Archeo n. 414, Agosto 2019

Page 1

DI AL RE LE O

REGGIO EMILIA

TUTANKHAMON A PARIGI

IL TESORO DI

FORTE DI BARD

TUTANKHAMON

POPOLI DELLA BIBBIA

GLI ARAMEI E LA LINGUA DI GESÚ

POPOLI DELLA BIBBIA/8 ARAMEI

SARDEGNA

UN MUSEO PER IL MITO

VALLE D’AOSTA

IL FORTE DI BARD

SPECIALE AQUILEIA FELIX

SPECIALE

AQUILEIA FELIX

IL RACCONTO DI UN’ANTICA CITTÀ EUROPEA www.archeo.it

IN EDICOLA L’11 AGOSTO 2019

o. i t

GG R IO IGI EM NI ww w. ILI a rc A he

2019

Mens. Anno XXXV n. 414 agosto 2019 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 414 AGOSTO

PARIGI

€ 5,90



EDITORIALE

SULLE COLLINE ROSSE Impossibile sottrarsi alla suggestione di quella vista che sembra un miraggio: un altopiano frastagliato, una lunga falesia dalla cima piatta e avvolta nella densa foschia dal sapore salino, sospesa sulle immobili acque che segnano la piú profonda depressione della Terra. Color sabbia piú a nord e, se lo sguardo vira a sud, vieppiú rossicce, i monti di Moab e Edom accompagnano sul lato orientale le rive del Mar Morto, lo Yam ha-Melah (il «mare di sale») come lo chiamano gli Ebrei. Se osservate dalla costa occidentale, dall’odierno Israele, quelle montagne (oggi in Giordania) appaiono come una terra «altra» ma vicina, opposta eppure familiare. Cosí come sono parte di una grande famiglia i popoli che da quelle terre hanno preso il nome, e che, come vedremo, di quell’istituzione sociale (la famiglia, intendiamo) hanno condiviso drammi e inganni: i Moabiti, per esempio, discendenti di Moab «nato dal padre» (ab); sí, perché Moab è figlio di un incesto, quello di Lot – nipote di Abramo – con la figlia primogenita (Genesi 19,37). O gli Edomiti, abitanti della rossa terra di Edom (adom, in ebraico, significa appunto «rosso») e discendenti del villoso e rossiccio Esaú, gemello del piú fortunato Giacobbe, il preferito di mamma Rebecca, pronta a ogni tipo di illecito pur di favorire il suo… cocco (di padre edomita era – per inciso – Erode il Grande, re di Giudea e protagonista assoluto della storia di Terra Santa a cavallo dell’era volgare). Piú a nord, poi, erano stanziati gli Ammoniti (nell’area dove oggi sorge Amman, capitale del regno di Giordania), anch’essi discendenti da un incesto, compiutosi tra Lot e, questa volta, la figlia minore. Di tutto ciò, e di molto altro, ci parla lo storico del Levante antico, Fabio Porzia, nella nuova puntata della serie dedicata ai popoli della Bibbia. La terra in cui è ambientato il suo racconto è quella che ha incantato schiere di vedutisti e fotografi, e a ragione: accoglie paesaggi tra i piú grandiosi del pianeta. Ma attenzione, il placido e avvolgente silenzio che emana da quelle desertiche colline non inganni: nascondono vicende di donne e uomini, di guerre e alleanze, di interconnessioni «simili a un gomitolo inestricabile» che hanno scritto la storia del mondo… Andreas M. Steiner I monti di Moab, olio su tela di John Singer Sargent. 1905. Londra, Tate Britain.


SOMMARIO EDITORIALE

Sulle colline rosse

3

Sichuan, dove 4000 anni fa fiorí la grande cultura Shu 16

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

MOSTRE

Tutto l’oro di Tut

50

di Daniela Fuganti

6

SCAVI La missione italo-statunitense che opera a Selinunte ha appena chiuso l’annuale campagna con risultati di eccezionale importanza per la storia della città 6 PASSEGGIATE NEL PArCo Negli Orti Farnesiani tornano a zampillare gli scherzi d’acqua e fiorisce la splendida Rosa Augusta Palatina 12

A TUTTO CAMPO La storia di Costantinopoli rivive nella mostra curata dagli studenti del corso di archeologia bizantina dell’Università di Siena 18 MOSTRE Il Museo Archeologico Nazionale di Napoli si «veste» all’orientale, ripercorrendo i fasti dell’impero assiro 28

SCAVI

50 POPOLI DELLA BIBBIA/8 Gli Aramei

Reggio Emilia

Una città si racconta 36

«Mio padre era un Arameo errante...»

di Marco Podini

di Fabio Porzia

36

62

62

ALL’OMBRA DEL VULCANO La scoperta del villaggio protostorico di Poggiomarino raccontata da una mostra all’Antiquarium di Boscoreale 14 MOSTRE I Mercati di Traiano accolgono i magnifici reperti della civiltà del

In copertina particolare di una delle statue deposte nella tomba di Tutankhamon con la funzione di vegliare sull’eterno riposo del sovrano. 1328-1318 a.C. Cairo, Museo Egizio.

Presidente

Federico Curti Anno XXXV, n. 414 - agosto 2019 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Comitato Scientifico Internazionale

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Italiano

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Daniela Fuganti è giornalista. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Francesca Ghedini è professore emerito di archeologia classica dell’Università di Padova. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Clemente Marconi è professore ordinario di archeologia classica nel Dipartimento di Beni Culturali e Ambientali dell’Università Statale di Milano e di Greek Art and Archaeology all’Institute of Fine Arts della New York University. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Georg Plattner è direttore delle collezioni di antichità del Kunsthistorisches Museum di Vienna. Marco Podini è funzionario archeologo della Soprintendenza ABAP per le province di Parma e Piacenza. Fabio Porzia è post-dottorando presso l’Università di Tolosa Jean Jaurès (Francia) come storico del Levante antico. Gabriella Strano è architetto paesaggista del Parco


MUSEI

Forte di Bard

Provate a prenderlo! 78 di Stefano Mammini

90 SPECIALE

Ritorno ad Aquileia

78 Rubriche IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO

I rostri delle Egadi di Daniele Manacorda

90

testi di Georg Plattner, Francesca Ghedini, Monika Verzár e Giuseppe M. Della Fina

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Il destino nel nome 112 108

di Francesca Ceci

LIBRI

archeologico del Colosseo. Monika Verzár è stata professore ordinario di archeologia greca e romana all’Università di Trieste. Enrico Zanini è professore ordinario di metodologia della ricerca archeologica all’Università di Siena.

Illustrazioni e immagini: Cortesia Agence Claudine Colin Communication: Vincent Nageotte: copertina (e p. 55) e pp. 50, 54, 56 (alto), 58-60 – Doc. red.: pp. 3, 52/53, 82 (alto), 71, 73, 76-77, 80/81 (basso), 108-110 – Cortesia Missione UniMi–NYU a Selinunte: Andrew Ward: pp. 6 (alto), 7 (alto), 8 (basso); Filippo Pisciotta, David Scahill e Massimo Limoncelli: rilievo a p. 6 (basso); Massimo Limoncelli: modello digitale a p. 7 (basso); Raffaele Franco: p. 8 (alto) – Cortesia Parco archeologico del Colosseo: pp. 12-13 – Cortesia Parco archeologico di Pompei: pp. 14-15 – Cortesia Ufficio stampa Zètema Progetto Cultura: pp. 16-17, 20-21 – Cortesia degli autori: pp. 18-19, 22-27, 112-113 – Cortesia Ufficio stampa Museo Archeologico Nazionale di Napoli: pp. 28 (alto), 30; The Trustees of the British Museum: p. 28 (basso) – Shutterstock: pp. 36/37 – Cortesia Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara: pp. 37 (alto), 40-41, 43, 44-45, 46/47 (basso), 48; Paolo Storchi: fotoelaborazione alle pp. 42/43; Eleonora Delpozzo: modelli 3D alle pp. 46-47 – Cortesia Archivio Musei Civici di Reggio Emilia: pp. 38-39 – Laboratoriorosso, Viterbo: pp. 51, 52 (alto), 56 (basso), 57 – Mondadori Portfolio: Index/ Heritage Images: pp. 62/63; AKG Images: pp. 64 (alto), 66, 68, 75; Werner Forman Archive/ British Museum, Londra/Heritage Images: p. 65; CM Dixon/Heritage Images: pp. 66/67; Erich Lessing/Album: pp. 69, 74; Album/Metropolitan Museum of Art, New York: p. 72 – Cortesia Associazione Forte di Bard: pp. 80 (basso), 82 (basso), 84-87; Francesca Alti: pp. 78/79, 80 (basso) – Stefano Mammini: pp. 83, 88 (alto) – Cortesia Fondazione Aquileia: pp. 91, 92 (basso), 94, 96, 99; Gianluca Baronchelli: pp. 90, 92 (alto), 93, 94 (alto), 98 – Cortesia Museo Archeologico Nazionale di Aquileia: pp. 100-102, 104; Slowphoto.studio: pp. 103, 106 (alto); Alessandra Chemollo: pp. 105, 106 (centro) – Cippigraphix: cartine alle pp. 53, 80, 64, 95. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

114

112

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano


n otiz iari o SCOPERTE Sicilia

C’ERANO UNA VOLTA UN CERVO, UN TORO...

S

i è appena conclusa, con risultati della massima importanza, la tredicesima campagna di scavo della missione sull’acropoli di Selinunte dell’Università Statale di Milano e della New York University, in convenzione con il Parco Archeologico di Selinunte. Una missione dal forte carattere interdisciplinare e internazionale, che ha coinvolto quest’anno piú di cinquanta componenti, tra studenti ed esperti, da otto diversi Paesi. Lo scavo si è concentrato sull’approfondimento delle due trincee aperte nel 2018 lungo il lato sud del Tempio R (Saggio S) e tra il lato ovest del Tempio R e il lato sud del Tempio C (Saggio R). Le indagini hanno gettato nuova luce sulle fasi piú antiche di occupazione greca del grande santuario urbano di

In alto: Selinunte, Saggio S, altare cavo per libagioni davanti all’angolo sud-est del Tempio R. Da qui provengono le corna di un esemplare adulto di toro (Bos taurus) che Tempio C

Tempio R

6 archeo

costituiscono la prima prova archeologica dell’offerta di questi animali come sacrificio. In basso: l’area del Tempio R con indicazione dei saggi di scavo.


Selinunte e sulle attività associate alla costruzione prima del Tempio R e poi del Tempio C. Nel primo caso, particolarmente notevole è stato il rinvenimento, davanti all’angolo sud-est del Tempio R, della deposizione votiva di un palco di cervo rosso (Cervus Elaphus) appartenuto a un animale adulto e perfettamente conservato. Si tratta, con buona probabilità, della dedica di un cacciatore alla dea Artemide, per la quale, assieme a Demetra, vi sono numerosi indizi di culto in questo settore del santuario. Il livello nel quale il palco è stato rinvenuto pertiene alla In alto: Selinunte, Saggio S. Il palco di cervo rosso (Cervus elaphus) al momento della scoperta. In basso: modello digitale degli edifici sacri individuati nell’area del Tempio R.

prima fase di uso dell’area per culto all’aperto, durante la prima generazione di vita di Selinunte (630-610 a.C. circa). Il rinvenimento conferma sia la presenza di foreste in questa parte della Sicilia nel VII secolo a.C., sia l’intenso rapporto con l’entroterra della colonia greca subito dopo la sua fondazione. Per la fase immediatamente successiva, è stata portata alla luce la fronte ovest di una struttura rettilinea con fondazione in schegge di calcare ed elevato in mattoni

archeo 7


n otiz iario

crudi, la cui fronte est era stata identificata nel 2010. Grazie alla scoperta di quest’anno è possibile stabilire che l’edificio aveva una lunghezza di 4,5 m, ed era posizionato subito a est del piú recente Tempio R, con lo stesso orientamento est-ovest. Databile alla fine del VII secolo a.C., la struttura è stata rasata con cura in occasione della costruzione del Tempio R nel primo quarto del VI secolo a.C. Sulla base della collocazione e dei materiali associati, l’edificio, tra i piú antichi di fase greca finora identificati a Selinunte, aveva con ogni probabilità una funzione sacrale. Un secondo edificio analogo era stato scavato negli anni passati piú a ovest, in

corrispondenza dell’adyton del Tempio R. Per le fasi di costruzione e uso del Tempio R, significativa è stata l’individuazione di due buche di palo funzionali al sollevamento dei blocchi della cella dell’edificio, e di un altare cavo per libagioni perfettamente conservato, posizionato presso l’angolo sud-est. Una scoperta della massima importanza da questo contesto è stata la deposizione votiva di due corna di un toro (Bos Taurus) adulto, di grandi dimensioni, molto probabilmente appartenenti allo stesso animale. La monetazione di età classica di Selinunte e i resti di statue di bovini in marmo e terracotta dal grande santuario In alto, a sinistra: Selinunte, Saggio R. Statuetta di falcone in faïence. In alto, a destra: Selinunte, Saggio R. Elemento in oro proveniente dal deposito votivo associato al cantiere del Tempio C, forse interpretabile come atto di propiziazione da parte dei costruttori dell’edificio sacro. A sinistra: Selinunte, Saggio S. Le corna di toro al momento della scoperta.

8 archeo

urbano fanno riferimento all’offerta di animali di questa specie a Selinunte, ma questa è la prima testimonianza propriamente archeologica per il sacrificio di tori in quest’area sacra. Infine, il saggio tra Tempio R e Tempio C ha permesso di portare interamente alla luce le fondazioni di quest’ultimo edificio, rivelando come la pendenza attuale di questo settore dell’acropoli sia stata realizzata artificialmente in occasione della costruzione di questo grande tempio. I livelli associati alla realizzazione del Tempio C sono perfettamente conservati, e offrono una documentazione preziosa per definirne il processo di costruzione. A ciò si aggiunga il rinvenimento di un deposito votivo eccezionale, associato al cantiere del Tempio C, comprendente materiali in oro, argento e avorio, nonché una statuetta di falcone in faïence e ceramica fine. Il deposito è stato rinvenuto contro la fronte ovest del Tempio R, dove arrivava l’area del cantiere del Tempio C, e potrebbe essere interpretato come una forma di propiziazione della dea del Tempio R da parte dei costruttori del piú maestoso Tempio C, dedicato verosimilmente ad Apollo. Clemente Marconi



i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

n otiz iario

ITINERARI Marche

NATURA E CULTURA IN ARMONIA

I

l complesso delle Grotte di Frasassi, che si aprono all’interno dell’ Appennino marchigiano, è situato nel territorio del Comune di Genga, nell’entroterra di Ancona. Si tratta di uno dei percorsi sotterranei piú grandiosi e affascinanti del mondo. Stalattiti e stalagmiti si mescolano a colate di cristalli in un susseguirsi di forme armoniche. Un ecosistema sotterraneo completo, dove è ancora possibile osservare la formazione delle concrezioni, le gocce che scavano e costruiscono le proprie architetture e in cui la vita continua indisturbata da milioni di anni. Una visita alle Grotte può peraltro essere l’occasione per scoprire un territorio ricco di storia e di fascino, in cui si integrano armoniosamente natura, arte e paesaggio. Basti pensare all’abbazia romanica di S. Vittore delle Chiuse, dell’XI secolo, dichiarata monumento nazionale nel 1902, al tempietto del Valadier, fatto costruire nel 1828 da papa Leone XII, nativo del posto, che ne affidò il progetto appunto a Giuseppe Valadier;

10 a r c h e o

o, ancora, ai musei «Speleo Paleontologico ed Archeologico» e «Arte, Storia e Territorio» e al Castello di Genga, all’interno del suggestivo borgo. Nella vicina Fabriano si può inoltre visitare il Museo della Carta e della Filigrana, che ripercorre la storia di una scoperta che ha davvero cambiato il corso della storia.



PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Alessandro D’Alessio

IL SUONO DELL’ACQUA IN UNO DEGLI ANGOLI PIÚ SUGGESTIVI DEL PALATINO, IL GIARDINO RINASCIMENTALE DEI FARNESE, SONO TORNATI A ZAMPILLARE GLI SCHERZI D’ACQUA, AVVOLTI DAI PROFUMI DELLE ROSE, FRA LE QUALI SPICCA LA VARIETÀ CREATA PER RENDERE OMAGGIO A QUESTO LUOGO DI «DELIZIE»

G

li Orti Farnesiani sul Palatino costituiscono una composizione architettonica e vegetale che possiede l’ineguagliabile fascino di adagiarsi sulle antiche ruine, luogo ideologicamente rappresentativo del potere in ascesa della famiglia Farnese e, al contempo, perfettamente idoneo, per la morfologia del sito, alla realizzazione di un giardino secondo lo stile scenico e architettonico del Rinascimento italiano. Risale infatti a quel periodo l’innovativo uso di

disporre fabbriche e giardini su piani diversi, con terrazzamenti sostenuti da muri e congiunti da scale o rampe. Nella sistemazione degli Orti Farnesiani questo principio viene applicato in maniera magistrale: l’asse longitudinale sale dall’ingresso trionfale nel Foro Romano, allora Campo Vaccino, con cinque terrazze ortogonali ornate da balaustre e aiuole, fino al giardino superiore dove due voliere (le Uccelliere) coronano la sommità del colle affacciato, con una vista superba, sulla città. A sinistra: il ninfeo degli Orti Farnesiani, nel quale sono tornati a zampillare gli scherzi d’acqua ideati dal progetto originario del complesso. Nella pagina accanto: la Rosa Augusta Palatina, creata a partire dai geni di varietà antiche.

12 a r c h e o

Pensato per la prima volta come spazio del tutto indipendente dalla residenza, il giardino assume le forme del luogo di «delizie» dove stupire gli ospiti: il prezioso patrimonio di statue, incrementato anche dai ritrovamenti effettuati durante i lavori; il verde che prende aspetti di ricerca e collezione di rarità botaniche; le fontane, le false grotte e i giochi d’acqua, che sfruttano i diversi livelli terrazzati, in una suggestiva e sonora catena d’acqua.

L’ABBANDONO Tuttavia, gli Horti Palatini Farnesiorum ebbero vita breve: appena un secolo dopo l’originaria sistemazione, subirono trasformazioni che miravano a un utilizzo economicamente piú proficuo per i Farnese, ormai trasferitisi a Parma, e un veloce degrado segnò la sorte di quel capolavoro. «Poscia, cumuli d’immondezze e terre di scarico s’ammassarono su quei luoghi» lamenta Giacomo Boni, primo storico Direttore dei Monumenti di Roma, parlando della Fontana dei Platani, intorno alla quale si adunava l’Accademia dell’Arcadia al tempo dei Farnese fino al 1699, e di cui nulla rimane. Con la Fontana dei


quell’incontro introdusse caratteri fino ad allora sconosciuti per le rose occidentali, come quello di fiorire piú volte l’anno mentre le rose cinesi acquisirono la profumazione. Sono presenti 168 rose che raccontano l’evoluzione e le ibridazioni avvenute dal 1700 in poi; tra queste alcune destano meraviglia come la Green Rose, che mantiene il colore verde anche nei petali, o la Rosa foetida, bellissima, ma dallo sgradevole odore.

REGINA DEL VIRIDARIUM

Platani si perse traccia anche della «Fontana degli Spechi» e delle due rampe laterali, che si trovavano a quota piú bassa. Nel 1914, partendo dall’incisione della pianta del giardino di Giovanni Battista Falda, che ne illustrava chiaramente la posizione, Boni iniziò le ricerche. In una pubblicazione di quegli anni, L’Arcadia sul Palatino, descrive il ritrovamento del ninfeo in stato di rudere. Originariamente era coperto da una cupola a semicatino, absidato, con tre nicchie con tracce dei basamenti per le statue e delle decorazioni a mosaico. Poco distante ritrovò una sfinge marmorea cinquecentesca e la posizionò sulla fontana dove ancora enigmaticamente troneggia.

UNA SCOPERTA INATTESA Il programma di rifunzionalizzazione di tutte le fontane ha però riportato l’acqua nel suggestivo ninfeo. Per non alterare lo stato di fatto e rispettare il manufatto storico, la nuova installazione «poggia» sul massetto rinascimentale liberato dall’invasione delle radici dei pini,

mentre le lingue d’acqua emergono dalla vasca in corten che fa anche da serbatoio per il riciclo, e dall’alto una sottile pioggia d’acqua suggerisce la sistemazione originaria. Ma la sorpresa piú grande è stata quella di ritrovare un tubetto di piombo per gli «scherzi d’acqua» cosí in uso nei giardini della «Rinascenza» e ripristinare «lo zampillo a tradimento» è stato un momento di grande entusiasmo. Altri ancora sono gli interventi a cui il Parco si è dedicato per far rivivere – sulle orme di Giacomo Boni – lo spirito dei giardini imperiali e dei rinascimentali Orti Farnesiani che, in fasi successive, avevano abbellito la sommità dell’antico colle. Dove il Boni aveva impiantato il Viridarium Palatinum, era stata realizzata nel 1960 una nuova sistemazione a roseto, che nel 2018 l’Ufficio Giardini del Parco ha ulteriormente valorizzato, sostituendo le rose di allora, ormai senescenti, e proponendo nelle varie aiuole quelle antiche, come le Rose Alba, Damascena, Gallica e le Rose Cinesi, ibridi antichissimi giunti in Europa nel XVIII secolo;

Nello scorso mese di maggio la collezione si è arricchita di una varietà che incarna l’immagine della rosa presente e usata ai tempi dell’impero romano, testimoniata dalle frequenti rappresentazioni e dalle descrizioni degli autori classici. La fascinazione della rosa rossa rappresentata in un affresco del II-III secolo d.C. nelle catacombe di Priscilla a Roma, forse l’antica Rosa Rubra, ha indirizzato la ricerca verso una rosa rossa che racchiudesse il patrimonio genetico delle piú antiche rose pervenute fino ai nostri tempi e rappresentasse, come regina del Viridarium Palatinum, la volontà del Parco archeologico di preservare i caratteri botanici dell’antichità, all’unisono con la conservazione del patrimonio storico-monumentale, attuando anche scelte rispettose degli ecosistemi biologici. La «nuova» rosa, creata in otto anni di ricerca dall’ibridatore Davide Dalla Libera, racchiude i geni antichi della «Rosa Tuscany superb» e «Rosa Francofurtana». A lei, rosa rubra contemporanea, abbiamo avuto il piacere di dare il nome: Rosa Augusta Palatina. Intanto, ogni ora, da una fontana adiacente al roseto un’impalpabile nuvola d’acqua si alza dalle rocce tufacee e, accompagnata da una musica soffusa, aleggia nel vento. Gabriella Strano

a r c h e o 13


ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

ARTIGIANI SULLE RIVE DEL FIUME IL VILLAGGIO PROTOSTORICO DI LONGOLA, ORA PARCO ARCHEOLOGICO E NATURALISTICO, HA OFFERTO DATI DI STRAORDINARIA IMPORTANZA SUL POPOLAMENTO DELLA VALLE DEL SARNO PRIMA DELLA NASCITA DI POMPEI

F

ra le piú importanti scoperte di epoca preromana compiute nella valle del Sarno, si annovera quella del villaggio fluviale di Longola, presso Poggiomarino, situato una decina di chilometri verso l’interno rispetto a Pompei. Come spesso accade, il ritrovamento avvenne casualmente nel 2000, durante la realizzazione di un impianto di depurazione, circostanza che permise all’allora Soprintendenza archeologica di mettere in luce un insediamento protostorico cresciuto in ambiente umido, ai margini del Sarno, frequentato sin dalla media età del Bronzo (XV-XIV secolo a.C.), ma con un’importante fioritura

14 a r c h e o

economica fra l’età del Ferro e l’età arcaica. L’abitato si adatta al paesaggio palustre formato dalle anse del fiume, organizzando le zone residenziali e lavorative su isolotti regolarizzati e collegati fra loro da un efficiente sistema di canali, con argini definiti da palizzate lignee.

SOLUZIONI DIVERSIFICATE Le aree asciutte accoglievano le capanne, diverse per dimensione e orientamento, a pianta rettangolare o absidata, con differenze anche nell’articolazione interna. A partire dall’età del Ferro il villaggio svolge un ruolo chiave nella produzione e nello scambio

di prodotti finiti: gli scavi hanno infatti registrato l’avvio di qualificate attività artigianali, che vedono impegnate maestranze specializzate nella lavorazione di legno, metallo, osso, pasta vitrea e ambra, testimoniate, per esempio, dal recupero di strumenti per il bronzo e il ferro, di forme di fusione e di nuclei grezzi della preziosa ambra. Longola si trasforma cosí in un vivace centro di fabbricazione e di mercato di manufatti molto ricercati dalle comunità del territorio. La posizione strategica di cui godeva, sul fiume navigabile a metà circa del suo corso, ben collegata verso l’interno con l’agro


nolano e irpino e verso il mare con la foce del Sarno, ha permesso che l’insediamento fungesse da polo di riferimento fino al VI secolo a.C., quando probabilmente nuove spinte aggregative di tipo sinecistico – segnalate dalla fine pressoché contemporanea degli stanziamenti agricoli della vallata, a cui si aggiunse la stessa Longola – portano allo spopolamento dei territori periferici per favorire la crescita dei centri urbani, quali Nocera e Pompei. Sulle due pagine: immagini delle capanne ricostruite nel Parco archeologico naturalistico di Longola (Poggiomarino, Napoli), dove, nel 2000,

furono scoperti i resti di un villaggio frequentato dall’età del Bronzo Medio e che fu un fiorente centro artigianale fino a tutta l’età arcaica.

analisi dendrocronologiche, archeobotaniche e, archeozoologiche –, un aspetto, questo, che rende unico Longola nel panorama archeologico dell’Italia meridionale.

Qui sorgevano cinque capanne, due riprodotte e visitabili, le altre segnate invece in pianta con un filare di pietre calcaree. Le abitazioni avevano un tetto a doppio spiovente con l’ingresso solitamente su un lato lungo, e uno spazio interno suddiviso in due navate o in piú vani con il focolare al centro dell’ambiente principale. Adiacente all’isolotto residenziale ne sono presenti altri tre, utilizzati soprattutto per le attività artigianali, in gran parte svolte all’aperto. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: www.pompeiisites.org; pagina Fb Pompeii-Parco Archeologico.

FRAMMENTI DI VITA

Il ritrovamento nel sito protostorico di un bacino con strutture destinate all’ormeggio, una sorta di darsena, assieme a tre piroghe monossili, testimonia la vivacità della rete di contatti che si snodava lungo il Sarno. L’elemento acquatico ha sempre segnato la storia del villaggio e ha peraltro consentito, per nostra fortuna, la conservazione di strutture abitative e di infrastrutture, nonché di numerosi reperti organici, che oggi costituiscono un incomparabile patrimonio di informazioni sia tipologico che funzionale – grazie al contributo offerto dalle

Una mostra all’Antiquarium di Boscoreale racconta la scoperta del sito e i suoi caratteri di eccezionalità archeologica. Reperti rappresentativi delle principali attività produttive, strumenti per la filatura e la tessitura, ornamenti personali, piroghe trovate nella darsena, nonché mangiatoie per animali e ruote di carro, sono le eloquenti testimonianze della vitalità degli abitanti del villaggio. Oggi Longola si è trasformato in Parco archeologico naturalistico, sotto la direzione scientifica del Parco Archeologico di Pompei e la gestione del Comune di Poggiomarino. L’allestimento è incentrato sulla ricostruzione di una parte dell’insediamento, attraverso la riproduzione in scala reale delle capanne sorte sugli isolotti; in particolare, è stato riproposto uno di questi con destinazione residenziale, delimitato da palizzate di protezione dall’acqua.

DOVE E QUANDO «Il villaggio protostorico di Longola» Boscoreale, Antiquarium fino al 18 gennaio 2020 Orario tutti i giorni, 8,30-19,30 Info tel. 081 8575347 Parco archeologico naturalistico di Longola Poggiomarino Orario fino al 15/09: sa-do, 16,00-23,00; dal 16/09 al 31/10: sa-do, 10,00-13,00 e 15,00-18,00 Info www.longola.it

a r c h e o 15


n otiz iario

MOSTRE Roma

ANTICHI TESORI DEL SICHUAN

S

ituato nel sud-ovest della Cina, il Bacino del Sichuan è ricco di risorse naturali e di testimonianze storicoarcheologiche. Piú di 4000 anni fa vi fiorí la grande cultura Shu e numerosi sono i siti archeologici scoperti negli anni recenti e ancora in corso di scavo. Un universo di cui, al di fuori della stessa Cina, si conosce assai poco. Una bella mostra, «Mortali Immortali, tesori del Sichuan nell’antica Cina», allestita nei suggestivi ambienti dei Mercati traianei di Roma, colma ora questa lacuna, presentando una scelta di straordinari e davvero affascinanti manufatti in

A destra: mattone verticale raffigurante acrobazie e scena danzante. Periodo degli Han Orientali, 25-220 d.C. Chengdu, Museo.

bronzo, databili al II millennio a.C., insieme ad altri reperti di scavo – in oro, giada e terracotta – che documentano un arco di tempo che dall’eta del Bronzo arriva all’epoca Han (II secolo d.C.).

Come le origini di Roma sono legate al fiume Tevere, cosí la nascita della cultura Shu è segnata dallo scorrere dello Yangtze, il Fiume Azzurro, vero filo conduttore della mostra, il cui percorso guida il

Maschera di bronzo in forma di animale. Periodo Shang, 1600-1046 a.C. Sanxingdui, Museo.

16 a r c h e o


visitatore alla scoperta di quest’antica civiltà del Sichuan. Agli oggetti esposti si affiancano ricostruzioni digitali, grandi

fotografie dei paesaggi e strumenti interattivi, finalizzati alla conoscenza di questa antica civiltà estremo orientale. La mostra si articola in due sezioni: la prima, dedicata alla cultura religiosa dello Stato di Shu, si concentra sul mondo spirituale, documentando i riti di questo popolo dedito al culto del sole, attraverso le già citate maschere rinvenute negli scavi di Sanxingdui. La seconda sezione affronta, invece, il tema della vita quotidiana del popolo Shu, ricostruendo le trame commerciali sviluppatesi nell’area del Sichuan. (red.)

In alto, a sinistra: testa di bronzo. Periodo Shang, 1600-1046 a.C. Sanxingdui, Museo. A destra: manufatto cilindrico di bronzo in forma di drago. Periodo Shang, 1600-1046 a.C. Sanxingdui, Museo. A sinistra: statuette funerarie in ceramica. Periodo degli Han Orientali, 25-220 d.C. Chengdu, Museo.

DOVE E QUANDO «Mortali Immortali, tesori del Sichuan nell’antica Cina» Roma, Mercati di Traiano, Museo dei Fori Imperiali fino al 18 ottobre Orario tutti i giorni, 9,30-19,30 Info tel. 06 06 08 (attivo tutti i giorni, 9,00-19,00); www.mercatiditraiano.it; www.museiincomune.it Catalogo Gangemi Editore

a r c h e o 17


A TUTTO CAMPO Enrico Zanini

ERA DI MAGGIO... COSTANTINOPOLI, BISANZIO, ISTANBUL... QUELLA DELLA GRANDE CITTÀ SUL BOSFORO È UNA STORIA MILLENARIA, LA CUI RICOSTRUZIONE RAPPRESENTA UNA SFIDA COSTANTE PER GLI ARCHEOLOGI E CHE GLI STUDENTI DELL’ATENEO SENESE HANNO RACCOLTO CON ENTUSIASMO

L’

archeologia delle città è per definizione un’archeologia della complessità ed è, di conseguenza, difficile da insegnare e da comprendere. La questione si complica ancor di piú quando la città di cui si parla è una grande capitale del mondo antico e post-antico e diventa una vera sfida quando il suo nome è Costantinopoli. Perché Costantinopoli è tante città dentro una sola forma fisica: come tutti gli agglomerati urbani è fatta di monumenti (alcuni bellissimi e universalmente noti, come la Santa Sofia), ma anche di uomini e di donne reali, di vita quotidiana, di mercati e di lavoro, di divertimenti e di contese sociali. Costantinopoli, però, non è solo una metropoli tra le tante. È molto di piú: è una capitale mediterranea ed è la capitale di uno Stato multiforme, l’impero bizantino, che vive per piú di mille anni cambiando spesso pelle, forme, economia, ruolo politico e militare nel Mediterraneo. Costantinopoli nasce quando Roma è ancora grande e finisce la sua parabola solo qualche decennio prima della scoperta dell’America. Le sue mura vennero costruite nella prima metà del V secolo d.C. e rimasero

18 a r c h e o

A destra: un momento dell’allestimento della mostra su Costantinopoli realizzata dagli studenti del corso di Archeologia Bizantina. Nella pagina accanto: la locandina dell’esposizione.

inviolate per dieci secoli: progettate per resistere agli arieti e alle torri d’assedio, vennero alla fine superate solo dal fuoco di un supercannone fatto costruire dal sultano ottomano Maometto II.

LA GRANDE CAPITALE E poi Costantinopoli è la grande capitale cristiana, amica e nemica del cristianesimo occidentale, ed è, agli occhi degli uomini del primo Rinascimento, l’eredità vivente della perduta civiltà classica. Il luogo dove andare ad acquistare

opere d’arte preziose o dove ingaggiare gli artigiani capaci di produrle, ma anche un gigantesco deposito di ricchezze da saccheggiare alla prima occasione utile, come accadde con la cosiddetta «Crociata dei Veneziani» nel 1204. Insomma, Costantinopoli è la quintessenza stessa dell’idea di spazio urbano. Non a caso, i suoi abitanti la chiamavano confidenzialmente e semplicemente «la città», poiché non c’era bisogno di ulteriori specifiche.


Tutto molto bello, ma per gli archeologi un... mezzo disastro, perché di Costantinopoli conosciamo davvero molto poco dal punto di vista archeologico. Pochi scavi, pochissimi recenti e quindi condotti secondo gli standard attuali, ancor meno quelli pubblicati estensivamente. Alcuni monumenti importanti, ma di cui non è sempre agevole una lettura in senso archeologico: la Santa Sofia, per esempio, è bellissima, ma quanto ha inciso la sua costruzione nel sistema economico della città? Molte fonti letterarie, ma maledettamente oscure o almeno difficili da interpretare. Insomma una sfida conoscitiva davvero dura. Una sfida anche sotto il profilo dell’insegnamento, perché è difficile sintetizzare la complessità e renderla comprensibile a un pubblico di giovani in formazione, senza banalizzarla, senza ricorrere a formule stereotipate e, anzi, cercando di esplorare anche gli angoli oscuri di una storia cosí lunga e complessa: lavorando sui momenti meno documentati, cercando di capire come funzioni una città cosí complicata nella sua vita di ogni giorno. Nel corso di Archeologia Bizantina di quest’anno abbiamo provato a farlo partendo da una dicotomia tipicamente archeologica, quella di frammento e contesto. Abbiamo individuato alcuni frammenti meglio studiabili di altri (alcuni monumenti, ovviamente, ma anche i sistemi infrastrutturali, le strade, gli acquedotti, le cisterne, le mura) e abbiamo cercato di inserirli nel contesto che per altre vie andavamo delineando. Ci siamo divisi il lavoro, ognuno dei ragazzi ha «adottato» la conoscenza approfondita di un frammento e ha sviluppato una ricerca focalizzata, il docente si è occupato di tessere la trama generale che costituisse lo

scenario in cui inserire i frammenti di conoscenza. La trama si è tradotta in una serie di schemi tracciati su una lavagna – basta con le presentazioni in PowerPoint che uccidono la sintesi espressiva e la riflessione – e i frammenti si sono tradotti dapprima in sessioni di reading, in cui ciascuno ha sintetizzato le idee degli specialisti che aveva letto, e poi in presentazioni via via piú organiche (e qui il PowerPoint ha fatto giustamente la sua parte).

UN TESSUTO UNITARIO Alla fine il tutto si è ricomposto nella realizzazione di una piccola mostra autoprodotta, che è stata allestita all’ingresso del Dipartimento. Un’esposizione molto semplice, fatta di pannelli con testi, foto e disegni, ma in cui i giovani archeologi in formazione hanno saputo inserire, accanto alle informazioni e alla bibliografia da cui le hanno ricavate, un elemento particolarmente importante: il proprio punto di vista.Tutti i pannelli hanno il medesimo schema grafico – ci sembrava indispensabile per suggerire l’idea di un tessuto unitario –, ma sono l’uno diverso dall’altro, nel senso che ciascuno ha scelto la forma da dare al proprio testo (narrativo, didascalico, problematico) e il taglio da dare alle immagini: viste generali, ricostruzioni, dettagli, frammenti. Il risultato finale è stato interessante: la complessità è stata scomposta e ricomposta, l’immagine della città è stata ricostruita, ancora una volta in forma diversa. Perché, a pensarci bene, Costantinopoli, per noi occidentali, è soprattutto l’immagine che ne abbiamo definito nel corso dei secoli, da quel 29 maggio 1453, quando «la città» non finí, ma cambiò nome e forma, per divenire Istanbul. Con qualche acrobazia, siamo riusciti a far coincidere l’inaugurazione della

mostra proprio con il 29 maggio: ci sembrava una data opportuna, perché quel giorno di 466 anni fa finí una città, ma si aprí lo spazio per una disciplina che la studiasse. Quella che oggi pratichiamo come Archeologia Bizantina. Hanno collaborato alla realizzazione della mostra gli studenti: Brunella Berzellini, Cleo Barbafiera, Maria Cancelli, Nicola Lapacciana, Sara Federico, Ylenia Paciotti, Simona Salsano, Clara Belletti, Giulio Saltarelli, Camilla Felicioni, Jacopo Scoz e Pietro Catalini. (enrico.zanini@unisi.it)

a r c h e o 19


n otiz iario

MOSTRE Roma

IL «VERO» VOLTO DEI ROMANI

L

a Centrale Montemartini e il fotografo Luigi Spina sembrano fatti l’una per l’altro. Può sembrare una battuta a effetto, ma basterà visitare la splendida mostra «Volti di Roma» (c’è tempo fino al prossimo 22 settembre), per capire che cosí non è. I suggestivi spazi di uno dei piú affascinanti esempi di archeologia industriale esistenti in Italia, che dal 2001 sono divenuti una delle sedi dei Musei Capitolini, si sono infatti trasformati in altrettante quinte ideali per le stampe in bianco e nero di Spina. Il progetto si è sviluppato all’interno della sede museale stessa, perché l’obiettivo del fotografo si è soffermato su 37 ritratti scultorei che fanno parte della collezione e

A destra: particolare della testa nota come Ritratto di Corbulone. 40 a.C. circa. In basso: testa della statua nota come Togato Barberini. Tarda età augustea. Il ritratto, antico ma non pertinente, fu adattato al corpo da un restauro seicentesco.

ne ha ricavato le 60 immagini scelte per l’esposizione. Come in un ideale album di famiglia, si dispiega una rassegna che comprende uomini e donne, giovani e vecchi, che «osservano» l’osservatore e che si propongono come facce familiari, che si ha la sensazione di avere incontrato poco prima di varcare la soglia del museo. Romani di ieri che appaiono straordinariamente simili a quelli di oggi. Le stampe sono state distribuite nelle sale della Centrale senza però disporle accanto alle opere originali, dando cosí forma a uno dei punti di forza della mostra: in una sorta di caccia al tesoro, non dichiarata, ma sottintesa, si vuole infatti che il visitatore sia indotto a cercare le corrispondenze, per poi poter valutare le differenze tra le due versioni dei personaggi prescelti. E dai confronti, in una successione logica ma al tempo stesso sorprendente, discende l’elemento forse piú interessante dell’intera

20 a r c h e o


A sinistra: profilo del ritratto di una giovane ignota. Età tetrarchica. La capigliatura risulta in buona parte perduta perché era stata lavorata separatamente e poi applicata alla testa in corrispondenza delle tempie e della nuca. A destra: testa raffigurante un uomo nel pieno della sua maturità. 245-250 d.C. L’opera si segnala per la sapiente fusione tra introspezione psicologica del personaggio e maestria nella trattazione del marmo. A destra: testa del busto di un atleta che mostra le tipiche fasce di cuoio che venivano utilizzate dai pugili per proteggersi durante la lotta. Copia romana da un originale greco della metà del V sec. a.C. operazione: se infatti i ritratti scolpiti nel marmo mostrano con realismo la fisionomia dei loro perlopiú anonimi proprietari, le fotografie si rivelano molto piú efficaci nel trasmettere i sentimenti e gli stati d’animo che animarono quei volti. Le immagini realizzate da Spina sembrano insomma andare oltre la loro bidimensionalità e si ha la sensazione che possano prendere

vita da un momento all’altro. Viene allora spontaneo pensare che, senza nulla togliere alla fotografia «tecnica», riprese come quelle del fotografo campano sarebbero forse le piú adatte a corredare tante schede di catalogo in cui si legge di «espressione severa», «tristezza» o «spensieratezza»… Perché cogliere simili sfumature non è solo questione di luce giusta, ma richiede sensibilità, studio e ricerca. Come Luigi Spina fa da anni e con successo. Stefano Mammini

DOVE E QUANDO «Volti di Roma alla Centrale Montemartini. Fotografie di Luigi Spina» Roma, Musei Capitolini, Centrale Montemartini fino al 22 settembre Orario ma-do, 9,00-19,00: chiuso il lunedí Info tel. 060608 (attivo tutti i giorni, 9.00-19,00); www.centralemontemartini.org; www.museiincomune.it; www.zetema.it

a r c h e o 21


PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

AL CENTRO DEL MONDO? LA SARDEGNA AVREBBE AVUTO UN RUOLO CRUCIALE NELL’IMMAGINARIO DEGLI ANTICHI E I NURAGHE NON SAREBBERO STRUTTURE DIFENSIVE: SONO QUESTE ALCUNE DELLE TEORIE FORMULATE DA SERGIO FRAU, ORA RACCONTATE ANCHE NEL MUSEO DI SORGONO

N

el cuore della Sardegna, a Sorgono, paesino in provincia di Nuoro, è nato un nuovo museo in occasione dell’allestimento della mostra «Omphalos, La

22 a r c h e o

Sardegna di Atlante, Il Primo Centro del Mondo», curata da Sergio Frau, giornalista e scrittore, già inviato de la Repubblica e delle cui ricerche «archeo-logiche» –

cosí come ama definirle – sulla Sardegna nuragica abbiamo già in passato dato conto. E ora, che cosa c’entra Sorgono con le ricerche di Sergio Frau? Perché


una mostra in questo paesino sperduto della Sardegna? «Sorgono – esordisce Frau – conserva l’insediamento di menhir piú consistente d’Italia, che è considerato il piú antico d’Europa. Ci sono circa 200 menhir databili all’inizio del III millennio a.C., almeno 500 anni piú antichi di quelli Stonehenge, in Gran Bretagna, e Carnac, in Francia. La loro presenza segnala la centralità in epoca nuragica di Sorgono e della Sardegna stessa. Sono convinto che quest’isola, nel III e II millennio a.C., fosse una grande “Delfi prima di Delfi”: un’isola sacra per tutti, anche in virtú della sua posizione centrale».

Quindi la Sardegna – e dunque Sorgono – sarebbe stata il «centro» del mondo di epoca nuragica: che cosa glielo fa pensare? «Sorgono non si trova solo al centro della Sardegna, ma anche del 40° parallelo». E che cosa rappresenta il 40° parallelo? «Piú ci lavoro, piú cerco, piú mi convinco che sia stato il primissimo Equatore, perché divide il mondo antico in due. Lo chiamavano la “linea degli Olimpi”: a oriente passa per il Salento (zona piú ricca d’Italia di menhir dopo la Sardegna), poi per il monte Olimpo e Lemnos, l’“isola dei Tirreni”, in Grecia, quindi per Hattuša, capitale

degli Ittiti, infine per il Caucaso di Prometeo, fratello di Atlante, da cui parte la via della seta fino a Pechino. Verso occidente, invece, tocca le isole Baleari e Toledo, nota come l’ombelico di Spagna». Ma, soprattutto, il 40° parallelo cade in terra sarda. Quindi la Sardegna di epoca nuragica come l’isola di Atlante, al centro dell’immaginario del mondo antico: è questa la sua ipotesi? «A fare da testimone eccellente di questa mia ricerca c’è l’Atlante Farnese, copia in marmo di un bronzo greco ellenistico della fine del II secolo a.C., dunque contemporaneo di Eratostene, il primo che abbia misurato il

Un particolare dell’allestimento del Museo di Sorgono (Nuoro).

a r c h e o 23


PAROLA D’ARCHEOLOGO diametro della terra. L’Atlante Farnese porta sulle spalle una sfera celeste con tutti i segni zodiacali: questo presuppone un’idea della terra come sferica e una conoscenza astronomica millenaria». Le sue ricerche, supportate dallo studio delle fonti e dalle foto da drone di nuraghe disseminati per l’isola, le suggeriscono l’idea di una Sardegna molto piú potente e fulgida di quanto l’archeologia tradizionale abbia tramandato. Ma che cosa la spinge a immaginare che l’isola, in epoca nuragica, rappresentasse l’«ombelico» del mondo? «Due mesi fa l’ISTAT ha classificato la Sardegna come la regione d’Italia piú ricca di siti archeologici riconosciuti. Ma quelli censiti sono appena il 15 per cento del totale! Se il nostro Paese è il piú ricco di archeologia al mondo, la Sardegna è il luogo piú ricco di archeologia del pianeta. Eppure è stata mal studiata e mal capita, dando luogo a uno dei piú grandi malintesi dell’archeologia del Novecento».

A che cosa allude? «Il grande archeologo Giovanni Lilliu (1914-2012), come ho fatto anch’io nel mio primo libro Le Colonne d’Ercole. Un’inchiesta (NurNeon, 2002), contava un totale di 8 mila nuraghe in Sardegna, poiché l’Istituto Geografico Militare (IGM) aveva fatto questo calcolo… Ma l’IGM censiva soltanto i nuraghe utilizzati per usi militari. In realtà sono molti di piú! Basti pensare che solo a Sant’Antioco, isoletta dove l’IGM ha censito 15 nuraghe, sulle mappe del posto se ne contano 92, cioè sei volte tanto. Considerando questo rapporto, arriveremmo a un totale di 50 mila nuraghe presenti in Sardegna. Può darsi che non ce ne fossero cosí tanti, ma almeno 20mila esistevano sicuramente. Solo con l’operazione “S’Unda Manna”, grazie a Ettore Tronci, ho censito con il drone 100 nuraghe sotto il fango, moltissimi dei quali mai segnalati. Si vedono solo attraverso le foto aeree e, a mio avviso, sono stati seppelliti vivi

dallo “schiaffo di Poseidone” di cui ci raccontano gli antichi». E cioè da uno tsunami che, verso la fine del II millennio a.C., avrebbe spazzato via la civiltà nuragica. Ma quali fonti antiche ci parlano di questo cataclisma? «Ne parla Platone nel Crizia e nel Timeo, ma anche Omero (Odissea, I.48) e, soprattutto, le fonti egizie, ovvero Ramesse III, nel 1175 a.C., nell’iscrizione sulle mura del tempio di Medinet Habu, in cui si narra la saga degli Shardana e a proposito dei “Popoli del Nord” si dice: “Nun (l’oceano, n.d.r.) è uscito dal suo letto e ha proiettato un’onda immensa che ha inghiottito intere città e villaggi” (CdE, XXVIII, p. 371). E non ci sono solo le testimonianze antiche, ma anche la geologia e quella che io definisco “archeo-logica”. Siti come Villanovaforru hanno riempito tre piani di museo di meraviglie archeologiche, tra cui blocchi di ossidiana, bacili di bronzo, strumenti di lavoro e oggetti di vita quotidiana. Tutto

Un pannello del Museo di Sorgono che riunisce immagini simbolo della Sardegna.

24 a r c h e o


Uno dei pannelli inseriti nel percorso espositivo del museo, che si riferisce alla campagna di ricognizione condotta con l’ausilio del drone e che ha portato alla localizzazione di numerosi complessi nuragici. trovato perfettamente sigillato dal fango, come solo a Pompei. Poi, a partire dalla fine del XII secolo a.C., piú nulla: non si costruisce piú nemmeno un nuraghe. Rimangono i resti di insediamenti coperti dal fango come Villanovaforru, Barumini e Sardara, che rappresentano il limite dell’area

colpita dall’onda. C’è questa bordura di nuraghe seppelliti vivi, dove gli antichi hanno continuato a fare offerte e rituali anche dopo la fine della civiltà nuragica». Anche i bronzetti sardi, secondo la sua ipotesi, sono «gadget» del passato: ci vuole spiegare? «I bronzetti sardi, databili tra IX- VIII

e VII secolo a.C., sono ricordi del tempo che fu. E, non caso, la metà dei bronzetti sardi sono stati rinvenuti in tombe etrusche. L’archeologo francese Michel Gras considerava molto strano trovare in sepolture etrusche del IV-III secolo a.C. bronzetti sardi piú antichi di 500 anni, tanto che li definiva “gioie

a r c h e o 25


PAROLA D’ARCHEOLOGO

di famiglia”. Non solo. In Sardegna i bronzetti venivano deposti come oggetti votivi in grotte, pozzi e luoghi sacri, fissati alle pareti di pietra con piccole gocce di piombo. In Etruria, invece, hanno un uso differente: si trovano nelle sepolture, accanto ai defunti». E questo che cosa significa? «Che la funzione dei bronzetti sicuramente non era quella che troviamo nelle tombe etrusche di cinque secoli dopo! Anche perché dopo le “tombe dei Giganti” di epoca nuragica, in Sardegna non si trovano piú sepolture… mentre in Etruria compaiono i bronzetti sardi e ceramiche sarde nelle tombe, che a loro volta sembrano nuraghe sepolti. A Vetulonia, per esempio, c’è un bottone a forma di nuraghe. Nessuno ha mai spiegato perché nelle tombe etrusche si trovino oggetti sardi piú antichi di secoli. A mio avviso, è la memoria dei A destra: fotoelaborazione che associa l’Atlante Farnese (opera oggi conservata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli) a un planisfero nel quale è indicato il tracciato del 40° parallelo, che, secondo Sergio Frau, per gli antichi sarebbe stato l’Equatore.

26 a r c h e o


Anche Plutarco, nella Vita di Romolo (XXV, 7), dice che a Roma, per celebrare la vittoria dei Romani su Veio, si vendevano schiavi sardi e spiega perché: “si dice che gli Etruschi siano coloni dei Sardi e che Veio era città etrusca”». Ma solo gli Etruschi coltivavano questa memoria dell’«età dell’oro»? «No, il ricordo di un’isola sacra perduta e rimpianta si trova anche nella simbologia orientale: nel fiore di loto, che rappresenta ancora il centro del mondo, o nella montagna cosmica che esce dall’oceano. È la memoria dell’età d’oro: un passato con una centralità che, una volta sparita, viene padri della Sardegna di epoca nuragica. Nessuno lo dice nei musei italiani, dove i bronzetti sono allestiti come un presepe». Per questo considera la Sardegna come il grande malinteso dell’archeologia del Novecento? «Sí. Il peccato originale lo commise, in buona fede, Giovanni Lilliu, che considerò i nuraghe come fortezza e i Sardi un popolo lacerato da guerre intestine, che si indebolí a tal punto d farsi conquistare dai Fenici e da rifugiarsi nelle Barbagie come in una riserva indiana…». E invece? «Io credo che i nuraghe non fossero un sistema di difesa, ma di vita. Solo la Sardegna del Sud aveva 300 nuraghe che sorvegliavano il mare e vedevano qualsiasi nave mezza giornata prima che la nave vedesse l’isola… questo cambia tutta la storia della Sardegna». In che senso? «L’isola era un luogo nevralgico dal punto di vista culturale e geografico, di cui nel tempo si è persa la centralità, ma non la memoria. Questo ricordo si trova nei bronzetti, nelle patere ombelicate dei defunti etruschi, o in opere come il piatto conservato in Vaticano, al centro del quale è

In alto, sulle due pagine: ancora un’immagine dell’allestimento del Museo di Sorgono. A destra: Pauli Arbarei (Medio Campidano). Il nuraghe Bruncu Mannu, a 200 m di quota.

rappresentata Delfi, a destra Prometeo incatenato al Caucaso (cioè l’Oriente) e di fronte Atlante che regge il cielo dal centro del mondo. Il nuovo centro è Delfi, ma in quel piatto è fissato il passaggio di consegne di questa centralità dalla Sardegna». E, secondo lei, che fine avrebbero fatto poi i Sardi: avrebbero colonizzato l’Etruria? «Sí, dopo il cataclisma. È allora che la Sardegna diventa un rimpianto per gli Etruschi, che si rifugiano lontano dalle coste: non a caso Cortona, Arezzo e Volterra sono luoghi molto distanti dal mare.

“spartita”. Simboli come l’axis mundi, l’albero della vita, che Freud e Jung consideravano archetipi nati dall’inconscio collettivo, potrebbero invece essere la memoria comune di un prototipo degli inizi. Non sono il primo a dire che Atlante era al centro del mondo. Ci sono 15 autori greci che lo giurano, a partire da Esiodo. Io sono solo il primo che, uscito dalle “prime” Colonne d’Ercole al Canale di Sicilia, li prende sul serio e prova a misurare. Atlantide nasce soltanto quando le colonne finiscono a Gibilterra e diventa l’isola che non c’è».

a r c h e o 27


n otiz iario

MOSTRE Napoli

IMMAGINI DELLA REGALITÀ ASSIRA

A

llestita nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli e curata da Paolo Giulierini e Simonetta Graziani, la mostra «Gli Assiri all’ombra del Vesuvio» presenta diversi motivi d’interesse. L’esposizione è costruita intorno a quindici calchi in gesso di alcuni tra i piú noti rilievi assiri da imrud e Ninive conservati al British Museum. Essi erano giunti nel museo napoletano nel 1866 grazie all’interessamento dell’orafo e antiquario Augusto Castellani, in contatto con Austen Henry Layard, l’archeologo e uomo politico inglese che aveva condotto, circa vent’anni prima, fortunate

28 a r c h e o

campagne di scavo sul suolo iracheno che avevano iniziato a disvelare la civiltà assira. Layard nutriva grande stima per Giuseppe Fiorelli, che allora dirigeva il museo napoletano e gli scavi di Pompei. I due si erano conosciuti di persona per la prima volta a Napoli, nell’ottobre del 1863, ed ebbero diverse, successive occasioni d’incontro nel quadro di un’intesa cordiale: oltre all’interesse per la ricerca archeologica, li avvicinavano le comuni idee liberali. In occasione del loro primo incontro Layard donò un «frammento di (segue a p. 30)

In alto: Sir Austen Henry Layard. In basso: litografia acquerellata raffigurante un momento degli scavi di Layard a Nimrud. 1850-1860. Londra, British Museum.



n otiz iario

In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca taspisci. A sinistra: dida finta doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, Parthenos doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca.

bassorilievo in pietra proveniente dagli scavi di Ninive». Nei suoi diari, la moglie di Layard, Enid, ricorda le visite al museo e, soprattutto, quelle agli scavi pompeiani, dove gli ospiti inglesi poterono assistere alle ricerche. Il 13 ottobre 1869 scrive che «all’incirca all’una siamo andati agli scavi, dove ci sono state portate delle sedie e abbiamo potuto osservare lo scavo di una stanza».

Un filo conduttore della mostra è sicuramente l’analisi dell’apertura internazionale dell’archeologia napoletana, ma, accanto a esso, ne è presente un altro che scaturisce dall’osservazione di Simonetta Graziani che i quindici rilievi non risultano scelti a caso, ma sono riconducibili agli aspetti piú significativi della raffigurazione della regalità assira: il re e il culto; la caccia reale al leone come metafora In alto: un particolare dell’allestimento della mostra. A sinistra: calco in gesso di uno dei rilievi provenienti dal Palazzo Nord di Ninive (oggi conservati al British Museum). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

30 a r c h e o

dell’ordine opposto al caos; la guerra e la pace. I calchi, inoltre, si prestano a ricostruire l’evoluzione della rappresentazione della figura del re da Assurnasirpal II a Assurbanipal, ovvero dalla prima metà del IX alla metà del VII secolo a.C. Di conseguenza, intorno a essi, si è scelto di approfondire tali temi – centrali nel mondo assiro – attraverso l’esposizione di reperti archeologici significativi, prestati da musei italiani ed europei tra cui il British Museum e i Musei Vaticani. Giuseppe M. Della Fina

DOVE E QUANDO «Gli Assiri all’ombra del Vesuvio» Napoli, Museo Archeologico Nazionale fino al 16 settembre Orario tutti i giorni, 9,30-19,30; chiuso il martedí Info tel. 081 4422149; www.museoarcheologiconapoli.it Catalogo Electa


INCONTRI Paestum

UN PREZIOSO SCAMBIO DI ESPERIENZE

S

alla vittoria della quinta edizione dell’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», sono: Bulgaria, nel Mar Nero il più antico relitto intatto del mondo; Egitto, a Saqqara a sud del Cairo un antico laboratorio di mummificazione; Giordania, nel Deserto Nero della Giordania il pane più antico del mondo; Italia, l’iscrizione e le dimore di pregio scoperte a Pompei; Svizzera, la più antica mano in metallo trovata in Europa. Il Direttore della Borsa Ugo Picarelli e il Direttore di «Archeo» Andreas M. Steiner hanno condiviso questo cammino in comune, consapevoli che «le civiltà e le culture del passato e le loro relazioni con l’ambiente circostante assumono oggi sempre più un’importanza legata alla riscoperta delle identità, in una società globale che disperde sempre più i suoi valori». Il Premio, dunque, si caratterizza per divulgare uno scambio di esperienze, rappresentato dalle scoperte internazionali, anche come buona prassi di dialogo interculturale e cooperazione tra i popoli. Per informazioni sulle scoperte: www.borsaturismoarcheologico.it/ premio-khaled-al-asaad

i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

ono state annunciate le 5 scoperte archeologiche 19 98 20 19 candidate alla vittoria della 5ª edizione dell’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», il Premio promosso dalla Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico e da «Archeo», che sarà consegnato a Paestum il 15 novembre in occasione della XXII edizione della Borsa. L’intento è quello di dare il giusto tributo alle scoperte archeologiche, attraverso un Premio assegnato in collaborazione con le testate internazionali, tradizionali media partner della Borsa: Antike Welt (Germania), Archéologia (Francia), AS. Archäologie der Schweiz (Svizzera), Current Archaeology (Regno Unito), Dossiers d’Archéologie (Francia). Giunto alla quinta edizione e intitolato all’archeologo di Palmira che ha pagato con la vita la difesa del patrimonio culturale, l’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad» è l’unico riconoscimento a livello mondiale dedicato al mondo dell’archeologia e in particolare ai suoi protagonisti, gli archeologi, che con sacrificio, dedizione, competenza e ricerca scientifica affrontano quotidianamente il loro compito nella doppia veste di studiosi del passato e di professionisti alv servizio del territorio. Nel 2015 il Premio è stato assegnato a Katerina Peristeri, Responsabile degli scavi, per la scoperta della Tomba di Amphipolis (Grecia); nel 2016 all’INRAP Institut National de Recherches Archéologiques Préventives (Francia), nella persona del Presidente Dominique Garcia, per la scoperta della Tomba celtica di Lavau; nel 2017 a Peter Pfälzner, Direttore della missione archeologica, per la scoperta della città dell’età del Bronzo presso il villaggio di Bassetki nel nord dell’Iraq; nel 2018 a Benjamin Clément (a destra nella foto), Responsabile degli scavi, per la scoperta della «piccola Pompei francese» di Vienne, alla presenza di Omar, uno dei figli archeologi di Khaled al-Asaad (a sinistra nella foto). Il Premio sarà assegnato alla scoperta archeologica prima classificata, secondo le segnalazioni ricevute da ciascuna testata. Inoltre, sarà attribuito uno «Special Award» alla scoperta, tra le cinque candidate, che avrà ricevuto il maggior consenso dal grande pubblico attraverso la pagina Facebook della Borsa (Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico Archaeological Tourism Exchange) fino al prossimo 17 settembre. Le cinque scoperte archeologiche del 2018, candidate

a r c h e o 31


n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

DIMMI COME PARLI... Lo studio dei popoli citati dalla Bibbia prova quanto sia spesso complicato attribuire confini territoriali e caratteristiche genetiche alle genti che vissero nell’area mesopotamica. Un caso particolarissimo è quello degli Aramei (vedi l’articolo alle pp. 62-77): la loro entità sociale e stanziale è andata quasi del tutto perduta, mentre è sopravvissuta, addirittura fino ai nostri giorni, la loro lingua, l’aramaico (cartolina e francobollo di Venda, 1). I sacri testi raccontano che le ultime parole di Gesú sulla croce (2) furono in aramaico, divenuto poi lingua ufficiale degli Assiri e degli Achmenidi (3), usato dai rabbini del Talmud (4), e ancora oggi parlato da piccole comunità cristiane nel Sud della Siria (5) e, come pura curiosità, usato dal Mel Gibson nel film La passione di Cristo del 2004 (6). Al di là della lingua, gli Aramei sono ripetutamente citati nella Bibbia: il riferimento alle consorti di Isacco (7) e Giacobbe (8), la terra degli Aramei tra alto e medio Eufrate (vignetta, 9), uno degli inurbamenti piú importanti e meno conosciuti come Sam’al vicino ad Alessandretta (10) sul Mediterraneo, la stele di Tel Dan (11) che menziona un re aramaico. La Bibbia cita anche l’alleanza tra Aramei e Israeliti contro il regno di Giuda, episodio passato alla storia grazie all’intervento di Isaia, il quale annunciò che «La vergine partorirà un figlio che chiamerà Emmanuele…», profezia che ricorda l’attesa messianica (12) del popolo di Israele. Ma altre genti, piú o meno coeve agli Aramei e dislocate nelle terre transgiordaniche sono citate dalla Bibbia. Qui si costituirono tre regioni: la valle a est del fiume Giordano (13), Moab, da cui i Moabiti; piú a nord l’area della attuale Amman (14), cioè Ammon, da cui gli Ammoniti, e, infine, la regione meridionale di Edom, donde gli Edomiti. Ammoniti e Moabiti discendono da Lot, nipote di Abramo (il «pozzo di Abramo» a Beer-Sheeva, 15), mentre gli Edomiti discendono da Esaú, gemello di Giacobbe/Israele. La loro madre, Rebecca (16), tramò con Giacobbe per dare a questi la primogenitura che invece spettava a Esaú; per la Bibbia ebraica, senza questo inganno, oggi si sarebbe parlato del popolo di Esaú e non del popolo di Israele! (17, nella vignetta la riappacificazione poi intervenuta tra i due fratelli). IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

32 a r c h e o

1

2

3

4

5

6

7

9

10

8

11

14

12 13

17

15

16

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it



CALENDARIO

Italia

BOLOGNA Ex Africa

ROMA Roma Universalis

Storie e identità di un’arte universale Museo Civico Archeologico fino all’08.09.19

L’impero e la dinastia venuta dall’Africa Colosseo-Foro Romano-Palatino fino al 25.08.19

Volti di Roma alla Centrale Montemartini Fotografie di Luigi Spina Musei Capitolini, Centrale Montemartini fino al 22.09.19

La casa della vita Tho song taeng, vaso per cosmetici.

Antico Siam

Lo Splendore dei Regni Thai Museo delle Civiltà fino al 30.09.19

Il ciclo della vita

Nascere e rinascere in Etruria Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 06.10.19

Claudio Imperatore

Messalina, Agrippina e le ombre di una dinastia Museo dell’Ara Pacis fino al 27.10.19

Ars erotica

L’arte dell’amore non violento nell’antica Roma Stadio di Domiziano fino al 06.11.19

L’Arte ritrovata

Ori e storie intorno all’antico cimitero ebraico di bologna Museo Ebraico fino al 06.01.20

BRINDISI Nel mare dell’intimità L’archeologia subacquea racconta il Salento Aeroporto del Salento fino al 05.07.20

CATANIA Il kouros ritrovato

Museo Civico di Castello Ursino fino al 03.11.19

CECINA (LI) Nudo! Tesori del Museo delle Antichità di Basilea

Fondazione Culturale Hermann Geiger fino al 13.10.19

CERVETERI e TARQUINIA Etruschi maestri artigiani

Nuove prospettive da Tarquinia e Cerveteri Cerveteri, Museo Nazionale Archeologico Cerite Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale fino al 31.10.19

L’Arma dei Carabinieri per il recupero e la salvaguardia del patrimonio culturale italiano Musei Capitolini fino al 26.01.20

COMACCHIO Troia

Colori degli Etruschi

FINALE LIGURE BORGO (SAVONA) Clarence Bicknell e la Preistoria nel Finale: una riscoperta

Tesori di terracotta presso la Centrale Montemartini Musei Capitolini, Centrale Montemartini fino al 02.02.20

AQUILEIA Bestie e mostri ad Aquileia Palazzo Meizlik fino al 15.09.19

Magnifici Ritorni

Tesori aquileiesi dal Kunsthistorisches Museum di Vienna Museo Archeologico Nazionale fino al 20.10.19 34 a r c h e o

La fine della città, la nascita del mito Palazzo Bellini fino al 27.10.19

Museo Archeologico del Finale fino al 03.11.19

FIRENZE L’arte di costruire un capolavoro La Colonna Traiana Giardino di Boboli, Limonaia fino al 06.10.19

Mummie

Viaggio verso l’immortalità Museo Archeologico Nazionale fino al 02.02.20

Il kouros di Lentini. VI-V sec. a.C.


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

MILANO Il viaggio della Chimera

Gli Etruschi a Milano tra archeologia e collezionismo Civico Museo Archeologico fino all’08.09.20

MONTERIGGIONI, SIENA Monteriggioni prima del Castello Una comunità etrusca in Valdelsa Abbadia Isola, Sala Sigerico fino al 25.08.19

NAPOLI Paideia

Giovani e sport nell’antichità Museo Archeologico Nazionale fino al 04.11.19

Sacra Neapolis

Culti, miti, leggende Lapis Museum, Basilica della Pietrasanta fino al 15.12.19

ORVIETO Mario Schifano: visioni etrusche

Museo Etrusco «Claudio Faina» fino al 31.08.19

SIRACUSA Archimede a Siracusa Experience exhibition Galleria Civica Montevergini fino al 31.12.19

TARANTO MitoMania

Storie ritrovate di uomini ed eroi Museo Archeologico Nazionale di Taranto fino al 10.11.19

TORINO Goccia a goccia dal cielo cade la vita

Acqua, Islam e arte MAO, Museo d’Arte Orientale fino al 01.09.19

Archeologia Invisibile

Belgio BRUGES Mummie

Segreti dell’antico Egitto Xpo Center Bruges fino all’01.09.19

Francia PARIGI Regni dimenticati Dall’impero ittita agli Aramei Museo del Louvre fino al 12.08.19

LIONE Ludique

Giocare nell’antichità Lugdunum-Musée et théâtres romains fino al 01.12.19

VALLON-PONT-D’ARC Di leoni e di uomini Leggende feline: 400 secoli di fascino Grotte Chauvet 2 fino al 22.09.19

Germania BERLINO Figure possenti

Ritratti dalla Grecia antica Altrs Museum fino al 02.02.20

Grecia ATENE Gli infiniti aspetti della bellezza

Museo Nazionale Archeologico fino al 31.12.19

Museo Egizio fino al 06.01.20

USA

VETULONIA, CASTIGLIONE DELLA PESCAIA (GR) Alalía, la battaglia che ha cambiato la storia

NEW YORK Acquerelli dell’Acropoli

Greci, Etruschi e Cartaginesi nel Mediterraneo del VI secolo a.C. Museo Civico Archeologico Isidoro Falchi fino al 03.11.19

Replica sperimentale del Bronzo di Riace A.

Émile Gilliéron ad Atene The Metropolitan Museum of Art fino al 03.01.20 Acquerello con le figure note come Barbablú, dall’Acropoli. a r c h e o 35


SCAVI • REGGIO EMILIA

CITTÀ SI RACCONTA UNA

INCESSANTI ATTIVITÀ DI STUDI E RICERCHE E, SOPRATTUTTO, RIPETUTE INDAGINI PREVENTIVE ALLA SCOPERTA DELL’ABITATO DELLE ORIGINI. REGGIO EMILIA CONFERMA, COSÍ, LA SUA VOCAZIONE ARCHEOLOGICA, NATA DUE SECOLI FA GRAZIE ALL’OPERA DI UN SUO GENIALE E ILLUSTRE CITTADINO. E DEL QUALE, A SETTEMBRE, SI PARLERÀ IN UN CONVEGNO INTERNAZIONALE... di Marco Podini

36 a r c h e o


L’

archeologia italiana deve moltissimo a Reggio Emilia e a uno dei suoi piú illustri cittadini, don Gaetano Chierici (1819-1886), padre fondatore – insieme a Luigi Pigorini (1842-1925) e Pellegrino Strobel (1821-1895) – della paletnologia italiana, nonché promotore di numerose campagne archeologiche nel territorio reggiano e al di fuori di esso. Un’attività di scavo e studio che il «prete e preistorico» (come amava definirsi), in piena sintonia con la contemporanea cultura positivista, portò avanti avvalendosi dei principi e della metodologia della ricerca scientifica. A Chierici si deve l’istituzione del Museo di Storia Patria (oggi Musei Civici), tuttora intatto negli arredi e visitabile come lui l’ha lasciato; una collezione che, per il valore del suo ordinamento, fu visitata dal fior fiore degli studiosi europei di preistoria, da Rudolf Virchow a Gabriel de

In alto: lo scavo di un grande condotto fognario scoperto nell’area di Palazzo Busetti. Orientato in senso nord-sud, convogliava le acque in direzione sud, verso la cloaca principale posta sotto la via Aemilia. In basso, sulle due pagine: una veduta del centro storico di Reggio Emilia.

a r c h e o 37


SCAVI • REGGIO EMILIA

Mortillet, da John Evans (numismatico, padre di Arthur Evans, che scavò il palazzo di Cnosso) a Edouard Desor, da Ingwald Undset allo scopritore di Troia Heinrich Schliemann, che considerarono la sosta a Reggio Emilia una tappa obbligatoria nella propria formazione culturale. A questa straordinaria figura, di cui proprio nel 2019 ricorre il bicentenario della nascita, viene dedicato, nel prossimo mese di settembre, nella sua città natale, un convegno scientifico internazionale.

38 a r c h e o

Una tradizione cosí importante non è rimasta senza conseguenze a Reggio Emilia, dove l’amministrazione comunale e le principali istituzioni culturali cittadine (alcune, come la sezione reggiana della Deputazione di Storia Patria o la Sezione Val d’Enza del Club Alpino Italiano, sempre fondate da Chierici) hanno investito, pur con momenti di discontinuità, molte risorse nel campo dell’archeologia e nel recupero delle testimonianze materiali del proprio passato. Ne sono prova le nu-

merose pubblicazioni scientifiche edite sulla storia della città e del suo territorio, che formano una produzione assai cospicua, soprattutto se paragonata a quelle esistenti per altri centri urbani del Nord Italia.

RICERCA E TUTELA Ciò si deve anche alla storica attività dei Musei Civici quali promotori incessanti di eventi, iniziative, studi, scavi e ricerche in ambito archeologico, operando sempre in stretta collaborazione con la So-


printendenza e parallelamente all’attività di tutela svolta da quest’ultima. Notevole, in questo senso, è stato il contributo dato all’archeologia dai direttori succeduti a Chierici (alla direzione dal 1864 al 1886), da Naborre Campanini (dal 1889 al 1925) a Otello Siliprandi (dal 1925 al 1945), da Mario Degani (dal 1945 al 1967) a Giancarlo Ambrosetti (dal 1967 al 1997), quest’ultimo chiamato a Reggio direttamente da Ro-

In alto: Gaetano Chierici (1819-1886). Definitosi egli stesso «prete e preistorico», è considerato uno dei padri della paletnologia italiana. A Reggio Emilia, sua città natale, condusse importanti ricerche e istituí il Museo di Storia Patria, da cui derivano gli odierni Musei Civici. A sinistra: un’immagine dell’allestimento della collezione ordinata da Gaetano Chierici.

ma, dove si era formato sotto la guida di maestri della levatura di Ranuccio Bianchi Bandinelli e Massimo Pallottino. Un consesso fortunato, quello reggiano e dei suoi Musei, costituito da direttori e amministratori illuminati, in grado di generare un clima favorevole e duraturo, che ha saputo dare i suoi frutti anche in momenti difficili come quelli generatisi nell’ultimo decennio, gravato dalla forte crisi economica. Solo a partire dalla primavera del 2017, a Reggio si sono tenute ben quattro mostre archeologiche, la prima delle quali – «Lo scavo in piazza. Una casa, una strada, una città» (8 aprile-3 settembre 2017) –, scaturita dalle scoperte effettuate a seguito di importanti e recenti interventi di riqualificazione urbana e for temente voluta

dall’Amministrazione al fine «di dar conto di quanto emerso dai cantieri di scavo, traducendone gli inevitabili disagi in una opportunità culturale che continuerà a dare frutti anche in futuro» (cosí si è espresso il Sindaco Luca Vecchi). Il quinquennio 2010-2015 – periodo in cui chi scrive ha svolto il ruolo di funzionario archeologo di Reggio Emilia per conto della competente Soprintendenza – si è contraddistinto per un’intensa attività edilizia, sia all’interno che all’esterno del comparto urbano.Tre cantieri in particolare – quelli dell’Arcispedale S. Maria Nuova, posto circa a 1 km a S-E dal tracciato della cinta medievale; del parcheggio di Piazza della Vittoria, ai margini N-O del centro storico; e quello del restauro di Palazzo Busetti, lungo la via Emilia a poca distanza dal foro della Reggio romana – sono stati interventi di notevole entità, che hanno restituito dati nuovi e fondamentali per la conoscenza dell’antica Regium.

LA PRIMA REGGIO Si è trattato di cantieri che, per estensione e consistenza, non si realizzavano piú dagli anni Ottanta del secolo scorso, quando vennero intrapresi gli scavi per la realizzazione del piano interrato della sede della presidenza del Credem, in palazzo Spalletti Trivelli, attualmente l’unico sito archeologico visitabile in città, posto immediatamente a ridosso dell’antico Foro urbano. In base alle ricerche finora condotte, i cui esiti preliminari sono stati pubblicati in un recente volume (vedi box a p. 49), sono emersi nuovi elementi sulla città romana, di cui presentiamo qui di seguito una sintesi. Il primo elemento di novità afferisce al tema, delicato e complesso, delle origini del primo abitato. La fondazione romana della città, tuttora unanimemente collocata dagli a r c h e o 39


SCAVI • REGGIO EMILIA A destra: pianta di Reggio Emilia con i siti oggetto dei principali scavi estensivi citati nel testo: 1. Palazzo Spalletti Trivelli (spazio Credem); 2. Palazzo Busetti; 3. Piazza della Vittoria; 4. Arcispedale di S. Maria Nuova.

Bronzetto schematico rinvenuto negli scavi condotti sotto Palazzo Busetti. Fine del VI-V sec. a.C. Nella pagina accanto: olla in impasto grossolano, da via Guido Riccio. II-I sec. a.C. 40 a r c h e o

studiosi attorno al 175 a.C., durante il secondo consolato di Marco Emilio Lepido, è certamente collegata alla figura di quest’ultimo. Cosí si evince anche dal nome piú antico con cui, stando Sesto Pompeo Festo (Fest. p. 270), è nota la città, Forum Lepidi, binomio da cui si coglie la perfetta fusione tra la funzione originaria del primo nucleo urbano – quella di centro mercantile o forum – e il legame diretto con la gens Aemilia (e forse – come si deduce dall’uso del cognomen «Lepidi» – con quello specifico ramo della nobile e antica famiglia). Un nesso perpetuatosi sino a oggi nel nome stesso di Reggio Emilia e della principale strada che l’attraversa (la via Aemi-

lia, fondata nel 187 a.C., durante il primo consolato di Marco Emilio), da cui deriva anche il nome della regione (regio VIII Aemilia), di cui univa i due estremi capoluoghi di Rimini e Piacenza.

IL RECUPERO DEL TOPONIMO Già non molto dopo la sua fondazione, la città è nota come Regium Lepidi. Molti studiosi sono concordi nel ritenere che il termine «Regium» sia frutto del recupero intenzionale di un toponimo piú antico, di origine preromana. Di tale preesistenza (e persistenza) si ha testimonianza anche in campo archeologico, sia a Reggio, sia soprattutto nella provincia reggiana. Fu proprio Chierici a riconoscere e circoscrivere cronologicamente le prime testimonianze precedenti alla romanizzazione. Le ricerche e gli studi successivi hanno poi consentito di inquadrare


meglio queste tracce, identificando una densa trama di insediamenti di età e cultura afferenti sia all’ambito etrusco-italico (e collocabili fra VI e V secolo a.C.), sia a quello celto-ligure (essenzialmente riferibili e contestuali alla prima romanizzazione della regione, fra la fine del III e il I secolo a.C.). Nel primo caso si tratta di siti distribuiti in tutta la provincia, ma anche nel suburbio reggiano, soprattutto lungo la fascia di alta pianura bagnata dai torrenti Modolena e Crostolo. Tuttavia, il centro storico di Reggio Emilia è rimasto privo di testimo-

nianze riconducibili a fasi cosí antiche, almeno sino agli anni Ottanta del Novecento, quando, nell’area del Credem, fu rinvenuto un bronzetto votivo di tipo schematicominiaturistico raffigurante un orante e databile fra la fine del VI e il V secolo a.C. Fino a tempi recentissimi, il manufatto costitutiva l’unica testimonianza archeologica riferibile a questa fase, che, visto anche il contesto di rinvenimento (il reperto era in giacitura secondaria, all’interno livelli stratigrafici di età repubblicana), fu giustamente e piú cautamente interpretata come indizio

Regium venne fondata intorno al 175 a.C., negli anni del secondo consolato di Marco Emilio Lepido

di frequentazione – e non di «occupazione» – protostorica dell’area su cui poi sorse la città romana. Nel 2012, il rinvenimento sotto Palazzo Busetti di altri reperti, fra cui un bronzetto schematico del tutto simile a quello del Credem, un frammento di situla e una fibula tipo Certosa (tutti elementi databili fra VI e V secolo a.C.), rendono plausibile l’ipotesi che queste testimonianze, piú che una semplice frequentazione, documentino, invece, il radicamento di un primo nucleo protostorico anche a Reggio Emilia. La presenza di bronzetti votivi (la cui funzione cultuale è pacifica), suggerisce che la formazione di questo primo agglomerato possa essere messa in relazione con una piccola area sacra, in non casuale corrispondenza con l’alto morfologico su cui si sarebbe impiantato il primo stanziamento romano e in cui avrebbe preso forma il cuore politico e religioso della città.

PRESENZE PREROMANE Da qui ad affermare l’esistenza di un sito analogo ad altri documentati nel territorio reggiano (come nel caso di Servirola, in comune di San Polo d’Enza), la strada è, ovviamente, ancora lunga. In generale, è comunque innegabile che Reggio Emilia presenti tutte le caratteristiche congrue a giustificare lo stanziamento, al suo interno, di un villaggio piú antico, analogo ad altri rinvenuti lungo la valle del Crostolo. Sotto il profilo stratigrafico, questi indizi si possono ricollegare a un suolo ben riconoscibile in città, che viaggia a quote un po’ diverse: si tratta di una paleosuperficie che compare quasi sempre sotto i livelli repubblicani e che contiene esclusivamente frammenti di ceramica di impasto di tipo preromano. Nel secondo caso, ancora piú chiare appaiono le testimonianze che rivelano la presenza, contestualmente alla fase iniziale di vita del forum (pieno II secolo a.C.), di altre coa r c h e o 41


SCAVI • REGGIO EMILIA

munità che coabitavano accanto ai cives Romani. I bracciali in vetro e le coppe depurate e dipinte secondo gli stilemi della ceramica fine ligure di età ellenistica, rinvenuti anche questi nell’area del Credem, attestano la presenza di soggetti di cultura celto-ligure. Allo stesso modo, la ceramica di impasto grossolano rinvenuta nei recenti scavi di Palazzo Busetti e di via Guido Riccio conferma l’esistenza, nella città tardorepubblicana, di consumatori ancora legati a tradizioni alimentari e a gusti decorativi dei popoli che abi-

42 a r c h e o

tavano questi territori prima dell’arrivo dei Romani. Questi materiali confermano, pertanto, la presenza in città dei «discendenti» di coloro che, a seguito del soffocamento del tumultus Gallicus et Ligustinus, come ci ricorda Livio (Liv. 39, 2, 2), furono deportati dalle zone appenniniche in pianura e possono forse essere considerati come l’ultima consapevole espressione (e/o «rivendicazione») di appartenenza a un diverso ambito etnico e a una diversa tradizione culturale, in uno scenario ormai

militarmente e amministrativamente (ma non ancora culturalmente) romanizzato. I dati archeologici testimoniano, sostanzialmente, la composizione variegata del primo popolamento romano in città, nella quale i coloni giunti dall’Italia peninsulare convivevano con individui del sostrato locale.

LA VIA OBLIQUA Le recenti indagini archeologiche hanno apportato elementi di novità anche sotto il profilo dell’urbanistica antica, tanto da rendere necessaria la


ripresa di alcune considerazioni espresse dal compianto Enzo Lippolis (professore ordinario di archeologia classica alla «Sapienza» di Roma, recentemente scomparso), che, fra il 1995 e il 2000, ha esercitato il ruolo di funzionario archeologo della Soprintendenza con competenza su Reggio Emilia. Egli evidenziava come l’area nord-occidentale del centro storico, nel punto in cui il torrente Crostolo formava l’ansa che per lungo tempo caratterizzò la topografia urbana della città antica, potesse essere stata sfruttata come A destra, in alto: selciato stradale della via obliqua nel suo tratto iniziale in uscita dalla via Aemilia. A sinistra, sulle due pagine: immagine dall’alto di Reggio Emilia oggi, con in evidenza il comparto nord-occidentale della città. A destra, in basso: pianta degli scavi condotti sotto Palazzo Trivelli Spalletti, lungo la via Emilia. In blu, i resti – ancora in parte visibili nel seminterrato dello spazio Credem – dell’antica basilica ubicata sul lato nord del Foro.

zona di scalo. Qui potrebbe cioè essersi strutturato, fin dalle fasi piú antiche e parallelamente alla genesi del primo nucleo urbano piú a sudest, un settore a vocazione prettamente commerciale. Pavimenti di età repubblicana posti a profondità elevate rinvenuti in quest’area confermerebbero la sua occupazione già in età antica. La fortuna di questo settore fu tuttavia compromessa dalla morfologia dell’area, che, essendo molto depressa, era soggetta a forte impaludamento. L’interesse per queste considerazioni è riemerso in virtú degli ultimi rinvenimenti che hanno fornito ulteriori spunti per l’interpretazione di questo settore. Di particolare im-

a r c h e o 43


SCAVI • REGGIO EMILIA A destra: un lungo tratto dell’acquedotto rinvenuto nella zona sud-orientale della città, presso l’Arcispedale di S. Maria Nuova. In basso: elemento di cornice in marmo rinvenuto sotto Palazzo Busetti, forse riferibile alle terme.

portanza è risultato il ritrovamento, sotto Palazzo Busetti, della cosiddetta «via obliqua», una strada orientata in senso S-E/N-O, un cui tratto era stato già individuato poco piú a N-O (ricalcata dall’attuale via Crispi). Gli scavi hanno dimostrato, in particolare, come questo asse viario partisse direttamente dalla Via Emilia, in deroga quindi al rigoroso schema a scacchiera dell’impianto romano ed evidenziandone l’importanza e, presumibilmente, la maggiore antichità rispetto alla pianificazione del reticolato urbano. La via seguiva, inoltre, l’andamento morfologico del terreno verso il basso in direzione N-O, adeguandosi alle linee di drenaggio delle acque e ricalcando perciò un percorso naturale e verosimilmente piú antico. Non può sfuggire, infatti, come la strada convergesse verso l’agro reggiano in direzione degli scali portuali disposti lungo il Po. Se si osserva la viabilità della periferia nord-occidentale di Reggio, si nota una convergenza di assi viari in direzione dell’antico municipio romano di Brescello, che confluiscono nella SP 35, nota significativamente anche come «Strada Romana». A prescindere dalla strutturazione definitiva della viabilità romana 44 a r c h e o

(consolidatasi in forma stabile fra l’età tardo-repubblicana e la prima età imperiale), è quindi verosimile che la via obliqua potesse essere uno dei primi assi viari naturalmente proiettati verso gli scali padani.

UN’OCCUPAZIONE ANTICA I recenti scavi condotti nel cuore del comparto nord-occidentale – come quelli per la realizzazione del parcheggio di piazza della Vittoria o quelli, meno recenti, nel vicino isolato – hanno messo in evidenza altri due elementi. Da un lato, si è visto

come, sotto gli edifici tardo-repubblicani e proto-imperiali, vi fossero sempre strutture piú antiche, pienamente repubblicane, confermando un’occupazione già molto antica dell’area a scopi sia abitativi che produttivi. Dall’altro, il fatto che tutte le strutture rinvenute – comprese quelle piú antiche – fossero perfettamente allineate alla via obliqua, vera e propria bisettrice e principale asse di riferimento infrastrutturale di questo settore urbano. Il comparto nord-occidentale della città non sembra insomma essere


pubblica di età romana a Regium Lepidi e il tema è tuttora oggetto di dibattito sul fronte scientifico. Considerazioni interessanti sono state recentemente presentate rispetto all’originaria ubicazione degli edifici da spettacolo (teatro e anfiteatro), senza che però si sia giunti a elementi di certezza. Dati piú sicuri sono invece noti – soprattutto grazie agli scavi condotti da Degani nel centro urbano, a quelli effettuati

nell’area del Credem o agli ultimi studi condotti sull’argomento – rispetto alla collocazione della piazza forense e degli edifici annessi, fra cui l’imponente basilica che sorgeva immediatamente a nord del Foro. Nuovi elementi circa la possibile esistenza di un edificio pubblico possono ricavarsi dalle indagini recentemente condotte presso Palazzo Busetti. Purtroppo, per la sua posizione in pieno centro storico, l’area

Condotte fognarie

Condotte fognarie: possibile prolungamento

Fondazioni murarie

Fondazioni: possibile prolungamento

Elementi dell’acquedotto

Acquedotto: possibile prolungamento

Strada romana

Strada romana: possibile prolungamento

Pianta degli scavi di Palazzo Busetti. In blu, i resti di fondazione murarie riferibili forse a un grande edificio pubblico. Annesse erano strutture funzionali all’uso e allo smaltimento delle acque.

stato toccato dal processo di riqualificazione urbana, perfezionatosi intorno alla fine del I secolo a.C. Su di esso non fu esteso l’impianto a reticolato regolare, in quanto ciò avrebbe rappresentato un’operazione antieconomica (troppo onerosi sarebbero stati i lavori di bonifica e r isistemazione delle quote) e senz’altro impopolare (l’area era già abitata da tempo). Poco ancora sappiamo dell’edilizia

a r c h e o 45


SCAVI • REGGIO EMILIA

l’acquedotto con laterizi bollati sia stato appositamente costruito per alimentare questo edificio, come atto di evergetismo pubblico promosso da un’alta carica municipale. Infine, il rinvenimento, in questa zona, di frammenti di statue (scavi Degani) e di elementi architettonici in marmo e di elevata qualità esecutiva appare del tutto compatibile con un complesso pubblico, ma solo ulteriori In basso, sulle due pagine: fotopiano dei resti della domus di piazza della Vittoria.

è stata oggetto di un processo di trasformazione continuo, con interventi imponenti già a partire dall’età altomedievale e medievale e ulteriormente estesisi in età rinascimentale e moderna. Per questa ragione l’assoluta prevalenza delle strutture di età romana è giunta a noi in forma parziale, perlopiú spogliata, preservandosi unicamente a livello di fondazione e pregiudicando di conseguenza la possibilità di ricostruirne l’originaria articolazione planimetrica. Emerge, in ogni modo, il carattere imponente di questi segmenti murari, senza dubbio riferibili a un edificio pubblico.

USO E SMALTIMENTO DELLE ACQUE Connessa e contestuale a queste testimonianze era, inoltre, una serie di strutture funzionali all’uso e allo smaltimento dell’acqua: nel settore orientale dell’area di scavo sono state rinvenute almeno tre canalette che scaricavano in direzione O dentro a un grande condotto fognario orientato in senso N-S. Quest’ultimo, a sua volta, portava le acque verso sud, confluendo nel 46 a r c h e o

condotto primario che correva sotto e parallelo alla via Emilia. Sempre in quest’area, infine, è stato rinvenuto un segmento dell’acquedotto di cui, proprio recentemente (2012), è stato riportato alla luce un lungo tratto nella zona sud-orientale della città, presso l’Arcispedale di S. Maria Nuova. La conferma che si trattasse dello stesso acquedotto deriva, oltre che dalle caratteristiche strutturali del manufatto (del tutto identiche), dalla presenza dei medesimi bolli impressi sui moduli laterizi. Il rinvenimento di un’articolata rete di strutture connesse all’uso dell’acqua rende plausibile che i resti di fondazione muraria individuati nell’area di Palazzo Busetti siano da attribuire a un edificio termale (o a una struttura similare come, per esempio, ma meno probabilmente, un ninfeo). La sua posizione lungo la via principale di ingresso alla città (via Emilia/decumano massimo) e ai margini del centro monumentale non è certamente casuale. È possibile, inoltre, che


ricerche potranno tuttavia confermare questa ipotesi.

Sulle due pagine, in alto: ricostruzione tridimensionale ipotetica della domus romana scoperta durante gli scavi condotti in piazza della Vittoria, con varie viste dell’esterno e dell’interno dell’edificio.

LA DOMUS DI PIAZZA DELLA VITTORIA Lo scavo recentemente condotto per la realizzazione del parcheggio in piazza della Vittoria ha riportato in luce i resti – purtroppo mal conservati – di una domus romana o, quanto meno, di una sua parte importante. L’indagine stratigrafica e l’utilizzo delle moderne tecniche di rilevamento archeologico hanno permesso di comprendere le fasi edilizie e di vita dell’abitazione e di

a r c h e o 47


SCAVI • REGGIO EMILIA

proporre un progetto di ricostruzione virtuale attraverso l’elaborazione di un modello tridimensionale dell’edificio. Rimandando, per l’analisi di dettaglio, alle pubblicazioni scientifiche sinora edite (la piú recente è liberamente scaricabile on line; vedi box a p. 49), preme qui porre in evidenza alcuni elementi essenziali su questa scoperta. In primo luogo, dopo gli scavi effettuati a Reggio Emilia da Mario Degani (1940-1960) e quelli condotti presso l’area del Credito Emiliano da Luigi Malnati (1980-1983), la domus di piazza della Vittoria costituisce uno dei rinvenimenti meglio documentati e di piú ampia estensione superficiale nel quadro dell’edilizia privata dell’antica Regium Lepidi. In epoca recente, contesti analoghi sono stati perlopiú attestati in ritrovamenti connessi a interventi puntuali e perciò poco utili per la definizione di una casistica dell’edilizia domestica reggiana. Per le sue caratteristiche specifiche (planimetria, dimensioni, apparato decorativo), la domus di piazza della Vittoria rientra certamente nella tipologia dell’abitazione monofamiliare (quella prevalentemente attestata a Reggio Emilia) e trova confronti significativi nell’architettura domestica di ambito cisalpino. Un altro elemento importante riguarda la posizione della casa, che ricade in un settore periferico della città, posto ai limiti della città repubblicana. Il rinvenimento, sotto alla domus, di un edificio piú antico, di tipo rustico e con funzioni produttive, ma già orientato con la via obliqua, conferma come, fra la fine del II e gli inizi del I secolo a.C., la zona fosse ancora un’area suburbana. Insieme ad altri resti significativi di edifici privati rinvenuti piú a ovest, la domus di piazza della Vittoria sembra dunque poter rientrare nel quadro di un nuovo e piú incisivo progetto di espansione della 48 a r c h e o

Denario d’argento coniato dal magistrato monetale L. Caesius fra il 112 e il 111 a.C. e rinvenuto nello strato di preparazione dei pavimenti della domus romana riportata alla luce dagli scavi in piazza della Vittoria.

città in direzione N-O, con lottizzazione di nuove aree lungo la bisettrice obliqua. È noto, d’altra parte, come il centro urbano sia andato progressivamente ampliandosi, passando dagli iniziali 24 ettari, circa, dell’epoca repubblicana agli oltre 36 in età imperiale. In terzo luogo, la posizione, la tipologia della domus, il suo apparato decorativo e i reperti rinvenuti in contesto possono fornire informazioni sulla condizione sociale del padrone di casa. In base a questi elementi e al confronto con quanto sappiamo sull’edilizia privata a Reg-

gio Emilia (e nelle vicine città), è del tutto plausibile che il dominus facesse parte di quel ceto medioimprenditoriale cosí ben attestato nei centri emiliani di età romana. La presenza di un hortus a est della casa, con una vasca al centro, potrebbe essere relazionato a qualche attività produttiva o commerciale in capo al proprietario. L’impressione che si ricava dall’analisi di contesti di questo tipo è quella di un certo benessere, peraltro riconoscibile anche nel carattere monumentale della necropoli orientale della città. Infine, una scoperta interessante è stata quella di un denario d’argento coniato dal magistrato monetale L. Caesius fra il 112 e il 111 a.C., rinvenuto nello strato di preparazione di un pavimento della casa. Oltre a fornire un riferimento cronologico preciso – ovviamente post quem – per la datazione della domus, la sua presenza sembra rivestirsi di un chiaro significato simbolico e apotropaico. Sul rovescio della moneta sono infatti rappresentati i Lares, le divinità protettrici della casa per antonomasia, e, in particolare, dei cosiddetti Lares Praestites, la cui funzione era quella di proteggere i confini della città. Se, dunque, appare evidente il fatto che la moneta sia stata intenzionalmente collocata sotto il pavimento della casa a scopo protettivo e benaugurante (della domus, del dominus, della sua familia e dei suoi negotia), la presenza su di essa di divinità connotate specificamente come protettrici dei confini non sembra casuale in un’abitazione che sorgeva ai margini della città.

BILANCI E PROSPETTIVE Questi i principali elementi di novità emersi sulla città romana. Dati altrettanto importanti sono emersi rispetto alle fasi post-antiche della città, che potranno eventualmente essere oggetto di un secondo con-


REGGIO EMILIA DALLE ORIGINI AI GIORNI NOSTRI Curato da chi scrive e da Anna Losi, il volume deriva, in buona parte, dal lavoro di studio e sistemazione dei materiali archeologici recentemente rinvenuti a Reggio Emilia ed effettuato in occasione della mostra «Lo scavo in Piazza. Una casa, una strada, una città», tenutasi presso i Musei Civici dall’8 aprile al 3 settembre 2017. Non si tratta, tuttavia, di un vero e proprio «catalogo di mostra», ma di un progetto di studio che mette a sistema i dati di scavo acquisiti nel corso dei recenti interventi di riqualificazione urbana (2010-2015). Il lavoro, di taglio volutamente divulgativo, senza però rinunciare all’approccio scientifico rigoroso e multidisciplinare, dà conto del monitoraggio archeologico condotto dalla Soprintendenza, grazie al quale oggi sappiamo che a Reggio Emilia, nel II secolo a.C., si beveva profusamente vino greco proveniente dall’isola di Rodi; che almeno uno degli acquedotti rinvenuti nell’area dell’ospedale portava acqua a un edificio termale posto sulla via Emilia; che una strada obliqua, frequentata almeno fino al V secolo d.C., partiva direttamente dalla via

tributo sulla Reggio tardo-antica e medievale. L’archeologia urbana rappresenta, dunque, una «vetrina privilegiata» e imprescindibile per comprendere la storia delle nostre città. Il mestiere dell’archeologo – sia del ricercatore, che si interroga costantemente sul passato nel tentativo di dargli una forma e un significato, sia del tecnico di cantiere e della Soprintendenza, che cercano di tutelarlo raccogliendo dallo scavo il maggior numero di dati – consente di vivere piú consapevolmente il senso e il processo di cam-

Emilia modificando l’assetto del comparto urbano nord-occidentale della città, dove sorgeva un altro importante quartiere residenziale; e che, in età medievale, Reggio era popolata di torri e punto di convergenza di maestranze di scuola antelamica. Possiamo cosí ricostruire la storia o forse piú «storie» della città, dei suoi abitanti e dei suoi monumenti, dalle origini ai nostri giorni. Il libro è gratuitamente scaricabile dal seguente link: http://www.archeobologna. beniculturali.it/pubblicazioni/ altre_pubblicazioni.htm

biamento e trasformazione del paesaggio urbano. Quanto rimane del nostro passato spesso si cela dietro a soli due o tre metri di deposito stratigrafico (spesso già molto compromesso da interventi moderni), che dobbiamo saper leggere e interpretare, traendone il massimo delle informazioni possibili. Una «materia informativa» a cui, però, riusciamo ad accedere spesso solo in forma puntuale e una tantum (lo scavo è di per sé un’azione distruttiva). Da ciò si evince l’importanza di opere di riqualificazione urbana come quelle recentemente verificatesi a Reggio Emilia, che devono essere affrontate in stretta concertazione con le istituzioni preposte alla tutela archeologica, trasformando i disagi e le criticità di cantiere in opportunità di conoscenza e di valorizzazione del patrimonio sepolto. PER SAPERNE DI PIÙ

Appuntamento a Reggio Emilia Organizzato per celebrare il bicentenario della nascita di Gaetano Chierici, il convegno internazionale «Attualità di don Gaetano Chierici, archeologo, museologo e maestro di impegno civile» è in programma a Reggio Emilia (nelle sedi della Sala del Tricolore, dell’Oratorio San Filippo e del Palazzo dei Musei) dal 19 al 21 settembre.

Giancarlo Ambrosetti, Roberto Macellari, Luigi Malnati (a cura di), Lepidoregio. Testimonianze di età romana a Reggio Emilia, Musei Civici di Reggio Emilia, Reggio Emilia 1996 Roberto Macellari, Gli Etruschi e gli altri. Reggio Emilia terra di incontri, Skira, Milano 2014 Maurizio Forte (a cura di), Regium@Lepidi 2200. Archeologia e nuove tecnologie per la ricostruzione di Reggio Emilia in età romana, Ante Quem, Bologna 2016 Giorgia Cantoni, Annalisa Capurso (a cura di), On the Road. Via Emilia 187 a.C.-2017, catalogo della Mostra (Reggio Emilia, Palazzo dei Musei 25 novembre 2017-1 luglio 2018), Grafiche Step, Parma 2017 Paolo Storchi, Regium Lepidi, Tannetum, Brixellum e Luceria. Studi sul sistema poleografico della provincia di Reggio Emilia in età romana, Edizioni Quasar, Roma 2018 a r c h e o 49


MOSTRE • PARIGI

TUTTO

L’ORO DI TUT

UNA MOSTRA PARIGINA ESPONE 150 CAPOLAVORI RINVENUTI DURANTE LA PIÚ CELEBRE DI TUTTE LE SCOPERTE, QUELLA DELLA TOMBA DI TUTANKHAMON, AVVENUTA NEL NOVEMBRE DEL 1922. UN’OCCASIONE UNICA PER RIPERCORRERE L’INCREDIBILE STORIA DI UN FARAONE BAMBINO, LA CUI ESISTENZA HA SEGNATO – E SEGNERÀ PER SEMPRE – L’IMMAGINARIO ARCHEOLOGICO DI TUTTO IL MONDO. NE ABBIAMO PARLATO CON L’EGITTOLOGO DOMINIQUE FAROUT, RESPONSABILE SCIENTIFICO DELL’ESPOSIZIONE... di Daniela Fuganti 50 a r c h e o


I

l 4 novembre 2022 si celebrerà il centesimo anniversario della scoperta della tomba di Tutankhamon, uno dei piú spettacolari ritrovamenti archeologici di tutti i tempi. Per celebrare l’evento, il Ministero egiziano delle Antichità, in collaborazione con l’agenzia statunitense IMG Exhibition, ha organizzato una mostra itinerante che, in quattro anni, è destinata a portare nei piú grandi musei del mondo centocinquanta oggetti provenienti dalla celeberrima sepoltura (sessanta dei quali lasciano il Paese per la prima volta). In attesa della loro ultima sede definitiva, che li custodirà nel nuovo grandioso museo egiziano dell’altopiano di Giza. I proventi del centenario serviranno a completare la costruzione dell’opera, che dovrebbe essere ultimata appunto nel 2022, anche per rilanciare il turismo in Egitto. Come sottolinea Dominique Farout, consulente scientifico della mostra, i capolavori presentati a Parigi, negli spazi della Grande Halle de la Villette, sono d’interesse capitale. Anche se l’egittologo Zahi Hawass, già segretario del Consiglio Superiore alle Antichità, ha preferito minimizzare l’importanza dei prestiti per non scatenare reazioni polemiche nell’opinione pubblica egiziana, che non vede di buon occhio l’uscita dal Paese di simili tesori. Non è la prima volta, infatti, che il corredo funerario del giovane faraone esce dalle vetrine del Museo Egizio del Cairo. Già nel 1961 trentuno oggetti della tomba avevano lasciato l’Egitto per quattro anni

Nella pagina accanto: gruppo in diorite raffigurante Tutankhamon protetto dal dio Amon. 1328-1318 a.C. Parigi, Museo del Louvre. In basso: figurina in oro del dio Horo come falcone solare, dall’anticamera della tomba di Tutankhamon. 1328-1318 a.C. Cairo, Museo Egizio.

e avevano fatto tappa in ventuno città degli Stati Uniti e del Canada. L’esposizione «I Tesori di Tutankhamon» fu realizzata per finanziare il salvataggio dei monumenti in Nubia, che stavano per essere inghiottiti dalla costruzione della diga di Assuan. Nel 1967 fu quindi il Petit Palais di Parigi ad accogliere «Tutankhamon e il suo tempo», un evento memorabile, per il quale fu concessa in prestito (per la prima e ultima volta) la maschera funeraria in oro massiccio del faraone, e che richiamò 1 240 000 visitatori. Un’affluenza ancora maggiore si registrò nelle successive mostre, organizzate nel 1972 a Londra (1 649 117), a Chicago nel 1977 (1 350 000) e a Filadelfia nel 2007 (1 302 670). La tomba di Tutankhamon (dodicesimo sovrano della XVIII dinastia, 1328-1318 a.C.), denominata KV62 (a indicare che si tratta del 62° monumento funerario noto e catalogato della Valle dei Re, la Kings’ Valley, appunto, n.d.r.) ha affascinato gli archeologi e poi i visitatori già all’indomani della sua scoperta, compiuta il 4 novembre 1922 dall’egittologo britannico Howard Carter (1874-1939).

ANTICHI SACCHEGGI Adagiata nella Valle dei Re, vicino alle sepolture di altri ventisei sovrani del Nuovo Regno (1543-1069 a.C.), l’ultima dimora del giovane faraone è atipica per molti motivi. Malgrado le due «visite» di saccheggiatori nell’antichità (la prima effettuata subito dopo le cerimonie funebri), è stata miracolosamente preservata nel a r c h e o 51


MOSTRE • PARIGI

tankhamon non era sicuramente quella prevista per ospitare un personaggio di tale rango.

tempo grazie alla damnatio memoriae che aveva colpito il suo titolare. Ultimo discendente della stirpe eretica del faraone Amenofi IV (1348-1331 a.C.), che prende il nome di Akhenaton, «Colui che è utile ad Aton»,Tutankhamon venne infatti dimenticato, e l’ingresso della sua tomba finí dissimulato dai detriti provenienti dal sepolcro KV9, che raggruppava le spoglie di Ramesse V (1146-1143 a.C.) e Ramesse VI (1143-1136 a.C.). Malgrado la ricchezza del suo contenuto, la sepoltura di Tu-

MORTE PREMATURA Di dimensioni relativamente modeste e con una planimetria insolita, si pensa fosse destinata piuttosto a una regina, nella quale gli egittologi riconoscono ormai la figura di Ankhkheperure-Neferneferuaton, ossia Merytaton, sorella maggiore di Tutankhamon. Probabilmente il monumento funebre degno del suo status

In alto: pendente in oro di Amenofi III, scoperto insieme a una ciocca di capelli della sua sposa principale, la regina Ty. 1328-1318 a.C. Cairo, Museo Egizio. Il monile faceva parte del tesoro di Tutankhamon. Nella pagina accanto, in alto: pianta della Valle dei Re (Biban el-Muluk), toponimo che designa la necropoli regale dell’antica Tebe (Egitto), alla sinistra della Valle del Nilo; contiene 62 tombe di sovrani delle dinastie XVIII-XX. La tomba piú antica risale a Thutmosi I (1497-1483 a.C.). Camera del sarcofago

Porta 4

Camera laterale

Porta 3 Corridoio

Anticamera Porta 2

52 a r c h e o


N

non era terminato quando, a 19 anni, Necropoli di Tebe (Valle dei Re) 1 (Ramesses VII) il giovane re morí a causa della malaria e di una frattura del Mar Mediterraneo femore infettata, e si dovette ripiegare su una tomba Cairo Sinai che potesse essere usata e ARABIA decorata rapidamente, coS U D I TA me provano gli schizzi di pittura gialla lasciati inav2 (Ramesse IV) Valle dei Re vertitamente dai pittori della necropoli sulla capMar EGITTO Rosso pella esterna in legno doLago Nasser rato che ospita la mummia. 62 (Tutankhamon) Carter e la sua équipe im8 (Merneptah) piegarono dieci anni per 7 (Ramesse II) 5 inventariare, estrarre e restaurare il contenuto della sepoltura, ossia 6 (Ramesse IX) 5398 oggetti.Tuttavia, la sensaziona(Ramesse VI) 55 9 le scoperta scatenò una grave crisi 56 58 12 con le autorità egiziane: la legge (Horemheb) 57 permetteva di dividere le scoperte 35 10 (Amenhotep II) 48 (Amenmeses) archeologiche in parti uguali fra i 16 11 (Amenemipet) (Ramesse III) ilo

(Ramesse III)

17 (Sethi I)

18 (Ramesse X)

36 (Mei-her-peri)

3 46 (Yuya and Tuya) 4 (Ramesse XI)

45 (Userhet) 44 28 27

54 21

61

13

29 60 (Hatshepsut) 20

(Tewosret) 14

Camera del tesoro

47 (Siptah) 38 (Thutmosi I)

40 30

15 (Sethi II)

19 (Mentu-her-khepshef)

26 59

43 (Thutmosi IV)

31 37

32 42

N

34 (Thutmosi III)

0

75 m

«VISITATORI» ANTICHI E MODERNI

Porta 1

L’assonometria ricostruttiva che qui pubblichiamo mostra il monumento funerario di Tutankhamon, specificando anche la posizione delle porte che chiudevano i vari ambienti. La tomba fu violata già in antico, in due occasioni, succedutesi, secondo Howard Carter, a una quindicina d’anni di distanza l’una dall’altra. I segni di effrazione riscontrati sulle Porte 1 e 2 suggeriscono che i primi saccheggiatori fossero arrivati solo fino al corridoio. Successivamente, i protagonisti del secondo saccheggio aprirono il piccolo foro nella Porta 2, che conduce all’anticamera. In apparenza, però, non giunsero nella camera del sarcofago, ma solo nella camera laterale (Porta 3). Howard Carter fu dunque il primo a introdursi (nella notte del 27 novembre 1922) all’interno della camera del sarcofago, attraverso una piccola apertura nella Porta 4.

a r c h e o 53


MOSTRE • PARIGI

membri di una spedizione straniera e il Servizio delle Antichità, ma prevedeva anche che, qualora una tomba fosse stata trovata intatta, i suoi scopritori non avrebbero potuto avanzare alcuna pretesa. Carter e il suo finanziatore, il conte di Carnarvon, consideravano la sepoltura come loro proprietà, poiché il secondo aveva speso 500 000 sterline negli scavi, e stimarono il valore del suo contenuto in una cifra pari a 3 milioni di sterline. Il conte manifestò quindi l’intenzione di portare in Gran Bretagna una parte del tesoro a titolo di risarcimento. Ebbe cosí inizio una battaglia legale che, alla morte di Carnarvon, venne continuata da Carter, il quale, alla fine, ottenne per gli eredi un indennizzo di 35 000 sterline, di cui una parte per se stesso. In cambio dovette rinunciare a ogni pretesa sugli oggetti. Sembra tuttavia che Carter avesse prelevato qualche «ricordo» dalla tomba prima della sua apertura ufficiale, attraverso un buco poi richiuso. Nel 2010, il Metropolitan Museum of Art di New York ha infatti restituito all’Egitto diciannove pezzi, gli stessi probabilmente estratti dall’archeologo inglese o dai membri della sua équipe. 54 a r c h e o


Sulle due pagine, da sinistra, in senso orario: un particolare dell’allestimento della mostra in corso a Parigi; flabello e scettro di Tutankhamon in oro, lega di rame, pasta vitrea, legno e cornalina, dalla camera del tesoro; particolare di una delle statue deposte nella tomba del faraone e aventi la funzione di vegliare sull’eterno riposo del sovrano; piccola cappella in legno rivestito d’oro al cui interno era stato collocato il basamento di una statua (disposto all’esterno del manufatto nella foto), dall’anticamera della tomba di Tutankhamon.

a r c h e o 55


MOSTRE • PARIGI

NATO PER REGNARE Incontro con Dominique Farout, consulente scientifico dell’esposizione In occasione dell’inaugurazione della mostra allestita presso la Grande Halle della

Villette, abbiamo chiesto a uno dei responsabili del progetto di illustrarne gli aspetti piú significativi.

◆P rofessor Farout, nonostante il favoloso tesoro, la scoperta della tomba di Tutankhamon rivelò il nome di un faraone completamente ignoto... «Era sconosciuto perché il suo nome era stato cancellato da tutte le liste reali, in una damnatio memoriae comune a tutti i sovrani legati al faraone eretico Akhenaton. A tal punto che l’esistenza della sua sepoltura era sicuramente già stata dimenticata duecento anni dopo la sua morte quando, alla fine del Nuovo Regno – un contesto di terribile crisi economica – le tombe reali vennero saccheggiate. Essendo assai modesto, il suo sepolcro si trovava in una posizione indegna per un re, e quindi non fu trovato. Successivamente la sua scomparsa divenne “definitiva” per merito degli artigiani della necropoli che, ai tempi della XX dinastia (11861069 a.C.), vi costruirono sopra le loro capanne, ricoprendone il tetto e l’ingresso con i detriti. Da allora, la tomba rimase nascosta per millenni, fino al 1922, quando un ragazzo del luogo scavò una buca nella sabbia per le sue giare colme d’acqua, e scoprí un gradino di pietra…». ◆C hi è Tutankhamon, dodicesimo faraone della XVIII dinastia? «È il nipote di Amenofi III (1387-1348 a.C.), il re che ha lasciato il maggior numero di costruzioni monumentali nell’antico Egitto: siamo nel Nuovo Regno, nella seconda metà della XVIII dinastia, il periodo piú ricco di tutta la storia egiziana. Ed è il figlio di Amenofi/Amenhotep IV, il quale, dopo sei anni di regno, cancella il suo nome iniziale di Amenhotep (“il dio Amon è soddisfatto”), sostituendolo con Akhenaton (“colui che è utile al disco solare”), abbandonando il tradizionale politeismo egizio a favore di una nuova religione di stampo monolatrico (credenza in piú divinità, ma adorandone una sola): una religione introdotta da lui stesso 56 a r c h e o

In alto: statuetta in legno dorato raffigurante Tutankhamon su una piccola barca mentre caccia con un arpione, dalla camera del tesoro. 1328-1318 a.C. Cairo, Museo Egizio. A sinistra: piccolo gruppo composto da una statuetta dorata di Tutankhamon che incede sopra una pantera, dal tesoro del faraone. 1328-1318 a.C. Cairo, Museo Egizio.


e basata sul culto del solo dio Aton, il disco solare. La madre di Tutankhamon doveva certamente essere Nefertiti (“la bella è venuta”)». ◆ I l nome ha molta importanza nell’antico Egitto, non è vero? «È fondamentale. L’uomo che sale al trono è trasfigurato e acquisisce una natura divina che si manifesta attraverso una trasformazione onomastica. In effetti il “nome di nascita” designa l’individuo, ed evoca la sua esistenza fin dopo la morte. Con l’ascesa al trono, il nome di nascita del sovrano si regalizza, avvolgendolo in un cartiglio protettore e aggiungendo spesso degli epiteti. Conoscendo l’importanza del nome per esprimere l’essenza dell’essere, abbiamo la misura del significato rivoluzionario della trasformazione del padre di Tutankhamon, avvenuta quando Amenothep abbandona definitivamente il suo nome di nascita e assume quello di Akhenaton. Questo cambio, fatto rarissimo nella storia egiziana, è invece frequente nel passaggio all’atonismo, e poi nella fase di ritorno al culto a Amon. Le pene piú terribili che si potevano infliggere nell’antico Egitto si applicavano proprio al nome, trasformandolo in vari modi per ottenere i significati piú degradanti». ◆E ssere il figlio di Akhenaton non doveva essere facile, visto che la breve «rivoluzione atoniana» aveva traumatizzato la popolazione, lasciando il paese esangue... «In effetti, nonostante la straordinaria fioritura artistica, il regno di Akhenaton fu una dittatura sanguinaria. Alla morte del padre, il giovane faraone ha appena cinque anni, e sale al trono verso i nove anni. Un intervallo temporale piuttosto oscuro, nel quale regnarono il misterioso Smenkhkara (governò meno di un anno e alcuni egittologi, fra cui Zahi Hawass, sono giunti alla conclusione che si trattasse di Nefertiti stessa sotto un altro nome), e la sorella Merytaton/Merytamon. Tutankhamon è stato allevato nel culto di Aton, con il nome di Tutankhaton, ma nel secondo anno di regno ristabilisce il culto di Amon, in uno sforzo di concordia che mantiene anche l’adorazione del disco solare. Si conservano i templi di Aton e si riparano le macerie di quelli di Amon. Sugli oggetti del corredo

Sarcofago in miniatura avente funzioni di vaso canopo in oro e pietre preziose raffigurante Tutankhamon e con dediche ad Amseti (uno dei «figli di Horo») e Iside, dalla camera del tesoro. 1328-1318 a.C. Cairo, Museo Egizio.

funerario appaiono i due nomi Tutankhaton e Tutankhamon. Le due varianti del nome, atonista e amonista, coesistono su un oggetto importante come il Trono Carter 91 (conservato al Museo Egizio del Cairo). Se il nome di Tutankhaton fosse stato proscritto, come avrebbero potuto dimenticare di correggerlo su un oggetto cosí emblematico?».

◆ Un bambino di soli nove anni poteva effettivamente essere in grado di affrontare una riforma cosí spinosa? Quali furono gli eventi importanti del suo breve regno? «Fin dalla prima infanzia, Tutankhamon era stato perfettamente formato al mestiere di re. E il suo regno non fu poi cosí breve, in dieci anni possono accadere molte cose. Ristabilire il culto di Amon, dopo vent’anni di eresia, fu un’operazione complessa. Bisognava istruire nuovamente i sacerdoti al culto di Amon, ricostruire i templi, sostituire le statue infrante e le iscrizioni cancellate. Tutankhamon si fece rappresentare su un gran numero di statue, come in quella colossale in quarzite (usurpata da Ay e Horemheb), che è stata prestata dal Louvre, e che chiude il percorso della mostra alla Villette. Se non fosse morto cosí presto, sarebbe stato probabilmente un grande re, come suo nonno». ◆A y e, in seguito Horemheb, succedettero sul trono a Tutankhamon. Chi erano questi due personaggi? «Ay è l’ex precettore di Tutankhamon, nonché suo familiare, benché non si conosca esattamente il grado di parentela. È ormai vecchio, ha cinquant’anni quando prende il potere, e con lui si estingue la famiglia. Horemheb (“Horus è in festa”) è invece un generale, comandante delle forze armate fin dai tempi di Akhenaton, ripristina il culto di Amon e cancella tutte le immagini di epoca atonista, in una damnatio memoriae che non risparmia nessuno. Horemheb e i primi re della XIX dinastia (i suoi successori Ramesse I, Seti I, Ramesse II) rimuovono ovunque i nomi di Akhenaton, Smenkhkaré, Merytaton/Merytamon, Tutankhaton/Tutankhamon e Ay. Una sentenza terribile, poiché la cancellazione del nome comporta una seconda morte nell’aldilà, ben piú assoluta di quella del corpo». a r c h e o 57


MOSTRE • NOME MOSTRA

Statuetta in legno dorato raffigurante Tutankhamon con la corona bianca, simbolo dell’Alto Egitto, dalla camera del tesoro. 1328-1318 a.C. Cairo, Museo Egizio. 58 a r c h e o


◆N onostante l’accanimento di Horemheb, Tu- A destra: astuccio tankhamon è diventato il faraone piú celebre per specchio in dell’antico Egitto… forma di ankh; «È strano, in effetti, che l’ex generale non abbia toc- legno dorato con cato la sua tomba (né il suo contenuto), pur conoinserti in pasta scendone l’esatta ubicazione. Possiamo pensare che la vitrea e sua condanna fosse solo di facciata e che lui avesse cornalina. voluto concedere una sorta di via d’uscita al suo gio1328-1318 a.C. vane ex re. È una domanda legittima, sappiamo infatCairo, Museo ti che né Ay, né tantomeno Akhenaton hanno avuto Egizio. questa fortuna. Benché il nome di Ay fosse stato sopIn basso: due presso ovunque, la sua memoria è sopravvissuta sol- ushabti, statuette tanto nella tomba di Tutankhamon: in un’immagine funerarie che sulla parete nord della cappella lo si riconosce intento venivano deposte nel rituale dell’“apertura della bocca”». nelle tombe per ◆D ata la giovanissima età, per prendere le sue decisioni Tutankhamon doveva avere dei consiglieri: ne conosciamo i nomi? «Oltre ad Ay, suo precettore e successore, che ha su di lui una grande influenza e si designa “padre divino”, e a Horemheb, generale dell’esercito, forse l’uomo piú potente del regno (assente alle onoranze funebri del

sostituire il defunto nelle incombenze piú gravose dell’aldilà. 1328-1318 a.C. Cairo, Museo Egizio.

faraone perché impegnato sulla frontiera contro gli Ittiti), c’è anche Maya, direttore delle finanze e del tesoro. Una miniatura di sarcofago in legno decorato che si può ammirare nell’esposizione, mostra la mummia di Tutankhamon sul suo letto funerario. Reca un’iscrizione: “Il vero scriba reale, direttore della casa dei soldi, Maya, ha offerto”. Maya è il responsabile della costituzione dell’intero tesoro, e potrebbe aver provveduto alle riparazioni della tomba dopo il primo saccheggio. Il suo aiutante, Thutmosi, lo ha coadiuvato apportando note e commenti sugli oggetti, molti dei quali offerti e dedicati dai vari personaggi della corte, e in questo modo ha lasciato la sua firma ovunque. Nella tomba di Maya, rinvenuta a Saqqara nel 1843, poi dimenticata e riscoperta nel 1986, troviamo addirittura le rappresentazioni degli orafi che hanno realizzato i gioielli di Tutankhamon». ◆ I n mostra è esposto un piccolo trono, costruito espressamente per un bambino… «È un oggetto commovente.Tutankhamon aveva il suo trono in miniatura sul quale sedeva in solitudine. D’altra parte, anche le insegne reali – lo scettro e il flabello – sono a misura di bambino, affinché il neo-faraone possa tenerle in mano. Si riducono anche, oltre ai mobili, le dimensioni delle armi». ◆C hi era la sposa di Tutankhamon? Aveva avuto una discendenza? «La norma in Egitto era di sposare la propria sorella. Il a r c h e o 59


MOSTRE • PARIGI

La vetrina della mostra nella quale sono riuniti un trono e un poggiapiedi in legno con inserti in ebano e avorio, dall’anticamera della tomba di Tutankhamon. 1328-1318 a.C. Cairo, Museo Egizio.

padre Akhenaton, data la sua natura divina, aveva sposato una delle sue figlie.Tutankhamon era il risultato di questi accoppiamenti endogamici a ripetizione, per questo fu vittima di malattie genetiche d’ogni genere. Si conosce una sola sposa di Tutankhamon, sua sorella Ankhesenamon. Insieme hanno avuto due bambine nate prima del termine, identificate con i due feti ritrovati nella tomba. Una spettacolare cappella dorata, presente in mostra, rappresenta scene di vita comune della coppia reale: Ankhesenamon assiste lo sposo in diversi riti, testimoniando la sua adorazione. Alcuni strumenti, come il pettorale menat, oppure le acconciature, associano la regina ad Hator, la dea dell’amore. La regina spalma unguenti sul corpo del re: sono rappresentazioni “pornografiche”, che mettono in scena l’accoppiamento divino. L’espressione dei rapporti “affettuosi” e intimi della coppia resta comunque una particolarità del periodo amarniano». 60 a r c h e o

◆D istricarsi fra i legami familiari di Tutankhamon non è facile… «I rapporti di parentela che legano i membri della XVIII dinastia celano parecchi misteri agli occhi degli storici e degli archeologi, ma quelli del periodo amarniano sono particolarmente intricati. Gli specialisti interpretano le fonti scritte, le opere d’arte e le scoperte archeologiche in modi diversi, e raramente riescono a mettersi d’accordo». DOVE E QUANDO «Tutankhamon. Il tesoro del faraone» Parigi, Grande Halle de la Villette fino al 15 settembre Orario tutti i giorni, 10,00-20,00 Info www.expo-toutankhamon.fr Note si consiglia la prenotazione



POPOLI DELLA BIBBIA/8 – ARAMEI

«MIO PADRE ERA UN

ARAMEO ERRANTE...» Aramei, Moabiti, Ammoniti, Edomiti: sono i nomi di antichi raggruppamenti tribali, stanziatisi nelle desertiche montagne a oriente del fiume Giordano. Accomunati da uno stesso, fortunatissimo, idioma (l’aramaico sarà la lingua parlata da Gesú), animano la mappa «geopolitica» del racconto biblico. Ma, come sempre, è l’archeologia a ricostruirne la vera storia... di Fabio Porzia

C

rocevia di regioni diverse, il Levante siro-palestinese è da sempre teatro di confronti culturali e di scontri politici, questi ultimi spesso violenti. Un momento particolarmente significativo in questo senso fu il periodo compreso tra la fine dell’età del Bronzo e l’inizio dell’età del Ferro, approssimativamente attorno al XII secolo a.C., quando, come conseguenza di un periodo assai critico dal

62 a r c h e o

punto di vista economico e sociale, il profilo politico dell’intera regione venne ridisegnato. In questa fase di riassestamento generale, in cui è difficile stabilire con esattezza le percentuali di continuità e cambiamento, si fissarono nel paesaggio archeologico e testuale i principali attori che recitarono un ruolo di primo piano nella Bibbia ebraica. Anche studi recenti riconoscono caratteri prettamente triba-

li ad alcuni di questi gruppi, in particolare a quelli stanziati n e l l ’ e n t ro t e r r a s i r i a n o e transgiordanico. In realtà, la Siria e la Transgiordania sono territori dalla geografia e dalla storia profondamente diversi: la prima, come parte della costa levantina, era stata interessata dal fenomeno urbano sin da tempi antichissimi e qui, a partire dalla fine del II millennio a.C., alcuni capigruppo particolarmente carismatici e


Il profeta Eliseo rifiuta i doni di Naaman, olio su tela di Pieter de Grebber. 1637. Haarlem, Frans Hals Museum. «Capo dell’esercito del re di Aram» (2 Re 5), Naaman si era recato in Israele e il profeta l’aveva guarito dalla lebbra ordinandogli di immergersi per sette volte nelle acque del Giordano.

intraprendenti presero il potere negli importanti centri siriani, istituendo dei potentati locali a successione dinastica; nella seconda, invece, dove a far da padrone fu sempre il paesaggio desertico compreso tra l’area al di là del Giordano e il confine con la penisola arabica, soltanto verso la fine del II millennio a.C. si assistette a un processo di sedentarizzazione dei pastori nomadi, con la conseguente formazione di nuovi

insediamenti di piccole dimensioni, privi delle sovrastrutture urbane tipiche dei centri costieri o settentrionali.

L’ULTIMA INVOCAZIONE Nella cultura popolare, piú degli Aramei stessi, è nota la loro lingua, l’aramaico, parlata da Gesú di Nazareth, il quale se ne serví per chiamare «Abbà», «Padre», il Dio degli Ebrei (Marco 14,36). Secondo gli evangelisti, che citano proprio la versione ara-

maica del Salmo 22,2 (Matteo 27,46 e Marco 15,34), Gesú pronunciò in aramaico anche le ultime parole gridate dalla croce: «Elí, Elí [o Eloí, Eloí] lemà sabactàni», «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». In realtà, la storia delle popolazioni aramaiche ha radici piú antiche, ma si deve distinguere la breve parabola della vicenda degli Stati aramaici (fra XII e VIII secolo a.C.) dalla fortuna della loro lingua. Quest’ultima, a r c h e o 63


Kh la Kha lab a

POPOLI DELLA BIBBIA/8 • ARAMEI

I t t i t i

O nt Or Oro nnte t

ll'im e de nfin o c e l sibi Pos

di pero

e m on Sa l o Tiphsa Tip hsah h

Eufra te

(Thaps (Th apsacu acu c s) s

Sa alam mina a in Cipro ro

Hamath Ham ath

dell 'impe ro di Sa l

CHITTIM (Cipro)

omone

H A M A T H

Rib bla a

Po

A

o

R

A Da Dam amasc a asscco

t

i

M M. Herm Her mon mo oon

n fi

)

E i M

H A B

(

Sid done ne e

r

(Mar Mediterraneo)

O

M are

Z

G ra n d e

F E N I C I A

Il

Berro oth t ai th

co ile b i ss

I

a

Zed edad ad HazarHaz ar-ene ene n n

Geba al (Bib blo o)

Tad dm mor orr

n

Qadesh Qad es

ne

i

Arva ad

Dan D an Ked K Ke ed e edesh desh essh

H or Ha Haz or

NE

Nob bah R oth Ram h Gi Gilea lea e d ea

s N

AD

e

O

A

Gat Ga atth a Madaba Mad aba Lachis Lac hish h A Marr M to o Hebron Heb ron o on D Mor Arcer e er Zikklag Z ag U Ein Ein--g -gedi I Gerrar Ger ar G Arr Bee Be B e r-s r-sheb heb eba Kir-m Kir -mo oab a

M

Hes esh hbo bon n

M

Rab abb ab bathba bat h-a - mmo mon

Ge Ger G e erico i ic Ge G Ger erus usa usa usalem sale llem em e mme me

LI

D

Gaz aza a

Gibeah Gibeah Gib

FI

Ascalo Asc ona

Ge G e ezzerr

ST

Ash hdod

EA

S

Rafia

Edr Ed drei

LE

Gia affa fa

GI

Sichem Sic hem em (Samar (Sa mar aria) ia a)

Giorddaano

Tirrza za

SE

SO

Assh Ash shtar t oth ta th

I S R A E L E

E

O

B A S H A N

LLag La ago go Kinnner n et et

M id Meg id idd dd do TOB M M. Dor orr Gilbo Gil boa oa o a Be Be eiit She’ he’an an T nac Taa ac ach ch

N NO

Cabull Cab

r

Acc cco

e

Abel Abe

S

Tirro

B M O A

T arr Ta Tam

Amaleciti Bozrah Boz rah Kad ad desh es Ba Barne r a

Pun Pu P non o

E D O M Regno ddi Dav Re Reg Da ide comee re e ddi Giuda da da Regno di Dav Regno Da ide Da ccome m re d'Issrae r e rael TTerr erritor erritorii conqui conquistat stat atti da David da avidee C Confi ni dell dell'impe impe pero ro ddii David av e e Salo Salomone mon

64 a r c h e o

Sela Sel (P tra)) (Pe

In alto, a sinistra: sigillo di Ezechia, re di Giuda (751-687 a.C.). Al tempo dell’assedio di Gerusalemme, questo sovrano trattò con l’assiro Sennacherib in lingua aramaica. A tutta pagina: cartina delle terre d’Israele secondo la narrazione biblica: sono indicate le aree di stanziamento degli Aramei, che occupavano la regione siriana, e delle genti transgiordaniche di Ammon, Moab ed Edom.


Particolare di un rilievo raffigurante le truppe assire che assediano una città fortificata, denominata -alammu da un’iscrizione che correda la scena, dal Palazzo Sud-Ovest di Ninive. 700-691 a.C. Londra, British Museum.

infatti, per un paradosso della sorte, divenne la lingua ufficiale dell’impero assiro proprio nel momento in cui, con la propria avanzata verso occidente, esso annientava gli Stati aramaici. La storia della conquista assira e l’uso della lingua aramaica come lingua ufficiale sono ben documentati nella Bibbia ebraica. Durante l’assedio di Gerusalemme verso il 700 a.C., per

esempio, le contrattazioni fra il re assiro Sennacherib e il re di Giuda Ezechia, da una parte all’altra delle fortificazioni della città santa, avvennero appunto in lingua aramaica (2 Re 18,26).

LA VERA EREDITÀ Se quindi la vicenda geopolitica degli Stati aramaici può dirsi terminata per le conseguenze dell’impietosa avanzata delle

truppe assire, che arrivarono a conquistare anche il regno di Israele, distruggendo nel 722 a.C. la capitale Samaria, la diffusione dell’aramaico sotto l’impero assiro rappresenta la vera e duratura eredità di queste popolazioni. Divenuta la lingua ufficiale prima dell’impero assiro e poi di quello achemenide, dall’Egitto all’odierno Iran, l’idioma degli Aramei è a r c h e o 65


POPOLI DELLA BIBBIA/8 • ARAMEI

giunto fino ai nostri giorni, pur con le modificazioni verificatesi nel corso di tre millenni, ed è ancora parlato da piccole comunità di cristiani nel Sud della martoriata Siria. Inoltre, persino l’alfabeto con cui è scritta la Bibbia ebraica oggi è lo stesso già usato a Qumran, e cioè l’alfabeto quadrato derivato da quello aramaico in uso presso gli Assiri. L’aramaico, d’altronde, è ben radicato nella tradizione giudaica: aramaici sono i Targumim della Bibbia, ossia le traduzioni del testo ebraico nella lingua vernacolare;

A destra: stele di Kilamuwa, re di Sam’al (città aramaica della Siria settentrionale, oggi corrispondente al villaggio turco di Zincirli), corredata da un’iscrizione in lingua fenicia. 825 a.C. circa. Berlino, Pergamon Museum. A sinistra, in basso: statua raffigurante un re aramaico, da Sam’al. IX sec. a.C.

l’aramaico è la lingua dei Rabbini del Talmud; l’aramaico, infine, è accettato, unica eccezione all’ebraico, come lingua della Sacra Scrittura, quella che, in termini rabbinici, «sporca le mani». E cosí, alcuni passaggi della Bibbia ebraica sono, in realtà, scritti in aramaico (Daniele 2,4b-7,28 ed Ezechiele 4,8-6,18 e 7,12-26). Lasciando da parte il fe-

nomeno linguistico, le popolazioni aramaiche figurano nella redazione della «tavola dei popoli» in Genesi 10. Malgrado lo sforzo di classificazione etnica profuso in questo testo, molti racconti biblici testimoniano l’esistenza di interconnessioni profonde fra le varie componenti. I racconti delle origini, e in particolare le biografie dei capostipiti, sono


estremamente eloquenti a riguardo. Si viveva, infatti, in un mondo che collocava nel passato i rapporti instaurati dagli antenati che servivano a guidare le scelte del presente. Era una memoria spesso sublimata o rivisitata e quindi molto lontana dai nostri concetti di storia o cronaca. Inoltre, in contesti tribali nei quali la storia familiare coincideva con

quella dell’intero gruppo, i legami matrimoniali assumevano un carattere simbolico e miravano a influenzare per generazioni le scelte politiche dei gruppi coinvolti.

28-29). Come disse il capostipite Abramo al suo servo: «Non prenderai per mio figlio una moglie tra le figlie dei Cananei, in mezzo ai quali abito, ma andrai al mio paese, nella mia patria, a scegliere una moglie per mio figlio Isacco» (Genesi 24,3-4). Si COSÍ PARLÒ ABRAMO Vanno letti in questo senso gli epi- tratta, in sostanza, di un’antica e sodi paralleli di Isacco e Giacobbe autorevole attestazione dell’adagio in cerca di moglie (Genesi 24 e «mogli e buoi dei paesi tuoi». Il a r c h e o 67


POPOLI DELLA BIBBIA/8 • ARAMEI

Damasco. I resti della casa di Naaman, il capo degli eserciti di Aram guarito dalla lebbra dal profeta Eliseo, in una fotografia del 1898.

racconto relativo a Isacco menziona, dunque, «il Paese dei due fiumi» e, in particolare, la città di Nacor (Genesi 24, 10), mentre quello relativo a Giacobbe parla del paese di Carran (Genesi 28,10) e piú genericamente del «paese degli orientali» (Genesi 29,1). Benché queste designazioni lascino immaginare che si tratti della regione settentrionale della Mesopotamia, chiamata Aram Naharayim o Paddan Aram, vi sono molteplici ragioni per comprendere che si tratta, in realtà, della regione a nord-est d’Israele, a sud di Damasco. A ogni modo, il testo biblico esplicita che i patriarchi trovarono una moglie degna presso gli Ara68 a r c h e o

mei, all’interno della famiglia allargata dello stesso Abramo. Un’eco di queste tradizioni si ritrova in uno dei passaggi capitali del libro del Deuteronomio, precisamente in quello che viene identificato come una delle professioni piú antiche della fede israelita (Deuteronomio 26,5-9). Questo testo, che ricorda la discesa in Egitto di Giacobbe/Israele, la moltiplicazione della sua famiglia fino a che non diventò un popolo grande e numeroso, l’uscita dall’Egitto e l’ingresso nella prospera Terra Promessa, inizia proprio con l’espressione «Mio padre [e cioè Giacobbe] era un arameo errante». Il fatto che il patriarca a cui il popolo di Israele deve il nome (Ge-

nesi 32,28) sia qualificato come arameo, e cosí gli altri due patriarchi – Abramo e suo figlio Isacco – prima di lui, non costituisce un problema nella narrazione biblica.

FRA IL MEDIO E L’ALTO EUFRATE Se i dettagli di questi racconti si perdono nelle pieghe della tradizione biblica, le prime testimonianze affidabili riguardo alle popolazioni aramaiche risalgono alla fine del XII secolo a.C. I tradizionali annali celebrativi del re assiro Tiglath-pileser I (1114-1076) riferiscono di scontri con una popolazione detta Ahlamu, che abitava «nel paese degli Aramei», situato fra medio e alto


Eufrate, in particolare nei pressi del Jebel Bishri, sulla sponda occidentale del fiume. Abbracciando con uno sguardo d’insieme le fonti mesopotamiche dell’epoca, emerge chiaramente che la regione abitata dalle popolazioni aramaiche corrispondeva a gran parte del bacino dell’Eufrate, estendendosi alla regione desertica e talvolta montuosa a occidente. Si trattava, d’altronde, della stessa regione da cui venivano i nemici storici dei regnanti mesopotamici già alla fine del III e durante tutto il II millennio a.C., ossia i Sutei e gli Amorrei. Questa regione instabile, abitata da popolazioni spesso descritte come genti barbare, fu il luogo di origine di un perenne pericolo per le società della piana mesopotamica. Per questa ragione, nella loro mappa mentale, i re mesopotamici hanno da sempre identificato in quest’area il luogo del nemico, facendone quindi il bersaglio preferenziale delle loro campagne militari. Come già denotano l’alternanza fra il nome di Ahlamu e Aramei nelle fonti assire e l’ampiezza della zona da essi frequentata, questi gruppi nomadi furono ben lontani dal costituire una compagine unitaria. E tale caratteristica perdurò anche in seguito, nell’XI e nel X secolo a.C. in particolare, quando questi gruppi diedero origine a regni – piú o meno piccoli e piú o meno potenti – che si estendevano fino a ridosso della costa levantina a occidente e fino alla valle dell’alto Tigri a oriente. Una simile espansione fu il risultato dell’indebolimento del potere assiro, le cui operazioni di contenimento di queste popolazioni se non cessarono, comunque si ridussero. Le capitali di questi regni furono spesso in antichi centri urbani ricostruiti per l’occasione, come Aleppo o Damasco, ma anche di città oggi meno conosciute, come Sam’al, non distante dal golfo di Alessandretta sul Mediterraneo, il cui sito, benché frequentato sin dal III millennio

a.C., conobbe il proprio apogeo durante la fase aramaica fra il X e l’VIII secolo a.C.

LESSICO FAMILIARE Alcuni di questi regni sono noti, specialmente a partire dalle fonti assire di Adadnirari III (810-782 a.C.), con la formula «Bît [casa] + Nome proprio» (Bît Adani, Bît Agasi, ecc.): sono identificati, insomma, come casati di un patriarca eponimo, di cui i discendenti e i membri dell’élite in generale sono considerati i fratelli oppure i figli. Il lessico tipicamente familiare è da attribuirsi all’aspetto tribale di tali regni, e al ruolo in essi giocato dalla famiglia regnante, soprattutto agli occhi delle popolazioni mesopotamiche. È tuttavia interessante notare che questa nomenclatura di casato è attestata non soltanto per le popolazioni aramaiche ma anche per i regni di Israele (chiamato nei testi assiri «Casa di Omri», non a caso il fondatore della dinastia e della capitale del regno del Nord), per il regno di Giuda (la «Casa di Davide» della stele di Dan e di Mesha; vedi box a p. 71), ma anche per alcuni regni transgiordani, come Ammon. Si deve pensare, pertanto, che questo tipo di struttura familiare del regno non fosse peculiare del mondo aramaico; ma non si deve escludere che gli scribi mesopotamici e, a maggior ragione, quelli aramei, abituati alla terminologia aramaica, l’abbiano adottata su piú larga scala per identificare formazioni politiche tutto sommato similari. L’estrema instabilità della geopolitica levantina è una caratteristica ben nota sin dall’età del Bronzo. La corrispondenza fra i piccoli regni dell’area siro-palestinese e il faraone, ritrovata nel sito di Tell el-Amarna in Egitto (XIV secolo a.C.), spalanca una finestra straordi-

Placchetta in avorio lavorata a rilievo raffigurante un dignitario siriano fra steli di papiro intrecciati, da Arslan Tash (Siria), l’antica Hadadu. VIII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

a r c h e o 69


POPOLI DELLA BIBBIA/8 • ARAMEI

naria sulle vicende di queste corti, divise da lotte, lacerate da intrighi e, in definitiva, totalmente asservite al grande sovrano egiziano.Anche altri testi, come quello inciso sulla statua del re Idrimi di Alalakh (XV secolo a.C.), raccontano in prima persona la triste storia delle lotte fratricide per impossessarsi del potere.

NEL SEGNO DELL’INTEGRAZIONE Il mondo delle corti dei «piccoli re» di cui ci parlano questi testi lentamente si estinse e in questo contesto si colloca l’ascesa degli Aramei. Essi erano formati da gruppi profondamente radicati nel territorio e il loro emergere non si deve percepire come l’arrivo di elementi esterni alla regione che andarono a colmare un vuoto (politico, economico, demografico). Infatti, nella regione siriana, una zona urbanizzata sin dal III millennio a.C., convivevano, in un sistema di integrazione e non di antagonismo, tanto la componente cittadina quanto quella nomadica. Anche per questa ragione, oltre che per la sua estensione, il fenomeno aramaico si declinò in modi differenti secondo le regioni e, in particolare, reagendo alle configurazioni socio politiche con le quali era in contatto. Per esempio, nella regione siriana settentrionale, a ridosso degli Stati neo-ittiti oppure in quella occidentale delle città fenicie, la cultura materiale degli Stati aramaici presenta elementi in comune con quelle dei propri vicini. Dal punto di vista linguistico le iscrizioni aramaiche possono presentare influssi dalla lingua luvia, ossia quella degli Stati neo-ittiti a contatto con quelli aramaici, oppure piú a sud, la lingua fenicia poteva essere direttamente adottata per un’iscrizione reale del re di Sam’al, Kilamuwa (fine IX secolo a. C.; vedi foto alle pp. 66/67). Anche dal punto di vista religioso, le popolazioni aramaiche del territorio siriano continuarono a frequentare e 70 a r c h e o

restaurare templi antichi e a venerare, talvolta rinominandole, divinità da lungo impiantate nella regione. Il caso piú famoso è quello del dio della tempesta di Aleppo che, venerato sin dal III millennio a.C., diventa l’«Hadad di Aleppo» nei testi aramaici. Hadad, in effetti, è il nome assai ricorrente della principale divinità aramaica, spesso seguito dal nome preciso della località in cui verosimilmente possedeva un tempio. Al tempo stesso, la vivacità dei contatti portò ad «appropriazioni» di divinità altrimenti sconosciute nella regione aramaica, come Melqart, la divinità poliade della fenicia Tiro,

Le genti aramaiche del territorio siriano continuarono a frequentare e restaurare templi antichi e a venerare divinità da lungo impiantate nella regione attestato nella regione di Aleppo verso l’800 a.C. in un’iscrizione del re locale Bar-Hadad. Di dimensioni piú vaste e durature fu la diffusione della figura di Baalshamin, il «Signore del cielo», che, inizialmente nota in ambito fenicio, rapidamente è attestata in vari regni aramaici fra i quali Hamat (l’odierna Hama) oppure Damasco e, piú in generale, in tutta l’area di lingua aramaica dalla penisola arabica settentrionale alle regioni piú orientali come, ancora in epoca romana, Palmira e Hatra. In definitiva, non esiste una religione aramaica, poiché ogni

centro aveva le proprie divinità con i propri santuari e le proprie tradizioni (cosicché l’Hadad di Aleppo non era automaticamente sovrapponibile all’Hadad di Damasco e viceversa), e perché, a seconda delle zone, le influenze anatoliche, fenicie o assire erano determinanti.

IL REGNO DI DAMASCO Il cosmopolitismo religioso delle popolazioni aramaiche è attestato anche nella Bibbia ebraica, in particolare nell’episodio di Naaman, «capo dell’esercito del re di Aram» (2 Re 5, citato anche in Luca 4,27). Affetto da una malattia simile alla lebbra, si recò in Israele, dove guarí grazie all’intervento del profeta Eliseo, che gli ordinò semplicemente di immergersi sette volte nel fiume Giordano. Nonostante l’insolita modalità della guarigione, Naaman riconobbe che «non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele» (2 Re 5,15); al tempo stesso dichiarò che, dato il suo ruolo, avrebbe dovuto continuare a frequentare i templi delle divinità tradizionali. Eliseo lo rassicurò e gli permise di trasportare due carichi di terra di Israele a dorso di mulo, terra sulla quale Naaman formulò la risoluzione di sacrificare da quel momento in poi soltanto al Dio di Israele. Il lettore non mancherà di notare che questo brano descrive gli elementi del paese di Israele (l’acqua e la terra nella fattispecie) come intrinsecamente sacri e taumaturgici, segno del profondo legame con questa terra non soltanto del popolo ma anche della sua divinità. Di fronte alla complessità del mondo aramaico, la Bibbia ebraica tramanda una versione molto di parte. Come mostra l’episodio di Naaman, la Bibbia ebraica confonde, d’altronde, il regno di Damasco, la configurazione aramaica piú vicina e pericolosa, con gli «Aramei» tout court. Questo effetto distorsivo, da un lato, non deve stupire, ma, dall’altro, non deve fare da schermo alla


SCHERMAGLIE E FRONTIERE FLUTTUANTI Le iscrizioni hanno un ruolo fondamentale nella ricostruzione della storia di questi territori, indipendentemente dal testo biblico. Quelle qui presentate, risalgono, rispettivamente, all’VIII e al IX secolo a.C. La prima va probabilmente riferita al re Hazael di Damasco, mentre la seconda porta il nome di Mesha, re di Moab. Entrambe attestano le continue

schermaglie fra i regni di Israele e Giuda e le potenze circostanti, nonché le fluttuazioni continue delle frontiere territoriali di questi regni. Le vicende riportate dalle iscrizioni sono, con alcune differenze, raccontate anche nella Bibbia ebraica (2 Re 3,4-8 e 8,25-29). Al tempo stesso, esse mostrano l’esistenza di un’ideologia

regale comune in tutta la regione. Quest’ultima consisteva, per esempio, nel riconoscimento della divinità principale come origine della regalità, la guerra come l’obbedienza del re terreno all’ordine del re divino di sferrare un attacco, ma anche pratiche come quella dello herem, nota dalla Bibbia ebraica e attestata anche nella stele del sovrano moabita. Tale pratica consisteva nella distruzione dell’intera popolazione di un sito conquistato. Inoltre, le due iscrizioni sono al centro di un acceso dibattito fin dalla loro scoperta, perché, in passaggi purtroppo frammentari, fanno menzione della bt dwd, la «casa di Davide», e quindi del regno di Giudea secondo la terminologia dell’epoca. Si tratterebbe, quindi, delle uniche testimonianze extrabibliche dell’esistenza storica del re Davide come fondatore della dinastia del regno di Giuda. In alto: la stele (frammentaria) da Tel Dan, che reca un’iscrizione riferibile ad Hazel, re di Damasco, nella quale compare l’espressione bt dwd, tradotta in «casa di Davide», che, a oggi, è la prima attestazione nota del regno di Giudea. VIII sec. a.C. Gerusalemme, Israel Museum. A sinistra: la stele che celebra le vittorie di Mesha, re di Moab, sui sovrani d’Israele. IX sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

a r c h e o 71


POPOLI DELLA BIBBIA/8 • ARAMEI

variegata ampiezza del fenomeno aramaico nel suo insieme. In particolare, le attività di Hazael di Damasco (morto attorno all’800 a.C.) furono centrali per i regni di Israele e Giuda. Il regno settentrionale soffrí da vicino le mire espansionistiche di Damasco. La penetrazione aramaica nella regione arrivò all’altezza di Gath tra l’835 e l’832 a.C. e, alla stessa altezza, anche nei territori transgiordani. In questa fase, tra l’altro, lasciarono dietro di sé monumenti importanti come l’iscrizione di Tel Dan o la stele di una divinità lunare sotto forma di toro a Bethsaida (vedi foto alla pagina seguente). Una seconda fase dei rapporti fra Samaria (la regione del regno di Israele, n.d.r.) e Damasco iniziò quando la pressione assira sul Le72 a r c h e o

vante si fece piú forte. Tale situazione si tradusse in un’alleanza dei vecchi nemici contro il nemico comune, appoggiata dall’Egitto.

L’ANNUNCIO DEL PROFETA Un’alleanza cosí fragile e breve – Damasco e Samaria furono conquistate a distanza di dieci anni una dall’altra (rispettivamente nel 732 e nel 722 a.C.) – sarebbe passata inosservata se non avesse avuto ripercussioni in uno dei testi piú importanti della Bibbia ebraica. Il patto, infatti, portò alla guerra siro-efraimita (735-732 a.C.), che oppose Aramei e Israeliti al regno di Giuda, che decise di non aderire all’alleanza antiassira (2 Re 15,29-16; 2 Cronache 28). L’episodio è passato alla storia

grazie alla profezia di Isaia, fermo sostenitore della fedeltà all’Assiria: «Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele [Dio è con noi]» (Isaia 7,14). Benché il testo originario volesse indicare nella nascita di un erede nella casa di Giuda, dalla giovane moglie del sovrano, un elemento di speranza per il popolo, che non doveva temere l’offensiva congiunta di Damasco e Samaria, l’interpretazione del testo assunse toni messianici. L’annuncio dell’Emmanuele divenne infatti sinonimo dell’attesa messianica del popolo d’Israele, la cui profezia fu considerata compiuta con la nascita di Gesú dalla Vergine Maria (Matteo 1,22-23). Come spesso accade nell’interpretazione del Nuovo Testamento, il contesto


luce Moab, per il quale il testo ebraico non fornisce un’analoga etimologia; tuttavia, il testo greco della Settanta propone una delle tante etimologie popolari, specificando che la madre chiamò suo figlio «Moab, dicendo: “Dal padre [ab, in aramaico, n.d.r.] mio [l’ho avuAL DI LÀ DEL FIUME Altrettanto variegata, rispetto alla to]”» (Genesi, 19,37). regione aramaica, fu l’area transgiordanica, nella quale si disegnarono Nella pagina accanto: Lot e le sue nell’età del Ferro tre regioni: dap- figlie, incisione di Lucas van Leyden. prima la valle orientale del Giorda- 1530. New York, The Metropolitan no, ossia Moab, poi l’area piú set- Museum of Art. tentrionale, attorno all’attuale Amman, specialmente fra VII e VI secolo a.C., cioè Ammon, e infine la regione meridionale, vale a dire Edom. La nomenclatura delle tre entità segue tipologie differenti: Moab ed Edom sono i nomi del territorio, mentre Ammon è il nome dell’antenato eponimo, come per Israele. Non a caso, sia la Bibbia ebraica che le iscrizioni assire parlano spesso di Ammon in termini di popolo, rispettivamente attraverso l’espressione «i figli di Ammon» e «la casa di Ammon» (Bît ‘Ammana). Le espressioni parallele «figli di Israele» e «figli di Ammon» sono presentate in maggior dettagli nella Bibbia ebraica, che, in Genesi 19, legge l’onomastica locale alla luce della propria storia. In questo testo, Ammoniti e Moabiti traggono origine da Lot, nipote di Abramo. L’episodio in questione è un doppio incesto delle sue due figlie (Genesi 19,30-38). Affinché la famiglia non si estinguesse, esse preferirono giacere con il proprio padre piuttosto che con gli abitanti della regione di Sodoma. Dopo aver inebriato Lot con il vino, in due notti consecutive esse giacquero con lui, approfittando del sonno profondo. La figlia minore dal suo incesto «partorí un figlio e lo chiamò “Figlio del mio popolo” [o “del mio parente”, Ben-’Ammi]. Costui è il padre degli Ammoniti che esistono fino ad oggi» (Genesi 19,38). La primogenita, invece, diede alla storico della Bibbia ebraica svanisce e diventa un mero pretesto per un annuncio della venuta di Cristo, un annuncio quindi dalla portata teologica, che assume un valore per l’intera storia dell’umanità.

Se dunque la Bibbia ebraica presenta Ammoniti e Moabiti come figli del nipote di Abramo, il caso degli Edomiti è ancor piú eclatante. Ben piú dei fratellastri Ismaele e Isacco, il primo dei quali progenitore delle genti arabe (Genesi 21,8-21), gli Edomiti discendono da Esaú, fratello gemello di Giacobbe/Israele. Le In basso: stele raffigurante una divinità lunare sotto forma di toro, da Bethsaida. IX-VIII sec. a.C. Gerusalemme, Israel Museum.

a r c h e o 73


POPOLI DELLA BIBBIA/8 • ARAMEI

sorti dei due fratelli furono segnate sin dall’inizio. Preoccupata durante la gravidanza dai continui scontri fra i due feti, Rebecca consultò l’oracolo ed ebbe come responso il seguente: «Due nazioni sono nel tuo seno e due popoli dal tuo grembo si disperderanno; un popolo sarà piú forte dell’altro e il maggiore servirà il piú piccolo» (Genesi 25,23). I nomi dei gemelli meritano attenzione. Esaú nacque ricoperto di peli e infatti il nome significa proprio questo. L’incarnato, inoltre, era rossiccio e,

non a caso, rimanda al colore rosso anche il territorio di Edom dove, dopo il subentro da parte di Giacobbe nella primogenitura, Esaú si sarebbe stabilito con tutta la sua famiglia. Un altro toponimo della regione è legato al monte Seir, il cui nome, come Esaú, può riferirsi alla peluria degli animali o, metaforicamente, alla vegetazione che lo ricopriva. Il nome di Giacobbe, invece, porta in sé la nozione di calcagno, perché nacque tenendo appunto per il calcagno il gemello In questa pagina: stele in basalto nero che probabilmente raffigura la consegna dello scettro a un re da parte di un dio, sotto lo sguardo di una divinità femminile, da Balua (Giordania). Amman, Museo Archeologico. Nella pagina accanto: Isacco benedice Giacobbe, olio su tela di Luca Giordano. 1560 circa. Rohrau, Graf Harrach’sche Familien Sammlung.

74 a r c h e o

primogenito e, per tutta la vita, gli stette «alle calcagna», fino a prenderne il posto. I rapporti fra i due fratelli non furono, dunque, sempre semplici. La storia di come Giacobbe sottrasse con arguzia e con una porzione di zuppa di lenticchie la primogenitura del fratello è nota, come anche l’episodio di quando egli strappò la benedizione al capezzale del padre, coprendo le parti scoperte del corpo di pelli di capretti per riprodurre la villosità del fratello (Genesi 27). Vari elementi sono interessanti in questo passaggio. In primo luogo, emerge chiaramente il ruolo della donna, in particolare della madre: è infatti Rebecca a orchestrare tutto affinché fosse Giacobbe, il figlio prediletto, ad avere la meglio sull’altro figlio.

IRONIA E ASTUZIA Inoltre, l’intera vicenda è velata di ironia a cominciare dalla leggerezza del primogenito, descritto come un sempliciotto, fino al travestimento al capezzale di Isacco e al suo inganno. Eppure il momento era tremendo e solenne, il popolo di Israele ricevette in quel momento la benedizione che Dio aveva fatto ad Abramo in una chiosa ben particolare: «Ti servano i popoli e si prostrino davanti a te le genti. Sii il signore dei tuoi fratelli e si prostrino davanti a te i figli di tua madre» (Genesi 27,29). In altri termini, la Bibbia ebraica ammette che, senza la messinscena di Giacobbe, oggi nessuno parlerebbe del popolo di Israele, ma del popolo di Esaú. Al tempo stesso, questi capitoli pongono l’ironia e l’astuzia alla base dell’identità stessa del popolo d’Israele. Fin qui la versione della Bibbia ebraica, che lega alle proprie sorti quelle dei vicini al di là


del Giordano, un fiume modesto, che non ha mai impedito le comunicazioni fra le sue due rive. In realtà, ben piú di Israele e Giuda, l’attore determinante tanto per le popolazioni transgiordaniche e per quelle aramaiche fu l’Assiria. Prima della conquista assira, infatti, la Transgiordania era caratterizzata da abitati sparsi e di piccole dimensioni. In particolare, piccoli villaggi erano tipici della regione di Ammon, popolati principalmente da gruppi di pastori e agricoltori semisedentari, ai quali si aggiungevano piú a sud, nei territori di Moab e di Edom, insediamenti periodici di minatori coinvolti nell’estrazione del rame. In maniera simile a quanto

avvenne nei territori a ovest del Giordano, dove si svilupparono i regni di Israele e Giuda, anche in Transgiordania, dal IX secolo a.C. si svilupparono le prime forme di organizzazione statale, con a capo un re. Benché il confronto con i sovrani della tradizione mesopotamica o della costa levantina sia fortemente squilibrato, la qualifica di re rimase in tutta la regione il titolo con cui si indicava il governante locale. Per specificare la differenza con i regni piú grandi e ricchi è invalsa, oggi, la nomenclatura di «regni tribali». Malgrado il carattere tribale, nella propaganda di questi «piccoli re» sono presenti vari elementi tipici di quella dei

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum «grandi re». blaborenes A causa ium dei rapeicaectur, testo porti commerciali di lunga quasped quos non etur reius nonemdata con questi ultimi, anche quam expercipsunt quos rest magnii re tribali si dotarono di un appaautatur apic teces enditibus teces.

rato ideologico e iconografico che imitava quello dei loro «colleghi» piú famosi. Benché le realizzazioni locali possano apparire spesso caricaturali, come copie di basso livello, molti motivi di provenienza egiziana o siriana sono attestati nel territorio transgiordanico. In alcuni casi, tuttavia, queste influenze furono alla base di produzioni originali, come la statuaria in pietra attestata fra il IX e l’VIII secolo a.C. nella cittadella di Amman, oppure la stele di Shihan in territorio moabita. Con l’intervento dell’Assiria a r c h e o 75


POPOLI DELLA BIBBIA/8 • ARAMEI A sinistra: iscrizione nella quale sono riportate le visioni di Balaam, figlio di Beor, da Deir Alla (Giordania). IX sec. a.C. Amman, Museo Archeologico. Nella pagina accanto: oggetti di culto riferibili agli Edomiti, da En Hazeva. Gerusalemme, Israel Musem.

nel Levante, quindi, anche per il territorio transgiordanico si inaugurò nell’VIII secolo a.C. una nuova fase. La necessità di assicurare le vie di comunicazione commerciale della penisola arabica al resto del Vicino Oriente fece di questi territori un’area strategica. Il territorio piú meridionale, l’edomita, fu quello che maggiormente approfittò dapprima del passaggio dei commercianti assiri e poi della sottomissione politica a questi ultimi. Non soltanto la capitale, Buseirah, mostra i segni di una vera edilizia palatina fra l’VIII e il VII secolo a.C., ma tutta una serie di centri fortificati si sviluppò lungo le rotte commerciali, a loro protezione. In questo contesto di espansione territoriale e di ricerca del controllo delle rotte commerciali emergono le rivalità fra le entità politiche situate sulle due rive del Giordano. Tracciare una logica nelle relazioni fra i regni di Israele e Giuda e que76 a r c h e o

ste popolazioni al di là del Giordano è difficile, se non impossibile. Il testo biblico, infatti, racconta di continue oscillazioni fra collaborazione e ostilità. Prendendo qualche esempio sui Moabiti, dal libro di Rut risulta che, in tempo di carestia, molti abitanti della Giudea si spostarono a Moab, cosí come fecero i parenti di David quando Saul lo perseguitava (1 Samuele 19,3-4).

UNA SITUAZIONE INSTABILE D’altra parte, sia Saul sia Davide furono in guerra con i Moabiti (1 Samuele 14,47; 2 Samuele 8, 2). Negli ultimi giorni del regno di Giuda, bande armate di Moabiti combatterono per Nabucodonosor (2 Re 24,2), ma poco dopo, ai tempi di Sedecia, Moab era in relazioni amichevoli con Giuda, e tentava di stringere con esso e altri popoli un’alleanza contro Nabucodonosor (Geremia 27, 3). Benché, come nel caso dei rap-

porti fra Damasco e Israele, la situazione fosse estremamente labile e instabile, sarebbe sbagliato cercare di mettere ordine fra tutti questi episodi. Molti di essi, infatti, non sono storicamente attendibili e traducono, quindi, in racconto alcune vedute teologiche. Particolarmente interessante a tal proposito è il piccolo libro di Rut, che presenta uno dei primi casi di conversione al giudaismo. Rut, donna moabita, non volle separarsi dalla suocera Noemi, originaria della Giudea, formulando il proposito: «Dove andrai tu andrò anch’io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio» (Rut 1,16). Dalla famiglia di Rut discese, fra l’altro, lo stesso Davide (Rut 4,17-22). Non bisogna inoltre dimenticare che Mosè morí in territorio moabita, sul monte Nebo, da dove gli fu permesso di vedere la terra promessa, ma non di mettervi piede (Deuteronomio 34). Risulta chiaro che i rap-


porti fra Moab e la Giudea furono piú profondi di quanto le continue schermaglie lascino pensare. Né è un caso che nel sito transgiordanico di Deir Alla siano state ritrovate iscrizioni che riportano le visioni di Balaam, figlio di Beor. Lo stesso personaggio, questa volta però al servizio del Dio biblico, è protagonista di Numeri 23-24.

UN’IMMAGINE COMPLESSA E DINAMICA Il poter individuare formazioni politiche autonome, come i regni aramaici o quelli transgiordanici, e di attribuire a ciascuno una cultura materiale piú o meno identificabile, ma anche delle divinità particolari (Hadad per gli Aramei, Milqom per gli Ammoniti, Kemosh per i Moabiti, Qaus per gli Edomiti), non deve dare l’impressione che questi popoli formassero delle tessere chiaramente deli-

mitabili nel mosaico del Levante antico. Questa regione, al contrar io, fu ben lontana dall’essere un mosaico composto da tessere ben definite, una giustapposta all’altra. Se una metafora artistica dev’essere trovata per questa regione, bisognerebbe piuttosto cercarla nell’arte contemporanea, dove la complessità, il dinamismo e le mescolanze di un’opera di Jackson Pollock, per esempio, restituiscono lo stato dei continui rapporti in atto meglio della staticità di un mosaico. La stessa Bibbia ebraica attesta dei rapporti estremamente contraddittori con queste entità vicine, fatti di consanguineità, di rivalità e di concorrenza. Il fatto che il popolo di Israele si presenti come emigrato in Terra Santa e che, in diverse parti della Bibbia ebraica, reclami origini egiziane, mesopotamiche o aramaiche, testi-

monia ancor di piú quanto fossero intricati i rapporti – reali o fittizi – fra i vari attori nella regione. Le interconnessioni non solo con i protagonisti maggiori ma anche con quelli minori, come le tribú transgiordaniche, somigliano a un gomitolo inestricabile che, invece, le retoriche fortemente identitarie dei nostri giorni, nonché le classificazioni e le tassonomie degli studiosi, tentano, inutilmente, di districare. NEL PROSSIMO NUMERO • Gli Arabi

PER SAPERNE DI PIÚ Herbert Niehr, Il contesto religioso dell’Israele antico, Paideia, Brescia 2002 Herbert Niehr (a cura di), The Arameans in Ancient Syria, Brill, Leiden 2014


MUSEI • VALLE D’AOSTA

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces. 78 a r c h e o


PROVATE A PRENDERLO! È QUANTO DOVETTERO PENSARE I DIFENSORI DEL FORTE DI BARD NEL MAGGIO DEL 1800, ATTACCATI DALLE TRUPPE NAPOLEONICHE DELL’ARMÉE DE RESERVE. LA LORO RESISTENZA INFINE FU PIEGATA DA UN DURISSIMO BOMBARDAMENTO E LA RESA SGRETOLÒ IL MITO DELLA ROCCA «INESPUGNABILE». SEGUIRONO LA RINASCITA E, ANCORA, L’ABBANDONO, INTERROTTO VENT’ANNI FA DA UN IMPEGNATIVO PROGETTO DI RECUPERO, GRAZIE AL QUALE LA FORTEZZA È OGGI UNO DEI PIÚ IMPORTANTI POLI CULTURALI DELLA VALLE D’AOSTA di Stefano Mammini

C

Il Forte di Bard, all’imbocco della Valle d’Aosta. L’assetto del poderoso complesso militare, oggi trasformato in spazio polivalente, risale alla ricostruzione ottocentesca, ma il sito fu certamente occupato già in antico e la prima attestazione dell’esistenza di una fortezza risale al 1034.

ome le diverse quote alle quali sorgono i vari edifici che ne fanno parte – denominati Opera Ferdinando, Opera Vittorio e Opera Carlo Alberto –, cosí il Forte di Bard è un organismo che si presta a differenti letture. Siamo in Valle d’Aosta, pochi chilometri a nord del confine con il Piemonte, ma, soprattutto, nel punto in cui la valle in cui scorre la Dora Baltea si fa piú stretta e in corrispondenza del quale si staglia la poderosa rupe a cui la fortezza fa da corona. Si trattava dunque di un passaggio obbligato e, fin dall’antichità, l’uomo intuí i vantaggi che sarebbero potuti derivare dal controllo di quel transito. Le prove concrete di quella intui-

zione non risalgono oltre l’età romana, ma il fatto che nella zona siano state accertate tracce di frequentazione riferibili all’epoca preistorica suggeriscono che anche l’area della fortezza fosse stata utilizzata ben prima che la valle fosse attraversata dalla via consolare delle Gallie. Era, quest’ultima, una strada realizzata al tempo di Augusto, all’indomani della definitiva sottomissione dei Salassi (25 a.C.), che da Eporedia (Ivrea) raggiungeva i valichi dell’Alpis Graia (Piccolo San Bernardo) e dell’Alpis Poenina (Gran San Bernardo). Il percorso divenne un itinerario regolarmente battuto e il suo utilizzo fu certamente accompagnato dallo sviluppo di una postazione di a r c h e o 79


MUSEI • VALLE D’AOSTA

difesa e di controllo sulla rocca di Bard, eppure si deve attendere il Medioevo per trovarne le prime attestazioni. Secondo alcuni storici, qui, nel VI secolo, Teodorico avrebbe creato un presidio fortificato al quale era assegnata una guarnigione composta da 60 uomini, ma risale solo al 1034 la prima notizia certa: a quella data un documento parla di un inexpugnabile oppidum, che apparteneva al visconte di Aosta, Boso, i cui discendenti mantennero la signoria di Bard fino al XIII secolo. Nel 1242, Amedeo IV, conte di Savoia, smentí la fama di cui il forte godeva e se ne impossessò, dimostrando cosí che «inespugnabile» non era. Bard divenne una delle principali piazzeforti sabaude, fino a diventare, nel 1661, il presidio del ducato di Savoia in Valle d’Aosta, dopo che Carlo Emanuele vi aveva fatto trasferire tutta l’artiglieria fino ad allora dislocata a Verrès e Montjovet. Negli stessi anni e poi nel secolo successivo furono anche condotti vari interventi di ristrutturazione, mirati ad am-

I numeri dell’avventura L’entità dell’intervento che ha portato al recupero del Forte di Bard e alla sua trasformazione in spazio polivalente è ben riassunta da alcune cifre: • 14 467 metri quadrati di superficie • 3600 metri quadrati di aree espositive • 2036 metri quadrati di cortili interni • 9000 metri quadrati di tetto • 283 locali, 385 porte, 296 feritoie, 806 gradini • Oltre 500 maestranze coinvolte • 153 737 metri cubi di terreno rimosso • 112 705 metri di cavi elettrici

80 a r c h e o

In basso: una veduta del Forte di Bard al livello di fondovalle: il sito si sviluppò in corrispondenza del punto in cui la valle attraversata dalla Dora Baltea è piú stretta.

S v i z z e r a

Monte Bianco

Courmayeur

Aosta Va lle

Cervino

Breuil-Cervinia Saint-Jacques Gressoney -la-Trinité Chatillon Saint Vincent ltea

Dora Ba d ’A o s t a

Bard

Cogne

Fr an cia

pliare la fortezza e ad accrescerne ulteriormente il potenziale difensivo. Un potenziale clamorosamente sottovalutato da Auguste Marmont, il quale, nel maggio del 1800, si affacciò nella gola di Bard al comando dei 40 000 uomini che componevano l’Armée de reserve di Napoleone.

L’ONORE DELLE ARMI I Francesi erano penetrati in Valle d’Aosta valicando il Gran San Bernardo e la loro discesa non aveva incontrato particolari resistenze. Giunti a Bard, con una sortita notturna, avevano avuto ragione del borgo

Gran Paradiso

P iemonte

sottostante la fortezza che probabilmente contavano di prendere con altrettanta facilità. Ma la guarnigione austro-croata comandata dal capitano Josef Stockard von Bernkopf oppose una resistenza inaspettata, respingendo i ripetuti assalti di Marmont, il quale, alla fine, si risolse a porre sotto assedio la rocca, che fece bombardare per un giorno intero. Fiaccati dal bombardamento, gli assediati alzarono infine bandiera bianca e von Bernkopf firmò la resa il 1° giugno, ottenendo l’onore delle armi. Marmont, che due settimane piú tardi diede un contributo


Un tratto della via consolare delle Gallie presso Donnas, che, come Bard, era uno dei centri toccati dall’importante arteria, realizzata in epoca augustea, all’indomani della sottomissione dei Salassi (25 a.C.).

a r c h e o 81


MUSEI • VALLE D’AOSTA

decisivo alla vittoria riportata da Napoleone a Marengo – tanto da ottenere la promozione a generale di divisione – ebbe invece una reazione meno cavalleresca nei confronti del forte e ordinò che il «miserabile castello di Bard» venisse raso al suolo.

LA RICOSTRUZIONE Dopo alcuni anni di abbandono, nel 1827 i Savoia chiesero all’ingegnere e ufficiale del Corpo Reale del Genio Francesco Antonio Olivero (1794-1856) di progettare un nuovo complesso e, nel 1830, ebbero inizio i lavori di costruzione. Seguendo criteri già sperimentati in precedenza in altre fortezze sabaude di confine (Exilles, Brunetta di Susa, Demonte, Fenestrelle), Olivero applicò il criterio della distribuzione su piú ordini delle diverse strutture di difesa, definendo cosí l’assetto che tuttora costituisce, come ricordato all’inizio, la cifra architettonica del forte di Bard. I lavori si protrassero fino al 1838 e, seppur per un breve periodo, si avvalsero anche del contributo di un riottoso Camillo Benso di Cavour (vedi box in questa pagina). E ciò che oggi si può ammirare è

A destra: Camillo Benso, conte di Cavour, in una incisione della metà dell’Ottocento. Nella pagina accanto: ricostruzioni di una catapulta (a sinistra) e di un trabucco realizzate da Flavio Russo per il Museo delle Fortificazioni. In basso: il manichino di un militare che «accoglie» i visitatori all’inizio del percorso espositivo del Museo delle Fortificazioni.

UN «ESILIO» INSOSTENIBILE Le Prigioni del Forte di Bard, ricavate all’interno dell’Opera Carlo Alberto, sono oggi uno degli spazi espositivi del complesso. L’allestimento, assai efficace, documenta la vita carceraria e ripercorre la storia della fortezza, ricordandone anche i suoi ospiti piú illustri. Fra questi, nel 1831, vi fu Camillo Benso, conte di Cavour, inviato a Bard in quanto luogotenente di I classe della Direzione del Genio di Torino. Il futuro statista aveva allora ventun anni e, fin da subito, visse l’incarico affidatogli come un autentico supplizio, tanto che, anni piú tardi, definí quell’esperienza come un «esilio». Pativa soprattutto l’isolamento e la sostanziale inattività in cui trascorreva i suoi

giorni, nonostante fossero appena iniziati i lavori di ricostruzione del forte e, almeno formalmente, avesse ricevuto l’incarico di sorvegliarne l’andamento. Dopo ripetute richieste e appelli, ottenne finalmente dal padre l’autorizzazione a lasciare la carriera militare e poté dedicarsi in toto all’attività politica.

appunto il frutto dell’intervento guidato da Olivero, mirabile esempio di ingegneria bellica, ma, al tempo stesso, vero e proprio monumento di archeologia industriale. Poco meno di centocinquant’anni piú tardi, nel 1975, il forte venne infatti dismesso dal demanio militare, imboccando la strada di un abbandono che sembrò destinato a farsi definitivo. Cosí non fu (e oggi, visitando il complesso, non si può che rallegrarsene), perché nel 1990 Bard fu acquisito dalla Regione Autonoma Valle d’Aosta e, soprattutto, si cominciò a ragionare sull’ipotesi del suo recupero. Idee sostenute, fra gli altri, dai funzionari della Soprintendenza, per i quali, come 82 a r c h e o


Incaricato dai Savoia di ricostruire il forte, Francesco Antonio Olivero applicò il criterio della distribuzione su piú ordini delle diverse strutture di difesa ha scritto Maria Cristina Ronc, che oggi dirige il Forte di Bard, «quel luogo rappresentava uno straordinario palinsesto di storie, di stratificazioni da narrare e da interpretare». Il piano di recupero ottenne un finanziamento di 37 milioni di euro e, nel 1999, le porte della fortezza tornarono ad aprirsi, questa volta per accogliere ingegneri, architetti, tecnici e maestranze specializzate, chiamati al

capezzale del gigante. Nell’occasione, fu coinvolto anche il fotografo torinese Gianfranco Roselli, che ha documentato, giorno dopo giorno, la rinascita del complesso. Un’operazione preziosa, dalla quale sono scaturite le splendide immagini riunite nella mostra che celebra il ventennale dell’impresa (vedi box alle pp. 84-85). Lo sforzo corale, compiuto con spirito ben diverso da quello del mal-

mostoso conte di Cavour, ha cominciato a dare i suoi primi frutti concreti con alcune aperture straordinarie fino all’inaugurazione, nel 2006, del Museo delle Alpi, una delle collezioni permanenti del forte, allestito al primo piano dell’Opera Carlo Alberto, il piú alto e il principale dei corpi di fabbrica. Negli anni successivi l’offerta si è progressivamente ampliata, fino a (segue a p. 86) a r c h e o 83


MUSEI • VALLE D’AOSTA

VENT’ANNI IN SESSANTA FOTO I curatori della mostra che ne celebra il ventennale, hanno voluto definire il recupero del Forte di Bard come un’«avventura» e, per una volta, il termine non è esagerato. Si trattava infatti di ridare vita a un complesso di proporzioni enormi, con problematiche strutturali impegnative e, non da ultimo, vincere lo scetticismo di chi giudicava donchisciottesca l’intera operazione. Come prova il successo delle iniziative che da anni si Sulle due pagine: fotografie scattate da Gianfranco Roselli in varie fasi dell’intervento di recupero del Forte di Bard. Dismesso dal demanio militare nel 1975, il complesso venne acquisito dalla Regione Autonoma Valle d’Aosta nel 1990, che diede avvio al cantiere di restauro e ristrutturazione nel 1999.

84 a r c h e o


organizzano a Bard, l’idea si è invece rivelata vincente, ma le splendide foto scattate da Gianfranco Roselli nel corso dei lavori sono un’ottima dimostrazione di quanto la strada sia stata lunga e faticosa. Le immagini, in un bianco e nero che ne aumenta l’incisività e il valore documentario, riescono infatti a trasmettere tutti gli aspetti salienti dell’operazione: dalla necessità di risanare situazioni che l’abbandono aveva reso in molti casi vicine alla soglia di non ritorno, alla ricerca di soluzioni tecnologiche capaci di adeguarsi ad architetture assai articolate e, soprattutto, alla volontà di preservare i tratti distintivi dell’originaria destinazione militare del complesso. Senza dimenticare i tanti uomini che di quell’avventura sono stati protagonisti.

a r c h e o 85


comprendere, dal 2017, il Museo delle Fortificazioni e delle Frontiere, che ha sede nell’Opera Ferdinando e che presenta piú di un motivo d’interesse, offrendo al tempo stesso molteplici spunti di riflessione.

ne un lungo viaggio nella stor ia dell’ar te militare, dall’antichità all’epoca moderna. L’allestimento è ricco e assai variegato – non mancano modelli di macchine da guerra realizzati dall’ingegner Flavio Russo, che per i lettori di «Archeo» è L’ALLESTIMENTO La prima parte del percorso espo- una presenza quasi familiare – e si sitivo ha un taglio storico e propo- avvale di plastici, filmati e armi

PER NON DIMENTICARE Fra le mostre attualmente in corso nel Forte di Bard merita d’essere segnalata «L’Aquila. Tesori d’arte tra XIII e XVI secolo», che riunisce una selezione di beni recuperati e restaurati all’indomani del terremoto del 6 aprile 2009. Si tratta di 14 opere – comprendenti oreficerie, sculture in terracotta, pietra e legno, dipinti su tavola e tela –, provenienti dalle chiese aquilane e dal MuNDA, Museo Nazionale d’Abruzzo. Dalle Madonne con Bambino del Maestro di Sivignano e di Matteo da Campli a quella detta Delle Grazie; dal grande Crocefisso della Cattedrale alla Croce processionale di Giovanni di Bartolomeo Rosecci; dall’elegante e leggero

86 a r c h e o


A sinistra: una sala del Museo delle Fortificazioni. A destra: San Sebastiano, statua in legno policromo di Saturnino Gatti, dall’ex chiesa di S. Benedetto all’Aquila ora al Castello Piccolomini a Celano. 1517. Nella pagina accanto, in basso: San Michele Arcangelo, statua in legno policromo di Silvestro dell’Aquila, dalla chiesa di S. Michele Arcangelo in Acciano, frazione di Beffi. Ultimo quarto del XV sec.

smettere al visitatore anche la realtà quotidiana della vita che si conduceva al riparo di quelle mura e, soprattutto, la piega drammatica che quella vita prendeva quando la guerra diventava guerreggiata e non piú soltanto teorizzata.

autentiche, illustrando l’evoluzione delle tecniche d’assedio, delle strategie e, soprattutto, delle soluzioni architettoniche messe a punto nel tempo per cercare di garantire a chi doveva difendersi la miglior protezione possibile. Dall’insieme delle soluzioni espositive emerge la lodevole volontà di animare fortezze e castelli, cercando di tra-

STORIE SENZA TEMPO Meno fragorose, ma non per questo meno incisive, sono le sezioni successive, nelle quali si passa al secondo tema portante del museo: la frontiera. L’argomento viene perlopiú sviluppato con agganci a epoche storiche recenti, ma, al di là dei riferimenti cronologici, non è difficile coglierne l’universalità e, per certi versi, l’atemporalità. L’idea di un confine da fissare o da difendere – basti pensare,

San Michele Arcangelo di Silvestro dell’Aquila allo splendido San Sebastiano di Saturnino Gatti; dal Sant’Equizio di Pompeo Cesura fino alle grandi tele dell’artista fiammingo Aert Mijtens, la mostra si propone come una storia di sopravvivenze, un omaggio al capoluogo abruzzese nel decennale del sisma e una testimonianza della grande ricchezza della sua arte. Alle opere si affianca l’esposizione fotografica, inedita, La città nascosta di Marco D’Antonio, che presenta 15 scatti dedicati all’Aquila notturna, ripresa nelle sue aree ancora da ricostruire.


MUSEI • VALLE D’AOSTA

Un’immagine notturna del Forte di Bard e, in basso, una delle cabine degli ascensori che oggi collegano i vari livelli del complesso. Le tre Opere – Ferdinando, Vittorio e Carlo Alberto – che ne fanno parte sono distribuite a quote comprese fra i 400 e i 467 m.

per esempio, al limes romano – va oltre le gabbie dei periodi storici e ha sicuramente costituito uno dei tratti distintivi di tutte le culture e le civiltà. Osservando foto e documenti e scorrendo i testi che li corredano, verrebbe piuttosto da pensare che, anche in questo caso, la storia non sia stata maestra, se solo pensiamo alle tensioni che tuttora

suscitano la difesa di una frontiera o il tentativo di superarla.Tensioni che piú d’uno pensa oggi di poter risolvere limitandosi a promuovere la realizzazione di muri e barriere. Il Museo delle Fortificazioni e delle Frontiere offre dunque la riprova di quanto la conoscenza degli eventi che ci hanno preceduto sia una chiave di lettura non solo pre-

ziosa, ma indispensabile, per meglio comprendere la realtà contemporanea. Una chiave che in queste sale – proprio perché si parla di soldati, armi e conflitti – ha inoltre il merito di ribadire quanto il ricorso alla violenza sia comunque una sconfitta, poiché da sempre le guerre portano morte e distruzione, anche ai vincitori. DOVE E QUANDO Forte di Bard Bard, Valle d’Aosta Orario fino all’01/09: Forte, tutti i giorni, 10,00-19,00; dal 02/09 al 15/09: Forte, lu-ve, 10,00-18,00, sa-do,10,00-19,00; spazi espositivi (Museo delle Alpi, Museo delle Fortificazioni e delle Frontiere e mostre temporanee): ma-ve, 10,00-18,00; sa-do e festivi, 10,00-19,00; Prigioni: ma-ve, 11,00-18,00; sa-do e festivi, 11,00-19,00 Info tel. 0125 833811 oppure 0125 809811; e.mail: info@fortedibard.it; www.fortedibard.it

88 a r c h e o



SPECIALE • AQUILEIA

RITORNO AD AQUILEIA Per celebrare i 2200 anni dalla sua fondazione, la città friulana ospita una mostra di grande rilievo e non solo per la qualità degli oggetti riuniti. Nel suo Museo Archeologico sono esposti – fino al 20 ottobre – 110 reperti provenienti da una delle piú ricche e importanti istituzioni culturali al mondo, il Kunsthistorisches Museum di Vienna: reperti, ed ecco la particolarità, emersi dal sottosuolo aquileiese in un’epoca nella quale la città era un possedimento dell’impero asburgico. «Non è mai facile – ha sottolineato Antonio Zanardi Landi, presidente della Fondazione Aquileia, organizzatrice dell’esposizione – riportare opere d’arte importanti nei luoghi di provenienza, per il sottinteso, ma sempre presente, timore che nella coscienza del pubblico e nel dibattito che sempre segue una grande mostra si insinui il concetto di spoliazione, di “portato via”. Ma il risalto che ai reperti aquileiesi viene dato nelle sale espositive viennesi e il flusso di visitatori tra i quali ci siamo aggirati ci fa capire che, in realtà, nel Kunsthistorisches Aquileia ha una sorta di “succursale austriaca” oltre che una vetrina con un’eccezionale capacità di richiamo e di illustrazione di quella che fu la grande città romana». Gli oggetti che presentiamo nelle pagine seguenti, dunque, non solo illustrano la grandezza dell’antica Aquileia, ma offrono la percezione della sua rilevanza anche nel quadro della storia europea, passata e futura. di Georg Plattner, Francesca Ghedini e Monika Verzár 90 a r c h e o


L’

inizio degli scavi e delle ricerche sul campo ad Aquileia sono strettamente collegati con la storia delle collezioni imperiali a Vienna, dalle quali è nato l’attuale Kunsthistorisches Museum (il celebre museo della storia dell’arte, inaugurato nel 1891 nella Ringstrasse, la circonvallazione che cinge il centro di Vienna e su cui si affacciano i principali edifici pubblici della città come il museo, appunto, tra le piú importanti istituzioni del genere nel mondo, n.d.r.). Alla fine del Settecento c’erano i «gabinetti», le collezioni organizzate secondo criteri tematici, l’anima dell’erudizione scientifica di allora. Il kaiserlich-königliche Münz- und Antikenkabinett (l’Imperial Regio Gabinetto delle monete e dell’antichità) funse contemporaneamente da centro amministrativo per gli scavi e i ritrovamenti archeologici della Monarchia austriaca e fu perciò, secondo la definizione dello storico Alfons Lhotski, «un istituto seriamente dedicato alla ricerca scientifica». Su iniziativa dell’imperatore Francesco II (come imperatore del regno

romano-tedesco)/Francesco I (come imperatore dell’Austria) vennero messe insieme, alla fine Settecento, le già esistenti antichità della casa asburgica, con provenienze diverse, e nel 1798/99 fu fondato l’Imperial Regio Gabinetto delle monete e dell’antichità. Primo direttore fu Franz de Paula Neumann, intenzionato a creare una collezione piú ampia possibile per poter documentare al meglio la vasta eredità dell’antichità. Nel 1812 fu emanato un decreto indirizzato ai Paesi facenti parte della monarchia e finalizzato ad ampliare le norme che determinavano il trattamento dei ritrovamenti dagli scavi: fino ad allora solo le monete dovevano essere consegnate a Vienna, mentre, da quel decreto in poi, doveva essere portato a Vienna ogni tipo di ritrovamento archeologico. Se si

Tutte le immagini che corredano la prima parte di questo Speciale (pp. 90-99) si riferiscono all’allestimento e alle opere della mostra «Magnifici Ritorni». A destra: statua in marmo di aquila, da Aquileia, donata all’Austria nel 1817 da Girolamo de’ Moschettini. II sec. d.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Nella pagina accanto: un particolare dell’allestimento. a r c h e o 91


SPECIALE • AQUILEIA

trattava di oggetti grandi e pesanti, era sufficiente inviare una segnalazione, corredata da disegni e descrizione. Qualora i pezzi interessassero alle collezioni imperiali, era previsto un risarcimento secondo la stima piú bassa. All’epoca gli scavi archeologici – piú simili a una spedizione volta alla ricerca di tesori miravano principalmente al reperimento di opere d’arte ed erano, innanzitutto, una questione privata. Nel 1814 furono intraprese per la prima volta ricerche archeologiche, tra cui i primi scavi sistematici ad Adria (nel Veneto?), Cividale del Friuli (provincia di Udine), Carnuntum (bassa Austria) e Salona (Dalmazia, oggi in Croazia), promossi e sostenuti da Anton Steinbüchel von Rheinwall, successore di Neumann alla direzione delle collezioni. L’imperatore Francesco era personalmente interessato alle antichità e agli scavi e, in un suo viaggio in Italia, fu accompagnato proprio da Steinbüchel, nella qualità di antiquario dell’imperatore. È conservato il diario dell’imperatore, scritto a Roma, grazie al quale disponiamo di informazioni su una visita a Pompei, durante la quale il pittore Tommaso Benedetti (1797-1863), di origine italiana ma nativo di Londra, riprodusse l’affresco del tempio di Venere con «l’altissima presenza dell’imperatore».

«UN’ANTICA TOMBA GRECA...» Il 28 maggio l’imperatore assistette a uno scavo a Cuma «quando fu scavata in Nostra presenza un’antica tomba greca (…) consistente di una volta di tufo (…), con un’apertura in basso dove si presume ci fosse stata una porta di legno (…). Di seguito, il Canonico Joris, che era con Noi, e il direttore Steinbüchel, scesero e raccolsero gli oggetti che furono subito lavati e che il proprietario diede subito a Me». I ritrovamenti, tra cui una coppa di vetro, appartenevano in primo luogo al proprietario del terreno, che però li diede immediatamente in dono all’imperatore. I reperti sono attualmente conservati nella Collezione di Antichità del Kunsthistorisches Museum. Nel 1814, l’autorità amministrativa imperiale (Oberstkämmereramt) competente anche per le collezioni chiese al Direttore Neumann un parere per un eventuale inizio di uno scavo ad Aquileia. La risposta fu positiva. Neumann fece, però, notare che sarebbe stato necessario «predisporre un ordine razionale per i nuovi 92 a r c h e o

In alto: un altro particolare dell’allestimento della mostra. Sulle due pagine: croce monogrammatica in bronzo rinvenuta intorno alla metà dell’Ottocento, durante i lavori per l’aratura di un vigneto in località Monastero e poi donata a Vienna dal barone Ettore von Ritter. IV-V sec. d.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum.


a r c h e o 93


SPECIALE • AQUILEIA

SACRIFICI DI STATO Questo rilievo frammentario in marmo bianco di cospicue dimensioni (94 x 182 cm) rappresenta un sacrificio rituale dinnanzi a un altare. L’opera viene ricordata già nel 1739 dal canonico Giandomenico Bertoli come presente nella basilica, mentre figura tra le collezioni imperiali di Vienna almeno dal 1819. Il frammento, databile alla fine del I sec. d.C., presenta tutti i momenti salienti di un sacrificio alle divinità da parte di due personaggi, forse i magistrati della colonia o, addirittura, dei membri della famiglia imperiale. La rappresentazione richiama i grandi sacrifici di Stato di età romana, che prevedevano l’uccisione in sequenza di un toro, di una pecora e di una scrofa (suovetaurilia).

94 a r c h e o


ina Via

Ge m

Basilica romana

sta

ugu aA

iuli Via

Tempio di Giove

na

mi

Ge

Mura del porto Porto fluviale

Foro

Aquileia

cra

Mura e torre

a Via S

Macellum

Circo

Porta

Strada romana STAZIONE

Sepolcreto romano

Mura repubblicane

sta

Portico

Palestra delle Terme

ugu

aA

iuli

G Via

Terme

Palazzo Imperiale Mercati

Anfiteatro

Mura ma

o aR

Vi

N 0

200 mt

sci

ram

so G

Piccole Terme

ne

tiso

e Na

fium

Cor

TENDENZA CENTRALISTICA All’inizio del XIX secolo si fece strada, insieme alla centralistica volontà di portare i reperti piú importanti a Vienna, l’impegno di lasciarli nei luoghi d’origine. Nel 1827, Steinbüchel propose, perciò, di esporre parte dei ritrovamenti nell’Accademia Reale a Trieste, in particolare quegli oggetti di grandi dimensioni in pietra che erano nella casa privata di de’ Moschettini e che non erano stati selezionati tra quelli da mandare a Vienna. Questa tendenza si ripeterà in epoca successiva, come per esempio, a Carnuntum dove, nel 1884/85, nacque l’omonima

Mura e porte della cinta tardo-antica

G Via

scavi» e propose di affiancare dei custodi ai lavoratori e, soprattutto, di prevedere un indennizzo o riconoscimento per gli scopritori, in maniera tale da evitare malumori e per garantire che ogni scoperta venisse regolarmente segnalata (un argomento, questo, di grande attualità e del quale ancora oggi i Paesi dovrebbero occuparsi quando presentano normative che prevedano il passaggio automatico alla proprietà statale). Neumann sconsigliò di scavare alla cieca, con pala e piccone, per non danneggiare gli eventuali ritrovamenti. Previde, inoltre, di stanziare una somma annuale per gli scavi, in modo da garantirne la continuità. Infine, propose di dare un incarico a Gerolamo de’ Moschettini quale Ispettore dei Lavori. Moschettini aveva recuperato materiali archeologici già quando fu Ispettore delle Acque e, per questo, venne raccomandato all’amministrazione austriaca. Successivamente, Moschettini inviò al Gabinetto di Vienna gli elenchi dei reperti che custodiva nella sua casa privata e da questo venne fatta una selezione di oggetti da destinare alla collezione imperiale. I primi raggiunsero Vienna nel gennaio del 1817: tra questi vi era la scultura in marmo di un’aquila a grandezza naturale (vedi foto a p. 91). Un disegno che documenta la collocazione delle antichità di Aquileia nel 1831, li mostra assieme ad altri reperti, tra cui il «Sileno accovacciato», esposti nel Corridoio degli Agostiniani. Questa parte della Hofburg di Vienna – che inizialmente ospitava il Gabinetto delle Monete e delle Antichità – non esiste piú, perché venne distrutta già nell’Ottocento. Al pittore Peter Fendi (1786-1842), che eseguí il disegno, si deve la documentazione di reperti importanti come la patera d’argento (vedi foto a p. 96), da lui ritratta in un quadro a olio.

Pianta archeologica della città di Aquileia con l’indicazione delle principali strutture a oggi individuate.

Associazione la quale, con il sostegno di Otto Benndorf, impose la permanenza degli originali in loco. Cosí, nel 1904, in presenza dell’imperatore Francesco Giuseppe, venne aperto il Museum Carnuntum e, dopo soli quattro anni, il museo di Spalato, in Croazia. A partire dal 1817, circa 340 reperti antichi da Aquileia furono inviati a Vienna. Gran parte di essi proveniva dagli scavi e dalla proprietà di Moschettini. Tra questi, tra il 1821 e il 1826, giunsero a Vienna dieci oggetti minori di osso, bronzo e terracotta, due anelli antichi e settantasette gemme e paste vitree. Nel 1828, inoltre, venne acquistata la collezione di ventitré gemme e camei da Salvatore Zanini (medico dello Stato ad Aquileia). Successivamente giunsero a Vienna altre sei gemme provenienti da proprietà private, con indicazione di luogo di ritrovamento da Aquileia, sebbene non accertata. (segue a p. 98) a r c h e o 95


SPECIALE • AQUILEIA

UN MISTERIOSO PIATTO D’ARGENTO Fra i monumenti che l’antichità classica ci ha tramandato, uno dei piú suggestivi e problematici è certamente il piatto d’argento rinvenuto ad Aquileia e ora conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna: suggestivo, per

la straordinaria (e inedita) decorazione che occupa tutta la superficie disponibile; problematico perché, nonostante gli sforzi esegetici degli studiosi (la bibliografia che lo riguarda è sterminata, a partire dalle prime

notizie ancora della metà del XIX secolo, all’acceso dibattito che non si è ancora placato), esso mantiene ancora intatti molti dei suoi segreti, primo fra tutti il luogo di rinvenimento. Quest’ultimo è infatti indicato come «località

Piatto d’argento con allegoria della fertilità. Seconda metà del I sec. a.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Il prezioso manufatto fu donato nel 1825 all’imperatore d’Austria Francesco I da Francesco Leopoldo Cassis Faraone dopo il suo rinvenimento in un’area non meglio precisata, tra il Foro e il porto fluviale, verso la località di Monastero.

96 a r c h e o


Monastero», senza ulteriori precisazioni, che lascia nel dubbio se il piatto sia stato ritrovato in occasione di scavi occasionali oppure se, come è accaduto per molti altri manufatti preziosi, sia passato di mano in mano fino a divenire parte dei possedimenti del monastero. Nella speranza che qualche scoperta d’archivio faccia luce sulla storia del manufatto, analizziamolo nella forma e decorazione per cercare di comprendere la temperie culturale all’interno della quale è stato concepito e la sua originaria destinazione. Il piatto, di dimensioni piuttosto cospicue (30 cm circa), è realizzato a doppia lamina, una esterna con funzione protettiva e una interna decorata a sbalzo e rifinita sul davanti a cesello e doratura; tutta la superficie è occupata da una composizione ad alto rilievo che lo rende inutilizzabile in senso funzionale: si tratta dunque di un oggetto d’apparato, che appare isolato nel panorama coevo (il piatto è concordemente datato fra la fine del I secolo a.C. e l’età claudia), trovando raffronto solo in una produzione molto piú tarda. La decorazione è sapientemente organizzata intorno alla figura del protagonista, che occupa lo spazio centrale: si tratta (ed è una delle poche cose su cui gli studiosi concordano) di un personaggio storico, certamente un Romano, effigiato nelle vesti di Trittolemo, eroe greco legato al mito di Demetra, come suggerisce il carro tirato da serpenti alati, amorosamente accuditi da due Stagioni (l’Inverno, raffigurato nell’atto di accarezzare uno dei due animali, l’Autunno in ginocchio intento a nutrire l’altro), mentre alle spalle del protagonista si

riconoscono la Primavera e l’Estate. Il poderoso Trittolemo, la cui veste sembra un compromesso fra quella di un contadino in abito da lavoro e il mantello dei generali romani, leva la testa dal collo taurino e guarda verso una figura velata, seduta sotto un albero, che tiene con la mano destra un’alta torcia. Si tratta di Demetra, che insegnò a Trittolemo l’arte dell’agricoltura, la cui identità sembra confermata dalla decorazione che orna l’altare posto accanto al protagonista, che mette in scena il ratto della figlia Persefone. Intorno all’altare si trovano tre fanciulletti con larghi piatti rotondi (simili a quello che stiamo esaminando?), da cui il protagonista prende qualcosa (delle piccole focacce rotonde? oppure, piú plausibilmente, quei semi di grano che egli si accinge a portare al mondo); a ribadire il riferimento al culto di Demetra, il capo della bimbetta è ornato da un alto copricapo, identico a quello che si trova alle sue spalle ricolmo di frutta e spighe, chiara allusione alla ricchezza e fertilità che Trittolemo avrebbe portato al mondo. Completano la decorazione un maestoso Giove con fulmine e scettro, che dall’alto dei cieli veglia sulla scena, e una fanciulla effigiata nella parte inferiore del piatto, nell’atto di sollevare il manto che la copre e la collega al bovino accovacciato accanto a lei. La presenza di questa figura femminile da un lato complica dall’altro chiarisce la complessa composizione: non si tratta di Tellus, la dea della Terra, come da taluni proposto, ma di Io, la sacerdotessa di Era argiva, che Giove violò e rese madre di Epafo, il fondatore della dinastia tolemaica. Nel personaggio centrale si fondono dunque due diverse tradizioni

mitologiche, quella legata al culto di Demetra, che vede in Trittolemo l’eroe civilizzatore che insegnò ai Greci l’arte dell’agricoltura, e quella isiaca che, attraverso Io, mette al centro la figura di Epafo, capostipite dei Tolemei; tradizioni mitologiche complesse e di origine diversa, che proprio nella religiosità alessandrina avevano trovato possibilità di composizione. Ma molte domande restano inevase: a chi era destinato il prezioso manufatto? Era esso un unicum o faceva parte di una serie? E, ancora, come giunse nella colonia romana che lo preservò quasi intatto per consegnarlo ai dubbi degli studiosi? Una possibile risposta alla prima domanda può essere suggerita se si accetta l’ipotesi che il piatto non fosse destinato al tesoro regale ma fosse un oggetto prodotto in piú copie, destinate a divenire un raffinato dono per poche, selezionate persone; in tal caso esso avrebbe potuto essere stato donato da Marco Antonio stesso a qualche suo illustre seguace in grado di comprendere l’elaborata ideologia sottesa alla complessa raffigurazione; un personaggio che, dopo Azio, si sarebbe recato nella Venetia, che era stata a lungo governata da Asinio Pollione ed era storicamente legata al triumviro. Impossibile, allo stato attuale delle nostre conoscenze, dire una parola definitiva: ciò che colpisce è che nell’un caso e nell’altro il prezioso manufatto, giunto per inconoscibili vie nelle mani del conte Ignazio de Cassis, che possedeva ad Aquileia beni nell’attuale contrada di Monastero, fu da lui usato, secondo la sua destinazione originaria, come raffinato dono per l’imperatore d’Austria. Francesca Ghedini

a r c h e o 97


SPECIALE • AQUILEIA

QUEL TORO VENUTO DALL’ORIENTE La collezione di pezzi aquileiesi a Vienna è piuttosto eterogenea per composizione e qualità, ma riflette bene il gusto dei collezionisti ottocenteschi. Tra gli oggetti piú apprezzati c’erano certamente quelli preziosi, come le gemme e i cammei, le paste vitree, facilmente reperibili nella città altoadriatica; i materiali lapidei sono meno abbondanti, anche per le ovvie difficoltà di trasporto. In ogni caso, sia tra i primi sia tra i secondi vi sono alcuni pezzi di carattere davvero eccezionale, che occupano un posto di assoluto rilievo nella storia dell’arte romana e testimoniano la ricchezza, la qualità, i disparati influssi della vita artistica dell’antica Aquileia. Tra tutti spicca naturalmente il grande piatto d’argento dorato, non a caso concesso in dono direttamente all’imperatore Francesco I (vedi il contributo di Francesca Ghedini alle pp. 96-97); ma di

La Collezione di Antichità, inizialmente situata come si è detto nel Corridoio degli Agostiniani della Hofburg di Vienna, ebbe, nel corso del tempo, diverse nuove collocazioni. Molte delle sculture, soprattutto quelle di dimensioni molto grandi, hanno trovato posto, a partire dai primi dell’Ottocento, in una parte del castello del Belvedere costruito a partire dal 1713 per il principe Eugenio da Savoia. Con l’apertura dell’Imperial Regio Hofmuseum (poi diventato il Kunsthistorisches Museum) nel novembre 1891, gli oggetti antichi vennero trasferiti nella sede della Ringstrasse. 98 a r c h e o

grande interesse sono anche alcune sculture e rilievi, legati alla vita pubblica (piú precisamente alla sfera religiosa), o alla vita privata (in particolare all’ambito funerario). Il pezzo piú noto è indubbiamente il rilievo che si riferisce al culto di Mitra. Rinvenuto assieme a un altare a est di Aquileia e del grande fiume che la lambiva, nei fondi Ritter di Monastero, fu acquistato dal Barone Carlo von Reinelt di Trieste, che nell’estate 1889 lo regalò assieme ad altre opere antiche al Kunsthistorisches Museum. Il rilievo è talmente ben conservato che si pensa fosse stato nascosto intenzionalmente in antico per salvarlo da incursioni o da azioni vandaliche o belliche: non a caso è forse in assoluto il rilievo mitraico piú famoso. La forma ellissoidale, unica nel suo genere, evoca la localizzazione della scena all’interno di una grotta, il luogo nel quale veniva in origine celebrato il culto del dio, nato dalla pietra. Il culto di Mitra, infatti, non si svolgevain un tempio, ma continuava a utilizzare le cavità naturali, laddove le caratteristiche morfologiche lo permettevano. Il culto del dio della luce, come veniva anche chiamato, venne introdotto dalla Persia e si diffuse a partire dal I secolo d.C., prima a Roma e successivamente nelle province, soprattutto attraverso l’esercito. Si trattava di un culto misterico, accessibile soltanto agli iniziati di ceto medio-alto dell’amministrazione imperiale, del corpo militare, del mondo dei ricchi commercianti, escludendo, ovviamente, le donne. L’obbligo al silenzio per i devoti ha fatto trapelare poche informazioni sullo svolgimento del culto, ma è noto che la promessa della resurrezione rappresentava uno dei messaggi centrali, in grado di esercitare una forte attrazione e, al contempo, di rendere il mitraismo un ostacolo non indifferente alla

Già in questa esposizione, i capolavori aquileiesi figuravano tra i piú apprezzati dell’esposizione, come, per esempio, il rilievo di Mitra (vedi foto in queste pagine), collocato in posizione dominante accanto alla porta nella sala principale delle sculture antiche. Attualmente, nella Collezione di Antichità del Kunsthistorisches Museum sono conservati trecento oggetti provenienti da Aquileia. Quarantacinque pezzi tornarono ad Aquileia nel 1921, nell’ambito delle restituzioni che l’Austria fu tenuta a fare all’Italia dopo la fine della prima guerra mondiale: tra essi, sculture e iscrizioni, bolli laterizi e altri oggetti minori.

A sinistra e nella pagina accanto: due immagini di un rilievo votivo di Mitra, rinvenuto nel 1888 in località Monastero. Seconda metà del II sec. d.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum.


diffusione del cristianesimo. La maggior parte delle rappresentazioni mostrano, come nel caso del rilievo aquileiese, il dio solare al centro della scena dell’uccisione del toro, la tauroctonia. Mitra indossa il tipico abito orientale, la tunica cinta sopra i pantaloni, un mantello e il berretto frigio. Lo schema di quest’uccisione rituale è sempre lo stesso: il dio solare afferra con la mano sinistra il muso, mentre punta il ginocchio sinistro per tenere fermo il toro inferocito, che viene colpito con un coltello sacrificale all’arteria giugulare. Il toro, che A destra: gemma (montata su anello d’oro moderno) che ritrae una matrona pettinata con un’acconciatura «alla Giulia di Tito». Fine del I sec. d.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

rappresenta la luna, viene aggredito da un cane e da un grande scorpione, sotto il quale si nota un serpente; assistono alla scena due Dadofori, figure celesti anch’esse vestite con abiti orientali: Cautes, con una fiaccola tenuta verso l’alto a segnare il sole che sorge, ovvero l’equinozio primaverile, e Cautopates, con una fiaccola tenuta verso il basso a indicare il sole calante, ovvero l’equinozio autunnale. In alto a sinistra compare il Sole sul carro trainato da una quadriga, in alto a destra il busto della Luna. Monika Verzár

Per la maggior parte si trattava di reperti che erano stati scavati durante il periodo di amministrazione austriaca. Gli oggetti furono esposti nel 1923 in una grande mostra tenutasi a Roma, in Palazzo Venezia. Tra i pezzi restituiti figuravano il frammento con ala di Icaro e il rilievo funerario della mima Bassilla, la cui scoperta nelle vicinanze dell’anfiteatro nel 1805 ha suscitato molto interesse a causa dell’iscrizione greca. Nella nuova esposizione permanente della

Collezione di Antichità nel Kunsthistorischen Museum, invece, i capolavori aquileiesi hanno mantenuto la loro posizione preminente come testimoni importanti di un passato glorioso: tra i pezzi piú rilevanti figurano la patera d’argento, la croce di bronzo, il rilievo di Mitra e il rilievo con scena di sacrificio.Tutti sono oggi esposti nella Mostra aquileiese dedicata ai 2200 anni dalla fondazione della grande città romana. G. P. a r c h e o 99


SPECIALE • AQUILEIA Una delle sale del Museo Archeologico Nazionale di Aquileia, dedicata alla statuaria. Sulla sinista, in primo piano, si riconosce l’Augusto togato, dall’area occidentale di Aquileia. I sec. d.C. Nella pagina accanto, in basso: la facciata dell’edificio che ospita il museo.

100 a r c h e o


STORIE DI FRONTIERA Il Museo Archeologico Nazionale di Aquileia si è recentemente dotato di un nuovo allestimento, grazie al quale è possibile ripercorrere le vicende salienti della città, dalla sua fondazione ai primi secoli del cristianesimo di Giuseppe M. Della Fina

«S

arai annoverata nona tra le città illustri, o Aquileia, colonia italica, di fronte ai Monti Illirici, celeberrima per le tue mura e per il tuo porto». Cosí, tra la fine del III e il IV secolo d.C., il poeta Ausonio celebrava Aquileia nel suo poemetto Ordo urbium nobilium, ricordandola tra le principali città dell’intero impero romano. La storia di Aquileia è ora ben illustrata nel Museo Archeologico Nazionale: il nuovo allestimento, curato dalla direttrice Marta Novello supportata da un comitato scientifico di alto livello, ha superato con coraggio il tradizionale ordinamento tipologico e cronologico che lo caratterizzava e ha posto l’antico insediamento e i suoi abitanti al centro dell’attenzione del visitatore. Ne scaturisce un percorso espositivo che ripercorre le com-

a r c h e o 101


SPECIALE • AQUILEIA

IL NAVARCA Nel nuovo allestimento, l’asse visivo del pianterreno, è rappresentato da una delle sculture piú significative tra quelle conservate nel museo: si tratta di una statua di grandi dimensioni, nota come il «Navarca», che deve avere raffigurato un personaggio di rilievo, probabilmente un ammiraglio, in atteggiamento di seminudità eroica. La scultura faceva verosimilmente parte di un monumento funerario e venne rinvenuta a nord di Aquileia negli anni Cinquanta del Novecento.

plesse vicende di un centro di frontiera, nar- In alto: due rate attraverso ciò che la ricerca archeologica immagini del ha riportato sinora alla luce. pianterreno, il cui

LA FONDAZIONE DELLA COLONIA Il racconto si apre al pianterreno, con la sintetica presentazione delle prime fasi di vita, che possiamo provare a riassumere: Aquileia venne fondata nel 181 a.C., come colonia latina, dai magistrati Publio Cornelio Scipione Nasica, Gaio Flaminio e Lucio Manlio Acidino Fulviano, nell’ambito di un progetto politico ambizioso e finalizzato all’espansione di Roma nell’area padana e verso i Balcani. Lo sviluppo fu rapido sia come avamposto 102 a r c h e o

allestimento ha come riferimento visivo costante la statua del «Navarca», visibile al centro, in fondo.

militare che come città commerciale grazie alla laboriosità dei suoi abitanti e alla presenza di un fiume – il Natiso cum Turro – navigabile per le imbarcazioni del tempo. Il salto di qualità vero avvenne, comunque, piú tardi, nel II e III secolo d.C., quando Aquileia divenne il baluardo dell’Italia nei confronti del mondo balcanico e orientale arrivando a fungere, a partire dalla fine del III secolo d.C., da sede del governatore della provincia Venetia et Histria. Alla fine dell’impero romano d’Occidente la città conservò la sua importanza: fu sede patriarcale e si impose come centro di primo piano nel cristianesimo che si andava allora affermando.


Il percorso prosegue illustrando le vicende della riscoperta della città e la formazione del museo stesso, che venne inaugurato, alla presenza dell’arciduca d’Austria Carlo Ludovico, nel 1882, quando Aquileia era sotto il controllo degli Asburgo. La riscoperta dell’abitato si può fare risalire alla figura di Giandomenico Bertoli che raccolse le sue vaste conoscenze nell’opera Antichità d’Aquileja profane e sacre (1739) articolata in tre volumi. Egli fu anche un collezionista e raccolse alcuni reperti nella sua abitazione. Quel primo nucleo collezionistico confluí nelle raccolte delle famiglie Cassis Faraone e Ritter Záhony che – riunite in una villa in località Monastero – costituirono di fatto un primo museo, seppure privato. Alcuni decenni piú tardi, in una temperie culturale diversa, Eugène de Beauharnais, figliastro di Napoleone Bonaparte, dette vita, nel 1807, al primo museo pubblico: il Museo Eugeniano, allestito nel Battistero della Basilica e nella Chiesa dei Pagani.

UNA SEDE MAGNIFICA Nel 1873 venne istituito, soprattutto per volontà civica, il Museo Patrio della Città, la cui ricca collezione confluí solo pochi anni dopo nell’Imperial Regio Museo dello Stato (o Caesareum Museum Aquileiense) voluto dall’imperatore Francesco Giuseppe nel 1879 e inaugurato tre anni dopo – come si è visto – dall’arciduca d’Austria in una nuova magnifica sede: la Villa Cassis Faraone. Esso era suddiviso per classi di materiali: iscrizioni, sculture e «Antikaglien». Nel 1898, per dare una sistemazione ai nuovi, ingenti ritrovamenti, prese avvio la costruzione delle Gallerie LaIn alto: applique in bronzo con testa di vento (Boreas?), dal pozzo orientale del Foro. Fine del I sec. a.C.-inizi del I sec. d.C. A sinistra: pisside in pasta vitrea. I sec. d.C.

pidarie nel giardino della villa. Da quel museo, passato sotto il controllo italiano il 24 maggio 1915, subito dopo l’entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria, è scaturito l’attuale. Un suo rinnovamento profondo si ebbe nel 1954 con la realizzazione di un nuovo quadriportico nelle Gallerie Lapidarie finalizzato all’esposizione dei mosaici piú significativi tra quelli riportati alla luce. Quindi – sempre al pianterreno – seguono le sezioni dedicate ai monumenti pubblici e alle necropoli con la città antica che diventa protagonista assoluta. Grazie all’esauriente e curato apparato informativo, la visita consente di comprendere che gli edifici pubblici a r c h e o 103


SPECIALE • AQUILEIA

sorsero secondo un piano urbanistico ispirato a quello delle altre città romane e che venne realizzato in sintonia tra il potere centrale di Roma e gli amministratori locali con la collaborazione fattiva di privati cittadini. Monumentalità degli edifici e ricchezza delle loro decorazioni aumentarono insieme al peso e al prestigio che Aquileia andò acquisendo nel tempo. In tal senso un cambiamento significativo si può osservare nella sostituzione degli ornamenti in terracotta con altri in pietra: prima, a partire dal I secolo a.C., con il calcare delle vicine cave di Aurisina, poi, dal II secolo d.C., con un largo impiego di marmi d’importazione. Dalle opere esposte si evince che il cuore della vita pubblica era il Foro realizzato, insieme alle mura, già alla metà del II secolo a.C.,

In basso: l’allestimento del Museo Paleocristiano, che ha sede in un edificio sorto in corrispondenza di una chiesa successivamente trasformata in monastero.

QUANDO AQUILEIA DIVENNE CRISTIANA Ad Aquileia ha sede, a partire dal 1961, il Museo Paleocristiano, ospitato all’interno di un edificio recuperato appositamente grazie al contributo del mecenate Franco Marinotti, a cui il museo è ora intitolato. Accoglie manufatti di età tardo-antica scorporati dal Museo Archeologico Nazionale, che raccontano la vita delle prime comunità cristiane della città. L’edificio sorge sull’area di una chiesa paleocristiana situata nel settore nord-orientale della città antica e poi trasformata in un monastero benedettino. La proprietà passò successivamente piú volte di mano e, prima dell’intervento di restauro, vi si svolgevano attività legate all’agricoltura. Al pianterreno è visibile lo straordinario pavimento a mosaico della chiesa paleocristiana e lacerti musivi di epoca successiva, mentre al primo piano si possono osservare i resti dei mosaici della basilica del Fondo Tullio alla Beligna. Al piano superiore sono visibili numerose iscrizioni perlopiú di carattere funerario, che illustrano la composita società locale tra IV e V secolo d.C., e sculture databili sino all’età altomedievale.

104 a r c h e o

e poi ampliato e abbellito, mentre la vita economica gravitava attorno al porto fluviale, ai suoi magazzini e alle officine artigianali presenti all’interno e a ridosso dell’area urbana. Nel settore occidentale erano concentrati gli edifici di spettacolo e, nella stessa zona, in età tardo-antica, vennero edificate le terme pubbliche. A partire dall’epoca di Costantino la fiorente comunità cristiana edificò le sue chiese all’intermo e all’esterno delle mura.

IL RITO FUNEBRE Le necropoli erano situate lungo le vie di accesso ad Aquileia: la via Gemina, che conduceva a Tergeste (Trieste), la via Annia, che portava a Concordia (Iulia Concordia) e altre dirette verso le Alpi o in direzione degli approdi lagunari. Le sepolture di uno stesso gruppo familiare risultano comprese entro un recinto funerario allineato con altri su piú file parallele, secondo precise disposizioni. Le sepolture piú antiche erano a incinerazione con l’uso di urne in terracotta, pietra, piombo e alabastro. Urne che, a loro volta, potevano contenere recipienti in vetro. A partire dalla prima metà del II secolo d.C. s’iniziò a preferire l’inumazione e i corpi dei defunti venivano deposti in sarcofagi in pietra, o in casse di legno, in laterizio, oppure in piombo. La visita prosegue al primo piano, dove vengono approfondite singole tematiche: le domus, caratterizzate da mosaici pavimentali di grande impegno; la funzione di Aquileia come emporio, aperto contemporaneamente all’Europa danubiana e renana e al Mediterraneo; le attività produttive legate all’artigianato e all’agricoltura. Lungo la scala che collega i due piani – con un’originale soluzione espositiva – sono esposti i ritratti scolpiti degli antichi Aquileiesi, che sembrano voler dialogare con il visitatore. Le abitazioni, all’interno della città, costituivano veri e propri quartieri residenziali, mentre le grandi ville delle famiglie piú facoltose si trovavano nell’area suburbana. Il loro livello è testimoniato soprattutto dai mosaici pavimentali. Le maestranze mostrano una notevole capacità tecnica e una piena conoscenza di modelli elaborati anche in aree geografiche molto lontane. Da modelli greco-orientali derivano, per esempio, tre pavimenti esposti di finezza notevole: sono realizzati con tessere policrome di piccole dimensioni e presentano rispettivamente la raffigu-


Statua di Venere (copia da un originale di etĂ ellenistica) I sec. a.C.I sec. d.C. a r c h e o 105


SPECIALE • AQUILEIA

Il nuovo allestimento è stato preceduto da restauri che hanno interessato alcune delle opere piú significative: è il caso, per esempio, della statua marmorea dell’imperatore Augusto raffigurato con il capo velato, che venne riportata alla luce nel settore occidentale della città durante l’Ottocento. Essa doveva far parte di un ciclo statuario composto da diversi esponenti della dinastia giulio-claudia dato che, nell’occasione, furono rinvenute anche una statua dell’imperatore Claudio e un’altra di Antonia Minore. Un altro intervento di restauro ha interessato uno dei ritratti piú antichi della raccolta: si razione di Europa (o di una Nereide) su un toro marino, i resti di un pasto caduti a terra, tralci di vite uniti al centro da un fiocco. Gli oggetti di arredo pervenuti confermano la magnificenza delle abitazioni. Il ruolo di Aquileia come centro privilegiato di scambi commerciali e d’incontro tra genti diverse è ben testimoniato nel museo da iscrizioni, stele funerarie, ritratti e altri reperti in grado di documentare la vita di numerose persone che contribuirono al suo sviluppo e riuscirono a trasformarla nella quarta città per importanza della penisola italiana e tra le prime dieci di tutto l’impero. Singole classi di reperti esposti parlano della sua vivacità economica: le anfore, per esempio, che potevano contenere e consentire il trasporto di vino, olio e salse di pesce. Altri oggetti suggeriscono l’approvvigionamento di ferro dalle miniere dell’arco alpino e dell’ambra dal Baltico.

MULTICULTURALE E APERTA A RELIGIONI DIVERSE Il carattere multiculturale della città è suggerito da testimonianze provenienti dall’ambito del sacro: esse indicano il culto per le divinità tradizionali del mondo romano e per altre di origine straniera come Mitra. Il cristianesimo vi trovò una precoce e notevole attenzione, testimoniata dall’attività edilizia del IV secolo d.C., che portò alla costruzione della celebre basilica e di altri edifici di culto cristiano. Le attività produttive sono ben testimoniate e illustrate da reperti che rinviano all’esistenza di coltivatori, viticoltori, allevatori, muratori, carpentieri, scalpellini, scultori. E, inoltre, di uomini e donne impegnate nella lavorazione dei tessuti, della ceramica, dei metalli, del vetro e dell’ambra. 106 a r c h e o

In alto: particolare di un mosaico con raffigurazione di tralcio di vite e fiocco, appartenente alla decorazione di una domus localizzata a nord del complesso basilicale. Seconda metà del I sec. a.C.

tratta della testa di un uomo anziano resa con estremo realismo. Venne realizzata, in pietra locale, nel I secolo a.C. e rappresenta uno dei capolavori della ritrattistica romana di età repubblicana. Oggetto di restauro è stata anche una statua di Venere scolpita nel marmo, che deriva da un originale ellenistico. Essa ha trovato collocazione nella sezione dedicata alle domus, dato che dovrebbe essere stata collocata originariamente nel giardino di una lussuosa residenza privata. DOVE E QUANDO «Magnifici Ritorni. Tesori aquileiesi dal Kunsthistorisches Museum di Vienna» Aquileia, Museo Archeologico Nazionale fino al 20 ottobre Orario ma-do, 10,00-19,00; chiuso il lunedí Info tel. 0431 91016; e-mail: museoarcheoaquileia@beniculturali.it; www.fondazioneaquileia.it; www. museoarcheologicoaquileia.beniculturali.it Note il Museo Archeologico Nazionale osserva gli stessi orari della mostra



IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda

I ROSTRI DELLE EGADI

UN RICORDO DI SEBASTIANO TUSA, L’ARCHEOLOGO SICILIANO TRAGICAMENTE SCOMPARSO NELLO SCORSO MARZO, ATTRAVERSO LA STORIA DI UNA DELLE SUE PIÚ BRILLANTI INTUIZIONI

I

l terribile incidente aereo verificatosi lo scorso 10 marzo in Etiopia – quando un Boeing 737 precipitò poco dopo il decollo – ha privato l’archeologia italiana di uno dei suoi protagonisti, Sebastiano Tusa: uno studioso di livello internazionale, che sapeva coniugare l’alta specializzazione scientifica con un grande impegno verso la gestione del patrimonio culturale, la sua comunicazione, la restituzione di senso. Per questo aveva accettato di assumere la carica di assessore ai beni culturali per la Regione Sicilia, e anche per questo avevo

108 a r c h e o

avuto il piacere di incontrarlo pochi giorni prima di quel tragico schianto a Firenze, in occasione di una tavola rotonda, al termine della quale ci eravamo lasciati, come sempre, con un cordiale «Ciao Sebastiano, arrivederci». All’archeologia siciliana mancheranno la sua grande esperienza e disponibilità; all’archeologia italiana un punto di riferimento sicuro, di cui ancora stentiamo a valutare la perdita. Sebastiano Tusa aveva diretto per molti anni la Soprintendenza del Mare, una struttura che l’autonomia siciliana aveva creato sul modello

francese, mettendo in atto una visione contestuale dei beni culturali marittimi (storici, archeologici, artistici, antropologici, paesaggistici). Proprio nell’ambito di questi interessi, per molti anni Tusa aveva scavato a fondo nella congerie di dati, a volte contraddittori, che ruotavano attorno alla ricostruzione della celebre battaglia delle Egadi, che pose fine, il 10 marzo 241 a.C., alla prima guerra punica. Quel giorno di 2260 anni fa la distruzione della flotta cartaginese comandata da Annone da parte della flotta romana comandata da Lutazio Catulo tolse per sempre ai Cartaginesi il controllo strategico della Sicilia. La tradizione storiografica poneva lo scenario dello scontro nelle acque della maggiore isola delle Egadi, Favignana. Ma quella ricostruzione non aveva mai convinto il giovane


A sinistra: Sebastiano Tusa (1952-2019) a bordo della nave Hercules durante una delle campagne di ricerca condotte con la RPM Nautical Foundation per localizzare il sito della battaglia delle Egadi.

Tusa, il quale, mettendo in fila le descrizioni che dello scontro facevano gli autori antichi (Polibio, Diodoro, Eutropio, Zonara), lo studio meticoloso della topografia tra terraferma e arcipelago, l’analisi del regime dei venti dominanti nell’area e le considerazioni strategiche che ne derivavano, supponeva che lo scenario della battaglia andasse ricercato piú a nord, nelle acque della piccola Levanzo antistanti Drepanum, l’antica Trapani, e il Capo di Erice. Mancava la prova archeologica, anche se in quella direzione andava la notizia di un passato rinvenimento di centinaia di ceppi di ancore in piombo recuperati lungo la costa orientale dell’isola e miseramente fusi per ricavarne pesi da rete per la pesca. Quelle ancore erano disperse sul fondale antistante la ripida costa orientale di Levanzo: un tratto privo di qualunque approdo dove un numero consistente di navi avrebbe potuto concentrarsi solo per una motivazione del tutto particolare, quale per esempio proprio un agguato militare. Circostanza, quest’ultima, che traeva forza anche

dal casuale rinvenimento da parte di un pescatore di un elmo in bronzo databile all’età della battaglia, seguito dalla segnalazione da parte del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri di un antico rostro navale proveniente da quelle stesse acque e pervenuto addirittura nello studio di un dentista trapanese.

L’AVVIO DELLE INDAGINI Quei fondali, profondi mediamente 100 m, nascondevano quindi le tracce di un evento storico tanto noto quanto evanescente, come spesso sono le battaglie navali, i cui esiti materiali restano sommersi e

sepolti dal solenne richiudersi delle acque. Fu quindi a partire dal 2005 che per impulso di Tusa, e grazie all’intervento della statunitense RPM Nautical Foundation, si poterono mettere in campo gli specialisti e le tecnologie necessarie allo scioglimento dell’enigma storico. Oltre 200 kmq di fondale marino sono stati accuratamente passati al setaccio dei sonar e delle indagini subacquee guidate dallo studio meticoloso del contesto geografico che fa corona a quelle acque. Nel corso di poco piú di un decennio il fondale marino ha restituito, uno dopo l’altro, ben 16 rostri (prima di questi recuperi se ne conosceva solo uno dalle acque israeliane), che hanno permesso di considerare assolutamente certa la localizzazione dello scontro navale presunta daTusa, ulteriormente avvalorata dal ritrovamento di una ventina di altri elmi e di reperti ceramici e metallici di età ellenistica. I rostri, che venivano montati sulla prua delle navi per speronare e affondare le imbarcazioni nemiche, appaiono molti simili tra di loro, ma li differenzia la presenza di iscrizioni ora in latino ora in punico (una di queste contiene la preghiera a Baal che «questo [rostro] sia puntato

Nella pagina accanto: uno dei rostri individuati nelle acque a ovest dell’isola di Levanzo e, a destra, un altro rostro subito dopo il recupero.

a r c h e o 109


dritto contro il naviglio; … e lo scudo colpito soffra nel centro») e sembra confermare la notizia degli autori antichi circa il fatto che i Romani, ancora inesperti di guerre navali, costruirono le proprie navi sul modello di quelle cartaginesi, a loro volta eredi della lunga tradizione orientale (i rostri compaiono già nelle navi raffigurate nei rilievi assiri di Ninive).

ERA L’ALBA... Lasciamo alle parole di Sebastiano Tusa il compito di trarre le conclusioni dalle novità apportate dalle sue lunghe ricerche: «Tale conferma archeologica – scrive – ci consente di ricostruire la dinamica della battaglia con notevole accuratezza (…). Annone all’alba del 10 marzo del 241 a.C., invogliato da una leggera brezza da Sud che andava girando da Ovest, diede l’ordine di salpare da Marettimo poiché pensava che con il vento in poppa avrebbe

raggiunto rapidamente la costa siciliana eludendo i rigidi pattugliamenti romani della costa tra Drepanum e Lilibeo. Evidentemente Lutazio Catulo, l’astuto ammiraglio romano, intuí la mossa del nemico e pose tutta o parte della sua flotta al riparo dell’alta mole di Capo Grosso. Quando la flotta cartaginese si andava avvicinando diede l’ordine di salpare mollando cime ed ancore e scaraventando la sua forza d’urto e di sorpresa sul nemico (…). Lo scompiglio nelle file nemiche dovette essere terribile sicché, anche in virtú del cambiamento del vento (…), impossibilitato a proseguire (…), Annone diede l’ordine di far vela verso Cartagine. Svanirono per sempre le speranze cartaginesi di risolvere il conflitto a proprio favore. Amilcare, privo di rifornimenti, dovette capitolare cedendo la Sicilia ai Romani». Le immagini che ritraggono

Alcuni dei rostri impiegati dalle navi romane e cartaginesi che combatterono la battaglia delle Egadi. Favignana, ex Stabilimento Florio.

110 a r c h e o

l’affascinante recupero degli splendidi rostri espongono fondali apparentemente incontaminati, dove questi strani e ingombranti oggetti di bronzo sembrano rappresentare l’unica traccia materiale di un evento pur cosí rilevante, che impegnò un alto numero di navi e di uomini.

COME CUPI CUSTODI Sappiamo che le tracce dei naufraghi svaniscono per sempre nelle acque che li sommergono (e figuriamoci quelle dei rematori intrappolati negli scafi). Ma qui anche le navi stesse sono svanite: non c’è infatti traccia di relitti. I rostri adagiati sul fondale sembrano i cupi custodi di una tomba collettiva che unisce nella morte Romani e Cartaginesi. Il fatto è – spiegava Tusa – che «l’assenza di legno è dovuta quasi certamente al fatto che le navi perdute in battaglia erano quelle adibite al combattimento. Erano, pertanto, prive di pesante carico che generalmente con il suo peso copre e fa sprofondare lentamente lo scafo al di sotto del sedimento del fondo marino preservandolo dall’aggressione della Teredo Navalis (un mollusco che si nutre di legno, n.d.r.). Il legno è, pertanto, scomparso lasciando sul fondo le ceramiche usate dall’equipaggio, i chiodi e quegli elementi inorganici che facevano parte delle imbarcazioni affondate. Emerge, in tal modo, un vasto areale ove si raggruppano numerose concentrazioni di oggetti che offrono la percezione di numerose navi affondate costituendo l’ulteriore prova dell’identificazione esatta del luogo dello scontro». 10 marzo 241 a.C.-10 marzo 2019: il destino ha voluto che lo stesso giorno togliesse alla famiglia, alla Sicilia e a tutti noi l’instancabile protagonista di una ricerca affascinante, alla quale il suo nome rimarrà indissolubilmente legato.



L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

IL DESTINO NEL NOME SE OGGI SI PARLA DEL «DIO DENARO», NEL MONDO ROMANO LA MONETA ERA SEMPRE UNA DIVINITÀ FEMMINILE. TALVOLTA PRESENTATA IN FORMA DI TRINITÀ, A EVOCARE L’ORO, L’ARGENTO E IL BRONZO talvolta onorate anche con propri luoghi di culto. E cosí anche la moneta, strumento essenziale della società uscita dalla fase dell’economia di scambio fondata sul baratto e poderoso mezzo di comunicazione di massa basato sulla potenza delle immagini, diviene a Roma una dea.

«N

on potete servire a Dio e a Mammona» (Matteo, 6, 24 e Luca 16,13): con questa celebre fase Gesú chiarisce ai suoi discepoli quale debba essere il giusto atteggiamento nei confronti della ricchezza e del suo uso, definendo «Mammona» la bramosia di accumulare beni, comune agli uomini, sino a fare del denaro un dio da servire, adorare e sottomettersi, divenendone schiavi. In particolare, Mammona è la voce biblica – di origine siriaca, di controversa etimologia e già presente negli Scritti di Qumran –, che indica probabilmente il demone dell’avidità e quindi, per estensione, la ricchezza smodata, tanto che nelle attuali traduzioni dei Vangeli il termine viene appunto tradotto con «ricchezza».

QUANDO LE OCHE DIEDERO L’ALLARME

DARE UN VOLTO ALLE ASTRAZIONI Nel mondo religioso medio-orientale, l’immagine della cupidigia, che si manifesta nel possesso del denaro e altri tesori terreni, aveva dunque la sua incarnazione in Mammona, secondo un processo comune in tutto il mondo antico che tendeva a dare forma riconoscibile ad astrazioni, morali e materiali, inserendole cosí nel pantheon delle divinità tradizionali con pieno aspetto umanizzato.

112 a r c h e o

La personificazione è infatti un interessante processo che, nel mondo religioso greco-romano, conferisce figura divina a idee astratte e allegoriche – si pensi, per esempio, a Pax, Iustitia, Salus, Fortuna, Securitas, Honos –

Essa ricorre però solo nell’iconografia numismatica e prende il nome, come da tradizione antica, dall’epiclesi (o attributo) Moneta (colei che ammonisce, avverte) conferito a Giunone, le cui oche sacre custodite nel tempio sul Campidoglio avevano segnalato nottetempo, starnazzando, l’irruzione dei Galli di Brenno nel 396 a.C. Va notato che questo nome è riferito alle divinità tutelari di regola poste sulle acropoli degli abitati (si pensi al tempio di Giunone Moneta a Segni nel Lazio). Il tempio di Giunone Moneta sorgeva appunto sul Campidoglio (presso la chiesa di S. Maria in Ara Coeli), nei cui paraggi aveva sede anche la zecca di Roma: cosí l’attributo Moneta passò a indicare, per prossimità topografica, il luogo (Cicerone, Filippiche, 7,1) e quindi la produzione di contante che prese il nome appunto di «moneta» (per esempio in Plinio il Vecchio, Storia


naturale, XXXIII, 46,132), insieme a quelli di pecunia e nummus. Già sui denari di età repubblicana compare la bella testa di Moneta, e ancora è vivo il dibattito se essa sia da riferirsi alla monetadivinizzata o non si riferisca piuttosto a Giunone. Si veda, per esempio, il denario del monetiere cesariano Titus Carisius, il quale, nel 46 a.C., dedica alcune sue emissioni a Moneta, mentre al rovescio fa raffigurare gli «strumenti del mestiere» destinati alla coniazione: incudine, tenaglie, martello e grande conio; quest’ultimo viene anche identificato come il berretto di Vulcano, assimilando l’ambiente infuocato della zecca alla fucina del dio.

I TRE METALLI Se la testa di Moneta sul denario di Carisio viene spesso letta come quella di Giunone, il dubbio identificativo scompare nei conii di età imperiale dedicati al motore del mondo, il denaro. L’economia e l’emissione di moneta, fondamentali nel regno di ogni imperatore, svolgono un ruolo che è inutile qui ripercorrere nella sua importanza. A partire da Domiziano (84 d.C.), in seguito a una ristrutturazione e nuova dislocazione della zecca, la Moneta acquista una dignità autonoma, derivando l’aspetto dall’iconografia dell’Aequitas, contraddistinta da bilancia e cornucopia, ma ora qui definita dalla leggenda come Moneta o Moneta Augusti. In seguito, a partire da Commodo, l’immagine si moltiplica e le personificazioni divengono tre, ognuna a rappresentare uno dei metalli monetati, ovvero l’oro, l’argento e il bronzo. Ciascuna delle Tre Monete, elegantemente panneggiate e di regola volte a sinistra, regge una cornucopia e una bilancia, a significare la

In questa pagina: medaglione in bronzo di Diocleziano. 284-286 d.C. circa. Al dritto, il busto laureato e con corazza dell’imperatore; al rovescio, le Tre Monete, con bilancia e cornucopia. Ai loro piedi vi sono mucchietti di monete che corrispondono ai rispettivi metalli utilizzati per la coniazione: oro, argento e bronzo. Nella pagina accanto: denario di Titus Carisius. 46 a.C. Al dritto, profilo di Moneta, con diadema, orecchini e collana; al rovescio, strumenti per la coniazione e il nome del monetiere T. Carisivs.

prosperità apportata dall’equa composizione della moneta. In un magnifico medaglione di Diocleziano, la figura centrale sorregge la bilancia attraverso un’asta piú lunga rispetto a quella delle altre due, e potrebbe significare la maggiore rilevanza data alla pesatura dell’oro, forse effettuata con una speciale bilancia di massima precisione. Comunque sia, è molto probabile che la Moneta centrale simboleggi l’aureus, per l’enfasi conferita dalla posizione centrale nell’ambito di

un gruppo di tre. Molto interessanti risultano infine le tre pilette ai piedi delle divinità: si tratta delle monete battute nei tre metalli, diligentemente accumulate a formare un degno gruzzoletto, che doveva simboleggiare, piú o meno verosimilmente, la floridezza della situazione economica di Roma, in particolare a seguito delle riforme monetarie che impegnarono, spesso drammaticamente, la politica imperiale a partire dal III secolo in poi.

a r c h e o 113


I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Filippo Coarelli

STATIO I luoghi dell’amministrazione nell’antica Roma Edizioni Quasar, Roma, 490 pp., ill. b/n. 50,00 euro ISBN 978-88-7140-941-2 www.edizioniquasar.it

Come scrive nell’Introduzione, Filippo Coarelli aveva maturato la decisione di scrivere questo volume poco meno di trent’anni fa, ma l’opera vede la luce soltanto adesso, poiché, nel frattempo, i dati riferibili all’argomento in questione – le strutture amministative dell’antica Roma – si sono considerevolmente arricchiti e all’autore è sembrato logico avvalersene. Ne è dunque scaturita una trattazione vasta e articolata, che fa luce su molte delle funzioni vitali dell’impero. Prima di entrare nel vivo dell’argomento, Coarelli si concede una lunga premessa metodologica, intesa innanzitutto a illustrare

le ragioni del suo rifiuto di varie ipotesi avanzate sull’effettivo significato del termine statio, confutando in particolare quelle di Christer Bruun e dicendosi propenso ad accogliere un’accezione soprattutto materiale e non astratta del vocabolo. I successivi capitoli passano in rassegna tutte le piú importanti attestazioni della statio, che dunque vanno dagli archivi di Stato alla zecca, dall’annona agli acquedotti, fino al servizio postale. Lo studioso affronta da par suo le diverse realtà, proponendo il costante e stimolante confronto fra dati archeologici, fonti letterarie ed epigrafiche, costantemente intrecciate con la topografia dei luoghi. Al di là del titolo, il viaggio virtuale nei luoghi in cui si esercitavano le attività amministrative permette dunque di cogliere anche la vita che in quei luoghi si consumava, offrendoci una sorta di radiografia dell’apparato statale dell’impero. Claude Nicolet

IL MESTIERE DI CITTADINO NELL’ANTICA ROMA

DALL’ESTERO

Editori Riuniti, Roma, 586 pp. 26,50 euro ISBN 978-88-359-8135-0 www.editoririuniti.it

Ian Gilligan

Pubblicato per la prima volta in Francia nel 1976, questo saggio di Claude Nicolet torna in libreria per iniziativa degli Editori 114 a r c h e o

Riuniti e non si può che rallegrarsene, poiché l’opera conserva ancora oggi molti elementi di sicuro interesse. A cominciare dalla scelta, esplicitata già nel titolo, di tratteggiare il profilo di quella che oggi chiameremmo «società civile», che, secondo il grande studioso francese, faticava a entrare nel cono di luce della storiografia. Ne risulta un quadro della vita politica e civile dell’antica Roma assai vivido, che mette in luce la capacità della repubblica prima e dell’impero poi di regolare e gestire un apparato statale vasto e complesso.

CLIMATE, CLOTHING, AND AGRICULTURE IN PREHISTORY Linking Evidence, Causes, and Effect Cambridge University Press, Cambridge, 326 pp., ill. b/n. 25,99 GBP ISBN 978-1-108-45519-0 www.cambridge.org

Almeno fino a tempi recenti, le ricostruzioni della vita quotidiana delle comunità preistoriche proposte da manuali e musei erano popolate da uomini e donne nudi o, al piú, coperti da improbabili e succinte strisce di pelle che ne coprivano le parti intime. La ricerca archeologica ha da tempo smentito questa visione «adamitica» e Ian Gilligan propone una sintesi delle conoscenze a oggi acquisite, offrendo una panoramica delle principali testimonianze, integrate dai confronti etnografici. Come si può leggere, i nostri piú antichi antenati furono spesso indotti a cimentarsi con le prime forme di sartoria da climi inclementi, ma sarebbe riduttivo credere che quella sia stata la sola motivazione. Ben presto, infatti, la capacità di arricchire il novero delle materie prime disponibili ebbe effetti anche sull’abbigliamento, in funzione del quale si cominciarono a sperimentare dapprima l’intreccio di fibre e poi la tessitura vera e propria. (a cura di Stefano Mammini)



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.