalle travi, o catene, usate per serrare le casseforme, evitando cosí che si aprissero durante la gettata.

DA BAGLI A CATENE L’interpretazione delle catene, comunque, non contrasta quella dei bagli, poiché anche questi, una volta asportato l’impalcato del ponte, sarebbero di fatto divenuti catene, necessarie per i diaframmi lignei interni, realizzati sicuramente con il tavolame del ponte. Si spiegherebbero cosí i fori presenti anche nella parte prodiera della sagoma – quella tagliata dalla via De Pinedo –, che corrispondono alle travi longitudinali correnti sotto i bagli. Del resto, catene o traverse di piú di 20 m di lunghezza, oltre che prive di analogie, risultano, se non impossibili, almeno inutili, dal momento che, in casi del genere, era sufficiente vincolare fra loro le opposte coppie di montanti con funi. Senza quei travi, poi, sui quali si deve immaginare un residuo impalcato destinato al transito dei carri, come si sarebbe potuto riempire una cassaforma tanto lunga? Inoltre, un interasse di appena 1,52,2 m fra travi cosí spesse e per giunta sollecitate solo a trazione, non è giustificabile con il contrasto alle spinte del calcestruzzo fluido sulle pareti delle casseforme. Sareb-


bero semmai risultati perfettamente idonei a sostenere il rilevante peso di un obelisco adagiato sulla coperta. Restando alla suddetta ipotesi – resa graficamente dalle ricostruzioni –, poiché i rilievi provano che la profondità del mare tra le dighe foranee era di circa 7 m, si può ragionevolmente immaginare che la grande nave, già caricata di pietre di varia pezzatura, fosse stata rimorchiata fin quasi all’estremità del molo di sinistra – secondo Plinio e Testaguzza – o di destra, secondo i recenti scavi, facendone quasi strisciare la carena

sul fondale. E, giunta al punto prestabilito, venne affondata: in realtà, lo scafo non si inabissò, ma scese appena di 1-2 m, adagiandosi sulla sabbia, per cui le sue murate, che inizialmente sovrastavano di 4-5 m la linea di galleggiamento, emergevano ancora di 2-3 m, trasformandosi in normali casseforme, nelle quali fu colato un calcestruzzo molto fluido trasportato dai carri.

LA SAGOMA DELLA PRUA Ogni interstizio fra le pietre si colmò e, in breve tempo, l’interno dello scafo si trasformò in un blocco di

La rilevanza del carico trasportato lascia immaginare un ponte rinforzato, steso su grossi bagli, abbastanza ravvicinati fra loro, piú altri a essi perpendicolari, tutti in sostanziale concordanza con i fori che possono osservarsi nella massa di calcestruzzo.

Nella sezione prodiera, ricavata per far passare la via De Pinedo, si scorgono altri grossi fori con andamento perpendicolare ai laterali, privi di criterio strutturale qualora si ravvisino in questi ultimi delle semplici catene per casseforme.

conglomerato saldissimo, che sovrastava di alcuni metri il livello del mare, dalla evidente sagoma navale. In corrispondenza della «prua» si osserva ancora una sorta di piattaforma tondeggiante di circa 4 m di diametro, interpretata da Testaguzza come il nucleo della scala elicoidale del faro, per noi piú modestamente della torre di controllo. Solo ulteriori indagini geoarcheologiche potranno definitivamente accertare l’esatta natura del grande blocco di calcestruzzo e l’attendibilità dell’ipotesi che sia stato ottenuto affondando una enorme nave. a r c h e o 81


STORIA • IL GIOCO D’AZZARDO

RIEN NE VA PLUS! DALL’IMPERATORE CLAUDIO, CHE GLI DEDICÒ UN MANUALE, AL RICCO TRIMALCIONE, CHE USAVA MONETE D’ORO E D’ARGENTO COME PEDINE, IL MONDO ROMANO ATTESTA UNA PASSIONE PER IL GIOCO – SOPRATTUTTO D’AZZARDO – CHE NON CONOBBE FLESSIONI

F

in dalla preistoria, il gioco ha costituito una delle espressioni peculiari della specie umana. Ma quando e dove nascono i primi giochi? E come giocavano i nostri antenati? Domande almeno in parte destinate a rimanere senza risposta, ma alle quali si può comunque replicare con le numerose testimonianze offerte dall’archeologia: basti pensare ai giocattoli che spesso fanno parte dei corredi funebri o alle pitture murali che mostrano uomini e donne impegnati in attività ludiche di vario genere. A partire dall’epoca classica, inoltre, il gioco fu scelto come argomento da piú di un autore e perfino dall’imperatore romano Claudio, che sembra fosse un giocatore accanito e al quale lo storico Svetonio

82 a r c h e o

a cura della Redazione

attribuiva un manuale, oggi purtroppo perduto. La civiltà romana ci ha lasciato le testimonianze piú consistenti sul gioco, permettendoci di ricostruirne la pratica e gli aspetti piú significativi.

SCOMMETTERE SUI GALLI Allora come oggi, giocare non era una prerogativa esclusiva dei piú piccoli, anche se gli adulti prediligevano una categoria ben precisa di giochi, cioè quelli d’azzardo. Molto diffuse erano, per esempio, le scommesse: forti somme di denaro ruotavano intorno ai combattimenti dei galli, una pratica che godeva di straordinaria popolarità, catalizzando l’attenzione di grandi e piccini. Se i primi speravano di aver investi-

to sul volatile vincente, i secondi partecipavano con entusiasmo alle lotte, tifando per il proprio pennuto preferito. Ecco perché scene di galli in combattimento ricorrono su stele e sarcofagi e sono spesso il soggetto di piccoli gruppi scolpiti nella terracotta. Simili combattimenti tra animali non erano giochi d’azzardo veri e propri, ma, come già detto, comportavano scommesse e quindi piacevano all’imperatore Augusto, il quale, fin da giovanissimo, fu un giocatore accanito e si divertiva a puntare denaro sui galli; e se dobbiamo credere a Plutarco, sembra avesse sempre molta fortuna. I giochi «proibiti» piú popolari e praticati erano quello degli astragali e quello dei dadi. Passatempi mal


visti nell’antica Roma, tanto da essere proibiti per legge e consentiti soltanto nel periodo dei Saturnali. La proibizione, come molte altre, veniva largamente ignorata, nonostante le autorità cercassero di farla rispettare, comminando pene severe ai trasgressori.

LA FINE DELLE VACANZE E... DEI SATURNALI Cosí, quando finivano le vacanze invernali e quando, come ci dice Marziale, alla riapertura delle scuole, «Il fanciullo, triste, ha dovuto abbandonare le sue noci richiamato dalle grida del maestro», anche un certo numero di trasgressori veniva abitualmente sorpreso e condotto in giudizio: «Tradito dal suono dell’avvincente bossolo e appena strappato alla taverna clandestina il giocatore di dadi implora il perdono dell’edile. Ormai tutti i Saturnali sono finiti».

Molti erano i giochi d’azzardo messi al bando, scrupolosamente elencati dalle leggi che miravano a impedirne la pratica. La lista comprendeva anche quello, in realtà abbastanza innocente, del Capita aut navia, ossia testa o croce, che si giocava lanciando in aria una moneta e che veniva cosí chiamato perché quelle piú antiche avevano su una faccia la testa di Giano bifronte e, sull’altra, la prua di una nave. Vi era poi la morra, che si giocava, come si fa ancora oggi, con le dita di una mano aperte all’ultimo momento mentre si pronunciava ad alta voce un numero, e nella quale vinceva la posta chi indovinava la loro somma. La palma della popolarità spettava però ai già citati dadi e astragali. Per questi ultimi, si utilizzavano i «dadi» ricavati appunto da astragali di capra o di montone, oppure con le loro

imitazioni in altro materiale (avorio, pietra, ecc.). Gli ossicini (o le loro repliche) davano vita a partite infuocate: per giocare, servivano quattro pezzi, ciascuno dei quali aveva soltanto quattro facce utili, dal momento che le altre due erano arrotondate e quindi inadatte a farli restare in equilibrio. Rispetto ai dadi, mancavano la faccia del 2 e quella del 5. Su una delle facce maggiori e piatte c’era l’immagine di Anubi, il dio sciacallo del pantheon egiziano, che i Greci chiamavano kion, cane, e cosí venne chiamato anche dai Romani. Era il lancio peggiore e valeva soltanto 1 punto. La faccia opposta, consacrata a Venere valeva invece 6 punti. Delle altre due facce, la concava ne valeva 3 e la convessa 4. Esse potevano dare luogo a ben 35 combinazioni diverse, ciascuna delle quali aveva una sua denominazione.

GIOCHI DA TAVOLO, MA NON SOLO Nella categoria dei giochi d’azzardo rientravano anche quelli su scacchiera: una valutazione per noi sorprendente, ma che può forse spiegarsi con l’idea che passare il proprio tempo giocando fosse un costume riprovevole e dunque degno d’essere messo all’indice. Considerazioni morali a parte, i primi giochi di questo tipo che conosciamo si diffusero in Egitto, seguiti a ruota da quelli greci. A loro volta, i Greci trasmisero questa tradizione ai Romani, che elaborarono numerose varianti dei giochi che oggi definiamo «da tavolo», ma Nella pagina accanto: particolare della decorazione di una coppa attica a figure nere raffigurante due uomini che si accingono a far combattere i propri galli, da Vulci. 550-540 a.C. Parigi, Museo del Louvre. A sinistra: mosaico raffigurante il gioco dei dadi, da Thysdrus (presso El-Djem, Tunisia). III sec. d.C. Tunisi, Museo del Bardo. a r c h e o 83


STORIA • IL GIOCO D’AZZARDO

che, all’epoca, si praticavano un po’ ovunque. Passeggiando nei fori o nelle strade di molte città romane, infatti, non è difficile riconoscere scacchiere incise sulle lastre delle pavimentazioni oppure, come si vede per esempio a Roma, nella Basilica Giulia, sui gradini degli edifici. Addirittura, nei pressi di Siviglia, nella sola città di Italica, sede della famiglia dell’imperatore Adriano, ne sono state trovate ben cinquantasette e di varie forme, concentrate sui marciapiedi di due strade che costeggiano la casa del Mosaico di Venere. Quarantacinque di queste scacchiere, le piú comuni e numerose, hanno una forma circolare, con tre, quattro o piú raggi. Alcune hanno un circolo tracciato all’interno e una, divisa in quattro parti, ha quattro circoli piú piccoli in ognuna di esse. Altre tre consistono in piccoli rettangoli con due segmenti interni perpendicolari che li dividono in quattro sezioni uguali. Altre scacchiere sono formate da file di concavità praticate nella pietra e talvolta sovrastate da un lungo rettangolo, altre volte da linee che delimitavano lo spazio destinato al gioco. A oggi, ignoriamo quali gio-

chi si praticassero su supporti del genere, ma è ragionevole immaginare che si facessero passare nelle linee alcune palline, seguendo un percorso fisso, fino a riunirle tutte a una meta prestabilita.

LA SCACCHIERA IN TRIONFO Passatempi come questi erano diffusi anche nelle ricche residenze signorili, dove le scacchiere non erano incise sui pavimenti, ma erano supporti fabbricati alla bisogna, assai simili a quelli tuttora in uso e per i quali, non di rado, venivano impiegati anche materiali preziosi. Le fonti raccontano, per esempio, che, quando celebrò il suo trionfo sui pirati, l’Asia e il Ponto, Pompeo Magno portò in corteo, fra i trofei di guerra, anche una scacchiera, che misurava 3 x 4 piedi (pari a 90 x 120 cm circa), le cui caselle erano costituite dagli intarsi di due tipi di pietre preziose. E Petronio, nel Satyricon, fra i molti vezzi che attribuisce al liberto arricchito Trimalcione, il protagonista del romanzo, c’è anche l’ostentazione di una preziosa tavola di terebinto, con dadi di cristallo di

rocca e monete d’oro e d’argento usate al posto delle normali pedine bianche e nere. Le fonti tramandano anche la pratica del gioco detto «delle dodici linee», per il quale occorreva una scacchiera provvista di un numero di pedine oscillante tra le 12 e le 15, per metà bianche e per metà nere, piú 2 o 3 dadi e un bossolo in cui poterli agitare. Un primo lancio serviva a stabilire quale giocatore avrebbe aperto la partita; questi doveva quindi decidere se scegliere di muovere una sola pedina, mettendola nella casella corrispondente alla somma dei numeri segnati dai dadi, o muoverne due o tre, ponendole nelle caselle equivalenti al numero di ogni dado. Le pedine, tuttavia, potevano esser messe soltanto nelle caselle libere, ossia in quelle nelle quali nessuno dei giocatori fosse riuscito a sistemare due o tre delle sue pedine, perché queste venivano considerate chiuse per l’avversario che non poteva piú entrarci. Se però, lanciando i dadi, si otteneva il numero di una casella nella quale si trovava una sola pedina avversaria, la si poteva occupare con la propria e rimandare l’altra indietro alla casella d’origine. Altro vantaggio i giocatori lo ottenevano quando, lanciando i dadi, questi presentavano Scatolina in forma di testa di Eracle utilizzata per contenere alcuni astragali in terracotta da utilizzare per l’omonimo gioco, da Cuma Eolica (presso Aliaga, Turchia). 50 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.

84 a r c h e o


Rilievo raffigurante alcuni putti che giocano ai latrunculi. II sec. d.C. Le-Puy-en-Velay, Musée Crozatier.

tutti lo stesso numero: in questo caso avevano diritto a un altro tiro e conseguentemente a un’altra mossa. La partita veniva vinta dal giocatore che riusciva a far muovere tutte le sue pedine passando di casella in casella, fino a riunirle tutte nella prima casa. Quello delle dodici linee era dunque un gioco molto simile al nostro tric-trac, sbaraglino o tavola reale. La scacchiera si poteva utilizzare anche per giocare ai latrunculi, termine che fino all’epoca di Cicerone indicava i mercenari, o anche i guardacoste, e non, come poi accadde, i «ladroni». Dopo che la pa-

rola aveva acquisito questo signifi- rivava in fondo alla scacchiera si cato, le pedine vennero chiamate trasformava in dama (mandra). milites e bellatores. Vi era infine un gioco per il quale ci si serviva di pedine fatte con materiali diversi, ma tutte dipinte o COME UN CAMPO incise. Alcune avevano da una parte DI BATTAGLIA Il gioco dei latrunculi, che cominciò l’immagine di una Musa e a volte, a godere di grande popolarità dalla sul rovescio, il nome della medesifine della repubblica, era considerato ma. La gamma delle raffigurazioni un gioco di strategia: la partita ri- era comunque piú ampia: sono inchiedeva una scacchiera, che funge- fatti attestate pedine con immagini va da campo di battaglia, provvista di di imperatori, divinità, eroi, atleti, sessantaquattro caselle, e sedici pedi- filosofi e poeti (per esempio Mene per ogni giocatore, che ne rice- nandro) personaggi della commeveva otto grandi e otto piccole. Le dia, schiavi e caricature, maschere regole dovevano essere una via di teatrali, uccelli, animali, conchiglie, mezzo tra quelle della dama e quel- segni dello Zodiaco e oggetti come le degli scacchi. I giocatori tendeva- vasi, canestri di frutta e, ancora piú no a portare le proprie pedine nel interessante, una serie di edifici cecampo avversario e a invaderlo lebri che caratterizzavano i vari dicompletamente e la pedina che ar- stretti della città di Alessandria. a r c h e o 85


SPECIALE • ORO

NELLA RETE DELL’

ORO

IL METALLO DAL COLORE DEL SOLE SPRIGIONA, DA SEMPRE, UN FASCINO IRRESISTIBILE. E LA LOTTA PER IL SUO POSSESSO SI È SPESSO MACCHIATA DI ROSSO SANGUE. MA DA CHE COSA NASCE QUESTO SUO RICHIAMO ANCESTRALE? STUDIOSI DI TUTTO IL MONDO, RIUNITISI ALL’UNIVERSITÀ DI PADOVA, HANNO PROVATO A SPIEGARE LE RAGIONI DEL SUO INTRAMONTABILE POTERE... di Cristina Boschetti e Massimo Vidale

Applique in oro nota come l’«Afrodite battriana», dalla tomba n. 6 di Tillya Tepe (la «collina dell’oro», un sito dell’età del Bronzo scoperto nell’Afghanistan settentrionale). I sec. d.C. Kabul, Museo Nazionale. 86 a r c h e o

N

asce da collisioni astrali immense, dal cuore di stelle agonizzanti, viene disperso nello spazio ed è concentrato da vortici gassosi in embrioni di pianeti. Non si tratta di fantascienza, ma dell’infanzia di qualcosa che conosciamo molto bene: l’oro, il giallo e nobile metallo che, da sempre, tanto colpisce l’immaginazione della nostra specie. Recenti ricerche, infatti, rivelano che solo le energie davvero titaniche scatenate dalla collisione di due supernove (lo stadio finale dei corpi stellari) riescono a compattare la stabile struttura degli atomi di questo elemento. Osservando le emissioni luminose di questi


rari eventi cosmici (nei dintorni del sistema solare se ne verificherebbe uno ogni 100 000 anni circa), gli astrofisici oggi scoprono che tali collisioni possono creare quantità d’oro pari a cinque o sei masse lunari. Lune d’oro, quindi, ma, per quanto ci riguarda, inaccessibili e quindi fantastiche, un po’ come quelle «di formaggio» delle fiabe.

UNA EQUITÀ SOLO TEORICA Sulla terra, però, di oro ne giunge assai poco. Si calcola che sino a oggi – tenendo presente che ogni anno l’industria ricava dalle rocce una quantità

Corona in oro, proveniente anch’essa dalla tomba n. 6 di Tillya Tepe. I sec. d.C. Kabul, Museo Nazionale.

d’oro pari a un cubo di 5 m di lato – l’uomo abbia estratto l’equivalente di tre piscine olimpiche colme del prezioso metallo e che, se esso venisse equamente distribuito tra i 7 miliardi di abitanti del pianeta, ognuno di noi dovrebbe portare almeno cinque anelli sulle dita della mano. Purtroppo sappiamo che cosí non è e che l’oro, nelle società umane, costituisce la principale misura della diseguaglianza. Eppure il nobile metallo ha in qualche modo toccato e tocca una parte significativa delle società umane. Un recente seminario internazionale tenu-

a r c h e o 87


SPECIALE • ORO A destra: manufatti in oro provenienti da tombe della necropoli eneolitica di Varna (Bulgaria). 4600-4200 a.C. circa. Varna, Museo Archeologico. In basso: bracciali in oro, con terminazioni a testa di ariete, dalla tomba n. 6 di Vani (Georgia). Prima metà del IV sec. a.C. Tbilisi, Museo Statale della Georgia. Nella pagina accanto: monili di Varna in corso di scavo.

DALLA TERRA DEGLI ARGONAUTI Le prime collezioni di oggetti in oro scoperti nei tumuli funerari della Georgia si datano alla seconda metà del III millennio a.C. I reperti aurei divengono piú comuni nella prima metà del II millennio a.C., quando la locale cultura detta di Trialeti è nota come la piú ricca dell’intero Caucaso. Tuttavia, ancor piú famosa è la successiva cultura della Colchide, propria delle società tribali insediate nel II-I millennio a.C. nell’attuale territorio della Georgia occidentale e nelle regioni confinanti. Il nome etnico di Colchide, come «Cilchi», compare per la prima volta in testi cuneiformi assiri del sovrano Tiglat-Pileser I (1115-1077 a.C.). Uno Stato della Colchide è poi menzionato in testi del Paese di Urartu, come nell’iscrizione del re Sardur II (764-735 a.C.). A quell’epoca, la Colchide era unificata in una possente compagine unitaria, e al

88 a r c h e o

medesimo periodo, risale la fascinazione dell’Occidente per queste terre, che traspare dal mito del viaggio degli Argonauti – la ricerca dell’oro al limite remoto tra Europa e Asia –, celebrato dalle fonti e assai popolare nella cultura ellenistica e greco-romana. Una magnifica sala del Museo Archeologico di Tiblisi è dedicata agli ori della Colchide. Gran parte di questi tesori si datano al VI-IV secolo a.C. e provengono dagli scavi nei maggiori centri amministrativi della Georgia occidentale, come Kobuleti-Phichvnari, Vani e Sairkhe. Grazie alle indagini condotte a Vani, la Georgia ora possiede migliaia di capolavori in oro unici, che provano la ricchezza, l’amore per il lusso e la raffinatezza delle élite del tempo. Stili e tecnologie ben distinti, e chiaramente locali, mostrano una profonda continuità con quelli delle fasi piú arcaiche. I piú tardi reperti dei tesori rinvenuti


tosi a Padova («The golden legacy. Seven millennia of technological growth and social complexity») ha appunto esplorato una complessa rete tecnologica e simbolica al tempo stesso: l’oro si manifestava in passato non solo sotto la forma piú ovvia dei gioielli, ma anche di decorazioni su opere d’arte e murature e nel lusso dei tessuti dei ricchi, né mancavano le ricette che ne consigliavano l’uso in medicina.

LE RAGIONI DEL SUCCESSO Ancora oggi, l’oro trova ampie e meno note applicazioni. Forse non tutti sanno che dal riciclaggio di una tonnellata di telefoni cellulari si ricaverebbero alcuni chilogrammi d’oro: molti, al confronto del terzo di grammo che si ricava, in media, dalla stessa quantità di roccia aurifera. Ma, telefoni a parte, quali sono le ragioni del successo di questo metallo? L’oro ha uno splendido colore giallo, che ricorda il fulgore del sole; è sostanzialmente inalterabile, poiché la sua struttura atomica è tanto compatta da

Aquileia Roma

Varna

Vani Tillya Tepe

Lo scavo delle tombe di Varna, in Bulgaria, ha restituito i piú antichi manufatti in oro a oggi noti

nei pressi della fortezza di Gonio, conservati al Museo di Bubuleti, sulla costa orientale del Mar Nero, mostrano la graduale confluenza degli stili locali in quelli ellenistici. La straordinaria abbondanza dei rinvenimenti aurei ben spiega perché la Colchide – insieme a Micene, Sardi e Babilonia – fosse ricordata tra i luoghi piú ricchi, ricolmi d’oro, del mondo antico. Dal punto di vista artistico, l’«oro degli Argonauti» che riemerge dalle sepolture georgiane costituisce una affascinante cerniera tra il Mediterraneo e il Mar Nero a ovest, e l’Iran, il Vicino Oriente e il mondo delle steppe centro-asiatiche a est. Dopo il crollo dell’URSS, Paesi come il Kazakistan hanno ripreso le esplorazioni dei tumuli funerari (kurgan) degli Sciti (prima età del Ferro) e delle sepolture sarmatiche (VI-V secolo a.C.), che mostrano diretti legami culturali con il bacino dell’Altai e la Siberia orientale. Ma è negli splendidi gioielli ritrovati da Viktor Sarianidi a Tillya Tepe (vedi box alle pp. 90-91) che meglio si colgono i riflessi artistici della cultura già ampiamente globalizzata dell’Asia Centrale nell’età classica, alle soglie del I millennio d.C. Vakhtang Licheli

a r c h e o 89


SPECIALE • ORO

AVVENTURA A TILLYA TEPE Nel tardo autunno del 1978, uno dei team della spedizione sovietico-afgana condotta da Viktor Sarianidi (1929-2013) era impegnato nello scavo di Tillya Tepe (la «collina dell’oro»), un insediamento dell’età del Bronzo nelle pianure della Battriana, nell’Afghanistan settentrionale, a circa 3 km di distanza dalla cittadina di Shinbergan. Improvvisamente, vennero alla luce sette tombe aristocratiche, appartenenti alla prima dinastia Kushana (I secolo a.C.-I secolo d.C.). Le tombe non avevano alcun segnacolo o costruzione superiore, come se fossero state accuratamente nascoste nel sottosuolo. Sei di esse (una maschile, le altre femminili) furono scavate dalla missione, in una vera lotta contro il tempo, a causa del peggioramento della situazione politica e delle condizioni di sicurezza; l’ultima fu lasciata per una futura ripresa dello scavo, che purtroppo, come spesso succede, non ebbe mai luogo. Quanto lasciato nel terreno è andato perduto in seguito ai saccheggi compiuti in tempo di guerra. I defunti indossavano magnifici abiti funebri, sui quali erano cucite

non interagire al contatto con l’aria, con l’acqua e ad altri comuni reagenti. Cosí l’oro, in natura, a differenza di altri metalli (rame, ferro, piombo, argento) compare esclusivamente e ovunque in forma pura, di metallo nativo. Una forma che, data la sua visibilità, può averne fatto il primo metallo scoperto dall’uomo. Siamo dunque agli albori della metallurgia e i cercatori d’oro, esaurite nella preistoria le scorte metallo nativo disponibili in superficie, passarono a sfruttare grani e polveri setacciati dalle sabbie dei fiumi e a frantumare enormi quantità di quarzo per estrarne vene dorate. Poiché mediamente vi è pochissimo oro nel90 a r c h e o

centinaia di applique e figuravano gioielli di squisita fattura in oro e argento. Lo scavo, registrando la posizione di ciascun pezzo, permise in seguito la ricostruzione esatta delle ornamentazioni delle vesti, effettuata da V. Buryi, un famoso restauratore, con l’assistenza dell’artista Irina Maksimova. Furono cosí trovati e ricomposti in sontuosi paramenti piú di 25 000 manufatti in oro.

la crosta terrestre (come si è detto, 0,03 grammi per 1000 kg, non piú di 3 parti per miliardo), la quantità di lavoro necessaria a estrarre il metallo è in pratica costante, e si può cosí considerare l’oro nei termini di un simbolo materiale, misurabile, del lavoro umano.

PARABOLA DELL’ESISTENZA Come hanno sottolineato gli economisti del XIX secolo, l’oro diviene cosí un equivalente, anche se in modo del tutto ideale, della vita delle persone e con essa può essere scambiato. Una conseguenza semplice, ma drammatica della sua rarità, che si trasforma, inevitabilmente, in una dimensione di potere politico,


Questi comprendevano placchette di dimensioni diverse applicate alle stoffe, gioielli intarsiati di rara complessità, cinture, corone e persino fibbie per le scarpe. La maggior parte dei gioielli in oro denota la commistione di diverse tradizioni storiche e culturali: vi figurano i locali stili dell’antica Battriana e delle regioni orientali dell’Altopiano Iranico, come preziosi manufatti importati dal mondo ellenistico, indiano, cinese, scitico e sarmatico. Molto piú rari sono gli elementi decorativi del periodo greco-battriano (III-II secolo a.C.), importati dall’entroterra afgano, come gioielli ellenistici di produzione grecoromana, la cui esatta provenienza non è ancora stata determinata. Come ha osservato Sarianidi, la necropoli reale di Tillya Tepe mostra lo sviluppo della sensibilità estetica e dell’ideologia universalistica delle prime regine e dei re Kushana in corrispondenza di una svolta storica epocale: per la prima volta compare negli scenari archeologici un’enorme quantità di gioielleria aurea foggiata negli stili piú diversi, a riflettere la comparsa di un nuovo impero, in un’Eurasia già parzialmente globalizzata.

Sulle due pagine, da sinistra: l’archeologo Viktor Sarianidi (1929-2013); collare in oro e pietre preziose dalla tomba n. 4 di Tillya Tepe; la tomba n. 6 di Tillya Tepe in corso di scavo, con i preziosi manufatti del corredo ancora in situ.

Collocata in un punto nodale della Via della Seta, la necropoli ha restituito capolavori della toreutica (l’arte di cesellare, n.d.r.) che sono del massimo interesse sia per gli studiosi dei Sarmati e dei guerrieri nomadi siberiani, a est, sia per chi studia l’arte ellenistica e gli effetti di questo coagulo nelle forme espressive della dinastia Kushana, futuri dominatori del Sub-continente Indo-Pakistano. Provvidenzialmente

e spesso anche di sopraffazione dei ricchi sui deboli. Altre proprietà, questa volta fisiche, hanno contribuito al successo del metallo: oltre al fatto che può circolare senza deteriorarsi in modo significativo, la sua lavorabilità, che lo rende divisibile alle minime frazioni senza perdere nulla del suo valore e adatto alle piú raffinate creazioni artistiche; nonché la sua immediata riconoscibilità, che lo rende accettabile a chiunque e in qualsiasi forma. Inoltre, l’aperta associazione simbolica al Sole, quindi alla sfera del divino, saldava nell’immaginario umano il privilegio alla sacralità, legittimando la diseguaglianza. Senza accorgersene, nella scorsa decade mol-

trasportato dal Museo di Kabul in un caveau segreto della Banca Nazionale Afghana, prima che iniziassero i peggiori saccheggi, il tesoro di Tillya Tepe si è salvato, quasi incredibilmente, dai disastri e dai massacri bellici ed è stato «riscoperto» nel 2003. La sua sopravvivenza è di buon auspicio per la rinascita politica e culturale dell’Afghanistan. Nadezhda A. Dubova

ti di noi sono stati coinvolti in una vasta riflessione inconscia sulle sinistre «proprietà sociali» dell’oro. Il drago Smaug, che nei racconti di John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973) arrotola le sue spire su enormi cumuli d’oro sepolti nel cuore di una montagna, può essere preso a metafora delle seduzioni di un metallo cavato al prezzo di vite intere dalle viscere della roccia, per poi tornare invisibile e inaccessibile nell’oscurità dei caveau delle banche. Eppure le statistiche dicono che la maggior parte dell’oro, ancora oggi, circola ed è riciclata sotto forma di gioielli e non di lingotti (segue a p. 95) a r c h e o 91


SPECIALE • ORO

92 a r c h e o


MILLE FILI SPLENDENTI L’oro fu usato per abbellire e impreziosire i tessuti già nella preistoria. Il prezioso metallo era incorporato nelle stoffe sotto forma di placchette o applique. Le placchette erano applicate direttamente sulle stoffe, in quanto l’oro, come altre sfumature metalliche, è uno dei colori piú difficili da riprodurre senza ricorrere allo stesso metallo solido. Nel caso dei tessuti, un’altra soluzione consisteva nell’arrotolare intorno a un nucleo in fibra organica fili o fettucce d’oro, creando fili da utilizzare come altri di piú semplice natura organica. A oggi, non è chiaro quando tale tecnica sia stata sperimentata per la prima volta, ma abbiamo testimonianze dell’uso di

Sulle due pagine: spirali in oro scoperte in Selandia (Danimarca) in situ (nella pagina accanto) e dopo il restauro (in alto). 900-700 a.C. circa. Copenaghen, Nationalmuseet.

Qui sopra: l’interno di un kurgan sarmatico a Filippovka (Russia). Prima età del Ferro. La sepoltura conteneva almeno 400 brattee in oro, originariamente cucite sull’abito indossato dalla defunta.

filati rivestiti d’oro per adornare le vesti già dall’età del Bronzo. Le piú antiche fonti scritte attribuiscono l’invenzione dei fili d’oro all’Asia Minore, ma ritrovamenti archeologici di questo tipo sono noti anche in Europa e nel Vicino Oriente. Come già accennato, i filati aurei venivano fabbricati ricorrendo a tecniche diverse (filo o fettuccia, fettucce o fili arrotolati su fibre organiche, o membrane coperte di foglia d’oro) e potevano far parte dei tessuti mediante tecniche differenti: tessitura a schemi geometrici su telaio, inclusi i broccati; ricamo; fuoriuscita; tessitura a tavoletta, tecnica nella quale una tavoletta perforata guida la trama. Potevano indossare abiti intessuti d’oro sia gli uomini che le donne, mentre, in età romana, l’unico elemento di vestiario esclusivamente femminile sembra essere stato il reticulum (reticella) per i capelli, ben documentato non solo nell’iconografia romana, ma anche da scoperte archeologiche. Quali che fossero le fibre e le tecniche usate, i tessuti in oro erano estremamente costosi e alla portata esclusiva degli strati piú elevati delle società antiche. Margarita Gleba

a r c h e o 93


SPECIALE • ORO

STRATI DI LUCE Le tesserae per mosaico in vetro e oro sono manufatti compositi, fatti con una foglia d’oro di spessore minimo (1 millesimo di millimetro) e di un sottile strato di vetro soffiato (avente uno spessore inferiore al millimetro), inseriti a caldo tra due altri strati di vetro: uno di vetro colato (il supporto, spesso 1 cm circa) e la cosiddetta cartellina, un’applicazione superficiale che proteggeva la foglia d’oro e ne aumentava la brillantezza. Simili tesserae compavero nei mosaici murali nel I secolo d.C., per la prima volta a Roma; da allora, il loro uso si è protratto senza interruzione sino a oggi. Il loro utilizzo in quantità considerevoli si colloca comunque nell’era costantiniana (inizi del IV secolo d.C.), per culminare sotto gli Ostrogoti (mosaici ravennati del V secolo), e nel periodo bizantino. Scavi di contesti di età romana e medioevale hanno restituito molti pani di mosaico in vetro e oro in corso di lavorazione, ma, a oggi, non è stato ancora identificato alcun laboratorio dove tali pani venissero prodotti. E, dal punto di vista archeologico, sarebbe importante capire dove queste tesserae fossero fabbricate, o se e dove venissero riciclate, smantellando, ahimé, mosaici piú antichi. Un’ulteriore difficoltà è che spesso i mosaici sono difficili da datare esclusivamente sulla base delle consuete considerazioni stilistiche. Moderne analisi ci avvicinalno alla soluzione del problema: per esempio, le leghe delle monete in oro in circolazione in un dato periodo ben corrispondono a quelle delle foglie d’oro usate nei mosaici, e tipi di vetro usati per le tesserae variano in modo coerente da un’epoca all’altra. Elisabetta Neri 94 a r c h e o

A sinistra: un’immagine ottenuta al microscopio elettronico della superficie di una tessera di mosaico in vetro, rivestita di foglia d’oro. Nella pagina, intorno al margine dell’immagine principale: tessere di mosaico in vetro di vari colori di epoca romana e altomedievale.


Sulle due pagine: Ravenna, S. Apollinare Nuovo. Particolare del mosaico della parete settentrionale raffigurante un corteo di sante. 561-569 d.C.

celati nelle riserve auree. E proprio di questi vuote o cenotafi) comprendevano maschere usi, molto visibili, nel mondo antico si è di- di argilla cruda, e ben 3000 oggetti d’oro, pari a circa 6 kg. Si è calcolato che una sola scusso nel seminario padovano. sepoltura di Varna conteneva piú oro di tutto quanto ne è noto, per lo stesso periodo, nel TUTTO COMINCIÒ IN BULGARIA Nel 1972, non distante dalla sponda del lago resto del mondo. Le ragioni di questo fenodi Varna, presso la costa bulgara del Mar Nero, meno rimangono un enigma; probabilmente venne alla luce una necropoli di circa 300 Varna non era una realtà unica e isolata, ed sepolture databili tra il tardo Neolitico e l’i- eccezionale è stata la conservazione delle nizio del Calcolitico, tra il 4600 e il 4200 a.C. tombe e dei loro tesori, piuttosto che questo I corredi (soprattutto quelli deposti in tombe arcaico uso dell’oro per segnalare la disuguaa r c h e o 95


SPECIALE • ORO

96 a r c h e o


CIRCONDATI D’ORO: IL VERO E IL FALSO I testi antichi menzionano l’uso dell’oro per la decorazione di edifici pubblici e di case private, e i pittori, mediante pigmenti, imitavano sui muri materiali preziosi come marmi, avorio, legni pregiati, gemme, bronzo, oro e argento… L’oro, reale o simulato, figurava su pitture murali e stucchi, nel territorio italiano e nelle province romane di Occidente, con tecniche speciali ed espedienti artistici. Esiste ormai una considerevole casistica di resti di rivestimenti in foglia d’oro su architetture scavate in Italia, Francia, Svizzera, Turchia e altri Paesi. Studi in corso stanno caratterizzando i materiali impiegati allo scopo, dalla lega dell’oro e del bolo

argilloso (la preparazione per la stesura della foglia) alla colla, e a eventuali pigmenti applicati sulla doratura. Ricerche che si avvalgono anche dell’esperienza di artigiani moderni, doratori, stuccatori e pittori: quel savoir-faire des gens de métier essenziale per la ricostruzione dell’antica tecnologia, senza dimenticare che gli antichi pittori avevano sia i pigmenti, sia la capacità tecnica di simulare non solo il colore dell’oro con tinte gialle, ma anche la sua brillantezza e preziosità. Un esempio di come una tecnologia, quella dell’oro, possa stimolare la nascita di tecnologie completamente diverse. Florence Monier

A sinistra: pittura pompeiana raffigurante un lare, con foglia d’oro applicata sul rhyton, sulla situla e sulla bulla. I sec. d.C.

glianza. Le società europee devono essere lentamente scivolate nella «rete dell’oro» già nelle ultime fasi del Neolitico, anche se è solamente nell’età del Bronzo e nei successivi stati arcaici dell’età del Ferro che l’oro diviene ufficialmente e formalmente un vistoso simbolo di disparità. Nell’incontro di Padova si è discusso anche di indagini archeometriche applicate alla gioielleria antica. Daniela Ferro, specialista della materia, ha sottolineato che «in ogni realizzazione di gioielleria è presente un concetto matematico, chimico o fisico che testimonia l’effettiva presa di coscienza da parte dell’uomo di quel concetto (…) È un insieme di forme che rivelavano uno stato sociale, un’appartenenza religiosa o un messaggio». Informazioni che, grazie all’uso della microscopia a scansione e di altre tecniche micro-analitiche, possono essere decodificate e contribuire cosí a una conoscenza piú approfondita delle ideologie del tempo. Il seminario ha anche esplorato alcuni aspetti meno noti, come l’uso decorativo dell’oro in età classica e tardo-antica in foglie su sculture, ornamenti, pitture, elementi architettonici, mosaici e raffinate produzioni vetrarie, e tessuti del massimo pregio. (segue a p. 101) Qui accanto: Zeugma, (Turchia), Casa di Poseidone, triclinio. Particolare di un elemento architettonico a dentellature sul quale, su una base di colore giallo (geotite) è stata rilevata la presenza di tracce della foglia d’oro utilizzata per la decorazione insieme ai normali pigmenti.

a r c h e o 97


SPECIALE • ORO

GLI ORI DEL MUSEO DEL GIOIELLO DI VICENZA di Alba Cappellieri

Il Museo del Gioiello di Vicenza è il primo in Italia e sancirono l’eclettismo ottocentesco in antitesi alle uno dei pochi al mondo esclusivamente dedicati al frivolezze rococò, determinando di fatto un nuovo gioiello. Nella meravigliosa cornice della Basilica linguaggio fondato sul recupero dell’antico, Palladiana si mette in scena la magia senza tempo di considerato come koinè e paradigma di riferimento in un oggetto che diviene memoria, con la tutte le arti, gioiello incluso. consapevolezza che esistono molteplici Fu cosí che nel 1814 Fortunato Pio Castellani, concezioni di gioiello, legate al tempo, capostipite della famiglia, aprí un alla cultura, al gusto: alla storia negozio a Roma in via del Corso 174, dell’uomo. Il museo presenta il dove insieme ai figli Alessandro e gioiello in nove micro-mondi Augusto, iniziò la raccolta di quei Bulla in oro, lavorata a tematici definiti da Magia, 1200 gioielli archeologici che filigrana. I sec. a.C. Simbolo, Funzione, Bellezza, oggi rappresentano la Già Collezione Castellani. Arte, Moda, Design, Icone e Collezione di Villa Giulia. Roma, Museo Nazionale dai Nuovi scenari. Le oreficerie rinvenute nelle Etrusco di Villa Giulia. Gli allestimenti delle sale, necropoli etrusche erano in curati da esperti di fama parte vendute ai collezionisti internazionale, hanno la durata di tutta Europa e in parte di due anni, trascorsi i quali costituivano i modelli-campione cambia il curatore e quindi la per sperimentare le tecniche selezione in mostra. Un viaggio antiche della colorazione e della dinamico e appassionante che, lavorazione dell’oro come la lontano dai consueti criteri museali granulazione e la filigrana. di classificazione cronologica o stilistica, Le rielaborazioni ottocentesche di quei restituisce la complessità semantica del prototipi archeologici furono catalogate gioiello attraverso punti di vista da Augusto in scaffali-contenitori, eterogenei, dove l’antico dialoga distinti secondo categorie storico con il contemporaneo e i artistiche: Antichissimo o capolavori del passato si Primigeno, Tirreno, Etrusco, affiancano a quelli realizzati Italo-Greco o Siculo, Romano, con le tecnologie del futuro. Medioevale, Rinascenza, Nella sala Icone, curata da Ida Moderno. Delle colte Caruso e Alfonsina Russo, acquisizioni che compongono troviamo alcuni tra i pezzi piú la parte «antica» della ricca significativi dell’oreficeria collezione Castellani, Ida archeologica: quelli che Caruso ha scelto per il Museo di provengono dalla collezione Vicenza quei gioielli che Castellani del Museo Nazionale rappresentano appunto i «modelliEtrusco di Villa Giulia e campione», icone del nuovo stile e rappresentano, nelle parole di Ida portatori di innovazioni formali, Caruso, «l’espressione piú completa materiche e tecniche. dell’attività e dell’impegno rivolto alla cultura È il caso, tra gli altri, della straordinaria – per dell’antico da questa stirpe di raffinati antiquari e abili dimensioni e valenza storica – bulla romana che, prima artigiani.» di essere un prezioso ornamento, rappresentava nel Gli scavi archeologici della fine del Settecento mondo antico un contenitore di amuleti contro le forze riportarono alla luce i capolavori del passato e soprannaturali. I Romani la destinavano ai giovani di 98 a r c h e o


In questa pagina: manufatti realizzati dai Castellani a imitazione di originali di epoca antica: una spilla con micromosaico in oro e pasta vitrea (qui accanto) e una fibula di tipo gotico in oro e smalto. Seconda metà del XIX sec. Già Collezione Castellani. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia

condizione sociale non servile, i quali, raggiunta la maggiore età di 17 anni, la offrivano ai Lari insieme alla toga. Di grande impatto, per forma e per manifattura, sono anche gli orecchini in oro e filigrana del IV secolo a.C., realizzati in lamina tubolare rivestita da un filo avvolto a spirale che terminano con una protome leonina. La loro tipologia e la ricca decorazione sono frequenti sia in ambiente etrusco sia in Magna Grecia, con una concentrazione nella produzione tarantina. Vere icone dello straordinario e raffinato repertorio etrusco e romano sono alcune fibule in lamina d’oro della metà del VI secolo a.C., perlopiú provenienti da scavi a Cerveteri o a Vulci, sia per la linearità del modello, sia per la decorazione sull’arco con figure fantastiche come, per esempio, il leone alato. Ad alcune di esse, del tipo «a sanguisuga» o «a drago», sono state abbinate interessanti

repliche ottocentesche che sulla struttura moderna inseriscono elementi archeologici, quali spicchi in avorio o ambra o legno dorato. Frutto di una commistione di elementi antichi e moderni secondo l’usuale stile dei Castellani sono spesso le collane, come per l’esemplare con pendenti a bulle e a ghiande in lamina d’oro alternati a vaghi sferici in pasta vitrea blu, tipici portafortuna contro il malocchio, di produzione fenicia. Una variante alle perle in vetro blu per le collane sia etrusche sia romane è la presenza dei piú preziosi granati sia di forma sferica che lenticolare. Originale e unico è il pendente di produzione ottocentesca, anch’esso con funzione apotropaica, che ingloba una punta di freccia preistorica in una montatura moderna decorata a filigrana. Ugualmente preziosi e unici sono gli esemplari nella tecnica del micromosaico, un’arte già diffusa nel Settecento avviata dallo Studio del Mosaico del Vaticano e particolarmente in voga nel 1800. Nelle cassine in oro sono incastonate minute tessere policrome di smalto filato in cloison d’oro o di rame che ripropongono motivi ornamentali dei mosaici romani o medievali, delle chiese bizantine, della simbologia paleocristiana, aggiungendo motti o giochi di parole allusivi di situazioni politiche.

a r c h e o 99


SPECIALE • ORO

A BRESCIA, I BAGLIORI DEL TARDO-ANTICO Il monastero benedettino femminile di S. Giulia, a Brescia, venne fondato alla metà dell’VIII secolo d.C. da Desiderio, ultimo re longobardo, nel comparto nord-orientale della città antica, tra l’area del Foro e la cinta muraria. Dal 1998, vi è allestito il Museo della Città. In 13 000 mq, con almeno 11 000 oggetti, viene proposta la storia di Brescia dalla fine del IV millennio a.C. al XVIII secolo d.C. Il percorso museale si snoda attraverso gli ambienti del monastero, integrandosi con le architetture antiche che i visitatori sono portati ad attraversare. Gli ambienti seminterrati sono dedicati al territorio in età preistorica e protostorica. Al piano terra vi sono i settori dedicati alla città romana e alle iscrizioni. Negli ambienti intorno al chiostro rinascimentale si susseguono reperti della romana Brixia, seguendo tre ampie tematiche: l’edilizia pubblica monumentale, quella residenziale privata e le necropoli. Il deposito di bronzi rinvenuto nel 1826 in un’intercapedine del capitolium, costituito da centinaia di frammenti in bronzo tra i quali la statua della Vittoria Alata, comprende sei teste ritratto di

100 a r c h e o


cui alcune dorate, numerose cornici di rivestimento e frammenti di troni di statue di culto, dorate e ageminate. L’oro affiora anche in ricchi corredi tombali: tra i tanti gioielli, un anello in oro con incise lettere greche e una biga guidata da un auriga, un anello in oro con corniola incisa con testa di menade, un braccialetto in oro e perle di fiume, orecchini. Anche per l’età altomedievale sono numerosi i corredi funerari rinvenuti a Brescia e nel territorio, ricchi di spade, scramasax (la spada di media lunghezza a un solo taglio, tipica dell’armamento longobardo, n.d.r.), scudi, ma anche monili in pasta di vetro e metallo prezioso, quali, per esempio, una fibula a disco in oro decorata a filigrana e le crocette in lamina d’oro, cucite sul sudario del defunto, con decorazioni vegetali e antropomorfe impresse a sbalzo. Attribuita dalla tradizione all’ultimo re dei Longobardi, ma molto probabilmente espressione alta dell’oreficeria carolingia, è la Croce gemmata detta «di Desiderio», in legno, rivestita di lamina nella quale sono incastonate 212 gemme eterogenee, quali cristalli di rocca, onici, agate, corniole e vetri, di cui uno – con il ritratto di una donna e due giovani ragazzi –, realizzato con la tecnica del «fondo oro», che prevedeva la preparazione di un disco di vetro, in questo caso blu, sul quale era applicata una foglia d’oro, decorata combinando finissime incisioni e applicazioni di smalto. A decorazione ultimata, si applicava una sottile lastra di vetro incolore, a protezione della lamina. Questa tecnica, che vede le origini nelle produzioni di lusso di età ellenistica, ebbe ampia diffusione in età imperiale romana. L’esemplare di Brescia è databile al III secolo d.C. e attribuibile a una produzione egizia, sulla base dell’iscrizione in caratteri greci e dei dettagli dell’abbigliamento dei personaggi, che trovano confronto nei ritratti dei Fayyum. Francesca Morandini

Sulle due pagine, da sinistra: la croce gemmata detta «di Desiderio» (inizi del IX sec. d.C., ma con elementi di recupero databili a partire dal I sec. a.C.); ritratto dell’imperatore Settimio Severo, dal deposito di bronzi del Capitolium (III sec. d.C.); fibula a disco longobarda in oro, con lavorazione a filigrana, da San Zeno (Brescia; VII sec. d.C).

Ne è un esempio la diffusione nel bacino del Mediterraneo di vasi in vetro contenenti meravigliose bande auree. Il processo tecnico che portava alla loro realizzazione si componeva di numerose fasi, ancora non completamente comprese. Prima si creavano bande isolate – alcune in vetro colorato, e altre in vetro incolore, trasparente, destinate a inglobare la foglia d’oro. In seguito le bande venivano accostate, nuovamente riscaldate e manipolate in vario modo. In età ellenistica, questi vasi erano prodotti in pochi laboratori specializzati, probabilmente situati nel Mediterraneo. Nella prima età imperiale romana, furono prodotti anche ad Aquileia e a Roma. L’uso delle foglie d’oro inglobate nel vetro accomuna la tecnologia dei mosaici a quella dei vasi a bande e indirettamente, dal punto di vista delle leghe utilizzate, alla monetazione aurea. Il panorama delle reti tecniche considerate comprende anche le decorazioni su pietra e intonaco, come l’uso di foglie e pigmenti aurei nelle decorazioni pittoriche e murali, giungendo a confronti tra le tecniche del mondo classico europeo e di quello buddhista nell’Asia Centrale ed estremo-orientale.

a r c h e o 101


IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda

SUPERARE LE APPARENZE IN ARCHEOLOGIA, MA NON SOLO, È SEMPRE BENE GUARDARSI DALLE INTERPRETAZIONI «A PRIMA VISTA» E DALLE SOLUZIONI «FACILI». COME INSEGNA UN FRAMMENTO DI SARCOFAGO CONSERVATO NELLA MEZQUITA DI CORDOVA

A

bbiamo invitato altre volte i nostri lettori a riflettere sulle molte forme di distruzione del patrimonio culturale. Il tema è drammaticamente attuale, ma abbiamo cercato di leggerlo nella sua prospettiva storica, non certo per edulcorarlo, quanto per comprenderlo meglio nella sua dimensione culturale e antropologica, proprio perché spesso riflette un confronto conflittuale tra culture diverse. La Mezquita di Cordova, in Spagna, rappresenta oggi uno dei luoghi dove meglio apprezziamo la negazione e, al tempo stesso, la persistenza delle architetture religiose che vi si sono succedute: nella tarda antichità, quando nei pressi del fiume Guadalquivir fu edificata la primitiva chiesa visigotica dedicata a san Vincenzo, e nel Medioevo, quando sopra di essa sorse una delle piú straordinarie moschee di tutto il mondo islamico. Nel corso dell’VIII e del IX secolo, infatti, centinaia di colonne raccolte tra le rovine delle città antiche del Mediterraneo

102 a r c h e o

crearono uno spazio che gli architetti cristiani, nel XIII secolo – all’indomani della reconquista di Cordova nel 1236 –, riconvertirono in chiesa, ma non osarono alterare. In un angolo di quell’edificio fantastico, oggi frequentato da milioni di visitatori, un piccolo museo espone i resti sparsi di alcuni degli edifici che in quel luogo si sono sovrapposti.

LESIONI «SOSPETTE» Attira l’attenzione un blocco di marmo scolpito, che dovette un tempo appartenere a un sarcofago di dimensioni cospicue, databile alla metà del IV secolo. La fronte del marmo reca una decorazione molto appariscente, composta da una teoria di figure umane realizzate in altorilievo e in uno stile aulico, riconoscibile nonostante il violento martellamento che ha distrutto sistematicamente tutti i volti, tranne due, ai lati della figura centrale. Le immagini martellate rappresentano ciò che resta di un ben piú monumentale fregio continuo, in cui una donna defunta,


velata e adorna di una preziosa collana, è affiancata da scene solenni, che rappresentano il Cristo in diversi atteggiamenti di ispirazione evangelica. Considerato il contesto, tutto lascerebbe dunque presumere che la distruzione delle immagini vada riferita a un momento di forte discontinuità, che comportò il recupero del sarcofago dalla tomba nella quale era stato originariamente collocato per accogliere le spoglie di un personaggio di sicuro rilievo.

L’INDIZIO RISOLUTORE Questo recupero comportò l’abolizione dei volti raffigurati sul marmo, secondo quanto dettavano le norme dell’iconoclastia, un fenomeno che coinvolse tanto il mondo cristiano che quello musulmano: sarebbe insomma quasi banale attribuire questo episodio proprio all’islamizzazione del luogo dopo la conquista araba, dunque nel corso dell’VIII secolo. Sull’altro lato il blocco presenta una decorazione a transenna, che ci spiega il motivo del riuso: la fronte del sarcofago venne infatti trasformata nella parte posteriore di un architrave (o altro elemento architettonico), realizzato secondo il gusto tipico del tempo. Sembrerebbe questa la piú logica delle conclusioni possibili. Ma un dettaglio attira l’attenzione: ed è proprio la perfetta conservazione delle due teste che affiancano la figura centrale. Quale ne sarà il motivo? Se la cancellazione delle immagini umane e divine è legata a una

condanna di tipo ideologico, in questo caso religioso, perché quelle due figure non hanno subíto la stessa sorte? Una domanda legittima, che invita quindi a mettere in discussione la spiegazione iniziale della scalpellatura del rilievo. Ecco allora che, girando da un lato all’altro della vetrina, si viene incuriositi dalla visione del lato minore del blocco: traguardandolo, si nota infatti che la sezione del marmo rilavorato non presenta alcuna sporgenza dell’altorilievo primitivo. In altre parole, la scalpellatura sembrerebbe essere stata indirizzata innanzitutto a spianare il blocco per dotarlo da ambo i lati del piano di appoggio che ne avrebbe facilitata la posa in opera nella sua nuova collocazione e funzione. Ma, allora, l’atto distruttivo cosí vigoroso e insistito non sarà forse servito soltanto a ottenere un blocco meglio utilizzabile? Non si spiega dunque «semplicemente» cosí l’apparente rispetto di cui hanno goduto le due teste a basso rilievo? A guardar bene, infatti, il loro volume piatto non fuoriusciva e non fuoriesce dalla visione laterale del blocco. Non dunque una causa ideologica, ma una esigenza tecnica avrebbe guidato l’intervento distuttivo. Le negazioni, anche violente, degli aspetti culturali di un manufatto non vanno quindi sempre legate a precise volontà di carattere ideologico. In questo caso, per esempio, sarebbe stato cancellato solo ciò che disturbava il previsto riuso del sarcofago. E faremo bene

Sulle due pagine: la fronte (in basso, a sinistra), il retro e una veduta laterale (nella pagina accanto, in alto) del frammento di un sarcofago descritto nell’articolo. Databile alla metà del IV sec. d.C., è conservato nel museo della Mezquita di Cordova. La parziale distruzione del rilievo venne probabilmente dettata da esigenze tecniche piuttosto che ideologiche. a tenere in mente questa circostanza tutte le volte che la prima lettura – apparentemente preferibile – dovesse sembrarci anche la piú praticabile.

UN CAMBIO STORICO EPOCALE La negazione della funzione sepolcrale del sarcofago e la cancellazione delle immagini che lo decoravano non potrebbero comunque spiegarsi se non in presenza di un cambio storico epocale, quale fu appunto l’islamizzazione della Spagna. Solo quella circostanza giustifica la possibilità che si cancellassero disinvoltamente le immagini di Cristo e della ricca defunta che lo affiancava, ma quel lavoro «fatto a metà» ci mette anche in guardia sulle finalità della cancellazione. La complessità delle testimonianze d’archeologia e d’arte ci suggerisce, ancora una volta, che le spiegazioni apparentemente facili non sono necessariamente le piú convincenti: i fenomeni culturali possono essere dettati e prodotti da un intreccio di concause, nel quale motivi prevalenti e accessori definiscono gli aspetti contestuali di ogni evento storico.

a r c h e o 103


QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli

…LIBERÒ IL MARE DAI PIRATI I PREDONI DEL MARE FURONO UNA DOLOROSA SPINA NEL FIANCO PER ROMA, ALMENO FINO A QUANDO, NEL 67 A.C., NON VENNERO DATI MEZZI E POTERI ECCEZIONALI A POMPEO. IL QUALE, IN SOLI TRE MESI, RIUSCÍ NELL’IMPRESA DI DEBELLARE (QUASI DEFINITIVAMENTE) LA MINACCIA

S

crivendo della «vita di Cesare», Svetonio (IV) e Plutarco (1-2) raccontano (pressoché all’unisono) di quando il futuro dittatore, giovanissimo, mentre navigava nell’Egeo, diretto a Rodi (dove si proponeva di

104 a r c h e o

assistere – come già aveva fatto Cicerone – alle lezioni del retore greco Apollonio Molone) venne catturato, presso l’isola di Farmacussa (l’odierna Farmakonisi), dai pirati Cilici «che allora dominavano il mare».

L’episodio è noto. Un po’ meno lo è il comportamento temerario e altezzoso dell’illustre sequestrato. Il quale, alla richiesta di un riscatto di venti talenti, mostrandosi offeso per una cifra tanto modesta, avrebbe suggerito di alzarla fino a


cinquanta. Poi, nei trentotto giorni trascorsi in prigionia – mentre i suoi compagni, lasciati liberi di proposito, andavano raccogliendo quella somma e lui passava il tempo recitando versi e improvvisando discorsi che faceva ascoltare ai suoi custodi trattandoli da barbari qualora non l’avessero applaudito – piú volte, tra il serio e il faceto, avrebbe anche promesso ai suoi rapitori che, recuperata la libertà, li avrebbe fatti impiccare tutti. Ciò che puntualmente avvenne, come assicurano entrambi i biografi.

UN GESTO PIETOSO Cesare, infatti, appena rilasciato, procuratesi alcune navi, partí dal porto di Mileto a caccia dei pirati che non avevano creduto alla minacciata vendetta e «li sorprese mentre erano all’ancora presso l’isola e ne catturò la maggior parte». Poi, di fronte al tergiversare del governatore della provincia d’Asia cui spettava di punire i prigionieri, di sua iniziativa li fece crocefiggere. Però, forse in ricordo del forzato sodalizio dei giorni della prigionia, per risparmiare loro una lunga e dolorosa agonia, «dette ordine di strangolarli – scrive Svetonio (LXXIV) – prima di farli appendere alla croce». Correva l’anno 75 a.C. La disavventura corsa dal giovane Cesare fu forse la piú clamorosa del genere, ma non certamente isolata. I pirati cilici avevano grande fama e, nella prima metà del I secolo a.C., erano al culmine della loro potenza, provocando seri inconvenienti alla navigazione e ai commerci e costringendo le popolazioni rivierasche del Mediterraneo a vivere nell’incubo costante di incursioni e razzie. S’arrivò al punto che Roma, colpita anche direttamente nel campo degli approvvigionamenti alimentari, pur dopo aver lungamente tollerato le azioni piratesche (dalle quali veniva

egregiamente alimentato il mercato della manodopera schiavile, dominato dai mercatores italici) dovette risolversi a intervenire con grande determinazione. Del resto, non sarebbe stata la prima volta di un suo impegno per la «pulizia del mare». C’era già stato – sia pure in dimensioni assai ridotte – un precedente, «antico» di oltre cento cinquant’anni. Fu nella seconda metà del III secolo a.C., allorché fu costretta a un intervento in Adriatico contro quello che, sulla sponda illirica di quel mare, s’era andato affermando come un vero e proprio Stato di pirati, governato dalla regina degli Illiri, Teuta. La quale, avendo fatto della pirateria, perfettamente organizzata e diretta, un’autentica arte, se ne serviva come di un’arma, volta non soltanto al dominio del mare, ma anche alle conquiste territoriali. Nel 230 a.C., quando le navi illiriche – che già piú volte avevano attaccato i mercanti provenienti dall’Italia (alcuni dei quali, dopo essere stati depredati, vennero trucidati, «mentre non pochi di quelli catturati vivi – scrive lo storico greco Polibio – furono condotti via prigionieri») – minacciarono la ricca città di Issa, colonia di Siracusa, nell’isola omonima (l’odierna Lissa), legata a Roma da un trattato che prevedeva aiuto reciproco in caso di necessità, il Senato decise d’intervenire. E lo fece alla grande.

L’ALTERIGIA DI TEUTA Fallita un’ambasceria, respinta da Teuta con arroganza e con scherno (e attaccata poi, per giunta, in un’imboscata cruenta sulla via del ritorno), fu organizzata una massiccia spedizione punitiva. Ai due consoli, infatti, L. Postumio Albino e Cn. Fulvio Centumalo, venne affidata una flotta di 200 navi da guerra e un esercito – che per la prima volta nella storia fu

Nella pagina accanto: Ostia Antica. Particolare del rilievo sul monumento sepolcrale di Cartilio Poplicola. Seconda metà del I sec. a.C. Sulla destra si riconosce una scena di battaglia navale, tradizionalmente identificata con l’allusione ai meriti del defunto nella lotta contro i pirati. traghettato attraverso l’Adriatico, partendo da Brindisi – di 20 000 fanti e 2000 cavalieri. A tanta forza, gli Illiri non poterono opporre alcuna valida resistenza ed essi erano già vinti quando, al sopraggiungere dell’inverno, le operazioni di guerra furono sospese. Mentre il grosso delle truppe romane e della flotta rientravano in Italia con il console Fulvio (al quale fu decretato il «trionfo navale»), Postumio stringeva d’assedio Teuta, rifugiatasi nella fortezza di Rizon (o Risinium), in fondo alle Bocche di Cattaro. Finché, al ritorno della bella stagione, non la costrinse alla resa incondizionata.

ALLEANZA COATTA La regina dei pirati fu quindi costretta ad abdicare in favore del figlio, a stringere con Roma un trattato d’alleanza, a pagare un tributo annuale, a rinunciare a una parte del suo territorio e a impegnarsi di non spingere le sue navi, non piú di due alla volta e, comunque, disarmate, a sud di Lissus, presso la foce del fiume Drin (nell’Albania settentrionale). La vittoria assicurò all’Urbe un grande prestigio che fu da essa abilmente sfruttato quando si propose come garante della pace e della sicurezza alle città della Grecia. Le quali non potevano che beneficiarne, sicché, per gratitudine, Corinto aprí ai Romani i Giochi Istmici e gli Ateniesi li nominarono propri concittadini, ammettendoli, come tali, ai Misteri di Eleusi. Per Roma si aprí cosí la via verso i Balcani e il Mediterraneo

a r c h e o 105


orientale. La stessa che, dopo un secolo e mezzo di grandi avvenimenti, la condusse, agli inizi del I secolo a.C., ad affrontare ancora una volta, ma su larga scala, i praedones che dalle coste della Cilicia, dopo aver scorrazzato per tutto il Levante, s’erano spinti fino a infestare i mari dell’Occidente Mediterraneo. E non piú soltanto con imbarcazioni «da corsa», leggere e veloci, ma con vere e proprie navi da guerra e piccole flotte con le quali arrivavano fino a bloccare le città portuali. Un programma di repressione fu promosso già allo scadere del II secolo a.C. Poi, nel 78, a opera dell’ex console Publio Servilio, fu dato avvio a una serie di attacchi sistematici che, tra il 76 e il 74 Teuta, regina dei pirati illirici, tavola realizzata per l’Histoire générale de la Marine. Parigi, 1845. Salita al trono nel 230 a.C., Teuta, dedita alla pirateria, saccheggiò nello stesso anno Phoinike, in Epiro, uccidendo alcuni mercanti italici e causando in tal modo la prima guerra illirica (229-228 a.C.), dalla quale uscí sconfitta.

106 a r c h e o

(senza, tuttavia, che fossero di impedimento al rapimento di Cesare!), portarono alla neutralizzazione di molte basi piratesche disseminate dalla Licia e dalla Pamfilia fino alla Cirenaica. Ma, tra il 70 e il 69, i «briganti del mare», essendosi sparsi per il Mediterraneo alla ricerca di nuove basi, ebbero ancora l’audacia di compiere imprese clamorose. Come quando assalirono e saccheggiarono il porto di Delo.

LA PRESA DI CRETA O come quando fecero incursioni sulle coste italiane, da Brindisi a Ostia (dove affondarono un’intera flotta consolare), intercettando i rifornimenti frumentari diretti a Roma. La risposta romana fu una spedizione contro gli insediamenti pirateschi nell’isola di Creta che, con due campagne, guidate, nel 68 e nel 67, dall’ex console Q. Cecilio Metello (che ne ebbe il cognomen onorario di «Cretico»), fu occupata e annessa all’impero. Ma l’incubo della carestia e la conseguente pressione popolare reclamavano ormai la soluzione finale. Che fu

attuata, nello stesso anno 67. Tolto al Senato il compito di organizzare la lotta contro i pirati, su proposta del tribuno della plebe Aulo Gabinio, esso fu affidato a Pompeo, investito, per l’occasione, dai Comizi Tributi, del ripristinato ed eccezionale imperium infinitum, che comportava un comando militare illimitato per la durata di tre anni. Pompeo, con 100 000 uomini e una flotta di 270 navi da guerra, distribuite in una squadra speciale, mobilissima e direttamente ai suoi ordini, e in una dozzina di «distaccamenti» al comando di luogotenenti, dislocati per tutto il Mediterraneo e fino al Mar Nero, spazzò via i pirati da un capo all’altro del mare, con due grandi operazioni ben sincronizzate. Quindi, con una serie di appostamenti a sorpresa, di sbarchi a terra della «fanteria di marina» e l’uso di potenti macchine d’assedio, distrusse gli ultimi muniti rifugi dei superstiti sulla costa occidentale della Cilicia. Tutto fu compiuto nel giro di tre mesi. Con un epilogo singolare: la possibilità offerta alle migliaia di prigionieri e agli scampati dalle operazioni militari, di trasformarsi in onesti mercanti o in pacifici agricoltori nella loro stessa regione e in quelle vicine un tempo meta delle loro razzie. Una sorta di ritorno di fiamma – peraltro particolare – si ebbe al tempo delle guerre civili, a opera di cospicui gruppi di schiavi fuggitivi; ma furono tentativi velleitari e circoscritti. Annullati da Augusto, il quale, nelle res gestae, poté scrivere, non senza enfasi: «Mare pacavi a praedonibus» («Liberai il mare dai pirati»). E precisare: «In quella guerra catturai quasi trentamila schiavi che, fuggiti dai loro padroni, avevano preso le armi contro la Repubblica e li riconsegnai ai loro rispettivi proprietari ad supplicium sumendum, per essere sottoposti al castigo».



SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti

DANIMARCA, NAZIONE D’EUROPA LA RIPRESA DEGLI SCAVI NELLA FORTEZZA DI AGGERSBORG HA GETTATO NUOVA LUCE SULLA STORIA DEL PAESE SCANDINAVO. FACENDO EMERGERE I PROFICUI SCAMBI, NON SOLTANTO COMMERCIALI, INTESSUTI DAL REGNO DI HARALD DENTE AZZURRO BEN OLTRE LE TERRE DEL GRANDE NORD

N

elle archeologie dell’età storica, che dunque comprendono quella medievale, il confronto con la documentazione scritta può essere tanto difficile quanto proficuo. Un confronto che può avere modalità diverse: per esempio, si possono indagare le modalità e le parole con cui gli oggetti venivano nominati e descritti (nei testamenti, negli elenchi dei beni di una istituzione) e cercare di capire che cosa designassero quei vocaboli nell’ambito della cultura materiale. Oppure, l’archeologo può farsi guidare dagli indizi topografici contenuti nei testi per ritrovare le

108 a r c h e o

tracce di città, castelli, villaggi o monumenti scomparsi. Esistono, tuttavia, circostanze nelle quali l’archeologo medievale – al pari dei colleghi che si occupano di preistoria – deve operare a prescindere dalle fonti scritte, perché queste non sono disponibili.

PERCORSI ALTERNATIVI E deve allora affidarsi, per esempio, alla fotografia aerea, alle indagini geognostiche o alla ricognizione… È questo il caso di una serie di grandi fortezze individuate nel corso dei secoli in Danimarca. Si tratta di fortificazioni dalla struttura ricorrente, a pianta

Veduta aerea della fortezza vichinga di Trelleborg. Come quella di Aggersborg e altre, è caratterizzata dalla struttura ad anello e la sua costruzione si colloca negli anni in cui regnò Harald Dente Azzurro (959-987). circolare, venute alla luce in zone diverse della stessa nazione scandinava. L’impianto consiste in un terrapieno circolare, sormontato da una palizzata difensiva, che include una superficie piú o meno ampia (le misure cambiano da caso a caso), nella quale si dispongono varie abitazioni in legno, articolate in modo regolare intorno ai cortili. Una di esse, Aggersborg, è stata


oggetto di nuove ricerche, condotte da una équipe dell’Università di Aarhus, guidata da una delle piú autorevoli archeologhe scandinave, Else Roesdahl, e da Søren Sindbæk. Come spesso accade, il sito era già stato oggetto di scavi, ma la ripresa delle esplorazioni ha comportato l’uso delle piú avanzate tecniche, strategie e metodologie di indagine. I risultati sono stati pubblicati (Aggersborg. The Viking-Age settlement and fortess, Aarhus Universitetsforlag, 2014).

NEL SEGNO DI HARALD E il quadro è finalmente molto piú completo. Appare ormai evidente che Aggersborg e le altre fortezze furono costruite nella seconda metà del X secolo, per volere del re Harald Dente Azzurro (959-987), il sovrano che unificò il regno di Danimarca, conquistò parte della Norvegia e sotto il quale avvenne la conversione di quelle zone al cristianesimo. Fu uno dei piú grandi monarchi dell’Europa di quel tempo, insomma, capace di attuare un programma edilizio ambizioso quanto lo era l’idea

stessa del suo regno: queste fortezze, dall’aspetto impressionante e tutte riconducibili a un progetto unitario, dovevano controllare punti nevralgici della penisola, e rappresentare l’immagine stessa della Danimarca, simboleggiandone, nel contempo, l’eredità culturale e la potenza. Queste fortezze, inoltre, rappresentano un ponte ideale verso l’Europa: è ormai evidente

M a re d e l N ord Aggersborg

Sve z i a Katt egat

Fyrkat

Helsingborg

Jelling

Copenaghen Nonnebakken

Borgeby

Mar e B a ltico

Borgring Trelleborg

Trelleborg

N

Ge r m an i a

0

90 Km

In alto: veduta a volo d’uccello e disegno ricostruttivo della fortezza di Aggersborg, oggetto di nuove indagini condotte dall’Università di Aarhus. A sinistra: cartina della Danimarca con l’ubicazione delle fortezze a oggi note e del tumulo di Jelling.

che il modello della struttura circolare fu importato in Scandinavia dal continente, e in particolare dalla Germania e dall’Olanda, dove strutture simili erano già state costruite nei decenni precedenti.

IDEOLOGIE CONDIVISE La Scandinavia, insomma, era tutt’altro che una lontana periferia dell’Europa: ne era parte integrante, e con il continente condivideva, già allora, una ricca gamma di ideologie e simbolismi. Tutto questo è stato compreso soltanto grazie agli scavi e alle indagini archeologiche, perché nei testi scritti non c’è traccia di questo sistema di fortificazioni. Ci è invece giunta la documentazione scritta della grandiosa tomba di Harald, a Jelling: un tumulo imponente, situato accanto a una chiesa, provvisto di una monumentale iscrizione in alfabeto runico che celebra le gesta del re. Sul retro, un crocifisso rappresentato tra suggestivi motivi a intreccio di tradizione germanica: un vero e proprio manifesto del meticciato culturale che si doveva respirare nella Danimarca di quel periodo, a cavallo tra la grande cultura pagana del passato e la nuova ideologia emergente: il cristianesimo.

a r c h e o 109


L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

EROI, DÈI E LOTTATORI MONETE BATTUTE IN VARIE CITTÀ DELL’ASIA MINORE PROPONGONO ASSOCIAZIONI INSOLITE, ISPIRATE AI MODELLI DELLA GRANDE ARTE PLASTICA DELL’ETÀ CLASSICA

C

ome già abbiamo ricordato (vedi «Archeo» nn. 372 e 373, febbraio e marzo 2016), gli incisori che ebbero l’onore di firmare le monete non sempre raggiunsero l’eccellenza stilistica, ma le loro creazioni denotano una sicura maestria e la capacità di fare propri i modelli dell’arte maggiore, in particolare della scultura. Da Isso in Cilicia, regione sulla costa sud-orientale dell’Asia Minore, proviene un nome di dibattuta identificazione.

110 a r c h e o

Al dritto di alcuni stateri della città, databili intorno al 390-370 a.C., compare Apollo, appoggiato a un albero d’alloro, mentre compie libagioni con la patera in mano, coperto da un panneggio che, cadendo, ne svela il busto. Al rovescio, si staglia un Eracle stante, a riposo, con leontea, mazza e arco: entrambi gli dèi sono resi nello stile classico, in cui, alla perfezione atletica del corpo, si affianca la posa elegante, tipica di Prassitele e Lisippo.

IL TRIPODE CONTESO Anche ad Anemourion, città della limitrofa Panfilia, vi sono monete con Apollo ed Eracle, probabilmente uniti in culti locali o oppure appaiati in riferimento alla celebre «contesa per il tripode» tra il dio e il semidio. Al dritto appare il toponimo, Issos, e, su alcuni In alto: rilievo con scene di palestra, dalla necropoli del Ceramico di Atene. 510-500 a.C. Atene, Museo Nazionale. A sinistra: statere in argento di Aspendo, Panfilia. 380-325 a.C. Al dritto, due lottatori; al rovescio, un fromboliere che sta per lanciare, accanto al quale si vede una triscele.


esemplari, l’iscrizione Apatoriou («di Apatorios»). Tale legenda è stata oggetto di diverse interpretazioni: potrebbe infatti trattarsi di un attributo locale del dio Apollo, del nome di un magistrato responsabile, oppure, piú probabilmente, di quello dell’incisore, del quale è stata proposta l’identificazione con l’omonimo intagliatore di sigilli e conii attivo, anch’egli in Cilicia, nella città di Soloi. Quest’ultima possibilità ben si adatta alla figura dell’artista-incisore rinomato, che lavora per le città che ne richiedono l’intervento, anche quando non si tratti della sua madrepatria.

ATLETI IN GARA Un altro personaggio ignoto ai piú ricorre su stateri di Aspendo (Panfilia) databili intorno alla prima metà del IV secolo a.C. e assai interessanti dal punto di vista iconografico. Al dritto compare un combattimento sportivo, con due lottatori impegnati in una presa testa a testa. Sotto la linea d’esergo, sulla quale poggiano quasi fosse una pedana, c’è l’attestazione di paternità: «intagliata (eglipsa, in greco) da Menetos». L’immagine si ispira a un analogo tema dell’arte «aulica», come nella base del monumento funerario di un giovane ateniese decorata con scene di palestra, e si ripete anche su vasi greci e in pitture funerarie etrusche. Si tratta di giochi che inneggiano alla prestanza fisica del singolo e alla sua nobiltà nell’atletica, celebrandolo nella vita come nella morte, oppure di giochi in onore di un defunto; sebbene non si possa escludere che volessero sottolineare la vigoria sportiva di un’intera popolazione. Immagini simili ricorrono sugli stateri di Selge ed Etenna, in

A destra: Aspendo (Panfilia). La via che portava al bouleuterion, sede delle assemblee cittadine. In basso: statere d’argento di Isso (Cilicia). 390-370 a.C. Al dritto, Apollo con patera in mano; al rovescio, Eracle con leontea, clava e arco.

Pisidia, e sulle monete di Laodice a Mare (Syria). E anche nelle emissioni provinciali romane vi sono numerosi tipi con lotta a due, tra atleti o tra protagonisti del mito, come Ercole e Anteo. Il rovescio dello statere di Aspendo è dedicato a un inedito fromboliere intento al lancio con accanto una triscele, ovvero tre gambe unite al centro in posizione di corsa. La conformazione muscolosa e atletica dell’uomo sottolinea l’utilità in battaglia dell’arma, o forse celebra la gagliardia atletica mostrata in occasione di giochi specifici. La legenda, in lungo, riporta il nome indigeno Estvediiys (da cui deriva l’adattamento greco in Aspendos). Aspendo era una città ricca e fiorente, rinomata per il valore delle sue milizie oplitiche e forse anche dei frombolieri, se furono prescelti per le monete civiche. E a questo proposito si può supporre che la triscele, in genere simbolo celeste e di movimento, si riferisca proprio alla virtú bellica di chi si muove a piedi, laddove buone gambe e rapidità di movimenti fanno la differenza in battaglia.

a r c h e o 111


I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Anna Maria Tunzi (a cura di)

VENTI DEL NEOLITICO, UOMINI DEL RAME Preistoria della Puglia settentrionale Claudio Grenzi Editore, Foggia, 270 pp., ill. col. e b/n 73,00 euro ISBN 978-88-8431-590-8 www.claudio grenzieditore.it

Pur con i dovuti distinguo, non è esagerato affermare che il territorio pugliese, e quello del Subappenino dauno in particolare, sta alla preistoria italiana come la Mezzaluna Fertile a quella della regione euroasiatica. La regione, infatti, ha fino a oggi restituito una mole di dati sulle più antiche attestazioni riferibili all’avvento dell’economia produttiva (agricoltura e allevamento) che, ormai da molti decenni, ne fa l’osservatorio privilegiato per lo studio di questo fenomeno epocale. A rinforzare la sostenibilità di questa tesi giunge ora il volume curato da Anna Maria Tunzi, che, pubblicato in occasione dell’omonima mostra allestita nel Museo Archeologico Nazionale di Manfredonia, offre una rassegna delle acquisizioni più importanti, estendendo il censimento a quelle comunità eneolitiche che dei primi agricoltori e allevatori raccolsero l’eredità. Il volume si articola 112 a r c h e o

in una nutrita serie di contributi tematici, che preludono alle schede dedicate ai singoli insediamenti. Questi ultimi comprendono siti ormai affermatisi come termini di riferimento imprescindibili per lo studio del Neolitico – Coppa Nevigata, Masseria Candelaro, Monte Aquilone o Passo di Corvo, solo per citare alcuni dei più noti – e contesti rivelati dall’intensa attività archeologica preventiva condotta in vista della creazione dei numerosi impianti eolici sorti in questi ultimi anni (una circostanza che si è voluto evocare nel titolo della mostra e ora del volume). Osservando la carta di distribuzione dei siti e scorrendo le pagine dedicate alla loro descrizione, appaiono soprattutto evidenti l’entità delle presenze e la loro capillarità: dati evidenziati fin dalle ormai storiche campagne aerofotografiche condotte sull’area del Tavoliere a scopo bellico (poi trasformatesi in un prezioso strumento di

indagine), ma che hanno trovato in questi anni ripetute e significative conferme. Merita d’essere sottolineato il ricco apparato iconografico, che, oltre a rispondere alle indispensabili esigenze documentarie, valorizza al meglio i reperti e in particolare quelli ceramici, testimonianza tangibile dell’inventiva e della padronanza tecnica dei vasai della Puglia preistorica. Stefano Mammini

leggeva un tempo, va dalla caduta di Romolo Augustolo alla scoperta dell’America. Poste queste coordinate, il manuale si sviluppa per grandi tematiche, che alternano analisi sul metodo – stato dell’arte della disciplina, archeologia dell’architettura e della produzione – a ricognizioni dei diversi «teatri» nei quali si

Andrea Augenti

ARCHEOLOGIA DELL’ITALIA MEDIEVALE Editori Laterza, Roma-Bari, 332 pp., ill. b/n 35,00 euro ISBN 978-88-581-2230-3 www.laterza.it

Frutto di quella che Augenti stesso definisce una «gestazione molto lunga», il volume si propone come strumento ideale per chi – primi fra tutti gli studenti – desideri avvicinarsi all’archeologia medievale, ma anche per quanti, pur seguendone gli sviluppi e le acquisizioni, vogliano inquadrare meglio il contesto. E, non a caso, l’opera si apre con un capitolo sulla periodizzazione dell’età di Mezzo, che, soprattutto negli ultimi anni, è stata oggetto di revisioni e riletture con le quali si è voluto superare il convenzionale e meccanico criterio secondo il quale il Medioevo, come si

sviluppò la cultura medievale, come le città e le campagne. Meritano quindi attenzione le considerazioni raccolte nel capitolo finale, nel quale l’autore, che ne è docente all’Università di Bologna, illustra la sua idea di archeologia medievale. La trattazione è piana e scorrevole e si avvale di un ricco apparato iconografico, che comprende numerose ricostruzioni grafiche: uno strumento prezioso per rendere leggibili contesti che «parlano» all’archeologo, ma risultano spesso ermetici all’occhio dei non addetti ai lavori. S. M.



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.