Archeo n. 387, Maggio 2017

Page 1

IN VIAGGIO

PAESTUM

LUNGO LA VIA CASSIA

SCOPERTE TURCHIA

ZEUGMA, LA CASA DELLE MUSE

NELLA CASA DELLE MUSE

LUNGO LA VIA CASSIA

YEMEN A BASILEA SPECIALE SPARTACO

SPARTACO

L’UOMO CHE SFIDÒ IL PIÚ GRANDE SISTEMA SCHIAVISTICO DELLA STORIA

IN MOSTRA I TESORI DELL’ANTICO YEMEN

BASILEA

www.archeo.it

IN EDICOLA IL 9 MAGGIO 2017

.it

M UN SPA OS A R TR GR TAC A A AN O ww RO DE w. a rc M A he o

2017

Mens. Anno XXXIII n. 387 maggio 2017 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 387 MAGGIO

€ 5,90



EDITORIALE

Mark Peterson, Alabama. 1995.

SCHIAVI DI TUTTO IL MONDO... Per Marx era «l’uomo piú strabiliante che l’intera storia antica abbia prodotto», il vero prototipo del militante socialrivoluzionario. L’entusiastica descrizione, contenuta in una lettera all’amico Engels, risale al 1861 ed è riferita a Spartaco, gladiatore e ispiratore/condottiero della piú celebre rivolta degli schiavi di tutti i tempi. Il filosofo di Treviri (che nella stessa missiva non aveva esitato a descrivere Pompeo Magno come «ein reiner Scheisskerl», un «vero pezzo di…») – non fu però il primo a rivalutare, in età moderna, l’immagine dell’eroe trace come combattente per gli ideali di libertà e indipendenza: uno «Spartaco nero» – la definizione è di Étienne Maynaud de Bizefranc conte di Lavaux, generale e uomo della Rivoluzione Francese – nel 1791 aveva guidato la rivolta degli schiavi neri nell’isola di Santo Domingo, l’odierna Haiti: si chiamava François-Dominique Toussaint Louverture, era di origini afro-caraibiche e il suo destino era stato quello di «vendicare i torti commessi contro la sua razza». La fortuna piú recente di Spartaco, infine, risale al periodo della prima guerra mondiale in Germania, quando il nome venne assunto dal movimento rivoluzionario socialista fondato da Rosa Luxemburg, lo «Spartakusbund» (la Lega Spartachista), poi confluito nel Partito Comunista tedesco. Le testimonianze antiche sul personaggio sconfitto in battaglia nel 71 a.C. (e del cui corpo, come accadde con molti eroi del passato, si perse subito ogni traccia) sono contraddittorie; poche e laconiche quelle coeve alle vicende stesse, piú descrittive e romanzate quelle di età imperiale. Per lo storico alessandrino Appiano (95-165 d.C.), Spartaco era stato prima un disertore, divenuto poi un brutale condottiero; Plutarco, invece, lo descrive come un combattente eroico, fiero e di spirito nobile. La questione intorno all’identità – politica e sociale – del leggendario personaggio viene affrontata da una bellissima mostra allestita a Roma (Museo dell’Ara Pacis, fino al 17 settembre) e dall’articolo introduttivo dello Speciale di questo numero: quale fu – al di là di ogni idealizzazione – la reale utilità per la causa della schiavitú della rivolta guidata da Spartaco? E quest’ultimo fu solo un «capobanda col coraggio da leone» (secondo la definizione del grande storico ottocentesco Theodor Mommsen) o non invece, come credeva Marx, colui che segnò l’inizio della fine del piú grande sistema schiavistico del mondo antico? Andreas M. Steiner


SOMMARIO EDITORIALE

Schiavi di tutto il mondo...

3

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

8

SCOPERTE Da un villaggio dell’età del Bronzo la prova del piú antico vino mai bevuto in Friuli 8

in luce il piú vasto impianto termale della Bretagna a oggi noto, annesso a una sontuosa residenza di campagna 20

PAROLA D’ARCHEOLOGO L’Istituto Archeologico Germanico di Roma potrà presto riprendere possesso della sua storica sede in via Sardegna 22

SCAVI

Nella Casa delle Muse

44

di Kutalmis Görkay

DA ATENE

ALL’OMBRA DEL VULCANO Lo studio dei numerosi forni presenti in città getta luce sulla produzione del pane a Pompei 12

La magnifica ossessione 30

RESTITUZIONI Nepi festeggia il ritorno della testa che ritrae Augusto come pontefice massimo, trafugata negli anni Settanta 14

Gabriel Zuchtriegel

SCAVI Un recente intervento di archeologia preventiva ha messo

44 56

di Valentina Di Napoli

L’INTERVISTA

Stupore infinito

34

di Gianluca Baronchelli

STORIA

34

Disegni di viaggio

56

di Francesca Ceci, tavole di Federico Funari In copertina in primo piano: Campo scellerato. Un’esecuzione durante il periodo romano imperiale. Schiavi crocefissi, olio su tela di Fyodor Andreevich Bronnikov, 1878; sullo sofndo: particolare del ritratto di un auriga, rinvenuto a Roma, inizi del II sec. d.C.

Anno XXXIII, n. 387 - maggio 2017 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Amministrazione: Roberto Sperti

amministrazione@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti,

Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale Hanno collaborato a questo numero: Gianluca Baronchelli è fotografo e giornalista. Elisabetta Borgna è professore di civiltà egee e protstoria mediterranea all’Università di Udine. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Susi Corazza è responsabile del Laboratorio di preistoria e protostoria dell’Università di Udine. Valentina Di Napoli è archeologa. Stefano Francocci è direttore del Museo Civico Archeologico di Nepi. Daniela Fuganti è giornalista. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Laurent Gorgerat è curatore della sezione di archeologia vicino-orientale presso l’Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig, Basilea. Kutalmiş Görkay è professore di archeologia classica all’Università di Ankara e direttore dello Zeugma Archaoelogical Project. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Cynthia Mascione è responsabile del Laboratorio di disegno e documentazione archeologica del Dipartimento di scienze storiche e dei beni culturali dell’Università di Siena. Alessandra Nardini è responsabile del Laboratorio di Informatica Applicata all’Archeologia (LIAAM) del Dipartimento di scienze storiche e dei beni culturali dell’Università di Siena. Daniela Rizzo è funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale. Orietta Rossini è curatore responsabile del Museo dell’Ara Pacis, Roma. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Gabriel Zuchtriegel è direttore del Parco Archeologico di Paestum. Illustrazioni e immagini: Cortesia Ufficio Stampa: copertina e pp. 3, 66, 69, 70-71, 73-76, 84-86, 88-104 – Cortesia degli autori: pp. 8-9, 14, 15 (sinistra), 18 (UNISI per Parchi val di Cornia; realizzazione: G. Grassi, C. Mascione, arch. R. Spina, E. Vattimo), 19, 82 (alto), 83, 110111 – Cortesia Ufficio Stampa CNRS: Michael Hochmuth, Deutsches Archäologisches Institut, Berlino: p. 10; Sébastien Lepetz, CNRS: pp. 10/11; Ludovic Orlando, Museo di Storia Naturale della Danimarca, CNRS; p. 11 (centro); Patrice Gérard: p. 11 (alto) – Cortesia Soprintendenza Pompei: pp. 12-13 – Doc. red.: p. 15 (destra), 37, 49 (centro), 67, 79, 80/81 – Cortesia Musées royaux d’Art et d’Histoire, Bruxelles: p. 16 – Cortesia INRAP: Julien Boislève: p. 20 (alto); Emmanuelle Collado:


MOSTRE

Arabia felice?

66

di Laurent Gorgerat

84 SPECIALE

Spartaco. Una storia di schiavi e padroni

84

di Orietta Rossini

Rubriche

66 LA METALLURGIA/4

Istruzioni per l’uso di Flavio Russo

QUANDO L’ANTICA ROMA... 78

...costruiva muri di divisione dai barbari di Romolo A. Staccioli

pp. 20 (centro), 21; Hervé Paitier: p. 20 (basso) – Cortesia Istituto Archeologico Germanico di Roma: pp. 22-23 – Cortesia Polo Regionale di Trapani e Marsala per i Siti Culturali-Museo Archeologico Regionale Lilibeo di Marsala: p. 24 – Cortesia Brady Kiesling: pp. 30-31 – Gianluca Baronchelli: pp. 34/35, 38-40, 42-43 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 36/37, 41, 80, 106, 108-109; Leemage: pp. 81, 87 – Cortesia Zeugma Archaeological Project e Kutalmiş Görkay: pp. 44/45, 46 (alto), 48, 49 (basso), 50-54 – Federico Funari: pp. 56-65 – Shutterstock: pp. 68/69, 82 (basso), 106/107 – DeA Picture Library: L. Romano: p. 78 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 46, 72. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Editore: My Way Media S.r.l. Presidente: Federico Curti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Concessionaria per la pubblicità extra settore: Lapis Srl Viale Monte Nero, 56 - 20135 Milano tel. 02 56567415 - 02 36741429 e-mail: info@lapisadv.it Pubblicità di settore: Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com tel. 335 8437534 Direzione, sede legale e operativa Via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano tel. 02 00696.352 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI)

106

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Figli dell’Eufrate 110 di Francesca Ceci

LIBRI

112

Stampa: NIIAG Spa - Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti: Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18 ] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 E-mail: collez@mondadori.it Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti casella postale 1879, 20101 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl – titolare del trattamento – al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.


n otiz iari o SCOPERTE Friuli-Venezia Giulia

LA PRIMA VOLTA DI AQUILEIA

P

iú di 3000 anni fa in Friuli si beveva vino. È questa la notizia giunta agli archeologi dell’Università di Udine impegnati nello studio dei dati raccolti durante la campagna di scavo del 2015 nel villaggio dell’età del Bronzo noto come «Canale Anfora» (in località Ca’ Baredi, nel Comune di Terzo di Aquileia), nell’ambito del progetto incentrato sullo studio di «Aquileia prima di Aquileia». L’indagine archeologica aveva consentito di far luce sull’antico abitato dislocato al margine della laguna, su un dosso formato da un antico alveo del fiume Torre, in un’area che già nell’età del Bronzo doveva essere sfruttata intensivamente per le pratiche agricole, come suggeriscono le cospicue tracce di grandi contenitori per la conservazione e i risultati delle analisi polliniche

8 archeo

A destra: tazza in ceramica sulle cui pareti sono state riscontrate tracce di vino, dal villaggio di Canale Anfora, in località Ca’ Baredi. e dei macroresti vegetali, che tuttavia hanno finora documentato, tra le specie verosimilmente coltivate, solo la presenza di cereali e alberi da frutto. Di particolare rilievo risultava la scoperta di un gran numero di strutture di focolari e forni, che, concentrati in spazi selezionati dell’abitato, sembravano riferibili a pratiche domestiche di cottura e preparazione svolte in contesti comunitari, forse in occasione di eventi festivi e ricorrenze di

interesse dell’intera comunità e forse del territorio circostante. Un’importante conferma a questa linea di lettura è giunta dalle analisi chimiche e gascromatografiche con spettrometria di massa di alcuni campioni ceramici, svolte da Alessandra Pecci presso l’Università di Barcellona. Si tratta di analisi che permettono di riconoscere le sostanze organiche, ossia i residui alimentari, che rimangono impregnati nelle pareti dei vasi usati per la manipolazione,


la cottura e il consumo di cibi e bevande. È dunque stato particolarmente entusiasmante riscontrare la presenza di vino in una tazza abbandonata, insieme a vari contenitori da mensa, ai margini di un focolare databile tra la fine dell’età del Bronzo Medio e l’inizio dell’età del Bronzo Recente, ossia tra XIV e XIII secolo a.C. Oltre a confermare la funzione del focolare per la cucina, la scoperta enfatizza la cornice verosimilmente festiva e cerimoniale delle attività che avvenivano intorno ai focolari, forse in pratiche che prevedevano il ricevimento e l’intrattenimento di ospiti giunti da lontano. È infatti da ricordare che nell’opinione condivisa dagli studiosi il vino fu introdotto nel Mediterraneo centrale e in Italia dalle genti provenienti dall’Egeo. Se un tempo si riteneva che il vino fosse arrivato insieme alla pratica del banchetto nella fase dei contatti tra Greci ed Etruschi, oggi sappiamo che furono verosimilmente i Micenei, durante l’età del Bronzo, a far conoscere la coltivazione della vite e dell’olivo alle comunità italiane dell’Italia meridionale, da dove le conoscenze si sarebbero diffuse verso il Nord. Il nuovo dato aquileiese, che si aggiunge a quello acquisito nel 2015 nella terramara di Pilastri (Bondeno, Ferrara) e a quello del sito fortificato dell’età del Bronzo Antico e Medio (1800-1500 a.C. circa) di Monkodonja/Moncodogno (Rovigno, Istria), potrebbe dunque rappresentare un tassello importantissimo nel quadro dei

A destra: la tazza con tracce di vino ancora in situ. Nella pagina accanto, in basso: il cantiere di scavo dell’abitato di Canale Anfora. rapporti a lunga distanza tra regioni mediterranee e nord-adriatiche. Resta da indagare se tali contatti possano aver favorito una prima selezione dei vitigni finalizzata all’ingentilimento delle uve selvatiche locali che, come è attestato nel sito di Sammardenchia (Pozzuolo del Friuli), erano già presenti in regione fin dal Neolitico. Inoltre, dal villaggio dell’età del Ferro che rappresenta l’immediato precedente di Aquileia, in quanto individuato sotto ai livelli della colonia romana, provengono alcuni vinaccioli, che, raccolti in contesti domestici della prima età del Ferro (VIII secolo a.C.), sembrano oggi acquistare nuovo significato. Di per sé, tale testimonianza non risulterebbe particolarmente eclatante, poiché il consumo dell’uva e la coltivazione della vite a scopo alimentare sono in effetti indiziati da dati provenienti da vari insediamenti della protostoria italiana, a partire da momenti non evoluti dell’età del Bronzo. Tracce della spremitura dell’uva ai fini di ottenerne il succo sono inoltre segnalate in contesti anche molto antichi, per esempio nel Neolitico della Grecia settentrionale; assai piú sfuggenti e incerte sono invece

le testimonianze che riguardano la conoscenza delle procedure di fermentazione per la produzione del vino, che gli studiosi tentano ora di inquadrare e contestualizzare con adeguati strumenti analitici. Alla luce delle nuove scoperte appare dunque irrinunciabile proseguire l’indagine dell’abitato di Canale Anfora, anche per approfondire e meglio circostanziare, con opportuni riscontri analitici, le conoscenze acquisite. La vocazione di Aquileia romana alla produzione, commercializzazione e consumo di vino, tramandata dalle fonti antiche, potrebbe trovare le sue radici nel periodo protostorico a cominciare dal sito di Ca’ Baredi. «Aquileia prima di Aquileia» è un progetto condiviso tra la Soprintendenza Archeologica del Friuli-Venezia Giulia e il Dipartimento di Studi Umanistici e del Patrimonio Culturale dell’Università di Udine, sotto la direzione scientifica di Elisabetta Borgna e il coordinamento del Laboratorio di Preistoria e Protostoria dell’ateneo udinese (Susi Corazza). Elisabetta Borgna e Susi Corazza

archeo 9


n otiz iario

SCOPERTE Asia Centrale

LA DOMESTICAZIONE RACCONTATA DAI GENI

P

opolo di allevatori nomadi, gli Sciti detennero il controllo delle steppe dell’Asia Centrale nell’età del Ferro, vale a dire fra il IX e il I secolo a.C. Celebri per le loro straordinarie doti di cavallerizzi, prolungavano il rapporto privilegiato che li legava ai cavalli anche alla fine della propria esistenza terrena, come dimostra la pratica, diffusa fra i capi e i personaggi di spicco, di sacrifricare stalloni nel corso delle cerimonie funebri, per poi deporne i resti insieme alle spoglie dell’individuo che veniva sepolto. I materiali riferibili ad alcuni di quegli animali sono stati l’oggetto di una ricerca condotta da una équipe internazionale coordinata da Ludovic Orlando (ricercatore del CNRS che attualmente lavora presso il Museo di Storia Naturale della Danimarca), che, in particolare, si è concentrata su 13 esemplari, vissuti tra l’VIII e il IV secolo a.C. e deposti nelle tombe reali scitiche di Arzhan (nell’odierna repubblica russa di Tuva, ai confini con la Mongolia), di Berel’ (nell’Altai kazako); a essi, sono stati aggiunti i resti di una giumenta rinvenuta in un contesto culturale piú antico, a Tcheliabinsk (Russia), che si colloca intorno al XII secolo a.C.

10 a r c h e o

In alto: la tomba 16 del kurgan Arzhan 2 (Tuva, Siberia), nella quale sono stati rinvenuti gli scheletri di 14 cavalli. VII sec. a.C. Sulle due pagine: cavalli mongoli al pascolo nella provincia dell’Arhangaj. Analizzando alcune particolari variazioni genetiche, si è potuto dedurre che gli Sciti utilizzavano cavalli con mantelli di colori diversi, dal baio al nero, ma, soprattutto, è stata accertata la ricorrenza di 121 geni specifici, che dimostrano la selezione operata dagli allevatori nomadi. Sembra dunque che essi preferissero animali robusti, dalla corporatura massiccia, dotati di una buona muscolatura superiore; al

tempo stesso, è stata riscontrata la diffusione di un gene che indica la tendenza a selezionare femmine provviste di un apparato mammario sviluppato, a sostegno dell’ipotesi di un utilizzo alimentare del latte di cavalla. La ricerca ha permesso di definire le regioni del genoma in cui, nelle fasi d’esordio della domesticazione del cavallo, si sono concentrate le mutazioni adattative che l’hanno


resa possibile, gettando cosí nuova luce sull’intero fenomeno che ha visto l’uomo assumere il progressivo controllo di molte specie in origine selvatiche. Queste regioni includono spesso geni legati a una popolazione di cellule embrionali chiamata «cresta neurale», che è all’origine di numerosi tessuti dell’organismo. I dati forniti dai cavalli degli Sciti hanno infatti fornito una delle

prime prove sperimentali della teoria della cresta neurale, secondo la quale tutti gli animali domestici, nonostante abbiano vissuto storie indipendenti, sono stati progressivamente accomunati dalle medesime caratteristiche fisiche e comportamentali. Mettendo a confronto la diversità genetica osservabile fra i cavalli antichi con quella degli animali moderni, è stato infine scoperto

In alto: la testa di un cavallo sepolto in una tomba scavata ad Alaas Ebé, nel distretto di Churapchinskij (Iacuzia, Russia). Qui sotto: doma dei cavalli in Mongolia.

che, nel corso degli ultimi 2300 anni, si è registrato un sensibile calo demografico, che ha determinato la notevole riduzione della diversità genetica stessa. La causa può essere individuata nell’impiego di un numero sempre piú ristretto di stalloni a scopo riproduttivo, tanto che gli animali odierni condividono, nella quasi totalità dei casi, il medesimo cromosoma Y, in ciò differenziandosi dai loro antenati scitici. Simili fenomeni si accompagnano a un accumulo di mutazioni genetiche che si è prodotto in tempi relativamente recenti – e che si osserva in tutte le specie domesticate –, contraddicendo le teorie finora sostenute sul «prezzo» della domesticazione, secondo le quali esso ne avrebbe segnato soltanto le fasi iniziali.

a r c h e o 11


ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

STORIE DI PANE PAGNOTTE «PERSONALIZZATE», MOTTI BENAUGURANTI, PIETRE DA MACINA ACCURATAMENTE SELEZIONATE... LE INDAGINI SUI FORNI E SUI PANETTIERI DI POMPEI DELINEANO IN MANIERA SEMPRE PIÚ PRECISA I CONTORNI DI UN’ATTIVITÀ ASSAI DIFFUSA E CAPACE DI ASSICURARE LAUTI GUADAGNI

A

stare all’eleganza della grande dimora su vico del Panettiere, situata praticamente a ridosso del Foro cittadino, appartenuta alla famiglia sannitica dei Popidii e nota come Casa di Popidius Priscus, produrre e distribuire pane era un vero e proprio business per alcuni Pompeiani. A partire dal II secolo a.C., tale produzione esce progressivamente dall’ambito domestico, dov’era nata a servizio della famiglia, per trasformarsi in proficua attività commerciale nel pistrinum (il panificio). A Pompei, specifiche ricerche hanno focalizzato questi cambiamenti, documentando le sistemazioni nel tempo degli spazi usati per la panificazione. Sono circa quaranta i panifici censiti in città, anche se mancano all’appello tutti i forni distrutti nel bombardamento che, nel 1943, colpí l’area archeologica. Grazie al lavoro degli studiosi si sono chiariti alcuni passaggi della catena panificatoria. L’operazione di umidificazione del grano prima della molitura, che permetteva di ottenere una farina piú bianca, malgrado una perdita di rendimento, sembra piú comune di quanto si pensasse. Delle macine, di cui si sono compresi l’usura e il funzionamento, sono state studiate

12 a r c h e o

le iscrizioni – incise o dipinte – presenti sui due elementi che le compongono: la meta conica inferiore (fissata a una base in muratura) e il catillus superiore, a forma di clessidra, fatto girare sulla meta con una stanga in legno grazie alla spinta di un cavallo, di un asino o degli schiavi. È stato Nella pagina accanto, in alto: resti di un forno nel quale si conservano le macine per la molitura del grano. Nella pagina accanto, in basso: macina con il marchio di fabbrica Hos(tili?). A destra: il rilievo accompagnato dalla formula «HIC ABITAT FELICITAS» («Qui è di casa la felicità») murato accanto all’ingresso del panificio di Popidio.

inoltre possibile formulare ipotesi sulla provenienza delle macine pompeiane in pietra lavica dal piú importante centro di produzione del I secolo d.C., Orvieto. Fino a poco tempo fa non si avevano tracce di altri metodi d’impasto diversi da quello meccanico: alcuni panifici hanno


stato restituito alla visita, assieme alla viabilità circostante. Con piú di 80 pagnotte per infornata (quella piú comune era conformata a spicchi, il moretum), macine fissate nel cortile e innumerevoli avventori nelle ore di punta, questo era uno dei piú grandi e attivi forni della città. HIC HABITAT FELICITAS («Qui è di casa la felicità») si legge ai margini di un bassorilievo con fallo benaugurante collocato proprio alla porta del panificio! L’attività del forno si era rivelata estremamente lucrativa per la famiglia che abitava nella dimora adiacente, riccamente decorata con marmi pregiati. D’altra parte, Popidio era un imprenditore però rivelato piccoli buchi di palo che sono stati interpretati come impronte di un mobile ancorato sul pavimento con il quale si procedeva all’impasto manuale. La costruzione dei forni sottolinea invece la varietà delle tecniche adoperate: se lo schema generale rimane omogeneo, nel dettaglio ogni forno è un caso a parte, per via di un necessario adattamento alle situazioni preesistenti. Si è infine osservato che, al momento della distruzione della città, molti dei laboratori di produzione del pane identificati non erano in funzione.

LA BOTTEGA DI POPIDIO Ma torniamo ai Popidii. Proprio accanto alla loro lussuosa casa è presente, sull’angolo con vicolo Storto, un ampio panificio parzialmente aperto appartenuto probabilmente a N. Popidius Priscus, che lo gestiva attraverso un suo liberto. All’interno sono presenti un capiente forno a legna in opera cementizia, simile a uno attuale, e una serie di macine in pietra (quattro, piú una piccola) dura e porosa, capace di non contaminare la farina con frammenti litici particolarmente pericolosi per i molari al momento

della masticazione. Durante la macinazione il grano veniva versato nel catillus e triturato dallo sfregamento dei due blocchi. Alcune macine di questo panificio recano addirittura inciso il marchio di fabbrica Hos(tili?), a sancire la qualità della macchina. In questo panificio manca il banco di vendita: è probabile che si vendesse all’ingrosso o per mezzo di ambulanti a servizio del proprietario (libarii). Recentemente il panificio di Popidio Prisco, al termine degli interventi di messa in sicurezza della Regio VII, è

ambizioso: oltre a vendere le sue pagnotte in città, da qualche tempo aveva preso a stampigliarle come vere opere d’arte ed esportarle fin nella vicina Nocera. Peraltro un suo collega concittadino, Paquio Proculo, a infornare e apporre il proprio sigillo su ogni pane, aveva fatto soldi a palate, tanto da essere nominato duoviro della città. E cosí ancora oggi, il profumo del pane appena sfornato sembra avvolgere i vicoli di questo quartiere. Per notizie e aggiornamenti su Pompei, pagina Facebook Pompeii-Soprintendenza.

a r c h e o 13


n otiz iario

RESTITUZIONI Lazio

BENTORNATO, AUGUSTO!

C

he l’Italia, purtroppo, sia uno dei principali serbatoi del traffico internazionale di opere d’arte è una realtà nota da tempo. Tuttavia, ci sono casi in cui oggetti esportati illegalmente fanno il loro ritorno in patria, come risultato dell’attività investigativa, ma anche

in conseguenza dell’applicazione di trattati internazionali o di una accresciuta sensibilità. E, fra i rientri piú recenti, merita senz’altro d’essere raccontato quello della testa di Augusto proveniente da Nepi (Viterbo). La vicenda ha inizio negli ormai

La testa marmorea raffigurante Augusto velate capito (con il capo velato). Nepi, Museo Civico.

14 a r c h e o

lontani anni Settanta, quando la scultura faceva bella mostra di sé, insieme ad altri reperti archeologici, sotto il portico del Palazzo Comunale della cittadina laziale. La testa era stata collocata su una statua togata, non pertinente, che ancora oggi fiancheggia l’ingresso del palazzo. Il reperto era sconosciuto agli studiosi, pur essendo stato catalogato e nonostante una sua riproduzione figurasse nell’archivio fotografico dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma. Proprio l’esistenza di una scheda di catalogo, redatta dall’allora Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Roma nel dicembre del 1971 e revisionata nel 1980, permette di fissare la data della sottrazione della testa fra il 1972 e il 1973. Dopo tutti questi anni forse solo una approfondita ricerca nei quotidiani locali potrebbe, infatti, chiarire il preciso momento del furto che, con molta probabilità, non venne neanche denunciato alle autorità competenti. Come accaduto in molti altri casi, la scultura arrivò in Svizzera ed entrò a far parte di una collezione privata. Dopo breve tempo, il reperto fu esposto al pubblico nell’ambito di una mostra su Pompei («Pompeji. Leben und Kunst in den vesuvstädten»), tenutasi a Zurigo dal 17 febbraio al 15 aprile 1974. La pubblicazione della scultura nel relativo catalogo contribuí a cancellarne il passato «scomodo» e a conferirle un’aura di legalità. Fu cosí che, nel 1975, i Musées royaux d’Art et d’Histoire del Belgio acquistarono in buona fede la testa, attraverso un antiquario di Zurigo. Il manufatto venne inviato a Bruxelles e destinato al Museo del Cinquantenario, che lo espose nella «Galleria dei ritratti», dove è


SANTA SEVERA (ROMA)

Tutti al castello, finalmente! I RITRATTI DI AUGUSTO

La devozione innanzitutto La ritrattistica di Augusto è stata oggetto di molti studi, che hanno cercato di tracciare un filo logico e quindi una sequenza temporale delle numerose testimonianze scultoree a oggi note. I ritratti sono stati raggruppati tipologicamente secondo un metodo, non da tutti pienamente condiviso, che si basa principalmente sull’analisi della forma e della distribuzione delle ciocche che compongono la capigliatura, accompagnata dall’osservazione dei lineamenti somatici. Il ritratto di Nepi è inserito nel tipo «Azio» o «Ottaviano», rinominato piú recentemente «Alcudia», che raffigura il giovane Ottaviano nel periodo precedente al conferimento da parte del Senato del titolo di «Augusto» (27 a.C.) e il cui prototipo risalirebbe al 40 a.C. circa. La capigliatura mostra già i segni che saranno distintivi nella ritrattistica augustea, vale a dire la resa mossa, con le

ciocche disposte a formare una sorta di «tenaglia» sopra l’occhio destro, tre ciocche centrali rivolte verso destra e una forbice sopra l’occhio sinistro. I lineamenti del volto sono ossuti e il collo allungato, a ricordare volutamente il padre adottivo, Cesare. Le repliche di questa tipologia sono molto differenziate tra loro e continuarono a essere realizzate a distanza di tempo, in alcuni casi anche dopo la morte di Augusto. La testa marmorea di Nepi raffigura il princeps con il capo velato e doveva originariamente far parte di una statua togata, come dimostrano la base d’innesto con il foro per il chiodo d’incastro e il taglio netto del velo all’altezza del collo. Augusto divenne pontefice massimo nel 12 a.C., ma già da alcuni anni prima aveva iniziato a diffondersi, come documentato in particolare dalla monetazione, un tipo di ritratto celebrativo che lo raffigura come sacrificante. Fu lui stesso, con l’ostentata devozione, a suggerire che nelle statue erette in suo onore avrebbe gradito essere ritratto in tale atteggiamento. L’abbigliamento, costituito dalla toga e dal velo che copre il capo, non deve, quindi, essere interpretato come un richiamo alla carica di Pontifex Maximus, ma ha piuttosto lo scopo di presentare l’immagine di Augusto esaltandone la virtú morale, quella che i Romani chiamavano pietas, ovvero la devozione, in primo luogo, verso gli dèi. Questo tipo di raffigurazione ben si inseriva nel suo programma politico di restaurazione religiosa e di discreta promozione del culto della sua persona, dato che lo stesso Genius Augusti sarà raffigurato in abito togato, capite velato.

Il Castello di Santa Severa viene riaperto al pubblico, questa volta in forma permanente. Si tratta della felice conclusione di una vicenda che si protraeva ormai da molti anni, nei quali la fruizione del sito è stata solo temporanea e parziale. La piena accessibilità del magnifico complesso – che comprende il castello vero e proprio e il suo borgo e, lo ricordiamo, sorse in età altomedievale e venne poi interessato da ristrutturazioni e ampliamenti fino al tardo Rinascimento – è frutto dell’intesa raggiunta da Regione Lazio, Comune di Santa Marinella e Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. È cosí possibile accedere liberamente a tutta l’area castellana e usufruire delle visite guidate per riscoprirne la storia e l’archeologia alla luce delle ultime straordinarie scoperte. Inoltre, è stata aperta al pubblico la Rocca, al cui interno è stato allestito il nuovo Museo del Castello di Santa Severa, che racconta le vicende dell’insediamento dal martirio di santa Severa all’epoca moderna. Dopo decenni di chiusura è stata infine riaperta la Torre Saracena, alla quale si accede per il ponte che la collega alla Rocca. Info tel. 0766 570077

Un’altra immagine della testa di Augusto restituita al Museo Civico di Nepi dai Musées royaux d’Art et d’Histoire di Bruxelles.

a r c h e o 15


n otiz iario

rimasto per circa quarant’anni. La svolta si ebbe nel 2014, quando l’archeologa Germana Vatta, che da tempo stava studiando un’altra testa marmorea custodita nel magazzino del Museo Civico di Nepi, riconobbe la scultura della mostra di Zurigo nelle schede della Soprintendenza e dell’Istituto Archeologico Germanico. L’identificazione non fu semplice, perché della scultura esistevano solamente tre scatti fotografici che riprendevano l’intera statua togata sormontata dalla testa; si trattava quindi di riprese effettuate a una certa distanza e di scarsa qualità. Anche la fisionomia del ritratto era stata leggermente modificata da un intervento di restauro, che era andato a tamponare l’ampia frattura che contraddistingueva l’estremità del naso, totalmente mancante. Nondimeno, i tempi della sottrazione e del successivo acquisto e alcuni elementi, come la resa della capigliatura e, in particolare, il fatto che il ritratto raffigurasse Augusto capite velato, rendevano certo il riconoscimento. La Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria meridionale trasmise la documentazione alla Procura di Viterbo, che diede l’avvio alle indagini con il supporto della Guardia di Finanza. L’inchiesta si presentava abbastanza difficoltosa, per il lungo periodo di tempo trascorso dal momento del furto e vista la scarsità della documentazione. Ed era prevedibile, come avvenuto in altri casi, una lunga procedura giudiziaria. Invece, contrariamente alle previsioni, sin dal primo momento iniziarono a svilupparsi fruttuosi rapporti di collaborazione fra la Direzione del Museo del Cinquantenario, la Soprintendenza

16 a r c h e o

Vincenzo Grassi, ambasciatore d’Italia in Belgio, e Alexandra De Poorter, direttrice generale ad interim dei Musées royaux d’Art et d’Histoire, durante la cerimonia di restituzione della testa di Augusto a Bruxelles. Archeologica e il Comune di Nepi che portarono alla pacifica e anticipata risoluzione della vicenda. Si deve in primo luogo alla direttrice generale ad interim, Alexandra De Poorter, e alla curatrice del reparto di antichità etrusco-romane del Museo del Cinquantenario, Cécile Evers, l’aver compreso l’importanza del ritorno della scultura per la comunità di Nepi, agevolando, quindi, l’avvio delle procedure di rientro. Era, infatti, necessario un decreto reale, che alienasse la scultura dal patrimonio dello Stato belga per permetterne la restituzione. Dopo una cerimonia a Bruxelles, nel giugno del 2016, la testa di Augusto è stata presentata a Roma presso la Farnesina e infine esposta nel Museo Civico di Nepi nel mese di settembre, in concomitanza con la celebrazione delle Giornate Europee del Patrimonio. Quest’ultima data non è stata scelta casualmente, ma allo scopo di sottolineare l’importante ruolo avuto dalla cooperazione internazionale. Oltre ai soggetti citati, infatti, una funzione operativa

importante è stata svolta anche dal Governo del Belgio, dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e dall’Ambasciata d’Italia a Bruxelles. Seppure esistano atti normativi che garantiscono in ambito comunitario l’assistenza e la collaborazione fra gli Stati membri in caso di uscita illecita di beni culturali, in questa circostanza, quello che potremmo definire come il «fattore umano» ha avuto un ruolo decisivo contribuendo a definire come esemplare l’esito della vicenda. Per celebrare il rientro della testa di Augusto, il 26 e 27 maggio si terrà a Nepi (Viterbo) il Convegno Internazionale «Augusto. Territorio e città, potere e immagini: l’esempio del Lazio e dell’Etruria Meridionale». Info Museo Civico Archeologico di Nepi – tel. 0761 570604; e-mail: museo@comune.nepi.vt.it FB: https://www.facebook.com/ museociviconepi/ Stefano Francocci e Daniela Rizzo



A TUTTO CAMPO Cynthia Mascione e Alessandra Nardini

RICOSTRUIRE PER RACCONTARE PER ILLUSTRARE I RISULTATI DI UNA RICERCA ARCHEOLOGICA OCCORRONO FORME ACCESSIBILI DI COMUNICAZIONE. GRAZIE ALLE NUOVE TECNOLOGIE, IL LINGUAGGIO VISIVO DIVENTA VEICOLO DI NARRAZIONE

I

l potenziale straordinario dell’archeologia è la possibilità di recuperare frammenti di storia, che possono essere ricomposti e raccontati: non una macchina del tempo, ma solo un metodo di indagine rigoroso, per mezzo del quale elaborare simulazioni di realtà virtualmente possibili. La restituzione narrativa come parte integrante della ricerca è un’acquisizione formatasi negli anni Ottanta del Novecento. Nella sua genesi hanno avuto un ruolo di primo piano due grandi figure dell’Università di Siena, Andrea Carandini e Riccardo Francovich, che hanno presto compreso i limiti comunicativi dell’archeologia tradizionale e l’importanza etica del processo di restituzione alla comunità del patrimonio informativo. Il linguaggio delle immagini è stato individuato come strumento narrativo di grande efficacia e, nei progetti di edizione e valorizzazione, è diventato

Parco Archeologico dell’acropoli di Populonia. Pannello esplicativo dell’area sacra romana: la suggestione del possibile panorama antico è ricreata nella vista statica di corredo al pannello, estratta dal 3D complessivo, simulando il medesimo punto di vista del visitatore.

18 a r c h e o

imprescindibile il ricorso alle vedute ricostruttive. Lo sviluppo della tecnologia digitale ha marcato un passaggio importante: la nascita della Virtual Archaeology, con le potenzialità offerte nella simulazione tridimensionale di contesti archeologici e nella gestione del relativo patrimonio informativo. A Siena, dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso, l’utilizzo del calcolatore e delle strumentazioni digitali è stato adottato in molti settori della ricerca archeologica, anche attraverso l’istituzione di laboratori tecnici, pensati come ambiti di

sperimentazione a supporto dei progetti territoriali: uno fra tanti, il progetto pluriennale di ricerca e valorizzazione legato ai Parchi della Val di Cornia, che ha portato all’apertura di nuove aree di visita (acropoli di Populonia, monastero di S. Quirico) e all’allestimento del Museo Archeologico del Territorio di Populonia a Piombino. Le tecniche di modellazione 3D si sono affermate come uno strumento attraverso il quale elaborare, materializzare e verificare le ipotesi: la restituzione è il risultato di un’analisi in cui intervengono numerose competenze – umanistiche,


Archeodromo di Poggibonsi (Siena). Percorso interpretativo e ricostruttivo della longhouse di IX sec.: le strutture evidenziate dallo scavo, l’elaborazione dei dati su base GIS, la ricostruzione grafica e, infine, la realizzazione dell’edificio in scala 1:1. sperimentale e tecniche di story telling propone un approccio immersivo basato sulla materialità e la sensorialità, che mira a tradurre la complessità di un contesto archeologico in vita vissuta.

RINASCE IL VILLAGGIO

scientifiche e tecnologiche –, coordinate dall’archeologo che deve garantire la correttezza del processo. La modellazione prende progressivamente forma dall’integrazione in computer grafica di tutti i rilievi disponibili e delle informazioni derivate dalla lettura integrale del contesto: studio dei reperti organici e inorganici, dei modelli architettonici e decorativi, ecc., in grado di restituire sequenze cronologiche, uso degli spazi, caratteri dell’ambiente e dell’economia.

UNA CONTINUA MEDIAZIONE DIALETTICA Laddove i dati di scavo esauriscono il proprio potenziale, si ricorre al confronto con altri contesti archeologici e a fonti letterarie, storico-archivistiche, iconografiche, in una continua mediazione dialettica tra lettura filologica dei dati originari e indizi o suggestioni di matrice esterna; si ottiene cosí un modello connotato da gradi diversi di affidabilità, che possono essere espressi nel prodotto finale

attraverso soluzioni grafiche e/o un apparato informativo correlato. Una solida impalcatura concettuale apre a un’ampia gamma di soluzioni comunicative: la finalità del prodotto e le caratteristiche dell’utenza costituiscono un discrimine nella scelta dei contenuti che devono essere veicolati e dei requisiti tecnici del supporto divulgativo. Il passaggio al prodotto divulgativo, indirizzato quindi a un pubblico non specialistico, eterogeneo per formazione ed età, implica la semplificazione mirata dei contenuti della ricerca, con l’eliminazione di dettagli tecnicistici ridondanti, senza cedere a banalizzazioni o ricostruzioni gratuite. Il punto di forza è la scelta di linguaggi e moduli di comunicazione che favoriscano un approccio diretto, attraente e stimolante: realtà virtuale e media narrativi lineari costituiscono un potenziale straordinario, a patto di contenere eccessi arbitrari di spettacolarizzazione. A Siena, l’integrazione fra ricostruzione storica, archeologia

Nel 2014 è stato inaugurato il primo lotto di un open air museum, che prevede la ricostruzione integrale, in scala 1:1, di un villaggio del IX secolo, riconosciuto durante le indagini nella Fortezza Medicea di Poggibonsi (www.archeodromopoggibonsi.it). Lo scavo si è posto, nella metà degli anni Novanta del secolo scorso, come modello di sperimentazione delle potenzialità del calcolatore nella registrazione ed elaborazione del dato; il patrimonio informativo, prodotto e trattato negli anni con finalità diverse su vari tipi di piattaforme digitali, è sottoposto ora a un processo inverso: dalla smaterializzazione del dato alla sua materializzazione in edifici, oggetti e attività quotidiane in un’esperienza tangibile, arricchita di gesti, suoni e odori, che nella sua semplicità e immediatezza restituisce un percorso conoscitivo di grande complessità. In questa direzione, archeologi e ricostruttori si confrontano a Siena nel seminario in programma il 10 maggio, per condividere un percorso grazie al quale il reenactment (la ricostruzione storica) potrà entrare nelle dinamiche della comunicazione archeologica piú innovativa. (cynthia.mascione@unisi.it alessandra.nardini@unisi.it)

a r c h e o 19


n otiz iario

SCAVI Francia

OPULENZA ROMANA IN BRETAGNA

I

n epoca romana la regione dell’Armorica – cioè la «terra sul mare», dal celtico armor, costa (ar, davanti, vicino a; mor, mare) – corrispondeva all’attuale Bretagna. Questo vasto territorio, situato all’estremità occidentale dell’impero, era disseminato di ville e ricche tenute agricole, delle quali solo una decina fino a oggi è stata indagata. Alcune proprietà particolarmente fastose si trovavano sulla costa, per godere della dolcezza del clima e di un panorama spesso eccezionale. È il caso della dimora portata alla luce dagli archeologi dell’Inrap (Institut national de recherches archéologiques préventives) a Langrolay-sur-Rance, un paesino adagiato sull’altopiano che domina il magnifico estuario della Rance. Doveva probabilmene trattarsi della residenza secondaria di una facoltosa famiglia di notabili di Fanum Martium (l’attuale Corseul), capoluogo della tribú gallica dei

In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto do dolorest lorest, ut exereca taspisci.

20 a r c h e o

Sulle due pagine: immagini della villa romana presso Langrolay-sur-Rance (Bretagna) e dei reperti rinvenuti. A sinistra: un frammento di opus musivum. III sec. d.C. Si tratta di una tecnica consistente nell’utilizzo di conchiglie come elemento decorativo. Qui sotto: uno spillone e parti di fibule in lega di rame.

Corsoliti: una dimora raggiungibile in battello, risalendo il corso d’acqua verso il porto romano di Taden, uno scalo importante per il commercio dello stagno, della salamoia per conservare gli alimenti, nonché dell’eccellente garum locale. Gli archeologi hanno portato alla luce la parte residenziale della villa, che si estendeva su 1500 mq. «Il corpo principale della proprietà, trasformato in cava di recupero di materiali vari fin dal IV secolo – osserva il responsabile dello scavo, Bastian Simer – è orientato verso est per avere la vista sulla Rance, si eleva su due piani e dispone di una vasta sala di ricevimento riscaldata, mentre l’ala secondaria, esposta a sud, è soleggiata in permanenza.


MODENA

Archeologia e Street Art 3D Le terre intorno erano coltivate, e su di esse sorge probabilmente l’attuale borgo di Langrolay ». Un grande pozzo alimentava le terme, molto ben conservate: si sviluppavano su 400 mq, e sono le piú vaste mai rinvenute in Bretagna. «Comprendono due piscine – spiega Simer –, fra cui una

In basso: un settore dell’impianto termale annesso alla villa romana di Langrolay-sur-Rance. Sono riconoscibili le suspensurae del sistema di riscaldamento a ipocausto. Nella pagina accanto, in basso: veduta generale del complesso termale, che con in suoi 400 mq, è il piú vasto a oggi rinvenuto in Bretagna.

riscaldata, e molti vani alimentati da un sistema a ipocausto, attraverso i quali si disegna il percorso dell’intero complesso. Un isolante composto da tegole schiacciate e calce assicurava il mantenimento del calore». I numerosi elementi di pittura murale rinvenuti nel perimetro dello scavo permettono di ricostruire il tipo di decorazione della villa e la sua architettura. I muri e i soffitti delle terme dovevano essere ornati in modo particolarmente vistoso, con affreschi spesso completati da incrostazioni di conchiglie. Se frammenti di questo tipo erano già stati trovati in piccole quantità su una trentina di siti nell’ovest della Francia, quelli recuperati a

Langrolay costituiscono oggi una collezione senza precedenti, che permette di ricostruire l’evoluzione di questa tecnica ornamentale sviluppatasi nel III secolo d.C. «In Armorica – spiega Julien Boislève, specialista in pittura murale romana – la moda dell’opus musivum, venuta dall’Italia, era penetrata in tutto il territorio bretone fin dal I secolo d.C. Verso il III secolo si sviluppa tuttavia un’espressione originale, e gli artigiani locali cominciano a mettere in valore le conchiglie tipiche del loro litorale, facilmente disponibili, creando cosí uno stile del quale, a oggi, non si conoscono altre attestazioni al di fuori delle città armoricane». Daniela Fuganti

Dal 12 al 14 maggio, in cinque diversi luoghi di Modena, altrettanti street artist internazionali – Kurt Wenner, Leon Keer, Julian Beever, Eduardo Relero e Vito Mercurio – sfonderanno illusoriamente la pavimentazione della città attraverso la tecnica artistica dell’anamorfismo, per «svelare» i siti piú significativi della città romana di Mutina, celata nel sottosuolo del centro storico. L’evento si svolge nell’ambito del programma di Mutina Splendidissima, dedicato alle celebrazioni dei 2200 anni dalla sua fondazione. Esiste una città romana sepolta sotto una coltre di argilla, collocata fra due fiumi che esondarono a piú riprese nella tarda antichità, e che nel 2017 celebra i 2200 anni dalla sua fondazione: è Modena, l’antica Mutina definita da Cicerone «splendidissima», della quale, grazie all’archeologia, si conoscono numerosi luoghi e monumenti sepolti. Ed esiste un’arte sorprendente, definita street art 3D, che ha scelto la strada dell’anamorfismo per «ingannare» chi guarda le opere da una determinata posizione, creando sprofondamenti illusionistici nel terreno. Info www.2200anniemilia.it

a r c h e o 21


PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

UNA LUCE IN FONDO AL TUNNEL L’ISTITUTO ARCHEOLOGICO GERMANICO DI ROMA, UNA DELLE ISTITUZIONI PIÚ PRESTIGIOSE DEL SETTORE, SI AVVIA A RIENTRARE NELLA SEDE DI VIA SARDEGNA. UN RITORNO LUNGAMENTE ATTESO, DI CUI ABBIAMO PARLATO CON ORTWIN DALLY, ATTUALE DIRETTORE DEL DAI

S

i prospetta finalmente il «ritorno a casa» per l’Istituto Archeologico Germanico (DAI, Deutsches Archäologisches Institut) di Roma, riferimento indiscusso per gli studi di antichità, rimasto chiuso per diversi anni e poi costretto a piú di un trasloco, in attesa dei lavori di adeguamento della sua sede romana, e alcune novità permettono, adesso, di guardare con piú ottimismo al futuro della prestigiosa istituzione. Ne abbiamo parlato con l’attuale direttore del DAI, Ortwin Dally. Professore, nelle sale della vostra biblioteca si sono formate intere generazioni di archeologi:

22 a r c h e o

possiamo annunciare agli studiosi che prossimamente potranno consultare di nuovo le migliaia di volumi della vostra biblioteca? «Sí, abbiamo stipulato un nuovo contratto con la Chiesa evangelica in Germania – finora proprietaria del terreno su cui insiste l’edificio in via Sardegna – e disponiamo dei finanziamenti per il restauro del palazzo. Nel 2020 pensiamo di poter tornare a casa. Ora la Repubblica Federale di Germania è proprietaria dell’edificio e del terreno: il momento è decisivo, poiché ci sono nuove prospettive di vita per l’Istituto. Al termine dei lavori riporteremo nelle vecchie

aule della biblioteca tutti i libri, la fototeca e la collezione dell’Istituto di corrispondenza archeologica». Partiamo dalle origini della vicenda: come e dove nasce l’Istituto Archeologico Germanico? «La storia dell’Istituto – che oggi, con le sue 21 sedi, è presente in tutto il mondo – inizia nel 1829 a Roma, quando venne fondato sul Campidoglio l’Instituto di Corrispondenza Archeologica. A ispirarlo fu uno spirito europeo: c’erano sezioni a Parigi, Londra, Berlino, oltre che a Roma. L’idea fu quella di una collaborazione europea per pubblicare nuove informazioni e ricerche su monumenti archeologici: i corrispondenti inviavano disegni e copie in gesso all’Istituto per una descrizione scientifica e per la loro pubblicazione. Il nostro modello è stato una grande novità: si è trattato del primo istituto di ricerca archeologica nel mondo. A Roma, all’epoca della sua fondazione, non ne esisteva un altro. Per questo il DAI è diventato un modello per altre fondazioni piú tarde. Sul Campidoglio è ancora visibile la fronte dell’edificio del 1835-36 che ospitava la prima sede dell’Istituto, spostato poi nel 1887 in un secondo edificio. Dopo la prima guerra mondiale le istituzioni prussiane sul Campidoglio dovettero chiudere le loro attività: la biblioteca dell’Istituto venne trasferita e riaperta nel 1924 in via Sardegna,


all’interno di una casa per la comunità della Chiesa evangelica in Germania. Dal 1959 al 1964, in via Sardegna venne costruito un nuovo palazzo per il DAI, grazie a un accordo tra la Repubblica Federale Tedesca e la Chiesa evangelica di Roma». Da allora migliaia di studenti e archeologi – compresa la sottoscritta – hanno preparato le loro tesi di laurea e di dottorato nelle aule della biblioteca del DAI, che, con i suoi circa 250 mila volumi, costituisce uno dei piú importanti archivi europei delle culture mediterranee… «Grazie al suo patrimonio librario, che conta anche edizioni del XVI e XVII secolo, la nostra biblioteca è stata un punto di riferimento per generazioni di archeologi in Europa. I libri dei piú illustri studiosi di archeologia sono nati nelle aule della nostra biblioteca, che è sempre stata un luogo di ricerca e di scambio internazionale. Possediamo forse la piú grande collezione di fotografie archeologiche esistenti in un istituto straniero – piú o meno 500 mila foto e negativi – e

circa 1800 riviste. Nei quasi 190 anni della sua esistenza il Germanico ha creato importanti archivi culturali di archeologia italiana nel contesto europeo». E poi, cosa è successo quando, nel 2006, il DAI di Roma è stato chiuso? «L’edificio in via Sardegna doveva essere restaurato e adeguato alle nuove normative sismiche introdotte dopo i terremoti di Assisi e de L’Aquila. L’Istituto Archeologico Germanico è stato chiuso dal 2006 al 2008, poi riaperto in via Curtatone e quindi trasferito, nel 2015, in via Valadier, dove è oggi e dove rimarrà fino al 2020». Come avete fatto a garantire l’accesso ai volumi della biblioteca agli archeologi, in questi anni di «periplo»? «Abbiamo un magazzino a Settebagni nel quale un collega va due volte al giorno a prelevare i volumi. Possiamo presentare al pubblico solo poco piú del 50 per cento dei nostri libri e parte della fototeca. Per il resto bisogna ordinare il volume e attendere che arrivi il giorno successivo». Che effetto le fa, oggi, l’idea di poter tornare a «casa»? In alto: il palazzo del DAI in via Sardegna. A sinistra: la Casa Tarpeia, sul Campidoglio, prima sede dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica, in una foto del 1854 circa. Nella pagina accanto: la sala lettura della biblioteca dell’Istituto Archeologico Germanico in via Sardegna.

«Adesso abbiamo finalmente una prospettiva. In questi anni, tra mille difficoltà, abbiamo continuato a ospitare studenti e laureandi anche in via Valadier: è importante avere una sede per poter offrire a tutti i nostri amici e partner la biblioteca, la fototeca e gli archivi. L’Istituto Archeologico Germanico fa parte della storia di Roma. Siamo grati, inoltre, di lavorare con voi italiani e con i nostri partner e amici internazionali: prendiamo parte a progetti a Roma, al Colosseo e alla Domus Aurea, ma anche nel Lazio oppure in Sicilia, come a Selinunte. Si tratta di siti archeologici di grande importanza scientifica ed è per noi un grande onore poter avere questa possibilità ogni giorno».

a r c h e o 23


n otiz iario

MUSEI Sicilia

I TESORI DEL BAGLIO

H

a riaperto i battenti il Museo Archeologico Regionale Lilibeo di Marsala (Trapani), grazie a un progetto articolato, che ha previsto anche il riallestimento delle sale, con la rimodulazione del percorso di visita. Quest’ultimo ripercorre la storia dell’antica Lilibeo attraverso materiali inediti accostati ai già noti reperti del precedente allestimento e con un affascinante itinerario subacqueo. Il Museo, uno dei piú importanti della Sicilia e che oggi rientra nel Polo Regionale di Trapani e Marsala per i Siti Culturali, si trova all’interno del Parco lilibetano, in uno stabilimento vinicolo del XIX secolo, il «Baglio Anselmi», adibito a sede museale nel 1986 per esporre il relitto della Nave punica e illustrare la storia della città antica. Le collezioni sono costituite dai reperti provenienti dalle campagne di scavo condotte a Marsala dai primi del Novecento a oggi, insieme a un ristretto nucleo della Collezione «Whitaker» di Mozia e ad antiche acquisizioni comunali. Dall’ingresso si dipartono due percorsi espositivi, oggi completamente rinnovati: l’uno, a destra, dedicato ai rinvenimenti subacquei, tra i quali la Nave punica, la Nave tardo-romana di Marausa, i relitti medievali dal litorale sud di Marsala; l’altro, a sinistra, che illustra la città di Lilibeo, fondata da Cartagine dopo la distruzione di Mozia (397 a.C.) e conquistata da Roma con la battaglia delle Egadi (241 a.C.), che pose fine alla prima guerra punica. L’itinerario subacqueo inizia dal porto antico di Lilybaeum, ubicato a Nord del promontorio di Capo Boeo, con importanti testimonianze degli intensi traffici commerciali e della prosperità della città antica, tra le quali il tesoretto aureo di età

24 a r c h e o

ellenistica e la statua romana di Guerriero. Nella sala principale viene proposta una visione monumentale del relitto della Nave punica, l’attrattore principale del Museo, mediante una passerella, Venere Callipigia, dall’area archeologica presso S. Giovanni al Boeo. Copia romana da un originale ellenistico, II sec. d.C. Marsala, Museo Archeologico Regionale Lilibeo Marsala-Baglio Anselmi.

agilmente percorribile anche dai diversamente abili, che consente un punto di vista ravvicinato dello scafo e della ricostruzione della cambusa, con le anfore vinarie e resti di ceppi da fuoco per cucinare. Ampio spazio è riservato, inoltre, ai relitti medievali dal litorale sud di Marsala, e al carico di anforette vinarie rinvenuto in uno di essi. La sezione dedicata a Lilibeo inizia dai centri fenicio-punici di Mozia e Birgi, con i corredi delle necropoli e del tofet (santuario legato al sacrificio e alla sepoltura degli infanti) e prosegue con i rinvenimenti preistorici e protostorici anteriori alla fondazione di Lilibeo. La storia della città viene narrata attraverso i corredi delle necropoli puniche ed ellenistico-romane, i materiali dai cimiteri cristiani e dai luoghi di culto. Sullo sfondo, una ricostruzione sormontata da merli rievoca le poderose mura di fortificazione, costruite all’atto della fondazione della città. Il percorso continua nella saletta dedicata ai culti punici e romani, con importanti frammenti scultorei riferibili al culto di Iside «dea dagli innumerevoli nomi», e statue delle divinità venerate, Venere/Afrodite, Asclepio e Salus/Igea. Giampiero Galasso

DOVE E QUANDO Museo Archeologico Regionale Lilibeo Marsala-Baglio Anselmi Marsala, lungomare Boeo 30 Orario primavera-estate: ma-sa, 9,00-19,30; lu, do e festivi, 9,00-13,30; autunno-inverno: ma-sa, 9,00-17,30; lu, do e festivi, 9,00-13,30 Info tel. 0923 952535; e-mail: polomuseale.tp.uo3@regione. sicilia.it; www.regione.sicilia.it



n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

UN EROE MODERNO Il nome di Spartaco ha la capacità di evocare, contemporaneamente, due concetti: schiavitú e lotta per la libertà. La mostra in 1 corso al Museo dell’Ara Pacis, a Roma (a cui è dedicato lo Speciale di questo numero; vedi alle pp. 84-104) tratta proprio questo argomento e prende le mosse dallo stesso Spartaco (1), gladiatore nella scuola di Capua, che guidò la rivolta degli schiavi tenendo in scacco l’esercito romano dal 73 al 71 a.C., quando fu sconfitto dalle preponderanti legioni romane di Marco Licinio Crasso e venne ucciso nella zona del Vallo del Diano, tra Campania e Basilicata; il suo corpo non fu mai ritrovato e circa 6000 dei suoi uomini furono crocifissi lungo la via Appia (2), da Roma a Capua. Spartaco era nativo della Tracia (la Bulgaria lo ha ricordato con un francobollo che ne raffigura la statua nella cittadina di Sandanski, 3), ed è assurto a simbolo della lotta contro tutte le forme di schiavitú, antiche e moderne. In assenza di materiale specifico, la nostra rassegna filatelica si limita a citare la principale forma di «schiavismo», già in atto verso il 1500, come risulta dal francobollo di Liberia (4) – vale a dire la tratta delle popolazioni africane verso le Americhe –, le dichiarazioni di abolizione del commercio e della detenzione degli schiavi e alcune forme di sottomissioni «moderne» purtroppo ancora oggi esistenti. Ecco allora la tratta degli schiavi nei francobolli di Capo Verde (5) e di Anguilla (6-7), l’impiego degli schiavi in mansioni domestiche nel foglietto di Santa Lucia (8) e nei campi di cotone americani (9). Vi sono poi valori emessi per celebrare l’abolizione della schiavitú in vari Paesi: Inghilterra, nel 1807 (10); Stati Uniti d’America, nel 1865 (con l’approvazione del 13° emendamento della Costituzione, 11); Curacao, nel 1863 (12). Tra le forme attuali di schiavitú in senso lato, Cuba ha emesso di recente (2015) alcuni francobolli per denunciare la tratta delle donne (13), il traffico di organi (14) e il lavoro minorile (15). Tornando al punto di partenza, ricordiamo che Spartaco, nell’immaginario collettivo, ha le sembianze di Kirk Douglas, l’attore che lo interpretò in un famoso film di Stanley Kubrick del 1960 (16) e all’epoca tutti parteggiavano per lui; oggi, forse, siamo anche noi alla ricerca di un novello Spartaco per combattere le ingiustizie dei nostri tempi...

26 a r c h e o

2

5

3

4 8

6

7

9

11 10 12

15 14 13

16

IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it



CALENDARIO

Italia

Il Corpo del reato

Il patrimonio archeologico ritrovato Antiquarium degli Scavi fino al 27.08.17

ROMA All’ombra delle piramidi

La mastaba del dignitario Nefer Museo di Scultura Antica Giovanni Barracco fino al 28.05.17

Stele del dignitario Nefer.

I Fori dopo i Fori

La vita quotidiana nell’area dei Fori Imperiali dopo l’antichità Mercati di Traiano, Museo dei Fori Imperiali fino al 10.09.17

Spartaco

Schiavi e padroni a Roma Museo dell’Ara Pacis fino al 17.09.17 Colosseo fino al 07.01.18

BAGNO A RIPOLI (FIRENZE) Santa Caterina d’Egitto-L’Egitto di Santa Caterina Esposizione di papiri e reperti archeologici Oratorio di S. Caterina delle Ruote fino all’11.06.17

TORINO Dall’antica alla nuova Via della Seta

Cose d’altri mondi Rilievo in calcare con due dignitari di corte.

Cippo a testa di guerriero, da Orvieto.

ORVIETO L’intrepido Larth

Storia di un guerriero etrusco Museo «Claudio Faina» e Museo Archeologico Nazionale fino al 17.09.17

In mostra i bozzetti per i costumi del balletto disegnati dall’artista, maschere africane e reperti archeologici Antiquarium degli Scavi fino al 10.07.17 28 a r c h e o

Conoscere il passato, costruire la conoscenza Palazzo di Fieravecchia-Chiostro del Palazzo di S. Galgano fino al 26.05.17

L’avventura archeologica M.A.I. raccontata Museo Egizio fino al 10.09.17

Dagli Etruschi a Tommaso Corsini Museo Archeologico e d’Arte della Maremma Museo di Preistoria e di Protostoria della Valle del Fiora fino al 30.09.17 (prorogata)

POMPEI Picasso e Napoli: Parade

Una casa, una strada, una città Musei Civici di Reggio Emilia fino al 31.08.17

Cratere a campana apulo a figure rosse. Fine del IV sec. a.C.

Missione Egitto 1903-1920

Le lastre dei palazzi assiri riesposte in Museo Museo di Archeologia Ligure fino al 18.06.17

Ritmi e Suoni: l’Arte ritrovata Museo Archeologico Nazionale di Locri fino al 31.05.17

REGGIO EMILIA Lo scavo in piazza

MAO, Museo d’Arte Orientale fino al 02.07.17

GENOVA Salvi in Museo!

LOCRI (REGGIO CALABRIA) ReSÒNAnT

Palestra Grande fino al 27.11.17

SIENA Riccardo Francovich

Colosseo. Un’icona

GROSSETO, MANCIANO Marsiliana d’Albegna

Pompei e i Greci

Raccolte di viaggiatori tra Otto e Novecento Palazzo Madama, Sala Atelier fino all’11.09.17

TRENTO Estinzioni

Storie di catastrofi e altre opportunità MUSE-Museo delle Scienze di Trento fino al 26.06.17

VILLANOVA DI CASTENASO (BO) La Stele delle Spade e le altre Sculture orientalizzanti dall’Etruria padana Museo della Civiltà Villanoviana fino all’11.06.17


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

VICENZA Le ambre della principessa

Storie e archeologia dall’antica terra di Puglia Gallerie d’Italia, Palazzo Leoni Montanari fino al 07.01.18

Città del Vaticano Dilectissimo fratri Caesario Symmachus Tra Arles e Roma: le reliquie di san Cesario, tesoro della Gallia Paleocristiana Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano fino al 25.06.17

Francia PARIGI Che c’è di nuovo nel Medioevo?

Tutto quello che l’archeologia ci rivela Cité des sciences et de l’industrie fino al 06.08.17

L’Africa delle rotte

Musée du quai Branly Jacques Chirac fino al 12.11.17

SAINT-ROMAIN-EN-GAL Il design ha 2000 anni Le grandi fabbriche Musée gallo-romain fino al 28.08.17

Germania BONN Iran

Antiche culture tra l’acqua e il deserto Bundeskunsthalle fino al 20.08.17

KARLSRUHE Ramesse

Sovrano divino sul Nilo Badisches Landesmuseum fino al 18.06.17

MANNHEIM Egitto

Terra dell’immortalità Reiss-Engelhorn-Museen fino al 30.07.17 Coppa in clorite, da Jiroft. III sec. a.C.

Grecia ATENE Odissee

Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.17

Olanda LEIDA Casa Romana

Statua di Posidone, da Livadostra (Beozia). 480 a.C.

Rijksmuseum van Oudheden fino al 17.09.17 (dal 24.05.17)

Svizzera BASILEA Arabia felix?

Mito e realtà nel regno della regina di Saba Antikenmuseum fino al 02.07.17

ZURIGO Osiride

Misteri sommersi d’Egitto Museum Rietberg fino al 16.07.17

USA LOS ANGELES Ricordando l’antichità

Il mondo antico attraverso gli occhi del Medioevo J. Paul Getty Museum fino al 28.05.17

NEW YORK Un mondo di emozioni L’antica Grecia, 700 a.C.-200 d.C. The Onassis Cultural Center fino al 24.06.17

L’età degli imperi

Arte cinese delle dinastie Qin e Han (221 a.C.-220 d.C.) The Metropolitan Museum of Art fino al 16.07.17

PHILADELPHIA Culture sotto il fuoco incrociato

Storie dalla Siria e dall’Iraq The Penn Museum fino al 26.11.18 a r c h e o 29


CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli

LA MAGNIFICA OSSESSIONE ANDARE ALLA SCOPERTA DEGLI ANTICHI INSEDIAMENTI GRECI FACENDOSI «GUIDARE» DA PAUSANIA: UN’ESPERIENZA DAL FASCINO INDISCUSSO, CHE È DIVENUTA REALTÀ GRAZIE A BRADY KIESLING, UN EX DIPLOMATICO STATUNITENSE CHE HA COSÍ RISPOLVERATO LA SUA FORMAZIONE DI STORICO

«T

utto è cominciato con me e un mucchio di libri», mi dice Brady Kiesling, storico laureatosi a Berkeley ed ex diplomatico al servizio dell’Ambasciata Americana di Atene. Ci siamo incontrati in una tiepida mattina di primavera per parlare di ToposText, l’app da lui ideata e che mi aveva subito

incuriosita: già a partire dal nome, che combina il termine greco topos, «luogo», con text, l’equivalente inglese di «testo». L’avevo scaricata e avevo provato a usarla, apprezzandone le potenzialità, e ho voluto saperne di piú.

UNA BIBLIOTECA VIAGGIANTE «Qualsiasi archeologo che abbia visitato un sito archeologico ha ben chiara l’immagine di un enorme zainetto sulle spalle pieno zeppo di testi antichi che si riferiscono a quel luogo, pesanti da trasportare, difficili da consultare: ti sei portato dietro il volume sbagliato di Pausania, oppure non trovi il passo giusto, oppure ancora la pioggia ti sta bagnando tutto il libro... – mi dice sorridendo. ToposText offre invece la possibilità di avere questa enorme biblioteca di testi antichi a portata di mano, permettendo a chi viaggia di ritrovarsi magicamente immerso in un mondo fatto di autori antichi, di citazioni storiche e di riferimenti mitologici», aggiunge. In effetti, ToposText è proprio

30 a r c h e o

In alto: una schermata di ToposText, app che offre un database di fonti sui siti archeologici greci e non solo. In basso: Brady Kiesling. questo: una biblioteca portatile di testi antichi, disponibile gratuitamente per dispositivi Android e Apple, connessa a cartine geografiche della Grecia e che si sta estendendo a diverse aree del Mediterraneo – numerosi siti italiani, ma anche le coste microasiatiche e alcune aree dell’Africa settentrionale stanno entrando nel database. Per fare un esempio, se si cerca Eretria, si ritroveranno non solo quasi 300 testi antichi che parlano del sito, incluse iscrizioni come le liste di tributi ateniesi, ma anche la menzione del tempio di Apollo Dafneforo e il moderno Museo Archeologico. Inimmaginabile riunire tutto ciò in uno zainetto, per non parlare delle ricerche in biblioteca: ci sarebbero voluti mesi! All’inizio ToposText è stata un’intuizione di Kiesling, che ha elaborato una prima versione del programma grazie all’aiuto dell’archeologo responsabile dell’informatizzazione degli scavi dell’Agorà di Atene, Bruce Hartzler (vedi «Archeo» n. 375, maggio


2016). Cosí, e grazie anche alla collaborazione della società greca Pavla AE, Kiesling era riuscito a connettere Pausania e pochi altri autori antichi a vari siti greci, abbozzando il nucleo dell’app. Poi, grazie a un finanziamento, a farsi carico del progetto è stata la Fondazione Aikaterini Laskaridis, per conto della quale ora un programmatore, guidato da Kiesling, perfeziona continuamente l’app. Sono stati cosí aggiunti riferimenti a personaggi mitologici, il numero dei testi antichi è in costante aumento, vengono inseriti anche i resoconti di viaggiatori di epoca moderna e, da poco (al momento in cui scriviamo), è uscita la versione 2.0, piú funzionale, della app (per Apple; la versione per Android sarà presto disponibile).

In questa pagina: altri esempi delle modalità di visualizzazione delle informazioni offerte dalla app ToposText, il cui archivio viene costantemente arricchito.

ToposText è attualmente disponibile in inglese, ma è in corso la traduzione in greco. La versione web (www.topostext.org) dà accesso anche ad alcuni link interessanti, mentre quella per dispositivi mobili è utilizzabile anche senza connessione internet. E ci saranno gli aggiornamenti, naturalmente. Prima di lasciarci, domando a Kiesling in quale direzione pensa di sviluppare ToposText. «Questa app è diventata per me una compagnia continua. Ci penso in continuazione e mi rendo conto che c’è ancora molto che si può fare: per esempio, inserire documenti di epoca bizantina – liste di vescovi, tanto per dirne una, ne ho appena aggiunto una prima bozza. È un’ossessione che non mi lascerà facilmente».

a r c h e o 31


L’INTERVISTA • GABRIEL ZUCHTRIEGEL

STUPORE

INFINITO I TEMPLI DI PAESTUM CONSERVANO INTATTO IL FASCINO CHE GIÀ NEL SETTECENTO SEPPE STREGARE VIAGGIATORI SCESI DA OGNI PARTE D’EUROPA. UN POTERE AMMALIATORE CHE HA FRA LE SUE ULTIME «VITTIME» IL NUOVO DIRETTORE DEL PARCO ARCHEOLOGICO, GABRIEL ZUCHTRIEGEL. LO ABBIAMO INCONTRATO... intervista a Gabriel Zuchtriegel, a cura di Gianluca Baronchelli

S

otto la sua guida il Parco Archeologico di Paestum è cambiato molto - e bene - in meno di diciotto mesi. Lui è Gabriel Zuchtriegel, trentacinque anni, nato a Weingarten, nel Baden-Württemberg. Laureatosi in archeologia classica, preistoria e filologia greca alla Humboldt-Universität di Berlino, ha poi conseguito il dottorato di ricerca in archeologia classica presso l’Università di Bonn, ed è stato professore a contratto di 34 a r c h e o

archeologia e storia dell’arte greca e romana nell’Università della Basilicata, dove ha condotto un progetto di ricerca a Heraclea. Prima di essere nominato direttore del Parco Archeologico di Paestum, ha lavorato come archeologo nella segreteria tecnica del Grande Progetto Pompei. Sorriso mite, sguardo deciso, idee chiare. Partendo dall’attualità e immaginando il futuro di Paestum, il discorso è andato lontano…


Paestum. La facciata orientale del tempio di Atena. 500 a.C. circa. Si tratta dell’unico luogo di culto della città di cui si conosca con certezza la divinità titolare.

◆P rofessor Zuchtriegel, una delle sue prime sfide è stata quella di riaprire i templi alla fruizione dall’interno dopo vent’anni, trasformando il principio del «guardare e non toccare» in un’esperienza emozionale. Perché? Con quali rischi e difficoltà? «Quando abbiamo deciso di riaprire i templi, lo abbiamo fatto con un progetto di sicurezza e

tutela accurato e programmato. Per me è stato chiaro sin dal primo giorno, quando sono entrato nei templi, che stavo vivendo la medesima esperienza già vissuta, descritta, memorizzata da grandi e importanti visitatori del passato: penso a Goethe, a Piranesi… sono entrati, hanno potuto vivere le architetture dall’interno. Goethe descrive questa esperienza come un momento a r c h e o 35


L’INTERVISTA • GABRIEL ZUCHTRIEGEL

un altro esempio, legato alla Tomba del Tuffatore: stiamo lavorando a una mostra programmata per il 2018, per celebrare il cinquantesimo anniversario del ritrovamento. Vogliamo sí spiegare il contesto antico – quindi i riti funerari, l’assetto sociale, culturale di Paestum negli anni compresi tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C., le credenze orfico-pitagoriche, il dionisismo –, ma vogliamo anche affrontare la cosiddetta “fortuna”, che nella storia della ricerca è stata sempre considerata secondaria. Comunemente, ci sono prima l’opera e il suo contesto antico, e poi c’è la fortuna, un fenomeno che viene innanzitutto sconsigliato come tema agli studen◆ È dunque un’idea che parte da lontano… «Sí, l’idea del mondo che non è mai veramente quello ti: chi voglia fare una tesi “sulla fortuna di” (la Tomba antico: come dice anche Heidegger, possiamo andare a del Tuffatore, la pittura di Pompei…) difficilmente farà Paestum, possiamo recarci in questi luoghi, ma poi lí non carriera. Perché quel tema viene percepito come marè che ritroviamo il mondo antico. Eppure l’opera, il ginale, secondario. E invece non è cosí». monumento, conserva qualcosa di quel mondo che sopravvive, che possiamo sperimentare, vivere, percepire. È Il tempio di proprio questa l’idea che ci ha guidato fin qui, attraverso Poseidone a il percorso intrapreso: creare, riscoprire, comunicare il Paestum, olio su mondo che ruota intorno ai monumenti e agli oggetti. tela di Jules La cosa piú sbagliata sarebbe appiattire, banalizzare que- Coignet. 1844. sto concetto, limitandolo a una realtà virtuale che ripro- Monaco, Neue pone la città di Paestum com’era nell’antichità. Faccio Pinakothek. che lo aiuta a comprendere profondamente l’architettura dorica classica. Solo entrando, dice, ci si rende conto della grandezza e della maestà di questi templi. Nel caso di Piranesi, la testimonianza è rappresentata ovviamente dai disegni. Sono, in parte, vedute dall’esterno, ma ci sono anche molte vedute dall’interno. Non è casuale, perché è mosso dalla stessa ricerca di Goethe: lo spazio vissuto, immaginare un mondo intorno a questi templi, perché entrando si ha anche un’altra percezione del paesaggio circostante».

36 a r c h e o


◆L a percezione e la ricezione dell’antico condizionano in maniera determinante il nostro sguardo verso il passato… «Sí, e la mostra affronterà anche questo aspetto. La Tomba del Tuffatore ha avuto un grosso impatto su scrittori, poeti, scultori, pittori contemporanei.Alcuni sono ancora vivi, e ho avuto il piacere di incontrarli… come Claude Lanzmann che ha scritto nel 2012 La Tombe du divin plongeur. C’è poi Eugenio Montale, che ha scritto una poesia sul Tuffatore, artisti figurativi che si sono fatti ispirare... Tutto ciò fa parte del mondo di cui parlavo prima, fa parte del mondo del tuffatore, per cosí dire». ◆C i racconta gli ultimi scavi? «Lo scavo che si è appena concluso è finalizzato a indagare l’abitato. Noi abbiamo i tre templi greci, ma

a r c h e o 37


L’INTERVISTA • GABRIEL ZUCHTRIEGEL

intorno a loro c’era una città intera. Ci interessa ricostruire la vita a Paestum nel periodo in cui furono costruiti i templi. Abbiamo perciò cominciato a scavare sotto una grande domus romana, dove già in passato erano state intercettate delle strutture piú antiche. Abbiamo riaperto quello scavo e stiamo ottenendo risultati importanti: livelli di calpestio, strutture che risalgono alla fase anteriore alla colonia romana, prima del III secolo a.C. Abbiamo probabilmente raggiunto i livelli della fase tardo-arcaica, quella del grande tempio di Atena e alla quale risale anche la Tomba del Tuffatore. La campagna di scavo ci aiuterà quindi a leggere meglio l’intero contesto, a documentare la vita quotidiana, l’economia, in questi anni cosí importanti per Paestum. Con le indagini precedenti ci si era concentrati sui santuari, sull’agorà, sulle mura e sulla necropoli, con esiti molto importanti. Oggi però sappiamo pochissimo di come vivevano queste persone. Si tratta, dunque, di prendere decisioni: decisioni che non erano sbagliate nel passato, ma che hanno creato un’immagine evidentemente parziale della Paestum antica. A questa immagine vogliamo oggi aggiungere un altro frammento, che viene dall’indagine dell’abitato».

zione del patrimonio favorendo il racconto piuttosto che la fredda spiegazione, narrando il vissuto di luoghi e oggetti, ricercando il genius loci? «Sarebbe la via da seguire, ovunque. Mi ricollego allo scavo di cui abbiamo appena parlato: è stato, davvero, un cantiere aperto, visitabile: ogni giorno abbiamo accolto i visitatori, abbiamo organizzato visite guidate. Inoltre, condividiamo immagini, commenti e filmati sui nostri canali social. È nostra intenzione instaurare un dialogo, e dobbiamo dare la possibilità ai visitatori di esprimersi.Vogliamo far emergere la voce del pubblico, fare del museo un luogo di dialogo, di incontro. Non vedo il ruolo di un museo come un’attività di educazione, perché questo presupporrebbe un rapporto diseguale. Esiste, invece, una missione di comunicazione, che parte dal museo andando verso il visitatore, il quale, a sua volta, non dev’essere passivo, ma parte integrante del museo. Per il resto, noi archeologi spesso cadiamo nella trappola di usare un linguaggio che rende difficile la comunicazione persino tra di noi, figuriamoci all’esterno del nostro settore. Io credo che la chiave consista nel condividere anche i dubbi, le domande, far capire al pubblico che non ab◆N ell’epoca dei social network, del web, dello biamo la verità assoluta. Ci sono interpretazioni, ci story telling, è possibile ripensare la comunica- sono dibattiti, ci sono questioni che ci dividono. DobVeduta panoramica del quadrante sud-orientale dell’area archeologica. A sinistra, il Tempio di Nettuno (ma l’attribuzione è tuttora dibattuta), realizzato intorno alla metà del V sec. a.C.; a destra, la cosiddetta «Basilica», edificio di cui è stata invece accertata la natura di tempio, verosimilmente dedicato a Hera e la cui costruzione ebbe inizio intorno al 560 a.C.


biamo cercare di aprire l’archeologia, far vedere quel che accade dietro le quinte, non presentare pseudoverità, che poi sono piú che altro noiose perché non è quello che interessa al pubblico. Dobbiamo essere piú coraggiosi, e mostrare tutto l’iter che seguiamo, non fingere di avere sempre e subito la risposta a ogni domanda, perché il lavoro dell’archeologo non è questo! Lo vediamo proprio sui social, dove si creano discussioni e dibattiti…: il pubblico non va mai sottovalutato. E, anche qui, è una questione di scelte, e di sfide: anziché una domus, noi avremmo potuto scavare altrove, nei santuari, dove ci sono ancora molte domande aperte, e avremmo potuto godere di una visibilità maggiore. Mi congratulo con i colleghi di Agrigento che stanno scavando il teatro greco – si tratta di una bellissima scoperta –, ma è molto piú facile comunicare uno scavo simile in un contesto in cui si è abituati a guardare l’archeologia come un susseguirsi di scoperte, di monumenti importanti, di tesori, di cose grandi e impressionanti. Noi possiamo cambiare l’immagine che il pubblico ha dell’archeologia, e sta funzionando. Faremmo un errore, credo, se continuassimo a evidenziare sempre le stesse cose: la tomba, il santuario, il teatro…». ◆L ei ha parlato spesso di un immenso patrimonio custodito nei depositi, spesso di grande qualità e interesse. E ciò vale non solo per Paestum, ma per molti musei d’Italia: quale potrebbe essere una via per la valorizzazione di questi tesori nascosti?

«Le mostre temporanee sono sicuramente importanti, come anche percorsi museali che non siano fissi e immutabili. Questa è una tendenza internazionale: progettare musei sempre piú flessibili, nei quali si possano anche cambiare parti dell’allestimento. Non è piú possibile immaginare un progetto che rimanga immutato per decine di anni, perché, nel frattempo, cambiano i modi della comunicazione. Noi adesso effettueremo un intervento che si avvale di fondi europei, ma non lo impostiamo come se fosse per sempre, bensí come un qualcosa in continua evoluzione. E l’estate scorsa abbiamo anche organizzato visite ai depositi, con risultati straordinari: piú di duemila persone hanno aderito all’iniziativa, in piccoli gruppi, non piú di venticinque persone alla volta, da aprile ad agosto. Non lo abbiamo fatto perché ci manca lo spazio o non c’era la possibilità di organizzare mostre per esporre questi pezzi, ma perché è affascinante proprio entrare nei depositi, vedere il dietro le quinte del museo, e vedere come lavorano i restauratori». ◆Q ual è il numero dei visitatori annui, in che modo sono ripartiti durante i vari periodi, è possibile destagionalizzare la presenza e, soprattutto, incrementare le presenze senza rischi per il patrimonio? Quale risultato si potrebbe ottenere sul medio periodo? «Nel 2015 abbiamo superato i 300 000 visitatori. Nel 2016 l’incremento medio è stato del 27%, e abbiamo avuto piú di 380mila visitatori. Vorremmo proseguire


Un particolare dell’architettura del Tempio di Nettuno. Metà del V sec. a.C. Nella pagina accanto: Paestum: Tempio di Nettuno, veduta dell’interno da ovest (particolare), disegno a gessetto nero, matita, lavaggio marrone e grigio, penna e inchiostro di Giovanni Battista Piranesi. 1777. Londra, Sir John Soane’s Museum. 40 a r c h e o


cosí. La destagionalizzazione è importante, in questa ottica: a dicembre per esempio, contestualmente a «Luci d’artista» che si tiene a Salerno, abbiamo presentato un progetto di video mapping sul Tempio di Nettuno, dove Alessandra Franco ha interpretato il mito antico e moderno sullo sviluppo della cultura e della civilizzazione intorno alla figura di Hera e del tempio. Arte contemporanea e archeologia possono e devono convivere, una può essere volano per l’altra». ◆ I visitatori spesso si muovono perché attratti da molteplici fattori: la cultura, certo, ma anche il cibo, il mare, nel caso di Paestum. Quali sinergie possono essere messe in atto con il territorio? «Abbiamo grandi potenzialità: i numeri che ho citato sugli incrementi delle presenze – e quelli degli incassi sono anche maggiori, intorno al 50% – derivano in parte dal fatto che, credo, stiamo facendo un buon lavoro di offerta, promozione e comunicazione culturale, avvalendoci anche delle risorse del territorio. In un certo senso, in alcuni settori partiamo da zero, come per esempio nel fundraising, che finora è stato molto trascurato perché il sistema non lo permetteva; anche in altri settori abbiamo ancora molti margini di sviluppo, e con tre- quattrocentomila visitatori siamo ancora lontani da una situazione in cui doversi porre il problema della sostenibilità del sito, o dell’introduzione di un numero chiuso, come accade a Firenze per gli Uffizi o a Pompei. Questo per noi non è un problema, quindi possiamo puntare a una crescita sostanziale senza incorrere in problemi, e ciò vale anche per tutto il Cilento, che è una zona bellissima, ricchissima di tradizioni e cultura. Ci sono tanti siti nell’entroterra che andrebbero riscoperti e valorizzati. C’è un grande spirito di collaborazione con le scuole, le università, tradizionalmente già molto presenti a Peastum, le istituzioni. Stiamo lavorando con Trenitalia per un progetto di ampliamento del servizio. Naturalmente, c’è ancora molto da fare. Ma abbiamo molti sostenitori sul territorio che approfittano della crescita del museo, dei numeri, della qualità, perché non è solo un discorso di quantità.Nell’estate scorsa, in occasione dei numerosi concerti, tutti gli artisti sono stati ospitati dagli albergatori locali, che hanno offerto il servizio gratuitamente; in questo modo abbiamo potuto contenere i costi. Si va insomma diffondendo uno spirito di entusiasmo e passione per questo territorio, che è una risorsa molto importante».

«Certo, era solo il primo passo. Abbiamo un gruppo di lavoro all’interno del museo, con varie competenze, che si occupa proprio di questo. Nell’area archeologica vogliamo creare altri percorsi, e vogliamo contestualmente creare un’offerta per ipovedenti, attraverso plastici e modelli tattili per illustrare il sito e gli oggetti, i vasi, i ritrovamenti. Studiamo inoltre progetti per vari gruppi che hanno difficoltà, anche di comprensione, e che dunque necessitano di un altro tipo di linguaggio e comunicazione».

◆ L’Art Bonus è stato, o potrà essere d’aiuto? «Devo dire che sono abbastanza soddisfatto dei primi risultati, anche se, paragonati con quelli di alcuni musei statunitensi, possono sembrare poca cosa. Abbiamo raccolto nel 2016 circa 80 000 euro, tra donazioni e sponsorizzazioni. È un bell’inizio, e l’Art Bonus (il provvedimento legislativo con il quale, nel 2014, lo Stato ha introdotto un credito d’imposta per le erogazioni liberali in denaro a sostegno della cultura e dello spettacolo, per stimolare il mecenatismo, n.d.r.) è un passo molto importante per il maggior coinvolgimento dei privati, ma non ci possiamo fermare a questo. La raccolta fondi è un lavoro a se stante, complesso, strategico, che anche a me personalmente richiede una notevole quantità di tempo ed energia. Se pensiamo ancora ai musei americani, hanno dipartimenti interni che si ◆P arlando di accessibilità, sono state abbattute avvalgono di staff composti da dieci, dodici persone, che le barriere architettoniche all’interno della fanno solo questo, e un direttore che spende gran parBasilica, esempio piú che virtuoso per il no- te del suo tempo per impegnarsi in tal senso». stro patrimonio e, purtroppo, raro. C’è anco◆L ra del lavoro da fare in questo senso? a piaga del commercio clandestino di repera r c h e o 41


In basso: la lastra che dà nome alla tomba, raffigurante un giovane che si tuffa nell’oceano, immagine metaforica del passaggio dalla vita alla morte.

ti archeologici è purtroppo sempre viva. Quanto è stretta la collaborazione con il Comando Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri? A quali risultati ha portato? Soprattutto, in quale modo le istituzioni culturali possono aiutare la formazione di una coscienza civile, soprattutto tra le nuove generazioni? «Collaboriamo molto intensamente con la Soprintendenza di Salerno, che ha la competenza su tutto il territorio intorno a Paestum. Purtroppo gli scavi clandestini continuano e noi cerchiamo di dare una mano

42 a r c h e o

ai colleghi della Soprintendenza, e al Comando TPC. Credo che i musei possano avviare una presa di coscienza da parte dei cittadini, contribuendo cosí in maniera indiretta a combattere questi fenomeni. Recentemente abbiamo realizzato una mostra sul tema degli scavi clandestini e dei falsi, e cerchiamo di interagire sempre piú con il territorio e con le scuole. Abbiamo ideato un abbonamento per rafforzare il legame tra il Parco e i cittadini, costa solo 15 euro e permette di entrare in tutta l’area archeologica 365 giorni all’anno, senza limitazioni. La maggior parte dei


Sulle due pagine: la sala del Museo di Paestum nella quale sono esposte le pareti della Tomba del Tuffatore, decorate con scene di un simposio (banchetto). 480-470 a.C.

fruitori sono i residenti, che possono cosí fare del Parco il loro giardino, venire ogni giorno, volendo… Inoltre, una continua attività culturale, di ricerca, di comunicazione, di conferenze, di mostre: credo sia molto importante per sensibilizzare il pubblico e creare un’identità, e questo funziona molto meglio con l’autonomia, nella quale credo fermamente». ◆ Le chiedo un primo bilancio, a oltre un anno dall’insediamento: la difficoltà maggiore riscontrata, e la piú grande soddisfazione. «È difficile dire quale sia stata la soddisfazione piú grande… (ci pensa a lungo), perché tendo a non essere mai soddisfatto, è un po’ una mia pecca. Senza dubbio, un momento molto gratificante è stata l’apertura della “Basilica”, cioè il tempio piú antico di Paestum, senza barriere architettoniche. Abbiamo avuto risposte da tutta Italia e oltre. Ho sempre visto l’eliminazione delle barriere non come l’azione condotta in favore di un piccolo gruppo di cosiddetti disabili, ma come un intervento che riguarda davvero tutti noi. Quanto alla difficoltà piú grande… (anche in questo caso la pausa di riflessione è lunga), dovrei inventarmi qualcosa! Difficoltà ce ne sono state, ma abbiamo trovato una soluzione a tutto. Ostacoli insormontabili non ce ne sono stati… e l’accoglienza nei miei confronti è stata fantastica!». ◆D urante la mia ultima campagna fotografica a Paestum, in occasione di un’apertura notturna, mi sono seduto nel tempio di Nettuno. Ho appoggiato la schiena a una colonna, non c’era nessuno. Ho chiuso gli occhi e ho respi-

rato profumo d’erba, di pietra, di storia. Lo fa mai, direttore, di fuggire dall’ufficio per rifugiarsi in tanta maestosità? «Spesso, soprattutto quando ho la scusa dello scavo, per il quale nutro un’immensa passione. Discuto con i colleghi di ogni piccola cosa... Però anche in altre occasioni vado nell’area archeologica, faccio lunghe passeggiate lungo le mura, mi perdo a Capaccio vecchia, nei castelli medievali… Quando vedo i templi, per me è sempre come se li vedessi per la prima volta. Dopo oltre un anno ancora non è venuta meno questa sensazione di stupore, di meraviglia, che mi coglie ogni sera quando esco dall’ufficio per prendere il treno e vedo i templi in mezzo al paesaggio storico del Grand Tour, gli alberi, le piante… Ti senti quasi un intruso in un mondo che pensi di conoscere, e che invece ti sorprende sempre. Poi, c’è il cielo, che qui è diverso da ogni altro luogo: credo sia l’insieme di natura, monumenti, atmosfera che crea questa luce unica. E si sente il mare da lontano, che ogni giorno suona un po’ diverso». DOVE E QUANDO Parco Archeologico di Paestum (Museo e Area archeologica) Capaccio (Salerno), via Magna Grecia 919 Orario tutti i giorni, 8,30-19,30 (il I e III lunedí del mese, chiusura anticipata alle 13,40); chiuso: 1° gennaio, 1° gennaio e 25 dicembre; Info tel. 0828 811023; e-mail: pae@beniculturali.it; www.museopaestum.beniculturali.it Note dopo il tramonto del sole, l’area archeologica è fruibile limitatamente al percorso illuminato a r c h e o 43


SCAVI • ZEUGMA

NELLA

CASA DELLE

MUSE

44 a r c h e o


UNA NUOVA SCOPERTA ARRICCHISCE IL PATRIMONIO DI MOSAICI DI ZEUGMA, SULLE RIVE DELL’EUFRATE, NELLA TURCHIA SUDORIENTALE. IL SALVATAGGIO DELLA CITTÀ GRECA E ROMANA, INSIEME ALL’ALLESTIMENTO DELLO SPLENDIDO MUSEO DI GAZIANTEP, È FRUTTO DELLA MOBILITAZIONE SCATTATA IN TURCHIA, MA NON SOLO. ECCO IL RACCONTO DELL’ARCHEOLOGO PROTAGONISTA DEGLI SCAVI di Kutalmis Görkay

S

ituata presso la moderna città di Gaziantep, nella Turchia sud-orientale, l’antica Zeugma – nome che, tradotto letteralmente dal greco antico, vuol dire «giogo» o «legame» – fu un centro di primaria importanza in età ellenistica e greco-romana. La sua denominazione deriva dal fatto che la città si trovava in corrispondenza del prin-

cipale attraversamento dell’Eufrate. Il sito ha acquistato fama internazionale in occasione dei lavori di costruzione della diga di Birecik, per effetto dei quali parte dell’insediamento venne condannata a finire sott’acqua (vedi box a p. 47), quando gli scavi di salvataggio portarono alla luce gli splendidi mosaici che ornavano alcune case romane (vedi

Necropoli occidentale

5

6 Eufrate

8 4

2

7

3 11

9

10

Necropoli ellenistica

Necropoli orientale

1 Necropoli sud-occidentale Necropoli meridionale

anche «Archeo» nn. 187 e 308, settembre 2000 e ottobre 2010). I tappeti musivi allora recuperati sono stati ricollocati nel moderno Museo dei Mosaici di Zeugma, a Gaziantep, che oggi costituisce una delle piú ricche collezioni del genere, di cui fanno parte anche importanti mosaici di epoca tardo-antica provenienti dalla stessa Gaziantep e dal suo territorio. Dal 2005, gli scavi di Zeugma vengono condotti dall’Università di Ankara e vedono la partecipazione di studiosi provenienti da vari atenei, di molti Paesi diversi.

IL CONTESTO CULTURALE La città antica si compone soprattutto di aree residenziali. E le case permettono di ricostruire l’identità dei loro proprietari, offrendo informazioni sulla loro vita privata, sull’identità, sulle origini e sul ruolo In alto: le colonne che circondano il cortile della Casa A. A sinistra: pianta di Zeugma: 1. tempio; 2. teatro; 3. Foro romano; 4. stadio; 5. agorà ellenistica; 6. mercato; 7. Case di Danae e Dioniso; 8. Casa di Poeseidone; 9. Casa delle Muse; 10. Casa del Synaristosai; 11. porta (?). Nella pagina accanto: veduta dell’agorà ellenistica con il mosaico pavimentale di Poseidone. a r c h e o 45


SCAVI • ZEUGMA A sinistra: una veduta della Casa delle Muse. In alto, il mosaico con Oceano e Teti, in basso, i ritratti femminili entro i riquadri, raffiguranti forse delle eroine. In basso: cartina della Turchia con indicazione delle principali località. Nella pagina accanto: la Casa delle Muse in corso di scavo, con il mosaico parzialmente svelato.

Istanbul Ankara

Adiyaman Besni

TURCHIA

Kaharamanmaras

Eufr

ate

Kadirli

Bozova

di quella romana. L’introduzione di elementi ascrivibili alla seconda ebbe inizio nel I secolo d.C., ma anche le abitazioni sorte in epoca romana fecero proprie soluzioni messe a punto in età greca. La maggior parte delle case fu occupata fra il I secolo d.C. e la metà del III.

Bachçe Osmaniye

Ceyhan

Zeugma

Gaziantep

Islahiye

Nizip

Birecik

Suruç

Yesemek Dörtyol

Iskenderun Kirikhan

svolto nell’ambito della comunità. In particolare, le decorazioni architettoniche rappresentano altrettanti specchi del gusto, degli stili di vita e del contesto culturale, mentre i cosiddetti small finds (letteralmente, «piccoli reperti») restituiscono dati preziosi sull’utilizzo dei diversi spazi nella vita di tutti i giorni. Oggi 46 a r c h e o

SIRIA

ben note grazie ai mosaici, le case romane di Zeugma appartennero a personaggi facenti parte di classi sociali diverse, tra i quali dovevano figurare mercanti, governatori imperiali e veterani dell’esercito. In genere, queste residenze mostrano una commistione di elementi tipici dell’architettura domestica greca e

AL RIPARO DALLA CALURA Le case si articolavano su un cortile a peristilio centrale, simile all’atrio di tipo corinzio, circondato dalle varie stanze: un assetto che fa di queste strutture una sorta di ibrido fra la casa greca e quella romana, con planimetrie che si adattavano al clima locale. Quasi tutti gli edifici erano orientati a nord: una scelta che, evidentemente, nasceva dal desiderio di proteggersi innanzitutto dalla calura della stagione estiva, piuttosto che di ripararsi dal freddo dell’inverno, e in conseguenza della quale anche i vani per gli ospiti erano concepiti in modo da risultare i piú freschi durante l’estate.


UN EQUILIBRIO DELICATO Gli scavi di salvataggio sono stati avviati a Zeugma nei primi anni Novanta del secolo scorso, dopo l’avvio della costruzione della diga di Birecik. Quest’ultima è uno dei ben 22 sbarramenti lungo i corsi dell’Eufrate e del Tigri a cui la Repubblica turca ha messo mano nell’ambito di un faraonico piano di sviluppo denominato GAP (Guneydogu Anadolu Projesi, Progetto per l’Anatolia sudorientale), un’impresa nella quale è compresa anche la realizzazione di 19 impianti per la produzione di energia idroelettrica. Le infrastrutture hanno interessato interessano Didascalia da efare Ibusdae anche il evendipsam, erupit antesto patrimonio officte archeologico del taturi cum quatiur restrum Paese e, ilita oltreaut a Zeugma, sono eicaectur, testo blaborenes iumsiti stati parzialmente sommersi quasped quos non etur reius nonem come Samosata e Hasankeyf. quam expercipsunt magni L’iniziativa ha, delquos resto,rest anche un autatur apicpolitico teces enditibus obiettivo e socialeteces. ben preciso, che consiste nell’assorbimento delle spinte indipendentiste che serpeggiano nella regione. L’area di Gaziantep e, piú in generale, il Sud-Est della Turchia sono infatti abitati da elevate percentuali di Curdi e Arabi. Nel caso di Zeugma, a parziale risarcimento dell’impatto che la diga ha avuto sul suo patrimonio, i responsabili del GAP hanno varato il piano battezzato Progetto turistico per il lago della diga di Birecik, che ha nella visita ai mosaici del sito uno dei suoi punti di forza.

a r c h e o 47


SCAVI • ZEUGMA

48 a r c h e o


Dalla seconda metà del II secolo d.C., la crescita demografica determinò la conseguente maggior necessità d’acqua e cosí i cortili aperti delle case cominciarono a essere rivestiti da pavimenti a mosaico. Questi ultimi, infatti, non costituivano soltanto un’ornamentazione, ma prevenivano l’assorbimento dell’acqua da parte del terreno e furono accompaganti dalla creazione di cisterne in cui raccogliere le acque piovane lungo i margini delle stesse corti. Al tempo stesso, questi spazi aperti potevano servire come vasche poco profonde, ma tali da assicurare refrigerio alla casa nei giorni piú caldi. L’acqua era dunque essenziale e si trasformò, di conseguenza, in un elemento che integrava l’apparato architettonico e decorativo delle case, affermandosi come espressione della ricchezza e del benessere dei loro proprietari. Come già detto, le case di Zeugma mostrano elementi greci e romani. Per esempio, di fronte alle stanze riservate agli ospiti, si trovano prostas o pastas di stile greco che assolvono

Socrate e i sapienti Uno dei confronti proposti per il mosaico delle Muse di Zeugma è con il mosaico di Calliope e i sette saggi rinvenuto in una villa romana nei pressi di Baalbek (Libano) e oggi conservato nel Museo Nazionale di Beirut (vedi «Archeo» n. 379, settembre 2016). Si tratta di una grande composizione (vedi foto qui sotto), databile al III secolo d.C., che decorava la sala da pranzo della residenza e che raffigura appunto la musa della filosofia circondata da Socrate e sette dei filosofi piú autorevoli della Grecia antica. Tutto intorno, si snodava una cornice con allegorie delle stagioni: la sola scena conservata è quella che allude all’estate, simboleggiata da Gaia, la dea greco-romana della terra, sulla quale volteggia un giovane alato con un covone di grano. Socrate sormonta il ritratto di Calliope e la teoria dei sette sapienti mostra quindi (in senso antiorario): Solone, Talete, Biante di Priene, Cleobulo di Lindo, Periandro di Corinto, Pittaco di Mitilene e Chilone di Sparta. Ogni personaggio è accompagnato da una delle sue massime.

Nella pagina accanto: la Casa delle Muse con il mosaico interamente liberato. II-III sec. d.C. In basso: il mosaico delle Muse in corso di scavo.

alle funzioni del vestibulum. Al contempo, i capitelli delle colonne che circondano alcuni cortili – come nella Casa dell’Eufrate e di Poseidone e nella Casa A – sono in stile tuscanico, analogo a quello solitamente attestato nelle colonie d’Occidente. Come in molte altre dimore oggi sommerse, nella Casa A è stata individuata la nicchia di un lararium, apprestata nelle immediate vicinanze del cortile. Le statuette dei Lari e del Genius restiuite da scavi condotti nella città – e oggi esposte nel Museo Archeologico di Gaziantep – dovevano trovarsi appunto in strutture come questa e la loro presenza suggerisce che i proa r c h e o 49


SCAVI • ZEUGMA Sulle due pagine: altre immagini che documentano lo scavo della Casa delle Muse. Nella foto in basso si possono vedere le pitture murali che ornavano alcune delle stanze.

prietari delle dimore fossero di origine latina o fossero Greci che avevano fatto propria la cultura dei Romani. Scavi condotti nei quartieri residenziali hanno provato che i veterani – che forse comprendevano ufficiali d’alto rango delle legioni di stanza a Zeugma – avevano i propri acquartieramenti nelle aree residenziali civili e tale circostanza potrebbe aver accentuato l’influsso della cultura latina, velocizzandone l’assimilazione.

EPISODI FAMOSI I mosaici che ornavano le case romane di Zeugma e oggi esposti nel Museo dei Mosaici di Zeugma a Gaziantep presentano, in prevalenza, composizioni figurative, databili al II e III secolo d.C., che mostrano episodi della mitologia greca e greco-romana o scene tratte da racconti famosi, spesso accompagnati da didascalie in lingua greca. La scelta di alcune scene può essere stata dettata da molteplici fattori. Composizioni che mostrano episodi tratti da opere letterarie potrebbero alludere all’ambiente intellettuale di cui faceva parte il proprietario della casa, anche se, spesso, la funzionalità sembra essere stata la prima delle esigenze a cui si voleva far fronte nello scegliere una determinata soluzione. È il caso, per esempio, delle basse vasche degli impluvia, che sono in molti casi decorate da mosaici con immagini legate all’acqua. O dei vani di uso pubblico, come le sale adibite al ricevimento, nelle quali – oltre alle scene di carattere dionisiaco – ricorrono i mosaici che hanno soggetti tratti dalle opere teatrali di maggior successo. Storie molto note e spesso rappresentate nei triclinia, 50 a r c h e o


affreschi con ghirlande inquadrate da cornici rettangolari, entrambi in eccellente stato di conservazione. Il mosaico raffigura le nove Muse della mitologia greca, scelte per decorare l’emblemata centrale del pavimento di quella che con ogni probabilità era la sala da pranzo della casa. Le Muse sono ritratte in medaglioni (clipei) definiti in uno schema geometrico, simile a quello del mosaico «dei Sette Saggi» di Baalbek (vedi foto e box a p. 49). Nel clipeo centrale, Calliope – musa della poesia epica – appare circondata dalle altre Muse. Le mitiche fanciulle non presentano i loro attributi tipici, dal momento che i loro nomi sono scritti in greco accanto a ciascun ritratto, ma hanno il capo coronato da elaborate corone, fatte con penne di Sirene. Un’immagine tramandata da Pausania nel IX libro della Periegesi, quando, a proposito delle corone di piume delle Muse, scrive: «Era convinse le

figlie di Acheloo a gareggiare con le Muse nel canto. Le Muse vinsero, staccarono le penne delle Sirene (cosí si dice) per farne corone». Le Muse rappresentano un soggetto particolarmente adatto per queste sale da ricevimento, poiché erano il simbolo della paideia greca, nonché delle attività intellettuali ed erano inoltre le divinità principali per la celebrazione dei matrimoni. All’indomani della scoperta del mosaico, l’edificio è stato ribattezzato Casa delle Muse.

L’ABBANDONO Gli scavi degli ultimi anni provano che la casa crollò e venne obliterata in momenti successivi dopo il saccheggio sasanide della città nel 253 d.C. circa. Nel V e VI secolo d.C. l’area della Casa delle Muse tornò a essere occupata da dimore di epoca tardo-antica che, rispetto alle grandi ville urbane sulle quali sorsero, avevano dimensioni piú ridotte, ma si articolavano anch’esse secondo pla-

nel corso delle recite che potevano fare seguito ai banchetti. I mosaici pavimentali delle stanze piú private – le piccole sale da ricevimento, i ginecei o le camere da letto – presentano solitamente romantiche immagini di coppie celebri: Arianna e Dioniso, Perseo e Andromeda, Metioco e Partenope, Galatea, Eros e Telete. In questi stessi ambienti, alle pareti, potevano inoltre essere affescati i ritratti di donne famose per le loro virtú o di eroine della mitologia greca, come Penelope e Deidamia. Gli scavi condotti nel 2007 nel settore residenziale orientale di Zeugma hanno riportato alla luce la stanza di una casa romana decorata da un mosaico pavimentale e da a r c h e o 51


SCAVI • ZEUGMA A sinistra: strutture riferibili all’agorà ellenistica e al mercato. A destra: gli scavi nelle Case di Dioniso e Danae.

I mosaici assecondavano il gusto dei loro committenti, ma erano voluti anche per stupire gli ospiti della casa nimetrie regolari, pur senza particolari abbellimenti o decorazioni. Gli abitanti dell’età tardo-antica costruirono le proprie dimore sul copioso accumulo di detriti che copriva la Casa delle Muse e sembra che le abbiano abbandonate all’indomani delle razzie islamiche che investirono l’area intorno al 640. Negli scavi del 2014 il deposito di detriti e terra che copriva il complesso è stato rimosso e la Casa delle Muse è stata esplorata quasi integralmente. Le indagini hanno permesso di accertare la planimetria dell’edificio: si tratta di una casa a pianta reattangolare, di 26 x 14 m circa. Essa si articola in due cortili, uno grande e uno piccolo, due vani scavati nella roccia, nonché quattro stanze e due vestiboli. Il cortile piú grande, situato al centro della casa, 52 a r c h e o

era riccamente decorato e fiancheggiato da due stretti vestiboli (loggia) su entrambi i lati, dai quali si poteva accedere alla corte medesima, per un passaggio ai lati del quale erano state innalzate colonne corinzie.

PER STUPIRE I CONVITATI Il mosaico pavimentale del cortile era decorato con una composizione raffigurante Oceano e Teti, insieme a varie creature marine e a Cupidi che cavalcano delfini. Il linguaggio visuale del mosaico implica che la struttura doveva essere utilizzata anche come vasca, cioè come impluvium, allo scopo di rinfrescare l’aria nelle riunioni conviviali che si tenevano in estate, ma costituiva anche l’elemento di spicco della decorazione architettonica, offerto all’ammirazione dei convitati. Queste raf-

finate soluzioni architettoniche e decorative, primi fra tutti i capitelli corinzi, i mosaici e gli affreschi, permettono di collocare la costruzione dell’edificio fra la fine del II e gli inizi del III secolo d.C. In ogni caso, al pari di molte altre dimore del quartiere, la prima fondazione risale verosimilmente al I secolo d.C. Alla Casa delle Muse si accede dal lato nord e un corridoio si sviluppa seguendo l’asse principale che corre verso sud, fino al grande cortile centrale. Per quanto riguarda le stanze, gli stretti vestiboli ricavati su entrambi i lati della corte avevano probabilmente funzioni di esedra, da dove si potevano ammirare i magnifici mosaici, attraverso le colonne corinzie. Gli stessi vestiboli davano accesso ai vani scavati nella roccia, il cui scavo dev’essere anco-


ra ultimato. Le decorazioni parietali dei vestiboli, soprattutto nel caso di quelli posti sul lato occidentale della corte, sono piuttosto ben conservate. Si tratta di pitture che imitano l’opus sectile, realizzate secondo motivi geometrici di varie fogge, che alludono alle tarsie marmoree. Il pavimento del vestibolo occidentale era decorato con un mosaico che rappresenta due figure femminili, all’interno di altrettanti emblemata quadrangolari divisi da motivi geometrici rettangolari che agli angoli presentano quattro immagini di asce bipenne. Le figure femminili sono rese con tratti idealizzati e indossano diademi sul capo; non hanno però attributi particolari, né sono accompagnate da didascalie che permettano di identificarle. Tuttavia, lo stile idealizzato delle

rappresentazioni, cosí come l’omogeneità fisica, suggerisce che siano personificazioni o, ancor piú probabilmente, rappresentazioni di donne ideali o di eroine della letteratura e della mitologia greche.

LE QUATTRO STAGIONI Una delle stanze piú eleganti della casa è un vano di forma quadrangolare riccamente decorato con mosaici pavimentali e stucchi. Nonostante siano molto consumati, gli stucchi mostrano ghirlande e nastri, che dovevano essere verosimilmente dipinti. Il pavimento di questa sala era rivestito da un elegante mosaico, che raffigura quattro giovani donne all’interno di altrettanti clipei, inquadrati da meandri a svastica resi con effetti prospettici assai elaborati, in stile ellenistico. Le quattro

ragazze richiamano le personificazioni delle stagioni, ma le lacune obbligano a considerare tale identificazione in chiave ipotetica. Esse presentano, in ogni caso, tratti molto simili a quelli delle figure che compaiono nell’esedra (la loggia): presentano il medesimo stile e la stessa postura, suggerendo che possa trattarsi ancora una volta di personificazioni di donne ideali o di eroine. L’enfasi che caratterizza queste figure ideali potrebbe essere spiegata con le funzioni di gineceo assegnate a questa stanza della casa. A differenza di altre case di Zeugma, il programma decorativo di questi mosaici sembra essere stato sviluppato in una unica fase di ristrutturazione dell’edificio. Lo stile, la tecnica e l’iconografia appaiono simili. È probabile che la Casa delle a r c h e o 53


SCAVI • ZEUGMA

Muse non sia stata colpita dall’incendio che distrusse molte altre dimore durante il saccheggio sasanide, circostanza che spiegherebbe lo scarso numero di reperti appartenuti ai suoi ultimi occupanti recuperati nel corso dello scavo. Le indagini, infatti, suggeriscono che la residenza possa essere stata svuotata immediatamente prima delle razzie sasanidi, intorno al 253 d.C., o che sia stata invece depredata dopo il saccheggio, quando i suoi proprietari l’avevano già abbandonata. Nonostante il trafugamento di gran parte delle suppellettili, i graffiti con testi e immagini scoperti sui muri delle stanze offrono dati importanti sulle funzioni dei vani, cosí come sull’identità delle persone che abitavano nella casa, sulle loro speranze e paure: in poche parole, sulle loro

A destra: due immagini dell’allestimento del Museo dei mosaici di Zeugma a Gaziantep. A sinistra: alcuni dei graffiti rinvenuti sulle pareti della Casa delle Muse: si riconoscono l’immagine stilizzata di un cavaliere sasanide e la scritta «SPQR».

emozioni. I graffiti sono scritti sia in greco che in latino e sembrano perciò riferibili a individui figli di una mescolanza di culture. Numeri romani, iscrizioni in greco e la sigla SPQR provano che il proprietario della casa doveva avere a che fare con le legioni romane o con l’apparato amministrativo di Roma a Zeugma. La rappresentazione di un grande fallo indirizzato verso un cavaliere sasanide su una delle pareti del cortile della casa può avere avuto un valore apotropaico ed esprimere il desiderio di attenuare il timore di un possibile saccheggio della città da parte appunto dei Sasanidi. Questo graffito venne con ogni probabilità tracciato poco prima del 253 e, in ogni caso, prova che, alla metà del III secolo d.C., l’eventualità di un saccheggio veniva considerata probabile. La prosecuzione degli scavi permetterà di riportare alla luce due sale da ricevimento della casa scavate nel banco roccioso, cosí da rivelare per intero la planimetria dell’edificio. Al contempo, verranno condotti interventi di restauro, conservazione e protezione, cosí da favorire la cono54 a r c h e o

scenza e l’interesse per il ricco patrimonio culturale della regione. Lo Zeugma Archaeological Project si avvale del generoso sostegno del Ministero della Cultura e del Turismo turco, della Municipalità Metropolitana di Gaziantep, del Governatorato di Gaziantep, dell’Università di Ankara, del Consiglio per la Ricerca Scientifica e Tecnologica della Turchia, della Società di Storia turca, della Camera di Commercio di Gaziantep, della Camera di Commercio di Nizip, della Turkiye Is Bank e della Verbunplan Birecik AS. DOVE E QUANDO Museo dei mosaici di Zeugma Mithatpasa Mahallesi Haci Sani Konukoglu Bulvari 27500, Sehitkamil, Gaziantep Orario estivo (15 apr-2 ott): tutti i giorni, 9,00-19,00; invernale (3 ott-14 apr): tutti i giorni, 9,00-17,00 Info http://www.muze.gov.tr/tr/ muzeler/zeugma-mozaik-muzesi (solo in lingua turca); Fb: Zeugma Mosaic Museum, Gaziantep



STORIA • VIA CASSIA

DISEGNI DI VIAGGIO ALLA MANIERA DEGLI ERUDITI E DEGLI ESPLORATORI CHE SI AVVENTURARONO IN ETRURIA NELL’OTTOCENTO, RIPERCORRIAMO UN TRATTO DELLA VIA CASSIA. PER SCOPRIRE UN PATRIMONIO RICCHISSIMO, CHE EVOCA I FASTI DELLA CIVILTÀ ETRUSCA, MA ANCHE L’INTENSA DEVOZIONE DEI PELLEGRINI MEDIEVALI di Francesca Ceci; tavole di Federico Funari

56 a r c h e o


A destra: cartina del Viterbese, attraversato dalla via Cassia. Sulle due pagine: Bolsena (Viterbo), l’altura di Poggio Moscini, con il lago sullo sfondo. Qui sono stati localizzati i resti dell’antica Volsinii.

«Nessun rumore turbava la scena. Solo il frinire delle cicale, che si sentiva distintamente, metteva in risalto il silenzio solenne dei luoghi. Nessun segno di vita umana si notava dintorno, ad eccezione di una colonna bianca di fumo che si innalzava dai boschi, lontano». (George Dennis, The Cities and Cemeteries of Etruria, Londra 1848)

C

osí, nella sua opera piú famosa (disponibile anche in lingua italiana nell’edizione curata da Domenico Mantovani per i tipi della Nuova Immagine di Siena), l’archeologo e diplomatico inglese George Dennis (1814-1898) descrive quello che doveva essere il tipico paesaggio viterbese poco piú di centocinquant’anni fa. Sino alla fine dell’Ottocento e anche nella prima metà del secolo successivo, i viaggiatori eredi della peregrinatio academica degli studenti

medievali e dei pellegrini diretti verso Roma, cosí come degli aristocratici che dal XVII secolo scendevano in Italia per l’immancabile Grand Tour, incontravano un Paese antico e ancora intatto, tra strade che ricalcavano quelle romane e ruderi immersi in una natura spesso selvaggia. Non era tempo di macchine digitali e la fotografia en plein air era di là dall’essere un mezzo pratico e di massa. E per i colti viaggiatori era invece fondamentale fissare ricordi, a r c h e o 57


STORIA • VIA CASSIA

to di un’efficiente maglia viaria tra le grandi città etrusche e i centri minori, fondata su una fitta rete di percorsi a carattere regionale, che consentiva il controllo e il raggiungimento di ogni distretto, dall’entroterra sino alla fascia costiera Le strade furono realizzate seguendo quanto piú possibile la conformazione del territorio e, quando necessario, si provvide a eseguire opere di grande impegno ingegneristico. La portata di questi lavori ben si coglie soprattutto nelle «vie cave» etrusche, consistenti in strade scavate entro alte pareti di tufo, attraverso le quali si rendevano agibiIn alto: il basolato della Cassia in località Poggiaccio, presso Montefiascone. La strada è qui particolarmente ben conservata. A destra: Viterbo, le Terme del Bacucco, che in età rinascimentale furono visitate, tra gli altri, da Michelangelo e Giuliano da Sangallo, che ne disegnarono la pianta e il prospetto.

immagini, impressioni, romantici panorami, resti archeologi, belle popolane, tutto ciò che rappresentava il completo e complesso senso del pittoresco italiano. Cosí, coloro che non padroneggiavano l’arte grafica si accompagnavano a pittori e disegnatori: si pensi al già citato Dennis e al suo amico Samuel James Ainsley, del quale restano i romantici scorci delle città e delle necropoli dell’Etruria meridionale (oggi perlopiú conservati al British Museum di Londra).

UNA STRADA E LA SUA STORIA L’edizione del volume Via Cassia II (Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2015), un itinerario storico e turistico da Monterosi alle falde di Montefiascone, offre l’occasione per ripercorrere parte della strada con i suoi ultimi ritrovamenti, a cavallo fra tracciato antico e trasformazione moderne. Il volume è illustrato con dovizia di foto, come una pratica guida di viaggio, mentre in queste pagine si è scelto di affiancare alla narrazione la sog58 a r c h e o

gettività di un artista, che rivisita e restituisce una realtà schizzata a matita, con la sensibilità personale che il disegno comporta. La via Cassia si snoda lungo la storia: al basolato romano allestito sui tratti etruschi si unisce l’itinerario religioso medievale, che dal Nord dell’Europa conduceva a Roma, poiché in questo settore del Viterbese confluivano le direttrici viarie dette generalmente «Romee», che potevano anche mutare a seconda dei periodi storici e delle condizioni di percorribilità. Tutte comunque portavano a Roma e vennero percorse dai pellegrini diretti al Soglio di Pietro. Contraddistinta da una costante e popolosa presenza umana, l’Etruria meridionale aveva un ramificato sistema di collegamenti incentrati su itinerari vallivi, fluviali e di transumanza, che iniziarono a definirsi in età preistorica e poi, in particolare, durante quella protostorica. Con l’età del Ferro la pianificazione territoriale seguita allo sviluppo urbano di Veio, Cerveteri, Tarquinia, Orvieto e Vulci comportò l’impian-


li i dislivelli tra i pianori degli abitati e le vallate sottostanti. Suggestivi esempi si ritrovano a Blera, San Giuliano, San Giovenale, Norchia e Civita Castellana, dove tra i toponimi locali significativamente troviamo «Cava Buia», «Grotta Oscura», «Canalone». A Sutri, alle spalle dell’anfiteatro romano, si aprono ancora due profondi canaloni che si dirigevano a Blera. Per l’attraversamento di fiumi e fossi si innalzarono ponti realizzati in pietra e tavolati. Nel tratto della Cassia preso in esame se ne conservano alcuni in discrete condizioni, come il ponte San Nicolao e l’im-

ponente ponte Camillario, entrambi presso Viterbo, mentre altri, documentati sino alla fine del XIX secolo, sono ormai perduti.

LA ROMANIZZAZIONE Tra la fine del IV e la seconda metà del III secolo a.C. tutte le cittàstato dell’Etruria meridionale, da Veio (396 a.C.) a Velzna/Orvieto (265/4 a.C.), caddero sotto l’incalzare dell’espansionismo romano. Tenendo conto dei precedenti, il sistema viario romano mirò a potenziare le strade di raccordo con il versante centro-settentr ionale dell’Italia, avendo cura di tagliare

fuori dalle arterie di maggior traffico le principali città etrusche, cosí da accelerarne la decadenza. Nel contempo, furono migliorati i collegamenti tra gli abitati minori dell’entroterra, la cui produzione agricola svolgeva un ruolo rilevante nell’economia regionale. Oltre a facilitare i collegamenti militari, la rete stradale doveva incrementare le rotte commerciali e le comunicazioni a lunga distanza, essenziali alla romanizzazione dell’Italia: si costruirono quindi tratti il piú possibile rettilinei e affiancati da infrastrutture di servizio. Grazie alle risorse a disposizione

a r c h e o 59


STORIA • VIA CASSIA

dell’esercito, furono perfezionati i fondi stradali, dapprima in battuto e poi in blocchi di basalto, materiale particolarmente adatto al transito di carri e cavalli.Vennero eliminate, dove possibile, pendenze e difficoltà di percorso, bonificati suoli acquitrinosi, creati nuovi ponti e viadotti, aperte tagliate. La manutenzione fu affidata a magistrature specifiche, alle quali era anche delegato l’apprestamento dei servizi pubblici come le mansiones

Nella piena età imperiale tale tendenza si invertí a causa della progressiva diffusione del latifondo, che fece naufragare la piccola proprietà terriera e provocò l’abbandono delle campagne. L’impoverimento delle forme di insediamento proseguí, tra il V e il VI secolo, a seguito della caduta dell’impero romano d’Occidente, delle guerre greco-gotiche e delle cosiddette invasioni barbariche. Nel complesso, comunque, l’entro-

È ancora discussa l’identificazione del personaggio della gens Cassia al quale ascrivere la costruzione della strada, cosí come l’esatta datazione del suo impianto, da collocarsi intorno alla seconda metà del II secolo a.C.; comunque, la maggior parte degli studi concorda nell’attribuirne la paternità a L. Cassio Longino Ravilla. La via fu concepita per collegare in maniera diretta Roma con gli abitati situati nell’Etruria interna, toccando Clusium (Chiusi)

– stazioni di posta con alberghi, impianti termali e a volte anche santuari – e le mutationes per il cambio dei cavalli. Pietre miliari, poste a intervalli regolari, indicavano le miglia percorse e fornivano indicazioni varie. Ciò comportò, nell’età repubblicana, lo sviluppo complessivo delle forme insediative limitrofe, quali abitati e ville rurali, terme, poste, aree santuariali e di mercato, contribuendo notevolmente al ripopolamento dell’Etruria.

terra regionale riuscí a mantenere, rispetto alla fascia costiera, una maggiore continuità abitativa, anche se in forma contratta e fortemente immiserita. Dal canto suo, la Chiesa di Roma si impegnò, in età tardo-antica e altomedievale, nell’organizzazione di una rete di diocesi, pievi e impianti religiosi a beneficio di coloro che risiedevano nelle campagne e nei centri urbani, occupandosi naturalmente anche di mantenere agibili le vie di collegamento.

e Arretium (Arezzo); venne poi prolungata verso Florentia (Firenze) e da qui si congiungeva alla via Aurelia presso Luni, in Liguria, permettendo cosí alle truppe il raggiungimento della zona cisalpina e dei territori oltre confine. Per ricostruire con precisione la viabilità romana, ci si avvale degli Itinerari, antichi scritti corredati da figure simboliche e che riportano i percorsi delle strade, con i nomi delle città e delle stazioni toccate e le relative

60 a r c h e o


distanze. Tra questi, rivestono un ruolo di primo piano la Tabula Peutingeriana, copia realizzata tra il XII e il XIII secolo di un itinerarium pictum (ovvero cartografico) di tutto l’impero romano redatto tra il II e il III secolo con rielaborazioni nel IV secolo d.C., e l’Itinerarium Antonini, una guida stradale in forma di elenco probabilmente eseguita sotto il regno di Caracalla (211-216 d.C.). La via Cassia compare anche nella piú tarda Cosmographia dell’Anonimo Ravennate del VII secolo, che cita le stazioni di Foro Casi (Forum Cassii) e Beturbon (Viterbo), e nella relazione del viaggio effettuato tra il 990 e il 994 dall’arcivescovo di Canterbury, Sigerico, che menziona Su- basolato e la stazione di posta con i tri e Furcari (Forum Cassii). suoi annessi), poi Sutrium (Sutri), Vicus Matrini (Vico Matrino). Da quest’ultimo, dopo 4 miglia, si IL PERCORSO giungeva a Forum Cassii (Santa MaE LE STAZIONI La via Cassia aveva il primo tratto ria in Forcassi, presso Vetralla); 11 in comune con la via Clodia, fino miglia dopo si trovava Aquae Passealla stazione di La Storta, poi se ne ris (presso Viterbo), e quindi, perdistaccava e proseguiva verso nord- corse altre 9 miglia, si toccava Volest. Gli itinerari antichi consentono sinii (Bolsena). Infine, dopo Clusium di ricostruire esattamente il suo (Chiusi) e Arretium (Arezzo), ragpercorso e le stazioni toccate: ad giungeva Florentia (Firenze). Sextum (forse La Storta), Veii (Veio), La presenza della via Cassia incentiad Vacanas (località nella valle del vò il popolamento delle campagne, Baccano con un lungo tratto di attraverso un insediamento di tipo

sparso, con abitati di medie dimensioni, centri rurali e termali, ville e fondi. In seguito, con il dissolversi delle istituzioni romane e le conseguenti condizioni di generale insicurezza, la strada perse parte della sua rilevanza. Con la presenza longobarda in Italia (569-774 d.C.), la Tuscia romana divenne una zona chiave per il facile e diretto accesso a Roma e alla sede pontificia e poi per la penetrazione verso il Mezzogiorno. La Cassia riacquistò cosí parte della sua importanza, costituendo,

In alto: arcate del Ponte Camillario, presso Viterbo. Nella pagina accanto: il torrente Biedano, presso Blera, sito che comprende alcune fra le piú vaste e spettacolari necropoli rupestri dell’Etruria interna. A destra: il Palazzo Papale di Viterbo visto da Valle Faul.

a r c h e o 61


STORIA • VIA CASSIA

all’altezza di Vetralla, anche la frontiera tra territorio longobardo e quello pertinente a Roma, peraltro sempre oscillante. Progressive conquiste portarono, nel 607, alla suddivisione della regione in Tuscia Langobardorum o Regalis – sottoposta al dominio longobardo e che comprendeva grosso modo l’odierna Toscana e le diocesi laziali di Tuscania, Ferento e Bagnoregio –, Tuscia Ducalis – sotto il ducato di Spoleto – e Tuscia Romanorum, con le diocesi di Blera, Bomarzo e Civitavecchia, apparte-

62 a r c h e o

nente al ducato bizantino di Roma nucleo dei possedimenti ecclesiastima la cui sovranità era di fatto ci nella Tuscia viterbese, che diverrà esercitata dal papato. poi il Patrimonio di San Pietro. Con la definitiva sconfitta longobarda a opera dei Franchi, nel 774, UN CONFRONTO la nuova situazione politica stabilizCRUENTO Nell’VIII secolo il confronto tra il zò definitivamente i possedimenti papato e i Longobardi portò a un della Chiesa di Roma. La via Cassia costante stato di belligeranza. Nel visse allora un momento di nuovo 728 il re Liutprando diede in dono, splendore, divenendo il principale o meglio restituí, a papa Gregorio II collegamento tra i centri a nord alcuni beni e territori sottratti ai delle Alpi e la città santa, percorsa possedimenti bizantini, tra cui il dai pellegrini provenienti dalla castello di Sutri: tale atto segna tra- Francia e dall’Europa settentrionale. dizionalmente la nascita del primo La rilevanza strategico-militare dell’itinerario continuò, e anzi auFerento. mentò sensibilmente, durante il reIl teatro romano, gno di Carlo Magno alla fine delcostruito l’VIII secolo, quando esso divenne in epoca la principale arteria di comunicaaugustea. zione tra l’impero franco e l’Italia. Il percorso che dall’Europa settentrionale dirigeva verso Roma, denominato dalle fonti sino al tratto toscano strada Francigena o Francesca, ovvero strada «dei Franchi», si snodava lungo oltre 1600 km da Canterbury a Roma.


Sebbene la cartellonistica che indica ai moderni pellegrini il percorso verso Roma utilizzi costantemente il nome di «Via Francigena» – con il simbolo del viandante medievale –, si deve rilevare che usare tale denominazione nel tratto laziale della Tuscia è fuorviante, poiché in questo settore non se ne conoscono attestazioni. Esistono invece, come già ricordato, le vie romee, percorse dai pellegrini diretti a Roma, che sfruttava-

Vico Matrino. I mausolei romani detti «Le Torri d’Orlando», situati ai due lati della Cassia e forse realizzati per accogliere le spoglie degli antichi proprietari di queste terre.

dono di alcuni, fino ad allora importanti, centri romani toccati dalla Cassia, quali Volsinii, Sorrina Nova, Aquae Passeris, ai quali si sostituirono nuovi borghi, di regola sorti intorno a chiese martiriali. Vanno ricordati a questo proposito il borgo di San Valentino, 2 km circa a ovest di Viterbo, nato intorno al 788, e quello di San Flaviano, presso Montefiascone, menzionato alla metà del IX secolo. Entrambi vennero poi distrutti dai Viterbesi, rispettivamente nel 1137 e nel 1187, scomparendo presto anche dalle fonti letterarie relative alla Cassia. Infatti, nel corso del XII secolo il percorso della strada subisce un’importante variazione nei pressi di Viterbo: i due borghi sopra ricorda-

no cammini noti, scelti secondo la loro praticabilità e che potevano variare in base alle stagioni dell’anno e del momento storico. Le fonti stor iche sulla Tuscia dall’Alto Medioevo sino al XV secolo denominano infatti la via per Roma come strata, strata romana o strata Beati Petri, coincidente complessivamente con la via Cassia romana, ma il cui nome consolare della strada non viene menzionato. Nel tratto laziale essa toccava Acquapendente, Bolsena, Montefiascone, Viterbo e poi Sutri, servendosi delle antiche stazioni che avevano mantenuto continuità di vita, come Forum Cassii. Allo stesso tempo, però, sempre durante l’VIII secolo, si assistette alla decadenza e al progressivo abban-

ti scomparvero e la strada toccò direttamente Viterbo e il castrum di Montefiascone. Il primo Giubileo bandito nel 1300 da Bonifacio VIII rivitalizzò ulteriormente la via; anche le crociate e il passaggio di eserciti, quando pacifici, contribuirono ad arricchire i luoghi abitati presenti lungo la strada per Roma. Intorno al XVI secolo la Cassia subí un drastico ridimensionamento per la decisione della famiglia Farnese di affermare la contea di Ronciglione, comportando lo spostamento dei percorsi lungo la via Cimina e causando un impoverimento e decadimento del territorio e in particolare di Sutri. Nel 1533, per risollevare le sorti dell’antico borgo etrusco, Clemente VII concesse che i corrieri tornassero a ripercorrere a r c h e o 63


STORIA • VIA CASSIA

questo tratto della via Cassia, a patto che la comunità sutrina lo ripristinasse e lo mantenesse in buono stato, segno evidente di una condizione di abbandono e pericolo per i viaggiatori, aumentata anche dalla presenza di briganti.

RETTIFICHE E AMPLIAMENTI Con l’Unità d’Italia, la strada rientrò nella politica territoriale del regno, conservando sostanzialmente inalterati il percorso e l’ambiente naturale circostante sino alla metà del XX secolo. Dal dopoguerra in poi territorio e assetto viario hanno subito significativi mutamenti dovuti alla progressiva urbanizzazione della regione e alla costruzione di nuovi tronchi stradali, quali la strada statale n. 2 Cassia, che ha rettificato 64 a r c h e o

In alto: Sutri. La necropoli urbana dell’antica Sutrium, uno degli esempi piú consistenti di tombe rupestri di età romana nel territorio etrusco-falisco. In basso: Sutri. L’anfiteatro romano, interamente scavato in un banco tufaceo e databile tra la fine del I sec. a.C. e i primi anni del I sec. d.C.


UN FASCINO SENZA TEMPO Venerdí 26 e sabato 27 maggio, è in programma, tra Capranica (chiesa di S. Francesco) e Vetralla (Istituto Comprensivo Statale, piazza Marconi), in provincia di Viterbo, il convegno internazionale «Fascinazione etrusca», dedicato ai viaggiatori, studiosi e amanti d’Etruria, non solo di quella rupestre viterbese, ma della regione in generale. Se si escludono città come Firenze, Perugia e Orvieto, di solito l’Etruria non rientrava nei Grand Tour settee ottocenteschi in Italia, né figurava tra le mete preferite di artisti e pittori. Nell’Ottocento, però, alcuni personaggi – soprattutto inglesi – avviano la riscoperta dell’Etruria antica, della quale si seppe finalmente cogliere il fascino. Il tema proposto dall’incontro è di carattere trasversale e le relazioni saranno perlopiú dedicate a figure attive tra il Seicento e l’Ottocento, con un «preludio» medievalerinascimentale (pellegrini) e un

e accorciato il percorso tradizionale. Negli anni Settanta del secolo scorso è stato realizzato un nuovo tronco stradale a quattro corsie, la strada regionale n. 2bis Cassia Veientana, che dal Grande Raccordo Anulare corre sino a Formello, dove si ricongiunge alla Cassia. Attualmente la via Cassia moderna ha cambiato denominazione, da strada statale a strada regionale Cassia, anche se la segnaletica stradale mantiene pressoché ovunque la vecchia definizione. Si deve infine ricordare che, ormai da alcuni decenni, è stato prospettato il raddoppio della via Cassia a partire da Monterosi – dove da quattro corsie torna a due –, sino a Civitavecchia. A oggi, il progetto deve ancora entrare nella fase operativa (secondo le piú recenti indi-

cazioni ricavabili dal Piano Mobilità della Regione Lazio, i lavori dovrebbero iniziare nel 2018 e concludersi nel 2023), ma possiamo immaginare che, se l’intervento sarà realizzato, si assisterà a un’ulte-

«finale» nel Novecento, con David Herbert Lawrence e un inedito Sigmund Freud. In occasione del convegno saranno anche esposti alcuni disegni di Federico Funari ispirati al tema dell’incontro e saranno presenti editori locali con pubblicazioni incentrate sul territorio, nonché un angolo dedicato alle riviste «Archeo» e «Medioevo». Le due giornate di studio sono state organizzate da Stephan Steingräber (Università Roma Tre), Francesca Ceci (Musei Capitolini e Archeo), Luciano Dottarelli (Club UNESCO Viterbo Tuscia), Mary Jane Cryan (pubblicista) con il patrocinio della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale, l’Università Roma 3, i Comuni di Capranica e Vetralla, le riviste «Archeo» e «Medioevo» e il contributo della Banca di Credito Cooperativo Roma-Capranica.

riore distruzione di un contesto ambientale già penalizzato dall’urbanizzazione, cancellando, forse per sempre, il fascino delicato e romantico che le dolci curve dell’antica via Cassia ancora conservano. a r c h e o 65


MOSTRE • BASILEA A sinistra: stele funeraria in pietra calcarea a forma di testa maschile barbata, forse proveniente da un monumento funerario, da Hayd ibn Aqil. II-I sec. a.C. Londra, The British Museum. Nella pagina accanto: Re Salomone e la Regina di Saba, dipinto su tavola di Konrad Witz. 1435. Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie.

66 a r c h e o


ARABIA FELICE?

PROFUMI INEBRIANTI, ORO, ARGENTO E PIETRE PREZIOSE COME SEGNI DI IMMENSA RICCHEZZA, INFINITE CAROVANE CARICHE DI BENI ESOTICI, LA LEGGENDARIA REGINA DI SABA; SONO SOLO ALCUNE DELLE IMMAGINI SIMBOLO, DA SEMPRE ASSOCIATE ALLE TERRE DELL’ARABIA MERIDIONALE. UNA MOSTRA AL MUSEO DI ANTICHITÀ DI BASILEA INDAGA LA STORIA E LA CIVILTÀ DELL’ANTICO YEMEN di Laurent Gorgerat

C

hi non conosce la storia della leggendaria regina di Saba? L’Antico Testamento (1 Re 10,1-13 e 2 Cronache 9,1-12) narra come essa giunse a Gerusalemme dalla lontana Arabia, insieme a una carovana di cammelli carica di doni destinati a re Salomone. In seguito, l’episodio biblico verrà riproposto dal Corano (Sura 27 «le formiche» 20-38). Ma, se la narrazione biblica pone l’enfasi sugli onori tributati al re da parte di una sovrana straniera, il Corano sottolinea l’aspetto della conversione della regina di Saba al credo monoteistico. Comune a entrambe le narrazioni è l’associazione della regina – e, soprattutto, della sua terra d’origine, l’antica Sudarabia – con l’idea di un’immensa ricchezza. E, per quanto i piú tardi autori classici – greci e latini – non menzionino mai la regina stessa, i loro resoconti si a r c h e o 67


MOSTRE • BASILEA

«Ecco perché questa parte dell’Arabia, che primeggia per fertilità, ricevette il nome appropriato e fu chiamata “felice”» (Diodoro Siculo, Biblioteca 5,41,3; I sec. a.C.)

soffermano sempre sulla grande ricchezza di quella terra. Lontana, posta all’estremità meridionale del mondo allora conosciuto, l’Arabia meridionale viene descritta come una regione mitica, in cui si trovano le isole felici, abitata da creature fiabesche. A partire dal V secolo a.C., la ter68 a r c h e o

ra sudarabica venne descritta come patria d’origine di varie sostanze aromatiche – tra cui l’incenso e la mirra – tanto ambite dal mondo occidentale da rappresentare, per i produttori e i commercianti sudarabici, una fonte di notevole ricchezza. Fu cosí che Greci e Romani cominciarono a par-

lare di quella terra mitica come dell’Arabia «felice» (eudaimon in greco, felix in latino), un aggettivo che, oltre al significato di «prosperità» e «fertilità», racchiude anche quello di una «felicità» psicologica ed esistenziale. La leggendaria ricchezza degli antichi regni sudarabici attraversa,


Sulle due pagine: Sana’a, Yemen. Una suggestiva veduta dei tetti della capitale al tramonto. A destra: tavoletta in lega di rame con iscrizione sabea a bassorilievo che riporta una battaglia tra Sabei e Arabi. II-I sec. a.C. Londra, The British Museum.

come un filo conduttore, tutti i resoconti degli autori antichi, a partire dal racconto biblico. Essa si fondava, in realtà, su due aspetti concreti: prima di tutto, sull’invenzione di un ingegnoso sistema di irrigazione, che aveva permesso di rendere abitabile una terra assai arida e poco accogliente. Sin dal Neolitico, infatti, le colline dell’altipiano centrale furono terrazzate e, cosí, rese adatte all’agricoltura. Nelle vallate piú a occidente, le masse d’acqua dovua r c h e o 69


MOSTRE • BASILEA

te alle due precipitazioni annue vennero raccolte e indirizzate, grazie a un sofisticato sistema di dighe, verso i campi coltivati. Il piú imponente esempio di questo tipo di costruzioni è la celebre diga di Ma’rib, capitale del regno dei Sabei, in grado di approvvigionare due vaste oasi e renderle coltivabili. Vi è poi un secondo motivo che spiega perché le città capitali dei

regni sudarabici fossero collocate nell’area di confine tra le vallate e il deserto: qui, infatti, passavano le rotte carovaniere che, aggirando il deserto di Ramlat as-Sab’atayn, collegavano la costa meridionale della Penisola Arabica con le città portuali del Levante e le metropoli della Mesopotamia. Tra queste rotte commerciali, la piú nota è la cosiddetta «via dell’incenso», che percorreva il territorio centrale

In basso: portaincenso in granito rosa, con iscrizione yemenita sui quattro lati. Cultura sabea, II-I sec. a.C. Londra, The British Museum. Nella pagina accanto, in alto: veduta panoramica di un rigoglioso paesaggio terrazzato negli altopiani dello Yemen. Nella pagina accanto, in basso: due immagini dell’area di Ma’rib. In alto, una veduta della città in lontananza; in basso, l’area dell’antica diga con, in primo piano, le rovine di una struttura.

«Verso mezzogiorno l’ultima delle terre abitate è l’Arabia, la quale, sola tra tutte le terre, produce incenso, mirra, cassia, cinnamomo e il ladano» (Erodoto, Storie 3,107; 450 a.C. circa)

70 a r c h e o


LA GUERRA NELLO YEMEN. IL PATRIMONIO IN PERICOLO Messa in ombra dalla preminenza mediatica suscitata dagli orrori bellici in Siria e nell’Iraq, la guerra civile nello Yemen suscita, nondimeno, altrettanta preoccupazione. A partire dalla sua internazionalizzazione con l’entrata nel conflitto dell’Arabia Saudita nel 2015 (vedi anche «Archeo» n. 367, settembre 2015) si sono moltiplicate le notizie circa i danni ai beni culturali, tra cui il bombardamento (e la sua conseguente, totale distruzione) del Museo di Dhamar, costruito nel 2015. Altri bombardamenti hanno riguardato la città vecchia di Sana’a (riconosciuta Patrimonio dell’Umanità dal 1986), l’antica diga di Ma’rib e la cittadella di Taizz. Insieme agli attacchi alla popolazione civile, anche la mirata distruzione dell’identità culturale yemenita si rivela come parte di questa guerra di aggressione. Entrambi gli aspetti dovranno essere bollati come crimini di guerra!

a r c h e o 71


Siria

MOSTRE • BASILEA

Israele

Iraq

Iran

matiche, poteva essere affrontato (nello uadi Markha), quello di Qasoltanto con l’aiuto dei dromedari taban (nello uadi Bayhan) e quello Kuwait Nella (camelus dromedarius). di Saba (nello uadi Dhana). valle di Jawf, situata a nord di Saba, sorsero le città-stato di Ma’in, REGNI CAROVANIERI Arabia Saudita Nashshan, Haram e Kaminahu. E TRIBÚ DI MONTAGNA Bahrain Golfo Per quanto Nel corso del I millennio a.C. si Yathrib/ al-Madîna possa apparire Gerrha a tratti puòPersico formarono, presso i principali uadi complicata, la storia sudarabicaQatar periodi: i (il termine arabo wadi, plurale essere suddivisa P e n i in s ograndi la o widyan, indica il lettoE gdii t tun antico secoli tra l’VIII a.C. e il I d.C. era- E A U La Mecca A r a b i dal c a dominio dei no caratterizzati corso d’acqua, tipico delle regioni desertiche dell’Africa e del Vicino regni carovanieri; in seguito, fino al Mar VI secolo d.C., il dominio passò Oriente, che si riempie di acque Rossonelle mani delle tribú montane piovane solo in determinati periodi O u d a ndi regni dell’anno, n.d.r.) unaS serie autonomi che caratterizzavano l’anSa’da tica storia dell’Arabia meridionale; t Baraqish Ye m e n w ma Ma’in itrea procedendo da est a ovest essiE rfuroHadra Sirwah no: il regno di Hadramawt (nell’oSan’a monimo uadi), quello di Awsan Dhamar

degli antichi regni sudarabici. Attraverso la via dell’incenso, le profumate resine provenienti dalle coltivazioni nel meridione della Penisola Arabica giungevano sulla costa del Mediterraneo. Alcuni indizi suggeriscono che il commercio di queste resine odorose – richiestissime nelVicino Oriente, in Egitto e, soprattutto, in tutto il mondo greco-romano – fiorisse già nell’VIII secolo a.C. L’incenso veniva impiegato soprattutto nell’ambito di cerimonie cultuali, ma era anche usato come elemento base per la realizzazione di profumi e per le sue proprietà curative. Il trasporto di queste sostanze, reso difficile dalle lunghe distanze, dalla topografia del terreno e dalle condizioni cli-

Mouza

In basso: cartina della regione meridionale della Penisola Arabica. Nella pagina accanto: statua in alabastro di personaggio femminile in piedi. I bulbi oculari sono in madreperla, con pupille in ossidiana, da Ma’rib. I a.C.-I d.C. Londra, The British Museum.

Okèlis Aden

Gibuti

Zingibar

Golfo di Aden

Mare Arabico

Somalia

Etiopia

hu n a Jawf iKaminahu

am in ar a’ H M Haram

hw an

m K a Nashshan Qarnawu a nYathill h s Kutal sh Ararat Na Ra g

Amran

Sirwah Sana’a

a

an

Dh

Shibam

ra Had

ba

a SMa ‘rib

R

t a s - Sa b aml a

’at

Hafaray

Zafar Zabid

d

hu

Ra

yd

Hajar am-Nah

Hajar am-Lajiya

Dhamar

Mar Rosso

an

A

n

t Raybun

Irma

rkh

a

al-Bina Jir

da

n

al-Barira

Ma

Qa

ta

yh

Him

yar

Ba

Hudayda

an

)(

Timna Mablaqa Hariba n Hajar b a ibn Humayd

Shabwa

ay

maw

Hajar Yahirr

n wsa

Mayfa’a

al-Bayda

Qani

N

Taizz

Oceano Indiano Saba

72 a r c h e o

b

a l - Ja w f

0

SO

SE

E

S

50 Km

Antico regno

Località attuale

Regione moderna

Antico valico

Antico toponimo

)(

Aden al-Munda

NE

O

Mawza

Bab

NO

Via dell'Incenso


degli altipiani dell’odierno Yemen. Sin dall’VIII secolo a.C., il regno di Saba, con la sua capitale Ma’rib, assunse un ruolo preminente. Una volta sottomesse le tribú rivali, la storia dell’Arabia meridionale viene a identificarsi con quella del regno di Saba. Con l’avvento del I secolo d.C., però, le condizioni politico-economiche mutarono a sfavore dei regni carovanieri. Un primo fattore di cambiamento era costituito dalla navigazione del Mar Rosso, resa possibile dallo sfruttamento dei monsoni: la nuova rotta marittima che dalla costa meridionale dell’Arabia giungeva, attraverso lo stretto di mare del Bab el-Mandeb, nel Mar Rosso, rappresentava una valida alternativa alle antiche vie carovaniere. Un secondo fattore fu l’avvento sulla scena geopolitica della potenza di Roma.

L’ASSEDIO FALLITO Verso il 31 a.C., dopo aver incorporato l’Egitto all’impero, Augusto fu attratto dalle leggendarie ricchezze dell’Arabia e, nel 26/25 a.C., ordinò al suo prefetto Elio Gallo di compiere una spedizione contro i Sabei. Le legioni riuscirono a raggiungere la capitale sabea Ma’rib, ma, dopo appena sei giorni, decimati dalle malattie ed esaurite le scorte d’acqua, cessarono l’assedio e ripiegarono verso casa. A partire dal I secolo a.C., l’importanza dei regni carovanieri si indebolí mentre crebbe l’influenza di singole tribú montane, tra cui quella dei Bakil, dei Sam’i e dei Dhamari, nell’area di Sana’a. Soprattutto nel Sud-Ovest del Paese aumentò il potere delle tribú riunite sotto il nome di Dhu-Raydan o Himyar. Partendo dalla loro sede d’origine, la città di Zafar nell’altopiano yemenita, conquistarono dapprima l’indipendenza dal regno di Qataban, che poi annessero a sé, nel corso del II secolo d.C. Poiché l’importanza delle antiche rotte

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

a r c h e o 73


MOSTRE • BASILEA

carovaniere era diminuita e gran parte del commercio aveva ormai preso la via del mare, le tribú montane indirizzarono la loro espansione in direzione della costa, cosí da controllare il commercio marittimo sul Mar Rosso. Fu cosí che, nel III secolo d.C., una coalizione di tribú himyarite prese possesso della città portuale di Aden. Sino alla fine del III secolo d.C., i regni di Saba e di Himyar si contesero il predominio dell’Arabia meridionale, ma l’introduzione di un nuovo computo cronologico himyarita testimonia che, già intorno al 115 a.C., quel regno aveva avuto la meglio. Il conflitto tra i due terminò definitivamente intorno al 275 d.C., quando il principe himyarita Shammar Yuhar’ish conquistò il regno di Saba. Poco tempo dopo gli Himyariti riuscirono ad annettere il regno di Hadramawt e a ricacciare gli Abessini i quali, arrivati dall’Etiopia, avevano invaso la regione costiera di Tihama. Per la prima volta nella sua storia, tutta l’Arabia meridionale era unita sotto un’unica corona. Un dato testimoniato anche dalla nuova titolatura regale, che da quel momento recitava: «Re di Saba, Dhu-Raydan, Hadramawt e Yamanat».

L’ANTICA SOCIETÀ SUDARABICA Inizialmente, l’articolazione stessa del territorio favorí la formazione di unioni tribali distribuite in uno spazio relativamente circoscritto. A destra: portaincenso in pietra calcarea, con scena a bassorilievo e iscrizione dedicatoria per un tempio. III sec. d.C. Londra, The British Museum. Nella pagina accanto: due immagini degli allestimenti della mostra «Arabia Felice? Mito e realtà nel regno della Regina di Saba», attualmente in corso a Basilea, presso l’Antikenmuseum Basel e Collezione Ludwig. 74 a r c h e o

6 DENARI PER L’INCENSO MIGLIORE «L’incenso dopo la raccolta viene trasportato sui cammelli a Sabota, dove c’è una sola porta che si può attraversare per questo trasporto (…) La loro capitale, Tamna, dista da Gaza, città della Giudea posta sulle rive del Mediterraneo, 2437 miglia e mezzo, una distanza che si percorre in 65 tappe di cammello. Anche i sacerdoti e gli scribi del re ricevono delle parti fisse. Ma, oltre a questi, anche le guardie e i loro aiutanti, i portieri e i servi si

danno al saccheggio. Per tutto il viaggio si paga dove per l’acqua, dove per il pascolo o per le soste e pedaggi vari: si raggiunge cosí la spesa di 688 denari a cammello per il viaggio fino alla costa del Mediterraneo, e poi lí si paga ancora ai pubblicani del nostro impero. In questo modo una libbra di incenso della qualità migliore costa 6 denari, una di seconda qualità 5, di terza 3» (Plinio, Storia naturale, Einaudi 1985, XII, 63-65).


LO YEMEN NELL’ANTIKENMUSEUM DI BASILEA La mostra di Basilea riunisce 90 reperti provenienti dai grandi musei europei (Londra, Parigi, Vienna, Oxford e Roma), che illuminano la cultura materiale dell’antico Yemen, partendo dal mito della Regina di Saba e dalla sua ricezione nell’arte d’età medievale e moderna. Gli oggetti esposti dimostrano come l’antica arte sudarabica risulti poco permeabile a influenze esterne, nonostante l’esistenza, sin da epoche molto antiche, di rapporti commerciali con l’area mediterranea e il Vicino Oriente: di questo aspetto sono testimonianza eloquente le imponenti statue scolpite in alabastro, la cui funzione

era quella di doni votivi, collocate nei santuari o anche di semplici statuette funerarie. La mostra di Basilea intende, da una parte, approfondire il mito dell’«Arabia felice» e, dall’altra, trasmettere un quadro dell’antica cultura sudarabica sulla base delle testimonianze materiali e delle fonti letterarie. Inoltre, l’iniziativa vuole richiamare l’attenzione del pubblico sul pericolo che minaccia il patrimonio culturale dello Yemen, compromesso e minacciato da un conflitto decennale che si è inasprito, internazionalizzandosi, a partire dal 2015.

DOVE E QUANDO «Arabia Felice? Mito e realtà nel regno della Regina di Saba» fino al 2 luglio Basilea, Antikenmuseum Basel e Collezione Ludwig Orario tutti i giorni, 11,00-17,00 (giovedí e venerdí, apertura serale fino alle 22,00); chiuso il lunedí Info www.antikenmuseumbasel.ch a r c h e o 75


MOSTRE • BASILEA

mergere della figura di un vero e proprio sovrano, inizialmente chiamato «mukarrib», un termine che possiamo tradurre con «unificatore». Compito del mukarrib era quello di accogliere le istanze delle diverse tribú e di rappresentare la loro unione verso l’ester no. Quest’ordinamento, in apparenza mobile e poco coercitivo, costituiva in verità una struttura sociale fortemente gerarchizzata e, soprattutto, longeva: ancora nello Yemen di oggi esistono tribú che portano lo stesso nome risalente all’età degli antichi regni sudarabici.

Protome taurina in oro con inserti in pietre dure. L’ornamento è realizzato con numerosi strati di foglia d’oro battuti e piegati, con orecchie e muso definiti da piccole sfere, da Bayhan. Londra, The British Museum.

L’irrigazione dei campi e il controllo delle rotte carovaniere, inoltre, presupponeva l’esistenza di un certo livello di organizzazione. Sappiamo che quella antica sudarabica era una società essenzialmente stanziale, risiedente in centri urbani o in villaggi e piccoli insediamenti nei dintorni di essi. A fondamento dell’ordinamento sociale vi erano clan o parentadi a loro volta composti da piú famiglie. L’unione di piú parentadi formava la tribú di cui potevano far 76 a r c h e o

parte decine di migliaia di persone. I clan piú ricchi e potenti nominavano il capo – lo sceicco – il cui titolo veniva trasmesso ereditariamente all’interno della sua famiglia di appartenenza. Lo sceicco non governava, però, in modo autocratico, ma ricorrendo a un’assemblea tribale. Solo con il progredire della storia sudarabica si assiste alla fusione di piú tribú in veri e propri regni – come accade, per esempio, nell’VIII secolo a.C., a Saba – e all’e-

UNA COMUNE DIVINITÀ CENTRALE I cambiamenti politici ed economici che caratterizzarono la storia sudarabica a partire dal I secolo d.C. furono accompagnati anche da mutamenti sociali che esercitarono in maniera determinante la loro influenza sui secoli dell’era cristiana. Sin dalle origini della loro storia, i singoli gruppi tribali sudarabici si riconoscevano nel culto di una determinata divinità: il legame sociale che univa le singole tribú e definiva la loro appartenenza alla piú ampia unione tribale era suggellato dalla venerazione di una comune divinità centrale. Nel regno di Saba, per esempio, era il dio Almaqah. A partire dalla fine del I secolo a.C., questo legame unitario – definito attraverso il culto religioso – si trasformò in un legame di stampo eminentemente politico, caratterizzato ormai dal ruolo svolto da veri e propr i sovrani. Il ter mine «DhuRaydan», per esempio, descrive letteralmente «colui che è di Raydan», ovvero il regnante che abita nel palazzo (Raydan) della capitale himyarita Zafar. Al posto della divinità (e del suo culto), come elemento unificante della società sudarabica, era subentrato quello di un determinato sovrano e del suo clan di appartenenza.



STORIA • LA METALLURGIA

ISTRUZIONI PER L’USO GIOIELLI, MONETE, ATTREZZI, PENTOLE, ARMI... L’ELENCO DEI MANUFATTI CHE SI POTEVANO RICAVARE DAI METALLI È INFINITO E LA SCELTA DELLE DIVERSE TRASFORMAZIONI VENNE DETTATA DALLE CARATTERISTICHE DI OGNI SINGOLA MATERIA PRIMA di Flavio Russo

I

l viaggio che abbiamo fin qui condotto alla scoperta dei «magnifici sette» – oro, argento, rame, stagno, piombo, mercurio e ferro – si conclude ripercorrendo quelli che, fino alle soglie del Medioevo, furono i loro utilizzi principali. L’oro, che tanto ricordava il sole, trovò nell’oreficeria la sua destinazione elettiva. In Egitto, già dal III millennio a.C., la sua lavorazione raggiunse vette di raffinatezza eccezionali, grazie all’ampia disponibilità dei limitrofi giacimenti auriferi. Assurto ad attributo divino, finí per circondare il faraone, tanto piú che, grazie alla sua estrema malleabilità, permetteva di rivestire con esili lamine manufatti lignei e interi ambienti residenziali, nonché le cuspidi di obelischi e piramidi. La rarità del metallo, a fronte di una crescente e universale richiesta, fece ben presto dell’oro una sorta di controvalore negli scambi, semplificando l’arcaico baratto. Comparve cosí la prima monetazione aurea, avvenuta verosimilmente in Lidia fra il 643 e il 630 a.C., ottenuta con piccoli frammenti garantiti per peso

78 a r c h e o

zandone il peso, pari a circa 8 grammi, una misura che si ridusse progressivamente, fino a quando, nel IV secolo, cessò la produzione del pezzo.

Dritto di un multiplo in oro avente un valore pari a quello di quattro aurei, da Pompei. 2 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

e titolo da una particolare immagine che su si essi veniva impressa. A Roma, dopo emissioni episodiche durante le guerre puniche, la monetazione aurea si ebbe con Giulio Cesare, forse dal 49 a.C. Il dittatore coniò l’aureo standardiz-

ESORDIO IN ORIENTE L’esordio dell’argento seguí di poco quello dell’oro, tanto che in tombe sumere degli inizi del III millennio a.C. se ne sono rinvenuti alcuni pregiati vasi. Il prezioso metallo, perlopiú mischiato al piombo nella galena, richiedeva per l’estrazione un ingegnoso processo fusorio, la coppellazione, indispensabile per entrambi i suoi due impieghi fondamentali: l’oggettistica tesaurizzabile e la monetazione. Quest’ultima, sostanzialmente coeva a quella aurea, ma di gran lunga piú rilevante, ha goduto ampia adozione in tutti gli Stati, fino ai nostri giorni. Apice qualitativo e quantitativo, con il 99% di purezza, fu la tetradracma ateniese, coniata nel V secolo a.C., grazie alla rilevante produzione delle miniere del Laurio. Presso i Romani, a partire dal 270 a.C., con l’argento di discreta pu-


Maschera funeraria rivestita di lamine d’oro del faraone Amenemope. XXI dinastia, 991-984 a.C. Il Cairo, Museo Egizio. a r c h e o 79


STORIA • LA METALLURGIA

rezza estratto nelle miniere sarde e spagnole venne coniato il denarius, che presto assurse a moneta universale, perdendo tuttavia con il trascorrere del tempo molto del titolo originario, fino a dimezzarsi sotto Settimio Severo. I primi impieghi sistematici del rame sembrano risalire al III millennio a.C., come proverebbe un tubo per il trasporto dell’acqua rinvenuto ad Abusir, in Egitto, e risalente al 2750 a.C. La sua eccessiva tenerezza ne frenò l’utilizzo per la produzione In basso: moneta in argento coniata dopo la sottomissione del regno nabateo (106 d.C.). 112-117 d.C. Al dritto, l’imperatore Traiano; al rovescio, un cammello battriano, animale scelto come simbolo dei territori orientali annessi da Roma.

80 a r c h e o

di armi da taglio e la presenza di un’ascia in rame tra gli oggetti che facevano parte dello strumentario dell’uomo del Similaun (3200 a.C.) non contraddice l’assunto, poiché, in quel caso, si tratta piuttosto di un utensile funzionante per percussione. Sebbene dopo una prolungata martellatura a freddo il rame indurisca, non per questo il filo di eventuali lame di rame si mantiene, consentendone perciò l’impiego soltanto come armi da punta. Non mancò fra gli utilizzi del metallo rosso una sporadica monetazione, presto sostituita dal conio in bronzo.

IDEALE IN CUCINA Abbastanza malleabile e duttile, esso venne lavorato per martellatura – e continua a esserlo in produzioni ornamentali –, ricavandone brocche, paioli, caldaie, nonché rivestimento di contenitori lignei. Del resto, la cottura dei cibi in stoviglie di rame risulta la migliore, poiché in esse il calore si distribuisce in maniera omogenea all’interno e non soltanto sul fondo. Ma l’utilizzo prioritario e piú consistente del rame, sin quasi dalla sua comparsa, fu la formazione, in lega con lo stagno, del bronzo. I vantaggi di tale lega rispetto al rame puro andavano dalla minore temperatura di fusione alla superiore resistenza meccanica, dalla passivazione alla colabilità in matrici chiuse per la sua fluidità. Una peculiarità, quest’ultima, che venne presto utilizzata in ambito artistico per il getto di statue e, in campo artigianale, per la produzione di rostri navali e di ottime panoplie, poi soppiantate da quelle in ferro, inferiori per costo, ma anche per prestazioni. Nella storia, evento unico, si ebbero due età del Bronzo quale metallo strategico: la prima, nell’antichità, protrattasi per alcuni millenni, e la seconda, a partire dal Rinascimento, per la produzione di boc-

che da fuoco, che abbracciò un orizzonte di circa mezzo millennio.

QUEI FOGLI LUCCICANTI... Per i lettori piú anziani, lo stagno era la sottile lamina che avvolgeva gli alimenti piú deperibili: l’onnipresente stagnola, ormai sostituita dalla similare di alluminio. Per i Romani, invece, lo stannum fu il legante del rame, ideale per le saldature (che peraltro ancora oggi caratterizzano i circuiti elettronici). Raramente presente in natura con il rame, lo stagno attivò un circuito commerciale nel quale primeggiarono i Fenici, che lo trassero dalla Gran Bretagna. Per la forte somi-


tazione, come avvenne in area assira agli inizi del I millennio a.C. Ma fu presso i Romani, dall’età repubblicana in poi, che la richiesta di piombo fece registrare un’autentica impennata, facendone il metallo dell’impero. Con lastre di piombo s’impermeabilizzavano le coperture e si proteggevano le carene dalle teredini xilofaghe e delle alghe; con piccole colate si cementavano le A sinistra: panoplia greco-italica, composta da vari manufatti in bronzo: elmo calcidico (V-IV sec. a.C.); corazza decorata, sulla fronte e sul retro, da tre dischi (IV sec. a.C.) e di cui si conserva anche uno degli elementi laterali; schinieri (V sec. a.C.). Già Collezione Axel Guttmann. In basso: un lattoniere modella un foglio di stagno sull’incudine, da Book of English Trades, and Library of the Useful Arts. Londra, 1818.

glianza con il piombo, i Romani lo distinsero solo per la colorazione piú chiara, incrementandone anch’essi l’importazione da oltre Manica. L’utilità metallurgica dello stagno si esaurí sostanzialmente nella produzione del bronzo e in epoca piú recente nella sporadica stagnatura dei recipienti di rame per impedirne l’ossidazione, rivestendoli di un sottile strato interno, come si scorge in alcuni reperti pompeiani. Per ottenerla, si scaldavano le stoviglie alla temperatura di fusione dello stagno, che, strofinatovi al loro interno, vi formava una pellicola argentea. L’aspetto con cui si presenta il piombo, dopo l’effimera lucentezza

assunta al momento della fusione, è quello di un metallo grigio, pesante e tenero. I suoi impieghi furono inizialmente marginali, limitandosi alla produzione di proiettili per fionda, ghiande-missile o, piú precisamente, glandes plumbeae; sporadico, invece, fu l’utilizzo in sostituzione del prezioso argento.

CONTRO LA CORROSIONE Ciononostante, esso rivelò presto la sue peculiarità: immune alla corrosione di qualsiasi origine e di eccezionale malleabilità grazie al bassissimo punto di fusione, finí per suggerire vaste adozioni dall’edilizia alla cantieristica navale, tra cui la monea r c h e o 81


STORIA • LA METALLURGIA

In alto: una delle Navi di Nemi dopo il recupero. 1928. Lo scafo conservava il rivestimento in piombo della carena. A destra: un cristallo di cinabro, minerale che in natura contiene le maggiori quantità di mercurio.

grappe per la giunzione dei blocchi di pietra, e, soprattutto, con sue lamiere si ottenevano tubature idriche di vari diametri, basilari per le reti urbane. La loro bassa pressione di esercizio permetteva al calcio disciolto dall’acqua di formare, in poco tempo, un rivestimento interno ai tubi, riducendo i rischi di saturnismo per gli utenti.

LINGOTTI IN FONDO AL MARE Col piombo si costruirono anche le pompe a doppio stantuffo con le quali si sollevava l’acqua dai pozzi, come pure i serbatoi per l’acqua potabile. Un’idea sull’entità del suo impiego è data dalla presenza nel 82 a r c h e o


Mediterraneo di ben 45 relitti di navi con a bordo lingotti di piombo, perlopiú di provenienza iberica. Piccole quantità di mercurio sono state rinvenute in tombe egizie della metà del II millennio a.C., provenienti forse dall’India, dove lo si reputava utile per accrescere la longevità. La sua notevole fluidità sembrava ricordare la supposta agilità di Mercurio e perciò i Romani decisero di chiamarlo come il dio, in alternativa alla denominazione greca di Hydrargyros, «argento liquido». Estraendosi dal rosso cinabro, venne utilizzato dagli Etruschi per ricavarne un vivido colorante vermiglio. Ottenuto puro, trovò impiego nella concia delle pelli e, piú tardi, in rilevanti quantità nelle estrazioni aurifere. Il mercurio, infatti, si combina con molti metalli, fra i quali l’oro, formando particolarissime leghe (amalgami), il cui stato di aggregazione oscilla fra liquido e solido in funzione del diverso titolo dei componenti. L’amalgama d’oro, ottenuto trattando il minerale aurifero tritato, ha consistenza pastosa: fatto scorrere sopra scivoli di rame, si separa dalla ganga litoide, aderendovi con il solo amalgama. Quest’ultimo, raschiato e riscaldato, perde per evaporizzazione il mercurio, lasciandovi l’oro puro: si tratta di una tecnica altamente inquinante, che viene purtroppo ancora utilizzata in varie parti del mondo.

IL PIÚ DIFFUSO Gli impieghi e gli utilizzi del ferro sin dall’antichità furono cosí numerosi e duraturi da renderne quasi superflua la rievocazione. Indizi archeologici lo certificano lavorato, sporadicamente e per piccole quantità, intorno al III millennio a.C. Quanto fosse raro lo testimonia il prezzo stimato ancora alla metà del millennio successivo, pari al quintuplo dell’oro. Preziose lame in ferro costituirono cosí la dotazione dei

maggiori sovrani, tra cui il faraone Tutankhamon. Una piú diffusa presenza di oggetti di ferro si riscontra nello stesso periodo in Mesopotamia, ma sempre con prezzo altissimo. Nell’Iliade, ambientata nell’ultimo anno della guerra di Troia, intor-

Pugnale in ferro con il suo fodero. Età tardo-antica. Lubiana, Museo Nazionale della Slovenia.

no al 1250 a.C., le panoplie sono ancora di bronzo e il ferro, in masselli grezzi, è utilizzato per commerciare. Compare, infatti, fra i premi riservati ai vincitori dei giochi funebri indetti da Achille in onore di Patroclo, cosí rievocati nel poema: «Pose quindi in lizza il Pelide un masso di metallo grezzo, / che un tempo usava scagliare la grande forza d’Eetione; / ma poi l’ammazzò Achille divino dal piede veloce, / e si portò sulle navi il masso insieme alle altre ricchezze. / S’alzò in piedi e parlò tra gli Argivi. / “Fatevi avanti voi altri che questa gara volete affrontare! / Se anche molto lontano stanno i suoi fertili campi, / ne potrà consumare anche per cinque anni interi: / non gli andranno in città per mancanza d’acciaio / il contadino o il pastore, avrà bene da dargliene”». (Iliade, traduzione di Giovanni Cerri, XXIII, 826-835). È perciò plausibile ipotizzare che l’età del Ferro in Egitto abbia avuto inizio intorno al 1300 a.C. estendendosi all’intero Mediterraneo tre secoli dopo. L’accumularsi delle esperienze fusorie portò alla costruzione di forni in grado di liquefare, sia pur parzialmente, il minerale ferroso. Tuttavia, il metallo che in qualche modo colava da quei rudimentali forni non era ancora ferro, ma una massa spugnosa che solo la prolungata battitura a caldo trasformava in ferro dolce, la cui durezza risultava inferiore a quella del bronzo. Solo con l’affermarsi di complesse procedure siderurgiche si riuscí ad avere un ferro abbastanza duro, tale da poter essere impiegato sia nella fabbricazione di lame e di corazze che di utensili. I gladi romani, in ogni caso, restarono sempre facilmente piegabili per cui s’imposero esclusivamente come armi da punta per il combattimento ravvicinato. (4 – fine; le puntate precedenti sono state pubblicate nei nn. 383, 384 e 386, gennaio, febbraio e aprile 2017) a r c h e o 83


SPECIALE • SPARTACO


SPARTACO

UNA STORIA DI SCHIAVI E PADRONI

QUELLO DI ROMA ANTICA FU IL PIÚ GRANDE SISTEMA SCHIAVISTICO CHE LA STORIA ABBIA MAI CONOSCIUTO. UN’INTERA ECONOMIA ERA BASATA SULLO SFRUTTAMENTO DI UNA «MERCE» CARA E REDDITIZIA QUANTO DEPERIBILE: L’ESSERE UMANO. STIME RECENTI HANNO CALCOLATO LA PRESENZA TRA I 6 E I 10 MILIONI DI SCHIAVI SU UNA POPOLAZIONE DI 50/60 MILIONI DI INDIVIDUI. NEL 73 A.C., UN ESERCITO DI SCHIAVI, ESASPERATI DALLE CONDIZIONI DISUMANE IN CUI ERANO TENUTI A VIVERE, SI RIBELLARONO, CAPEGGIATI DA UN GLADIATORE TRACE. MA QUALI FURONO I REALI EFFETTI DELLA RIVOLTA? ED È CORRETTO RICONOSCERE IN SPARTACO IL LEGITTIMO RAPPRESENTANTE DEL «PROLETARIATO DELL’ANTICHITÀ», COME AVEVA SOSTENUTO MARX? di Orietta Rossini

Tutti gli oggetti e le opere d’arte riprodotti nell’articolo sono attualmente esposti nella mostra «Spartaco. Schiavi e padroni a Roma», allestita presso il Museo dell’Ara Pacis di Roma. Plauto mugnaio, olio su tela di Camillo Miola. 1864. Napoli, Museo civico di Castel Nuovo. L’opera allude alla notizia, riportata da Aulo Gellio, secondo la quale Plauto, forse per debiti di gioco, fu costretto a lavorare come schiavo presso un mugnaio.

L’

esibizione dei 6000 schiavi crocefissi lungo la via Appia – circa uno ogni trenta metri, calcolando la distanza tra Roma e Capua – chiude nel modo piú tragico la stagione delle grandi rivolte servili che insanguinarono l’Italia tra la metà del II secolo e il 71 a.C., anno della sconfitta dell’esercito di Spartaco. Quei 6000 erano l’ultimo contingente delle moltitudini di schiavi che si ribellarono all’oppressione esercitata dai Romani nell’età della conquista, quando il bottino di guerra era fatto non solo di oro e di ricchezze, ma soprattutto di schiavi, e quando gli eserciti di Roma avanzavano in tutte le direzioni, seguiti come da avvoltoi dai venaliciari, o mangones, come erano detti i mercanti di schiavi. a r c h e o 85


SPECIALE • SPARTACO A sinistra: rilievo con Germano prigioniero. Fine del I-inizi del II sec. d.C. Bacoli, Museo Archeologico dei Campi Flegrei. Nella pagina accanto: Spartaco, statua in marmo di Denis Foyatier. 1830. Parigi, Museo del Louvre. In basso: gruppo raffigurante la bollitura del maiale. Metà del I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Queste ribellioni si ripeterono per tre generazioni e coinvolsero, stando alle fonti, 200 000 uomini in Sicilia tra il 135 e il 132 a.C.; forse altri 100 000 tra il 104 e il 101 a.C., durante la seconda guerra servile siciliana e, da ultimo, 120 000, arruolati – non solo schiavi, a quanto sembra, ma anche poveri ed emarginati di ogni specie – tra le file di Spartaco. Vengono definite guerre servili, ma l’abolizione della schiavitú non fu mai lo scopo di queste rivolte. Quando Euno, lo schiavo siriano a capo della prima grande rivolta, conquistò gran parte della Sicilia e la tenne per quattro anni sotto il suo dominio, fondò un regno sul modello delle monarchie ellenistiche, si dichiarò re con il nome di Antioco e batté moneta con la sua effigie, riproducendo, capovolta, la situazione di partenza, i vecchi padroni diventati schiavi. Ugualmente, durante la seconda rivolta siciliana, lo schiavo Salvio, acclamato re con il nome di Trifone, amministrava giustizia nel foro vestito come un magistrato romano, con toga pretesta e laticlavio, facendosi precedere da littori recanti i fasci, vecchi simboli del nuovo potere (Diodoro Siculo, Biblioteca Historica, XXXVI 2, 3-6 ). Per quanto Marx, Lenin e Rosa Luxemburg abbiano trasformato Spartaco in un eroe del 86 a r c h e o

proletariato, la coscienza di classe – almeno nel senso da noi dato a questa espressione – non faceva parte del bagaglio culturale degli schiavi in rivolta, né la visione di un mondo piú giusto fu mai la molla esplicita – seppure umanamente presente – della loro ribellione.

IL COLLANTE ETNICO Piuttosto vanno riconosciuti alla base delle guerre servili altri fattori, non meno motivanti: la crudeltà del trattamento riservato agli schiavi dai proprietari terrieri che marchiavano, incatenavano e affamavano le masse servili sfruttate nel lavoro dei campi e nella pastorizia; il forte collante etnico dei rivoltosi – soprattutto Siriani e Cilici in Sicilia, quindi Traci e Galli nella guerra mossa da Spartaco – che trasformava l’odio degli oppressi in «resistenza» armata contro gli oppressori; la componente religiosa chiamata in causa dai capi delle rivolte – tutti indovini, visionari ed esperti di astrologia – per motivare una ribellione che, in assenza di un’ideologia, veniva


LO SCHIAVO VENUTO DALLA TRACIA

N

el settembre del 44 a.C., Cicerone si scagliava contro Marco Antonio, definendolo «un sicario, un ladrone, uno Spartaco!». Voleva che il suo avversario fosse dichiarato hostis, nemico della repubblica: lo paragonava perciò a colui che, dopo trent’anni, veniva ancora avvertito come un’ombra inquietante e il nemico pubblico per antonomasia di Roma. Spartaco era nato in Tracia, oggi Bulgaria e Turchia europea, forse da una tribú nomade. Aveva militato da libero tra le file dell’esercito romano ed era stato poi asservito, sembra per una condanna ingiusta, e venduto a Roma come gladiatore. La sua prestanza fisica, ricordata da varie fonti, è confermata dal fatto che nell’arena combatteva come murmillo, un peso massimo con armatura pesante. Ma il suo valore non stava solo nella sua forza. Sallustio, che aveva quattordici anni quando Spartaco percorreva l’Italia, lo definisce «uomo notevole per doti fisiche e morali»; Plutarco gli riconosce non solo forza e coraggio, ma anche intelligenza e una raffinatezza d’animo che lo avvicinava a un Greco piú che a un Trace. La fuga di Spartaco e di circa settanta gladiatori dalla scuola di Capua – la piú grande esistente, quando ancora gli spettacoli gladiatori non erano cosí frequenti nel mondo romano – venne dapprima sottovalutata dal Senato, che gli inviò contro, in successione, due contingenti guidati da pretori e quindi due eserciti consolari. Spartaco li sbaragliò, potendo contare su decine di migliaia di schiavi fuggiaschi e anche di disperati di condizione libera, che egli aveva trasformato in un esercito. Ci vollero dieci legioni al comando di Crasso – piú di quelle impiegate da Cesare in Gallia – per domare la rivolta di Spartaco, che cadde combattendo «come un generale romano», come scrisse Appiano rendendogli l’onore delle armi. La storiografia moderna si è a lungo interrogata sui motivi che spinsero Spartaco prima a rinunciare alla marcia su Roma, vicina e «atterrita» come ai tempi di Annibale; quindi a tornare sui suoi passi, nell’estremo Sud della Penisola, dove sarebbe stato assediato e sconfitto. Appiano lascia intendere qualcosa quando scrive che Spartaco si giudicò impreparato all’impresa, perché non sufficientemente armato e perché «nessuna città si era unita a lui»: sapeva di non essere riuscito ad allargare la base politica e sociale della rivolta, condizione necessaria ad affrontare Roma e farla scendere a patti. Sulle sue motivazioni profonde, invece, rimangono in piedi due ipotesi. Quella avallata dagli stessi storici romani, secondo i quali quello di Spartaco rimane un esercito di fugitivi, che cercò di liberarsi dal giogo della schiavitú, senza perseguire scopi diversi o piú alti; e quella, recentemente sostenuta da Aldo Schiavone, secondo la quale Spartaco cercò di trasformare una rivolta di schiavi in una rivolta antiromana, allargando la frattura, già aperta, tra Roma e le comunità italiche, in un momento in cui le legioni romane erano impegnate a combattere Sertorio in Spagna e Mitridate in Grecia. Il corpo di Spartaco non venne mai ritrovato. Seimila dei suoi compagni, sopravvissuti all’ultima battaglia, vennero crocefissi lungo la via Appia, da Roma a Capua, perché quello spettacolo fosse di monito agli schiavi a venire. a r c h e o 87


SPECIALE • SPARTACO

consacrata per via religiosa da un dio; infine UNA PENA DISONOREVOLE quel naturale istinto che spinge gli uomini, di fronte alla mancanza di prospettive, ad assuLa crocifissione era la condanna capitale mere il rischio della libertà. piú dolorosa e infamante e conobbe a Roma Oggi la cultura che si definisce democratica la sua piú vasta applicazione. Era riservata e liberale riconosce la legittimità di quelle ai criminali piú pericolosi, come i ribelli, i rivolte: furono pensatori e filosofi come traditori, i prigionieri di guerra o gli schiavi Montesquieu e Voltaire a dichiarare per primi fuggitivi. Il supplizio era spesso preceduto quella di Spartaco «una guerra giusta», e anzi, da una processione punitiva, durante la come ribadí Voltaire con puntualità condiviquale il condannato doveva portare sulle sibile, «la sola guerra giusta» mai combattuta. spalle il patibulum, una trave lignea che Ma ci si può anche chiedere se queste lotte veniva poi utilizzata come elemento furono di qualche utilità alla causa degli schiaorizzontale della croce. vi, se il sangue versato a fiumi e la sofferenza dei vinti portarono qualche risultato nel trattamento riservato dai Romani ai loro schiavi. piccolo patrimonio che lo schiavo poteva far Si tratta di una domanda difficile, con una fruttare, a volte in maniera molto consistente, fino all’acquisto del riscatto e al raggiungirisposta non univoca. mento della ricchezza; l’esercizio da parte di schiavi di professioni che oggi definiremmo TRATTAMENTI DIFFERENZIATI Fermo restando che la schiavitú restò fino alla «borghesi» come quelle del medico, dell’archifine un elemento strutturale dell’economia tetto, del retore, del filosofo, del letterato, del romana – quello che Marx chiamò «il modo pedagogo, del geometra, dell’agrario, del bandi produzione schiavistico» – se guardiamo chiere, dell’armatore navale, del commerciante alla storia successiva a Spartaco, si dovrà am- all’ingrosso… tutto questo costituí all’interno mettere che un mutamento va registrato, e che del sistema schiavistico romano – peraltro rigila condizione degli schiavi romani prima e do, severo e per certi aspetti spietato – una dopo Spartaco non appare identica. Tuttavia, sorta di «ascensore sociale» e una forma di prima di parlare di un «miglioramento» vanno meritocrazia che senza dubbio finirono per poste alcune premesse: la condizione degli premiare lo schiavo fortunato e talentuoso. schiavi in età imperiale fu estremamente varia Ma quello che piú evidentemente varia a e spazia dal persistere dell’inferno degli schia- partire dalla tarda repubblica è la mentalità dei vi relegati in miniera, nelle cave, alle macine padroni, almeno di quelli illuminati, di cui ci dei mulini o alle lavorazioni tossiche (come resta testimonianza nella letteratura e nel diquelle tessili che impiegavano zolfo e acidi); ritto. Molti indizi ci inducono a crederlo, per per arrivare ai privilegi di cui godettero i servi esempio il tono usato dagli agronomi – tutti Caesaris, gli schiavi alle dirette dipendenze grandi proprietari terrieri e rappresentanti del della casa imperiale, che in quanto tali poteva- ceto dominante – nel descrivere la vita delle no godere di grandi ricchezze ed esercitare famiglie servili da essi impiegate in agricoltunotevole potere. All’interno di questo spettro ra. Si parte da Catone, lo stesso che nel 146 amplissimo, ogni mutamento riguardò dun- a.C. perorò la distruzione di Cartagine, che que una determinata categoria di schiavi e mai teneva in catene i suoi schiavi secondo un’usanza diffusa ai suoi tempi, li nutriva quel il genere in quanto tale. Ciò premesso, è indubbio che il sistema della tanto che bastava alla sussistenza (Catone, De schiavitú conobbe in età tardo repubblicana e agricultura, 56-58) e persino chiedeva un prezimperiale l’uso sistematico di una serie di mec- zo ai maschi che volessero unirsi in concubicanismi di riscatto, largamente impiegati, che nato alle sue schiave femmine (Plutarco, Cato rendono il sistema romano un unicum nella Maior, 21, 3); per arrivare due secoli dopo a storia occidentale. I fatti sono noti e vanno Columella, il quale, pur continuando a consolo ricordati: la frequenza con cui viene con- templare le catene come mezzo di punizione cessa la manumissio, l’affrancamento dello schia- e correzione degli schiavi indocili, pure si vo, e con la libertà anche i diritti (non tutti per preoccupava che le prigioni sotterranee fosla prima generazione) connessi alla cittadinan- sero «per quanto possibile salubri» (De re rustica, za romana; la concessione di un peculium, un I,6,3), che i sorveglianti fossero severi, ma 88 a r c h e o

Campo scellerato. Un’esecuzione durante il periodo romano imperiale. Schiavi crocefissi, olio su tela di Fyodor Andreevich Bronnikov. 1878. Mosca, Galleria Tretyakov.


non crudeli e consigliava ai padroni di intrattenersi amichevolmente con i loro schiavi migliori, chiedendo loro consiglio e motivandoli nel loro lavoro (De re rustica, I, 8,15).

LE SCELTE DI AUGUSTO Un capitolo a parte costituisce l’azione di Augusto e della sua legislazione: l’ambiguità che caratterizza la sua politica si riflette anche in ambito servile. Va innanzitutto ricordato che il princeps era figlio naturale di quel Gaio Ottavio che, recandosi come magistrato in Macedonia, pochi mesi prima di lasciare orfano il piccolo Ottaviano, aveva finito di reprimere le comunità dei sopravvissuti delle rivolte di Spartaco e Catilina riunitesi in Calabria. Un’eredità morale di cui il futuro Augusto andrà fiero, tanto da rivendicare con orgoglio l’appellativo di Thurinus (dalla colo-

nia calabrese di Thurii/Copia, teatro della rivolta spartachista) che gli era stato lanciato contro come un insulto da Antonio. Un filo sottile ma resistente legava dunque il futuro imperatore a Spartaco. Forse memore delle tradizioni familiari, lo stesso Augusto racconta nelle Res Gestae di aver vinto contro Sesto Pompeo una guerra che definisce «servile», probabilmente per il gran numero di schiavi schierati nell’esercito del figlio di Pompeo Magno: almeno 30 000 secondo Augusto, che li avrebbe fatti prigionieri e restituiti ai padroni «per la giusta punizione» (ad supplicium sumendum: la crocefissione, dobbiamo intendere; Res Gestae, 25). Con tali credenziali alle spalle e con un paio di leggi che regolamentano la manomissione degli schiavi emanate a distanza di sei anni nel 2 a.C. e nel 4 d.C. (non per diminuire il numero degli a r c h e o 89


SPECIALE • SPARTACO

90 a r c h e o


schiavi liberati, come in genere si scrive, ma per diminuire il numero di quanti, dopo la liberazione, potevano assumere la cittadinanza romana), pure Augusto volle lasciare di sé l’immagine di un dominus moderato e benevolo nei confronti degli schiavi, sostanzialmente l’immagine tramandata da Seneca e Dione che raccontano l’episodio famoso di Augusto che salva la vita di un giovane schiavo, reo di aver mandato in frantumi una preziosa suppellettile (Seneca, De ira, III,40; Cassio Dione, LIV, 23,1-4). Ma Augusto è soprattutto colui che, con sottile decisione, affiderà proprio agli schiavi che vivono sotto lo stesso tetto del padrone la sicurezza fisica del dominus. Ciò avviene con il senatus Consultum Silanianum de servis, approvato nel 10 d.C., quando il principe è ormai prossimo alla fine. Con esso si prescrive che, in caso di morte violenta del padrone o in circostanze non chiare, tutti gli schiavi conviventi dovranno essere interrogati, torturati ed eventualmente messi a morte prima dell’apertura della successione del morto (che poteva contenere clausole di liberazione). Ciò rendeva l’intera famiglia degli schiavi domestici responsabile della vita del padrone, inserendo il sospetto tra i servi, che si sarebbero controlla-

Nella pagina accanto: vaso per profumi in bronzo in forma di testa di schiavo. II-III sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. In basso: statuetta in bronzo raffigurante un giovane nero. II-III sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.

APPARTENGO A SCHOLASTICUS Su questo collare di schiavo, rinvenuto a Roma nel 1892, nel corso di scavi condotti nell’area di piazza Cairoli, si legge un’iscrizione che indica il padrone dell’uomo (Scholasticus) e il luogo dove avrebbe dovuto essere ricondotto in caso di fuga (domo pulverata). V sec. d.C. Roma, Antiquarium comunale.

ti a vicenda. Si tratta di una misura legale la cui efficacia e il cui cinismo si rivelò appieno sotto il regno di Nerone, nel 61 d.C., quando 400 schiavi, tra cui molte donne e bambini, saranno messi a morte a seguito dell’assassinio del praefectus Urbi, Pedanio Secondo, per mano di un suo schiavo domestico. È dunque dopo Augusto – quando la pace da lui imposta e la filosofia stoica da lui favorita inducono pensieri universalistici e favoriscono costumi piú moderati – che la legislazione lascia trasparire un sentire piú umano e fornisce qualche minima tutela alla persona dello schiavo: una lex Petronia d’incerta datazione proibiva ai padroni di vendere i propri schiavi per la lotta con le fiere; sotto Claudio, si proibiva ai padroni di abbandonare gli schiavi ammalati, i quali, se guarivano, diventavano liberi; venne punita l’uccisione di uno schiavo altrui e quindi sanzionata, sotto Antonino Pio, anche l’uccisione del proprio schiavo (Gaius, I, 53) e, secondo un altro rescritto antoniniano, gli schiavi che – per sfuggire a un padrone che incrudeliva – si fossero rifugiati presso la statua di un imperatore, dovevano essere dal padrone stesso venduti. Fu tutto questo dovuto anche all’esempio della «guerra giusta» condotta da Spartaco? Certamente il ricordo delle guerre servili rimase a lungo nella memoria romana. E forse il solo Annibale può contendere a Spartaco il titolo di principale nemico di Roma , nonché il terrore diffuso tra i Romani. La risposta rimane tuttavia incerta. Sta di fatto che oggi riconosciamo a Spartaco e ai suoi simili il diritto alla ribellione. Orietta Rossini

a r c h e o 91


SPECIALE • SPARTACO

LA VITA IN COMUNE

Scriveva Valerio Massimo (I secolo a.C.-I secolo d.C.): «Non c’è uomo libero che non possieda almeno uno schiavo, compagno della sua vita, a meno che non sia piombato nella miseria». Nelle case della Roma «bene», schiere di servitori svolgevano le mansioni piú disparate, con differenti livelli di specializzazione: dal portinaio (ianuarius) al maggiordomo (atriensis), a coloro che curavano l’amministrazione finanziaria della casa (dispensatores), ai tesorieri (arcarii). Nelle cucine c’era il cuoco (praeposituscocorum), che poteva avere

al suo servizio un buon numero di sottoposti, sia fornai e pasticcieri, che addetti al funzionamento della cucina: fornitori di legna, soffiatori sul fuoco, lavapiatti, addetti agli acquisti. Non mancavano certo i camerieri (ministratores), ciascuno con specifica mansione: quelli che apparecchiavano la mensa (structores), i tagliatori di porzioni (scissores), gli assaggiatori (praegustatores), quelli che versavano da bere (a cyatho), infine coloro che raccoglievano i resti avanzati sul pavimento (analecta). Il padrone e la padrona avevano schiavi che ne curavano l’aspetto: barbieri (tonsores), pettinatrici (ornatrices), addetti al guardaroba (ad vestem) o ai gioielli (ab ornamentis); avevano schiavi che li accompagnavano durante una passeggiata a piedi (pedisequi) o che li trasportavano in lettiga (lecticarii). Se il dominus era una persona di rango, lo accompagnavano schiavi che gli ricordavano i nomi delle persone che incontrava ed eventuali benefici loro concessi (servus a memoria); se il dominus aveva figli, erano presenti schiavi addetti a crescerli e istruirli, come balie e pedagoghi. Non meraviglia, quindi, che si creassero rapporti di affetto e intimità tra alcuni schiavi e i propri padroni. Ma per i padroni meno amabili vivere con schiere di schiavi poteva comportare la necessità di instaurare in casa un regime di terrore: il sospetto del tradimento non poteva essere sopito facilmente. Lo storico Tacito racconta che, A sinistra: piccola statua in marmo bigio morato che ritrae un giovane schiavo nero, da Afrodisia di Caria (oggi in Turchia). I-II sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. La scultura rappresenta probabilmente un servitore che assiste il suo padrone nel bagno o alle terme. A destra: frammento di mosaico raffigurante uomini intenti a trasportare cibi e utensili destinati a un banchetto, da Cartagine. 180-190 d.C. Parigi, Museo del Louvre.



SPECIALE • SPARTACO

94 a r c h e o


UNA PUNIZIONE ESEMPLARE Questa tegola iscritta, rinvenuta in Spagna, dà conto della punizione inflitta da un latifondista, Maximus, a un actor di nome Trofimianus, la cui concubina, Maxima, aveva causato l’aborto di una giovane schiava, che, incinta dello stesso Maximus, aveva fatto ingelosire la donna. Il padrone affida l’incarico allo schiavo Nigrianus, amministratore del suo terreno: «Massimo a Nigriano: ed è stata responsabilità

nel 61 d.C., morí Pedanio Secondo, prefetto urbano, ucciso da un suo schiavo in casa propria. Quando il Senato si riuní per decidere se applicare un’antica norma che in casi simili prevedeva la tortura e la morte dell’intera familia servile, il giurista Cassio Longino sostenne la necessità di infliggere la pena a tutti i 400 schiavi della vittima: come avrebbero potuto, i padroni romani, dormire sonni tranquilli, se tanti schiavi non erano stati sufficienti a proteggere la vita di un prefetto urbano? Il Senato si convinse e i

dell’actor avere adibito la ragazza incinta a lavori di durezza tale da causare la morte del feto, proprietà del padrone, che era stato concepito con tanta fatica. E ciò fu fatto da Maxima, la concubina di Trofimianus. Castiga lui e che sia estromesso da tutto. Segna o confini della proprietà dal monte Tances fino ai cippi nominali della campagna di Lacipea». III sec. d.C. Madrid, Museo Archeologico Nazionale.

Nella pagina accanto: Orazio in villa, olio su tela di Camillo Miola. 1877. Napoli, Museo di Capodimonte. Nel fondo sabino del poeta lavoravano otto schiavi sorvegliati da un vilicus.

quattrocento schiavi, compresi donne e bambini, vennero mandati a morte.

GLI SCHIAVI NELL’AGRICOLTURA

L’idea di una riforma a favore dei piccoli proprietari agricoli – idea che costò la vita a lui e a suo fratello Caio – venne a Tiberio Gracco mentre traversava l’Etruria per imbarcarsi verso la Spagna.Tiberio rifletteva sulla solitudine di quelle terre, un tempo popolate da contadini liberi, e ora ridotte a latifondo dalla rapaa r c h e o 95


SPECIALE • SPARTACO

cità dei grandi proprietari, che usavano «schiavi fatti venire da altri paesi» come pastori e agricoltori (Plutarco, Tiberio Gracco, 8). Il passo testimonia un fenomeno, già avanzato nella seconda metà del II secolo a.C., che avrebbe continuato a caratterizzare l’agricoltura dell’età imperiale: l’affermarsi della coltivazione specializzata e finalizzata al grande mercato, praticata dai latifondisti grazie all’abbondanza di manodopera servile che le guerre di conquista avevano fornito a basso prezzo. Quello combattuto da Tiberio Gracco era il sistema detto della villa rustica, una realtà testimoniata già in tempi molto antichi, che però si era diffuso con l’ampliarsi degli scambi commerciali e dei mercati urbani, per i quali la villa produceva soprattutto olio, vino e grano. L’attività si incentrava intorno a un vasto edificio, la villa appunto, diviso in due settori: quello residenziale, a uso del dominus e dei suoi ospiti, e il settore legato a l l ’ a t t iv i t à d e g l i schiavi. L’impiego degli schiavi in agricoltura presentava vantaggi evidenti per il dominus: gli schiavi minimizzavano i costi di produzione, si riproducevano tra loro aumentando il capitale e non andavano in guerra, assicurando la continuità produttiva. Le grandi aziende agricole appartenevano a famiglie senatoriali ed equestri o alle élite dei municipi e delle provincie. Questi proprietari, perlopiú residenti in città, usavano esaltare l’agricoltura come la fonte di reddito che meglio si confaceva alla propria dignità, anche perché, finiti i tempi di Cincinnato, non si trattava certo di lavorare la terra con le proprie mani: «Un tempo i campi erano coltivati dalle mani degli stessi generali», scriveva Plinio il Vecchio, «ma al giorno d’oggi il lavoro dei campi è fatto da piedi incatenati, da mani condannate, da facce marchiate (...) e ci meravigliamo che il frutto del lavoro forzato non sia lo stesso del lavoro che era un tempo dei condottieri!» (Nat. Hist. XVIII, 4). 96 a r c h e o

In basso: faccia posteriore di uno specchio in bronzo decorata con una scena erotica ambientata in una casa privata, da Roma (Esquilino). Fine del I sec. d.C. Roma, Antiquarium comunale.

SCHIAVITÚ FEMMINILE E SFRUTTAMENTO SESSUALE

«Prehende servam: cum voles, uti licet» («Prenditi la schiava come vuoi, come è tuo diritto»): questo anonimo graffito pompeiano chiarisce quello che per un dominus romano doveva essere normale: la schiava è a tutti gli effetti un oggetto di proprietà del padrone e doveva essere a sua disposizione quando ne avesse voglia. Il padrone utilizzava le proprie schiave come un bene su cui investire, per esempio mettendole incinte o favorendo il loro accoppiamento: attraverso la nascita di nuovi schiavi accresceva il suo capitale. L’investimento poteva anche essere sistematico: le schiave potevano essere vendute a un leno, un gestore di «case di piacere», che avrebbe provveduto a gestirle, oppure lo stesso padrone poteva decidere di destinare alcuni ambienti della propria casa a questi scopi. Esistevano edifici dedicati al meretricio, come i lupanari, ma esso è testimoniato anche in altre strutture come le case private dei ricchi, le osterie, le locande, le terme, le cellae meretricae, piccole stanze spesso direttamente su strada. Si trattava di un’attività estremamente redditizia, se anche il potere imperiale volle trarne beneficio: sappiamo che, nel 40 d.C., l’imperatore Caligola introdusse una tassa sulla prostituzione, anche se non ne conosciamo i dettagli. I luoghi di piacere sono raccontati dalle scene erotiche rappresentate sulle spintriae, dischi di bronzo, della dimensione di una moneta, che dovevano anche possedere un qualche valore, forse corrispondente al numero ordinale su di esse riportato. Si è pensato che potessero sostituire le monete per il pa-


1

2

IL PADRONE INNAMORATO

In questa pagina: gioielli in oro da Moregine (Pompei). I sec. a.C.I sec. d.C. Pompei, Soprintendenza. 1. Parte di una probabile collana. 2. Armilla a verga tubolare. 3. Collana con pendente. 4. Armilla a corpo con iscrizione Dom(i)nus ancillae suae.

3 4

Il bracciale da Moregine con la dedica del padrone alla sua schiava costituisce, a oggi, un caso assai raro: si conosce, infatti, un numero molto ristretto di gioielli che conservino iscrizioni.

gamento nei lupanari o che fossero le pedine di un gioco, ma non abbiamo certezze al riguardo. Le prostitute erano coperte da infamia, non solo un marchio di disprezzo sociale, ma anche un limite legale alla propria capacità giuridica. Eppure, non possiamo escludere del tutto che esistessero tra il padrone e le sue schiave storie di autentica affezione, come nel caso della schiava di Moregine, che poteva sfoggiare un dono prezioso come il bracciale d’oro serpentiforme, che riporta l’iscrizione «dominus ancillae suae»: «il padrone alla sua schiava». a r c h e o 97


SPECIALE • SPARTACO

PICCOLI SCHIAVI

Schiavo si diveniva in età adulta, se lo voleva il destino, ma schiavo si poteva anche nascere, se la propria madre era di condizione servile. Gli schiavi nati ed educati in casa erano quelli piú pronti ad apprendere e questo li rendeva una forza lavoro importante. Non esisteva alcuna preoccupazione etica o tutela sociale per i lavoratori bambini, come del resto non era considerato scandaloso che un padre di famiglia, libero, ma di bassa estrazione, facesse lavorare i propri figli. Per un padrone, un piccolo schiavo nato in casa (verna) costituiva un investimento utile: oltre alla possibilità di formarlo sin da piccolo e far sí che apprendesse un mestiere, lo si poteva crescere nel rispetto delle regole di casa, in modo da favorire lo stabilirsi di un legame affettivo solido con il padrone e gli altri membri liberi della famiglia, diminuendo i rischi di ribellioni e danni. Spesso poteva accadere che schiavi bambini crescessero insieme ai loro piccoli padroni, perché coetanei. Non devono stupire, quindi, le numerose attestazioni di affetto riservate dai propri padroni a questi piccoli lavoratori nelle iscrizioni funerarie, quando stroncati da una morte precoce. Non bisogna dimenticare che alcuni di essi potevano essere anche figli naturali del padrone, concepiti da una delle schiave domestiche. Naturalmente, nascere schiavo e crescere da schiavo in una casa di città segnava una condizione diversa dal nascere schiavo, per esempio, in una casa di campagna o dal nascere schiavo ed essere venduto subito dopo, come pure poteva accadere. Le testimonianze archeologiche e le fonti PER LA CURA DEL CORPO Vaso da profumi in bronzo in forma di testa di giovane nero. II-III sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. La ricorrenza di contenitori che. come questo, ritraggono volti riferibili neri è prova della stretta relazione che, nell’antichità, veniva percepita fra questi ultimi e il tema della cura e della pulizia del corpo, come del resto dimostra, per esempio, anche la statua di un inserviente che assiste il padrone al bagno o alle terme (foto a p. 92).

98 a r c h e o


LAVORI IN CORSO Rilievo raffigurante varie attività edilizie, da Terracina. Roma, Museo Nazionale Romano. La scena si riferisce forse alla costruzione del porto della città laziale, ma l’interpretazione è dibattuta.

letterarie ci offrono uno spaccato quanto mai vario dei mestieri che potevano essere esercitati dagli schiavi bambini, sin dai primissimi anni di vita: da Augurius, schiavetto acrobata vissuto poco piú di due anni, ai bambini utilizzati nelle miniere, adatti per le loro piccole misure ai cunicoli scavati alla ricerca del prezioso metallo: ne è un esempio il piccolo Quartulus, rappresentato sulla sua stele funeraria con una gerla da miniera. E ancora, all’interno delle ricche case dell’Urbe, schiavi bambini potevano accompagnare il proprio padrone nei suoi bagordi notturni, illuminandogli la strada, oppure potevano servire a tavola o a letto, dove svolgevano il ruolo di amasi, amanti preferiti; fuori dalle case e al servizio della città, schiavi bambini potevano essere utilizzati per pulire la sabbia dell’arena dal sangue dopo i combattimenti, come testimoniato da Marziale Di fatto nessun mestiere era precluso allo schiavo bambino, che, al pari dell’adulto, doveva generare profitto per il proprio padrone e, solo secondariamente e se particolarmente dotato, per se stesso, con l’andare degli anni. Era questa l’unica strada che poteva condurre alla liberazione.

LA STRADA VERSO LA LIBERTÀ

A Roma gli schiavi potevano coltivare la speranza della libertà. Il diritto prevedeva infatti una procedura di liberazione, ampiamente applicata, detta manumissio, con la quale il dominus rinunciava alla sua potestà (manus) sullo schiavo. Anche in Grecia esisteva la possibilità di liberare i propri schiavi, ma nessuna società schiavista, né antica, né moderna, ha mai fatto un ricorso cosí largo e sistematico alla loro liberazione, come invece avvenne a Roma. La singolarità del caso romano è accresciuta dal fatto che gli schiavi liberati, i liberti, a differenza di quanto accadeva in Grecia dove un ex schiavo rimaneva socialmente in una posizione d’inferiorità, potevano diventare cittadini romani, acquisendo quasi tutti i diritti di un civis nato libero, compreso il diritto di voto. I figli dei liberti, poi, potevano accedere alle cariche pubbliche, senza limite alla propria ascesa sociale. Le ragioni di questa «liberalità» sono molteplici. Al fondo, si può riconoscere ai Romani la consapevolezza delle proprie origini composite: per popolare Roma, Romolo aveva accolto persone di ogni livello sociale, schiavi compresi. Va inoltre riconosciuta una capacità di integrazione straordinaria, una delle doti romane «vincenti», come ampiamente riconosciuto. C’erano poi ragioni di sicurezza e ordine pubblico: schiavi che nutrono una speranza sono senz’altro meno pericolosi di schiavi disperati e, dal momento che con essi si conviveva – e poiché un padrone ricco poteva tenere sotto il suo stesso tetto centinaia di schiavi –, la prospettiva della libertà costituiva una garanzia di sicurezza, innanzitutto per il padrone. Inoltre interessi economici particolari potevano convincere il dominus a liberare il proVINTO DALLA FATICA Statuetta raffigurante un piccolo schiavo addormentato, rinvenuta nel 1890 nel letto del Tevere, presso il Ponte Palatino. I-II sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano. L’impiego degli schiavi bambini era del tutto normale e molto diffuso, per esempio, nelle attività minerarie.

a r c h e o 99


SPECIALE • SPARTACO

Uno degli schiavi liberati, con il pileus libertatis

Il patronus, togato e con la verga (vindicta)

L’altro schiavo liberato, inginocchiato in segno di riconoscenza

100 a r c h e o


LA VERGA CHE AFFRANCA Replica di un rilievo in marmo che raffigura una probabile manumissio vindicta (o per vindictam), uno dei tre tipi di liberazione dello schiavo. Roma, Museo della Civiltà Romana (l’originale, databile alla metà del I sec. a.C., si conserva nel Musèe Royal de Mariemont, in Belgio). Secondo l’interpretazione corrente, il personaggio sulla destra sarebbe un patronus, che ha appena toccato con una verga (vindicta) i due uomini sulla sinistra e in basso, liberandoli dalla condizione servile. Questi ultimi starebbero esprimendo la propria gratitudine, e il fatto che abbiano per copricapo un pileus libertatis, simbolo di libertà, rafforzerebbe l’identificazione della scena.

prio schiavo: uno schiavo liberato, libertus o liberta, rimaneva legato all’ex padrone da diversi obblighi e prestazioni d’opera gratuite, che lo rendevano un collaboratore fedele e cointeressato all’economia del padrone. Inoltre il dominus che, a fronte di una somma di denaro, accordava la manumissio – che da Augusto in poi poteva essere concessa solo a schiavi oltre i trent’anni – finiva per recuperare la perdita di valore dello schiavo anziano, meno produttivo. C’erano infine ragioni d’interesse comune, che riguardavano l’intero corpo sociale. L’amministrazione statale richiedeva persone valide, in grado di sostenere una struttura di governo complessa: gli schiavi imperiali costituivano un grande serbatoio di professionalità e su di loro l’imperatore poteva contare piú che su liberi di classe senatoria o equestre. Di qui la loro frequente liberazione a coronamento di carriera. Una manumissio accordata con larghezza con giudizio finiva dunque per

SIMBOLO DI LIBERTÀ Replica di una bulla aurea globulare di epoca romana. Roma, Museo della Civiltà Romana. Plauto, Cicerone e altri autori assegnano a questo oggetto, usato come pendente di collana, una funzione sociale e pubblica, identificandolo come simbolo di nascita e discendenza libera.

premiare gli schiavi piú dotati, contribuendo a realizzare quella che oggi chiameremmo «mobilità sociale» e «meritocrazia». Con ricadute positive sulla prosperità e sul buon andamento dello Stato.

IN CAVA E IN MINIERA

La ricerca dei metalli dentro le viscere della terra era un mestiere riservato agli «ultimi»: criminali, schiavi, prigionieri di guerra o anche uomini liberi, di bassa condizione, costretti a lavorare sottoterra, a volte con l’intera famiglia, per sopravvivere. Storici e poeti della fine dell’età repubblicana e dei primi secoli dell’impero ci raccontano di minatori costretti a lavorare in gallerie e cunicoli alti non piú di 1 m, nei quali non era possibile stare in posizione eretta, illuminati da torce di legno resinoso o da lucerne appoggiate in nicchie ricavate nelle pareti della galleria. L’esaurirsi della loro fioca luce scandiva i turni di lavoro. Lo scavo delle pareti di roccia, in cui si insinuavano le vene di metallo, avveniva con pochi e semplici strumenti da taglio e il trasporto del materiale ricavato e dei detriti poteva avvenire a mano o a spalla, all’interno di gerle o di sacchi. Non di rado nelle gallerie e nei cunicoli si respiravano miasmi infernali. Alcuni minatori, forse quelli condannati ad metalla, lavoravano incatenati, come dimostrano le catene rinvenute nei giacimenti spagnoli. I bambini erano particolarmente adatti, per le loro piccole dimensioni, a portare verso l’imboccatura dei pozzi il frutto della fatica dei minatori, che poi veniva sollevato con funi e pulegge. Una vita alla quale era preferibile di gran lunga la morte, come afferma ancora Diodoro Siculo. Eppure, esistevano anche delle situazioni di tutela dei lavoratori in miniera, soprattutto se liberi abitanti del luogo in cui si trovava il giacimento, come testimoniano le eccezionali garanzie richieste al concessionario privato, che gestiva il giacimento, in favore dei lavoratori delle miniere lusitane di Vipasca (località nei pressi dell’odierna Aljustrel, in Portogallo). Non facile doveva essere anche la vita di chi era impiegato nelle cave. La Roma augustea stava diventando una città di marmo, degna del suo ruolo, anche grazie allo sfruttamento intensivo delle cave toscane da cui si estraeva la bianca pietra di Luni (oggi Carrara). Il laa r c h e o 101


SPECIALE • SPARTACO

CONTRO LE FUGHE Catena in ferro, da Huelva (Spagna). I sec. d.C. Madrid, Museo Archeologico Nazionale. Il manufatto era destinato agli schiavi addetti ad metalla e doveva impedirne la fuga, ma, al tempo stesso, per via della lunghezza e della flessibilità, permettere che potessero svolgere il proprio lavoro.

voro in cava, cosí come l’arrivo massiccio a Roma dei marmi semilavorati, significò l’impiego di manodopera servile che, anche in questo caso, era affiancata da liberi di bassa estrazione e condizione, oltre che da condannati ai lavori forzati. Schiavi o liberti erano però anche quelli che dirigevano le imprese estrattive, decidendo le sorti dei minatori e degli operai di cava: la linea di comando dell’attività estrattiva, infatti, soprattutto nell’alto impero, era composta da funzionari della burocrazia imperiale, che spesso erano schiavi o liberti: si trattava dei procuratores metallorum, personale pubblico con potere decisionale e un corrispondente livello di ricchezza, che certamente non condividevano la fatica della cava, quanto piuttosto l’agio dei propri padroni. Nelle cave sono

102 a r c h e o

In basso: gerla per il lavoro in miniera, da Rio Tinto (Huelva, Spagna). I sec. a.C.I sec. d.C. Madrid, Museo Archeologico Nazionale. Il contenitore si compone di un’ossatura in legno di quercia e da una parte interna in fibre di sparto, una graminacea molto diffusa in Spagna e assai resistente. L’interno è reso impermeabile da uno strato di pece: è perciò probabile che la gerla fosse utilizzata dai minatori per liberare le gallerie dall’acqua che spesso le invadeva e che costituiva un problema costante.

testimoniati invece i vilici, ugualmente schiavi, ai quali potevano essere affidate sia la gestione amministrativa, sia quella operativa, come la sorveglianza delle squadre di operai

GLI SCHIAVI E IL SACRO

Il culto dei Lares domestici, le forze protettrici della vita familiare, è documentato sin dalle fasi piú antiche della storia di Roma. Nel larario, lo spazio domestico a essi destinato, si offrivano sacrifici e ai Lari erano consacrati gli eventi salienti della vita familiare, come nascita, morte, matrimonio, partenze e ritorni. Secondo Dionigi di Alicarnasso, il re Servio Tullio, nato da una schiava e da un Lare, istituí la celebrazione dei Lares Compitales, divinità che tutelavano gli incroci di strade. Una volta l’anno, subito dopo i Saturnali decembrini, nei quartieri si festeggiavano i Compitalia, organizzati dagli schiavi lí residenti. Fu la marginalità sociale di queste feste, ritenute fonti di disordini e tumulti, a farle osteggiare nel I secolo a.C. Augusto scelse di recuperare i Compitalia, conformemente al suo progetto di pacificazione e controllo delle forze politiche contrapposte. Stabilí che le celebrazioni cadessero a maggio e ad agosto, mentre al culto dei Lares si affiancava quello dei Lares Augusti e del Genius Augusti: l’imperatore si inseriva sapientemente nel solco della tradizione religiosa piú antica, presentandosi come pater patriae a tutela di tutta la comunità, sua grande familia. La connotazione servile dei ministri di culto rimase: i sacerdoti del culto e i loro assistenti (vicomagistri e ministri) continuarono a essere liberti e schiavi.


A destra: affresco raffigurante una processione di falegnami, dalla cosiddetta «Bottega del Profumiere» di Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. In basso: testa di Artemide Efesia, da via Marmorata (Roma). Prima metà del II sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps.

A Servio Tullio la tradizione assegna anche la fondazione del tempio di Artemide sull’Aventino. L’evento veniva ricordato alle idi di Agosto, come scrive Festo, e quel giorno veniva celebrato come giorno «degli schiavi» («servorum dies festus»); addirittura il termine «servus», sarebbe da collegare al «cervus», l’animale simbolo della dea, agile e veloce, proprio come gli schiavi fuggitivi. Al tempio era, infatti, riconosciuto il particolare statuto di asylum, luogo di accoglienza per gli stranieri e anche per gli schiavi. Gli schiavi fuggiaschi avevano diritto a essere lí accolti e ascoltati. Il colle Aventino e il tempio di Diana restano legati all’elemento servile anche nei secoli successivi. Appiano racconta le tensioni tra Caio Gracco e il Senato: prima di ottemperare alla richiesta dei senatori, che lo chiamavano a difen-

dersi, Caio si sarebbe recato sull’Aventino offrendo agli schiavi la libertà, in cambio di sostegno. Ma il suo grido rimase inascoltato e inutile fu il suo tentativo di resistere asserragliato proprio nel tempio di Diana.

CRISTIANESIMO E SCHIAVITÚ

Il cristianesimo si diffonde in una società in cui la schiavitú riveste un’importanza economica fondamentale ed è parte dell’ordinamento sociale: dunque il nuovo credo – ancora minoritario per tutto il III secolo d.C. – non apportò, né forse poteva apportare, conseguenze significative per questa istituzione, che infatti non fu mai contestata e anzi venne accettata come necessità mondana o anche come conseguenza del peccato originale. Pertanto vescovi e diaconi ebbero i loro schiavi. Del resto la liberazione predicata dal Cristo è a r c h e o 103


SPECIALE • SPARTACO

quella dal peccato, mentre l’eguaglianza tra gli uomini è destinata a realizzarsi nel Regno di Dio, che il primo cristianesimo attendeva come prossimo. Di qui le sollecitazioni rivolte agli schiavi da Pietro Apostolo: «Servi, siate con ogni timore sottomessi ai vostri padroni, non solo ai buoni e giusti, ma anche agli ingiusti» (I Pietro 2, 18). E da Paolo di Tarso: «Ciascuno rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato. Sei stato chiamato da schiavo? Non ti preoccupare; anche se puoi diventare libero, approfitta piuttosto della tua condizione!» (Corinzi I,7,20-24). Per leggere nei testi cristiani una critica radicale della schiavitú, si deve attendere la seconda metà del IV secolo, quando il cristianesimo diviene religione di stato (380 d.C.) e Gregorio di Nissa si chiede nelle sue Omelie sull’Ecclesiaste quale possa essere il prezzo di un uomo o di una donna. Ma neanche in questo caso siamo di fronte a un’istanza abolizionista, quanto piuttosto alla condanna del sentimento di orgoglio che la proprietà di un essere umano fa nascere nel suo padrone. I pensatori cristiani non calarono mai il principio di eguaglianza degli uomini dal piano trascendente a quello sociale, seguendo l’esempio degli stoici, che l’avevano lasciato in seno al diritto naturale, lontano dall’applicazione del diritto civile. Questo passaggio dall’eguaglianza di fronte a Dio a quella di fronte agli uomini non avvenne anche perché la Chiesa del IV secolo contava ormai tra i suoi fedeli non solo molti schiavi, ma anche molti dei loro padroni. Il compromesso cristiano con una società ancora strutturalmente patriarcale e schiavista si fa palese proprio quando la Chiesa primitiva cerca di regolamentare l’ammissione di schiavi nella comunità dei fedeli: gli aspiranti di status servile debbono essere ammessi alla catechesi solo con il consenso espresso dei loro padroni (Traditio Apost. 15, 3-5) e comunque, una volta ammessi, non potranno accedere al sacerdozio se prima non vengono liberati (Costituzioni Apost. 8.47), né potranno abbracciare la vita monastica contro la volontà del padrone (Concilio di Calcedonia, 451 d.C.). La cristianizzazione dell’impero lasciò invariati i destini individuali: da madri schiave continuarono a nascere bambini schiavi; il commercio degli esseri umani rimase fiorente in tutto il Medi104 a r c h e o

A destra: Atleta trionfante, olio su tela di Francesco Hayez. 1813 circa. Roma, Accademia Nazionale di San Luca. In basso: ritratto di auriga, rinvenuto a Roma, nel 1889, durante i lavori per la costruzione della Stazione di Trastevere. Inizi del II sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo.

terraneo; i neonati esposti poterono ancora essere asserviti da chi li allevava; il padrone poté continuare a sfruttare sessualmente i suoi schiavi, mentre la manumissio fu trasferita in ecclesia e praticata dai sacerdoti. Fatto singolare: gli stessi individui che il diritto romano colpiva di infamia – aurighi, gladiatori, prostitute e lenoni, eunuchi, attori e cantanti – vennero tenuti lontani dal battesimo, a meno che non rinunciassero alla loro professione (Traditio Apost. 16, 1-16). DOVE E QUANDO «Spartaco. Schiavi e padroni a Roma» Roma, Museo dell’Ara Pacis fino al 17 settembre Orario tutti i giorni, 9,30-19,30 Info tel. 060608 (attivo tutti i giorni, 9,00-19,00); www.arapacis.it, www.museiincomuneroma.it; Twitter: @museiincomune Catalogo De Luca Editore Ideazione Claudio Parisi Presicce e Orietta Rossini; curatela Claudio Parisi Presicce, Orietta Rossini e Lucia Spagnuolo; allestimento Roberto Andò; luci e scenografia Giovanni Carluccio; video Luca Scarzella; allestimento sonoro Hubert Westkemper



QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli

…COSTRUIVA MURI DI DIVISIONE DAI BARBARI LA DIFESA DEI TERRITORI DELL’IMPERO SUGGERÍ, IN PIÚ DI UNA CIRCOSTANZA, L’INNALZAMENTO DI BARRIERE, SPESSO PODEROSE. ANCHE SE, CON ALTRETTANTA FREQUENZA, PARTICOLARI CONDIZIONI GEOGRAFICHE O SOCIO-POLITICHE INDUSSERO AD ADOTTARE SISTEMI DI PROTEZIONE ALTERNATIVI

«M

urum duxit qui barbaros romanosque divideret»: «Costruí un muro per dividere i barbari dai romani». Cosí la Historia Augusta scrive dell’imperatore Adriano. E, in tal modo, ci indica con chiarezza, nella separazione del mondo della civiltà dal mondo «altro», lo scopo principale dell’iniziativa. La citazione riguarda, naturalmente, quello che è meglio noto come «Vallo di Adriano», una

espressione che utilizza il termine vallum (dall’originario significato di «palizzata» o «steccato»), con il quale si privilegia l’aspetto difensivo del «muro». O, meglio – e nel caso specifico – un tipo di fortificazione di frontiera formato da una cinta muraria vera e propria, costeggiata internamente da una strada e protetta verso l’esterno da un aggere o terrapieno e da un fossato: fermo restando il

A destra: i resti del castellum miliare 39 del Vallo di Adriano, nei pressi della cittadina di Once Brewed, nel Northumberland, Inghilterra. In basso: ricostruzione grafica ipotetica dell’aspetto di uno dei castella miliaria presidiati da soldati, distribuiti lungo il Vallo di Adriano.

significato di limite giuridico dato al «muro» varcando il quale si diventava automaticamente «nemici». Il Vallum Hadriani fu realizzato al confine tra la Britannia romana e i territori dei Caledoni che formano oggi la Scozia, tra il 122 e il 128 d.C. Lungo 80 miglia, pari a circa 120 km, andava dal Mare d’Irlanda al Mare del Nord e cioè dalla odierna località di Bowness-on-Solvay, a ovest, a quella di Wallsend-on-Tyne, a est. Era formato da un muro di pietre spesso 3 m e alto 5, preceduto, a 6 m di distanza, verso

106 a r c h e o


l’esterno, da un fossato a forma di V, largo 9 m e profondo 4,5, con una sponda di protezione fatta di torba e zolle erbose alta 3,5 m circa. Appoggiate al muro, a intervalli di 500 metri, si susseguivano torri di vedetta, quadrate, di 6 m di lato e ogni 1500 metri, «fortini» con bastioni. Un altro fossato, largo 6 m e profondo 3, era scavato lungo il muro dalla parte interna, dove correva pure una strada di collegamento tra i diversi fortini. Quello di Adriano è, forse, il piú noto (e meglio conosciuto e conservato) tra i «muri» dell’impero

romano, ma non l’unico (insieme a quello, peraltro di breve durata, realizzato nel 142, un centinaio di chilometri piú a nord e per poco meno di 60 km, tra gli estuari dei fiumi Forth, a est, e Clyde, a ovest, dal successore di Adriano, Antonino Pio).

AL TEMPO DI ROMOLO Altri erano stati già costruiti; a partire da un vero e proprio precedente storico che ci riporta a Cesare. A meno di non voler risalire indietro nel tempo fino al mitico (ma non troppo) Muro di Romolo,

che avrebbe separato tangibilmente la comunità palatina dagli insediamenti dei colli finitimi. Quanto a Cesare, egli stesso ci riferisce (Bell. Gall. I, 8) d’aver fatto costruire dai suoi soldati, all’inizio delle guerre galliche, nel 58 a.C., un murum per separare tra loro le tribú celtiche degli Elvezi e dei Sequani. Esso andava dal Lago Lemano (o di Ginevra) al Monte Giura, ed era lungo 19 miglia (28 km circa), alto 16 piedi (4,6 m), dotato di castella o piccoli forti di presidio, e rafforzato da un fossato esterno. Tuttavia, quello di Cesare era stato

a r c h e o 107


un muro provvisorio, legato a una particolare circostanza. Diversi furono quelli innalzati allorché, abbandonata da Roma, alla fine del I secolo d.C., l’idea dell’espansione ininterrotta e del dominio universale, con la rinuncia a ulteriori conquiste e l’intento di conservare e stabilizzare i risultati acquisiti, fu deciso di fissare un «limite» ai territori del Popolo Romano. Limite inteso, materialmente, piuttosto che come una «linea», come una «fascia» di terreno, piú o meno larga, percorsa da una strada di valore strategico. Da qui il vocabolo limes, che, in origine, indicava un sentiero o una

108 a r c h e o

via di comunicazione tra proprietà terriere vicine e poi anche un confine tra appezzamenti diversi, assunto per designare il confine dell’impero nel duplice significato di linea di divisione e separazione e di frontiera fortificata contro la pressione e le infiltrazioni dei popoli barbari.

UN IMPERO STERMINATO All’apogeo dell’impero, alla morte di Traiano, nel 117 d.C., l’impero stesso era circondato e «delimitato» da 7000 chilometri di limes. Come la celeberrima Grande Muraglia cinese, a differenza della quale la linea difensiva romana non

fu né continua, né omogenea. Regione per regione, il limes – il cui vocabolo era generalmente accompagnato da un aggettivo (o un complemento di specificazione) che riguardava la situazione geografica – era organizzato con un diverso sistema di difesa: quello che gli studiosi chiamano «puntuale», caratterizzato da strutture isolate e «interne» (come torri, fortini, presidi) e quello che gli studiosi chiamano «lineare», costituito (quando non ci fosse stato da utilizzare un ostacolo naturale, come un grande fiume), da un muro continuo. Un esempio classico di limes con difesa lineare fu quello «germanico» o, meglio, «germano-retico» realizzato in piú fasi (a partire dal tempo di Domiziano) per chiudere e sbarrare alla base il saliente formato dall’alto corso del Reno e del Danubio divergenti dalle rispettive sorgenti: quello noto con il nome di Agri Decumates. Il tratto propriamente germanico iniziava poco a nord dell’antica Confluentes (l’odierna Coblenza) e proseguiva verso sud, come una barriera continua, per 382 km, fino a Lauriacum (odierna Lorch, in Austria). Il tratto retico ne era il prolungamento, per ulteriori 166 km e terminava nei pressi di Castra Regina (odierna Regensburg). Il muro, alto tra i 2,5 e i 3 m e spesso 1 m, era formato di pietre e argilla, sormontato da una palizzata e intercalato da numerose torri di legno e da castella o fortini di presidio (alcuni con funzioni di avamposto). All’esterno e all’interno era fiancheggiato da un fossato e, all’interno, anche da una via limitanea. È appena il caso di osservare come la presenza dei due grandi fiumi lungo la linea di frontiera, sia a nord che a sud, rendesse del tutto inutile la realizzazione di una difesa lineare propriamente renana e danubiana.


Nella pagina accanto: ricostruzione di una torre di guardia del limes germano-retico presso TaunussteinNeuhof, a nord di Wiesbaden, Hessen, Germania. A sinistra: ricostruzione di un momento di vita quotidiana nei pressi di un forte dislocato lungo il limes.

Esempi assai piú modesti di muri furono, nei Balcani, quelli del Limes dacicus, nella zona di Porolissum, nel versante nord-orientale della grande regione, e quello all’estremità settentrionale della Moesia inferior (l’odierna Dobrugia), a sud del delta del Danubio, tra il corso del fiume e il Mar Nero, all’altezza di Tomi, l’odierna Costanza. Quanto alle province orientali, ossia ai territori compresi tra il Mar Nero e il Mar Rosso (dall’Anatolia alla Siria alla Palestina), le frontiere precarie e instabili e il loro continuo variare e, non di rado, la presenza di «ostacoli» naturali (quali, per esempio, l’Eufrate e il deserto d’Arabia), resero impossibile e persino inutile un qualsiasi sistema di «separazione» stabile e di difesa lineare. Si ricorse, allora, piuttosto, e variamente, al sistema aperto e alla difesa «puntuale» basata sui presidi militari, i forti, gli acquartieramenti delle legioni e delle milizie ausiliarie.

Del tutto particolare fu la situazione nelle province africane, dove, a un limes sostanzialmente aperto e articolato con un sistema difensivo imperniato su fortini e castelli, torri di guardia, fattorie fortificate, s’accompagnò in taluni casi una serie di clausurae, formate dal consueto accoppiamento fossato e muro, che, con le banchine e il terreno di rispetto, raggiungeva una larghezza tra i 10/15 m e i 30/40.

LA «FOSSA» DI SCIPIONE Ma, in proposito, non si può non ricordare come proprio in Africa le fonti storiche ci documentino il primo esempio di un «fossato» utilizzato quale elemento di «separazione» e quindi di difesa: la cosiddetta Fossa regia fatta scavare da Scipione Emiliano subito dopo la conquista di Cartagine, nel 146 a.C., per separare il territorio romano da quello del regno di Numidia. Il fossato (che comportava automaticamente, se non un muro almeno un argine di

terra e di pietre, e fu probabilmente la ripresa e il completamento di un’opera analoga già iniziata col medesimo scopo dalla stessa Cartagine) andava da Thabraca, sulla costa settentrionale, a Thenae, su quella orientale. Per concludere resta da fare una considerazione di carattere generale alla quale si deve almeno accennare. Mentre nei lunghi periodi pace e di tranquillità – come quello di quasi due secoli trascorso sul fronte del Reno (dal 70 al 250 d.C.) – i «muri» finirono col diventare, paradossalmente, luoghi di incontro, di attività economiche e di scambi commerciali e perfino di «romanizzazione», la loro funzione di separazione e di divisione venne meno allorché, soprattutto nelle regioni renane e danubiane, si cominciò a consentire, al di qua di essi, nei territori loro a ridosso, l’insediamento stabile di intere tribú barbariche. E fu quella anche la prima tappa verso la fine dell’impero.

a r c h e o 109


L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

FIGLI DELL’EUFRATE ULTIMO SEGNO DELLO ZODIACO, I PESCI, AL PARI DEI PRECEDENTI, RICORRONO ANCHE SULLE EMISSIONI MONETALI. CON SOLUZIONI ICONOGRAFICHE CHE SI RIFANNO ALLE DIVERSE IPOTESI SULLA LORO GENESI, SEMPRE, PERÒ, ASSOCIATA ALLA DEA VENERE E ALL’ANTICA SIRIA

N

elle raffigurazioni medievali dell’uomo astrale, dominato nel corpo e nello spirito dagli influssi dei pianeti e del segno zodiacale sotto i quali è nato, alla testa è assegnato l’Ariete, e, al suo opposto, ai piedi, i Pesci, che, quale segno doppio ma distinto, ben si adatta alla funzione di sorreggere il corpo, ricordando nel contempo la vitale importanza dell’elemento liquido nell’organismo umano, composto al sessantacinque per cento di acqua rispetto al peso complessivo. Tutti i segni zodiacali derivano da un fenomeno noto come catasterismo (dal greco katasterismos, composto di kata-, «in giú», e aster, «astro», e dunque «collocare fra gli astri»), ovvero la trasformazione di un uomo, eroe, animale o anche di un oggetto in un astro o una costellazione come premio concesso dalle divinità per aver compiuto un’azione nobile.

UN UOVO ENORME Anche i Pesci dello Zodiaco trovano la loro genesi nel piú antico mondo mitico, narrata in diverse versioni. Lo scrittore del I secolo d.C. Igino, detto l’Astronomo per i suoi studi, riporta una versione meno nota della nascita di Venere, diversa rispetto a quella celeberrima di Esiodo, il quale, nella Teogonia (188-206), la vuole creata, bellissima, dalla spuma delle acque fecondate dall’evirazione di Urano. Nella Fabula (CXCVII) dedicata ad

110 a r c h e o

Afrodite, infatti, Igino cosí racconta: «Si dice che nel fiume Eufrate cadde dal cielo un uovo di straordinaria grandezza e i pesci lo portarono sulle sponde, dove delle colombe si posarono sull’uovo che,

scaldato, si schiuse e ne uscí Venere, in seguito chiamata dea Syria. A lei, poiché superò le altre divinità in giustizia e rettitudine, fu concesso da Giove che i pesci fossero trasformati in astri e per


questo motivo i Siri considerano i pesci e le colombe anch’essi come divinità e non se ne nutrono». Risulta in questo caso interessante notare che gli attributi della dea non sono come di consueto legati alla sua avvenenza e sensualità ma ad alte caratteristiche morali. E in un’altra sua opera, gli Astronomica (II.30 pesci), Igino fornisce una diversa versione sull’origine del segno dei Pesci, protagonista sempre Afrodite-Venere: «Diogene Eritreo dice che una volta Venere e il figlio Cupido vennero in Siria sul fiume Eufrate. Qui apparve il gigante Tifone e la dea con il figlio per sfuggirli si gettarono nel fiume tramutandosi in pesci. Per questo i Siriani, limitrofi a questa zona, non mangiano piú pesce ne lí catturano, temendo altrimenti di perdere il favore degli dèi». Infine, Ovidio, nei Fasti (II, 15 febbraio), riunisce le due tradizioni riportate da Igino: quando Venere (qui chiamata Dione) con Cupido tra le braccia cercò di sfuggire al terribile Tifone gettandosi nel fiume, fu prontamente soccorsa da due pesci fratelli gemelli, che la sorressero e che, per premio, furono trasformati in una costellazione. Anche in questa

versione la narrazione si conclude con il divieto, per le popolazioni siriane, di nutrirsi di pesce, probabilmente una consuetudine alimentare di quelle regioni alla quale viene cosí attribuita una motivazione mitico-religiosa. Nel cristianesimo il pesce rivestí poi un’importanza enorme, basti pensare alla sua elevazione a simbolo e all’acrostico Ichtys (pesce), sciolto in Iesous CHristos Theou Yios Soter, ovvero «Gesú Cristo figlio di Dio Salvatore».

NUOTARE NEL COSMO Nelle raffigurazioni antiche il segno è composto da due pesci, che, nelle illustrazioni piú dettagliate, somigliano a carpe barbute, di profilo e uno sovrastante l’altro, di regola invertiti, in modo che la testa dell’uno si ritrova alla coda dell’altro. Può inoltre comparire un nastro che unisce le estremità dei due pesci, che paiono nuotare nel cosmo a sottolineare il loro stretto legame e dando in tal modo una rappresentazione grafica completa della costellazione celeste. Ultimo dello Zodiaco, il segno dei Pesci (18 febbraio-20 marzo) è posto sotto la domiciliazione di Nettuno – facile coglierne il

In alto: dracma in bronzo di Antonino Pio. Zecca di Alessandria, 144-145 d.C. Al dritto, il busto dell’imperatore; al rovescio, due pesci opposti e sovrastanti, sormontati dal busto di Giove e da una stella. Nella pagina accanto: restituzione grafica dell’intera serie con i segni zodiacali battuta ad Alessandria d’Egitto per volere di Antonino Pio, in occasione dell’anno sotiaco. collegamento con l’acqua – e di Giove. Ed è la testa di Giove che si ritrova nella serie monetale alessandrina dedicata allo Zodiaco battuta da Antonino Pio. Al dritto è riservato come di regola il busto imperiale, con leggenda in greco, e al rovescio compaiono due pesci sovrastanti e contrapposti, sormontati dal busto di Giove con corona d’alloro e lungo scettro sulla spalla e a lato la stella a otto punte. La datazione è indicata, secondo l’usanza alessandrina, dai segni L H: il primo corrisponde, nella scrittura demotica egizia, all’abbreviazione del termine «anno» e il secondo al numerale 8, il tutto riferito all’anno di regno dell’imperatore in carica, e quindi all’anno ottavo del regno di Antonino Pio.

a r c h e o 111


I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Fabio Isman

L’ITALIA DELL’ARTE VENDUTA Collezioni disperse, capolavori fuggiti Il Mulino, Bologna, 274 pp., 31 figg. col. 16,00 euro ISBN 978-88-15-27041-2 www.mulino.it

Fin dalle prime pagine, l’ultima fatica di Fabio Isman – autore che i lettori di «Archeo» hanno potuto apprezzare piú volte in questi anni – suscita in prima battuta stupore e incredulità, ai quali si sostituiscono progressivamente l’amarezza e la rabbia. Sulle prime, infatti, ci si vorrebbe convincere di avere a che fare con una vicenda romanzata – ma l’autore, che dell’argomento è da tempo uno dei piú autorevoli conoscitori, offre dati, nomi e cifre troppo puntuali per essere inventati – e poi, quando si giunge all’epilogo, è davvero

112 a r c h e o

difficile rassegnarsi all’idea che un simile fenomeno si sia prodotto in tale misura e che ancora oggi il saccheggio possa continuare quasi indisturbato. Un crimine, quest’ultimo, due volte odioso, poiché, oltre alle implicazioni economiche – come Isman ricorda, l’Agenzia dell’ONU a Vienna ha calcolato che il traffico internazionale delle opere d’arte sia il quarto al mondo per giro d’affari, dopo armi, droga e falsi – esso arreca un danno culturale che, anche nel caso dei beni trafugati che vengono recuperati e riconsegnati ai loro legittimi proprietari, è irreversibile: soprattutto nel caso dei materiali archeologici, per esempio, un reperto strappato al suo contesto perde per sempre la sua identità e, infatti, non si contano i casi di oggetti che, pur sottratti al mercato clandestino, vanno a ingrossare le fila dei beni di «provenienza ignota». Dopo la breve Premessa, che già da sola offre un’idea ben chiara di quanto la questione abbia proporzioni purtroppo sorprendenti, l’autore propone una carrellata di casi emblematici, grazie ai quali allestisce il suo «museo della cattiva coscienza». Come si può constatare, se è vero che razzie, saccheggi e dispersioni furono frequenti anche nelle epoche antiche, è soprattutto dal

Rinascimento in poi che l’Italia conquista il poco lusinghiero primato in materia. E poiché sono le cifre, nella loro aridità, il miglior metro di paragone, basti pensare, per esempio, che Gian Pietro Bellori – scrittore e storico dell’arte del Seicento – aveva censito a Roma ben 150 raccolte di antichità (oggi se ne contano ben poche) o che, al tempo di Johann Joachim Winckelmann, si calcolava che, nella stessa Roma, vi fossero 75 000 statue antiche (attualmente sono circa 7000). Le ragioni che hanno portato a dilapidare un patrimonio che appare perfino riduttivo definire sterminato sono state le piú varie e comunque accomunate dall’intenzione di trasformare dipinti, statue o vasi antichi in altrettante fonti di guadagno, facendo leva sul desiderio di chi, appunto pagando, quei beni voleva possedere. Una pulsione, quest’ultima, che tuttora alimenta la piaga degli scavi clandestini, ai quali è dedicato un ampio capitolo del volume, nel quale Fabio Isman non manca di sottolineare come, a oggi, la legislazione in materia sia sostanzialmente piuttosto mite e solo di recente siano state avanzate proposte per l’irrigidimento delle pene. Un provvedimento da non rimandare oltre, se si vuole evitare di chiudere

le stalle quando di buoi non ne sarà rimasto neanche uno. Stefano Mammini

DALL’ESTERO Robert G. Bednarik

MYTHS ABOUT ROCK ART Archaeopress, Oxford, 218 pp., ill. col. e b/n 30,00 GBP ISBN 978-1-78491-474-5 www.archaeopress.com

Che l’arte preistorica, rupestre, ma non solo, sia terreno di speculazioni anche «disinvolte» è un dato ormai acquisito. Cosí, muovendo da questa consapevolezza, Robert Bednarik ha confezionato un saggio da leggere come una sorta di prontuario, grazie al quale innalzare la soglia della diffidenza. Per una sorta di legge del contrappasso, è fin troppo ovvio osservare che alle argomentazioni dello studioso si potrebbe opporre uno scetticismo eguale e contrario: non resta che leggere e scegliere da che parte stare. S. M.



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.