petrarca cola di rienzo oboli di san pietro basilica di s.cecilia dossier Roma. la città medievale
Mens. Anno 17 n. 3 (194) Marzo 2013 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
MEDIOEVO n. 3 (194) marzo 2013
EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE
quando il papa rinuncia
Da Clemente I a Benedetto XVI
Petrarca visita la città di Pietro
PELLEGRINI ILLUSTRI
IN ESCLUSIVA
incontro con il medievista Jean-Claude Maire Vigueur
€ 5,90
Roma medievale alla riscoperta dell’età dimenticata
sommario
Marzo 2013 ANTEPRIMA
COSTUME E SOCIETÀ
attualità Abdicazioni
roma Tesori nascosti
appuntamenti Missione possibile Sua maestà, il toro I colori della penitenza Misteri e Perdoni L’Agenda del Mese
6 9 12 13 14 18
di Chiara Mercuri
76
luoghi itinerari
Roma medievale
Quel che resta di un borgo
di Jean-Claude Maire Vigueur
86
personaggi
22
22
protagonisti
86
Cola di Rienzo
Glorie e utopie di un tribuno
di Jean-Claude Maire Vigueur
36
36
alla scoperta di una città medievale
53
una storia da riscrivere
66
a colloquio con Jean-Claude Maire Vigueur, a cura di Chiara Mercuri e Andreas M. Steiner
Francesco Petrarca di Luca Pesante
roma
di Chiara Mercuri
STORIE Il poeta pellegrino
Dossier
roma S. Cecilia L’ultimo canto della martire di Agnese Morano
94
CALEIDOSCOPIO cartoline Una magnifica confusione
102
libri Il museo impossibile Storie di lavoro Lo scaffale
106 108 110
musica Una biografia in musica Interpretazioni a confronto Echi d’Oriente
111 112 113
Attualità
L’
argomento centrale di questo numero – intorno al quale gravita ampia parte degli articoli – è riassunto nel dossier-intervista allo studioso Jean-Claude Maire Vigueur, già direttore scientifico di «Medioevo» e autore di una decennale ricerca sulla città di Roma tra il XII e il XIV secolo, confluita in un volume per la prima volta pubblicato in Francia nel 2010 e di recente tradotto per i tipi dell’Einaudi con il titolo di L’altra Roma. Una storia dei romani all’epoca dei comuni. Si tratta di uno studio dai risvolti rivoluzionari, tali da modificare in maniera sostanziale il quadro della Città Eterna durante il Medieovo cui eravamo abituati fino a ieri: «un’altra Roma, accanto a quella dei papi – come ebbe a scrivere Maire Vigueur proprio sulle pagine di questa rivista, quando le sue indagini erano agli esordi – una Roma laica e operosa, aristocratica e popolare, che trova la sua identità contrapponendo al potere dei papi quello del Comune capitolino» (vedi «Medioevo» n. 36, gennaio 2000). È vera ironia della sorte, dunque, se – mentre mandiamo in stampa un numero sulla Roma medievale che ne riscopre l’identità laica e «antipapalina» – la cronaca quotidiana, con le vicende dell’abdicazione di papa Benedetto XVI, ci riporta, invece, proprio al centro di quell’antico e complesso universo di potere. Non potevamo, naturalmente, non tenerne conto. Nelle pagine che seguono riassumiamo per i nostri lettori i precedenti storici di una vicenda rara anche se non unica: quella dell’abbandono volontario del potere da parte del vicario di Cristo in terra. Andreas M. Steiner
Celestino V (al secolo Pietro dal Morrone) particolare di un affresco di Niccolò di Tommaso. Seconda metà del XIV sec. Napoli, Museo Civico di Castel Nuovo. Eletto il 5 luglio 1294, il papa decise di rinunciare al soglio di Pietro il 13 dicembre dello stesso anno. marzo
MEDIOEVO
Abdicazioni attualità • Quali furono le reali motivazioni
che, durante i secoli del Medioevo, spinsero un certo numero di pontefici a rinunciare volontariamente al proprio potere, derivatogli dall’essere la piú alta autorità della Chiesa di Roma?
L
a notizia dell’abdicazione di papa Benedetto XVI è di quelle che fanno scalpore. Si tratta di un evento rarissimo nella storia delle istituzioni e ancor di piú nella storia della Chiesa. Come si è letto nelle settimane scorse, Benedetto è il settimo papa che lascia la carica anzitempo. L’abdicazione è prevista dal Diritto Canonico: se infatti nessun uomo può deporre il papa, in quanto eletto –tramite il Collegio Cardinalizio – su indicazione della divina volontà, in merito all’abdicazione si legge: «Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata; non si richiede invece che qualcuno l’accetti». Nel testo appare chiaro che si vuole impedire che il papa sia indotto a questa scelta da pressioni esterne, argomento che ha spinto gli storici e i critici, anche di questi giorni, a dubitare delle abdicazioni che hanno saltuariamente, e per motivi molto diversi, segnato la storia della Chiesa. Il primo a lasciare il soglio pontificio sarebbe stato Clemente, quarto vescovo di Roma (89-97 circa). Le fonti non soccorrono gli storici sulla vicenda assai controversa. Clemente, infatti, stando ai leggendari Atti, sarebbe stato esiliato dall’imperatore Traiano in Tracia, dove avrebbe operato molti miracoli. Nella omonima basilica romana si conserverebbero le sue reliquie,
MEDIOEVO
marzo
trasportate dalla Crimea dai santi Cirillo e Metodio. La data della sua morte, da varie fonti attestata attorno al 99 o al 100, ma non certa, confermerebbe che il pontificato del suo successore Evaristo (sulla cui data di inizio, nel 97, concordano molti), sarebbe dunque cominciato mentre Clemente era esule. Il passaggio fu dunque, se i fatti andarono cosí, una necessità. Pur essendo vivo, la lontananza e l’esilio forzato richiedevano un nuovo presule: di qui la rinuncia e la nuova elezione.
Lotte e divisioni L’ipotesi della rinuncia di Ponziano (230-235) si basa sulla lettura come «discinctus» anziché «defunctus» di un passo del Catalogo Liberiano. Costui, papa sotto Alessandro Severo, e in seguito condannato alle miniere di Sardegna da Massimino, prima di partire per l’isola di Molara, di fronte alla città di Olbia, in cui sarebbe probabilmente morto di stenti, avrebbe rinunciato al pontificato per non lasciare la sede vacante. Il suo successore, Antero – se le notizie del Liber Pontificalis sono attendibili –, attesta con il suo unico anno di pontificato quanto fosse difficile superare indenni l’accanimento persecutorio che si scatenò nel III secolo, prima sotto i Severi a motivo di una generale crisi di identità religiosa dell’impero, poi, nella seconda metà del secolo, nel tentativo
estremo di ripristinare una coesione religiosa minata sia dal cristianesimo che dai culti misterici provenienti da Oriente. Dopo aver superato i terribili tempi di persecuzioni, la Chiesa si trovò a vivere i primi secoli del Medioevo, spettatrice non passiva delle migrazioni dei popoli germanici, della dissoluzione dell’impero d’Occidente, della nascita dei regni romano-germanici. All’indomani dell’inizio della guerra greco-gotica, sul soglio di Pietro siede Silverio (536-537), figlio del defunto papa Ormisda (514-523) e appena suddiacono. Le fonti lasciano intuire che la sua elezione fu voluta dal re goto Teodato che lo avrebbe imposto scavalcando i diritti dei legittimi elettori. Benché il compilatore del Liber Pontificalis fosse avverso ai Goti, il fatto stesso che l’elezione di un suddiacono non fosse la consuetudine e che Roma fosse turbata dalle vicende belliche, ci confermano le difficoltà che Silverio incontrò nei suoi primi mesi di pontificato. Nell’estate del 536 il generale bizantino Belisario risale la Penisola, sconfiggendo ripetutamente i Goti e giungendo a Roma su invito dello stesso Silverio. Ma, una volta preso possesso della città, probabilmente per volere imperiale, il papa fu accusato di connivenza coi Goti, esiliato e privato del seggio che passò, con l’appoggio del clero romano, a Vigilio, il diacono che lo aveva accusato.
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Attualità Tra le varie figure che sedettero sul soglio pontificio, quella di Benedetto IX (1033-1048) fu certamente una delle piú scomode. Essendo controversa la sua data di nascita, non possiamo affermare con certezza se fu eletto papa attorno ai 12 o ai 20 anni, comunque per volere del padre, il potente Alberico III dei conti di Tuscolo. La sua vicenda è intimamente legata alle lotte tra le famiglie romane per il controllo della tiara pontificia. Scacciato da Roma, a seguito di una rivolta capeggiata dalla famiglia degli Stefani, nel 1044 dovette cedere il papato a favore dell’antipapa Silvestro III, sostenuto dai Crescenzi. L’anno seguente però riottenne la carica, per cederla quasi subito all’arciprete Giovanni de’ Graziani. Membro di una famiglia di banchieri legati ai conti di Tuscolo, Giovanni de’ Graziani, divenne papa Gregorio VI (1045-1046), dietro pagamento di una cospicua somma di denaro. La situazione romana era segnata dalla divisione tra fazioni filo imperiali e anti imperiali. Nel giro di pochi mesi, infatti, in un sinodo indetto dall’imperatore Enrico III, fu deposto l’antipapa Silvestro III, mentre Gregorio VI rinunciava autonomamente alla tiara, lasciando cosí spazio all’elezione del nuovo papa, Clemente II, che depose finalmente anche Benedetto. Gregorio finí i suoi giorni prigioniero a Colonia, mentre Benedetto, che non aveva mai rinunciato alla tiara, alla morte di Clemente II (1047), riuscí a occupare brevemente Roma e la sede apostolica. L’anno seguente,
Errata corrige con riferimento al dossier «Carlo e il Califfo» (vedi «Medioevo» n. 192, gennaio 2013), desideriamo rettificare l’informazione fornita a p. 84 e riferita a Pipino, figlio di Carlo Magno: nell’810, infatti, il re d’Italia saccheggiò le isole della laguna, ma non «riuscí a conquistare Venezia», come si legge nell’articolo. Dell’errore ci scusiamo con i nostri lettori.
infatti, fu costretto a fuggire, mentre si insediava in Laterano il neo eletto papa Damaso II (1048), che lo scomunicò per simonia.
Il gran rifiuto Il pontefice che però meglio rappresenta il fenomeno abdicazione è certamente Pietro dal Morrone, poi Celestino V (1294), marchiato da Dante come «colui che fece per viltade il gran rifiuto». Ritiratosi come eremita sulla Maiella, Pietro diede vita alla congregazione dei futuri Celestini. Era il tempo in cui, dopo la morte di Nicolò IV (1288-1292), la sede era vacante da oramai due anni. Per sbloccare la situazione, il re di Napoli, Carlo II d’Angiò richiese all’eremita, che godeva di grande stima, di ammonire i cardinali riuniti in conclave. Ma il suo richiamo, espresso in una lettera, fu preso come un’involontaria candidatura e Pietro fu eletto papa il 5 luglio del 1294. Stabilita la sede papale a Napoli. Celestino avvertí i propri limiti nel gestire gli affari della Curia, circondato dagli uomini di Carlo II e, a quel che consta, dopo essersi consigliato col cardinale Benedetto Caetani (futuro Bonifacio VIII), decise di abdicare il 13 dicembre dello stesso anno. Bonifacio VIII, eletto dopo pochi giorni, per paura di contestazioni, lo fece rinchiudere nel castello di Fumone dove Celestino morí nel 1296. Nel corso del Grande Scisma d’Occidente a Innocenzo VI succedette Angelo Correr che assunse il nome di Gregorio XII (1406-1415). Egli tentò di raggiungere un compromesso per ricucire lo strappo dello scisma, ma invano. Nel 1409, il Concilio di Pisa elesse un terzo papa, Alessandro V. Gregorio tentò di opporsi alla decisione conciliare, ottenendo anche il sostegno imperiale, ma fu costretto ad abdicare a seguito delle decisioni del Concilio di Costanza (1415), nel corso del quale furono deposti anche i due antipapi, Benedetto XIII e Giovanni XXIII. Federico Canaccini
Per saperne di piú Liber Pontificalis Raccolta di biografie di papi il cui nucleo originario va da Pietro a Stefano V (891). Probabilmente l’opera deriva dall’accorpamento di due diverse fonti, una lista di papi (Index) e il cosiddetto Catalogus Liberianus (354). A queste, nei secoli, si aggiunsero altre e diverse opere, sistemate in una prima stesura complessiva attorno al VI secolo. Suddiacono Già nel III secolo, oltre al vescovo di Roma, stando a una lettera di papa Cornelio (231-253), esistevano, oltre a 46 presbiteri e 7 diaconi, altrettanti suddiaconi. Nel 527, al Concilio di Toledo, fu stabilito che il suddiacono – oltre al celibato – doveva aver superato il 21° anno di età. Dopo la riforma di Paolo VI, del 1972, il suddiaconato non è piú il primo tra gli «ordini maggiori», per il quale quanti ne erano insigniti dovevano recitare le Ore canoniche. Concilio di Pisa Nel 1408, in pieno Scisma d’Occidente, alcuni cardinali, fedeli a entrambi i pontefici, si riunirono a Pisa per porre fine alla singolare coesistenza. Nonostante le opposizioni dei due papi, e forte del numero dei cardinali convenuti, il concilio elesse papa Alessandro V, aggravando la situazione, giacchè ai due papi «deposti» se ne aggiunse un terzo. Concilio di Costanza Per risanare il grande Scisma (1378) fu elaborata la teoria conciliarista, la quale asseriva che il concilio, ricevendo autorità direttamente da Cristo, aveva il potere di giudicare il papa in caso di errore. Perciò nel 1415, a Costanza, venne proclamata la illegittimità di Giovanni XXIII, ristabilendo l’unità della chiesa, con l’elezione del suo successore, Martino V. marzo
MEDIOEVO
Ante prima
Missione possibile appuntamenti • Ferrara ospita
il Salone del Restauro. Un’occasione di confronto ormai consolidata, che quest’anno fa il punto sugli interventi da attuare quando il patrimonio viene colpito da eventi catastrofici
G
iunto alla sua XX edizione, il Salone del Restauro di Ferrara si avvia a ribadire il suo ruolo di manifestazione volta a fotografare un anno di impegno, lavoro e ricerche nel campo del restauro, della tutela, della manutenzione e della conservazione del patrimonio artistico e architettonico. Quest’anno, però, è stato scelto di introdurre un altro importante argomento nella discussione: la necessità di una strategia uniforme e
studiata per il recupero consapevole del patrimonio storico-artistico distrutto a seguito di eventi catastrofici. Un tema che, dopo gli eventi sismici che hanno interessato l’Emilia-Romagna nella scorsa primavera, il Salone del Restauro non poteva non affrontare.
Dopo l’emergenza Una volta terminata la fase iniziale dell’emergenza, della messa in sicurezza e della stima dei danni,
In alto Firenze. L’Opificio delle Pietre Dure. In basso Finale Emilia. Il Castello delle Rocche dopo il sisma del maggio 2012.
una volta tamponato il devastante effetto iniziale, si apre una seconda fase dell’emergenza, che riguarda il patrimonio artistico e architettonico. Saranno illustrate le operazioni di soccorso e messa in sicurezza attuate nell’immediato postterremoto del 20 e 29 maggio 2012, da cui prenderà avvio la riflessione sullle strategie e i modelli di intervento. L’edizione 2013 si concentrerà sulla necessità di istituire un piano d’azione preciso ed efficace, ma soprattutto uniforme per far fronte a situazioni in cui il restauro comporta la scelta di un modus operandi consapevole e standardizzato, nel momento in cui, come nel caso del sisma, vengano a mancare le strutture portanti e le stesse collocazioni delle opere d’arte vadano distrutte: si rende indispensabile intervenire in modo uniforme e ragionato, ed è quanto si intende discutere a Restauro 2013. Un altro dei temi principali del salone è la grande operazione di catalogazione, recupero e restauro che si sta svolgendo presso il Palazzo Ducale di Sassuolo, trasformato in un grande cantiere in cui sono state temporaneamente trasportate le circa 1250 opere d’arte danneggiate dal sisma, per poi agevolarne la reintegrazione nel loro tessuto d’appartenenza una volta riportate alle condizioni ottimali. (red.) Dove e quando
XIX Salone dell’Arte del Restauro e della Conservazione dei Beni Culturali e Ambientali Ferrara, Quartiere Fieristico, via della Fiera, 11 dal 20 al 23 marzo Orario 9,30-18,30 Info tel. 051 6646832; www.salonedelrestauro.com
MEDIOEVO
marzo
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Ante prima
Sua maestà, il toro appuntamenti • Dal 29 marzo, Arles ospita la tradizionale tauromachia, le cui
prime testimonianze risalgono al XV secolo: quattro giorni di spettacoli e mostre, e la possibilità di visitare una città ricca di monumenti romani e romanici
L
a Feria di Pasqua ad Arles apre la stagione di tauromachia francese. Nel Midi francese, oltre alle caratteristiche corride durante le quali i matadores affrontano i tori nell’arena, con o senza messa a morte dell’animale, si svolge anche la corsa camarghese o libera. Una gara di abilità e destrezza in cui, contrariamente a quanto accade nella corrida, che affida
Un progetto comune per il patrimonio Nel 1999 Arles e altre quattro città: Sbeïtla (Tunisia), Costanza (Romania), Mertola (Portogallo) e Mérida in Spagna si sono riunite per la promozione turistica del proprio patrimonio monumentale attraverso «Le circuit de la Romanité». Attuato grazie al finanziamento dell’Unione Europea, il progetto, considera i prestigiosi siti storici e archeologici, distribuiti nei cinque Stati, una risorsa per l’attività economica e lo sviluppo turistico di ciascuna località, nel pieno rispetto e salvaguardia delle diverse tradizioni culturali e popolari. Ad Arles sono stati creati cinque percorsi a piedi, dedicati rispettivamente alla visita della città antica, alla parte medievale, all’architettura di epoca rinascimentale e classica, ai ricordi e alle tracce lasciati da Vincent Van Gogh e ai beni monumentali cittadini inseriti nel Patrimonio Mondiale dell’Umanità.
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il ruolo di interprete principale all’uomo, protagonista della sfida è il toro. Ad Arles la piú antica testimonianza sulla corsa camarghese risale al 1402 e si collega al «gioco taurino» disputato nelle tenute, in cui animali di varie specie, anche domestiche, si mescolavano in combattimenti con i tori.
Piú adatti alle corse che alle corride Sul finire dell’Ottocento gli allevatori constatarono che il toro di razza camarga, chiamato dai locali biou, e differente dal suo affine spagnolo per la conformazione delle corna, la particolare morfologia e combattività, era piú adatto alle corse, che al lavoro e al macello. Cosí, ai primi del Novecento, tori di grandi qualità e uomini esperti nell’arte del razet (dal provenzale rasa, raser, «passare vicino», «a raso», a indicare l’azione del razeteur, che consiste nello sfiorare la testa del cocardier, ossia del toro, per strappargli le coccarde fissate alle corna) iniziarono ad affrontarsi in arene di fortuna. Si cominciò ad attribuire premi a colui che fosse riuscito a impossessarsene e, nei decenni successivi, furono adottati uno specifico lessico taurino e un regolamento per le coccarde e i ganci del razeteur professionista, accettato in pista solo se vestito di bianco. Quest’anno il programma della Feria dura quattro giorni, da venerdí 29 marzo a lunedí 1° aprile. Ricco di animazioni musicali e mostre dedicate alla tauromachia, marzo
MEDIOEVO
A sinistra Arles. Uno scorcio della cattedrale romanica di Saint-Trophime, il cui chiostro è considerato il piú bello della Provenza. Nella pagina accanto l’ingresso dei matadores a Les Arènes di Arles, in occasione della Feria. A destra due momenti della Procession de la Sanch di Perpignano. offre l’opportunità di seguire gli encierro (letteralmente «chiusura» dei tori nel recinto dell’arena dopo la corsa in strada). Spettacoli in cui i tori, inquadrati dai mandriani, i gardians a cavallo, corrono da un’estremità all’altra della via per l’abrivado, l’arrivo a piedi dal prato all’arena e, viceversa per il bandido, il ritorno al prato, sul finire del pomeriggio, dopo la corsa.
Da anfiteatro a fortezza Partecipare alla Feria di Pasqua può essere l’occasione per visitare una delle città piú incantevoli del Mediterraneo e ammirare monumenti romani e romanici significativi, tutelati dall’UNESCO come Patrimonio dell’Umanità, a cominciare proprio dall’anfiteatro romano o Les Arènes, che ospita le corride. Stretto tra le vie del centro storico, l’edificio sorse alla fine del I secolo d.C. Nel Medioevo, all’epoca delle invasioni saracene, fu trasformato in fortezza, e, nei secoli seguenti, ospitò abitazioni civili e botteghe. Infine, nel 1830, fu restituito alla sua funzione originaria: luogo di spettacolo e intrattenimento. A pochi passi si erge la cattedrale di Saint-Trophime, austero capolavoro del romanico provenzale. La chiesa, iniziata nel X secolo sul luogo della basilica di S. Stefano (V secolo), probabilmente utilizzando le pietre del vicino teatro romano, fu edificata a piú riprese e terminata in epoca gotica. L’imponente portale centrale della disadorna facciata a salienti rivela la sezione interna delle navate, piú alta e maestosa la centrale, ridotte le laterali e, accentuando la verticalità dell’insieme, ricorda vagamente la struttura di un arco di trionfo romano. L’iconografia dello splendido portale ha per soggetto il Giudizio Universale. All’interno della chiesa, il coro, aggiunto nel 1430, conserva l’unico esempio di deambulatorio con cappelle a raggiera in stile gotico provenzale. Il chiostro, con due ali romaniche e due gotiche, per l’eleganza delle forme e la raffinatezza delle sculture, è considerato il piú bello di tutta la Provenza. Chiara Parente
MEDIOEVO
marzo
I colori della penitenza L
a Pasqua è vissuta in maniera intensa in tutto il Rossiglione, provincia nel Sud della Francia, al confine con la Catalogna, di cui ha fatto parte fino al 1659 e tuttora conserva molte tradizioni. Centro principale della regione è Perpignano, insediamento romano sviluppatosi con connotazioni urbane solo in età medievale, dove la settimana di Pasqua ha il suo culmine nella suggestiva Procession de la Sanch, che si svolge fin dal 1461 nel pomeriggio del Venerdí Santo (quest’anno il 29 marzo). Nel Medioevo ogni confraternita cittadina organizzava una propria processione per scongiurare la peste, la guerra o la carestia, ma, nel tempo, le confraternite si sono unite, cosí da organizzarne soltanto una, sopravvissuta alle varie vicende politiche vissute da questo territorio, passato dal regno d’Aragona agli Asburgo di Spagna, fino a essere occupato nel 1642 dalle truppe francesi durante la guerra dei Trent’anni, un possesso sancito definitivamente con la pace dei Pirenei firmata nel 1659. La Processione della Sanch simboleggia la Passione di Cristo e scorre in mezzo a una folla silenziosa per le strette vie di Perpignano, al suono straziante del Miserere. Protagonisti del corteo religioso sono i penitenti della Confraternita del Preziosissimo Sangue di Nostro Signore Gesú Cristo, che sfilano dalla chiesa di Saint-Jacques fino alla Cattedrale cittadina con i Misteri, rappresentazioni delle scene della Passione di Cristo, portate da uomini indossanti un saio e cappuccio a punta, detto caparutxa, nero per i penitenti e rosso per i regidores (quest’ultimi «reggono» il corteo, impostandone il passo lento). L’abito del penitente prevede anche uno scapulaire, oggetto devozionale formato da due pezzi di tela benedetti uniti da un nastro, che si attacca attorno al collo e simboleggia l’appartenenza alla confraternita della Sanch. Il colore del cordone che funge da cinghia distingue invece la parrocchia d’origine del penitente: rosso per St-Jacques, bianco per Réal, verde e rosso per St-Joseph, verde per le Sante Spine di St-Mathieu, blu e rosso per St-Estève e St-Laurent della Salanque. Tiziano Zaccaria
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Ante prima
Misteri e Perdoni appuntamenti • La Settimana Santa a Taranto: un’occasione per assistere alle
pittoresche processioni delle confraternite religiose. Una tradizione scandita da riti simbolici, che affonda le radici fin nel Quattrocento
A
Taranto le confraternite religiose sono state una presenza rilevante fin dal XV secolo. Durante la successiva dominazione spagnola furono introdotti i riti della Settimana Santa, grazie al patrizio locale Don Diego Calò, che nel 1603 fece costruire i primi Misteri, le statue del Gesú Morto e dell’Addolorata. La tradizione è arrivata fino ai giorni nostri, anzi, negli ultimi anni ha ripreso vigore, tanto che sono nate alcune nuove confraternite e oggi se ne contano oltre venti. La Settimana Santa inizia la Domenica delle Palme, quando le due principali confraternite cittadine, Maria SS. Addolorata e S. Domenico, e Maria SS. del Carmine, convocano i propri iscritti per le «aste». I confratelli che fanno le offerte migliori si aggiudicano l’onore di portare i Misteri nelle due rispettive processioni: il
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Pellegrinaggio della Vergine Addolorata e la Processione dei Sacri Misteri. Nel corso dell’anno il ricavato delle aste viene poi devoluto a favore di iniziative benefiche.
Il dondolio dei penitenti Il primo rito religioso avviene nel pomeriggio del Giovedí Santo, quando i Perdoni, coppie di confratelli penitenti del Carmine, escono a intervalli dalla chiesa del Carmine per effettuare un pellegrinaggio verso le principali chiese del Borgo Antico e del Borgo Nuovo, nelle quali sono allestiti gli altari, detti «Sepolcri». Scalzi, i penitenti indossano un camice bianco, una mantellina color crema abbottonata sul davanti, una cinghia di cuoio nero in vita, un cappuccio bianco, un cappello nero e guanti bianchi, e portano un rosario nero appeso in vita con
medaglie sacre e un crocifisso, una corona di sterpi poggiata sul capo e una mazza, alta circa 2 m, che simboleggia l’antico bastone dei pellegrini che si recavano a Roma per ottenere il perdono dei peccati. Un dondolio, la nazzecata, caratterizza il loro lento incedere.
Al ritmo della Troccola Al rito dei Perdoni segue il Pellegrinaggio dell’Addolorata, processione che parte alla mezzanotte tra il Giovedí e il Venerdí Santo dalla chiesa di S. Domenico Maggiore. Il corteo religioso procede per le strade del Borgo Antico e del Borgo Nuovo fino al rientro, in tarda mattinata, nella chiesa di partenza. I confratelli procedono lenti, accompagnati da marce funebri, con una Troccola (strumento musicale in legno), le Pesàre (che rappresentano le pietre scagliate verso Gesú), le Croci dei Misteri, il Trono e la statua della Madonna Addolorata. L’ultimo atto della Settimana Santa tarantina è la Processione dei Misteri, che esce alle 17,00 del Venerdí Santo dalla chiesa del Carmine, inoltrandosi per le strade del Borgo Nuovo con le statue che simboleggiano la Passione di Gesú. Dopo una sosta nella chiesa di S. Francesco da Paola, il mesto corteo religioso rientra nel Carmine la mattina del Sabato Santo col rito del Troccolante: il Perdono incappucciato che guida la processione batte per tre volte con la sua mazza sulla porta della chiesa. Alla mezzanotte del Sabato Santo i rintocchi delle campane annunciano la Resurrezione di Cristo e la fine dei riti. T. Z. marzo
MEDIOEVO
Una fiera per rivivere il passato T
orna «Armi & Bagagli. Mercato Internazionale della Rievocazione Storica», un appuntamento imperdibile per operatori e appassionati della rievocazione storica. Giunta alla sua IX edizione, la manifestazione si svolge il 23 e 24 marzo nel centro fieristico di Piacenza Expo e si articola in piú momenti paralleli. L’artigianato storico per la rievocazione. È prevista la presenza di artigiani e fornitori provenienti da Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Olanda, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Spagna, Svizzera, Ucraina e Ungheria. Grazie a loro, si potranno trovare repliche di armi antiche e moderne, armature da legionario romano e da homo d’arme medievale, calzature storiche, uniformi ed equipaggiamenti che replicano gli originali dell’epoca napoleonica, del Risorgimento, o delle guerre mondiali. E ancora abiti, copricapo, cinture, scarselle, pelli, panche e tavoli, coppe in vetro, vasi in ceramica, lanterne, fino a complementi di arredo e tende con cui allestire accampamenti storici dal I al XX secolo.
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informazione pubblicitaria
MEDIOEVO
«Battle of the Nations». Novità dell’edizione 2013 di Armi & Bagagli è lo svolgimento delle selezioni per i titolari della nazionale italiana che parteciperà al «Battle of the Nations 2013», torneo internazionale di combattimento storico che si svolgerà in Francia nel mese di maggio. Domenica, in un’area appositamente allestita, si affronteranno combattenti muniti di armi e armature del Basso Medioevo, coerenti con il periodo storico 1375-1400. Ogni combattimento sarà composto da tre scontri singoli con diverse armi, nello specifico spada lunga, spada e brocchiere e spada e scudo. Spettacolo e animazione. Gruppi storici e di spettacolo animeranno i padiglioni dei due giorni di fiera con duelli ed esibizioni di falconeria. Giullari, giocolieri, musicisti e danzatori faranno assaporare la magia della storia, esibendosi su un palco in legno tipico della tradizione, che ospiterà anche le tradizionali commedie. Palii e giochi storici. Anche per l’edizione 2013 sarà presente una sezione a cura della Federazione Italiana Giochi Storici, che riunisce città in cui si svolgono annualmente palii, feste e giochi legati alle piú antiche tradizioni del nostro Paese. Per i bambini. Per avvicinare i piú giovani alle vecchie tradizioni e far vivere loro la storia e la sua rievocazione in prima persona saranno allestite due aree: una con laboratori manuali e l’altra con giochi della tradizione medievale. Gli incontri. Nella sala convegni, domenica pomeriggio, si svolgerà l’assemblea nazionale della sezione italiana del CERS (Consorzio Europeo Rievocazioni Storiche), organizzatore dell’evento insieme alla Estrela srl. Inoltre nell’arco del week end verranno proposti altri momenti di incontro e di studio nonché presentazioni di libri a tema storico. Info: tel. 345 7583298 oppure 333 5856448; e-mail: info@armiebagagli.org; www.armiebagagli.org
agenda del mese
Mostre roma Sulla Via della Seta. Antichi sentieri tra Oriente e Occidente U Palazzo delle Esposizioni fino al 10 marzo
Oltre 150 manufatti originali – opere d’arte, tessuti, parati, oggetti in vetro e bronzo – oltre a modelli, mappe, ricostruzioni, percorsi interattivi e video installazioni, raccontano la storia dell’intreccio di itinerari da Oriente a Occidente e viceversa, riassunti poi sotto il suggestivo termine di «Via della Seta». Molti i reperti esposti per la prima volta, come la dalmatica del parato di papa Benedetto XI, confezionata con sete asiatiche e tessuti italiani di ispirazione orientaleggiante; la fiasca cinese ottagonale del Museo di Arte Medievale di Arezzo, tra i primi vasi decorati in bianco e blu approdati in Europa; il manto di San Secondo del XIII secolo, proveniente da Venezia, una delle prime testimonianze delle manifatture della seta in Italia; il manuale di mercatura di Francesco Balducci Pegolotti, il piú famoso e completo
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a cura di Stefano Mammini
manuale medievale a uso dei mercanti compilato dall’uomo d’affari fiorentino Balducci Pegolotti attorno al 1330-40. info www. palazzoesposizioni.it milano Costantino 313 d.c. U Palazzo Reale fino al 17 marzo
protagoniste dell’età di Costantino: l’esercito, la Chiesa e la corte imperiale. La mostra si chiude con una ricca rassegna di documenti e dipinti, che ricordano la santa imperatrice dall’età bizantina al Rinascimento, dalle pergamene del IX secolo ai quadri di grandi artisti del Rinascimento che testimoniano il culto trionfale della Croce, indissolubilmente legato alla scelta operata da Costantino nel 313. info e prenotazioni tel. 02 54917; www.ticket.it/costantino
ravenna La rassegna celebra l’anniversario dell’editto con cui, nel 313 d.C., Costantino dichiarava lecito il cristianesimo. Il percorso si articola in sei sezioni che approfondiscono tematiche storiche, artistiche, politiche e religiose: dalla Milano capitale imperiale, alla conversione di Costantino, ai simboli del suo trionfo. Una sezione importante è dedicata a Elena, madre di Costantino, imperatrice e santa, per mettere in risalto la singolarità di questa figura femminile all’interno della corte imperiale e della storia della Chiesa. Una parte consistente dell’itinerario espositivo è inoltre riservata alla rivoluzione politica e religiosa operata dall’imperatore, e sono attentamente analizzate anche le tre istituzioni
I libri del Silenzio. Scrittura e spiritualità sulle tracce della storia dell’ordine camaldolese a Ravenna, dalle origini al XVI secolo U Biblioteca Classense fino al 1° aprile
Per i mille anni di fondazione dell’eremo di Camaldoli (Arezzo), voluto da san Romualdo (952-1027), la Biblioteca Classense di Ravenna ripercorre la storia dell’abbazia di Classe, situata nella città natale del fondatore dell’Ordine. Allestita con manoscritti miniati, testi a stampa, documenti, la mostra ripropone la fortuna, i legami, la vivacità intellettuale del centro ravennate, con un’attenzione particolare per il periodo compreso fra il XIII e il XVI secolo. Nel 1138 il monastero benedettino entra nell’Ordine di Romualdo e si amplia costantemente, diventando uno dei cenobi piú importanti in Italia. Fiore all’occhiello del monastero è una libreria ricchissima, dotata di manoscritti e libri a stampa, voluti dal bibliofilo Pietro
Canneti (1659-1730). E questa raccolta, che la mostra ricostruisce, aveva sede proprio nell’attuale Biblioteca. info tel. 0544 482112; www.classense.ra.it milano I Bembo. Dal cuore del Ducato di Milano alle corti della valle del Po U Pinacoteca di Brera fino al 7 aprile
Dopo la fortunata esposizione del 1999, non vi è stata piú occasione di riproporre al pubblico le 48 carte del mazzo di tarocchi braidense, detto Brambilla dal nome della famiglia milanese che l’ha posseduto nel corso dell’Ottocento e di buona parte del Novecento. Realizzato tra il 1442 e il 1444 circa dalla bottega cremonese di Bonifacio Bembo per il duca di Milano Filippo Maria Visconti, il mazzo è stato acquistato nel 1971 dallo Stato per la Pinacoteca. Per ragioni conservative, legate al materiale costitutivo (cartoncino pressato, rivestito di un sottile marzo
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strato di gesso, con foglia d’oro o d’argento e coloritura a tempera), i tarocchi non possono essere esposti con continuità. A fare corona ai tarocchi dei due mazzi bembeschi presenti in mostra – oltre a quello di Brera, è esposto quello dell’Accademia Carrara di Bergamo –, sono esposte, grazie alla disponibilità e generosità dei prestatori, poche ma significative opere, selezionate per tentare di delineare, alla luce delle piú recenti riflessioni critiche, le scelte espressive dei vari fratelli. info tel. 02 72263.257; e-mail: sbsae-mi.brera@ beniculturali.it; www. brera.beniculturali.it trento Un vescovo, la sua cattedrale, il suo tesoro. La committenza artistica di Federico Vanga (1207-1218) U Museo Diocesano Tridentino fino al 7 aprile
Il Museo Diocesano Tridentino rende omaggio a Federico Vanga, principe vescovo di Trento tra il 1207 e il 1218, nonché ispiratore della cattedrale di S. Vigilio, di cui ricorre l’VIII centenario della fondazione. Discendente da una nobile famiglia della Val Venosta, imparentata con le piú potenti dinastie dell’area alpina, Vanga – che l’imperatore Federico II definí «nostro consanguineo» – negli anni del suo episcopato giocò un ruolo decisivo sul piano pastorale, politico, economico, legislativo. Non meno importanti furono le iniziative promosse in ambito artistico: edifici, codici miniati, oggetti d’oreficeria ci tramandano il ricordo indelebile di uno dei piú interessanti mecenati del Medioevo alpino e attestano le relazioni ad ampio raggio con centri di produzione artistica tra i piú famosi e di piú alto livello che il presule seppe coltivare. info tel. 0461 234419; e-mail: info@ museodiocesano tridentino.it; www.museodiocesano tridentino.it
torino Tesori del patrimonio culturale albanese U Palazzo Madama fino al 7 aprile
Organizzata per il centenario dell’indipendenza dell’Albania (1912), la mostra propone un itinerario attraverso il
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patrimonio storicoculturale dell’Albania dalla preistoria al XVII secolo e consente di riscoprire le componenti europee di alcune delle civiltà formatesi sulla costa orientale dell’Adriatico. Centocinquanta opere raccontano la vicenda millenaria della sedimentazione e della trasformazione della cultura di un popolo che affonda le sue radici nell’età preistorica per poi aprirsi alle influenze greco-ellenistiche, a quelle della Roma imperiale e, nel Medioevo, accogliere i segni della civiltà dei Comuni italiani, fino all’ingresso nell’orbita dell’impero ottomano (1479). Le tracce di questa lunga trama storica sono documentate da reperti archeologici di uso comune e da oggetti di culto. Tra questi ultimi, molti dei quali esposti per la prima volta, spicca un magnifico nucelo di icone: opere
che, pur nella fissità dei modelli figurativi, illustrano la ricezione della pittura italiana del Trecento e le trasformazioni apportate dal maestro Onufri e dalla sua scuola, confermando l’estrema permeabilità della cultura albanese. info tel. 011 4433501; www. palazzomadamatorino.it Modena Le vesti di sempre. Gli abiti delle mummie di Roccapelago e Monsampolo del Tronto. Archeologia e collezionismo a confronto U Musei Civici fino al 7 aprile
Tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, gli archeologi trovarono nella cripta della chiesa parrocchiale di Roccapelago numerosi corpi perfettamente mummificati e ancora vestiti con i propri abiti, monili e medagliette
devozionali. Quel rinvenimento sensazionale ha offerto lo spunto per una nuova, suggestiva esposizione, incentrata sugli abiti indossati dalla piccola comunità dell’Appennino modenese tra la seconda metà del Cinquecento e la prima metà del Settecento. Un vestitino da bambino, alcune camicie con ricami, sudari in tessuti poveri e cuffie in piú pregiati tessuti di seta e velluto saranno messi a confronto con gli abiti indossati da altre mummie dello stesso periodo rinvenute a Monsampolo del Tronto (AP). Viene proposto anche un ulteriore raffronto tra gli antichi tessuti restituiti dalle indagini archeologiche e i tessuti e le raccolte d’arte ed etnografiche del Museo Civico di Modena. info tel. 059 20331.0125; e-mail: museo.arte@ comune.modena.it; www.comune.modena.it/ museoarte
Bitonto Tiziano, Bordon e gli Acquaviva d’Aragona. Pittori veneti in Puglia e fuoriusciti napoletani in Francia U Galleria Nazionale della Puglia «Girolamo e Rosaria Devanna» fino all’8 aprile
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agenda del mese Con Venezia le città pugliesi mantennero un legame privilegiato: commerciale e politico, quale principale approdo, insieme alla Francia, di tanti esiliati, simbolo di libertà rispetto al dominio assolutistico e alla mentalità stessa del regno di Spagna, ma anche di gusto e committenza, avendo creato nel campo artistico forme e linguaggi originali rispetto agli altri centri del Rinascimento in Italia. Da qui la presenza capillare dei pittori veneziani in tutta la regione. Al centro della mostra è un inedito e notevole dipinto per la prima volta attribuito a Paris Bordon, un ritratto di Giulio Antonio II Acquaviva d’Aragona, attualmente in raccolta privata inglese e mai esposto prima d’ora. Un dipinto importante, che offre lo spunto per rileggere i legami storici e artistici dell’antica casata feudale degli Acquaviva d’Aragona con le città di Bitonto, di Conversano e dei territori pugliesi appartenenti al feudo del potente casato e, nel contempo, riporta l’attenzione sui piú importanti dipinti veneziani giunti in terra di Bari tra il quarto e il sesto decennio del Cinquecento. info e prenotazioni tel. 080 099708; e-mail: gallerianazionaledella puglia@beniculturali.it; www.gallerianazionale puglia.beniculturali.it
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roma IL CAMMINO DI PIETRO U Castel Sant’Angelo fino al 1° maggio
Prima ancora che un percorso d’arte, «Il Cammino di Pietro» è un viaggio della mente e del cuore che avvolge nella potenza suggestiva di un racconto, in una rappresentazione drammatica di cosa sia la fede, vista attraverso la vicenda l’apostolo Pietro. Quaranta opere, da Oriente e Occidente, ripercorrono la storia della cristianità dal IV fino al XX secolo. In esposizione dipinti e sculture di artisti tra cui Lorenzo Veneziano, Vitale da Bologna, Marco Basaiti, Garofalo, Jan Brueghel, Giorgio Vasari, Georges de La Tour, Guercino, Gerhard van Hontorst, Dirk Van Baburen, Luca Giordano, Mattia Preti, Guido Reni.
info tel. 06 6896003; www.annusfidei.va, www.mondomostre.it, www.castelsantangelo.com
padova Pietro Bembo e l’invenzione del Rinascimento U Palazzo del Monte di Pietà fino al 19 maggio
La mostra dedicata a Pietro Bembo riporta a Padova, dopo cinque secoli, i capolavori della collezione che l’intellettuale veneto, poi divenuto cardinale, aveva riunito nella propria casa, ancora esistente nell’attuale
via Altinate (oggi sede del Museo della Terza Armata). A partire dai primissimi anni Trenta del Cinquecento, Bembo aveva riunito dipinti di maestri come Mantegna e Raffaello, sculture antiche di prima grandezza, gemme, bronzetti, manoscritti miniati, monete rare e medaglie. La ricchezza e varietà degli oggetti d’arte, raccolti per gusto estetico, ma anche come preziose testimonianze per lo studio del passato, rese agli occhi dell’Europa del tempo la casa di Bembo come «la casa delle Muse» o «Musaeum», precursore di quello che sarà il moderno museo. Per una breve stagione, proprio grazie all’influenza di Bembo e al suo gusto collezionistico, Padova divenne baricentro e crocevia della cultura artistica internazionale, perché in città prese vita qualcosa di inedito, che ebbe enormi ripercussioni nei secoli a venire, un nuovo modo di raccogliere e presentare non solo l’arte, ma la conoscenza stessa: nacque il Museo, termine che da allora diviene universale. Dopo la morte di Bembo i capolavori vennero venduti dal figlio Torquato e si dispersero nel mondo e oggi sono conservati nei grandi musei internazionali, che li concederanno eccezionalmente in prestito in occasione
della mostra padovana. info tel. 049 8779005; e-mail: info@coopbembo. com; www.mostrabembo.it londra Barocci: Brilliance and Grace U The National Gallery fino al 19 maggio
Prima importante rassegna monografica dedicata all’arte di Federico Barocci (1535-1612), la mostra comprende la maggior parte dei dipinti e delle pale d’altare, insieme alle sequenze di disegni preparatori. Fra le opere piú importanti, ci sono le pale d’altare piú spettacolari dell’artista: la Sepoltura di Cristo, da Senigallia, e l’Ultima Cena, dipinta per la cattedrale di Urbino. Al loro fianco vengono presentate altre due meravigliose pale d’altare piú recenti, commissionate per le chiese romane: la Visitazione, proveniente dalla Chiesa Nuova, e l’Istituzione dell’Eucarestia, da S. Maria sopra Minerva. L’esposizione include anche i ritratti piú spettacolari di Barocci, dipinti devozionali piú marzo
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piccoli, il suo unico dipinto di soggetto profano (Enea Fugge da Troia) e oltre 65 disegni preparatori, studi a pastello e schizzi a olio, tecniche di cui l’artista fu pioniere. info tel. +44 (0) 20 77472885; e-mail: information@ng-london. org.uk; www. nationalgallery.org.uk firenze NORMA E CAPRICCIO. SPAGNOLI IN ITALIA AGLI ESORDI DELLA «MANIERA MODERNA» U Galleria degli Uffizi fino al 26 maggio (dal 5 marzo)
«Cosí pure dichiaro che nessuna nazione e nessun popolo (con l’eccezione di uno o due spagnoli) può assimilare perfettamente né
imitare la maniera di dipingere italiana (che è quella della Grecia antica), senza essere subito riconosciuto facilmente per straniero, per quanto si sforzi e lavori». Queste parole di Michelangelo Buonarroti, raccolte nei Dialoghi romani di Francisco de Hollanda (Lisbona, 1548), hanno ispirato il primo evento espositivo dedicato all’attività degli artisti spagnoli approdati in Italia fra l’inizio del Cinquecento e gli anni Venti del secolo, partecipi del fervido clima culturale animato a Firenze, a Roma e a Napoli. Nel numero di queste personalità, spinte al viaggio da un vorace desiderio di confronto con i testi fondamentali dell’arte
moderna, si contano figure come quelle di Alonso Berruguete, di Pedro Machuca, di Pedro Fernández (meglio noto come lo Pseudo-Bramantino), di Bartolomé Ordóñez e Diego de Silóe, provenienti da diverse località della Penisola iberica – Palencia, Toledo, Murcia e Burgos – e capaci di imporsi come protagonisti del «manierismo» europeo. info tel. 055 2388651; www.polomuseale.firenze.it. Roma Brueghel. Meraviglie dell’arte fiamminga U Chiostro del Bramante fino al 2 giugno
Attraverso le opere di Pieter Brueghel il Vecchio e della sua genealogia, la mostra
documenta l’epoca d’oro della pittura fiamminga del Seicento, alla ricerca del genio visionario di ben cinque generazioni di artisti. Un’opportunità imperdibile per apprezzare opere straordinarie, per la prima volta in Italia, come Le sette opere di misericordia di Pieter Brueghel il Giovane, I sette peccati capitali o Il ciarlatano della scuola di Hieronymus Bosch. E proprio dal rapporto che con Bosch ebbe il capostipite dei Brueghel, Pieter il Vecchio, inizia il racconto della dinastia che, con la sua visione disincantata dell’umanità, ha segnato la storia dell’arte europea dei
secoli a venire. Illustratore di un mondo agreste divenuto simbolo di una lettura sul senso della vita umana che già all’epoca riscosse incredibile successo presso la committenza internazionale, dopo la sua morte, i registri del comico e del grottesco, tipici dei suoi lavori, assunsero una valenza educativa che venne quindi raccolta dai figli, Pieter il Giovane e Jan il Vecchio. info e prenotazioni tel. 06 916508451 www.brueghelroma.it; biglietteria on line www.ticket.it/brueghel
personaggi francesco petrarca
Il poeta
pellegrino
Nel 1300 Bonifacio VIII indice il primo anno santo della storia, un evento di portata epocale, con riflessi importanti non soltanto per la storia della Chiesa. Da quella prima volta in poi, l’anelito all’indulgenza, infatti, spinge al viaggio devozionale migliaia di fedeli, che da ogni parte d’Europa convergono a Roma. E tra i tanti, nel 1350, c’è anche Francesco Petrarca: sedotto dalla città di Pietro, il poeta la visita piú volte e la descrive con toni pieni di ammirazione per le sue nobili vestigia di Luca Pesante 22
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er l’uomo del Medioevo, il viaggio ha sempre origine da un impulso di trasgressione e di conoscenza: un prova dura, che offre la possibilità di riscattarsi da una condizione esistenziale di frustrazione, incapacità morale, identità perduta. Nei secoli dopo il Mille almeno tre circostanze determinano una forte intensificazione dei viaggi: lo sviluppo dell’economia di mercato, le crociate, e la pratica di pellegrinaggio in occasione dei giubilei. In quest’ultimo caso – già dal 1300 – si compie una delle piú marzo
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Francesco Petrarca nel ritratto di Andrea del Castagno. 1450 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi.
grandiose manifestazioni di massa della cristianità medievale, che fu, pertanto, anche evento politico ed economico. Con essa si celebrava, innanzitutto, il trionfo di Roma e del papato, ma rappresentava anche la risposta a una forte istanza del popolo cristiano che dal XII secolo, cioè dalla nascita di un nuovo luogo dell’aldilà, chiamato Purgatorio, aveva iniziato a confrontarsi con la propria vita ultraterrena. E proprio con la concessione di un’indulgenza la Chiesa poteva abbreviare la durata dei tormenti «purgatori» che ogni peccatore avrebbe sofferto post mortem, un privilegio che accrebbe ancor piú il potere del papa. Il secondo giubileo della storia del cristianesimo, quello del 1350, non fu indetto da papa Clemente VI di sua iniziativa. Come del resto avvenne anche per il primo solenne «centesimo anno», proclamato da Bonifacio VIII nel 1300, il papa volle in primo luogo assecondare e soddisfare le aspettative del popolo romano e di molti pellegrini dell’Occidente cristiano.
Grandi speranze
In alto San Gimignano (Siena), chiesa di S. Agostino. Veduta della città di Roma, particolare dalle Storie di Sant’Agostino affrescate da Benozzo Gozzoli (1420-1497). 1465.
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Clemente VI (pontefice dal 1342 al 1352) si trovava nel palazzo dei papi di Avignone quando, poco dopo la sua elezione, ricevette da Roma un gruppo di diciotto ambasciatori, tra i quali due senatori, incaricati di offrirgli i titoli di senatore, sindaco, capitano e difensore del popolo romano, insieme alla richiesta di riportare la corte papale dalle rive del Rodano a quelle del Tevere e di indire un giubileo nel 1350. Sul ritorno del papa a Roma gli stessi ambasciatori non confidavano piú di tanto, mentre nella richiesta del giubileo le speranze erano molte. E infatti, dopo averne discusso con i cardinali nel corso di alcuni concistori, il 27 gennaio del 1343 il papa promulgò la bolla Unigenitus Dei filius,
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personaggi francesco petrarca con cui istituiva il grande evento (Petrarca lo chiama il «perdono») a Roma per il 1350. Accogliendo la richiesta dei Romani, il papa ordinò inoltre che, da allora in poi, il giubileo si celebrasse ogni cinquant’anni, in considerazione anche della brevità della vita media, a differenza di quanto disposto da Bonifacio VIII nel 1300, che prevedeva la concessione dell’indulgenza plenaria giubilare soltanto ogni cento anni. Il papa dunque offriva la possibilità di una remissione totale dei peccati in occasione del giubileo in modo che potesse «crescere la pietà del popolo romano e di tutti i fedeli». Rispetto al 1300 era ora possibile ottenere l’indulgenza anche nella basilica di S. Giovanni in Laterano, che si aggiunse a S. Pietro in Vaticano e S. Paolo fuori le Mura. Per il resto le modalità rimasero invariate: per i Romani era indicata la visita delle basiliche prescritte una volta al giorno per un periodo di trenta giorni mentre per i pellegrini venuti da fuori sarebbero stati sufficienti quindici giorni.
Cosí i cristiani d’Europa vengono al perdono
Santi, sovrani e poeti
Questo giubileo fece registrare molte presenze illustri: il re d’Ungheria Luigi I, che lasciò un’offerta di 4000 scudi, santa Brigida di Svezia, santa Caterina da Siena, Cola di Rienzo, il poeta Buccio di Ranallo e Francesco Petrarca. Chi non riuscí a mettersi in viaggio verso Roma avanzò la richiesta direttamente al pontefice di ricevere un Privilegio, ossia la possibilità di ottenere l’indulgenza pur restando lontano da Roma: cosí fecero anche il re di Cipro, il re di Castiglia – che motivò la richiesta mostrando la necessità di non lasciare indifese le frontiere con il regno islamico di Granada –, Elisabetta d’Ungheria, i membri della famiglia reale d’Inghilterra, e l’intero popolo dell’isola di Maiorca che, pur evitando i pericoli di un lungo viaggio verso Roma, ottenne l’indulgenza dopo aver versato nelle casse della Camera Apostolica una somma di 30 000 fiorini da destinarsi a opere pie. La Roma del XIV secolo non era
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Ecco come Matteo Villani, nella Cronica, dà conto del diffondersi del desiderio di recarsi a Roma in pellegrinaggio: «Nelli anni di Cristo della sua Natività MCCCL, il dí di Natale, cominciò la santa indulgenzia a tutti coloro che andarono in pellegrinaggio a Roma, faccendo le vicitazioni ordinate per la santa Chiesa alla bassilica di Santo Pietro e di San Giovanni in Laterano e di Santo Paolo fuori di Roma: al quale perdono uomini e femine d’ogni stato e dignità concorse di Cristiani, maravigliosa e incredibile moltitudine, essendo di poco tempo inanzi stata la generale mortalità, e ancora essendo in diverse parti d’Europa tra’ fedeli cristiani; e con tanta divozione e umiltà seguieno i romeaggio [pellegrinaggio] che
con molta pazienza portavano il disagio del tempo, ch’era smisurato freddo, e ghiacci e nevi e aquazzoni, e le vie per tutto disordinate e rotte, e i camini pieni di dí e di notte d’alberghi, e le case sopra i camini non erano sofficienti a tenere i cavalli e li uomini al coperto (...). Per li ostellani non si potea rispondere, non che a dare il pane, il vino e la biada, ma di prendere i denari. E molte volte avenne che i romei [pellegrini] volendo seguire il loro camino, lasciavano i denari del loro scotto sopra le mense, seguendo il loro viaggio: e non era chi li togliesse de’ viandanti, infino che dall’ostelliere venia chi li togliesse. Nel camino non si facea riotte né romori ma comportava e aiutava l’uno a l’altro con pazienza e conforto. marzo
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A destra Roma, basilica di S. Giovanni in Laterano. Veduta dell’abside con la cattedra papale cosmatesca del XIII sec. (la sistemazione del luogo è però frutto dell’intervento voluto da Leone XIII alla fine dell’Ottocento). Nella pagina accanto miniatura raffigurante pellegrini giunti a Roma per il giubileo del 1300, dalle Croniche di Giovanni Sercambi. Inizi del XV sec. Lucca, Archivio di Stato.
E cominciando alcuni ladroni a rubare e a uccidere in terra di Roma, da’ romei medesimi erano morti e presi, atando a soccorere l’uno l’altro (...). La moltitudine de’ Cristiani ch’andavano a Roma era impossibile a numerare: ma per stima di coloro ch’erano risedenti nella città che il dí di Natale, e di giorni solenni apresso, e nella quaresima sino alla Pasqua della santa Resurressione, al continovo fossono in Roma romei dalle mille migliaia alle dodici centinaia di migliaia. E poi per l’Asensione e Pentecosta piú di DCCCM; essendo i camini pieni il dí e la notte come detto è. Ma venendo la state cominciò a mancare la gente per l’acupazione delle ricolte, e per lo disordinato caldo; ma non sí che, quando v’ebbe meno romei, non vi fossono continovamente ogni dí piú di CCM di uomini forestieri. Le vicitazioni delle tre chiese, movendosi d’onde catuno era albergato, e tornando a casa, undici miglia di via. Le vie erano sí piene al continovo, che convenia a catuno seguitare la turba a piede e a cavallo (...). I romei ogni dí della vistazione offerevano a catuna chiesa, chi poco e chi assai come li parea. Il santo sudario di Cristo si mostrava nella chiesa di San Piero, per consolazione de’ romei, ogni domenica e ogni dí di festa solenne; sicché la maggiore parte di romei il potevano vedere. La pressa v’era al continovo grande e indiscreta. Perché piú volte avvenne, che quando due, quando quattro, quando sei, e talora fu che dodici vi si trovarono morti dalle strette, e dallo scalpitamento delle genti.
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I Romani tutti erano fatti albergatori, dando le sue case a’ romei a cavallo; togliendo per cavallo il dí un tornese grosso, e quando uno e mezzo, e talvolta due, secondo il tempo, avendosi a comprare per la sua vita e del cavallo ogni cosa un romeo, fuori che il cattivo letto. I Romani per guadagnare disordinatamente, potendo lasciare avere abondanza e buono mercato d’ogni cosa da vivere a’ romei, mantennono carestia di pane e di vino e di carne sí tutto l’anno, facendo divieto che’ mercatanti non vi conducessono vino forestiere, né grano né biada, per vendere piú cara la loro. Valsevi al continovo uno pane grande di dodidi o diciotto once a peso denari dodici. E ‘l vino soldi tre, quattro, e cinque il pitetto, secondo ch’era migliore. Il biado costava
un rugghio, ch’era dodici profende comunali, a comperallo in grosso, quasi tutto l’anno, dalle libbre quattro soldi diece in lire cinque: il fieno, la paglia, le legne, e ‘l pesce, e l’erbaggio vi furono in grande carestie. Della carne v’ebbe convenevole mercato ma frodavano il macello, mescolando e vendendo insieme con sottili inganni, la mala carne colla buona. Il fiorino dell’oro valea soldi quaranta di quella muneta. Nell’ultimo dell’anno come nel cominciamento v’abondò la gente, o poco meno. Ma allora vi concorsono piú signori, e gran dame, e orrevoli uomini, e femine d’oltre a’ monti e di lontani paesi, ed eziandio d’Italia, che nel cominciamento o nel mezzo del tempo: e ogni dí presso alla fine si facevano delle dispensagioni, del visitare le chiese, maggiori grazie.
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personaggi francesco petrarca
Un letterato senza laurea 1304 Francesco Petrarca nasce ad Arezzo da Eletta Canigiari e dal notaio fiorentino ser Petracco. 1311 Segue il padre ad Avignone, allora sede del pontefice, dove ser Petracco aveva trovato lavoro. 1320-26 Avviato, per imposizione del padre, agli studi giuridici, frequenta l’Università di Montpellier e poi quella di Bologna, ma è attratto dalla lettura dei classici latini e questo spiega perché non consegua alcun titolo accademico. 1326 Tornato in Provenza, prende gli ordini minori che, senza imporgli obblighi ecclesiastici, gli permettono di avere incarichi redditizi. 1327 Il 6 aprile, un Venerdí santo, nella chiesa di S. Chiara di Avignone, vede per la prima volta Laura, figura dominante e fulcro d’ispirazione della sua esperienza poetica. 1330 Viene assunto come cappellano di famiglia dal cardinale Giovanni Colonna. Sono anni di grandi fermenti: la sua natura inquieta, curiosa di uomini e di cose, lo spinge a viaggiare in tutta Europa; alla fine, però, sceglie di rifugiarsi a Valchiusa, in Provenza. 1341 Riceve in Campidoglio la corona di poeta. 1348 Annota sul codice del suo Virgilio la notizia della morte di Laura, avvenuta durante l’epidemia di peste che infuriava in Europa. 1353 Si stabilisce definitivamente in Italia, dove la sua attività di diplomatico si fa piú intensa: dal 1353 al 1361 è a Milano, presso i Visconti, dove rivede piú volte Boccaccio; dal 1361 al 1362 a Padova, e poi a Venezia, dove la Serenissima gli assegna un palazzo in cambio dell’impegno a lasciare erede la città della sua ormai famosa biblioteca; nel 1368 è di nuovo a Padova. 1370 Parte per Roma, per incontrare il papa, ma a Ferrara è colto da una sincope e, dopo essere rimasto trenta ore senza conoscenza, si fa portare a Padova e di lí ad Arquà, sui Colli Euganei, dove trascorre gli ultimi anni, mentre la sua salute peggiora rapidamente. 1374 Nella notte tra il 18 e il 19 luglio 1374 esala l’ultimo respiro, secondo la tradizione, col capo reclinato sull’amato codice dell’Eneide virgiliana.
attrezzata ad accogliere 1 milione e 200mila pellegrini – secondo la stima fatta Matteo Villani (morto a Firenze nel 1363) nella Cronica – provenienti da quasi tutta Europa. La capitale della cristianità non contava piú di 25 000 abitanti (anche se, come si legge nel dossier di questo numero, alle pp. 66-75, Jean-Claude Maire Vigueur sostiene che gli abitanti della Roma medievale dovevano essere almeno 60 000, n.d.r.), ed era drammaticamente decaduta nel corso della lunga assenza della corte pontificia. Decimata dalla peste nera del 1348, la popolazione si era concentrata nell’area tra il Campidoglio e il colle Vaticano; altrove, tra boscaglie, pascoli e zone acquitrinose, insediamenti simili a piccoli villaggi si erano addensati accanto a chiese e monasteri, come quello sorto intorno al Laterano.
Splendori e miserie
Prima di giungere nel centro della città, i pellegrini attraversavano una straordinaria successione di rovine semisepolte dalla vegetazione. Ma anche molte delle chiese piú note apparivano in rovina: cosí SS. Apostoli, S. Pietro in Vincoli, S. Anastasia. In questo paesaggio urbano le principali famiglie baronali romane si erano ritagliate antiche strutture poi trasformate in vere e proprie rocche fortificate: i Savelli si erano insediati nel teatro di Marcello, da cui controllavano i ponti dell’Isola Tiberina, mentre gli Orsini nel teatro di Pompeo, da cui era possibile sorvegliare il transito dei pellegrini sotto il Campidoglio. Lungo le vie della città – ne parla anche il Villani – quando non erano invase d’acqua a causa dalle frequenti piene del Tevere (che scorreva senza argini), accompagnati da un’aria pestilenziale, ci si doveva imbattere in rifiuti di ogni genere, carcasse di animali, cadaveri umani, lupi e cani alla continua ricerca di cibo. Il frontespizio dell’edizione manoscritta di una raccolta di sonetti di Francesco Petrarca. XV sec. Montpellier, Bibliothèque Universitaire de Médecine. marzo
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Lettera scritta da Petrarca a Giovanni Boccaccio, il 2 novembre, da Roma: «Dopo averti salutato, come sai me ne andavo verso Roma in quest’anno che noi peccatori abbiamo tanto desiderato e che ha chiamato a raccolta quasi tutta la cristianità. Per non annoiarmi avevo scelto dei compagni che mi sembravano capaci di rendere agevole anche il viaggio piú faticoso: il piú anziano per la venerabile età che dimostrava, un secondo per la scienza e la loquela, gli altri per esperienza, fedeltà e dedizione. Quel che poi è successo ti dimostrerà quanto il criterio sia stato affrettato anziché felice. Ero tutto zelante di deporre finalmente i miei peccati perché, come dice Orazio: “la vergogna non è di aver peccato, ma di non saper smettere”, e da questo proposito mai la fortuna ha potuto né potrà distogliermi. Anche se sbatte contro gli scogli il mio povero corpo e mi spacca la testa sui sassi ricoprendoli del mio sangue, forse potrà farmi esalare l’anima (che disprezza lei e i suoi modi), ma non la dominerà, mai riuscirà a indebolirla per quanto la mia carne possa soffrire. Per non stancarti con una lunga attesa, sappi che ha infierito non poco sul mio corpo. Lasciata Bolsena, oggi piccola e ignota e un tempo fra i centri principali dell’Etruria, mentre mi affrettavo verso la città santa che avrei visto per la quinta volta, pensavo fra me e me: guarda come corre veloce la nostra vita, come cambiano le cose e i pensieri degli uomini. È proprio vero quel che scrissi nelle Bucoliche: “le voglie che hai da giovane disprezza la vecchiaia e i desideri cambiano se imbiancano i capelli”. Sono già quattordici anni da quando venni a Roma la prima volta soltanto per il desiderio di vederne le meraviglie; dopo alcuni anni vi fui attratto una seconda volta dall’ambizione, forse prematura, ma dolce, della laurea; la terza e la quarta volta fu perché non ebbi timore nel cercare di sostenere degli amici illustri caduti in disgrazie troppo gravose per le mie spalle. Questo è il mio quinto, forse ultimo viaggio a Roma, ben piú felice degli altri quanto è piú generoso occuparsi dell’anima piuttosto che del corpo, della salvezza eterna che della gloria terrena. Mentre pensavo queste cose e in silenzio rendevo grazie a Dio, il cavallo del vecchio e venerabile abate di cui ti ho detto, che mi stava alla sinistra, volendo colpire il mio cavallo – dicono –, con ben sinistro esito tirò invece a me un calcio tale al ginocchio che per il rumore di ossa rotte corsero allo spettacolo anche quelli piú lontani. Il dolore fu atroce. Subito pensai di fermarmi, ma il luogo mi atterriva. Cosí, fatta di necessità virtú, piú tardi giunsi a Viterbo e, con gran sforzo, dopo tre giorni a Roma. Furono chiamati i medici: si vedeva biancheggiare orribilmente l’osso e si temeva che fosse rotto. Erano ancora chiarissimi i segni dello zoccolo ferrato. L’odore della ferita trascurata era cosí forte che io stesso mi dovevo girare perché non riuscivo a sopportarlo. Anche se ognuno ha col proprio corpo una sorta di legame privilegiato, per cui sopporta facilmente quello che lo disgusterebbe in altri, io non avevo mai provato per un cadavere quel che provai per le mie carni: davvero l’uomo è un nulla, un vile e misero animale se un animo nobile non riscatta il suo corpo meschino. Insomma, giaccio nelle mani dei medici incerto nella salute, fra la speranza e il timore, già da quattordici giorni per me piú lunghi e piú noiosi di altrettanti anni. Infatti il mio ingegno, per quel che vale, mentre è corroborato da un moto regolato, si intorpidisce piú di quanto accada ad altri in questa situazione di riposo forzato. Cosí, dannoso in ogni luogo, qui mi è tanto piú penoso e insopportabile per l’acuto desiderio di vedere la regina delle città, che piú contemplo piú la ammiro e piú sono disposto a credere quello che di lei si legge. Ma mi consolo della sofferenza e della disgrazia come se mi venissero dal cielo e penso che, se il mio confessore fu troppo indulgente, a quel che ha lasciato correre ora altri supplisce. E credo che sia per volontà di Dio, che ha sollevato con le sue mani questo mio animo tanto a lungo zoppicante, se ora è il mio corpo a zoppicare. A ben considerare, il cambio non mi pare triste e svantaggioso grazie a Colui che mi restituí la speranza di rivederti presto, guarito nell’anima e nel corpo. Del resto, caro amico, ti scrivo dal mio letto di pena, da coricato come si può certo capire dalla calligrafia, non per addolorarti, ma perché tu sia contento di sapere che ho sopportato tutto di buon grado e che son pronto anche a cose peggiori, se dovessero capitarmi. Ricordati di me e vivi felice. Ti saluto Roma, il 2 novembre, nel silenzio di una notte tenebrosa».
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personaggi francesco petrarca
Per rendersi conto delle condizioni del pellegrino sarà utile ricordare il provvedimento preso da Bonifacio IX il 31 maggio 1390: per prevenire le ricorrenti epidemie di peste causate dalla presenza dei pellegrini, il papa ridusse a una settimana il tempo necessario di permanenza a Roma per ottenere l’indulgenza. Ciononostante, subito dopo la Pentecoste, il morbo si era già diffuso in città, obbligando il pontefice a fuggire con
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la propria curia a Rieti. La malaria rappresentava un ulteriore flagello che acuiva la propria forza nei mesi estivi; e chi poteva, lasciava la città per spostarsi sulle colline o verso l’Appennino.
Un ottimo affare
Nell’anno giubilare molti Romani si trasformarono in albergatori, lucrando sul prezzo degli alloggi e delle vettovaglie, attuando in alcu-
ni casi una brutale speculazione. Fu senza dubbio un grande affare economico anche per le moltissime persone che lungo la via Francigena, cioè la via Cassia, avevano saputo trarre vantaggio dal continuo passaggio di pellegrini diretti a sud. Ha scritto il cronista viterbese Niccolò della Tuccia (XV secolo): «1350. Fu l’anno del giubileo, e rimasero assai quatrini spesi in Viterbo di quelli [che] andavano a Roma». marzo
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lettera da capranica
Un borgo meraviglioso, ma senza pace Francesco Petrarca scrisse da Capranica una splendida lettera al suo patrono, Giovanni Colonna: siamo nel gennaio del 1337, 16 giorni dopo l’arrivo nel castello degli Anguillara. Quello del poeta è un vero e proprio reportage su questo angolo del Lazio: «Nel territorio romano mi sono imbattuto in un luogo piú che adatto ai miei umori, se col pensiero non ne sognassi un altro. Un tempo venne chiamato il monte delle Capre, forse perché talmente assiepato di cespugli selvatici da sembrare un posto piú da capre che per uomini. Poi, a poco a poco, notato per la bella posizione e per la particolare fertilità, accolse alcuni uomini che su un’altura piuttosto elevata fondarono una rocca. Quel tanto di case che il piccolo colle poteva ospitare non ha perso finora l’antico nome dovuto alle capre. Luogo poco conosciuto, è circondato da altri molto famosi: il Monte Soratte dove abitava Silvestro, ma già prima celebrato dai poeti, il Monte Cimino col lago, ricordati da Virgilio e, distante forse due miglia, Sutri sacra a Cerere e, si dice, fondata da Saturno. Non lontano dalle mura c’è un campo dove raccontano che per la prima volta il re straniero seminò il frumento e che per la prima volta vi fu mietuto: con questo dono miracoloso egli si accattivò il favore e gli animi degli abitanti che, da vivo lo vollero come regnante e, da morto, lo adorarono come vecchio re e dio con la falce. Per quanto si può giudicare da un breve soggiorno il clima è ottimo (...). I boschi frondosi da ogni parte ti proteggono dal sole, tranne a nord dove un colle piú basso si distende in una valle aprica, paradiso di fiori per le api. Nel fondovalle mormorano fonti di acque dolci; vagano per i colli i cervi, i daini, i caprioli e tutti gli animali dei boschi (...) e non ti dico delle mandrie dei buoi e delle pecore mansuete, dei frutti delle fatiche dell’uomo, delle dolcezze di Bacco e dell’abbondanza di Cerere (...). Sola la pace è in bando non so per quale colpa di questa gente o per quale legge del cielo o destino o influsso di stelle. Pensa che il pastore veglia nelle selve armato, e non ha paura dei lupi ma dei briganti; il contadino porta la corazza e usa l’asta come pungolo per spronare il bue che ricalcitra; l’uccellatore copre le reti con lo scudo e il pescatore appende l’amo e l’esca ingannatrice a una rigida spada. Ancora piú ridicolo è chi va al pozzo per l’acqua e a una cordaccia lega un elmo arrugginito: insomma, qui non si fa niente senza le armi. Ma cos’è questo grido nella notte delle scolte sulle mura? Queste voci che incitano alle armi hanno preso per me il posto degli accordi della dolce mia lira. Fra le genti di questi posti non trovi niente di sicuro o di pacifico, niente di umano. Tutto è odio e guerra, tutto sembra opera del demonio».
In alto il castello degli Anguillara e la torre dell’Orologio di Capranica, cittadina dell’alto Lazio in cui Petrarca, nel 1337, fece sosta prima di raggiungere Roma. Nella pagina accanto il cortile del palazzo romano degli Anguillara, in un acquerello di Ettore Roesler Franz. 1886. Roma, Museo di Roma.
Una veduta di Capranica (a sinistra) e la chiesa della cittadina laziale intitolata a san Pietro (in alto). All’epoca del soggiorno di Petrarca il borgo era controllato dagli Anguillara.
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personaggi francesco petrarca Il pontefice non lasciò Avignone nel 1350 e si fece rappresentare a Roma dal cardinale di Ceccano e dal vescovo di Orvieto. Matteo Villani (vedi box alle pp. 24-25) non manca di sottolineare il flusso straordinario di pellegrini, sebbene la peste nera, dal 1348, avesse falciato un terzo della popolazione europea. Ma fu forse il terrore appena sofferto il vero incentivo della devozione che spinse al cammino verso Roma. La presenza maggiore si ebbe nelle ricorrenze di Pasqua e Natale (date in cui era d’obbligo il sacramento della confessione e dell’eucarestia): circa un milione e piú di pellegrini, mentre ottocentomila furono per l’Ascensione e la Pentecoste. Quando, nella seconda metà dell’anno, decise di recarsi anch’egli a Roma, Francesco Petrarca aveva 46 anni. Inviò prima una lettera metrica a Guglielmo da Pastrengo, per pregarlo di accompagnarlo in viaggio, ma l’amico rifiutò. Il 21 settembre il poeta era ancora a Padova.
Nascita di un’amicizia
Poco prima di mettersi a cavallo diretto a Roma (cioè sul finire del mese di settembre) Petrarca ricevette una lettera in versi da Giovanni Boccaccio. I due ancora non si conoscevano personalmente, e la lettera rappresentava perciò il primo contatto del devoto ammiratore con il grande e affermato poeta. Boccaccio scrisse di non riuscire a trovare alcune opere petrarchesche che invece sapeva essere in circolazione. Il poeta rispose immediatamente, in versi, ripetendo quanto fastidio gli era causato dalla popolarità ed espresse il desiderio di essere amato da pochi e di restare lontano dal volgo. Pochi giorni dopo, non appena Boccaccio seppe che l’illustre corrispondente s’era messo in viaggio per Roma e che sarebbe passato per Firenze, gli corse incontro. Si videro in un freddo pomeriggio autunnale: varcarono insieme le mura della città e Petrarca accolse anche l’invito del Boccaccio a trascorrere qualche giorno presso di lui. Ciò accadeva
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attorno all’8 di ottobre e, da questo momento, iniziava un’amicizia intima e profonda, che sarebbe durata per tutta la vita. Petrarca non dovette fermarsi molto a Firenze. Quando, la notte del 2 novembre, scrisse al Boccaccio da Roma per raccontargli del grave incidente che gli era occorso a Bolsena, erano già quattordici giorni che vi si trovava. Il poeta ripartí dunque da Firenze per Roma intorno al 12 ottobre, dopo aver ricevuto dal Boccaccio, al momento del commiato, un prezioso anello in segno di devozione. Per non annoiarsi, Petrarca decise di fare il viaggio con alcuni compagni, tra i quali un vecchio abate. E proprio il cavallo di quest’ultimo – come ci racconta nella lettera al Boccacio – gli provocò un dolore indescrivibile al ginocchio, compromettendo gran parte del viaggio. L’uomo è dunque un nulla – ripete il poeta – un vile e misero animale, se un animo nobile non riscatta il suo corpo meschino. Nella straordinaria lettera del 2 novembre (vedi box a p. 27) scopriamo anche noi, con lui, l’odore della ferita, il sangue, il bianco dell’osso, il dolore, la fatica del viaggio, il disagio di notti insonni su scomodi giacigli, e si svela ai nostri occhi la vita corporea di uomo che nulla sembrava avere di umano.
Un uomo inquieto
Petrarca era un uomo fortemente scontento e irrequieto: desiderava la pace, il riposo e la solitudine, ma, al tempo stesso, ardeva dalla voglia di viaggiare, di muoversi da una città all’altra e di incontrare amici. Perfino il doge Andrea Dandolo s’era meravigliato del continuo vagabondare del poeta che egli stesso giustificava come una malattia dello spririto insita nella natura umana: «Lo ripeto – egli dice – sono malato e lo si vede anche se non lo dico, se fossi sano mi comporterei con maggiore fermezza. (…) Io vivrei bene se potessi volgere a mio vantaggio un rimedio che ho sempre consigliato agli altri: quello di cercare dentro di me quella pace che non
Miniatura raffigurante l’ostensione della Veronica, da un Libro d’Ore illustrato da Simon Bening, celebre miniatore di Bruges. 1530-65. Collezione privata.
riesco a trovare fuori di me e di trovare nel mio animo o, molto meglio, in Colui che signoreggia e illumina l’animo mio, quel riposo che non trovo in nessun luogo della terra». Un motivo di profonda inquietudine era dovuto ai problemi legati alla salute. La ferita riportata a Bolsena non è altro che una disgrazia che si somma ad altre. E qui si comprende pertanto il ri-
Il velo miracoloso
La Veronica nel Canzoniere Alla devozione per il velo della Veronica (menzionato per la prima volta sotto il pontificato di Giovanni VII, 705-707), che Petrarca vide a Roma in occasione del giubileo del 1350, si ispira la similitudine del celebre sonetto XVI del suo Canzoniere. Il velo era una delle Mirabilia Urbis che i pellegrini fin dal primo giubileo di Bonifacio VIII potevano osservare direttamente, ed era solitamente conservata nella basilica di S. Pietro. Lo stesso Bonifacio, il 17 gennaio del 1300, fece della processione della Veronica la prima grande manifestazione dell’istituzione giubilare. Movesi il vecchierel canuto et biancho del dolce loco ov’à sua età fornita et da la famigliuola sbigottita che vede il caro padre venir manco; indi trahendo poi l’antiquo fianco per l’extreme giornate di sua vita, quanto piú po’, col buon voler s’aita, rotto dagli anni, et dal camino stanco; et viene a Roma, seguendo ‘l desio, per mirar la sembianza di colui ch’ancor lassú nel ciel vedere spera: cosí, lasso, talor vo cerchand’io, donna, quanto è possibile, in altrui la disiata vostra forma vera. (Canzoniere, sonetto XVI) marzo
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personaggi francesco petrarca sentimento e lo sdegno contro chi avrebbe dovuto curare i suoi malanni: in uno dei suoi viaggi il poeta aveva contratto la scabbia e nessun medico era riuscito a sollevarlo dal tormento, anzi aveva semmai peggiorato le sue condizioni. Di qui le Invenctive contra medicum, soprattutto contro quei ciarlatani fattucchieri sciocchi e vanitosi, indegni della loro professione. Ma torniamo all’insofferenza, all’incapacità di radicarsi in un medesimo luogo (dice di sé: «di nessun luogo abitante, ovunque sono straniero»). Come gli eroi della classicità, che sempre sono andati vagando, nobilitando la propria natura, e alla continua ricerca di una identificazione, cosí Petrarca vede se stesso come «perpetuo viaggiatore». Non potrebbe essere in alcun modo piú chiaro rispetto alle parole che destina al doge veneziano: «Credimi, e ti sarà piú facile se la conosci, c’è un non so che di dolce e faticoso insieme in questa curiosità di girare il mondo. A chi rimane fermo in un posto, con la quiete sopraggiunge la noia: Dio solo sa cosa sia meglio, per questo come per gli altri problemi degli uomini. Certo se c’è chi crede che la virtú risieda nei luoghi e non nell’anima, e chi chiama costanza l’immobilità, saranno costanti i gottosi, ancor piú costanti i morti, costantissimi i monti».
Verso Roma
Nel 1337, durante il suo primo viaggio a Roma, all’età di 33 anni, giunto non molto lontano da dove il calcio di un cavallo anni dopo gli avrebbe fracassato un ginocchio, l’illustre viandante trovò un «luogo piú che adatto alla mia natura», un luogo che sembra finalmente mitigare quell’ansia che per tutta la vita lo costringe a un frenetica mobilità. Sul finire del 1336 Petrarca si trovava ad Avignone come cappellano del cardinale Giovanni Colonna, e, intenzionato a visitare Roma, si imbarcò a Marsiglia «tra i fulmini dell’inverno, del mare e della guerra». Giunto a Civitavecchia, non si incamminò nella direzione della Città Eterna, ma si diresse a
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nord-est, per giungere in un piccolo borgo a metà strada tra Viterbo e Roma, Capranica, dove sorgeva il castello di Orso degli Anguillara, che aveva sposato la sorella del cardinale. La causa della temporanea deviazione fu la feroce guerra
allora in atto tra gli stessi Colonna – dei quali Petrerca era un protetto – e i rivali Orsini. Pertanto la sosta a Capranica si prolungò per circa un mese, prima di proseguire il viaggio verso Roma con Giacomo e Stefano Colonna (vedi box a p. 29). marzo
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Finalmente, dopo la sosta a Capranica, Petrarca giunge a Roma, primo contatto con la città che aveva a lungo occupato gran parte dei suoi pensieri. Era stato messo in guardia dagli amici, era stato in un certo senso preparato al peggio, alla
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Una veduta del Campo Vaccino di Paul Bril. Olio su rame, 1600. Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister. Al centro, si riconoscono le colonne del tempio dei Dioscuri: il carattere agreste del luogo, conservatosi fino a quando non ebbero inizio i primi scavi archeologici nell’area del Foro Romano, è lo stesso che si presentava agli occhi dei pellegrini e dei viaggiatori che arrivavano a Roma nei secoli del Medioevo.
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personaggi francesco petrarca che avevo immaginato si sarebbe dissol- invece la morale e – grande novirovina, alla drammatica desolazioto di fronte alla realtà, cosí nemica del- tà – perfino la politica. Una frase ne. Eppure la realtà dissolve ogni tila fama. Invece incredibilmente questa piú di ogni altra sembra illuminare more, al punto che il poeta sembra non ha diminuito alcunché, anzi ha tut- questa nuova consapevolezza: «Chi meravigliarsi di se stesso. Lo stupoto accresciuto. Roma fu veramente piú potrebbe dubitare che Roma resure è tale da creare confusione. grande di quanto pensassi, e piú grande è sciterebbe immediatamente, se coScrive ancora a Giovanni Colonna scegliendo luogo e data carichi quanto ne resta. Non mi meraviglia che minciasse a conoscersi». il mondo le sia stato sottomesso, ma che di valore simbolico: dal CampidoIl quinto viaggio glio, il giorno delle idi (15) di marzo lo fu solo cosí tardi». Anche qui emerge una sensi- Dopo 13 anni dal primo, giunto al 1337: «Cosa ti aspetti da Roma, dopo bilità straordinaria, che prefigu- quinto viaggio a Roma (siamo ora che tanto hai ricevuto dai monti? Crera l’uomo del Rinascimento: la tornati al giubileo del 1350), lo studevi che appena tornato a Roma avrei passione per le opere classiche, la pore è invariato rispetto alla prima scritto grandi cose, e forse ho trovato straricerca di manoscritti, l’attenzio- volta. In occasione del viaggio fatto ordinari argomenti per il futuro. Ma ora per ottenere l’indulgenza come ora non saprei da dove giubilare nel 1350 Petrarca cominciare: sono sopraffatto «Roma fu veramente piú scrive una lettera a Philipdalle tante meraviglie e dal pe de Vitry, sapendo oltremio stesso stupore. Solo una grande di quanto pensassi, tutto che probabilmente cosa non taccio: è successo il e piú grande è quanto ne resta» sarebbe stata per lui l’ulticontrario di quello che pensama volta a Roma: «Il viagvi. Mi ricordo dei tuoi tentativi ne «archeologica» per Roma, l’ap- giatore passerà le soglie delle chiese degli di dissuadermi dal venire a Roma col proccio «geografico» nello studio apostoli e calcherà la terra rosseggiante pretesto che l’aspetto della città in rovidelle campagne; in questo Petrar- del sacro sangue dei martiri; vedrà l’efna, cosí diverso dalla sua fama e dall’imca incarna la figura emblematica figie del divino volto conservata sul velo magine che i libri me ne avevano data, avrebbe smorzato il mio entusiasmo. E di un Umanesimo che ebbe la sua della Veronica o sulle pareti della madre massima fioritura nel XV secolo. di tutte le chiese; noterà il luogo dove anch’io, nonostante ardessi dal desiderio, Ma, soprattutto, come «inventore» Cristo si fece incontro al profugo Pietro tendevo a rimandare. Temevo che quello e fondatore della moderna cultu- (…), se poi piacerà al viaggiatore di Disegno di Maarten van Heemskerck, nel ra del paesaggio, egli è davvero in rivolgere la mente dalle cose celesti alle quale si vede la statua equestre di Marco anticipo con i tempi dello svilup- terrene, alzerà gli occhi agli stupendi Aurelio nella sua collocazione in Laterano, po della cultura occidentale. Per palazzi dei duci e dei principi romani, dove rimase fino al 1538, quando fu Petrarca il fascino di Roma non è sebbene in rovina, degli Scipioni, dei trasferita sul Campidoglio. 1532-36. circoscritto in un ambito letterario Cesari, dei Fabi, e di altri innumerevoli Berlino, Kupferstichkabinett. o estetico, esso tocca e coinvolge personaggi, ammirerà i sette colli chiu-
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Mosaico policromo in pasta vitrea raffigurante l’Ecclesia Romana con il capo coperto da una corona gemmata, dalla primitiva decorazione dell’abside di S. Pietro, realizzata sotto il pontificato di Innocenzo III (1198-1216) e distrutta nel 1582 all’epoca del rifacimento della basilica. XII sec. Roma, Museo Barracco.
si dentro una sola cerchia di mura, un tempo dominatori di tutta la terra, di tutti i mari, di tutti i monti, e le larghe strade, allora anguste a contenere le schiere dei prigionieri di guerra; vedrà gli archi trionfali, carichi delle spoglie dei re e dei popoli un tempo domati; salirà sul Campidoglio, dominatore e propugnacolo della terra intera, ove fu una volta la cella di Giove, e ora è l’Aracoeli, da cui, come narrano a Cesare Augusto apparve Gesú fanciullo». In quest’ultimo passo Petrarca fa riferimento a una leggenda molto popolare nel Medioevo che collocava la chiesa di S. Maria in Aracoeli in corrispondenza del sito in cui, nella Roma antica, sorgeva il palazzo di Augusto. L’imperatore avrebbe avuto una visione profetica mentre dormiva nella sua camera,
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dove gli sarebbe apparsa una Vergine con un bambino. Per commemorare il prodigio, su una colonna della navata venne aggiunta l’iscrizione commemorativa «a cubiculo Augustorum», tuttora ben leggibile. Inoltre, all’epoca del Petrarca, era ancora visibile nell’abside della chiesa un ciclo pittorico in cui compariva la Sibilla Tiburtina nell’atto di indicare a Ottaviano la Vergine, madre del Salvatore.
Continuità leggendaria
Dunque la Roma cristiana e quella pagana non sono in conflitto, ma vivono in una continuità leggendaria, e tipicamente medievale, tra l’antico e il presente. La capitale della cristianità è onorata dalle chiese dei martiri come dai monu-
menti antichi, e i papi dovrebbero custodire con orgoglio le memorie di una città cosí sacra. Nella Roma tardo-medievale, dunque, i resti archeologici cominciavano a essere riconosciuti, apprezzati e tutelati. Si pensi che, già nel 1162, il Comune di Roma aveva emesso un editto di tutela per la Colonna Traiana. Nelle sue rievocazioni storiche e mitiche appare evidente come Petrarca avesse letto a fondo le due fonti letterarie sui monumenti romani piú note dell’epoca: i Mirabilia urbis Romae, redatti negli anni 1140-1143, e la Narracio de mirabilibus urbis Romae di Maestro Gregorio, scritta tra il XII e il XIII secolo da un ecclesiastico proveniente dall’Inghilterra. Petrarca riprende notizie da queste fonti ma le integra con molte osservazioni personali e continui richiami e confronti tra età antica e presente. Il poeta è dunque un viaggiatore instancabile e irrequieto, volubile, e continuamente attraversato dal timore di tutto ciò che è finito e definitivo. Si paragona a Ulisse nel proemio delle lettere familiari, e dirà di sé di avere un occhio mai sazio di vedere cose nuove. Poco prima di morire scrisse una lettera a Giovanni Boccaccio, l’amico a cui era legato indissolubilmente fin dal 1350, quando si incontrarono a Firenze per la prima volta. Petrarca scrisse dell’importanza di non abbandonare mai gli studi, neanche nell’età della vecchiaia, e, in qualche modo, si compiace di un piccolo ma significativo risultato che vede realizzato grazie alla propria opera culturale: «gli italiani – scrive il poeta – fanno di tutto per sembrare dei barbari» ma sembra che, tuttavia, finalmente «presero a coltivare questi studi negletti per tanti secoli». F
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Glorie e utopie di un tribuno di Jean-Claude Maire Vigueur
Paolo Monaldi e Paolo Anesi, Veduta del Campidoglio e di Campo Vaccino. 1760-70. Roma, Museo di Roma. L’assetto degli edifici del colle capitolino, tra i quali è ben riconoscibile il Palazzo Senatorio (sorto sui resti del Tabularium), è simile a quello che dobbiamo immaginare per l’epoca in cui fu attivo Cola di Rienzo.
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Di umili origini, il futuro capopopolo della Roma del Trecento fu un precursore delle moderne tecniche di propaganda. La Vita di Cola di Rienzo, redatta da un misterioso biografo, fa luce sulla breve parabola del colto e abile rivoluzionario, ben presto abbandonato dai suoi sostenitori a causa del suo temperamento visionario
Qui accanto Roma, monumento a Cola di Rienzo, inaugurato nel 1887. La statua bronzea del tribuno fu realizzata, a dimensioni inferiori del vero, dallo scultore Girolamo Masini nel 1871 e lo ritrae nell’atto di arringare il popolo.
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ola di Rienzo nacque a Roma, nel rione Regola, nell’aprile o nel maggio del 1313, da un taverniere e una lavandaia. La sua famiglia risiedeva nella parte piú orientale del rione, non lontano dall’Isola Tiberina e dal teatro di Marcello, allora occupato dalla famiglia baronale dei Savelli che lo aveva trasformato in una fortezza. Alcuni sostengono che i genitori di Cola fossero legati ai Savelli da un legame di clientela o di dipendenza, come accadeva spesso a famiglie popolane costrette dalla povertà ad accettare aiuti economici dai baroni in cambio di servizi vari. Durante una malattia della madre, il ragazzo fu affidato a un parente di Anagni e rimase in Ciociaria fino ai vent’anni. Rientrato a Roma, sposò la figlia di un notaio e finí per abbracciare anch’egli quella professione. Nelle città comunali dell’epoca, i notai erano numerosi (fino a uno per cento abitanti!), ma praticare il notariato non era affatto, come accade oggi, una garanzia di benessere. Richiedeva però una buona padronanza del latino e anche una discreta cultura giuridica. E Cola era sicuramente molto piú attratto dal latino e dal diritto che dall’eser-
Qui accanto Federico Faruffini, Cola di Rienzi che dalle alture di Roma ne contempla le rovine. 1856. Milano, Collezione privata. In alto, sulle due pagine veduta dell’Isola Tiberina.
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cizio di una professione che sottraeva tempo alle sue occupazioni preferite. Ossia, come ci racconta l’Anonimo Romano (vedi box in questa pagina), alla lettura delle opere latine, al girovagare tra le rovine della Roma imperiale, al decifrare «li antichi pataffii» [= epigrafi].
Gran conoscitore dei classici
Lo stesso cronista, del resto, sottolinea il contrasto tra le umili origini di Cola e l’ampiezza e la precocità della sua cultura. Alla lettera vanno prese le espressioni da lui usate per definirne le doti intellettuali: sapeva infatti comporre in latino, sia in prosa sia in versi, leggere le iscrizioni antiche, tradurre e interpretare i testi. Possedeva un’ottima conoscenza degli autori antichi, dai quali traeva non solo una cultura antiquaria, ma anche esempi morali da opporre alla decadenza della Roma comunale. Cola, infatti, non era un intellettuale puro e distaccato dalle realtà del suo tempo. Per certi versi la sua cultura lo avvicinava ai ceti alti della società romana, ma non gli sfuggivano la prepotenza dei grandi e i malanni nei quali sprofondava Roma da quando il suo governo era passato nelle mani dei baroni. La passione per l’antichità nutriva in lui un forte impegno politico e lo spingeva a schierarsi dalla parte di chi esigeva riforme radicali, in grado di porre fine al malgoverno dell’alta nobiltà. In altre parole, era un fervido sostenitore del partito popolare. Non c’è dunque da stupirsi se, nell’estate del 1342, i rappresentanti del Popolo – che, in assenza dei senatori
L’Anonimo Romano
Un resoconto puntuale Gli studiosi non sono ancora riusciti a svelare l’identità del cittadino romano che scrisse, negli anni Cinquanta del XIV secolo, la cronaca conosciuta sotto il nome di Vita di Cola di Rienzo, nella quale, in realtà, solo due capitoli sono interamente dedicati alla vicenda del tribuno romano. Ma che capitoli! Ricchissimi di particolari, scritti in un linguaggio di straordinaria freschezza e vivacità, offrono del capopopolo un ritratto di grande intensità drammatica, critico nei confronti degli aspetti piú avventurosi della sua politica, ma di grande lucidità riguardo alle forze sociali implicate nei conflitti interni. Questo assoluto capolavoro della letteratura medievale di lingua italiana è rimasto a lungo misconosciuto, offuscato dall’imperialismo linguistico del «bel fiorentino». Il testo è oggi disponibile in un’ottima edizione: Anonimo Romano, Cronica, a cura di Giuseppe Porta, Adelphi, Milano 1979.
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Il frontespizio e una tavola della seconda edizione della Vita di Cola di Rienzo stampata nel 1631.
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mandati in ambasciata ad Avignone, si erano appropriati del potere all’interno del Comune – lo incaricarono di andare ad Avignone ed esporre al papa la disastrosa situazione della città, per convincerlo ad accettare le riforme istituzionali. Era la prima apparizione di Cola sulla scena pubblica e subito il futuro tribuno diede prova del suo talento oratorio. Descrisse con tanta eloquenza, davanti a Clemente VI, la miserevole condizione di Roma oppressa dall’anarchia e dalle violenze baronali, che si guadagnò subito l’ammirazione del papa, ma anche l’odio dei due senatori presenti ad Avignone, che finirono per provocarne la disgrazia. Ciò non gli impedí, tuttavia, di prolungare il suo soggiorno ad Avignone fino all’estate del 1344. Si legò d’amicizia con Francesco Petrarca con il quale condivideva la passione per l’antichità e le aspirazioni a un rinnovamento morale della società. Il poeta, da parte sua, ammirava il talento ora-
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torio di Cola e gli riconosceva qualità di uomo di azione che egli sapeva di non possedere. Per intercessione del Petrarca, Cola ritrovò i favori della corte pontificia e ottenne da Clemente VI la carica di notaio della camera capitolina, con un salario di 5 fiorini al mese.
Anni di intensa propaganda
Fu in questa veste di funzionario comunale che fece ritorno a Roma, nel luglio o nell’agosto del 1344. Meno di tre anni lo separavano dalla presa del potere, che avvenne nel maggio del 1347. Furono per Cola anni di intensa propaganda, rivolta alle piú ampie fasce della popolazione romana: innanzitutto il ceto dei bovattieri, cioè di quegli imprenditori che si dedicavano alla conduzione delle grandi aziende agricole della Campagna romana, i casali, quindi i grandi mercanti, i notai e gli uomini di legge, i bottegai e gli artigiani. Di cosa Cola intendeva convincere marzo
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i limiti della parola e dello scritto quando si tratta di far filtrare un messaggio al popolino. Sebbene possieda, da buon attore, l’arte di adeguare il livello dei suoi discorsi alla capacità ricettiva degli interlocutori, non si accontenta di questo mezzo di persuasione e ricorre a tutte le risorse della comunicazione visiva che gli suggerisce la sua geniale fantasia. Lo fa innanzitutto sotto forma di grandi immagini dipinte. Tutte furono esposte in luoghi di grande frequentazione, per esempio in Campidoglio sulla facciata del palazzo comunale che dava sul mercato, su un muro della chiesa di S. Angelo in Pescheria, davanti alla quale i pescivendoli tenevano i loro banchi, all’interno della basilica di S. Giovanni in Laterano, sulla porta della chiesa di S. Giorgio al Velabro, accanto alla quale si riunivano i mercanti di bestiame, o, ancora, quando si rifugiò presso gli Orsini di Castel Sant’Angelo dopo aver abbandonato la sua carica di tribuno, non lontano dall’omonimo ponte.
La scelta delle figure allegoriche
Non sappiamo chi fossero gli esecutori materiali di queste immagini né se venissero eseguite su tavole di legno o vasti teloni di tessuto. Ma era Cola a definire i soggetti e a dettare al pittore le scritte destinate a esplicitare il significato delle figure allegoriche a cui affidava il suo messaggio. Messaggio talvolta molto complesso, colmo di riferimenti biblici, storici e letterari, ma del quale anche il pubblico meno preparato poteva comunque cogliere il significato piú immediato. Poco tempo dopo, è ancora l’Anonimo Romano a offrircene il resoconto, Cola organizzò una seconda performance, di tutt’altro genere, ma che divenne, all’indomani della presa del potere, il suo mezzo di comunicazione di massa prediletto: una cerimonia pubblica, svolta davanti a una folla immensa, ma nella quale
In alto incisione raffigurante il teatro di Marcello (a sinistra), trasformato in fortezza e utilizzato come residenza dai Savelli, alle cui dipendenze forse lavoravano i genitori di Cola di Rienzo. 1750. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs. A destra la Casa dei Crescenzi. Si tratta, in realtà, dei resti di una torre fortificata, costruita tra il 1040 ed il 1065 dai Crescenzi. È stato ipotizzato che sia stata la residenza di Cola di Rienzo.
quelle varie categorie della popolazione romana? Niente meno che a cacciare i baroni dal potere e attuare quelle riforme che caratterizzano, a Roma come nelle altre città dell’Italia comunale, il programma dei partiti popolari. Laddove Cola si distingue da tutti quelli che lo hanno preceduto e dà prova del suo straordinario talento di comunicatore, come si direbbe oggi, è nei mezzi impiegati per far colpo sul suo pubblico e spingerlo ad agire. Grande oratore e stilista raffinato, egli conosce tuttavia
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protagonisti cola di rienzo spiccano in prima fila alcuni baroni e molte altre autorevoli personalità, a conferma della capacità di Cola di rivolgersi simultaneamente a persone di vario livello sociale e culturale. Il luogo prescelto è la basilica di S. Giovanni in Laterano, anche se la religione non ha nulla da spartire con il contenuto dell’evento, molto piú vicino a un grande meeting politico di oggi che a una cerimonia religiosa. Cola ha curato nei minimi particolari la disposizione degli interni, a cominciare dal palcoscenico dove terrà il suo show, ossia il coro della basilica. Lí ha fatto innalzare il pulpito dal quale si rivolgerà al pubblico. Dietro di lui, sul muro del coro, ha fatto «ficcare una granne e mannifica tavola de metallo con lettere antiche scritta, la quale nullo sapeva leiere né interpretare». Intorno a questa tavola – una lastra di bronzo che riporta il testo della Lex regia –, ha fatto disporre un vasto dipinto che illustra il contenuto della norma e che rappresenta dunque il Senato romano nell’atto di conferire l’impero a Vespasiano.
Imperatore o gran sacerdote?
Per accentuare il carattere sacro della liturgia alla quale ha invitato i Romani a partecipare, Cola si è fatto confezionare un vestito stravagante, di cui è difficile dire se voleva essere quello di un imperatore romano o del gran sacerdote di una nuova religione; colpiva in particolar modo il copricapo, costituito da un cappello bianco sul quale stavano piú corone d’oro, una delle quali tagliata in due dalla punta di una spada d’argento infilata, non si sa bene come, nella parte superiore del cappello. Conciato in questo modo, salí sul pulpito e lí, davanti alla folla silenziosa, pronunciò in italiano quello che l’Anonimo chiama un «bello sermone», una «bella diceria». Il discorso ottenne un grande successo e non solo per il talento oratorio del futuro tribuno. Con grande abilità retorica, infatti, Cola prese spunto dalla Lex regia per opporre la grandezza della Roma antica alla miserevole condizione di quella attuale ma, per meglio solleticare l’orgoglio dei Romani, si soffermò molto di piú sul primo punto, elencando, per esempio, tutti gli attributi della sovranità che il popolo romano aveva trasferito a Vespasiano. Tra tutti i problemi della Roma contemporanea, invece, denunciava solo quello della penuria alimentare, delle difficoltà di approvvigionamento, che rischiavano di mettere a repentaglio il successo del futuro giubileo su cui la città contava per rilanciare la sua economia. Esortava infine i Romani a reagire e a intraprendere le riforme necessarie, ma senza sviluppare un programma preciso e, soprattutto, senza esporsi troppo. Cosa che fece in luoghi piú discreti e di fronte ad altre platee… Lo show in S. Giovanni ebbe molto probabilmente luogo nel 1346. L’anno successivo, il 20 maggio 1347, giorno di Pentecoste, Cola fu acclamato rettore della città, insieme con il vicario del papa, dai Romani riuniti in parlamento sulla piazza del Campidoglio. Successivamente, nel corso di un’altra riunione del parlamento, Cola riesumò il titolo di tribuno e si fece conferire i pie-
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ni poteri per attuare il suo programma politico. Il suo titolo si arricchí ancora nei giorni successivi, in modo da risuonare come quello di un magistrato della Roma antica: «Nicola il severo e il clemente, tribuno della libertà, della pace e della giustizia, liberatore della Santa Repubblica romana». I Romani che lo avevano portato al potere agivano con cognizione di causa: prima di farsi acclamare rettore, Cola aveva pronunciato un lungo discorso e fatto leggere da un suo partigiano un programma molto dettagliato, articolato in quindici misure che intendeva applicare appena ricevuti i pieni poteri. E non era affatto un programma astratto o sconclusionato, degno della mente di un agitatore esaltato.
I punti cardine del programma
Non tutto è di assoluta originalità in questa piattaforma che riecheggia in molti settori, talvolta adattandoli alla situazione romana, provvedimenti già piú o meno sperimentati da altri Comuni dell’Italia centrale, in particolare dell’Umbria e della Toscana, con i quali Roma aveva stretti rapporti. Spiccano, tuttavia, per la loro severità quelli contro i baroni: l’ottavo e il nono miravano a privarli di tutte le rocche, porte e ponti da loro controllati, il decimo ingiungeva loro di rispettare la sicurezza delle strade e l’ordine pubblico, cessando di offrire rifugio ai malfattori. Nel mese di giugno, Cola obbligò i baroni a demolire le porte e le strutture difensive che facevano delle loro case romane fortezze imprendibili. Per spezzare i legami di dipendenza che assicuravano alle famiglie baronali una clientela di fedeli e perfino di vassalli tra la piccola gente dei loro quartieri, proibí il giuramento di fedeltà, l’uso del titolo di «signore» (dominus) e dei blasoni nobiliari. Il quarto decreto del 20 maggio istituiva in ogni rione una milizia popolare di 100 fanti e 25 cavalieri; la sua missione non era quella di sostituirsi all’esercito comunale nelle guerre combattute contro i nemici esterni della città, bensí di accorrere a ogni richiesta del tribuno per difendere le istituzioni popolari in caso di ribellione. Il quinto decreto disponeva inoltre la presenza costante alle foci del Tevere di un battello armato per garantire la sicurezza del commercio marittimo e fluviale. Pochi i provvedimenti innovativi in materia finanziaria e fiscale. Per riempire le casse del Comune sarebbero stati sufficienti la riscossione rigorosa delle tasse esistenti, il cui gettito, però, era in gran parte distorto
Un comunicatore straordinario Incisione in cui si immagina Cola di Rienzo mentre spiega uno dei suoi dipinti allegorici. Il ricorso a questo singolare mezzo di comunicazione fu una delle armi di propaganda piú efficaci di Cola. Le fonti non hanno trasmesso i nomi degli eventuali autori delle composizioni, ma sappiamo che era il tribuno in persona a definire i soggetti e a dettare al pittore le scritte destinate a esplicitare il significato delle scene.
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protagonisti cola di rienzo dalle malversazioni dei funzionari e dei baroni, e il recupero dei beni comuni accaparrati dai signori. Cola iniziò dunque una politica di riappropriazione di questi diritti e di rigorosa esazione delle tasse comunali, con grande successo, a quanto pare, visto che il suo regime non ebbe mai grosse difficoltà a pagare il soldo della truppa e che il tribuno si vantò anche di avere soppresso le tasse sulla circolazione delle merci.
Nella pagina accanto ritratto di Cola di Rienzo, particolare di un affresco nel Palazzo Pubblico di Siena. 1886 circa. In basso incisione raffigurante Cola di Rienzo nel giorno dell’acclamazione popolare a rettore di Roma, il 20 maggio 1347, giorno di Pentecoste, sulla piazza del Campidoglio. In seguito, Cola riesumò il titolo di tribuno e si fece conferire i pieni poteri per attuare il suo programma politico.
La legge innanzitutto
Anche nel campo della giustizia, Cola agí piú o meno nello stesso modo. Le leggi, infatti, esistevano ed erano anche benfatte, ma non venivano applicate, perché i giudici, per esempio, accordavano sistematicamente ai potenti la facoltà di cancellare i loro delitti con il pagamento di un’ammenda spesso modesta. Cola si mostrò invece inflessibile nell’applicazione della pena di morte, soprattutto quando il condannato apparteneva ai ceti piú alti della società. La repressione non fu tuttavia l’unica strada seguita da Cola in campo giudiziario. Si fece anche promotore di una semplificazione delle procedure e diede vita, a tale scopo, a una «casa della pace e della giustizia» destinata a regolare per conciliazione, il piú spesso pacifica e in ogni caso simbolica (uno schiaffo per esempio risarciva e annullava un colpo di pugnale), le innumerevoli inimicizie tra privati. I successi conseguiti dalle misure varate risultano tanto piú strepitosi ove si consideri che furono raggiunti nei primissimi tempi del nuovo regime. Perlomeno, chi legge la Cronica dell’Anonimo ne ricava la netta impressione che Cola avesse deliberatamente scelto di cominciare con le riforme interne per meglio dedicarsi, in seguito, ai problemi di politica estera. Un ambito nel quale non si registrarono successi analoghi a quelli ottenuti sul fronte interno. Occorre tuttavia distinguere tra due tipi di obiettivi
contro i baroni
Un’ostilità a corrente alternata Cola considerava i baroni come i principali responsabili della miserevole situazione in cui si trovava la Roma del tempo e gran parte della sua opera di propaganda, prima dell’ascesa al potere, era volta a denunciare i misfatti di questo ristretto gruppo di potentissime famiglie che, dalla seconda metà del XIII secolo, erano riuscite a impadronirsi, salvo brevi episodi di regime popolare, delle leve del potere all’interno del Comune romano. Molti provvedimenti da lui attuati nei primi mesi del Tribunato furono volti ad abbattere i privilegi e le prerogative dei baroni. Tra questi e Cola c’era dunque un antagonismo profondo, al quale si aggiungeva, da parte dei baroni, disprezzo per il popolano che osava sfidarli,
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unito a odio e rabbia nei confronti del tribuno che colpiva cosí duramente i loro interessi. Ciononostante, l’atteggiamento di Cola nei loro confronti non fu sempre limpido. Talvolta, infatti, il tribuno dava l’impressione di subire il fascino di quegli altezzosi personaggi. Mescolava nei loro riguardi minacce e blandizie, alternava momenti di grande durezza e di eccessiva benevolenza. È ciò che dimostra quella sorta di psicodramma che si svolse, in quattro atti, alla metà del settembre 1347. Cola aveva convocato nel palazzo del Campidoglio i principali baroni della città, non si sa bene se per un banchetto o una discussione informale. Provocato dal piú prestigioso di loro, il vecchio marzo
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l’ascesa e il declino
e di iniziative. Nei confronti del contado, ossia di quella parte del Lazio sulla quale Roma, come ogni altra città comunale dell’epoca, era riuscita, nei suoi periodi di maggiore dinamismo, a estendere la sua autorità, la politica del tribuno fu tutt’altro che negativa. Di segno diametralmente opposto il giudizio che di solito viene dato alla politica italiana del tribuno.
Una pretesa insolente
Per l’Anonimo, come detto, furono le stravaganze di Cola in questo campo, e prima di tutto l’idea che il popolo romano potesse conferirgli – a lui, figlio di un taverniere e di una lavandaia! – la corona imperiale, a togliergli la fiducia dei suoi partigiani della prima ora e a privarlo, di fronte alla ribellione dei baroni, del loro sostegno. Anche gli storici moderni non sono teneri, in generale, verso questo aspetto della politica di Cola. Bollano come particolarmente utopica, per esempio, l’idea che si potesse realizzare l’unità dell’Italia nelle condizioni politiche dell’epoca. Per quanto mi riguarda, non credo che tutto fosse cosí irrealistico nella politica italiana di Cola e sono comunque convinto che, per comprenderla appieno, occorre considerare non solo il racconto piuttosto tendenzioso dell’Anonimo, ma anche le dichiarazioni fatte a posteriori dal tribuno per giustificare il proprio operato, e in particolare le lunghe lettere da lui scritte durante il suo soggiorno a Praga. Ne emerge con
Stefano Colonna, che gli consiglia di portare vestiti piú consoni alla sua condizione di «vizuoco» (=pinzochero), Cola fa arrestare tutti i presenti. Era il 14 settembre. L’indomani all’alba i baroni sono invitati a confessare i loro peccati a dei chierici, che fanno intendere loro di essere stati condannati a morte, quindi sono portati in una sala tutta decorata con drappi di seta rossi e bianchi, «in segno di sangue». Convinti di dover morire, ascoltano un «bel sermone» di Cola che invece li perdona tutti e li gratifica di titoli onorifici desunti dal basso impero. L’episodio si prolunga il 16 con una messa solenne e il 17 con una processione che vede riunito tutto il clero della città.
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1313 Cola nasce a Roma da Lorenzo (Rienzo), taverniere, e da Maddalena, lavandaia. fino al 1333 circa Trascorre gran parte dell’infanzia e della gioventú presso un parente del padre ad Anagni. fine 1342-estate 1344 Soggiorna ad Avignone, dove è stato inviato dalla parte filopopolare del Comune di Roma. 1344-1347 È notaio della Camera capitolina (ufficio finanziario del Comune romano); si afferma come il principale leader del movimento popolare. 20 maggio 1347 È investito dei pieni poteri dal Comune romano, con il titolo di Tribuno. 15 dicembre 1347 Abbandona il potere. 1347-1348 Vive in semiclandestinità tra Roma e Napoli. fine 1348-giugno 1350 Soggiorna tra i Fraticelli della Maiella, in Abruzzo. luglio 1350-luglio1352 Al soggiorno a Praga alla corte dell’imperatore Carlo IV fa seguito la detenzione nella prigione di Roudnice, sull’Elba. estate 1352 Cola è detenuto ad Avignone in una torre del palazzo pontificio; liberato il 15 settembre 1353, ritorna poco dopo in Italia. inverno 1354 È forse al servizio del cardinale Albornoz, legato pontificio in Italia centrale. 1° agosto 1354 Nominato senatore dal cardinale Albornoz, rientra a Roma dove dirige il Comune romano in nome della Chiesa. 8 ottobre 1354 Nel corso di una sollevazione popolare, viene ucciso dalla folla dalla quale tentava di fuggire.
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protagonisti cola di rienzo grande chiarezza che per Cola la questione dell’impero era tutto sommato secondaria. Ciò che gli importava davvero era di eliminare ogni motivo di divisione tra le città e anche all’interno di ciascuna di esse, a cominciare dall’esistenza delle fazioni guelfa e ghibellina. Occorreva, per raggiungere tale scopo, realizzare l’unio (ma Cola parla anche di unitas o di societas) tra le città italiane, unione da interpretare, a mio avviso, come una sorta di alleanza tra Comuni che condividono lo stesso sistema di valori e applicano lo stesso programma politico. Un programma ovviamente identico a quello realizzato da Cola a Roma: sottomissione dei baroni, eliminazione delle fazioni o clientele, restaurazione dell’ordine con l’esercizio di una giustizia implacabile. Che poi a capo di tale unione ci dovesse essere il papa, l’imperatore o qualsiasi altro autorevole personaggio – compreso lui stesso –, era, come dicevo, una questione del tutto In alto, sulle due pagine ricostruzioni di alcuni dei gonfaloni portati in Campidoglio da Cola di Rienzo il 20 maggio 1347. In basso ricostruzione ideale dell’affresco che Cola di Rienzo fece dipingere sul muro della chiesa di S. Maria Maddalena di Castello, nei pressi di Castel S. Angelo.
libertà Raffigura Roma seduta in trono, con due leoni, e il motto Roma caput mundi.
secondaria, sulla quale Cola è il primo ad ammettere di aver cambiato varie volte posizione. Riguardo ai mezzi utilizzati da Cola per realizzare la sua politica italiana, credo sia sbagliato opporre, come fanno tanti studiosi, il suo gusto sfrenato per i discorsi, i riti e i simboli alla povertà delle risorse materiali di cui disponeva per attuare una politica cosí ambiziosa. Alla metà del XIV secolo Roma non era una città ricca e potente come Firenze, Milano o Venezia. Ma non sempre sono i soldi e i soldati a cambiare il mondo. Roma aveva, dalla sua, non solo l’enorme prestigio del suo passato antico ma anche notevoli risorse intellettuali, di cui le lettere e i discorsi dello stesso Cola sono l’espressione piú alta.
Cerimonie grandiose
Lettere e discorsi, tuttavia, erano mezzi di comunicazione di portata molto limitata, che difficilmente potevano raggiungere piú di una ristretta élite di intellettuali e di dirigenti politici. Di questo Cola era ben consapevole e proprio per potersi rivolgere a un pubblico molto piú vasto organizzò, a partire dalla fine di luglio, alcune grandiose cerimonie, destinate a convincere anche la folla degli illetterati della bontà delle sue iniziative in materia di politica italiana. Due in particolare colpirono i contemporanei per la profusione di riti e simboli. La prima si protrasse per tre giorni, dal 31 luglio al 2 agosto. Cola aveva invitato ambasciatori delle città italiane e tutto il popolo romano a celebrare la sua consacrazione a Cavaliere dello Spirito Santo. La cerimonia propriamente detta fu preceduta da un gigantesco banchetto all’interno del palazzo pontificio di S. Giovanni in Laterano. All’ora «X» del 31 luglio, una folla immensa si era radunata sotto i portici di piazza S. Giovanni e nelle vie laterali per assistere alla cerimonia. Cola salí sulla loggia da dove Bonifacio VIII aveva proclamato il primo
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giustizia Per incarnare la Giustizia venne scelto l’Apostolo Paolo.
giubileo per annunciare alla folla che l’indomani sarebbe stato consacrato cavaliere e che tutti i presenti avrebbero sentito «cose che sarebbero piaciuto a Dio in cielo e agli uomini sulla terra». E cosí l’indomani, 1° agosto, festa di san Pietro in Vincoli, la gente si radunò di nuovo in piazza S. Giovanni per ascoltare l’atteso messaggio che Cola il giorno prima aveva promesso di svelare. Salí ancora una volta sulla loggia delle benedizioni e lí, mentre il clero celebrava la messa, si esibí in uno show straordinario, nel quale fece leggere una dichiarazione secondo cui il popolo romano si riprendeva gli antichi diritti di sovranità; concedette poi a nome dello stesso popolo la cittadinanza romana a tutti gli Italiani, rivendicò per Roma e l’Italia il diritto di nominare l’imperatore, ingiunse al papa di tornare a Roma, convocò i due pretendenti alla corona imperiale nonché tutti gli elettori tedeschi a comparire davanti a lui per difendere i loro diritti; infine, estraendo la spada dal fodero e facendo con essa il gesto di indicare le tre parti del mondo, disse: «Questa è mia, questa è mia, questa è mia». Il vicario pontificio, benché occupato a celebrare la messa, rimase di stucco quando udí le ultime parole del tribuno. Chiamò un suo notaio e gli ordinò di proclamare ad alta voce che lui, vicario del papa, protestava con forza contro le pretese di Cola. Fu tutto inutile, perché la voce del povero notaio fu immediatamente coperta dal baccano di trombe, trombette, nacchere e cornamuse fatte suonare dal tribuno. A giudizio dell’Anonimo, per il quale tutta la cerimonia si stava trasformando in una «viziosa buffonia», molti tra i presenti cominciarono quel giorno a dubitare della saggezza del tribuno. Piú breve ma ancora piú ricca di riti e simboli ci appare la seconda delle grandi cerimonie, quella che si svolse, il 15 agosto, nella basilica di S. Maria Maggiore, per l’incoronazione del tribuno. La cerimonia segnò il punto piú alto delle ambizioni di Cola nell’ambito della politica italiana. Già a quella data, però, anche le città meglio disposte nei suoi confronti avevano cominciato
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l’insegna personale Cola scelse per sé un sole d’oro circondato da stelle d’argento.
a prendere le distanze da una politica giudicata troppo avventurosa e soprattutto lesiva della loro autonomia. E tutto lascia pensare che, anche se Cola fosse rimasto piú a lungo al potere, avrebbe forse ottenuto la formazione di una lega tra alcune città dell’Italia centrale, ma certamente non la restaurazione di un impero liberato da ogni ingerenza straniera.
Si spegne il fuoco sacro
Nel mese di settembre Cola continuò a coltivare il suo sogno, affidando per esempio a due giuristi l’incarico di trasmettere varie proposte ai cittadini dell’«Italia sacra», ma senza piú il fervore dei primi mesi. Del resto l’azione di Cola appare sempre piú segnata, a partire da quella data, da lunghi periodi di apatia, di cui approfittano sia i baroni che entrano in aperta ribellione contro di lui sia il papato, che fa di tutto per sabotare la sua politica estera. È dunque un Cola scoraggiato e depresso che decide, il 15 dicembre 1347, di abbandonare il potere. Lo fa da grande attore che saluta il suo pubblico per l’ultima volta: anche lui pronuncia un ultimo discorso, poi a cavallo e rivestito delle insegne imperiali lascia il palazzo del Campidoglio e si rifugia in Castel Sant’Angelo. Negli anni successivi all’abbandono del potere, tra la fine del 1348 e la metà del 1350, Cola soggiornò lungo tra i Fraticelli dell’Abruzzo, nel massiccio della Maiella. I Fraticelli erano Francescani appartenenti alla corrente «spirituale» dell’Ordine, che vivevano lí in piccole comunità o come eremiti. Partigiani della povertà assoluta, condannata dalla Chiesa, predicavano l’avvento di un mondo migliore, grazie alla venuta dello Spirito Santo che avrebbe fondato sulla terra il nuovo regno di Dio. La sua aspirazione al rinnovamento morale dell’uomo, come la pronunciata devozione allo Spirito Santo, inducevano Cola a condividere queste credenze, tanto piú che era facile per lui trovare nel profetismo escatologico dei Fraticelli una missione da compiere: quella di andare a Praga per convincere l’imperatore,
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protagonisti cola di rienzo Miniatura raffigurante il cardinale Egidio Albornoz che riceve dai magistrati le chiavi delle città sottomesse, dal Registrum recognitionis et iuramenti fidelitatis civitatum ad Innocentium VI. 1356-59. Città del Vaticano, Archivio Segreto.
che secondo i Fraticelli doveva essere lo strumento della restaurazione del regno di Dio sulla Terra. Probabilmente all’inizio dell’estate 1350 Cola intraprese il viaggio per Praga, per convincere l’imperatore Carlo IV ad adempiere la missione assegnatagli dai Fraticelli della Maiella. Giunto in città, Cola alloggiò presso un albergatore italiano e fu ricevuto da Carlo IV almeno tre volte, alla fine di luglio e nella prima metà di agosto. Spiegò all’imperatore il senso delle profezie dei Fraticelli, gli annunciò la venuta dello Spirito Santo e in questa prospettiva gli propose di prendere il potere in Italia. Carlo IV ascoltò e s’informò, interrogandolo in particolare sulla situazione politica a Roma e in Italia, ma senza prestare il minimo credito ai discorsi escatologici. Gli chiese quindi di redigere due relazioni, una per sé e l’altra per l’arcivescovo di Praga, dopo di che lo fece arrestare, il che gli valse immediatamente tre lettere di felicitazioni di Clemente VI. Tuttavia, si guardò bene dal consegnarlo al papa e lo fece trattare con riguardo per tutto il corso della sua detenzione a Roudnice, sul fiume Elba, sotto la custodia dell’arcivescovo di Praga.
L’accusa di eresia
Nella primavera del 1352, papa Clemente VI ottenne dall’imperatore il trasferimento dalla Boemia ad Avignone di Cola, scomunicato e sottoposto a un’inchiesta dell’Inquisizione per eresia. L’arrivo ad Avignone ebbe luogo nel luglio o all’inizio di agosto del 1352. Cola rimase oltre un anno chiuso in una torre del palazzo pontificio, ma trattato con riguardo. Solo dopo l’elezione del nuovo papa, Innocenzo VI, riuscí a ottenere la liberazione, il 15 settembre 1353. Subito dopo, partirono da Avignone lettere per annunciare al cardinale Albornoz, legato pontificio nello Stato della Chiesa, al Comune di Roma e a varie altre città che Cola aveva ricevuto dal papa la missione di restaurare l’ordine a Roma, senza però
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dare altre precisazioni sulla natura dei poteri conferiti all’ex tribuno. Cola si recò allora in Italia centrale presso il cardinale Albornoz, che tuttavia lasciò passare vari mesi prima di dare il suo consenso alla nomina di senatore di Roma e di attribuirgli una piccola truppa per affrontare la coalizione Orsini-Colonna, che deteneva il potere. Ed è in veste di senatore nominato dal legato pontificio che Cola fece, il 1° agosto 1354, un ritorno trionfale a Roma. Fu un trionfo di brevissima durata. Cola, infatti, detenne il potere solo per due mesi. Controllato a vista dal potente ed energico cardinale Albornoz, aveva abbandonato ogni velleità di politica italiana e persino di riforma comunale. L’entusiasmo con il quale lo avevano accolto i Romani si dissipò sul nascere e Cola dovette quindi affrontare l’aperta ostilità dei baroni senza alcun sostegno popolare.
Al cospetto del cardinale
Forse lui stesso non credeva piú nel proprio destino. L’Anonimo lo descrive come una sorta di degenerato, rozzo e rubicondo, sempre dedito al vino e dalle convinzioni vacillanti. Fatto sta che la mattina dell’8 ottobre, quando si sollevarono contro di lui i quattro rioni di S. Angelo, Ripa, Colonna e Trevi, sottoposti alla preponderante influenza dei Savelli e dei Colonna, non ci fu alcun tentativo, da parte della popolazione degli altri rioni, di portargli soccorso. In un ultimo impeto d’orgoglio, il senatore si affacciò in pompa magna al balcone del palazzo comunale con l’intenzione di arringare i rivoltosi, ma di fronte al lancio di pietre e di frecce contro il Campidoglio, abbandonato dal personale comunale, dovette ben presto desistere. Incerto se morire combattendo o salvare la pelle con la fuga, decise infine di travestirsi da contadino, riuscendo cosí a uscire dal palazzo in fiamme e a mescolarsi alla folla gridando come gli altri: «Suso, suso a gliu traditore!». Fu, però, riconosciuto dai braccialetti che aveva dimenticato di togliere, condotto sulla sommità della grande scalinata, vicino al leone, dove restò un’ora prima che un certo Francesco de Vecchio gli assestasse il primo colpo. Era l’8 ottobre del 1354. Il suo cadavere mutilato rimase esposto per due giorni davanti alla chiesa di S. Marcello, vicino al palazzo Colonna, contiguo alla chiesa dei SS. Apostoli, in seguito bruciato sulla piazza del mausoleo di Augusto, anch’esso occupato dai Colonna. F marzo
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di Chiara Mercuri
Roma Sormontate dai resti della città imperiale e fagocitate dall’urbanistica di età barocca, giacciono, nascoste, le vestigia di una città sconosciuta, quella dei secoli dell’Età di Mezzo. Ma fu davvero, la Roma del Medioevo, una città in abbandono, disseminata di rovine, secondo un’immagine cara a scrittori e artisti sin dal Rinascimento? In una intervista esclusiva, lo storico Jean-Claude Maire Vigueur spiega l’origine di un pregiudizio che ha pesato a lungo sulla storiografia della Città Eterna
Alla scoperta di una città medievale Ettore Roesler Franz, Porta Cavalleggeri. 1895. Roma, Museo di Roma. La porta, qui vista dall’interno, faceva parte del sistema difensivo leonino ed è oggi solo parzialmente conservata.
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a storia di Roma nell’età medievale ha dovuto fare i conti, nel corso dei secoli, con una serie non piccola di ostacoli e problemi. Una certa carenza di fonti antiche, innanzitutto. Ludovico Antonio Muratori fu il primo che, verso la metà del XVIII secolo – nell’alveo della grande rivoluzione intellettuale illuminista –, raccolse in volumi, i Rerum Italicarum Scriptores, le diverse cronache delle città italiane di età medievale (vedi box qui sotto). Prima del suo sforzo, per Roma esistevano solo le biografie dei papi e i resoconti di viaggio dei monaci venuti in visita alla città. Mancavano le descrizioni dell’ambiente urbano rese dalle cronache e dai diari cittadini, che Muratori pubblicò rendendoli fruibili agli studiosi per i secoli a venire. Un forte pregiudizio gravava sull’interpretazione delle vicende della Roma medievale: cosa era stato della città nel corso di quei nove secoli? Cosa era divenuta Roma? Era rimasta una capitale internazionale o si era trasformata in una città impoverita e in disfacimento? La vita di Roma medievale, per segnare dei limiti cronologici che siano comprensibili a tutti, va dalla caduta dell’impero romano (476) al ritorno dei papi da Avignone (1377). La fine del mondo antico fu avvertita dalla città a partire dalla metà del VI secolo in modo dram-
Ludovico Antonio Muratori
Uno storico «moderno» Ludovico Antonio Muratori nacque nel 1672 a Vignola, nel ducato di Modena. Nel 1694 si laureò in diritto al Collegio dei Nobili di San Carlo della città emiliana, dove aveva coltivato anche studi eruditi, che costituivano i suoi interessi principali. Nel 1695, ordinato sacerdote, fu chiamato a Milano nel Collegio dei Dottori della Biblioteca Ambrosiana; frutto del suo lavoro milanese sono i primi due volumi degli Anecdota latina (1697-98) e la raccolta dei materiali per il Novus Thesaurus veterum inscriptionum (1739-43). Nel 1700 fu chiamato a Modena da Rinaldo I d’Este e nominato archivista e bibliotecario ducale, e storico della casa d’Este, incarico al quale, dal
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1708 al 1720, si uní quello di difensore dei diritti estensi su Comacchio, rivendicati dalla Santa Sede. I primi interessi di Muratori dopo il ritorno a Modena furono rivolti soprattutto alla letteratura, con opere che segnano la sua transizione dal Barocco all’Arcadia: dai Primi disegni della repubblica letteraria d’Italia (1703) a Della perfetta poesia italiana (1706, ma scritto nel 1703), alle Riflessioni sopra il buon gusto nella scienza e nelle arti (1708-1715). La riflessione sulla storia divenne centro del suo lavoro anche sotto l’impulso della sua attività nella polemica giuridico-politica per Comacchio: nacquero cosí le Antichità marzo
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matico. Roma, infatti, fu coinvolta nelle tragiche vicende della guerra greco-gotica (535-553), conflitto ventennale che vide contrapposti in una sfida all’ultimo sangue, che spopolò e impoverí l’intera Penisola, gli Ostrogoti (impegnati a difendere il loro regno insediato in Italia con Teodorico) e i Bizantini (intenzionati, con Giustiniano, a recuperare la Penisola italica all’impero). Da quel momento Roma conobbe un incredibile alternarsi di vicende storiche, cambiando piú volte volto: città provinciale dell’impero bizantino, città prestigiosa ma preda di fazioni feudali, obiettivo sensibile di saccheggi saraceni e normanni, libero Comune, sede del papato.
La trasformazione
Nel continuo svolgersi dei processi storici, una costante restava a fare da sfondo: l’antica metropoli imperiale era stata distrutta dalle guerre, dalla peste, dai terremoti, dall’abbandono, dalla crescita incontrollata di piante e arbusti. Le sue antiche vestigia erano ormai quasi sepolte dall’interrarsi dei condotti fognari ostruiti, dalle frequenti inondazioni del Tevere, dall’incessante attività degli uomini impegnati a trarne materiali da riutilizzare per le coPianta della città di Roma disegnata dall’architetto, archeologo e pittore Pirro Ligorio. 1570.
Estensi (1717 e 1740), quasi un’anticipazione delle grandi opere che seguirono e una definitiva adesione ai metodi storiografici dei padri maurini, arricchiti dalla concezione (settecentesca) della storia civile, come connessione organica di eventi politici, fatti giuridici e fenomeni sociali. Dal 1723 al 1738 pubblicò i primi 27 volumi dei Rerum Italicarum Scriptores (il XXVIII, postumo: 1751), il maggior esempio della critica filologica settecentesca: con l’aiuto di vari collaboratori raccolse le fonti della storia medievale italiana (cronache, testi giuridici, epigrafici, letterari, dal VI al XVI secolo). Frutto di un tale lavoro critico sulle fonti sono
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anche le Antiquitates Italicae Medii Aevi (1738-1743, 6 voll.), di cui diede anche una traduzione in compendi (Dissertazioni sopra le antichità italiane, postumo, 17511755, 3 voll.), 75 studi su altrettanti aspetti della storia civile medievale. Infine, quasi a compendiare la sua attività di storico, gli Annali d’Italia dal principio dell’era volgare al 1749 (1744-1749, 12 voll.), uno dei punti piú alti della storiografia settecentesca per rigore critico e coerenza metodologica, e uno dei capolavori della nostra letteratura: con il loro linguaggio «familiare» rompono una tradizionale identificazione di opera storiografica e stile oratorio. (red.)
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Dossier L’interno della chiesa di S. Maria Antiqua, fondata nel VI sec. alle pendici nord-occidentali del Palatino. Nell’arco di circa tre secoli fu abbellita da estesi cicli pittorici, in larga parte conservati: si tratta di testimonianze uniche, a Roma e nel mondo, per la conoscenza dello sviluppo dell’arte altomedievale e bizantina.
struzioni. Se Roma mantenne comunque un ruolo da protagonista, fu solo grazie alla presenza dei papi e al valore simbolico che, nonostante il trascorrere dei secoli, manteneva intatto a motivo della grandezza del suo passato imperiale. Nell’immaginario di chi arrivava a Roma nel Medioevo si aprivano infatti due magnifici scenari, dietro ai quali la città reale quasi spariva fisicamente: la Roma classica e la Roma cristiana. Eppure la città antica, con i suoi monumenti, con gli edifici pubblici, con gli immensi caseggiati, con gli estesi circuiti murari, con la consistenza della sua popolazione (che all’apogeo della fase imperiale aveva superato il milione di abitanti), all’inizio del Medioevo si era ridotta a un insieme di quartieri dissestati dal Tevere, abitati da 30-40 000 persone. Da centro del mondo, la città altomedievale si era trasformata in un piccolo centro urbano che tuttavia manteneva un valore simbolico tale da renderla preda ambita dei
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Bizantini, dei Carolingi, dei baroni laziali e infine degli imperatori del Sacro Romano Impero. Un ostaggio prezioso in quanto a prestigio, ma modesto per qualità e quantità: la città si era infatti rimpicciolita e impoverita, e anche quando assurse a centro comunale nel XII secolo, restò ininfluente dal punto di vista militare, al contrario di altri Comuni del Centro e Nord Italia.
Un declino inarrestabile
La fine dell’età antica rappresentò per Roma un declino vertiginoso, e – nel volgere di pochi secoli – una serie di mutamenti urbanistici la resero irriconoscibile. Dove sorgevano i Fori – con i tribunali, le biblioteche, gli archivi, i templi –, proliferarono case tirate su con materiale di riutilizzo, stalle per animali, orti e coltivazioni di alberi da frutta. Piccoli cimiteri annessi a chiesuole comparvero all’interno delle mura, contravvenendo alla legge che – sin dal VII secolo a.C. – aveva stabilito
che nessun corpo (con l’eccezione di qualche imperatore) fosse seppellito entro la cerchia urbana. Nessun edificio pubblico – circhi, stadi, teatri – mantenne la funzione originaria; piú spesso gli antichi edifici pubblici si trasformarono in cave, spiazzi e basi per fortilizi. La città dentro le mura si costellò di vigne e orti, di prati dove gli animali pascolavano e le piccole selve si radicavano. Per molti studiosi tale immagine è la fotografia di un’indiscutibile catastrofe. Essi vedono una netta cesura tra la Roma antica e la ben piú modesta Roma medievale, giungendo quasi a negare per essa il titolo di «città», in quanto – a loro avviso – ridotta a un semplice agglomerato di nuclei abitati basculanti all’interno dell’immensa cerchia delle Mura Aureliane. Solo in tempi recenti tale visione ha subito una rivisitazione. Contro tale lettura, detta «catastrofista», vi è oggi una letteratura scientifica che propone un’interpretaziomarzo
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ne diametralmente opposta, che potremmo definire «continuista». Secondo i sostenitori di tale tesi, infatti, sono molti gli elementi di continuità tra la Roma antica e la Roma medievale. Per esempio per ciò che concerne le cariche cittadine, il senato di Roma continuò a esistere anche dopo la fine dell’impero, come pure i curatores (funzionari urbani). Le fonti scritte come quelle archeologiche segnalano inoltre l’abbondanza dei restauri effettuati, in età altomedievale, su edifici antichi, acquedotti e argini: interventi talvolta imponenti. Non vi fu, in altre parole, nessun abbandono.
Nuove letture
Alcuni fenomeni poi, da sempre considerati prova della decadenza della Roma medievale, sono stati rivalutati. La presenza dei cimiteri all’interno del tessuto cittadino, per esempio, o negli spazi un tempo pubblici, ritenuta il riflesso di generalizzato abbandono, viene oggi vista come segno di vitalità: in quei secoli si seppelliva dove si viveva. Lo stesso vale per le stalle, per gli orti e i campi coltivati, sorti – tra VIII e IX secolo – un po’ ovunque nel tessuto intramurario della città. Tale fenomeno, considerato appunto «catastrofico» dagli archeologi classici, è invece la testimonianza di una continuità residenziale da parte di individui che, come nel resto d’Europa, si erano ormai – nella quasi totalità dei casi – trasformati in agricoltori. Anche il declino demografico, cosí come il fenomeno della «ruralizzazione delle aree urbane», non fu prerogativa della sola città di Roma. E non fu neppure fenomeno solo italiano, ma tipico di tutta l’area mediterranea a partire da prima della caduta dell’impero. Certo, a Roma la scomparsa della città antica fu particolarmente evidente. La stessa complessità e la magnificenza della città si tramutarono in difficoltà aggiuntive, dal momento che i suoi abitanti – ridimensionati nel numero e nella ricchezza – non furono piú in grado di curarne la manutenzione. Nel giro
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Il Pantheon
Un caso unico Il Pantheon di Roma venne fatto costruire nel Campo Marzio da M. Vipsanio Agrippa, genero dell’imperatore Augusto, nel 27 a.C., e completamente rifatto durante l’età di Adriano (117-138 d.C.). È formato da un pronao rettangolare con otto colonne di granito sulla fronte e da una grande aula circolare coperta da una cupola emisferica del diametro di 43,30 m, pari all’altezza interna dell’edificio. Il suo eccezionale stato di conservazione si deve al fatto che, nel 609, l’imperatore bizantino Foca donò il monumento a papa Bonifacio IV, il quale lo consacrò alla Vergine e a tutti i Martiri, conferendogli il nome di basilica di S. Maria ad Martyres. La consacrazione non ha solo risparmiato il Pantheon dalla completa spoliazione a cui sono stati sottoposti tutti gli altri monumenti antichi, ma ha anche garantito l’utilizzo ininterrotto dell’edificio, che lo rende un unicum nella storia millenaria di Roma. Nel 1632 papa Urbano VIII Barberini utilizzò i bronzi del pronao per realizzare il baldacchino nella basilica di S. Pietro e, piú tardi, tra il 1747 e il 1758, l’architetto Paolo Posi operò per il rifacimento della decorazione marmorea interna del tamburo. (red.)
Il Pantheon in un disegno di Ludovico degli Uberti del 1472, pubblicato da Marteen van Heemskerck (1498-1574). Berlino, Museen Dahlem, Museum Europäischer Kulturen.
In pochi secoli una serie di mutamenti urbanistici rese Roma irriconoscibile. Dove sorgevano i fori proliferarono case tirate su con materiale di riuso, stalle, orti e frutteti 57
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rione monti
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In alto frammento di affresco in origine collocato sulla facciata del Palazzo Senatorio, con gli stemmi di quattro dei piú importanti rioni di Roma. Nella pagina accanto la tor de’ Conti, una delle piú poderose strutture del genere. Eretta sui resti del Foro della Pace alla fine del IX sec., ebbe rifacimenti e ricostruzioni ed è stata pesantemente restaurata intorno al 1939.
di un paio di secoli, tra il VI e l’VIII, la città monumentale, nonostante le sue istituzioni fossero ancora pienamente funzionanti, era già in progressivo disfacimento. Il processo si accelerò quando alcune strutture – biblioteche, tribunali, acquedotti – vennero dismesse. Strutture piú piccole e gestibili furono preposte a svolgere le medesime attività, in ragione dei ridotti bisogni. La città medievale salvò solo gli organismi piú imponenti, spesso insediandovi chiese, monasteri, edifici pubblici e strutture militari. Il Pantheon di Adriano fu il primo edificio a essere recuperato, attraverso la trasformazione nella chiesa di S. Maria ad Martyres (609). Si cercò pure di mantenere la funzionalità di parte del sistema fognario, di alcuni ponti, degli argini del Tevere e di almeno un acquedotto. Le strade rimasero le medesime di età romana, pur se compromesse dall’impossibilità di manutenerle. Accanto a tali interventi di recupero si sviluppò anche un piano di nuovi lavori. Nuovi borghi nacquero a ridosso delle principali chiese sorte fuori le mura cittadine: è il caso di San Lorenzo, di San
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rione colonna
Pietro in Vaticano, di San Paolo e di Sant’Agnese. In alcuni casi, tali borghi, in particolare San Lorenzo e San Paolo, divennero, nel corso dell’VIII e del IX secolo, vere e proprie piccole città fortificate, sviluppatesi nelle strutture di accoglienza per i pellegrini. Lo stesso processo investí il Vaticano, dotato, a metà dell’VIII secolo, da Leone IV, di mura difensive che sfruttavano come caposaldo il mausoleo dell’imperatore Adriano, l’odierno Castel Sant’Angelo. Se quindi all’interno delle mura si crearono ampi spazi disabitati, nel suburbio crebbero nuovi nuclei urbani, in un generalizzato ridimensionamento demografico. La città medievale dunque si presenta piú complessa, nelle sue dinamiche di crisi e ripresa, di quanto non sia apparsa agli occhi degli studiosi della Roma classica, abituati a confrontarsi con la planimetria e l’edilizia della Roma augustea.
Nasce il Comune
Per i motivi che si è cercato di elencare, la Roma altomedievale ha conosciuto una robusta sfortuna storiografica, ma non è andata meglio nella fase successiva, quella bassomedievale. Dopo il Mille, Roma conobbe una stagione di scontri e sviluppi civici che portarono, nel 1143, all’instaurazione del Comune. La fase comunale fu caratterizzata da contrasti – alternati al dialogo – con il grande potere antagonista della città: l’autorità pontificia. In questa fase tuttavia la vita della città fu espressione di una politica auto-
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noma, slegata dagli interessi della corte pontificia. Quando poi, nel 1308, i re francesi imposero il trasferimento del papa ad Avignone (dove rimase fino al 1377), la Roma comunale conobbe una sua autentica indipendenza con Cola di Rienzo, il quale alla metà del XIV secolo riuscí a imporre un potere personale su base popolare (o demagogica, a seconda dei punti di vista). Con il ritorno a Roma della corte papale, il potere comunale declinò progressivamente, divenendo un vacuo ricettacolo di cariche onorifiche concesse dai papi alla nobiltà locale. Solo allora, con il primo Rinascimento, Roma finí davvero per coincidere politicamente con il Vaticano, quartiere fino ad allora periferico. La città medievale – con le sue chiese in mattoni e le sue cupe torri fortificate – avrebbe d’ora in avanti lasciato il posto alla ricca corte dei papi che la trasformò in una sfavillante città rinascimentale prima e barocca poi. Non si può dunque affermare che la gloriosa capitale dell’impero romano fosse semplicemente scaduta, nella sua fase medievale, al rango di città arretrata e ininfluente, e che solo alle soglie dell’età moderna tornasse a essere centrale grazie all’affermazione del Rinascimento prima e del Barocco poi. Tale percezione è alimentata da una sommaria osservazione del panorama urbanistico che, ancora oggi, celebra come indubbi protagonisti gli scenari classici, rinascimentali e barocchi. L’allure dell’attuale città
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Ettore Roesler Franz, Porta San Paolo e la Piramide di Caio Cestio. 1880 circa. Roma, Museo di Roma.
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ha contribuito, in profondità, a determinare l’immagine di una Roma medievale a dir poco angusta. Al contrario, la progressiva emarginazione degli ideali comunali, con il ritorno dei papi da Avignone, fece coincidere il destino della città con quello di capitale dello Stato pontificio. Uno Stato che, nel suo ultimo secolo di vita – il XIX – fu animato dal caparbio tentativo di preservare il proprio potere temporale, rallentando il movimento risorgimentale teso all’unificazione della nazione. In tale contesto la Roma papale fu identificata come residuato di un potere feudale che si considerava di matrice medievale. Per tale ragione i Piemontesi, arrivati dopo il 1870, vollero cancellare le superfetazioni di età medievale, cresciute come licheni sulle rovine classiche. Ciò che restava della Roma medievale fu cosí distrutto anche dagli stessi archeologi, paladini della Roma
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Dossier imperiale e nemici della fatiscente città medievale: le torri, le case, le chiese romaniche, gli edifici pontifici, i bastioni che avevano custodito la città per millecinquecento anni furono presi d’attacco. Educati alla venerazione del mondo classico (e alla sua idealizzazione: il Rinascimento), architetti, archeologi e storici dell’arte giudicarono le vestigia medievali come brutte copie di quelle antiche. I prodotti artistici della Roma medievale furono considerati numericamente poco rilevanti e legati a una committenza papale che da sempre prediligeva maestranze forestiere. Non furono compresi – e quindi salvati – neppure i reperti dell’esperienza comunale, che era stata del tutto autonoma dalla politica pontificia. Al contrario, la stessa istituzione del Comune di Roma fu etichettata come fenomeno determinato da spinte esogene e comunque limitata nel significato e nel tempo.
Tali equivoci hanno connotato la storiografia relativa alla Roma medievale, segnando di riflesso la sua stessa urbanistica. Solo attraverso un lungo e difficile lavoro tale cliché è stato infranto e – per alcuni versi – capovolto. Le tappe di tale «riscoperta», in estrema sintesi, possono essere illustrate attraverso alcuni studi storiografici che hanno ridisegnato, per progressive aggiunte, il volto della città medievale.
Una pietra miliare
II lavoro da cui si deve partire, il primo e piú dirompente, è senza dubbio la Storia della città di Roma nel Medioevo di Ferdinand Gregorovius. Lo storico tedesco, sulla base di fonti fino a quel momento neglette, disperse in archivi familiari spesso irraggiungibili, scrisse una monumentale storia della città dal V al XVI secolo. La formazione romantica dell’autore ebbe inevitabile influsso sulla sua opera. Erano gli
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Nemico del potere temporale Nato forse a Brescia, Arnaldo da Brescia fu, dal 1115, allievo di Abelardo a Parigi. Tornato in Italia, iniziò gli attacchi contro la mondanità della Chiesa. Affermava che la confessione doveva essere fatta non a un sacerdote, ma tra i fedeli stessi, vicendevolmente; che i sacramenti amministrati da un sacerdote in stato di peccato erano privi di valore; che gli ecclesiastici non dovevano possedere ricchezze, né essere investiti di autorità politica. Avendo guidato l’opposizione contro il vescovo Manfredo di Brescia, fu chiamato da Innocenzo II a Roma e condannato all’esilio nel 1139. Si recò di nuovo in Francia, dove, nel 1141, fu condannato, con Abelardo, dal Concilio di Sens. Malgrado la condanna, tenne lezioni di teologia morale a Parigi. Espulso dalla Francia per ordine di Luigi VII su richiesta di Bernardo di Chiaravalle, si recò prima a Zurigo e poi in Boemia. Frattanto, nel 1143, era scoppiata a Roma una rivoluzione tendente a eliminare il potere temporale dei papi e a instaurare la repubblica: era stato eletto il Senato e un patricius. Nel 1145 Arnaldo da Brescia raggiunse Roma e appoggiò decisamente la repubblica; fu perciò scomunicato da Eugenio III il 15 luglio 1148. Catturato da Federico I Barbarossa, che perseguiva in quel momento una politica di pace con il papato e si era accordato con Adriano IV, fu consegnato al prefetto dell’Urbe, che lo fece condannare a morte: impiccato e arso, le sue ceneri furono disperse nel Tevere (19 giugno 1155). La sua opera fu continuata dai seguaci, detti «arnaldisti». (red.)
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La Torre delle Milizie, posta sull’estremità occidentale del Quirinale. Con altre sei strutture simili, la torre faceva parte di uno dei maggiori complessi fortificati della Roma medievale.
anni in cui le sue due patrie (quella di sangue, la Germania, e quella elettiva, l’Italia) erano impegnate in una durissima lotta per la riunificazione, che fu raggiunta pressoché in contemporanea: nel 1870 l’Italia e nel 1871 la Germania. Roma medievale divenne, nelle sue pagine, l’emblema dell’impossibile riunificazione italiana, piú volte tentata a partire dall’alto Medioevo per iniziativa degli Ostrogoti prima e dei Longobardi poi. Un nuovo tentativo venne compiuto intorno al Mille dagli Ottoni, i quali si dovettero scontrare con l’anarchismo cittadino. I maggiori colpevoli dei ripetuti fallimenti di un progetto politico unitario sono individuati da Gregorovius nelle aristocrazie locali, giudicate rapaci e individualiste al pari della Chiesa, animata da esclusivi interessi temporali. Nonostante i limiti interpretativi di un’opera che ha quasi 150 anni, la storia di Roma di Gregorovius resta ancora oggi un testo fondamentale, oltre che di appassionante lettura, per chi voglia conoscere la città nella sua fase storica meno nota. Intorno agli anni Cinquanta del secolo scorso, lo storico italiano Eugenio Dupré Theseider pubblicò Roma dal comune di popolo alla signoria pontificia, un lavoro che indagava le vicende – allora poco conosciute e studiate – del Comune romano, nato nel 1143 per iniziativa di Arnaldo da Brescia. Dupré concordava con Gregorovius nell’attribuire la colpa della fine dell’esperienza comunale romana (1398) all’azione papale, sempre tesa a schiacciare qualunque forma di autonomia si affacciasse sul panorama di una città che riteneva di sua naturale giurisdizione. Anche sull’opera di Dupré pesa l’impostazione ideologico-culturale del suo autore, formatosi negli anni del fascismo. Egli infatti resta spesso vittima della retorica mitologica marzo
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A quasi centocinquant’anni dalla sua pubblicazione, la storia di Roma di Ferdinand Gregorovius resta ancora oggi un testo fondamentale
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Dossier sulla Roma imperiale che – a tratti – riemerge nelle sue pagine. Al tempo stesso, lo storico protestante fallisce l’obiettivo che si era proposto: indagare la storia dell’istituzione del Comune di Roma come processo autonomo legato a proprie dinamiche sociali. La vicenda comunale resta invece inserita nel piú ampio quadro dello scontro in atto tra impero e papato. Dupré non arriva dunque a decifrare il fenomeno, che pure intendeva analizzare, ma finisce col considerarlo come la prova della sua assoluta ininfluenza a causa della presenza della corte pontificia.
Unicità e specificità
La riscoperta della Roma medievale da un punto di vista artistico e architettonico si deve invece allo storico statunitense Richard Krautheimer, il quale, alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, si dedicò a un imponente studio sulle strutture artistiche, architettoniche e urbanistiche della città. Egli riuscí inoltre a sintetizzare in un lavoro organico, Roma, profilo di una città 312-1308 (edizione italiana del 1981), il frutto delle sue ricerche. Krautheimer riassegnò il giusto valore all’immenso patrimonio artistico prodotto dalla città medievale e che – nonostante sventramenti e abbattimenti – ancora oggi si conserva. Egli fu il primo a rivendicare l’unicità della Roma medievale, superando – senza sottovalutarli – gli elementi di crisi rispetto alla Roma classica. Dal punto di vista topografico, poi, andò oltre la tradizionale comparazione tra la città medievale e quella classica: Roma non è piú considerata una città ristretta e impoverita, ma analizzata nella sua specificità medievale, attraverso la lente della produzione artistica della Roma carolingia o delle case-torri, ancora oggi ben visibili, se pur seminascoste, nel tessuto urbano. Gli studi su Roma degli ultimi quarant’anni hanno in qualche modo trovato un canale di divulgazione (intesa come incontro con il grande pubblico) attraverso l’edizione di Roma medievale, volume mi-
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scellaneo curato dallo storico André Vauchez (Laterza, 2001). Le vicende della città medievale sono qui indagate da specialisti di diversa formazione, i quali ripercorrono i momenti principali della storia della città: il passaggio dal mondo antico all’età medievale, la crisi demografica dopo il crollo dell’impero e la sua ripresa in età bassomedievale, il Comune romano, le lotte intestine e violente delle aristocrazie cittadine, il giubileo del Trecento, il trasferimento del papa ad Avignone e poi il suo rientro (cfr. nel volume: Il passaggio dall’Antichità al Medioevo
di Paolo Delogu; Aristocrazia e società (secoli VI-XI) di Federico Marazzi; Società ed economia (1050-1420) di Sandro Carocci e Marco Vendittelli; Il comune romano di Jean-Claude Maire Vigueur; L’organizzazione territoriale e l’urbanizzazione di Etienne Hubert; Chierici, monaci e frati di Giulia Barone; Pellegrini, stranieri, curiali ed ebrei di Anna Esposito; Società e cultura scritta di Paola Supino Martini; Arte del Medioevo romano: la continuità e il cambiamento di Serena Romano; Le feste: cultura del riso e della derisione di Manine Boiteux; Tradizioni popolari e coscienza politica di Massimo Miglio).
Giovanni Battista Piranesi, Veduta di Campo Vaccino. Acquaforte, 1775. Il Foro Romano appare nelle condizioni che lo contraddistinsero anche nel Medioevo, con molti dei monumenti ancora parzialmente o totalmente sepolti.
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Nel 2008, sempre per i tipi di Laterza, gli storici André Vauchez e Andrea Giardina hanno affrontato il tema de Il mito di Roma. Anche a questo lavoro si deve la rivalutazione di una fase, quella medievale, da sempre considerata di pura decadenza. In particolare, Vauchez ha qui mostrato come, anche quando la città era ormai ridotta nel numero dei suoi abitanti e nella qualità delle sue strutture, mantenesse un grande prestigio internazionale in relazione alla sua dimensione mitica. Infatti sebbene fosse incontestabilmente degradata rispetto alla
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Roma augustea, essa non mancava di rappresentare nell’immaginario collettivo la funzione di faro di civiltà e di grande capitale dell’Occidente. Un prestigio che non solo le derivava dalla sua storia repubblicana e imperiale, ma anche dalla memoria dei suoi martiri, in primis gli apostoli Pietro e Paolo, che proprio a Roma avevano sparso il loro sangue. Con L’altra Roma, Jean-Claude Maire Vigueur ha ora colmato un vero e proprio vuoto storiografico. Mancava infatti una storia economico-sociale della città che il volume ci fornisce in sintesi ed estrema
leggibilità. Il lavoro non si limita a riempire tale vuoto, ma rivaluta in maniera chiara e netta la Roma medievale, in particolare la Roma comunale.
Una nuova aristocrazia
Contro la storiografia precedente, il volume ci presenta la nascita del Comune (1143) come un atto autonomo del popolo romano in dirompente rivolta contro le ingerenze della curia pontificia. Secondo lo storico franco-italiano, tale movimento fu inoltre preparato, così come nel resto d’Italia, da una grande trasformazione sociale prodottasi nell’XI secolo anche nel contado romano, dove si formò una nuova aristocrazia dinamica e intraprendente che entrò nel governo delle istituzioni romane sostituendo i vecchi apparati di potere. Essa riuscí a valorizzare le aree rurali del Comune tramite la struttura del casale, sfruttando in maniera intensiva le terre dentro e fuori le mura cittadine. Attorno alla metà del XIII secolo, poi, dalla militia cittadina si staccò un gruppo di cavalieri appartenenti a famiglie particolarmente in vista, i baroni, i quali attraverso il sistema del cardinalato riuscirono a divenire sempre piú potenti e a controllare territori sempre piú ampi. Nelle pagine de L’altra Roma, la storia della città appare perfettamente in linea con quella degli altri Comuni italiani, rispetto ai quali essa non rappresenta un’anomalia, come si è sempre sostenuto. Al contrario, Roma ci appare qui un centro urbano vitale e orgoglioso, caratterizzato dalla forte identità territoriale dei rioni, i quali – molto piú che i tradizionali legami corporativi di mestiere – segnarono i rapporti sociali della città. Rapporti che si tradussero via via in partecipazione e azione politica fino allo scontro aperto con l’autorità pontificia. Una città dunque, quella descritta da Maire Vigueur, affatto prigioniera del papato, il quale del resto – come viene sottolineato – per tutto il corso del XIV secolo fu fisicamente assente dalla città. V
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una storia da riscrivere a colloquio con jean-claude maire vigueur a cura di Chiara Mercuri e Andreas M. Steiner quella centro-settentrionale. Possiamo dire che questa sia la tesi principale e piú dirompente del suo lavoro? Sí, sono d’accordo. Se dovessimo scegliere una sola idea del mio libro, certamente direi che Roma, a partire dall’XI secolo, compie una scelta che la stacca dalla storia del Meridione d’Italia e la fa entrare nella sfera dell’Italia centro-settentrionale. Ciò vuol dire che va ridimensionato il ruolo del papato nella storia di Roma. Su questo, però, molti dei miei colleghi non sono d’accordo.
◆ Infatti. Il Comune di Roma è sta-
Già direttore scientifico di «Medioevo», Jean-Claude Maire Vigueur è docente di storia medievale all’Università di Roma Tre. Il volume appena pubblicato per i tipi di Einaudi, L’altra Roma, è un ulteriore contributo alla ricostruzione delle vicende di cui l’Urbe fu teatro e protagonista nell’Età di Mezzo, con particolare riferimento all’età dei Comuni, che, da sempre, è il campo d’azione prediletto dallo studioso franco-italiano. Un tema di grande interesse, che ha fatto da filo conduttore del nostro incontro con lui.
◆ Professor Maire Vigueur, la novità incontestabile del suo libro risiede nel fatto che il Comune romano è sempre stato tradizionalmente poco valutato, mentre lei lo considera a tutti gli effetti inserito nella piú ampia compagine del movimento comunale dell’Italia centro-settentrionale. Anzi, nel rivalutare la storia comunale di Roma, lei sottrae la città all’area centro-meridionale della Penisola – a cui era appartenuta nell’Alto Medioevo – e la inserisce – a partire dal Mille – in
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to troppo spesso trascurato sulla base di una visione teocratica, secondo la quale il peso del papato avrebbe impedito qualunque vocazione autonoma della politica romana. Perché lei non è d’accordo con tale visione? Non nego che vi fu una volontà del papato di impedire la nascita di una politica autonoma del popolo romano. Dico però che se il papato fu d’impaccio all’emancipazione del Comune romano, non di meno lo furono l’imperatore o i vescovi nei confronti degli altri Comuni centrosettentrionali, eppure tale pressione – che fu la medesima – non impedí che il fenomeno comunale avesse corso.
◆ Anche per ciò che riguarda il popolo romano lei sembra rivalutare a pieno la sua natura. Il popolo romano dell’età comunale che lei descrive è assai diverso dal «popolino» indolente e qualunquista descritto dal Belli. Come è stato possibile un tale cambio di prospettiva? Sotto l’impero romano, il popolo di Roma riceveva gratuitamente il grano necessario alla sussistenza. Era una consuetudine, che nell’immaginario ha contribuito a creare
Jean-Claude Maire Vigueur L’altra Roma Una storia dei romani all’epoca dei comuni Einaudi, Torino, 487 pp. 38,00 euro ISBN 978-88-06-20576-8 www.einaudi.it
l’idea del romano che non lavora. E poi – in epoca molto piú avanzata – quando si venne a formare un vero e proprio Stato pontificio, sempre piú si stigmatizzò l’immagine di un popolo parassitario e privo di slanci politici. La realtà medievale però, e senz’altro quella comunale, è ben diversa e si presenta come un processo dinamico con famiglie che vogliono arricchirsi e hanno l’intraprendenza per farlo. La Roma medievale presenta una grande vivacità dal punto di vista agricolo: i Romani lavorano negli orti, nei casali, e in piú hanno delle attività artigianali. Le fonti ci fanno incontrare anche una borghesia che ha importanti iniziative nel commercio, sostenuta da un dinamismo bancario di dimensione internazionale. Tale dato è frutto di scoperte recenti e inoppugnabili. marzo
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Jean-Claude Maire Vigueur (a destra) durante l’incontro con Chiara Mercuri e Andreas M. Steiner nella redazione di «Medioevo».
stra il fatto che in questo periodo i casali, vengono abbandonati a vantaggio di un allevamento estensivo che richiede poca manodopera.
◆ Quindi lei ritiene che lo stereotipo
◆ Lei attribuisce grande importan-
del romano indolente e scansafatiche sia il frutto di un anacronismo storico? Certamente. È un meccanismo tipico: si proietta sul Medioevo quello che non ci piace di altre epoche. In questo caso lo stereotipo cui ci si riferisce nasce a partire dal momento in cui Roma diventa la capitale di uno Stato pontificio vasto, stiamo quindi parlando del XVI secolo, quando il papato diventa un’istituzione davvero universale sia perché i papi eletti non sono piú espressione di famiglie locali ma provengono da tutta Italia, sia perché la Chiesa di Roma non diventa veramente universale che a partire dal XVI secolo e inizia a drenare verso Roma una ricchezza immensa da ogni parte d’Europa, per esempio dalla Francia. Nel Medioevo invece, nonostante le ambizioni della Chiesa fossero le stesse, è noto che non riuscí a realizzarle. È quindi solo a partire dal XVI secolo che i Romani diventano degli assistiti, e lo dimo-
za al casale, tanto da pronunciarsi a favore del neologismo «incasalamento». Può spiegare perché tale fenomeno sia tanto importante? Il casale viene inventato come struttura di produzione nel XII secolo e si generalizza nel corso del XIII, proprio quando nella campagna romana si verifica una seconda fase di incastellamento. Bisogna capire se si può mettere in rapporto l’incastellamento con il papato, ovvero se il secondo fenomeno di incastellamento debba considerarsi una risposta pontificia all’incasalamento. A mio avviso, il papa ha approfittato dell’incastellamento ma non lo ha prodotto. Entrambi i fenomeni attestano una trasformazione profonda delle strutture di popolamento e dei modi di produzione della campagna romana che dimostrano una capacità dei Romani di emanciparsi dal papato: mai il papato avrebbe infatti incoraggiato una struttura agraria di questo tipo.
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◆ Professore, secondo lei la vigna fu la base di sussistenza del cittadino della Roma medievale, fuori e dentro le mura della città. In altre parole, l’immagine della Roma medievale ormai a tal punto ruralizzata da contenere orti e vigne all’interno delle sue stesse mura, lungi da suggerirle l’idea di una profonda decadenza, è per lei il segno della buona salute delle sue attività economiche. È cosí? Sí, assolutamente, anche perché questo non fu un fenomeno che riguardò solo il Comune di Roma: Firenze, per esempio, aveva uno sviluppo agricolo interno alla città. Era il «modo medievale» di produrre ricchezza, un modo misto che metteva insieme la terra, l’artigianato e i commerci in maniera molto piú fluida di quanto non accada oggi. Quindi le vigne che invadono le rovine della Roma repubblicana e imperiale sono un sintomo di salute e non di decadenza della città. Diverso sarà quando invece tra le rovine compariranno le greggi.
◆ Nella sua rivalutazione del Comune romano lei sembra obbligato a dare una stima al rialzo della sua popolazione; parla in-
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Dossier fatti di 60 000 abitanti contro i 20 000 stimati dai suoi colleghi. Su quale base sostiene tale dato? Per Roma non disponiamo di alcun dato demografico esplicito, per cui la valutazione della popolazione romana nasce da considerazioni di natura diversa. Le mie sono il volume delle attività economiche e la superficie costruita. Per il primo dato mi baso sulla ricchezza stimata della popolazione a partire per esempio da un confronto tra le doti nuziali delle donne che si sposano a Roma con quelle di altre città. A Roma le doti sono alte, segno di una ricchezza diffusa. Il secondo dato è quello della superficie costruita che è di 400 ettari, ovvero esattamente la superficie della Bologna della prima metà del XIV secolo, una città la cui la popolazione era di 50.000 abitanti.
◆ Lei attribuisce il ripopolamento di Campo Marzio a «deliberata
volontà» della popolazione che dai colli – in maniera molto piú lenta di quanto si pensasse – si sarebbe spostata nella piana, non a motivo di contingenze materiali (come il degrado delle antiche strutture monumentali che andavano in rovina, o la distanza dal Tevere), ma per ragioni politiche... Il primo ad aver proposto questa visione è stato lo studioso francese Hubert, secondo il quale l’accelerazione di tale fenomeno si ebbe nell’XI secolo. Da parte mia, ho dato un contributo nello spiegare i motivi di tale accelerazione. Motivi che – a mio avviso – furono politici. A partire da questo momento la popolazione si raggruppa per meglio emanciparsi dall’autorità del papa e della Curia. Si raggruppa in quartieri specifici proprio come si faceva nelle città greche quando ci si voleva dotare di organi politici autonomi, per manifestare la propria
volontà di autogovernarsi di fronte all’amministrazione pontificia. A Roma il raggruppamento non è spontaneo, ma legato a una volontà politica. Possiamo dire che fino all’XI secolo la popolazione della città di Roma non aveva un’identità forte. L’aveva avuta, ma era stata perduta nei secoli dell’Alto Medioevo. Questa identità viene recuperata a partire dal momento in cui si raggruppa nel modo che abbiamo spiegato, lasciando pressoché spopolate le aree del Vaticano e del Laterano, abitate da persone che gravitano esclusivamente – per il loro mestiere – attorno alle attività della Curia e dei pellegrini.
◆ E nell’ambito di tale raggruppamento ebbero maggior peso i mestieri o i quartieri? Mestieri o quartieri? Tutti gli storici del movimento comunale devono porsi tale questione, per capire se alla base dell’organizzazione
L’identità della popolazione di Roma si era persa nei secoli dell’Alto Medioevo, ma poi...
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Qui sotto e nella pagina accanto miniature raffiguranti alcuni artigiani al lavoro e l’aratura di un terreno, dal De universo di Rabano Mauro. 1022-75. Montecassino, Archivio dell’abbazia.
politica di una città comunale troviamo i mestieri o troviamo i quartieri. È una domanda classica che tutti gli storici si pongono, ma la cui risposta è diversa a seconda dei casi. Per Bologna, per esempio, «armi e mestieri» e «società e quartieri» hanno lo stesso peso, mentre a Firenze le associazioni di mestiere hanno un peso maggiore di quelle di quartiere.
◆ Il suo volume è caratterizzato da una costante attenzione al dato topografico che lei recupera anche in riferimento alla Roma attuale. Crede davvero si possa mettere in dialogo la Roma antica con quella contemporanea? La mia è stata una scelta voluta. Volevo scrivere un libro di divulgazione e non rivolgermi solo ai colleghi. Ho cercato quindi di accendere l’interesse dei lettori mostrando loro quel che resta a testimonianza di determinate dinamiche storiche. Inoltre, vivo a Roma, e quindi mi sta particolarmente a cuore la salvaguardia del suo patrimonio; mi indigna che tutto quello che è dentro le mura sia conservato molto
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bene – bisogna riconoscerlo –, ma tutto quello che sta fuori le mura – a meno che non si tratti di vestigia dell’antichità romana – venga totalmente abbandonato. Nessuna politica di protezione viene fatta per esempio per le torri medievali dei casali romani o per i resti delle loro strutture murarie. Capisco che la città debba crescere, ma dovrebbe farlo con un minimo di riguardo, anche nei confronti delle vestigia dell’età medievale e moderna.
In basso una scena di viticoltura, tratta anch’essa dal De Universo di Rabano Mauro. Secondo Jean-Claude Maire Vigueur le vigne furono la risorsa su cui gli abitanti della Roma medievale basavano la propria sussistenza.
◆ Com’è sostenuto anche da suoi colleghi, il «mito di Roma» ha influito molto sullo sviluppo del Comune cittadino, anche se tale mito si richiamava alla Roma repubblicana piuttosto che a quella imperiale. Crede che ciò sia derivato dal fatto che la Roma imperiale fosse percepita come espressione di un potere assoluto piú in continuità con quello pontificio che con quello comunale? Il punto mi sembra sia capire quanto i Romani conoscessero del loro passato. E pare che ne sapessero piú di quanto tradizio-
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In alto il casale della Cervelletta, complesso oggi compreso nella Riserva Naturale Valle dell’Aniene e del quale fa parte una torre medievale eretta nel XIII sec. A sinistra il castello di Lunghezza, sul fiume Aniene, a poco meno di 20 km da Roma. Le prime notizie sul fortilizio risalgono al 752, quando la badia fu trasformata in monastero fortificato, abitato dai Benedettini.
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nalmente si sia ritenuto. Vi erano certamente persone ignoranti, ma, a livello generale, possiamo dire che i Romani conoscevano bene la loro storia, repubblicana o imperiale che fosse. Per ciò che riguarda il Comune, è indubbio che la storia cui fa riferimento Arnaldo da Brescia sia quella repubblicana.
◆ Lei dà anche molta importanza, per ciò che attiene alla storia dell’arte, alle maestranze locali. Spesso nei cantieri romani delle grandi chiese si sono individuati artisti umbri e toscani, mentre lei parla di cantieri autoctoni che ancora una volta mostrerebbero la vivacità delle attività produttive della Roma medievale... Questa è una cosa nota, ribadita anche qualche anno fa al momento del restauro degli affreschi della Basilica Superiore di Assisi. Per molti di quegli affreschi si è oggi
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certi che si debba parlare di artisti romani della cerchia di Cavallini. Quel che ho tentato di fare nel mio libro è stato invece fornire uno sguardo globale, nel cui orizzonte rientrasse anche l’espressione artistica considerata come riflesso della vivacità produttiva di una città. Roma nella fase medievale fu una città tutt’altro che in decadenza e anche la sua produzione artistica di pregio lo dimostra. Di norma però gli storici dell’arte, a parte qualche eccezione come quella di Serena Romano, riflettono sul dato qualitativo e artistico dell’opera d’arte senza inserirlo in una dinamica economico-sociale che è invece quella che mi interessa di piú. Quel che mi premeva era rivalutare le produzioni artistiche sollecitate dai laici per i loro bisogni e non la semplice committenza religiosa. Vi fu infatti a Roma una produzione privata che non
era meno ricca di quella religiosa. Bisogna cercare di immaginarla a partire dagli stessi materiali utilizzati per le chiese, materiali che servivano anche per la realizzazione di portici e abitazioni private. Anche questa produzione laica e privata è infatti lo specchio della ricchezza diffusa di un ceto borghese romano assai dinamico.
◆ Il suo libro dunque ci mostra una Roma comunale che nulla doveva invidiare, in quanto a dinamismo e produttività economica, ai maggiori comuni italiani centro-settentrionali. Non crede che l’immagine catastrofista di una Roma medievale in decadenza abbia avuto facile presa perché la Roma medievale non è piú visibile? Sí, certamente quello che io chiamo l’uragano barocco ha talmente can(segue a p. 74)
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Dossier Orti e vigne nel cuore del Foro I sette mesi del tribunato di Cola di Rienzo (vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 36-48) precedettero di poco l’epidemia di peste che, negli anni 1348-49, sterminò da un quarto a un terzo dell’intera popolazione occidentale. Prima di questa catastrofe demografica, Roma contava non meno di 50 000 abitanti ed era quindi paragonabile per numero di abitanti a una città come Bologna. A differenza degli altri centri italiani, i Romani però non occupavano che una piccola parte dello spazio compreso tra le mura cittadine. I 20 km della muraglia voluta nel III secolo dall’imperatore Aureliano e i 3 delle Mura leonine, erette nel IX secolo da papa Leone IV, racchiudevano una superficie di almeno 1400 ettari, per la maggior parte adibiti a orti e a vigne, che ricoprivano, per esempio, tutta la zona a nord e a est dell’attuale via Cavour e anche l’area al di là del Colosseo e del Palatino in direzione di S. Giovanni e della Piramide. Le abitazioni erano raggruppate soprattutto nei rioni collocati nell’ansa del Tevere (Ripa, S. Angelo, Regola, Campitelli, Parione, Ponte, S. Eustachio, Pigna); Campo Marzio, Colonna e Trevi erano di piú recente urbanizzazione e Monti risultava in parte disabitato. Molti Romani vivevano d’agricoltura, coltivando le parcelle di coltura intensiva situate all’interno delle mura e all’esterno, in un raggio di uno o due chilometri dalla cinta urbana, oppure lavorando sui terreni dei casali, quelle grandi aziende agrarie di cui erano proprietarie chiese e famiglie della nobiltà cittadina ma che erano gestite da un gruppo piú ristretto di dinamici imprenditori agricoli, i bovattieri, presso i quali Cola trovò i suoi primi sostenitori. foro di cesare Questo è l’aspetto che dobbiamo immaginare avesse l’area del Foro di Cesare intorno al X sec.: la grande piazza (che in origine misurava 100 x 45 m) è occupata da piccole case, orti e vigne (disegno di R. Meneghini/R. Santangeli Valenzani/Inklink).
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curia Presso l’angolo meridionale del Foro si riconosce la mole della Curia Giulia, edificio che ospitava le assemblee del Senato capitolino, trasformata in chiesa e dedicata a sant’Adriano. L’intervento fu voluto nel 630 da papa Onorio I.
portici Cesare aveva voluto che la piazza del suo Foro fosse, su tre lati, fiancheggiata da sontuosi portici, formati da doppie file di colonne in marmo bianco di Luni. Già nel Medioevo, gran parte dei colonnati risultano smantellati.
case La piazza è occupata da piccole case, allineate lungo un tracciato stradale che traversa tutto il Foro. Avevano di solito un unico ambiente, costruito con materiale di recupero e in argilla cruda; il pavimento era in terra battuta e il tetto in legno o paglia.
orti e vigne Come in tutta l’area dei Fori imperiali, anche in quello di Cesare furono impiantati orti e vigne. In alcuni casi, come nel vicino Foro della Pace, realizzati con la creazione di terrazzamenti e il trasporto di migliaia di metri cubi di terra coltivabile.
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Dossier A destra il mausoleo di Augusto, in un’acquaforte di Étienne Dupérac. 1575. Il monumento appare trasformato in un giardino all’italiana, con case addossate alla muratura antica. In basso i resti del tempio di Saturno e, sulla sinistra, un altro caso illustre di riuso: quello del Tabularium, sulle cui strutture, tra il XII e il XIII sec. fu costruito il Palazzo Senatorio.
cellato o nascosto le strutture della Roma medievale da dare l’impressione che essa abbia avuto uno sviluppo meno significativo rispetto ad altre città dove invece sono visibili a un primo impatto. Nessun’altra città italiana ha subito in ugual misura di Roma la sommersione della sua fase medievale. Tuttavia le vestigia di quella fase, edifici privati e pubblici,
ci sono. È solo piú difficile trovarle, tra la Roma antica e quella barocca.
◆ Il suo libro rappresenta la prima storia economico-sociale di Roma. Dopo i lavori di Ferdinand Gregorovius, interessato a chiarire i rapporti tra mondo romanzo e impero, quelli di Dupré Theseider che guarda-
vano a Roma solo nell’ottica della storia del papato, e quelli di Krautheimer che seguiva la storia di Roma da un punto di vista dello sviluppo architettonico e artistico della città, il suo rompe un vuoto storiografico, presentandosi come la prima storia economico-sociale della città. È cosí?
Nessun’altra città italiana ha subito tanto quanto Roma la cancellazione della sua fase medievale
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A destra resti di una torre medievale nei pressi di Mentana (Roma). Strutture come questa, oltre a patire le ingiurie del tempo, sono spesso vittime, come sottolinea Jean-Claude Maire Vigueur, di abbandono e scarso interesse da parte di chi dovrebbe garantirne la conservazione.
Sí e no. Dalla fine degli anni Sessanta sono stati pubblicati molti studi di storia economica e sociale. Tutto iniziò con un’allieva di Arsenio Frugoni, Clara Gennaro, che fece la sua tesi di laurea sulla base dei registri notarili che, per gli ultimi secoli del Medioevo, sono la migliore fonte che abbiamo a disposizione per Roma. Da tale tesi la studiosa trasse un articolo che è una sorta di storia economico-sociale di Roma. Molti studiosi poi hanno chiarito la dinamica economica della Città medievale: le attività interne e l’artigianato, per lo meno, sono ben studiate. Per quanto riguarda la campagna romana, invece, sono stato il primo a interessarmi alle aziende agricole, i casali, che rappresentano una caratteristica della Roma tardo-comunale. La natura stessa di tali aziende è peculiare solo di Roma.
◆ Certamente ha preparato la strada un discreto numero di pubblicazioni scientifiche dedicate alle dinamiche sociali ed economiche della Città e che lei cita con tutta onestà nelle note e nella bibliografia del suo libro, ma resta il fatto che si tratta di testi non fruibili al grande pubblico e quindi, se si vuole trovare una storia economica e sociale della città di Roma si deve fare riferimento al suo testo... Sí, questo sí.
◆ Lei insegna in Italia da trent’anni, tanto che Jacques le Goff, in un suo articolo, la cita come storico franco-italiano; tuttavia ha ricevuto la sua formazione culturale e universitaria in Francia. Non crede che il fatto che sia stato uno studioso francese, almeno di
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formazione, a scrivere una storia economico-sociale della città di Roma possa essere messo in relazione con l’influenza che negli anni Sessanta e Settanta ebbe il movimento delle Annales sulla storiografia francese? Ma la stagione storiografica cui lei fa riferimento, quella delle Annales, si è ormai del tutto conclusa.
◆ Sí, però lei si è formato quando quella stagione era ancora aperta in Francia. In Italia, nello stesso periodo, i suoi colleghi prediligevano ancora gli studi di storia istituzionale. In altre parole, mentre voi già interrogavate le visure catastali di boschi e terreni, in Italia si continuava a preferire l’analisi filologica dei documenti notarili e di cancelleria... Non vi è dubbio su questo. Da questo punto di vista rivendico la mia formazione. Quando facevo l’uni-
versità a Parigi, negli anni Sessanta, otto studenti su nove facevano ricerche di storia economico-sociale. Tuttavia quella stagione è ormai definitivamente chiusa, a parte qualche studio sulla new economic history, che però è cosa totalmente diversa. Anche per il mio libro, sono partito con un interesse da storico della società, poi però ho superato quell’impostazione, valutando non tanto la ricchezza all’interno dei gruppi sociali che formavano il Comune romano, quanto le relazioni sociali. Ho cercato di far entrare in gioco altri elementi, per esempio l’importanza delle associazioni, i legami di vicinanza, le forme di solidarietà all’interno di uno stesso quartiere: legami che prescindono dalla ricchezza! Insomma, ho seguito una visione meno «rozza», piú fluida e ricca delle relazioni sociali, che non sono fondate o dettate esclusivamente dalla vita economica e dal livello di ricchezza.
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Tesori
di Chiara Mercuri
nascosti
Pareti, pavimenti, pozzi, sono solo alcuni tra i nascondigli che, per secoli, hanno custodito le ricchezze di chi tentava di sottrarle alle invasioni e ai saccheggi. Accadde cosí per piccoli vasi contenenti gioielli e preziosi, ma anche per i grandi patrimoni in monete d’argento della Chiesa. Come rivelano alcune sorprendenti scoperte avvenute già nell’Ottocento...
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tesori non sono solo i ripostigli di monete e di gioielli, ma anche le ricchezze conservate sotto terra, come segni di una civiltà scomparsa: arredi sfarzosi, tombe aristocratiche, statue, argenterie, pietre preziose che hanno ornato palazzi e templi. Tali oggetti sono spesso riemersi dal terreno, nel corso dei secoli, in seguito a scavi casuali o a ricerche mirate. La creazione di questi tesori, ma anche il riemergere di resti monumentali rimandano a un evento tragico: la scomparsa e l’oblio di interi quartieri e necropoli, l’incendio o il crollo di un edificio, un saccheggio violento, un assedio, una guerra, una morte improvvisa. In particolare, il ripostiglio privato rievoca il dramma di chi ha cercato di mettere in salvo qualcosa di sé in un momento terribile, sperando di poterne poi rientrare in possesso. I ripostigli personali sono quasi sempre formati da una cassetta, un’anfora, un sacco colmo di monete o gioielli, nascosti tra le mura di un’abitazione, sotto il pavimento, in un pozzo o un fognolo. Nella storia, simbolizzano una vicenda personale quasi sempre legata a un evento collettivo, perché solo qualcosa di improvviso e drammatico può determinarne la creazione.
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In alto un tesoretto di monete medievali. A destra un Capriccio con rovine di Giovanni Paolo Pannini (1691-1765), nel quale l’artista mescola elementi reali, come il Colosseo e la Colonna Traiana, con strutture monumentali fantastiche. Prima metà del XVIII sec. marzo
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Roma. Un tratto delle Mura Aureliane, il poderoso sistema di difesa innalzato nella seconda metà del III sec. d.C. per difendere la città dalla crescente minaccia delle invasioni barbariche.
Anche a Roma i tesori ripercorrono le vicende piú drammatiche della sua storia. Uno dei periodi in cui ne è stato sepolto il maggior numero è quello tra V e VI secolo, gli anni della fine dell’impero e della riconquista giustinianea. Nel V secolo, la città subí tre gravi saccheggi, nel 410 con Alarico, nel 455 con Genserico e nel 472 con Ricimero. Nel VI secolo, Roma divenne ambita preda – tra tradimenti e colpi di mano – nella sanguinosa guerra che oppose i Goti, padroni della Penisola, ai Bizantini, che intendevano ricongiungerla all’impero romano d’Oriente. Altro tragico evento che vide la creazione di un notevole numero di tesori fu, mille anni dopo, il sacco dei Lanzichenecchi del 1527, durante il quale la città fu assediata, conquistata e saccheggiata dalle truppe di Carlo V, deciso a punire papa Clemente VII. Il pontefice riuscí a rifugiarsi dentro Castel Sant’Angelo, dove i difensori resistettero eroicamente agli imperiali, ma la soldataglia scemò indisturbata per le vie della città,
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depredandola sistematicamente. All’apice dello splendore rinascimentale, Roma subí cosí un colpo dal quale non si sarebbe piú riavuta. Anche in quel caso, facoltosi cittadini ebbero il tempo di nascondere i propri tesori piú preziosi, nonostante i saccheggiatori usassero sequestrare le persone piú in vista della città per farsi consegnare le ricchezze che presumevano fossero state messe al sicuro. Come testimoniano i numerosi ritrovamenti dei secoli successivi, molte ricchezze riuscirono a rimanere nascoste.
Ricchezze sotto gli orti
Anche il Medioevo fu un’epoca di nascondimenti, legati perlopiú alle convulse vicende che seguivano spesso alle travagliate elezioni papali, ai contrasti tra fazioni baronali, alle continue minacce arabe, all’arrivo dei Longobardi. Fu anche un periodo di fortunosi ritrovamenti, sebbene in numero inferiore a quelli legati alla grande fase di sviluppo urbanistico della città, compiutasi tra XV e XVI secolo. La Roma medievale si sovrappose all’antica città imperiale, quasi senza sfiorarla. Il declino rapido e drammatico che aveva investito la città dei Cesari lasciò sepolta una sterminata ricchezza sotto marzo
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gli orti e le improvvisate casupole medievali: antiche tombe, ricchi atri delle case patrizie, divinità sfuggite all’iconoclastia cristiana. L’antica città, che non era mai stata dimenticata, ogni tanto riemergeva in occasione di imponenti lavori edili o di semplici lavori agricoli. Questi improvvisi e insperati ritrovamenti stimolarono la brama di ricchezze, in un continuo rincorrersi di ricerche fortunate e speranze deluse. Nell’Alto Medioevo, Roma era abitata da poche decine di migliaia di persone sparse su un vasto territorio; piccoli borghi si radunavano presso i principali santuari e abitazioni con orti e animali si estendevano tra le rovine, soprattutto tra Campidoglio e Laterano. Le antiche mura che avevano segnato la metropoli imperiale erano ancora in funzione, ma, nell’area che esse cingevano, piccoli boschi, vigne e fiumiciattoli si inframmezzavano tra case, chiese e palazzi nobiliari. Il Tevere – insieme a un sistema di pozzi – forniva l’acqua potabile e il fiume consentiva ai mulini di lavorare continuamente per sfamare la città. Le alte insule, i grandi templi e le monumentali piazze dell’antichità erano stati abbandonati a loro stessi per cinquecento anni, e ora giacevano in gran parte crollati e sepolti. I sette colli avevano riacquistato l’aspetto selvatico che dovevano avere avuto all’epoca della fondazione della città, quasi diciotto secoli prima.
Dritto e rovescio di una moneta battuta all’epoca del re inglese Alfredo il Grande. 880 circa. Pezzi simili furono trovati nel 1883, nei pressi dell’Atrio delle Vestali, nel Foro Romano.
In basso una foto scattata nell’area dell’Atrio delle Vestali, nel Foro Romano, durante gli scavi condotti sul finire dell’Ottocento, che portarono, tra le altre, alla scoperta di un ricco tesoretto monetale.
Il Medioevo fu un’epoca di nascondimenti, ma anche di ritrovamenti fortunosi Su di essi vivevano non di rado monaci dediti a vita eremitica. Nonostante la sua cruda decadenza, Roma rimaneva la capitale dell’ecumene cristiano, verso la quale erano rivolti gli sguardi dei pellegrini e degli uomini di cultura dell’Europa e del Mediterraneo. I geografi arabi la descrivevano come una delle meraviglie del mondo: «per la sua costruzione, per la grandezza, per la moltitudine che la popola (…) è città grandissima e straordinaria e tale che non vi può essere l’eguale». Ibn al-Faqih la descrisse come la città delle statue d’oro, dei grandi acquedotti, dei lunghi portici, degli splendidi palazzi. Monaci inglesi come il Venerabile Beda, abituati agli austeri monasteri nordici, esaltarono la magnificenza degli antichi monumenti, giungendo a formulare il celebre vaticinio: «quando il Colosseo crollerà, crollerà Roma. Quando crollerà Roma, crollerà il mondo». La corte papale viveva delle offerte dei pellegrini e delle proprie rendite terriere, ma anche del denaro che veniva raccolto in tutte le città e in tutti i villaggi della boscosa Europa e inviato al successore di Pietro, seduto sulla cattedra di vescovo della città. Era «l’obolo di san Pietro»: una grande somma, in un periodo di scarsa circolazione monetale, rigidamente argentea.
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Nel 1883, mentre gli archeologi del giovane Regno d’Italia scavavano nell’Atrio delle Vestali, nel Foro Romano, trovarono, sotto un pavimento di terracotta di una piccola casa medievale insediatasi sull’antico sito, un vaso contente 835 monete d’argento. Di queste, ben 830, cioè la quasi totalità, erano anglosassoni e portavano i nomi dei re Alfredo il Grande (876-904), Edoardo I (900-924), Athelstan (924-940), Edmondo I (940-946), oltre ai nomi di alcuni arcivescovi di Canterbury. Questo gigantesco obolo di san Pietro, spedito dai fedeli della lontana Britannia sassone, fu trovato insieme a una
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spilla d’argento su cui era scritto «Domno Marino papa». Tali spille, indossate dagli alti funzionari della corte pontificia, venivano usate come segno distintivo che avrebbe aiutato a rivendicare il possesso del tesoro in caso di controversia. L’obolo era stato nascosto quindi per volontà di papa Marino II (942-946). Poiché Roma era minacciata dalle continue incursioni dei Saraceni che, un secolo prima, erano riusciti a penetrare in Vaticano allora ancora sprovvisto di mura di cinta, possiamo ipotizzare che papa Marino II fece nascondere il tesoro a causa della minaccia di saccheggi. marzo
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Nel 1899, proseguendo gli scavi dell’Atrio delle Vestali, a pochi metri dal ritrovamento dell’obolo di san Pietro fu rinvenuto un nuovo tesoro, stavolta di monete d’oro, quasi 400, risalenti al periodo di Antemio (467-472), ovvero agli ultimissimi anni dell’impero romano d’Occidente. Le monete erano state nascoste sotto il pavimento di un piccolo ripostiglio, quasi certamente da un funzionario della corte imperiale del Palatino, che aveva la sua residenza in quegli ambienti. Il nascondimento fu provocato anche in questo caso dalla minaccia del saccheggio. Nel 472,
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Città del Vaticano, Palazzi Apostolici, stanza dell’incendio di Borgo. L’affresco raffigurante la battaglia di Ostia, che, nell’849, vide contrapporsi le truppe di Leone IV ai Saraceni e si concluse con la vittoria delle armate papali. La decorazione pittorica fu realizzata da Raffaello e dai suoi allievi tra il 1508 e il 1524.
ciò che restava dell’impero romano d’Occidente fu dilaniato da una guerra civile tra le truppe imperiali guidate dal germanico Ricimero e le guardie imperiali dell’imperatore Antemio, sostenuto da Costantinopoli, asserragliate a Roma. Quando le truppe di
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storie roma Ricimero espugnarono la città, Antemio fu scoperto parte della cristianità». Anche in questo caso, la pere ucciso mentre, travestito da mendicante, chiedeva sona che aveva nascosto l’obolo potrebbe essere stata l’elemosina lungo il fiume Tevere. un funzionario pontificio o un intendente della GiovanUn altro obolo di san Pietro fu trovato a seguito di nipoli, il piccolo borgo fortificato che era sorto intorno uno dei piú pesanti disastri artistici che colpí la città: alla basilica ostiense, all’epoca ancora isolata dal resto il 17 luglio 1823 uno spaventoso incendio cancellò in della città. Intorno al 1061, a seguito dell’elezione di una sola notte gran parte della basilica di S. Paolo fuori Alessandro II, il borgo si era infatti trovato al centro di le Mura, sulla via Ostiense. Alcune delle strutture peri- combattimenti feroci: vi si erano asserragliati i seguaci colanti dovettero essere abbattute negli anni successivi della parte imperiale e quindi era stato messo sotto asper permetterne la ricostruzione; tra queste il campa- sedio dai filopapali. In tale contesto si cercò di porre al nile della chiesa, che venne atterrato alla fine del 1843. riparo monete e preziosi. Tra le spesse mura della torre campanaria fu ritrovato Ancora un «obolo di san Pietro» fu ritrovato nel 1868 un ripostiglio di circa un migliaio di monete medievali, presso l’abbazia delle Tre Fontane, lungo la via Laurenestremamente rare. I mutina, dove si stavano eseratori che avevano lavorato lavori di restauro. Oboli di san Pietro furono trovati guendo alla demolizione se le sparIn questo caso si trattava tirono e le rivendettero alla alle Tre Fontane e anche nei pressi di monete dell’area franspicciolata. co-olandese risalenti al della salita del Grillo Sparsasi la voce del riXV secolo. Nei primi anni trovamento, da Torino fu Trenta del XX secolo, meninviato Giulio Cordero, numismatico dell’Accademia di tre sull’area dei Fori imperiali imperversava «il piccone Scienze del Regno di Sardegna, col compito di riacqui- demolitore» che doveva, nelle intenzioni di Mussolini, stare ciò che era stato furtivamente venduto: «Ne andai isolare i monumenti romani e favorire la realizzazione in traccia – dice Cordero – e assai piú di mille furono di grandi viali, fu scoperto, sulla salita del Grillo, un tequelle che passarono per le mie mani». Le monete, a soro di duemila monete d’argento risalenti al 1200. parte una d’oro, erano tutte d’argento e risalivano agli anni tra la fine del IX e la metà dell’XI secolo. Secondo Un tempio di terra e di monete quanto riportato dall’archeologo Giambattista De Ros- Leggende e credenze ovviamente non mancarono. Alcusi, si trattava di «una quantità grandissima di monete ne sinistre, come quelle che riguardavano il papa dell’an d’argento di settanta e piú zecche d’Europa, tutte dei no Mille, Silvestro II, ritenuto un fortunato cercatore di secoli decimo e undecimo, tutte di regni e città cattoli- tesori (vedi box alle pp. 84-85); altre riguardavano monuche: prodotto evidente di pie oblazioni venute da ogni menti antichi che piú di altri, per la loro arditezza tecA sinistra la chiesa di S. Paolo fuori le Mura in una incisione di Antoine Lafrery. XVI sec. Nel 1843, in occasione dell’atterramento, del campanile, resosi necessario per i danni riportati in occasione del disastroso incendio del 1823, fu scoperto un tesoretto composto da un migliaio di monete medievali. Nella pagina accanto il campanile e l’abside della chiesa dell’abbazia delle Tre Fontane, nei cui pressi fu trovato un «obolo di S. Pietro» composto da monete francoolandesi del XV sec.
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storie roma nica, stimolavano l’immaginazione. Uno di questi era il Pantheon, che si era perfettamente conservato grazie alla sua trasformazione in chiesa già nel 609. Nella seconda metà del XIII secolo, la Legenda Aurea di Jacopo da Varazze riporta la voce secondo la quale il Pantheon, in effetti uno dei monumenti piú arditi per soluzione tecnica dell’antichità romana, fosse stato costruito riempiendo le strutture con terra frammista a monete fino alla realizzazione della cupola centrale; tale soluzione sarebbe stata ideata per poterlo poi svuotare rapidamente: una volta terminato, i cittadini romani furono invitati a portare fuori la terra con la promessa di poter tenere per loro le monete che vi avessero trovato: «e la folla – racconta Jacopo – si gettò subito sulla terra e in breve il tempio fu svuotato». Il Rinascimento, con le nuove soluzioni tecniche, la costruzione di palazzi e chiese e l’apertura di strade e piazze, porterà un completo mutamento di sensibilità. I tesori usciranno dalla patina leggendaria e fascinosa, per disperdersi nel commercio antiquario, nella serrata lotta tra polizia pontificia e trafugatori di antichità. F
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La leggenda nera del cercatore di tesori Gerberto d’Aurillac divenne pontefice nel fatidico anno 999. Attorno alla sua figura nacquero numerose leggende, molte delle quali relative alla sua fama di cercatore di tesori. Da giovane, Gerberto era stato un chierico pieno di zelo e curiosità. Per ampliare le proprie conoscenze si era recato a studiare matematica, filosofia e scienza nelle scuole arabe di Spagna. Grazie ai suoi studi era divenuto uno degli uomini piú colti del suo secolo, e la sua fama gli guadagnò l’onore di essere scelto come precettore del giovane principe imperiale Ottone III. Sotto la protezione della famiglia imperiale fu in grado di percorrere rapidamente la carriera ecclesiastica fino a essere eletto al soglio pontificio con il nome di Silvestro II, proprio alla vigilia del fatidico anno Mille, atteso come l’anno emblematico delle sciagure. La sua fulminante carriera diede adito alla nascita di insistenti voci su una sua presunta alleanza con
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potenze occulte. Una cronaca redatta centotrenta anni dopo l’ascesa al soglio pontificio, scritta dal monaco britannico Guglielmo di Malmesbury, riporta che, appena giunto a Roma, Gerberto sarebbe riuscito – grazie alle arti stregonesche – a carpire il segreto di un favoloso tesoro: il tesoro dell’imperatore Augusto. Secondo tale racconto sarebbe esistita a Roma, nel Campo Marzio, una statua di metallo che aveva l’indice della mano disteso e recava sulla fronte la scritta «hic percute», cioè «colpisci qui».
Molti avevano cercato, colpendo la statua o scavando ai suoi piedi, di svelare l’enigma, ma senza alcun risultato. Gerberto vi si sarebbe recato in osservazione come molti altri prima di lui e allo scoccare del mezzogiorno avrebbe piantato un paletto di legno nel punto in cui l’ombra del braccio della statua indicava una leggera depressione del terreno. La notte stessa Gerberto sarebbe tornato e sarebbe riuscito a trovare, nel luogo in cui aveva conficcato l’asticella, l’accesso segreto a una grotta; all’interno avrebbe scoperto una reggia decorata da specchi dorati, abitata da cavalieri – anch’essi d’oro – impegnati a giocare ai dadi. Al centro della dimora, una grande mensa apparecchiata con splendido vasellame di enorme valore. La parte piú nascosta della sala sarebbe stata rischiarata da una luce proveniente da una pietra misteriosa, un piccolo carbonchio. Gerberto avrebbe cercato di portare via qualcosa di quell’enorme tesoro, ma i soldati marzo
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A sinistra l’interno della cupola del Pantheon. Una leggenda voleva che l’ardita costruzione fosse stata realizzata grazie a un’enorme massa di terra e monete. Ultimata l’opera, al popolo fu concesso di scavare alla ricerca dei denari e cosí, in brevissimo tempo, tutta la terra fu rimossa. Nalla pagina accanto miniatura raffigurante Silvestro II con il diavolo. 1460.
posti a guardia delle ricchezze glielo avrebbero impedito. A causa della sua fama di cercatore di tesori, anche la fine di Gerberto venne accompagnata dalla nascita di una leggenda sinistra. Nell’immaginario collettivo, infatti, il cercatore di tesori era una persona avida, ossessionata dalla ricchezza, disposta a tutto pur di raggiungere il proprio scopo. L’acquisizione di ricchezze improvvise veniva sempre presentata nelle fonti medievali come il frutto di azioni illecite e di alleanze con il Maligno. Secondo il cronista medievale Gualtiero Map, la morte di Gerberto rivelò tali precisi sospetti e mostrò appieno la sorte riservata a quanti cercassero di procacciarsi fama e ricchezza attraverso arti magiche e alleanze sataniche. Sarebbe stato infatti il favore del Maligno a procurargli gli onori di una folgorante carriera e a dotarlo poi di una straordinaria ricchezza, negandogli infine una morte cristiana. Secondo la leggenda di
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Gualtiero, quando ormai era vicina la propria fine, Gerberto sarebbe stato consigliato da Meridiana – una ricca donna dietro alla quale si celava il Demonio – di non accostarsi piú ai sacramenti. Egli avrebbe iniziato però a temere di morire fuori dalla religione, ma la sua consigliera lo tranquillizzava assicurandogli che non sarebbe morto finché non avesse celebrato la messa a Gerusalemme. Risolvendo di non recarsi per alcun motivo in Terra Santa, Gerberto si riteneva al sicuro. Tuttavia un giorno, celebrando la messa nella chiesa romana di Santa Croce, vide apparire, tra i banchi della basilica, Meridiana che lo applaudiva, ridendo e trasformandosi in un orribile mostro. Spaventato da quella visione chiese informazioni piú approfondite sul sito nel quale stava celebrando la messa, scoprendo solo allora che si trattava di una basilica edificata dall’imperatrice Elena sulla terra da lei riportata da Gerusalemme. Silvestro comprese l’inganno e morí disperato.
Da leggere Fabio Giovannini I tesori nascosti di Roma La millenaria caccia alle ricchezze sepolte Ugo Mursia Editore, Milano,
149 pp., ill. b/n 12,00 euro ISBN 978-88-425-3889-9
Il libro propone un percorso attraverso la storia e le leggende romane, partendo dall’età medievale per giungere ai piú recenti ritrovamenti, alla ricerca dei «tesori nascosti»: monete e preziosi sotterrati per le ragioni piú varie sotto le fondamenta di edifici ancora esistenti o negli sperduti poderi della campagna romana, celati dalla memoria e dal tempo, trovati solo per un caso fortuito dopo secoli di oblio, o ancora dispersi. L’autore ripropone l’affascinante tema della «caccia» ai tesori (con tutto ciò che tale impresa sa evocare nell’immaginario collettivo) basandosi sulla disamina delle fonti storiche e archeologiche, ricche e variegate. Sullo sfondo si staglia monolitica la sfavillante bellezza di Roma e l’intreccio della sua complessa – e a tratti drammatica – storia millenaria.
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Quel che resta di un borgo Al di là delle testimonianze di scrittori e poeti o di pitture e disegni, possiamo avere un’idea di quale fosse l’aspetto della Roma medievale? Solo a tratti, perché la gran parte dei suoi edifici sono stati nel tempo cancellati o assai rimaneggiati. Vi sono, tuttavia, alcune significative eccezioni, molte delle quali si concentrano nei pressi dell’antico mercato del pesce...
di Jean-Claude Maire Vigueur
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e escludiamo un certo numero di chiese e di altri edifici religiosi, oggi a Roma di medievale è rimasto ben poco. Niente a che vedere con le centinaia e centinaia di palazzi che conferiscono a Venezia la sua impronta «gotica» e neppure con le case e le viuzze di tanti borghi e città dell’Italia centrale che hanno conservato molti dei caratteri originali dell’architettura e dell’urbanistica medievale. A Roma, lo sappiamo, lo strato medievale è stato in gran parte ricoperto o cancellato dalla straordinaria crescita della città in età moderna. Oltre a conferire ai nuovi quartieri lo stile e i colori inconfondibili del barocco romano, la prosperità della Roma papalina ha anche portato a una trasformazione radicale del tessuto edilizio nelle zone di piú antica occupazione. E il poco che era stato risparmiato dal furore edilizio dei secoli XVI-XVIII è crollato sotto il piccone dei risanatori dello Stato unitario e del regime fascista. Forse non perseguivano esattamente gli stessi obiettivi ma di sicuro nutrivano analoghi sentimenti per le vecchie case
della «Roma bassa», lerce, buie, umide, tarlate, in poche parole «medievali». Del Medioevo erano, sí, disposti a conservare alcuni edifici, ma sempre isolati dal loro contesto, ripuliti, abbelliti.
In alto i resti del portico di Ottavia, che divenne sede del mercato del pesce. Sulle due pagine Ettore Roesler Franz, Venditori di pesce al Portico d’Ottavia. Acquerello, 1880. Roma, Museo di Roma.
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facoltosi, titolari di un cospicuo patrimonio immobiliare: non solo case sparse nel rione Sant’Angelo e in quelli vicini di Ripa, Campitelli e Regola, ma anche vigne, orti e talvolta interi casali. Su di loro, come su molti altri abitanti della zona, disponiamo di un numero eccezionalmente alto di informazioni, grazie ai venticinque registri di un notaio attivo tra il 1363 e il 1409. Ser Antonio di Stefanello Scambi – questo è il suo nome – abitava a due passi dalla chiesa di S. Angelo e contava tra i suoi clienti tutti i benestanti del rione. Ma non rogava
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Punto di partenza della nostra passeggiata sarà uno dei luoghi piú significativi della Roma medievale: il portico della chiesa di S. Angelo in Pescheria. Negli ultimi secoli del Medioevo, tenevano banco sotto il portico e nelle immediate adiacenze una trentina di pescivendoli, tutti membri di una corporazione che aveva sede nella chiesa di S. Angelo. Oltre al pesce, esponevano su larghe lastre di pietra marmorea gli altri prodotti, come la cacciagione, di cui detenevano il monopolio di vendita. Si trattava spesso di commercianti
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solo per i ricchi. La sua bottega era aperta a tutti, anche ai numerosi Ebrei che popolavano la zona ben prima che venissero rinchiusi tra le mura del Ghetto, istituito con una bolla di Paolo IV nel 1555. Leggere le migliaia di atti che riempiono i suoi registri vuol dire entrare nelle case degli abitanti del rione e scoprire i loro modi di vita. Senza l’aiuto di tali testimonianze sarebbe impossibile capire qualcosa dei pochi edifici superstiti della Roma medievale, a cominciare dai due piú vicini alla chiesa di S. Angelo: la cosiddetta marzo
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casa dei Vallati (5), a destra, la torre dei Grassi (1), a sinistra. La casa dei Vallati è in realtà una ricostruzione eseguita in modo un po’ fantasioso, nel corso degli anni Trenta, da uno degli architetti incaricati di sgomberare tutta l’area situata a ridosso del teatro di Marcello, dove oggi sono visibili i resti dei templi di Apollo Sosiano e di Bellona (3). Poniamoci in mezzo a via del Portico d’Ottavia e osserviamo bene la composizione della facciata principale. Salta subito agli occhi la sua struttura composita, come se la casa fosse nata dall’unione e dalla
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giustapposizione di almeno sei edifici anteriori. Partendo dalla sinistra, riconosciamo, in successione: un edificio intonacato con un bel portone e due finestre quadrate databili al primo Cinquecento; un edificio piú piccolo, che potrebbe essere il resto di una torretta, ornata al primo piano di una bifora di peperino; un corpo centrale con tre finestrine di travertino; un quarto edificio, di fronte al teatro di Marcello, con un portico al pianterreno e una terrazza al primo piano; una seconda torretta con una bifora di peperino; infine, un edificio fornito
di loggiato e di balcone all’altezza del primo piano. È verosimile che l’architetto abbia lavorato in gran parte di fantasia, utilizzando per esempio, per «restaurare» la casa dei Vallati, elementi di decorazione provenienti dagli edifici demoliti tutt’intorno. Ma i Romani del XIV secolo, bisogna dirlo, non agivano diversamente. Anch’essi utilizzavano sistematicamente materiali di spoglio per ornare le loro case: le cornici delle porte e delle finestre, le colonne che sostenevano i portici, i loggiati e le terrazze, i corbelli utilizzati per reggere
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teatro di marcello e templi di apollo sosiano e bellona
i balconi e tutte le parti aggettanti, gli elementi scultorei fissati nei muri esterni, tutto proveniva da monumenti antichi o da edifici demoliti e passava da una casa all’altra secondo le leggi del mercato. A giudicare dalla decorazione esterna, quindi, la casa dei Vallati è perfettamente conforme a quanto sappiamo delle abitazioni romane di quell’epoca. Lo stesso si può dire del suo impianto. Un ricco romano del Trecento, se desiderava ingrandire e abbellire la sua casa, non procedeva diversamente dai Vallati, dei quali conosciamo molte operazioni commerciali e immobiliari grazie agli atti del notaio Scambi: comprava edifici vicini, faceva costruire archi, portici, loggiati per unirli o collegarli e si industriava, infine, per allestire, all’interno di questo vasto complesso immobiliare, alcune delle attrezzature e infrastrutture che qualificavano le residenze di livello medio-alto. Non sappiamo se il complesso dei Vallati fosse cosí ampio da contenere, come quello dei Cenci – che incontreremo piú avanti – e di altre decine di famiglie romane, un forno e una stufa,
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attrezzature di solito accessibili a tutto il vicinato, ma di sicuro possedeva un pozzo, delle stalle, depositi per la legna e per le scorte di grano, olio e vino, oltre a uno o due vani di soggiorno e di ricevimento, provvisti di un caminetto, di un acquaio, di un gabinetto e aperti su una terrazza o su un loggiato; infine, vari spazi di collegamento e di passaggio. Inutile dire che di tutto ciò non rimane un bel niente. L’interno di casa dei Vallati è stato ricostruito per rispondere ai bisogni dell’amministrazione comunale, che lo ha destinato agli uffici della X ripartizione, non certo per fare piacere agli amanti del Medioevo. torri come status symbol Lasciamo la fin troppo restaurata casa dei Vallati per tornare alla chiesa di S. Angelo e per osservare, attaccato al lato sinistro, un edificio che di una ripulita avrebbe invece un serio bisogno. Si tratta di una piccola torre del XIII o XIV secolo, l’unico edificio sopravvissuto di un complesso molto piú vasto, assemblato, pezzo dopo
pezzo nella seconda metà del XIV secolo, da una famiglia di pescivendoli allora in piena ascesa sociale: i Grassi, altri affezionati clienti del notaio Scambi. La torre, per queste famiglie di mercanti e imprenditori agricoli, non aveva alcuna funzione militare; fungeva da status symbol e veniva impreziosita con l’aggiunta di lapidi antiche, come gli splendidi elementi di architrave romano che fanno da cornice alla porta della torre dei Grassi. Tutt’altra funzione avevano le torri inserite nelle residenze fortificate dei baroni, che fino all’inizio del Quattrocento hanno svolto un ruolo determinante nelle guerre tra lignaggi signorili. Come dubitare, del resto, della funzione squisitamente militare di Torre delle Milizie, accanto a piazza Magnanapoli, o di Torre dei Conti, all’inizio di via Cavour, quando si osserva l’altezza, la robustezza, la struttura stessa di questi enormi edifici? un magnifico porticato Infiliamoci ora nello stretto vicolo tra la chiesa di S. Angelo e la torre dei Grassi. In meno di marzo
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trenta metri, ci porterà, all’altezza del numero civico 23 di via della Tribuna di Campitelli (6), di fronte ai resti di un magnifico porticato: nove massicce colonne di marmo grigio, ornate di capitelli di stile dorico o di semplici cuscini di forma rettangolare. Non è menzionato in nessuna guida. Per un semplice motivo: fino a pochi anni fa era totalmente invisibile, seppellito nella facciata del palazzo che ha sostituito, in età moderna, la o, meglio, le case che nel Medioevo si aprivano su questo porticato, e sarebbe rimasto tale ancora per molto tempo se l’edificio non avesse richiesto lavori di restauro che lo hanno riportato alla luce. Molti dei porticati che abbellivano nel Medioevo le case di Roma hanno subito la stessa sorte. Oggi ne possiamo tutt’al piú scorgere una labile traccia sotto forma di colonne inserite nella muratura dei palazzi di età posteriore, o di capitelli che sporgono fuori dal muro a livello del pianterreno. Chi è interessato ne potrà scoprire diversi tra rione Sant’Angelo e rione Campitelli: per esempio nella facciata del monastero di Tor de’ Specchi, tra i numeri civici 34 e 36 di via del teatro di Marcello, oppure ai numeri civici 12-14 di vicolo Margana. luoghi di mediazione La Roma degli ultimi secoli del Medioevo contava dunque un gran numero di portici, tutti destinati a scomparire quando, a partire dal XV secolo, l’autorità pontificia, diventata padrona assoluta della città, imporrà una nuova concezione di habitat, fondata su una netta separazione tra l’interno e l’esterno delle abitazioni, tra il pubblico e il privato. Il portico medievale fungeva da mediatore tra le due sfere, era uno spazio di congiungimento tra la famiglia e la comunità urbana, un luogo dove l’artigiano lavorava, il notaio stendeva i suoi atti in presenza dei clienti, l’imprenditore sbrigava i suoi affari, la famiglia accoglieva parenti e amici. Niente a che vedere quindi con il sistema dei portici continui che sussiste in alcune città del Nord Italia, come Bologna, Padova,
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casa di vicolo della luce, 1
Pavia ecc., dove i portici servono esclusivamente alla circolazione dei pedoni, da ciascun lato di una strada ormai riservata ai mezzi di trasporto. I rioni Sant’Angelo e Campitelli offrono del resto magnifici esempi delle trasformazioni edilizie che accompagnano,
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nel corso del Rinascimento, le nuove concezioni urbanistiche. Imbocchiamo via del Portico d’Ottavia lasciando alle nostre spalle la chiesa di S. Angelo. Il marciapiede ha la larghezza della vecchia via della Pescheria, che fino al 1848 segnava il limite nord del Ghetto, abbattuto per decisione del Comune negli ultimi anni del XIX secolo. Per fortuna, tutti gli edifici del lato destro sono rimasti in piedi e testimoniano in modo eloquente maniere di concepire e di costruire le case che si sono fatte strada nel corso del XV e XVI secolo. Nell’edificio ai numeri civici 12-15, le finestre del secondo piano sono le uniche a rispondere alle esigenze di simmetria e regolarità tipiche del nuovo gusto architettonico. Sulla facciata del palazzo contiguo, ai numeri 7-11, tutte
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le finestre del primo e del secondo piano sono perfettamente allineate e ornate della stessa cornice di travertino, mentre i due marcapiani cercano di far dimenticare quello che di irregolare può sussistere nella facciata dell’edificio. Piú avanti ancora, ai numeri 1 e 2 (2, 7), l’umanista Lorenzo Manili ha avuto un’idea grandiosa per unire insieme le quattro case di cui era diventato proprietario: ispirandosi a modelli classici, ha fatto incidere, nel 1468, un’iscrizione a grandi caratteri romani lungo tutto il basamento dell’edificio (vedi la trascrizione e la traduzione in questa pagina). Gli sono però mancati il tempo o i mezzi per portare a termine il suo programma, che prevedeva probabilmente l’estensione a tutta la facciata delle belle finestre centinate
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casa manili
e architravate visibili nel secondo segmento, partendo dalla sinistra, dell’edificio. tesori dietro l’angolo Oltre via del Portico d’Ottavia comincia un altro rione, Regola, dove, come del resto in tutti i rioni della vecchia Roma, non mancano tracce di abitazioni medievali. Il visitatore frettoloso dovrebbe perlomeno dare un’occhiata, dietro al Ministero di Grazia e Giustizia, alle case dette di S. Paolo, resti di un piú vasto complesso demolito alla fine dell’Ottocento. A chi dispone di piú tempo, consiglio di girare per le strade del rione alla ricerca dei portici medievali: ne scoprirà un numero impressionante, alcuni splendidi, come quello di via Capo di Ferro, altri marzo
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appena rintracciabili dietro l’intonaco dei palazzi barocchi.
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alla vita del Comune. Non era allora una zona particolarmente «popolare», nel senso che la parola può avere oggi, anche perché a Roma, al contrario di altre città medievali, non esisteva la divisione tra centro aristocratico e borghi poveri. Lo divenne, semmai, in età barocca, man mano che le grandi famiglie dell’aristocrazia scelsero altre zone per costruire le loro nuove residenze. Il risultato è che Trastevere conserva oggi l’edilizia di tono decisamente minore rispetto alla grande architettura classica o barocca e che può talvolta risalire fino al Medioevo. È questo il caso di due edifici situati a poche centinaia di metri della zona del Ghetto e rimasti pressoché inalterati nel tempo: la piccola casa con scala esterna e portico in vicolo della Luce n. 1 (4) e l’edificio in vicolo dell’Atleta n. 11. Nel rione vi sono poi alcuni edifici nei quali si è scatenata la fantasia neogotica degli architetti di fine Ottocento: il piú imponente è il cosiddetto palazzo dei Mattei (8), tra piazza in Piscinula e lungotevere degli Anguillara, il piú piccolo è la graziosa casa della Fornarina, vicina a Porta Settimiana, mentre le case ricostruite di fronte a S. Cecilia e sul vicolo adiacente danno una buona idea della varietà di soluzioni utilizzate nel Medioevo per collegare l’interno con l’esterno.
al di là del tevere Dei nove ponti che in età antica univano le rive del Tevere all’interno delle mura, quattro erano ancora praticabili nella Roma del tardo Medioevo: il ponte Sant’Angelo, controllato dall’omonimo castello, che collegava Roma alla città leonina, i due dell’Isola Tiberina e, appena piú a valle, il pons S. Mariae, poi detto «Ponte Rotto», a seguito del crollo definitivo, alla fine del XVI secolo. Per tutto il Medioevo, però, la città leonina fu considerata come un’appendice separata dal resto dell’abitato e solo nel 1586 divenne il quattordicesimo rione di Roma, la cui popolazione partecipa a pieno diritto
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L’ultimo canto della martire
di Agnese Morano
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La basilica romana intitolata a Cecilia, la santa martire scelta (forse per un equivoco!) come patrona della musica, sorse in Trastevere, nel IX secolo. Edificata per volere di papa Pasquale I, conserva molte opere di pregio, tra cui un magnifico mosaico absidale sopravvissuto alle ristrutturazioni settecentesche, nonché uno straordinario ciclo di affreschi, realizzato da Pietro Cavallini sul finire del Duecento e riportato allo splendore originario solo pochi anni fa
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a basilica di S. Cecilia in Trastevere sorge, secondo la leggenda, sulla presunta casa di san Valeriano, marito della santa, martirizzata intorno al 220. Scavi effettuati sotto la chiesa in occasione di restauri condotti nel 1899 evidenziarono, effettivamente, la presenza di un gruppo di edifici databili tra l’età tardo-repubblicana e il IV secolo d.C. La casa fu trasformata in titulus, denominato Caeciliae, già nel V secolo e fu tale fino a quando san Gregorio Magno fece costruire la primitiva basilica, nel VI secolo. Colpevole di aver indotto alla conversione Valeriano, Cecilia era stata martirizzata negli ambienti che oggi costituiscono i sotterranei della basilica. Qui è ancora visibile il calidarium, la sala in cui la giovane subí per tre giorni il supplizio: poiché, scaduto il terzo giorno, non era ancora stata soffocata da vapori caldissimi, i suoi aguzzini la colpirono per tre volte al collo con la spada. La santa non fu però decapitata, in quanto, come si legge nel martirologio, la legge romana vietava di infliggere piú di tre colpi e cosí, sebbene ferita, sopravvisse per altri tre giorni, durante i quali donò tutti i suoi beni ai poveri.
La visione rivelatrice
Per molto tempo il luogo della sepoltura della santa rimase sconosciuto, fino a che, nell’820, papa Pasquale I, da sempre molto devoto ai martiri romani sepolti fuori le mura dell’Urbe, ebbe in sogno la visione di Cecilia che gli rivelava dove era stata seppellita. Il papa fece quindi erigere la chiesa in forma basilicale sul luogo della precedente e, rinvenuto il corpo della santa nelle catacombe di S. Callisto, traslò qui i suoi resti incorrotti. Durante i lavori di ristrutturazione effettuati nel 1599 per iniziativa del cardinale Paolo Emilio Sfondrati, il sepolcro di marmo venne aperto e, nella cassa di cipresso chiusa al suo interno, il corpo di Cecilia fu ritrovato integro, vestito di bianco e con il segno delle ferite sul collo. Esposte per un mese alla continua e incessante venerazione dei fedeli, le spoglie vennero Roma, basilica di S. Cecilia. La statua raffigurante la santa, commissionata a Stefano Maderno nel 1599 dal cardinal Sfondrati. Secondo il racconto dell’artista, la scultura ritrae il corpo della martire cosí come fu trovato, miracolosamente intatto, in occasione della ricognizione del sepolcro.
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luoghi s. cecilia il mistero in una parola
poi sepolte nella cripta, all’interno di una sfarzosa cassa realizzata con 254 libbre d’argento. Nell’occasione il cardinal Sfondrati commissionò allo scultore Stefano Maderno (1576-1636) la celebre statua marmorea della santa. Secondo il racconto dello scultore, il corpo, al momento dell’apertura della cassa, era miracolosamente intatto, ma si sarebbe polverizzato immediatamente dopo. Maderno quindi raffigurò la giovane cosí come era apparsa a coloro che l’avevano rinvenuta: sdraiata su di un fianco, vinta da un sonno profondo, le braccia tese in avanti e le mani a indicare il numero uno e il numero tre (chiaro ed evidente rimando alla Trinità), la faccia rivolta al suolo e i capelli sparsi, cosí da mostrare il segno delle ferite mortali sul collo.
Patrona della musica? La giovane romana Cecilia, pur avendo fatto voto di castità, fu costretta a sposarsi con un nobile di nome Valeriano. La sera delle nozze, secondo la vicenda agiografica, Cecilia svelò al suo sposo di avere un angelo a difesa del suo corpo in quanto aveva consacrato a Dio la propria verginità. Valeriano, nonostante fosse pagano, accettò la fede della sposa, a patto di poter vedere l’angelo che vegliava su di lei: questi si manifestò loro e donò all’incredulo Valeriano una corona di rose, mentre Cecilia ne ricevette una di gigli e, proprio per questo motivo, l’etimologia del nome di Cecilia sarebbe da ricollegarsi a «cieli-lilia» ovvero «al cielo» e «ai gigli». Curiosa è la motivazione per cui Cecilia, festeggiata il 22 novembre, sia divenuta patrona della musica. Il motivo di questo ruolo della santa va ricercato in un brano della sua biografia nella quale si legge: «Mentre Cecilia veniva condotta alla casa del suo promesso sposo il giorno delle nozze al suono degli strumenti musicali (“cantantibus organis”) nel suo cuore ella non invocava che Dio, pregandolo di mantenere senza macchia la sua anima e il suo corpo». Tale testo è da sempre stato riferito al banchetto di nozze di Cecilia e quindi, mentre i profani strumenti musicali suonavano, Cecilia
Le antichità del cortile
Ulteriori interventi videro coinvolto l’architetto Ferdinando Fuga (1699-1781), che realizzò un ingresso solenne, a imitazione di quelli dei grandi palazzi patrizi dell’epoca settecentesca, attraverso il quale si accede a un grande cortile. Quest’ultimo è impreziosito da una vasca rettangolare sulla quale troneggia un imponente cantaro marmoreo, cioè un grande vaso originariamente utilizzato per le abluzioni dei fedeli e qui posto come simbolo del refrigerio delle anime beate. Questo cortile interno, racchiuso ai lati da due monasteri, guarda la facciata vera e propria della chiesa che, ampiamente rimaneggiata nel corso del XVIII secolo, è preceduta da un portico. Qui, addossato alla parete destra, è conservato il monumento sepolcrale di Paolo Emilio Sfondrati, morto nel 1618, con rilievi che ricordano la ricognizione della tomba della santa voluta dal prelato. A destra della facciata svetta il campanile, unico elemento «romanico» rimasto a testimonianza della chiesa originaria; la
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A sinistra cartina del rione di Trastevere con l’ubicazione della basilica di S. Cecilia. A destra particolare del portico della basilica, per il quale furono utilizzate colonne e capitelli di spoglio, di epoca romana.
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Piazza Venezia Campidoglio Teatro di Marcello
Basilica di S. Cecilia ciili c cil ilia ilia ia Porta Portese
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cantava a Dio interiormente. In realtà, secondo un’altra interpretazione, l’originario testo latino non riporterebbe il termine «cantantibus», bensí «candentibus» e, quindi, gli «organi» non sarebbero affatto strumenti musicali, ma gli strumenti di tortura: il passo, dunque, non descriverebbe il banchetto di nozze, bensí il momento del martirio di Cecilia che «tra gli strumenti di tortura incandescenti, cantava a Dio nel suo cuore». Questa errata lettura del testo agiografico è quindi il motivo per cui Cecilia viene iconograficamente raffigurata assieme a vari strumenti musicali, tra i quali spicca sempre un piccolo organo, ed è per questo che Cecilia viene considerata patrona della musica.
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La facciata della basilica di S. Cecilia, frutto degli interventi settecenteschi promossi dal cardinale Acquaviva. Il campanile, invece, è uno degli elementi che conservano la fisionomia originaria, e risale al XIII sec. Al centro del cortile che precede l’ingresso si trova un vasca, abbellita da un grande vaso marmoreo d’età romana.
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luoghi s. cecilia abside Il mosaico del catino absidale propone lo schema articolato in sette personaggi: da sinistra, papa Pasquale I, santa Cecilia, san Paolo, Cristo, san Pietro, Valeriano, sant’Agata. L’opera risale al pontificato di Pasquale I, al quale si deve la costruzione della basilica, e si data intorno all’820.
torre campanaria si segnala per essere leggermente pendente, un caso unico per Roma. L’interno della chiesa, preceduto da un vestibolo, è a tre navate, la maggiore delle quali, absidata, è separata dalle altre mediante pilastri che inglobano le antiche colonne. La navata centrale ha perduto l’originario aspetto medievale e, ampia e luminosa, è caratterizzata dallo splendente biancore settecentesco. Il soffitto oggi ospita il grande affresco, opera di Sebastiano Conca (1680-1764), raffigurante la Gloria di Santa Cecilia; e anche il pavimento a mosaico realizzato dalla famosa famiglia dei Cosmati è stato sostituito in epoca settecentesca.
I tesori e i colori di una basilica navata centrale Originariamente impreziosita da un pavimento a mosaico cosmatesco, ha subito ripetuti rimaneggiamenti ed è oggi coronata dalla Gloria di Santa Cecilia affrescata da Sebastiano Conca intorno al 1727.
Il luogo del supplizio
Dalla navata destra si accede a uno degli ambienti piú importanti della basilica: la cappella di santa Cecilia, altrimenti nota come cappella del Bagno. Qui i devoti venivano, e vengono ancora oggi, per chiedere aiuto e protezione alla santa martire: sul pavimento a destra dell’altare, infatti, una grata mette in comunicazione la cappella con il calidarium, cioè con il luogo in cui la giovane sarebbe stata esposta ai vapori bollenti che avrebbero dovuto soffocarla. Un supplizio che, secondo la tradizione, non sortí alcun effetto, perché l’angelo custode di Cecilia ventilava il luogo con il battito delle ali. Il catino dell’abside è decorato da un magnifico mosaico, realizzato sotto il pontificato di Pasquale I (817824) e caratterizzato dall’essere composto soprattutto di tessere in materiale vitreo, alternate, sporadicamente, a quelle marmoree. Lo schema proposto è quello delle sette figure – presente a Roma anche in S. Prassede e in S. Maria in Domnica –, tra le quali spicca al centro, a dimensioni maggiori, Gesú Cristo. All’estrema sinistra è Pasquale I, raffigurato con l’aureola quadrata perché ancora vivente e con il modellino della chiesa in ma-
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ciborio Realizzato nel 1293 da Arnolfo di Cambio, è decorato con figure di santi, angeli, profeti ed evangelisti. È uno dei capolavori dello scultore e architetto toscano.
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In basso, a sinistra planimetria della basilica di S. Cecilia: 1. cortile; 2. portico; 3.vestibolo; 4. cappella di santa Cecilia o «del Bagno»; 5. testata della navata destra, con l’affresco raffigurante Cecilia che appare in sogno a Pasquale I (vedi foto qui sotto); 6. ciborio; 7. monumento a santa Cecilia di Stefano Maderno; 8. navata centrale.
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L’affresco del sogno
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Alla fine della navata destra, all’interno della cappella dedicata a santa Teresa, è visibile un dipinto murale di scuola romana datato alla prima metà del XII sec. L’opera faceva parte di un ciclo pittorico piú ampio, originariamente collocato nel portico, che illustrava il martirio dei santi Vincenzo, Lorenzo, Stefano e la storia di Cecilia e di suo marito Valeriano. Il frammento ancora oggi visibile raffigura due scene assai importanti nella storia post mortem di Cecilia: la sua apparizione in sogno a papa Pasquale I e il successivo rinvenimento nelle catacombe di Callisto del suo corpo, miracolosamente incorrotto.
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luoghi s. cecilia no; accanto a lui è santa Cecilia. Nella fascia inferiore dodici agnelli convergono verso l’Agnus Dei; al di sotto una lunga iscrizione ricorda l’opera di papa Pasquale a favore della basilica e il recupero delle reliquie di santa Cecilia. Quello che oggi possiamo ammirare è solo una parte del mosaico originario, distrutto durante i lavori settecenteschi. Grazie a una incisione realizzata nel XVII secolo da Giovanni Ciampini, sappiamo che la decorazione musiva originaria era assai ricca in quanto estesa fino ai lati del catino absidale. Il ciborio, posto a protezione dell’altare maggiore, fu realizzato nel 1293 da Arnolfo di Cambio (1240/45 circa-tra il 1302 e il 1310), come risulta da una iscrizione incisa su un piastrino, rinvenuto solo nel 1901, che venne interrato durante i lavori fatti eseguire dal cardinal Sfondrati. Le quattro colonne in marmo nero sono sormontate da capitelli corinzi e da pulvini decorati con medaglioni a mosaico; statue di santi, angeli, profeti ed evangelisti completano la ricca decorazione goticheggiante.
I travagli di un capolavoro
Nel coro, posto nella controfacciata della chiesa, si può ammirare la splendida decorazione ad affresco realizzata da Pietro Cavallini (attivo nell’ultimo trentennio del XIII e nel primo ventennio del XIV secolo) in un periodo, non ancora unanimemente individuato dai critici, compreso tra il 1281 e il 1293. L’imponente ciclo pittorico fu parzialmente coperto nel XVI secolo, per permettere la costruzione del coro delle monache. Poi, nel 1725, i dipinti furono completamente celati, quando il cardinale Francesco Acquaviva dispose nuovi e radicali interventi di ristrutturazione. Gli affreschi furono riscoperti solo nell’ottobre del 1900 dallo storico dell’arte Federico Hermanin (1868-1953) e restituiti al loro originario, seppur frammentario, splendore dall’intervento di restauro condotto negli anni Ottanta del secolo scorso. Della decorazione realizzata da Cavallini si conservano, purtroppo, solo le scene del Giudizio Universale, dell’Annunciazione e alcuni lacerti di pittura che rimandano all’episodio del sogno di Giacobbe e dell’inganno di Isacco. Il Giudizio Universale è, indubbiamente, la composizione piú grandiosa: al centro, all’interno di una mandorla, compare Cristo circondato da figure di angeli straordinariamente variopinti nelle loro ali dalla cromia cangiante. A destra è san Giovanni Battista, a sinistra la Vergine e poi, ai lati di questi ultimi, gli Apostoli seduti sui loro scanni. La mano del Cristo si rivolge, a destra, a indicare gli eletti, mentre, alla sua sinistra, sono posti i dannati destinati al fuoco eterno delle pene infernali. Molto probabilmente il pittore non lavorò da solo ma si avvalse dell’aiuto di uno dei suoi migliori allievi per realizzare un’opera che doveva essere di dimensioni notevoli. Di tale allievo, che da alcuni critici è considerato un vero e proprio collaboratore vista la sua bravura, non conosciamo il nome e pertanto viene ormai indicato come il «maestro di S. Cecilia».
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Dove e quando Basilica di S. Cecilia Roma, piazza S. Cecilia, 22 Orario basilica giorni feriali, 9,30-13,00 e 16,0018,30; do e festivi, 11,30-12,30 e 16,00-18,30 (durante la celebrazione della Santa Messa non è possibile visitare la chiesa) Orario coro monastico (affreschi Cavallini) solo giorni feriali, 10,00-12,30 Info tel./fax 06 45492739; e-mail: monastero@benedettinesantacecilia.it; www.benedettinesantacecilia.it La pittura di Cavallini è considerata come uno dei primi esempi di pittura occidentale: se l’impianto iconografico è ancora vicino all’arte bizantina, la visione prospettica, gli atteggiamenti dei volti e le sfumature cromatiche addolciscono l’immagine, creando le basi di una pittura internazionale. Dal fondo della navata sinistra, scendendo le scale che conducono nel sottosuolo, si raggiungono gli ambienti che corrispondono alla domus repubblicana della fine del II secolo a.C. e all’insula del II secolo d.C. Nella prima metà del II secolo d.C., nel momento di maggiore espansione demografica del quartiere di Trastevere (da marzo
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Da leggere U Hugo Brandenburg,
Le prime chiese di Roma, Jaca Book, Milano 2004. U Neda Parmegiani, Alberto Pronti, S. Cecilia in Trastevere: nuovi scavi e ricerche, Pontificio Istituto di archeologia cristiana, Città del Vaticano 2004. U Roberta Bernabei, Chiese di Roma, Electa, Milano 2007. U Valentina Oliva, La Basilica di Santa Cecilia, Edizioni d’Arte Marconi, Roma 2010.
A sinistra il Giudizio Universale di Pietro Cavallini, riscoperto solo nel 1900 e restaurato negli anni Ottanta del secolo scorso. L’opera, databile tra il 1281 e il 1293, è stata danneggiata dalla costruzione del coro delle monache e da ristrutturazioni settecentesche.
trans Tiberim, al di là del Tevere, n.d.r.), parte dell’area della domus fu inglobata, utilizzandone le strutture, in una insula, una sorta di palazzina a piú piani. Visitando gli scavi, quattro ambienti suscitano curiosità per la loro particolare e singolare struttura. Nel primo sono presenti otto vasche circolari, molto probabilmente destinate alla lavorazione delle pelli, o, secondo un’altra ipotesi avanzata dagli archeologi, utilizzate come silos per la conservazioni di derrate alimentari. Vi è poi un’ampia sala con, al centro, una vasca circolare in laterizio utilizzata, a partire dal V secolo, come una delle prime fonti battesimali a Roma. Si tratta di una delle rarissime testimonianze romane di bacini utilizzati per praticare il battesimo per immersione. Degna di nota è anche la presenza di un larario, cioè di un luogo destinato al culto dei lari, divinità poste a protezione della casa. E qui, su una lastra tufacea posta all’interno di una piccola nicchia, si conserva anche un’immagine della dea Minerva. Interessante è anche il già piú volte citato calidarium, vale a dire il luogo in cui Cecilia sarebbe stata martirizzata. F
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Qui sopra statuetta raffigurante la dea Minerva, posta in una nicchia del larario compreso nelle strutture di età romana che si conservano sotto la basilica di S. Cecilia.
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Una magnifica confusione
cartoline • La Grande Moschea di
Divrigi è un capolavoro di arte islamica medievale. Caratterizzata da un caotico intrecciarsi di stili decorativi e architettonici, è parte del complesso che comprende il piú antico ospedale dell’Anatolia
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solata tra le montagne dell’Anatolia e quasi ignorata dai turisti, la cittadina di Divrigi ospita uno dei piú elaborati capolavori dell’arte islamica medievale: il complesso formato dalla Grande Moschea e dall’Ospedale, primo monumento turco a essere stato incluso nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità dell’UNESCO (1985). E, a riprova del suo isolamento, questo piccolo centro di minatori fu scelto, durante la seconda guerra mondiale, per nascondervi il tesoro del palazzo di Topkapi.
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Decisamente, non è una meta adatta per chi vada di fretta. Ci si arriva da Sivas, l’antica Sebastea romana, fondata quattromila anni fa dagli Ittiti – il capoluogo dove nel 1919 Ataturk elaborò gli accordi per la fondazione della Repubblica turca –
in tre ore di macchina, percorrendo strade incorniciate da un paesaggio quasi lunare, in mezzo a gole profonde e a montagne che sono la principale fonte di ferro del Paese. In questo angolo dell’Anatolia magico e incontaminato,
In alto veduta di Divrigi, città della Turchia centro-orientale, nella provincia di Sivas. In basso Divrigi. Il magnifco portale dell’Ospedale.
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adagiato sulle rive di un affluente dell’Eufrate, il Caltisuyu, e conquistato dai Turchi all’inizio dell’XI secolo, l’emiro mengugekide Ahmet Shah e sua moglie Fatma Melike Turan fecero costruire, nel 1228, la Grande Moschea (Ulu Cami) e l’Ospedale (Darüssifa) in un unico edificio, sulla collina di quello che era allora un agglomerato vivace e importante.
Un sito strategico Non si sa molto della storia antica di Divrigi. Forse colonizzata dagli Ittiti, fu un luogo strategico nel conflitto fra i Bizantini (si chiamava allora Tephrike) e i Sassanidi (ultima dinastia indigena a governare Georgia Istanbul Ankara
TURCHIA
Armenia
Divrigi Izmir
Konya Antalya
Adana Aleppo
Cipro
Siria
la Persia prima della conquista islamica), perché si trovava nella zona di confine tra le due potenze. I Bizantini mantennero il controllo della cittadella protetta dal castello fortificato, sicuramente risalente a un’epoca piú antica rispetto ai resti medievali sopravvissuti fino a oggi, e seppero contrastare l’attacco degli Arabi, avvenuto nel corso dell’espansione islamica del 650 in Anatolia. Fu l’importante roccaforte e capitale degli eretici pauliciani (setta di asceti sorta in Armenia nel VI secolo, seguace degli insegnamenti di san Paolo di Tarso verso l’856), che ne fecero il proprio rifugio nell’XI secolo. Nel 1071 la battaglia di Manzikert tra l’esercito del sultano selgiuchide Alp Arslan e le truppe bizantine di Romano IV Diogene, risoltasi in una disastrosa sconfitta bizantina, segnò il destino della città che per quasi due secoli, fino alla
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Mosul Iraq
In alto particolare del portale dell’Ospedale, costruito per volere del sultano mengugekide Ahmet Shah. A sinistra cartina della Turchia con la localizzazione di Divrigi.
distruzione da parte dei Mongoli di Hulagu nel 1251, conobbe il suo periodo di vero splendore. In quegli anni, sotto il dominio del beylicato mengugekide, insediato dallo stesso Alp Arslan, quando i virtuosismi dell’architettura selgiuchide raggiungevano il loro apogeo creativo, Ahmet Shah e Fatma Melike Turan commissionarono la costruzione del complesso Moschea-Ospedale.
Per amore di Dio Scritto in naskhî (una delle prime e piú diffuse calligrafie arabe), sul portale nord si legge : «Questa grande Moschea è stata costruita per amore di Dio dal suo schiavo che ha bisogno di misericordia, Ahmet Shah, figlio di Shah – che Dio renda eterno il suo regno – in data 626 (1228-1229, n.d.r.)». Della complessa architettura dell’edificio, e della sua sua storia, si sa poco, poiché i
dettagli dei lavori di costruzione e delle opere ornamentali non sono stati registrati da nessuna parte. L’architetto Hürrem Chah, originario di Ahlat (la cui firma compare sia in una campata accanto alla cupola del mihrab – la nicchia che indica la direzione della Mecca – all’interno della Moschea, sia in fondo all’iwan – nicchia coperta da una semicupola – dell’Ospedale), al quale era stata affidata la realizzazione del progetto, aveva di certo avuto a sua disposizione un gran numero di operai, muratori e scultori, provenienti verosimilmente dalla sua stessa città. I cimiteri di Ahlat erano infatti famosi per i magnifici intagli su pietra delle tombe, e gli artisti locali erano ricercatissimi in tutta l’Anatolia medievale. Nel XIII secolo provetti artigiani cosmopoliti, provenienti anche dalla Siria, dal Caucaso e dalla Persia si spostavano continuamente, come del resto avveniva in quell’epoca anche fra le varie regioni dell’Europa occidentale. Ogni squadra di scalpellini aveva un repertorio diverso di disegni da eseguire, ispirati al lavoro tessile, ai motivi tradizionali delle piastrelle e all’incisione del legno.
Intrecci a forma di stella La Grande Moschea, organizzata in cinque navate perpendicolari al muro della qibla diretto verso la Mecca,
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caleido scopio con il suo mihrab sormontato da una cupola polilobata, conserva ancora il prezioso minbar (pulpito) scolpito nell’ebano dai maestri falegnami, con aggrovigliati intrecci geometrici a forma di stella. Le colonne, tutte diverse fra loro e illuminate da una cupola a lucernaio, poggiano su un pavimento che, fino agli anni Sessanta del Novecento, era coperto da tappeti leggendari, provenienti non solo dalla Turchia, ma anche dal Caucaso, dal nord dell’Iran e dalla Siria, e attualmente custoditi a Istambul a causa degli svariati tentativi di furto. L’Ospedale – riservato ai malati di mente e sempre amministrato esclusivamente da donne, per volere della sua fondatrice – è il piú antico dell’Anatolia dopo quello di Sivas: «Ha ordinato la costruzione di questa casa di salute (dâr-el-shifâ) benedetta Fatma Melike Turan, figlia di al-Malik al-Sa’îd Fakhr al-dîn Bahrâm Shah, in uno dei mesi dell’anno 626 (1228-1229, n.d.r.)». Si tratta di un edificio a due piani, con un cortile centrale circondato da portici, sullo schema dei khân (grandi ambienti coperti) e delle madrase (scuole) anatolici. Tuttora vi regna un’atmosfera particolare di silenzio e di luce, e si può facilmente immaginare lo sciabordio dell’acqua che scorreva a spirale nella vasca ottogonale, al centro della sala: serviva per calmare i pazienti, insieme alla musica suonata espressamente per loro.
difficoltà gli storici dell’arte, indecisi sull’interpretazione di una cosí complessa e intricata decorazione. In realtà il disordine e l’anarchia della profusione di incisioni vegetali e floreali sono soltanto apparenti, e corrispondono a uno schema estremamente rigido, essendo la geometria alla base del sofisticato progetto architettonico. Particolarmente significative sono le proporzioni del portale della Moschea, rivolto verso nord, in direzione della Mecca. Foglie e
palmette che sembrano ondeggiare nella brezza, sormontate da un gigantesco fiore di loto, sotto l’apparenza di un leggiadro giardino dell’Eden, sono un esempio di rigore ineccepibile: l’esagono scolpito sopra la porta è il perno della simmetria di tutto l’insieme. Nonostante la stravaganza dei motivi e le variazioni surreali (il sole, la luna, le palmette, i ventagli arrotondati, la ridondanza di foglie e stelle), la decorazione selvaggia della porta dell’Ospedale nasconde, A sinistra il portale Nord del complesso di Divrigi, caratterizzato da una ricca decorazione con palmette e grandi fiori di loto che non trova confronti nell’arte selgiuchide.
Il «miracolo di Divrigi» In contrasto con la sobria pietra della facciata – un giallo ocra che assorbe meravigliosamente la luce del sole – i tre ingressi della Moschea e quello dell’Ospedale sono costellati da migliaia di motivi asimmetrici, completamente diversi fra loro, realizzati in vari stili (barocco, selgiuchide, gotico), ma riuniti in un insieme paradossalmente coerente, che talora sembra derivare soltanto dal mondo immaginario dello scultore. Chiamati anche «miracolo di Divrigi», i sublimi portali riescono ancor oggi a mettere in
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Uno degli atri del complesso di Divrigi, caratterizzato, come l’intero edificio, da giochi di simmetrie e composizioni geometriche estremamente elaborati. marzo
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a sua volta, una composizione geometrica sottostante che è perfetta. L’elegante colonnetta prismatica, piazzata davanti alla finestra che dà luce al primo piano, misura un quinto dell’altezza dell’apertura d’accesso e un quarto della sua larghezza: è la sintesi della coerenza architettonica del portale.
Mantelli di pelliccia di gatto Evliya Celabi, celebre viaggiatore e scrittore turco (1611-1682), amava molto Divrigi e ne fornisce descrizioni preziose. L’avevano colpito le belle case della città e l’invincibile castello con i cannoni che sparavano con gran fracasso durante il bayran, festa religiosa nazionale. Sempre da lui sappiamo che d’estate, quando le cisterne della cittadella erano all’asciutto, l’acqua veniva pompata dal fiume grazie a un profondo pozzo. Celabi non manca di citare i famosi, bellissimi gatti della zona usati dai mercanti e dai bay per foderare i loro mantelli contro i venti gelidi dell’inverno anatolico, oppure – i piú fortunati – portati in Persia come
regali, o per essere venduti all’asta nei bazar di Erdebil. Descrive infine il delicato equilibrio artistico della Ulu Cami e del Darüssifa (per la cui edificazione furono spesi sette anni di tributi greci!), non comparabili a suo avviso, per creatività e ricchezza di ornamenti, a nessuno dei monumenti piú celebri da lui visitati nelle terre dei Rum (termine derivante dall’arabo per designare il sultanato selgiuchide, stabilito sul territorio a lungo considerato «romano», cioè bizantino): la moschea di Ayasuluk a Efeso, la moschea di Bursa, il minbar di Sinope.
Un intervento provvidenziale Quando racconta che le decorazioni degli ingressi erano in perfette condizioni, probabilmente Evliya Celabi si riferisce in particolare ai rilievi dei portali. Infatti nel XVII secolo la Moschea fu oggetto di restauri che, se ne alterarono in parte l’aspetto originale, al tempo stesso la preservarono dalla rovina. In quel periodo, infatti,
fu compiuta un’opera di consolidamento, fasciando archi e pilastri antichi con rivestimenti in muratura. In molte campate, le volte sarebbero senza dubbio crollate se non fossero state rafforzate e sostituite con cupole. In seguito, a causa di nuovi cedimenti, la moschea venne chiusa al culto per un certo periodo, e l’Ospedale fu addirittura trasformato in fienile. Nel 1900, infine, un ulteriore intervento lo riportò alla sua funzione originale. Attualmente, un nuovo grande progetto di restauro prevede di eliminare tutte le aggiunte che alterano l’aspetto originario della Grande Moschea. Sotto la muratura moderna che ricopre i pilastri, per esempio, si pensa che certamente ricomparirebbero i fusti cilindrici e poligonali analoghi a quelli dei pilastri, rimasti intatti, del contiguo Ospedale: una delicata e sofisticata operazione che comporterà l’impiego di una manodopera molto esperta, padrona delle tecniche del passato. Daniela Fuganti
A destra lo splendido minbar (pulpito) della Grande Moschea, scolpito dal maestro al-Tiflisi, nel XIII sec. Alle spalle si conservano i resti di una probabile loggia. In alto e qui accanto due delle 20 volte in cui si articola il tetto della Grande Moschea: ciascuna presenta decorazioni radiali che, in questo caso, si dipartono da un ottagono e da un piccolo rosone.
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Il museo impossibile libri • Piú di 3000
opere sono state riunite a formare una straordinaria raccolta virtuale. Una collezione immaginaria che, abbracciando un arco cronologico vastissimo, documenta le piú significative espressioni artistiche dell’umanità
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ome si legge nelle brevissime note introduttive, l’opera curata da Phaidon mette a disposizione del lettore una raccolta che «aperta 24 ore su 24 tutti i giorni dell’anno, è il primo museo d’arte sempre accessibile». Al di là dei numeri, dei primati e degli ammiccamenti, il volume offre l’opportunità di ripercorrere tutte le piú importanti espressioni artistiche che l’uomo ha saputo realizzare in oltre 30 000 anni di storia e in ogni angolo del Pianeta. Il Museo dell’Arte, infatti, si apre con le straordinarie testimonianze dell’arte preistorica per chiudersi, dopo una lunga galoppata nel tempo e nello spazio, con le opere di Richard Serra e Cy Twombly. Per quanto riguarda l’epoca medievale, ampia è la scelta Naumburg (Germania), coro della Cattedrale. Le statue in pietra calcarea con tracce della policromia originaria, raffiguranti Ekkehard II e Uta, antenati del vescovo Dietrich II di Wettin. Attribuite al Maestro di Naumburg, le sculture furono realizzate tra il 1245 e il 1260 circa.
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delle opere, riferibili tanto al contesto occidentale, quanto a quello extraeuropeo, primo fra tutti l’Islam. Ad aprire la sezione sull’Età di Mezzo è l’arte bizantina, rappresentata innanzitutto, dai magnifici cicli musivi di Ravenna e di Santa Sofia e dagli affreschi di Mistrà. Testimonianze nelle quali si affollano santi, martiri e personaggi illustri, i quali, pur nella loro ieratica fissità, trasmettono messaggi potenti e che già presentano le forme embrionali della grande pittura del pieno Medioevo.
Guardando all’Islam Nelle pagine dedicate all’arte islamica le forme e i colori sembrano moltiplicarsi fino a divenire quasi lussureggianti. Una sorta di fantastico caleidoscopio, che ribadisce le vette raggiunte dagli artisti e dagli artigiani attivi nel mondo orientale, che precorsero spesso i loro colleghi occidentali e, altrettanto spesso, vennero da questi ultimi imitati.
AA. VV. Il Museo dell’Arte Electa, Milano, 992 pp. ill. col. 200,00 euro ISBN 978-88-370-9080-7 Tornando all’ambito europeo, è possibile seguire l’evolversi dei molti filoni espressivi che si andarono affermando, dalla
lavorazione degli avori all’oreficeria, dalla miniatura alla decorazione delle vetrate, oltre, naturalmente, alla pittura e alla scultura. Né mancano le grandi architetture, idealmente trasferite all’interno di questo vasto «museo». I soggetti legati alla sfera del sacro hanno una parte importante e spesso preponderante, ma sono numerose anche le testimonianze «pagane», molte delle quali volute come celebrazione di grandi imprese o personaggi di spicco. Valga per tutti l’esempio dello straordinario telo ricamato di Bayeux (perché è cosí e non «arazzo» che si dovrebbe chiamarlo) che, nei suoi 70 m, narra, in una sorta di fumetto ante litteram, le gesta di Guglielmo il Conquistatore. Come molte altre, si tratta di un’opera che, accanto a qualità estetiche di prim’ordine, ha un grandissimo valore documentario, in quanto offre un resoconto puntuale e dettagliato di fatti storici realmente accaduti. Stefano Mammini
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Storie di lavoro
libri • Otto saggi ricostruiscono l’ambiente socio-economico delle città italiane ed
europee tra il XII e il XV secolo. Rapporti di produzione, tenore di vita e rivendicazioni vengono esaminati anche in base alle differenze geografiche
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seremo tutti ricchi»: cosí fantasticava un lavoratore subalterno dell’Arte della Lana fiorentina, alla fine del Trecento, sognando un’esistenza migliore, e la sua frase dà il titolo a questo volume, dedicato alle problematiche del lavoro, della produzione e dei livelli di vita nelle città italiane ed europee fra il XII-XIII e il XV secolo. Gli otto saggi che compongono l’opera, già editi in altrettanti atti di convegni, sono fra loro complementari, raggiungendo cosí l’intento – auspicato dall’autore – di «coniugare analisi puntuali e problematiche generali, storia delle strutture e storia degli uomini, attraverso la ricostruzione di ambienti economici, gerarchie sociali, sistemi di rapporti, comportamenti e modi di sentire individuali e collettivi». La prima sezione del volume, dedicata a Produzioni, saperi e corporazioni, riunisce contributi sui paesaggi produttivi delle città italiane, sull’organizzazione corporativa delle manifatture tessili italiane ed europee, sulla manifattura serica nel Quattrocento, sulla trasmissione dei saperi, sia attraverso il canale tradizionale dell’apprendistato, sia grazie ai manuali o all’immigrazione di artigiani forestieri, e persino in seguito all’imitazione dei prodotti provenienti da lontano.
Interessi divergenti Oggetto del primo capitolo sono le strutture materiali che facevano della città bassomedievale un mondo produttivo straordinario, punteggiato non solo di botteghe, ma anche, e soprattutto, di mulini dalle molteplici applicazioni (da grano, per filare la seta o molare le armi), di gualchiere, cartiere, tintorie, segherie, fornaci da laterizi, da vetro, o da ceramica, che mettevano al tempo stesso a repentaglio – allora come oggi – la vivibilità stessa dei centri urbani e la salute dei cittadini, tanto da scatenare spesso vivaci proteste. Ne emergono le continue diatribe tra i governi cittadini, che tendevano a relegare in
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luoghi marginali o poco abitati le attività piú inquinanti o pericolose, e i produttori, che cercavano invece di rimanere all’interno delle mura. E spesso le esigenze della produzione avevano il sopravvento: nonostante i divieti, le fornaci e i complessi industriali continuavano a rimanere in pieno centro (magari accanto al Duomo, come a Firenze nel XIV secolo e a Milano nel XV), le tintorie a stendere sopra la strada i panni appena trattati, le gualchiere a ostruire gli alvei dei fiumi in zone densamente abitate, provocando danni irreparabili, come l’alluvione fiorentina del 4 novembre 1333.
Italia e Fiandre a confronto
Il secondo capitolo coniuga il tema corporativo a quello dell’organizzazione del lavoro nelle manifatture tessili (laniere in particolare) italiane ed europee, offrendo un quadro comparativo dell’organizzazione produttiva e del conseguente assetto corporativo, in Italia e nell’area fiamminga. In Italia i rapporti di produzione all’interno della manifattura laniera erano dominati pressoché completamente dal mercante-imprenditore (Verleger), col conseguente declassamento a lavoratori dipendenti di tutti gli altri soggetti del processo produttivo, fatto che si coniugava al ruolo totalizzante rivestito nei principali centri urbani della Penisola dall’Arte della Lana, che racchiudeva, soffocandolo, qualsiasi altro embrione di formazione associativa. Ben diversa era la situazione delle Fiandre, come ha messo in evidenza la recente storiografia rifiutando il paradigma Franco Franceschi dei rapporti incentrati sul mercanteimprenditore, e mettendo in evidenza «…E seremo tutti ricchi» invece come in area fiamminga, Lavoro, mobilità sociale e conflitti tra il XIII e il XIV secolo, il capitale nelle città dell’Italia medievale mercantile entrasse in modo alquanto Pacini Editore, Pisa, 216 pp., ill. col. modesto nella manifattura laniera, 15,00 euro dominata piuttosto dalla figura del ISBN 978-88-6315-316-3 drapier, artigiano-imprenditore che www.pacinieditore.it coordinava il processo produttivo. marzo
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Complementare al precedente, il saggio (cap. 3) sulla manifattura serica, di cui viene ripercorso lo sviluppo nelle città italiane a partire dal Duecento, e in particolar modo da quando, dopo la crisi successiva alla pestilenza del 1348, la ripresa dei consumi produsse un vero e proprio boom della nuova manifattura dovuto alla domanda di prodotti di lusso che caratterizzò il XV secolo. Le aziende seriche poterono giovarsi delle preesistenti strutture mercantili e soprattutto bancarie, alle quali vennero progressivamente legandosi con un vincolo sempre piú stretto, producendo aziende con un giro di capitali enorme. La nuova industria portò a un‘ascesa economica e sociale anche un gran numero di artigiani che vi erano coinvolti (tessitori, filatori, tintori, e persino donne) , molti dei quali furono protagonisti di successi eclatanti, inconcepibili per altri comparti manifatturieri.
La trasmissione del sapere Tra i motivi sviluppati nell’ultimo capitolo della prima parte (L’impresa tessile e la trasmissione dei saperi), emerge quello della distinzione tra apprendistato reale, avente come unico scopo l’insegnamento, e lavoro minorile (o infantile) sottopagato, mascherato da apprendistato ma volto a ottenere invece prestazioni di basso livello, e soprattutto a impedire al discepolo di imparare tutti quei rudimenti dell’arte che lo avrebbero messo in grado di diventare maestro, relegandolo cosí per sempre alla condizione di lavoratore subordinato. Altro argomento da segnalare è senz’altro quello della trasmissione del sapere attraverso l’imitazione (e magari il miglioramento) degli articoli di successo provenienti da lontano (dall’Africa per il cotone, dalle Fiandre per la lana, dal mondo greco-bizantino per la seta), pratica a sua volta fondata su una minuziosa analisi dei materiali. La seconda parte del libro (Il lavoro e la rivolta), approfondisce le condizioni materiali di vita del ceti subalterni, la loro capacità di promozione sociale, e dunque l’aspirazione a un’esistenza migliore, esplicantesi nei focolai di rivolte sempre pronte a scoppiare per i motivi piú diversi. Le caratteristiche del nucleo familiare (alquanto ristretto per i ceti medio-bassi, e fondato essenzialmente sul legame coniugale, basilare anche nella formazione dell’azienda domestica), la partecipazione di donne, ragazzi e bambini all’attività produttiva, e la composizione del reddito familiare, vengono analizzati nel quinto capitolo. Il matrimonio era una sorta di società che anche le donne contribuivano a creare e a gestire, in parte con la dote, e in parte grazie al proprio lavoro, che talvolta poteva essere sussidiario a quello del marito, mentre in altri casi (e soprattutto dopo che la massiccia diffusione dei rapporti salariali affievolí il ruolo delle
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caleido scopio aziende a gestione familiare), si affermava in modo del tutto autonomo, e in svariati settori (con prevalenza del tessile). Né è trascurabile l’entità del lavoro minorile, che, sommato a quello femminile, arrivava ad aumentare del 75-80% il reddito della famiglia.
Facoltà di ricorrere a ingiurie e percosse Ciononostante, il rapporto di lavoro salariato non rappresentava una situazione ideale, né una condizione di ascesa sociale, e se costituí uno dei maggiori rivolgimenti nei rapporti di produzione del XII secolo, gli storici sono stati forse troppo ottimisti nel considerarlo un netto progresso rispetto al servaggio. Se già il dubbio era stato sollevato alla fine del XII secolo dai giuristi bolognesi, che si interrogavano sulla liceità, per un uomo libero, di impegnarsi a lavorare per tutta la vita per una stessa persona, non mancano contratti di assunzione che prevedevano esplicitamente la possibilità, da parte del datore di lavoro, di ricorrere alle ingiurie e alle percosse, sancite come legittime persino da alcuni statuti cittadini, purché praticate «moderatamente», senza causare danni irreversibili. Anche in questa situazione non mancavano i tentativi di migliorare la propria condizione, magari reclutando apprendisti, grazie ai quali racimolare il denaro per mettersi in proprio, o viceversa, preferendo la condizione di apprendista a quella di lavoratore sottoposto,
Lo scaffale Fiorella simoni Culture del Medioevo europeo
a cura di Lidia Capo e Carla
Frova, Viella, Roma, 538 pp.
38,00 euro ISBN 978-88-8334-615-6 www.viella.it
Il dipartimento universitario presso il quale svolse una lunga attività di ricerca e didattica ha voluto rendere omaggio a Fiorella Simoni,
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raccogliendone gli scritti. Poco piú di quindici saggi risultano sufficienti a far emergere la poliedricità degli interessi della studiosa, prematuramente scomparsa, autrice di ricerche di grande interesse su temi che spaziano dai testi della predicazione cristiana a questioni di carattere iconografico e storico-letterario. Difficile stabilire quali siano gli spunti di riflessione piú significativi, ma, fra tutti, possiamo senz’altro ricordare l’ampia disamina sulla percezione dell’Occidente e
per godere di vitto e alloggio e di un impiego a lungo termine nei momenti di crisi, nonostante il compenso piú basso. O tentativi di associazione per tutelare i propri diritti (cap. 6: Lavoro salariato e mobilità sociale). Tutto ciò poteva sfociare in rivendicazioni violente come il tumulto dei Ciompi fiorentini del 1378 e quelli dei salariati lanieri di Siena e Perugia, scoppiati negli stessi anni, sollevazioni i cui motivi non vanno cercati in esigenze immediate di sopravvivenza, ma piuttosto in vertenze salariali, in questioni di rappresentanza politica, e non ultimo, nel problema dell’ingiustizia e della parzialità dei tribunali. Il mutamento del sistema fiscale mediante l’introduzione dell’estimo (tassa sui beni) e l’abolizione dei prestiti forzosi costituivano altre rivendicazioni dei Ciompi (cap. 7). Contrariamente a quanto si è a lungo ritenuto, infatti, le rivolte per il pane, pur non mancando, furono piuttosto rare nel Medioevo, e, in genere, furono solo il detonatore dello scontento dovuto ad altre motivazioni, solitamente connesse alle lotte di fazione, alla rivendicazione di una rappresentanza politica da parte dei ceti subalterni, alla consapevolezza dell’ingiustizia dei tribunali, al miraggio della ricchezza. Raramente, per questi stessi motivi, si incontrano anche dimostrazioni pacifiche fatte di donne, vecchi e bambini che, cantando, ballando e recando ghirlande di fiori, manifestavano per la pace e contro le tasse, come avvenne a Parma nel 1331 (cap. 8). Maria Paola Zanoboni
dell’Oriente d’Europa da parte della cultura ottocentesca o quella sull’approccio scelto dalla storiografia italiana nello sviluppo del tema del millennio e della problematica dello Stato nazionale. Francesco Somaini Geografie politiche italiane tra Medio Evo e Rinascimento Officina Libraria, Milano, 158 pp., XXVI tavv, col.
19,90 euro ISBN: 978-88-97737-08-7 www.officinalibraria.com
Come scrive l’autore nell’Introduzione, il volume non si occupa di geografia politica, ma di «geografie politiche», in quanto queste «possono
variare in virtú di molti fattori: i rapporti di potere e di forza del momento, cosí come anche altri elementi di casualità prodotti e determinati dalle piú varie circostanze». Forte di questa e altre dichiarazioni d’intenti, Somaini sviluppa la sua trattazione in due saggi. Nel primo viene affrontato il fenomeno della crisi degli Stati
cittadini che, tra il XIII e il XIV secolo, soprattutto nell’Italia centro-settentrionale, portò al superamento del modello della città-stato e fece dei grandi centri urbani le capitali di organismi politici di scala piú ampia. Nella seconda parte l’obiettivo si sposta in direzione dell’assetto politico assunto dalla Penisola tra il XV e il XVI secolo. Un mosaico di Stati che, pur subendo nel Quattrocento la pesante onda d’urto di ripetute ingerenze straniere, riuscí a conservare la sua fisionomia. (a cura di Stefano Mammini) marzo
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Una biografia in musica musica • Il ciclo di pregevoli edizioni che Jordi Savall ha dedicato a personaggi
storici e letterari si arricchisce con Jeanne d’Arc. Batailles et Prisons. Temi mistici e guerreschi sono accompagnati da melodie reinterpretate e composizioni originali
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a alcuni anni, accanto alle tradizionali incisioni discografiche dedicate alla musica antica, Jordi Savall ha prodotto una serie di preziosi cofanetti arricchiti da pregevoli volumi e da una ricca iconografia, soffermandosi su personaggi del calibro di san Francesco Saverio, don Chisciotte de la Mancha, Cristoforo Colombo, e affrontando temi piú ampi, come la musica al tempo dei Borgia (vedi «Medioevo» n. 191, dicembre 2012), la persecuzione dei Catari, Gerusalemme. Sulla stessa scia, la registrazione di Jeanne d’Arc. Batailles et Prisons (AVSA 9891, 2 CD + vol. 502 pp., distr. www. taleamusica.com) è consacrata, in occasione del recente anniversario della nascita (Giovanna nacque a Domrémy, in Lorena, il 6 gennaio 1412), a uno dei grandi miti della storia francese: la storia della pulzella d’Orléans e del suo tragico destino.
Dalla «chiamata» al rogo Savall, che già si era cimentato con il personaggio curando la colonna sonora del film Jean la Pucelle di Jacques Rivette (2004), torna nuovamente alla storia dell’eroina e lo fa raccogliendo saggi storici di insigni specialisti, e commentando il tutto con brani musicali intercalati da letture di cronache d’epoca in cui si narra la storia della santa. I momenti piú salienti della sua biografia sono commentati musicalmente, a partire dalla nascita, la «chiamata» divina, l’incontro con il re Carlo VII, lo
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scontro tra Francesi e Inglesi e la liberazione di Orléans, per proseguire con i momenti piú drammatici del processo, della condanna e, infine, della sua riabilitazione nel processo del 1456. Una vicenda movimentata e ricca di colpi di scena quella di Giovanna che, dopo l’iniziale successo militare, viene catturata dagli Inglesi, condannata per eresia, arsa viva, per poi essere beatificata e infine, nel 1920, canonizzata da Benedetto XV. Gli splendidi commenti musicali affidati ai due ensemble fondati da Savall, l’Espèrion XXI e La Capella Reial de Catalunya, si cimentano nei piú disparati stili musicali, sottolineando le differenti atmosfere evocate dalla narrazione dei testi.
Un percorso assai variegato Tra i leit motiv ricorrenti, vi è il tema popolare medievale de l’homme armé a sottolineare la vicenda guerresca,
ma non mancano i momenti intimi come la chiamata mistica sottolineata dal Veni sancte spiritus di Dufay, oppure le fanfare solenni per le battaglie, per l’incoronazione di Carlo VII e i momenti piú infelici della vicenda biografica come il Planctus Johanne, rielaborazione di Savall su una melodia del XV secolo. Un percorso musicale estremamente differenziato nel quale il direttore catalano inserisce anche brani da lui composti nello spirito musicale dell’epoca. Il risultato è avvincente, soprattutto se immaginato in una dimensione teatrale-musicale che, probabilmente, favorirebbe ancor piú la fruizione dei testi narrati. Come sempre, è notevole l’interpretazione dei componenti dei due affiatatissimi ensemble, a cui Savall aggiunge, con gli anni, quel plusvalore dettato dalla lunga esperienza e frequentazione del repertorio medievale. Franco Bruni Miniatura raffigurante Carlo VII che riceve in udienza Giovanna d’Arco.
caleido scopio
Interpretazioni a confronto musica • Maestro
L’
uscita contemporanea per le etichette Gimell e Hyperíon di due registrazioni di musiche sacre di Jean Mouton (1459-1522), è un’occasione quanto mai rara per conoscere e apprezzare un raffinatissimo compositore della scuola franco-fiamminga. Nato nelle vicinanze di Amiens, è in questa città che prende i voti, ottenendo al contempo il titolo di maestro di cappella, che lo porta a lavorare nelle cappelle delle cattedrali della stessa Amiens e poi di Grenoble. Ma mai la sua fama fu cosí grande come quando fu chiamato a dirigere la cappella reale della regina Anna di Bretagna: un incarico di prestigio, che gli valse, oltre alla sicurezza economica, anche la possibilità di comporre musiche per le occasioni piú svariate.
Esecuzione impeccabile La registrazione Jean Mouton. Missa Dictes moy toutes voz pensées (CDGIM 047, 1 CD, distr. www. soundandmusic.it), affidata al gruppo inglese The Tallis Scholars, è un esempio impeccabile di esecuzione di polifonia vocale in cui purezza di suono, fraseggio, dizione ed eleganza si fondono mirabilmente. Il brano principale dell’antologia è la Missa Dictes moy, che sul modello dell’omonima chanson profana del contemporaneo
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di cappella ad Amiens e Grenoble, Jean Mouton è ricordato soprattutto per il suo prestigioso incarico alla corte di Anna di Bretagna. Due registrazioni ne illustrano la splendida produzione polifonica vocale Loyset Compère, ne sfrutta la struttura polifonica per dare voce, attraverso i brani della messa, a un campionario di polifonie e passaggi accordali nei quali, proprio questi ultimi, rivelano tutta la modernità e la sensibilità di questo compositore. Non è da meno l’ascolto di alcuni mottetti che accompagnano la messa, tra cui il Nesciens Mater a due cori a quattro voci, nel quale il primo coro viene, canonicamente, imitato dal secondo, in base a ferree regole contrappuntistiche, ma dal risultato sonoro straordinariamente piacevole. Sia nella produzione mottettistica che nella messa, la musica di Mouton brilla ancor piú grazie alla sontuosa direzione di Peter Phillips alla guida dei Tallis Scholars, ensemble vocale tra i piú quotati nell’esecuzione del repertorio quattro-cinquecentesco.
Il canto gregoriano come base Incentrata su una messa di Mouton e affidata, ancora una volta, a un gruppo inglese, The Brabant Ensemble, è anche la registrazione Jean Mouton. Missa Tu es Petrus (CDA67933, 1 CD,
distr. www.soundandmusic.it), che permette di gustare ancor di piú la soavità e le splendide linee vocali del compositore, grazie a una interpretazione che, rispetto ai Tallis Scholars, si fa qui piú solenne, pacata, quasi a sottolinearne maggiormente la grande espressività. La Missa Tu es Petrus, a cinque voci, si differenzia dalla precedente per essere costruita sull’omonimo canto gregoriano, intorno al quale si snodano le polifonie delle altre quattro voci. La messa è accompagnata dall’ascolto dell’integrale dei mottetti a otto voci, tra i quali riascoltiamo Nesciens Mater, già presente nella esecuzione dei Tallis Scholars, ma qui avvolto da un’aura ancor piú mistica. L’ascolto di questo disco e il confronto con l’esecuzione dei Tallis Scholars, dimostrano come l’approccio vocale, anche in un repertorio vocale come quello a cavallo tra Quattro e Cinquecento, possa dare vita a letture interpretative tanto diverse e creare sfumature sempre nuove. A dirigere il gruppo The Brabant Ensemble è Stephen Rice, uno specialista del repertorio cinquecentesco, a cui va il merito di aver saputo ottenere un’amalgama e una fusione incredibili tra le varie voci. F. B. marzo
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Echi d’Oriente musica • La conquista di Costantinopoli
del 1453 offre l’occasione per un confronto tra le culture musicali d’Occidente e d’Oriente. Un intreccio tra canto gregoriano e melodie della tradizione ottomana
L
a Porte de Félicité. Constantinople entre Orient et Occident (1453) (ZZT314, 1 CD, distr. www. soundandmusic.it), è una registrazione dedicata al patrimonio musicale tra Oriente e Occidente nel periodo della presa di Costantinopoli (1453), nella quale vengono affiancati repertori delle due tradizioni. Un confronto che non solo consente di percepire i differenti linguaggi, ma permette anche di apprezzare il differente approccio vocale che nelle due tradizioni musicali, quella occidentale e quella ottomana, si esprime secondo tecniche piuttosto distanti. Ma, ancor piú interessante, risulta l’esperimento di fondere una prassi esecutiva tipica del
canto ottomano con un repertorio occidentale. Ciò che avviene nel primo brano di questa raccolta in cui si ripropone una monodia del repertorio gregoriano i cui versetti sono cantanti alternativamente da un cantante «occidentale» e uno «turco»: alla pura e semplice linea del canto gregoriano ecco dunque aggiungersi una serie di piccoli abbellimenti, glissandi, passaggi in microtoni che «orientalizzano» la melodia originale.
Un connubio convincente Accanto a questo esperimento di contaminazione di stili esecutivi, l’antologia offre anche un campionario di musiche occidentali e non, in cui Costantinopoli, reduce
dalla conquista ottomana, è la protagonista assoluta. Non poteva mancare la Lamentatio sanctae matris ecclesiae costantinopolitanae, del fiammingo Guillaume Dufay (XV secolo), a cui si associano musiche di danza francesi del XV secolo, interpretate dall’ensemble turco Kudsi Erguner in un connubio in cui gli strumentisti turchi, con la loro tradizione musicale modale molto piú vicina, nello spirito, alla nostra musica medievale, riescono in maniera convincente a fare proprio il repertorio occidentale. Estremamente belli anche i brani ottomani, alcuni dei quali scritti dallo stesso conquistatore di Costantinopoli, Mehmet II, e da anonimi. In questi prevale, rispetto al linguaggio polifonico dei brani occidentali, quello monodico, eseguito da strumenti che, insieme, intervengono su una stessa melodia dandone infinite varianti improvvisative. Gli sforzi di vicendevole comprensione di tradizioni musicali cosi diverse ma, per alcuni versi, contigue, non poteva dare un migliore risultato grazie ai due gruppi: La Doulce Mémoire, diretto da Denis Raisin Dadre, e l’Ensemble Kudsi Erguner, guidato dall’omonimo direttore nonché suonatore di ney (flauto della tradizione ottomana). F. B. Kudsi Erguner (al centro), suonatore di ney (flauto della tradizione ottomana), con i membri dell’ensemble che porta il suo nome e di cui è il direttore.
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