seconda battaglia del kosovo maimonide gargouille sansepolcro dossier gli ebrei di spagna
Mens. Anno 16 n. 10 (189) Ottobre 2012 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
MEDIOEVO n. 10 (189) ottobre 2012
EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE
FERDINANDO, ISABELLA e gli
EBREI
DI SPAGNA
MAIMONIDE
IL MAESTRO DI CORDOvA
GRANDI BATTAGLIE
1448 il trionfo del sultano
NEL BORGO DI PIERO DELLA FRANCESCA
SANSEPOLCRO
PASSIONEPER PER LA PASSIONE LASTORIA STORIA
€ 5,90
PPA AST ST
sommario
Ottobre 2012 ANTEPRIMA
COSTUME E SOCIETÀ
mostre Si riparte con Barbara La prima volta del Tibet Uno stupore che si rinnova Celesti giardini
6 8 10 12
immaginario Gargouille La leggenda dei mostri di pietra
itinerari Uniti per difendersi
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musei La Cattedrale e il suo doppio
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appuntamenti Battaglia per la Rocca Il raglio dei purosangue L’Agenda del Mese
18 20 24
di Paolo Galloni
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grandi battaglie
Seconda battaglia del Kosovo di Francesco Colotta
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luoghi toscana Sansepolcro Nel borgo di Piero di Maria Paola Zanoboni
90
30
90 CALEIDOSCOPIO cartoline Una casa per frate Cristoforo 106
protagonisti
libri Lo scaffale
Maimonide
Il maestro dei perplessi di Chiara Mercuri
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dimensione guerra Ferri lunghi e corti
L’unione fa la spada di Flavio Russo
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lontani da sefarad di Chiara Mercuri
STORIE Ritorno nella Piana dei Merli
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Dossier
musica Musiche per il paladino Dal Celeste Impero In memoria di un ricco benefattore
111 113 113 114
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Ante prima
Si riparte con Barbara mostre • Il Museo di Palazzo Ducale di Mantova
celebra una delle figure di spicco dei Gonzaga: Barbara, duchessa del Württemberg. Un omaggio che è anche un segnale importante di ritorno alla normalità dopo il terremoto della scorsa primavera
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In alto Mantova, Castello di S. Giorgio, Camera degli Sposi. Particolare degli affreschi di Andrea Mantegna con il ritratto di Barbara Gonzaga. 1465-1474. La splendida sala è attualmente chiusa al pubblico a causa dei danni provocati dal sisma dello scorso maggio. In basso il Castello di S. Giorgio, compreso nel piú vasto complesso del Palazzo Ducale.
er lasciarsi alle spalle almeno il ricordo del terremoto del 20 maggio, il Palazzo Ducale di Mantova riapre – seppur parzialmente – le sue porte e rende omaggio a Barbara Gonzaga. Ottava figlia di Ludovico III, secondo marchese di Mantova, e di Barbara di Hohenzollern, la giovane, in ossequio alle tradizioni di famiglia, non fu discriminata, perché donna, nella sua formazione e poté studiare
come i fratelli maschi, imparando le lingue antiche e studiando storia e letteratura. Nozioni che mise a frutto e arricchí nella stimolante atmosfera intellettuale della corte mantovana, allora celebre per il suo mecenatismo. Il 12 aprile 1474 andò in sposa al conte Eberardo V il Barbuto (che, nel 1495, divenne il primo duca del Württemberg) e, nel successivo mese di giugno, valicò le Alpi e raggiunse il marito in Germania, stabilendosi nel castello di Urach, dove furono organizzati ulteriori e fastosi festeggiamenti per le nozze. La coppia si trasferí poi a
Il Palazzo Il Palazzo Ducale di Mantova è ubicato nella zona nord-orientale della città, tra l’antica piazza di San Pietro, l’attuale piazza Sordello, e la riva del lago inferiore, ed è costituito da un vasto insieme di edifici, cortili e giardini. Il palazzo, inizialmente composto da corpi di fabbrica disaggregati, trova forma organica nella prima metà del XVI secolo, quando si trasforma in un unico, grandioso complesso architettonico che occupa una superficie di 35 000 metri quadrati. La famiglia Gonzaga ne fa la propria residenza dal 1328 al 1707, quando l’ultimo duca, Ferdinando Carlo, è costretto all’esilio. Con il dominio austriaco alcuni ambienti della corte prospicienti l’attuale piazza Sordello sono riadattati in luoghi di rappresentanza. Dopo l’abbandono del XIX secolo, il Palazzo Ducale è dall’inizio del Novecento oggetto di restauri e diventa sede museale statale.
Stoccarda e Barbara si mise in luce per l’intelligenza e l’acume politico, che influirono positivamente sul governo del consorte. Dal matrimonio nacque una sola figlia, che però morí quand’era ancora infante, e il dolore sicuramente pesò su Barbara, che poi, quando nel 1496 rimase vedova, manifestò il desiderio di rientrare in Italia. Un anelito rimasto insoddisfatto, poiché nel 1503 la principessa spirò.
Un ritratto a tutto tondo Dell’intera vicenda dà conto la mostra, ripercorrendo il cammino della vita di Barbara Gonzaga da Mantova al Württemberg, ricostruendo l’ambiente culturale e politico delle diverse corti principesche, e tracciando un
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profilo della principessa attraverso le sue testimonianze personali. Per l’occasione sono stati riuniti manoscritti, disegni e incisioni a bulino, stoffe e gioielli, monete e vasellame da tavola che, incorniciati dalla grandiosa musica di corte dei Gonzaga, trasmettono un’impressione autentica dell’ambiente di vita di una grande nobildonna del Rinascimento. Un personaggio di cui, per contro, non sono del tutto certe le fattezze: tradizionalmente, viene infatti identificata con la giovane e graziosa donna che, nella Camera degli Sposi di Andrea Mantegna, compare con il viso rivolto leggermente verso destra e i capelli raccolti in un’acconciatura alta (vedi foto a p. 6, accanto al titolo), ma non sono mancate le contestazioni a tale ipotesi. Originate
Mantova, Palazzo Ducale. Una delle sale della mostra dedicata a Barbara Gonzaga. innanzitutto dalla testimonianza del segretario della donna, il quale scrisse che Barbara era «era un poco larga nel volto e brunetta […] e piú prosperosa che la illustre quondam madonna Dorothea».
Il capolavoro ferito Un dibattito che, per ora, può continuare solo attraverso le riproduzioni del dipinto, in quanto la Camera degli Sposi, che si trova nel Castello di S. Giorgio, è una delle vittime illustri del terremoto: le scosse hanno causato la riapertura di una vecchia crepa, che ha creato punti di decoesione del materiale pittorico. Al momento è in corso una mappatura completa dell’affresco del Mantegna, per valutare tempi e costi dell’intervento, anche se il problema piú grave è forse costituito dalla situazione strutturale di una torre del Castello, che è un punto di passaggio obbligato per accedere alla Camera. Accertata l’entità dei danni, il problema maggiore, come ci è stato comunicato dalla Segreteria della Soprintendenza ai Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici per le Province di Brescia, Cremona e Mantova, sarà quello di reperire i fondi necessari a finanziare gli interventi di restauro. Come già abbiamo avuto occasione di scrivere, la nostra rivista non può molto in termini concreti, ma ci auguriamo che, dando visibilità alla mostra, possa contribuire a risvegliare la sensibilità di chi, invece, può intervenire sul piano economico. Stefano Mammini Dove e quando
«Da Mantova al Württemberg: Barbara Gonzaga e la sua corte» Mantova, Museo di Palazzo Ducale fino al 6 gennaio 2013 Orario martedí-domenica, 8,15-19,15; lunedí chiuso Info tel. 0376 224832; www.mantovaducale.beniculturali.it
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La prima volta del Tibet
mostre • Oltre 300 oggetti e opere d’arte, per
la prima volta concessi in prestito, propongono un viaggio alla scoperta della terra del Dalai Lama, una delle regioni asiatiche piú ricche di storia In alto Tibet. La camionabile tra Lhasa e Shigatze a 4000 m di altitudine. A sinistra statuetta in bronzo dorato e pietre semi-preziose, rivestita di seta, raffigurante Amitayus, il Buddha della longevità. XVIII sec. Lhasa, Cultural Palace of Nationalities Museum.
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a tempo il Tibet è molto spesso sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo per via del suo non facile rapporto con la Cina, Paese al quale appartiene dal punto di vista politico e amministrativo. Una vicenda che non ha mancato di avere risvolti drammatici e che pone in secondo piano le peculiarità culturali della regione. Che non sono poche e che, come dimostra l’esposizione allestita in Casa dei Carraresi, sono frutto di una storia lunga, segnata da avvenimenti che hanno avuto un rilievo notevole anche al di là dell’ambito locale. Basti pensare che la formazione di un primo regno tibetano risale al VII secolo e che, nello stesso periodo, fece la sua comparsa sul Tetto del Mondo il buddhismo, religione che, di lí a poco, soppiantò le credenze dei piú antichi culti di tipo sciamanico. Si tratta, inoltre, di un evento di particolare importanza, in quanto ottobre
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A sinistra statuetta in bronzo del Buddha Mahakala. XVIII sec. Lhasa, Cultural Palace of Nationalities Museum. Mahakala è la divinità vittoriosa sul male e sui demoni ed è stata tenuta in grande considerazione dagli imperatori Manciú. In basso una donna di Lhasa riccamente agghindata per una festa.
tantrico al quale si convertirono gli imperatori Ming e Qing. Un ampio spazio è quindi riservato alle numerose divinità buddhiste tibetane e alla produzione di statue e dipinti a esse dedicati. Accanto alla statuaria, che tocca vette artistiche di notevole valore, sono esposti anche gli oggetti di culto tuttora usati nei monasteri e nei templi. Di particolare interesse è poi la sezione dedicata alle Tangke, i dipinti sacri che, oltre a rappresentare le storie del principe Siddharta – il Buddha storico – celebrano la ritualità nei monasteri e nei templi con la raffigurazione dei Dalai Lama e dei monaci. L’epilogo è infine affidato alle maschere divinatorie indossate dai monaci nelle danze rituali e al ricco patrimonio folklorico del popolo tibetano. (red.)
Dove e quando
«Tibet. Tesori dal tetto del mondo» Treviso, Casa dei Carraresi fino al 2 giugno 2013 (dal 20 ottobre) Orario lu-ma-gio, 9,00-19,00; me, 9,00–21,00; ve-sa-do, 9,00–20,00 Info tel. 0422 513150; www.laviadellaseta.info è la prima volta che una mostra dedicata al Tibet viene allestita all’estero e, dopo una preparazione che ha comportato due anni di sopralluoghi nelle principali città della regione e a Pechino, presso le collezioni imperiali della Città Proibita, a Treviso si possono ammirare oltre 300 oggetti e opere d’arte che coprono un vasto orizzonte cronologico.
Da Gengis Khan all’età moderna Il percorso si articola in cinque sezioni tematiche, e si apre con l’inquadramento storico dell’altopiano, da quando Gengis Khan lo incluse nell’impero mongolo-cinese del XIII secolo. In questa sezione, oltre a mappe, carte geografiche e documenti storici, risultano di particolare interesse i doni che i vari Dalai Lama presentarono alla corte imperiale di Pechino e le statue del buddhismo
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Ante prima
Uno stupore che si rinnova mostre • Nel corso del
Medioevo le province dell’odierna Croazia vissero una stagione di grande fermento culturale. Di cui sono testimonianza emblematica espressioni d’arte figlie di un felice amalgama tra tradizioni locali e modelli mutuati da altre regioni d’Europa
«E
d essi si meravigliarono…»: cosí scrisse Goffrédo di Villehardouin, uno dei protagonisti della quarta crociata, per descrivere la reazione dei pellegrini alla vista della città dalmata di Zara (l’odierna Zadar, in Croazia). E cosí è intitolata l’esposizione, allestita nel Museo di Cluny, che riunisce una quarantina di opere, scelte a rappresentare non soltanto il dinamismo e l’originalità delle creazioni artistiche locali fiorite tra il IX e il XIV secolo, ma anche la ricchezza degli scambi tra le province dell’odierna Croazia con il resto d’Europa in quel periodo. Componenti di spicco della selezione sono le oreficerie e alcune pregevoli sculture. Ma non sono da meno anche i documenti miniati, che
In alto frontone di una transenna in calcare, dalla Dalmazia. 895. Spalato, Museo dei Monumenti archeologici. A sinistra reliquiario del braccio di San Biagio. Oro, smalti e pietre preziose. Forse di produzione siciliana, 1190 circa. Dubrovnik, Tesoro della Cattedrale.
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fanno da elegante corollario a questo campionario di «meraviglie». Nella prima sezione del percorso espositivo vengono sottolineate proprio l’eccezionale qualità delle opere di scultura ascrivibili alla fase carolingia, nelle quali si può anche ravvisare l’assimilazione, in forme originali e profonde, dell’eredità paleocristiana. Parallelamente, un corpus di manoscritti e di reliquiari in oro e in argento testimoniano in maniera eloquente la magnificenza delle creazioni in stile romanico e gli scambi culturali che all’epoca furono allacciati dalla Croazia sia con l’Oriente che con l’Occidente.
Influenze veneziane Nel XIII e soprattutto nel XIV secolo, quei territori divennero veri e propri crogioli nei quali le tradizioni locali si fusero con apporti esterni, primi fra tutti quelli di matrice veneziana. I reliquiari in forma di elementi anatomici – testa, braccia, gambe… – costituiscono un insieme che non ha paragoni in ottobre
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Europa. Altri oggetti d’oreficeria, sia d’uso profano che religioso, la decorazione dipinta dei manoscritti o la scultura ribadiscono, sotto altre forme, l’intensità degli scambi, di cui sono prova il recupero formale di canoni tradizionali, l’arrivo di artisti stranieri e l’importazione di opere d’arte. Ne è un esempio la fronte del sepolcro realizzato per la chiesa della Vergine del Carmelo di Trogir, attribuito a un maestro veneziano. O, ancora, l’imitazione del modello fornito dalla Pala d’oro del Tesoro di San Marco nella realizzazione della mitra del Tesoro della cattedrale di Zagabria e nella corona di Zara. (red.)
In alto scrigno-reliquiario di San Crisogono. Argento dorato su anima in legno con piastre di smalto traslucido, da Venezia o Zara, 1326. Zadar, Esposizione permanente d’arte sacra. A sinistra coppia di reliquiari di un piede di Sant’Anselmo. Argento dorato, forse dalla Dalmazia, 1309. Nin, Tesoro della chiesa di Sant’Anselmo.
Dove e quando
«“Ed essi si meravigliarono...”, La Croazia medievale» Parigi, Musée de Cluny, Musée nationale du Moyen Âge fino al 7 gennaio 2013 (dal 10 ottobre) Orario tutti i giorni, 9,15-17,45; chiuso martedí, il 25.12 e il 01.01 Info www.musee-moyenage.fr
Ante prima
Celesti giardini mostre • Presenza costante in ogni città della
Cina, i giardini sono stati una delle piú importanti fonti d’ispirazione per l’arte figurativa. Una tradizione sviluppatasi per oltre un millennio e ora ripercorsa nelle sale del Met da una ricca e articolata esposizione
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ittà famosa per i suoi giardini, Jiuquan fu scelta come modello per la realizzazione della Astor Court, uno degli spazi piú visitati del Metropolitan Museum, a cui fu dato l’aspetto del cortile di una residenza cinese del XVII secolo. Attorno a essa si snoda ora il percorso della rassegna che, attraverso una selezione di cui fanno parte dipinti, ceramiche, oggetti in lacca e metallo, stoffe, indaga le strette e feconde relazioni tra la pittura e l’arte dei giardini, nel corso di oltre mille anni.
Nelle popolose città della Cina i giardini interni sono sempre stati parte integrante delle architetture residenziali e palaziali ed erano considerati come prolungamenti degli spazi del vivere quotidiano. Sedi predilette di cenacoli letterari e rappresentazioni teatrali, vennero spesso realizzati secondo principi compositivi analoghi a quelli adottati nella pittura. E, proprio come nel caso dei paesaggi idealizzati dagli artisti, la loro struttura si ispirava a temi letterari A sinistra particolare di un disegno raffigurante Wang Xizhi (uno dei piú celebri calligrafi cinesi) che osserva un laghetto in cui nuotano alcune oche. Inchiostro, tempera e oro su carta, Opera di Qian Xuan, 1295 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art.
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già battuti dai pittori. Questi ultimi, quindi, venivano spesso assoldati per la progettazione degli spazi verdi e, se il giardino finiva con il riflettere la personalità del suo proprietario, gli artisti furono non di rado chiamati a realizzare dipinti idealizzati dei giardini, che si voleva fossero ritratti simbolici, capaci di esprimere il carattere dei loro committenti. L’esposizione si articola in sezioni tematiche, il cui obiettivo è quello di mostrare come il repertorio di immagini legate al giardino sia stato una fonte costante di ispirazione e creazione artistica.
Nella pagina accanto, a destra garza di seta con ricami di seta raffigurante un’allegoria dell’arrivo della primavera. Autore ignoto, XV sec. New York, The Metropolitan Museum of Art.
Un palazzo sterminato Tra i materiali scelti, appartenenti alle collezioni permanenti del Met, vi è, per esempio, il Palazzo delle Nove Perfezioni, uno spettacolare nucleo di rotoli, dipinti da Yuan Jiang (artista attivo a cavallo tra XVII e XVIII secolo), nei quali è rappresentato il panorama immaginario di un palazzo imperiale del VII secolo, cosí grande da obbligare il sovrano a usare il cavallo per spostarsi da un padiglione all’altro. Ma molti altri ancora sono i temi e i soggetti, di volta in volta legati alla pratica religiosa, all’esercizio delle arti e dei mestieri o al mondo animale, assai spesso protagonista delle raffigurazioni. Come nel caso dei dipinti in cui si possono vedere rappresentazioni meticolose delle diverse specie di pesci, uccelli e altri animali scelti per animare parchi e giardini: piuttosto che presentarli nel loro habitat naturale, i pittori dell’antica Cina preferivano infatti esaltare queste collezioni di bestie esotiche, trasportate all’interno di microcosmi creati dall’uomo. S. M. Dove e quando
«Giardini cinesi» New York, The Metropolitan Museum of Art fino al 6 gennaio Orario ma-do, 9,30-17,30 (ve-sa, apertura serale fino alle 21,00); lu chiuso Info www.metmuseum.org
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Ante prima
Uniti per difendersi itinerari • I ricetti sono una
presenza ricorrente nel paesaggio piemontese e molti conservano l’aspetto assunto già nel Medioevo. Come nel caso di Ghemme, nel Novarese, un borgo fortificato che sembra fermo nel tempo
Ghemme (Novara). Due immagini del ricetto: la torre di sud-ovest e una delle strutture, articolate su due piani, utilizzate non solo come depositi, ma anche come abitazioni.
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l ricetto è una forma particolare di fortificazione, tipica del Piemonte, rappresentata da un raggruppamento di case cinto da mura turrite a difesa collettiva; una soluzione adottata, nei secoli passati, per proteggere uomini e beni da scorrerie e saccheggi. A Ghemme (Novara) il ricetto si presentava come un gruppo di costruzioni formate da magazzini e cantine nei quali si riponevano le derrate alimentari. Gli edifici sorsero a partire dal XII secolo fino alla fine del XV secolo, quando il ricetto può dirsi ormai completato. I fabbricati all’esterno erano racchiusi da una cinta quadrangolare, circondata da un fossato riempito d’acqua che garantiva un’ulteriore difesa e scoraggiava i saccheggi e le
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scorribande di Francesi, Svizzeri e Spagnoli che ai tempi toccavano spesso queste terre. Ancora oggi si possono vedere le mura di cinta per almeno tre lati: esse si ergono per un’altezza di circa 4 m dal piano della strada che nel secolo scorso ha sostituito l’antico fossato.
Mura massicce e merlate Le mura hanno nella loro parte piú massiccia la larghezza di circa 2 m e si vanno assottigliando nell’alzarsi gradualmente a piani; sono formate da ciottoli levigati di fiume, legati da calce mista a sabbia e terminano con merli in cotto alla ghibellina. Delle due torri cilindriche che sorgevano agli angoli del lato di ponente è rimasta solo la torre di sud-ovest, mentre l’altra, quella di nord-ovest, è stata demolita.
Nella mappa del borgo del 1772 la struttura del ricetto spicca ancora imponente; in essa, infatti, si rileva con precisione come l’abitato fosse diviso in quattro quartieri, ancora circondati dal fossato e da una siepe palizzata. Le case all’interno del ricetto presentano una fisionomia meno massiccia e quasi piú gentile rispetto a quella di altri ricetti piemontesi. Esse sono composte dai due vani del piano terreno e del primo piano, con un mezzanino o un solaio sotto il tetto. Probabilmente questi edifici fungevano non solo da magazzini, ma anche da abitazioni, come testimonierebbero i camini dotati di cappe sporgenti all’esterno e ancora oggi in parte visibili. Particolarmente interessanti sono le finestre che si affacciano nelle vie e in alcuni cortiletti all’interno del ricetto, esteriormente decorate con formelle in cotto, modellate sul tipo di quelle che si trovano nei lati quattrocenteschi del Broletto di Novara, a San Nazzaro Sesia e sulla facciata della chiesa di Gattinara. All’interno delle abitazioni vi erano soffitti a cassettoni e talvolta le pareti erano anche dipinte, come dimostra la bella Deposizione del XV secolo, qui ritrovata e ora conservata dal Museo Civico di Novara. (a cura della Pro Loco di Ghemme) ottobre
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La Cattedrale e il suo doppio musei • Scavi condotti nel sottosuolo della piú
importante chiesa bergamasca hanno portato a scoperte inattese. Che hanno dato il via alla realizzazione di un nuovo e ricco museo
È
stato inaugurato a Bergamo, nello scorso agosto, il Museo e Tesoro della Cattedrale. Grazie agli scavi condotti sotto la direzione della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia, nel sottosuolo del Duomo cittadino sono emerse le tracce di una domus romana databile al I secolo d.C., di una cattedrale paleocristiana risalente al V-VI secolo e di una successiva cattedrale romanica del XII secolo, avvolte nella ricostruzione rinascimentale, secondo il disegno dell’architetto romano Filarete. Una scoperta che riscrive interi capitoli della storia di Bergamo. Infatti, era convinzione comune che il precedente della cattedrale filaretiana fosse una chiesa di modeste dimensioni, ingrandita nel Rinascimento, mentre gli scavi provano che, già nel V-VI secolo, la cattedrale di S. Vincenzo aveva le stesse
dimensioni di quella attuale, e testimoniano la presenza di una comunità cristiana già strutturata, importante e in qualche modo abbiente. Il ritrovamento dei resti del riadattamento romanico (XI secolo) getta nuova luce anche sui rapporti fra la cattedrale romanica di S. Vincenzo con l’adiacente basilica di S. Maria Maggiore: i due edifici, lungo la loro storia, devono aver costituito un complesso di edilizia ecclesiastica caratterizzato da una «cattedrale doppia».
Dagli scavi al museo Per mettere a disposizione del pubblico il patrimonio culturale costituito da queste importanti scoperte, la Diocesi di Bergamo ha quindi deciso di investire ulteriori risorse nella trasformazione degli scavi in un museo della cattedrale, volendo far conoscere la storia della propria chiesa attraverso le
Bergamo, Museo e Tesoro della Cattedrale: in alto, la prima camera sepolcrale con lastra tombale del 1468 del vescovo Bucelleni; a sinistra, il recinto presbiteriale e l’iconostasi.
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complesse e affascinanti vicende costruttive che hanno coinvolto l’edificio della Cattedrale. La sezione archeologica contempla tra i tanti ritrovamenti, resti di una strada del Foro romano con annessi abitativi, brani di mosaici paleocristiani, sepolture monumentali (come quella del vescovo Giovanni Bucelleni, morto nel 1472), il recinto presbiteriale di età medievale, aule sepolcrali risalenti al progetto del Filarete. Nell’area dell’antico presbiterio, non piú visibile, sono invece esposti oggetti di arte e di liturgia un tempo legati a questo luogo (il cosiddetto Tesoro del Duomo): calici, reliquiari, croci, affreschi e paramenti sacri. Il nuovo Museo accosta all’interpretazione archeologica e storico-artistica degli scavi anche una dimensione ecclesiale, e proietta il visitatore nell’atmosfera di sacralità e di bellezza che un tempo caratterizzò la vita della Cattedrale di Bergamo. (red.) Dove e quando
Museo e Tesoro della Cattedrale Bergamo, piazza Duomo Orario ma-domenica, 9,30-13,00 e 14,00-18,30; lu chiuso Info Fondazione Adriano Bernareggi, tel. 035 248772; e-mail info@fondazionebernareggi. it; www.fondazionebernareggi.it ottobre
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Battaglia per la Rocca appuntamenti • Situata in posizione strategica sul fiume Oglio, Soncino fu uno
dei centri piú importanti del territorio cremonese. E ogni anno, ai piedi della sua fortezza, si torna all’epoca dei cavalieri e dei capitani di ventura Una delle botteghe artigiane allestite nell’ambito della rievocazione storica organizzata a Soncino (Cremona).
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orgo medievale in provincia di Cremona, Soncino è circondata da antiche mura e sovrastata da una rocca dalle imponenti torri merlate. La sua fondazione risalirebbe all’avvento dei Goti, dopo la caduta dell’impero romano: lo stesso toponimo, Soncino, pare sia di ascendenza germanica e significherebbe «re delle acque». Nel 1118 il borgo passò dalla zona d’influenza bergamasca a quella cremonese, espandendosi economicamente grazie al controllo dell’attraversamento del fiume Oglio, ma nello stesso periodo iniziarono anche i contrasti con i
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Bresciani. Sotto la guida di Buoso da Dovara, nel XIII secolo avvenne la prima importante militarizzazione di Soncino: fu risistemata la vecchia rocca e si costruí la cinta muraria. Nel 1311 il borgo fu sottoposto direttamente all’impero, poi, nel successivo periodo visconteo, dal 1385 divenne la piú importante roccaforte di difesa lungo la linea di confine del fiume Oglio. Nuovi, importanti interventi di rafforzamento delle difese si ebbero in epoca sforzesca, a partire dal 1454, col rifacimento della cerchia muraria e la costruzione della nuova rocca. Con l’arrivo degli Spagnoli, nel 1536, iniziò una progressiva perdita di vitalità economica del territorio.
Un ponte ancora funzionante La Rocca – uno dei cinque castelli d’Italia ad avere un ponte levatoio tuttora funzionante – ha avuto un ruolo fondamentale nella difesa dell’area fino al Cinquecento, anche se i successivi quattro secoli, nei quali è stata usata perlopiú come abitazione, l’hanno armonizzata nel contesto urbano. Tra le quattro torri del complesso, la piú rilevante è la Torre del Castellano, cosí chiamata perché un tempo era la residenza ufficiale del governatore della fortezza. Essa era collegata con i
sotterranei e da qui, attraverso un passaggio segreto, si poteva giungere al fossato e quindi fuggire verso le campagne circostanti. Oggi la fortezza è il teatro principale della rievocazione «Castrum Soncini: l’assalto alla Rocca», quest’anno in programma il 6 e 7 ottobre.
Combattimenti e degustazioni Grazie alle sue alte mura, allo spettacolare fossato e agli angusti spazi interni, la Rocca è stata scelta dai rievocatori della Confraternita del Dragone per ricreare un assedio del XIII secolo, con i tentativi di conquista, segnati dai combattimenti, ma anche la quotidianità della vita in un campo militare. Nel tardo pomeriggio di sabato 6 si può assistere ai tentativi d’assedio e di difesa di circa 200 armati, che si danno battaglia per il possesso della Rocca fino a tarda sera, quando si tiene uno spettacolo di fuochi e giocolieri fra il sottofondo di musica con percussioni. Domenica 8 le schermaglie militari riprendono per vedere chi, tra assediati e assalitori, avrà la meglio. Anche i bambini potranno partecipare, vestiti da uomini d’arme medievali, mentre un mercato con antichi banchi offre la possibilità di degustare cibi e ricette dell’Età di Mezzo. Accanto alla rievocazione, nella serata di sabato 6, viene proposta la Soncino Gustosa: una visita culturale e gastronomica per le vie dell’antico borgo, ammirando monumenti, raccontando leggende, esplorando sotterranei e gustando alcune specialità del territorio soncinese. Tiziano Zaccaria ottobre
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Paestum dà il benvenuto all’Armenia P
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Armenia. Il monastero di Khor Virap, situato a una trentina di km da Yerevan; sullo sfondo, la mole maestosa del Monte Ararat. dei Beni Culturali, autore del recente libro Il nuovo dell’Italia è nel passato. Modererà Paolo Conti, giornalista del Corriere della Sera e coautore del libro. Sabato 17 all’Incontro con i Protagonisti, «I grandi segni dell’uomo» Roberto Giacobbo, autore e conduttore televisivo, intervisterà l’archeologo tunisino, già Ministro della Cultura, Azedine Beschaouch, l’ingegnere Giorgio Croci e l’architetto Andrea Bruno, tra i massimi esperti di conservazione e restauro architettonico. Domenica 18, per il trentennale della Domenica, avrà luogo l’incontro «Il Manifesto del Il Sole 24 Ore per la diffusione della cultura, della conservazione, della tutela e della valorizzazione: le Associazioni per il patrimonio culturale», con la moderazione del direttore della Domenica, Armando Massarenti, al quale partecipano Franco Iseppi, Presidente del Touring Club Italiano, Enrico Ragni, Presidente Gruppi Archeologici d’Italia, Claudio Zucchelli, Presidente Archeoclub d’Italia. A questi incontri si affiancano iniziative ormai «tradizionali» per la Borsa, come ArcheoVirtual, mostra e workshop sull’archeologia virtuale; la presentazione di corsi di laurea e master in archeologia, beni culturali e turismo culturale nell’ambito di ArcheoLavoro; la proiezione dei film vincitori della XXIII Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico di Rovereto e dei filmati di Rai Educational per ArcheoFilm; laboratori di archeologia sperimentale. Per ulteriori informazioni e per il programma completo: www.borsaturismo.com
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rende il via tra poco piú di un mese la XV edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, in programma a Paestum (Salerno) dal 15 al 18 novembre. Paese Ospite ufficiale è l’Armenia, a cui si affiancano, nel salone espositivo, oltre 30 Paesi esteri, tra i quali figurano per la prima volta il Tatarstan e il Kenya. Segnaliamo, qui di seguito, alcuni degli appuntamenti previsti dal ricco calendario della rassegna. Giovedí 15 la Direzione Generale per le Antichità del MiBAC organizza il convegno «Conservazione ordinaria e valorizzazione intelligente nelle aree della Magna Grecia», con gli interventi degli Assessori Regionali al Turismo e ai Beni Culturali, dei Soprintendenti delle aree archeologiche del Sud Italia, oltre che dei vertici delle Organizzazioni nazionali di categoria. Venerdí 16 si tiene il VI Incontro delle Testate Archeologiche Internazionali, «Patrimonio culturale e turismo: best practices per lo sviluppo locale, la formazione e l’occupazione», in collaborazione con ICCROM e «Archeo». Parteciperanno i direttori delle principali testate archeologiche, nonché Stefano De Caro, Direttore Generale dell’ICCROM, Francesco Bandarin, Vice Direttore Generale dell’UNESCO per la Cultura, Maurizio Melani, Direttore Generale DG per la Promozione del Sistema Paese, Ministero degli Affari Esteri; sono stati invitati a intervenire Mounir Bouchenaki, Consigliere Speciale Direttore Generale dell’UNESCO, Pier Luigi Celli, Presidente dell’Enit, Antonia Pasqua Recchia, Segretario Generale del MiBAC, Pasquale Muggeo, Comandante Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. Modererà Andreas Steiner, direttore di «Archeo». Venerdí 16 è previsto il convegno «Prospettive per le missioni archeologiche alla luce degli sviluppi nella sponda Sud del Mediterraneo» a cura della Direzione Generale per la Promozione del Sistema Paese del Ministero degli Affari Esteri, con la partecipazione dei Direttori delle missioni archeologiche impegnate nei Paesi dell’area: Turchia, Siria, Libano, Giordania, Israele, Palestina, Egitto, Libia, Tunisia, Algeria, Marocco. Sabato 17 nell’incontro «La rinascita del Mezzogiorno è nel passato», Emanuele Greco, Direttore della Scuola Archeologica di Atene e Presidente Fondazione Paestum, Angela Pontrandolfo, Presidente Consulta Universitaria per l’Archeologia del Mondo Classico, dialogheranno con Andrea Carandini, già Presidente del Consiglio Superiore
Ante prima
Il raglio dei purosangue appuntamenti • Assediato dalle truppe viscontee, il borgo di Martinengo
scampò alla morte per inedia grazie al provvidenziale e... silenzioso intervento di alcuni asinelli. Nel ricordo di quei rifornimenti notturni, Martinengo organizza ogni anno il Palio dei Cantú, di cui sono protagonisti indiscussi i parenti poveri del cavallo
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el 1443 il borgo bergamasco di Martinengo, che all’epoca apparteneva alla Repubblica di Venezia, fu posto sotto assedio dalle truppe viscontee capitanate dal condottiero umbro Niccolò Piccinino. Asserragliati dentro la cerchia delle mura, i difensori avevano macellato tutti gli animali salvo alcuni asinelli, che nel corso di sortite notturne, con gli zoccoli fasciati, contribuirono come animali da soma a sfamare gli assediati fino all’intervento dell’esercito capitanato da Francesco Sforza.
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Per un certo periodo i Martinenghesi celebrarono il ricordo del superato assedio con una corsa degli asini. Questa tradizione è stata ripresa nel secolo scorso e dà vita al Palio dei Cantú assieme a una sfilata storica in costumi del Quattrocento, secolo in cui il condottiero Bartolomeo Colleoni dominava sulle terre orobiche e in particolare a Martinengo, dove, sposando Tisbe Martinengo, stabilí il fulcro del vasto feudo donatogli dapprima dal duca di Milano e confermatogli nel 1454 dai Veneziani. Ciò fece sí che
il borgo conobbe, dal 1454 al 1475, un’epoca di pace e prosperità senza precedenti.
In sette per la vittoria Il Palio dei Cantú, organizzato nella terza domenica di ottobre (quest’anno il 21) dal Gruppo Bartolomeo Colleoni di Martinengo, ha un prologo il sabato sera con il «Marendí del Palio» e «Medioevo in castello», che consiste in una cena itinerante sotto i portici del centro storico. Acquistando il piatto commemorativo della sera, si ottobre
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Sulle due pagine immagini del Palio dei Cantú di Martinengo (Bergamo), che ogni anno, nella terza domenica di ottobre, anima le vie della cittadina lombarda. Momento culminante della manifestazione è la corsa degli asinelli, nella quale gareggiano i rappresentanti dei sette rioni, i Cantú, appunto.
possono degustare i prodotti offerti a sostegno del Palio dai commercianti del paese. L’indomani, i sette rioni in cui è divisa Martinengo (Cantú Ssura, Cantú Ssota, Cantú San Firem, Cantú Cornoa Ssura, Cantú Martinenghí Borg di Och, Cantú Cornéll Bradéle, Cantú VallereMurnighel) si sfidano in tre sentite competizioni. La prima riguarda la sontuosa sfilata storica in costumi d’epoca, nella quale i sette Cantú, schierando ognuno una media di 70 figuranti, rievocano il periodo quattrocentesco. La stessa giuria
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valuta «la miglior coppia», ossia due abiti che per richiami storici a dipinti e documenti dell’epoca siano il piú simile possibile agli originali. A questo punto arriva il momento piú atteso dalle migliaia di appassionati che ogni anno affollano la piazza centrale di Martinengo, cioè la corsa degli asinelli. Tramite sorteggio, a ciascuno dei sette Cantú vengono associati due asini, sui quali i rispettivi fantini percorrono tre giri di un tracciato disegnato nel centro storico. T. Z.
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Mostre torino Ricetti del Piemonte. I castelli del popolo U Borgo Medievale fino al 7 ottobre
a cura di Stefano Mammini
al contempo, di valorizzare la capillare diffusione di queste opere architettoniche piemontesi. info www. borgomedioevaletorino.it firenze Magnifici tre. I libri-gioiello di Lorenzo de’ Medici U Biblioteca Medicea Laurenziana fino al 20 ottobre
I ricetti sono una forma piemontese di rifugio e fortificazione, diffusa lungo tutto il Medioevo, che ebbe grande importanza nella storia della regione. L’esposizione ne documenta l’architettura, le tipologie, le aree di localizzazione. Ciascun ricetto ha una storia differente, ma esistono elementi comuni: una cinta muraria potenziata da torri d’angolo, una o piú torri-porta d’accesso ed edifici interni non molto grandi, destinati ad abitazione e magazzino, separati da strette vie. La fondazione di un ricetto è una questione complessa: poteva essere costruito per volontà di un signore, di un’abbazia o di una comunità. È preponderante, tuttavia, il caso della gestione condivisa dalla comunità e dal signore. La mostra presenta lo stato dell’arte sull’idea di ricetto e di fortificazione, cercando,
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Grande mecenate, amante delle arti e delle lettere e letterato egli stesso, Lorenzo de’ Medici, il Magnifico, volle trasmettere la passione per i libri e per l’arte anche ai figli, e per le prime tre femmine fece realizzare altrettanti splendidi Libri d’Ore. Detti anche «offizioli», questi erano raccolte di orazioni da
recitare, appunto, nelle ore canoniche della giornata e, presso le famiglie altolocate, costituivano uno dei tradizionali doni che il genitore faceva alle giovani figlie in vista del matrimonio. Nel caso di Lorenzo erano destinati a Lucrezia, che si uní in matrimonio con Jacopo Salviati, a Maddalena, che sposò Franceschetto Cybo (figlio naturale di papa Innocenzo VIII), e a Luisa, che, promessa sposa ad appena undici anni al biscugino del padre, Giovanni di Pierfrancesco de’ Medici, morí prima della celebrazione delle nozze. I tre magnifici doni sono oggi rispettivamente custoditi alla Bayerische
Staatsbibliothek di Monaco, a Waddesdon Manor (in Inghilterra) e alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze. Ed è proprio l’istituzione fiorentina che offre ora l’opportunità di vederli riuniti (dell’esemplare conservato in Germania, troppo fragile per poter essere trasportato, è esposta una replica in facsimile). Riccamente decorati e impreziositi da legature in cui sono inseriti ori, argenti, pietre dure e smalti policromi, questi Libri d’Ore possono essere considerati, al di là della loro funzione, come veri e propri gioielli. info tel. 055 210760; e-mail: info@magnificitre.it; www.magnificitre.it teramo Capolavori della maiolica castellana tra ‘500 e terzo fuoco. La collezione Matricardi U Pinacoteca Civica fino al 31 ottobre
L’esposizione presenta una selezione di 220 capolavori, realizzati tra il Cinquecento e il Settecento, per la maggior parte inediti, provenienti da una delle collezioni piú prestigiose e complete nel panorama internazionale. I capolavori rendono omaggio all’enorme valore della manifattura di Castelli, grazie a un percorso rappresentativo per ogni epoca e per ogni famiglia di artisti, come i Pompei, i Cappelletti, i Gentili e i Grue, che hanno reso famosa la
maiolica castellana in tutto il mondo. La mostra intende proporre all’attenzione nazionale e internazionale la ceramica della manifattura castellana, dall’inizio del Cinquecento sino alla fine del Settecento, attraverso forme, colori e motivi tipici di questa produzione, magnificamente rappresentata dalla preziosa e ricca Collezione Matricardi. L’evento presenta anche un mirabile esempio di collezionismo «illuminato», che si deve all’ingegner Giuseppe Matricardi, il quale, erede di una passione che ha animato tre generazioni, è riuscito a raccogliere un patrimonio artistico di enorme valenza storica e scientifica. info tel. 0861 250873 o 24054; e-mail: info@teramomusei.it; www.teramomusei.it, www.teramoculturale.it Rieti FRANCESCO, IL SANTO. Capolavori nei secoli e dal territorio reatino U Museo Civico, Museo dei Beni Ecclesiastici e Officine Fondazione Varrone fino al 4 novembre
Articolata in tre sedi espositive, la mostra propone alcuni episodi artistici legati alla figura ottobre
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del Santo di Assisi, allo scopo di promuoverne la conoscenza sul piano biografico e iconografico e di valorizzare l’importanza del territorio reatino nella storia del francescanesimo. La centralità dell’area
laziale per la definizione e la diffusione dell’immagine di Francesco è attestata del resto dalla presenza della piú antica rappresentazione del Santo nella cappella di San Gregorio nel Sacro Speco di Subiaco, tanto che la regione può essere certamente considerata una meta privilegiata per la conoscenza complessiva degli aspetti storici e artistici legati all’origine e alla diffusione della Regola francescana. info tel.: 0746.259291 e-mail: info@ francescoilsanto.it; www.francescoilsanto.it
firenze BAGLIORI DORATI. IL GOTICO INTERNAZIONALE A FIRENZE. 1375-1440 U Galleria degli Uffizi fino al 4 novembre
Allestita nelle sale del piano nobile degli Uffizi, la mostra ricostruisce il panorama dell’arte fiorentina nel periodo
mirabile e cruciale compreso tra il 1375 e il 1440. Per restituire il clima colto e prezioso di quella lunga stagione, accanto a dipinti celebrati da secoli, sono esposte altre opere pregevolissime ma finora poco conosciute al grande
mostre • Costantino 313 d.C. U Milano – Palazzo Reale
fino al 17 marzo 2013 (dal 25 ottobre) info e prenotazioni tel. 02 54917; www.ticket.it/costantino
L’
esposizione celebra l’anniversario dell’emanazione, nel 313 d.C., dell’«Editto di Milano», da parte dell’imperatore romano d’Occidente Costantino e del suo omologo d’Oriente, Licinio. Con esso il cristianesimo, dopo secoli di persecuzioni, veniva dichiarato lecito e si inaugurava cosí un periodo di tolleranza religiosa e di grande innovazione politica e culturale. Il percorso espositivo si articola in sei sezioni che approfondiscono tematiche storiche, artistiche, politiche e religiose: dalla Milano capitale imperiale, alla conversione di Costantino, ai simboli del suo trionfo. Una sezione importante è dedicata a Elena, madre di Costantino, imperatrice e santa, per mettere in risalto la singolarità di questa figura femminile all’interno della corte imperiale e della storia della Chiesa. Una parte consistente dell’itinerario espositivo è inoltre riservata alla rivoluzione politica e religiosa operata da Costantino, dando fine alle persecuzioni contro i cristiani, e ponendo sulle sue insegne militari la croce nella forma sintetica e crittografica del Krismon, un simbolo grafico che univa le due lettere iniziali greche del nome di Cristo. L’esposizione considera attentamente anche le tre istituzioni protagoniste dell’età di Costantino: l’esercito, la chiesa e la corte imperiale. Vengono cosí presentati i principali protagonisti del grande cambiamento storico e culturale seguito all’editto del 313. Ritratti, monete e oggetti documentano il nuovo aspetto pubblico dell’imperatore, della corte, dei grandi funzionari, dell’esercito, della Chiesa e dei suoi vescovi fino ad Ambrogio. Oggetti d’arte e di lusso appartenuti a personaggi dell’élite dell’impero o destinati alle chiese testimoniano il passaggio, nel corso del IV secolo, del cristianesimo da devozione lecita privata a una dimensione pubblica e ufficiale e, infine, a unica religione dell’impero. La mostra si chiude con una ricca rassegna di documenti e dipinti, che ricordano la santa imperatrice dall’età bizantina al Rinascimento, dalle pergamene del IX secolo ai quadri di grandi artisti del Rinascimento che testimoniano il culto trionfale della Croce, indissolubilmente legato alla scelta operata da Costantino nel 313. Dopo Milano, la mostra proseguirà a Roma dal 27 marzo al 15 settembre 2013 nelle sedi del Colosseo e della Curia Iulia.
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pubblico, cosí come sculture lignee e marmoree, codici miniati, lavori d’arte sacra e profana: creazioni di sommo pregio e di assoluta rilevanza storica, provenienti da prestigiose istituzioni museali pubbliche, nonché da collezioni private italiane e straniere. Il percorso, cronologico, prende le mosse dalle opere degli interpreti massimi dell’ultima fase della tradizione trecentesca, quali Agnolo Gaddi e Spinello Aretino, e si chiude con uno dei testi piú insigni del primo Quattrocento, restituito a una insospettata leggibilità: la Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, un volo fantastico, capace di sintetizzare i sogni di un’epoca irripetibile. info www.polomuseale. firenze.it impruneta (FI) Alessandro Pieroni dall’Impruneta e i pittori della Loggia degli Uffizi U Basilica e Chiostri di Santa Maria fino al 4 novembre
Nell’ambito del ciclo La Città degli Uffizi, Impruneta ospita la mostra dedicata al pittore e architetto Alessandro Pieroni (1550- 1607) e agli artisti che lavorarono con lui nel 1580-1581 nella decorazione a grottesche della Loggia degli Uffizi: Alessandro Allori, Giovanni Bizzelli, Giovanni Maria Butteri, Lodovico Buti e il giovane Cigoli. Allestita
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agenda del mese
nei suggestivi locali della basilica di Santa Maria all’Impruneta, città natale dell’artista, è la prima esposizione monografica dedicata a questo eclettico e poco conosciuto artefice, che rivestí un ruolo di prestigio alla corte dei Medici alla fine del Cinquecento e agli inizi del secolo successivo. Per l’occasione sono state riunite ventitré opere: dipinti del Pieroni e degli artisti che collaborarono con lui, affreschi staccati dal Corridoio vasariano, arazzi, disegni, incisioni e modelli architettonici provenienti dalla Galleria e dal Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, dalle riserve, dalla Galleria Palatina, dal Museo dell’Opera del Duomo e da altri importanti musei e biblioteche fiorentine. Nel Chiostro è ospitata una sezione documentaria di approfondimento dedicata ai legnaioli e
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ai fornaciai dell’Impruneta nella Toscana del Cinquecento, al tempo del Pieroni. info tel. 055 2313729 oppure 055 2036408; www.comune.impruneta.fi.it Parigi Il vino nel Medioevo U Tour Jean Sans Peur fino all’11 novembre
Al centro dell’esposizione è il ruolo cruciale del vino nella società medievale, descritto in un percorso articolato in cinque sezioni, con oltre un centinaio di documenti, e arricchito dalla ricostruzione di una taverna. Nel Medioevo si registra la massima diffusione dei vigneti e il vino, insieme al pane, è l’elemento base della dieta quotidiana, per uomini, donne, ma anche per i bambini! Caratteristica che non doveva però indurre al consumo smodato, perché, come illustrano alcuni dei documenti esposti, anche nell’Età di Mezzo l’ubriachezza veniva severamente condannata. info www.tourjeansanspeur.com
Trento I CAVALIERI DELL’IMPERATORE. Tornei, battaglie e castelli U Castello del Buonconsiglio, Castel Beseno fino al 18 novembre
Il Castello del Buonconsiglio e Castel Beseno rivivono la stagione dei grandi tornei e delle parate rinascimentali, il clangore degli assalti all’arma bianca e i duelli cui erano affidati l’onore dei contendenti e delle loro dame sin’anco il destino di regni e principati. Protagonisti della mostra sono gli uomini d’arme che, vestiti d’acciaio, si scontravano in battaglia o esibivano la loro audacia e abilità nei tornei. A Castel Beseno,
a essere messe in scena saranno le battaglie, l’assedio, le armi e le strategie militari; al Castello del Buonconsiglio si respirerà invece l’atmosfera del duello, dell’amor cortese e delle virtú eroiche. Un’occasione unica per ammirare pezzi provenienti da importanti armerie europee oltre alla piú completa collezione al mondo di armi e armature da combattimento e da parata, proveniente dalla Landeszeughaus, l’armeria di Graz. info www.buonconsiglio.it Londra Shakespeare. Mettere in scena il mondo U The British Museum fino al 25 novembre
e polo culturale di importanza primaria. Per raggiungere tale obiettivo, sono stati riuniti poco meno di 200 oggetti e opere d’arte, piú della metà dei quali è approdata al British Museum grazie ai prestiti concessi da musei, istituzioni e collezionisti di tutto il mondo. Grazie ai materiali esposti, è possibile scoprire come l’attività teatrale sia stata capace di influenzare e orientare l’approccio della gente comune nei confronti dei problemi della vita d’ogni giorno; come abbia contribuito alla formazione di una identità nazionale, dapprima inglese e poi britannica; o, ancora, come le opere portate in scena abbiano aperto finestre rivelatrici su un mondo ben piú vasto di quello al quale si era normalmente avvezzi, che spaziava dall’Italia all’Africa e alle Americhe. info www.britishmuseum.org
Venafro Splendori del Medioevo. L’abbazia di San Vincenzo al Volturno al tempo di Carlo Magno U Museo Archeologico, ex Convento di Santa Chiara fino al 2 dicembre
La rassegna intende documentare il contributo fondamentale che l’opera di Shakespeare diede all’affermazione della capitale britannica come metropoli cosmopolita
La mostra ripercorre la storia dell’abbazia, a partire dalle sue fasi piú antiche, alle quali appartiene, tra i reperti piú importanti, l’altare affrescato del tardo VIII secolo proveniente dalla Chiesa Sud. Si prosegue con La rinascita carolingia, che presenta ottobre
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l’abbazia al massimo del suo splendore, quando l’abate Giosuè trasformò S. Vincenzo in uno dei piú grandi monasteri d’Europa. Alla metà del IX secolo l’abbazia annoverava ben nove chiese, tra cui la Basilica maior, in grado di gareggiare con le piú splendide chiese
abbaziali dell’Europa carolingia. Dopo il saccheggio da parte di predoni arabi nell’881, la comunità dei monaci fu costretta a trasferirsi, ma, alla fine del X secolo, il monastero ebbe una fase di rinascita. Alla fine dell’XI secolo, però, di fronte alla comparsa dei Normanni, la comunità decise di trasferirsi sulla riva opposta del Volturno, per edificare un monastero interamente nuovo e fortificato. Chiude il percorso la sezione sulla presenza araba, di cui sono testimonianza significativa gli scacchi rinvenuti nel 1932 in una sepoltura di Venafro ed esposti in Molise per la prima volta. info tel. 0865 900742 Venezia Il Tiziano mai visto. La fuga in Egitto e la grande pittura veneta U Gallerie dell’Accademia fino al 2 dicembre
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info call center sistema museo tel. 199 151 123; www.aureaumbria.it
roma
Un ultradecennale intervento di restauro condotto presso il Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo, che ne è il proprietario, ha permesso di datare tra il 1506 e il 1507 la Fuga in Egitto di Tiziano Vecellio. Il dipinto, un grande olio su tela (206 x 336 cm), sarebbe stato dunque realizzato quando Tiziano, nato a Pieve di Cadore nel 1490, era poco piú che un adolescente. L’opera, concessa in prestito dal museo russo, viene presentata nella seconda patria del maestro, Venezia, in una esposizione che la fa dialogare con opere di artisti contemporanei di Tiziano. Un’occasione da non perdere, perché è la prima volta che la grande tela lascia la Russia, dove giunse nel 1768, all’indomani del suo acquisto da parte di Caterina la Grande. info tel. 041 5200345; www.gallerieaccademia.org
Flavia Constans per dimostrare la sua fedeltà alla famiglia imperiale. Nel corso di tre secoli (III-VI d.C.), grazie alla riorganizzazione promossa da Costantino, l’impero espresse infatti una forte vitalità, prima della guerra greco-gotica scatenata da Giustiniano. La mostra racconta la vita in Umbria durante questi secoli, attraverso un cospicuo insieme di materiali archeologici: dalle manifestazioni dell’arte ufficiale (ritratti e iscrizioni) e dalle espressioni della vita delle aristocrazie (mosaici, arredi) agli
Spello Aurea Umbria. Una regione dell’impero nell’era di Costantino U Palazzo Comunale fino al 9 dicembre
A 1700 anni dal regno di Costantino il Grande (306-337 d.C.), l’Umbria riflette su una pagina della propria storia: la concessione fatta alla città di Hispellum del nome di
oggetti della quotidianità dei ceti medi e subalterni. La ricerca storica e archeologica, infatti, è in grado oggi di configurare il volto di un’età tardo-antica, che fu «aurea» per la sua vitalità, e non di «ferrea» decadenza, come a lungo la storiografia moderna ha proposto.
Vermeer, il secolo d’oro dell’arte olandese U Scuderie del Quirinale fino al 20 gennaio 2013
Conoscitore e mercante d’arte, Johannes Vermeer (1632-1675) si considerava soprattutto un pittore, eppure dipinse non piú di 50 quadri (oggi se ne conoscono solo 37). Lavorò solo su commissione e non realizzò mai piú di due o tre opere l’anno, il necessario per mantenere la moglie e gli undici figli: oggi è considerato tra i piú grandi pittori di tutti i tempi. Delle sue opere riconosciute autografe, nessuna appartiene a una collezione italiana e solo 26 dei suoi capolavori, conservati in 15 collezioni diverse, possono essere movimentati. Per l’esposizione alle Scuderie del Quirinale, Roma ne accoglie 8, dalle donne «ideali» alla celebre Stradina, affiancati da cinquanta capolavori degli artisti suoi contemporanei, icone della pittura olandese del secolo d’oro. La mostra
permette non solo di avvicinare il genio artistico di Vermeer, ma anche di comprendere come l’opera del maestro si rapporti con gli artisti olandesi. Tra le opere firmate dai suoi contemporanei, sono esposte tele di Carel Fabritius e Nicolaes Maes, Gerard ter Borch, Pieter de Hooch, Gerrard Dou, Gabriel Metsu, Frans van Mieris e Jacob Ochtervelt. Vermeer è noto anche come il «Maestro della luce olandese» per la sua straordinaria capacità di descrivere la luce del cielo d’Olanda. Sembra, infatti, che dopo l’avanzata del terreno bonificato, il colore del cielo olandese sia cambiato, perché la luce non è stata piú riflessa verso l’alto dalle paludi e dai laghi. Questi dipinti, nei quali dominano il blu e il giallo, sono dunque una testimonianza preziosa per rivivere la delicata luminosità dei cieli olandesi. info e prenotazioni tel. 06 39967500; www.scuderiequirinale.it
HAARLem Il michelangelo olandese. Cornelis van Haarlem (1562–1638) U Frans Hals Museum fino al 20 gennaio 2013
Ispirato dai grandi maestri italiani, primo
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agenda del mese fra tutti Michelangelo, Cornelis van Haarlem fece il suo apprendistato ad Amsterdam, per poi completare la sua formazione a Rouen e Anversa. Rientrò nella natia Haarlem a ventun anni, dopo aver fatto sua la lezione manierista, di cui elaborò una personale interpretazione. Nelle sue grandi tele, rappresentò spesso temi fortemente drammatici, con toni molto decisi, sorprendendo l’osservatore con composizioni ricche di pathos e caratterizzate da colori violenti, grande espressività dei gesti e corpi di cui la nudità esalta la muscolatura possente. info www.franshalsmuseum.nl
zurigo Capitale. Mercanti a Venezia e Amsterdam U Museo Nazionale Svizzero fino al 17 febbraio 2013
La mostra ripercorre le origini del nostro sistema economico attuale, il capitalismo, nella storica Repubblica marinara di Venezia e nell’«Età dell’oro» di Amsterdam.
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Venezia a partire dal XIII secolo e Amsterdam nel XVII secolo svolsero un ruolo importante nello sviluppo economico e sociale dell’Occidente. I commercianti di allora inventarono forme di finanziamento, di credito e di commercio che sono tuttora in uso. Entrambe le città erano rivolte verso il mare, correvano rischi, costruivano vascelli, praticavano il commercio a lunga distanza, subivano perdite ma ottenevano anche ingenti profitti. Con l’aumento del benessere e la nascita di una società borghese pre-moderna, per esempio ad Amsterdam, la cultura e lo sfarzo presero il sopravvento sul rischioso commercio a lunga distanza. Si iniziò cosí a investire nella cultura e nel lusso, decretando cosí la fine dell’epoca di massimo splendore di entrambe le città. Come la mostra suggerisce, ciò che sembra appartenere alla storia e lontano dalla nostra realtà si rivela invece di sorprendente attualità. info www.kapital. landesmuseum.ch
Montefiore Conca (RN) SOTTO LE TAVOLE DEI MALATESTA. Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca U Rocca Malatestiana fino al 23 giugno 2013 (prorogata)
Ci sono armonia, equilibrio e colore nelle ceramiche esposte a Montefiore Conca: piatti, vasellame e boccali forgiati dai maestri dell’arte del fuoco tra la metà del
Trecento e il Cinquecento. Ma la mostra non è solo questo: gli scavi hanno restituito anche utensili, spille, bicchieri in vetro e molte ossa di animali, probabilmente resti dei pasti. E poi monete, oggetti per il cucito o la cura del corpo e un sigillo in bronzo del Trecento. I reperti raccontano tre secoli di occupazione della rocca da parte dei Malatesta prima, e dei Montefeltro poi, ricostruendo uno spaccato di vita fatto di attività artigiane e scambi culturali, abitudini alimentari e credenze religiose, prassi mediche e canoni estetici, fede e bellezza. info tel. 0541 980035 oppure 980179; www.archeobo. beniculturali.it
Appuntamenti bergamo BERGAMOSCIENZA. X edizione dal 5 al 21 ottobre
Torna l’appuntamento con la scienza a Bergamo. Aperti gratuitamente al pubblico, sono in programma conferenze, spettacoli, concerti, laboratori, mostre e incontri con Premi Nobel, scienziati di fama internazionale e ricercatori. I luoghi piú belli di Città Alta e Città Bassa fanno da quinta scenografica alla manifestazione: dal Teatro Sociale alle dimore e ai palazzi storici, oltre a chiese, chiostri e musei. Anche quest’anno BergamoScienza estende i suoi confini al di fuori della città interessando i Comuni della Provincia di Bergamo (Albino, Alzano Lombardo, Brembate di Sopra, Clusone, Dalmine, Seriate, Trescore Balneario, Treviglio, Treviolo, Valbrembo, Zingonia, Zogno e i Comuni del sistema bibliotecario Valle Seriana e Seriate Laghi). Come sempre non mancano gli appuntamenti con l’arte: si può ammirare in anteprima il globo terracqueo di Vincenzo Maria Coronelli (XVII secolo), restaurato grazie all’intervento del FAI-Fondo Ambiente Italiano, mentre alla GAMEC (Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo) in
collaborazione con l’Associazione BergamoScienza è allestita una mostra dedicata ad antiche carte topografiche. info www.bergamoscienza.it.
italia INVITO A PALAZZO. ARTE E STORIA NELLE BANCHE. XI EDIZIONE 6 ottobre
Sabato 6 ottobre, dalle 10,00 alle 19,00, ingresso gratuito e visite guidate, in italiano e in inglese, in piú di 90 palazzi di 57 banche di tutta Italia. È l’undicesima edizione della manifestazione che ogni anno apre al pubblico le sedi storiche delle banche e mette in mostra opere d’arte e capolavori nascosti. L’elenco completo dei palazzi che partecipano all’iniziativa è disponibile sul sito http://palazzi.abi.it. Dépliant con l’elenco completo dei palazzi sono disponibili agli sportelli delle banche aderenti. info tel. 06 6767400; e-mail invitoapalazzo@abi.it ottobre
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silves (portogallo) X congresso internazionale sulla ceramica medievale nel Mediterraneo dal 22 al 27 ottobre
Già capitale dell’Algarve, la città portoghese di Silves (situata 250 km a sud di Lisbona) ospita la decima edizione dell’ormai tradizionale appuntamento
promosso dall’AIECM2 (Association Internationale pour l’Etude des Céramiques Médiévales Méditerranéennes). Il programma di quest’anno si articola nei seguenti temi: Il Mediterraneo e l’Atlantico; Lo sviluppo e la diffusione delle tecnologie; Ceramica e commerci; La ceramica nel suo contesto; Ceramica e cibo; Nuove scoperte. info http:// aiecm2.mmsh.univ-aix.fr/ città del VAticano Aperture notturne dei Musei Vaticani/ Che c’è di Bello? U Musei Vaticani fino al 26 ottobre
Si rinnova, per il quarto
anno consecutivo, l’appuntamento con le visite in notturna dei Musei Vaticani. I «Musei del Papa» aprono le loro porte anche al tramonto, tutti i venerdí dalle 19,00 alle 23,00 (ultimo ingresso alle ore 21,30). Un invito, quello delle visite by night, rivolto non solo alle migliaia di turisti che accorrono a visitare un «santuario di arte e di fede» − secondo le parole di Benedetto XVI −, ma anche e soprattutto al popolo romano: famiglie con bambini, giovani coppie, ragazzi che, impegnati in attività lavorative o familiari durante le normali ore di apertura, possono finalmente riappropriarsi dei
musei, vivendoli e godendoli in un’atmosfera serena e speciale. Le aperture notturne sono ulteriormente impreziosite dalla rassegna musicale «Che c’è di Bello?», organizzata in collaborazione con il Conservatorio Statale di Musica Giuseppe Verdi di Torino, che in alcune date propone al pubblico esecuzioni scelte dei suoi allievi
piú eccellenti. La partecipazione agli eventi musicali è gratuita e inclusa nel biglietto d’ingresso ai Musei Vaticani. L’accesso alla sala è consentito fino a esaurimento dei posti disponibili. Per le visite in occasione delle aperture notturne è obbligatoria la prenotazione on line sul sito ufficiale dei Musei. info e prenotazioni www.museivaticani.va
appuntamenti • Divina bellezza. Straordinaria scopertura del Pavimento a commesso marmoreo della Cattedrale di Siena U Siena - Cattedrale
fino al 24 ottobre info tel. 0577 286300; e.mail: opasiena@operalaboratori.com; www.operaduomo.siena.it
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ella magnifica cattedrale senese, fino al 24 ottobre, viene «scoperto» il pavimento a commessi marmorei, «il piú bello…, grande e magnifico… che mai fusse stato fatto», secondo la nota definizione di Giorgio Vasari. Abitualmente, infatti, il prezioso tappeto marmoreo è coperto da lastre di faesite per proteggerlo dal calpestio dei visitatori, piú di un milione ogni anno, e dei numerosi fedeli che ogni giorno accedono al sacro tempio per la preghiera. Grazie alla scopertura è possibile ammirare anche le tarsie nell’esagono sotto la cupola, lo spazio vicino all’altare, i riquadri del transetto per uno spettacolo unico, in cui i visitatori vengono guidati all’interno di un percorso che permetterà anche la visita straordinaria intorno all’abside, con la visione delle tarsie lignee di Fra Giovanni da Verona e gli affreschi di Domenico Beccafumi. Il pavimento del Duomo è frutto di un complesso programma che si è realizzato attraverso i secoli, a partire dal Trecento fino all’Ottocento. I cartoni preparatori per le cinquantasei tarsie furono forniti da importanti artisti, quasi tutti «senesi», fra cui personaggi di spicco quali il Sassetta, Domenico di Bartolo, Matteo di Giovanni, Domenico Beccafumi, ma non mancano pittori di altra provenienza come per esempio l’umbro Pinturicchio, autore, nel 1505, del celebre riquadro con il Monte della Sapienza, ove è possibile ammirare l’eterno contrasto tra la Fortuna e la Virtú.
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ottobre
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battaglie kosovo/2
17-20 ottobre 1448 di Francesco Colotta
Ritorno nella
Piana dei Merli I I l destino, talvolta, conduce gli eserciti nello stesso teatro in cui si era consumata un’affine battaglia del passato. Accadde alla metà del XV secolo, nel tormentato scacchiere politico della Penisola balcanica, per iniziativa di un’armata cristiana che affrontò gli Ottomani nella celebre Piana dei Merli, a nord dell’odierna città kosovara di Pristina. In quel luogo simbolo, alcuni decenni prima, nel 1389, l’armata turca aveva annientato un’alleanza cattolico-ortodossa composta da Serbi, Albanesi, Bosniaci e Ungheresi (vedi «Medioevo» n. 161, giugno 2010). Il nuovo scontro, che in epoca moderna prese il nome di seconda battaglia del Kosovo, si svolse, invece, nell’ottobre del 1448 con attori solo in parte diversi e numeri piú imponenti in quanto a consistenza degli eserciti. In prima linea a contrastare gli Ottomani, infatti, non c’erano piú i Serbi, ma gli Ungheresi, coadiuvati da Albanesi e Valacchi. L’assonanza tra fasi diverse della storia di un territorio permette di far luce sulle componenti della sua identità culturale. Il Kosovo medievale offre queste coincidenze nel vastissimo spazio cronologico compreso tra il Medioevo e l’età contemporanea, durante il quale la lotta contro l’Islam si intrecciò con le rivalità tra i vari potentati balcanici. A ricorrere, con puntualità inesorabile, fu l’incertezza dei confini che tuttora separano le anime etniche delle popolazioni stanziate in quell’area. Oggi il Kosovo è una repubblica indipendente, con alle spalle un recente e sanguinoso conflitto, che ha visto contrapporsi comunità albanesi e serbe anche a causa di scelte religiose opposte: l’Islam,
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Nello stesso luogo in cui, quasi sessant’anni prima, si era consumato lo scontro tra lo schieramento cristiano e l’esercito turco, il sultano Murad II portò a compimento l’opera di conquista del territorio all’interno della Penisola balcanica. Trionfando su di una coalizione indebolita da dispute interminabili, tra continue alleanze e fratture
in maggioranza, per le prime, e la fede ortodossa per le seconde, quasi a riecheggiare gli scontri di civiltà dell’Età di Mezzo. All’indomani del 1389 i grandi sconfitti, i Serbi, si strinsero intorno ai loro nuovi e vecchi capi, il principe quindicenne Stefano Lazarevic – figlio del valoroso Lazar Hrebeljanovic caduto nella battaglia – e la madre Milica, posta a tutela del giovanissimo despota (titolo di corte assegnato ai governanti negli Stati di area culturale bizantina).
I giorni dopo la caduta
C’era, poi, uno dei reduci della battaglia della Piana dei Merli, Vuk Brankovic, che controllava gran parte del territorio kosovaro. Ma il regno di Serbia stava spostando, ormai, il suo asse politico a Nord, nella regione del Danubio, in un avamposto non ancora soggetto al totale controllo turco. Quel residuo di autonomia, però, si trovò subito minacciato dalle ambizioni espansioniste della vicina Ungheria, sul cui trono sedeva Sigismondo di Lussemburgo. Stefano e la madre Milica preferirono allora stringere un’alleanza con gli storici nemici ottomani, piuttosto che finire sotto il controllo magiaro, ma dovettero piegarsi al ruolo di vassalli dei Turchi, con l’avallo ufficiale della Chiesa ortodossa serba. Nel 1395, per l’ancora giovane Stefano Lazarevic si prospettò il primo impegno bellico sotto la nuova bandiera ottomana: la battaglia di Rovine, una spedizione militare turca contro il principe di Valacchia. Fu una disfatta, ma non per Stefano, che riuscí a fuggire e si mise in salvo. Nel 1396 si aggregò di nuovo agli Ottomani ottobre
MEDIOEVO
János Hunyádi difende Belgrado assediata nel 1456 dall’esercito turco di Maometto II. Il condottiero ungherese, alla guida dell’esercito cristiano, fu sconfitto dagli Ottomani durante la seconda battaglia del Kosovo, combattuta nel 1448 nella Piana dei Merli, che già nel 1389 aveva visto opporsi cristiani e musulmani. Xilografia a colori da un’incisione di Gustave Doré.
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battaglie kosovo/2 Kiev
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1462 Smirne CHIO 1566 Atene Morea 1460 Nauplia NAXOS 1566
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L’AVANZATA TURCA IN EUROPA FINO AL 1683
CIPRO
Conquiste nel 1566-1683 e confine dell’impero
1516
Conquiste di Bayezid II e Selim I (1500-20)
Conquiste di Maometto II (1451-81) Conquiste di Solimano il Magnifico (1520-66)
1571
1522
Data di conquista o sottomissione Battaglie e data
A sinistra un giannizzero, disegno di Gentile Bellini (1429-1507). XV sec. Nella pagina accanto il monumento serbo di Gazimestan, progettato da Aleksandar Deroko (1894-1988) nel 1953, sul luogo della battaglia di Piana dei Merli, combattuta il 28 giugno 1389, a nord di Pristina, da un’alleanza di truppe cristiane, guidata dal principe Lazar Hrebeljanovic, contro l’esercito ottomano, comandato dal sultano Murad I.
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per opporsi agli Ungheresi, che stavano penetrando nel nord della Bulgaria. Ormai il figlio dell’eroe simbolo della resistenza serba contro i Turchi era diventato uno dei loro alleati piú fedeli. Non condivideva questa linea politica l’altro despota serbo, Vuk Brankovic: deciso a non assoggettarsi agli Ottomani, perse presto la benevolenza del sultano Bayezid I, che lo cacciò dalle sue terre. Le proprietà di Vuk in Kosovo andarono prima a Stefano Lazarevic e, piú tardi, ai figli legittimi del principe esiliato (che erano anche nipoti di Stefano). In tal modo i Turchi ebbero nelle loro mani un potere sempre
piú capillare in terra balcanica, potendo contare, tra l’altro, su un piú consistente numero di reparti militari. Eventi rivoluzionari, intanto, si annunciavano all’orizzonte, aprendo l’epoca delle «guerre civili», perlopiú familiari. A cominciare dall’urto che oppose Stefano ai suoi parenti nel 1402, in particolare al nipote Ðurad Brankovic, il figlio di Vuk, che si era legato agli Ottomani nel tentativo di sottrarre alcuni territori allo zio. La mossa di Ðurad disorientò Stefano, che si vide anch’egli costretto a procurarsi un alleato forte. Lo individuò nel suo antico nemico, il re d’Ungheria, al quale giurò fe-
piana dei merli
La prima battaglia del Kosovo Piú nota come battaglia della Piana dei Merli o di Kosovo Polje, la prima battaglia ha assunto nella storia un’importanza ben maggiore rispetto alla seconda. Causa dello scontro, svoltosi il 28 giugno 1389, nei pressi di Pristina, fu ancora una volta l’espansionismo ottomano del quale già allora avevano fatto le spese molte regioni della Penisola balcanica, tranne la Bosnia del potente re Tvrtko I. Quest’ultimo, insieme ai signori locali Vuk Brankovic e Lazar Hrebeljanovic, governava sulla Serbia. Il Kosovo, inglobato nel regno serbo e molto ambito dai Turchi per le sue risorse minerarie, fu lo scenario della battaglia. Sul fronte anti-islamico combatterono insieme Serbi, Albanesi, Bosniaci, Bulgari e
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Ungheresi, mentre gli Ottomani potevano contare su una cospicua superiorità numerica: 30 000 effettivi contro 20 000. L’epilogo fu incerto fino all’ultimo e qualche storico ancora dubita che siano stati i cristiani a capitolare. La gran parte dei cronisti, a ogni modo, concorda sul fatto che, alla fine, siano stati gli islamici a prevalere. Per i Serbi, invece, la battaglia della Piana dei Merli assunse presto le caratteristiche di una disfatta dai contorni trascendenti. Al principe Lazar, infatti, secondo la tradizione, sarebbe apparso Sant’Elia, fattosi ambasciatore di un messaggio della Vergine Maria: la Madonna offriva ai Serbi il privilegio di divenire «il popolo celeste», nel caso in cui avessero scelto di subire il martirio nella battaglia.
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battaglie kosovo/2 Un ritratto del condottiero albanese Giorgio Castriota Scanderbeg (1405-1468), degli inizi del XVI sec.
deltà. Gli equilibri politici stavano per cambiare, generando i prodromi della seconda battaglia del Kosovo. Stefano Lazarevic, assoggettato a un doppio vassallaggio, sembrò privilegiare il rapporto con gli Ungheresi, forse anche per un intelligente calcolo strategico, considerando la terribile faida interna che si era nel frattempo scatenata tra le file ottomane. Tra i figli di Bayezid, alla morte del padre, si erano accese dispute per la dote di territori lasciata in eredità dal sultano, che, di fatto, indebolirono l’impero. Il Kosovo era sul punto di trasformarsi in una polveriera e la scintilla fu il sostegno di Solimano, successore di Bayezid, all’opposizione interna al governo locale di Stefano Lazarevic. Il despota, irritato dalla presa di posizione del sultano, chiese aiuto agli amici ungheresi, che irruppero con un esercito a Pristina. Correva l’anno 1409: Stefano ebbe il sopravvento sugli oppositori interni e su Solimano che, caduto in disgrazia, fu poi strangolato da uno dei suoi fratelli-rivali: Musa. La politica antiserba degli Ottomani continuò anche durante il regno di Musa, con minacce e assedi, uno dei quali, quello decisivo, andò a vuoto nei pressi di Novo Brdo nel 1412. L’attacco infruttuoso rafforzò Stefano Lazarevic, segnando nel contempo la fine di Musa, ucciso anch’egli da uno dei suoi fratelli, Maometto I. Per il principe serbo si aprirono scenari del tutto imprevedibili: i nemici ottomani, grazie all’iniziativa di Maometto, tornavano a essere alleati e l’intesa, seppur breve, continuò anche dopo la morte del sultano.
Giorgio Castriota Scanderbeg
Eroe d’Albania Nato nel 1405, Giorgio Castriota Scanderbeg discendeva da una nobile famiglia albanese. Preso in ostaggio dagli Ottomani, crebbe nella corte del sultano Murad II e divenne un valoroso cavaliere. Si distinse in diverse campagne contro gli eserciti cristiani, in particolare contro i Serbi e gli Ungheresi, ma, nel 1443, decise di cambiare bandiera. Divenne il capo storico del movimento di liberazione albanese che combatteva contro l’oppressione turca («la Lega dei principi») e riportò alcune significative affermazioni militari. Nel 1461 il sultano Maometto II lo nominò principe di Albania e di Epiro, riconoscendo in sostanza la sua autorevolezza dal punto di vista politico. Le guerre con gli Ottomani, però, ripresero qualche anno dopo e Scanderbeg cercò di allestire una crociata, anche in virtú delle sollecitazioni giunte da papa Pio II. Gli sperati aiuti militari, purtroppo, non arrivarono e la resistenza albanese fu piegata dalle forze di Maometto II. Scanderbeg morí nel 1468 e da quell’anno nacque il suo mito. Ancora oggi è l’eroe nazionale dell’Albania.
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L’«età dell’oro» del Kosovo
Stefano puntava a estendere la propria influenza verso nord, nella regione di Belgrado, contando sulla condizione di vassallo del regno d’Ungheria, ma, per assecondare le proprie ambizioni, commise l’errore di mostrarsi sempre fedele agli Ungheresi fuori del territorio ottomano.Una scelta di campo che causò la reazione dei Turchi, i quali, nel 1425 invasero il territorio di Lazarevic. L’aiuto magiaro giunse immediato e il beneficato si disobbligò quando, dovendo predisporre la propria successione, cedette alla corona ungherese alcuni territori a nord del regno serbo. In un clima sempre piú turbolento, i due despoti, Ðurad e Stefano ebbero modo di riconciliarsi e il primo poté pertanto governare una buona parte del territorio kosovaro da vassallo ottomano, senza piú subire ritorsioni. Come scrive lo storico inglese Noel Malcolm, nel 1427, quando Stefano Lazarevic morí e a lui succedette Ðurad Brankovic, il Kosovo risultava «unito come parte di un piú grande territorio serbo esteso a nord fino al distretto di Belgrado». Apparentemente la sola gloria emersa in questo carosello di eventi fu quella delle armi. E invece, pur nel succedersi di battaglie e assedi, grazie alla levatura intellettuale di Stefano Lazarevic, fiorirono ottobre
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nel contempo le arti e le lettere. «Nella storia culturale del popolo serbo – continua Malcolm – questo periodo fu simile a un’età dell’Oro». Ricche miniere portarono, inoltre, prosperità a Novo Brdo potendo contare sul sostegno finanziario cospicuo fornito da Ragusa. E Pristina se ne giovò, diventando un grosso centro commerciale. L’alba della grande battaglia stava per sorgere: i rapporti tra i Turchi e i despoti si incrinarono ancora una volta, in particolare quelli tra Ðurad e il nuovo sultano Murad II.
Prove d’alleanza
A nutrirne l’ostilità era ancora l’alleanza con l’Ungheria che, nel 1427, era stata rafforzata. Per gli Ottomani, dunque, il pretesto per invadere i possedimenti serbi esisteva e si materializzò nel 1441: il semplice sospetto di Murad che la famiglia Brankovic reggesse le fila di un complotto a suo danno, indusse il sultano al gesto estremo, cioè all’accecamento dei due figli del despota al quale non restò che rifugiarsi in Ungheria. Tuttavia, un nuovo rovesciamento di fronte mutò la situazione: Polonia e Ungheria, saldamente unite, lanciarono in Europa l’appello per cacciare l’invasore turco. Pronti a rispondere erano gli 800 serbi di Brankovic, insieme a Tedeschi, Bosniaci e Croati. Queste forze cristiane liberarono dagli Ottomani Niš e Sofia senza procedere oltre, ma nel 1444 Murad approfittò della situazione, impegnandosi con Ðurad: gli promise che, se avesse abbandonato l’impresa anti-turca, avrebbe riavuto il suo territorio serbo. Nonostante il rancore per il trattamento riservato ai figli, Ðurad accettò la proposta, ritirandosi, e la grande alleanza subí un duro colpo. Alleanze e rotture sembravano susseguirsi all’infinito. Gli Ungheresi, attraversando la Serbia, si videro la strada sbarrata da Ðurad in qualità di vassallo del sultano e, malgrado ciò, penetrarono in Bulgaria fino a Varna, sul Mar Nero. Gli Ottomani reagirono e sbaragliarono l’esercito cristiano il 10 novembre 1444. Dopo il disastro di Varna, emerse la figura di un rivoluzionario albanese, Giorgio Castriota Scanderbeg, destinato a diventare uno dei leader della resistenza agli Ottomani nella Penisola balcanica, e che, nella storia del Kosovo, fu protagonista nelle fasi che precedettero lo scoppio della seconda battaglia. La disfatta sul Mar Nero aveva lasciato una ferita difficilmente rimarginabile e János Hunyádi, reggente in Ungheria del re bambino Ladislao V, voleva ricostruire un esercito in grado di vendicare l’onta subita. Dall’inizio del 1447 chiese aiuti al papa, a Venezia e al re d’Aragona e di Napoli, senza però ottenere risposta. Un appello simile fu rivolto anche a Scanderbeg, che, invece, Il sultano ottomano Murad II (1404-1451), vincitore della seconda battaglia del Kosovo, in un acquerello del XIX sec.
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Murad II
Le vittorie del sultano Figlio di Maometto I, divenne sultano alla morte del padre nel 1421. Il suo regno fu caratterizzato da un’intensa attività di espansione nei Balcani e anche nei territori dell’impero bizantino. Nel 1422 il nuovo sultano non riuscí a espugnare Costantinopoli, nonostante la superiorità del proprio esercito. Nel 1430, invece, conquistò un importante avamposto bizantino in terra greca, Tessalonica. Costantinopoli, non potendo reagire con le armi, chiese aiuto a papa Eugenio IV con una proposta allettante: una crociata contro gli Ottomani in cambio della riunificazione tra la Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente. Il pontefice acconsentí, ma l’operazione militare naufragò con la disfatta del 1444 a Varna. Murad, non pago del trionfo, decise di infierire su Bisanzio, strappandole altri territori in Grecia. A dare il colpo di grazia al vecchio glorioso impero d’Oriente fu, poi, il suo successore, Maometto II che conquistò Costantinopoli nel 1453, due anni dopo la morte di Murad.
battaglie kosovo/2 LE CAMPAGNE DI JÁNOS HUNYÁDI
DUCATO D’AUSTRIA
LITUANIA
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1443
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Krusevac Rigomezo
Ragusa
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Kosovo Polje 1448
CANATO DI CRIMEA
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REGNO DI NAPOLI
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REGNO D’UNGHERIA
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REPUBBLICA DI VENEZIA
REGNO DI POLONIA
Mar Nero 1444
Turnovo
Sumen
Plovdiv
Skopje
Varna 1444
Drinápoly Costantinopoli
Durazzo Ocrida Tessalonica
Mar Egeo Atene
si dichiarò disposto a fiancheggiare l’impresa. Rispetto alla battaglia del Kosovo del 1389 il numero degli effettivi che stavano per affrontarsi sul campo risultava di gran lunga piú consistente: in totale 24 000 Ungheresi contro 40-60 000 Turchi.
Il rifiuto dei Serbi
Il primo a muovere, nel settembre del 1448, fu Hunyádi, che, con un’azione fulminea, conquistò la Moldavia. Poi, oltrepassato il Danubio, si diresse verso Smederevo, capitale della Serbia, e lí si accampò in attesa delle forze di Scanderbeg. Alla fine, però, Hunyádi partí da solo e percorse il territorio serbo verso sud, fino in Kosovo, dove trovò l’armata islamica ad attenderlo sulla fatidica Piana dei Merli. Scanderbeg, intanto, era stato trattenuto in patria da una disputa sui territori albanesi posti sotto il dominio di Venezia, e partí troppo tardi alla volta del Kosovo, dove non arrivò mai. I Serbi, grandi protagonisti della battaglia del 1389 contro gli Ottoma-
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ni, non si unirono, pertanto, alla coalizione cristiana, che si presentò sul campo con un’armata composta solo da Ungheresi e Valacchi. Alcuni storici giustificano la scelta di campo dei despoti serbi come la conseguenza dei dissapori con Hunyádi. In realtà, il condottiero ungherese aveva cercato piú volte di convincere Ðurad Brankovic a unirsi all’impresa anti-turca, cercando di appianare gli attriti del passato, ma senza successo. Si dice, addirittura, che lo stesso Ðurad risultò decisivo per le sorti dello scontro a favore dei Turchi, facendo pervenire rapporti informativi segreti sulle truppe di Hunyádi al sultano Murad. Lo dimostrerebbe un documento del settembre 1448 che porta la firma di un collaboratore di Brankovic, il ragusano Pasquale de Sorgo, inviato proprio dal campo ungherese: la spia del despota serbo comunicava agli islamici i dettagli sulla composizione dell’esercito nemico e le relative tattiche. Nello stesso documento, poi, si rilevava, con un certo disappunto, la presenza di volontari serbi nella coaliottobre
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jános hunyádi
La rivincita del generale Di origini incerte, cumane o valacche, János Hunyádi è considerato uno degli eroi nazionali ungheresi. Nato nel 1387, collaborò a lungo con l’imperatore Sigismondo di Lussemburgo e aderí giovanissimo all’Ordine del Drago, confraternita fondata per difendere la cristianità occidentale dai pericoli che arrivavano da Oriente. Nel 1432 Hunyádi si uní in matrimonio con una nobile ungherese e conquistò prestigio politico all’interno dei confini del regno magiaro. A partire dal 1440 riportò grandi successi militari contro gli Ottomani e spodestò il sovrano valacco filo-turco, Vlad II Dracul, sostituendolo con un monarca gradito all’Ungheria. Hunyádi fu uno dei comandanti della coalizione cristiana nella sfortunata battaglia di Varna del 1444. All’indomani della sconfitta, assunse il ruolo di reggente ungherese per conto del re Ladislao V, prigioniero di Federico III.
Hunyádi pianificò una missione per liberare il monarca e, nel 1446, giunse a un passo dall’impresa dopo una travolgente avanzata fino alle porte di Vienna. In seguito poté di nuovo dedicarsi al suo impegno principale: la guerra contro gli Ottomani, con alterne fortune. Sconfitto nella seconda battaglia del Kosovo del 1448, ebbe la sua rivincita nel 1456, respingendo le armate turche a Belgrado. Nello stesso anno Hunyádi morí, dopo essere stato colpito dalla peste nel suo accampamento.
Nella pagina accanto cartina che illustra le piú importanti campagne militari di János Hunyádi, tra cui quella che, nel 1448, ebbe uno dei suoi momenti culminanti nella battaglia combattuta presso Kosovo Polje. Il monumento eretto nel 1956 in memoria di János Hunyádi nella piazza principale di Pécs, in Ungheria, per commemorare il Cinquecentesimo anniversario della vittoria di Belgrado contro i Turchi e la morte dell’eroe nazionale ungherese.
I Serbi, protagonisti dello scontro nella Piana dei Merli, nel 1448 non si unirono alla coalizione cristiana
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battaglie kosovo/2 zione cristiana, a dimostrazione che la memoria della prima battaglia del Kosovo era ancora ben radicata nella coscienza collettiva.
Il massacro dei cristiani La città del despota Una veduta della fortezza di Smederevo sulle rive del Danubio, capitale della Serbia dal 1430 fino alla conquista ottomana. Nelle prigioni della fortezza, residenza della dinastia Brankovic, fu rinchiuso, per un breve periodo, il generale ungherese János Hunyádi, fuggito dopo la sconfitta del Kosovo e catturato dal despota Ðurad Brankovic.
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Tutto ebbe inizio il 17 ottobre. Il sultano Murad II comandava il contingente turco, composto dall’artiglieria e dai giannizzeri. A coadiuvarlo c’era il giovane erede al trono ottomano, il futuro Maometto II, il quale, con la cavalleria anatolica, occupava l’ala destra dello schieramento. Sul versante cristiano, Hunyádi si sistemò al centro del suo esercito, la cui l’ala destra era occupata dai Valacchi. Quando il condottiero ungherese si rese conto dello stato di inferiorità della propria armata, caricò con la cavalleria, ma i Turchi, ricompattatisi, respinsero l’assalto. Nemmeno l’azione della fanteria provocò danni all’esercito ottomano che, nel frattempo, era passato all’azione, colpendo sui fianchi gli avversari. Gli Ungheresi, allora, dopo un’incursione nel campo ottomano, dovettero ripiegare verso le proprie tende e in questa condizione di vulnerabilità furono massacra-
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Oltrepassato il Danubio, Jรกnos Hunyรกdi si diresse a Smederevo dove attese invano gli aiuti del condottiero albanese Giorgio Castriota Scanderbeg
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battaglie kosovo/2 ti dai giannizzeri. Il mattino del 20 ottobre, dopo uno scontro tra artiglierie, le ultime resistenze cristiane vennero piegate. I Turchi, non paghi della vittoria, infersero agli sconfitti pesanti umiliazioni e Murad volle che le teste degli Ungheresi uccisi fossero disposte a piramide in segno di sfregio.
Il «convitato di pietra»
Tuttavia, nella storia, nulla è definitivo. Hunyádi, camuffato da semplice soldato, era riuscito a salvarsi. Catturato in seguito da Brankovic, fu liberato da una sortita dei suoi fedelissimi. Il senno di poi degli analisti ha rilevato i punti deboli di una politica balcanica assai lontana nel tempo, ma significativa per gli sviluppi. Un punto fondamentale è sicuramente la precarietà delle alleanze anti-ottomane, mentre Scanderbeg rappresentò il classico «convitato di pietra», senza alcuna influen-
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za sul conflitto e i suoi esiti. Con molti degli attori della battaglia rimasti sulla scena, nella seconda metà del Quattrocento, attacco turco e difesa ungherese si scambiarono ancora vari colpi tra promesse e tradimenti. Nel 1455 tutto il Kosovo poteva essere considerato un dominio ottomano. Per rimuoverlo del tutto ci sarebbero voluti circa quattrocento anni. F
Da leggere U Noel Malcolm, Storia del Kosovo, Bompiani, Milano 1998 U (A cura di) Piero Orteca e Marcello Sajia, La guerra del
Kosovo e la questione balcanica, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2001. U Sima M. Circovic, I Serbi, Ecig, Genova 2007. U Ducas, Historia turco-bizantina 1341-1462, Il Cerchio, Rimini 2007. U Donald Quataert, L’impero ottomano, Salerno, Roma 2008. U Noli Fan Stilian, Scanderbeg, Argo, Roma 1993.
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A destra le truppe del sultano Maometto II, successore di Murad II, assediano la cittĂ di Belgrado. Litografia a colori di scuola turca. Collezione privata. In basso il patriarcato di Pec, nel Kosovo occidentale, sede arcivescovile della Chiesa ortodossa serba.
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protagonisti maimonide
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Il maestro dei perplessi Nato a Cordova intorno al 1135, il filosofo, giurista e medico Mosheh ben Maymon, a noi piú noto come Maimonide, fu uno dei maggiori pensatori del suo tempo. Come altri suoi contemporanei, ebbe il merito di recuperare dall’oblio la dottrina aristotelica, di cui volle dimostrare la compatibilità con le Sacre Scritture
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a fine del mondo antico – che coincise con la caduta dell’impero romano e l’affermarsi dei regni romano-barbarici in tutta l’Europa occidentale – è stata sovente oggetto di rivisitazioni e riletture. In molti casi esse hanno ridimensionato l’evento e messo in evidenza le indubbie continuità che si mantennero tra mondo antico e società medievale. Una frattura, però, non è stata mai messa in discussione: con l’avvento del Medioevo, la ricerca filosofica conobbe una decisa battuta d’arresto.
Filosofie «eretiche»
Il mondo tardo-antico, che negli ultimi secoli dell’impero si era rapidamente cristianizzato, aveva rivelato assai spesso il volto rigido e integralista dei neofiti. Imperatori e ministri, vescovi e pensatori, troppo spesso animati da vero e proprio fanatismo religioso, svilupparono una critica feroce contro molte branche della filosofia antica, in particolare quella aristotelica. L’accusa che si muoveva a tale filosofia, tesa a indagare la realtà per via razionale, era quella di entrare in contrasto con le Sacre Scrit-
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A destra il monumento bronzeo scolpito in memoria del filosofo e medico ebreo Mosheh ben Maymon, meglio noto come Maimonide (1135 circa-1204), a Plaza de Tiberíades, nella Judería, il quartiere ebraico di Cordova, sua città natale. 1964. Nella pagina accanto pagina miniata da un’edizione del Dalala al-ha’irim (Guida dei Perplessi) opera in tre volumi, composta in arabo da Maimonide intorno al 1190. XIV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
di Chiara Mercuri
protagonisti maimonide ture. Anche l’altro grande filone del pensiero antico, il platonismo, fu posto sul banco degli imputati; ma si trovò modo di recuperarlo, in parte, attraverso la sua rivisitazione in chiave cristianeggiante, soprattutto riguardo a concetti quali l’anima, il discostarsi della componente incorporea da quella materiale e terrena, l’esaltazione della vita spirituale. Ciò permise a una forma di neoplatonismo cristiano di trovare una sua strada tra gli intellettuali dell’età tardo-antica e altomedievale. Anche
il neoplatonismo però – nelle sue accezioni originarie – appariva come un indubbio residuato dell’antico pensiero pagano. Il suo approccio rischiava di sfiorare lo gnosticismo, il cripto-paganesimo, l’eresia. Con tali motivazioni, nel 529, l’imperatore Giustiniano chiuse la Scuola filosofica di Atene, ultima erede della filosofia antica. Un’ombra cupa si stagliò allora sul pensiero occidentale, rischiarata solo dalle fiammelle del lavoro degli amanuensi, i quali continuarono a
A destra Cordova. La Porta di Almodovar che conduce all’antico quartiere ebraico della Judería.
Il filosofo arabo Averroè (1126-1198) che, come Maimonide, si dedicò alla rielaborazione del pensiero greco, soprattutto quello aristotelico, osteggiato dalla cultura cristiana sin dall’epoca tardo-antica. Particolare dal Trionfo di San Tommaso di Andrea di Bonaiuto. 1365-1367. Firenze, chiesa di S. Maria Novella, Cappellone degli Spagnoli.
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copiare indefessamente, chiusi nei loro scriptoria, gli antichi testi della filosofia greca, pur risultando loro spesso incomprensibili ed eterodossi. Secoli e secoli di tradizione filosofica furono rinchiusi nei monasteri, e l’unico baluardo del pensiero altomedievale fu il filosofo cristiano Agostino (354-430), che riprendeva la tradizione neoplatonica dal punto di vista cristiano. La ricerca razionale, nucleo del pensiero aristotelico, finí per essere completamente rigettata. I secoli trascorsero tra le fioche
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luci di pensatori isolati e le ombre di un totale declino della tecnica, delle arti liberali e della ricerca.
Contaminazioni culturali Ci vollero otto secoli prima che il pensiero aristotelico venisse recuperato, e ricominciasse a fornire energia vitale allo studio della realtà, della matematica, della fisica, della medicina, delle scienze in generale. Nell’Europa cristiana, tale recupero fu compiuto nel XIII secolo da Tommaso d’Aquino, il quale grazie a un
lavoro sistematico, all’inizio ferocemente contrastato, riuscí a mettere in dialogo tra loro la filosofia aristotelica e la cultura cristiana. Tale mediazione, però, era stata già compiuta sia nel mondo arabo che in quello ebraico. E ciò avvenne in Spagna, sull’estrema costa occidentale del mar Mediterraneo, solcato da navi arabe, bizantine e da quelle delle nascenti città marinare italiane. Qui, per il fortunato sommarsi di culture diverse – quella greco-romana, quella araba e quella ebraica – si sviluppò
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A sinistra pagina miniata da un’edizione della Guida dei Perplessi di Maimonide. Il personaggio seduto è identificato con il filosofo greco Aristotele. 1348. Copenaghen, Royal Library. In basso ritratto di Aristotele, copia di epoca romana da un originale greco della fine del IV sec. a.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Il filosofo fu aspramente criticato per via della componente razionale del suo pensiero che andava in contrasto con i dogmi di fede espressi dai testi sacri.
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una scuola di pensiero che permise la rinascita della filosofia medievale. La tradizione greco-romana era innervata nella Spagna per l’antica appartenenza latina e romanza. Tale provincia aveva dato a Roma letterati come Lucano e Marziale, filosofi come Seneca e imperatori come Traiano e Teodosio. Ma essa era anche depositaria di un gran numero di testi antichi, copiati durante l’età visigota negli scriptoria dei monasteri. L’invasione araba del VII secolo aveva coinciso con la fase espansiva dell’Islam e si tradusse in una forma di governo tollerante. La popolazione romanza e la tradizione culturale cristiana non ne furono travolte ma, semmai, rapidamente assorbite. Infine, del nuovo clima di
tolleranza religiosa poté avvalersi in modo insperato un’altra comunità: quella ebraica. Una popolazione alfabetizzata e numerosa, che per la prima volta poteva dispiegare tutto il proprio potenziale culturale. In nessun altro luogo dell’Europa e del Mediterraneo medievale, grazie al fortunato incrocio tra queste tre grandi scuole di pensiero (cristiana, araba ed ebraica), si assistette a un simile impulso alla scienza, alla matematica, e agli studi tecnici.
L’eredità di Aristotele
Il mondo cristiano che si affacciava appena al di là dal mare, rispetto alla Spagna presentava invece tutt’altro scenario: era contadino, semianalfabeta e guerriero. In breve, le scuole della Spagna divennero la punta di diamante della cultura medievale. Qui si ebbe lo sviluppo di nuove teorie e invenzioni (una su tutte: l’abaco con l’uso dello zero, la «calcolatrice» dell’uomo medievale), a cui si accompagnò il grande recupero della filosofia antica. Tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo, i pensatori arabi ed ebrei di Spagna – tra cui Averroé e Mosé Maimonide – si dedicarono, in particolare, al recupero e alla rielaborazione del pensiero greco. Aristotele, col suo approccio razionale allo studio della tecnica e della fisica, costituiva un’eredità ritenuta indispensabile al progresso. Il grande ostacolo che però i filosofi impegnati in tale impresa dovettero affrontare, ciascuno all’interno della propria tradizione, riguardò la conciliazione tra i dogmi della fede e la speculazione filosofico-scientifica. Lo studio della natura, infatti, poteva entrare in contrasto con gli ordinamenti divini trasmessi dai testi sacri e la grande sfida era quella di seguire la strada della conoscenza del mondo e dell’uomo senza perdere la via della fede. Tale questione appariva in età medievale centrale e ineludibile per le tre grandi religioni monoteiste, spesso ancora in via di de-
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karl marx (1818-1883) Filosofo ed economista tedesco, di origine ebraica ma convertitosi al protestantesimo. Teorico del socialismo scientifico e della concezione materialistica della storia, ha sottolineato l’importanza della lotta di classe.
MILLE ANNI DI FILOSOFIA E PENSIERO EBRAICO
rashi (1040-1105) Rashi, acronimo di Rabbi Shelomò ben Yizhaq, fu rabbino di Troyes e uno dei piú noti commentatori biblici del Medioevo.
levi ben gershon (1288-1344) Detto anche Gersonide, è stato un filosofo, matematico e astronomo francese. Scrisse commenti e glosse a opere aristoteliche e a opere di Averroè, commenti a libri biblici, trattati di matematica e astronomia.
Vilna Amsterdam Bruxelles
Londra
Cologne
Parigi Troyes
Avignone Toledo
Lisbona
Vienna Padova Venezia
Perpignano
Napoli
Cordova
Corfù Sicilia
Mar Mediterraneo
Isaac Abrabanel (1437-1508) Filosofo, rabbino e commentatore biblico portoghese. Nelle sue opere, ha sottolineato l’importanza della tradizione messianica. Fu profugo in Italia a seguito dell’espulsione degli Ebrei dalla Spagna.
finizione dogmatica e teologica. Di fronte a tali questioni sia il mondo arabo, che quello ebraico, ebbero reazioni contrastanti. La tendenza piú diffusa fu quella di rigettare il pensiero filosofico come nemico delle verità coraniche o bibliche. Proprio nelle scuole iberiche, tra l’VIII e il XII secolo, si fece però strada l’idea che la ricerca e la filo-
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mosé maimonide (1135 circa-1204) Filosofo e medico. Esercitò la medicina alla corte del Saladino, che gli conferí il titolo di nagid («principe») degli Ebrei d’Egitto. Nella sua opera cercò di dimostrare che non esiste un contrasto tra la filosofia razionale aristotelica e la religione.
sofia non fossero altro che uno dei modi di declinare le verità assolute contenute nei testi sacri, le quali dovevano essere disvelate attraverso un paziente lavoro di esegesi, che necessitava di una robusta griglia interpretativa mutuata dalla filosofia antica. Il filosofo ebreo che cercò di affrontare tale cruciale questio-
ne fu Mosé Maimonide, al secolo Mosheh ben Maymon, nato a Cordova intorno al 1135. Nel 929, la fondazione a Cordova del califfato dell’omayyade Abd el-Rahman III aveva inaugurato un particolare clima di tolleranza e fermento culturale, da cui prese avvio una sorta di «età dell’oro della cultura ebraica», testimoniata anche dalla ottobre
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baruch spinoza (1632-1677) Filosofo olandese di origine ebraica spagnola, fu scomunicato dalla comunità sefardita per le sue opinioni contrarie all’ortodossia religiosa. Fu iniziatore della critica moderna ai testi biblici, da lui sottoposti a disamina storica.
Elía ga’on di vilna (1720-1797)
Fondatore della scuola talmudica lituana, rabbino, insegnante e geografo, adottò negli studi rabbinici un metodo di rigorosa critica testuale.
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sigmund freud (1856-1939)
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Baghdad Eufra
Fondatore della psicoanalisi, di origine ebraica, nel 1938, dopo l’occupazione nazista dell’Austria, fu costretto a lasciare Vienna per trasferirsi a Londra.
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Il Cairo
Sa’adya ben Yosef (882-942) Filosofo e rabbino egiziano. Fu il primo a tradurre la Bibbia in arabo, accompagnata da un commentario. Rettore (Gaon) dell’Accademia di Sura, nelle sue opere ha cercato di conciliare la tradizione ebraica rabbinica e la scienza.
nascita della piú importante scuola talmudica dell’epoca. Se, da una parte, rappresentò l’incubatrice del pensiero europeo moderno, proprio a motivo della sua particolare varietà etnica, la Spagna fu anche teatro di cicliche ondate di fanatismo religioso, che si scatenarono anche prima di quelle tristemente note dell’Inquisizione
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spagnola (vedi, in questo numero, il dossier alle pp. 61-83). Tra il XII e il XIII secolo, infatti, si assistette alla diffusione di una vera e propria febbre dell’islamismo, promossa da alcune tribú berbere del Sahara occidentale, ortodosse e intolleranti. Essa sbaragliò – in tutta l’area del Mediterraneo occidentale – le vecchie dinastie arabe, che aveva-
no costruito sulla tolleranza e sulla promozione della cultura la propria prosperità economica e che ora si videro travolte dall’avanzare degli Almohadi, espressione politica delle idee delle tribú berbere. L’irrigidimento integralista fu il segno di una crisi politica e culturale profonda e coincise – non a caso – con l’inizio dell’inarrestabile declino del mondo arabo in Europa. Tale ondata si tradusse in politiche di repressione nei confronti di cristiani ed Ebrei, fino ad allora ritenuti intoccabili, in quanto «gente del Libro». Proprio in Spagna, si scatenarono le piú dure persecuzioni, molte chiese e sinagoghe vennero chiuse, anche se la secolare tradizione culturale consentí che si mantenessero in vita alcuni importanti centri di studio.
L’«illuminato» di Cordova
Tra il 1158 e il 1159, molti intellettuali cristiani ed ebrei, come il giovane Maimonide, dovettero lasciare per sempre la penisola, a causa del mutato clima. Maimonide si trasferí prima a Fez, dove compí gli studi di medicina e diritto e cominciò a scrivere un commento alla Mishnah, poi in Egitto, dove esercitò l’arte medica alla corte del Saladino, di cui divenne medico di fiducia. Al Cairo fu eletto capo della comunità ebraica, che gli conferí il titolo di nagid («principe») degli Ebrei d’Egitto. Proprio al Cairo, intorno al 1190, compose in lingua araba la sua maggiore opera filosofica, dal titolo programmatico di Dalala alha’irim (Guida dei perplessi). Agli inizi del XIII secolo, essa fu poi tradotta in ebraico col titolo di Moréh Névoukhim e, successivamente, in latino. L’opera è scritta in forma di lettera, in tre volumi, indirizzata al suo allievo prediletto, Rabbi Joseph ben Jadah ibn Aknin. Nella sua guida, il Rabbi Mosè Maimonide (detto Rambam, acronimo di Rabbi Mosheh ben Maymon), si sforzò di conciliare la filosofia aristotelica con gli insegnamenti della religione, cercando di dimostrare che l’una fosse capace di supporta-
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protagonisti maimonide re l’altra e viceversa. L’esistenza di Dio vi è qui infatti dimostrata con l’argomento aristotelico per eccellenza di Dio motore primo e immobile. Dal neoplatonismo Maimonide trasse invece la teoria secondo la quale Dio è conoscibile all’uomo solo per via negativa e, per tale ragione, non descrivibile, né rappresentabile in alcun modo.
Tra fede e scienza
L’originalità del pensiero dispiegato nella Guida dei perplessi consiste però nell’affermazione che la Bibbia può essere interpretata in senso sia letterale che allegorico, e che, per tale ragione, non esiste contrapposizione tra verità filosofiche e verità di fede. «Perplessi» sono per Maimonide coloro i quali, avendo intrapreso il cammino dello studio della filosofia, si trovano spesso di fronte all’inconciliabilità tra le verità di fede e verità filosofiche. Secondo Maimonide, il filosofo è in tal caso legittimato ad attribuire alle verità di fede un valore allegorico. Tale rivoluzionaria concezione doveva risolvere per sempre il pro-
La tomba di Maimonide, ancora oggi meta di pellegrinaggio, a Tiberiade, in Israele. Considerato un precursore della scienza
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blema atavico del rapporto tra fede e scienza, tra religione e filosofia, tra dogma e ricerca. La Sacra Scrittura, per il filosofo di Cordova, deve essere interpretata in quanto presenta, velate sotto il manto dell’allegoria, verità a cui non tutti sono in grado di accedere in maniera diretta. Il compito della filosofia consiste proprio in questo: permettere il loro pieno disvelamento e impedire alla fede religiosa di cadere in devianze che conducono alla superstizione, alla magia, al panteismo o all’antropomorfismo. Un analogo tentativo di conciliare la filosofia di Aristotele con l’Islam fu compiuto, negli stessi anni, dal filosofo arabo Averroè. Entrambi erano cresciuti a Cordova, nello stesso clima di apertura culturale, ed entrambi erano stati influenzati dal filosofo islamico Avicenna (nato tra Afghanistan e Iran nel 980), il quale, per primo,
si era interrogato sulla possibilità di conciliare la speculazione filosofica con le verità di fede. Averroé dovette combattere un’uguale ostilità all’interno del mondo islamico e anch’egli, come Maimonide per la Bibbia, sostenne che la filosofia concorre armonicamente alla ricerca delle verità enunciate dal Corano. A differenza di Maimonide, però, Averroè sosteneva che tale ricerca è riservata solo a un’élite di iniziati, mentre per Maimonide il metodo dell’interpretazione esegetica doveva essere esteso a tutti, nel senso che tutti dovevano essere aiutati a raggiungere quel minimo livello di preparazione filosofica che permettesse loro una migliore intelligenza del testo sacro. Proprio per facilitare l’interpretazione della Bibbia, egli scrisse un’opera destinata al vasto pubblico, il «Codice delle Leggi» (Mishneh Torah), nella cui introduzione cosí si
Nella sua opera Maimonide cercò di conciliare il pensiero razionale aristotelico con gli insegnamenti della religione
medica per il suo orientamento verso l’innovazione e la ricerca, Maimonide esercitò la medicina alla corte del Saladino, in Egitto.
presentava: «Io sono Mose’ Maimonide sefardita. Per voi ho scritto, ho tratto dal mare del Talmud». Nella Guida dei perplessi dichiarava invece di voler venire incontro a quei sudditi «i quali arrivati presso la reggia del re e volendo arrivare al suo cospetto, iniziano a girarle intorno senza riuscire a trovare la porta d’ingresso». Questi, secondo Maimonide, sono coloro i quali «in virtú di tradizione nutrono opinioni veritiere e studiano le pratiche del culto, ma non sono avvezzi alla speculazione sui principi fondamentali della Torah, né indagano sulle verità di una credenza». Con la sua opera, quindi, Maimonide vuole indurre a progredire nella ricerca e nella speculazione filosofica, che può e deve essere messa a servizio della fede, e liberare il campo da quelle che, solo a un primo approccio, appaiono come insanabili antinomie tra fede e ragione. Le comunità ebraiche – piccoottobre
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il padre della medicina ebraica
«Quando le forze psicologiche causano la malattia...» Le opere di medicina di Maimonide (tra l’altro un commentario agli Aforismi di Ippocrate, un Regimen sanitatis, una Ars coeundi, un trattato sui veleni) rivelano una mentalità non dogmatica che talora entra in aperto dissenso con alcune affermazioni di Galeno. Se per tutto il corso del Basso Medioevo e fino ancora a tutto il Rinascimento i medici personali dei pontefici erano quasi sempre ebrei, fu in parte dovuto al fatto che la medicina ebraica, grazie a Maimonide, ebbe un forte orientamento all’innovazione, alla ricerca e alla prevenzione, aspetti che, invece, mancavano alla medicina occidentale, profondamente conservatrice e legata alla manualistica di Galeno. La medicina ebraica, invece, poté rielaborare la medicina araba e rivisitare gli antichi trattati greco-romani con un approccio razionale e
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critico che le portò indubbi vantaggi. Come scrisse lo stesso Maimonide, con parole che per noi appaiono estremamente moderne e precorritrici: «Il medico cura non solo facendo riferimento alla medicina, ma anche comprendendo l’importanza di liberare il paziente dalle forze spirituali e psicologiche che causano la malattia». Le innovazioni in campo medico fecero sí che la tomba di Maimonide – in Israele, a Tiberiade – fosse e sia tutt’oggi luogo di pellegrinaggio da parte di medici, che riconoscono in lui il precursore della loro scienza e vi recitano la celebre «preghiera del medico»: «grandi e nobili sono le conoscenze scientifiche volte a mantenere la salute e la vita delle Tue creature. Allontana da me il preconcetto ch’io possa sapere ogni cosa, dammi la forza, la voglia e l’opportunità di ampliare sempre piú il mio sapere».
Un dottore visita un paziente. Miniatura di scuola persiana da un’edizione delle Maqamat di al-Hariri (10541122), opera composta tra il 1101 e il 1108. XIV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.
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protagonisti maimonide li ma instancabili centri di cultura presenti in ogni regione – rilanciarono le sue idee sull’interpretazione della Scrittura, per la prima volta aperta a tutti e orientata alla conoscenza universale. Secondo Maimonide, infatti, non solo le Sacre Scritture contenevano messaggi allegorici che andavano interpretati e compresi, ma la filosofia – cioè la libera ricerca
scientifica – doveva essere quanto piú possibile insegnata e diffusa. Vi furono anche, come inevitabile, dure reazioni al suo pensiero, ritenuto pericoloso per l’ortodossia ebraica. Nel 1233, dopo la sua morte, alcuni correligionari, riuscirono a convincere gli inquisitori di Montpellier che le idee espresse nella sua Guida fossero pericolose tanto per il pensiero ebraico quanto per quello cri-
In basso un profeta con il rotolo della Torah. Miniatura da un’edizione del Codice delle Leggi (Mishneh Torah) compilato da Maimonide tra il 1170 e il 1180. Inizi del XIV sec.
Nella pagina accanto la casa di Maimonide a Fez, in Marocco, città in cui il filosofo si trasferì nel 1160, per sfuggire alle persecuzioni religiose degli Almohadi, e dove studiò medicina e diritto.
stiano. Come spesso accade nella storia, per combattere quello che viene percepito come «nemico interno», si offre il pretesto per l’intervento del nemico esterno. Tale meccanismo portò al rogo dell’opera di Maimonide e, di lí a poco, alla ben piú feroce stagione dei roghi del Talmud voluta da Luigi IX, re di Francia, a partire dal 1239 (vedi nel prossimo numero).
Una convivenza possibile
Su un punto gli avversari di Maimonide avevano ragione. L’impatto della sua opera sulla cultura mediterranea fu enorme, non solo per ciò che attiene specificatamente al pensiero ebraico che, grazie a Maimonide, fu per sempre svincolato dai dogmi della fede e poté imboccare la via della ricerca e della speculazione filosofica. Secondo la Guida dei perplessi, infatti, le Sacre Scritture potevano convivere con la scienza, con il progresso delle leggi e dei costumi e non costituire appigli per l’integralismo ortodosso e
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Da leggere U Maurice-Ruben Hayoun, Maimonide. L’altro Mosè,
Jaca Book, Roma 2003 U Mauro Zonta, Maimonide, Carocci, Roma 2011
la conservazione. Ma la soluzione adottata da Maimonide per conciliare fede e ragione serví come base anche per lo sviluppo del pensiero cristiano. Innegabile fu l’influsso che egli esercitò sulla scolastica, in particolare su Tommaso d’Aquino, il quale, vincendo anch’egli una forte opposizione interna, riuscí infine a saldare la filosofia di Aristotele al pensiero cristiano. L’approccio razionale di Maimonide fu anche volto a potenziare lo sviluppo della cultura medica a discapito di pratiche magico-religiose, da lui ferocemente disprezzate perché considerate come drammatica forma di arretratezza. Tale formazione lo portò a essere identificato come il peggiore avversatore di quel magismo naturalistico diffuso attraverso un uso superficiale e primitivo della cabala, molto esteso tra le comunità ebraiche del Mediterraneo. La cabala consisteva nell’elaborazione simbolica (e non razionale) dei testi sacri. Taluni hanno voluto contrapporre l’«aristotelico»
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Maimonide alla cultura cabalistica «neoplatonica», operando cosí una contrapposizione tra razionalisti e spiritualisti che appare però troppo rigida e semplicistica.
L’influsso sulla cabala
Ciò che va invece rilevato è che Maimonide agí indirettamente da pungolo critico per tutte le componenti dell’ebraismo. Il suo approccio razionalista, infatti, esercitò un’influenza positiva sulla cultura cabalistica, la quale reagí procedendo a una «sistemazione del mondo cabalistico» improntata a un maggiore rigore critico. Secondo alcuni studiosi, tra cui Moshé Idel, il metodo interpretativo proposto nella Guida dei perplessi, se da una parte provocò la veemente opposizione dei cabalisti di Spagna e Provenza, dall’altra li spinse a inseguirlo sul suo stesso terreno. Quando, il 13 dicembre del 1204, dopo una vita dedicata allo studio e alla guida della sua comunità, Maimonide morí, fu pianto da
Ebrei e musulmani. Il suo impatto sulla cultura ebraica fu enorme, in quanto riuscí a scuoterla, sia per ciò che attiene alla sua componente razionalistica, di cui egli fu fondatore, sia per ciò che concerne la sua componente mistico-cabalistica, la quale, per reazione alle sue critiche, si depurò dalle scorie legate alle degradazioni di matrice magica e astrologica. Il suo pensiero, in generale piú accolto che avversato, conobbe il suo pieno successo e la sua piú larga diffusione nel XVIII secolo, quando venne, a ragione, considerato come precursore dell’illuminismo ebraico. L’influsso del suo pensiero fu forte anche nella cultura islamica – travagliata, anche per colpa della rivoluzione degli Almohadi, da una prima, lunga, fase di declino – e, infine, penetrò a fondo anche nel pensiero cristiano, attraverso la sua diffusione presso la corte siciliana di Federico II. L’idea di far camminare insieme rispetto della cultura religiosa e filosofia della razionalità, e di vedere il pensiero umano come applicazione di capacità per spiegare i fenomeni della natura e della psiche nacque in quei decenni. Il fatto che si diffondesse in un Mediterraneo squassato dall’integralismo dei nomadi del deserto e dalla violenza cieca e sanguinosa dei crociati – di cui Maimonide ebbe occasione di conoscere e aborrire la crudeltà – lo rende ancora piú significativo. Aveva scritto il grande pensatore di Cordova: «L’uomo ha come proprietà qualcosa di molto strano, che non si trova in nessuno degli enti che stanno sotto la sfera della luna: è la comprensione intellettuale, nella quale non interviene né un senso, né una mano, né un braccio» (dalla «Guida dei perplessi», Parte Prima, Capitolo I). F
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Parigi, particolare delle gargouille sulla facciata di Notre-Dame. La costruzione della cattedrale ebbe inizio nel 1163 e fu ultimata nel XIV sec. L’edificio fu poi ampiamente restaurato, nel XIX sec., da Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc. Nella pagina accanto una gargouille della basilica romanica di Sainte Madeleine a Vézelay, in Borgogna. Dal punto di vista architettonico queste grottesche statue di pietra, raffiguranti animali fantastici e demoniaci, dalle fattezze di draghi, leoni e grifoni, fungono principalmente da doccioni, le estremità dei condotti di scolo per le acque piovane.
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immaginario gargouille
La leggenda dei mostri di pietra di Paolo Galloni
Magistralmente animate da Victor Hugo nel suo Notre-Dame de Paris, le fattezze grottesche e demoniache dei doccioni in pietra che si protendono dalle cattedrali fungevano da ammonimento sui pericoli della dannazione eterna. Mentre una leggenda altomedievale racconta di una creatura mostruosa e sanguinaria e dei suoi resti pietrificati...
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doccioni raffiguranti creature mostruose che sporgono dai muri esterni delle cattedrali romaniche e gotiche, per definire i quali la lingua italiana utilizza anche il francese gargouille (dal latino medievale gargúla, gola), fanno parte dell’immagine moderna del Medioevo, agli occhi di molti epoca fascinosa e bizzarra, talvolta ancora «oscura». Basti pensare alla grandiosa descrizione dell’incendio della cattedrale in Notre-Dame de Paris di Victor Hugo (vedi box a p. 56), quando le raccapriccianti creature di pietra che si allungano dalle pareti sembrano animarsi, tramutandosi in spaventosi spettri agli occhi della moltitudine che, dal basso, osserva la scena, sgomenta e ipnotizzata.
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Se l’epoca delle cattedrali ha sviluppato con incredibile e irripetibile fantasia questo particolare motivo decorativo, è comunque vero che anche nell’antichità si utilizzavano doccioni decorati, spesso costruiti in legno, pietra, ceramica e terracotta. Un caso eccezionale è rappresentato dai doccioni di marmo del Partenone, che raffiguravano leoni, forse simbolo della forza che proteggeva la città. In continuità con quelli antichi, i primi doccioni medievali erano in effetti poco numerosi, piccoli, semplici e addossati ai muri. Poco a poco, però, cominciarono a crescere di numero, ad allontanarsi dalle pareti e ad assumere tratti sempre piú bizzarri e le caratteristiche di autentiche opere d’arte autonome. In
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immaginario gargouille generale, solo dal Cinquecento si tornò a una maggiore semplicità di temi e realizzazione. A proposito degli aspetti concreti della realizzazione, di norma lo scultore preparava una bozza in argilla dell’immagine da realizzare e poi scolpiva la figura che, si badi, era solo l’appendice di un piú grande blocco di pietra incastrato nella parete che fungeva da contrappeso e stabilizzava la scultura che si prolungava nello spazio, impedendone la rottura e la pericolosissima caduta a terra. I tubi, di pietra o metallo, che a volte si osservano uscire dalla bocca della gargouille sono, con poche eccezioni, aggiunte moderne.
Dall’«anima» del popolo
Dal punto di vista squisitamente iconografico, alla varietà dei motivi rappresentanti corrisponde una sorprendente varietà delle fonti d’ispirazione. Come ha osservato lo storico dell’arte Jurgis Baltrušaitis (19031988), la glittica greco-romana offriva già una serie di modelli e combinazioni: «teste su zampe, teste su
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Il gobbo tra i mostri di pietra Oltre che un’epoca storica, il Medioevo è anche un luogo dell’immaginazione. Quasimodo, il gobbo campanaro protagonista del romanzo Notre-Dame de Paris di Victor Hugo, somiglia lui stesso a una gargouille della cattedrale che ha preso vita. Nell’epica scena dell’incendio, l’assonanza è deliberatamente sfruttata e addirittura estremizzata dall’autore, in un passo di grande virtuosismo: la folla solleva gli occhi verso l’alto per contemplare lo spettacolo terrorizzante delle fiamme che vorticano turbinosamente al di sopra del rosone centrale; le bocche dei mostri che sporgevano dalle balaustre sputavano scintille e lapilli, e poi, con il crescere del calore, cominciarono a vomitare piombo fuso. Nell’intenso chiaroscuro scatenato dall’incontro tra il chiarore delle fiamme e il buio della notte, gli innumerevoli diavoli e draghi assumevano un aspetto ancora piú lugubre e spaventoso, sembravano urlare, ridere, soffiare. E tra questi mostri risvegliati dal loro sonno di pietra ce n’era uno, Quasimodo, che andava avanti e indietro senza posa e che la folla, scrive Hugo, «vedeva ogni tanto passare come un pipistrello davanti a una candela».
Quasimodo guarda attraverso una finestra della cattedrale di NotreDame. Illustrazione da un’edizione del romanzo di Victor Hugo, Notre-Dame de Paris (1831). Conosciuto come il «gobbo di Notre-Dame» per la sua deformità, Quasimodo viveva in chiesa, nascosto da tutti, con il compito di suonare le campane.
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zampe con un collo a forma d’uccello o di quadrupede a guisa di copricapo, tronchi a doppia faccia», uomini senza testa con occhi e bocca sul torace e molte altre bizzarrie. Alcune figure demoniache potrebbero essere addirittura giunte dall’Oriente, lungo percorsi difficili da ricostruire, ma che lasciano supporre che nel corso dei secoli abbiano avuto luogo anche non trascurabili migrazioni di motivi culturali. Gli studiosi hanno a lungo considerato queste figure mostruose come espressione di un gusto popolare, fascinoso, ma «basso». Il grande storico dell’arte Emile Mâle, per esempio, scrisse che i doccioni delle cattedrali «somiglianti ai vampiri dei cimiteri o ai draghi sconfitti dai primi santi vescovi, hanno vissuto nelle profondità dell’anima del popolo: sono nati dalle antiche storie raccontate nelle notti invernali». Forse Mâle non aveva del tutto torto – sono in effetti documentate leggende altomedievali che narrano l’origine di questi mostri di pietra (vedi box in questa pagina) –, ma certamente non del tutto ragione. In primo luogo è legittimo chiedersi se i doccioni facessero eccezione rispetto alla regola cui soggiacevano le opere d’arte dell’epoca, ovvero se non avessero anch’essi, a modo loro, una funzione didattica. Come sappiamo, infatti, le immagini inserite negli edifici sacri erano in qualche modo pensate per l’istruzione di un popolo in larga maggioranza analfabeta. Già il Concilio de Nicea del 707
aveva stabilito che la composizione delle immagini sacre non doveva essere lasciata all’ispirazione degli esecutori, ma doveva invece attenersi ai principi stabiliti dalla Chiesa e dalla tradizione religiosa: «la tecnica appartiene all’esecutore, ma i criteri che guidano la composizione sono di responsabilità della Chiesa».
Le legioni di Satana
Detto ciò, non va trascurato che da un lato i doccioni mostruosi compaiono anche in palazzi civili, mentre dall’altro la loro estrema varietà – forse non ce n’è uno esattamente uguale all’altro in tutta l’architettura medievale – impediva quell’aspetto di riconoscibilità che contribuiva a rendere fruibili le immagini dal punto di vista didattico. È evidente, insomma, che nel caso delle gargouille gli scultori godevano di una libertà maggiore rispetto alla norma. Una delle ragioni proposte per spiegare questa anomalia è che i doccioni avessero in architettura un ruolo simile ai cosiddetti marginalia nei manoscritti, decorazioni della pagina che permettevano ai miniatori una certa libertà creativa. La varietà di mostri che spuntano dai muri delle cattedrali potrebbe essere motivata anche da un’associazione con il diavolo, o meglio con le legioni di demoni al servizio del Maligno: se Dio è unità il suo nemico è per eccellenza caratterizzato dall’infinita molteplicità e dall’incessante camuffamento. Il demonologo rinasci-
la leggenda di rouen
Il drago e il sacerdote Secondo una leggenda, un mostro che sputava fiamme infestava le acque della Senna vicino Rouen. Per placarlo, gli abitanti della città erano arrivati a offrigli sacrifici umani. Un giorno giunse a Rouen un sacerdote, di nome Romano, che promise l’aiuto divino contro il drago se il popolo si fosse convertito e avesse edificato una chiesa. Al momento di consegnare al mostro l’ennesima vittima sacrificale, Romano accompagnò il predestinato, un condannato a morte. Il sacerdote portava con sé una campana, un cero e un Vangelo
e, appena il drago apparve, disegnò nell’aria il segno della croce e pronunciò un esorcismo. Il mostro, divenuto docile, seguí Romano senza sfiorare la vittima. Gli abitanti uccisero il mostro e lo mandarono al rogo; la testa e il collo, però, non bruciarono, ma si indurirono, come temprati dalle fiamme. Esposti sulle mura della città, divennero il modello delle gargouille scolpite all’esterno delle chiese. I fatti narrati nella leggenda vennero ricordati in una processione annuale, che si tenne fino al 1790.
La gestualità eccessiva delle gargouille ricorda atteggiamenti che, nel Medioevo, venivano associati alla natura demoniaca MEDIOEVO
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immaginario gargouille
mentale Johannes Wier, nel suo De praestigis Demonorum pubblicato a Basilea nel 1568, arrivò a calcolare il numero totale dei diavoli nell’iperbolica cifra di 7 405 926, suddivisi in 1111 legioni di 6666 effettivi ciascuna.
Suonatori mostruosi
La molteplicità del caos
Oltre a esibire smorfie e contorsioni innaturali, i doccioni mostruosi sono raffigurati nell’atto di suonare strumenti musicali. Di preferenza la gargouille soffia in una cornamusa, il cui suono aspro e potente la rendeva facilmente associabile
Oltre alla varietà, le gargouille condividono altre caratteristiche con i demoni, per esempio la gestualità eccessiva e burlesca, come pure le espressioni grottesche e deformate, gli atteggiamenti a volte palesemente provocatori e scopertamente lascivi. Nella prospettiva appena individuata, il proliferare delle gargouille all’esterno delle chiese potrebbe effettivamente assumere un preciso significato simbolico e pedagogico originale: essi rappresenterebbero la molteplicità del caos, delle tentazioni e delle presenze diaboliche che minacciano il mondo in opposizione all’unità, al raccoglimento, alla
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Il soffio del diavolo alla depravazione demoniaca. Non a caso, nelle rappresentazioni del sabba satanico di epoca moderna, la cornamusa è ancora lo strumento piú spesso imbracciato dai diavoli che radunano gli adepti e li stordiscono in danze sfrenate e peccaminose. ottobre
MEDIOEVO
protezione della casa del Signore. Alcuni storici si sono spinti a ipotizzare che la moltitudine di mostri collocati materialmente al di fuori della chiesa potesse evocare la schiera dei dannati, fissati nella pietra a perenne ammonimento dei fedeli. In effetti, la gestualità delle gargouille è sempre smodata, eccessiva, provocatoria, in linea con gli atteggiamenti che nel Medioevo venivano associati alla natura demoniaca; le loro bocche esageratamente spalancate, nel loro silenzio pietrificato, evocano comunque una sonorità concreta e disumana (vedi box nella pagina accanto). È pertanto davvero probabile che i sinistri doccioni delle cattedrali esprimano e rappresentino la dannazione che si riteneva avrebbe inevitabilmente colpito chi si collocava al di fuori della Chiesa, concetto, lo abbiamo compreso, da intendersi in senso simbolico, morale, teologico, ma anche, in questo caso, spaziale. In una società ossessionata dal peccato, i doccioni sarebbero dunque un monito volto a impressionare i fedeli e a incutere il timore per il peccato e le sue orribili conseguenze. F
Da leggere U Jurgis Baltrušaitis, Risvegli e
prodigi. Le metamorfosi del Gotico, Adelphi, Milano 1999. U Jurgis Baltrušaitis, Il medioevo fantastico, Adelphi, Milano 1988. U Michael Camille, Images dans les marges. Aux limites de l’art médiéval, Gallimard, Parigi 1997. U Angela Cerinotti, Cattedrali del mistero, Giunti, Milano 2005.
Un gobbo musicista, scolpito sulle mura del Castello di Bridoré, in Turenna, regione storica della Francia. XIV-XV sec. Nella pagina accanto una gargouille dell’abbazia di NotreDame de Jumièges, in Normandia. XI sec.
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di Chiara Mercuri
L’espulsione degli Ebrei di Spagna nel 1492. Incisione di Mihály Zichy (1827-1906). 1880. In alto, il domenicano Tomás de Torquemada (1420-1498), grande inquisitore generale spagnolo e confessore di Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona, che ottenne l’espulsione delle comunità giudaiche dalla Castiglia e dall’Aragona.
Lontani da Sefarad Nel marzo del 1492, poco dopo la caduta dell’ultima roccaforte musulmana, i sovrani cattolici di Spagna decretarono l’espulsione di tutte le comunità giudaiche che non avessero accettato di sottomettersi al battesimo cristiano. Contro i nemici della «vera fede» si mise in moto la macchina dell’Inquisizione, che fece della Spagna – terra in cui avevano convissuto Ebrei, mori e cristiani – un Paese intollerante e culturalmente impoverito
Dossier
C «C
he tutti gli ebrei e le ebree che vivono e risiedono nei nostri suddetti regni e signorie, a prescindere dalla loro età (…), entro la fine di luglio lascino i nostri regni e signorie insieme con i loro figli (…) e non osino mai piú farvi ritorno». Con queste parole si concludeva l’editto di espulsione degli Ebrei dal regno di Spagna, emanato nel marzo del 1492 da Ferdinando di Aragona e Isabella di Castiglia (vedi box alle pp. 70-71). Editto che segnò la fine della comunità ebraica in Spagna e nei territori a essa sottoposti, ponendo termine a una vicenda storica millenaria, fatta di violenza, ma anche di feconda integrazione. La condizione degli Ebrei in Spagna, come in altri Paesi d’Europa, conobbe fasi alterne. Alla fine dell’impero romano, la penisola cadde sotto i Visigoti, popolo germanico profondamente romanizzato. Con l’adesione dei re visigoti al cristianesimo di rito romano – in origine, come altre genti germaniche, i Visigoti erano ariani – si verificarono episodi di intolleranza: tra questi va ricordato l’editto del re Sisebuto del 613, che provocò una prima serie di atti repressivi e persecutori ai danni della comunità ebraica insediata da secoli nella penisola. Nel 694, un concilio convocato a Toledo stabilí la confisca dei beni degli Ebrei e, in alcuni casi, la loro riduzione in schiavitú. La conquista musulmana della Penisola iberica a partire dal 711 rappresentò, quindi, per la popolazione semita, la fine delle persecuzioni religiose. Sotto la dominazione araba, la posizione degli Ebrei migliorò notevolmente e il clima di tolleranza e libertà religiosa portò alla prosperità e all’ascesa politica di molte famiglie ebree.
Un’identificazione errata La comunità ebraica spagnola assunse, nell’Alto Medioevo, il nome di «sefardita», a causa di un’errata identificazione della Spagna con la terra di Sefarad (forse l’antica Sardis, capitale della Lidia, n.d.r.), in Asia Minore. Da allora, tale comu-
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nità divenne una delle due colonne portanti dell’ebraismo dopo la diaspora. «Sefarditi» furono detti gli Ebrei che abitarono la Penisola iberica, per distinguerli da quelli che abitarono la Germania e le altre regioni dell’Europa centrale e orientale, indicati con il nome di «ashkenaziti».
Con l’occupazione araba della Spagna si diffuse un clima di particolare vivacità culturale, di cui la comunità sefardita fu protagonista. Qui, in anticipo rispetto al resto d’Europa, nacquero università e centri di arte e di scienza che si nutrivano dell’incontro delle diver-
L’espulsione degli Ebrei dalla Spagna. Litografia a colori di Solomon Alexander Hart (1806-1881). Collezione privata. Il 31 marzo del 1492, i re cattolici Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona firmarono a Granada il decreto di espulsione degli Ebrei dalla Spagna, indicando come motivazione il danno che causavano a convertiti e cristiani, anche alla luce dell’inefficacia delle precedenti misure adottate, quali l’isolamento in determinati quartieri e l’istituzione del tribunale dell’Inquisizione.
se culture del Mediterraneo. In tale contesto gli Ebrei spagnoli poterono elaborare un proprio bagaglio di tradizioni culturali evolute e raffinate. In particolare, con la fondazione del califfato di Cordova, nel 929, a opera dell’omayyade Abd al-Rahman III cacciato da Baghdad, prese avvio
una sorta di «età dell’oro della cultura ebraica», testimoniata anche dalla nascita della piú importante scuola talmudica dell’epoca. L’Accademia talmudica di Cordova, istituita per iniziativa dell’ebreo Hasdai ibn Shabrut, tesoriere e ministro di Abd al-Rahman
III, arrivò infatti a oscurare il successo delle stesse scuole mesopotamiche. Sui banchi dell’Accademia venne anche formulato un «mito delle origini» della comunità sefardita. Secondo tale tradizione, gli Ebrei spagnoli sarebbero arrivati in Spagna non ai tempi della diaspora
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Dossier Ferdinando d’Aragona e Isabella la Cattolica. Sculture in legno policromo di Felipe Vigarny (1475-1542). 1521. Granada, Cattedrale, Cappella Reale.
19 ottobre 1469
Spagna • Matrimonio di Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia
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seguita alla conquista di Gerusalemme da parte di Tito, ma addirittura prima dell’uccisione di Cristo. Tale espediente doveva servire ad affrancare le comunità spagnole dall’accusa di deicidio che andava diffondendosi in maniera strisciante e pervasiva nei testi della tradizione religiosa cristiana (vedi «Medioevo» n. 171, aprile 2011). Sotto la dominazione musulmana, la comunità ebraica dovette sottostare a una serie di restrizioni determinate dalla condizione di inferiorità giuridica. Gli Ebrei, come del resto i «mozarabi» (termine col quale si designavano i cristiani di Spagna), erano soggetti all’obbligo di pagamento di una tassa speciale. Come i cristiani, inoltre, non potevano montare a cavallo e portare armi. Non avevano però alcuna restrizione per ciò che concerneva la gestione delle proprietà, gli spostamenti e l’esercizio dei mestieri, oltre a beneficiare della piena libertà religiosa.
Con la Reconquista cristiana, cioè la progressiva e lenta riconquista della penisola da parte dei regni cristiani fino ad allora asserragliati nelle sole regioni del nord della Spagna, la condizione degli Ebrei mutò radicalmente.
Fanatismo religioso
Se, infatti, in un primo momento essi furono spesso impiegati dai sovrani al servizio della corona, successivamente finirono con il pagare le conseguenze del clima di fanatismo religioso in cui si sostanziava l’ideologia della Reconquista, giocoforza improntata a fomentare un sentimento di appartenenza religiosa da contrapporre agli occupanti musulmani. Per gli Spagnoli impegnati nella liberazione della penisola dalla dominazione araba, infatti, la fede cristiana divenne l’elemento portante dell’identità nazionale e rimase, fino alla conquista dell’ultimo lembo meridionale della Spagna (con la presa
di Granada nel 1492), uno strumento di controllo politico nelle mani dei sovrani. All’interno di tale dinamica, anche gli Ebrei, in quanto non cristiani, finirono per diventare un facile bersaglio ogni qual volta si cercò di unificare, usando la bandiera religiosa, le diverse province del Paese. Si deve però rilevare che, a partire dal XIII secolo, gli Ebrei di Spagna dovettero subire anche le conseguenze di un generale peggioramento, in tutta Europa, delle loro condizioni di vita, a causa delle violente predicazioni di Domenicani e Francescani, i quali iniziavano a riscuotere un sempre maggiore successo tra i ceti popolari che affollavano le piazze in occasione delle loro pubbliche prediche. In merito all’impatto demografico della popolazione ebraica in Spagna, vi sono dati relativi alla fine del Duecento. All’epoca, in Castiglia vi erano circa 36 000 Ebrei, pari al quattro per cento della popolazione, mentre in Aragona il numero
La fede cristiana, elemento portante dell’identità nazionale, fu uno strumento di controllo politico nelle mani dei sovrani 1485
Inghilterra • Fine della guerra delle «due rose». Inizia la dinastia dei Tudor con Enrico di Lancaster proclamato re col nome di Enrico VII
1479
Spagna • Ferdinando re d’Aragona e la moglie Isabella realizzano l’unità della Spagna
MEDIOEVO
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1488
Portogallo • Il navigatore portoghese Bartolomeo Diaz doppia il Capo di Buona Speranza
1492
Spagna • Ferdinando I conquista Granada. Cade l’ultimo lembo di Al-Andalus • Espulsione degli Ebrei e dei mori dalla Spagna. Editto di espulsione anche per gli Ebrei di Sicilia • Il genovese Cristoforo Colombo al servizio della Castiglia «scopre» il continente americano e fonda l’impero coloniale spagnolo Italia • Muore l’8 aprile Lorenzo il Magnifico Roma • L’11 agosto saliva al soglio pontificio il cardinale spagnolo Rodrigo Borgia, al secolo Alessandro VI
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Dossier Vincenzo Ferreri, soprannominato «l’angelo dell’Apocalisse» impose il battesimo a piú di 500 Ebrei valenziani e castigliani
era pressappoco lo stesso, ma con un’incidenza percentuale minore rispetto alla popolazione complessiva, pari al due per cento. A Toledo e a Saragozza, città iberiche con la piú alta concentrazione di Ebrei, vivevano tra le 200 e le 400 famiglie ebree. Si tratta di numeri che, nel complesso, facevano della Spagna il Paese europeo con la piú consistente presenza ebraica.
Conversioni coatte
In alto esodo del popolo ebraico dall’Egitto, miniatura tratta da una Haggadah spagnola. 1300 circa. Londra, British Library. Nella pagina accanto Menorah (candelabro a sette braccia) con, ai lati, due alberi di ulivo, come descritto nella
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visione del profeta Zaccaria. Miniatura di Joseph Asarfati tratta dalla Bibbia di Cervera, una della piú antiche bibbie sefardite sopravvissute alla distruzione delle comunità giudaiche di Castiglia e Aragona. 1299-1300. Lisbona, Biblioteca Nazionale del Portogallo.
La posizione degli Ebrei spagnoli si aggravò improvvisamente nel 1391. La furia popolare diede origine a veri e propri pogrom, con distruzione di sinagoghe e di interi quartieri ebraici. A Barcellona e in altre città spagnole, gli Ebrei furono obbligati a convertirsi al cristianesimo con la forza. La violenta predicazione di Vincenzo Ferreri, soprannominato «l’angelo dell’Apocalisse», impose il battesimo a piú di 500 Ebrei valenzani e castigliani. Coloro i quali scelsero il battesimo in luogo della morte vennero chiamati, da allora, «conversos». Dopo qualche tempo, i promotori delle violenze e delle conversioni forzate furono puniti, e i sovrani permisero agli Ebrei convertiti di tornare alla loro fede originaria. Tuttavia molti di loro scelsero di restare cristiani, sia per paura di future persecuzioni, sia per il timore di non essere piú accolti dagli Ebrei rimasti fedeli al loro credo. Cosí essi rimasero sospesi in una condizione ibrida, che li rendeva sgraditi tanto ai cristiani quanto agli Ebrei. Tale condizione diede origine allo sviluppo di forme di sincretismo religioso complesse ed elaborate, che miravano a far coincidere la salvezza con la purezza della coscienza, sminuendo, di conseguenza, il valore dell’adesione alla singola confessione. Molti Ebrei convertiti risolsero il peso della conversione forzata facendosi seguaci di un’idea sempre piú interiorizzata di fede, che non conosceva confini di natura confessionale. Essi trovarono anche un ordine religioso di riferimento, l’Ordine di San Girolamo, che diottobre
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Dossier venne l’ordine d’elezione dei conversos. La scelta fu dettata dal fatto che la regola dell’Ordine risultava molto attenuata, in quanto ricavata da alcuni passi delle lettere di San Girolamo in cui egli indicava come via per la salvezza un cammino di meditazione e di ascesi personale. Presso i Girolamini, gli Ebrei convertiti poterono trovare tolleranza e una sensibilità estranea alle idee espresse nelle predicazioni degli Ordini mendicanti. L’Ordine professava l’unità della fede e l’unione in Cristo, e la fede veniva concepita come semplice illuminazione e non come una serie di pratiche e di rituali. Tale concezione permise agli Ebrei convertiti di costruire la propria identità religiosa come l’esatto contrario di ciò che si erano lasciati alle spalle. Anche a livello di vita quotidiana, si vennero a creare situazioni ibride: molti conversos rimasero a vivere nei loro quartieri, continuando a seguire usi alimentari e pratiche religiose propri della fede d’origine. Agli inizi del XV secolo, nonostante fossero cessate le A destra particolare della volta centrale della Sala dei Re del complesso dell’Alhambra di Granada, realizzato sotto il dominio della dinastia musulmana dei Nasridi. Il Sultanato di Granada sopravvisse fino al 1492, data in cui la città fu consegnata nelle mani del re Ferdinando II d’Aragona. Nella pagina accanto un musulmano e un ebreo giocano a scacchi, miniatura da Il libro degli scacchi. 1283. San Lorenzo de El Escorial, monastero dell’Escorial.
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Conversioni apparenti... Il termine «marrano» da marranos, deriva con buona probabilità dall’arabo muharram, cioè «azione proibita», in riferimento alla proibizione per gli Ebrei di mangiare cibi che non avessero subito un idoneo procedimento di macellazione. Fu usato per indicare un ebreo convertito, solo in apparenza, alla fede cristiana in occasione della legge (Concilio di Toledo, 633) che obbligava i non cristiani ad abbandonare la nazione se non si fossero convertiti. Il titolo si diffuse ampiamente tra la fine del XIV e il XV secolo, ma finí per indicare solo gli Ebrei rimasti segretamente attaccati alla fede dei padri.
violenze, il fenomeno delle conversioni al cristianesimo non si arrestò. Questa tendenza era dettata dalla constatazione che la società spagnola era sempre meno disposta a tollerare gli Ebrei, i quali, una volta convertiti, trovavano invece ampio spazio e conoscevano rapide ascese economiche e sociali. Si trattava spesso di conversioni puramente formali e, in seguito, molti processi dell’Inquisizione furono celebrati proprio contro chi aveva
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operato quella scelta, considerata dalla Chiesa cattolica particolarmente perniciosa, in quanto definita di «criptogiudaismo».
Predicazioni e violenze
Nel 1488 fu pubblicato a Llerna un libello scritto da un frate domenicano vicino al primo generale inquisitore dell’epoca, Tomás de Torquemada. Lo scritto si scagliava contro l’incerta identità religiosa di molti discendenti di Ebrei convertiti nel 1391. Era il segno della ripresa delle persecuzioni. Attorno alla fine degli anni Quaranta del Quattrocento, infatti, l’equilibrio raggiunto dopo il termine delle violenze del 1391, fu spazzato via. Conflitti e rivalità si riaccesero tra vecchi e nuovi cristiani, e tra conversos ed Ebrei. Tali lotte costituirono uno dei maggiori problemi sociali della Castiglia del Quattrocento. Da Valladolid a Segovia, le violente predicazioni del francescano Alonso de Espina denunciarono presunti crimini da parte dei conversos ai danni dei cristiani e chiedevano a gran voce l’istituzione di una «Inquisiciòn» spagnola sul modello di quella avviata in Francia. La Penisola spagnola fu inoltre raggiunta (segue a p. 72)
...e conversioni forzate Moriscos è il nome spregiativo dato in Spagna ai musulmani che dopo la Reconquista si convertirono al cristianesimo. Dopo la resa di Granada ai re cattolici (1492), i mori rimasti avrebbero avuto diritto, secondo i patti di capitolazione, alla libertà di coscienza; in realtà, però, già dal 1499, con le norme di unificazione dettate dai re cattolici, fu praticata nei loro confronti una politica di forzata assimilazione religiosa. La diffidenza nei confronti dei moriscos e l’atteggiamento persecutorio da parte del governo causarono di rimbalzo gravi sedizioni. I moriscos si sollevarono nell’Albaicín (1500); la rivolta si estese alle montagne di Las Alpujarras, a Baza, Guadix, ecc., per cui lo stesso Ferdinando il Cattolico intervenne a reprimerla con mano di ferro (1502). Ne risultò un bando di espulsione totale, salvo per quelli che si fossero convertiti. La maggioranza preferì la conversione forzata, alla quale seguirono ulteriori repressioni, processi inquisitoriali, emarginazione sociale e nuove rivolte, soprattutto ai tempi di Filippo II. Nel 1609 i moriscos vennero totalmente espulsi dalla Spagna.
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Dossier E ALCUNE DELLE VICENDE ALLE QUALI LE DIVERSE COMUNITÀ ANDARONO INCONTRO DALL’EDITTO DI ESPULSIONE IN POI
Santiago Longroño ño o
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LA PRESENZA EBRAICA IN SPAGNA
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In basso e nella pagina accanto, in basso due particolari della pala di Santo Stefano del catalano Jaime Serra, raffigurante Ebrei in una sinagoga. XIV sec. Barcellona, Museo Nazionale d’Arte della Catalogna. Nella pittura catalana, proprio presso la bottega dei Serra, cominciano a manifestarsi alcuni artifici convenzionali escogitati per mettere in risalto la perfidia ebraica; tra questi, l’espressione dei volti, che diventa maligna, per indicarne la natura diabolica.
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1373, 1449, 1482 Esplodono rivolte anti-ebraiche. 1506 Massacro dei «nuovi cristiani». 1755 Ultima sentenza di condanna al rogo di un ebreo.
Dal 1704 Gli Inglesi forniscono ai marrani una via di fuga dalla Spagna. Una parte si dirige verso la Gran Bretagna, altri in Olanda e Italia.
L’editto di espulsione
Gibilterra
1836 Un viaggiatore inglese incontra un ebreo, nascosto sotto mentite spoglie.
1355 12 000 Ebrei vengono massacrati dalla folla.
1492, fuori gli Ebrei dalla Spagna Ecco uno stralcio dell’editto di espulsione degli Ebrei emanato dai sovrani di Spagna il 31 marzo del 1492: «Poiché fummo informati che in questi nostri domini c’erano alcuni cattivi cristiani che si dedicavano al giudaismo e si allontanavano dalla nostra santa fede cattolica, a causa soprattutto delle relazioni fra ebrei e cristiani, nelle cortes riunitesi a Toledo nel 1480 ordinammo che in tutte le
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città e i villaggi dei nostri regni e signorie gli ebrei dovevano vivere separatamente dagli altri, nella speranza che la loro segregazione avrebbe risolto il problema. Avevamo anche provveduto e ordinato che nei nostri suddetti regni e signorie fosse istituita un’Inquisizione: come sapete, il tribunale nacque piú di dodici anni fa e opera ancora. L’Inquisizione ha scoperto molti colpevoli, come è noto, e dagli stessi inquisitori, oltre che da
numerosi fedeli, religiosi e secolari, siamo informati che sussiste un grave pericolo per i cristiani a causa dell’attività, della conversazione e della comunicazione che [i cristiani] mantengono con gli ebrei. [Gli ebrei infatti] dimostrano di essere sempre all’opera per sovvertire e sottrarre i cristiani alla nostra santa fede cattolica, per attirarli con ogni mezzo e pervertirli al loro credo, istruendoli nelle cerimonie e ottobre
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1492-1600 Alcuni marrani trovano rifugio a Bordeaux e Bayonne. FRANCIA
Gerona Saragozza
Lérida
Barcellona
1228 Gli Ebrei sono costretti a indossare un segno distintivo.
1454 A Valladolid il francescano Alonso de Espina accusa gli Ebrei della città di avere rapito e ucciso un fanciullo cristiano a fini rituali.
Maiorca Palma
Valencia
Città nelle quali i marrani dovettero affrontare l'Inquisizione e dovettero scegliere tra la rinuncia alla propria fede e la condanna al rogo
Murcia
Città nelle quali i marrrani, a partire dagli anni Trenta del Novecento, praticarono apertamente la propria fede, all'indomani dell'emancipazione degli Ebrei portoghesi nel 1910 Città con comunità ebraiche intorno al 1490
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Massacri di comunità ebraiche, 1391-97 Espulsione degli Ebrei, 1492-98
nell’osservanza della loro legge (...). Per questo motivo, e per mettere fine a una cosí grande vergogna e ingiuria alla fede e alla religione cristiana, poiché ogni giorno diventa sempre piú evidente che i suddetti ebrei perseverano nel loro pessimo e malvagio progetto dovunque vivano e conversino [con i cristiani], [noi dobbiamo] cacciare i suddetti ebrei dai nostri regni cosí che non ci sia piú occasione di offesa
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1420 Nasce a Valladolid l’inquisitore Tomás de Torquemada.
1391 Massacro di 50 000 Ebrei. Nelle isole Baleari i «nuovi cristiani» sono definiti con il nome di «Chuetas».
alla nostra fede. Pertanto ordiniamo che (...) tutti gli ebrei e le ebree che vivono e risiedono nei nostri suddetti regni e signorie, a prescindere dalla loro età (…), entro la fine di luglio lascino i nostri regni e signorie insieme con i loro figli (…), e non osino mai piú farvi ritorno». L’editto riguardò anche la Sicilia e la Sardegna, appartenenti alla Spagna, e, infatti, il 18 giugno dello stesso 1492
In alto La Deposizione dalla Croce. XIV sec. Tarragona, cattedrale, cappella di S. Lucia. Nell’affresco è raffigurata una coppia di Ebrei che osserva la Deposizione. I due non sono vestiti secondo le usanze dei tempi biblici, ma con gli abiti dell’epoca contemporanea, compresa, in questo caso, la «rotella», il cerchio di stoffa gialla introdotto come simbolo distintivo dal IV Concilio Lateranense, nel 1215.
arrivava nelle due isole l’ordine di espulsione, eseguito entro l’anno in questione. Sembra che nessun ebreo, dei 35-37 000 che si stima risiedessero, sia rimasto, e città come Palermo, Siracusa, Trapani, Marsala, Sassari, Cagliari, Alghero videro la loro partenza verso il Meridione d’Italia. Per breve tempo, però, giacché gli Ebrei saranno costretti a emigrare anche da queste terre. (red.)
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dall’eco della vasta ondata di antigiudaismo che Bernardino da Siena, Giovanni da Capestrano e Bernardino da Feltre avevano sparso nelle piazze della Penisola italiana attraverso una sistematica e violenta opera di predicazione. I tre furono i promotori della riforma interna dell’Ordine francescano, in seno al
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quale rappresentavano l’ala cosiddetta «osservante», pura e intransigente. Tale fazione si consacrò in particolar modo a prendere di mira il prestito a usura e, di conseguenza, gli Ebrei che in Italia svolgevano spesso questa attività, a causa delle note restrizioni subite circa la possibilità di esercizio dei mestieri.
In alto Toledo. L’interno della sinagoga del Tránsito (del «Trapasso») – costruita nel 1357 e oggi adibita a museo – è decorato da elementi in stile mudejar, che uniscono la tradizione artistica islamica a quella cristiana. Il soffitto a cassettoni è ornato da motivi floreali, geometrici, iscrizioni in arabo e in ebraico. ottobre
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A destra Predicazione di San Vincenzo Ferreri. Olio su tavola del pittore francese Antoine de Lonhy. 1470-1480 circa. Parigi, Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge. Confessore e consigliere di Benedetto XIII, Ferreri, domenicano spagnolo, si dedicò alla predicazione specialmente fra gli Ebrei e i mori.
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Dossier A sinistra un particolare della decorazione della sinagoga di Cordova, costruita in stile mudejar nel 1315. Dopo l’espulsione degli Ebrei fu trasformata in ospedale, e, nel 1884, dichiarata monumento nazionale. Nella pagina accanto l’interno di una sinagoga, miniatura da un manoscritto ebraico di scuola spagnola. 1350 circa. Londra, British Library. A destra Toledo. L’interno della sinagoga di S. María de la Blanca, suddiviso in cinque navate separate da pilastri che sostengono archi rialzati. La costruzione, anch’essa in stile mudejar, risale al 1180. Secondo la tradizione Vincenzo Ferreri la consacrò al culto cristiano nel 1411. Nel 1851 fu dichiarata monumento nazionale.
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Il corrispettivo dei facinorosi predicatori italiani fu incarnato in Spagna proprio dal francescano Alonso de Espina, il quale, come il suo omologo italiano Bernardino da Feltre, si fece cassa di risonanza di infondate e virulente accuse di omicidio rituale (vedi «Medioevo» n. 171, aprile 2011).
Accuse e pregiudizi
In occasione di un ciclo di sermoni tenuti a Valladolid nel 1454, de Espina accusò alcuni Ebrei della città di aver rapito un fanciullo cristiano per strappargli il cuore, bruciarlo e mescolarne poi le ceneri al vino a scopo rituale. Su istigazione del predicatore, gli Ebrei accusati furono catturati e torturati dalle autorità secolari e finirono col confessare ogni crimine. In un secondo tempo, furono rilasciati per ordine del re, ma le accuse del Francescano continuarono
a risuonare a lungo per tutta la Castiglia. A Segovia, su istigazione del predicatore, molti cristiani iniziarono a tenere un cartellino sul cappello, recante la scritta «Jesu» per distinguersi dai conversos. L’attività dell’Espina però non si limitò alla predicazione: egli si impegnò anche in un’alacre e sistematica raccolta, in tutta Europa, di leggende antigiudaiche, che riuní in un coacervo di pregiudizi e accuse infamanti dal titolo di Fortalitium fidei. L’opera, proprio come quella del suo collega Pablo de Burgos, altro predicatore avverso ai semiti, conobbe un grande successo editoriale e larga diffusione fuori dalla Spagna, grazie alle numerose edizione in lingua tedesca. A partire dal 1454, il nuovo sovrano Enrico IV decise di allontanare dalla corte i frati francescani
MEDIOEVO
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osservanti piú radicali e fece punire le predicazioni contro i conversos. Allo stesso modo, in un primo momento una larga fascia dell’opinione pubblica castigliana oppose ferma resistenza di fronte alla pretesa degli Ordini mendicanti di creare una speciale Inquisizione spagnola; tuttavia, nel 1478, il clima mutò nuovamente e i sovrani chiesero e ottennero l’autorizzazione pontificia a procedere contro i giudaizzanti di Castiglia.
Il tribunale di Spagna
La nascita dell’Inquisizione spagnola va letta alla luce del piú ampio quadro europeo del Quattrocento, segnato da uno scenario che vide il papa costretto a dover elargire ampie concessioni giurisdizionali e fiscali ai singoli (segue a p. 78)
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San Tommaso riceve l’abito domenicano, particolare dal retablo (pala d’altare) di S. Tommaso d’Aquino, dedicato agli episodi della vita del Santo. Olio su tavola di Pedro Berruguete (1450 circa-1504). 1490-1496 circa. Madrid, Museo del Prado. In origine, l’opera decorava la chiesa del Real Monastero di Ávila, fondato per iniziativa di Tomás de Torquemada, che nella città spagnola morí nel 1498.
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L’inquisitore della corona Tomás de Torquemada nacque a Valladolid, in Castiglia, nel 1420. Era nipote di uno stimato teologo domenicano, Juan, e, come lo zio, anch’egli entrò nell’Ordine di San Domenico assai giovane. Di carattere austero e intransigente, nel 1452 divenne priore del monastero di Santa Cruz, a Segovia, dove rivestí tale incarico per circa un ventennio. La sua ascesa fu favorita dall’essere confessore della regina Isabella di Castiglia, sin da quando essa era bambina. Quando Isabella si sposò divenne confessore anche del marito, Ferdinando d’Aragona e da tale privilegiata posizione, fu in grado di esercitare un’influenza enorme sui sovrani, proprio durante la delicata fase di unificazione della corona spagnola, fino ad allora divisa nei due regni d’Aragona e Castiglia. Il suo influsso sulla coppia reale si fece sentire in particolare su uno degli aspetti portanti del suo pensiero, cioè l’idea che alcune componenti storiche della popolazione spagnola, Arabi ed Ebrei, minassero dall’interno l’unità del nascente regno. Il fastidio per tali comunità si estendeva anche ai conversos (o marranos, com’erano pure denominati), e ai moriscos, rispettivamente Ebrei e Arabi convertiti alla fede cristiana. Tale convinzione, sostenuta da larga parte dell’Ordine domenicano di Spagna, provocò l’accentuarsi di una politica intollerante e finí per dare avvio alla crudele stagione dell’Inquisizione spagnola. Nel 1483, i re spagnoli ottennero di poter dare vita a un’Inquisizione speciale posta sotto il controllo della corona, grazie alla decisione di papa Sisto IV, che ben presto si pentí delle concessioni fatte, tra cui vi era anche la possibilità per i monarchi di scegliere gli inquisitori. I sovrani scelsero come inquisitore generale proprio Torquemada, prima di Castiglia e León e poi anche di tutta l’Aragona, la Catalogna e della provincia di Valencia. Gli inquisitori da lui guidati non solo perseguivano l’eresia e l’apostasia, ma anche la stregoneria, la sodomia, la poligamia, la blasfemia e l’usura. Al fine di ottenere testimonianze, si fece ampio ricorso alla tortura. Torquemada organizzò la macchina inquisitoria in maniera talmente efficace da riuscire, nel corso dei quindici anni della sua gestione, a celebrare circa 100 000 processi e a promulgare, secondo quanto documentato, almeno 2000 condanne a morte. Il segno della sua grande influenza sui monarchi spagnoli deve leggersi anche nella loro finale decisione di emanare l’editto di espulsione del 1492. Nel 1494 il pontefice Alessandro VI lo costrinse a lasciare la carica di inquisitore generale. I quattro anni che seguirono, prima della sua morte, furono per l’anziano inquisitore anni di declino personale e politico.
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Dossier monarchi. I re di Spagna seppero approfittare della debolezza dei pontefici, bisognosi di appoggio a motivo della crisi dei rapporti con la Francia. La Spagna ottenne cosí una serie di concessioni volte alla costituzione di una propria Chiesa nazionale. Nel 1478 Ferdinando ottenne privilegi inerenti la scelta dei nunzi spagnoli, la ripartizione delle rendite ricavate dalle decime straordinarie, e il giuspatronato dei territori granadini. A tali concessioni si deve aggiungere la nascita di un’Inquisizione posta direttamente sotto il controllo della monarchia. A differenza di altre istituzioni consimili, dipendenti dal pontefice, essa fu posta sotto la diretta autorità dei cattolicissimi Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona.
Scelti dal re
Papa Sisto IV, attraverso una bolla successiva, cercò di annullare le concessioni fatte a Ferdinando, ma ormai la nascita dell’Inquisizione spagnola era stata formalizzata. Per questa via, i sovrani spagnoli ottennero un’autonomia che gli Stati tedeschi raggiunsero solo con la riforma luterana. Attraverso la nuova Inquisizione, i sovrani furono in grado di affiancare ai vescovi e agli inquisitori apostolici tre inquisitori laici ed ecclesiastici, scelti direttamente dalla corona. Ciò permise loro, manipolando in maniera strumentale il problema dei giudaizzanti, di usare l’Inquisizione come formidabile strumento di controllo dei sudditi. Nelle bolle successive, la Chiesa di Roma criticò apertamente l’operato dell’Inquisizione spagnola. Si-
In nome del papa Bolla papale di Innocenzo VIII (1432-1492) che conferma la nomina del domenicano Tomás de Torquemada a grande inquisitore generale. 1486. Simancas, Archivio Generale. Eletto nel 1483 dai sovrani di Spagna in base all’autonomia ottenuta da papa Sisto IV, nel 1494 Torquemada fu costretto da Alessandro VI ad abbandonare l’incarico.
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sto IV scrisse che, sotto la pretesa di estirpare l’eresia, si era travalicata «ogni forma di diritto incarcerando, torturando e bruciando un gran numero di innocenti». Egli cercò anche di limitare l’azione dell’Inquisizione spagnola attraverso la promulgazione di alcune misure restrittive. Impose di rendere pubblici i nomi degli accusatori e dei testimoni, di assegnare agli accusati il tempo necessario per replicare, concedendo loro un avvocato d’ufficio, e di presentare appello alla Santa Sede, al fine di impugnare una sentenza ritenuta ingiusta. Infine decretò che i vescovi avessero facoltà di assolvere i giudaizzanti in confessione senza bisogno di pubblica abiura. Ciononostante, l’Inquisizione spagnola finí con il divenire, nelle mani dello spregiudicato re Ferdinando, uno strumento di controllo dei suoi avversari, in particolare di quelli politici. La regina Isabella cadde sotto l’influenza del suo confes-
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In alto Tomás de Torquemada, particolare da La Madonna dei Re Cattolici (a destra). Tempera su tavola del pittore spagnolo Ferdinando Gallego (1440-1507). 1490-1495. Madrid, Museo del Prado.
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Dossier sore privato, il domenicano Tomás la si venne però a creare un nucleo sone. L’intera famiglia dell’ex arcide Torquemada (vedi box a p. 77), per di opposizione interna, ostile alla vescovo di Granada fu perseguitata volontà del quale permise l’istituzionuova macchina inquisitoria. Il mo- e incarcerata. I predicatori mendine di 100 000 processi a seguito dei vimento fu capeggiato dal segreta- canti accusarono Fernando Alvarez quali furono celebrate 2000 condanrio reale Fernando Alvarez de Tole- de Toledo – il segretario reale a cane contro «Conversos y moriscos». do e da Hernano de Talavera, due po del partito moderato – di accoI tentativi dei pontefici di mitiuomini vicini a Isabella di Castiglia, gliere in casa sua una cospirazione gare gli effetti prodotti dall’indole la quale, nel corso degli anni, aveva giudaizzante che avrebbe tentato di persecutoria del Torquemada si assunto posizioni decisamente piú estendersi all’intera Castiglia con lo rivelarono quasi sempre vani. Lo moderate rispetto al coniuge. Nel scopo di annunciare la venuta del scontro tra Roma e i monarchi spa1479 però, la regina si ammalò gra- Messia e di voler convertire i cristiagnoli fu estremamente duro. Il 29 vemente e, da allora fino alla morte, ni alla legge mosaica. Nuovi procesgennaio del 1482, le proteste deavvenuta nel 1504, rimase di fatto si furono aperti in tutta la Castiglia gli stessi Ebrei e di una parte dellontana dal potere. Ferdinando ne per colpire personalità appartenenti la nobiltà spagnola spinsero Sisto approfittò per imprimere alla politi- alle oligarchie cittadine. Lo stesso re IV a emanare la bolla Numquam ca spagnola una direzione piú vici- Ferdinando scrisse alla Curia pontidubitavimus, nella quale venivano na agli interessi del regno aragone- ficia per corroborare le accuse mosritrattati i privilegi concessi, lase. A pagare le spese di tale politica se contro gli imputati dei processi mentando l’uso improprio fattone fu il partito dei moderati, i cui espo- castigliani, chiedendo l’autorizzadagli inquisitori. Nella stessa bolla, nenti furono allontanati dalla corte zione a procedere contro Fernando inoltre, si accusavano i sovrani di o finirono vittime dell’Inquisizione. Alvarez e contro l’ex arcivescovo di avere estorto alla sede pontificia il Nel 1498, l’inquisitore generale Granada. permesso all’istituzione dell’InquiDiego de Deza, protetto del re FerSolo l’ascesa al trono di Filippo sizione spagnola. dinando, ottenne la cacciata dell’ar- di Castiglia pose temporaneamenLa risposta di Ferdinando fu alcivescovo di Granada, estendendo te termine ai roghi e ai processi. trettanto dura: il sovrano A Cordova furono sospeNel 1482 Sisto IV emanò una affermò che l’eresia giuse 160 condanne a mordaizzante era un problee tutti i procedimenti bolla in cui ritrattava i privilegi te ma di Stato, politico ancor dell’Inquisizione spagnoconcessi ai sovrani di Spagna prima che religioso e, come la furono bloccati; ma la tale, doveva essere punito morte improvvisa di Filipda strutture dipendenti dalla corocosí la propria autorità all’ultimo po, nel 1506, spense le speranze dei na. La stessa Isabella rispose al palembo di terra spagnola su cui ave- conversos, segnando la ripresa delle pa, che le aveva espresso il sospetto vano governato, fino a poco prima, i persecuzioni. I processi di Cordova che la corona usasse l’Inquisizione musulmani. Il suo primo passo, una però, provocarono una frattura income mezzo per incamerare i bevolta insediatosi nella diocesi, fu la sanabile tra Corona e Inquisizione ni dei ricchi conversos, ribadendo la conversione forzata di 50 000 mori da una parte, e oligarchie urbane necessità che gli inquisitori fossero granadini. Quindi fu il turno degli e alti prelati dall’altra, divisione scelti dai monarchi. Ebrei e dei giudaizzanti, sottoposti destinata a segnare la storia della a una serie interminabile di pro- Spagna nei secoli a venire. Inquisizione di Stato cessi che, secondo le testimonianL’espulsione di tutti gli Ebrei di I sovrani spagnoli portarono avanti ze dei contemporanei, finirono per Spagna nel 1492 diede corso a una con pervicacia l’idea di una «Inquimettere «sotto accusa l’intera città». nuova diaspora, che si diresse lungo sizione di Stato», che rientrava in Gli imputati vennero accusati, ol- le coste del Mediterraneo, dall’Africa un preciso piano di controllo e di tre che di pratiche giudaizzanti, di settentrionale ai Balcani fino in Asia autonomia giurisdizionale e mirava aver pubblicamente deriso i rituali Minore. La Penisola iberica veniva alla creazione di una struttura alcristiani, di aver oltraggiato il cro- cosí a privarsi di una delle sue forternativa, dipendente dalla corona cefisso, l’eucarestia e le immagini ze piú vitali. Perdeva una comunità alla stregua delle altre strutture amsacre. Non mancarono le accuse di che nei secoli centrali del Medioevo ministrative statali. L’attrito emercomplotto contro i sovrani. aveva dato grande impulso alla culso a tale riguardo, tra Santa Sede Presto le imputazioni vennero tura, alla scienza, e, piú in generale, e monarchi spagnoli, si ricompose estese dai conversos a larghi settori allo sviluppo del regno. Mentre il solo a seguito dell’elezione al soglio cittadini. Grazie ad accuse estorte nascente impero ottomano, accopontificio del successore di Sisto IV, con la tortura, furono incarcerati gliendo gli Ebrei espulsi, si avvanInnocenzo VIII, sostenitore dell’Ingli uomini piú in vista della città, taggiava non poco della presenza di quisizione. e, nel dicembre del 1504, vennero questi nuovi cittadini, depositari di In seno alla stessa corte spagnobruciate nelle piazze oltre 120 per- una feconda tradizione secolare. V
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Da leggere U Stefania Pastore, Il Vangelo
e la spada. L’inquisizione di Castiglia e i suoi critici (1460-1598), Storia e Letteratura, Roma 2003 U Stefania Pastore, Un’eresia spagnola. Spiritualità conversa, alumbradismo e Inquisizione (1449-1559), Olschki, Firenze 2004 U Michael Brenner, Breve storia degli Ebrei, Donzelli, Roma 2009 U Georg Bossong, I sefarditi, Il Mulino 2010 U Franco Cardini, Marina Montesano, La lunga storia dell’inquisizione. Luci e ombre della «leggenda nera», Città Nuova, Roma 2005
Ritratto di papa Sisto IV. Affresco di Cesare Sermei (1581-1668). 1609-1610. Assisi, Basilica di S. Francesco, Chiesa Inferiore.
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L’unione fa la spada di Flavio Russo
dimensione guerra Spade, pugnali e, piú in generale, tutte le armi bianche si fecero piú efficienti con l’uso del ferro nella loro fabbricazione. La situazione migliorò ulteriormente con l’introduzione dell’acciaio, fino a raggiungere condizioni ottimali con l’impiego combinato del primo e del secondo
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uando l’uso del ferro, per la sua superiore durezza e abbondanza in natura, soppiantò quello del bronzo nella fabbricazione delle armi, il nome di quel metallo oltre a designare l’età che ne aveva fatto registrare l’avvento assurse a sinonimo di tutti gli strumenti da offesa e da difesa individuali. Cuspidi di lance, spade, pugnali e persino il semplice coltello, promossi ad attrezzi del mestiere di guerriero, divennero i «ferri» per antonomasia, e il binomio «ferro e fuoco» stigmatizzò le due estrinsecazioni piú cruente dei conflitti.
ferri lunghi e corti
Spada da conestabile (uno dei grandi ufficiali della corona di Francia) con il suo fodero. Produzione francese, 1480 circa. Parigi, Musée de l’Armée. Si tratta di un’arma da parata, quasi del tutto priva dei requisiti richiesti per un ferro utilizzabile in combattimento. Nella pagina accanto miniatura raffigurante il minnesänger Corrado di Hohenburg, noto come Il Pugliese, che, con la spada sguainata, si lancia all’inseguimento di un nemico, dal Codex Manesse. 1300 circa-1340 circa. Heidelberg, Biblioteca Universitaria.
Armi «insidiose» e armi «leali»
Uscendo dal generico, si distinsero armi da taglio – quali spade, sciabole, scimitarre, asce e coltelli, lame che, munite di uno o due bordi affilati, erano in grado di infliggere ampie ferite e gravi amputazioni – o da punta, come lance, stocchi, punteruoli, stiletti, misericordie, pugnali e, buon ultime, baionette, armi prive di fili laterali, ma dotate di punta acuminata, capaci di causare lesioni profonde penetrando anche le cotte d’acciaio. Si distinsero ancora in lunghe, medie e corte, in base alla diversa lunghezza delle rispettive lame – compresa fra il metro abbondante delle seconde, la trentina di centimetri delle terze – e dei relativi manici delle prime, che, a loro volta, andavano dal mezzo metro delle asce agli oltre cinque delle picche. Fra gli estremi, le armi individuali, usate abitualmente nei combattimenti dalle milizie e perciò reputate leali, a differenza delle corte, molte delle quali essendo occultabili fra i vestiti erano considerate insidiose. Connotazioni tanto diversificate per forma e dimen-
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dimensione guerra ferri lunghi e corti sione sottintendevano altrettante divergenze d’impiego nel combattimento, tanto che, se una spada consentiva di battersi con un avversario a breve distanza dal proprio corpo, una corta, invece, implicava uno stretto contatto fisico. Ambiti decisamente antitetici, che si avvicendavano nel corso dei confronti come altrettante fasi successive, il cui fattore comune era il progressivo decrescere delle distanze, poiché si passava dal cimento con le lance in resta a quello con le spade, per finire con i pugnali, quali che fossero. Tecnicamente, quindi, si andava dagli iniziali ferri lunghi a quelli corti finali, fase che coincideva con la conclusione spesso mortale della contesa: da cui l’espressione di essere ormai «ai ferri corti», ovvero al momento piú violento e letale del combattimento. Prima di approfondire alcuni aspetti inerenti alle tattiche di impiego dei ferri lunghi, medi e corti, s’impone
una breve digressione sulle peculiarità tecnologiche e metallurgiche delle lame nell’ultimo scorcio del Medioevo. Per i fabbri che sin dall’antichità classica si cimentarono con la produzione di lame, il massimo problema da superare derivava dalle opposte esigenze d’impiego, notificate dal mondo militare.
Robusta ed elastica al tempo stesso
La lama, soprattutto se lunga, doveva risultare abbastanza dura da riuscire a penetrare o a tranciare scudi e corazze senza deformarsi e, al contempo, anche abbastanza elastica dal sopportare gli urti piú violenti e le sollecitazioni piú gravi senza danneggiarsi, cioè senza compromettere la sua parte tagliente, o filo. La durezza si otteneva temprando acciai a basso contenuto di carbonio, tra lo 0,7 e lo 0,8%, ovvero riscaldandone la verga al calore bianco per poi immergerla
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ELSA • 1 Pomolo • 2 Manica • 3 Guardia LAMA • 4 Coccia • 5 Forte • 6 Medio • 7 Filo • 8 Debole • 9 Cresta centrale • 10 Punta
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nell’acqua o in soluzioni liquide di varia natura, incrementandone cosí la rigidità. La lama risultava perciò di gran lunga piú dura che in precedenza e manteneva bene il filo, ma, come ben sapevano sia i fabbri che i guerrieri, piú dure erano, piú facilmente si spezzavano! Per contro il ferro dolce, con minori contenuti di carbonio e perciò inadatto alla tempra, sottoposto alle sollecitazioni si deformava, piegandosi e perdendo del tutto il filo.
Il segreto dell’acciaio: la cementite
La soluzione ideale per quell’antitetica esigenza sarebbe stata una sintesi delle due caratteristiche, magari utilizzate in maniera differenziata: acciaio durissimo per le facce taglienti esterne della lama e ferro dolce per l’anima interna, meglio ancora se saldate intimamente in una unica massa. E, verosimilmente, sin dall’antichità, dopo i primi deludenti tentativi, si imboccò la strada
La misericordia è un pugnale o uno stiletto dalla lama molto sottile, corta e a sezione triangolare, studiata per penetrare facilmente la cotta a maglie di ferro o per infilarsi tra i giunti delle piastre di corazza.
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Lo stocco è una lunga arma bianca manesca, dall’impugnatura anch’essa molto lunga, terminante con un pomolo affusolato e con lama a sezione triangolare robusta e acuminata, destinata a ferire di punta. Fu in uso fino al XVIII sec.
A sinistra illustrazione realizzata per un Fechtbuch (trattato sul combattimento) di autore anonimo. Germania, 1485-1495. Parigi, Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge
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dimensione guerra ferri lunghi e corti per la soluzione corretta. Alternando verghe di ferro dolce ad altre di uguali dimensioni di acciaio, riscaldando il pacchetto al calore bianco e martellandolo violentemente, gli strati si compenetravano tra loro, cioè si saldavano, creando quasi un nuovo metallo, abbastanza elastico e molto duro. Il fenomeno dipendeva dal formarsi di cementite, o piú esattamente di carburo di ferro, che, interponendosi nella microstruttura dell’acciaio, ne bloccava ogni scorrimento, rendendolo perciò rigido e molto piú duro del ferro puro, connotazione che l’improvviso raffreddamento della tempra rendeva permanente. I fabbri, col tempo, si resero conto che queste peculiarità si esaltavano ulteriormente se la verga ottenuta unendo ferro e acciaio veniva ripiegata e martellata, per cui i suoi strati si raddoppiavano. E, ancora di piú, reiterando la procedura fino a un totale di 15 piegature, che portava il numero degli strati a oltre 30 000! A dimostrazione della bontà di una lama realizzata in tal modo, le si faceva tranciare di netto l’impugnatura metallica di una mazza ferrata, e la si batteva di piatto sull’incudine, prove che non dovevano alterarne né il filo, né la forma.
Come tessuti preziosi
Poiché la sovrapposizione degli strati non avveniva in maniera regolare, come le pagine di un libro, la sezione che ne scaturiva presentava contorni curvilinei di gradevole effetto, simili a quelli di un tessuto pregiato. La successiva levigatura e lucidatura delle lame cosí ottenute ne accentuava la bellezza del disegno, procedura che raggiunse i massimi risultati presso la città di Damasco, da cui la loro definizione di «damascate», presto ritenute anche le migliori, soprattutto dopo le crociate; una fama sopravvissuta fin quasi ai nostri giorni. E, forse, proprio quella loro singolare lucentezza indusse a chiamarle armi bianche, una denominazione che si impose anche per distinguerle dopo l’avvento di quelle da fuoco. Nel combattimento i ferri medi fornivano diversi modi vulnerativi: la spada, impugnata a una o due mani, con una lama diritta di 1 m circa e perlopiú a doppio filo, colpiva di punta e di taglio; la scimitarra, grazie alla sua lama arcuata con un unico filo sulla parte convessa, era invece ideale per menare fendenti, specialmente dall’alto verso il basso, ovvero da cavallo; lo stocco, infine, con la lama a sezione triangolare equilatera, molto robusta e appuntita, di 1 m circa e senza alcun filo, era usato per colpire di punta, penetrando negli in-
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terstizi delle armature. Caratteristica, quest’ultima, che si adottò nei ferri corti, in particolare nelle cosiddette «misericordie», anch’esse a lama triangolare, usate per finire i cavalieri gravemente feriti (spesso su segnalazione dei prelati presenti sul campo di battaglia), infilandole nei giunti delle armature. Simili erano gli sfonda giachi e la vasta gamma di punteruoli. Perlopiú da parata, invece, era la «cinquedita», una sorta di larga e tozza daga, con diverse scanalature sulla lama.
Debole, forte e medio
Circa la sezione triangolare, va ricordato che era preferita, e lo è ancora nelle moderne baionette, perché infliggeva ferite difficilmente rimarginabili, non essendone i lembi speculari fra loro. Quanto alle scanalature praticate lungo l’intera lama, definite anche «colasangue», non accentuavano affatto l’emorragia, ma, piuttosto, facilitavano l’estrazione dell’arma dalla ferita, eliminando l’effetto ventosa. Qualcosa del genere viene ancora adottata sui piú sofisticati coltelli per cucina. La lama si distinse in tre segmenti, di lunghezza sostanzialmente simile: il «debole», il piú distante dall’elsa, destinato a colpire l’avversario; il «forte», l’adiacente, destinato a pararne i colpi e il «medio», di raccordo fra i due. Quando dotata di duplice filo, si chiamava «dritto» quello orientato come le nocche della mano che l’impugnava, «falso» l’altro. Un accenno infine, dopo la lama, merita il fornimento, costituito dall’elsa e dal pomolo, che permette l’impugnatura e il maneggio delle armi bianche, proteggendo al tempo stesso la mano, mediante un’apposita sbarra o piastra chiamata «coccia». Col Medioevo l’elsa si rese piú complessa di quella tradizionale del gladio, in modo da neutralizzare anche i fendenti scivolati lungo la lama, assumendo la denominazione di «crociata», finendo poi per fornire una protezione integrale con la forma di calotta semisferica. La sua parte terminale, il pomolo, serviva invece a bilanciare la lama, migliorandone la presa e riducendone lo stress. F L’effetto della damascatura sulla lama di un pugnale: risulta evidente la sovrapposizione di molteplici strati di ferro e acciaio. ottobre
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Nel borgo di Piero di Maria Paola Zanoboni
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L’importanza strategica di Sansepolcro per i traffici tra la regione dell’Arno e l’Adriatico è testimoniata dalle ripetute lotte per assicurarsene il controllo. E la storia della cittadina che ha dato i natali a Piero della Francesca getta luce anche sulle attività artigianali e sulla loro organizzazione
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Una veduta di Sansepolcro (Arezzo), nell’alta Val Tiberina, con, in primo piano, la chiesa di S. Francesco. Nel Medioevo, la zona costituiva un punto di passaggio obbligato per i traffici che univano i porti dell’Adriatico centrale ai grandi centri del bacino dell’Arno.
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roveresti un gran piacere a riguardare questa regione dall’alto dei colli: ti parrebbe infatti di scorgere non un territorio, ma un quadro dipinto con incredibile maestria». Cosí Plinio il Giovane descriveva l’alta Val Tiberina, la terra in cui l’inverno freddo e asciutto tollera, rigoglioso, l’alloro, e l’estate, meravigliosamente mite, è rallegrata da continue brezze; in cui i monti boscosi abbondano di selvaggina e i colli sono carichi di messi e di vigneti senza fine; in cui la vita umana resiste rigogliosa al pari dell’alloro, come se il tempo non la logorasse. E cosí, milletrecento anni piú tardi, dipinse la sua terra Piero Della Francesca (1420-1492), il pittore che, dopo aver viaggiato a lungo, trascorse gli ultimi anni della vita, cieco, nel borgo in cui era nato, guidato per le strade di Sansepolcro da un fanciullo che lo teneva per mano. Sansepolcro (Borgo San Sepolcro nel Medioevo) costituiva il luogo di transito dei traffici che univano i porti dell’Adriatico centrale (da Rimini ad Ancona) ai grandi mercati e ai centri di produzione delle città del bacino dell’Arno. Il borgo, infatti, era il punto di riferimento obbligato a oriente di Arezzo e, prima di valicare l’Appennino, per i grandi e medi operatori toscani interessati agli scambi con i mercati del versante adriatico, nonché per i mulattieri che organizzavano i trasporti. Un’altra arteria importante, proveniente da Cesena, dopo aver superato l’Appennino, scendeva lungo la Val Tiberina attraverso Città di Castello, fino a Perugia, alle valli umbre e quindi a Roma.
Merci d’ogni genere
Gli Statuti della Gabella del 1358 offrono un quadro interessante delle merci in entrata e in uscita dal borgo, o che transitavano per il distretto. I dazi riguardavano i pro dotti alimentari (grano, vino, olio, sale, ortaggi, frutta fresca e secca, spezie, carni di vario tipo, formaggi, ecc.), il legname e gli attrezzi in legno, provenienti dalla monta-
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gna, i pannilana di diversa qualità, la lana greggia e filata, i drappi di seta, le materie prime e gli utensili destinati alla manifattura tessile (allume, robbia, guado, cardi), la carta pecorina e bambagina, il pellame di diverso tipo, i metalli. Erano sottoposte al pagamento della gabella anche greggi e mandrie che attraversavano il territorio del borgo lungo la via della transumanza tra montagna e Maremma Sorto nel X secolo intorno a un’abbazia che nell’XI secolo ottenne privilegi da papi e imperatori, il centro fu sottoposto nel 1022 all’autorità dell’abate Roderico, in virtú di un privilegio feudale concesso a quest’ultimo da Enrico IV. Nel 1163 Federico Barbarossa diede il borgo in feudo al monastero, fatto che non impedí agli abitanti del centro di nominare propri consoli nel 1174. Da questo momento in poi, e per oltre un secolo, i conflitti tra l’abate del monastero camaldolese e la popolazione di Sansepolcro dominarono la storia del borgo, e si acuirono nel 1229, quando il podestà e i consoli vennero eletti senza il consenso dell’abate. In quell’occasione prese parte alla lite anche papa Gregorio IX che incaricò il vescovo di Arezzo di richiamare all’ordine le autorità laiche del centro. Nel 1251 la popolazione cercò nuovamente di eleggere i propri magistrati senza il consenso dell’abate, e questa volta vi riuscí. La lotta ebbe termine nel 1301, quando il borgo acquistò dall’abate con regolare contratto ogni suo diritto e giurisdizione. Subentrarono però immediatamente nuovi dissapori col vescovo e con il Comune di Città di Castello, che tentarono piú volte di sottomettere Sansepolcro. Il secolo fu inoltre caratterizzato da pestilenze e terremoti. Nel 1370 subentrò il dominio malatestiano, e, nel 1441, quello fiorentino.
L’avvento dei Malatesta
Nel susseguirsi delle dominazioni politiche, ottimo per la situazione economica fu il periodo malatestiano, che durò circa sessant’anni: dal
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luoghi sansepolcro LIG
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EMILIA-ROMAGNA EMILIA EMI LIA-ROMAG ROMAGNA NA IA
Carrara
Fiesole FIRENZE Livorno Isola di Gorgona
SanGimignano Volterra
Cecina
Isola di Capraia Populonia Piombino Portoferraio
Follonica
MARCHE E
SANSEPOLCRO Arezzo Siena
Cortona
Montepulciano Chiusi UMBRIA
Isola d’Elba Isola Pianosa
Talamone Isola del Giglio
Orbetello LAZIO LAZIO
La dominazione malatestiana favorí il passaggio dalle contese a una fase di stabilità e di rinnovate relazioni commerciali
1373, quando Galeotto Malatesta acquistò il borgo per 17 000 ducati, al 28 marzo 1430, quando tornò alla Chiesa per volere di Martino V. Come già detto, Sansepolcro controllava alcune importanti vie di comunicazione in un luogo di transito obbligatorio per le merci toscane verso e da Fano. Già dalla fine del Trecento, infatti, la cittadina marchigiana era molto attiva nei traffici soprattutto con la costa dalmata, come risulta evidente dalla gabella del 1386, che tra le merci elenca anche panni di Borgo San Sepolcro. A Sansepolcro, dunque, dove nei secoli XIV e XV confinavano e si scontravano piú signorie, non potevano non convergere le spinte economiche e le linee di espansione di due grandi aree politiche, ugualmente interessate a valicare la montagna e a costituire basi di espansione oltre lo spartiacque appenninico. Sia i Malatesta di Fano, sia i Montefeltro, volgevano perciò lo sguardo alla Val Tiberina, mentre Firenze, interessatissima ai traf-
A destra Pellegrinaggio della Compagnia del Crocifisso a Loreto, durante la peste del 1523. Olio su tavola di Giovanni del Leone. XVI sec. Sansepolcro, Museo Civico. In primo piano sono i confratelli della compagnia che trasportano un malato. Sullo sfondo, la città di Sansepolcro cinta dalle fortificazioni medicee di Giuliano da Sangallo. Nella pagina accanto Sansepolcro. Il campanile della chiesa di Sant’Agostino.
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lazione dei traffici commerciali tra le città soggette. Si intensificarono perciò gli scambi con i mercanti di Città di Castello, Firenze, Pisa, Siena, Cortona, attratti dalle esenzioni da dazi e pedaggi. I Malatesta favorirono anche la partecipazione di questi mercanti e di quelli di Sansepolcro alle fiere di Cesena. Altro effetto positivo della signoria malatestiana fu l’attenuazione dei contrasti con il vescovo di Città di Castello. Nel 1430, quando i Malatesta cedettero il borgo a papa Martino V, si concluse un periodo di stabilità e fioritura economica. Seguí un’epoca politicamente complessa, durante la quale Sansepolcro passò di mano in mano piú volte: ceduta dal papa Eugenio IV a Niccolò Fortebraccio da Montone, passò poi a Francesco Battifolle e ancora, nel 1437, sempre per volontà papale, a Giovanni Vitelleschi. Fu infine assegnata alla repubblica fiorentina, in attesa che si definissero i contrasti tra i successori di Fortebraccio e la Chiesa. Nel giugno del 1438 se ne impossessò con un colpo di mano il Piccinino. Dopo la battaglia di Anghiari (29 giugno 1440), la città tornò al papa, che la lasciò in pegno (in realtà la vendette) a Firenze in cambio di un cospicuo prestito. fici anconitano-balcanici, mirava all’Adriatico. La dominazione malatestiana, in particolare, favorí il passaggio dalle contese a una fase di stabilità e di rinnovate relazioni commerciali, ponendo le premesse per la trasformazione del centro da «borgo» a «quasi città». In questo periodo, infatti, crebbe il suo potenziale economico e commerciale, nonché il prestigio imprenditoriale; e si definí meglio la sua identità culturale, che si manifestò in seguito con grandi figure di artisti come Piero della Francesca.
Una base per le truppe
Per i Malatesta, d’altra parte, il possesso di Sansepolcro significava la garanzia di un maggior controllo e di una maggiore protezione dei ter-
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ritori già conquistati, e la possibilità di una ulteriore espansione nel Montefeltro, nonché la creazione di una base forte e ben difesa nella Valle del Tevere: il borgo, infatti, divenne una base preziosissima per le truppe malatestiane. Grazie a questa sua funzione, Sansepolcro ottenne anche numerosi benefici, tra cui il rifacimento e l’allargamento della cinta muraria; la costruzione di una rocca con una torre a difesa di ciascuna delle quattro porte, e di un palazzo per la residenza dei vicari; il controllo dei valichi che dai domini malatestiani romagnoli e marchigiani immettevano nella valle del Tevere; il legame tra i nuovi signori e alcune famiglie locali; la promozione dell’economia tramite il riassetto delle attività artigianali e l’agevo-
Il dominio fiorentino
Il 28 febbraio 1441 il commissario fiorentino Niccolò Valori ne prese possesso e vi dettò gli Statuti, dai quali emerge che nel borgo poterono realizzarsi i principali interessi di Firenze, soddisfacendo al tempo stesso le esigenze di stabilità politica tanto turbata dopo la fine del periodo malatestiano. In realtà, Sansepolcro rappresentò poi per Firenze soltanto un’acquisizione territoriale, da utilizzare per le sue risorse economiche e strategiche, inserendola in un sistema compatto e ben strutturato, da controllare sempre piú strettamente attraverso organismi giurisdizionali, economici e amministrativi. Gli Statuti non fanno cenno a questioni militari o difensive, dal
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luoghi sansepolcro momento che sotto questo punto di vista Sansepolcro era inserita in un preciso disegno difensivo di Firenze. Tra gli obblighi imposti alla città c’era quello di inviare soldati in varie località per difendere gli interessi della dominante. Dal punto di vista della gestione della giustizia, gli uffici erano di esclusiva pertinenza fiorentina. A Firenze, infatti, occorreva una presenza stabile nella Valle del Tevere, sia per la posizione strategica del territorio, sia perché in quel momento vi si incrociavano gli interessi dei principali potentati italiani: la Milano viscontea e poi gli Sforza, il papa, la stessa Firenze, Venezia, i Montefeltro e i Malatesta (oltre a altri piccoli potentati).
Firenze trovò a Sansepolcro un ceto mercantile e imprenditoriale qualificato, capace di partecipare a una politica nuova, ma anche disorientato nel vedere le proprie capacità e interessi volti a soddisfare le esigenze di un disegno politico imposto da altri. Una condizione di sudditanza che mal si adattava alla lunga tradizione di libertà imprenditoriale e mercantile del borgo, che gli aveva consentito di aprirsi gli orizzonti di mercati lontani. Questo ceto, in ogni caso, si distinse anche durante il dominio fiorentino, e alle attività imprenditoriali e mercantili si dedicarono le famiglie piú in vista, conseguendo risultati prestigiosi.
L’autonomia e la vivacità della vita economica del borgo gli resero ancora piú gravoso il peso della sottomissione. Ciononostante, i vantaggi sarebbero stati reciproci: per Firenze, soprattutto sotto l’aspetto politico, strategico e militare; per Sansepolcro, il ritrovato clima di stabilità di cui aveva goduto in epo(segue a p. 98)
Il borgo
Patria d’artista Situato nel cuore della Val Tiberina, ai piedi dell’ultimo tratto dell’Appennino toscano, Sansepolcro è un centro di grande interesse storico, nonché un autentico scrigno d’arte, che custodisce un patrimonio pittorico e architettonico famoso in tutto il mondo. La città fiorí soprattutto tra il XIV e il XVI secolo, quando fu teatro di una fervida attività commerciale, culturale e soprattutto artistica. In particolare, tra Quattro e Cinquecento, qui sono nate o hanno vissuto personalità come Luca Pacioli, uno dei piú grandi matematici del nostro Rinascimento, o artisti come i Della Robbia, gli Alberti, Raffaellino dal Colle, Cristoforo Gherardi, il Pontormo, Rosso Fiorentino, ognuno dei quali ha lasciato nel borgo importanti testimonianze del proprio operato. Ma il nome che piú di ogni altro ha segnato la fama artistica del borgo è quello di Piero della Francesca, che qui è nato tra 1415 e il 1420. L’artista ha lavorato per lunghi periodi nella sua città, che amava tanto da firmare spesso le proprie opere con il semplice nome di Piero dal Borgo. Il Museo Civico cittadino conserva oggi alcuni dei suoi capolavori. Un patrimonio artistico di inestimabile valore, al quale si aggiunge il tesoro architettonico costituito dagli edifici civili e religiosi d’età medievale e rinascimentale. Dalla Fortezza Medicea di Giuliano da Sangallo, alla cinta muraria protetta dalle cannoniere del Buontalenti, alle tante chiese ricche di affreschi e opere d’arte, fino alle bellezze naturali che la circondano, tutto fa di Sansepolcro un luogo unico, tra i piú affascinanti e suggestivi dell’intera regione. (red.)
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Per la Confraternita della Misericordia Polittico della Misericordia. Tempera e olio su tavola di Piero della Francesca (1415/1420-1492) e aiuti. 1445-1462. Sansepolcro, Museo Civico. L’opera fu commissionata al pittore, nativo del borgo, nel 1445, dalla Confraternita della Misericordia per l’altare della loro chiesa. Si compone di cinque pannelli maggiori, una predella e undici tavole piú piccole. Al centro, la Madonna della Misericordia accoglie i fedeli sotto il mantello, in alto, la Crocifissione, mentre i pannelli ai lati raffigurano San Sebastiano e San Giovanni Battista a destra, e San Bernardino da Siena e San Giovanni Evangelista a sinistra.
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luoghi sansepolcro chiese e monumenti principali Museo civico
Via N. Aggiunti, 65; tel. 0575 732218
casa di piero della francesca Via N. Aggiunti, 71; tel. 0575 740411
Museo ÂŤbernardini-fattiÂť della vetrata antica Via G. Buitoni, 9; tel. 0575 740536
fortezza medicea palazzo delle laudi
Via G. Matteotti, 1
cattedrale di s. giovanni evangelista Via G. Matteotti, 4
palazzo pretorio
Piazza Garibaldi, 1
chiesa di S. marta Piazza S. Marta
chiesa di S. maria delle grazie Via Beato Ranieri
chiesa di S. francesco
Piazza S. Francesco
chiesa di S. rocco e oratorio Via N. Aggiunti, 73
chiesa di s. antonio abate
Via S. Antonio
chiesa di s. maria dei servi Piazza Dotti, 1; tel. 0575 742347
chiesa di s. lorenzo Via S. Croce, 2
chiesa di s. chiara
Piazza S. Chiara
ex chiesa di s. giovanni battista Via G. Buitoni, 9
chiesa di s. agostino Via XX Settembre
Informazioni per la visita Ufficio Informazioni Turistiche: tel. 0575 740536; www.comune. sansepolcro.ar.it; www.turismo.provincia.arezzo.it
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luoghi sansepolcro ca malatestiana, permise di orientarsi verso nuove mete politiche e imprenditoriali. Se il primo libro degli Statuti fiorentini riguardava l’abolizione dell’antica magistratura locale dei Ventiquattro, buona parte del rimanente dettato statutario concerneva il commercio e le manifatture. Il secondo libro, infatti, regolava le attività commerciali e artigianali, il loro corretto svolgimento, le gabelle e il nuovo sistema fiscale, la normativa sui rapporti mezzadrili, la tutela della proprietà e dei diritti dei creditori, il rapporto tra proprietari e lavoratori. Si trattava di una legislazione tesa a imporsi per la tutela del prestigio del governo centrale attraverso il controllo del corretto svolgimento di ogni tipo di attività.
Un vicolo del centro storico di Sansepolcro.
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Il terzo libro affermava la supremazia del potere di Firenze nel garantire l’ordine pubblico, la correttezza nei rapporti commerciali, la condanna dei delitti contro persone, cose e istituzioni, le norme sanitarie, professionali e commerciali. Il quarto e ultimo libro conteneva disposizioni sulla tutela dell’abbazia camaldolese, sulla determinazione dei confini territoriali della comunità, sull’estimo comunale, su varie immunità, e sulle certificazioni di vita e di morte. In sintesi, gli Statuti del 1441 non furono per Sansepolcro soltanto il sigillo giuridico della sua sottomissione a Firenze, ma anche il segnale del suo ingresso in un circuito assai piú ampio di interessi commerciali, diplomatici, politici e mi-
litari, che ben presto conferirono al borgo la funzione di baluardo verso sud-est della repubblica fiorentina. Al tempo stesso, attraverso l’invio nel distretto di ufficiali della dominante, si realizzava quell’integrazione centro/periferia caratteristica fondamentale dello Stato regionale gravitante intorno a Firenze. Tra le misure adottate fu imposto anche il monopolio, a favore dell’Arte della Lana fiorentina, sulla produzione e commercializzazione del guado.
Una «quasi città»
Nei secoli tra il XIII e il XVI il centro può essere annoverato tra quelli definiti dalla storiografia recente come «quasi città», presentandone appieno tutte le caratteristiche: centri, cioè, che pur non essendo sede di diocesi, avevano peculiarità e funzioni spiccatamente urbane. Il termine «borgo», con cui si usava designare un insediamento non fortificato, è in realtà applicabile soltanto al primo nucleo insediativo, sviluppatosi intorno all’oratorio di S. Leonardo (fondato, secondo la leggenda, da due pellegrini di ritorno dalla Terra Santa), e poi accanto all’abbazia camaldolese di S. Giovanni Evangelista. Le case vennero presto cinte da mura, ampliate in fasi successive, al punto che, già all’inizio del XII secolo, la badia (divenuta poi cattedrale) si trovava al centro di un ampio quadrilatero fortificato. Il termine perse quindi quasi subito il significato originario per assumere quello di toponimo. Nel 1351 Matteo Villani, poco dopo la Peste Nera e subito prima del disastroso terremoto del 1353, definí Sansepolcro «terra forte e piena di popolo e di ricchi cittadini e fornita copiosamente d’ogni bene da vivere»: colpisce, in particolare, il fatto che il cronista chiami «cittadini» gli abitanti del centro. Quasi contemporaneamente il cronista lombardo Pietro Azario, narrando le imprese dell’esercito visconteo nell’Alta Val Tiberina, sottolineava l’aspetto urbano del borgo. E, nel Cinquecento, Leandro Alberti nella Descrittione di tutta Italia, indicò il ottobre
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In alto Resurrezione di Cristo. Affresco di Piero della Francesca. 1460 circa. Sansepolcro, Museo Civico. Il soggetto dell’opera allude alla leggenda della nascita della città, secondo la quale Sansepolcro fu fondata dai pellegrini Arcano ed Egidio di ritorno dalla Terra Santa con le reliquie del Santo Sepolcro.
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centro come «nobile castello», cioè come una realtà semiurbana, cinta da mura e di notevole consistenza demica. D’altra parte, come scriveva già Bartolo da Sassoferrato, la definizione di «città» spettava soltanto ai centri sede di diocesi. Le caratteristiche che qualifica-
vano Sansepolcro come centro semiurbano, ovvero «quasi città», si possono individuare in primo luogo nella sua dimensione demica, che lo avvicinava a molte sedi di diocesi: nel terzo-quarto decennio del Quattrocento contava 4397 bocche, una popolazione cioè pari a quella di
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luoghi sansepolcro Il mercato di una città medievale. Miniatura dal Digestum vetus. 1328. Torino, Biblioteca Nazionale. Il borgo di Sansepolcro era rinomato per la produzione e il commercio della lana, della seta, delle pelli e per la lavorazione del guado, un colorante vegetale utilizzato per tingere i tessuti.
Arezzo e Pistoia e superiore a quella di Prato, Volterra e Cortona. Nel 1551 arrivava a 6211 abitanti: piú di Urbino, Cesena, Todi, Volterra, e pari a città di antica tradizione (Asti, Arezzo, Ravenna, Pistoia, Viterbo). La seconda e fondamentale caratteristica che qualifica Sansepolcro come «quasi città» è costituita
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dalla sua capacità di organizzare il territorio circostante, e di avere quindi un contado, piccolo, ma non molto inferiore per estensione a quello di Colle o di San Gimignano. Probabilmente la sua fragilità politica e militare e la presenza a valle di una sede di diocesi come Città di Castello, e a monte di un centro im-
portante come Anghiari, contennero l’espansione di Sansepolcro entro limiti modesti.
Passaggi di potere
Fra il XIII e il XV secolo nel borgo si susseguirono le dominazioni dei Faggiolani, dei Tarlati, dei Visconti, di Città di Castello (1358-1370) e ottobre
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assicurò condizioni di pace, ponendo le basi per un ulteriore sviluppo economico. Sebbene siano molte, e le fonti inedite conservate presso l’archivio di Sansepolcro non manchino, le attività economiche del borgo, a parte la produzione del guado (vedi box a p. 103), sono ancora poco studiate. Soltanto tre sono gli statuti corporativi rimasti: quelli dei calzolai (1378 e 1454), quelli degli orafi (1515) e quelli dei macellai (1459), anche se le arti esistenti dovevano essere molto piú numerose: nel 1571, infatti, se ne contavano almeno 16. Gli statuti inediti di Sansepolcro contengono in effetti norme su molte altre attività, tra cui pellicciai, conciatori, lanaioli e gualchierai. Sia la lavorazione della lana che quella delle pelli, dunque, dovevano essere molto sviluppate, e la prima in particolare, perché il borgo costituiva il punto di transito delle greg-
gi transumanti verso la Maremma. Le gravi carenze nella documentazione sono probabilmente dovute al terremoto del 1353, che abbattè il campanile della cattedrale, nel quale dovevano conservarsi in buona parte gli atti riguardanti il borgo. Comune di antica data, dotato di propri magistrati almeno dal XII secolo, verso il 1350 Sansepolcro era già assai popolato, e, con Città di Castello, costituiva il centro principale della Val Tiberina, fatto che lascia supporre la presenza di corporazioni già in quest’epoca. Il primo collegio costituitosi fu quello dei notai, che tra il 1365 e il 1367 avevano già uno statuto. Nel 1441 il Comune approvò gli statuti dei lanaioli, la cui corporazione doveva esistere da molto tempo: sicuramente nel 1379 l’Arte della Lana del borgo esisteva già. Sia gli statuti dei notai che quelli dei lanaioli sono citati negli statuti cittadini. (segue a p. 104)
Giubileo Carsidoni
Un mercante «eclettico»
dei Malatesta (1372-1430). Come già detto, quest’ultima fece prosperare il centro tiberino: vennero facilitati i rapporti commerciali con la Romagna e con le Marche, i valichi montani divennero piú sicuri. La stabilità del regime (frutto anche di un’accorta politica di favori verso le famiglie borghigiane influenti)
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A Sansepolcro operavano anche mercanti di una certa importanza, come Giubileo Carsidoni, la cui attività è stata studiata negli anni Trenta del Novecento da Amintore Fanfani. Nato probabilmente prima del 1340, il Carsidoni occupò nel 1365 alcune importanti cariche cittadine, per poi dedicarsi, a partire dal 1368, all’attività imprenditoriale e mercantile. Iscritto all’Arte della Lana, aveva un fondaco a Sansepolcro, ma si dedicava a traffici di ogni tipo: dal commercio del denaro (nei primi anni prevalse infatti l’attività di prestatore), a quello di panni, cereali, vini, oli, lane, materiale tintorio (guado), e in seguito anche metalli, ferro soprattutto, ed era attivo su molte piazze commerciali, e socio di numerose compagnie. Le piccole operazioni di prestito con cui iniziò la sua attività fanno supporre che inizialmente fosse poco provvisto di capitali. Si dedicò, di volta in volta, a seconda delle circostanze, anche alla produzione di laterizi (quando, tra il 1384 e il 1387, sotto la signoria di Galeotto Malatesta, a Sansepolcro ferveva l’attività edilizia con la costruzione delle mura, la riparazione delle fortificazioni, la costruzione di case), al commercio di armi e armature e cavalli (quando sostarono nel borgo varie compagnie di ventura) e a quello del vino. Nel 1377 sposò Marietta di Meo Pietramala, di famiglia piuttosto importante, forse imparentata con i Tarlati (famiglia alla quale era appartenuto il potentissimo vescovo e signore di Arezzo Guido Tarlati, morto nel 1327), dalla quale ebbe sei figli. Dopo il matrimonio, forse per sfruttare i beni portati in dote dalla moglie, investí tutte le sue sostanze in terreni e nel commercio del bestiame. Morí nel 1432, probabilmente dopo essersi fatto monaco.
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luoghi sansepolcro le attività economiche
I macellai La corporazione dei «carnaioli» rivestiva una notevole importanza a Sansepolcro. Uno statuto dei macellai doveva già esistere nel borgo fin dalla seconda metà del Trecento, e a quell’epoca, fino ai primi decenni del XV secolo, si trattava probabilmente di un’arte alquanto potente, come dimostrano il monopolio sul diritto di macellazione, ottenuto al tempo di Galeotto Malatesta (1395), e il ruolo significativo dell’arte di cui rimangono tracce ancora nel 1397. Nel 1442, dopo l’incorporazione del borgo nel dominio fiorentino, ai macellai di Sansepolcro fu tolta l’esclusiva sul diritto di macellazione e attuata una revisione statutaria (1459) dettata con una volontà punitiva, in linea con la politica fiorentina volta a favorire le arti maggiori e a ridimensionare quelle minori. Il numero degli iscritti all’arte doveva aggirarsi intorno alle 20 unità, e la loro
A destra la bottega di un macellaio, da House book of the Cerruti, un Taccuinum sanitatis illustrato da Giovannino de’ Grassi (1350-1398). XIV sec. Vienna, Biblioteca Nazionale. Nella pagina accanto la pianta del guado in fiore.
La lana Un mercante trasporta sacchi di lana a dorso di mulo, particolare da La Madonna raccomanda Siena a papa Callisto III di Sano di Pietro (1406-1481). XV sec. Siena, Pinacoteca Nazionale.
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Nel Basso Medioevo Sansepolcro era al centro di scambi interregionali di notevole vivacità. Nel borgo si erano sviluppate anche attività produttive non trascurabili come l’arte della lana, fiorente almeno a partire dalla fine del Duecento, come dimostra l’esistenza di gualchiere (i complessi impianti per la follatura dei panni), fin dal 1288. Gli Statuti di Gabella della metà del Trecento fanno riferimento all’importazione di lane di diverso pregio (del Garbo – ossia dell’Africa Occidentale –, viterbese, garfagnina, sardesca); a lanaioli che mandavano a filare la lana in campagna; alla presenza di gualchiere per la follatura. La lana proveniente dal Mediterraneo occidentale (tra cui quella spagnola, detta di San Matteo) giungeva nelle valli aretine attraverso Pisa e Firenze. Grazie alla transumanza dalla Maremma verso la montagna, si produceva ovunque nelle valli aretine anche la lana «nostrale». Secondo i dati forniti dalle gabelle, la lana «nostrale» immessa in città raggiungeva le 7500 libbre e copriva il 15% del fabbisogno dell’Arte della Lana aretina (il restante 85% era invece coperto dall’importazione di lana spagnola). Alla fine del Trecento i panni aretini e quelli di Sansepolcro raggiungevano Pisa e ottobre
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Il guado condizione variare notevolmente: dai piccoli commercianti che esercitavano il mestiere saltuariamente, e che per questo sentivano come piú gravosi gli obblighi corporativi, ai piú grandi, che si occupavano anche dell’allevamento del bestiame, particolarmente fiorente nell’Alta Val Tiberina. Grazie alla loro abilità nel tagliare e acconciare la carne, i macellai di Sansepolcro venivano anzi ingaggiati dai proprietari terrieri per macellare le bestie, e lo statuto autorizzava questa pratica a patto che il prodotto finito non venisse posto sul mercato, ma utilizzato per autoconsumo. Come già detto, l’attività dei carnaioli di Sansepolcro comprendeva anche l’allevamento del bestiame, in un ciclo completo produttore-consumatore. La normativa cittadina agevolava questo aspetto, mettendo a disposizione dei macellai boschi e pascoli comuni a un affitto simbolico.
Il guado è una sostanza tintoria da cui si otteneva il blu, assai utilizzata per i pannilana. Ricavato dalle foglie e dai fusti della pianta erbacea Isatis tinctoria, veniva raccolto e preparato in grande quantità in loco e ancor di piú nelle vallate del versante adriatico, almeno dal XIII secolo. La prima raccolta avveniva nel mese di maggio, ed era seguita da altre quattro o cinque, distanziate di circa 22-25 giorni l’una dall’altra, fino al 15 ottobre. Il borgo era uno dei principali centri di raccolta della Val Tiberina: qui confluiva materiale tintorio diretto alle manifatture di Firenze, di Prato, di Pisa, ma anche verso i porti dell’Adriatico per essere esportato oltremare. Si trattava di quantità rilevanti: un tintore fiorentino ricevette per la sua bottega, in otto mesi, tra il maggio del 1362 e il gennaio 1363,
ben 65 821 libbre di guado (pari a 223 q circa, quasi 1 al giorno): la merce veniva da Sansepolcro, Mercatello e Sant’Angelo in Vado. La peculiarità di Sansepolcro consisteva nel fatto che nel borgo e nel suo contado, a differenza che altrove, si realizzava un ciclo produttivo completo e autonomo: produzione agricola, raccolta delle foglie, macerazione e raffinazione, confezione in pani della materia colorante, collocazione del prodotto finito in magazzini appositamente apprestati, in attesa del trasporto a Firenze per far fronte alle esigenze della «Tintura» dell’Arte della Lana, che esercitava il monopolio sulla produzione.
venivano venduti alle fiere di Rimini, mentre, alla metà del Quattrocento, venivano esportati anche a Roma. Lo Statuto comunale del 1441 contiene varie rubriche concernenti l’arte, tra cui l’obbligo per il notaio di procedere, a richiesta dei consoli dell’arte della lana, contro «gualcherarios, tractores, conciatores, texitores, texitrices» e contro chiunque altro che lavorando nell’arte ne avesse violate le norme. Si prescriveva poi l’obbligo, per gli aspiranti lanaioli, di prestare giuramento all’Arte; il divieto di mescolare nei panni setole di bue, di asino, di capra o filamenti di cardatura, pena il pagamento di una multa, la distruzione dei panni stessi e l’estromissione dall’arte; si stabiliva infine che nessuno avrebbe potuto lavorare lana o farne incetta senza il consenso dei Consoli dell’Arte. L’organizzazione della produzione sembra ripetere gli schemi consueti: i lanaioli (mercanti imprenditori) controllavano il processo produttivo dalla lavorazione della materia prima alla vendita del panno, le maestranze impiegate non potevano lavorare in proprio. A sinistra un lanificio, miniatura di scuola italiana da House book of the Cerruti. XIV sec. Vienna, Biblioteca Nazionale.
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luoghi sansepolcro Veli di cotone Il cotone importato dai porti adriatici, soprattutto da Fano e da Ancona, e proveniente da Venezia (dove giungeva dalla Siria), serviva a diverse attività artigianali, che facevano di quest’area la seconda regione cotoniera d’Italia, dopo quella lombarda. Ad Arezzo, Perugia e Assisi i «bambacai», realizzavano tessuti di cotone detti «federe» e filo di cotone tinto utilizzato per cucire. Tessuti misti di cotone e di lino, i «guarnelli», venivano prodotti a Foligno, Todi, Narni, Terni, Assisi. La stessa materia prima veniva utilizzata per realizzare veli. Le donne delle campagne e delle città acquistavano cotone dai merciai e lo tessevano nelle loro case ottenendo veli di diversa lunghezza (da 2 a 8 braccia, cioè da poco piú di 1 m a quasi 5 m). Nel 1385, un fattore dell’azienda Datini di Firenze acquistò 737 veli a Città di Castello e nelle campagne circostanti da ben 64 venditrici: questo prova l’esistenza di una produzione domestico-rurale disseminata ampiamente diffusa che si ritrova anche ad Arezzo, Perugia, Cortona e Sansepolcro. Il fatto che i mercanti avessero in mano sia la fase dell’approvvigionamento della materia prima, sia quella della vendita del prodotto finito, induce comunque a pensare che non si trattasse soltanto di produzione domestica, ma piuttosto di un’organizzazione imprenditoriale su larga scala. I prodotti ottenuti venivano spediti per la vendita a Firenze, Pisa, Genova, Avignone, Barcellona, Valenza, Maiorca (ma il mercato di questi prodotti è noto solo attraverso fonti fiorentine e pisane). A Pisa gli acquirenti erano spesso lucchesi, sardi, corsi, mercanti di Gaeta, che acquistavano veli per portarli nelle
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loro città. Per avere solo un’idea della quantità dei veli realizzati in quest’area basti pensare che il mercante Lazzaro Bracci, tra il 1392 e il 1396, vendette a Pisa 6850 veli aretini e 9640 veli perugini, che costavano mediamente 1/3 di fiorino ciascuno, per un valore totale di 5500 fiorini circa. Ad Avignone tra il 1402 e il 1406 la Compagnia Datini vendette veli di queste valli per ben 15 000 fiorini. Nella Leggenda della Vera Croce, Piero della Francesca dipinse tutte le figure femminili velate, fatto che, se da un lato riconduce alla moda largamente diffusa tra le donne del tardo Medioevo di coprirsi il capo con un velo, dall’altro mostra la familiarità del pittore con questo manufatto tessile, acquisita probabilmente nel borgo natío.
Arezzo, chiesa di S. Francesco, cappella Maggiore. Il volto velato della Vergine, particolare dalla Leggenda della Vera Croce. Affresco di Piero della Francesca. 1452-1462.
Gli statuti dei calzolai vennero invece approvati nel 1378 da Galeotto Malatesta, ma l’arte doveva esistere da molto tempo, come lascia intuire la sua organizzazione relativamente complessa; vennero riformati nel 1454. L’importanza dell’arte è dimostrata anche dal fatto che, nel 1571, subí la tassazione piú forte per i donativi ai Santi Patroni. Per queste sole tre arti rimane traccia di un’organizzazione anteriore alla fine del XIV secolo, mentre per tutte le altre non si hanno notizie se non dal XV secolo: i capitoli degli ortolani vennero apottobre
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provati nel 1451; quelli dei macel- ranti, numero comunque cospi- soggetti all’approvazione del magilai nel 1457; i fornai riformarono cuo per un centro di 5000 abitanti. strato comunale, come prescriveva gli statuti nel 1467; tra il 1480 e il Quanto al giro d’affari dei mercanti, esplicitamente lo statuto munici1487 i mercanti ottennero l’appro- basti pensare che Giubileo Carsido- pale del 1571. Gli statuti corporavazione dei loro, e, nel 1515, fu la ni, del quale rimane il libro mastro, tivi appaiono quasi integrazioni a volta degli orefici. nel 1368 vendette all’Arte della La- quanto prescritto da quelli comuNon si sa se e quando le altre na fiorentina ben 20 000 libbre di nali. Le arti, insomma, erano comarti abbiano avuto degli statuti, guado prodotto a Sansepolcro. pletamente sottoposte al Comune e rimangono solo le disposizioni Le prescrizioni degli ordinamen- non avevano alcun peso nella vita comunali del XV secolo che re- ti comunali erano particolarmente politica del borgo. golamentavano l’attività di mu- minuziose per le arti relative al vetQuello di Borgo San Sepolcro era gnai, osti, pizzicagnoli, velettai. tovagliamento della città. E sia gli dunque un mondo particolarmente La prima attestazione dell’Arte statuti delle arti rimasti, sia quelli vivace, aperto a est verso l’Adriatico degli speziali risale solo e a ovest verso la Toscana, al 1571, ed è contenuta fino al QuattrocenLe figure velate di Piero mostrano etoche, nello statuto comunale, inoltrato, mantenne la familiarità – acquisita, che elenca tutte le arti i suoi caratteri di spazio soggette a tassazione, con Con la conquista probabilmente, nel borgo natío – unitario. relativo ammontare. Al fiorentina di tutte le valli del pittore con questo manufatto aretine, la funzione di racprimo posto, come entità di imposizione, figurano i cordo con l’Adriatico fu calzolai (4), seguiti dai mercanti e comunali proibivano l’esercizio del volta a vantaggio della città domivelettai (3), dagli orefici (2,5), da mestiere ai non iscritti. nante; e quelle sottomesse persero lanaioli, legnaioli, dottori e notai, Nel Quattrocento l’organizza- almeno parte della loro vitalità, per fabbri e maniscalchi (2), e poi da zione corporativa si estese anche ai divenire soprattutto centri agrari di tutti gli altri, cioè fornai e porchet- mestieri prima esercitati liberamen- primaria importanza. tai, osti e tavernieri, mugnai, vasai, te, forse per impulso di Firenze, siDa quel momento in poi le valli ortolani, pizzicagnoli, macellai e gnora del borgo dal 1441. aretine costituirono la zona cerealibeccai, sarti, speziali (1). Non c’è traccia di intervento cola piú importante della Toscana. Numericamente sappiamo che i delle arti nel governo del Comune Le istituzioni formatesi nel tardo calzolai nel 1378 contavano ben 31 di Sansepolcro, anzi quest’ultimo Medioevo, però, continuarono a iscritti, mentre gli orefici nel 1515 manteneva ogni autorità su di lo- svolgere un’attività estremamente annoveravano 6 maestri e 4 lavo- ro, e gli statuti corporativi erano positiva. F
Da leggere U Andrea Czortek (a cura di), La nostra storia: lezioni sulla
U Giovanni Cherubini, Notizie su forniture di guado dell’Alta
storia di Sansepolcro, Graficonsul, Sansepolcro 2010; in particolare, Franco Franceschi, Economia e società nel tardo medioevo, pp. 357-382. U Amintore Fanfani, Un mercante del Trecento, Giuffrè, Milano 1935 (rist. 1984). U Amintore Fanfani, Le arti di Sansepolcro dal XIV al XVI secolo, in Id., Saggi di storia economica italiana, Vita e Pensiero, Milano 1936, pp. 83-107. U Sergio Anselmi, La presenza malatestiana a Sansepolcro: aspetti economici, 1372-1428, in «Proposte e Ricerche», XX, 1988, pp.72-83. U Franco Polcri, Produzione e commercio del guado nella Valtiberina toscana nel Cinquecento e nel Seicento, in «Proposte e Ricerche», XXVIII, 1992, I, pp. 26-38. U Giancarlo Renzi (a cura di), La Valtiberina, Lorenzo e i Medici, Leo S. Olschki, Firenze 1995. U Tessuti italiani al tempo di Piero della Francesca, Catalogo della mostra, Sansepolcro 7 maggio-31 agosto 1992, Petruzzi, Città di Castello 1992.
Valle del Foglia alle manifatture di Firenze e Prato (12291450), in Id., Fra Tevere, Arno e Appennino: valli, comunità, signori, Tosca, Firenze 1992, pp. 97-103. U Andrea Barlucchi, Lo statuto quattrocentesco dell’Arte dei Carnaioli di Borgo Sansepolcro. Note sul commercio della carne alla fine del Medioevo, in «Archivio Storico Italiano» CLV, 1997, 4, pp. 697-734. U Gian Paolo Giuseppe Scharf, Fra economia urbana e circuiti monetari intercittadini: il ruolo degli Ebrei a Borgo San Sepolcro a metà del Quattrocento, in «Archivio Storico Italiano», CLVI, 1998, 3, pp. 447-477. U Gian Paolo Giuseppe Scharf, Borgo San Sepolcro a metà del Quattrocento: istituzioni e società, 1440-1460, Leo S. Olschki, Firenze 2003. U Piero Della Francesca, Collana «I classici dell’arte», RizzoliSkira-Corriere della Sera, Milano 2003. U Giuliano Pinto, Borgo San Sepolcro: un centro minore alla periferia della Toscana, in Id., Città e spazi economici nell’Italia comunale, Bologna, CLUEB, 1996, pp.223-236.
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Una casa per frate Cristoforo cartoline • L’ex convento dei Padri domenicani di Taggia
conserva architetture di impronta lombardo-trecentesca e una straordinaria collezione di polittici tardomedievali
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l complesso ex conventuale di S. Domenico a Taggia (Imperia), formato dalla chiesa di S. Maria della Misericordia e dal monastero dei Padri domenicani, per tre secoli, dal Cinquecento all‘Ottocento, fu uno dei principali centri spirituali e culturali della Liguria occidentale. L’architettura adagiata sulla sommità di un dolce colle, nel versante sinistro della valle scavata dal torrente Argentina, domina l’abitato sottostante e costituisce la
Taggia (Imperia). Uno scorcio del chiostro del complesso ex conventuale di S. Domenico. La fondazione dell’insediamento religioso si deve al frate domenicano Cristoforo da Milano, giunto nella cittadina ligure nel 1459.
tappa principale del Percorso storico dei Brea, articolato tra l’Estremo Ponente ligure e il Nizzardo (vedi box a p. 109). A fondare l’insediamento religioso nella campagna a sud di Taggia, fuori dalle mura cittadine, ampliate tra il 1540 e il 1547 per fronteggiare il pericolo dei corsari algerini e tunisini, fu il domenicano Cristoforo da Milano, invitato a predicare a Taggia il 2 maggio del 1459. L’eloquente oratoria e la virtuosa condotta morale del frate fecero un’ottima impressione sui Tabiesi, che decisero la costruzione di un monastero da affidare ai Predicatori partecipi al movimento dell’Osservanza, sviluppatosi alla fine del Trecento con l’intento di ripristinare il rigorismo e l’integrità dei comportamenti propagandati dal fondatore, Domenico di Guzman (1170-1221).
Crocevia di scambi e commerci Certo è che la scelta di Taggia fu pure dovuta a una serie di altre motivazioni, in buona parte collegate alla vivace realtà economica locale nel Quattrocento. Infatti, nel XV secolo, la cittadina, vicina alla costa e al modesto ma efficiente scalo marittimo di Arma, ove navigli di Genova e Savona imbarcavano considerevoli quantitativi di vino e olio da inviare nel Nord Europa, nelle Fiandre e in Inghilterra, era anche un importante nodo viario posto allo sbocco della valle Argentina. Da Taggia, quindi, un fitto ventaglio di
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In alto ancora una veduta del chiostro. A sinistra statua lignea della Madonna, di produzione provenzale. XV sec. A destra l’interno della chiesa di S. Maria della Misericordia, caratterizzato dal motivo decorativo a scacchi bianchi e neri che sottolinea gli estradossi degli archi delle cappelle e le nervature delle volte.
Uno sguardo dal ponte Il nucleo storico di Taggia, circondato da secolari uliveti e recenti serre per la floricoltura, è ritenuto uno dei centri medievali di maggior pregio del Ponente ligure. Inizialmente, forse, l’aggregato demico costituiva un priorato dei Benedettini dell’abbazia di Pedona, ubicata nei pressi di Borgo San Dalmazzo, nel Cuneese. Il villaggio, divenuto Comune attorno al Mille, fu inglobato nel Comitato di Albenga, quindi incluso nella Marca arduinica. Successivamente passò ai Clavesana, che nel 1228 lo vendettero a Genova. Interessante è la disposizione urbanistica del borgo murato, con strade strette e curvilinee, vicoli e gallerie in pietra, su cui affacciano portici, botteghe del XIV-XV secolo e palazzi nobiliari ornati di blasoni, portali e bassorilievi per la maggior parte scolpiti da maestri comacini impegnati nel cantiere di S. Domenico. A stupire chi transita anche solo di passaggio dalla località resta comunque il ponte medievale. Grandioso e suggestivo, attraversa la fiumara del torrente Argentina ed è disposto su 16 arcate per una lunghezza di 260 m. Gli ultimi due archi a levante sono romanici (XIII secolo), gli altri risalgono al 1450 circa.
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caleido scopio strade si diramava nell’entroterra, sia in direzione del Piemonte, che a est, verso le valli dell’Imperiese. Inoltre, la centralità della cittadina, rispetto a un ampio comprensorio territoriale, e l’esiguo numero di conventi di frati mendicanti negli immediati dintorni, permettevano alla futura comunità domenicana di ampliare notevolmente il raggio della propria attività di apostolato e, di conseguenza, di incentivare nuove vocazioni religiose. Il parere favorevole per erigere la struttura venne rilasciato dalla Santa Sede al cardinale Giorgio Fieschi, ambasciatore presso la Repubblica di Genova, il 20 dicembre 1459. Lo svolgimento dei lavori assunse da subito un respiro corale. I notabili del posto contribuirono con del danaro, il popolo minuto forní la manodopera e i Comuni circostanti, – Bussana, Castellaro, Montalto, Badalucco, Ceriana, Dolcedo, Pigna, Briga e Triora –, da sempre legati economicamente a Taggia, intervennero inviando materiali di vario tipo, dal legno delle foreste sui monti delle Alte valli, ai generi alimentari.
La consacrazione della chiesa La decisione dei frati di insediarsi qui, suscitò anche l’interesse dei duchi di Milano, in quel periodo Signori di Genova, cosicché nel 1468 Galeazzo Maria Visconti e la consorte Bianca Maria concessero al monastero l’usufrutto triennale dell’imposta sugli atti giuridici e notarili rogati a Taggia. La chiesa fu consacrata dal vescovo di Albenga Leonardo Marchese nel 1490. Nel Cinquecento il cenobio andò incontro alla ventata rinnovatrice della Controriforma, nei primi anni dell’Ottocento ai decreti di soppressione degli enti religiosi emanati da Napoleone e, infine, nel 1866, all’incameramento dei beni ecclesiastici da parte del Governo italiano. Il tempio, diventato proprietà comunale, mantenne la destinazione d’uso originaria, mentre il convento venne adibito a usi impropri.
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Nel 1955 i Domenicani rientrarono in possesso del manufatto. Tornato a nuova vita, ora il complesso ex conventuale di S. Domenico è polo di riferimento e incontro per numerose attività pastorali diocesane ed extradiocesane, aperte alla partecipazione dei laici. L’edificio, preceduto da un ampio slargo in acciottolato e da un portico a quattro arcate dall’aspetto settecentesco, si può raggiungere risalendo a piedi la stradicciola lastricata, che un tempo collegava in modo diretto la città a S. Domenico. La cultura artistica che sta alla base
della costruzione è di diretta matrice trecentesca lombarda, caratteristica che fa di questo bene materiale un unicum fra le cospicue testimonianze dell’architettura religiosa quattrocentesca nel Ponente ligure. Possibili termini di confronto sono infatti le chiese di S. Maria Maddalena a Bergamo e di S. Maria degli Angeli a Mantova, ambedue innalzate per l’Ordine domenicano.
Modelli lombardi La configurazione della chiesa di Taggia, cosí lontana dai caratteri stilistici e strutturali dei luoghi di A sinistra Giovanni Canavesio, polittico con San Domenico, altri santi, Dottori della Chiesa e, nel riquadro al centro, la Madonna delle ciliegie. 1478. In basso la biblioteca, con una Crocifissione, attribuita anch’essa a Giovanni Canavesio. Nella pagina accanto Ludovico Brea, polittico della Madonna della Misericordia e santi. 1483
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Tra Italia e Francia Il Percorso storico dei Brea, realizzato dalla Regione Liguria in collaborazione con il Conseil General des Alpes Maritimes, conduce alla scoperta di chiese, cappelle e oratori disseminati nella Provincia di Imperia, con qualche digressione in Piemonte e in Francia. L’iniziativa transfrontaliera nelle Alpi del Mare si prefigge di documentare una stagione pittorica assai significativa per la storia dell’arte del Ponente ligure, che va dalla seconda metà del Trecento agli ultimi decenni del Cinquecento. Infatti, in quest’arco cronologico si assiste alla massiccia presenza di artisti originari della zona e occupati nel territorio o, sebbene nati altrove, che comunque lavorano esclusivamente nella regione, come Antonio da Mondoví, Giovanni Canavesio, i Biazaci e i Brea, talenti alquanto abili nel creare un proprio stile e nel dar vita a una scuola ligure-nizzarda-monregalese. Gli itinerari individuati sono sei e spaziano da Ventimiglia alle valli Nervia e Armea; Sanremo, Taggia e la valle Argentina; Riva Ligure e le valli di Imperia; Prino, Caramagna e Impero; le valli del Danese, San Bartolomeo e Villa Faraldi; Rezzo, Pieve di Teco e la valle Arroscia; da Ventimiglia a Notre Dame des Fontaines, nell’alta val Roya. Info: www.culturainliguria.it
culto costruiti dai Minori francescani e dai Predicatori a Genova e nelle Riviere tra Due e Trecento, si spiega con l’origine milanese di fra Cristoforo e con la sua presenza nei conventi di Bergamo e Mantova prima di stabilirsi in Liguria. La fabbrica, però, riserva un’altra curiosità: la disposizione interna, che, ad aula rettangolare con quattro cappelle per lato, munite di volte a crociera, e due sacelli a fianco del presbiterio, appare completamente voltata e munita di pseudo transetto. Tale scelta, priva di riscontri negli esempi di parrocchiali, santuari e cappelle ponentine coeve, risponde alle prescrizioni impartite dal fondatore dell’Ordine. Lo spazio sacro, infatti, secondo le esigenze cultuali e funzionali domenicane, rappresenta il luogo in cui si celebra l’Eucarestia,
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e si svolgono la preghiera della comunità conventuale e l’attività di indottrinamento dei fedeli tramite la predicazione. Da ciò l’esigenza di una vasta zona unitaria, senza delimitazioni imposte dalla presenza di navate, sebbene in origine il vano sia stato diviso trasversalmente in tre parti da basse paratie, che separavano il coro, riservato alla preghiera dei frati, la parte posteriore destinata agli uomini e quella anteriore alle donne.
Scacchi bianchi e neri In questo luogo pio il legame storicoartistico con la tradizione ligure tardomedievale si manifesta nel rivestimento delle murature. Che, dipinte con intonaco a marmorino, creano vaste superfici bianche animate da un motivo decorativo a scacchi bianchi e neri, a sottolineare gli estradossi degli archi della cappella e le nervature delle volte. Si tratta di una versione piú economica dei paramenti marmorei e lapidei del XIII e XIV secolo tipici dei palazzi nobiliari e degli edifici devozionali genovesi nella Riviera di Levante, rintracciabili comunque anche in alcune fabbriche
mendicanti due- e trecentesche del Ponentino. L’interno del tempio, com’è ovvio ricco di titolazioni domenicane, stupisce per l’eccezionale sequenza di polittici tardomedievali, con prevalenza di opere d’arte di Giovanni Canavesio e Ludovico Brea, oltre all’Adorazione dei Magi del Parmigianino. L’artista piemontese Giovanni Canavesio, originario di Pinerolo e attivo soprattutto nel Nizzardo e nel Ponente ligure tra il 1472 e il 1500, vi ha lasciato uno dei suoi polittici piú belli, dedicato a San Domenico, i Padri della Chiesa e altri santi. La raffigurazione, straordinariamente curata dal punto di vista disegnativo e cromatico, attesta l’utilizzo di moduli stilistici tardo-gotici, quantunque aggiornati sulle novità figurative provenzali, evidenti nella ricerca di tridimensionalità e monumentalità dei personaggi ritratti.
Il trentennio di Brea Non solo. Nel 1483 Ludovico Brea, un pittore nizzardo formatosi come il Canavesio sui testi della pittura provenzale e culturalmente orientato verso i modelli rinascimentali lombardi e fiamminghi, sostituí Francesco Grasso da Verzate nell’esecuzione del polittico della Madonna della Misericordia e santi, finanziato da Cristoforo e Francesco Pasqua. L’intervento del Brea influí notevolmente sulle scelte degli altri patroni delle cappelle e diede avvio a un trentennio di commesse assegnate al maestro per abbellire il convento di Taggia, che conserva ancora un nutrito gruppo di ancóne, che permette di seguirne l’evoluzione del linguaggio pittorico. Sull’esempio della famiglia Pasqua, infatti, i Terziari e le Terziarie domenicane gli commissionarono il polittico con Santa Caterina da Siena e altri santi per la loro cappella; Lazzaro e Benedetto Curlo gli ordinarono un grande polittico con il Battesimo di Cristo per la cappella di San Giovanni Battista; Fabiano e Sebastiano Asdente vollero il polittico dell’Annunciazione.
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caleido scopio Sempre a Ludovico Brea i padri affidarono il compito di affrescare la biblioteca con la Visione di San Tommaso d’Aquino, firmata e datata 1495, e con una serie di santi e beati appartenenti all’Ordine, illustri per dottrina teologica.
Colonne in pietra nera Fulcro dell’intero fabbricato è il chiostro quattrocentesco, che accoglie all’angolo di nord-ovest un pozzo ottagonale. Caratterizzato da una planimetria quadrangolare, si articola in cinque arcate ribassate per lato, sorrette da colonne circolari in pietra nera e capitelli a volute dalla tipologia ancora medievale, secondo la tradizione popolare provenienti dal chiostro del vicino priorato benedettino di S. Maria del Canneto. Il loggiato, per il forte legame con modelli di tradizione antelamica si discosta dagli schemi stilistici classicheggianti, che si stavano affermando nello stesso periodo nel Genovesato. Dal chiostro si accede su richiesta alla biblioteca e al museo. La prima, dipinta a fresco da Ludovico Brea, si trova al piano superiore e si visita oltrepassando un portale quattrocentesco in pietra nera, sovrastato dalla scritta «clausura». Il secondo, ospitato nell’ex dormitorio dei conversi, raccoglie manoscritti antichi, corali miniati e incunaboli, in passato custoditi nella prestigiosa biblioteca del convento, e una quarantina di opere di Gioacchino Assereto (1600-1649), Girolamo da Treviso il Giovane, Ludovico, Antonio e Francesco Brea, Perin del Vaga e Malosso. Chiara Parente Dove e quando
Complesso ex conventuale di San Domenico Taggia (Imperia), piazza Beato Cristoforo, 6 Orario tutti i giorni, 9,00-11,30 e 15,00-17,30; lunedí chiuso Info e gruppi tel. 0184 477278 (per i gruppi è gradita la prenotazione)
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Lo scaffale Nicola Tangari (a cura di) Musica e liturgia a Montecassino nel Medioevo
Scritture e libri del Medioevo, 10, Viella, Roma, 322 pp., ill. b/n
40,00 euro ISBN 978-88-8334-932-4 www.viella.it
L’abbazia di Montecassino, sorta nel 529 per volere di San Benedetto, ha conosciuto durante la sua lunga storia vicissitudini a dir poco tormentate: fu distrutta nel 577 dai Longobardi, saccheggiata nuovamente dai Saraceni nell’883, ridotta in macerie dal terremoto del 1349, e infine devastata dal bombardamento subito nel 1944, durante la seconda guerra mondiale. Il complesso monastico ha saputo reagire a ognuno di questi eventi disastrosi, risorgendo nel suo splendore e trasformandosi, nel corso del Medioevo, in un centro di potere e di irradiazione culturale
di grandissima influenza nel mondo occidentale. Nonostante gli episodi nefasti, le collezioni librarie dell’abbazia, a partire dagli antichi codici sino a comprendere i primi incunaboli e, a seguire, le circa 3000 cinquecentine e cosí via, sono riuscite a preservarsi e oggi costituiscono un patrimonio codicologico e librario di prim’ordine. Tra i ricchi tesori dell’abbazia, la presenza di codici musicali databili a partire dall’Alto Medioevo, illustri testimoni della tradizione monodica, ha costituito, sin dall’ultimo decennio del XIX secolo, una fonte insostituibile per lo studio della notazione musicale e del repertorio liturgico-musicale legato all’abbazia. Con l’intento di fornire un quadro degli studi dedicati alle fonti liturgico-musicali di Montecassino, il volume curato da Nicola Tangari raccoglie 16 saggi, che, da molteplici punti di vista, descrivono ed esaminano le peculiarità di un repertorio che nel Medioevo ebbe grande raggio di azione, tenendo conto delle reciproche influenze
con altri repertori coevi e partendo da prospettive piú generali sino ad addentrarsi in contesti piú specifici: il culto di un santo, la notazione musicale, l’aspetto poetico dei testi o un particolare genere liturgico, sino a toccare argomenti come l’informatizzazione dell’archivio della Bibliografia dei manoscritti in scrittura beneventana. Molte le angolazioni da cui le fonti montecassinesi vengono dunque studiate, come varie, d’altronde, si rivelano le prospettive di ricerca suggerite e che da un iniziale interesse strettamente paleografico hanno visto accrescere sempre piú l’ambito degli interessi legati a questo straordinario repertorio. Franco Bruni Michele Tomasi L’arte del Trecento in Europa
Piccola Biblioteca Einaudi, Mappe, 4, Einaudi, Torino, 263 pp., ill. b/n e col.
28,00 euro ISBN 978-88-06-20504-1 www.einaudi.it
Un cofanetto eburneo intagliato con scene profane, le sfolgoranti policromie della vetrata di una chiesa abbaziale, la delicatezza descrittiva di un piviale ricamato o le miniature di un codice narrante le ottobre
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avventure del Roman de la Rose, questi e molti altri sono i protagonisti eccellenti che affollano la dotta narrazione di Michele Tomasi, che, nella sua storia dell’arte dedicata al Trecento europeo, ci trasporta in un mondo di grande ricchezza produttiva e di grandi sperimentazioni. E lo fa partendo da contesti anche minori o, piú esattamente, meno appariscenti. Se, infatti, è l’opera architettonica quella che piú di ogni altra cattura l’attenzione per la sua magnificenza, dall’altra è l’attenzione che l’autore ripone anche su espressioni artistiche «minori» che ci permette di ridefinire il quadro storico in maniera piú completa ed esaustiva. L’itinerario proposto si snoda attraverso una serie di tematiche – tempi e spazi; materiali e tecniche; committenti, tipologie, iconografie; artisti – che permettono, al di là di una tradizionale narrazione
cronologica, di tracciare parallelismi, individuare correnti stilistiche e i loro percorsi spaziotemporali, valutare l’importanza della grande come della piccola committenza, in città quali Avignone, Barcellona, Praga, Vienna, centri che si affacciano al Trecento come i nuovi poli di irradiazione artistica. La ricchezza dei fatti narrati, la visione focalizzata anche al microcontesto, si avvalgono di una scrittura lineare, lungi da ogni tecnicismo e quindi particolarmente apprezzabile per la sua vena divulgativa. A completare l’opera intervengono poi 58 utili schede storicotecniche dedicate a sculture, architetture, pitture, codici miniati, oggetti d’oreficeria...: una summa ideale di quanto di meglio il Trecento europeo ha saputo produrre. F. B. Raffaella Pini Le giustizie dipinte La raffigurazione della giustizia nella Bologna rinascimentale
Minerva Edizioni, Argelato (BO), 157 pp., ill. col. e b/n
17,00 euro ISBN 978-88-7381-364-4 www.minervaedizioni.com
Assecondandone le volontà testamentarie, la cappella di famiglia del mercante di seta
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Bartolomeo Bolognini, nella basilica bolognese di S. Petronio, fu affrescata, tra gli altri, con un Giudizio Universale. L’opera venne affidata a Giovanni da Modena, che, nei primi anni del Quattocento, realizzò una delle versioni piú forti e impressionanti del tema. Il saggio analizza le declinazioni artistiche del Giudizio elaborate all’epoca e le confronta con il parallelo sviluppo della dottrina giuridica, soprattutto circa le condanne alla pena capitale e le loro modalità di esecuzione. Uno sviluppo che l’opera di Giovanni da Modena testimonia in maniera puntuale, con particolare riferimento alla realtà felsinea. Stefano Mammini Fulvio Delle Donne Federico II: la condanna della memoria Metamorfosi di un mito Viella, Roma, 206 pp.
22,00 euro ISBN 978-88-8834-761-0 www.viella.it
Potrebbe bastare l’appellativo di Stupor Mundi a dare la
misura di quanto Federico II non sia stato soltanto un personaggio storicamente definito, ma anche una figura che, fin da subito, ha assunto i contorni del mito. A questa duplice identità è dedicato il saggio di Fulvio Delle Donne, che propone una sorta di confronto all’americana tra le notizie e le testimonianze certe e la mole, davvero
considerevole, delle elaborazioni leggendarie. Le prime sono frutto della ricognizione delle fonti, mentre le seconde si basano, in particolare, sull’Itinerarium scritto da un anonimo pugliese, che dà conto del percorso di riconquista compiuto da Federico II al ritorno dalla Terra Santa. Un confronto continuo e serrato tra storia e filologia, dunque, con l’intento di restituire un ritratto verosimile dell’imperatore fanciullo. S. M.
Giuseppe Carlucci I Prolegomena di André Schott alla Biblioteca di Fozio Edizioni Dedalo, Bari, 370 pp.
22,00 euro ISBN 978-88-220-5818-8 www.edizionidedalo.it
Teologo bizantino e patriarca di Costantinopoli, Fozio, vissuto nel IX secolo, fu maestro di filosofia e teologia. Una delle sue opere, la Biblioteca, fu tradotta in latino dall’umanista tedesco David Hoeschel, agli inizi del Seicento, e, pochi anni piú tardi, dal gesuita André Schott. Quella seconda edizione, corredata dai Prolegomena, viene ora presentata in una nuova traduzione italiana, che ricostruisce anche il clima nel quale maturarono i lavori di Hoeschel e Schott, le cui versioni del testo originale, considerato il piú importante testo in lingua greca di epoca medievale, risentirono, innanzitutto, del dibattito dottrinale tra riformati e cattolici. S. M.
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Musiche per il paladino musica • All’Orlando Furioso si ispirano
le composizioni riunite in una raccolta che vede vari autori cimentarsi nella forma del madrigale cinquecentesco e nei suoi diversi approcci stilistici e vocali
In alto il frontespizio di un’edizione dell’Orlando Furioso stampata da Vincenzo Valgrisi, a Venezia, nel 1573.
L’
Tiziano, il ritratto di un gentiluomo di casa Barbarigo (Gerolamo?) che viene tradizionalmente identificato con Ludovico Ariosto. 1509 circa. Londra, National Gallery.
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antologia Orlando Furioso. Madrigali sul poema di Ludovico Ariosto (A 363, 1 CD), propone 22 brani, composti da 14 autori che al poema hanno regalato splendide pagine musicali. Già dal primo titolo, che riprende i versetti iniziali ariosteschi Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori, madrigale di Hoste da Reggio, è evidente la dimensione cortese di queste musiche; il declamato iniziale, con l’andamento accordale delle voci, costituisce una perfetta introduzione alle gesta del ottobre
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paladino Orlando, lasciando poi spazio a un andamento polifonico piú vario e articolato. La maggior parte dei brani rientrano nel genere del madrigale, vero trionfatore tra quelli vocali praticati nel Cinquecento e, peraltro, estremamente aperto a soluzioni compositive tra le piú diversificate.
Tutti i toni dell’amore La varietà degli episodi messi in musica si riflette in un altrettanto variegato approccio compositivo, in cui la vocalità si fa piú melismatica e leggiadra, come nel caso di Vaghi boschetti di soavi allori di Giaches de Wert – frequentatore della corte ferrarese dove l’Ariosto concepí il suo capolavoro – fino alla cantabilità armoniosa di Liete piante, verdi erbe, limpide acque del milanese Vincenzo Ruffo; ritroviamo toni piú bellicosi in uno strepitante Non rumor di tamburi o suon di trombe, di Alessandro Striggio, compositore spesso dedito a ricreare onomatopeicamente i contesti sonori descritti. Non manca la descrizione di stati d’animo legati al sentimento amoroso, tanto caro alla produzione madrigalistica: è il caso di Cipriano de Rore con Era il bel viso suo, Dunque baciar sì belle e dolce labbia di Andrea Gabrieli, Questi ch’indizio fan del mio tormento di Alfonso Ferrabosco e Gli sdegni, le repulse di Hoste da Reggio. La superba esecuzione è affidata a un ottetto vocale, La Compagnia del Madrigale, un ensemble tutto italiano i cui componenti – nomi piuttosto noti nella discografia rinascimentale e barocca – testimoniano con la loro capacità interpretativa la lunga pratica nell’ambito della vocalità antica, in cui la declamazione, l’emissione vocale e il senso interpretativo sono votati all’esaltazione del contenuto poetico, in una straordinaria simbiosi di musica e parola. Franco Bruni
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Dal Celeste Impero musica • Una
magnifica registrazione del Teuzzone di Vivaldi evoca il Medioevo cinese, in accordo con il gusto esotizzante tipico del Settecento
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spirata a un lontano quanto misterioso Medioevo cinese, l’opera Teuzzone di Antonio Vivaldi, propone un’affascinante quanto improbabile storia d’amore e si inserisce in quella moda per l’esotismo e per l’Oriente particolarmente diffusa nel Settecento. Il libretto, opera del noto poeta Apostolo Zeno – influenzato anche dal Milione di Marco Polo –, ebbe tale successo che fu messo in musica anche da altri compositori prima di Vivaldi. Ma è con il «prete rosso» che la storia di Teuzzone, legittimo erede al trono imperiale, trovatosi coinvolto nei complotti orditi contro di lui da Zediana, vedova dell’imperatore cinese Troncone, arriva alla notorietà. Proprio grazie a un musicista che, a dispetto della sua fama di compositore prettamente strumentale, ebbe una vastissima carriera come operista, purtroppo terminata a Vienna nella piú totale miseria. Composta nel 1719 durante una permanenza di Vivaldi a Mantova, dove l’estinzione dei Gonzaga aveva portato il ducato sotto la sfera d’influenza del Sacro Romano Impero, la creazione dell’opera trovò un clima estremamente
favorevole, essendo destinata al Teatro Arciducale, ricco in finanze e a prova di «fiaschi»; una condizione privilegiata, a cui Vivaldi non era certo abituato nella sua amata Venezia, dove un compositore doveva farsi garante, anche in termini economici, della riuscita dell’opera.
Sotto la guida di Jordi Savall La registrazione del Teuzzone (OP 30153, 3 CD), affidata al gruppo Le Concert des Nations diretto dal grande specialista del barocco musicale Jordi Savall, si avvale di uno splendido gruppo di interpreti strumentali quanto vocali. Su tutti, primeggia Zelinda, affidata al contralto Delphine Galou, dalla voce calda, profonda e agile nelle colorature tipiche dello stile vivaldiano. Altrettanto bravi il baritono Furio Zanasi, nel ruolo di Sivenio, e la Zediana del mezzosoprano Raffaella Milanesi, dotati di un bellissimo colore vocale e di grande dolcezza espressiva. Splendida la direzione di Jordi Savall e del suo Concert des Nations che ci regalano una interpretazione avvincente e di grande valore artistico. F. B.
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In memoria di un ricco benefattore musica • Nella sua Missa de
Sancto Donatiano, scritta in memoria del mercante Donaas de Moor, il compositore fiammingo Jacob Obrecht fonde con sapienza tradizione monodica e tessuti vocali polifonici
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ruges, 14 ottobre del 1487, ore 19: nella cappella di famiglia dei de Moor, nella chiesa di S. Jacob, si celebra una Messa in memoria del ricco mercante Donaas de Moor, voluta dalla vedova Adriane de Vos, che ingaggia sei cantori, un organista e un suonatore di campane per accompagnare il rito. Adriane commissiona anche una Messa polifonica, dedicata a San Donaziano – patrono di Bruges –, e lo fa rivolgendosi al maestro di cappella di S. Jacob, il grande Jacob Obrecht, rinomatissimo compositore delle Fiandre come nel resto d’Europa. Questo il retroscena che si cela dietro la Missa de Sancto Donatiano di Obrecht, oggetto di una registrazione affidata alla Cappella Pratensis (FL 72414, 1 CD, distr. Milano Dischi), che, attraverso i testi del Proprium e dell’Ordinarium Missae, ricrea l’integrale dei brani musicali eseguiti per la Messa commemorativa.
Devoto a San Donaziano Obrecht, che si dedicò principalmente alla produzione di musica sacra, ha lasciato un considerevole numero di Messe su canto fermo. Una tecnica diffusa, che prevedeva l’utilizzo di
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brani preesistenti della tradizione monodica, in questo caso legata alla liturgia di San Donaziano – a cui de Moor fu molto devoto – e utilizzati in forme e modalità tra le piú varie come supporto nelle voci della struttura polifonica. Nella Missa in questione, brani del Proprium sono eseguiti in canto fermo (monodico) mentre l’Ordinarium Missae è eseguito polifonicamente con le quattro voci canoniche del superius, altus, tenor e bassus. A dispetto di quanto gli studi musicologici affermano circa la mancanza di aderenza tra linguaggio musicale e poeticotestuale in Obrecht, la Messa di San Donaziano è dominata da stupende linee melodiche e da un discorso musicale in cui le sezioni testuali si susseguono senza soluzione di continuità, in un magma sonoro di grandissima espressività. Tra i canti fermi utilizzati ve n’è uno d’origine profana, Gefft den armen gefangen umb got, una sorta di invito ad aiutare i piú deboli; una scelta testuale a testimonianza dell’intensa attività di benefattore svolta dallo stesso de Moor. Straordinario il fatto che Obrecht abbia incluso melodia e testo di questa canzone profana, contemporaneamente
al testo canonico dell’Ordinarium, impiegando una pratica ormai in totale disuso alla fine del XV secolo, ma qui riutilizzata proprio a rimarcare un aspetto legato alla vita del defunto.
La storia dell’opera L’eccezionalità costituita da fonti storiche che hanno permesso la ricostruzione fedele dell’evento è ben testimoniata da questa incisione, che si presenta nella doppia veste musicale e visiva. Il DVD che accompagna il disco, ripropone, infatti, in una pacata e discreta ricostruzione storica, le musiche eseguite nella sera del 14 ottobre del 1487 durante la Messa celebrata nella cappella dei de Moor. Nell’utilizzare solo voci maschili, il gruppo olandese Cappella Pratensis risulta particolarmente adatto all’esecuzione di queste musiche, creando un effetto di amalgama sonoro notevole che esalta appieno l’impasto polifonico. Un’incisione superba, sia per l’ascolto che per l’occhio, accompagnata anche da una serie di interessanti documentari sulla vita di de Moor e sulla genesi di questa Messa. F. B. ottobre
MEDIOEVO