Medioevo n. 181, Febbraio 2012

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baghdad 1258 jacques le goff de secretis naturae alluvioni dossier l’infanzia nel medioevo

Mens. Anno 16 n. 2 (181) Febbraio 2012 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 2 (181) febbraio 2012

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

baghdad 1258 la sconfitta dell’islam

Il Medioevo dei

Bambini

Nascere, giocare, sopravvivere

un mondo di angeli e demoni?

incontro con jacques le goff

alchimia

il segreto di ermete trismegisto

l’invenzione

della musica medievale

€ 5,90



sommario

Febbraio 2012

ANTEPRIMA

mostre Giappone: una storia illustrata Vita da Clarisse appuntamenti È festa per tutti: belli e brutti Medioevo Oggi Il ballo degli eserciti Luce e acqua

misteri

De secretis naturae 6 8

«Quando l’alto proviene dal basso, e il basso dall’alto…» di Francesco Colotta

36

l’arte della guerra 10 11 12 12

Artiglierie individuali/1

Un uomo, un tiro di Flavio Russo

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COSTUME E SOCIETÀ riletture Musica L’«invenzione» della musica medievale di Marcello Schembri

calamità naturali Alluvioni

Il castigo dell’acqua

di Maria Paola Zanoboni

luoghi

6 battaglie

La fine degli Abbasidi di Francesco Troisi

20

intervista Un mondo di angeli e demoni? Incontro con Jacques Le Goff di Chiara Mercuri

di Franco Bruni

Dossier

STORIE La caduta di Baghdad

armenia Tesori in codice

30

20

44

54 CALEIDOSCOPIO

54 cartoline

Il castello delle meraviglie

110

libri Storie di una comunità

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musica

96 Note piene di fede

il medioevo dei bambini di Sandra Baragli

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Ante prima

Giappone: una storia illustrata mostre • Gesta eroiche ed eventi

miracolosi, favole e cronache: sono questi i temi di una parte consistente dell’antica letteratura giapponese, che, oltre alla forza delle parole, ricorreva a quella, forse ancora maggiore, delle immagini, vivaci e coloratissime

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l Giappone vanta una lunga tradizione nel campo della letteratura illustrata, che affonda le sue radici nella produzione dei primi emakimono (letteralmente «rotolo di pitture»), nel corso del periodo Heian (794-1185), e trova oggi la sua naturale evoluzione nei manga e in altre forme di animazione. È questo il tema dell’esposizione allestita al Metropolitan Museum, che riunisce una sessantina di opere realizzate tra il XII e il XIX secolo. Cuore del percorso espositivo sono appunto gli emakimono, che ebbero origine in Cina e furono introdotti in Giappone attraverso la fioritura dei modelli sviluppati all’epoca della dinastia imperiale Tang (618-907): si tratta di pitture eseguite, assieme a brani di scrittura, su lunghe strisce di carta (o seta) incollate insieme e avvolte a rotolo, in uno sviluppo continuo di immagini e di parole.

Eroi, animali, fantasmi... Le misure e il numero dei rotoli variano secondo le opere trattate, i cui temi vanno dai racconti legati alle religioni buddista e scintoista alle imprese guerresche degli eroi mitologici, dalle favole di animali che divengono protagonisti di allegorie della vita quotidiana a novelle intrise di mistero animate da spiriti e creature mostruose.

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A destra illustrazione dalla biografia del principe Shotoku, inchiostro, colori e oro su rotolo di seta. Periodo Kamakura (1185–1333). XIV sec. New York, The Metropolitan Museum of Art. In basso particolare di un’illustrazione dalle Leggende del Kitano Tenmangu, inchiostro, colori e oro su rotolo di seta. Periodo Kamakura (1185–1333). XIII sec. New York, The Metropolitan Museum of Art. Particolare attenzione è stata dedicata alle attestazioni riferibili ai periodi Nanbokucho e Muromachi (1336–1573), nel corso dei quali si registra la massima fioritura di questa arte: in quest’epoca furono composti oltre 400 racconti, noti con il nome collettivo di otogi zoshi. Lo stile della narrazione è spesso didascalico

e molte delle storie rievocano le epiche vicende del periodo Kamakura (1185–1333), segnato da eventi bellici e dall’ascesa di una potente classe guerriera. I rotoli permisero la diffusione di questo patrimonio ben oltre i confini del Giappone, trasmettendo la conoscenza dell’otogi zoshi in tutta l’Asia orientale. febbraio

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In alto illustrazione di Kaiho Yuchiku per il racconto Shuten Doji (Il demone ubriaco), inchiostro, colori e oro su carta. Periodo Edo (1615-1868), seconda metà del XVII sec. New York, New York Public Library, Spencer Collection. Dove e quando

«L’arte giapponese della narrazione» New York, The Metropolitan Museum of Art fino al 6 maggio Orario tutti i giorni, 9,30-17,30 (venerdí-sabato, apertura serale fino alle 21,00); lunedí chiuso Info www.metmuseum.org Qui sopra particolare di un’illustrazione da Hyakki Yagyo zu (La parata notturna dei cento demoni), inchiostro, colori e oro su rotolo in carta. Periodo Edo (1615-1868), XIX sec. New York, The Metropolitan Museum of Art. A destra scenetta dal Choju giga (Caricature di animali), inchiostro su rotolo in carta. Periodo Heian (794-1185). XII sec. New York, Brooklyn Museum, Collection of Robin B. Martin.

La lettura del rotolo Le misure e il numero dei rotoli variano secondo l’argomento trattato: l’altezza si aggira in genere sui 30 cm e la lunghezza può arrivare fino ai 10 m; vi sono temi trattati in un solo rotolo, altri suddivisi in piú parti (si conosce un’opera sviluppata in ben 48 rotoli). L’emakimono va

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febbraio

visto orizzontalmente, da destra a sinistra, tenendolo tra le mani e svolgendolo adagiato su un tavolo (o anche sul pavimento), srotolando la striscia di carta con la mano sinistra, arrotolandola contemporaneamente con la destra. Il rotolo è provvisto di un bastoncino (jiku) di legno le cui estremità possono essere di avorio o

di cristallo di rocca e talvolta fornito di guarnizioni metalliche cesellate e dorate (hashi kanamono). La maggior parte di emakimono accoglie, accanto alla scena dipinta, un brano scritto (kotoba-gaki), che spiega il contenuto e articola la successione delle illustrazioni. (red.)

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Ante prima

Vita da Clarisse mostre • A Padova, gli scavi di

un convento che si credeva perduto hanno restituito una ricca messe di reperti, echi di giornate trascorse fra la preghiera e la pratica di attività domestiche

L

e «memorie» esposte sono state ritrovate nell’antico e perduto convento delle Clarisse di S. Chiara a Padova, che fiorí tra il XIV e il XVIII secolo, ma che, negli anni Sessanta del secolo scorso, fu demolito per erigere la Questura. Nel 2000, indagini archeologiche condotte nel cortile della Questura stessa hanno portato alla luce una struttura esagonale, residuo dell’impianto originario del convento. Sulla base dei materiali rinvenuti e delle notizie d’archivio sulle vicissitudini del monastero, si ipotizza che la struttura fosse impiegata come ghiacciaia-dispensa in epoca tardo-medievale (XIII e XIV secolo) e sia stata poi adibita a immondezzaio in età rinascimentale (XV e XVI secolo).

sono rappresentati da materiali in ferro, quali lame di cesoie, coltelli, chiavi, un accendiesca (da segnalare per la sua rarità), frammenti di catenelle, e da materiali in bronzo, come chiavi, cucchiai, puntali di cintura, ami da pesca, spilli e una copiglia (elemento meccanico usato per evitare lo sfilamento di un organo

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dal suo perno, n.d.r.). I reperti in osso rappresentano sia scarti d’uso (un pettine a doppia dentatura e pendaglio traforato a forma di crocetta), sia scarti di lavorazione (un dado da gioco incompleto e varie guance di immanicatura incompiute).

Monache al lavoro

Maioliche di pregio Il percorso espositivo inizia con trentaquattro maioliche provenienti da importanti atelier, sia italiani che spagnoli, operanti a Faenza, Deruta, Pesaro, Venezia, Padova e Manises (Spagna), nel corso della splendida stagione produttiva di ceramiche artistiche rinascimentali. Si prosegue, quindi, con gli oggetti legati al vivere quotidiano delle Clarisse. I reperti vitrei si collocano tra la fine del XV e i primi decenni del XVI secolo e si differenziano per tipologia di decorazione pittorica: a smalto e oro, con sola doratura e privi di decorazione. I reperti metallici

Materiali rinvenuti nello scavo dei resti del convento di S. Chiara, a Padova. In alto pettine in osso a doppia dentatura differenziata, sottile e grossa. XVI sec. In basso grande piatto decorato, con la raffigurazione di un centauro cavalcato da un putto alato. Prima metà del XVI sec.

Dove e quando

«Le memorie ritrovate» Noventa di Piave, CEMA (Centro Espositivo Multimediale dell’Archeologia), all’interno di Veneto Designer Outlet fino al 30 giugno Orario lunedí-sabato, 10,00-20,00 Info tel. 0421 307738; www.noventartestoria.it

Un altro gruppo di manufatti è costituito da frammenti di terrecotte figurate, tra cui bambole per le bambine avviate alla clausura e statuine da presepio. Anche gli oggetti d’uso ricavati dal legno sono legati alle attività manuali, previste dalla Regola francescana e svolte dalle monache e dalle figliole secolari in educazione, che trovavano ospitalità nel monastero, per apprendere i lavori femminili quali il cucito, con particolare riguardo al ricamo, il fare i pizzi e la tessitura: coperchi di scatole rotonde, rocchetti, vari fusi e una spatola. In chiusura, sono esposte preziose ceramiche graffite decorate con ornati a incisione, che veicolavano immagini pregne di simbolismi. (red.) febbraio

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Cividale al tempo di Ratchis

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febbraio

Cividale del Friuli, Tempietto Longobardo. L’arcone con un tralcio vitineo in stucco, posto a coronare l’ingresso. I pavimenti marmorei, a motivi geometrici, completano il ricco apparato ornamentale di questo gioiello dell’arte tardo-longobarda. L’architettura e le decorazioni del Tempietto cividalese riconducono ai piú alti esempi della cultura artistica del mondo mediterraneo e fanno trasparire un esplicito richiamo alle esperienze della tradizione paleocristiana e bizantina. Sono il frutto di artisti dotati di un linguaggio raffinato che hanno dato espressione alle ambizioni delle piú alte sfere del regno, volte a creare un nuova arte aulica. Del complesso episcopale, il cui rinnnovamento e ampliamento vengono attribuiti al patriarca Callisto, facevano parte la basilica di S. Maria Assunta, il battistero di S. Giovanni Battista e il Palazzo patriarcale. Il fonte battesimale venne ornato con un tegurio marmoreo dallo stesso Callisto e, all’interno del battistero, nell’abside, trovò probabilmente posto anche l’altare fatto realizzare dal re cividalese Ratchis (entrambi oggi conservati al Museo Cristiano). Nel Museo Archeologico Nazionale si trovano i resti del Palazzo patriarcale di età longobarda, come testimonia un pavimento musivo a fondo bianco con un disegno geometrico a tessere nere. La sezione museale di maggior interesse riguarda i corredi funebri longobardi, provenienti dagli scavi archeologici effettuati a Cividale e nel suo territorio, tesori che consentono di seguire l’evoluzione del costume, dell’artigianato e della vita quotidiana dei Longobardi a Cividale e in Friuli.

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informazione pubblicitaria

al 2011 il sito seriale I Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d.C.) è iscritto nella World Heritage List UNESCO: con esso le piú significative testimonianze della Cividale longobarda, il Tempietto Longobardo e i resti del complesso episcopale. Il Tempietto fu realizzato nell’VIII secolo come cappella palatina della corte reale cividalese e divenne poi oratorio delle monache. La sua architettura è di grande raffinatezza: l’aula rettangolare è coperta da volte a botte ed è ritmata da nicchie e arconi; a oriente si apre su un presbiterio piú basso, tripartito da volte che poggiano su architravi marmoree romane, rette da colonne e pilastri. Una recinzione marmorea, recuperata da un piú antico elemento di età bizantina, divide l’aula dal presbiterio. Sulle pareti dell’oratorio sono conservati i resti di apparati decorativi di eccezionale valore. Unici in Occidente sono gli stucchi che ornavano le parti alte dell’aula e gli archi delle nicchie, dei quali si conserva, sulla controfacciata, una teoria di Sante e Martiri a grandezza naturale e un arcone con un tralcio vitineo posto a coronare l’ingresso. Di grande qualità ed eleganza sono anche gli affreschi di Santi e di Cristo tra gli Arcangeli dipinti sulle pareti e nelle lunette dell’aula. Lastre di marmo ricoprivano originariamente la parte inferiore dei muri sopra le quali correva, nella parte orientale dell’edificio, entro fasce di stucchi, una lunga iscrizione dedicatoria dipinta, in versi, che testimonia l’alta qualità della committenza. Il presbiterio era impreziosito anche da raffinati mosaici, con tessere auree, nella parte superiore del muro di fondo e forse su tutte le volte.


Ante prima

Il ballo degli eserciti appuntamenti • Un’antica vittoria sull’invasore

saraceno viene rievocata in Valle Varaita con la festa della Baío, che ha il suo culmine in una grande danza

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gni cinque anni il piccolo Comune di Sampeyre, in Valle Varaita, nei giorni di carnevale celebra l’antica tradizione della Baío, festa le cui origini risalgono attorno al 980, quando la popolazione locale sconfisse e scacciò l’esercito dei Saraceni, che era penetrato nella valle per saccheggiarla. Sampeyre (in provincia di Cuneo) appartiene all’area di cultura occitana: vi si parla ancora correntemente la cosiddetta lingua d’oc, detta anche provenzale. E la parola Baío è appunto un vocabolo occitano, che significa abbadia, ma che non intende un monastero, bensí indica un tipo di associazioni popolari a carattere militaresco sorte nel Medioevo.

raggiungono la piazza centrale, dove si formano quattro gruppi di ballo con i rispettivi suonatori. Intralciano il cammino alcuni tronchi, a simboleggiare gli ostacoli lasciati dai Saraceni durante la loro fuga nel X secolo, abbattuti con l’ascia dai sapeurs, gli zappatori. Il giovedí grasso, quest’anno il 16 febbraio, tutte le Baío, salvo quella del Villar

In alto e in basso partecipanti al corteo della Baío, i cui figuranti impersonano i protagonisti principali degli eventi accaduti in Valle Varaita intorno all’anno Mille.

Per soli uomini La Baío è composta da quattro cortei, detti anche «eserciti», provenienti dal capoluogo Sampeyre e dalle sue frazioni di Rore, Calchesio e Villar. Per tradizione al corteo partecipano soltanto gli uomini di ogni borgata, in costume tradizionale, che interpretano anche i ruoli femminili. Il momento piú intenso della festa è il ballo, quando i festanti si esibiscono in danze folcloristiche di origine francese apparse nel XVI secolo quali la courento, il mulinet, la gigo e la countradanso. La festa inizia la seconda domenica precedente al giovedí grasso, quest’anno il 5 febbraio, quando i quattro cortei sfilano nella propria borgata, tranne la Baío di Calchesio che si reca a Sampeyre. La domenica seguente, il 12 febbraio, le varie Baío partono alla volta di Sampeyre per l’incontro solenne: gli Abà, cioè i generali degli eserciti, si scambiano un saluto con le spade e

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sfilano nuovamente a Sampeyre, dove la festa si chiude con il processo al tesoriere. Quest’ultimo cerca di fuggire con la cassa grazie all’aiuto di un segretario, ma viene acciuffato, processato e condannato. La lettura di un testamento burlesco, una sorta d’esame di coscienza collettivo, sfocia nella richiesta di grazia da parte delle Baío.

Bambine e signorine In testa ai cortei sfilano le sarazine, bambine che, all’epoca della rivolta, segnalavano gli appostamenti nemici agitando fazzoletti bianchi. Seguono le signorine, vestite di bianco, a segnare la fine dell’oppressione saracena; i grec, giovani che interpretano i prigionieri greci, liberati dai valligiani; gli escarliníe,

che rappresentano la fanteria dei valligiani, armati di mazze ornate con edera, nastri colorati e campanellini; i segnouri, i benestanti; gli espous, coppie di giovani sposi; il viéi e la viéio, il vecchio e la vecchia, che portano una culla con un bambino (una bambola) e un fiascone di vino. Chiudono il corteo gli alum, lo stato maggiore della Baío: il tenent, il portobandiero, il segretari, il tezouríe e i già citati Abà. Altre figure caratteristiche sono i granatíe, i cavalíe, i tambourin e gli arlequin: questi ultimi formano il servizio d’ordine della Baío e hanno il compito di tenere indietro la gente, spaventandola scherzosamente per impedire che intralci il corteo. I sounadour, infine, cadenzano la marcia e le danze. Tiziano Zaccaria febbraio

MEDIOEVO


EDIOEVO Moggi

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usiche per una leggenda. La leggenda è quella di Carlo Magno, raccontata da uno dei nostri piú grandi cuntastorie, Mimmo Cuticchio, e le musiche sono quelle de La Reverdie, l’ensemble che rivisita con stili sempre nuovi il repertorio del Medioevo europeo. La Reverdie ha scelto di collaborare con il maestro siciliano per curare le musiche di Carlo Magno reale e immaginario, il cui concerto, Musiche per una leggenda, va in scena il 20 febbraio al Teatro Vittoria di Torino. Il gruppo si rifà all’immenso patrimonio dei canti gregoriani che, dal punto di vista sonoro, costituiscono la sintesi dell’impresa politica di Carlo: unificare le terre dell’antico impero facendo di tante etnie una sola cultura radicata in un’unica fede. Lo spettacolo ha forma di concerto con voce recitante, dove il ritmo spezzato del cunto evoca le avventure cavalleresche di Carlo Magno, Orlando e dei Paladini di Francia. Cuticchio porta da decenni in tutta Italia il

patrimonio dei giullari che si esibivano lungo le strade d’Europa. «Oprante, puparo e cuntista», l’artista è l’erede piú importante della tradizione dei cuntisti siciliani e dell’arte del puparo nel teatro dei pupi, e oggi è iscritto nel Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità dell’UNESCO. Ma sono molte le innovazioni e le contaminazioni da lui operate, sempre nel solco della tradizione creando un mix di elementi provenienti dalla pratica dei pupi, da quella del cunto e dalle esperienze del teatro d’avanguardia. Mimmo Cuticchio è universalmente riconosciuto come il principale artefice della «rifondazione» dell’Opera dei Pupi, e di una via «rinnovata» al cunto, vista anche la sua frequentazione con le varie espressioni di arte contemporanea. A differenza del cantastorie, che narra la «cronaca» e accompagna i suoi versi con una chitarra e un cartellone raffigurante la storia, il cuntista racconta in prosa ed è accompagnato solamente da una spada di legno o di ferro. Con il nuovo spettacolo gli fanno da perfetto contrappunto le musiche de La Reverdie che commentano le vicende narrate nel cunto costruendo una ricca e articolata trama narrativa di parole e suoni, grazie all’impiego di rari strumenti d’epoca e di un profondo lavoro sulle fonti musicali del tempo. Laura Landolfi


Ante prima

È festa per tutti: belli e brutti

appuntamenti •

Il Carnevale ladino è una delle feste carnascialesche piú importanti dell’area alpina, con origini che si perdono in arcaiche tradizioni agricolo-pastorali

I

n Val di Fassa (Trento) si rinnova il Carnevale ladino: nel cuore delle Dolomiti, da Penía di Canazei a Moena, da Campitello a Soraga, rivivono cosí – il 4, 16, 19 e 21 febbraio – arcaiche consuetudini carnascialesche, ciascuna contraddistinta da una marcata caratterizzazione locale, ottenuta utilizzando come base un corpus di elementi comportamentali e figurativi molto generale e probabilmente assai lontano nel tempo, sovente di diffusione paneuropea, ma rielaborato con originalità dalle singole comunità della valle.

I protagonisti del corteo si dividono in due gruppi: le mescres a bel, le «maschere belle», petulanti, puntigliose e schizzinose, e le mescres a burt, le «maschere brutte», che, grottesche, irriverenti e incompetenti, finiscono per creare attorno a sé un vero pandemonio.

Nel segno dell’esagerazione I belli e i brutti sono sempre maschio e femmina, om e femina, una coppia sposata, molto bella o, al contrario molto brutta, secondo i canoni carnascialeschi dell’esagerazione estremizzata. Infatti i primi si comportano in maniera follemente

precisa, i secondi in maniera follemente sgangherata. Alla sfilata delle maschere-guida partecipano anche i laché e i bufòn, dal ruolo scherzoso e malizioso, che indossano variopinti copricapi, e i marascons. Quest’ultimi sono personaggi autoreferenziali e ambivalenti, né decisamente maschili, né decisamente femminili. Avanzano con salti e passi cadenzati, in un gioco di parole e figure tramandato di generazione in generazione. Il loro abbigliamento nasce dall’assemblaggio di costumi festivi maschili e femminili, con l’aggiunta di svariati elementi apotropaici,

Luce e acqua A

Manresa, capoluogo della comarca del Bages, nel cuore della Catalogna, si tramanda la leggenda della Luce Misteriosa. All’inizio del XIV secolo nel Bages ci fu una grande siccità: molti raccolti andarono persi e migliaia di persone finirono alla fame. Il consiglio comunale individuò la migliore soluzione al problema nella realizzazione di un canale d’irrigazione: occorreva condurre dalla vicina città di Balsareny l’acqua del fiume Llobregat. Nel 1339 re Pietro IV d’Aragona autorizzò la costruzione del corso d’acqua artificiale e, per favorirlo, decretò la temporanea esenzione fiscale per i cittadini di Manresa. Ma il canale doveva attraversare le terre del ricco e potente vescovo di Vic, Galzeran Sacosta, signore della giurisdizione di Sallent, al quale l’idea non piacque affatto, tanto che, quando i lavori giunsero sul suo territorio, ordinò di fermarli. Manresa fu perfino scomunicata e, per cinque anni, nelle chiese cittadine non si poté celebrare la Messa.

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febbraio

MEDIOEVO


riferiti al mondo agricolo-pastorale e dotati di valenze simboliche: fiori, nastri, piume caudali del gallo forcello (in ladino mesacoudes), specchi, scettri e campanacci.

Maschere senza sesso I marascons procedono portando in mano le facerès, maschere lignee intagliate dagli scultori locali. Asessuate, «anonime», queste maschere non coprono il viso, ma lo rispecchiano, mostrando la corrispondenza tra il volto reale del giovane androgino, che sta passando all’età adulta, e la maschera lignea che tiene nelle mani. Espressione culturale del carnevale dolomitico fassano sono anche le mascherèdes, pezzi teatrali brevi e farseschi, interpretati in ladino da attori improvvisati. Carri allegorici, balli in maschera, sagre e gare sulla neve con sci e slitte, le lese da corni, arricchiscono l’ampio ventaglio di iniziative proposte dai Comuni della vallata trentina. Chiara Parente

Qui sotto e nella pagina accanto immagini del Carnevale ladino, che ogni anno anima la Val di Fassa, nelle Dolomiti.

I lavori restarono bloccati fino al 21 febbraio 1345, quando, secondo la leggenda, una luce misteriosa entrò nella chiesa dei Carmelitani di Manresa e le campane iniziarono a suonare da sole, evento miracoloso che fu interpretato come un segnale propiziatorio. Infatti, sul finire dello stesso anno, il vescovo Miguel de Ricom, successore di Galzeran Sacosta, che nel frattempo era deceduto, autorizzò a proseguire nella realizzazione del canale e cancellò la scomunica. I lavori del corso d’acqua artificiale, chiamato Acequia, terminarono solo attorno al 1383, dopo altre interruzioni causate da varie catastrofi naturali che colpirono la zona. Oggi, ogni anno, il 21 febbraio Manresa celebra la Festa della Luce con eventi culturali e la possibilità di seguire a piedi, a cavallo o in bici il percorso dello storico canale lungo 26,7 km, partendo da Balsareny. Nel corso dei secoli l’Acequia ha avuto bisogno di poca manutenzione e tutt’oggi conserva la maggior parte della sua costruzione originale. Inoltre, nel week end del 25 e 26 febbraio, sempre a Manresa, è in programma la Fiera dell’Aixada, un mercato medievale che, fra artigiani, musicisti, giganti, giocolieri e streghe riporta il centro catalano al XIV secolo, per commemorare il miracolo della Luce Misteriosa. La Fiera dell’Aixada, concessa nel 1683 da re Carlo II, è animata anche da spettacoli, danze, giochi e rievocazioni di antichi mestieri. T. Z.

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agenda del del mese mese

Mostre Roma Roma al tempo di Caravaggio. 1600-1630 U Palazzo Venezia fino al 5 febbraio

L’esposizione ricostruisce un momento cruciale della pittura italiana, che nasce negli ultimi anni del XVI secolo in una Roma ancora in crisi per il traumatico scisma luterano e si sviluppa attraverso il regno di quattro importanti pontefici: Clemente VIII Aldobrandini, Paolo V Borghese, Gregorio XIV Boncompagni, Urbano

VIII Barberini. Dagli avvenimenti succedutisi in questo trentennio irripetibile, dal 1600 al 1630, dipese gran parte dello sviluppo artistico europeo che si protrasse sino alla fine del Seicento. I primi anni del XVII secolo sono segnati dal confronto tra due giganti della pittura italiana: il bolognese Annibale Carracci, capo indiscusso della corrente classicista, e il lombardo Caravaggio, creatore di una rivoluzionaria forma di rappresentazione della realtà. Il rapporto tra i due artisti è reso evidente all’inizio del percorso

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a cura di Stefano Mammini

dall’accostamento fra le rispettive versioni della Madonna di Loreto realizzate negli stessi anni. Le sezioni sucessive presentano sia opere di destinazione pubblica (pale d’altare o dipinti legati ai luoghi di culto), sia dipinti di destinazione privata realizzati su commissione dei maggiori mecenati dell’epoca. Negli anni successivi le stimolanti basi gettate dai due maestri furono raccolte e sviluppate sia dai pittori classicisti bolognesi – rappresentati da artisti quali Domenichino, Lanfranco, Guido Reni, Albani – che avevano seguito Annibale nella città papale, sia da quanti fecero proprio il drammatico naturalismo di Caravaggio, come testimoniano i dipinti di Orazio e Artemisia Gentileschi, Carlo Saraceni, Orazio Borgianni e Bartolomeo Manfredi. Per l’occasione, è eccezionalmente in mostra, per la prima volta in Italia, il Sant’Agostino, recentemente attribuito a Caravaggio e oggetto di un vivace dibattito.

info e prenotazioni tel. 06 32810; www. romaaltempodicaravaggio.it

londra Leonardo da Vinci: pittore alla corte di Milano U The National Gallery, Sainsbury Wing fino al 5 febbraio

L’esposizione londinese, si concentra sul

del maestro già appartenenti alle proprie raccolte e due nuove importanti acquisizioni. La prima è un dipinto, La Sacra Famiglia con Giovanni Battista bambino, che è una delle poche tele certamente attribuibili alla mano dell’artista, mentre la seconda è uno dei suoi disegni, recentemente riscoperto, raffigurante Giove e Giunone su un talamo nuziale. info www.metmuseum.org Ecouen

periodo in cui, tra gli anni Ottanta e Novanta del Quattrocento, Leonardo lavorò per il duca Ludovico il Moro. Una fase che coincide con la sua piena realizzazione, come artista e come figura pubblica. Sono stati riuniti oltre sessanta dipinti e disegni del maestro, ai quali si aggiungono opere realizzate da alcuni dei suoi piú stretti collaboratori. E, grazie agli importanti prestiti concessi da istituzioni pubbliche e private, è stato possibile riunire quasi tutti i dipinti ancora esistenti prodotti da Leonardo durante il suo periodo milanese. Tra i quali ricordiamo: la Dama con l’ermellino (dalla Fondazione Czartoryski, Cracovia), La Belle Ferronnière (dal Museo del Louvre, Parigi) e la Vergine delle rocce, recentemente

restaurata e di proprietà della stessa National Gallery. info www. nationalgallery.org.uk new york Perin del Vaga nelle collezioni newyorchesi U The Metropolitan Museum of Art fino al 5 febbraio

Alla vicenda artistica e umana di Perin Del Vaga (al secolo Pietro Bonaccorsi), uno dei maggiori artisti italiani del Cinquecento, rende omaggio il Metropolitan Museum, con una esposizione che riunisce i disegni

Maiolica. La ceramica italiana al tempo degli Umanisti U Musée national de la Renaissance fino al 6 febbraio

Nutrita dalla riscoperta dei testi dell’Antichità portata avanti con notevole impegno dagli Umanisti, l’arte rinascimentale fiorisce in Italia nell’ambito delle discipline

creative investendo in particolare il settore della ceramica. La faenza, che in Italia è conosciuta anche con il nome di «maiolica», si presta soprattutto alla decorazione ornamentale o istoriata che trae ispirazione dal repertorio dell’Antichità aggiungendovi la luminosità del lustro e la brillantezza dei colori. febbraio

MEDIOEVO


Per la mostra sono state riunite ceramiche provenienti da musei francesi, britannici e italiani, suddividendole in sezioni che documentano l’influsso esercitato sulla maiolica e sulla sua decorazione dalle pratiche artistiche, storiche e letterarie tipiche dell’ambiente umanista italiano tra il 1480 e il 1530. Il tema della mostra è inoltre ribadito da alcune edizioni contemporanee illustrate (Virgilio, Tito Livio, Ovidio…), i cui testi e le cui immagini hanno fortemente ispirato la maiolica del primo terzo del XVI secolo. info www.museerenaissance.fr Milano Gian Giacomo Poldi Pezzoli. L’uomo e il collezionista del Risorgimento U Museo Poldi Pezzoli fino al 13 febbraio

L’esposizione racconta le vicende dell’Indipendenza e dell’Unità d’Italia

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febbraio

attraverso gli occhi, le esperienze e la collezione di opere d’arte di un protagonista milanese d’eccezione. Le opere esposte fanno luce sulla cultura artistica italiana nel «decennio di preparazione» all’Unità quando letteratura, teatro e arte concorrono a promuovere un’opposizione silenziosa agli stranieri, eleggendo il Medioevo e l’Italia comunale trecentesca a metafora di un’Italia libera. info tel. 02 794889 o 02 796334; www.museopoldipezzoli.it Roma Leonardo e Michelangelo. Capolavori e fogli romani U Musei Capitolini fino al 19 febbraio

Ottanta disegni provenienti dalla Biblioteca Ambrosiana di Milano e da Casa Buonarroti a Firenze raccontano la versatilità e la poliedricità grafica dei due sommi artisti, non solo nel campo della pittura, scultura e architettura in cui eccelse Michelangelo, ma anche in quello delle invenzioni meccaniche, dell’idraulica, della geometria e del volo che fu peculiare di Leonardo. La presenza di un consistente nucleo di disegni eseguiti durante i soggiorni romani o comunque legati alla città, oltre al prezioso manoscritto con le Antichità di Roma

proveniente anch’esso dall’Ambrosiana e ricco di ricordi dell’attività di Leonardo a Roma, si pone come un importante momento di verifica del ruolo esercitato sui due artisti dal loro confrontarsi con le antichità, le occasioni romane e con le esigenze di una nuova classe di committenti, tra i quali spiccano Alessandro Borgia e Giuliano de’ Medici per Leonardo, e i pontefici Leone X, Sisto IV e Paolo III per Michelangelo. info tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-21,00); www.museicapitolini.org roma a Oriente. Città, uomini e dei sulle Vie della Seta U Museo Nazionale Romano delle Terme di Diocleziano fino al 26 febbraio

Sulla traccia della Carta dell’impero mongolo, una mappa degli inizi del XVI secolo – esposta in prima mondiale assoluta –, la mostra intende rappresentare la ricchezza dei luoghi, delle genti e delle credenze religiose lungo le Vie della Seta. «a Oriente» è un viaggio visivo, sonoro ed emotivo, grazie alle installazioni interattive del progetto artistico

di Studio Azzurro, che si è tradotto in un percorso multimediale che dialoga e si avvale di una selezionata raccolta di importanti manufatti di varia tipologia, un centinaio di opere, che raccontano le civiltà del buddismo, del cristianesimo e dell’Islam lungo le Vie della Seta, tra il II secolo a.C. e il XIV secolo. Da segnalare, inoltre, il prestito eccezionale, dopo un lungo e accurato

restauro, della Bibbia tascabile nota come Bibbia di Marco Polo, perché databile al XIII secolo, cioè all’epoca del grande viaggio dell’esploratore veneziano, che viene esposta per la prima volta in questa occasione. info tel. 06 06 08 oppure tel. 06.39967700 (anche per visite guidate); www.viedellasetaroma.it, www.pierreci.it

dell’Ermitage di San Pietroburgo propone due opere raramente – o mai – prima viste in Italia: il Ritratto di coniugi e la Madonna delle Grazie, messi a confronto con altri dipinti lotteschi provenienti da musei europei e dalla collezione delle Gallerie dell’Accademia. Eseguito verso la fine del soggiorno bergamasco del pittore, il Ritratto di coniugi rappresenta una coppia di patrizi locali della cerchia dei committenti dell’artista; intorno a questo capolavoro sono raccolte due opere della prima attività lottesca, la Giuditta Aldobrandini e la predella della pala Martinengo Colleoni, già nella chiesa di S. Bartolomeo a Bergamo. La piccola Madonna delle Grazie è invece un’opera piú tarda, il cui stile – un parlare piú sommesso e domestico che segna l’ultima fase artistica del Lotto – è posto accanto a quello potentemente arcaistico della straordinaria Pietà della Pinacoteca di Brera.

Venezia Omaggio a Lorenzo Lotto. I dipinti dell’Ermitage alle Gallerie dell’Accademia U Gallerie dell’Accademia fino al 26 febbraio

Venezia rende omaggio a uno dei suoi figli piú celebri, Lorenzo Lotto, con una mostra che, grazie al prestito

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agenda del del mese mese Tra i ritratti, è presente il celebre Ritratto di giovane (probabilmente identificabile con Alvise Rovero), accompagnato dal ritratto eseguito negli stessi anni del Domenicano dei SS. Giovanni e Paolo, dei Musei Civici di Treviso, e da quello proveniente dal Castello Sforzesco di Milano, simile dal punto di vista compositivo ed emotivo. Altro punto forte dell’esposizione è il Ritratto di gentiluomo (in cui si ritiene di poter riconoscere Fioravante degli Azzoni Avogadro), restaurato con esiti insperati e mai presentato al pubblico dopo la mostra veneziana del 1953. info tel. 041 5200345; www.gallerieaccademia.org Parigi Gaston Fébus (1331-1391). Prince Soleil U Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge fino al 5 marzo

L’esposizione parigina accende i riflettori su Gastone III di Foix-Béarn, singolare protagonista dell’Età di Mezzo: una personalità complessa

e ambivalente, che seppe trarre profitto dalla sua posizione intermedia fra i regni che si battevano nella Guerra dei Cent’anni. Artefice della propria immagine, il nobiluomo si fa chiamare «Febus», cioè Apollo o Sole. I suoi successi, anche in campo militare, fanno il resto. In breve, diventa l’uomo piú ricco del regno, colui che concede prestiti ai principi e che mantiene una corte fastosa e raffinata. Ma, piú di ogni altra cosa, di lui si ricorda l’opera di una vita: il Livre de la chasse, un trattato ricco di informazioni e sistematico, testimone di un amore per gli animali e la natura, la cui edizione piú preziosa è ora esposta nella mostra al Museo di Cluny. La mostra ricostruisce lo scenario in cui Febus si muove: trattati, lettere, monete e sigilli, nonché la Promessa di pace redatta da Gaston Febus e indirizzata al conte d’Armagnac, che reca la firma del principe, con quell’epiteto, Febus, scritto secondo la grafia

occitana, cioè con la F, e la sua titolatura: «Gastone conte di Foix per grazia di Dio, signore di Béarn». info www. museemoyenage.fr New York Il ritratto rinascimentale da Donatello a Bellini U The Metropolitan Museum of Art fino al 18 marzo

È stato detto che il Rinascimento è l’epoca che segna la riscoperta dell’individuo, un fenomeno che, in Italia, è sottolineato dalla prima fioritura dell’arte del ritratto. Questo genere di rappresentazione acquisisce una nuova importanza, sia che debba trasmettere le memorie di famiglia alle generazioni future, sia che celebri principi o condottieri, esalti la bellezza femminile o divenga strumento con cui rinsaldare un’amicizia. Tutti questi aspetti vengono documentati dall’esposizione al Metropolitan Museum, che riunisce 160 opere – tra cui dipinti di Donatello, Sandro Botticelli, Ghirlandaio, Andrea Mantegna –, manoscritti miniati, sculture e medaglie, che testimoniano la nuova moda del ritratto nell’Italia del XV secolo. info www.metmuseum.org Firenze In Christo/Bo Xructe U Battistero di Firenze fino al 19 marzo

Il Battistero di Firenze è sede dell’ostensione di preziose icone

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della storia russa, normalmente custodite nella galleria Tretyakov di Mosca, mai tornate in una chiesa dopo la loro musealizzazione. Tre saranno le opere visibili: l’Odighitria di Pskov (1290-1310), l’Ascensione della Cattedrale di Vladimir attribuita a Rublev (1408), la Crocifissione del Signore della chiesa della Trinità del Monastero di Pavel di Obnora (1500 circa). In contemporanea la Galleria Tretyakov riceve, esponendole per la prima volta in Russia, due grandi opere di Giotto da Bondone e della sua bottega, provenienti dall’Opera del Duomo di Firenze: la Maestà di San Giorgio alla Costa e il polittico di S. Reparata. info tel. 346 0927230; eventi@fscire.it New York Il gioco dei re. Gli scacchi medievali in avorio dall’Isola di Lewis U The Metropolitan Museum of Art fino al 22 aprile

Trenta pezzi appartenenti agli Scacchi Lewis, un set ritrovato nel 1831 sull’omonima isola delle Ebridi (Scozia),

lasciano per la prima volta il British Museum e sono a New York. Si tratta di un insieme eccezionale, composto da pezzi ricavati da zanne di tricheco e fanoni di balena, la cui realizzazione viene attribuita a una bottega norvegese. Ogni pezzo del set è una vera e propria scultura in miniatura, con caratteri specifici e ben definiti: i re siedono con la

spada poggiata sulle gambe, ma alcuni hanno lunghi capelli e barbe, mentre altri sono glabri. Ciascun cavaliere indossa un copricapo di tipo diverso, cosí come differenti sono gli scudi imbracciati e i cavalli montati. E, fra le torri, raffigurate come soldati a piedi, alcuni studiosi hanno perfino identificato il possibile ritratto dei berserkir, i leggendari guerrieri di Odino della mitologia nordica. Treviso Manciú. L’ultimo imperatore U Casa dei Carraresi fino al 13 maggio

febbraio

MEDIOEVO


Manciú, l’ultima dinastia che ha governato sul Celeste Impero dal 1644 al 1911, è la protagonista della quarta e ultima mostra del progetto La Via della Seta e la Civiltà Cinese: le armi e le uniformi degli imperatori Kangxi e Qianlong, le preziose suppellettili delle regge dei Manciú, le collezioni dell’imperatrice Cixi sono esposte insieme ai reperti che testimoniano il crollo dell’impero e l’avvento della repubblica. Per la prima volta al mondo gli oggetti personali dell’ultimo imperatore della Cina, Pu Yi, protagonista del film di Bernardo Bertolucci, escono dal palazzo di Changchun, già capitale dell’impero fantoccio del Manchukuò, per essere esposti a Casa dei Carraresi. Una parte della mostra è dedicata all’epopea umana dell’Ultimo Imperatore con documenti storici, fotografie. info tel. 0422 424390; www.laviadellaseta.info

MEDIOEVO

febbraio

Venafro Splendori del Medioevo. L’abbazia di San Vincenzo al Volturno al tempo di Carlo Magno U Museo Archeologico, ex Convento di Santa Chiara fino al 4 novembre

Protagonisti della mostra allestita nel Museo Archeologico di Venafro sono l’arte, la

al confine delle terre italiane conquistate da Carlo Magno e fu perciò incluso dal sovrano franco nel novero delle abbazie direttamente poste sotto la sua protezione. L’abate Giosuè (792817) che, secondo il Chronicon Vulturnense (XII secolo d.C.), era imparentato con la

L’epilogo: dopo il saccheggio dell’abbazia da parte di predoni arabi nell’881, la comunità dei monaci fu costretta a trasferirsi, ma alla fine del X secolo il monastero ebbe una fase di rinascita, con la ricostruzione della basilica maggiore e il recupero di altri edifici del grande chiostro carolingio. Alla fine dell’XI secolo però, di fronte alla comparsa dei Normanni, la comunità decise di trasferirsi a poche centinaia di metri di

distanza, sulla riva opposta del Volturno, per edificare un monastero interamente nuovo e fortificato. Si conclude con La presenza araba a Venafro e in Molise tra IX e X secolo. Testimonianza significativa del periodo sono gli scacchi rinvenuti nel 1932 in una sepoltura di Venafro. Sono esposti per la prima volta in Molise, prestati per l’occasione dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli. info tel. 0865 900742

Appuntamenti vita e gli elevati valori spirituali che attraverso il cenobio benedettino di San Vincenzo al Volturno si sono diffusi nel Medioevo in vasti territori dell’Italia centro-meridionale. In sei sezioni viene ripercorso il cammino storico dell’abbazia attraverso i materiali archeologici e le fonti storiche, iniziando dalle fasi piú antiche (La fondazione del monastero e il luogo sacro), che ha tra i reperti piú importanti l’altare affrescato del tardo VIII secolo proveniente dalla Chiesa Sud. Si prosegue con La rinascita carolingia, che presenta l’abbazia al massimo del suo splendore: già celebre in età longobarda, il monastero di San Vincenzo, alla fine dell’VIII secolo, si trovò

famiglia regnante carolingia, trasformò San Vincenzo in uno dei piú grandi monasteri d’Europa. Le ingenti risorse economiche a disposizione accrebbero lo splendore dell’abbazia, che giunse ad annoverare, a metà del IX secolo, ben nove chiese, tra cui la Basilica maior, una colossale costruzione di oltre 60 m di lunghezza e quasi 30 di larghezza, con trenta colonne di granito egizio, in grado di gareggiare con le piú splendide chiese abbaziali dell’Europa carolingia. Di questa fase verranno esposte le vetrate multicolori, le suppellettili in vetro di cui si illustreranno le tecniche di produzione. Degli splendidi affreschi originali sarà esposta la sequenza dei profeti, dei santi, degli abati.

Bologna Arte e Scienza in Piazza dal 2 al 12 febbraio

Torna Arte e Scienza in Piazza™, manifestazione di diffusione della cultura scientifica organizzata dalla Fondazione Marino Golinelli in collaborazione con il Comune di Bologna. Oltre 100 eventi tra mostre, spettacoli, incontri con personalità del panorama scientifico e culturale, proiezioni di film, concerti, giochi in piazza e laboratori creativi tra arte e scienza. Il centro storico di Bologna,

da Palazzo Re Enzo alla Biblioteca Sala Borsa, da Palazzo D’Accursio a Piazza Nettuno, si trasforma per 11 giorni in un grande Art+Science Center che coinvolgerà il pubblico di ogni età. Nell’ambito del ciclo di incontri di approfondimento coordinati da Alessandro Cecchi Paone sul rapporto tra arte e scienza, da segnalare l’appuntamento con lo storico Alessandro Barbero, che proporrà un contributo dal titolo Le Età della Storia. info www. lascienzainpiazza.it

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battaglie la fine degli abbasidi

10 febbraio 1258 di Francesco Troisi

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Fu un evento di grande peso simbolico e una delle piú rovinose sconfitte dell’Islam: quando la possente macchina da guerra mongola, guidata dal nipote di Gengis Khan, conquista la città delle Mille e una notte, non solo segna la fine del glorioso califfato abbaside, ma priva l’intero mondo musulmano di una sua suprema guida religiosa e culturale

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febbraio

MEDIOEVO


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Baghdad

e strade di Baghdad erano inondate di sangue e i miasmi dei cadaveri rendevano l’aria irrespirabile. Storici e romanzieri non risparmiarono dettagli macabri per descrivere l’agonia della città assediata e distrutta dai Mongoli nel febbraio del 1258. Anche l’allora capitale del califfato abbaside era stata investita dall’urto delle invincibili truppe asiatiche che, solo qualche anno prima, trovandosi nelle vicinanze, avevano preferito non insidiare le sue mura. Sia Gengis Khan che i suoi successori, infatti, si erano accontentati di sottomettere altri territori come la Georgia, il regno armeno di Cilicia e parte della Persia, compiendo solo qualche incursione all’interno dei confini dell’odierno Iraq.

Un’alleanza insidiosa

Nel 1251, con l’avvento del nuovo gran khan Munke, invece, il progetto di conquista di Baghdad aveva preso forma. Quel potente califfato sul fiume Tigri faceva gola all’impero dei khan per motivi strategici, oltreché per brama di dominio. La linea d’azione del nuovo capo mongolo era ispirata da un semplice, quanto brutale principio, come ha sottolineato lo storico Steven Runciman: «I suoi amici erano già suoi vassalli, i suoi nemici dovevano essere eliminati o ridotti al vassallaggio». In un primo momento, in verità, la spedizione nelle terre musulmane era stata concepita anche per attuare un progetto politico-religioso. Munke, nonostante il suo neutrale «ecumenismo», mostrava una particolare simpatia per il cristianesimo che considerava in un certo senso un patrimonio di famiglia al Nella pagina accanto Baghdad assediata dai Mongoli, doppia pagina miniata di una edizione del Jami al-Tawarikh (Compendio delle storie), accuratissima benché immensa trattazione di storia universale dello storico e uomo di scienza persiano Rashid ad-Din Fadl Allah (12471318). 1430 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

MEDIOEVO

febbraio

quale rendere omaggio: la madre Sorghaghtani Beki, infatti, era stata una fervente nestoriana e anche la moglie prediletta del condottiero, l’imperatrice Kutuktai, professava la stessa fede. In virtú di questa tradizione familiare, Munke aveva elaborato un’ipotesi di patto con le principali forze occidentali cristiane in previsione di un impegno comune contro l’Islam. Ne aveva discusso con l’ambasciatore del re di Francia, Guglielmo di Rubruck, senza però riuscire a trovare un’intesa. A ostacolare un possibile accordo era la pretesa del gran khan di ottenere un atto di sottomissione da parte dei sovrani europei nei riguardi dell’impero mongolo. Solo a queste condizioni avrebbe potuto, per esempio, affiancare i crociati nella riconquista di Gerusalemme. A sperare in questa possibile, quanto insidiosa, alleanza erano soprattutto Luigi IX di Francia, futuro santo, e Hetum, monarca nestoriano di Cilicia, da tempo sottomessosi volontariamente a Karakorum, capitale dell’impero mongolo e residenza del gran khan. Tuttavia, entrambi si resero conto che un grande khanato cristiano a conduzione mongola avrebbe lasciato nel tempo poco spazio alle legittime aspirazioni di indipendenza dei regni affiliati. Ai Mongoli, però, non occorreva un alleato. Ormai erano loro a muovere le pedine piú importanti nello scacchiere strategico dell’Europa Orientale e del Vicino Oriente. Lo stesso califfato abbaside di Baghdad aveva accresciuto il suo potere soprattutto grazie alla conquista della Persia da parte delle truppe tartaro-mongole. E, a distanza di soli trent’anni, le autorità politiche di Karakorum intendevano rivoluzionare di nuovo gli equilibri dell’area, annientando chi aveva in precedenza beneficiato delle loro azioni militari.

Alla guida di un’armata imponente

Il comando della missione contro Baghdad fu affidato a Hulagu, fratello di Munke, un condottiero colto e allo stesso tempo stravagante. Appassionato di filosofia e di scienze alchemiche, professava lo sciamanesimo, mostrando nel contempo interesse per il buddhismo. Era un uomo crudele, soggetto ad attacchi epilettici che contribuivano a rendere instabile il suo carattere. Anch’egli, però, avendo una moglie nestoriana, si mostrava ben disposto nei confronti dei cristiani. Hulagu partí alla volta del Vicino Oriente con un

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battaglie la fine degli abbasidi

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Massima estensione dell’Impero mongolo (fine XIII sec.) Limite del mondo islamico

esercito forte di ben 120 000 unità, composto perlopiú da Mongoli e Turchi. Del corposo contingente faceva parte anche un reparto di arcieri cinesi ben addestrati al lancio di dardi infuocati. Verso la fine del 1255 l’intera armata si spostò a Samarcanda, in attesa di iniziare un attacco che si prospettava non privo di rischi, soprattutto per il preannunciato intervento di Egitto e Siria al fianco della minacciata Baghdad. L’efficienza mongola nel pianificare le operazioni militari fu ancora una volta perfetta. Nella marcia di

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avvicinamento verso la capitale sul Tigri nulla venne lasciato al caso: dai terreni di pascolo predisposti per l’approvvigionamento dei cavalli alla viabilità resa piú agevole da interventi su strade e ponti. E per la formulazione della tattica sul campo furono ingaggiati alcuni ingegneri cinesi che avevano già prestato servizio con successo nel periodo delle scorribande di Gengis Khan. La lunga fase preparatoria dell’assalto a Baghdad prevedeva, innanzitutto, il rastrellamento degli affiliati alla setta degli «Assassini», i temibili musulmafebbraio

MEDIOEVO


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Carta dell’impero mongolo, che ne illustra la progressiva espansione, culminata alla fine del XIII sec., anche in seguito alla conquista del potente califfato abbaside.

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Ridotta all’impotenza la setta ismaelita, i Mongoli potevano attaccare Baghdad. I vertici del califfato, informati del pericolo ormai alle porte, dibatterono a lungo su come fronteggiare l’offensiva. Il capo al-

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12 000 uomini e di avvicinarsi ad Alamut, roccaforte della setta. Con l’arrivo del resto delle truppe, il quartier generale ismaelita fu assediato e in poco tempo cadde nelle mani dei Mongoli. L’imam degli Assassini, Rukn ad-Din Khor-shah, si arrese senza opporre resistenza e aprí una trattativa con i vincitori per evitare che i suoi uomini fossero passati per le armi. Nella speranza di salvarli, si recò addirittura a Karakorum, per incontrare il gran khan Munke. Ma il tentativo fu vano e si concluse in tragedia. Sulla strada del ritorno, infatti, l’imam fu giustiziato, cosí come migliaia di suoi fedelissimi in territorio persiano. Ne sopravvissero pochi e alcuni di essi furono consegnati alla figlia di Jagatai che cosí poté vendicare l’omicidio del padre.

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ni ismaeliti che, si diceva, potessero contare su un sistema difensivo di 360 fortezze. La loro presenza rappresentava una minaccia per chiunque intendesse avventurarsi nel Vicino Oriente con velleità di conquista. I Mongoli, però, avevano un motivo in piú per colpire gli ismaeliti, perché questi, qualche anno prima, avevano rapito e ucciso uno dei figli di Gengis Khan, Jagatai. Hulagu incaricò un suo fidatissimo generale, Kitbuqa, di andare in avanscoperta in Persia con

MEDIOEVO

febbraio

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battaglie la fine degli abbasidi O

Gli Abbasidi

In basso una delle tartarughe di pietra dell’antica Karakorum; sullo sfondo il monastero di Erdene Zuu. Capitale dell’impero mongolo, la città sorgeva nell’alta valle del fiume Orkhon, nell’odierna provincia dell’Hangaj Meridionale

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(Mongolia). Originariamente un accampamento, divenne, intorno al 1220, capitale di Gengis Khan. Nel 1235 Ögödei la fece cingere di mura e vi fece erigere il proprio palazzo. Testimonianze su Karakorum compaiono negli

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modo, in parte delegati rispettivamente a un visir e a un emiro. Con l’elezione di Baghdad a capitale si assistette a uno spostamento dell’«asse culturale» del califfato verso la tradizione orientale (persiana, siriana e greca) che si fuse con i preesistenti elementi arabi. Da questo fecondo incontro trassero giovamento la letteratura, le arti e le scienze. I primi segnali di decadenza cominciarono a manifestarsi quando il califfato si trovò nella necessità di arruolare soldati barbari turchi, che non spiccavano per doti di carattere religioso e per fedeltà. Con il passare del tempo i loro generali guadagnarono sempre maggior potere provocando lotte tra capi delle milizie per pura ambizione personale. Nello Stato abbaside si crearono inevitabili spaccature. Nel 1258, l’invasione dei Mongoli, che presero Baghdad e massacrarono il califfo con tutti i suoi, pose fine al califfato abbaside.

OCEANO

Fu una delle principali dinastie di califfi islamici che nell’VIII secolo prese il sopravvento nel Vicino Oriente a spese dei rivali Omayyadi. Gli Abbasidi affermavano di essere gli unici veri successori di Maometto per la loro discendenza da al-Abbas ibn Abd al-Muttalib (566-653), lo zio del profeta. Dopo la vittoria ottenuta nella battaglia dello Zab, nel 750, non ebbero pietà dei capi omayyadi, che furono trucidati tutti, salvo Abd ar-Rahman ibn Mu’awiya, che fuggí in Spagna dove riuscí poi a fondare un altro potente califfato, a Cordova, decretando la fine dell’unità dell’impero arabo. Gli Abbasidi impressero una svolta religiosa nel loro califfato nel segno di un islamismo piú ortodosso rispetto ai loro predecessori. Dal punto di vista politico la nuova dinastia concepí uno Stato centralizzato e dispotico, che era però sottoposto al giudizio degli ulama (dottori in legge coranica). Il potere civile e quello militare furono, a ogni

TIC

Al potere nel segno dell’ortodossia

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annali cinesi e nelle cronache dei viaggiatori europei che la visitarono nel XIII sec., tra cui Giovanni da Pian del Carpine (1246) e Marco Polo (1275). Nella pagina accanto il mondo islamico tra l’XI e il XIII sec.

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IL MONDO ISLAMICO VERSO LA METÀ DEL XIII SECOLO

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Resti del Califfato abbaside

I Ghaznavidi alla morte di Mahmud nel 1030

Sultanato di Delhi sotto i Mamelucchi

Confini orientali dell’Impero bizantino nel 1070

Stato del Khwarizm (Corasmia) nel 1220

I Grandi Selgiuchidi nel 1090

Sultanato d’Iconio nel 1240

Massima espansione degli Almoravidi (1110)

Ayyubiti d’Egitto e di Siria e vassalli verso il 1250

I Ghoridi alla scomparsa di Muhammad nel 1206

Piccola Armenia e Stati cristiani

Gli Almohadi alla vigilia della battaglia di Las Navas (1212)

Regno di Granada

Invasioni mongole del XIII secolo

Stato almohade in agonia

Musta’sim, dipinto da piú di un biografo come un uomo debole, di scarsa lungimiranza politica e incapace di prendere una decisione autonomamente, si affidò ai pareri di due consiglieri che gli espressero indicazioni opposte: il suo gran visir, Muwaiyad adDin, lo spinse a cercare una trattativa, tale da evitare uno spargimento di sangue, mentre il segretario Aibeg cercò di persuaderlo a seguire la linea dura. Dopo lunghe riflessioni, il califfo optò per la prima opzione: dispose il taglio delle spese militari, licenziando alcuni reparti del suo esercito, e offrí ai Mongoli i danari risparmiati come tributo per scongiurare l’assedio. Ma la somma, seppur ingente, non bastò per un accordo: Hulagu si dichiarò disposto a rinunciare all’assedio solo se al-Musta’sim gli avesse consegnato il controllo della città. Da Baghdad giunse un rifiuto sdegnato e la minaccia di una chiamata alle armi per l’intero mondo islamico contro gli invasori. Che cosa era successo? Perché la reazione abbaside fu cosí spavalda? La linea politica del califfo era

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cambiata all’improvviso, su sollecitazione di Aibeg. Tuttavia, alle repentine intenzioni bellicose di alMusta’sim non fecero seguito un rafforzamento adeguato delle difese, né, tantomeno, il reintegro delle truppe in precedenza licenziate. Mentre, sul fronte opposto, nell’armata mongola confluirono altri effettivi provenienti dal khanato dell’Orda d’Oro, guidati dal comandante Bayju.

Inizia l’offensiva

La grande battaglia di Baghdad si profilava all’orizzonte con un esito scontato: le forze mongole erano in superiorità numerica rispetto all’esercito del califfato che poteva contare solo su circa 80 000 effettivi. Malgrado ciò Hulagu non sembrava sereno e, da appassionato di magia, pensò di consultare i piú quotati astrologi per essere rassicurato sull’esito della missione; poi, nonostante i timori, diede il via all’offensiva. Verso la fine del 1257 l’armata mongola partí dalla base di Hamadan, nell’attuale nord-ovest dell’Iran e

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battaglie la fine degli abbasidi Miniatura raffigurante Hulagu che fa rinchiudere il califfo al-Musta’sim fra i suoi tesori, da una edizione del Livre des merveilles du monde. In realtà, all’indomani della presa di Baghdad, il capo mongolo risparmiò il califfo, proprio per potersi impossessare delle sue ricchezze e solo in seguito lo fece giustiziare.

si divise in tre reparti. Il primo, comandato da Hulagu, proseguí dritto verso Baghdad attraverso il borgo di Kermanshah. Bayju con i soldati dell’Orda d’Oro e Kitbuqa con i suoi fedeli nestoriani, invece, seguirono percorsi laterali, rispettivamente a ovest e a est. La marcia di avanzamento non incontrò ostacoli significativi, grazie anche alla neutralità della dinastia sciita dei Buwayhidi, stanziati nella regione, da tempo in guerra contro il califfato abbaside. Nel frattempo anche l’esercito di Baghdad si era mosso, con in testa Aibeg, deciso a scontrarsi frontalmente con le milizie di Hulagu. L’approssimarsi del contingente dell’Orda d’Oro di Bayju da ovest fece, però, cambiare strategia al segretario del califfo. Aibeg, quindi, attraversò il Tigri e il 16 gennaio del 1258 riuscí a raggiungere le truppe di Bayju ad Anbar, a poca distanza da Baghdad. All’inizio, le sorti della battaglia sembrarono volgere a favore dei musulmani che con grande rapidità costrinsero gli avversari alla fuga. Ma non si trattava di una vera e propria ritirata: l’ala destra dell’armata mongola voleva attirare gli islamici su un territrorio insidioso e solo per questo motivo stava ripiegando in gran fretta. Bayju aveva adocchiato alcune impervie zone paludose, a ridosso del vicino fiume Eufrate e, per renderle ancor piú impraticabili, fece abbattere le dighe che sbarravano le acque di un lago. Poi, con una controffensiva, spinse i nemici nei terreni inondati, chiudendoli in una trappola mortale. Solo Aibeg e la sua guardia personale, insieme a qualche centinaio di soldati, riuscirono a sfuggire al massacro. Il 18 gennaio il consistente reparto guidato da Hulagu raggiunse le mura di Baghdad e diede il via all’assedio. Gli sforzi delle truppe mongole si concentrarono sul versante est della città, che si estendeva già da allora su

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entrambe le sponde del fiume Tigri. Proprio nella zona orientale erano ubicati i palazzi del potere e lí presumibilmente si trovavano custodite le grandi ricchezze della capitale abbaside. Nel frattempo al-Musta’sim aveva cambiato ancora una volta strategia, convinto dai suoi consiglieri piú moderati a cercare nuovamente un accordo con gli assedianti. Inviò, pertanto, un’ambasciata al comando mongolo, della quale faceva parte anche il patriarca nestoriano, ma non ottenne alcuna risposta. Il destino di Baghdad era ormai segnato.

La capitolazione

Lo scontro decisivo si consumò il 10 febbraio. Le mura della città, dopo intensi attacchi effettuati con l’ausilio di macchine ossidionali, cedettero e quello stesso giorno il califfo si consegnò al nemico, insieme ai capi dell’esercito. La resa non bastò a evitare il bagno di sangue che coinvolse quasi tutti i soldati e i comandanti cittadini. Solo al-Musta’sim venne graziato, perché era l’unico in grado di fornire notizie sull’ubicazione delle leggendarie ricchezze accumulate per secoli nella città sul Tigri. Una volta trovato il tesoro, i Mongoli trucidarono anche il califfo. Prima di dar luogo all’esecuzione, però, gli uomini di Hulagu lo avvolsero in un tappeto per il timore che potesse verificarsi una catastrofe naturale: secondo la tradizione, infatti, il sangue di un sovrano abbaside, qualora versato sul suolo, sarebbe stato in grado di provocare un terremoto. Il massacro in città non risparmiò nemmeno donne e bambini, molti dei quali caddero sotto i colpi dei soldati georgiani, i primi a entrare a Baghdad. Si salvarono quei pochi abitanti fuggiti nelle cantine piú nascoste e quanti avevano trovato rifugio nelle chiefebbraio

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Xilografia ottocentesca tratta da un disegno cinese del XIII sec. raffigurante un guerriero mongolo. Per l’attacco al cuore del califfato abbaside, Hulagu aveva riunito un’armata forte di oltre 100 000 unità.

le mosse di hulagu Cors o a

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Quartiere cristiano

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Torre dei Persiani Porta di Basaliyah

In alto pianta della antica Baghdad, nella quale sono indicate le principali direttrici dell’assedio portato dai Mongoli.

Porta di Mezzo

Porta dell’Ippodromo

Area in cui si concentra il più pesante attacco mongolo

Hulagu raggiunse la capitale del califfato abbaside nel gennaio 1258 e sferrò l’attacco decisivo il 10 febbraio.

se cristiane che, su precisa indicazione della moglie nestoriana di Hulagu, non dovevano essere toccate. Non si salvarono dalla distruzione nemmeno le migliaia di volumi conservati nella splendida biblioteca cittadina (la Bayt al-Hikma, «la Casa della Sapienza») che finirono nel Tigri. Il fetore emesso dai cadaveri ammassati in città obbligò Hulagu a ritirare il suo esercito per il timore che potesse diffondersi la peste. I morti tra i musulmani, secondo la testimonianza resa dallo stesso condottiero mongolo in una lettera al re Luigi IX di Francia, ammontavano a 120 000. Alcune fonti riferirono cifre an-

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battaglie la fine degli abbasidi baghdad

La città «data da Dio» Fondata nel 762, sulla riva occidentale del Tigri, dal califfo al-Mansur, divenne presto la capitale abbaside, spodestando Damasco e cedendo il proprio ruolo alla vicina Samarra soltanto per un breve periodo, dall’836 all’892. Inizialmente Baghdad fu chiamata Madinat as-Salam («città della pace») e solo in seguito assunse l’attuale nome di origine iranica che significa («dato da Dio»). Costruita al centro della Mesopotamia, Baghdad sorse su numerose costruzioni preislamiche, alla confluenza delle vie carovaniere

del Khorasan. Sebbene non ne resti quasi nulla, poiché l’attuale omonima città vi si è sovrapposta, sappiamo che era stata progettata a pianta circolare sulle rive del Tigri, centro economico della città per il ricchissimo traffico fluviale che vi si svolgeva. Il sistema di fortificazioni era assai complesso, con cinque cinte di mura, interrotte da quattro porte, disposte secondo i punti cardinali, chiamate col nome della provincia verso la quale si aprivano (Kufa, Bassora, Khorasan e Damasco). A esse corrispondevano altrettante

strade, convergenti su una vasta piazza circolare, al cui centro sorgevano il palazzo del califfo, detto della Porta d’Oro, e la Grande Moschea, simboli concreti del potere centralizzato. Gli ingressi esterni erano «a gomito» per motivi difensivi e davano accesso a sale per le udienze coperte da grandi cupole dorate. Tra l’area centrale del palazzo del califfo e il muro principale della città vi era una zona residenziale, divisa in quattro settori uguali da porticati a volta e definita, all’interno e all’esterno, da un duplice anello di

A sinistra e nella pagina accanto vedute del palazzo abbaside di Baghdad. 1230 circa. Già ritenuto opera del califfo al-Nasir, l’edificio, piú probabilmente, nacque come scuola coranica (madrasa) e fu successivamente ristrutturato. Di particolare pregio, come mostra la foto qui accanto, sono le volte delle arcate che circondano il cortile, decorate a muqarnas, motivo originato dalla suddivisione della superficie delle nicchie angolari in numerose nicchie piú piccole.

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strade. Si calcola che nel periodo di maggior splendore, la popolazione ammontasse a piú di un milione di abitanti, di composizione multietnica e multireligiosa. Accanto ai musulmani, in grande maggioranza, convivevano infatti cristiani, zoroastriani ed Ebrei. Nel periodo di governo del califfo Harun-al-Rashid la città divenne uno dei centri culturali piú importanti del mondo. Le cronache ne esaltavano anche le bellezze architettoniche, descrivendo le abitazioni decorate, i grandi palazzi in marmo, gli sterminati parchi, le

ville, le terme, le rinomate biblioteche e i ricchi bazar. Tale era l’incanto di Baghdad in quel periodo che venne scelta come ambientazione di alcune delle novelle contenute nelle Mille e

una notte. Dopo essere stata distrutta dai Mongoli nel 1258 e in seguito invasa da Tamerlano, dovette subire nel Rinascimento anche la violenta dominazione degli Ottomani.

cora piú consistenti, ma, piú verosimilmente, il numero dopo la scomparsa, nel volgere di appena 50 anni, delle dei caduti non superò la cifra di 80 000. sue due grandi capitali: sul versante cristiano, Bisanzio, A Baghdad i vincitori lasciarono circa 3000 soldaconquistata e annientata dai crociati nel 1204; su quelti ed elessero nuovo governatore l’ex visir del califfo, lo islamico, appunto Baghdad, caduta in quel fatidico il moderato Muwaiyad ad-Din che, da quel momento giorno di febbrario del 1258. per tutto il mondo islamico divenne un traditore da annientare. Hulagu si trasferí, invece, in Azerbaigian, nei Gli ultimi successi di Hulagu I Mongoli proseguirono l’avanzata in territorio islamipressi del lago di Urmia dove fece edificare un enorme co, conquistando la Siria nel 1259. Anche per loro, però, castello all’interno del quale nascose parte del tesoro di sarebbe giunto il momento del declial-Musta’sim. no che, in quello stesso anno, coinciSolo quarant’anni piú tardi Da leggere se con la morte del gran khan MunBaghdad tornò a essere una città ke. Hulagu, costretto a tornare previva, anche se ben lontana dagli anU Steven Runciman, Storia delle cipitosamente in patria per favorire tichi splendori. Nonostante la ricoCrociate, Einaudi, Torino 1993 l’ascesa al potere dell’amico Kublai, struzione, aveva ormai l’aspetto di U Andrea Frediani, Le grandi battaglie lasciò nella Siria appena conquistata un piccolo centro di provincia, le cui del Medioevo, Newton Compton, pochi reparti armati. dimensioni ammontavano a poco Roma 2001 Vista la situazione favorevole, piú di un decimo rispetto a quelle U Sergej Kozin (a cura di), Storia i musulmani decisero di prendere del periodo precedente la battaglia. segreta dei Mongoli, Guanda, l’iniziativa e di pianificare una serie Anche lo sviluppo economico delMilano 2009 di attacchi. A sferrarli furono i Mala zona risentí dei gravi danni che U Guglielmo di Rubruck, Viaggio melucchi, una casta militare in prel’assedio aveva provocato al sistema nell’impero dei Mongoli, Marietti, cedenza al servizio dei califfi abbasidi irrigazione dell’area di Baghdad, Torino 2002 di, che aveva conquistato il potere in mettendo in ginocchio l’agricoltura. U Charles Tripp, Storia dell’Iraq, Egitto. La Siria venne in poco tempo Non solo per la città, ma anche Bompiani, Milano 2003. liberata dall’occupazione mongola per l’intero Islam, la sconfitta cone di lí a poco lo sarebbe stato tutto il tro i Mongoli fu rovinosa. Il crollo del califfato abbaside lasciò i musulmani senza una guida Vicino Oriente. Baghdad visse un periodo di relativa tranquillità fino a una nuova invasione ordita dal reforte, aprendo un periodo di lotte intestine per un’evenstauratore dell’impero dei khan, il grande Tamerlano, tuale successione nel ruolo di principale autorità politico-spirituale. Sempre secondo Steven Runciman, nel 1401. Anche in quell’occasione i cittadini furono massacrati su ordine preciso dello stesso condottiero «l’unità del mondo musulmano aveva sofferto un colpo dal quale non si sarebbe mai ripresa». Ma era tutta che prescrisse a ognuno dei suoi 90 000 soldati di porl’area del Vicino Oriente ad avere perso la sua centralità, targli la testa di un abitante di Baghdad. F

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intervista

Un

mondo di

angeli e demoni?

Incontro con Jacques Le Goff

a cura di Chiara Mercuri

Perché ancora oggi, parlando di Medioevo, prevale l’immagine di un’età caratterizzata da magia e superstizione? Ma Carlo Magno fu veramente, come spesso si afferma, il «padre» dell’Europa? E perché, per essere buoni storici, si deve essere anche un po’ antropologi? Ne abbiamo parlato con il grande medievista Jacques Le Goff…

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arigi, gennaio 2012. Scesi alla fermata Crimée della linea 7 del metrò, alle estreme propaggini del quartiere che si snoda ai bordi del canale Saint-Martin, ormai divenuto il vero quartiere alla moda di Parigi, si attraversa un piccolo ponte che porta dritti alla casa-studio di una delle istituzioni viventi della cultura francese: Jacques Le Goff, l’ultimo degli Annalisti (denominazione che deriva dalle Annales, rivista fondata nel 1929 da Marc Bloch e Lucien Febvre, intorno alla quale si sono riuniti i maggiori storici francesi del XX secolo, n.d.r.), il piú importante medievista vivente, sicuramente quello che ha venduto piú libri in tutto il mondo e ha maggiormente influenzato negli ultimi sessant’anni (ne ha compiuti 88 il 1° gennaio) i gusti e le tendenze della storiografia medievale. Colpisce, una volta entrati, il fatto che nulla (a parte i cinquemila volumi sistemati un po’ ovunque), faccia pensare che ci troviamo nella casa di un medievista: maschere africane e oggetti etnici tappezzano, letteralmente, i duecento metri quadrati dell’appartamento e si ha la sensazione di trovarsi piuttosto nella dimora di un antropologo culturale, ma come lo stesso Le Goff ci spiegherà: «lo storico deve sapersi fare gioco-forza etnografo e antropologo». ◆ I l Medioevo è stata un’epoca sottovalutata dal Rinascimento, esaltata dal Romanticismo in chiave folcloristica. Oggi si dice sia stata rivalutata, eppure la sua comprensione crea ancora molti problemi, perché? «Penso quello che pensava il mio maestro Fernand Braudel: la storia si comprende solo nella lunga durata

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Nato a Tolone il 1° gennaio 1924, Jacques Le Goff, massimo storico medievista vivente, è stato, fra l’altro, condirettore delle Annales, della cui scuola storiografica è uno dei maggiori e piú noti rappresentanti. La sua ultima fatica bibliografica è dedicata alla Legenda Aurea di Jacopo da Varazze.

Najac (Midi-Pyrénées, Francia). Resti della fortezza reale fatta costruire nel 1253 da Alfonso di Poitiers, fratello di Luigi IX il Santo.


intervista jacques le goff

San Giorgio e il drago, miniatura di scuola fiamminga da un’edizione della Legenda Aurea di Jacopo da Varazze (1128-1298). XV sec. Glasgow, University Library.

e partendo dall’assunto che essa è un incessante processo di mutazione. Cosí dal Medioevo (che si fa finire nel XV secolo, ma che io prolungo fino alla Rivoluzione Industriale per l’Inghilterra e fino alla Rivoluzione Francese in Francia), la società europea è enormemente cambiata. La gente però ha l’abitudine di parlare e di giudicare il periodo medievale secondo le nostre concezioni contemporanee. Lo storico, invece, deve farsi antropologo, ovvero qualcuno che cerca di mettersi nella pelle e nel pensiero dell’altro». «Per noi gli uomini e le donne del Medioevo sono da una parte i nostri avi, coloro che ci hanno lasciato un’eredità enorme, ma dall’altra sono persone “altre”, diverse da noi, appartenenti a un’altra civiltà, a un’altra cultura e quindi costituiscono per noi, una sorta di “oggetti etnografici”. Tuttavia, se siamo storici e non puri

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antropologi, abbiamo il dovere di ristabilire nel nostro pensiero, nei nostri lavori, nella nostra comprensione del Medioevo alcuni elementi essenziali: il cambiamento, il tempo e la durata».

◆ P erché secondo lei, l’età medievale resta la vittima preferita di tanta cattiva letteratura sui suoi presunti aspetti esoterici, magici, New Age? «Ci sono due caratteristiche del Medioevo che hanno portato molte persone anche intelligenti, dal Rinascimento fino a oggi, a disprezzare il Medioevo. In primo luogo per alcuni dei suoi aspetti religiosi: la gente del Medioevo credeva ai miracoli, ma bisognerebbe capire che cosa significava per loro il miracolo e non considerarli come sprovveduti creduloni. Se, infatti, essi non avevano messo a punto quello che febbraio

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noi chiamiamo “lo spirito critico” in una maniera altrettanto acuta e scientifica come la intendiamo noi, nondimeno possedevano un certo spirito critico e una nozione di autenticità. Ho appena finito di scrivere un libro sulla Legenda aurea di Jacopo da Varazze (A la recherche du temps sacré. Jacques de Voragine et la Légende dorée, edizioni Perrin, Parigi 2011), testo che deve essere considerato il vero best seller del Medioevo. Se ne conservano, infatti, piú di mille edizioni manoscritte, il che fa della Legenda aurea il secondo libro dopo la Bibbia per numero di esemplari conservati. Ebbene, la Legenda aurea è stata derisa dagli umanisti – Una scena dal film e dagli intellettuali in genere – per il fatto che Lancelot du lac, riferisce di santità e di miracoli. Eppure Jacopo girato dal regista stesso rigetta moltissime fonti e credenze da lui francese Robert considerate false». Bresson nel 1974. «L’opera fu poi attaccata a motivo delle sue XVIII secolo il Medioevo ha etimologie, poste come introduzione a ogni casubito in Francia attacchi pitolo dedicato a un santo. Gli etimologi le conpieni di disprezzo da parsiderano frutto della fantasia, mentre, in realtà, Jacopo te degli illuministi, ha poi beneficiato segue un metodo che, a suo modo di vedere, è scienti- – nell’Ottocento e nel Novecento – delfico e che si fonda su quello del padre dell’etimologia le prese di posizione di intellettuali di medievale, Isidoro da Siviglia. Tutto questo per dire che prim’ordine, che hanno saputo rivalucertamente le etimologie di Jacopo da Varazze non sono tare questo periodo storico. Penso, inscientifiche se le valutiamo con il nostro moderno con- nanzitutto, a Victor Hugo – che va cocetto di ricerca scientifica, ma esse, tuttavia, seguono munque considerato come il piú granun metodo pienamente razionale». de poeta francese –, il quale nutrí «La seconda ragione per cui si disprezza il Medio- una grande passione, anche se non evo è che gli uomini e le donne di quell’epoca crede- scientifica, per il Medioevo. Penso vano che il mondo fosse popolato da angeli e demoni. a grandi cineasti come Robert BresI primi erano a servizio di Dio mentre i secondi erano son, il quale con il suo capolavoro a servizio di Satana. Per non parlare, poi, dei mostri. Lancelot du lac (1974; distribuito Era uno dei compiti degli uomini e delle donne in Italia con il titolo di Landel Medioevo difendersi da questi mostri e cillotto e Ginevra), ha saputo resistere al demonio». «Questo mondo di fantasia che essi avevano immaginato rappresenta per me un elemento di grande fascino, in quanto affonda le sue radici nel mito antico, nella cultura classica, nell’Antico Testamento oltre che nell’immaginario popolare medievale. Tale mondo fantastico è del resto molto piú interessante e affascinante dei nostri film di fantascienza o di fantasy. Trovo quindi che l’immaginario degli uomini e delle donne del Medioevo valga bene il nostro! Ogni società, a ogni epoca, ha avuto il suo immaginario, e proprio l’immaginario mi sembra essere uno dei grandi oggetti di studio per lo storico». ◆ Il Medioevo gode in Francia di una attenzione nemmeno lontanamente paragonabile a quella che gli viene riservata in Italia, sebbene la storia italiana e soprattutto l’arte e la scultura siano debitrici di questo periodo. Perché questa diversità dei nostri Paesi di fronte al Medioevo? «Il motivo è semplice. Se è vero che nel

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Statua equestre di Giovanna d’Arco, opera dello scultore Emmanuel Frémiet, collocata nella place des Pyramides, a Parigi. 1874.

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intervista jacques le goff rendere l’essenza del mondo medievale meglio di chiunque altro. Penso, infine, a ciò che ha costituito il vero cardine della piena rivalutazione del Medioevo: il movimento delle Annales, della storia sociale, nata in Francia sotto l’egida di grandi storici, tutti medievisti, quali Marc Bloch e George Duby. L’Italia, è vero, ci ha dato il piú grande poeta che il Medioevo abbia mai conosciuto, Dante. Ma all’epoca era un Paese frammentato e diviso, mentre la Francia era già una nazione che ha fatto dei piú illustri personaggi del Medioevo i suoi eroi nazionali: Luigi IX, Bertrand Du Guesclin, Giovanna d’Arco». ◆ C arlo Magno viene da molti considerato il padre dell’Europa. Lei ritiene che si possa aderire a questa immagine o le appare una forzatura? «Non si tratta solo di un’esagerazione, ma di un vero e proprio errore. Per me le cose sono chiare: nell’XI secolo, l’Europa è di là da venire e Carlo Magno non guarda

In alto Reims. Particolare della controfacciata della cattedrale gotica di NotreDame. Qui si svolsero le incoronazioni dei re di Francia, da Ugo Capeto, nel 987, fino al 1825. A destra Erasmo da Rotterdam (1466-1536), in un ritratto del pittore tedesco Hans Holbein il Giovane (1497/14981543). 1523. Torino, Galleria Sabauda.

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in avanti, ma piuttosto indietro, il suo desiderio è ricreare l’impero romano. Personalmente, mi dispiace che Carlo Magno venga considerato il padre dell’Europa perché si tratta di un falso storico». ◆ M a allora, secondo lei, quali sono, se ci sono stati, i personaggi o i momenti dell’età medievale che hanno dato vita all’Europa? «È una tematica, come lei sa, su cui ho lavorato a lungo e che ho spiegato in un libro, tradotto anche in Italia (Il Medioevo. Alle origini dell’identità europea, Laterza, Roma-Bari 2011, 13ma edizione). Io penso, in effetti, che nel Medioevo siano stati gettati i semi dell’Europa. Il fenomeno universitario, primo fra tutti, è un fenomeno europeo che non si trova altrove. Nella scuola e in particolare nelle università, si parlava una lingua comune a tutti gli studenti, il latino, che veicolava un senso di appartenenza a una cultura comune. Una cultura che trova il suo pieno compimento in Erasmo da Rotterdam. Oggi gli studenti universitari beneficiano di borse di studio europee denominate “Erasmus”, e trovo che ciò sia assolutamente legittimo. Ma vi è un secondo campo in cui è nata l’Europa, ed è quello gastronomico. Al di là delle gastronomie locali esiste già nel Medioevo una gastronomia che possiamo definire europea. Il primo manuale di cucina Testa della statua è stato scritto da un francese all’inipolicroma di re Luigi IX zio del XIII secolo per un arcivescovo il Santo (1214-1270), danese che aveva studiato all’univerdalla cappella del sità di Parigi. Attraverso le pagine di castello di Mainneville questo manuale si può vedere come (Normandia, Francia). anche la tradizione culinaria costituisse un elemento di aggregazione e di identità per i popoli che vivevano in Europa». «Infine, vi è l’arte, in particolare l’architettura goti- venne invece rimproverato di essere tornato a un geca, che ha lasciato all’Europa un volto peculiare e cele- nere che noi del movimento delle Annales avevamo brativo che la contraddistingue dal resto del mondo». sconfessato, in quanto incapace di rendere conto delle piú ampie dinamiche sociali ed economiche sulle quali ◆ Lei si è occupato di due tra i piú celebri persodoveva concentrarsi la “nuova storia”. Tuttavia, come naggi del Medioevo, San Francesco e Luigi IX di ebbi a spiegare, alcuni personaggi, Luigi IX in primis, Francia. Come è nato l’interesse per due uomini sono in grado di catalizzare, nella loro vicenda umana che furono, tra l’altro, contemporanei? e storica, tutte le dinamiche di un’epoca. Infine anche «Inizierei col dire che per uno storico si rivela fonda- per Luigi IX, si è rivelata determinante l’individuaziomentale la scelta delle fonti. Per quel che riguarda ne di una fonte del tutto particolare. Si tratta della bioSan Francesco, l’interesse è nato dal fatto che se, da grafia che ne fu scritta dal suo siniscalco, Jean de Joinuna parte, si tratta di un personaggio mitico, dall’al- ville, il quale fu con lui in occasione della prima delle tra lo storico ha il privilegio raro, nel suo caso, di po- sue crociate. Ebbene non esito a dire che ci troviamo ter lavorare sui suoi scritti autografi. Se invece ho di fronte a un biografo d’eccezione, un laico, che fu scelto San Luigi per scrivere quella che solo impro- molto intimo del re e con lui fu prigioniero dei mupriamente può essere definita una biografia, è per- sulmani. Egli ha uno stile che oggi potremmo definire ché Luigi IX mi è sempre apparso come un “oggetto “giornalistico”. Joinville cerca infatti di essere obiettiglobalizzante”, ovvero uno di quei personaggi che ti vo, di fornire un ritratto veritiero del suo personaggio, forzano a parlare dell’economia, della cultura, della e cosí, pur ammirandolo molto, non esita a mostrarne società di un’epoca». i limiti e i difetti, compresi i comportamenti, che egli Quando, nel 1996, pubblicai la sua biografia mi reputa negativi, al riguardo della moglie». F

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misteri de secretis naturae

«Quando l’alto proviene dal basso, e il basso dall’alto…» di Francesco Colotta

Un misterioso trattato del XII secolo rivela i segreti che presiedono alla genesi del mondo astrale, umano, minerale e vegetale. Sono le «verità certe senza dubbio» alle quali si accede seguendo un procedimento alchemico. E interpretando il messaggio di un’enigmatica tavola di smeraldo attribuita al leggendario Ermete Trismegisto

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Siena, Duomo. Particolare del pavimento marmoreo raffigurante Ermete Trismegisto. La tarsia fu realizzata nel 1488, su disegno di Giovanni di Stefano. A questa mitica figura greco-egiziana, considerata depositaria della parola e della sapienza divina, furono attribuiti scritti che presero perciò il nome di ermetici. Uno di essi è la Tavola di smeraldo, il cui contenuto fu ripreso nel De secretis naturae, l’opera curata nella prima metà del XII sec. dal traduttore Ugo di Santalla.

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ochi anni dopo la morte di Cristo, il filosofo greco Apollonio (vedi box a p. 39) si avventurò nei sotterranei della città anatolica di Tiana, situata nella parte sud-orientale dell’odierna Turchia. Decise di calarsi nel sottosuolo in prossimità di un monumento dedicato alla mitica figura greco-egiziana di Ermete Trismegisto (vedi box a p. 41), dando credito a un’iscrizione secondo la quale, nelle fondamenta di quel simulacro, erano custoditi i segreti della natura. Il pensatore, durante la perlustrazione, incontrò un proprio sosia e vide nelle vicinanze una statua che raffigurava una persona anziana. Il vecchio effigiato era proprio Ermete che teneva in mano una tavoletta di colore verde, sulla qua-

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misteri de secretis naturae le risultava impressa la rivelazione delle essenze nascoste delle cose. Questa narrazione, ammantata di leggenda, racconta la storia della Tavola di smeraldo, il cui contenuto fu divulgato in Europa nel XII secolo all’interno di un celebre libro «occulto», il De secretis naturae. Secondo la tradizione, nel volume si trovavano spiegati tutti i misteri sul creato appresi da Apollonio nei sotterranei di Tiana. Durante il Medioevo il testo, malgrado la sua limitata diffusione, divenne una delle fonti di riferimento per gli studiosi di esoterismo, accanto al parimenti noto Picatrix (vedi «Medioevo» n. 170, marzo 2011), al «maledetto» Liber aneguemis, un testo di alchimia pratica, e al trattato di magia naturale De radiis attribuito al filosofo arabo Al-Kindi (800-873 circa).

L’impronta araba

Il De secretis naturae, curato dal traduttore Ugo di Santalla (attivo in Spagna nella prima metà del XII secolo), è tratto da un manoscritto arabo che risale al periodo del califfato abbaside di al-Ma’mun (786833): il Kitab sirr al-haliqa (Libro della creazione). Il traduttore rivide solo in parte il contenuto dell’opera, che mantenne, anche nell’edizione latina, forti influssi culturali provenienti dal Vicino Oriente. Non a caso, il De secretis venne redatto nell’epoca del cosiddetto «Rinascimento del XII secolo», caratterizzato da un diffuso interesse in Europa per i trattati arabi di astronomia, matematica, fisica e medicina. Accanto alle pubblicazioni di argomento scientifico, affluivano in Occidente anche opere letterarie, filosofiche e religiose che contenevano richiami all’ermetismo, all’astrologia e alla tradizione alchemica. La Sicilia e la Spagna, in particolare Toledo, furono i centri principali di questo intenso lavoro di raccolta e traduzione di volumi che giungevano dall’altra sponda del Mediterraneo. Ugo di Santalla visse a lungo proprio in terra spagnola e si specializzò nello studio di testi astronomico-astrologici.

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La Tavola di smeraldo

«Tutte le cose si formano da una sola cosa» Ecco il testo della Tavola di smeraldo, l’opera attribuita a Ermete Trismegisto: «Una verità certa senza dubbio, l’alto proviene dal basso e il basso dall’alto, la realizzazione dei prodigi viene da una sola cosa cosí come tutte le cose si formano da una sola cosa con un unico procedimento, suo padre è il Sole, sua

madre la Luna, il vento lo recò nel suo ventre, la terra lo nutrí, padre dei talismani, custode dei prodigi, perfetto nelle forze, fuoco divenne terra, separa la terra dal fuoco, il sottile è piú nobile del denso, con mitezza e decisione sale dalla terra al cielo e discende alla terra dal cielo, e in esso vi è la forza dell’alto e del

Nell’Età di Mezzo circolarono altre opere in latino simili al De secretis naturae, alcune delle quali riportavano la versione integrale della Tavola o solo qualche informazione su di essa: il De essentiis di Ermanno di Carinzia, il Liber Hermetis de alchimia e il piú diffuso Secretum secretorum dello PseudoAristotele. Fu soprattutto il De secretis naturae, però, a far conoscere in Occidente il contenuto della Tavola di smeraldo sulla quale, secondo la leggenda, Ermete aveva inciso l’enigmatico testo con la punta di un diamante. Esistevano, invece, diverse ipotesi su chi avesse ritrovato il prezioso reperto. Alcuni attribuivano la scoperta non ad Apollonio, ma a Sara, la moglie di Abramo. Altri, invece, affermarono che era stato Alessandro Magno a scovarlo nella tomba di Ermete Trismegisto che il mito colloca in Egitto. Con il passare dei secoli la figura assunse soprattutto l’aspetto di divulgatore e non piú di unico depositario dei segreti del cosmo: in buona sostanza, lo si riteneva solo il custode di quel sapere celeste che i primi discendenti di Adamo avevano impresso su una superficie smeraldina, cosí da poterlo tramandare ai posteri. «Una verità certa senza dub-

basso, perché possiede la luce delle luci e perciò la tenebra fugge da esso, forza delle forze domina ogni cosa sottile, penetra in ogni cosa densa, secondo la creazione del macrocosmo si produce l’opera, e questo è onorifico e perciò sono chiamato Hermes tre volte saggio» (dal De secretis naturae di Ugo di Santalla).

bio, l’alto proviene dal basso e il basso dall’alto». L’incipit del testo ermetico impresso sulla tavola riassume l’idea chiave di tutta la breve trattazione, svelando i fondamenti di una conoscenza che, dal semplice studio dei fenomeni della natura, conduce a una dimensione divina. Non solo la tavola, ma anche l’intero De secretis naturae ruota intorno a un principio base di tipo rivelativo: dietro la realtà manifesta esiste un’identità occulta delle cose. Chi è in grado di decrittarla apprende i segreti divini ed entra, inoltre, in possesso della capacità di incidere nella realtà materiale attraverso una tecnica di trasmutazione alchemica. Nel libro sono evidenti influssi specificamente islamici, in particolare di ambienti sciiti all’interno dei quali, nel Medioevo, trovavano accoglienza temi come l’ermetismo e l’alchimia.

I 24 nomi di Dio

Due studiosi europei, Fritz Zimmermann e Paul Walker, sono andati piú in là, arrivando a stabilire una connessione diretta con l’ismailismo, ossia la corrente piú radicale dello sciismo. L’opera, malgrado ciò, contiene diverse deviazioni rispetto alla dottrina islamica ortodossa, a partire dalfebbraio

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In alto la Tavola di smeraldo in una incisione realizzata dal medico e alchimista tedesco Heinrich Khunrath (1560 circa1605) per l’opera Amphitheatrum Sapientiae Aeternae, data alle stampe per la prima volta nel 1595 e poi ripubblicata, in versione ampliata, nel 1609. A destra il filosofo neopitagorico Apollonio di Tiana (attivo nel I sec. d.C.), in una incisione realizzata da Franz Cleyn per l’opera A True & Faithful Relation of What passed for many Yeers between Dr. John Dee (...) and some spirits, pubblicata nel 1659. Londra, The British Library. L’opera raccoglieva una serie di manoscritti nei quali il celebre astrologo e matematico inglese dava conto delle sue comunicazioni «angeliche».

apollonio di tiana

L’asceta che visse cent’anni Apollonio di Tiana, il presunto scopritore della Tavola di smeraldo, era un filosofo neopitagorico la cui nascita si data intorno al 2 d.C. Originario di Tiana (città dell’Asia Minore, nei pressi dell’odierna Kemerhisar), si diceva fosse in possesso di poteri sovrannaturali e, secondo alcune fonti, visse quasi 100 anni. Le poche notizie biografiche provengono da un testo di Flavio Filostrato, Cose riguardanti Apollonio di

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Tiana, che esalta le capacità di taumaturgo del pensatore greco. Per queste doti e per il suo stile di vita ascetico fu considerato una figura divina, tanto da essere soprannominato il «Cristo pagano». Gli furono attribuiti diversi miracoli come la guarigione di un uomo dalla cecità, la resurrezione di una bambina e l’aver predetto l’assassinio dell’imperatore Domiziano. Scrisse anche la Vita di Pitagora e Intorno ai sacrifici.

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misteri de secretis naturae la quantità dei nomi attribuiti a Dio, che risultano essere 24 e non 99 come descritto nel Corano. Non è agevole, perciò, la collocazione nell’ambito della teologia musulmana di un testo che si pone al centro di un crocevia attraversato da numerose tradizioni, perlopiú esoterico-sapienziali. Nel racconto sulla Tavola di smeraldo l’uomo-sosia incontrato nel sottosuolo da Apollonio rappresenterebbe la «natura perfetta». Un

concetto che trova corrispondenza, nella letteratura ermetica araba, con la figura del personale angelo planetario (una sorta di alter ego), a cui spetta il compito di guida nel difficile percorso di accesso a un superiore stato di conoscenza. Il De secretis naturae presenta numerose affinità, inoltre, con alcune correnti della filosofia greca, in particolare con lo stoicismo. Questa parentela si evidenzia nella visione cosmologica dell’opera, che indivi-

dua in una sostanza la fonte di ogni cosa: il calore primordiale, dal quale traggono origine le qualità elementari della materia vivente. Attraverso il calore si assiste a un vero e proprio accoppiamento tra forme sessuate, opposte del cosmo, tra diverse polarità. Tutte le parti possono unirsi tra loro per formare organismi piú complessi, sia quelle maggiormente pure e «nobili», poste in posizione elevata, sia quelle situate in basso. Non esiste, quindi, alcuna gerarchia nell’universo. Ogni legame è possibile in senso sia verticale che orizzontale.

La «sostanza madre»

C’è una mente alla base di questo dinamico sistema di genesi della realtà astrale, umana, minerale e vegetale: è Dio. È lui che comincia il processo di creazione astraendo la parte piú pura del calore con la quale vengono formati lo spirito e il corpo dell’uomo. Interviene in modo diretto, però, soltanto in quella fase iniziale e non prosegue la sua opera in eterno, come invece postulavano gli atomisti. Dio si preoccupa, pertanto, di generare la «sostanza madre» che sarà poi in grado, autonomamente, di dare vita al resto dell’universo. In seguito il calore stesso scinderà da sé la propria parte piú sottile, quella che tende a salire verso l’alto, da quella pesante e fredda. In un secondo momento, per un processo naturale, il calore piú puro e sottile ridiscenderà accoppiandosi con gli elementi sottostanti. Elevandosi di nuovo, dopo un ulteriore rimescolamento con le sostanze piú fredde, darà infine origine ai sette cieli dei pianeti. Nel De secretis naturae l’azione di Dio si svolge in armonia con quella La pagina di un’edizione manoscritta del trattato Kitâb sirr al-asrâr, il cui testo fu ripreso dal Secretum Secretorum dello Pseudo-Aristotele. Nelle due tabelle al centro del foglio è espresso un calcolo delle probabilità di vita o di morte di un paziente, stilato sulla base del valore numerico del suo nome di battesimo.

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Pagina miniata dell’Aurora consurgens. XIV sec. Zurigo, Zentralbibliothek. L’opera è un trattato di alchimia, già attribuito a Tommaso d’Aquino e ora a un autore indicato come Pseudo-Aquino.

ermete trismegisto

Tre volte grandissimo Per alcuni Ermete Trismegisto («tre volte grandissimo») era solo un misterioso autore di testi di letteratura sapienziale dell’età ellenistica. Ma per la mitologia, in seguito a una sorta di processo di assimilazione, assunse l’aspetto di una divinità che univa due tradizioni religiose: quella relativa al dio greco della parola, della magia e dell’atletica Ermes e quella del dio egizio della letteratura e dei numeri Thot. Entrambi rivestivano anche la funzione di guida per le anime dei defunti nel regno dell’oltretomba. Insieme alla Tavola di smeraldo viene attribuito a Ermete Trismegisto, considerato anche il vero padre dell’alchimia, il celebre Corpus hermeticum, uno dei testi di riferimento per il pensiero ermetico medievale e rinascimentale. delle stelle, che, per sua «delega», sovrintendono sul mondo terreno. Questo principio non risulta, invece, enunciato in modo esplicito nel Kitab sirr al-haliqa (Libro della creazione). L’omissione appare alquanto singolare, considerato che l’astrologia era stata importata in Occidente perlopiú proprio dai Paesi arabi.

Fede e divinazione

È probabile che nella sua traduzione Ugo di Santalla abbia cercato, motu proprio, di armonizzare la dottrina cristiana con una delle arti divinatorie allora maggiormente avversate dalla Chiesa, ma che riscuoteva grande popolarità anche tra i fedeli e in importanti corti europee. L’idea di un Dio che

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accorda agli astri una funzione determinante nel destino del cosiddetto «mondo sublunare» poteva fornire un aspetto ortodosso a una credenza che nel Medioevo aveva già cominciato in parte a cristianizzarsi. Due grandi filosofi cattolici del XIII secolo, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, avevano infatti riconosciuto alle stelle un’influenza, seppur limitata, sulle azioni degli uomini. Con questa nuova formulazione, comunque, l’astrologia «invasiva» dell’antichità, secondo cui gli esseri mortali erano impotenti di fronte all’influsso dei pianeti sul destino, veniva di fatto svuotata di efficacia. All’individuo veniva garantita, insomma, la

capacità di gestire in modo attivo l’esperienza terrena, usufruendo del libero arbitrio, secondo il principio tomista «astra inclinant, non necessitant» («gli astri influenzano, ma non costringono»).

Una quintessenza?

La teoria del calore primordiale alla base della creazione accomuna la tradizione ermetica del Vicino Oriente alla filosofia greca, dimostrando come il pensiero ellenistico, in particolare lo stoicismo, fosse diffuso e studiato nel mondo arabo. Zenone, ispirato da Eraclito, considerava il fuoco come sostanza che contiene in sé l’origine di tutte le cose e come componente della parte spirituale piú elevata dell’uomo.

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misteri de secretis naturae L’alchimia si era diffusa tra gli ermetisti arabi, ma in precedenza aveva trovato molto spazio nella filosofia greca, dal pitagorismo a Platone, dagli stoici allo gnosticismo

Una delle tavole che illustrano l’opera di Georgius Aurach de Argentina, Pretiosissimum Donum Dei. XVII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France, Bibliothèque de l’Arsenal. L’illustrazione riproduce la Solutio Perfecta, come coincidenza degli opposti e dissoluzione dell’elemento solido nell’elemento volatile. Nella pagina accanto particolare della pagina di un’edizione manoscritta del Kitab sirr al-haliqa (Libro della creazione), opera araba del IX sec. redatta durante il califfato abbaside di al-Ma’mun. Dal suo contenuto è tratto il De secretis naturae curato da Ugo di Santalla.

L’individuazione di una sostanza primigenia di natura divina era, tuttavia, un tema ricorrente nella speculazione antica, non solo in ambito stoico. Alcuni pensatori greci, per esempio, ritenevano che esistesse un ulteriore elemento in grado di spiegare l’origine del mondo, oltre ai tradizionali quattro individuati da Empedocle (acqua, aria, terra e fuoco): si trattava della «quintessenza», identificata da Aristotele, per esempio, nell’etere.

L’ascesa verso Dio

L’azione di Dio che separa la parte piú pura e leggera del calore presenta molti elementi in comune con la pratica alchemica dell’estrarre l’essenza delle cose attraverso il processo di distillazione. L’alchimia, quindi, replicando i metodi di formazione del cosmo, fornisce all’uomo la possibilità di ascendere al livello di Dio. Questa «scienza occulta» nel Medioevo non rappresentava cer-


Ermetismo arabo

Una dottrina di successo Tutto nacque ad Harran, città turca che nell’antichità si chiamava Carre (passata alla storia per la disastrosa sconfitta subita dai Romani nel 53 a.C. a opera dei Parti). In quel centro dell’Anatolia meridionale, a partire dal II secolo d.C , alcuni filosofi e seguaci di dottrine esoteriche iniziarono a professare l’ermetismo, che fondeva alcune tradizioni gnostiche, ebraiche e di derivazione platonica. In breve tempo il numero dei seguaci aumentò considerevolmente, specie tra le file dei Sabei, una popolazione dalle incerte origini residente in quel periodo in Mesopotamia. Il culto ermetico venne, in seguito, riconosciuto anche dalle autorità religiose musulmane. Nel IX secolo al-Ma’mun, a capo di un potente califfato abbaside nel Vicino Oriente, obbligò le genti atee sotto la sua influenza a scegliersi una religione. Non furono pochi quelli che optarono per l’ermetismo. Secondo alcuni storici, anche i Sufi (aderenti a una corrente mistica dell’islamismo) adottarono nei loro testi alcune dottrine di matrice ermetica. La conquista della Penisola iberica to una novità. Si era diffusa nella cerchia degli ermetisti arabi, ma in precedenza aveva trovato molto spazio nella filosofia greca, dal pitagorismo a Platone, dagli stoici allo gnosticismo. Il De secretis naturae e il suo «antenato» Kitab sirr al-haliqa (Libro della creazione) rappresentarono, pertanto, un approfondimento su una disciplina tanto antica, quanto ancora oscura. La tradizione alchemica, grazie a quel misterioso libro medievale, secondo la studiosa di ermetismo mediorientale Pinella Travaglia che ne ha curato l’edizione italiana, «non si era mai introdotta con forza, fino ad allora, con sistemi di tale complessità».

Minerali e vegetali

Numerosi riferimenti alla tradizione alchemica sono presenti, ovviamente, nel capitolo dedicato all’origine dei minerali. Il calore primordiale alla base di ogni processo di creazione genera due elementi opposti, il fuoco e l’acqua. Quest’ultima, anch’essa con un

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da parte degli Omayyadi nell’VIII secolo, favorí l’inizio della diffusione di testi arabi in Europa. Qualche secolo dopo giunsero i manoscritti piú conosciuti: il complesso manuale di negromanzia Picatrix e il Kitab sirr al-haliqa, che portava con sé l’enigma della Tavola di smeraldo.

processo di «polarizzazione», dà luogo al mercurio che, a sua volta, combinandosi con lo zolfo genera tutti i metalli. I minerali subiscono l’influenza dei pianeti e incidono allo stesso modo sulla vita degli astri, nel rispetto di quella visione cosmologica che rende possibile qualsiasi unione tra elementi, prescindendo da un ordine gerarchico. Nel manoscritto si sostiene che i minerali, nella loro primigenia manifestazione, erano in realtà oro. In seguito la reazione con altri elementi aveva corrotto quella purezza originaria che, tuttavia, sopravviveva come loro base costitutiva. In qualunque momento, quindi, poteva essere riesumata attraverso un processo alchemico. Il mondo vegetale, come quello minerale, viene generato dall’acqua che si unisce alla terra nel momento in cui i pianeti compiono una determinata rotazione. Il libro nei suoi ultimi capitoli, assume la forma di un trattato enciclopedico soltanto descrittivo dei fenomeni

Da leggere U Pinella Travaglia, Una cosmologia

ermetica. Il Kitab sirr al-haliqa/De secretis naturae, Liguori Editore, Napoli 2006. U Graziella Federici Vescovini, Medioevo magico, UTET, Torino 2008 U Flavio Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, Adelphi, Milano 1978 U AA.VV, (a cura di Sabina e Rosario Piccolini), Il filo di Arianna. 44 trattati di alchimia dall’antichità al XVIII secolo, Mimesis, Milano 2001 U Jean-Paul Corsetti, Storia dell’esoterismo e delle scienze occulte, Gremese Editore, Roma 2003

della natura. Le piante, per esempio, vengono ritratte con dovizia di particolari nel loro aspetto esteriore, come del resto anche l’uomo, a cui è dedicata la successiva sezione del manoscritto, prima dell’ultimo capitolo che presenta il testo della Tavola di smeraldo. F

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immaginario la musica


L’«invenzione» della

musica

di Marcello Schembri

medievale Da universo culturale lontano e inafferrabile, il mondo sonoro dell’Età di Mezzo è oggi parte del nostro comune sentire musicale. Il merito spetta a Thomas Binkley, il musicista statunitense che, negli anni Sessanta, divenne l’artefice di una rivisitazione di melodie e sonorità destinata a restituire un volto filologicamente «autentico» alla conoscenza della musica del Medioevo

Q Q

uando, nel 1956, Thomas Binkley impresse sul vinile una selezione di composizioni del musicista e poeta francese Guillaume de Machaut (1302 circa-1377), nessuno avrebbe mai potuto presagire che quell’oscuro musicista sarebbe stato il principale motore di uno dei piú singolari fenomeni musicali degli ultimi decenni del Novecento, divenendone, nel volgere di pochi anni, il grande demiurgo. La musica di epoca medievale, hortus conclusus di una ristretta cerchia di studiosi, era rimasta fino a quel momento nel dimenticatoio, nonostante la fortunata attività concertistica e discografica degli antesignani Safford Cape e Noah Greenberg che, rispettivamente alla guida dei complessi Pro Musica Antiqua e New York Pro Musica, ave-

vano intrapreso a dissodarne il terreno incolto, il primo a partire dal 1933, il secondo dal 1952.

Un revival «filologico»

Tempi, condizioni e circostanze propizie per una definitiva riesumazione e una conoscenza vulgata dell’universo musicale dell’Età di Mezzo giunsero a maturazione solo negli anni Sessanta, con l’avvento di quel formidabile processo di rinnovamento destinato a mutare profondamente e radicalmente il volto e l’anima della musica dal Medioevo al Classicismo e oltre: l’«early music revival», cioè l’era dell’interpretazione «filologica», o «autentica» che dir si voglia. Nel segno di una sorta di storicismo musicale, con l’impiego di strumenti d’epoca (o fedeli ricostruzioni) e attraverso l’indagine

In alto Thomas Binkley (1931-1995), musicista statunitense, in una fotografia del 1973. A lui si devono, attraverso l’attività svolta con lo Studio der Frühen Musik, la riscoperta e il rilancio della musica medievale e rinascimentale. Nella pagina accanto un personaggio incoronato attorniato da sei musicisti che suonano il liuto, la cornamusa, il triangolo, il corno, la viola e le percussioni, miniatura da un manoscritto del XVI sec. Collezione privata.

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immaginario la musica La musica nel Medioevo

Mundana, humana, instrumentalis I Greci avviarono il processo di piena autonomia della musica dalle parallele espressioni poetiche e coreutiche, con le quali essa aveva in pratica coinciso sino al IV secolo a.C. Il successivo distinto sviluppo delle arti non è solo un sintomo di decadenza dopo la straordinaria fioritura del periodo classico, ma la premessa per una sempre piú profonda consapevolezza delle rispettive tecniche. Fu viceversa un fatto negativo, destinato a pesare su larga parte del Medioevo, la distinzione tra una sfera pratica, destinata alle cure di esecutori professionisti, e una sfera teorica puramente speculativa: tipico esempio di questo ordine di indagini è la vasta letteratura, di lontana ascendenza pitagorica, sulla musica delle sfere (che costituí tuttavia un tema di enorme risonanza in tutti gli ambiti del pensiero e dell’arte sino alla prima metà del Settecento). A questa visione si ricollega la distinzione medievale di una musica mundana (l’armonia puramente intelligibile del cosmo fondata sull’equilibrio dei contrari), di una musica humana (con riferimento al suo riflesso sull’animo umano) e di una musica instrumentalis (cioè la musica fisicamente risonante, puro avvio contingente alla speculazione filosofica) e la collocazione della musica nell’ambito delle arti liberali raggruppate nel Quadrivio accanto all’aritmetica, alla geometria e all’astronomia. Ma al di là di questo aspetto, nel quale è anche da riconoscere la conseguenza della scarsa considerazione sociale che, salve sporadiche eccezioni, la pratica della musica ebbe nella cultura romana (non apportatrice in questo settore di sostanziali elementi di novità e di originalità rispetto alle matrici greche) bisogna sottolineare il carattere rivoluzionario della poderosa sintesi culturale attraverso la quale prese forma il canto cristiano liturgico, in cui confluirono elementi della tradizione musicale ebraica, mediorientale e, soprattutto per quanto concerne la teoria, della tradizione greca e bizantina. Il movimento verso l’unità liturgica della cristianità, promosso dai papi sin dal IV secolo e culminato nella riforma di Gregorio Magno (590-604), mentre da un lato decretò la scomparsa di un vasto patrimonio di canti legato a tradizioni locali (con l’eccezione del canto ambrosiano, del quale Roma ammise la liceità accanto al canto gregoriano), dall’altro portò all’integrazione nel repertorio del canto romano di importanti elementi già considerati spuri. Inoltre la comparsa della notazione diastematica (perfezionata da Guido d’Arezzo nell’XI secolo) costituí un evento di eccezionale portata storica, sia per la conservazione del patrimonio musicale, sia per le nuove possibilità tecniche offerte alla composizione. Il rigido divieto di variare il repertorio imposto dalla gerarchia ecclesiastica dopo il VII secolo e l’opera di unificazione liturgica potentemente favorita

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L’ensemble Studio der Frühen Musik (Studio di musica antica) in una fotografia del 1976. Da sinistra, Richard Levitt, Andrea von Ramm, Thomas Binkley e Sterling Jones.

dai re franchi, e in particolare da Carlo Magno, avrebbero portato in breve a una sclerotizzazione e a una decadenza del canto cristiano liturgico se nuove esigenze non avessero rinnovato dall’interno il patrimonio musicale della Chiesa di Roma. Tra il IX e il X secolo si diffusero infatti la sequenza e il tropo (destinati a confluire, attraverso lo sviluppo del tropo dialogico, nel dramma liturgico, nella sacra rappresentazione e nel mistero, costituendo le premesse per lo sviluppo del nuovo teatro europeo). Inoltre, a cominciare dal IX secolo apparvero i primi tentativi di una variazione strutturale del canto liturgico, tradizionalmente omofono, attraverso l’applicazione di tecniche di elaborazione polifonica. Originariamente configuratesi nelle forme dell’organum parallelo, dell’organum melismatico e del discanto, queste giunsero tra il XII e il XIII secolo a un notevole grado di complessità formale, specie nell’ambito della scuola di Notre-Dame di Parigi, nella quale si segnalarono le prime definite personalità di compositori dell’Occidente europeo: Leoninus e Pérotin. Il Magnus Liber Organi, imponente monumento della polifonia primitiva, cui attesero entrambi i compositori, contiene organa, clausulae, conductus e mottetti a due, tre, quattro voci, che presentano, tra l’altro, l’applicazione di un principio

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rivoluzionario: un ritmo che, a differenza della fluida elasticità del canto gregoriano, prevede rapporti matematici di durata tra i suoni. Questa nuova tecnica, cui lo sviluppo della notazione mensurale aprí rapidamente nuove prospettive, fu insieme conseguenza e singolare elemento di stimolo delle nuove forme polifoniche che ebbero nel mottetto la struttura piú tipica del periodo dell’Ars antiqua (compreso tra i primi decenni del XII secolo e il 1320 circa). Ma per quanto cariche di futuro, le forme polifoniche sono ben lontane dall’esaurire il panorama della musica di questo periodo, ricco di profondi germi di rinnovamento: il movimento dei trovatori nella Francia meridionale e in Italia, dei trovieri nella Francia settentrionale, dei Minnesinger nell’area tedesca, nonché la fioritura di composizioni spirituali quali le laudi italiane e le cantigas iberiche costituirono altrettanti settori di sviluppo dello stile monodico. Con l’Ars nova, fiorita tra il 1320 e i primi decenni del Quattrocento, si assiste in Francia e in Italia a un singolare sviluppo delle forme polifoniche profane (rondeau, virelai, ballade; madrigale, caccia, ballata) e a un poderoso ampliamento strutturale di quelle sacre, tra cui primeggia la messa (della quale Guillaume de Machaut, il piú grande musicista europeo del Trecento, lasciò un esempio insigne con la Messe de Notre-Dame, primo esempio polifonico di questo genere unitariamente concepito da un unico autore). Mentre nel primo Quattrocento l’eredità dell’Ars Nova si disperdeva in manieristiche sottigliezze intellettuali, i primi esponenti della scuola borgognona (Guillaume Dufay, Gilles Binchois, ecc.) fondevano la concretezza dell’inglese John Dunstable con un impianto vigorosamente razionale che per la prima volta introduceva nella prassi compositiva il principio del contrappunto imitato: una tecnica che organizzava la forma sulla base di leggi rigorose, concependola come costruzione profondamente organica. Questa tecnica compositiva doveva ottenere attraverso i compositori franco-fiamminghi (da Johannes Ockeghem e Jacob Obrecht a Orlando di Lasso) universale diffusione in tutta Europa ed era destinata a costituire una sorta di humus sul quale germogliarono forme e stili di piú marcata impronta nazionale. (red.)

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Un gruppo di musicanti suona sotto la direzione del poeta Enrico di Meissen, dal Codice Manesse. 1300-1340. Heidelberg, Biblioteca Universitaria.

storico-musicologica volta al recupero e al ripristino di antiche prassi esecutive, il «movimento autenticista» mirava a restituire esecuzioni odierne di «musica antica» quanto piú possibile conformi a quelle – presunte – originarie.

Un’incisione storica

Data emblematica e terminus post quem nella storia dell’interpretazione, anzi, nella storia della musica, è il 1964, anno in cui Nikolaus Harnoncourt, alla testa della sua straordinaria creatura, il Concentus Musicus Wien, registra per la Telefunken i Concerti brandeburghesi di Johann Sebastian Bach con strumenti d’epoca, per l’appunto. Non si trattava, invero, della prima impresa del genere in assoluto; August Wenzinger, fon-

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immaginario la musica Particolare di un rilievo raffigurante un suonatore di viella, strumento ad arco, diffuso nell’Europa tardo-medievale soprattutto nel XII e XIII sec., quando fu prediletto da giullari, trovatori e trovieri. XII sec. Cluny, Musée d’Art et Archéologie.

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diretta e precisa; nessun elemento oggettivo di conoscenza; nessun dato, o anche semplice indizio, suscettibile di sviluppi concreti a conforto di una pur attendibile, o meramente ipotetica prassi esecutiva dell’epoca; nessuna tradizione interpretativa da porre eventualmente in discussione e superare o che potesse comunque rappresentare il punto di partenza per ulteriori sperimentazioni. In un’ottica decisamente pragmatistica, un tale stato di cose sembrava rendere ineluttabile l’idea che l’unico sentiero praticabile fosse quello dell’elaborazione libera e soggettiva dell’essenziale patrimonio musicale sopravvissuto alle ingiurie del tempo. In breve: occorreva «inventare» la musica medievale. Ciò che Binkley non si peritò di fare. Dagli Stati Uniti (era nato a Cleveland nel 1931), dove aveva atteso agli studi accademici, il mu-

se, assidua applicazione nei confronti di qualcosa; evoca il luogo fisicamente e idealmente deputato allo svolgimento di attività professionali, il laboratorio di esperienze e ricerche scientifiche; e designa propriamente l’università medievale. Ma, per singolare paradosso, in aperta contraddizione con l’impegnativo assunto, l’oggetto dello studium del complesso rimaneva – e rimane – inconosciuto e inconoscibile, e Binkley, tra l’altro, non era un musicologo, né un filologo, né uno storico. Soprattutto (e tantomeno i suoi tre sodali) non Un mondo inafferrabile era un medievista, ma soltanto un In siffatta temperie, la problematica musicista (l’espressione non vada concernente la rivisitazione, o meintesa in senso riduttivo), con uno glio, la riesumazione della musica spiccato interesse per le culture del Medioevo mostra caratteristiche orientali, che si era nutrito, fra le peculiari, affatto diverse da quelle altre cose, degli scritti del musicidelle altre epoche musicali. sta-musicologo e orientalista HenSul versante della musica barocry George Farmer, strenuo propuca (il cimento piú rilevante e fecongnatore dell’influenza della musica do dell’early music revival), araba su quella dell’Occiper esempio, Harnoncourt e nel Medioevo. Il mito e il fascino dell’Oriente dente i suoi epigoni ebbero agio di Del resto era l’epoca in esercitare la loro azione in- sollecitarono Binkley a compiere cui, nel terreno contiguo novatrice nell’ambito di una romanistica, la tesi numerosi viaggi «d’istruzione» della tradizione musicale ben videlle origini arabe della liva e solida, buona o cattiva rica europea, sulla base di che fosse, oltre che di beneficiare sicista era approdato in Germania elementi formali e contenutistici, della preziosa opportunità di poter per addottrinarsi in musicologia poteva contare sul nome autorevointerrogare le fonti di conoscenza all’Università di Monaco. E proprio lissimo di Ramón Menéndez Pidal, dirette (i trattati, innanzitutto, ma nel capoluogo bavarese, nel 1961, uno tra i massimi medievisti del non solo). diede vita a un quartetto destinato Novecento. Era anche l’epoca, ocBinkley, per converso, nell’af- a fama e prestigio duraturi e indi- corre rammentarlo, in cui un sedufrontare il Medioevo musicale si scussi: lo Studio der Frühen Musik cente profumo d’Oriente – un genetrovò alle prese con una coltre im- (Studio di musica antica). rico e oleografico Oriente à la mode, penetrabile di problemi destinati a Il disegno di un cenacolo di ar- in verità – spirava in tutto il mondo rimanere insoluti, un universo cul- tisti tesi a restituire alla luce vetusti occidentale, soprattutto nell’ambito turale inafferrabile in cui la quan- repertori caduti nell’oblio – l’aurora della cultura giovanile. tità delle domande e dei dubbi della civiltà musicale d’Occidente – sopravanzava di gran lunga quel- era decisamente audace, suggestivo Verso la «purificazione» la delle risposte e delle certezze: a e meritorio. Ma l’affermazione del Mentre le prodigiose improvvisafronte di un cospicuo repertorio di proponimento racchiudeva in sé, zioni al sitar del celebre musicista componimenti poetici rivestiti di in concomitanza, la sua negazione. indiano Ravi Shankar ammaliasemplici melodie notate con neumi Nella denominazione medesima del vano tanto i semplici appassionati (il neuma, dall’omonimo vocabolo complesso, significativamente pro- quanto i leggendari Beatles e artisti greco, è, in senso generale, il segno grammatica, dietro l’ardito intento come Yehudi Menuhin e John Coldella notazione del canto cristia- si scorgeva in filigrana una grosso- trane, la meditazione trascendenno liturgico, gregoriano, bizantino lana ingenuità. Una lusinga e un tale predicata dal guru Maharishi Mahesh Yogi pretendeva di indicare e armeno, n.d.r.) quadrati (tutto disinganno al tempo stesso. quel che la tradizione manoscritta Il termine «Studio», infatti, ri- agli stessi «Fab Four» di Liverpool e ha consegnato alla posterità), non manda all’etimo classico studium ad altri esponenti di spicco della posi dispone di alcuna testimonianza come passione, particolare interes- pular music e del mondo del cinema datore assieme a Paul Sacher della Schola Cantorum Basiliensis (1933) – la prima istituzione specialistica specificamente votata allo studio della musica antica – lo aveva preceduto di nove anni. Ma l’impatto che produsse sugli ascoltatori e sulla critica l’incisione del maestro berlinese fu tale che da quel momento nulla fu piú come prima. Gli esiti di quell’evento, la cui portata rivoluzionaria è stata enorme e inconfutabile, sono ormai divenuti materia costitutiva del comune sentire musicale.

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immaginario la musica il cammino verso un’impossibile «purificazione». Il mito e il fascino dell’Oriente, dunque, sollecitarono Binkley a compiere numerosi viaggi «d’istruzione», per cosí dire, alla scoperta di originali e inusitate civiltà sonore. Nello spazio di pochi anni cruciali, tra il 1963 e il 1970, lo Studio der Frühen Musik si recò in Marocco, Turchia, Siria, Giordania, Iraq e Libano, spingendosi naturalmente fino in India. Nel corso di questi viaggi il quartetto ebbe l’opportunità di entrare in contatto diretto con le realtà musicali locali e di coinvolgere attivamente e proficuamente diversi musicisti indigeni in esecuzioni di brani del repertorio medievale occidentale. Molti anni piú tardi (nel febbraio del 2002), dalle pagine della rivista Early Music, Sterling Scott Jones dichiarò al riguardo: «In generale, ho la sensazione che noi abbiamo appreso da loro piú di quanto essi non abbiano appreso da noi».

Una prima assoluta

La testimonianza resa dallo «string player» (suonatore di strumenti a corda) del complesso si rivela di gran conto per comprendere fino in fondo il peso di quelle straordinarie esperienze nel credo artistico di Binkley. Infatti, quei riscontri sul campo, che venivano a corroborare le sue inclinazioni e ad arricchire la sua formazione culturale, furono il migliore viatico nella determinazione della strada da seguire per l’interpretazione dei vari repertori monodici dei secoli XII e XIII (la «musica medievale» tout court, nella visione restrittiva della generalità dei cultori) che andava via via riportando alla luce. Frattanto, nel 1964, per la rinomata collana discografica Das Alte Werk della Telefunken, aveva realizzato una selezione di venti canti dal codice dei Carmina Burana (vedi box qui accanto) una prima assoluta a cui seguirono diverse altre prime nel novero degli oltre cinquanta dischi prodotti in tutto l’arco della sua fortunata carriera. Quell’inci-

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sione svelò al pubblico dei cultori di musica classica un paesaggio sonoro mai udito in precedenza. In una magica commistione di sapore arcaicizzante, si ascoltavano per la prima volta armonie, colori strumentali, modi espressivi e procedimenti stilistici occidentali e orientali vivificare le essenziali e nude linee melodiche dei celebri carmi goliardici mediolatini. L’arpa e l’organetto del mezzosoprano Andrea von Ramm; il tamburino del tenore Willard Cobb; la ribeca, la viella e il rabab di Sterling Scott Jones; il liuto, la citola, il salterio, la bombarda, il trombone e il tamburello di Thomas Binkley conquistarono gli ascoltatori: Carmina Burana riscosse un successo immediato guadagnando allo Studio der Frühen Musik fama e credito universali e incondizionati. Erano i primi vagiti di quella maniera che, una volta divenuta adulta, passò alla storia come Arabic style. Gli anni successivi videro Binkley consolidare vieppiú la propria posizione di autentico leader carismatico nel panorama della musica medievale. Oltre a percorrere una luminosa carriera concertistica e discografica (numerose incisioni del complesso furono insignite dei piú prestigiosi riconoscimenti, come l’Edison Award di Amsterdam, il Grand Prix du Disque di Parigi, il Deutscher Schallplattenpreis di Baden Baden e il Preis der Deutscher Schallplattenkritik di Berlino), ebbe modo di promuovere la sua dottrina anche sul piano teorico in alcuni scritti (principalmente nell’articolo sull’interpretazione della monodia medievale, Zur Aufführungspraxis der einstimmigen Musik des Mittelalters-

ein Werkstattbericht, pubblicato nel 1977 nel Basler Jahrbuch für Historische Musikpraxis), ma, soprattutto, attraverso un’importante attività didattica svolta a Basilea (dal 1973 al 1977), alla Schola Cantorum Basiliensis, e successivamente a Palo Alto, California (nel 1977 e nel 1979), come visiting professor alla Stanford University, conseguendo in ultimo la consacrazione accademica a Bloomington (nel 1979) con la fondazione dell’Early Music Institute presso la School of Music dell’Indiana University, che diresse fino al 1995, anno della prematura scomparsa.

Emuli e discepoli

Binkley non agí quale unico attore nella vicenda degli esordi, e oltre, della musica medievale: René Clemencic, coprotagonista e suo grande emulo, non gli fu tanto da meno quanto a fama e prestigio, e una troppo breve parabola esistenziale non impedí a David Munrow di imporsi come uno dei piú brillanti talenti della sua generazione, per menzionarne soltanto due. Nessun complesso, tuttavia, riuscí a catalizzare l’interesse e il favore di cultori, critici, musicologi e musicisti come lo Studio der Frühen Musik. Non pochi discepoli di Binkley, per esempio, provenienti in particolare dalla Schola Cantorum Basiliensis, divennero nel torno di pochi anni interpreti affermati, primi fra tutti Benjamin Bagby e Barbara Thornton, fondatori, nel 1977, del pluripremiato ensemble Sequentia. Gli ultimi vent’anni del secolo appena trascorso non presentano avvenimenti particolarmente degni

I canti di un convento bavarese Carmina Burana è il nome attribuito a una famosa raccolta di carmi latini e in minor parte tedeschi, destinati al canto. È uno dei fiori della letteratura medievale tedesca. Il manoscritto proviene dal convento bavarese di Benediktbeuern (donde il nome) e lo si attribuisce all’ambiente goliardico e dei clerici vaganti dei primi del Duecento. La tematica, assai varia, tratta di corruzione dei costumi, contese religiose (con punte aspramente anticlericali), vicende politiche, amori mondani, cantati, questi, sul modello degli elegiaci latini e non immuni dall’influsso del Minnesang: ad accenti

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di ascetica rinuncia e di meditazione morale si alternano esaltati e splendidi inni alla donna, al vino e alla giovinezza che fugge. Di una scelta di Carmina Burana si è servito Carl Orff per la cantata scenica che porta lo stesso titolo, rappresentata per la prima volta a Francoforte nel 1937. L’esaltazione delle gioie della vita, l’intonazione sensuale che predominano nei testi forniscono a Orff lo spunto per una musica improntata a un acceso vitalismo, che si manifesta soprattutto nel gusto per un’insistita iterazione ritmica.

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In alto la Ruota della Fortuna, miniatura tratta dal Codex Buranus o Codex Latinus Monacensis, la raccolta di componimenti poetici religiosi e profani rinvenuta nell’abbazia di Benediktbeuern (S. Benedetto) in Baviera e meglio nota come Carmina Burana. 1225 circa. Monaco, Biblioteca Statale.

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immaginario la musica Discografia scelta di Thomas Binkley U 1964, Carmina Burana. 20 Lieder aus der

Originalhandschrift um 1300, Lp Telefunken. Das Alte Werk. AWT/SAWT 9 455-A [rist. 1987, CD Teldec. Das Alte Werk. 8.43 775 ZS] U 1966, Minnesang und Spruchdichtung um 1200-1320, Lp Telefunken. Das Alte Werk. SAWT 9 487-A U 1966, Secular music circa 1300, Lp Telefunken. Das Alte Werk. SAWT 9 504-A [rist. 1998, CD Teldec. Das Alte Werke. 3984-21 709-2] U 1967, Carmina Burana. 13 Lieder nach der Handschrift aus Benediktbeuern um 1300, Lp Telefunken. Das Alte Werk. SAWT 9 522-A [rist. 1988, CD Teldec. Das Alte Werk. 8.44 012 ZS] U 1968, Carmina Burana. Lieder aus der Originalhandschrift, 2Lp Telefunken. Das Alte Werk. 6.35319 EK [ed. in cofanetto dei due precedenti; rist. 1994, 2 CD Teldec. Das Alte Werke. 4509-95 521-2] U 1970, Chansons der Troubadours. Lieder und Spielmusik aus dem 12 Jahrhundert, Lp Telefunken. Das Alte Werk. SAWT 9 567-B U 1972, Roman de Fauvel, Lp EMI Reflexe. IC 063-30 103 [rist. 1991, CD EMI Reflexe. 555-7 63 430-2] U 1973, Camino de Santiago I. Eine pilgerstrasse Navarra/ Castilla, Lp EMI Reflexe. IC 063-30 107

Copertine di alcune incisioni realizzate da Thomas Binkley con lo Studio der Frühen Musik.

di nota. La fortuna dei pionieri e dei principali gruppi musicali degli anni Settanta, sostenuta dall’industria del disco (proprio in quel periodo in grande e continua espansione) soprattutto attraverso un interessato crisma di «autenticità» con troppa disinvoltura conferito alle esecuzioni proprio dalle stesse case discografiche (con l’avallo della critica), ha costituito una sorta di innesco di un’autentica reazione a catena, liberando una pletora di epigoni, tutti – a prestar fede ai profili professionali stilati nei libretti allegati ai dischi – regolarmente e rigorosamente «specializzati».

La filosofia di Binkley

Il lascito ideologico e artistico di Binkley, mantenutosi sostanzialmente intatto nel tempo, si può compendiare in due proposizioni paradigmatiche. Per quel che concerne la prima, in una miscellanea di saggi curata da Tess Knighton e David Fallows, Companion to Medieval and Renaissance Music (Schirmer

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U 1973, Camino de Santiago II. Eine pilgerstrasse León/

Galicia, Lp EMI Reflexe. IC 063-30 108 U 1973, Bernart de Ventadorn: Chansons d’amour-Martim Codax: Canciones de amigo, Lp EMI Reflexe. IC 063-30 118 U 1974, Chansons der Trouvères, Lp Telefunken. Das Alte Werk. Teldec. 6.41 275 AW U 1974, Estampie. Instrumentalmusik des Mittelalters, Lp EMI Reflexe. IC 063-30 122 U 1974, Peter Abelard, Lp EMI Reflexe. IC 063-30 123 U 1975, Chansons der Spilleute, Lp Telefunken. Das Alte Werk. Teldec. 6.41 928 AW U 1976, Planctus, Lp EMI Reflexe. IC 063-30 129 U 1976, L’Agonie du Languedoc, Lp EMI Reflexe. IC 06330 132 U 1976, Vox humana. Vokalmusik aus dem Mittelalter, Lp EMI Reflexe. IC 069-46 401 [rist. 1989, CD EMI Reflexe. 555-7 63 148-2] U 1978, Musik des Mittelalters, 2 Lp Telefunken. Das Alte Werk. Teldec. 6.35 412 AW U 1978, Ludi Sancti Nicolai. Die Wunder des heiligen Nikolaus, Lp EMI Reflexe. 065-30 940 U 1980, Cantigas de Santa Maria, Lp Deutsche Harmonia Mundi (EMI). 1C 065-99 898 [rist. 1992, CD

Books, New York 1992), nel contributo del musicista, dal titolo piuttosto eloquente, The work is not the performance (L’opera non è la performance), si legge tra l’altro: «La partitura è una guida o almeno un punto di partenza per l’interpretazione. E ciò, alla fine, conduce infine a un evento sonoro, a una trasformazione dell’evento visivo o forse, in molti casi, a una parafrasi sonora del documento visivo. Il documento non è il suono». Riguardo alla seconda, risulta esemplare l’apodittica affermazione riportata nelle note di copertina di un LP interamente dedicato ai trovatori dei secoli XII e XIII, Chansons der Troubadours, che lo Studio der Frühen Musik aveva inciso per la Telefunken nel 1970: «L’influenza dell’Islam sulla cultura europea tra il X e il XIII secolo ha, sulla musica, un peso non inferiore a quello esercitato sulla poesia». Alla luce di simili premesse, l’andamento del fenomeno «musica medievale» sino ai nostri giorni

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Deutsche Harmonia Mundi (BMG). GD 77 242 QH] U 1982, Minnesänger und Spielleute, 2 Lp Telefunken.

Das Alte Werk. Teldec. 6.35 618 DX [rist. 1988, CD Teldec. Das Alte Werk. 8.44 015 ZS] U 1983, Das grosse Passionsspiel. Ms. Carmina Burana (13 Jh.), 2 Lp Deutsche Harmonia Mundi (EMI). Documenta. 165- 16-9507/8-3 [rist. 1999, Anonymous Carmina burana. 13th-cent play, 2 CD Deutsche Harmonia Mundi (BMG). 305472 77 689-2] U 1983, The Greater passion play from Carmina Burana, 2 Lp Focus. 831 U 1985, Troubadours-Trouvères-Minstrels, 2 CD Teldec. Das Alte Werke. 4509-97 938 U 1987, Troubadours & Trouvères, CD Teldec. Das Alte Werke. 8.35 519 ZA U 1987, Adam de la Halle (fl. 1280): Le Jeu de Robin et Marion, CD Focus. 913 U 1991, Laude. Medieval Italian Spiritual Songs, CD Focus. 912 U 1991, Hildegard of Bingen (1098-1179): The Lauds of Saint Ursula, CD Focus. 911 U 1994, Chanterai por mon coraige, CD Teldec. Das Alte Werke. 4509-95 073-2

mostra chiaramente come la lezione fondamentale che pone la produzione monodica del Basso Medioevo quale campo franco e spazio ideale di improbabili ripristini di stampo storicistico rimane a tutt’oggi niente affatto scalfita, laddove, all’opposto, la tradizione della musica colta d’Occidente impone l’assoluta inviolabilità del testo originale.

Echi e contaminazioni

L’Arabic style, invece, contaminato da altrettanto improbabili innesti operati dall’eterogenea costellazione di formazioni musicali attive a partire dagli anni Ottanta, ha finito col tramutarsi in un ibrido standardizzato e globalizzato che, in obbedienza a un complesso di norme consuetudinarie, per cosí dire, ripete meccanicamente se stesso, un pot pourri che non potrebbe trovare migliore rappresentazione della seguente recensione apparsa alcuni anni addietro (settembre 2003) sul mensile Musica: «Prosegue la pubblicazione delle Cantigas de Sancta

Maria dirette da Eduardo Paniagua. […] Ison bizantineggianti e bordoni popolari, metrica antica e ritmi rock, organa derivanti da Ucbaldo e controcanti eterofonizzanti dal sapore folk. Un pizzico di new age, una buona manciata di filologia e tanta fantasiosa musicalità: questa è la semplice, efficace ricetta dei bravi artisti di Musica Antigua». In quella straordinaria riflessione sulla «leggibilità» del Medioevo, cioè sullo scabroso rapporto intercorrente tra noi e il testo (letterario) medievale, che è, propriamente, Leggere il Medio Evo di Paul Zumthor (Il Mulino, 1983), è scritto: «Nulla può veramente compensare la distanza cronologica che separa il medievalista dal suo oggetto. […] In me, da una parte, e dall’altra nell’oggetto al quale tende il mio desiderio, si confrontano due realtà storiche, irriducibili malgrado somiglianze speciose. […] Fino a prova esplicita in contrario, ogni analogia tra questo universo e il nostro deve essere considerata illusoria». F

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costume e società alluvioni

Il castigo Piogge torrenziali ed esondazioni costellarono anche i secoli del Medioevo, sconvolgendo a piú riprese il volto delle città e delle campagne e arrecando danni economici e sociali pesantissimi. Ma se le cause dei «diluvi» erano imputate alla punizione divina, ben chiare erano anche le responsabilità umane nella gestione del territorio. Nonché le possibili misure di prevenzione da mettere in atto

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l periodo compreso tra la fine di ottobre e la metà di novembre fu da sempre, in Italia e in Europa caratterizzato a tratti da spaventosi «diluvi» (come le cronache medievali li definiscono), causa di inondazioni, straripamenti di fiumi, morte e distruzione. Dal Mare del Nord al Mediterraneo, dalla Senna all’Arno, al Po e al Tevere, da quando i cronisti cominciarono a tramandarne la memoria, sono ovunque testimoniati, in particolari periodi caratterizzati da eccezionali congiunture climatiche, eventi altamente distruttivi. Tra le epoche piú infauste sotto questo aspetto ci furono sicuramente gli anni Trenta e Quaranta del Trecento quando l’Italia (la Pianura Padana nel 1331, l’alluvione di Firenze nel 1333, l’inondazione di Venezia del 1340, l’esondazione del Tevere nel 1345) e l’Europa intera (nel 1330 a Siviglia con la piena del Guadalquivir, nel 1331 col diluvio di 28 giorni a Cipro) furono sconvolte da una serie di inondazioni che ebbero come conseguenza la perdita del raccolto, la diminuzione delle risorse alimentari, l’indebolimento della popolazione, preparando cosí il terreno alla rovinosa epidemia di peste del 1348. Ugualmente caratterizzato dagli sconvolgimenti climatici fu l’ultimo quarto del XIV secolo, con la spaventosa piena del Po del 1378 e il «diluvio» che, nel 1385, sommerse molte delle principali città italiane (tra cui Il Diluvio Universale, olio su tela di Antonio Carracci (15831618). 1616 circa. Parigi, Museo del Louvre. Come nel caso dell’evento biblico, le alluvioni, soprattutto a Roma, vennero spesso interpretate come segni della volontà divina.


dell’acqua

di Maria Paola Zanoboni


costume e società alluvioni Firenze, Roma, Verona). Contemporaneamente, il Po allagò vasti territori, coprendo i campi di sabbia e di ghiaia, distruggendo il raccolto, abbattendo gli alberi, uccidendo uomini e animali. A Ferrara, gravata anche da una pesante fiscalità, la carestia provocò a sua volta una rivolta popolare che costrinse il marchese Nicolò d’Este a consegnare la massima autorità comunale alla folla inferocita.

Scongiurare il «castigo di Dio»

Mentre le cause della maggior parte delle catastrofi rimasero durante il Medioevo piuttosto misteriose, e i cataclismi furono spesso imputati alla punizione divina, una ben maggiore consapevolezza caratterizzava invece l’origine delle alluvioni e la possibilità di prevenire i fenomeni distruttivi che ne derivavano. Se, infatti, le eccessive piogge che ne erano il motivo scatenante potevano ancora una volta essere imputabili al castigo divino, assai chiara appariva però la coscienza presso i contemporanei degli errori umani nella gestione del territorio e delle possibili misure di prevenzione. La pulitura periodica dell’alveo di fiumi, rogge, navigli e corsi d’acqua costituiva il primo rimedio da approntare a scopo preventivo, come ci fanno sapere innumerevoli gride dell’autorità pubblica, un po’ in tutte le città italiane, a partire dal Duecento almeno e per i secoli successivi.

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Altra fondamentale causa scatenante le inondazioni, riconosciuta universalmente dai contemporanei, era la presenza di strutture industriali (mulini, gualchiere – impianti a trazione idraulica per la follatura dei panni –, folle da carta, peste da riso e da vetro, seghe idrauliche, mulini per la rifinitura delle armi) che costellavano la maggior parte dei corsi d’acqua delle città medioevali italiane, e che, per motivi logistici, ma anche di sicurezza – dato il grande valore di questi impianti e delle merci ivi contenute –, si tendeva a costruire nei pressi della città, se non addirittura all’interno delle mura cittadine (che talvolta venivano ampliate fino ad abbracciare le strutture industriali). Piena coscienza di questo fenomeno aveva Giovanni Villani che attribuí la colpa maggiore della rovinosa alluvione dell’Arno del 4 novembre 1333 proprio all’innalzamento delle chiuse per i mulini e per le gualchiere, che l’autorità pubblica non era stata in grado di impedire (vedi box a p. 58). Anche la rovinosa alluvione dell’ottobre 1269 viene attribuita dal Villani a una ragione ben precisa: oltre al protrarsi delle piogge che avevano ingrossato tutti i fiumi d’Italia, fu la gran quantità di legname che in quel momento si trovava sull’Arno (forse per incuria o forse in seguito alle piogge) a formare un blocco all’altezza del ponte di S. Trinita, tanto che «l’acqua del fiume ringorgava sí


A destra miniatura raffigurante operazioni di rilievo e misurazione del corso di un fiume, dal Traité d’Arpentage, manuale di topografia di Bertran Boysset (1350 circa-1415). XIV sec. Carpentras, Bibliothèque Inguimbertine. Nella pagina accanto ricostruzione della sega idraulica disegnata nel XIII sec. da Villard de Honnecourt. La costruzione di simili impianti in prossimità dei fiumi determinava alterazioni dell’equilibrio ambientale che spesso contribuirono alle esondazioni dei corsi d’acqua, come accadde piú volte, per esempio, a Firenze.

adietro che si spandea per la città, onde molte persone annegarono e molte case rovinarono». Il crollo del ponte fece cessare immediatamente la piena.

Istituzioni preposte alla prevenzione

Talvolta, come avvenne a Firenze, l’autorità pubblica si fece carico dell’onere del controllo del territorio e delle acque attraverso magistrature apposite, costituite fin dall’inizio del Trecento, che portarono a una gestione centralizzata delle misure preventive che vide il suo apice nel Cinquecento con la legislazione di Cosimo I. Lo stesso accadde a Venezia dove il controllo costante e la manutenzione del litorale, la cui conservazione era di vitale importanza per la sopravvivenza della città, furono affidati, fin dal Duecento, a magistrature pubbliche. Altre volte, invece, non erano le istituzioni centrali a sovrintendere al controllo delle acque, ma associazioni degli abitanti di una determinata zona. Cosí in Alsazia, nel 1404, un gruppo di privati cittadini stabilí un regolamento per la regimentazione di un fiume, in cui erano elencati diritti e doveri degli aderenti, nonché dettaglia-

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te norme per la costruzione di dighe e canali, e per le periodiche ispezioni; venivano poi elencate le ammende in caso di inadempienza e regolamentati i procedimenti giudiziari in caso di liti. Questa visione concreta e realistica delle cause scatenanti le alluvioni fa eccezione soltanto per il Tevere, le cui inondazioni, ancora nel XV secolo, forse per motivi legati alla sua storia di fiume pressoché «sacro» e ricco di leggende, venivano volentieri associate, persino da persone raziocinanti come gli ambasciatori o i funzionari pubblici, sia all’idea della punizione divina, sia alla comparsa di serpenti, draghi e creature mostruose. E questo nonostante i razionali provvedimenti preventivi presi a partire dalla metà del Quattrocento.

Firenze e il bacino dell’Arno

La conformazione geologica del bacino dell’Arno, caratterizzata dalla forte inclinazione dell’alveo, dalla sua notevole impermeabilità, dalla tendenza degli affluenti a confluire a cuneo anziché ad angolo retto, correndo quasi parallelamente al fiume e ostacolandone cosí il

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costume e società alluvioni 4 novembre

Una data maledetta Il disastro che colpí Firenze il 4 novembre 1333 viene ricordato da molti cronisti coevi (Antonio Pucci, Domenico Lenzi, Francesco e Alessio Baldovinetti) tra i quali Giovanni Villani che cosí lo descrive: dopo una pioggia torrenziale di 4 giorni e 4 notti «che parevano aperte le cateratte del cielo», con lampi e tuoni spaventosi, tanto che la popolazione per la paura faceva risuonare in continuazione le campane delle chiese, «fuggendo le genti di casa in casa e di tetto in tetto, facendo ponti da casa a casa, ond’era sí grande il romore e ‘l tumulto, ch’apena si potea udire il suono del tuono. Per la detta pioggia il fiume d’Arno crebbe in tanta abondanza d’acqua, che prima (…) sommerse molto del piano di Casentino, e poi tutto il piano d’Arezzo, del Valdarno di sopra, per modo che tutto il coperse e scorse d’acqua», distruggendo il raccolto, abbattendo e divellendo gli alberi, distruggendo mulini e gualchiere, finché «giuovedí a nona a dí IIII di novembre l’Arno giunse sí grosso a la città di Firenze, ch’elli coperse tutto il piano di San Salvi e di Bisarno fuori di suo corso», raggiungendo un’altezza compresa tra i 3,5 e i 6 m, abbattendo alcune porte e un tratto delle mura della città (che in un primo tempo avevano fatto da barriera) e riversandovi una tale quantità d’acqua che il Duomo fu allagato fin sopra l’altare, e ugualmente Santa Croce. Nel palazzo del popolo l’acqua arrivò al primo piano, nel palazzo comunale toccò i 3,5 m; fu abbattuta la torre di guardia delle mura e crollarono completamente il ponte Vecchio con le sue botteghe e il ponte di Santa Trinita. Arnesi e suppellettili domestiche, merci, botti piene di vino, forzieri galleggiavano per la città, i Fiorentini che non erano riusciti a fuggire si arrampicavano sui tetti delle case, molti fra i poveri che abitavano la sponda sinistra del fiume annegarono. Solo il crollo di un altro tratto di mura, davanti alla chiesa di Ognissanti, permise all’acqua, che aveva attraversato la città accumulandosi al suo centro, di riversarsi di nuovo nell’Arno.

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In alto la città di Firenze nella versione ottocentesca della Carta della Catena (l’originale è andato perduto) del pittore e miniatore Francesco di Lorenzo Rosselli, (1445 circa-ante 1527). Firenze, Museo «Firenze com’era». A sinistra veduta di una città inondata. XVI sec. Firenze, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi.

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drenaggio laterale, con la conseguente formazione di aree paludose, insieme al regime irregolare delle piogge (concentrate in autunno e in primavera), ha modificato, col passare dei secoli, il percorso del fiume, creando nuove ramificazioni e inondando assai spesso il territorio circostante. Le notizie di alluvioni e di continue modifiche spontanee del corso del fiume risalgono a epoche assai remote. Secondo alcuni storici l’impaludamento e le inondazioni avrebbero determinato addirittura l’estinzione della vita urbana in Firenze tra il V e il IX secolo e condotto alla cancellazione di parte delle tracce della centuriazione romana. A partire dalla prima età comunale, la crescita di Firenze su entrambe le sponde dell’Arno, l’uso di canali e di altre derivazioni delle acque a scopo difensivo e il taglio dei boschi lungo i rilievi appenninici, contribuirono a rendere piú frequenti e piú gravi le inondazioni. Ad aggravare la situazione contribuirono non poco le cosiddette «pescaie», strutture di sbarramento della corrente che potevano interessare una parte o l’intera larghezza dell’alveo. Costruite allo scopo di sfruttare la forza motrice dell’acqua anche nei periodi di magra (mediante canali che accumulavano e dirottavano l’acqua verso mulini e gualchiere), contribuivano però a intralciarne il deflusso quando le piogge gonfiavano il fiume. Numerosissimi sono gli straripamenti dell’Arno ri-

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costume e società alluvioni cordati nei documenti e nelle cronache tra il XII e l’inizio del XVI secolo (negli anni 1117, 1269, 1282, 1284, 1288, 1333, 1334, 1335, 1345, 1362, 1379, 1380, 1406, 1434, 1456, 1465, 1490, 1491, 1515). Uno dei principali fu quello verificatosi nel 1333 (per ironia della sorte proprio il 4 novembre, analogamente all’alluvione del 1966), dopo una lunga estate calda che aveva reso asciutto e impermeabile il suolo, e, non a caso, in un periodo in cui alla crescita del tessuto urbano si affiancavano lo sfruttamento delle campagne dovuto alla pressione demografica, e i progressivi disboscamenti sulle alture circostanti il fiume (vedi box a p. 58).

Un paesaggio sconvolto

Alla terribile esondazione fece seguito il lento deflusso delle acque fangose, che lasciò un paesaggio desolato e la città, privata della cinta muraria difensiva, rimase esposta a ogni pericolo. Almeno 300 furono le vittime e i danni – secondo Giovanni Villani – raggiunsero i 150 000 fiorini, in seguito alla distruzione di mulini, gualchiere, e botteghe, al deterioramento delle merci e alla perdita delle colture. Il prezzo del pane e della farina aumentò per i danni a forni e mulini, il sale e l’acqua potabile scarseggiavano, mentre gli ambienti a piano terra e sotterranei rimasero per mesi pieni di fango. La furia del fiume colpí anche le campagne e i centri minori, distruggendo i ponti e allagando ogni cosa, e tutti gli affluenti dell’Arno strariparono. Tornata la normalità, gli organi collegiali cittadini dimostrarono immediatamente di avere piena consapevolezza di quelle che erano state le reali cause del disastro: nella prima seduta consiliare svoltasi dopo la catastrofe si riconobbe immediatamente la responsabilità dell’accaduto nella cattiva condizione delle chiuse dei mulini da grano e delle gualchiere, che contribuivano all’innalzamento dell’acqua ostruendo l’alveo. Il problema era già stato sollevato, del resto, tre anni prima, quando i governanti di Firenze, il 9 agosto 1330, avevano vietato, con la minaccia di aspre pene pecuniarie, la costruzione e il mantenimento di mulini e di chiuse (pescaie) vicino all’ingresso della città, temendo il pericolo che avrebbero potuto rappresentare in caso di forti piogge. Ma la volontà legislativa era rimasta lettera morta di fronte alle esigenze dell’economia cittadina, e in particolare a quelle degli imprenditori lanieri che sull’Arno alle porte di Firenze avevano i loro principali impianti per la follatura dei panni. Dopo la catastrofe, dunque, il primo dei provvedi-

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menti presi dal governo cittadino fu nuovamente quello di proibire l’edificazione di infrastrutture idrauliche per alcuni chilometri a monte e a valle di Firenze, questa volta però con sanzioni molto piú rigorose: dalle multe pecuniarie fino al taglio della mano e della testa. Ciononostante, negli anni successivi l’autorità pubblica, pressata dalle esigenze dell’economia, fu costretta a moltiplicare le deroghe, favorendo il ripristino della situazione precedente. In ogni caso, nel periodo successivo all’alluvione, i governanti presero una serie di misure per cercare di risollevare le sorti della città: la ricostruzione delle fortificazioni, degli edifici, dei ponti, e delle strade distrutti; l’allestimento di una rete di ponti (in legno) di emerStemma dell’Arte della Lana in maiolica smaltata di Luca della Robbia. 1487 circa. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo. Leonardo da Vinci ipotizzò di ricorrere alla ricca e potente corporazione per finanziare il suo progetto (mai realizzato) di rettifica del corso dell’Arno.

genza sull’Arno; l’organizzazione del rifornimento dei generi alimentari, favorendone l’importazione con lo sgravio dalle imposte; una remissione o un differimento dal pagamento delle tasse per tutti coloro che erano stati danneggiati dalla catastrofe; la realizzazione di un secondo mercato (presso Santo Spirito), al posto di quello di Oltrarno, al momento impraticabile. Il comune inoltre prestò ascolto alle richieste di indennizzo dei commercianti di Ponte Vecchio che avevano versato un canone d’affitto anticipato per tre anni per le botteghe che erano state divorate dalle furia del fiume. Nel 1347, nel tentativo di evitare nuove esondazioni, fu attuata una prima correzione del corso dell’Arno in città, mediante il restringimento dell’alveo e con la costruzione di nuovi argini consistenti in muraglioni difensivi; nel frattempo, ad aggravare la situazione era sopraggiunta una terribile carestia, che aveva colpito non solo Firenze, ma anche la Toscana e tutta l’Italia, come racconta il cronista Agnolo Gaddi, che afferma febbraio

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Leonardo da Vinci, carta dell’Arno e del Mugnone nel territorio immediatamente a ovest del centro urbano di Firenze. 1504. Windsor, The Royal Collection. La mappa, estremamente precisa e dettagliata, fu realizzata in vista dei possibili interventi volti a controllare l’alveo dei fiumi.

che nella città di Dante morirono, tra il maggio e il novembre di quell’anno, oltre 4000 persone, per la massima parte bambini. Altre opere di canalizzazione vennero effettuate tra il 1458 e il 1477 nel tratto compreso tra Firenze e Pisa. All’inizio del Cinquecento Leonardo vagheggiava una generale e razionale sistemazione dell’alveo del fiume, proponendosi di «dirizzar l’Arno di sotto e di sopra». Aveva calcolato i costi del progetto, (4 denari milanesi il braccio quadrato), i possibili introiti derivanti dai dazi (200 000 ducati annui) e i benefici: utilità per l’agricoltura ed eliminazione delle paludi con ambiente piú salubre (e la salubrità dell’ambiente era uno degli scopi che si era prefissato anche nel suo progetto urbanistico per Milano), vantaggi per il commercio e le manifatture (possibilità di alimentare gualchiere, cartiere, mulini per la rifinitura delle armi, seghe idrauliche, e mulini da seta idraulici in cui potessero lavorare fino a 100 donne).

Uno sponsor molto ricco

Sempre secondo gli intendimenti di Leonardo, sponsor del progetto avrebbe dovuto essere l’Arte della Lana, cioè la piú ricca e potente tra le corporazioni fiorentine, in grado, piú di ogni altra, di comprendere e valutare l’importanza economica dell’idea vinciana; in cambio i lanaioli avrebbero riscosso le entrate derivanti dall’operazione. Il disegno di Leonardo non venne però attuato, forse per l’assenza da parte del comune fiorentino di progetti generali preordinati di sistemazione dell’alveo del fiume nel contado, a differenza dei comuni di San Miniato o di Pisa, molto piú attivi in questo senso. San Miniato promosse fin dal Duecento le prime bonifiche nel piano sottostante la città, e nella medesima epoca Pisa cominciò la bonifica della pianura, curando al tempo stesso la navigabilità del fiume. Già nel Cinquecento gli esperti lanciavano avvertimenti sul pericolo di interventi indiscriminati sull’Arno senza la sistemazione dell’intero bacino. A partire dalla metà del XVI secolo furono in ogni caso attuati, per volontà dei Medici (Cosimo I, Francesco I e Ferdinando I), progetti imponenti per rettificare e rendere piú sicura la navigazione in determinati tratti del fiume. Il «taglio di Calcinaia», per esempio, accorciò l’Arno nel tratto di Calcinaia appunto, rendendolo maggiormente navigabile e guadagnando una notevole estensione di terreno per l’agricoltura. Nel 1561 venne effettuato un altro «taglio» per eliminare un gomito del fiume che ostacolava il percorso delle barche e aumentava i rischi di inondazione. Sempre nel Cinquecento fu scavato il «Canale dei Navicelli» (iniziato da Cosimo I nel 1560 e

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costume e società alluvioni A destra il Po da Colorno a Piacenza, carta di Smeraldo Smeraldi (1533-1634). 1605. Parma, Biblioteca Palatina di Parma, Palazzo della Pilotta. In basso l’inondazione del Tevere raffigurata su un piatto dipinto da Francesco Xanto Avelli. 1531. Milano, Castello Sforzesco, Civiche Raccolte d’Arte Applicata.

completato verso il 1576) per collegare Pisa e l’ultimo tratto dell’Arno con il porto di Livorno. Ma, in ogni caso, erano sempre interventi su brevi tratti, anche se di vitale importanza per i circuiti commerciali a livello regionale e subregionale.

Un fiume pieno di ostacoli

Recenti ricerche di climatologia storica hanno messo in evidenza come i mesi di maggiori probabilità di esondazione del Tevere fossero novembre e dicembre: non tanto e non solo, cioè, in corrispondenza del disgelo o delle maggiori precipitazioni, come succedeva per i fiumi dell’Italia settentrionale, ma quando le riserve sotterranee erano al massimo. A questo si aggiungeva, a Roma piú che altrove, la presenza di ostacoli come macerie di costruzioni, rovine di ponti antichi, mulini e strutture per incanalare l’acqua a scopo industriale, particolarmente numerose intorno all’Isola Tiberina, nonché cumuli di spazzatura, data l’usanza di gettare nel fiume ogni sorta di immondizia (fatto che dava origine, tra l’altro, anche a una vera e propria economia del recupero degli oggetti buttati nel Tevere, con la stipulazione di appositi contratti commerciali). Un altro motivo che favorí le inondazioni, soprattut-

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to durante il Cinquecento, fu la dilatazione del tessuto edilizio lungo le rive, con l’occupazione di molte aree in precedenza destinate a orti e vigneti. E proprio dal XVI secolo si cominciò a sviluppare una maggiore coscienza delle cause del problema e a elaborare progetti per risolverlo, progetti che partivano tutti dal principio di modificare il percorso del fiume o di coprirlo. I provvedimenti presi a partire dalla metà del Quattrocento dalle magistrature pontificie (in particolare da quelle di Nicolò V) comprendevano, in primo luogo, il divieto di gettare rifiuti nel fiume (se non nelle aree autorizzate), e l’obbligo della pulizia delle sponde almeno due volte all’anno, nonché della pulitura, dopo le inondazioni, degli spazi aperti. In secondo luogo la proibizione di occupare l’alveo con peschiere, costruzioni e sbarramenti di qualsiasi tipo (norma però abbondantemente trasgredita). Tra gli altri tentativi di prevenzione, va segnalata poi l’istituzione, negli anni Ottanta del Quattrocento, di una magistratura apposita – quella del Commissario del Tevere –, a cui era affidata la responsabilità della manutenzione delle sponde. Il denaro necessario ad assolvere l’incombenza veniva raccolto mediante l’imposizione di una tassa alle comunità che abitavano le rive, che erano tenute anche alla pulitura dei rispettivi tratti dopo le alluvioni.

Quando le fontane vomitarono acqua...

Gli straripamenti furono assai frequenti e numerosi, ma alcuni di essi si segnalarono in particolare per la loro imponenza e distruttività: quello del 1345, descritto con dovizia di particolari nelle sue reali e concrete cause

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e nelle sue conseguenze, e altri nell’ultimo quarto del XV secolo (8 gennaio 1476, 13 marzo 1488, dicembre 1495), per i quali, invece, le narrazioni sono molto piú fantasiose. Alla fine del 1345, dopo un’estate straordinariamente piovosa e un autunno in cui pareva «che le fontane de lo abisso» si fossero spalancate a vomitare acqua – racconta un cronista contemporaneo che doveva avere ben presenti le cause meteorologiche dell’alluvione – il giorno di Ognissanti il Tevere cominciò a crescere, finchè straripò allagando tutto il territorio intorno a Roma, risparmiando solo i sette colli. Continuò a piovere, e la piena durò cinque giorni. Soltanto dopo una settimana il fiume tornò nel suo alveo. In città furono completamente allagate l’area del Pantheon, la contrada di Sant’Angelo e quella limitrofa, il rione di Campo Marzio, il quartiere del Vaticano e quello di Trastevere, tanto che dai colli sembrava di vedere un lago grandissimo; la pianura, totalmente inondata, era praticabile soltanto in barca. Conseguenze del disastro furono la perdita del raccolto e della vendemmia, la moría del bestiame, la distruzione di case, mulini e impianti industriali. Assai realistica è la descrizione del «diluvio» dell’inizio di dicembre 1495, per il quale i contemporanei si soffermano in particolare sul reciproco soccorso prestatosi dagli alluvionati, soprattutto nell’approvvigionamento alimentare a coloro che erano bloccati ai piani alti delle abitazioni; sulla valutazione dei danni dovuta alla perdita di beni e mercanzie; sulla desolazione lasciata dal fiume al suo ritirarsi tra cumuli di rovine e di immondizie, animali putrefatti, edifici crollati e chie-

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costume e società alluvioni se in rovina, cadaveri galleggianti fuori dalle sepolture. Vengono ricordate le case e le chiese danneggiate, i personaggi che subirono danni e localizzate botteghe, fondaci e magazzini devastati. Un’inondazione ancora piú terribile sconvolse Roma nell’ottobre del 1530, e, come era spesso già accaduto in passato, venne interpretata come castigo divino e infarcita di apparizioni di mostri, anche se non mancano notizie sui danni materiali (perdita di derrate alimentari, crolli). I cronisti sono comunque unanimi nel paragonare le devastazioni del fiume a quelle del sacco di Roma da parte dei Lanzichenecchi, di appena tre anni prima (1527), considerandole uguali, o anche superiori.

Il prezzo dell’agricoltura intensiva

Nella Pianura Padana la continua ricerca di terre da coltivare, specie in periodi di crescita demografica, fece sí che l’area di espansione naturale del fiume venisse sempre piú ristretta, recuperando come suoli arabili terreni soggetti a esondazioni, ma resi fertili proprio dalle alluvioni. A causa del progressivo restringimento dell’alveo, però, le piene periodiche divennero sempre piú violente e devastanti. Contemporaneamente, soprattutto nei secoli XII e XIII, la rapida scomparsa del manto forestale dovuta ai disboscamenti per mettere a coltura i terreni, contribuí a ridurre l’assorbimento dell’acqua piovana. Gli statuti comunali delle città emiliane in quest’epoca, infatti, favorivano l’abbattimento dei boschi per fare spazio alla cerealicoltura, mentre le esigenze di legna da ardere e di materiale da costruzione diedero una spinta decisiva in questo senso. Alla metà del Cinquecento la situazione era ormai tale che il geografo bolognese Leandro Alberti notava come, mentre anticamente il Po entrava in molte zone paludose, moderando cosí l’impeto delle piene, alla sua epoca, bonificata la maggior parte delle paludi, e innalzati argini di fortificazione, «non havendo luogo di allargarsi, corre tutto furioso in giú et pieno di acqua, et ove può rovinare qualche argine, o superarlo, cosí fa, et inunda i paesi». Le prime norme contro il disboscamento nella Pianura Padana furono emanate in area veneta nel 1476, ma rimasero in buona parte inascoltate, con conseguenze devastanti soprattutto nel secolo successivo. I contemporanei erano pienamente coscienti anche delle trasformazioni idrografiche createsi tra il XV e il XVI secolo nell’estuario padano, e della preminenza che in pochi decenni il Po aveva acquisito sugli altri fiumi collegati, dei quali provocava esondazioni e inibiva gli scoli.

forte piena del Po nel 1327, nella primavera del 1328 il rapido disgelo, seguito da abbondanti piogge provocò l’esondazione del Reno nel Bolognese, mentre nell’ottobre del 1328, dopo sei giorni e sei notti di precipitazioni ininterrotte, molti fiumi strariparono, e il Po inondò il Cremonese, il Mantovano e i territori di Ferrara e Bologna. L’acqua superò i 6 m di altezza e distrusse molti villaggi. Il 27 ottobre 1328 il fiume giunse ad allagare la piazza del Duomo di Ferrara. Nell’ottobre del 1331, dopo 28 giorni di pioggia incessante, il Po ruppe in piú punti gli argini a Pavia, Piacenza, Cremona, nel Ferrarese e nel Mantovano, causando, secondo Giovanni Villani, la morte di oltre 10 000 persone. Numerose case crollarono, annegò gran parte del bestiame, e molti si salvarono rifugiandosi sugli alberi , mangiando cortecce e fronde per sopravvivere. Dopo alcuni decenni di tregua, i fenomeni calamitosi ripresero nella seconda metà del Trecento, con una serie di disgrazie a brevissima distanza l’una dall’altra, che colpirono soprattutto Ferrara. Nel novembre 1362 l’argine sinistro del fiume cedette in piú punti, inondando ancora una (continua a p. 68) Paesaggio con strada inondata e mulino a vento. Dipinto su lastra di rame di Jan Brueghel il Vecchio (1568-1625). 1614. Monaco, Alte Pinakothek.

Sei giorni di pioggia in Lombardia

Anche per il Po un momento cruciale fu quello compreso tra il 1327 e il 1331, in corrispondenza con un periodo di sensibile deterioramento climatico estivo che investí tutta l’Europa, dando origine ovunque a una sequenza incredibile di disastri e distruzioni. Dopo una

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olanda e paesi bassi

Alla mercé del Mare del Nord Durante il Medioevo, in mancanza di dighe abbastanza alte per proteggere il litorale, i Paesi Bassi e l’Olanda erano continuamente preda di devastanti mareggiate che contribuivano ad aggravare le piene dei fiumi e dei canali respingendo verso l’interno l’acqua fluviale e devastando completamente le coste del Mare del Nord, fino a mutarne, in molti punti, il profilo. Le testimonianze abbondano fin dal IX secolo: una delle prime riguarda la mareggiata del 26 dicembre 838, che sommerse completamente una vasta parte della Frisia e dell’Olanda, mietendo quasi 2500 vittime. Dall’XI secolo in poi i racconti di eventi altamente distruttivi in quest’area sono innumerevoli: il 29 settembre 1014 in Zelanda, il 2 novembre 1024 sulle coste fiamminghe, il 1 ottobre 1134 quando lo Zwin si aprí come un canale, mettendo in comunicazione Bruges col Mare del Nord,

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distruggendo case, chiese e persino castelli, e mietendo migliaia di vittime. Nel 1135 e nel 1164 varie alluvioni distrussero le dighe lungo la Mosa, ostruendo con i detriti la bocca di uno dei rami del Reno nell’Olanda settentrionale. Il 17 febbraio 1164 e il 1 novembre 1170 vennero allagate ampie zone dello Zuiderzee e dell’Olanda settentrionale; la seconda inondazione durò tre giorni: l’acqua raggiunse la cima delle colline, distruggendo i villaggi e provocando migliaia di morti. L’alluvione di Ognissanti del 1170 distrusse completamente anche Utrecht, mentre all’inizio di gennaio del 1178 le Fiandre, la Frisia e l’Olanda vennero nuovamente devastate. L’effetto di queste mareggiate fu l’aprirsi di un canale proveniente dal Mare del Nord che segnò l’inizio dello sviluppo dello Zuiderzee salmastro, al posto del precedente lago di acqua dolce. Durante il XII secolo, insomma, le mareggiate mutarono profondamente l’assetto costiero

di quest’area, e parzialmente anche l’interno. I fenomeni catastrofici del XIII secolo completarono l’opera: con l’alluvione disastrosa di Santa Lucia del 1282 il mare irruppe di nuovo nello Zuiderzee dandogli un assetto di mare interno con dimensioni che mantenne fino al XV secolo. Altre inondazioni avevano costellato tutto il XIII secolo (1212, 1214, 1219, 1248, 1249, 1280, 1282). Tra la fine del Duecento e la prima metà del Trecento la costruzione di numerose dighe faceva crescere il livello del mare nei periodi di mareggiata, dato che l’acqua non trovava piú sbocco nelle pianure alluvionali, per cui gli sbarramenti sempre piú frequentemente innalzati venivano altrettanto frequentemente distrutti. Le numerose e catastrofiche alluvioni verificatesi in quest’epoca risultarono perciò ancora piú distruttive, e altrettanto quelle verificatesi nel Quattrocento, nel Cinquecento e nel Seicento.

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costume e societĂ alluvioni Ricostruzione grafica del ponte di Notre-Dame, a Parigi, nel XV sec. Nel 1499 la struttura crollò in seguito ai danni riportati due anni prima in occasione di un’alluvione. Come Ponte Vecchio a Firenze, ospitava numerosi edifici adibiti ad abitazioni e botteghe.

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Il ponte di Notre Dame: un crollo annunciato I ponti parigini fungevano non soltanto da indispensabili arterie di traffico, ma anche da centri di commercio e da punti di insediamento dei mulini idraulici. Uno dei principali, quello di Notre-Dame, crollò nell’ottobre del 1499 in seguito ai danni provocati dall’alluvione del 1497 che non erano stati riparati, nonostante l’allerta lanciata a piú riprese dai maestri carpentieri al servizio dell’amministrazione cittadina, piú volte interpellati sullo stato del manufatto. Sul ponte – il cui aspetto non doveva essere dissimile da quello di Ponte Vecchio a Firenze – si trovavano oltre 65 edifici a piú piani che si disintegrarono in una nuvola di polvere al momento del crollo, provocando la morte di numerose persone, sebbene la zona fosse stata fatta sgombrare in tutta fretta grazie a un capomastro carpentiere che aveva dato l’allarme. Gli abitanti del ponte sporsero denuncia contro l’amministrazione cittadina, per cui venne aperta un’inchiesta per ordine del re Luigi XII che portò alla condanna del sovrintendente all’amministrazione e dei suoi quattro collaboratori ai quali venne comminata una multa ingentissima, il cui importo sarebbe servito a curare i feriti e a celebrare messe in suffragio dei morti. I cinque responsabili però non riuscirono a reperire il denaro e furono condannati all’ergastolo.

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costume e società alluvioni L’Inverno (Il Diluvio), particolare. Olio su tela di Nicolas Poussin (1594-1665). 1660-1664. Parigi, Museo del Louvre.

Le forti maree, incrementate dalla pioggia abbondante e dalla direzione del vento (soprattutto lo scirocco che spinge l’acqua del mare nella laguna), mettevano in pericolo, allora come oggi, l’esistenza di Venezia. E la coscienza del miracolo e della protezione divina come soli mezzi atti a preservarla attraversa nei secoli tutta la storia della città. Le prime notizie di fenomeni eccezionali di questo genere risalgono già al IX secolo; all’inizio del XII il lido di Malamocco fu parzialmente inghiottito dall’acqua, tanto che la sede episcopale con i suoi tesori fu trasferita a Chioggia.

Una città in balia del mare

volta la città, spingendo alla fuga parte degli abitanti e costringendo in casa per settimane quelli che erano rimasti, mentre tutto il territorio circostante rimase a lungo inondato. Un episodio simile nella stessa zona, si verificò il 1 giugno 1365, devastando ancora una volta Ferrara, che nel luglio dell’anno successivo, per colmo di sfortuna, venne anche invasa dalle cavallette. Il 20 aprile 1369 un’altra piena devastò Ferrara, lasciandola allagata fino alla fine di giugno, distruggendo completamente il raccolto e causando un aumento vertiginoso del prezzo del grano, che fu piú che raddoppiato. Il 1378 e il 1385 furono caratterizzati dalle rovinose alluvioni a cui si è già accennato, e ancora nel settembre 1393 il Po allagò nuovamente Ferrara. Il XV secolo, invece, fu caratterizzato, oltre che da una migliore congiuntura climatica, dalle opere di bonifica e di rifacimento degli argini avviate dagli Estensi fin dalla prima metà del Quattrocento, anche se alcune piene rovinose si registrarono nel 1437, nel 1440, nel 1467 e nel 1470 quando il duca Borso d’Este, di ritorno da un’azione militare a Parma, trovò Ferrara allagata. I cittadini questa volta reagirono continuando a sbrigare le proprie occupazioni su barche e zattere. Nuovi disastri piú gravi investirono il Ferrarese nell’ultima parte del secolo: nel 1474, nel 1480, nel 1481 e nel 1494. Il 1481 soprattutto fu particolarmente sfortunato, cosí come tutto l’ultimo decennio del secolo.

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Il 15 febbraio 1340, con un tempo spaventoso e un vento che soffiava furiosamente dal mare, l’acqua sommerse completamente le strade di Venezia, distruggendo molte case e strappando agli ormeggi le barche. Il mare invase ogni cosa, senza che nulla potesse resistergli, la città pareva in completa balía degli elementi; solo l’intervento miracoloso di San Marco – narrano le cronache del tempo – la salvò dalla distruzione. Una scena simile di acqua alta eccezionale si ripetè nella primavera del 1342, senza che le autorità cittadine potessero fare nulla per mettere in salvo cose e persone. Chiare apparivano ai contemporanei le cause delle inondazioni della laguna, individuate da tutti nell’eccessivo intervento dell’uomo sull’ambiente naturale, e nella pretesa di installarsi tra le onde del mare, in una zona vessata da un lato dalla forte variazione delle maree, dall’altro dal continuo trasporto di materiali dei fiumi che tendono a colmare la laguna. Per vigilare sulle acque della laguna e cercare di prevenire, o almeno di limitare, i danni delle inondazioni, venne istituita una magistratura già nel 1275, resa permanente nel 1315, i cui compiti fondamentali erano appunto quello di sorvegliare i lidi e quello di trovare il materiale necessario a consolidarli. Accanto a questo «ufficio tecnico» venivano nominati, con mandato temporaneo, ufficiali straordinari, il cui numero poteva variare notevolmente. Avevano il compito di esaminare il litorale, di prendere le decisioni opportune, di trovare i fondi necessari ai lavori di manutenzione indispensabili. Prova di quanto fosse allarmante la situazione è per esempio il fatto che, nel 1284, il Comune, alla ricerca di fondi, bandí un prestito «occaxione litoris reaptandi». Fu il primo di una lunga serie. Per accertarsi poi che il denaro raccolto venisse utilizzato bene, nel dicembre dello stesso anno la Signoria nominò venti saggi responsabili del litorale, remunerati in base al prestito ottenuto. Dato che però i fondi raccolti non bastavano, vennero stanziati a beneficio dei lidi i proventi di un certo numero di concessioni commerciali sulla vendita del vino e sullo sfruttamento dei boschi. Ogni mese, inoltre, tre ufficiali ispezionavano il litorale. febbraio

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Contemporaneamente, fu adottata una legislazione entrare o uscire da Parigi, né circolare per le strade, che prevedeva misure volte a prevenire l’erosione del se non in barca, e in questo modo avveniva l’approvlitorale: divieto di tagliare gli alberi, di asportare sab- vigionamento della città. Due ponti di pietra con gli bia e ghiaia dalla laguna, di pescare con le reti lungo le edifici e i mulini circostanti vennero totalmente didighe, comminando severe punizioni per ogni danno strutti. L’acqua sommerse gli altari del monastero di a esse causato. La priorità fu data alla costruzione di Saint Bernard, raggiungendo il tetto degli scriptoria e cantieri destinati a difendere la laguna centrale, cioè il invadendo il refettorio, anche il muro di cinta crollò e lido di Venezia. Gli interventi di manutenzione si fecero 35 frati dovettero cercare rifugio altrove. Anche a Pasempre piú frequenti e necessari dopo il 1360. rigi, dunque, come a Firenze, fin dal secolo XIII il gran Nel 1428 furono destinati al finanziamento della numero di mulini e di impianti industriali, ostruendo manutenzione del litorale gli enormi proventi tratti parzialmente l’alveo del fiume, rappresentò un grave dalla vendita del sale, e ai magistrati del sale fu appun- pericolo in caso di inondazione. to data l’incombenza di procurare i fondi necessari. Le Gravi episodi di sciacallaggio si verificarono in somme stanziate annualmente durante il XV secolo quest’occasione, per cui si dovettero nominare tre uferano enormi: 6000 ducati nel 1424, 11 000 ducati nel ficiali, uno per ogni zona della città, col compito di 1469, 10 800 ducati nel 1490, e altrettanti nel 1496. prevenire in particolare i furti perpetrati dai chierici Nonostante la manutenzione che si impadronivano con viocontinua, il degrado era alquanto lenza del pane e depredavano Da leggere rapido, e ogni 30/40 anni occori cittadini. Il 25 marzo 1297 reva rifare tutto. Per tutto il XV l’inondazione non si era ancora U Giovanni Villani, Nuova Cronica, edizione secolo, insomma, Venezia portò ritirata del tutto, nel frattempo critica a cura di Giovanni Porta, Ugo Guanda avanti un’opera di difesa del lisi cercava di ricostruire i ponti Editore, Parma, 1991 torale continua e costosa, che si crollati, supplendo con traghetU Gherardo Ortalli, «Corso di natura» o «Giudizio rivelò però insufficiente. Nonoti nei tratti ancora inagibili. di Dio». Sensibilità collettiva ed eventi naturali stante la buona volontà, i tenAnche nel XV secolo, per il a proposito del diluvio fiorentino del 1333, tativi di intervento risultavano quale abbondano le fonti, molte in Lupi, genti, culture. Uomo e ambiente nel spesso maldestri, se non, qualche alluvioni a Parigi si protrassero Medioevo, Einaudi, Torino 1997; pp.155-188 volta, disastrosi. per mesi: nel 1414/15, dalla feU Francesco Salvestrini, Libera città su fiume sta di Ognissanti alla metà di regale: Firenze e l’Arno dall’Antichità al Sommersa dalla Senna aprile. Nel 1421 dopo piogge Quattrocento, Nardini, Firenze 2005 Le prime notizie su un’inondaininterrotte abbattutesi per due U Gerrit Jasper Schenk, L’alluvione del zione avvenuta a Parigi risalgono o tre settimane prima di Natale, 1333. Discorsi sopra un disastro naturale al 583 e sono riferite da Gregorio mentre sui rilievi della Borgonella Firenze medievale, in Medioevo e di Tours, anche se è probabile che gna nevicava abbondantemenRinascimento, 21 (2007); pp. 27-54; se ne fossero verificate nei secoli te, la Senna straripò inondando U Michael Matheus, Gabriella Piccinni, Giuliano precedenti, non rintracciabili nelparzialmente Parigi, poi il fiume Pinto, Gian Maria Varanini (a cura di), la documentazione. La quantità gelò, bloccando i mulini idrauLe calamità ambientali nel tardo medioevo di testimonianze aumenta però lici e impedendo la produzione europeo: realtà, percezioni, reazioni, solo a partire dal XII secolo, fino a della farina. Atti del XII Convegno del Centro di Studi sulla diventare molto abbondante nel Nel 1426, invece, il fiume civiltà del Tardo Medioevo (San Miniato, 31 XV, quando le esondazioni si veristraripò d’estate, il 24 giugno, maggio-2 giugno 2008), Firenze University ficarono a brevissima distanza tra giorno della festa di San GioPress, Firenze 2010 loro, e talvolta a cadenza annuale. vanni, mentre la gente cantava La Senna straripava in genere e ballava intorno al fuoco che per tra dicembre e aprile, e talvolta, diversamente dai fiumi tradizione veniva acceso in quell’occasione, e lo stesso italiani, anche d’estate, e piú volte nel corso dell’anno. fenomeno si verificò il giorno di San Giovanni del 1438, Il fenomeno era favorito nei periodi caratterizzati da accompagnato da un freddo quasi invernale. Sempre precipitazioni intense e durature in Borgogna e nell’Îled’estate, l’8 giugno 1427, la Senna straripò nuovamende-France e da forti nevicate sui rilievi. Un’alluvione te, in seguito alle continue piogge che affliggevano la particolarmente intensa si verificò nel marzo del 1196, città dal mese di aprile. Furono completamente somquando sia il re Filippo II Augusto, sia il vescovo di Pari- mersi l’isola di Notre-Dame e interi quartieri di Parigi, furono costretti ad abbandonare le proprie residenze gi. L’acqua non invase soltanto i seminterrati, ma ragrifugiandosi sulle alture circostanti il fiume. giunse il primo piano degli edifici quasi all’improvviso, Tra gli altri episodi particolarmente distruttivi, nell’arco di due ore, tanto che molti cavalli perirono tra quello del 21 dicembre 1296 quando le piogge inces- i flutti, e i Parigini furono costretti ancora una volta a santi fecero straripare il fiume che sommerse la città fare ricorso alle barche. Anche in questo caso un gran come mai era accaduto prima, tanto che non si poteva freddo accompagnò l’alluvione. F

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di Sandra Baragli

Donne con i loro figli, particolare del dipinto Lasciate che i piccoli vengano a me (riproduzione intera alle pp. 94-95), olio su tavola di Lucas Cranach il Vecchio (1472-1553). 1538. Amburgo, Hamburger Kunsthalle.

Il Medioevo dei bambini

Per quanto difficile da rintracciare, anche l’Età di Mezzo ebbe un suo «sentimento per l’infanzia». Non sempre, però, le testimonianze di cui disponiamo – soprattutto quelle della produzione artistica – ci restituiscono un quadro animato e giocoso dell’esistenza dei piú giovani. Che ben piú spesso, invece, appare venata da sofferenza e stenti…


Dossier

U U

na madre guarda con amore il bambino che tiene in braccio. Il piccolo, rappresentato di profilo, si muove verso di lei, appoggiandole una mano sulla spalla. L’altra mano è tenuta affettuosamente in quella della madre che, afferrandola, l’accarezza con due dita. Questo scambio di sguardi affettuosi avviene tra la Madonna e Gesú Bambino in una tavola dipinta da Pietro Lorenzetti intorno al 1315 (già al centro di un polittico noto come Polittico di Monticchiello) oggi al Museo Diocesano di Pienza. Le rappresentazioni di Madonne che ci giungono dal Medioevo sono numerose e costituiscono una delle principali fonti iconografiche, insieme alle rappresentazioni della Sacra Famiglia, relative al tema dell’infanzia e alla percezione che

ne avevano gli adulti. Non sempre, infatti, nell’iconografia, la Madonna guarda con tenerezza e affetto il piccolo Gesú: questo tipo di immagine si diffonde solo alla fine del Medioevo, quando la Chiesa, attraverso la diffusione del culto mariano, volle favorire una nuova concezione della maternità e del rapporto tra madre e figlio. L’immagine della Madonna con il bambino doveva trasmettere gioia e serenità a tutte le donne, aiutandole ad affrontare la maternità sicure della protezione della Vergine.

Ritratti realistici

Nella scultura e nella pittura, durante i lunghi secoli del Medioevo, l’infanzia lentamente si caratterizza e la figura di Gesú Bambino in braccio alla Madre acquista tratti

realistici, dimostrando un’attenzione particolare per gli atteggiamenti dei piccoli: il bambino è rappresentato mentre ride, mentre si muove, mentre gioca con animaletti e viene ritratto nelle sue varie età, con un diverso abbigliamento, una diversa statura, una diversa fisionomia. E sempre piú frequenti, nel Basso Medioevo, si fanno le immagini di bambini intenti al lavoro, che prendono parte a festività religiose, che accompagnano i genitori e sempre piú realistici appaiono quelli rappresentati nelle storie tratte dai Vangeli, come l’Entrata di Cristo a Gerusalemme. La voce dei bambini non giunge limpida dall’Età di Mezzo: essi sono rappresentati nelle opere d’arte, citati nei documenti legali, presenti in alcune opere letterarie,


In alto La Madonna del Parto. L’affresco, dipinto da Piero della Francesca attorno al 1459, probabilmente per onorare la madre, nativa di Monterchi (Arezzo), è oggi conservato in un museo appositamente realizzato nella cittadina toscana. Il tasso di mortalità infantile era, in epoca medievale, assai elevato, anche per le frequenti complicazioni che potevano sopraggiungere al momento del parto. A sinistra miniatura raffigurante la nascita, con taglio cesareo, di Giulio Cesare, da Les Anciennes Hystoires Rommaines. Fine del XIV sec. Londra, British Library. Nel Medioevo simili interventi venivano praticati soltanto dopo la morte delle gestanti nel tentativo di salvare la vita del bambino.

nominati nei libri dei ricordi e nei diari. Ma la loro voce non è mai diretta (del resto l’infans – dal latino infans, «muto», «che non può parlare» – per definizione non accede alla parola); l’opinione che possiamo farci dell’infanzia nel Medioevo si rintraccia solamente attraverso lo sguardo e le parole degli adulti. E anche da questo punto di vista è estremamente frammentata e parziale, in quanto gli adulti che parlano dell’infanzia sono maschi (a parte pochissime eccezioni) e, perlopiú, appartenenti al mondo ecclesiastico.

Le tracce dell’infanzia

Tuttavia, attraverso le fonti scritte, iconografiche e archeologiche (da alcuni scavi sono emersi giocattoli e oggetti sicuramente dedicati ai bambini) è possibile farsi un’idea dell’infanzia nel Medioevo, anche

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Dossier grazie ai numerosi studi a essa dedicati, a partire dalla ricerca pionieristica di Philippe Ariés negli anni Ottanta del secolo scorso. E se l’idea dell’infanzia come «categoria concettuale» (Maria Teresa Maiocchi) è ormai ritenuta dalla maggior parte degli studiosi nata con l’Umanesimo e definitasi con il Romanticismo, anche il Medioevo ebbe senza dubbio una sua idea dell’infanzia.

Cosí parlò Giordano

«Vedete quanta cura egli (Dio) ha di tutte le genti, egli ha cura di ciascuna come di te. Perché fae Iddio tante diversitadi nel mondo, i ricchi, i poveri, i forti, i deboli? Però che ha cura di tutti; chè se tutti fossono re, chi farebbe il pane, chi lavorerebbe la terra? Ha ordinato Iddio che siano de’ ricchi e de’ poveri, acciocch’e’ ricchi siano serviti da’ poveri, e i poveri sovvenuti da’ ricchi, e questo è uno comune reggimento d’ogni gente. A che i poveri sono ordinati? Acciocc’e’ ricchi guadagnino per loro vita eterna. Tutto questo è grande ordine di Dio, e in queste cose si mostra apertamente ch’egli è pastore universale, reggitore di tutto il mondo, perocchè ha cura d’ogni gente e d’ogni ischiatta»: cosí predicava la domenica del 9 marzo 1305 Giordano da Rivalto, sottolineando

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la necessità della disparità sociale, una disparità che, allora come adesso, differenziava anche la vita dei bambini. Perché anche se un vero «sentimento per l’infanzia» sembra nascere solo alle soglie del Rinascimento (per il già citato Philippe Ariès solo in età moderna), la vita dei bambini, figli di sovrani e di ricchi borghesi, fu diversa da quella dei figli dei poveri. Nelle famiglie medievali le nascite erano frequenti, ma la mortalità dei piccoli, nel venire al mondo, o nei primi anni di vita, era elevata (tanto che sembra emergere dai testi una sorta di assuefazione o in ogni caso rassegnazione di fronte ai decessi continui). Secondo la mentalità del tempo essere una «buona moglie» era inscindibile dall’essere una «buona madre» e le donne sposate erano destinate a «generare figli in continuazione e fino alla morte», come dichiarava il domenicano Nicola di Gorran (†1295). È stato calcolato che, in media, le donne dell’aristocrazia fiorentina tra il Tre e Quattrocento partorissero circa dieci figli nel lasso di tempo che andava dai diciassette-diciotto anni ai trentasette anni, ma erano pochi i bambini che arrivavano all’età adulta perché, per i motivi piú vari, in epoca medievale un bambino su tre moriva prima dei cinque anni.

Padova, Cappella degli Scrovegni. Nascita di Maria, affrescata da Giotto (1267-1337) sulla parete nord della navata della chiesa. 1303-1304. Anna, la puerpera, riceve Maria dalle braccia di un’amica. Ai piedi del suo letto è raffigurato il momento appena precedente: la nutrice ha fatto il primo bagno della bambina e le sta lavando gli occhi o forse le sta stringendo il naso per fare aprire i polmoni. In basso, a sinistra Natività della Vergine, tempera su tavola dipinta da Pietro Lorenzetti intorno al 1342 per la Cappella di S. Savino nel Duomo di Siena. Siena, Museo dell’Opera del Duomo. Anna riposa su un comodo letto rivestito da una coperta a scacchi, mentre alcune donne la confortano: una di loro facendole vento, altre portandole cibo e bevande, per aiutarla a riprendersi dalle fatiche del parto.

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Dossier la ninna nanna

Quelle nenie antiche, evocate perfino dal sommo poeta Nel mondo prevalentemente femminile che sembra ruotare intorno al neonato, era uso cantare le ninna-nanne, a cui accenna anche Dante nella Commedia. Commentatori trecenteschi hanno tramandato alcune di queste canzoncine che, passate da madre a figlia per generazioni, sono arrivate fino a oggi. L’Ottimo Commento alla Divina Commedia, scritto da un autore anonimo intorno al 1334, cosí commenta i versi danteschi «ché, se l’antiveder qui non m’inganna, / prima fien triste che le guance impeli / colui che mo si consola con nanna» (Purg. XXIII, 109-111): «E dice che, che ciò sia prima che quelli, che s’allatta al presente e racconsolasi dal piagnere col dire della balia o d’altri «nanna ninna, fante, che la mamma è ita nell’Alpe (o simili canzoni che si dicono alli piangenti bambolini nella culla) abbia pelose, cioè barbate, le gote». E, un altro commentatore trecentesco, Guido da Imola, accennando a Cacciaguida, riporta: «Et consolando gli figliuoli suoi cantavano:

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Ninna, nanna, Li miei begli fanti. Giamai non fu cotanti Tre in camerella Tre in fosserella Tre a prova del fognolo E tre entro al bagnulo E tre entro la cuna E graveda e saduna (probabilmente: e graveda esa (essa) d’una)». Che, nella ripetizione ritmica delle strofe, con lo scopo di addormentare il piccolo, ricorda la fatica della madre, sopraffatta dal succedersi dei figli, di cui tre sono già morti («in fosserella»), tre in camera, tre in culla e infine uno che deve ancora nascere! Ancora Dante, nella Commedia, lascia intravedere, in tutt’altro contesto, attenzioni e piccole gioie legate al mondo dell’infanzia, scrivendo «che se fossi morto / anzi che tu lasciassi il “pappo” e ‘l “dindi”» (Purg. XI, 104-105), espressioni tipiche del mondo infantile per il cibo e il denaro; come scriveva Francesco Da Buti alla fine del Trecento: «Li padri e le madri prendono diletto del parlare fanciullesco» (Francesco da Buti, Commento sopra la Commedia, III, 455).

Nella pagina accanto una madre e suo figlio, particolare dell’affresco di Cenni di Francesco raffigurante la Strage degli Innocenti, nella Cappella della Croce di Giorno a Volterra. 1410. Anche nel corso del Medioevo, la maternità rimase un fatto innanzitutto femminile, eppure non mancano testimonianze della partecipazione dei mariti alle preoccupazioni per le possibili difficoltà della gravidanza e per i rischi che il parto poteva comunque comportare. In basso il bambino Gesú, particolare della Natività con il cardinale Rolin, olio su tavola del Maestro di Moulins. 1480. Autun, Musée Rolin.

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Durante la gravidanza la letteratura medica e moralistica consigliava alla buona madre di attenersi a una serie di regole (alimentari e riguardanti i movimenti e le fatiche, oltre alla castità) per evitarne l’interruzione. Tuttavia, in genere, le donne, anche se gravide, continuavano a svolgere le loro mansioni con impegno e fatica.

Ansie condivise

E anche se le fonti fanno di solito pensare alle continue gravidanze vissute come un faticoso obbligo a cui ci si sottoponeva con rassegnazione e dovere verso un marito desideroso di assicurarsi un erede maschio, non è da escludere che le emozioni espresse da Giovanni di Pagolo Morelli (mercante fiorentino vissuto tra la fine del Trecento e la prima metà del Quattrocento) nei suoi Ricordi, fossero condivise anche da altri uomini, lasciando intravedere un mondo di affetti e emozioni che spesso rimane nascosto: «mi ricordava – egli scrive riguardo al figlio – quando, l’ora e il punto e ‘l dove e come esso da me fu ingenerato, quanta consolazione fu a me e alla sua madre; appresso, i movimenti suoi nel ventre della ma-

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Dossier dre da me diligentemente sotto la mano considerati, aspettando con sommo disiderio la sua natività; e poi nato, e essendo maschio e bene proporsionato, quanta allegrezza, quanto gaudio me ne parve ricevere (...)». (Giovanni di Pagolo Morelli, Ricordi, IV, in Mercanti scrittori...) Il momento del parto era un momento delicato e pericoloso, vissuto con attenzione e timore da tutta la famiglia. Numerose sono le rappresentazioni con la «nascita di Maria», che ci offrono interessanti scorci di vita medievale. Nella Natività della Vergine di Pietro Lorenzetti (dipinta intorno al 1342 per la Cappella di San Savino nel Duomo di Siena e oggi al Museo dell’Opera del Duomo; foto a p. 74), Anna è adagiata su un comodo letto rivestito da una coperta a scacchi, mentre alcune donne si occupano di confortarla: una di loro facendole vento con un ventaglio, altre portandole del cibo e da bere (cibi tradizionali per la puerpera erano brodo caldo e pollo), perché si riprenda dalle fatiche del parto. Altre due donne si occupano del primo bagnetto della piccola, che avviene in una bacinella, vicino al letto della madre.

Una questione di donne

Il parto era una questione di donne e il padre, Gioacchino, è rappresentato seduto, in attesa, in una stanza attigua alla camera dove è avvenuto il lieto evento, mentre tende ansiosamente ascolto a un ragazzino che lo aggiorna su ciò che accade nella stanza accanto. Nelle case piú abbienti in genere assistevano al parto le domestiche, le levatrici e le parenti della donna che, appena cominciavano le doglie, preparavano la stanza per il parto, le tovaglie, i teli, l’acqua calda, affinché tutto fosse pronto. Quando la donna partorisce – scriveva Paolo da Certaldo – «faccia che sia accompagnata di buone baglie e di donne che ne sieno use (pratiche) (Paolo da Certaldo, Libro di Buoni costumi, 154, in Mercanti scrittori...). I trattati sui meccanismi del parto, come quello di Bartolomeo l’An-

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Il beato Agostino Novello salva un bambino caduto da una culla, particolare dalla Pala del beato Agostino Novello e quattro suoi miracoli. Tempera su tavola di Simone Martini (1284 circa-1344). 1324-29. Siena, Pinacoteca Nazionale.

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glico (XIII secolo) non erano diffusi tra le levatrici, che non avevano nozioni di medicina. Per aiutare la partoriente venivano massaggiati il ventre e le gambe con unguenti o preparati infusi con erbe dalle proprietà lenitive, o espulsive, a seconda delle necessità. «Se si sarà verificata una difficoltà di parto bisogna principalmente far ricorso a Dio, quindi, venendo agli aiuti inferiori, giova alla donna (…) fare il bagno nell’acqua di malva, fiengreco, seme di lino e orzo. Le si ungano i fianchi, il ventre, le cosce, l’inguine con olio violaceo e rosaceo» scriveva Trotula de Ruggiero, una delle prime donne medico, appartenente alla scuola salernitana, nell’XI secolo. L’inadeguatezza dei mezzi per superare le complicazioni del parto e le condizioni in cui si verificava spiegano l’elevata mortalità femIn basso miracolo di Sant’Antonio, particolare della predella del Polittico di Sant’Antonio. Tempera su tavola di Piero della Francesca (1416-1492). 1465-1468. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria. Il santo, accompagnato da un altro eremita, riporta in vita con le sue preghiere un bambino morto, alla presenza della madre in lacrime.

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Dossier minile d’origine ostetrica. Del resto anche il taglio cesareo si praticava soltanto dopo la morte delle gestanti (si noti che Trotula come prima cosa dice di rivolgersi soprattutto a Dio, quindi sapeva che non c’era molto da fare). Giotto, nella Cappella degli Scrovegni a Padova, rappresenta un’altra scena tutta al femminile (foto a p. 75): una donna, probabilmente una vicina di casa, è ricevuta sulla porta mentre offre a una delle assistenti al parto generi di conforto Un bambino gioca con un cavalluccio di legno, particolare di un trittico raffigurante la Presentazione al Tempio. Fine del XV sec. Parigi, Musée national du Moyen Age.

per la puerpera. Quest’ultima, Anna, è rappresentata nel letto, pronta ad accogliere tra le braccia la piccola Maria, appena fasciata, che l’amica le porge. Ai piedi del letto è raffigurato il momento appena precedente: in un ampio bacile di rame è stato fatto il primo bagno della bambina che, già fasciata in strette bende (all’epoca si credeva che, senza un sostegno, le ossa dei bambini si sarebbero piegate; inoltre, aiutavano a preservare il calore naturale del bambino, secondo il complesso quadro della dottrina umorale) è in braccio alla nutrice, che le sta lavando gli occhi o forse le sta stringendo il naso per fare aprire i polmoni. Nell’affresco (1363-1366) della cappella Rinuccini in

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Santa Croce, a Firenze, anche Giovanni da Milano, mostra l’affaccendarsi delle donne intorno a Sant’Anna, che ha appena partorito. Un’amica l’aiuta a lavarsi e rinfrescarsi, prima di accogliere tra le braccia la piccola Maria che, dopo il bagnetto avvenuto in un ampio catino appoggiato in terra, ben fasciata dalle bende, è contesa tra la madre e le amiche.

«Per la sola colpa di essere nato»

«Questo infelice ha appena visto la luce che immediatamente legature e fasce gli si stringono intorno per fargli ben capire che è entrato in una prigione. Solo gli occhi e la bocca rimangono liberi per il loro compito, che del resto non è se non di piangere o di gridare. E anche se un figlio di re o d’imperatore è circondato da qualche cura maggiore, la sua sorte non è molto diversa. Vive legato mani e piedi, povero animale gemente, inaugurando cosí una vita di tormenti, per la sola colpa di essere nato», scriveva nel XII secolo Guglielmo di Saint-Thierry, a proposito della condizione infantile (Guillelmi Abbatis S. Theodorici, De natura corporis et animae, lib. II, PL CLXXX, col.715). Superato il difficile momento della nascita, la sopravvivenza del piccolo era legata alla qualità dell’allattamento e delle condizioni igieniche. Non tutte le madri riuscivano ad allattare e, poiché si credeva che il latte di una donna incinta fosse nocivo al bambino, anche a causa delle continue gravidanze, soprattutto nelle classi piú agiate era molto diffuso l’uso di inviare il piccolo in campagna, da una balia a pagamento, cosa che spesso si rivelava fatale per i neonati, a causa delle carenti condizioni igieniche, delle poche attenzioni o della scarsa qualità del latte. Sulla scelta della balia, che spettava agli uomini (cioè al padre del bambino), numerose sono le indicazioni dei medici e moralisti medievali, secondo i quali la nutrice, attraverso il latte, poteva trasmettere le malattie, ma anche tratti febbraio

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psichici e caratteriali che avrebbero potuto influenzare la «nobile natura» del piccolo. Si consigliava, perciò, di sceglierla somigliante alla madre, che fosse di buone maniere e di buon carattere. Del resto anche riguardo alla scelta delle mogli i consigli non mancavano; nel suo già citato Libro di buoni costumi, Paolo da Certaldo raccomandava: «La femina che vuoli dare per moglie a tuo figliuolo o a tuo amico, o torla per te, guarda molto che l’avola e la madre sieno donne oneste e vergognose» in quanto «molto sta bene a la femina essere vergognosa, per piú ragioni, però che la femina ch’avrà in sé vergogna non fia sanza castità».

Balie di campagna

Se le balie delle famiglie nobili e principesche venivano ospitate nelle loro case e accudite con un’alimentazione particolare, in genere si preferiva mandare il figlio a balia fuori, nonostante i rischi, anche perché il salario delle balie diminuiva con l’aumentare della distanza dalla città e perché le donne di campagna erano ritenute piú sane. Infatti, di solito, erano le mogli dei contadini che contribuivano al bilancio familiare facendo le balie ai figli dei cittadini benestanti o ai trovatelli abbandonati presso qualche ospedale. Il numero delle balie era elevato e va sottolineato anche il loro rilievo economico in una società che non conosceva i prodotti alimentari artificialmente preparati per gli infanti. In genere i bambini trascorrevano presso la balia i primi tre anni di vita, due dei quali erano dedicati all’allattamento e uno allo svezzamento. Tuttavia, raramente un bambino rimaneva tutto il tempo presso la stessa balia, in quanto spesso questa rimaneva nuovamente incinta, o poteva ricevere un’offerta migliore, o si ammalava. Cosí il piccolo poteva essere rimandato a casa, o veniva ceduto, col consenso della famiglia di origine, ad altre balie, trasmigrando da una famiglia contadina all’altra.

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Miniatura raffigurante la Sacra Famiglia, con Gesú che muove i primi passi aiutandosi con un girello, dal Libro d’Ore di Caterina di Clèves. 1440 circa. New York, Pierpont Morgan Library.

Le condizioni di povertà in cui le balie vivevano, il fatto che fossero spesso malnutrite mettendo a rischio anche la qualità del latte e che talvolta fossero prive di scrupoli e prive di attenzioni, erano spesso causa delle condizioni precarie e della morte frequente di molti bambini. D’altra parte non era raro che i bambini (sembrerebbe in misura maggiore le bambine) morissero soffocati nel letto dei genitori, nel quale dormivano, in quanto le madri (o le balie) preferivano allattare

il neonato avendolo accanto, senza doversi alzare di notte (non dimentichiamo che le case medievali, soprattutto d’inverno, erano freddissime e piene di spifferi). Queste morti risultano cosí frequenti da rientrare nella casistica dei manuali dei confessori e rimane aperto il dibattito sulla eventualità di infanticidi dovuti alle difficoltà per molte famiglie di sostenere il peso di continue nascite, soprattutto se di femmine. Nelle camere da letto, tuttavia, erano presenti anche le culle;

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Dossier l’iconografia ci aiuta a immaginare l’interno di una casa medievale, in Italia, in cui il piccolo riposa in una culla, di solito a dondolo, con movimento testa-piede, altrimenti laterale. Una miniatura del secondo quarto del XIV secolo, per esempio, mostra una idealizzata famiglia contadina con tre figli, di cui uno in culla, che dorme beatamente. Un altro tipo di culla, piú semplice, era una specie di amaca che, appesa al soffitto sopra al letto dei genitori, poteva essere dondolata da questi ultimi sporgendo un braccio. Tuttavia il sistema doveva presentare alcuni inconvenienti; le corde potevano rompersi, provocando la caduta del neonato, come rappresentato in una celebre tavola di Simone Martini (foto a p. 78-79). In questo caso forse la nutrice aveva spinto un po’ troppo energicamente il bambino che, caduto a terra, tra la disperazione delle donne, viene resuscitato dal Beato Agostino Novello (autore anche di altri miracoli a favore dei bambini, rappresentati nella stessa pala).

Il corredo del neonato

L’attenzione riservata ai neonati era sicuramente diversa a seconda dell’agiatezza economica della famiglia. Il poeta francese Eustache Dechamp, attivo nella seconda metà del Trecento, elencando gli oggetti usati da una famiglia cittadina per il nascituro, ricorda «Per lui ci vogliono culla, panni / balia, fornelli e catino / Il necessario per fare pappe, latte e fior di farina» e un altro poemetto degli inizi del XIII secolo, l’Outillement au vilain, riporta tutto ciò che occorre per accudire il neonato in un ambiente rurale: culla, biancheria, paglia sempre fresca (per creare il «materasso» del piccolo), tinozze e catinelle per il bagnetto e

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una mucca per allattarlo una volta svezzato (ci si aiutava con il biberon, che consisteva in un vasetto con un beccuccio a cui veniva fissato un pezzo di stoffa, che il bambino poteva succhiare). Dai diari e dalle cronache domestiche trecentesche emergono attenzioni e affetti intorno ai piccoli, sempre a rischio di malattie. Scriveva Donato Velluti (1313-1370; appartenente a una ricca famiglia di mercanti fiorentina e investito di varie importanti cariche pubbliche per il Comune di Firenze), a proposito del figlio Lamberto: «Fu bellissimo fanciullo, bianco e vermiglio e colorito e di bel viso, il primaio anno, de’ piú di Firenze (uno dei piú belli di Firenze); e quando andò all’uficio (la benedizione dei bambini e dei neonati, che si impartiva il Sabato santo nella chiesa di San Lorenzo, a Firenze), tutti traevano a vederlo, e la balia non si potea rimedire (liberare) dalle donne. Dopo il detto uficio, o che fosse per essere troppo abbracciato e riscaldato, o per difetto di latte di balia, o perché l’avesse da natura e allotta uscisse fuori (cioè ce l’avesse dalla nascita

Carità. Olio su tavola di Lucas Cranach il Vecchio. 1537-1550. Londra, National Gallery. La virtú teologale è raffigurata come una giovane madre che allatta il piú piccolo dei suoi figli, mentre gli altri le sono accanto. Serrandola al petto con il braccio destro, la bambina tiene una bambola. In basso, a sinistra testa di bambola in piombo. Fine del XIII-inizi del XIV sec. Parigi, Musée nationale du Moyen Âge.


In alto e in basso oggetti della vita d’ogni giorno usati come giocattoli: un grande piatto ovale e una brocchetta. XV sec. Parigi, Musée national du Moyen Âge. Materiali come questi provengono, perlopiú da scavi archeologici, come è accaduto, per esempio, a Strasburgo, dove è stata recentemente localizzata la bottega di un vasaio del XIII sec. specializzata nella produzione di fischietti, bambole, tegami e altri giocattoli.

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Da sinistra: ancora due dettagli degli affreschi (1491) di Giovanni Canavesio in cui sono raffigurati, sullo sfondo del pentimento di Giuda e di Gesú davanti a Caifa, ebrei in abiti orientali. La Brigue (Provenza), Notre-Dame des Fontaines.

e soltanto adesso si manifestava), gli venne e uscí di dosso una pruzza minuta (eruzioni cutanee e prurito) che ‘l consumava (lo faceva deperire); intanto che (a tal punto che) la balia sua, che ‘l tenea a canto a sé la notte, era piena di carne e freschissima (come si riteneva giusto che fosse una buona balia!), se n’empié tutta, e diventò secca e disfatta». Bambino e balia furono poi mandati in una località termale nei pressi di Siena, dove la balia migliorò, ma fu poi sostituita con altre che, dormendo con il bambino, si ammalarono. Il ragazzo riuscí a crescere, ad andare a scuola di grammatica e poi d’abaco e successivamente a bottega. Tuttavia, mai guarito dalla malattia, morí a soli

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ventidue anni, con grande dolore del padre che cosí affettuosamente ne scrisse il ricordo.

Canzoni dolci e allegrette

Il medico Aldobrandino da Siena, autore del Régime du Corps, scritto intorno al 1256 (prima opera di medicina scritta non in latino ma in provenzale, che conobbe larghissima diffusione tra il XIII e il XIV secolo) oltre a importanti regole igieniche e alimentari, come la regolamentazione delle poppate, raccomandava che la nutrice, dopo aver allattato il bambino «sí il ponga a dormire quando il lattante sia un poco advallato e poi lo metta a dormire e meni la culla bellamente e soavemente e all’addormentre

del fanciullo, dee la nodrice belle delectevoli dolci, suavi e allegrette canzoni cantare». Il momento in cui il bambino cominciava a parlare era ritenuto di grande importanza. Ancora Aldobrandino da Siena consigliava di stropicciare la bocca del bambino con miele e sale e lavargliela con acqua d’orzo, per facilitare i movimenti della lingua e Francesco da Barberino (1264-1348) suggeriva: «Quando a parlar comincia, frega li denti / e insegnali a parlare agevoli parole / e se ti par che vegna iscilinguato, / torrai un gran specchio, e fà dop’esso / stare un fanciullo che saccia parlare / faccendo voce acostante alla sua / e dica quelle parole che vuoli / ed el, guardando sé in febbraio

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Assisi, Basilica inferiore. San Nicola restituisce Adeodato ai suoi genitori, dalle Storie di San Nicola dipinte da Giotto sul transetto settentrionale della chiesa. 1297-1300. Protagonista dell’episodio è un giovane, figlio di devoti contadini, rapito dai Saraceni e consegnato all’emiro di Creta, che San Nicola liberò dalla prigionia e fece miracolosamente tornare a casa.

quello specchio / crederà sia un sí fatto com’ello / e ingegnerassi a parlar come l’altro». Infanzia e puerizia, soprattutto a partire dal XIII secolo vengono distinte in due momenti diversi e in generale molti testi tendono a individuare nell’età dei sette anni il momento per imparare a leggere o scrivere, o per essere iniziati ad attività lavorative o domestiche. A quest’età anche gli abiti cominciano a differenziarsi e diventano simili a quelli degli adulti; i figli maschi della nobiltà ricevono anche la loro prima armatura. Testi di autori celebri, come quello dedicato alle donne del predicatore catalano Francesh Eximeniz, rivolto alle signore della classe media del XIV secolo, indicavano

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che 7 anni fosse l’età giusta per iniziare la bambina ai lavori domestici e per mandare a scuola il bambino; a dieci la bambina era già ritenuta matura per assumersi le responsabilità del mondo adulto.

La fine della fanciullezza

Per i maschi la fine della fanciullezza era calcolata intorno ai quattordici anni. Non si può quindi parlare di «infanzia» in senso generico, perché ai due sessi, fin dalla piú tenera età furono dedicati attenzioni e funzioni diverse (talvolta le bambine venivano anche svezzate prima dei maschi), in quanto il denominatore comune del ruolo della donna della metà e della fine del Medioevo sembra essere il ma-

trimonio precoce (talvolta, ma solo nelle classi sociali piú alte, dove i matrimoni sono in prima istanza alleanze politiche, a tal punto che le spose arrivavano portate in braccio dalla balia!) condizionando cosí il destino femminile. Molto interessante a questo proposito è un altro passo del Libro di buoni costumi di Paolo da Certaldo, dove è evidente la diversa attenzione dedicata ai due sessi: «Lo fanciullo si vuole tenere bene netto e caldo, e spesso cercarlo e provederlo (visitarlo accuratamente) tutto a membro a membro; e no gli si vuole dare il primo anno altro che la poppa, e poi cominciargli a dare co la poppa insieme de l’altre cose a mangiare a poco a poco. E poi, ne’ sei o ne’ sette anni, porlo a leggere; e poi, o fallo studiare o pollo a quella arte che piú gli diletta: e verranne buono maestro. E s’ellé fanciulla femina, polla a cuscire (cucire), e none a leggere, che non istà troppo bene a una femina sapere leggere, se già no la volessi fare monaca. Se la vuoli fare monaca, mettila nel munistero anzi ch’abbia la malizia di conoscere le vanità del mondo, e là entro imparerà a leggere. Il fanciullo maschio pasci bene, e vesti come puoi, intendi a giusto modo e onesto, si fia forte e atante; e se ‘l vestirai bene, userà co’ buoni. La fanciulla femina vesti bene, e come la pasci no le cale (non le importa), pur ch’abbia sua vita (cioè a sufficienza da mantenersi in vita): no la tenere troppo grassa. E ’nsegnale fare tutti i fatti de la masserizia di casa, cioè il pane, lavare il cappone, abburattare e cuocere e far bucato, e fare il letto, e filare, e tessere borse francesche (francesi) o recamare

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Dossier Gli orfani a Firenze

Per aiutare i «fanciulli smarriti»

Un affresco di Niccolò di Pietro Gerini e Ambrogio di Baldese (dipinto nel 1386), un tempo sulla facciata della Loggia del Bigallo, a Firenze, rappresenta l’usanza, da parte dei Capitani della Misericordia (un istituto benefico), di esporre per tre giorni sotto la loggia, i fanciulli abbandonati od orfani, per affidarli alle donne pagate perché ne avessero cura. L’affresco (in alto) rende con vivacità l’immagine dei bambini che, bisognosi di affetto, corrono in braccio alle donne, che li accolgono e offrono loro piccoli giocattoli per distrarli. Fin dall’Alto Medioevo erano sorte istituzioni caritative dedicate all’assistenza dei cosiddetti «fanciulli smarriti», in realtà orfani o illegittimi (che la convenienza sociale non permetteva di crescere in famiglia, spesso figli di schiave) o ancora provenienti da famiglie poverissime che non potevano sostenere il peso di una nuova bocca da sfamare. La sorte di questi bambini era quella di essere abbandonati in luoghi in cui erano destinati a morte

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sicura, oppure in posti nei quali potevano essere accolti (come i sagrati delle chiese o i monasteri) fino a quando, soprattutto dopo il 1300, furono istituiti gli ospizi per trovatelli, in alcuni dei quali comparve la ruota. Si pensi che gli orfani all’epoca erano annoverati tra gli «esclusi» della società; gli Statuti di Brescia del 1254 dichiarano esplicitamente di espellere dalla città gli eretici, le meretrici e gli orfani: «Parimenti che gli orfani non dimorino né entrino nella città o nella cerchia di Brescia, e se qualcuno fosse trovato sia frustato davanti al comune di Brescia e chiunque può portar via a essi tutte le loro cose, e se qualcuno ospitasse qualche orfano in tutta la città o nella cerchia di Brescia sia condannato al pagamento di venti soldi imperiali in denaro contante e chiunque sia l’accusatore riceva la metà della pena pecuniaria». A Firenze le strutture destinate ad accogliere questi fanciulli furono l’antico Ospedale di San Gallo, documentato fin dal 1193 e amministrato

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dall’Ordine Agostiniano e, successivamente, lo Spedale di Santa Maria della Scala, fondato nel 1313 da Simone Pollini; infine, alla metà del XV secolo, sorse l’Ospedale degli Innocenti. L’Ospedale di San Gallo si occupò della cura degli orfanelli sicuramente dal 1294, data in cui all’Arte della Seta, una delle Arti Maggiori, fu affidata dal Comune l’amministrazione dell’Ospedale e specificatamente la cura degli orfani. Compito dell’Ospedale era quello di accogliere i trovatelli e gli orfani e di provvedere alla loro crescita fino a quando le femmine non si fossero sposate o monacate e i maschi non avessero trovato un lavoro. Alcuni di loro, finito il periodo dell’allattamento (durante il quale erano dati a balia) potevano anche trovare una famiglia adottiva, altrimenti ritornavano a San Gallo. Intorno ai 6-7 anni, soprattutto i maschi, venivano assunti come garzoni dagli artigiani o venivano affidati ai preti per essere avviati al sacerdozio. Le femmine potevano andare a servizio di qualche famiglia in cambio di vitto e alloggio e con l’impegno di venire maritate al compimento del sedicesimo anno, provvedute di dote, cosa non semplice a causa della diffidenza nei loro confronti (per cui spesso venivano maritate in campagna o in località distanti). L’Ospedale si occupava di fornire ai bambini il necessario per la crescita (e di provvedere alla dote per le femmine rimaste in Istituto), tuttavia la speranza di vita degli esposti era al di sotto della media (già bassa) del tempo. Lo studio di alcuni libri di amministrazione dell’Ospedale tra il 1395 e il 1406 ha evidenziato che su 168 bambini (106 femmine e 62 maschi) il 20% morí entro il primo mese di accesso, il 30% entro il primo anno e solo il 32% riuscí a compiere i 5 anni. Sicuramente i bambini dell’Istituto, come tutti quelli delle classi meno agiate, risentivano di un’alimentazione monotona e povera. Nella dieta dei «trovatelli» dell’Ospedale di Prato, per esempio, appaiono pane, cacio, olio, pochissima carne e vino. La scarsità di cure, l’alimentazione insufficiente, la vita in comune, esponevano con facilità i bambini alle malattie e, di conseguenza, alla morte.

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Nella pagina accanto particolare dell’affresco I Capitani della Misericordia affidano alle «madri» i fanciulli abbandonati, opera di Niccolò di Pietro Gerini e Ambrogio di Baldese. 1386. Firenze, Museo del Bigallo.

seta con ago, e tagliare panni lini e lani, e rimpedulare le calze (rifare la soletta) e tutte simili cose, sí che quando la mariti non paia una decima (scimunita) e non sia detto che venga del bosco. E non sarai bestemmiata (maledetta) tu che l’avrai allevata».

Nate per procreare

Del resto un po’ tutti gli educatori medievali (per i quali, secondo la mentalità dell’epoca, la funzione principale dell’essere donna era quella riproduttiva), ossessionati dalla custodia del corpo femminile (e quindi della «virtú») proponevano, durante l’infanzia, il controllo alimentare, la proibizione del movimento fisico, del gioco e di ogni stimolo nell’educazione delle bambine. Tuttavia, non tutti i genitori seguirono questi precetti, escludendo le proprie figlie dall’infanzia e dall’educazione (Paolo da Certaldo rappresenta probabilmente un punto di vista particolarmente conservatore riguardo ai costumi), ma si trattò di casi sporadici, come nel caso della scrittrice Christine de Pisan (1362-1431; autrice di testi pedagogici tra i piú La Carità raffigurata come una giovane donna che tiene una cornucopia, particolare della decorazione delle porte del Battistero di Firenze, opera di Tino di Camaino. 1320-1321. Firenze, Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore.

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Dossier Il Battistero di Parma, la cui costruzione, cominciata nel 1196 sotto la guida di Benedetto Antelami, fu completata nel 1270.

iconografie

Benedetto Antelami e le età della vita Nello stipite destro del portale occidentale del Battistero di Parma (foto in questa pagina), opera di Benedetto Antelami (1196), sono rappresentati i protagonisti della parabola della vigna (in cui il regno dei cieli è paragonato al padrone di un vigneto, il quale, pur avendo assunto i suoi braccianti in cinque diversi momenti della giornata, la sera li ricompensa pagando tutti con la stessa somma di denaro, opponendo alla loro protesta la propria bontà d’animo; Matteo 20,116; foto a p. 89). Questo rilievo ricorda come in età medievale – in particolare da quando con un sermone di Gregorio Magno (nel VI secolo) entrò a far parte della liturgia della domenica di Settuagesima – si riteneva che esistesse un parallelismo tra le età del mondo e le fasi

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della vita umana. Infatti, nelle cinque convocazioni dei lavoratori si vedeva prefigurato uno schema delle diverse età del mondo, impersonate da Adamo, Noè, Abramo, Mosé, Cristo, mentre nelle ore del giorno si leggevano i cinque stadi della vita umana. Cosí Antelami rappresentò il racconto e la sua interpretazione in sei spazi semicircolari posti verticalmente, isolati da due tralci di vite intrecciati e un riquadro finale. Dopo aver raffigurato il padrone, gli operai e la vigna, le altre iscrizioni associano ora del giorno, età dell’uomo ed età del mondo: nella scena in basso il padrone, «pater familias» va incontro a un bambino (l’iscrizione recita «primam (!): mane: infancia», e sul margine inferiore «prima : etas: seculi»); appena sopra,

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interessanti del tardo Medioevo, rivolti a un pubblico appartenente alle maggiori corti europee dell’epoca), che ricorda con gioia i suoi giorni infantili, trascorsi a giocare. Opere come quelle di Christine de Pisan sottolineavano l’importanza di allevare le piccole senza ricorrere a coercizioni e castighi, di farle giocare e di farle ridere, con l’aiuto di favole, racconti e un vasto repertorio di giochi, non dimenticando i bisogni affettivi: una voce femminile e fuori dal coro, che tuttavia fa emergere una visione attenta anche alle necessità psicologiche e ludiche.

I primi passi

Quando il bambino cominciava a camminare poteva essere aiutato da un girello, come quello rappresentato in una miniatura fiamminga del 1440 (foto a p. 81), in cui il piccolo Gesú, vestito della tipica vestina lunga aperta davanti, che indossavano maschi e femmine, cammina dentro il girello avvicinandosi a Maria, intenta a tessere al telaio, o come quello che vediamo in una miniatura del 1500 che illustra il LiLa parabola della vigna e dell’uomo, particolare della decorazione scultorea di Benedetto Antelami del portale occidentale del Battistero di Parma (vedi foto alla pagina precedente). 1196.

all’ora terza, il padrone prende come braccianti due fanciulli con falcetto e vanga («hora : tercia: |puericia: se|cunda: e|tas»); all’ora sesta si fanno avanti due adolescenti («sex|ta : adules|cenci|a: ter|cia : e|tas»); all’ora nona il padrone è seguito da un giovane con falcetto e zappa in spalla; l’iscrizione recita: «nona : iuven|tus: |quar|ta : etas». Infine nei riquadri finali seguiranno «gravitas» e «senectus» a chiudere il cerchio della vita, ma quello che qui interessa è la divisione dei primi anni di vita in infanzia, puerizia e adolescenza, sottolineando un’attenzione particolare alle varie fasi della crescita, secondo un’antica suddivisione già presente in Sant’Agostino e Isidoro di Siviglia e che, almeno a livello teorico, suddivideva ruoli diversi nelle varie età dell’infanzia.

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Dossier vre des enfants, in cui il piccolo gioca a palla con i fratelli piú grandi. I giocattoli dei bambini erano diversi in città o in campagna e secondo lo status sociale a cui appartenevano. Esistevano, tuttavia, anche giochi che non necessitavano di giocattoli, come tirare le palle di neve o tirare i sassi, o semplicemente rincorrersi. Lo storico francese Jean Froissart (1337-dopo il 1404), parlando della propria infanzia, ricorda: «Volevo essere il piú bravo a cacciare le farfalle. Quando ero riuscito a prenderle le legavo con un filo sottile e poi le facevo volare. Giocavo a coda di lupo. Spesso con un bastone mi facevo un cavallino che chiamavo Grisetto (probabilmente simile a quello con cui gioca il piccolo Gesú – con la tipica camicia aperta davanti, senza niente sotto, come era d’uso per i piccoli – in una miniatura eseguita in Svevia nel XV secolo, n.d.A.). Dalla sera alla mattina mi divertivo con la trottola da tirare con lo spago e spesso ho soffiato l’acqua con una cannuccia» (Jean Froissart, L’Espinette amoureuse). Bambole di pezza, di legno, di cartapesta, di terracotta, erano preferite dalle bambine, mentre palle di stoffa, marionette, fionde, zuffoli ricavati da canne, spade di legno, erano giocattoli a cui potevano aspirare anche i maschi dei ceti popolari. Gli scavi archeologici nei centri urbani hanno portato alla luce anche dei giocattoli di età medievale. A Firenze, durante gli scavi di piazza Signoria, sono emersi una trottola in legno e una trombetta di terracotta; il Palazzo Pretorio di Prato ha restituito cavallini in ceramica e molti salvadanai; gli scavi di altre città italiane (Genova, Pisa, Bologna, Pavia, Pistoia) hanno portato alla luce figure di animali in terracotta, fischietti, flauti di ceramica e in osso. A Strasburgo, in Francia, è stata addirittura scoperta la bottega di un vasaio del XIII secolo dalla quale sono venuti alla luce fischietti a forma di uccello, piccole bambole, cavalli con cavaliere, tegami e brocche in miniatura per il corredo delle

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Dai Racconti di Canterbury

Un bambino impara a leggere Nei Racconti di Canterbury (ideati intorno al 1387) il grande poeta inglese Geoffrey Chaucer (1340/1345-1400) riuscí a rappresentare un quadro completo della realtà umana e sociale dell’Inghilterra del suo tempo. Nel Racconto della Priora, in cui è narrato un miracolo della Vergine, l’autore descrive, tra le altre cose, il metodo di apprendimento di un bambino che ha appena iniziato la scuola: ha sette anni e viene posto davanti al sillabario e, mentre lui si dedica a imparare le lettere dell’alfabeto, altri bambini, già piú avanti negli studi, imparano a leggere e a cantare un inno alla Vergine in latino, pur non conoscendo ancora bene la grammatica. Dal racconto emerge anche l’usanza di essere sgridati o picchiati frequentemente. «In una grande città dell’Asia, proprio fra l’abitato dei cristiani c’era un ghetto (...), e proprio laggiú (...) i cristiani avevano una piccola scuola, e in quella scuola c’era uno sciame di bambini, tutti figli dei cristiani, che imparavano anno per anno quello che là usava, e cioè a cantare e a leggere, come del resto fanno tutti i ragazzi piccini. Tra quei frugoletti c’era il figlio d’una vedova, uno scolaretto di sette anni, che a scuola andava puntualmente tutti i santi giorni. (...) Dunque, quel marmocchietto che non bambole, tutto di creta. Anche a Essinglen, in Germania, sono venuti alla luce piccole bambole, fischietti, brocche in miniatura, piccoli animali in ceramica datati al XIII-XIV secolo. Altri giocattoli dello stesso tipo, di età bassomedievale e provenienti da varie parti d’Europa, si trovano anche al British Museum. Piú rari, invece, sono i reperti di età altomedievale.

Il gioco dura poco

Il tempo dedicato al gioco era in ogni caso breve. I bambini cominciavano a lavorare molto presto: nelle campagne, i figli dei contadini venivano spesso incaricati di condurre il bestiame al pascolo o venivano mandati a imparare il mestiere presso qualche artigiano in città, mentre le bambine talvolta erano inviate a fare le domestiche nelle case dei cittadini ricchi. La formazione professionale si acquisiva direttamente nelle botteghe degli artigiani e dei mercanti con un lungo apprendistato. Un contratto stabiliva gli obblighi reciproci dell’apprendista (i maschi a partire dai sette anni, le femmine da sei) e del «maestro». Solo per fa-

re un esempio, un contratto di apprendistato rogato a Portovenere il 15 aprile 1260 tra un sarto, Giovanni, che affida il nipote al calzolaio Giliolo, prevede un periodo di apprendistato di sei anni, perché impari «l’arte della calzoleria» ricevendo anche vitto e alloggio in cambio dei servizi domestici e della consegna al «maestro» di ogni guadagno. Anche nei registri dei cantieri edili, come nelle registrazioni contabili dell’Opera del Duomo di Orvieto del XIV secolo, si ritrova spesso il termine di «pueri» o «discipuli»: a Venezia l’apprendistato per il muratore durava sette anni, cinque per lo scalpellino, dopo di che l’allievo diventava maestro, previa iscrizione all’arte. Il rapporto «maestro muratore» e apprendista è rappresentato anche in una formella del terzo arco del portale di San Marco a Venezia, dove i mestieri veneziani sono raffigurati proprio attraverso la rappresentazione dei «maestri» con i loro garzoni. Del resto, attraverso il rapporto di apprendistato, si imperniavano l’organizzazione del mestiere e il passaggio del sapere tecnico da una generazione all’altra (cosa che oggi, purtroppo, rischiamo di febbraio

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sapeva neanche ancora leggere, seduto a scuola davanti al sillabario, sentiva i piú grandicelli che già imparavano dal corale a cantare Alma Redemptoris. Allora si fece coraggio e pian piano si avvicinò a loro, orecchiando bene parole e note, e finalmente riuscí a imparare a memoria il primo verso. Certo, piccino e tenero com’era, non sapeva ancora che cosa significassero quei paroloni in latino, ma un bel giorno andò da un suo compagno e gli chiese di spiegargli quel canto nella sua lingua (...). Allora il suo compagno, ch’era un po’ piú grandicello, gli rispose: “Questo canto, ho sentito dire che fu composto per nostra Signora piena di grazia e benedetta, per salutarla e per pregarla di aiutarci e di soccorrerci nell’ora della morte. Ma poi non so spiegarti altro. So cantare, ma la grammatica la conosco poco”. “È dunque un canto di devozione alla mamma di Gesú?” chiese quell’innocente. “Allora voglio proprio impegnarmi per impararlo prima che arrivi Natale! Anche a costo di farmi sgridare perché non so il sillabario, e di farmi perfino picchiare tre volte all’ora, voglio impararlo per rendere onore a nostra Signora!”». (Geoffrey Chaucer, Racconto della Priora, in I racconti di Canterbury, a cura di Ermanno Barisone, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1986, pp. 251-252). Pieve Fosciana (Lucca), chiesa di Santa Maria di Capraia. Madonna col Bambino, tempera su tavola del Maestro di Borsigliana (forse Pietro di Talada). XV sec. Maria insegna a leggere a Gesú, tenendo in mano un libro aperto sulla pagina del Magnificat, mentre il bambino unisce vocali e consonanti su una tavoletta di legno.

perdere!), che prevedeva anche un lungo periodo di convivenza. La rottura dei legami di attaccamento durante l’infanzia e la creazione di legami piú ampi (in questo caso la famiglia del «maestro») sembra caratterizzare un po’ tutte le classi sociali ed entrambi i sessi durante l’Età di Mezzo (con conseguenze psicologiche e sociali ancora in gran parte da valutare). I bambini venivano allontanati dalla propria famiglia per imparare una professione, o per essere affidati a un monastero o, se appartenenti a una famiglia aristocratica, per imparare le buone maniere e l’arte della cavalleria presso una famiglia dello stesso ceto (se maschi) e, se femmine, per essere educate all’arte domestica (cucire, ricamare, filare la seta...) presso la famiglia del fidanzato come futura padrona di casa. Anche i giovani appartenenti alle famiglie mercantili acquisivano le loro competenze tecniche neces-

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sarie all’arte – tenere la contabilità e la corrispondenza – direttamente in bottega, alle dipendenze dei piú anziani. E in questo caso la lingua usata era il volgare, mentre nella scuola comunale l’insegnamento si svolgeva in latino.

L’ABC e i numeri

In un contratto redatto a Firenze nel 1313 Betto Feducci promette di insegnare a Giovanni, figlio di Salimbene Salto «a leggere e a scrivere, cosí e in tal modo che sappia (...) leggere e scrivere ogni tipo di lettera e di registro contabile, e tutto ciò che gli sia sufficiente a stare nelle botteghe artigiane». Questo contratto mette in luce la consapevolezza della necessità dell’uso della scrittura all’interno della cultura mercantile. Francesco di Giovanni di Durante, un mercante fiorentino del Trecento, nel suo Libro di ricordi, scritto in volgare, racconta come a undici anni avesse iniziato a imparare gli elementi di abaco (cioè a

tenere la contabilità, usando l’abaco come strumento per il calcolo) da un certo Iacopo della famiglia Peruzzi. Tre anni dopo era in grado di esercitare il mestiere: «A die .XVI. di novenbre 1337, mi misi le brache (cioè fui considerato adultoall’epoca aveva quattordici anni) e (...) mi puosi a stare chon Marcho di messer Lotto, a l’Arte della lana» (misi su una bottega dell’Arte della lana con Marco di Messer Lotto). E Paolo da Certaldo sottolinea l’importanza di seguire l’ inclinazione dei figli nella scelta del mestiere: «Niuna ricchezza è piú stabile e piú sicura a l’uomo che l’arte: e però poni i tuoi figliuoli a quella arte ch’a loro piú diletta, e verronnone migliori maestri». (Libro di buoni costumi, 327) Per gran parte del Medioevo la scuola fu appannaggio della Chiesa e destinata soprattutto all’educazione degli ecclesiastici. L’esigenza di una cultura piú diffusa sorse con la nuova realtà politica

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San Gimignano, chiesa di Sant’Agostino. Il maestro e gli scolari, particolare dalle Storie di Sant’Agostino affrescate da Benozzo Gozzoli. 1465.

comunale e con l’ampliarsi dei commerci, fino ad arrivare alla gestione da parte del Comune delle scuole di grammatica. In una famiglia di mercanti del Trecento era necessario, del resto, saper tenere la penna in mano. In un celebre brano della Cronica di Matteo Villani, l’autore riporta che a Firenze «Troviamo, ch’e’ fanciulli e fanciulle che stanno a leggere (che imparano a leggere), da otto a dieci mila. I fanciulli che stanno a imparare l’abbaco e l’algorismo (che imparano i numeri e a far di conto – erano solo i maschi, tranne eccezioni rarissime –) in sei scuole, da mille in milledugento. E quelli che stanno ad apprendere la grammatica e loica in quattro grandi scuole, da cinquecentocinquanta in seicento». L’indice altissimo di alfabetizzazione sostenuto dal Villani ha intento celebrativo piú che statistico, anche se l’alfabetizzazione a Firenze era sicuramente molto avanzata: quello che importa è che l’istruzione fosse considerata una delle manifestazioni di magnificenza della città – lo stesso accade negli scritti di Bonvesin de la Riva su Milano –, cosa che sottolinea l’importanza attribuita alla scuola nella città comunale. Non dimentichiamo inoltre che anche all’inizio del Trecento, quando i documenti attestano alcuni contratti stipulati con maestre (una rarità!) che tengono scuola per le bambine, le piccole fiorentine non accedevano certo in massa nelle scuole per imparare a leggere e a scrivere: la scuola era frequentata soprattutto dai maschi.

A casa del maestro

Le lezioni si svolgevano presso l’abitazione del maestro; gli scolari erano divisi in classi. Grande importanza veniva data allo studio a memoria dei testi (i salmi, il Pater noster e l’Ave Maria, naturalmente in latino)

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e alla ripetizione orale. I rudimenti della grammatica latina venivano insegnati nella terza classe, quando si imparavano a memoria i Disticha Catonis. In seguito veniva affrontato lo studio della composizione latina e alcuni allievi potevano affrontare anche l’aritmetica e la geometria. Non esisteva un’organizzazione burocratica e i passaggi da un argomento di studio all’altro venivano decisi liberamente dai maestri. L’atmosfera in classe non doveva essere troppo tranquilla: l’uso della verga era corrente e imparare ed essere picchiati era tutt’uno. Tuttavia i testi medievali (dalla Vita scolastica di Bonvesin de la Riva ai Documenti d’amore di Francesco da Barberino) ricordano l’indocilità e la maleducazione dei ragazzi, ai quali per questo motivo non venivano risparmiate le punizioni. Una miniatura del XIII secolo raffigura ironicamente l’abitudine di dare punizioni corporali agli allievi: scolari e maestro sono scimmie e, mentre alcune scimmie-allievi sono occupate a leggere e a scrivere su una tavoletta (le lettere venivano tracciate su una tavoletta gessata o di cera), il maestro-scimmia esercita il suo ruolo battendo violentemente un allievo intento a leggere davanti a lui. La verga, del resto, non era sconosciuta ai ragazzi nemmeno fuori dalla scuola e le punizioni erano un’abitudine consolidata. Scriveva Paolo da Certaldo «Abbi a mente, quando se’ ripreso o dal tuo maestro o dal tuo padre o da altra persona che ti gastighi e ammunisca d’alcuna cosa rea che tu abbi fatta o detta, di stare bene intento e reverente a udire ciò che t’è detto, e cogli orecchi de la mente ascolta bene il tuo gastigatore. E non dire: «Questi che mi gastiga non ha a fare nulla di me»; anzi fa ragione immantanente che que’ che ti gastiga è tuo amico, o fu amico di tuo padre o di tuoi parenti o di tua schiatta (...)» (Libro di buoni costumi, 328). I rudimenti della lettura potevano essere appresi anche in casa, fin da piccoli. Ne rendono una te-

stimonianza alcuni oggetti ritrovati e fonti scritte e iconografiche. Le lettere potevano essere tracciate nella frutta e, una volta riconosciute, il frutto poteva costituire il premio per il piccolo allievo; in altri casi «oggetti pedagogici», come un disco abbecedario in gesso del Trecento proveniente da Parigi, potevano aiutare a imparare, toccando e giocando, le prime lettere.

Maria istruisce Gesú

Numerose sono anche le immagini della Madonna che insegna a leggere al piccolo Gesú o di Sant’Anna maestra della piccola Maria. Nella quattrocentesca Madonna del Maestro di Borsigliana (foto a p. 91) lo sguardo di Maria segue severo il piccolo Gesú che tiene in mano una tavoletta gessata sulla quale sono disegnate lettere dell’alfabeto e sillabe formate da una sola lettera associata a ogni vocale, «ba, be, bi, bo, bu...», mettendo in evidenza un preciso metodo di insegnamento. Dalla capacità della madre di dare al figlio i primi rudimenti del sapere poteva dipendere l’età di ingresso a scuola del bambino (per quanto riguardava le bambine, invece, nella maggior parte dei casi non frequentando scuole, l’apprendimento poteva dipendere totalmente dalle capacità o dai limiti della madre). Non dimentichiamo, tuttavia, che la scuola e la lettura rimasero per secoli (almeno fino al XIX) appannaggio delle classi privilegiate e, in questo caso, possono essere considerate tali anche le generazioni urbane piú fortunate, che potevano accedere a un lavoro specializzato. Per le classi popolari, soprattutto nelle campagne (dove l’educazione restò affidata alla Chiesa) l’opportunità di ricevere un’istruzione erano prossime a zero e anche le disposizioni comunali che prevedevano la gratuità della frequenza scolastica per i poveri erano un’eccezione. Del resto, come ricordava Giordano da Rivalto nella predica riportata all’inizio di queste pagine, la condizione servile dei lavoratori

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Dossier

Da leggere U Aldobrandino da Siena. La Sanità

del Corpo, volgarizzato da Zucchero Bencivenni, Cap. XIX, C.19, Cod. II-ii85, Biblioteca Nazionale di Firenze in Angela Giallongo, Il bambino medievale. Educazione ed infanzia nel Medioevo, Edizioni Dedalo, Bari 1990 U Philippe Ariès, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, Laterza, Roma-Bari 1968 U Egle Becchi, Medioevo, in Storia dell’infanzia, 1, Dall’antichità al Seicento, a cura di Egle Becchi e Dominique Julia, Laterza, Roma-Bari 1996, pp.61-91. U Giovanni Cherubini, Il lavoro, la taverna,

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la strada. Scorci di Medioevo, Liguori Editore, Napoli 1997. U Carlo Maria Cipolla, Storia economica dell’Europa pre-industriale, Il Mulino, Bologna, ed. riveduta 1975 U Arnould Clausse, Introduzione storica ai problemi dell’educazione, La Nuova Italia, Firenze 1974. U Luisa Maria D’Adami, Alimentazione e malattie infantili nel pieno e nel Tardo Medioevo, Firenze Atheneum, Firenze 2005 U Albert Dietl, La decorazione plastica del battistero e il suo programma, in Benedetto Antelami e il Battistero di Parma, Einaudi, Torino 1995

U Francesco da Barberino, Reggimento

e costumi di donna, edizione critica a cura di Giuseppe E. Sansone, Zauli Editore, Roma 1995 U Carla Frova, Istruzione e educazione nel Medioevo, Loescher Editore, Torino 1973 U Arsenio Frugoni, Chiara Frugoni, Un giorno in una città medievale, Laterza, Roma-Bari 1997 U Chiara Frugoni, L’affare migliore di Enrico. Giotto e la cappella Scrovegni, Einaudi, Torino 2008 U Piero Guarducci, Il «balocco» nel Medioevo italiano. Una testimonianza storica, archeologica e di cultura

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Lasciate che i piccoli vengano a me, olio su tavola di Lucas Cranach il Vecchio (1472-1553). 1538. Amburgo, Hamburger Kunsthalle.

era considerata espressione della volontà di Dio. Era quindi ritenuta assurda una scuola per tutte quelle persone il cui unico dovere era quello di coltivare i campi e svolgere mestieri pesanti e servili. Ma non solo molti bambini non avevano accesso a un’istruzione e cominciavano a lavorare molto presto; le fonti indicano come frequente anche il furto dei piccoli per ottenere un riscatto dai parenti e, soprattutto, per venderli come schiavi. Infatti ancora nel Trecento la schiavitú non era scomparsa dalle città italiane.

Bambini rapiti

Una novella del Boccaccio ha per protagonista Teodoro, rapito da bambino in Armenia e venduto in Sicilia dai Genovesi (Boccaccio, Decameron, V, 7) e il mercante di Prato Francesco Datini (1335-1440) scriveva ad Andrea di Bonanno, suo agente a Genova, perché gli acquistasse una «schiavetta» d’età tra gli otto e i dieci anni, giovane e «rusticha» (robusta) da adibire a lavori domestici come lavare scodelle, trasportare in casa la legna e portare il pane al forno «ben fatta da poter

materiale, Salimbeni, Firenze 1986 U Christiane Klapisch-Zuber, La donna e

la famiglia, in Jacques Le Goff (a cura di), L’uomo medievale, Laterza, RomaBari 1988; pp.321-349. U Christiane Klapisch-Zuber, Le chiavi fiorentine di Barbablù: l’apprendimento della lettura a Firenze nel XV secolo, Quaderni Storici, 57, a. XIX, n. 3, dicembre 1984; pp.765-792 U Maria Teresa Maiocchi, Edipo in società. Nascita del sentimento familiare e ideale dell’infanzia, Feltrinelli, Milano, 1983. U Guido Mazzoni, Sull’antica cantilena «Ninna nanna li miei begli fanti», in

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Studi Medievali, Loescher, Torino 1913, vol. IV, pp. 409 ss. U Vittore Branca (a cura di), Mercanti scrittori: ricordi nella Firenze tra Medioevo e Rinascimento, Rusconi, Milano 1986 U Régine Pernoud, La donna al tempo delle cattedrali, Rizzoli, Milano 1982 U Giuliano Pinto, Toscana Medievale. Paesaggi e realtà sociali, Le Lettere, Firenze 1993 U Prediche inedite del B. Giordano da Rivalto recitate in Firenze dal 1302 al 1305 e pubblicate per cura di Enrico Narducci, Bologna 1867 U Lucio Riccetti, La «Loggia del Duomo»

durare (...) di buona natura e chondizione perchè io me la possa avvezzare a mio modo...e però vuole essere bene fondata e di buon nerbo, però vorrò duri fatica assai; non arà a attendere a niuna altra cosa, però che l’altra ch’io ho qui è una brava schiava e sa bene fare il pane e ottimamente cuocere e apparecchiare». E anche Petrarca, in una lettera scritta da Venezia nel 1367, ricorda la gran quantità di schiavi provenienti dalla Scizia (zona tra il Danubio e il Don) «che gli stessi loro genitori stretti dal bisogno vendono a prezzo» e che riempiono le strade della città. I rapimenti dei bambini dovevavo essere molto temuti se alcuni miracoli di San Nicola, protettore dell’infanzia, riguardano proprio il rapimento e la vendita dei bambini come schiavi e se alcuni pittori come Ambrogio Lorenzetti e Bernardo Daddi ne dipinsero le storie nelle loro opere per dare conforto a genitori sfortunati nelle loro preghiere. Pericoli, guerre, malattie e doveri rendevano breve l’infanzia, e – come accade per molti altri aspetti dell’esistenza umana – il pennello degli artisti, anche se in maniera marginale, ci restituisce tracce di realtà quotidiana appartenente a un mondo – quello dell’infanzia nel Medioevo – altrimenti difficile da ricomporre. V

e i cantieri delle cattedrali. Indirizzi di ricerca, in Guido Barlozzetti (a cura di), Il Duomo di Orvieto e le grandi cattedrali del Duecento, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Orvieto, 12-14 novembre 1990, TorinoRoma 1995; pp. 273-356. U Trotula de Ruggiero, Sulle malattie delle donne (De mulieribus passionibus), a cura di Pina Boggi Cavallo, La Luna Saggia, Palermo 1994 U Donato Velluti, Cronaca domestica, Firenze, Sansoni, 1914 U André Wirobisz, L’attività edilizia a Venezia nel XIV e XV secolo, Studi Veneziani, VII, 1965, pp. 307-343

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luoghi armenia

Tesori in codice U U di Franco Bruni

no dei capitoli della storia armena piú a lungo narrato e commentato negli ultimi decenni è il genocidio, perpetrato dal governo turco negli anni Dieci e Venti del secolo scorso contro le minoranze presenti nell’Anatolia orientale. A dispetto di questo e di altri tragici eventi, l’Armenia ha saputo comunque dotarsi, sin dal IV secolo d.C., di quella che indirettamente si è rivelata una sorta di arma simbolica vincente, il cristianesimo, che ha inciso in maniera profonda

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Terra straziata da oppressori antichi e moderni, l’Armenia è riuscita comunque a coltivare una cultura ricca e raffinata. Tra le cui massime espressioni figurano le magnifiche opere dei maestri miniatori oggi conservate nel Museo Biblioteca di Yerevan

sulla storia e sulla cultura di questo popolo. L’adozione ufficiale della religione cristiana, nel 301, sotto il regno di Tiridate III, grazie all’opera evangelizzatrice di San Gregorio l’Illuminatore, ha fatto dell’Armenia il primo Stato «cristiano» della storia, con la conseguente costituzione di una Chiesa il cui rituale, non troppo dissimile da quello ortodosso, ha mantenuto inalterate sino a oggi le proprie peculiarità. Accanto al profondo sentimento cristiano che perva-

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Salvo diversa indicazione, tutti i codici miniati illustrati nell’articolo sono conservati al Museo Biblioteca del Matenadaran di Yerevan (Armenia).

In alto un Vangelo di produzione cilicia. XIII sec. Dalla Cilicia provengono molti capolavori della miniatura armena. In basso il Battesimo di Gesú nelle acque

del Giordano in un Vangelo del XVI sec. Nella pagina accanto la Trasfigurazione del Signore e Gesú con gli Apostoli, in un Vangelo del XIV sec.

de ogni aspetto della cultura, la lingua e l’alfabeto armeni costituiscono, oggi come in passato, un altro punto di forza e di orgoglio nazionale. Ceppo a sé stante all’interno delle lingue indoeuropee, l’armeno si è costituito su di un alfabeto unico nel suo genere, dai ricchi arabeschi che ricordano vagamente le infinite varianti decorative che adornano le tipiche croci di pietra, i khatchkar, che da veri protagonisti costellano il paesaggio.

Una tradizione secolare

Una tradizione, quella scrittoria, che ha lasciato ai posteri una produzione manoscritta miniata che conta oggi migliaia di codici, conservati in Armenia come in varie biblioteche del mondo. Dalla profonda tradizione per la cultura scritta alla ricchezza architettonica dei monasteri e delle chiese sparse su tutto il territorio, il passo è breve: mentre anonimi architetti prestavano tutta la loro abilità nell’elevare possenti monumenti in onore del Cristo, negli scriptoria pazienti monaci tramandavano il sapere attraverso la copiatura di preziosi codici, in un continuum spazio-temporale e spirituale, rimasto fedele a se stesso nei secoli. Con il suo raffinato equilibrio formale e pittorico, frutto della stretta collaborazione di amanuensi e di miniaturisti, che hanno prodotto veri e propri gioielli

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luoghi armenia Impero di Tigrane II il Grande, 70 a.C. Regno armeno di Cilicia, 1080-1375 Prima Repubblica armena, 1918-1920 Armenia sovietica (1920-1991) e Terza Repubblica di Armenia (dal 1991) Armenia storica (altipiano armeno) Armenia «wilsoniana» (secondo il trattato di Sèvres, 1920, inclusa la Prima Repubblica)

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A sinistra carta dell’Armenia nel corso della storia, dall’età di Tigrane il Grande agli inizi del Novecento. A destra Yerevan. Particolare della statua di Mesrop Mashtots, inventore dell’alfabeto armeno, posta all’ingresso del Museo Biblioteca del Matenadaran (foto nella pagina accanto, al centro).

«multimediali», gran parte del patrimonio codicologico luni casi, costituiscono di per sé una testimonianza di armeno è oggi conservato a Yerevan nella bibliotecaaltissimo artigianato artistico, un elemento che accomuseo del Matenadaran, fondata nel 1959. Un edificio muna molti di questi codici è la presenza del colophon, moderno, arricchito dalla presenza della statua del mocioè di indicazioni poste alla fine dell’opera, in cui sono naco predicatore Mesrop Mashtots – inventore nel 405 raccolte notizie sul luogo in cui lo stesso manoscritto fu d.C. dell’alfabeto armeno –, che dall’alto della collina copiato – nell’editoria moderna il colophon riporta i dati accoglie con il suo sguardo ieratico i visitatori. Centro relativi al luogo di stampa – sul copista, sugli eventuali di raccolta, studio, conservazione e restauro, questo committenti dell’opera; non di rado, nei colophon sono scrigno, con i suoi oltre 13 000 manoscritti armeni, è inclusi accenni alle vicende storiche vissute in prima la testimonianza piú preziosa della tradizione scrittoria persona durante la creazione del codice. Quanto poi ai armena, in particolare d’epoca medievale. contenuti privilegiati in questa produzione manoscritAl destino del popolo armeno e della sua comta, occorre segnalare, tra l’altro, che gran parte di essa plessa storia è legato profondamente anche quello fu concepita per una destinazione liturgica, trattandosi del patrimonio librario. La nascita e la scomparsa principalmente di Vangeli, Bibbie, lezionari, anche se non di vari regni e principati, mancano trattati scientifici le tante annessioni subite e di natura storica. Nel 405 il monaco predicatore per l’invadenza degli Stati Al VI e VII secolo ci riMesrop Mashtots diede vita limitrofi, hanno accompaportano i frammenti piú gnato e in qualche modo antichi conservati nel Muall’alfabeto armeno segnato un processo cultuseo. A quell’epoca risalgorale travagliato e il destino no alcuni fogli pergamenadelle varie «scuole» scrittorie e degli stili che andarocei che furono cuciti all’interno di un Vangelo piú tardo, no sviluppandosi nell’una o nell’altra regione. Una copiato nell’anno 989; miniature che risaltano per la produzione, dunque, che ha saputo adeguarsi alle loro influenza orientale riscontrabile nel tratto molto ripetute occupazioni che hanno movimentato la stomarcato e per la mancanza di volumetria delle figure. ria di un Paese perennemente assediato ma, spesso, A partire dal 640, con l’invasione araba del territorio anche ammirato dai suoi stessi dominatori. armeno – già precedentemente sotto il dominio persiaIl Matenadaran, all’origine biblioteca fondata nel no – anche la produzione scrittoria conosce una fase V secolo d.C. a Etchmiadzin, sede del patriarcato ardi stallo, almeno sino alla seconda metà del IX secolo meno, rappresenta oggi, attraverso le sue molteplici quando, riconquistata la libertà, riprende vigore con la vocazioni, un felice esempio di connubio tra museo, nascita di nuove realtà politiche – il regno dei Bagratidi biblioteca e centro di ricerca, fornendo un importante a nord e degli Artsruni a sud –, che diedero vita e supsupporto allo studio della produzione scrittoria armeporto alla fondazione di comunità monastiche, condicio na le cui testimonianze piú antiche, qui conservate, sine qua non per la ripresa di una intensa attività scrittorisalgono al VI secolo d.C. ria e culturale in genere. Restringendo lo sguardo alle componenti materiali Essendo geograficamente crocevia di tante influendi questi codici, oltre alle ricche rilegature che, in taze diverse e, soprattutto, punto di incontro tra Occiden-

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te e Oriente, anche lo stile di queste miniature ha risentito degli influssi piú variegati. Nell’XI secolo, durante una breve fase di predominanza bizantina, anche lo stile pittorico ne risentí, tanto da poter trovare convergenze – è il caso del Vangelo di Moghni – con la coeva pittura sacra delle chiese rupestri della Cappadocia.

I capolavori della «Piccola Armenia»

Scorrendo la cronologia dei numerosi codici esposti nelle vetrine del Matenadaran, si osserva che il Basso Medioevo è l’epoca che meglio rappresenta la produzione manoscritta armena. Tra l’XI e il XIV secolo si affermano importanti istituzioni accademiche, come accade per esempio a Gladzor in cui operano famosi copisti come Momik, Thoros Taronetsi e Avag. Senza poi dimenticare il regno armeno di Cilicia (la «Piccola Armenia»),

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A sinistra Yerevan. Il Museo Biblioteca del Matenadaran, che ha sede in un edificio ultimato nel 1959.

In alto l’Entrata di Gesú a Gerusalemme, miniatura di Hovhannes, dal Vaspurakan, per un Vangelo del XIII sec.

durato dalla fine dell’XI sino al XIV secolo, periodo durante il quale si crearono le condizioni ottimali per una rigogliosa produzione libraria testimoniata dai tanti capolavori di Grigor e Thoros Roslin, che si avvalsero di un committente di eccezione come il katholikos cilicio Costantino I. La regione della Cilicia, già abitata da comunità armene sin dai tempi del regno di Tigrane il Grande (140-55 a.C.), è oggi rappresentata nelle collezioni del Matenadaran da 150 codici che testimoniano il punto d’arrivo – attraverso le varie influenze araba, bizanti-

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luoghi armenia na e orientale – a uno stile di grande raffinatezza, nel quale l’ampia gamma coloristica, il senso volumetricospaziale, la rappresentazione psicologica e il dinamismo dei personaggi raggiungono vertici assoluti. Nella produzione di questa regione, non solo lo stile, ma anche l’aspetto fisico dei codici subisce mutamenti. Dai libri di grande formato, evidentemente adatti a una lettura a distanza, si passa a libri di formato piú piccolo tanto da rendere necessaria una lettura ravvicinata, elemento che favorisce e stimola il miniaturista a una maggiore cura del dettaglio pittorico e a una resa piú introspettiva. Si ampliano anche le tipologie di libri e, accanto al Vangelo, per eccellenza il libro maggiormente copiato e miniato in tutta la produzione armena, vengono coinvolti in questo processo anche altri tipi di testi come i lezionari e i salteri.

Maestri miniatori

Fra i maggiori centri della Cilicia, spicca la città di Hromkla dove è testimoniata l’attività di celeberrimi miniaturisti come il già citato Thoros Roslin, Hovhannes, Kirakos e Sargis Pitzak, i quali, con la loro arte, hanno saputo trasformare semplici codici in veri e propri capolavori. In particolare, con Thoros Roslin il decorativismo raggiunge la sua massima espressione nelle tavole di concordanza dei Vangeli (khoran), fornendo un modello a lungo imitato nella produzione successiva. Con la fine del XIII secolo si arriva a un forma

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In alto donne al sepolcro e discesa agli Inferi, miniature di Zakaria, dal Vaspurakan, per un Vangelo del 1357. In basso Gesú davanti a Pilato e l’Ultima Cena, miniature di Sargis Pitzak, uno dei maestri della miniatura armena, per un Vangelo del 1336.

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quasi «manierata» della produzione classica ciliciana, con un ulteriore approfondimento emozionale delle immagini, un ricercato senso del movimento, tutti elementi ammirabili nel capolavoro del lezionario del 1286, in cui le ricche miniature creano complessi discorsi narrativi e una tensione ritmica figurativa di forte impatto. Proseguendo nel XIV secolo la raffinatezza e l’equilibrio raggiunti dall’opera di Thoros Roslin, vanno gradualmente affievolendosi. Nei 40 codici decorati da Sargis Pitzak prevale, per esempio, il decorativismo a scapito della narrazione, che subisce un processo di semplificazione. Tra l’altro fu proprio Sargis ad autoritrarsi in una Bibbia del 1338, prima testimonianza di auto-affermazione e presa di coscienza del proprio ruolo artistico. Anche per la Cilicia vennero tempi piú duri: nel 1375, a seguito dell’attacco dell’esercito del sultano d’Egitto, la capitale, Sis, capitolò e l’episodio ebbe conseguenze inevitabili sulla produzione libraria della regione. Contemporaneamente a quanto accadeva in Cilicia

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La Cattedrale di Etchmiadzin, sede del katholikos, cioè del patriarca della Chiesa apostolica armena. La Cattedrale è il piú antico luogo di culto cristiano armeno, essendo stata innalzata da San Gregorio l’Illuminatore tra il 301 e il 303. Dopo una parziale distruzione, fu ricostruita nel 480, a pianta cruciforme e, nel 680, la cupola lignea fu sostituita dalla struttura in pietra tuttora visibile. Risale invece al XVII sec. il campanile a tre piani e agli inizi del Settecento sono state infine aggiunte le rotonde che danno all’edificio l’aspetto di una chiesa a cinque cupole.

nel suo periodo aureo, anche nei vari principati dell’Armenia Maggiore fioriva una intensa attività libraria in cui, a differenza della produzione ciliciana, l’ispirazione stilistica assume toni notevolmente piú popolareschi e in cui il discorso narrativo perde quella complessità a favore di un linguaggio diretto, semplice. Anche in questa piú vasta area dell’Armenia non mancarono momenti di violenza sanguinaria, come in occasione delle invasioni mongole del XIII e XIV secolo, a cui alcuni principi armeni reagirono riconoscendo

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luoghi armenia A sinistra Valle di Göreme (Cappadocia, Turchia). L’interno di una chiesa rupestre, decorato da affreschi il cui stile è ripreso nelle miniature del Vangelo armeno di Moghni. In basso miniatura raffigurante l’Ascensione, realizzata per il Vangelo di Moghni. XI sec.

l’autorità dell’invasore, ottenendo in cambio una certa indipendenza e autonomia. Il compromesso permise ad alcuni principati di sopravvivere, garantendo uno sviluppo culturale attraverso la costituzione di eccellenti scuole monastiche. Basti pensare a Tathev e alla summenzionata Gladzor, che arrivò a essere definita, nel XIII secolo, una «Seconda Atene» per la fama raggiunta; un centro intellettuale di prim’ordine in cui si trovarono a operare artisti miniatori di grande fama.

Influenze orientali

Nella Grande Armenia, a partire dal XIII secolo, una posizione di rilievo nell’ambito della produzione libraria fu assunta dalla regione del Vaspurakan, che, quantitativamente parlando, è anche la piú rappresentata per numero di codici pervenuti. Con opere caratterizzate da forti influenze orientali, associate a un primitivismo pittorico in cui la gamma coloristica e l’aspetto narrativo risultano sensibilmente semplificati, nella produzione di questa area si assiste, in generale, a una perdita del senso prospettico che invece aveva caratterizzato la produzione della Cilicia; inoltre è preponderante il ricorso a una iconografia piú arcaica riscontrabile anche nelle posture dei

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personaggi ritratti. Si predilige infatti la disposizione frontale delle figure a favore di una rappresentatività potentemente simbolica piuttosto che realistica, e dai significati piú diretti. Non è dunque un caso che in queste raffigurazioni piú ieratiche e «meno» descrittive, intervengano iscrizioni esplicative accanto ai personaggi ritratti – elemento innovativo rispetto alla passata produzione – a compensare la mancanza dell’andamento narrativo tipico della produzione ciliciana. A partire dalla prima opera stampata in lingua armena nel 1511 a Venezia – città in cui, nel 1717, sorse tra anche il monastero dei Padri Armeni Mechitaristi –, la diffusione di libri a stampa in questa lingua si diffuse a macchia d’olio in altre città d’Europa e dell’Asia; ciononostante, un vivo legame con la tradizione manoscritta continuò fino al XIX secolo, venendo a costituire, insieme alle croci di pietra e ai millenari edifici di culto, una delle espressioni piú significativamente rappresentative della cultura armena, come ci testimonia il poeta Eghishe Çharents (1897-1937?) in un verso della sua Ode all’Armenia: «non dimenticherò i nostri libri incisi con lo stilo, divenuti preghiera...». F febbraio

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l’arte della guerra artiglierie individuali

Un uomo, un tiro di Flavio Russo

L’introduzione della polvere da sparo rivoluzionò le tecniche di combattimento e aprí la strada alla ricerca di ordigni capaci di garantire effetti devastanti. Gli esiti non furono sempre brillanti: soprattutto, nacquero macchine difficilmente manovrabili, la cui rielaborazione, però, pose le basi per lo sviluppo delle prime armi individuali, da cui derivarono anche fucili e pistole


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a comparsa delle armi da fuoco non risulta e non risalta fra gli eventi piú importanti del XIII-XIV secolo, a conferma implicita del loro lento evolversi, dopo una lunga fase di marginale impiego. Per la stragrande maggioranza degli storici del settore quel debutto fu caratterizzato da bocche da fuoco di dimensioni modestissime, che, anche sotto il profilo meramente formale, somigliavano vistosamente a vasi e a brocche domestiche. I rarissimi reperti e le ancor piú rare raffigurazioni in codici miniati ne danno ampia conferma: spessi vasi di bronzo, con un piccolo foro centrale, o anima, destinato a scagliare un tozzo dardo, appena sporgente dalla bocca, e non una palla, che avrebbe richiesto maggiore regolarità. È perciò facile intuirne l’insignificante letalità, che, se mai avvenuta, fu piú per sfortuna della vittima che per efficacia dell’arma! La vera ragione della sopravvivenza e del constante impiego di armi tanto rozze e ridicole è da ricercare nella loro voce potente, tanto simile al rombo del tuono. Per decenni, non meritarono alcuna distinzione rispetto alle macchine da lancio, tradizionalmente chiamate «tormenta», se non per quella terrificante estrinsecazione: furono infatti le «tormenta tonanti», e, solo

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a partire dalla metà del XIV secolo, iniziarono a infliggere danni non trascurabili alle strutture difensive. La bocca da fuoco, originariamente concepita come arma anti-uomo, si trasformò allora in macchina termica da demolizione a distanza, e, nei due secoli successivi, crebbe vistosamente, fino a divenire, piú che grande, soltanto grossa! Anche l’architettura subí un medesimo processo di accrescimento che si sviluppò nella cosiddetta «transizione».

Alla ricerca della celerità

In questo lungo intervallo si ipotizzò l’impiego delle bombarde in fazione campale, ma la loro irrilevante cadenza di fuoco, a fronte del loro peso enorme – che impediva qualsiasi manovra di punteria –, finí per lasciare alle sole piccole bocche manesche il campo di battaglia. Se ne studiarono perciò di piú efficaci, tentando di incrementarne la celerità di tiro magari, come già esposto a proposito delle artiglieria a ripetizione (vedi «Medioevo» n. 175, agosto A sinistra particolare di una miniatura raffigurante un vaso bombarda, dal De nobilitatibus, sapientiis, et prudentiis regum, trattato sulla monarchia scritto dal letterato inglese Walter de Milemete nel 1326. Collezione privata. In basso ricostruzione di un vaso bombarda.

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l’arte della guerra artiglierie individuali A sinistra bombardella manesca infissa nel terreno in fase di sparo, dal Bellifortis, trattato dello scienziato tedesco Konrad Kyeser, il cui primo manoscritto, pregevolmente illustrato, risale al 1405. Qui sotto bombarda manesca in ferro fucinato, produzione dell’Europa centro-occidentale. Fine del XIV sec.

Organo a trentasei canne, erroneamente attribuito a Leonardo da Vinci. Le culatte delle numerose canne erano serrate insieme in modo che i rispettivi foconi si trovassero allineati: bastava perciò collegarli con un sottile filo di polvere pirica per far accendere la carica di ciascuno in successione. Canne affiancate a dozzina su tre ordini di fuochi, ciascuno dei quali fatto sparare in rapidissima successione. La punteria era estremamente imprecisa non potendosi in alcun modo valutare l’inclinazione delle canne, né traguardare sul loro dorso il bersaglio.

La sbarra di ferro che bloccava le canne garantendo la corretta accensione di ciascuna, serviva in genere a consentire anche l’avvicendamento dei vari ordini, tramite rotazione, bloccandoli in posizione di sparo. Le ruote pur essendo concettualmente simili a quelle dei carri coevi, erano notevolmente piú robuste, dovendo sopportare oltre al rilevante peso dell’arma – sollecitazione statica – le spinte prodotte dallo sparo – sollecitazione dinamica – di gran lunga piú poderose.

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I cerchioni delle ruote erano realizzati con segmenti di legno, come le ruote dei carri, ma diversamente da loro non erano tenuti fermi soltanto dal cerchione in ferro, forzatovi intorno a caldo, ma anche da un serie di staffe, sempre di ferro, applicate nei punti di giuntaggio. febbraio

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Le prime canne in ferro forgiato capaci di sparare non furono particolarmente efficaci, ma la via verso la fabbricazione dei primi archibugi era ormai tracciata

2011), affiancandone numerose, ottenendo armi simili a organi, da cui trassero il nome. Il calibro minore toccò a quelle con piú canne, che non di rado giunsero a contarne una trentina, sia pure disposte su piú ordini rotanti, capaci di sparare tre distinte salve a breve intervallo. Tuttavia, per ricaricare un’arma siffatta, occorrevano diverse ore, perdendo cosí tale indubbio vantaggio. Fu allora che, volendo mantenere il gran numero di tiri riducendone drasticamente l’intervallo di ricarica, si prese a ragionare diversamente. Se trenta canne per un organo erano moltissime, separandole e affidandone ognuna a un singolo milite, non si frapponevano ostacoli a schierarne anche diverse centinaia, suddividendole in gruppi di alcune decine, in modo da farli sparare in rapida successione.

I prodromi della fanteria

Dal momento che ogni tiratore ricaricava soltanto la propria arma, bastavano un paio di minuti a ogni gruppo per replicare la scarica, un breve intervallo scandito dal fuoco dei restanti gruppi. In quello schieramento per linee successive può ravvisarsi la premessa della fanteria di linea, che si articolò oltre tre secoli piú tardi. Dal punto di vista balistico, la disposizione equivaleva a un organo colossale, capace di un volume di fuoco, a cadenza ravvicinata, incessante e senza rischi d’inceppamento o difficoltà di trasporto, di entità inusitata, ideale per impieghi tattici. Inoltre, mentre l’organo propriamente detto sparava a caso, non

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essendo possibile una vera punteria per le sue canne, il tiro con l’arma individuale era abbastanza mirato, e garantiva perciò un sensibile incremento dei colpi a segno. L’idea ebbe ben presto attuazione, portando alla realizzazione di rudimentali piccole bombarde manesche costituite da una canna, perlopiú di ferro forgiato, lunga una ventina di centimetri con l’anima di un paio, col foro d’accensione, o focone, posto sul dorso, in prossimità dalla sua culatta. Stringhe di ferro fissavano quei pezzi a lunghi manici metallici e piú spesso a bastoni appuntiti posteriormente, che servivano a infiggerli obliquamente nel terreno, un po’ come si faceva con le picche e con le lance per bloccare una carica di cavalleria. Il tiro si deve immaginare del tutto casuale, efficace solo se effettuato da un gran numero di pezzi, peraltro di scarsa violenza: la carica di polvere, infatti, occupava quasi l’intera lunghezza della canna, lasciando presso la bocca appena lo spazio per il proietto, che veniva perciò espulso con una modesta pressione. Per l’accensione si impiegava un tizzone o un attizzatoio rovente poggiandolo sul focone, da dove si faceva sporgere un po’ di polvere di piú fine macinatura. Nonostante tali deficienze, l’esito di quelle rudimentali armi individuali si dimostrò subito significativo e stravolgente, dando perciò origine a ripetuti perfezionamenti, che interessarono l’impugnatura, il sistema di accensione della polvere e la canna stessa; mutazioni che si protrassero per oltre due secoli e

che, alla fine, portarono all’avvento del moschetto, intorno al XVII secolo e quindi del fucile nel secolo successivo; quest’ultimo, nelle sue varianti piú evolute, fu l’arma della prima e seconda Guerra Mondiale. Dal medesimo criterio di arma da fuoco individuale – da usarsi però tenendola nella mano destra e non appoggiandola alla spalla –, derivò per altre vie la pistola.

Verso l’archibugio

L’impugnatura, che dopo alcuni archetipi di ferro, venne sempre realizzata in legno – cosí da consentire una migliore punteria priva di deleterie sollecitazioni e fastidiosi surriscaldamenti –, ebbe una serie di rapide modifiche. Fu dapprima una sorta di asta, terminante a punta, con la quale si potevano effettuare tiri aventi una inclinazione di circa 45° e senza alcuna mira. In breve, forse per l’agevole constatazione della maggiore efficacia dell’arma in posizione orizzontale, se ne ridusse la lunghezza e la si provvide di una sorta di artiglio, o spuntone, inferiore che sporgendo all’esterno di un parapetto o di una feritoia, ne bloccava il rinculo. La tipologia prese perciò la denominazione di bombardella manesca a becco, definizione che passò poi all’archibugio. In breve tempo l’impugnatura assunse la forma del teniere delle balestre, la cui estremità anteriore cessava una decina di centimetri prima della bocca della canna e quella posteriore si protraeva molto piú indietro della culatta, in modo da potersi appoggiare alla spalla del tiratore, peculiarità che da allora rimase immutata fino ai nostri giorni. Per garantire in tale posizione un agevole traguardo con un occhio lungo la canna, in modo da allinearla al bersaglio, il teniere, in seguito calcio, ebbe una curvatura verso il basso in maniera di abbassarne la parte posteriore, alzando quella anteriore. Si rese cosí possibile, solo piegando un po’ il capo, di prendere la mira traguardando il bersaglio lungo la canna, mentre

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l’arte della guerra artiglierie individuali con la mano sinistra si sorreggeva la parte anteriore del calcio e con la destra si maneggiava il dispositivo di accensione. L’arma, resa piú potente, manifestò una maggiore reazione retrograda, tendendo perciò a saltare dalle mani del tiratore, per cui l’uncino inferiore fu ulteriormente irrobustito e finí per dare il nome all’intera arma: archibugio a becco.

La «canna con l’uncino»

La definizione di archibugio coniata per definirla deriva dall’olandese haakbus, «canna con l’uncino» (tramite l’antico francese hacquebusche) e l’etimologia tradisce anche i siti di origine di tali armi, o almeno quelli dove furono piú consistentemente prodotte e impiegate. Anche nelle nostre cronache coeve, tuttavia, si incontra spesso la menzione di archibugio a becco, ormai sistematicamente impiegato, quasi sempre da apposite feritoie, dette infatti archibugiere, grazie alla lunghezza della sua canna. Sebbene in origine le armi da fuoco manesche, avessero il foro focone posizionato sulla sommità del dorso presso la culatta, esattamente come nelle bombarde propriamente dette, non appena si adattarono per l’impiego individuale, l’inadeguatezza di tale collocazione risultò evidente. Il polverino, posto sopra il focone, impediva di traguardare il bersaglio proprio al momento dello sparo, ostacolando perciò la collimazione. Per giunta, quando si accendeva, abbagliava l’occhio del tiratore, e spesso lo feriva gravemente, disabilitandolo a lungo. Lo si spostò, pertanto, lateralmente, ponendolo quasi a 90° dal precedente, e, al suo posto, sulla canna venne fissato un traguardo rialzato, una sorta di antesignana tacca di mira. La collocazione orizzontale del focone richiese, però, un piccolo contenitore, della grandezza e forma di un cucchiaino, detto «scodellino» e saldato alla canna. Pur

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Evoluzione della specie

Dall’alto verso il basso ricostruzione grafica di bombardella manesca su supporto di legno: da notare il becco di ferro inferiore, per sopprimere il rinculo nel tiro da feritoie; ricostruzione grafica di bombardella manesca su teniere del tipo usato dalle balestre; ricostruzione grafica di bombardella manesca, ormai prossima a divenire un archibugio: l’accensione è a serpentino libero, e il focone è già laterale con scodellino per l’innesco.

L’affusto in legno della bombardella manesca, molto lungo nella parte posteriore, serviva a evitare che le sfiammate del focone fossero troppo vicine all’occhio dell’artigliere. Consentiva inoltre di far sporgere l’arma dalle feritoie anche di mura molto spesse.

Le bombardelle manesche furono munite, sotto l’affusto di legno, di un robusto artiglio di ferro perpendicolare. Con l’arma in posizione di tiro si posizionava davanti alla soglia delle feritoie, bloccandone il rinculo dopo lo sparo.

La miccia accesa era fissata nella parte superiore di una leva a forma di S, imperniata al centro, che fatta ruotare agendo con la mano destra sulla sua parte inferiore, la portava nello scodellino dando fuoco alla polvere. febbraio

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La canna delle bombardelle manesche, di ferro o di bronzo, corta e di ampio diametro, fissata al fusto con stringhe metalliche era riempita quasi completamente dalla polvere e dalla palla, che spesso sporgeva dalla sua bocca.

risultando idoneo allo scopo, manifestava alcuni gravi inconvenienti: era troppo esposto al fuoco, con conseguenti accensioni accidentali, dal momento che non vi era alcuna schermatura tra la miccia accesa e il polverino contenuto in esso e, paradossalmente, ancora di piú esposto all’acqua piovana che, dopo poche gocce, impediva l’utilizzo dell’arma. La soluzione escogitata consistette nel munirlo di un coperchietto mobile, che, fatto ruotare orizzontalmente prima dello sparo, solo allora esponeva la polvere alla miccia. Rotazione che negli esemplari piú sofisticati avveniva automaticamente.

Come un drago

La lunghezza della canna delle bombardelle manesche progressivamente aumentò, trasformando anche il fusto che per alloggiarle quasi interamente, finí per assumere la forma del teniere delle balestre.

Sebbene la connotazione delle bombardelle si fosse notevolmente evoluta nel corso di vari decenni, il loro teniere dovette conservare l’artiglio inferiore, non potendosi frenare in altro modo il rinculo dell’arma.

Alle soglie dell’età moderna, la bombardella ha ormai acquisito la connotazione precipua dell’archibugio. Il focone non si trova piú sul dorso della canna, riservato alla tacca di mira, ma di fianco servito da uno scodellino nel quale scende la miccia.

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La bocca delle bombardelle continuò a fuoriuscire dal teniere per evitare che la sfiammata potesse incendiarlo. Essendo proprio la bocca la parte della canna piú sollecitata dallo sparo la si rinforzò con una sorta di anello, detto «gioia di bocca».

La canna delle ultime bombardelle e dei primi archibugi è di spessore rilevante, in genere a sezione ottagonale, piú facilmente forgiabile. Ha perso l’artiglio inferiore provvedendo il calcio anatomico a scaricare contro la spalla il rinculo.

L’abbassamento della miccia, invece, fu ottenuto dapprima mediante una piccola leva a forma di S, imperniata lateralmente, con l’estremità superiore sagomata a testa di serpente per serrare fra le ganasce la miccia stessa. Per tale somiglianza fu chiamata serpentino, o in alcune varianti draghetto, perché dalle sue fauci uscivano fiamme. La sua estremità inferiore, invece, si impegnava con la mano destra che, facendola ruotare di circa 60° verso il calcio, faceva scendere il serpentino nello scodellino, dando fuoco alla polvere. Il sistema, molto elementare e di scarsa sicurezza, rimase tuttavia in uso per lungo tempo, per la sua estrema semplicità di realizzazione ed economia di costo. Ma, nelle armi piú avanzate, fu presto sostituito, prima da un similare congegno a scatto, poi da uno a pressione, di gran lunga piú affidabile. Tra le due varianti comparve un dispositivo di accensione a ruota, estremamente complesso, che tradisce il debutto degli orologiai nella fabbricazione delle armi individuali. Poiché si tratta delle caratteristiche che, di lí a breve, divennero precipue dei migliori archibugi e quindi dei moschetti, ne esamineremo i dispositivi di accensione nel prossimo numero. F (1 – continua)

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caleido scopio

Il castello delle meraviglie

cartoline • Nato come residenza fortificata della maggiore signoria cittadina,

il Castello scaligero di Verona ospita il Museo di Castelvecchio, le cui collezioni documentano con opere di prim’ordine l’arte del Medioevo e del Rinascimento

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l Museo di Castelvecchio, a Verona, è particolarmente interessante sia per le collezioni esposte, soprattutto quelle dedicate al Medioevo e al Rinascimento, sia per l’edificio che lo ospita: il Castello scaligero, fatto costruire tra il 1354 e il 1356 da Cangrande II Della Scala, e poi oggetto di un significativo progetto di ristrutturazione da parte di Carlo Scarpa, compiuto tra il 1958 e il 1975, che fece della struttura un museo moderno, esso stesso «monumento-documento». La signoria scaligera era iniziata alla fine del Duecento, con Alberto I, la cui ascesa fu segnata da un notevole fervore edilizio, proseguito poi con Cangrande I, che portò il dominio dei Della Scala al suo apogeo. A lui si deve la costruzione della nuova cinta muraria, con sei porte e ventuno torrette, che modificò il volto di Verona e i cui resti hanno ancora oggi un forte impatto visivo.

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Il castello che ospita il Museo fu costruito come difesa dalle invasioni e dalle ribellioni popolari, quindi una specie di fortino, dal quale, attraverso il ponte sull’Adige, a uso esclusivo della famiglia, era facile poter uscire dalla città.

Modifiche e restauri Nei secoli e con il succedersi delle dominazioni – i Carraresi e i Visconti prima, poi la Repubblica di Venezia, fino al dominio napoleonico e austriaco – l’edificio ebbe funzione militare. A partire dal 1925, con notevoli modifiche strutturali che miravano a ricreare l’immagine del castello medievale – inserendo anche finestre e portali gotici e rinascimentali provenienti da edifici veronesi ormai distrutti –, divenne sede museale, nella quale furono trasferite le civiche collezioni di arte antica e moderna. Il complesso subí gravi danni durante la seconda

In alto Verona. Il Castello scaligero, sede del Museo di Castelvecchio. Nella pagina accanto particolare della Madonna del roseto, tempera su tavola attribuita al pittore Stefano da Verona (o da Zevio; 1379 circa-post 1438). guerra mondiale e, al termine del conflitto, fu necessario ricostruire il ponte sull’Adige e un’ala orientale del castello. L’opera di Carlo Scarpa, nel secondo dopoguerra, dette una nuova impronta all’edificio museale. Il restauro mise in evidenza le parti originali per permettere la lettura delle stratificazioni avvenute nei secoli nel monumento. Usando materiali tradizionali, quali la pietra e il legno, accanto al calcestruzzo, fu ridisegnato l’intero percorso museale, in un allestimento essenziale e rigoroso, talvolta interrotto da passaggi verso l’esterno, in cui le opere sono poste in connessione visiva tra loro. febbraio

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Il percorso inizia dall’ampia galleria delle sculture (divisa in sale comunicanti), nella quale si succedono opere longobarde, altomedievali e romaniche provenienti da Verona e dal territorio veronese. Nella prima sala si apre un piccolo vano, detto «sacello», progettato da Carlo Scarpa, in cui sono esposti gioielli longobardi e oggetti preziosi, tra i quali un piatto d’argento con scena di combattimento, datato tra la fine del VI e l’inizio del VII secolo, di grande vivacità. Tra le sculture, si distinguono opere pregevoli di età romanica, statue trecentesche, un tempo vivacemente dipinte (come si deduce dalle poche tracce di colore rimaste) provenienti dalle chiese della città e sculture rinascimentali. L’elegante statua di Santa Libera – opera di un lapicida veronese attivo poco oltre la metà del Trecento – attesta, con le lunghe trecce che proseguono fino a terra nei nastri annodati e la veste finemente lavorata, una nuova sensibilità verso l’arte gotica-cortese ed è testimone della raffinata corte scaligera, che aveva fatto di Verona uno dei centri artistici piú importanti della Penisola.

come un tronco d’albero tagliato, ricorda probabili legami con la Germania. Il percorso museale prosegue per alcuni tratti all’aperto, offrendo scorci sul giardino, sulle mura, sulla città e sull’Adige, salendo o scendendo le scale del vecchio castello. All’esterno, ma riparata, è collocata anche la statua equestre di Cangrande I Della Scala, che è possibile osservare dal basso, cosí come un tempo la si poteva vedere sulle Arche Scaligere. Nella Torre dell’Orologio, alla quale si accede attraverso il camminamento esterno, è stata invece collocata la statua equestre di Mastino II Della Scala,

Il Maestro di Sant’Anastasia Numerose statue sono assegnate a un artista attivo a Verona nella prima metà del Trecento e noto come Maestro di Sant’Anastasia. A lui è attribuita la grande Crocifissione, in origine costituita da altri elementi, oltre alla Madonna e San Giovanni che oggi affiancano la Croce, formanti una sacra rappresentazione scolpita in pietra, di grande forza emotiva e straordinaria espressività: il Cristo, il cui corpo in tensione manifesta la sofferenza in un urlo di dolore, insieme alla costruzione della croce

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Dove e quando

Museo di Castelvecchio Verona, Corso Castelvecchio 2 Orario martedí-domenica, 8,30-19,30, lunedí, 13,30-19,30 Info tel. 045 8062611; fax 045 8010729; www.comune.verona.it

probabilmente opera dello stesso lapicida che aveva realizzato quella di Cangrande. Ma le testimonianze dell’età medievale veronese non si limitano alla scultura. Al primo piano sono conservati affreschi due- e trecenteschi provenienti da palazzi scaligeri e dalle chiese della città. Tra questi un’interessante Battaglia tra cavalieri presso le mura di una città. Non dimentichiamo che gli Scaligeri chiamarono a lavorare a Verona alcuni tra i piú grandi artisti dell’epoca, come Giotto e Altichiero.

Il fasto di una corte Una testimonianza rara è data anche dai gioielli trecenteschi, tra cui una preziosa fibbia in pietre dure e perle, che mostra la ricchezza e il fasto delle vesti in epoca scaligera, come attestano le stoffe orientali rinvenute nella tomba di Cangrande I. Né mancano notevoli testimonianze della pittura trecentesca su tavola e importanti dipinti della prima metà del Quattrocento, tra cui la Madonna della quaglia del Pisanello e la Madonna del roseto, raffinatissima composizione, quasi una grande miniatura, attribuita a Stefano da Verona. Altre sale sono dedicate alla pittura dei secoli successivi, fino al delizioso dipinto del veneziano Pietro Longhi (1702-1785), Il Caffè. Gli appassionati di armi troveranno interessanti materiali datati dal Trecento al Settecento nella torre del mastio e, a testimonianza della grande tradizione dei fonditori veronesi, è presente la campana proveniente dalla torre del Gardello, in piazza delle Erbe, firmata da Maestro Jacopo e datata 1370, memoria di un artigianato e di un’attività estremamente importanti in età medievale. Sandra Baragli

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caleido scopio

Storie di una comunità libri • Pur non essendo una presenza numericamente importante, gli Ebrei di

Pavia rappresentarono una componente di rilievo nel tessuto sociale della città lombarda. Fino a quando, nel 1597, non ne vennero espulsi

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ubblicato in occasione della mostra «…persone, vicende, parole ritrovate…», svoltasi a Pavia nello scorso autunno, il volume raccoglie contributi di studiosi che, da spunti differenti, si sono focalizzati sulla presenza degli Ebrei nel capoluogo lombardo tra il Trecento e il Cinquecento. Fil rouge è l’indagine su pergamene, filze notarili e fondi archivistici, editi e inediti, in volgare e in latino, letti, tradotti e interpretati alla luce di nuove metodologie di ricerca. L’esplorazione delle fonti documentarie, custodite in archivi italiani, soprattutto lombardi (Archivi di Stato di Milano e Pavia) e piemontesi (Archivio Storico del Comune di Casale Monferrato e Archivio dell’Ordine Mauriziano di Torino), e archivi spagnoli (Archivo General de Simancas,Valladolid), ha consentito di tracciare un mosaico del cronotipo degli Ebrei in civitate Papie.

residenti nel ducato di Milano sono dislocati tra la fascia meridionale della Lombardia attorno al Po (ma anche sconfinando a occidente verso il Tortonese e l’Alessandrino e a nord verso la Lomellina) e il Cremasco. Occasionali provenienze vengono però dal Piemonte occidentale (Novara) e dal Veneto (Treviso). Alcuni arrivano poi dalla Germania, altri dalla Spagna, c’è chi giunge

Scene da uno sposalizio

Una presenza significativa Tra il Trecento e il Cinquecento, infatti, Pavia registra la presenza non numerosa, eppure a volte altamente significativa di Ebrei. L’espressione «a Pavia» contenuta nel titolo e nel sottotitolo del volume, comunque, non implica una continuità abitativa di famiglie ebraiche in città o nel territorio. Il passaggio da una località di residenza a un’altra è un dato caratterizzante, soprattutto, ma non soltanto, degli Ebrei nel tardo Medioevo e nei primi secoli dell’età moderna. Poco a poco, l’orizzonte geografico, stimolante e affascinante, assume un’ampiezza straordinaria. Nel 1522 gli Ebrei

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dalla Provenza e chi perfino da Gerusalemme. In un gioco di rimandi e intrecci si delineano anche figure di uomini e donne. Come quella di Isacco, pionieristicamente arrivato a Pavia nel 1389 per esercitarvi l’attività mercantile, incentivata anche dallo stesso duca di Milano, Gian Galeazzo o quella del rabbino Joseph, figlio di Solomon Colon (1420-1480), che, di origine francese e conosciuto come Maharik, fu un illustre talmudista del Quattrocento europeo.

Ezio Barbieri (a cura di) Fideles servitores nostri ebrei in civitate Papie Documenti e riflessioni sugli ebrei a Pavia Collana La voce dei documenti, 1, Edizioni Guardamagna, Varzi, 207 pp., ill. col. 20,00 euro ISBN 978-88-95193-55-7

Si definiscono azioni e attività quotidiane, rituali di preghiera, momenti fondamentali, quali la morte, la sepoltura e il matrimonio. Questo felice evento è analizzato attraverso la ketubbah (termine che in ebraico significa letteralmente «scrittura», «ciò che è scritto»), la carta dotale, particolarmente ricca di elementi di costume, ma anche linguistici, che lo sposo consegna alla sposa prima del matrimonio. La ricerca conduce poi il lettore attraverso gli spazi – l’ubicazione di abitazioni, sinagoghe e cimiteri ebraici nella città – in cui questa variegata umanità si muove. E attraverso i tempi, che strettamente collegati al problema dei rapporti sessuali tra Ebrei e cristiani, alla difficile convivenza tra gli Ebrei lombardi in età spagnola e alle progressive discriminazioni, permettono di cogliere i mutamenti piú significativi del fenomeno antisemita. Emerge cosí un universo internazionale, fatto di viaggi e spostamenti, a volte voluti e talora forzati; un mondo che con l’espulsione da Pavia 1597, è rimasto sinora coperto dal silenzio, dall’oblio. Chiara Parente febbraio

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caleido scopio

Note piene di fede musica • Compositore di musiche

sacre, Tomás Luis da Victoria viene ricordato da nuove incisioni dei suoi brani piú celebri

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400 anni dalla morte, caduti nell’appena trascorso 2011, Tomás Luis da Victoria, uno dei principali, se non il massimo esponente del Cinquecento spagnolo, è stato celebrato con la riproposizione delle sue migliori composizioni sacre. Sono dedicate a brani della liturgia della Settimana Santa e alla celeberrima Missa Pro Defunctis, le tre registrazioni del cofanetto The Victoria Collection (GIMBX 304, 3 CD, distr. www.sound&music.it). Del triduo santo, Victoria offre una intensa interpretazione polifonica del ciclo dei Responsoria, in particolare quelli eseguiti nel II e III mattutino del Giovedí, Venerdí e Sabato Santo, mentre delle Lamentationes del profeta Geremia, mette in musica, per le stesse giornate, solo quelle relative al I mattutino. Una scelta, quella di musicare solo alcune parti dell’Ufficio, forse motivata dall’enorme mole di musica che una integrale messa in musica dell’intera liturgia avrebbe comportato. Comunque il risultato è spettacolare, in particolar modo nelle Lamentationes di Geremia, dove il gruppo inglese dei Tallis Scholars esalta una scrittura polifonica che si estende dalle 5 alle 8 voci, in un progressivo ampliamento del climax drammatico. L’approccio vocale del gruppo, caratterizzato dalla trasparenza delle linee vocali, crea un magma sonoro sontuoso, in cui le varie voci si susseguono senza soluzione di continuità e attraverso melodie per gradi congiunti, cosí tipiche di Victoria, in cui l’arte

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contrappuntistica viene messa a servizio di un linguaggio compositivo fortemente e drammaticamente condizionato dai pregnanti testi evocali. D’altronde, ritroviamo la stessa tragica intensità nella Missa Pro Defunctis, opera andata in stampa nel 1605, capolavoro del maestro spagnolo. Composta a 6 voci, anche in questa opera ricorre una cura particolare per il contesto a cui il brano è demandato, e, già dalle battute iniziali, i Tallis Scholars offrono una interpretazione magistrale.

16 voci nel nome di Maria A un altro splendido gruppo inglese, The Sixteen, è affidata l’esecuzione di brani dedicati alla Madonna, Hail, Mother of the Redeemer (COR 16088, 1 CD, distr. Jupiter): antifone, un inno, un magnificat, le litanie della Beata Vergine e, infine, la Missa Alma Redemptoris Mater a doppio coro. Anche in questi brani ampia è la varietà dell’organico utilizzato, che va dalle 4 alle 8 voci. Interessante l’accostamento dell’antifona Alma Redemptoris Mater a 5 voci e la parafrasi fatta sulla stessa nell’omonima Missa, secondo una prassi molto diffusa all’epoca, in cui l’appropriamento di composizioni precedenti e/o composizioni altrui era il punto di partenza per nuove elaborazioni polifoniche. La tecnica

costruttiva di questi brani pone in risalto, come già constatato nei precedenti pezzi, una incredibile fluidità nel trattamento delle voci, con andamenti accordali di grande ricchezza armonica, basati sulle melodie gregoriane che fanno da base all’impalcatura contrappuntistica. Saltuario, nelle antifone, è il ricorso alla melodia gregoriana originale, eseguita all’unisono dall’intero ensemble; oppure l’utilizzo della stessa – come, per esempio, nell’Ave Maris Stella – in alternanza alla ripresa «figurata» e variata in senso polifonico. La devozionalità mariana delle composizioni è amplificata dalla magnifica prestazione delle 16 voci dei The Sixteen, diretti da Harry Christophers. Questo gruppo, le cui sonorità non si discostano troppo dai Tallis Scholars, si caratterizza per una emissione perfetta e pulizia assolute, che esaltano appieno la ricchezza del linguaggio di Tomás Luis de Victoria, rendendo il giusto tributo a una delle figure piú grandi del panorama musicale cinquecentesco. Franco Bruni febbraio

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