Medioevo n.199, Agosto 2013

Page 1

tagliacozzo 1268 niccolò IV mostri medievali giardini ascoli piceno dossier corradino di svevia

Mens. Anno 17 n. 8 (199) Agosto 2013 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 8 (199) agosto 2013

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

dossier

corradino di svevia

L’ultimo degli

Hohenstaufen

grandi battaglie

Agosto 1268: massacro a Tagliacozzo

grandi papi

Niccolò IV e l’arte della mediazione

ascoli piceno

Tra torri e chiese

€ 5,90



sommario

Agosto 2013 ANTEPRIMA restauri Quel dolore scolpito nel legno

COSTUME E SOCIETÀ 6

musei Come a Gerusalemme Il Medioevo di Piombino

8 10

appuntamenti C’è un fantasma nel castello... Sei sestieri per sei vescovi Una battaglia epocale L’Agenda del Mese

12 14 17 20

immaginario

Creature mostruose

«Ma che piedi grandi che hai...»

54

di Domenico Sebastiani

54

Dossier

corradino di svevia

STORIE battaglie Tagliacozzo

Un’estate di sangue

di Federico Canaccini

l’ultimo degli hohenstaufen di Federico Canaccini

28

28

costume e società Giardini e frutteti

Ciliegie di città e altre storie di Maria Paola Zanoboni

luoghi

grandi papi Niccolò IV

Il grande mediatore di Francesco Colotta

66

marche 40

40

Ascoli Piceno

Ascoli, fra torri e chiese di Furio Cappelli

98

CALEIDOSCOPIO libri Nella città piú verde Lo scaffale

108 112

musica Vite movimentate

113

77


Ante prima

Quel dolore scolpito nel legno

restauri • Intagliatore e scultore del

Quattrocento, Urbanino da Surso è autore di un Cristo Deposto, che presenta particolari caratteristiche costruttive. Recentemente restaurata, l’opera è tornata nella Chiesuola di Lungavilla in provincia di Pavia

D

opo essere stato sottoposto a restauro conservativo, il Cristo Deposto in legno policromo della prima metà del XV secolo torna nell’oratorio della Chiesuola di Lungavilla (Pavia). Condotto dallo Studio d’Arte e Restauro Gabbantichità di Tortona, l’intervento ha permesso di confermare l’attribuzione dell’opera a Urbanino da Surso (1380-1463), che la realizzò negli anni 1425-1430. Capostipite di una nota famiglia di maestri artigiani attivi nel territorio compreso tra Lombardia e Piemonte, Urbanino, considerato uno dei massimi scultori lombardi della prima metà del Quattrocento, ha origini veneziane, ma è pavese d’adozione. Dopo una parentesi fiorentina, l’artista si stabilí definitivamente a Pavia, avviando ben cinque botteghe, una delle quali, assai grande, affittata nel 1443 al figlio Andrea, anch’egli intagliatore come il fratello minore e piú famoso Baldino († 1478). A causa della scarsa documentazione, non è possibile definire le vicende che hanno portato il pregevole manufatto a

6

Lungavilla. Forti ridipinture ne alteravano l’aspetto originario, ma la ripulitura ha consentito di portare alla luce la cromia originale.

Uno sguardo ricco di pathos Il pezzo, di superba fattura, presenta moduli stilistici molto innovativi nel panorama scultoreo dei primi anni del Quattrocento. Sapientemente modellato, è caratterizzato dalla forte drammaticità delle labbra semiaperte e dallo sguardo ricco di pathos. Inoltre, il ventre contratto e il costato ben visibile costringono lo spettatore a un atto di immedesimazione tale da percepire il dolore provato da Cristo. agosto

MEDIOEVO


In questa pagina e nella pagina accanto varie immagini del Cristo Deposto di Urbanino da Surso. Prima metà del XV sec. Recentemente restaurata, l’opera è tornata nell’oratorio della Chiesuola di Lungavilla (Pavia). Ma c’è dell’altro. Il Cristo Deposto, sottolinea Donata Vicini, già direttore dei Musei Civici di Pavia e studiosa dell’opera, è forse l’elemento superstite di un Compianto. A suo parere: «Alla drammaturgia della Passione e a liturgie processionali fanno pensare in primo luogo le non

1

grandi dimensioni delle braccia, probabilmente mobili, in origine, con incastri o perni all’altezza delle spalle, che predisponevano duttilmente la scultura per le stazioni ultime della Settimana Santa: Crocifissione, Discesa dalla Croce, Compianto o Deposizione nel sepolcro».

Forse non era un’opera isolata Il Cristo, inoltre, non presenta la sovrapposizione degli arti inferiori, che invece compare nei crocifissi, eppure le gambe appaiono piegate e la figura assume un leggero inarcamento. Nel retro, poi, la lavorazione è sommaria, in ragione di un addossamento o al legno della croce o al piano di un cataletto. I confronti nell’ambito del distretto linguistico della scultura lignea lombardopiemontese del XV secolo, che si estende da Piacenza all’arco ligure e particolarmente alla Liguria di Ponente, paiono indirizzarsi tanto ai Compianti quanto ai crocifissi. Il prototipo potrebbe essere il Calvario della chiesa S. Michele a Pavia, attribuito a Urbanino da Surso. L’ingrossamento alla cuffia nelle braccia, la cassa toracica di forma tubolare e l’accentuato patetismo, evidenziato dalla bocca contratta e i denti digrignati, collegano l’opera anche ai crocifissi del Ponente ligure, ove si trovano pure alcuni esempi di Cristi con braccia mobili. Chiara Parente

Errata corrige con riferimento al dossier «Ashkenaz. Gli Ebrei di Germania» (vedi «Medioevo» n. 196, maggio 2013), desideriamo precisare che a p. 80 il riferimento alla «Terra Santa caduta nelle mani degli Arabi» deve leggersi in «nelle mani dei Turchi selgiuchidi». Con riferimento, invece, all’articolo «Penso, dunque credo» (vedi «Medioevo» n. 197, giugno 2013), per un disguido, a p. 43, è stata pubblicata una foto della cattedrale di Praga (1) e non di quella di Colonia (2). Infine, con riferimento all’articolo «Non passa l’ottomano» (vedi «Medioevo» n. 198, luglio 2013), precisiamo che il nobile Giovanni Giustiniani citato a p. 38 era di nascita genovese e non veneziana. Del tutto ci scusiamo con gli autori degli articoli e con i nostri lettori.

2

7


Ante prima

Come a Gerusalemme musei • È di nuovo visitabile la splendida cappella

rinascimentale dell’ex convento di S. Pancrazio a Firenze. Commissionata da Giovanni di Paolo Rucellai e realizzata da Leon Battista Alberti, custodiva la riproduzione del Santo Sepolcro ed era meta di pellegrinaggio

«P

er i Rucellai, (…) fece Leon Batista in San Pancrazio una cappella che si regge sopra gl’architravi grandi, posati sopra due colonne e due pilastri, forando sotto il muro della chiesa, che è cosa difficile ma sicura. Onde questa opera è delle migliori che facesse questo architetto»: cosí Giorgio Vasari definisce il «contenitore» che custodisce il tempietto del Santo Sepolcro, gioiello rinascimentale, realizzato da Leon Battista Alberti,

architetto da lui stimato come eccellente letterato e teorico, ma ritenuto poco abile nella tecnica edificatoria. Durante i secoli, il trecentesco complesso dell’ex convento di S. Pancrazio, ubicato nello storico quartiere di S. Maria Novella a Firenze, ha subito vari interventi, a partire dal 1417, quando un certo ser Giovanni di Andrea de’ Linari lasciò 200 fiorini per la costruzione dei muri della chiesa. Ecco che cinquanta anni dopo, l’aristocratico Alberti, modello di intellettuale umanista, dovette fare i conti con la struttura preesistente per la progettazione dello spazio architettonico, a sezione longitudinale, atto a custodire il Sacello, commissionato da Giovanni di Paolo Rucellai. L’esecuzione fu rapida e si concluse nel 1467, come attesta l’iscrizione latina posta sulla porta d’ingresso del tempio, copia in scala ridotta del Santo Sepolcro di Gerusalemme.

La vela, gli anelli e il mazzocchio Fu lo scultore Giovanni di Bertino a comporre l’apparato decorativo, formato da motivi floreali, come le foglie di alloro o di quercia, e da forme geometriche e simboliche, come la stella a sei punte, che ricopre la superficie delle 30 tarsie marmoree policrome, inserite in riquadri, dal sapore classicheggiante;

8

In alto Firenze, Cappella Rucellai, Tempietto del Santo Sepolcro. La tarsia marmorea in cui campeggia l’immagine di una vela al vento, simbolo delle «imprese» di Lorenzo il Magnifico. A sinistra un particolare della cornice del monumento, fedele replica in scala dell’originale gerosolimitano. al centro vi sono gli emblemi che ricordano le «imprese» personali del committente (vela al vento), del principe Lorenzo il Magnifico (tre anelli), di Piero de’ Medici (anello con due piume) e di Cosimo il Vecchio (mazzocchio con tre piume). All’interno del monumento, affrescato da Giovanni da Piamonte, si trova la camera sepolcrale parzialmente occupata da una lastra di marmo appoggiata sulla parte posta a sud. Nel 1471, l’ideale ricostruzione della tomba di Cristo conseguí lo stato sacramentale grazie a una bolla emanata da papa Paolo II, che concesse cinque anni di indulgenza plenaria ai fedeli che visitavano il luogo durante il periodo pasquale. L’idea di Giovanni Rucellai, facoltoso agosto

MEDIOEVO


Qui sotto e a destra altre immagini del tempietto, realizzato da Leon Battista Alberti, su incarico di Giovanni di Paolo Rucellai, e ultimato nel 1467, come si legge nell’iscrizione sopra l’ingresso.

mercante fiorentino che aveva affidato allo stesso architetto il disegno del palazzo di famiglia, fu imitata da altri ricchi esponenti della società nord-europea, i quali ordinarono la costruzione di esemplari simili in Germania e Polonia. Grazie anche alla circolazione di numerosi disegni dell’edificio originale, in Occidente si diffusero molte copie, nate dalla devozione dei pellegrini ritornati dalla Terra Santa.

Il recupero e la riapertura L’opera dell’Alberti rimase sostanzialmente inalterata fino al 1808, anno in cui furono apportate alcune modifiche strutturali: le due colonne di sostegno alla trabeazione, nel punto di passaggio tra la cappella e la chiesa, furono rimosse e collocate nella facciata dell’edificio appena sconsacrato e trasformato in una sala d’estrazione

MEDIOEVO

agosto

A sinistra particolare degli affreschi che ornano l’interno del tempietto, opera di Giovanni da Piamonte (attivo nel XV sec.).

Dove e quando

Museo Marino Marini Firenze, piazza San Pancrazio, Orario tutti i giorni, 10,00-17,00; chiuso martedí, domenica e festivi Info tel. 055 219432; e.mail: info@museomarinomarini.it Note le visite della Cappella si svolgono ogni 30 minuti per gruppi di 25 persone max; per i gruppi è obbligatoria la prenotazione

della Imperiale Lotteria di Francia. A completamento della separazione, il varco di collegamento fu murato, mentre la porta d’ingresso della cappellina, ancora consacrata al culto, fu spostata lateralmente. Nel secolo scorso, ci si rese conto che la volta a botte era interessata da un grave dissesto statico e, conseguentemente, si procedette al restauro dell’opera. Recentemente, dopo decenni di oblío, la Cappella è stata riaperta al pubblico, grazie alla rimozione di una parte del muro che ne impediva l’entrata. Adesso, è quindi possibile accedervi, dal fianco sinistro della sala centrale del Museo Marino Marini, allestito nell’ex chiesa di S. Pancrazio. Mila Lavorini

9


Ante prima

Il Medioevo di Piombino musei • Il Castello del

porto toscano fa da sfondo a un nuovo allestimento: reperti, tra cui quelli recuperati in occasione di scoperte recenti, ricostruzioni e apparati interattivi raccontano la storia della città

I

l progetto del nuovo Museo del Castello di Piombino, impreziosito dalle maioliche medievali rinvenute sul tetto dell’abside di S. Antimo sopra i Canali e delle teste delle Fonti di Marina, è ora realtà. Grazie al nuovo allestimento, il Castello non è piú semplicemente il museo di se stesso, ma racconta la storia della Piombino medievale, attraverso un filo conduttore che lega ricostruzioni, testi, reperti,

Ceramiche medievali esposte nel Museo di Piombino: un catino in forma tronco-conica in maiolica arcaica (in alto) e un catino carenato in cobalto e manganese (a sinistra). In basso il castello di Piombino. dispositivi interattivi, immagini, video e suoni. Vengono illustrati i risultati dello scavo archeologico della volta dell’abside della chiesa di S. Antimo sopra i Canali, che ha restituito oltre seicento esemplari di ceramiche medievali; e proprio dal ritrovamento di queste ceramiche, effettuato nel 2003 in concomitanza con i lavori di restauro della chiesa, trae origine il nuovo progetto di allestimento museale, curato da

Giovanna Bianchi (Università di Siena, Dipartimento di archeologia e storia delle arti), in collaborazione con i progettisti Giuseppe Bartolini e Simonetta Fiamminghi, e basato sulla rilettura complessiva del precedente Museo del Castello e della Città. Al suo interno, articolato in tre livelli e in tre diversi percorsi espositivi, si snodano, in un unico racconto, il Museo del Castello al piano terra, la mostra permanente delle ceramiche di S. Antimo al primo piano, il Museo della Storia della Città sulla formazione e sullo Dove e quando

Museo del Castello Piombino, piazza S. Anastasia Orario lug-ago: ma-do, 10,00-18,00; ve, 15,00-23; set: ma-do, 10,00-18,00 ott-fino al 3 nov: sa-do e festivi, 10,00-18,00 (dal 19 ott, chiusura alle 17,00); nov-dic: aperto su prenotazione per gruppi e scuole; lu chiuso Info tel. 0565 226445; e-mail: prenotazioni@parchivaldicornia.it; www.parchivaldicornia.it

10

agosto

MEDIOEVO


sviluppo di Piombino dall’epoca medievale fino all’età moderna al secondo piano.

Una scoperta eccezionale La cronologia delle ceramiche esposte, compresa nella prima metà del XIII secolo, la loro provenienza e tipologia (maioliche arcaiche di produzione pisana, ceramiche prodotte a Savona, ceramiche di importazione da varie parti del Mediterraneo) fanno di questa scoperta uno dei ritrovamenti piú importanti per lo studio della ceramica medievale. In occasione del restauro della chiesa furono inoltre rimossi

dalla torre campanaria i bacini ceramici apposti come originaria decorazione architettonica, anch’essi testimonianza, nel XIII secolo,

Due bocccali in maiolica arcaica, inseriti anch’essi nel nuovo allestimento del Museo di Piombino.

di una circolazione di prodotti ceramici relativa a piú contesti del Mediterraneo. I successivi studi di tali reperti e della chiesa stessa, confluiti nel 2007 in una pubblicazione a cura di Giovanna Bianchi e Graziella Berti, hanno evidenziato come le vicende della chiesa di S. Antimo sopra i Canali e delle sue ceramiche fossero collegate alla storia di Piombino nella prima metà del 1200. Negli anni passati anche un altro monumento importante della Piombino medievale, la Fonte ai Canali, è stato sottoposto a restauro e, in tale occasione, per decisione della stessa Soprintendenza ai Beni Artistici, sono state rimosse le teste zoomorfe della fonte da cui scaturisce l’acqua. Restaurate da Luca Giannitrapani su incarico della Soprintendenza stessa, le teste trovano la loro giusta collocazione in questo nuovo percorso museale. (red.)


Ante prima

C’è un fantasma

nel castello...

appuntamenti •

Le Giornate Medievali che animano Zavattarello offrono l’opportunità di visitare uno dei borghi piú pittoreschi d’Italia

I

mmerso tra i monti verdissimi e ricchi d’acque dell’Appennino ligure-emiliano, Zavattarello (Pavia) festeggia Ferragosto con alcune Giornate Medievali. La storia della graziosa località montana lombarda si perde nella notte dei tempi: ceduto nel 971 da Ottone I al monastero di Bobbio, l’abitato si è sviluppato nel Duecento come villaggio fortificato. Concesso in feudo nel 1390 alla famiglia Dal Verme, proprietaria del castello dal 1387 al 1975, nel XV secolo fu uno dei capisaldi dello Stato vermesco. I resti delle mura e delle torri nel centro storico, adagiato su una sella ai piedi dell’altura rocciosa occupata dal forte, testimoniano ancora la strenua difesa del luogo, in passato strategicamente importante. La rievocazione, ambientata alla fine del Quattrocento, è dedicata

12

a Pietro Dal Verme e alla sua corte. Figlio di Luigi Dal Verme e di Luchina Carmagnola, Pietro era destinato a unirsi in matrimonio con Chiara Sforza. Si trattava di nozze di convenienza. I due giovani non erano innamorati, o perlomeno non lo era Pietro, che invece amava, ricambiato, Camilla Del Maino. Contravvenendo agli obblighi familiari, Pietro sposò Camilla. Poco dopo però, la nobildonna morí misteriosamente. E, Pietro, ormai vedovo, prese in moglie Chiara.

Dalla storia alla leggenda Le nozze furono celebrate nel castello di Zavattarello e la coppia andò a vivere nel palazzo del Broletto a Milano, proprietà della famiglia Dal Verme. La sposina, comunque, non accettò che Pietro le avesse preferito un’altra donna. Cosí, approfittando dell’appoggio dello zio, Ludovico il Moro, avvelenò il marito con la cicuta. Qui finisce la storia e inizia la leggenda, che ha per protagonista Pietro Dal Verme. Sembra, infatti, che, all’interno del castello di Zavattarello, ci sia una stanza in cui si aggira il suo fantasma e si verifichino episodi sospetti, privi di spiegazioni

plausibili. Certo è che durante le giornate del 15 e 16 agosto le sale del maniero si animano con danze, musiche, tornei di spada e giochi medievali. All’esterno, invece, il giardino ospita il mercato medievale. Momento clou della manifestazione è il banchetto, con piatti e vini della tradizione locale. Circondata da un parco d’interesse sovracomunale di circa 80 ettari, accessibile ai visitatori, la titanica rocca è un superbo esempio di costruzione difensiva ghibellina, a pianta poligonale irregolare. Dai suoi terrazzi e dalla torre si gode un panorama mozzafiato sulle valli Tidone e Morione. A innalzarla fu il monastero di sant’Ambrogio di Milano nel X secolo, per proteggere le terre limitrofe. Poi, contesa tra l’XI e il XII secolo tra Bobbio e Piacenza, passò nel 1327 a Manfredo Landi, che la ampliò, conferendole l’odierno impianto architettonico. Al maniero, ora proprietà comunale e sede del Museo d’arte contemporanea «Giuseppe e Titina Dal Verme», si accede a piedi, tramite sinuose stradine, che dal paese s’inerpicano a raggiera verso la roccaforte. Le Giornate Medievali offrono anche l’occasione per visitare il centro agosto

MEDIOEVO


storico di Zavattarello, considerato uno dei borghi piú belli d’Italia. L’itinerario può iniziare dalla piazza del Municipio, su cui affacciano rustici edifici in pietra. Sono le vecchie case di «su di dentro», com’è tuttora chiamata la parte antica di Zavattarello, che ha conservato la struttura urbanistica medievale.

Il Magazzino dei Ricordi Contrapposta alla rocca, all’altro lato del paese, si eleva la parrocchiale di S. Paolo. La struttura dell’edificio religioso è romanica, ma nel Settecento all’originaria facciata ne è stata sovrapposta una barocca. Nelle vicinanze meritano una sosta l’oratorio trecentesco di S. Rocco, che conserva un altare ligneo del XIV secolo, e «Il Magazzino dei Ricordi», un museo contadino con attrezzature e utensili d’un tempo.

Durante le Giornate Medievali un servizio navetta permette di raggiungere il castello dalla piazza principale del paese. Inoltre, fino a settembre, il castello è aperto sabato, domenica e festivi per visite guidate, ogni ora dalle 14,30 alle 19,30. Nel mese di ottobre le visite si svolgono solo domenica e festivi, dalle 14,30 alle 17,30. È inoltre possibile prenotare visite infrasettimanali per gruppi, contattando gli uffici municipali. Info: tel./fax 0383 589132 oppure 0383 589746; e-mail: zavattarello@ libero.it; www.zavattarello.org C. P.

MEDIOEVO

agosto

Sulle due pagine immagini delle Giornate Medievali che ogni anno riportano Zavattarello all’epoca in cui la nobile famiglia Dal Verme fu proprietaria del castello.


Ante prima

Sei sestieri per sei vescovi appuntamenti • Ventimiglia dedica l’Agosto

Medievale 2013 ai vescovi del XV secolo, protagonisti della difficile situazione seguita allo Scisma d’Occidente. In programma, rievocazioni, mercati medievali e visite guidate

P

er tutto il Medioevo a Ventimiglia la celebrazione dell’Assunta fu un importante momento d’aggregazione popolare. Nei tre giorni che precedevano il Ferragosto, i giovani si cimentavano in guerresche «bataiole» e si sfidavano in regate, mentre notabili e borghesi preparavano la Processione delle Maestranze. La sera della vigilia, una folla di fedeli si riuniva per assistere al miracoloso sgorgare dell’acqua da una stella scolpita sul peristilio della Cattedrale. Nel giorno della festa, dopo la messa, il vescovo benediceva il mare e il naviglio della flotta locale; poi, nel pomeriggio, la celebrazione si chiudeva con la processione. Dal 1974, le risorte Compagnie di Sestiere di Ventimiglia rievocano quel periodo storico dando vita all’Agosto Medievale, tra i cui momenti clou vi è il Palio Marinaro, regata di gozzi liguri fra i Sestieri cittadini, che premia il vincitore con il Carbaso, un tessuto fine di cotone o lino.

Papi e antipapi Quest’anno il tema scelto per la 37ª edizione dell’Agosto Medievale è «Vescovi ventimigliesi del XV secolo». Nel 1378 la Chiesa romana fu lacerata dallo Scisma d’Occidente. Alla morte dell’ultimo papa avignonese, Gregorio XI, che aveva riportato la sede pontificia a Roma,

14

fu nominato come suo successore Urbano VI. I cardinali francesi, riunitisi ad Anagni, non riconobbero il nuovo papa ed elessero l’antipapa Clemente VII, che prese sede ad Avignone. In tutta la Chiesa si avvertí la scissione e ci furono vari schieramenti: la problematica si percepí profondamente nella diocesi di Ventimiglia, a causa della

vicinanza geografica con la Francia. Questa situazione si risolse intorno al 1416, quando il vescovo Benedetto Boccanegra, dopo lo scontro con il vescovo scissionista Bartolomeo de Giudici, riuní la diocesi locale sotto il pontefice romano. Diversi vescovi si succedettero a Ventimiglia nel XV secolo, tra i quali vanno ricordati appunto Benedetto

Due momenti dell’Agosto Medievale di Ventimiglia. Boccanegra e Bartolomeo de Giudici; Ottobono de Bellonis, che si occupò personalmente di tutti i doveri della diocesi; Stefano dei Robiis, che con la sua nomina scatenò l’ira di Lamberto Grimaldi; Giovanni Battista de Giudici, al quale toccò risollevare le sorti della chiesa e, infine, Alessandro Fregoso, che diede inizio ai lavori per la costruzione della chiesa di S. Agostino. A loro i Sestieri cittadini di Burgu, Ciassa, Auriveu, Marina, Campu e Cuventu dedicheranno le ambientazioni allestite nelle rispetttive piazzette principali. Fra gli eventi dell’Agosto Medievale 2013, giovedí 8 agosto è in programma la «Notte di Mediestate». Venerdí 9 sarà invece la volta della «Notte delle Perseidi» e di numerosi altri appuntamenti, tra cui, l’apertura straordinaria del Civico Museo Archeologico con visita guidata. Domenica 11, sul lungomare Cavallotti e Oberdan: dalle 18,00 Palio Marinaro, regata dei Sestieri con gozzi liguri, sul miglio marino. Lunedí 12, in piazza della Libertà: alle 20,00 «Notte del Guiderdone», con corteo storico, mercato medievale, esibizioni di sbandieratori e tamburini. Tiziano Zaccaria agosto

MEDIOEVO




Una battaglia epocale appuntamenti • Il borgo austriaco di Jedenspeigen rievoca lo scontro tra

Ottocaro II di Boemia e Rodolfo I del Sacro Romano Impero con un torneo spettacolare, che quest’anno si svolge il 10 e l’11 agosto

N

ei pressi dei villaggi austriaci di Dürnkrut e Jedenspeigen, ai confini con la Slovacchia, il 26 agosto 1278 si combatté la battaglia di Marchfeld fra l’esercito di re Ottocaro II di Boemia e quello di Rodolfo I del Sacro Romano Impero, alleato con re Ladislao IV d’Ungheria. Quello scontro cavalleresco – considerato il secondo piú grande di tutti i tempi, dopo la battaglia di Hastings – risultò decisivo per le sorti dell’Europa centrale. Nel 1250 Ottocaro II aveva invaso e conquistato i ducati di Austria e Stiria, poi, nel 1268, si era assicurato la Carinzia, iniziando ad aspirare alla corona imperiale. Ma i Cavalieri e spadaccini sono tra i protagonisti della rievocazione che ogni anno si svolge a Jedenspeigen, in Austria, in ricordo della battaglia combattuta nel 1287 da Ottocaro II di Boemia e Rodolfo I del Sacro Romano Impero. principi, che non vedevano di buon occhio il suo crescente potere, nel 1273 scelsero come Rex Romanorum il conte Rodolfo d’Asburgo, che reclamò subito l’Austria e la Carinzia all’impero e convocò Ottocaro nel 1275 a Würzburg. Il re di Boemia non si presentò e Rodolfo, rafforzato dalle alleanze con Enrico XIII di Baviera e Ladislao IV d’Ungheria, nel

MEDIOEVO

agosto

1276 assediò Ottocaro a Vienna e lo costrinse a cedere gran parte delle terre che aveva conquistato.

La mossa vincente di Rodolfo Ottocaro rispose alleandosi con il margravio di Brandeburgo e tentò di riconquistare i suoi territori: a quel punto, nell’agosto 1278, lo scontro fu inevitabile. All’inizio, al mattino, la

cavalleria di Ottocaro sembrò avere il sopravvento, ma, dopo tre ore di combattimenti, a mezzogiorno, Rodolfo fece intervenire la cavalleria pesante austriaca e ungherese. Fu l’assalto decisivo: le truppe di Rodolfo ebbero la meglio, il campo di Ottocaro venne depredato e lo stesso re finí ucciso sul campo di battaglia. In tempi moderni, negli anni dispari, il borgo di Jedenspeigen rievoca lo scontro, mettendo in scena il piú grande torneo austriaco di giostre cavalleresche medievali. Quest’anno la rievocazione è in programma nel week end di sabato 10 e domenica 11 agosto. Il programma prevede vari spettacoli, dalle 11,45 alle 22,00; giostre cavalleresche dalle 13,30 e dalle 18,00; in serata, alle 20,00, spettacolo finale di fuochi artificiali. Jedenspeigen si trova a circa un’ora d’auto da Vienna, in direzione Slovacchia: dalla capitale austriaca si raggiunge con l’autostrada A5 oppure con la statale B8. T. Z.

17


agenda del mese

Mostre Firenze Percorsi di meraviglia. Opere restaurate del Bargello U Museo Nazionale del Bargello fino al 18 agosto

Protagonista della mostra è il monumentale arazzo quattrocentesco raffigurante l’Assalto finale a Gerusalemme, tornato a splendere dopo il restauro. Databile intorno al 1480, l’arazzo, prodotto dalla manifattura di Tournai, giunse al Bargello nel 1888, in seguito alla donazione della Collezione Louis Carrand. Imponente per dimensioni (4,32 x 4,02 m) e spettacolare per la vivacità narrativa e cromatica, fu realizzato su un cartone attribuito al Maestro di Coetivy, miniatore noto anche come pittore e disegnatore di vetrate. L’opera è esposta insieme a quattro valve di specchio in avorio trecentesche, di arte francese, e a oreficerie

20

a cura di Stefano Mammini

e smalti, di grande varietà e di grande pregio artistico, sempre appartenenti alla raccolta di arti applicate del Bargello, restaurate negli ultimi due anni. Una seconda sala è invece dedicata al grande altorilievo in

terracotta policroma raffigurante la Madonna in trono col Bambino e angeli, risalente al 1420, realizzato da Dello Delli. info tel. 055 2388606; e-mail: museobargello@ polomuseale.firenze.it; www.polomuseale.firenze.it Firenze La Primavera del Rinascimento. La scultura e le arti a Firenze 1400-1460 U Palazzo Strozzi fino al 18 agosto

In undici sezioni, la mostra documenta la genesi del Rinascimento nel capoluogo toscano, soprattutto attraverso la scultura. Partendo dalla riscoperta dell’antico nella «rinascita» che, a cavallo tra Duecento e Trecento, ebbe come

protagonisti Nicola Pisano e Arnolfo di Cambio, si passa all’assimilazione della ricchezza espressiva del Gotico, di derivazione francese, per giungere, infine, all’alba del Rinascimento; il tema è esplicitato nella prima parte del percorso dove troviamo le due formelle «di prova» con il Sacrificio di Isacco di Lorenzo Ghiberti e Filippo Brunelleschi eseguite per il concorso indetto nel 1401 per la seconda porta del Battistero fiorentino e il modello della Cupola brunelleschiana. È nei luoghi di solidarietà e di preghiera come chiese, confraternite e ospedali che si concentra la committenza artistica piú prestigiosa, creando un connubio perfetto tra Bellezza e Carità. Attorno al simbolo della città, il modello ligneo della cupola di S. Maria del Fiore del Brunelleschi, il percorso espositivo presenta tipologie scultoree determinanti anche per l’evoluzione delle altre arti figurative, a diretto confronto con i classici. info tel. 055 2645155; www.palazzostrozzi.org New York La ricerca dell’unicorno U The Metropolitan Museum of Art, The Cloisters fino al 18 agosto

The Cloisters, la sezione del Metropolitan Museum of Art di New

York dedicata all’arte e all’architettura dell’Europa medievale, compie 75 anni e, per festeggiare la ricorrenza, propone una mostra sul tema dell’unicorno. L’esposizione riunisce una quarantina di opere, selezionate fra quelle della collezione permanente del Met e ottenute in prestito da istituzioni pubbliche e private. Si tratta di autentici capolavori, tra i quali possiamo ricordare il magnifico ciclo degli arazzi dell’Unicorno, una serie di sette tessuti, realizzati forse a Bruxelles (o Liegi), tra il 1495 e il 1505 e considerati come una delle piú alte espressioni dell’arte tardo-medievale, un prezioso bestiario scritto e miniato in Inghilterra prima del 1187, e un desco da parto – un tondo dipinto su entrambi i lati che veniva offerto come dono cerimoniale alle donne delle famiglie piú abbienti che avevano appena partorito – di produzione fiorentina,

sul quale compare una coppia di unicorni che tirano una carrozza dorata, simbolo di castità. info www.metmuseum.org Siena RESURREXI. Dalla Passione alla Resurrezione U Cripta e Museo dell’Opera fino al 31 agosto

L’itinerario si sviluppa principalmente in due sedi: nella Cripta, un ambiente interamente affrescato, e nel Museo dell’Opera istituito nel 1860 per conservare i

capolavori provenienti dalla cattedrale. Il ciclo figurativo che si dispiega lungo le pareti della Cripta annovera episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento. Nelle suggestive sale attigue all’ambiente affrescato, dove si agosto

MEDIOEVO


ammirano parte delle antiche strutture della basilica, riconducibili al periodo che va dal XII al XIV secolo, sono esposti alcuni codici miniati provenienti dalla cattedrale e appartenenti alla liturgia pasquale. Uscendo dalla Cripta, e attraversando l’antico portale gotico del Duomo Nuovo, si giunge al Museo dell’Opera, dove, al primo piano di una sala climatizzata, è possibile ammirare le Storie della Passione dipinte da Duccio di Buoninsegna sul retro della grande pala d’altare con la Maestà realizzata per il Duomo di Siena tra il 1308 e il 1311. info tel. 0577 286300: e-mail: opasiena@ operalaboratori.com; www.operaduomo.siena.it

soprattutto, presenta materiali spesso inediti, nonché, in un caso, miniature recuperate sul mercato antiquario – al quale erano approdate in seguito al trafugamento – e salvate dalla dispersione. Grazie ai prestiti concessi da istituzioni pubbliche, ecclesiastiche e private italiane e straniere, è stato possibile riunire una settantina di opere che dunque documentano la vivacità della

Chieti Illuminare l’Abruzzo. Codici miniati tra Medioevo e Rinascimento U Museo Palazzo de’ Mayo fino al 31 agosto

La miniatura è una delle espressioni artistiche che hanno maggiormente caratterizzato l’Età di Mezzo, tanto da esserne diventata, oggi, una delle icone. La mostra allestita a Chieti non si limita però a esaltare ancora una volta solo il valore estetico di queste raffigurazioni, ma documenta una realtà ben circoscritta, cioè quella della produzione libraria miniata affermatasi in Abruzzo tra l’XI e il XIV secolo, e,

MEDIOEVO

agosto

produzione abruzzese, che ebbe tra i suoi centri di produzione principali lo scriptorium della cattedrale di S. Giustino a Chieti, oppure quelli di S. Liberatore alla Maiella, S. Clemente a Casauria e S. Maria della Vittoria presso Scurcola Marsicana. info tel. 0871 359801; e-mail: info@ fondazionecarichieti.it; www.fondazionecarichieti.it Montepulciano Il Boccaccio inciso. La vita e le opere. Gli ex libris di 73 artisti illustrano e narrano U Museo Civico e Pinacoteca Crociani fino all’8 settembre

La Società Bibliografica

Toscana, si è inserita nel complesso delle manifestazioni organizzate nel presente anno per il VII centenario della nascita di Giovanni Boccaccio, allestendo una mostra itinerante di ex libris, aventi come soggetto il Boccaccio e le sue opere, commissionati per l’occasione ad alcuni artisti. In questo modo, la SBT ha voluto non limitarsi a riflettere, come accaduto in precedenti occasioni sulle fortune editoriali delle opere dell’autore festeggiato, con un’esposizione «effimera», ma compiere un’operazione che generasse una produzione artistica la cui durata nel tempo andrà ben oltre il periodo espositivo, in quanto gli ex libris resteranno nelle collezioni dei soci della SBT che li hanno commissionati. Dopo la tappa di Montepulciano, l’esposizione approderà a Certaldo, città natale di Boccaccio, dal 14 settembre al 12 ottobre. info tel. 0578 717300 Roma Costantino 313 d.C. U Colosseo fino al 15 settembre

Dopo essere stata presentata a Milano, giunge a Roma la grande rassegna che celebra l’anniversario dell’emanazione, nel 313 d.C., dell’Editto di Milano da parte dell’imperatore romano d’Occidente Costantino e del suo omologo d’Oriente, Licinio. Con

esso il cristianesimo, dopo secoli di persecuzioni, veniva dichiarato lecito e si inaugurava cosí un periodo di tolleranza religiosa e di grande innovazione politica e culturale. info tel. 06 39967700; www.pierreci.it firenze Il Sogno nel Rinascimento U Galleria Palatina, Palazzo Pitti fino al 15 settembre

L’esposizione permette di addentrarsi per la prima volta in un argomento coinvolgente e affascinante, cercando di metterne in luce la ricchezza e varietà. Il tema del sogno assume infatti un rilievo particolare nella mitologia antica e nella cultura del Rinascimento, come dimostra il suo diffondersi nelle arti figurative e in particolar modo in opere di soggetto religioso o legate alla riscoperta dei miti antichi. Varie sezioni articolano la mostra, a partire da quelle che definiscono e precisano il contesto in cui il sogno si manifesta, cioè la notte e il sonno. Tra le altre tappe successive del

percorso, spicca La vita è sogno, che trae origine dall’eccezionale fortuna iconografica di un disegno di Michelangelo, Il Sogno o la Vanità dei desideri umani, come dimostra il gran numero di riprese e copie che ne sono state eseguite, fra le quali quelle di Giulio Clovio, Francesco del Brina, Battista Franco. La mostra si conclude con un richiamo all’Aurora considerata nel Rinascimento come lo spazio-tempo dei sogni veri (rappresentata da un dipinto di Battista Dossi) per aprirsi, infine, al Risveglio (con il Risveglio di Venere di Dosso Dossi) come espressione della ciclicità paradigmatica e complementare del tempo. info tel. 055 294883; www.unannoadarte.it Fano Guido Reni, La consegna delle chiavi. Un capolavoro ritorna U Pinacoteca San Domenico fino al 29 settembre

Le stanze della Pinacoteca accolgono la Consegna delle Chiavi, tela dipinta da Guido Reni per l’altare

21


agenda del mese maggiore della chiesa fanese di S. Pietro in Valle, confiscata in epoca napoleonica, e oggi al Musée du Louvre di Parigi. L’opera è accompagnata da altri due prestigiosi capolavori del pittore bolognese, due Annunciazioni, una realizzata per la chiesa di S. Pietro in Valle e oggi nella Pinacoteca Civica del Palazzo Malatestiano, e l’altra proveniente da Ascoli Piceno. Guido Reni (1575-1642) rappresenta uno degli esponenti di spicco del barocco italiano, e la mostra, oltre a costituire un’occasione imperdibile per ammirare uno dei suoi maggiori capolavori, recuperato, seppur temporaneamente, dopo quasi tre secoli di assenza dal territorio italiano, costituisce altresí una testimonianza del mecenatismo culturale del patriziato marchigiano nel corso del diciassettesimo secolo, nel momento in cui diversi aristocratici iniziano a mostrare interesse nei confronti della produzione artistica dei maggiori esponenti della scuola emiliano-bolognese, quali Ludovico Carracci, Domenichino, Guercino, Tiarini, Geminiani, Simone Cantarini e Guerrieri. Per tutta la durata della mostra è stato predisposto un itinerario guidato alla scoperta delle opere del Seicento fanese. info tel. 0721 802885; www.fondazionecarifano.it

22

roma Il Tesoretto di Montecassino U Museo Nazionale dell’Alto Medioevo fino al 30 settembre

È la prima esposizione del cosiddetto Tesoretto di Montecassino, costituito da una fibula aurea e da 29 monete d’oro databili tra i secoli XI-XII. Proviene dal Lazio meridionale, ove fu rinvenuto nel 1898, presso la Badia di Cassino. Il prezioso insieme fu quindi separato: le monete vennero depositate presso il Medagliere del Museo Nazionale Romano, mentre la fibula fu affidata al Museo Nazionale

dell’Alto Medioevo. L’accorpamento tra le Soprintendenze Archeologiche di Ostia e Roma ne ha favorito la riunificazione, in attesa di una sua definitiva sistemazione. Le fibule erano impiegate per la chiusura di capi di vestiario e di mantelli, costituendo un elemento di continuità con l’abbigliamento dei tempi piú antichi, sia femminili che maschili. In questo caso la preziosità dell’oggetto e la sua squisita fattura, memore

della precedente tradizione classica, fanno pensare a una committenza di alto rango. Le monete che compongono il gruzzolo rappresentano uno spaccato della monetazione aurea dei Normanni di Sicilia. Si tratta di 29 tarí in oro emessi dalle zecche siciliane di Palermo e Messina sotto tutti i signori normanni che in quegli anni si sono avvicendati. info tel. 06 54228199 firenze Nello splendore mediceo. Papa Leone X e Firenze U Museo delle Cappelle Medicee fino al 6 ottobre

La rassegna celebra Leone X, primo papa di casa Medici, a cinquecento anni dall’elezione al soglio pontificio. La mostra segue la vita di Giovanni, figlio secondogenito di Lorenzo il Magnifico, dalla nascita a Firenze, nel 1475, fino al 9 marzo 1513, quando venne eletto papa, e al suo breve ritorno in patria nel 1515. Uno dei capitoli salienti del percorso è quello in cui

si rievocano il pontificato di Leone X e i suoi riflessi su Roma. Gli anni del papato leonino furono celebrati come una nuova «età dell’oro», in cui la capitale della cristianità poté rivivere per opera non solo di artisti, ma anche di poeti e di umanisti, le istanze del mondo classico. Sono gli anni in cui si iniziarono o si proseguirono le grandi fabbriche dell’Urbe: fra le altre la basilica di S. Pietro, mentre Raffaello dette seguito a imprese pittoriche straordinarie. info www.polomuseale. firenze.it Pieve di Cadore Tiziano, Venezia e il papa Borgia U Palazzo COSMO fino al 6 ottobre

La si potrebbe definire una mostra dossier, una mostra indagine, una potente lente di ingrandimento attraverso la quale il pubblico può penetrare nei diversi aspetti storici, stilistici, compositivi, iconografici di un’opera chiave degli inizi della carriera del grande Tiziano Vecellio. Un modo affascinante e insolito di cogliere i

significati e i processi creativi che stanno «dietro» e «dentro» un capolavoro. L’esposizione vuole essere il racconto, assolutamente inedito, di quella notissima e fondamentale opera, conservata al Museum voor Schone Kunsten di Anversa, in cui Tiziano dipinge «Il vescovo Jacopo Pesaro e papa Alessandro VI davanti a San Pietro». Un’opera che ora si conosce meglio, grazie alla recente pulitura e alle preliminari indagini e che – dopo tanti tentativi compiuti negli anni passati – è prestata in Italia per la prima volta solo in occasione degli eventi tizianeschi di questa stagione. info tel. 0435-212170; www.tizianovecellio.it Torino Il collezionista di meraviglie, l’Ermitage di Basilewsky U Palazzo Madama fino al 13 ottobre.

Offre diverse chiavi di lettura la mostra delle opere di Alexander Basilewsky, diplomatico e collezionista di spicco nell’Europa dell’Ottocento. Attraverso capolavori mai usciti dalla Russia, la rassegna avvicina a un’idea raffinata dell’Età di Mezzo, con oggetti liturgici di altissima qualità, quali calici, reliquiari, croci, pissidi, piatti di legature per codici. Dopo gli oggetti di culto dei primi cristiani, come le lucerne in bronzo e i vetri dorati in foglia d’oro, su tutti il


circostanti furono, sin dal primo Cinquecento, i palcoscenici delle leggendarie cacce degli Estensi e dell’aristocrazia papale. info tel. 0774 335850; www.villadestetivoli.info Gaeta SCIPIONE PULZONE DA GAETA A ROMA ALLE CORTI EUROPEE U Museo Diocesano, Palazzo De Vio fino al 27 ottobre

Sacrificio di Isacco del IV secolo, l’esposizione presenta, tra gli altri, materiali bizantini, romanici, avori dalla Sicilia e dall’Italia meridionale, poi Limoges del Duecento e oreficeria mosana. Non mancano le armi, che Basilewsky cominciò a collezionare in Oriente, né materiali di età rinascimentale, tra cui maioliche italiane, francesi, e smalti dipinti di Limoges. info tel. 011 4433501; www.palazzo madamatorino.it

che avviene attraverso il celeberrimo Autoritratto (dipinto tra il 1504 e il 1506), capolavoro collocato nella Sala dell’Udienza del Nobile Collegio, la stessa che,

La mostra, che propone il confronto fra tre grandi maestri – Perugino, Raffaello e Sassoferrato –, è la prima importante estensione fuori dalla Toscana del progetto «La città degli Uffizi». Per Raffaello si tratta di un ritorno a Perugia,

MEDIOEVO

agosto

Tivoli Cacce principesche. L’arte venatoria nella prima età moderna U Villa d’Este fino al 20 ottobre

perugia RAFFAELLO E PERUGINO. Modelli nobili per Sassoferrato a Perugia U Nobile Collegio del Cambio fino al 20 ottobre

Un gioco di autoritratti in cui si esemplifica la nuova consapevolezza degli artisti del Rinascimento. info tel. 075 5728599

con il suo maestro Perugino, lo vide all’opera, probabilmente come semplice collaboratore, agli esordi della carriera. Insieme al suo Autoritratto giungono dagli Uffizi quello del suo maestro, il Perugino appunto, e quello non meno straordinario di un artista posteriore che ai due ispirò il proprio lavoro, ovvero Giovan Battista Salvi detto il Sassoferrato.

Le sale della villa tirburtina ospitano oltre sessanta opere, rare e talvolta inedite (dipinti, sculture, armi, utensili e stampe) inerenti alle cacce principesche, praticate nelle corti italiane tra il Cinque e il Settecento. Manifestazione del potere e dell’eleganza delle élite di tutta Europa, la caccia fu, sin dal Medioevo, uno dei piú importanti momenti di aggregazione sociale. La mostra trova una sede eccezionale a Villa d’Este, decorata con temi venatori già nei primi decenni del Seicento dalla scuola di Antonio Tempesta. Inoltre, la villa, il suo parco e i boschi

La prima mostra interamente dedicata alla produzione artistica del maestro gaetano Scipione Pulzone (1540 circa-1598) si confronta con il territorio di origine del pittore. Il progetto espositivo si articola in sei sezioni e offre l’opportunità di ammirare dipinti firmati e datati, riuniti e messi a confronto per la prima volta secondo il criterio tematico e cronologico, insieme alle opere di incerta attribuzione per una stimolante occasione di vaglio critico. info tel. 0771 4530233

Trento Sangue di drago squame di serpente. Animali fantastici al Castello del Buonconsiglio U Castello del Buonconsiglio fino al 6 gennaio 2014 (dal 10 agosto)

Organizzata in collaborazione con il Museo Nazionale Svizzero di Zurigo, che l’ha già ospitata con successo, la mostra abbraccia un arco cronologico compreso tra l’antichità e l’Ottocento, e,

grazie a opere di scultura, pittura, architettura e disegno, racconta il mondo animale, frutto delle fantasie e delle paure dell’uomo. Ricca di postazioni multimediali e filmati, la rassegna è inoltre arricchita da una sezione, allestita a Riva del Garda, dal titolo «Mostri smisurati» e creature fantastiche tra i flutti, che espone un ristretto ma importante nucleo di opere prevalentemente cinquecentesche aventi per tema creature fantastiche e animali mitici che,

23


agenda del mese nell’immaginario antico, abitavano le acque dei laghi e dei mari. info tel. 0461 233770; e-mail: info@buonconsiglio.it; www. buonconsiglio.it milano Leonardo3. il Mondo di Leonardo U Sale del Re fino al 28 febbraio 2014 (prorogata)

Allestita in piazza della Scala, all’ingresso della Galleria, la mostra, interattiva e multidisciplinare, è dedicata a Leonardo artista e inventore e alle sue macchine ingegnose. Sono presentate oltre 200 macchine interattive in 3D, oltre a ricostruzioni fisiche dei diversi congegni, molti inediti e mai ricostruiti dopo Leonardo, realizzati nel rispetto del progetto originale. Tra gli altri, possiamo ricordre: la clavi-viola, il leone meccanico, il cavaliereRobot o la bombarda multipla. Tra le esperienze interattive in 3D vi sono le anteprime del Codice Atlantico in edizione completa, con oltre 1100 fogli consultabili digitalmente. E, nella sezione Leonardo a Milano, è compresa una stazione dedicata al Cavallo gigante, ovvero al monumento a Francesco Sforza, che svela anche come avrebbe potuto essere l’opera completa. info tel. 02 794181; e-mail info@leonardo3. net; www.leonardo3.net, www.facebook.com/ leonardo3museum

24

Firenze Dal giglio al David. Arte civica a Firenze fra Medioevo e Rinascimento U Galleria dell’Accademia fino all’8 dicembre

Protagoniste dell’esposizione sono le opere d’arte nate per arricchire sia i palazzi pubblici fiorentini, sia gli edifici sedi delle Arti, cioè le antiche corporazioni dei mestieri, o delle magistrature, e addirittura la cerchia di mura cittadine. Temi come l’araldica e la religione civica, legati ai luoghi emblematici della città come il Palazzo dei Priori e

Orsanmichele, offrono dunque una nuova chiave di lettura che sottolinea l’importanza delle immagini nella comunicazione e nella propaganda delle fazioni che governavano in età comunale e repubblicana, prima che l’ascesa dei Medici modificasse profondamente l’assetto politico ed estetico del capoluogo toscano. info tel. 055 2388612; e-mail: galleriaaccademia@ polomuseale.firenze.it; www.polomuseale.firenze.it

Appuntamenti Paola (Cosenza) la volata 25 agosto

Rievocazione dell’assedio turco del 1555, capitanato dall’ammiraglio e corsaro ottomano Dragut Rais. Il corteo storico sfila dal centro al quartiere della Rocchetta, dove, tra balli, giochi e libagioni, dà vita a un vero e proprio carosello fiabesco. info www.guiscardo.com Sarzana (la spezia) Festival della Mente. X edizione U Sarzana, centro storico 30 agosto-1° settembre

La rassegna si propone come un crocevia tra sapere umanistico, sapere scientifico e riflessioni intellettuali sul tema dei processi creativi attraverso le forme piú diverse. Per tre giorni, pensatori italiani e stranieri saranno i protagonisti di workshop, lectio, dialoghi e approfonditaMente: lezioni-laboratorio di due ore a numero

limitato, che consentono al pubblico e ai relatori di instaurare una relazione piú stretta e diretta. Tra gli ospiti di questa decima edizione del festival, figura lo storico

Alessandro Barbero che sarà presente con tre incontri dedicati al Medioevo: nel primo, parlerà della concezione del tempo e della paura della fine; del mondo; nel secondo, cercherà di dimostrare se lo ius primae noctis fosse una legge realmente esistita; nel terzo, tratterà della percezione geografica del mondo: la Terra si considerava piatta o sferica? info www.festivaldellamente.it

modena, carpi, sassuolo FESTIVALFILOSOFIA 2013: EROS E DINTORNI U Sedi varie 13-15 settembre

pensiero occidentale, hanno costituito modelli o svolte concettuali rilevanti per il tema dell’amore, da Platone ad Aristotele, dal Cantico dei cantici alle opere di Agostino, da Baruch Spinoza e Adam Smith, fino alle elaborazioni novecentesche di Lacan e Foucault, con in piú un fuori pista comparativo sul pensiero cinese tradizionale. Tra le mostre allestite a corollario dei dibattiti, segnaliamo quella sui temi amorosi nei dipinti del barocco emiliano e l’esposizione, in prima assoluta, dei corpi di due amanti rinvenuti in una tomba d’epoca romana. info tel. 059 2033382; www.festivalfilosofia.it milano

Un concetto chiave della tradizione filosofica e una questione cruciale dell’esperienza contemporanea, l’«amare», è il tema dell’edizione 2013 della rassegna, che si svolge in 40 luoghi diversi delle tre città coivolte e prevede lezioni magistrali, mostre, spettacoli, letture, giochi per bambini e cene filosofiche. È anche in programma «la lezione dei classici», in cui esperti eminenti commentano i testi che, nella storia del

Cenacolo vinciano. aperture straordinarie u Cenacolo Vinciano 13 settembre, 15 novembre, 6 dicembre e 20 dicembre

Fino al prossimo dicembre, grazie a Eni, per cinque venerdí, le luci del Refettorio di S. Maria delle Grazie a Milano, dove Leonardo ha dipinto l’Ultima Cena, non si spegneranno e sarà possibile ammirare il capolavoro. Le visite guidate al Cenacolo Vinciano sono in programma dalle 19,30 alle 22,30. La prenotazione è gratuita, ma obbligatoria (vedi info). info tel. 02 92800360; www.cenacolovinciano.net agosto

MEDIOEVO



battaglie tagliacozzo

23 agosto 1268

di

Un’estate

sangue

di Federico Canaccini

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

28

agosto

MEDIOEVO


Accade che le sorti di una battaglia, dall’esito in apparenza scontato, si capovolgano all’improvviso. Ma possiamo solo immaginare quale fu lo sgomento di Corradino di Svevia in quel caldo giorno d’agosto del 1268, quando, presso i Piani Palentini, e a scontro ormai vittoriosamente concluso, gli si presentò davanti un manipolo di 800 cavalieri scelti… Ecco, allora, la cronaca di uno scontro militare epocale, che sancí la fine di un sogno imperiale e spianò la via al dominio angioino in Italia Vignetta raffigurante la battaglia di Tagliacozzo, da un’edizione illustrata della Nuova cronica di Giovanni Villani redatta tra il 1350 e il 1375. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana.

MEDIOEVO

agosto

29


battaglie tagliacozzo

L L

o scontro tra gli Svevi e gli Angioini, iniziato con la nomina pontificia di Carlo I a re di Sicilia, al posto di Manfredi nel 1265, ebbe il suo epilogo nella battaglia dei Piani Palentini, meglio nota come battaglia di Tagliacozzo. Già Manfredi, che aveva quasi usurpato il trono a Corradino di Svevia (vedi anche, in questo numero, il dossier alle pp. 77-97), era stato sconfitto dall’angioino a Benevento nel 1266, morendo in battaglia. Nell’estate del 1268 il sogno di Corradino di recuperare il regno, usurpatogli prima da Manfredi, poi da Carlo I, sembrava a portata di mano. Soprattutto, la vittoria riportata poco prima a Ponte a Valle

(presso Arezzo, 25 giugno 1268) contro l’avanguardia angioina aveva rassicurato l’esercito svevo. A Siena, l’impressione suscitata dalla fulminea vittoria sulle truppe di Carlo fu tale che, ogniqualvolta si doveva nominarlo negli atti ufficiali, il re angioino, allora detto Carlone, fu registrato, in segno di scherno, con il nome di Ciarlone. Allarmato dalla sconfitta di Ponte a Valle, papa Clemente IV fece giungere armati da Assisi e Perugia nel suo palazzo di Viterbo, dove temeva un’incursione. Dopo la metà di luglio Corradino lasciò Siena con il suo esercito, le cui fila erano state ingrossate dalla cavalleria di Siena e dalle milizie tedesche stipendiate dai Senesi. Nel corteo armato che sfilava lungo la Cassia, un piccolo drappello era costituito dai prigionieri catturati a Ponte a Valle, tra cui spiccavano lo sfortunato Jean de Braiselve e Amiel d’Agoult. Certamente papa Clemente poté vedere le schiere ghibelline attraversare la piana di Toscanella dalle mura di Viterbo e avrebbe affermato – riferendosi a Corradino – che l’agnello condotto al macello, sarebbe passato come il fumo. Percorrendo la Cassia, l’esercito raggiunse Roma, mentre presso le coste laziali gettava l’ancora una flotta pisana di 24 galere, capitanata da Guido Bocci.

A destra la facciata del Palazzo Papale di Viterbo, costruito tra il 1257 e il 1266. Sentendosi poco sicuro a Roma, qui si rifugiò papa Clemente IV, primo pontefice a porvi la sua residenza stabile. Sopra il portale di accesso si notano l’epigrafe commemorativa della costruzione e il Leone del Comune, a destra invece si intravedono gli archetti e la trabeazione a metope della Loggia, aggiunta nel 1267. A sinistra ritratto di Clemente IV (al secolo Guy Foulques o Guido Fulcodi). Olio su tela di Giuseppe Franchi, 1600-1624. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.

L’assedio di Lucera

be percorso la via degli Abruzzi, giacché l’altra via d’accesso al regno, quella per la Campania, era difesa da una guarnigione lasciata a presidio sul ponte di Ceprano. Cosí Carlo costrinse il nemico a passare per i Piani Palentini, che furono fatali all’ultimo degli Hohenstaufen. Corradino si trattenne a Roma fino al 10 agosto, quando, uscito probabilmente dalla porta Tiburtina, si diresse verso gli Abruzzi. Passata Tivoli, l’esercito raggiunse Vicovaro, dove fu ospite degli Orsini, signori del luogo. Di lí Corradino, con pochi intimi, marciò fino all’inaccessibile castello di Saracinesco, ove salutò la figlia di Galvano Lancia, andata in sposa a Corrado d’Antiochia.

Solo alla fine di luglio Carlo decise di abbandonare l’assedio di Lucera (vedi box alle pp. 32-33), roccaforte saracena ribellatasi al sovrano angioino, per andare incontro al rivale, attendendolo ai confini del regno. Cosí facendo, sperava di evitare il congiungimento dell’esercito nemico con le truppe della Puglia. Dal 4 di agosto Carlo aveva sistemato il proprio esercito non lontano dalla piana di Scurcola (presso L’Aquila), dove tre settimane piú tardi colse la vittoria. La scelta di portarsi a Scurcola era motivata dalla certezza che Corradino avreb-

30

agosto

MEDIOEVO


L’itinerario passò quindi per Arsoli, dove la fanteria romana si separò dal resto della truppa per far ritorno a Roma. Corradino, invece, entrò nel regno attraverso la regione del Cicolano, dove trovò l’appoggio di alcuni dei conti di Mareri, signori del luogo, nella speranza di scendere lungo la Marsica per giungere a Sulmona. Finalmente, il 21 o il 22 agosto, Corradino giunse in vista dei Piani Palentini, ove pose il suo accampamento dopo essere stato informato che l’esercito di Carlo era poco lontano. Le tende furono piantate sulla riva sinistra del fiume Salto, un torrente di modesta portata, ma dalle rive scoscese e che allora doveva essere fiancheggiato da

MEDIOEVO

agosto

alta vegetazione. Comunque, essendo d’agosto, il fosso doveva essere povero d’acqua.

Sosta a L’Aquila

Abbandonato l’assedio di Lucera, Carlo d’Angiò si diresse verso i confini settentrionali del regno, per fronteggiare il suo antagonista. Fece una prima sosta all’Aquila, per sincerarsi della fedeltà di quella città e rifornire di vettovaglie e foraggio il proprio esercito. Per tre giorni e tre notti, da domenica 19 a martedí 21, Carlo spiò passo dopo passo gli spostamenti del proprio avversario, che cercava un valico per poter superare di nascosto i monti e congiungersi con il Mez-

zogiorno. Infine, anche il re angioino stabilí le proprie tende presso i Piani Palentini. Poco lontano, due miglia appena, erano accampati, ai piedi del monte Carce, i ghibellini di Corradino. All’alba del 23 agosto del 1268, gli eserciti rivali si schierarono per la battaglia. Si decideva dunque con le armi chi avrebbe regnato sul trono di Sicilia. Da un lato l’Angiò era deciso a mantenere fermamente il regno, conquistato a Benevento appena due anni prima. Dall’altro, però, Corradino rivendicava come proprio il regno di Sicilia, usurpatogli prima da Manfredi, e ora da Carlo, col benestare del pontefice. Teatro dello scontro fu dunque la

31


battaglie tagliacozzo Abbandonato l’assedio di Lucera, Carlo d’Angiò si diresse verso i confini settentrionali del regno I resti delle mura di Lucera, fatte edificare da Carlo I d’Angiò. La «roccaforte saracena», da sempre fedele agli Svevi, si era ribellata al sovrano angioino ed era stata da lui assediata. La cinta muraria era lunga in origine 900 m e comprendeva 17 torri.

32

lucera

La città degli... infedeli Quando Federico II ereditò il regno dalla madre Costanza d’Altavilla, in Sicilia vivevano ancora numerosi gruppi di Ebrei, Greci, Arabi, Berberi e Persiani. Nel 1220, dopo alcune insurrezioni, l’imperatore decise di trasferire sulla terraferma circa 20 000 musulmani, deportandoli dapprima a Lucera, Girifalco e Acerenza. Dopo l’ennesimo tentativo di riattraversare lo stretto per tornare nell’isola natía, Federico, nel 1239, li deportò tutti nella sola Lucera. La città ospitava una moschea principale (jami), alcune scuole per lo studio del Corano, e almeno un qadi,

agosto

MEDIOEVO


un giudice incaricato di risolvere le controversie tra cristiani e musulmani che spesso sorgevano. È stato stimato che la popolazione di Lucera avesse raggiunto le 60 000 unità, di cui almeno un sesto impiegato dall’imperatore sui campi di battaglia. Erano famosi gli arcieri e i frombolieri, utilizzati sia da Federico, sia da Manfredi e Corradino. Perfino Carlo d’Angiò, che li aveva deprecati e assimilati a emissari del diavolo, perché non cristiani, se ne serví in Albania, con il tacito accordo del papa, che aveva invece scomunicato gli Svevi per via dei rapporti amichevoli stabiliti con i musulmani!

A destra Pernes les Fontaines, Tour Ferrande. Carlo I d’Angiò consegna l’investitura di un feudo a un nobile, particolare di un affresco del ciclo che narra la storia della conquista della Sicilia per opera del sovrano. XIII sec.

valle dei Piani Palentini, poco lontano dal lago del Fucino. Corradino fece sistemare l’esercito, oltre 5000 uomini, confidando nella perizia militare del vecchio maresciallo Konrad Kropf von Flüglingen. La prima schiera era costituita dai molti cavalieri tedeschi capitanati dallo stesso Kropf e dalle truppe ghibelline toscane, con il conte Donoratico in testa. Poco lontano vi era la seconda schiera, formata dagli Spagnoli di Enrico di Castiglia (vedi box a p. 39), e dai cavalieri provenienti da Roma, di cui Enrico era Senatore. L’ultima schiera infine, composta da cavalieri tedeschi e dalle milizie lombarde guidate dal marchese Pelavicino, era capitanata da Corradino e Federico di Baden.

Il vecchio stratega

Di contro, l’Angioino affidò la sistemazione delle sue truppe, inferiori per numero a quelle dello svevo, al vecchio cavaliere Alardo di Valéry. A lui le cronache attribuiscono il ruolo di capo di stato maggiore e l’ideazione della tattica dell’agguato, probabilmente appresa in Terra Santa, da cui era recentemente ritornato. La prima linea era composta da

MEDIOEVO

agosto

contingenti italiani e provenzali e fu affidata a Enrico di Cousance. Questi si offrí di vestire le insegne reali, cosí da sviare l’avversario. L’inganno riuscí in pieno, ma Enrico pagò con la vita questo gesto. La seconda schiera, composta interamente da Francesi, era piú potente della prima, ed era comandata da Jean de Clary e da Guglielmo Stendardo, scampato tre mesi prima alla tragedia di Ponte a Valle. Carlo infine si trovava con 800 cavalieri scelti assieme al «vecchio Alardo», come ricorda Dante, riparato dietro un colle, in attesa di cogliere l’istante propizio per capovolgere le sorti di quella che sembrava una sconfitta annunciata. Infatti, le forze in campo erano numericamente a favore del giovane svevo. Là dove con la forza non si poteva riuscire, ci si affidò perciò alla Vergine Maria… ma, soprattutto, all’astuzia. Primo obiettivo dei contendenti fu un ponte protetto da un fortilizio. Tuttavia, prima di attraversare il fosso che, seppur in secca, doveva avere rive piuttosto scoscese, entrambi gli eserciti sostarono dinnanzi al ponte: i Tedeschi per paura di scompaginarsi nell’in-

33


battaglie tagliacozzo

Battaglia di Tagliacozzo Pelavicino

Corradino

Federico di Baden

Ghibellini/Svevi

Lombardi

La disposizione dell’esercito di Corradino III SCHIERA di Svevia, forte di 5000 uomini: in prima linea, Tedeschi la schiera dei cavalieri tedeschi, capitanati dal maresciallo Konrad Kropf von Flüglingen, e dei ghibellini toscani del conte Enrico Donoratico; in seconda di Castiglia linea gli Spagnoli di Enrico di Castiglia e i cavalieri romani a lui fedeli; infine, l’ultima schiera, formata da cavalieri tedeschi e dai Lombardi del marchese Pelavicino, capitanata dallo stesso Corradino e da Federico di Baden.

Ghibellini Romani

S

II SCHIERA

Konrad Kropf von Flüglingen

li

no

g pa

Conte Donoratico

Toscani

Tedeschi I SCHIERA

Stemmi ghibellini

to

al eS

m

Fiu Guido da Montefeltro

34

Mainardo Tirolo

Mastino della Scala

agosto

MEDIOEVO


MARCHE UMBRIA Teramo

MAR A D R I AT I C O

Carlo d’Angiò g

Pescara Fi

um

e

L’Aquila Sa lto

Chieti

Tagliacozzo Avezzano

LAZIO

MOLISE

Alardo di Valéry

III SCHIERA

Sulle due pagine ricostruzione grafica degli schieramenti di Corradino di Svevia e Carlo I d’Angiò a Tagliacozzo, nel 1268. Nel riquadro cartina dell’Abruzzo con l’ubicazione della cittadina.

traprendere l’attraversamento; i Francesi perché forse volevano cogliere il nemico quando era piú vulnerabile. Ma Enrico di Castiglia, trovato un varco piú a monte sorprese coi suoi 300 Spagnoli le truppe dell’Angioino, accerchiandole. Al grido di vendetta da parte del Castigliano, le truppe si lanciarono al galoppo contro i fianchi e il retro delle schiere francesi, tagliando la via d’uscita che li avrebbe potuti indirizzare verso Carlo e le riserve, nascoste dietro il colle.

Un massacro annunciato

I SCHIERA

Enrico di Cousance

Provenzali II SCHIERA

Guglielmo Stendardo Guelfi italiani

Francesi

Jean de Clary

Guelfi/Angioini

Stemmi guelfo-angioini

Savelli

MEDIOEVO

Orsini agosto

Disposizione delle truppe di Carlo I d’Angiò, numericamente inferiori: la sistemazione era stata decisa da Alardo di Valéry, che aveva posizionato in prima linea contingenti italiani e provenzali guidati da Enrico di Cousance e, come seconda schiera, truppe francesi comandate da Jean de Clary e da Guglielmo Stendardo. Un terzo schieramento di 800 cavalieri capitanati dallo stesso Carlo I e da Alardo di Valéry rimase nascosto dietro un colle, in attesa di intervenire per ribaltare le sorti di una battaglia data già per persa.

A questo punto le truppe angioine e guelfe, impegnate sul fianco e nelle retrovie, furono travolte anche frontalmente dal resto dell’esercito svevo che, attraversato il ponte, attaccò con decisione la prima schiera nemica. Nel breve volgere di qualche ora, i due terzi dell’esercito angioino erano stati annientati e messi in fuga e Carlo osservava da un colle poco distante il massacro dei suoi, che, di fatto, aveva egli stesso decretato. E nessuno, allora, poteva prevedere che quella che appariva a tutti gli effetti come una rotta disastrosa si sarebbe potuta risolvere, al tramonto, in una vittoria. Al centro della prima schiera angioina sventolava il vessillo del re, di cui aveva indossato i paramenti il maresciallo Enrico di Cousance. Contro di lui si avventò, spietato, il cugino di Carlo I, Enrico di Castiglia, a cui aveva promesso la morte in un sonetto indirizzato a Corradino: «Mora per Dio chi m’ha trattato a morte / E chi tiene lo mi acquisto in sua balia / Come Giudeo». Ma il Senatore s’ingannava, giacché l’uomo ucciso dai suoi non era Carlo, bensí il suo fido cavaliere, che contribuí cosí all’inganno che avrebbe condotto alla vittoria angioina. Si levarono infatti grida

35


battaglie tagliacozzo

le fasi della battaglia i

no

d ra r o

C

Carlo D’Angiò

3 2 1

Carlo D’Angiò

3 1

3

1

3

2 1

2 2

Prima fase. Entrambi gli eserciti si trovavano dinnanzi al ponte sul fiume Salto, senza decidersi ad attraversarlo. Trovato un valico piú a monte, Enrico di Castiglia e i suoi 300 Spagnoli accerchiano il nemico, attaccando i Francesi sui fianchi e sul retro.

Seconda fase. L’esercito di Corradino attraversa il ponte, travolgendo la prima schiera nemica e annientando in poche ore i due terzi delle truppe di Carlo I. Enrico di Castiglia uccide il maresciallo Enrico di Cousance, sostituitosi a Carlo indossandone i paramenti reali. Le truppe angioine fingono quindi la ritirata.

Carlo D’Angiò

3

3 1

3

2 1 Terza fase. Credendosi vittoriosi, i soldati di Corradino si abbandonano al saccheggio dei nemici caduti, arrivando a togliersi le armature. Enrico di Castiglia dirige i suoi Spagnoli verso l’accampamento di Carlo, sempre con l’intento di darsi alla razzia.

36

Quarta fase. Carlo e i suoi 800 uomini scelti rimasti nascosti dietro al colle piombano sui nemici. In un primo momento la superiorità numerica degli Svevi sembra garantire una qualche resistenza, ma quando si passa ai combattimenti individuali i cavalieri angioini ribaltano l’esito della battaglia. agosto

MEDIOEVO


Ars bellica

Tattiche mortali

3

Quinta fase. Enrico di Castiglia fronteggia le truppe di Carlo, tenendogli testa due volte e arrivando quasi al punto di forzare le schiere. Alardo di Valéry finge allora la ritirata con 30 o 40 cavalieri, si lascia inseguire dalle truppe spagnole e, superato il colle, le fronteggia e sconfigge: la vittoria degli Angioini è definitiva.

di giubilo sulla piana presso Tagliacozzo: il re angioino era morto e la battaglia, dunque, vinta. L’esercito di Carlo era in rotta e la schiera di Corradino, probabilmente intatta, smontò da cavallo dandosi a depredare i numerosi cadaveri. Quando gli Svevi furono ben sparpagliati nella piana per fare bottino, Alardo di Valéry suggerí al re di attaccare con i cavalieri fino ad allora tenuti nascosti. Probabilmente Carlo intervenne una volta che Enrico di Castiglia ebbe abbandonato la piana, per dirigersi all’accampamento angioino a far man bassa. Solo quando il campo fu occupato dai Tedeschi e dai ghibellini italiani, intenti al saccheggio e privi delle pesanti armature, tolte sotto la calura agostana, Carlo si inginocchiò e chiese aiuto alla Vergine Maria. «Come un cacciatore che ha stanato la preda», scrisse a battaglia

MEDIOEVO

agosto

Nelle battaglie medioevali vennero spesso adottate tattiche sleali o stratagemmi che non rientravano nella prassi cavalleresca. Per esempio, a Benevento, nel 1266, re Manfredi vestí le insegne di un suo comandante, cosí come fece Carlo I due anni piú tardi a Tagliacozzo e il vescovo Guglielmo degli Ubertini a Campaldino nel 1289 (vedi «Medioevo» n. 197, giugno 2013). Ma veri e propri comportamenti poco cavallereschi furono l’uso di tagliare i garretti dei cavalli tedeschi a Benevento, o quello di sbudellare da sotto le cavalcature guelfe a Campaldino. I Normanni, a Hastings, nel 1066, ingannarono la cavalleria sassone, fingendo una ritirata, cosí come Enrico di Castiglia fu ingannato dagli Angioini. Ma, piú delle altre, la tattica usata dal vecchio Alardo, quella di nascondere parte delle truppe sino a battaglia conclusa, appresa probabilmente in Terra Santa, doveva essere ancora pressoché ignota in Occidente. Su questo modo di risolvere una contesa militare, il rimprovero dantesco ci fa capire come simili modalità non fossero ancora del tutto patrimonio comune, e per questo Dante scrisse «là da Tagliacozzo ove, senz’armi vinse il vecchio Alardo!».

conclusa – ma in quel momento ancora non poteva avere la certezza della vittoria –, Carlo piombò sui nemici, seminando panico e morte. Difficile dovette risultare ai comandanti ghibellini riordinare gli schieramenti, anche se una qualche resistenza dovette esservi. La superiorità numerica degli Svevi in un primo momento sembrò garantire una certa efficacia. Poi, quando le schiere si infransero e gli scontri divennero individuali, i forti cavalieri scelti di Carlo ebbero la meglio. La vittoria sveva si trasformò dunque in una rotta.

Un «ritorno» inspiegabile

Lo stupore e lo sgomento dovettero alternarsi negli animi dei condottieri e degli armigeri al seguito di Corradino, che vedevano svanire un successo ormai acquisito. Enrico di Castiglia, di ritorno dal saccheggio nel campo avverso, quando, avvi-

cinatosi, poté distinguere i gigli di casa d’Angiò, comprese probabilmente a fatica che cosa era accaduto. Quel Carlo infatti che credeva morto, gli appariva vincitore, indiscusso padrone del campo. Enrico, che non voleva cedere quella che poteva essere ancora una vittoria, trattenne le sue truppe dal lanciarsi allo sbaraglio, ma ordinate le schiere, in modo compatto fece caricare gli Angioini. Per ben due volte tenne testa ai cavalieri di Carlo, e fu quasi sul punto di forzare le schiere. Ma anche questo scontro fu vinto da Carlo I grazie all’astuzia. Scrive Giovanni Villani che «Messer Allardo prese da trenta o quaranta de’migliori baroni del Re, e uscirono dalla schiera, e faceano sembiante, che per paura si fuggissino, come li avea ammaestrati». E a quel punto, attirati dalla tattica angioina, i cavalieri spagnoli si gettarono alla carica di coloro che sembravano fuggire. Ma non appe-

37


battaglie tagliacozzo

38

agosto

MEDIOEVO


Enrico di Castiglia

La parabola di un uomo ambizioso Personaggio di spicco della spedizione dell’ultimo degli Hohenstaufen è il fratello di re Alfonso X, Enrico di Castiglia, un avventuriero spregiudicato, che intratteneva rapporti d’interesse anche con l’emiro di Tunisi. Enrico era anche cugino di Carlo d’Angiò, che aveva aiutato con una considerevole somma di denaro negli anni della lotta contro Manfredi. Ora sperava, come ricompensa, di ottenere da Carlo un feudo consistente. Enrico, infatti, si era recato a Viterbo, presso il papa, per reclamare la Sardegna. Ma né la Sardegna, né il denaro prestato giunsero mai. Enrico dunque decise di allearsi con Corradino, con la speranza di vendicarsi del cugino e di ricevere dallo svevo maggiori favori. Giunto a Roma il Castigliano, già scomunicato, tollerò che i suoi saccheggiassero le basiliche del Laterano e di S. Paolo, le chiese di S. Saba, S. Sofia e S. Valentino. L’Infante di Spagna governò l’Urbe con fermezza, coordinato da Guido di Montefeltro, insediato in Campidoglio come La sconfitta di Corradino, in una miniatura raffigurante lo Svevo e Carlo I d’Angiò nella battaglia di Tagliacozzo, dalle Chroniques de France (o de St Denis). 1332-1350 circa. Londra, British Library. Pochi mesi dopo la vittoria, il re angioino fece decapitare l’ultimo degli Hohenstaufen, eliminado cosí l’ultimo pretendente alla corona del regno di Sicilia.

MEDIOEVO

agosto

suo vicario. Con un colpo di mano conquistò i castelli di Castro e Sutri, testa di ponte fondamentale per il collegamento con i ghibellini di Toscana. Completò poi il disegno attirando in un tranello i maggiori esponenti guelfi dell’Urbe. Convocata una riunione in Campidoglio, Enrico fece infatti catturare e imprigionare nel maniero di Saracinesco i fratelli Orsini, Pandolfo e Giovanni Savelli, Riccardo Annibaldi, Pietro Stefani e Angelo Malebranca. Nel momento cruciale della campagna, lo scontro presso Tagliacozzo, fu Enrico a tentare di risollevare le sorti della disfatta, fallendo. Fuggito tra i monti, trovò scampo presso il monastero di S. Salvatore Maggiore, vicino Rieti. Ma fu Sinibaldo Aquilone, fratello dell’abate, a consegnarlo agli Angioini. Carlo I, dopo aver promesso all’abate che non lo avrebbe ucciso, lo incarcerò prima a Canosa, poi a Castel del Monte, ove languivano ancora i figli di Manfredi, infine a Trani, sino al 1291. Tornato in Castiglia, morí nel 1304. na valicato il colle, i cavalieri angioini voltarono i cavalli e caricarono a fondo i nemici, sostenuti dal resto del contingente. In breve anche le truppe dell’Infante di Spagna furono in rotta. La vittoria militare rimase a Carlo I, che ottenne quella politica pochi mesi dopo, quando, facendo decapitare Corradino, eliminò qualsiasi pretendente alla corona del regno. Si avverava cosí la «profezia» attribuita a papa Clemente IV (sebbene non sia certo che il pontefice abbia effettivamente pronunciato la frase): «Vita Conradini mors Caroli; vita Caroli mors Conradini» («La vita di Corradino è la morte di Carlo e la morte di Corradino è la vita di Carlo»). F

39


grandi papi niccolò iv

40


Il

grande mediatore di Francesco Colotta

Salito al soglio pontificio nel 1288 con il nome di Niccolò IV, il francescano Girolamo da Ascoli si trovò a ricoprire un ruolo di spicco nel panorama politico del suo tempo. Poco incline al radicalismo, si adoperò fin dagli inizi della carriera per conciliare le posizioni estreme degli Ordini mendicanti con l’ortodossia della Chiesa. Ma il suo nome è legato anche ad attività diplomatiche di piú ampio respiro, come il tentativo di un’alleanza tra Occidente ed Estremo Oriente in funzione anti-islamica

I I

l primo papa francescano della storia,Niccolò IV, proveniva da una delle patrie del radicalismo evangelico ispirato alla figura del santo di Assisi, le Marche. Nato tra il 1225 e il 1230, Girolamo, questo il suo nome di battesimo, era cresciuto nella frazione di Lisciano, ma considerava la vicina Ascoli Piceno il suo vero luogo d’origine. Scarsissime sono le notizie sulla sua famiglia e il cognome con il quale viene tradizionalmente indicato, Masci, gli è stato attribuito in modo erroneo in età moderna. Precoce si rivelò il suo proposito di entrare nell’Ordine dei Minori, maturato dopo un breve soggiorno nel convento di Assisi, e altrettanto rapida fu la sua carriera ecclesiastica. Il giovane Girolamo corrispondeva al profilo del Francescano «moderato» e si distinse «per bontà e scientia», secondo la testimonianza del cronista Giovanni Villani. Nei primi anni della sua militanza nell’Ordine ottenne la carica di minister Provincialis della Sclavonia (regione non ben definita, che comprendeva l’odierna Dalmazia e altri territori della penisola balcanica, tra cui la Bosnia), un ruolo diplomatico di grande importanza strategica. Ad affidargli l’oneroso compito era stato nel 1272 Bonaventura da Bagnoregio, il filosofo elevato agli altari, a quell’epoca ministro generale dei Minori. Prodigioso fu anche il cursus degli studi di Girolamo, che gli valse presto la nomina di lector e, in seguito, di magister. Sebbene avesse indubbie doti di politico, si sentiva piú incline agli studi di teologia e, in età gioParticolare dell’arazzo fiammingo noto come Albero francescano raffigurante Niccolò IV – primo papa francescano della storia – e il cardinale Bonaventura da Bagnoregio. 1471-1482 circa. Assisi, Museo del Tesoro della Basilica di S. Francesco.

MEDIOEVO

agosto

vanile, si dedicò alla stesura di diverse opere, tra cui i Sermones e i Commentarii alle sentenze di Pietro Lombardo. La sua vasta cultura comprendeva anche le lingue straniere, all’epoca parlate solo da una ristretta élite negli ambienti della curia. Si dice che conoscesse bene il francese d’oil e il greco che aveva perfezionato nel corso dell’apostolato in terra balcanica.

Missione a Bisanzio

Nello stesso anno della missione in Sclavonia il futuro Niccolò IV ricevette un altro ben piú gravoso incarico, su disposizione del pontefice Gregorio X: un viaggio a Costantinopoli allo scopo di preparare il terreno per una possibile riunificazione della Chiesa di Roma con quella greca. Gregorio aveva appreso da alcuni ambasciatori che l’imperatore bizantino Michele VIII Paleologo era ben disposto a procedere all’accorpamento, perché spaventato dall’avanzata turca. E, fidandosi di queste informazioni, il papa credeva di poter chiudere in breve tempo lo storico patto. A Bisanzio, però, non tutti erano dello stesso avviso del sovrano e i dissidi interni sull’eventuale nuovo matrimonio con i cattolici resero vano lo sforzo diplomatico del pontefice. Il sospirato accordo cattolico-ortodosso giunse solo molti mesi piú tardi, alla fine del 1273, e rappresentò un grande successo di Girolamo da Ascoli, che, nel maggio del 1274, in occasione del Concilio di Lione II, fu eletto all’unanimità ministro generale dell’Ordine francescano. Ancora una volta a caldeggiare la sua investitura era stato Bonaventura da Bagnoregio. In quell’assise si stava imprimendo una sorta di «giro di vite» sugli Ordini mendicanti al fine di istituzionalizzarli. I laici penitenti francescani, per esem-

41


grandi papi niccolò iv La Chiesa e gli Spirituali

Estremisti francescani Il frate e teologo francese Pietro di Giovanni Olivi fu uno dei pensatori di riferimento del movimento degli Spirituali francescani affermatosi a partire dagli anni Settanta del XIII secolo. Dopo la morte di san Francesco, i suoi seguaci si erano divisi in due correnti principali: i conventuali, che propugnavano una mitigazione del pauperismo imposto dalle regole dell’Ordine dei Minori e gli zeloti, che si ispiravano al francescanesimo delle origini esaltandone gli aspetti eremitici. Questi ultimi, ispirati anche dalle tesi del filosofo calabrese Gioacchino da Fiore, assunsero posizioni ostili nei riguardi del clero, auspicando l’avvento di una Chiesa senza gerarchie. Nacque in seguito il movimento degli Spirituali che, dopo il Concilio di Lione II del 1274, fu represso da quasi tutti i pontefici. Solo Niccolò IV, Celestino V e Clemente V si mostrarono piú tolleranti nei riguardi dei ribelli, aprendo un dialogo con i loro rappresentanti. La repressione piú dura, invece, si scatenò nel Trecento, durante il pontificato di Giovanni XXII. pio, che fino a quel momento avevano gestito in modo autonomo la propria vita religiosa, si ritrovarono inglobati all’interno della Chiesa, come ausiliari del clero. Bonaventura e Girolamo perorarono la causa dei loro confratelli laici, ottenendo condizioni tutto sommato accettabili visto il clima ostile ai movimenti pauperistici che si respirava nel concilio francese. Solo i Domenicani, gli Agostiniani, i Francescani e i Carmelitani, infatti, ricevettero l’imprimatur del papa, mentre le altre organizzazioni furono di fatto dichiarate fuorilegge.

Impegni inconciliabili

Con il passare dei mesi gli incarichi politico-diplomatici di Girolamo si moltiplicarono. Dopo la missione a Bisanzio, si recò a Parigi, per dirimere la disputa intorno alla successione al trono del regno di Castiglia e León. Il ministro generale dei Minori era ormai diventato uno dei legati di maggior fiducia dei pontefici e non riusciva a conciliare l’attività di francescano con gli impegni nelle alte sfere ecclesiastiche. Per questo, forse, rassegnò presto le dimissioni dall’Ordine, ma a furor di popolo venne invitato a ritirarle. Come guida dei Minori sbrogliò non poche questioni interne: la cura dell’apostolato femminile e, soprattutto, la teorizzazione di una povertà meno radicale, tale da armonizzarsi con un modello di Chiesa forte. Grazie alle sue qualità di mediatore riuscí a moderare l’irruenza rivoluzionaria di uno dei leader degli Spirituali (i Francescani piú intransigenti), il provenzale Pietro di

42

A destra l’Albero francescano nella sua interezza. 1471-1482 circa. Assisi, Museo del Tesoro della Basilica di S. Francesco. L’arazzo, forse dono di papa Sisto IV nel 1479, mostra la radice (san Francesco) e i frutti di santità e di illustri personalità ecclesiastiche che l’Ordine francescano produsse nei suoi primi due secoli e mezzo di vita. In basso reliquiario del dito di sant’Andrea donato da papa Niccolò IV. Fine del XIII sec. Assisi, Museo del Tesoro della Basilica di S. Francesco.

Giovanni Olivi, convincendolo a bruciare uno scritto sulla Madonna che rasentava l’eresia. Nel 1278 Girolamo fu nominato cardinale, carica che in un primo momento intendeva rifiutare, e l’anno seguente lasciò ufficialmente la guida dell’Ordine dei Minori. Da porporato cominciò ad allacciare relazioni con le piú potenti famiglie nobiliari romane che in quel periodo dettavano legge nella Città Eterna, gli Orsini e i Colonna. Con questi ultimi il neo-cardinale strinse un legame molto stretto e il sodalizio perdurò anche nell’epoca del suo pontificato. Dopo la morte di Onorio IV, nell’aprile del 1287, una maledizione sembrò abbattersi sul collegio dei cardinali chiamato a eleggere il nuovo pontefice. Alcuni porporati, complice il caldo asfissiante, furono colpiti da una grave forma di malaria e morirono. Altri, per paura del contagio, fuggirono, contribuendo a lasciare vacante la sede papale per ben undici mesi. Tra i superstiti solo un candidato appariva all’altezza di aspirare al soglio di Pietro, il cardinale Girolamo da Ascoli. Si era salvato dall’epidemia tenendo acceso il fuoco nella sua stanza per tutta l’estate, nonostante le temperature elevate. La sua elezione, con il nome di Niccolò IV, fu il frutto di una difficile mediazione tra i pochi cardinali rimasti che giunsero alla fine a un accordo pieno, votando all’unanimità il francescano marchigiano. L’inizio del suo pontificato coincise con un periodo turbolento per Roma, funestata dall’acerrima rivalità tra famiglie nobiliari. Fu, infatti, anche per motivi di agosto

MEDIOEVO


MEDIOEVO

agosto

43


grandi papi niccolò iv

sicurezza che il neoeletto decise di trasferire la curia a Rieti, lontano dalla prima linea di quella guerra civile. Inizialmente Niccolò mantenne una certa imparzialità nel dialogo con le varie fazioni, tra le quali spiccavano gli Orsini e i Colonna, ma, in seguito, compí una precisa scelta di campo.

Interesse privato in atti d’ufficio?

Gli Orsini sembravano non molto risoluti ed energici nella gestione del potere in città e il papa decise perciò di affidarsi ai vecchi amici Colonna ai quali assegnò importanti ruoli amministrativi all’interno del territorio dello Stato Pontificio. Sempre a un Colonna, del ramo di Genazzano, affidò la carica di podestà della sua Ascoli Piceno. L’aver scelto collaboratori della stessa famiglia

44

costò al papa l’accusa di «nepotismo», sebbene quella preferenza fosse in realtà dettata da esigenze strategicomilitari. La continua minaccia di attacchi esterni e di ribellioni nei territori dello Stato Pontificio aveva infatti costretto il capo della Chiesa a circondarsi di nobili e militari di provata fede. Comunque, il nuovo pontefice spese molte delle sue energie nella politica estera, a cominciare dalla guerra che vedeva contrapposti gli Angioini agli Aragonesi per il possesso del regno di Sicilia. Il papa si pose in una sostanziale linea di continuità rispetto al predecessore Onorio IV, che aveva abbracciato la causa francese. Rifiutò le norme dei trattati di Oléron (1287) e Champfranc (1288) che imponevano, come condizione per il rilascio di Carlo II da parte degli (segue a p. 52) agosto

MEDIOEVO


A sinistra miniatura raffigurante un papa in trono che promulga la legge, circondato da cardinali, vescovi e sovrani, da un’edizione del Decretum Gratiani. 1140-42 circa. Cesena, Biblioteca Malatestiana. Con la bolla Coelestis altitudo del 1289, Niccolò IV stabiliva che metà del census riscosso dal pontefice fosse devoluto al collegio dei cardinali. In basso veduta di Akko in Israele, l’antica San Giovanni d’Acri, la cui difesa era uno degli obiettivi della crociata bandita nel 1290 da Niccolò IV.

MEDIOEVO

agosto

dalle marche al soglio di pietro 1225-1230 Girolamo nasce in un piccolo paese delle Marche. 1272 Viene inviato in Sclavonia con la carica di minister Provincialis e successivamente a Bisanzio per discutere con l’imperatore Michele VIII Paleologo della riunificazione della Chiesa di Roma e di quella ortodossa. 1274 È eletto ministro generale dell’Ordine francescano. 1278 Nominato cardinale, inizia a intessere relazioni politiche con le potenti famiglie degli Orsini e dei Colonna. 1282 In Sicilia scoppia la rivolta dei Vespri Siciliani contro gli Angioini. 1287 Muore papa Onorio IV. 1288 Viene eletto papa il 15 febbraio col nome di Niccolò IV. 1289 Emana le bolle papali Coelestis altitudo e Supra montem con cui rinforza notevolmente il potere del collegio cardinalizio e apre anche ai laici la possibilità di essere santificati. Tripoli cade in mano ai musulmani, conquistata dal sultano mamelucco d’Egitto Qalawun. 1290 Promuove la crociata di Acri. 1291 Acri si arrende ai musulmani. 1292 Il 4 aprile muore a Roma.

45


grandi papi niccolò iv

di Furio Cappelli

Il piviale del

papa mecenate Se si tiene conto del fatto che Niccolò IV rimase in carica solo quattro anni (1288-1292), il ruolo che esercitò nella committenza artistica dell’epoca, di per sé ragguardevole, è ancor piú sorprendente. Doveva essere intimamente convinto dell’importanza dell’opera d’arte in ogni sua accezione, dal paramento sacro o dalla suppellettile liturgica di pregio sino ai vasti complessi decorativi a mosaico e ad affresco. Tutte le iniziative che assunse come promotore e anche come semplice donatore, erano sempre mirate a uno scopo preciso. Attraverso i suoi doni e le sue committenze dava forza al suo impegno missionario, nel solco del messaggio evangelico del Poverello di Assisi. Nel 1288 inviò in dono alla cattedrale della sua città di provenienza un magnifico piviale di seta ricamata, oggi conservato nella Pinacoteca Civica. Omaggio alla sua terra, ma anche monito alla concordia in una città in quel momento assai turbolenta,

46

il paramento (in origine arricchito da gemme e pietre preziose) è un’opera di arte inglese giunta a Roma all’epoca di papa Clemente IV (12651268). Quel pontefice, destinatario originario dell’opera, si inserisce in una sequenza di quattro papi duecenteschi raffigurati nel piviale stesso, il piú antico dei quali è Innocenzo IV (1243-1254), seguito da Alessandro IV (1254-1261) e da Urbano IV (1261-1264). Quei papi contemporanei, chiamati a radicare nel presente l’autorità della Chiesa, sono tutti «quarti» come Niccolò, e questo dovette avere un peso nella scelta del paramento da inviare ad Ascoli. Nelle altre sequenze orizzontali del piviale, dal basso verso l’alto, la composizione riconnette poi il presente al passato glorioso della Chiesa: appaiono infatti sei santi papi dotti, tra cui Gregorio Magno, e sei santi papi martiri, tra cui, naturalmente, il fondatore san Pietro. Sull’asse centrale, infine, dal basso verso l’alto, tre clipei raccontano la storia della redenzione, dalla Madonna in trono

In alto il piviale donato da Niccolò IV al Duomo di Ascoli nel 1288. Arte inglese, XIII sec. Ascoli, Pinacoteca Civica. A destra particolare del prezioso paramento con la scena centrale della Crocifissione.

agosto

MEDIOEVO


MEDIOEVO

agosto

47


personaggi niccolo iv

48

agosto

MEDIOEVO


A sinistra l’abside della basilica di S. Giovanni in Laterano, a Roma. In alto un particolare del mosaico, realizzato nel 1291 dal francescano Jacopo

Torriti su incarico di Niccolò IV, in cui il papa marchigiano compare in ginocchio, ai piedi della Madonna, mentre san Francesco si inserisce tra la Vergine stessa e san Pietro.

col Bambino all’immagine gloriosa del Cristo re e giudice, passando attraverso la scena centrale della Crocifissione. Sull’immagine finale incombe un triangolo di stoffa istoriata che costituisce il residuo «abortivo» del cappuccio per la testa dell’officiante, previsto nei piviali piú antichi, ma ormai caduto in disuso. Uno schema di cosí trasparente efficacia, che ricollega la figura del papa ai primordi della Chiesa apostolica e all’immagine di Cristo, guida tutte le realizzazioni artistiche promosse da Niccolò IV. Nella stessa Roma egli promosse radicali lavori di ristrutturazione a S. Giovanni in Laterano e a S. Maria Maggiore. La cattedrale romana stava particolarmente a cuore al pontefice poiché, secondo una famosa tradizione, confluita peraltro in uno dei riquadri delle Storie francescane di Assisi, papa Innocenzo III avrebbe sognato san Francesco in persona mentre era intento a sostenere la basilica lateranense prossima alla rovina. Si comprende bene, dunque, quale significato potesse avere la ricostruzione dell’abside promossa da Niccolò IV nel 1291.

MEDIOEVO

agosto

49


grandi papi niccolò iv A destra Roma, basilica di S. Maria Maggiore. Particolare del mosaico dell’abside, commissionato anch’esso a Jacopo Torriti da Niccolò IV e terminato dopo la sua morte, nel 1296. A sinistra della scena centrale, l’incoronazione della Vergine, si vedono Niccolò IV, san Pietro, san Paolo e san Francesco.

Sulla nuova struttura prese poi corpo un solenne mosaico in cui il busto del Cristo giudice (tagliato come nel clipeo del piviale ascolano) campeggia sopra la croce gemmata del Golgota, con ovvio riferimento al sogno di una nuova crociata. Di fianco alla croce,

Calice in argento dorato con inserti figurativi in smalto dorato, commissionato da Niccolò IV all’orafo senese Guccio di Mannaia. 1290 circa. Assisi, Museo del Tesoro della Basilica di S. Francesco.

il papa è raffigurato in ginocchio ai piedi della Madonna, mentre un «piccolo» san Francesco si inserisce in modo del tutto inedito nel corteo dei santi, tra la Madonna stessa e san Pietro. Gli fa da rimando un altrettanto «piccolo» sant’Antonio da Padova, stretto tra san Giovanni Battista e san Giovanni Evangelista. Ricomposto in modo assai maldestro dopo la ricostruzione ottocentesca dell’abside, il mosaico si deve a Jacopo Torriti, artista di fiducia del papa, spesso identificato con il francescano armato di squadra e compasso che figura al di sotto dell’emiciclo. Un altro francescano, identificato da un’epigrafe come fra’ Jacopo da Camerino, è raffigurato dalla

50

agosto

MEDIOEVO


parte opposta mentre prepara le tessere musive. Lo stesso Torriti è autore dello splendido mosaico absidale di S. Maria Maggiore, commissionato da Niccolò IV, ma ultimato dopo la sua morte, nel 1296, su interessamento della potente famiglia Colonna. San Francesco e sant’Antonio da Padova sono qui aumentati di statura, e assistono all’Incoronazione della Vergine agli estremi dell’emiciclo, trovandosi di fianco a san Paolo e a san Giovanni Evangelista. L’orafo senese Guccio di Mannaia eseguí per papa Niccolò un fastoso calice in argento dorato, con una complessa struttura basale lavorata a cesello e a incisione, arricchita da 96 inserti figurativi eseguiti in smalto traslucido. L’opera era destinata al

MEDIOEVO

agosto

Tesoro di S. Francesco ad Assisi, e attesta la grande attenzione di Niccolò per il santuario del Poverello, che era anche una basilica papale. Seguendo l’esempio di un suo agguerrito predecessore, Niccolò III Orsini (1277-80), committente degli affreschi di Cimabue, il papa ascolano volle occuparsi della decorazione della chiesa superiore. Grazie al suo diretto intervento, venne cosí intrapresa la decorazione delle pareti della navata. Il ricordato Torriti insieme alla propria bottega eseguí con tutta probabilità gli affreschi della fascia sommitale, con le Storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, e a essi fecero seguito sulla fascia sottostante le celeberrime Storie francescane, sulla cui attribuzione a Giotto non si finirà mai di discutere.

51


grandi papi niccolò iv In basso Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa inferiore. Ritratto ad affresco di papa Niccolò IV. XVI sec. Nella pagina accanto lo stemma della nobile e potente famiglia romana dei Colonna.

Aragonesi, la rinuncia degli Angiò a qualsiasi pretesa sui territori aragonesi del Mezzogiorno d’Italia. E senza alcun timore, quando il sovrano venne liberato, lo incoronò solennemente re di Napoli e di Sicilia. L’atto di forza del pontefice, però, non intimidí gli Aragonesi, lasciando irrisolta la controversia che avrebbe poi trovato una via di sbocco solo con l’avvento di Bonifacio VIII. Anche il negoziato di pace firmato da Niccolò con Giacomo d’Aragona non aveva modificato gli equilibri politici del Meridione. Gli Spagnoli non volevano rinunciare alla Sicilia. Il papa si trovò poi a dover fronteggiare un altro insormontabile problema politico: la difesa degli ultimi domini cristiani in Terra Santa di Siria e Palestina. Si trattava di un’operazione quasi disperata in un periodo in cui erano venuti a mancare alcuni tradizionali sostegni alla lotta della Chiesa contro l’espansionismo musulmano. Lo stato di sostanziale «vacanza» dell’impero germanico aveva privato i pontefici del principale appoggio temporale alle missioni, obbligandoli a inseguire alternative che apparivano poco realizzabili. L’idea di un patto con l’Estremo Oriente in funzione anti-Islam, alimentata dalle leggende sul monarca cristiano dell’Est Prete Gianni, apparteneva alla sfera dell’immaginario piú che ai progetti concreti. Eppure, da Oriente, un nuovo alleato si era materializzato davvero: era Argun di Persia, khan dei Mongoli, che aveva proposto alla Chiesa di Roma e ad alcuni sovrani europei di fare fronte comune contro il sultano mamelucco d’Egitto Qalawun. Le spaccature tra le potenze occidentali in un periodo di forte ascesa delle monarchie nazionali resero impossibile la grande alleanza. Il sultano poté, pertanto, attuare indisturbato i suoi piani d’attacco e, nell’aprile del 1289, espugnò Tripoli, decretando la caduta di uno degli Stati cristiani piú solidi.

La crociata impossibile

Niccolò IV si convinse della necessità di bandire una crociata per riprendere la città e per puntellare, nel contempo, le difese di Acri, uno degli ultimi avamposti cristiani nel Vicino Oriente. Era stato abile a non inimicarsi i monarchi europei, compresi quelli aragonesi, che aveva provveduto ad assolvere dalla scomunica, ma non riuscí ad allestire un’armata consistente. Si era rivolto anche al gran khan Kubilai, inviando a Pechino uno dei suoi piú fidati ambasciatori, il francescano Giovanni di Montecorvino, senza però ottenere le risposte sperate. All’appello mancavano anche le città marinare italiane, che fornirono uno scarso contributo alla missione in Terra Santa. Le potenze costiere della Penisola, nutrendo poche speranze nella crociata, pensavano già agli eventuali profitti derivanti da nuovi accordi commerciali con i mamelucchi, da tempo loro partner sul mercato marittimo. La spedizione armata, costituita da 13 galee, si diresse ad Acri nel 1290 e riuscí solo a rimandare di un anno la caduta della città, che si arrese ai musulmani

52

agosto

MEDIOEVO


nel maggio del 1291. Il papa, vista l’impossibilità di un successo militare, pianificò come ultima ratio un blocco commerciale per l’Egitto, ma la ritorsione non sortí gli effetti sperati. Sul finire del pontificato Girolamo si dedicò a un territorio a lui particolarmente familiare, la penisola balcanica, nella quale avevano preso piede numerosi movimenti scismatici. Seguiva con attenzione anche le vicende d’Ungheria, il cui sovrano appena defunto, Ladislao IV, era stato accusato dalla Chiesa di eccessiva accondiscendenza nei riguardi degli eretici. Ma le mire di Niccolò in quell’area erano ben piú ambiziose e si estendevano verso regni a maggioranza ortodossa come la Serbia e la Bulgaria. Confidava di poterli convertire e, a tal fine, instaurò relazioni diplomatiche con i governanti locali. In particolare intrattenne una fitta corrispondenza con la vedova dell’ex imperatore serbo Uroš I, Elena, che era una cattolica fervente. La stessa Elena sollecitò l’evangelizzazione della Chiesa di Roma nel proprio regno, dove governava insieme ai figli, promettendo di adoperarsi per convincere anche i vicini sovrani di Bulgaria ad abbandonare il cristianesimo di rito greco. Sul fronte degli affari interni ecclesiastici Niccolò fu un autentico riformatore. Di notevole impatto istituzionale si rivelarono le sue bolle del 1289: la Coelestis altitudo e la Supra montem. La prima stabiliva che metà del census riscosso dal pontefice fosse devoluto al collegio dei cardinali, segnando in modo inequivocabile la crescita politica dei porporati nella gerarchia ecclesiastica. La disposizione ebbe in seguito effetti controproducenti per i papi, che si trovarono a fronteggiare collegi cardinalizi sempre piú potenti. La seconda bolla, invece, rappresentava un metaforico ritorno alle origini per il pontefice, che forní la sua interpretazione normativa sulla questione dei laici penitenziali francescani. Il papa intendeva stemperare le conclusioni troppo punitive nei loro riguardi formulate dal Concilio di Lione II. Secondo Niccolò l’obbligo imposto ai penitenziali di entrare nella Chiesa non poteva tradursi soltanto in una forma di controllo del pontefice su una libera espressione di spiritualità, ma avrebbe dovuto sancire una forma di interazione tra clero e popolo. I penitenti, al pari dei religiosi, potevano quindi affermarsi come modelli di perfetti cristiani senza preclusioni di sorta.

Una Chiesa piú «democratica»

Attraverso la Supra montem, Niccolò voleva dare voce alla sfiducia diffusasi a livello popolare verso i vertici ecclesiastici, valorizzando il ruolo di chi operava dal basso. La stessa visione non gerarchica e assolutista della Chiesa venne in seguito ripresa dal suo successore, Celestino V,

MEDIOEVO

agosto

l’ultimo a teorizzare la centralità del ruolo dei fedeli e di una santità alla portata di tutti. Dopo il pontefice del «grande rifiuto», si affermò di nuovo una concezione ierocratica della Chiesa che aprí la strada al cesaropapismo avignonese. Il teologo francescano Ubertino da Casale definí i pontefici dopo Celestino «anticristi mistici», riportando una tradizione che esaltava, invece, il profilo divino di Pietro del Morrone e del suo predecessore Girolamo da Ascoli: «Alcuni dicono che dal papa Niccolò IV un angelo ricevette il potere di sommo pontefice, per trasmetterlo a coloro che seguono lo spirito della povertà evangelica». L’angelo, ovviamente, era Celestino V. La statura morale di Niccolò fu riconosciuta anche da Dante Alighieri, che non lo collocò all’Inferno come fece, al contrario, con la maggior parte dei papi eletti prima e dopo di lui, accusati di simonia. Niccolò IV fu anche il papa del mecenatismo artistico, al pari del piú celebrato Sisto V. Nei pochi anni del suo pontificato commissionò opere architettoniche e numerosi restauri, soprattutto a Roma. I principali interventi riguardarono due basiliche dell’Urbe, S. Maria Maggiore e S. Giovanni in Laterano. Quest’ultima rivestiva un valore simbolico per Niccolò, in quanto era la chiesa che san Francesco sosteneva sulle proprie spalle nel sogno di Innocenzo III. Di entrambe la basiliche il papa di Ascoli ampliò l’abside e inserí il transetto. Accanto a S. Maria Maggiore fece costruire un palazzo utilizzato spesso nei soggiorni romani e nel quale morí il 4 aprile del 1292. Niccolò, inoltre, diede il via ai lavori per l’edificazione del duomo di Orvieto e ricostruí la città di Cagli, situata oggi nella provincia di Pesaro e Urbino. Per sua iniziativa sorsero anche alcune prestigiose università: Montpellier, in Francia, Ascoli Piceno e Macerata. F

Da leggere U Enrico Menestò (a cura di), Niccolò IV: un pontificato

tra Oriente e Occidente. Atti del convegno internazionale di studi in occasione del VII centenario del pontificato di Niccolò IV (Ascoli Piceno, 14-17 dicembre 1989), Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1991 U Giacinto Cantalamessa Carboni, Memorie intorno i letterati e gli artisti della città di Ascoli nel Piceno, Luigi Cardi, Ascoli 1830; reperibile anche in rete U Luigi Marra, I sommi pontefici nati nelle Marche (1003-1878) e il loro tempo, Aras Edizioni, Fano 2011 U Franz Xaver Seppelt, Storia dei Papi, Edizioni Mediterranee, Roma 1962-64 U Claudio Rendina, I papi. Storia e segreti, Newton Compton, Roma 1999

53


immaginario mostri

«Ma che piedi

grandi che hai...» di Domenico Sebastiani

Creature terrificanti e demoniache oppure fantastiche e amate da Dio? L’idea che, in qualche terra remota, si trovassero esseri mostruosi e deformi ha sempre esercitato un fascino speciale sull’uomo. Per rendersene conto, è sufficiente passare in rassegna i numerosi riferimenti presenti nella letteratura e nelle arti figurative già dall’antichità. Ma cosa accadde quando le prime esplorazioni geografiche aprirono le porte dei confini del mondo conosciuto? I popoli meravigliosi, illustrazione su pergamena tratta dal Livre des merveilles du Monde. 1410-12 circa, Parigi, Bibliothèque nationale. Nell’immagine si possono riconoscere un Acefalo (privo di testa), uno Sciapode (con un unico enorme piede) e un Arimaspo (con un unico occhio al centro della fronte).

54

agosto

MEDIOEVO


A A

cefali privi di testa; Astomori che hanno un foro al posto della bocca e si nutrono con una cannuccia; Astomi privi di bocca e che si nutrono di odori; Arimaspi con un solo occhio al centro della fronte; Panotii dalle enormi orecchie; Antipodi con i piedi rivolti all’indietro; Sciapodi provvisti di un unico enorme piede; Cinocefali dalla testa di cane; e poi Androgini, Pigmei, Giganti..: il mondo medievale è popolato in ogni dove di tali creature fantastiche.

MEDIOEVO

agosto

Il Medioevo, tuttavia, non crea queste razze mostruose, le eredita dal passato. Come ha osservato lo studioso lituano Jurgis Baltrusaitis (1873-1944), i mostri sono vecchi quanto il mondo, che non ha mai smesso di amarli. Anche se atterrito, l’uomo ha un bisogno psicologico del mostruoso proprio per riaffermare la propria normalità e per esorcizzare le sue paure interne. Se ciò è valido in ogni epoca, Jacques Le Goff ci insegna quanta importanza ebbe il senso del «mera-

viglioso» nell’immaginario dell’Età di Mezzo: bisogno di evadere da una realtà dura e monotona e, allo stesso tempo, necessità di ribaltare i valori costituiti. Il Medioevo, quindi, diventa il periodo in cui tutto è possibile. Gli uomini medievali non si ponevano il problema di confutare l’esistenza di razze umane mostruose: perché mettere in dubbio la parola e l’auctoritas degli autori antichi che ne

55


immaginario mostri avevano diffusamente parlato? Perciò mostri e uomini mostruosi esistono, anche se poi in pochi li hanno realmente avvistati. Ma questo è un altro tipo di ragionamento…

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Un medico scrittore

Le umanità mostruose nascono nel mondo classico. La mitologia greca è piena di mostri di ogni tipo, se ne contano circa un centinaio. Con riferimento agli esseri fantastici che popolano l’estremo Oriente occorre rifarsi alle trattazioni dei Greci Ctesia e Megastene, vissuti tra il III e il IV secolo a.C.: il primo, in particolare, medico presso la corte persiana di Artaserse, ci descrive le meraviglie dell’India nell’opera Indika. In ogni caso, nelle trattazioni di tali autori sono già presenti in larga parte le popolazioni mostruose che saranno poi trasmesse alla cultura latina e altomedievale. Roma, infatti, conosce tale universo meraviglioso attraverso la Naturalis historia di Plinio il Vecchio (23-79), il cui atteggiamento nei confronti delle razze mostruose è improntato a curiosità e interesse, nonché attraverso la Chorographia (37-41 d.C.) del geografo Pomponio Mela e le Collectanea rerum memorabilium di Caio Giulio Solino (III secolo). Nel frattempo, anche la Chiesa inizia a interessarsi alle creature mostruose: ne sono testimonianza il De civitate Dei di sant’Agostino (354-430) e opere del genere eremitico, come la Vita Pauli di san Girolamo (347-419). Sulla base di tale tradizione, si diffondono a macchia d’olio gli scritti medievali in cui si parla di mostri e popolazioni mostruose. L’opera fondamentale in materia, alla quale si rifece la maggior parte degli autori, sono le Etymologiae di Isidoro di Siviglia (560636), in cui i mostri umani vengono suddivisi in quattro categorie: mostri individuali, razze mostruose, mostri fittizi e uomini-bestie. Molto piú tardi ebbe un successo enorme l’Imago mundi (1123) di Onorio di Autun, la quale contribuí non poco alla diffusione del patrimonio teratologico. Nel XIII secolo,

56

poi, si affermano le grandi enciclopedie, quali il De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico, il De natura rerum di Tommaso di Cantimprè, lo Speculum maius di Vincent de Beauvais: opere che riservano ampio spazio alla trattazione di animali e uomini mostruosi. Alla diffusione di tale genere contirbuiscono inoltre gli Otia imperalia di Gervasio di Tilbury e la Storia d’Oriente di Jacques de Vitry.

Cinquanta e piú

Occorre dire che le razze umane mostruose, da nove o dieci che erano nei racconti di Ctesia e Megastene, si ampliano nel Medioevo fino ad arrivare a cinquanta circa: questo soprattutto per piccole modifiche e introduzioni, fraintendimenti ed errori dei copisti. Ma, tra le cause di questo moltiplicarsi degli esseri umani fantastici, vi fu senz’altro anche l’estremo fascino che il «mo-

struoso» esercitava sull’immaginario dell’uomo medievale. Le razze mostruose ponevano ai cristiani del Medioevo vari interrogativi: ci si chiedeva se avessero anima o intelletto, se discendessero da Adamo o meno, se potessero essere convertite alla fede e quale significato potessero rivestire in generale nell’universo cristiano. Una prima linea di pensiero vedeva le popolazioni mostruose con sospetto e ostilità, quali creature dannate e difformi in quanto disobbedienti alla volontà di Dio. Una seconda, prevalente e di cui si fece fautore sant’Agostino, cercò di ricondurle nell’ambito di un disegno divino. Se in un primo momento Agostino, nel De civitate Dei, afferma non troppo chiaramente che gli esseri mostruosi non appartengono al genere umano oppure, se ne fanno parte, sono conseguentemente discendenti di Adamo, successivaagosto

MEDIOEVO


mente si esprime in termini piú positivi. L’ordine del mondo, infatti, è frutto dell’attività divina: tutto ciò che Dio ha creato ha un senso e non può che essere bello, al di là dell’aspetto fisico e delle apparenze. Pertanto, anche la difformità e la mostruosità trovano una giustificazione all’interno della bellezza dell’intero creato, anzi esse aiutano l’uomo (fatto a immagine di Dio) a rendersi conto della propria perfezione. Agostino vede nelle popolazioni mostruose altrettanti potenziali cristiani: egli afferma, infatti, che non è l’aspetto esteriore a identificare il cristiano e qualsiasi creatura dotata di ragione può essere convertita al Verbo. D’altra parte la progressiva accettazione di tali razze da parte della cristianità è attestata anche dall’immaginaria Lettera del Prete Gianni (1165), in cui il sovrano racconta della presenza nel suo regno di una

MEDIOEVO

agosto

A sinistra Parma, Duomo. Capitello con sirene a doppia coda. XII sec. Le «creature umane mostruose» nascono nel mondo classico, ma la loro fortuna è soprattutto nel Medioevo, epoca in cui esercitano un enorme fascino sull’immaginario collettivo. A destra miniature tratte dai Marvels of the East. Metà del’XI sec. Londra, British Library. Le illustrazioni ritraggono un gigantesco essere immaginario dal corpo umano e la testa leonina che, se fugge, suda sangue (in alto) e un gigante intento a nutrirsi di esseri umani (a destra).

57


immaginario mostri

58

agosto

MEDIOEVO


e il Mar Rosso e temuta per le sue incursioni in Egitto. Se nell’antichità gli Acefali venivano collocati in Libia, durante il Medioevo li si cercava in India: quasi sicuramente apocrifa è una fonte rinascimentale miriade di creature umane favolose, che riporta uno scritto di sant’Agole quali tuttavia si comportano da stino che racconta di averli visti perbuoni cristiani. In questa linea di sonalmente durante un suo viaggio pensiero si situano le frequenti rapin Etiopia. presentazioni delle razze mostruose Tale strana figura di razza monell’arte cristiana e la nascita della struosa diede vita a interpretazioni leggenda del cinocefalo che diviene allegoriche: nelle Gesta romanorum, uno dei santi piú popolari, ossia Crigli Acefali simboleggiano gli umili stoforo (vedi box a p. 60). che obbediscono ai comandamenti del cuore, mentre in un manoscritLe razze di Plinio to del XIII secolo vengono accostati Poiché il Medioevo tende a identiagli avvocati, che non hanno la teficare nella natura lo specchio della sta di un uomo conscio dei propri livolontà divina, progressivamente miti, ma sono avidi, con la bocca in anche alcuni Bestiari annoverano, mezzo al ventre. Sul finire del Meaccanto agli animali, alcuni popodioevo, con la scoperta di nuove terli mostruosi. Un esempio ci viene re, gli Acefali cambiano residenza: dalle Gesta romanorum, raccolta di nel XVI secolo vengono spostati in storie anonime composte Angola e nei Caraibi, menin ambiente francescano tre lo scrittore e viaggiatore Le razze mostruose venivano inglese prima del 1342, in Walter Raleigh (1522-1618) cui vengono esaminate, solitamente relegate ai margini ci parla degli Ewaipanoma, con relativa interpretaziopopolazione di acefali che del mondo conosciuto ne morale, sedici razze movivrebbe nell’America mestruose di cui aveva parlato ridionale. Ciò dà luogo alla Plinio il Vecchio. fatti essi non sempre possono con- nascita di una nuova iconografia, Fin dal periodo classico, gli Eu- fermare le notizie, ma non possono dal momento che, di lí in avanti, gli ropei d’Occidente hanno assunto neppure permettersi di smentire le Acefali vennero rappresentati con una visione marcatamente etno- auctoritates. Leggendo le varie opere archi e frecce, immersi in un paecentrica nei confronti delle popola- di viaggio, si vede che esse sono in saggio lussureggiante che richiama zioni mostruose. Dal momento che parte condite di creature meravi- quello del Nuovo Continente. Greci e Romani consideravano se gliose, quasi a voler confermare ciò Esseri composti da corpo umano stessi il centro del mondo, tutto ciò che gli antichi autori avevano nar- e testa di cane, i Cinocefali godono che si allontanava da loro era bolla- rato o, al limite, hanno un atteggia- nel Medioevo di grande notorietà: to come «diverso» e «mostruoso». I mento giustificatorio nei confronti nel De civitate Dei, sant’Agostino inicriteri potevano essere vari: dall’uso della loro assenza in quanto, come zia proprio con loro la sua trattaziodi una lingua diversa all’adozione dice Cardini, «un mostro che non si ne circa la possibilità che esistano di altre abitudini alimentari, fino trova non è mai un mostro che non razze umane mostruose. Piú tardi all’abominio dell’antropofagia, di- esiste: è, semplicemente, un mostro il teologo Ratramno di Corbie (IX scrimine tra esseri umani e bestie. che abita piú lontano». secolo), nell’Epystola de Cynocephalis, Normalmente, le razze mostruose riconosce loro natura umana, advenivano relegate ai margini del Uomini senza testa ducendo quale prova che san Crimondo conosciuto, in India o Etio- La mitologia di una popolazione stoforo appartenesse a tale genere. pia, e gli esseri mostruosi incorni- priva di testa, ma con occhi, bocca Anche l’arte religiosa si interessa e ciati in paesaggi selvaggi come de- e naso sul torace è antichissima: in rappresenta i Cinocefali, come nel serti, monti e foreste, rappresentati Grecia ne parlava Erodoto, ma no- caso del timpano di Vézelay (vedi nella loro nudità, sia per evidenziar- tizie simili si ritrovano anche nella box a p. 62). ne le difformità fisiche che la vici- Cina del III secolo. I Romani idenCitata per la prima volta da tificarono gli Acefali con i Blemmii, Esiodo, tale razza fantastica ci vienanza con la condizione ferina. Nel Medioevo la visione etno- popolazione realmente esistente ne descritta da Ctesia. Secondo la centrica si trasforma e diventa di di razza etiope, stanziata tra il Nilo tradizione greca di probabile origiHieronymus Bosch, Tentazioni di Sant’Antonio. 1500 circa. Madrid, Museo del Prado. L’artista olandese ambienta la scena in un paesaggio popolato da numerose creature mostruose.

MEDIOEVO

agosto

tipo teologico: centro del mondo è Gerusalemme, città santa e cristiana, pertanto piú ci si allontana da essa, maggiore è la probabilità di poter trovare creature fantastiche o difformi. A partire dalla tarda antichità, con la divisione del mondo in fasce climatiche, si affermano teorie secondo le quali zone terrestri particolarmente dense di umidità favorirebbero l’insorgere di nascite mostruose, ma le strane razze vengono collocate anche nelle regioni fredde del Nord, dove nessun uomo normale può sopravvivere. Tali popolazioni vengono generalmente collocate nel favoloso e misterioso Oriente, una sorta di mondo alla rovescia, come il Paese di Cuccagna, luogo in cui l’uomo medievale proietta sogni e prodigi. Mano a mano che esploratori e missionari si recano in Asia, la geografia del mostruoso si sposta: in-

59


immaginario mostri San Cristoforo

Quel bambino pesantissimo... La cristianità annovera un santo che è al contempo gigante e mostro: si tratta di Cristoforo, le cui dubbie vicende storiche sono state di gran lunga rielaborate dal mito. Morto probabilmente attorno al 250 in Licia durante le persecuzioni dell’imperatore Decio, le prime notizie scritte sulla sua figura risalgono all’ VIII secolo, mentre un’iscrizione del 452 rinvenuta in Nicomedia parla di una basilica a lui dedicata in Bitinia. Sorto in Oriente, il culto del santo si diffuse nel Medioevo anche in Europa, soprattutto in Austria, Spagna e Dalmazia. Circa le leggende favolistiche nate sul suo conto, si possono individuare due filoni principali. Il primo, diffusosi in Occidente per merito di Jacopo da Varagine (XIII secolo) con la sua Legenda Aurea, vede in Cristoforo un giovane gigante di nome Reprobus il quale mette la sua forza prima al servizio di re e poi del demonio ma, appreso dallo stesso che Cristo è il piú forte di tutti, desidera la conversione. Su consiglio di un eremita, fissa la sua dimora presso un fiume e comincia ad aiutare i pellegrini a passare da una riva all’altra. Un giorno si presenta a lui un bimbo, che lo prega di traghettarlo: il gigante se lo carica in spalla e inizia a camminare, aiutandosi con un bastone. Quella che sembrava un’esile creatura, diventa sempre piú pesante, tanto che Reprobus riesce a stento a terminare la sua missione. Il bambino gli rivela, allora, di essere il Signore e che sulle sue spalle il gigante ha portato non solo il suo peso, ma quello di tutto il mondo. Da questo momento il gigante si converte, riceve il battesimo e passa a chiamarsi Cristoforo, cioè «portatore di Cristo». La variante orientale vede in Cristoforo un guerriero appartenente a una tribú di antropofagi, e «dalla testa di cane», come narrato nella Passio Christophori, risalente al VII secolo. La cinocefalia del personaggio ha indotto alcuni autori, tra cui Gilbert Durand, a vedere nella leggenda l’espressione di un sincretismo culturale molto suggestivo, con l’influsso di elementi della religione egiziana e del dio Anubi (traghettatore dei morti). La leggenda narra anche che il cinocefalo, entrato nelle fila dell’esercito romano e convertitosi al cristianesimo, iniziò una fervente attività di propaganda presso i suoi commilitoni, fino a essere denunziato e condotto al martirio. Come evidenzia lo studioso Vignolo, Cristoforo diventa protettore contro la «cattiva morte», quella che arriva improvvisamente senza lasciare alla vittima il tempo di confessare i propri peccati. Per questo lo stesso diventa il santo patrono dei viaggiatori, i piú esposti a tale pericolo, e riafferma il ruolo ctoniofunerario proprio del suo antenato egizio. Anche nell’iconografia, san Cristoforo è rappresentato nella sua duplicità: Hieronymus Bosch e Cock lo dipingono come gigante mentre porta sulle spalle Gesú o il globo terrestre, mentre icone bizantine, fino al XVII secolo, lo presentano nella veste di mostruoso cinocefalo. San Cristoforo con testa canina, in una icona da Cerepovec (Russia). XVII sec. Il teologo Ratramno di Corbie (IX sec.) sostenne che il santo protettore dei viaggiatori era un cinocefalo e sulla base di tale convinzione postulò la natura umana di simili creature.

60

agosto

MEDIOEVO


ne siriana, le terre dell’India erano popolate dagli hémikunes («metà cani») o kunoképhaloi («teste di cane»), i quali sono caratterizzati innanzitutto dal fatto di comunicare tra loro abbaiando, ovvero con segni delle mani. Come hanno evidenziato diversi studiosi, la comunicazione bestiale mette in discussione il modello culturale antropocentrico della civiltà greca, nella quale il linguaggio è l’attributo dell’essere umano e barbaro è colui che non è in grado di gestire il lògos. Ctesia aggiunge ai Cinocefali altre caratteristiche: mangiano alimenti crudi riscaldati al sole, non usano letti ma giacigli di foglie secche, hanno relazioni sessuali a quattro zampe, sono considerati dikàioi («giusti») e vivono fino a 200 anni. Nell’Occidente cristiano medievale l’interpretazione dei Cinocefali appare ambivalente: a volte «sono descritti come un terribile popolo guerriero, a volte come genti mostruose si, ma pacifiche e dedite al commercio» (Paolo Vignolo), in bilico tra esseri il cui aspetto bestiale è riflesso di comportamenti contro natura e creature profondamente

sagge. Baltrusaitis mostra come nel Medioevo, alla fonte greca si sovrapponga quella delle leggende tartare e cinesi.

I figli dei lupi

Nel XIII secolo l’Europa deve fronteggiare le invasioni dei Mongoli, che arrivano a minacciare Vienna: popolo, questo, di cui si sa poco o nulla, per cui, quando la sua espansione si ferma, iniziano i viaggi per conoscere meglio i regni che si trovano al di là del Caucaso. Si scopre cosí l’esistenza di un «reame dei Cani», menzionato nella Storia dei Chou, mentre gli Annali delle Cinque Dinastie (907-960) descrivono questo paese, i cui abitanti cinocefali parlano abbaiando. D’altronde i Mongoli si consideravano «figli dei lupi» e a queste

tradizioni asiatiche si riallacciano le creature descritte dagli esploratori del periodo. Nell’immaginario europeo le armate di Gengis Khan vengono accomunate ad altri popoli venuti dalle steppe (Sciti, Goti e Vandali): tutti barbari invasori che si esprimono in lingue gutturali simili all’abbaiare dei Cinocefali. Con il nome di Panotii (da pan, tutto e othi, orecchi), si indicano uomini che hanno orecchie talmente enormi che ne utilizzano una per giaciglio e l’altra per coperta. Di carattere molto pauroso, secondo alcune fonti userebbero tali orecchie anche per fuggire in volo all’arrivo di qualcuno. Il genere mostruoso dei Panotii deriva probabilmente da quelli che Ctesia denominava Pandae, esseri dotati di diverse anomalie (polidattilia, capelli bianchi

Uno Sciapode si riposa facendosi ombra con la pianta del suo unico ed enorme piede, dal Registrum Hujus Operis Libri Cronicarum cum Figuris et Imagibus ab Inicio Mundi di Hartmann Schedel. 1493. Londra, British Library. Nel Medioevo gli Sciapodi furono i mostri antropomorfi piú popolari e rappresentati.

MEDIOEVO

agosto

61


immaginario mostri alla nascita), una delle quali, quella delle orecchie, fu isolata per dar vita a una razza specifica. Il Medioevo ereditò la figura degli uomini dalle grandi orecchie ma, a differenza di altre popolazioni mostruose, essi ebbero minore diffusione. Secondo il medievista francese Claude Lecouteux ciò andrebbe attribuito a due cause principali: l’assenza di tale razza nel De Civitate Dei di sant’Agostino, e la mancanza di una vera «mostruosità» capace di generare reale terrore. Grande, invece, è la fortuna degli Sciapodi. Secondo alcuni autori vi sarebbe un stretta correlazione a livello morfologico ed etimologico tra antipodi e sciapodi: con il primo termine si intendevano, originariamente, gli abitanti che popolavano l’altra faccia del pianeta terra, luogo simmetricamente opposto a quello conosciuto, una specie di anti-mondo, dove tutto avviene alla rovescia.

Otto dita per piede

Successivamente si verificò un fenomeno curioso, forse anche per un errore di trascrizione di qualche copista: gli antipodi (letteralmente «contro-piedi») si trasformano in individui che presentano delle malformazioni agli arti inferiori. Isidoro di Siviglia, per esempio, li descrive come un popolo che vive in Libia, con i piedi invertiti rispetto alle gambe e con otto dita per piede. Gli Sciapodi sono invece rappresentati nell’iconografia a testa in giú, mentre riposano riparandosi dal sole con la pianta dell’unico enorme piede. Se infatti skia in greco significa ombra, skia-podoi sono coloro i quali si fanno ombra con il proprio piede. Plinio, in verità, li chiamava anche Monocoli, ossia con una sola gamba (da monocolus), anche se per questo venivano spesso confusi con la razza dei Ciclopi o degli uomini da un solo occhio (da monoculus). Se a parlare di Sciapodi fu originariamente Filostrato di Tiro

62

la cattedrale di vézelay

Anche i Pigmei discendono da Adamo La chiesa di Sainte-Madeleine a Vézelay (Borgogna), costruita attorno al 1050, era uno dei luoghi considerati piú sacri sulla rotta dei pellegrinaggi verso la Terra Santa. Qui, probabilmente, i pellegrini si fermavano in visita prima della partenza. Sopra il portale centrale del nartece, la lunetta (realizzata tra la prima e la seconda crociata), rappresenta il Cristo nell’atto di inviare gli Apostoli a predicare nel mondo. Sotto tale scena, si possono riconoscere le razze dei Pigmei e dei Panotii, mentre ai lati di Gesú abbiamo gli Etiopi e i Cinocefali. I Pigmei sono rappresentati mentre montano a cavallo con una scala, mentre i Panotii in una dimensione intima e familiare: ci sono il padre, la madre e il figlio, avvolti nelle enormi orecchie, semichiuse come fossero le ali di un insetto. Gli Etiopi, ai quali gli antichi attribuivano un naso appiattito, in questo caso presentano un naso di maiale. Infine vi sono, immancabili, i Cinocefali, gli uomini con la testa di cane. Le decorazioni di Vézelay sono il caso piú eclatante (ma non l’unico) di rappresentazione di razze umane fantastiche e mostruose nell’arte cristiana, a dimostrazione della loro accettazione da parte del mondo medievale e prova che, in quanto discendenti da Adamo, le stesse possono essere convertite.

Vezélay (Borgogna). La lunetta che sormonta il portone centrale del nartece della basilica di Sainte-Madeleine. XI sec. Nella scena centrale è raffigurato Cristo assiso in trono, nell’atto di inviare gli Apostoli a predicare nel mondo. A conferma dell’universalità della Parola di Dio per tutte le genti e per tutte le razze, sotto la scena sono rappresentati i Pigmei, intenti a salire a cavallo con una scala, e i Panotii, colti in una scena familiare. Ai lati si vedono Etiopi e Cinocefali.

agosto

MEDIOEVO


MEDIOEVO

agosto

63


immaginario mostri Ciclopedi e Chin-chin

Gli inventori del brindisi? Giovanni da Pian del Carpine (1182-1252) racconta che nel deserto dell’Armenia ci sono i Ciclopedi, con un solo braccio in mezzo al petto e un solo piede. Avere un solo braccio è un problema, soprattutto per tirare con l’arco, non invece l’avere un solo piede, dato che essi corrono piú veloci dei cavalli. Quando sono stanchi, poi, si appoggiano sul piede e sul braccio e, formando con il corpo un cerchio, ruzzolano a velocità vertiginosa. Lo stesso frate, notizia questa confermata da Guglielmo di Rubruck (1220-1293), riporta che nelle terre dei Tartari, a sud di Omyl, vivrebbero in caverne inaccessibili uomini piccolissimi e coperti di pelo. Privi di giunture alle gambe, avanzano saltellando e, se

cadono, sono incapaci di rialzarsi da soli, tanto che sono costretti a dormire in piedi. Il loro nome, «Chin-chin», dipende dal fatto che, per catturarli, c’è un metodo infallibile, consistente nel far scorrere birra, di cui sono ghiotti, nelle fenditure della roccia. Allora tali esseri escono dai nascondigli e bevono gridando «Chin! Chin!». Una volta ubriachi, vengono facilmente immobilizzati. Questo perché i cacciatori estraggono dal loro collo delle gocce di sangue essenziali per la colorazione della porpora. Lo storico Duccio Balestracci, citando il racconto circa tali curiosi nanetti, si domanda ironicamente se il rituale del «brindisi» odierno derivi da tale fantasioso episodio.

Hieronymus Bosch, particolare di un’altra versione delle Tentazioni di Sant’Antonio. 1490 circa, Madrid, Museo del Prado. Nell’immagine si vede un mostro antropomorfo, ricoperto da una corazza, intento a rovesciare un liquido da una brocca. Guglielmo di Rubruck racconta che nelle terre dei Tartari viveva un popolo di uomini piccolissimi e pelosi, detti Chin-chin, che potevano essere catturati facendoli ubriacare con birra fatta scorrere nelle fenditure della roccia.

64


(217 circa), la leggenda, attraverso Ctesia, Plinio e Solino, passò al mondo medievale. Alla raffigurazione tradizionale dell’uomo che saltella velocissimo su una sola gamba e che, per riposarsi, si stende facendosi ombra con il piede, si aggiunge il particolare introdotto da sant’Agostino (ripreso poi dal Liber monstrorum) secondo il quale lo Sciapode ha ginocchia rigide e non può piegarle, essendo prive di articolazione. Lo Sciapode è forse il mostro antropomorfico medievale che gode di maggiore simpatia e, pertanto, di popolarità. Si ritrova in lettere, trattati, romanzi, miniature, sculture e carte geografiche, si può pensare al mappamondo di Burgo de Osma dell’XI secolo, in cui la rappresentazione degli antipodi è dominata dalla figura di uno Sciapode, testa in giú e gambe all’aria. Le razze mostruose, nate ben prima del Medioevo, non muoiono con la fine del Medioevo. Dopo i viaggi di Cristoforo Colombo e le nuove scoperte geografiche, l’attenzione si sposta dall’Africa e dall’India verso il Nuovo Mondo. Si assiste Particolare di una stampa settecentesca raffigurante un’«Arpia, mostro vivente che fu trovato e catturato sulle rive del lago di Fagua (...) in America Meridionale». Parigi, Musée Carnavalet.

MEDIOEVO

agosto

al declino graduale di tali popolazioni fantastiche, che gli esploratori peraltro cercano nelle nuove terre, rimanendo delusi dal fatto di non trovarle. Colombo, nel momento in cui incontra nel 1492 gli abitanti della Guyana, si stupisce del fatto che non siano mostruosi, ma anzi dotati di notevole bellezza fisica sulla base dei canoni europei.

Il mito del selvaggio

Il mito delle razze mostruose si trasforma cosí prima in quello dell’uomo selvaggio, completamente nudo e coperto di peli, metà umano e metà animale, che confluirà nella figura dell’aborigeno americano. In tal caso il persistere del concetto di «alterità» e di «mostruoso» si estrinseca nell’attribuzione alle popolazioni delle nuove terre dei tratti dell’antropofagia e del cannibalismo. Durante il Rinascimento e oltre si assiste invece a un fenomeno strano: se il Medioevo, con tutte le sue superstizioni, aveva fatto riconfluire le popolazioni mostruose nell’alveo della cristianità, l’Umanesimo, paradossalmente, rivaluta il concetto di mostro come portentum, come segno divino e presagio, di solito funesto. Tra il Cinquecento e inizio Seicento medici, scienziati e dotti continuano a mostrare curiosità e interesse per creature mostruose e deformi. Si

possono citare le opere Des monstres tant terrestres que marins avec leurs portrais (1573) di Ambroise Parè, il De monstrorum causis natura et differentiis (1616) di Fortunio Liceti, fino alla Monstrorum historia di Ulisse Aldrovandi (1522-1605), nella quale l’autore raccoglie (attingendo a fonti antiche, medievali e contemporanee) tutto quanto si possa sapere sulle mostruosità, senza una volontà di seria verifica delle notizie riportate. Ci si può stupire, ma fino a un certo punto. Come ha osservato Sara Sebenico, i mostri non cessano di esistere, ma si trasformano e si adattano alle varie epoche: non è forse vero che anche oggi si organizzano spedizioni per scandagliare i fondali del lago scozzese di Loch Ness o per esplorare le regioni dell’Himalaya alla ricerca di antichi mostri preistorici o dell’abominevole uomo delle nevi? F

Da leggere U Sara Sebenico, I mostri

dell’Occidente medievale: fonti e diffusione di razze umane mostruose, ibridi e animali fantastici, Università degli Studi di Trieste, Trieste 2005; reperibile anche in rete U Paolo Vignolo, Cannibali, giganti e selvaggi. Creature mostruose del Nuovo Mondo, Bruno Mondadori, Milano 2009 U Duccio Balestracci, Terre ignote strana gente. Storie di viaggiatori medievali, Laterza, Roma-Bari 2008 U Umberto Eco, Storia della bellezza-Storia della bruttezza, Bompiani, Milano 2007 U Jacques Le Goff, Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale, Laterza, Roma-Bari 1983 U Franco Porsia (a cura di), Liber monstrorum, Dedalo, Bari 1976 U Jurgis Baltrusaitis, Il medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, Adelphi, Milano 1993

65


costume e societĂ giardini e frutteti

Ciliegie di cittĂ e altre storie di Maria Paola Zanoboni

66

agosto

MEDIOEVO


Prima era l’hortus conclusus, isolato e tipicamente agricolo. Poi il giardino diviene parte integrante del paesaggio architettonico, secondo lo spirito razionalista del XV secolo, ma non solo: all’interno delle mura cittadine si diffonde la coltivazione degli alberi da frutto, promossa con veri e propri «incentivi». E a gestirne la produzione è una categoria di imprenditori specializzati, i «fruttaroli»

L L

a definizione di hortus conclusus designava il giardino medievale circondato da alte mura, un luogo privato, staccato e isolato dal contesto urbano, agricolo e produttivo, destinato al riposo, agli ozi e alle meditazioni dei proprietari e alle feste con gli amici. Con Filarete (al secolo Antonio Averlino; 1400 circa-1469 circa), e soprattutto con Leon Battista Alberti (1404-1472), si assiste al passaggio definitivo dall’hortus medievale al giardino impostato con razionalità architettonica, in cui il rapporto tra edificio e verde ornamentale viene definito in modo rigoroso. Il vecchio orto-giardino recintato lascia il posto a un ambiente ricco di fontane, statue, acque. Se nell’hortus conclusus non c’era alcun tipo di costrizione per le piante, a eccezione della disposizione simmetrica delle aiuole, con alberi da frutto nella duplice funzione ornamentale e alimentare, nel Rinascimento, invece, severissima fu la distinzione tra le specie vegetali, con l’eliminazione di quelle che non si prestavano all’uso architettonico finalizzato a una razionale definizione dello spazio verde. Queste idee furono riprese da Bramante e Raffaello per i giardini di Roma, nella progettazione dei quali (rispettivamente tra il 1503 e 1514 e tra il 1516 e il 1523) è ormai evidente l’inaccettabilità di una concezione del giardino come autonomo accostamento decorativo alla casa o al palazzo, quale era l’hortus conclusus, sostituita invece da una fusione organica tra architettura e verde, in cui il rapporto tra spazi architettonici interni ed esterni costituisce un tema unitario. Da questo campo di sperimentazione nasce l’invenzione delle terraz-

Giardino del Paradiso, tempera su tavola del Maestro di Oberrheinischer. 1415 circa. Francoforte sul Meno, Stadelsches Kunstinstitut. Al centro di un giardino fiorito cinto da alte mura, la Vergine legge un libro d’ore, in compagnia di san Giorgio, san Michele Arcangelo, san Sebastiano e le Pie Donne, una delle quali ritratta nell’atto di cogliere frutti da un albero.

MEDIOEVO

agosto

67


costume e società giardini e frutteti ze degradanti, già anticipate dal Filarete nel progetto delle sua città immaginaria. Ugualmente, nel trattato intitolato Hypnerotomachia Poliphili, scritto nel 1467 dal domenicano Francesco Colonna, al concetto medievale dell’«hortus» si sostituisce l’idea di una composizione che incornicia e inquadra la natura entro schemi preordinati: nascono le prospettive, i viali delimitati da statue, le scale, i giardini pensili, i ripiani terrazzati.

Pesche e prugne metropolitane

Innumerevoli spazi verdi erano compresi all’interno della cinta muraria della Milano medievale: il suo primo vero parco fu il vastissimo brolo dell’arcivescovo o brolo di S. Ambrogio, che si stendeva dal palazzo vescovile fino alle chiese di S. Nazaro e S. Stefano; era recintato e adibito alla caccia. Il «Viridarium», o Verziere, che costituiva il giardino privato dell’arcivescovo, occupava invece l’attuale piazza Fontana. Con i Visconti in particolare (XIII-XV secolo), i giardini cominciarono ad avere largo sviluppo, ne erano ornati il palazzo di Azzone, quello di Bernabò presso S. Giovanni in Conca (piazza Missori), dotato di vivai con piante esotiche, e la maggior parte dei castelli viscontei e sforzeschi (oltre a quello di Milano, i castelli di Abbiategrasso, Trezzo, Cusago, Pandino, e l’immenso parco del castello di Pavia voluto da Galeazzo II nel Trecento). Alla fine del XV secolo, durante il suo soggiorno nel capoluogo lombardo, persino Leonardo da Vin-

68

A destra pianta topografico-prospettica di Milano di Antonio Lafrèry. 1573. Tra il XIII e il XV sec., ma soprattutto nel 1400, nella cinta muraria della città erano comprese molte zone verdi, tra cui veri e propri frutteti. In basso la raccolta degli spinaci, in una miniatura tratta dal Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

ci contribuí alla creazione di nuovi giardini progettando, tra S. Babila e porta Venezia, una villa per ospitare Carlo d’Amboise (governatore del ducato per conto del re di Francia Luigi XII): un mulino di sua invenzione avrebbe irrigato le piante protette in serre; pomarance e cedri sarebbero stati coltivati all’aperto e mantenuti in vita sfruttando il sistema naturale dei fontanili che, come egli stesso ebbe a dire, «riscaldano le radici di tutte le piante». Anche i frutteti veri e propri caratterizzavano ampie aree all’interno delle mura cittadine, soprattutto nel Quattrocento. La loro produzione, abbondante e svariata, comprendeva in gran quantità persino i prodotti piú deperibili (ciliegie, pesche, prugne, nespole, albicocche, uva da tavola), e quelli difficili da ottenere nell’Italia del Nord (meloni e fichi). La coltivazione di alberi da frutto veniva incentivata dai contratti di affitto dell’epoca, che spesso prevedevano ingenti diminuzioni del canone per ogni nuova pianta messa a dimora. La necessità di proteggere dai furti una merce pregiata e l’esigenza di situare la produzione in prossimità dei luoghi di mercato, sia per minimizzare i costi di trasporto, sia per garantire la freschezza di un prodotto altamente deperibile, motivavano la netta tendenza a stabilire i frutteti all’interno della cinta muraria, rilevabile a Milano come a Palermo. Le dimensioni dei frutteti milanesi variavano dai 5/6000 mq dei piú piccoli ai 130 000 dell’enorme proprietà della famiglia Borromeo chiamata «Gentilino», situata ai margini della città in una zona particolarmente ricca di acqua, e nella quale crescevano centinaia di peschi, peri, ciliegi, amareni, pruni, meli e noccioli, oltre ad alcuni noci e fichi. La produzione, abbondantissima (i documenti coevi parlano di oltre 3 t di ciliegie per un solo imprenditore) e apprezzata da tutti i ceti sociali (compresa la corte ducale), veniva controllata da imprenditori specializzati designati come «fruttaroli», che gestivano tutto il ciclo agosto

MEDIOEVO


produttivo, dalla coltivazione degli alberi (concimazione, innesti, potature), alla raccolta dei frutti e al loro smercio sui banchi situati nelle principali piazze cittadine. La pratica piú diffusa tra questi commercianti era quella di prendere in affitto le sole piante dai monasteri o dalle famiglie nobiliari proprietarie dei terreni.

La coltivazione dei meloni

Spesso i fruttaroli agivano in società per garantirsi una gamma qualitativa piú ampia e un piú vasto mercato: prendevano allora in affitto, contemporaneamente, le piante di numerosi giardini, in modo da garantirsi un afflusso di derrate costante e vario, nel quale erano talvolta compresi, sorprendentemente, persino i meloni, non facili da ottenere in un clima come quello dell’Italia del Nord. Nel XV e XVI secolo se ne tentò la produzione persino in Francia, con espedienti, documentati dai trattati dell’epoca, come quello di affrettarne la crescita piantando i semi verso il 10 di marzo in fosse piene di letame, e coprendoli con foglie o con stuoie e tavole da

MEDIOEVO

agosto

rimuovere o meno a seconda delle avversità climatiche. Questi appunto erano i consigli del medico parigino Charles Estienne (1504-1564), autore di un ampio trattato sull’agricoltura (1536). Interessante, a questo proposito, è il fatto che il materiale organico necessario alla coltivazione degli alberi da frutto provenisse sia dalle case private, sia, soprattutto, dalle taverne e dalle locande cittadine, come illustrato in molti documenti milanesi per la fornitura e il trasporto «cum plaustro et bobus» («con carro e buoi») di tutto il letame prodotto in un determinato albergo, tanto piú abbondante in quanto le locande erano dotate di stalle per il ricovero dei cavalli degli avventori. La fornitura era effettuata attraverso la cessione a mediatori dell’intera produzione di letame ottenuta in una taverna durante un determinato periodo, letame che veniva ammucchiato nel cortile della locanda e poi trasportato con carri trainati da buoi fino al terreno da coltivare. A Milano era notevole anche il consumo di agrumi, non prodotti in loco (fatta eccezione per qualche

69


costume e societĂ giardini e frutteti

Trescore Balneario (BG), Cappella di Villa Suardi. Scena di mercato, particolare di un affresco dalle Storie di Santa Barbara di Lorenzo Lotto. 1524.

70

agosto

MEDIOEVO


caso di coltivazione in vaso destinata all’autoconsumo), ma importati dalla Liguria da mercanti specializzati, che trattavano contemporaneamente anche altri generi alimentari provenienti dalla Riviera, come il pesce salato. Durante il XV secolo si cominciarono a impiantare coltivazioni di agrumi sul lago di Garda, nelle limonaie, costruite sulle rive piú soleggiate. Nel Quattrocento il consumo di agrumi era notevole anche a Roma dove si importavano in un anno fino a 5430,78 q di arance atte a sostituire i prodotti di prima necessità nei periodi di carestia. La produzione di frutta in ambito cittadino fu dunque una pratica assai diffusa a Milano durante tutto il Quattrocento, raggiungendo, nella seconda metà del secolo, livelli di specializzazione notevoli, che portarono talvolta a coltivazioni, per cosí dire, «intensive», soprattutto di frutta altamente deperibile. Esistevano, è vero, piccoli appezzamenti con poche piante destiLa raccolta dei meloni, in un’altra miniatura tratta dal Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

MEDIOEVO

agosto

frutticoltura a milano

Castagne, nocciole, marroni... Già il Liber datii mercantie communis Mediolani (cioè il registro del dazio) menziona castagne, nocciole, marroni, pomae citronae et limoni et pomi cedri, pomae granatae, pomae cotoneae, perae, testimoniando il consumo di questi frutti già durante il Trecento. Nel 1413 l’Ufficio di Provvisione si premurò di stabilire i prezzi della frutta: l’elenco ci mostra una gamma tipologica e qualitativa molto ampia, in cui erano comprese more, meliache (albicocche), fichi, uva, pesche, nespole, giuggioli, meloni e numerose varietà di pere, mele e prugne (pere moscatelle, cioè dolci, pere «giazola», pere zuccherine moscatelle, pere d’estate, pere di qualsiasi specie; mele «ravasia», cioè rosse, grandi, estive, mele poppine, mele «verdexia» moscatelle, cioè verdi dolci, mele «paravixana», cioè bislunghe, di colore giallognolo, mele roggie, mele di qualsiasi qualità; prugne «dalmassine» (cioè di Damasco), prugne d’agosto, prugne bianche grosse, prugne asinine, prugne di qualsiasi specie.

71


costume e società giardini e frutteti

nati probabilmente all’autoconsumo, ma sembrerebbe decisamente prevalere la produzione su «scala industriale» delegata perlopiú dai proprietari dei fondi a produttori specializzati, in grado di provvedere alla concimazione, alla potatura, all’impianto di nuovi alberi e allo smercio del prodotto, direttamente o attraverso la mediazione di altri commercianti specializzati. I capitali assorbiti da questo settore dovevano risultare tutt’altro che trascurabili.

Il caso di Palermo

Una diffusione di frutteti all’interno dell’area cittadina analoga a quella di Milano è stata riscontrata, in ambito climatico completamente diverso, da Henri Bresc a Palermo, sulla base dell’abbondantissima documentazione notarile da lui reperita per quella città per il periodo 1290-1460: «una struttura della proprietà alquanto concentrata, che non lascia se non uno spazio molto ridotto al giardino familiare o coltivato direttamente dal proprietario. Funzionando per il mercato, il giardino palermitano costituisce un’impresa che esige dei capitali, dei coltivatori specializzati e una gestione rigorosa». In un ambito geografico pur cosí diverso, l’organizzazione produttiva e commerciale in questo settore presenta dunque molti punti di contatto con quella lombarda, e forse non è un caso che molti jardinarii lombardi (lavoratori specializzati divenuti imprenditori col passare del tempo) fossero presenti nella città. Analogamente a quanto avveniva a Milano, anche a Palermo i proprietari dei terreni non si occupavano mai direttamente dei frutteti, cedendoli piuttosto in lo-

72

In alto miniatura raffigurante la potatura degli alberi. XIII sec. Madrid, Biblioteca del Monasterio del Escorial. Il ciclo produttivo era controllato da imprenditori specializzati, i «fruttaroli», dalla coltivazione degli alberi (concimazione, innesti, potature), alla raccolta dei frutti e alla loro vendita. A destra le ciliegie in una miniatura tratta anch’essa dal Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

agosto

MEDIOEVO


Norme e contratti

Controversie sotto l’albero Secondo i giuristi, oggetto del tipo di contratto consistente nella locazione dei soli alberi potevano essere sia le piante boschive che quelle coltivate, tra le quali prevaleva l’ulivo, mentre la vite ne era sempre esclusa. La proprietà degli alberi separata da quella del suolo si diffuse in Italia, con particolare riferimento all’ulivo, a partire dalla rinascita economica dell’XI secolo, quando, con l’aumento della richiesta e del valore dei terreni coltivabili, si dovettero cercare accomodamenti che permettessero a ciascuno, con spesa non eccessiva, di avere assicurato l’olio per la propria famiglia. Solo cosí può spiegarsi, sempre secondo gli esperti di diritto, il sorgere di un istituto che in tempi normali urterebbe con le esigenze dell’agricoltura, interferendo con il pieno dominio del suolo. Motivi simili devono aver determinato la nascita di questo fenomeno anche per altre specie di alberi. Il dominus dell’albero aveva il diritto di possesso, di godimento, e di alienazione o trasmissione agli eredi. In particolare, aveva la facoltà di entrare nel fondo altrui, raccogliere il frutto, coltivare la terra intorno all’albero (quella corrispondente alla sua chioma), tenere nel fondo animali per il trasporto dei frutti o del legno potato, innestare i polloni che fossero spuntati dalle radici. Questo tipo di locazione generava non pochi problemi, dando origine facilmente a litigi a causa dei danni che il proprietario del terreno poteva involontariamente provocare agli alberi coltivando il fondo, o viceversa che il superficiario poteva arrecare alle colture del proprietario. Il terreno poi, per le servitú impostegli, non si prestava piú a quelle coltivazioni che si potevano ottenere sul fondo chiuso: si sarebbe ridotto perciò sia il valore degli alberi, sia quello del suolo. cazione a imprenditori specializzati dotati di capitali (i «gabellotti» e gli jardinarii, spesso associati fra loro). Soprattutto dopo il 1380, quando il calo demografico conseguente alla pestilenza delle metà del Trecento cominciava a far sentire i suoi effetti, con un drastico calo della manodopera, unito a un cospicuo aumento delle retribuzioni, i proprietari dei giardini palermitani e circostanti la città ricorsero ad alcuni stratagemmi per evitare di dover versare compensi sempre piú alti ai giardinieri specializzati.

MEDIOEVO

agosto

73


costume e società giardini e frutteti In primo luogo, per i lavori piú semplici, cominciarono a reclutare i bambini, che venivano retribuiti con vitto, alloggio, vestiario e un modesto compenso forfettario in denaro. In secondo luogo, costituivano con i giardinieri società di cui il proprietario del fondo rappresentava il socio di capitale, e il gestore dell’impresa costituiva il socio d’opera. Guadagni e perdite sarebbero stati ripartiti proporzionalmente tra le parti. Si evitava cosí di dover versare al giardiniere un salario e lo si coinvolgeva nella gestione dell’impresa, esonerando al tempo stesso il proprietario del fondo dall’apportare il capitale mobile (sementi, riparazioni, spese per la manovalanza), e riversando tutti i costi sul gabellotto, che avrebbe provveduto a innaffiare, concimare, potare gli alberi, tagliare quelli morti e sostituirli con nuovi, occuparsi delle riparazioni e della pulitura di canali e acquedotti. Se il giardiniere non disponeva dei capitali per svolgere tutte queste operazioni, ricorreva a sua volta a un contratto societario con un altro giardiniere, oppure vendeva la frutta ancora sulla pianta a mercanti specializzati che si sarebbero incaricati del raccolto, anticipando al gabellotto il pagamento della frutta. A sua volta, anche il giardiniere cercava di evitare i rapporti di lavoro salariato, sostituendo l’assunzione della manovalanza che gli necessitava con contratti societari che camuffavano la condizione del lavoratore coinvolgendolo nella gestione dell’impresa. Giardinieri e gabellotti rappresentavano, insomma, l’indispensabile tramite tra la proprietà della terra e il lavoro. Personaggi rispettati, apportavano il proprio capitale o quello proveniente da un prestito, trattavano direttamente con i nobili, arbitravano i conflitti interni al mondo dei giardinieri, e talvolta erano protagonisti di un’ascesa sociale che li portava a entrare nei ranghi della nobiltà municipale. Naturalmente la varietà e la tipologia dei prodotti coltivati a Palermo tra il XIV e il XV secolo (quando non sembra vi fossero particolari problemi di approvvigionamento idrico) era molto piú ampia di quella delle regioni settentrionali. Noci, fichi, mele cotogne, pere, pesche, albicocche, uva da tavola, melagrane, fragole, e soprattutto meloni, mandorle, datteri, e agrumi di ogni tipo ricorrono in continuazione nei contratti d’affitto dei frutteti palermitani Sia in città che nella pianura palermitana, il giardino si presentava all’epoca come uno spazio chiuso e difeso contro le incursioni di ladri e cacciatori. Molti contratti di affitto prevedevano anzi che contadini e viticoltori dovessero dormire nell’orto o nella vigna all’epoca del

74

raccolto per scongiurare i furti, e numerosi erano i provvedimenti dell’autorità pubblica in proposito, e i procedimenti giudiziari per danni alle colture provocati da uomini o animali. La protezione delle colture si intensificò dopo il 1360, e in particolare dagli anni Venti del Quattrocento, quando la massiccia diffusione della canna da zucchero, la cui coltivazione richiedeva ingenti capitali, grandi quantità di acqua, e personale agricolo e industriale numeroso, spinse i nuovi imprenditori palermitani a esercitare un ferreo controllo sulle aree destinate alla «canna del miele» che in quegli anni era divenuta la principale ricchezza di Palermo.

Gli agrumi

Diffusa in Liguria, e in particolare nella zona di Sanremo e del golfo di Rapallo, a partire almeno dal XII secolo, la coltura degli agrumi poteva annoverare già in quell’epoca tipologie piuttosto varie, comprendenti limoni (la cui diffusione avvenne forse in seguito alle crociate), cedri, arance amare e pomarance (con frutto leggermente piú dolce). L’arancio dolce vero e proprio (detto anche «portogallo»), invece, sarebbe comparso in Europa – come si è ritenuto a lungo – soltanto verso la metà del Cinquecento, in seguito alla circumnavigazione del continente africano da parte dei Portoghesi e all’apertura della rotta marittima per le Indie, da dove fu importato anche il chinotto o «arancio della Cina». Documentazione recente anticipa però di un secolo la diffusione dell’arancio dolce, attestato in Sicilia verso il 1487, e in Liguria probabilmente già nel 1435. La produzione ligure di agrumi aveva un tale successo, che nel Quattrocento questi venivano esportati a Roma per imbandire la tavola della corte papale, e quelli sanremesi in particolare venivano acquistati da Tedeschi, Francesi, Polacchi, Fiamminghi, e dagli Israeliti per usi liturgici. Nel 1395 un produttore di Sanremo si impegnò a rifornire il mercato di Avignone di 40/60 000 arance nel periodo quaresimale, e nel corso del Quattrocento le esportazioni verso la Linguadoca e la Provenza crebbero a dismisura tanto che il porto di Marsiglia divenne un vero e proprio centro di ridistribuzione degli agrumi liguri, mantenendo tale ruolo per tutta l’età moderna. La normativa delle città liguri nel XV secolo (e in particolare quella sanremese) comminava aspre sanCromolitografia raffigurante un limone imperiale, ibrido tra limone e pompelmo. La coltivazione degli agrumi era diffusa in Liguria almeno dal XII sec. e annoverava limoni, cedri, arance amare e pomarance, mentre l’arancio dolce è attestato in Liguria dal 1435 e in Sicilia verso il 1487. agosto

MEDIOEVO


Da leggere U Henri Bresc, Les jardins de Palerme

(1290-1460), in Mélange de l’École Française de Rome. Moyen AgeTemps Modernes, 84, 1972, I; pp. 55-127 U Henri Bresc, I giardini di Palermo, Provincia Regionale di Palermo, Biblioteca Istituto di Formazione Politica Pedro Arrupe-Centro Studi Sociali, Palermo 2005. U Maria Paola Zanoboni, Frutta e fruttaroli nella Milano sforzesca, in Archivio Storico Lombardo, CXXIII (1997); pp.117-151; ora anche in Rinascimento sforzesco. Produzioni tecniche, arte e società nella Milano del secondo Quattrocento, CUEM, Milano 2005; pp. 233-272 U Paola Lanaro, Produzione e commercializzazione degli agrumi di area gardesana, in Barbara Garofani, Ugo Gherner (a cura di), La cucina medievale tra lontananza e riproducibilità, Fondazione Torino Musei, Torino 2006; pp. 142 ss. U Irma Naso (a cura di), Le parole della frutta. Storia, saperi, immagini tra medioevo ed età contemporanea (atti del convegno tenutosi a Torino il 21 e 22 novembre 2011), Silvio Zamorani Editore, Torino 2012 Issogne (Aosta), castello. Scena di mercato, particolare di un affresco attribuito al Maestro Colin (o Magister Collinus). Fine del XV-inizi del XVI sec.

zioni per chi fosse stato sorpreso a rubare agrumi o a danneggiare i frutteti, prevedendone al tempo stesso la coltivazione in aree recintate e adeguatamente protette, e proibendo a chiunque di entrare in un agrumeto senza il benestare del proprietario. La raccolta dei frutti – stabilivano sempre gli statuti sanremesi – era di competenza e sotto la responsabilità del proprietario dell’agrumeto: doveva perciò avvenire sotto la sua stretta sorveglianza, ed essere effettuata da persone di provata fiducia e competenza. A tale scopo, all’inizio del Cinquecento, venne istituito un gruppo ufficiale di raccoglitori, che, ottenuto il beneplacito del proprietario del fondo, provvedevano a effettuare il lavoro in qualità di pubblici dipendenti , ai quali soltanto veniva conferita l’autorizzazione a passare da un agrumeto all’altro, lavorando dal levar del sole al tramonto, fino all’adempimento degli obblighi derivanti dal contratto stipulato tra il venditore e il compratore.

MEDIOEVO

agosto

Gli agrumeti erano presenti, naturalmente, anche nell’Italia meridionale e insulare: oltre che in Sicilia, erano diffusi in Puglia e in Sardegna, anche in questo caso con cedri, limoni, aranci amari, e, a partire dal XV secolo, aranci dal frutto dolce. In Sicilia tutte queste varietà ornavano giardini e frutteti delle residenze nobiliari; in Sardegna, fin dal Duecento, i monasteri diedero un impulso determinante alla diffusione di questa coltura, e nello stesso periodo gli agrumi consolidarono la loro presenza sulla costiera amalfitana: ad Amalfi agrumeti adeguatamente protetti e ben irrigati esistevano già nel XIII secolo, mentre colture specializzate fecero la loro comparsa anche in Puglia nel tardo Medioevo. Nell’Italia centrale (Lazio e Toscana) invece, sporadiche attestazioni della presenza di questa coltivazione in orti, giardini e serre (ma non in frutteti specializzati) si rilevano solo dalla tarda Età di Mezzo, con lo scopo, evidentemente, di rifornire le tavole dei ceti piú abbienti. Solo alla fine del Medioevo, invece, risalgono le prime testimonianze della coltivazione di agrumi (limoni in particolare) nel Settentrione della Penisola, sul lago di Garda, nella zona di Salò. F

75



di Federico Canaccini

Il 28 ottobre del 1268, un processo sommario segnava l’epilogo della breve avventura del giovane sovrano, ponendo fine alle ambizioni sveve sull’Italia. Per secoli, artisti e poeti, tra cui Dante, hanno subíto il fascino del racconto della trionfale discesa verso il Mezzogiorno dell’erede di Federico II, delle sue illusioni e dello scontro con il nuovo re di Sicilia, Carlo I d’Angiò… Illustrazione novecentesca raffigurante l’esecuzione di Corradino di Svevia e di Federico di Baden. La drammatica scena si svolge sulla piazza del Mercato di Napoli, il 29 ottobre 1268, e coglie l’attimo in cui il boia cala la scure sul giovanissimo sovrano svevo, davanti al quale, trattenuto da un soldato, si vede Federico di Baden, che verrà giustiziato subito dopo il cugino.

CORRADINO di SVEVIA, L’ultimo degli Hohenstaufen


Dossier

I I

l 13 dicembre 1250 moriva l’imperatore Federico II di Svevia. Timoroso di un presagio in cui gli era stata vaticinata la morte sotto il simbolo del fiore, sub flore, aveva per questo sempre evitato Firenze. Ora, l’ultimo grande imperatore d’Occidente si spegneva in Puglia, presso un castello dal nome inequivocabile: Castel Fiorentino. Il titolo passava legittimamente a suo figlio, Corrado IV, al quale, nel 1252, la moglie Elisabetta di Baviera assicurava discendenza dando alla luce un maschio, Corrado V, meglio conosciuto in Italia con il nome di Corradino di Svevia. Ma, come attestava la propaganda pontificia e guelfa, la casa sveva era maledetta. A soli due anni, infatti, Corradino perse il padre, colpito da una febbre misteriosa. Si diffuse addirittura una voce che accusava il fratellastro di Corrado IV, Manfredi, di averlo avvelenato. Corradino crebbe cosí a Wassenburg e Dachau, accudito dalla madre, che si risposò nel 1259 con il conte Mainardo di Gorizia. Il piccolo trascorse l’infanzia assieme al cugino Federico di Baden, detto Senza Terra, ultimo discendente dei Badenberg. Crebbero insieme, praticamente coetanei, tra la poesia e i canti dei trovatori, tanto che Salimbene de Adam (1221-dopo il

ascesa e caduta

1287) scrisse di Corradino: «litteratus iuvenis fuit et Latinis verbis optime loquebatur». Elisabetta di Baviera cercò di tenere lontano Corradino dai rischi della guerra e della politica. Ma, raggiunta l’adolescenza, il giovane svevo, intuí presto che l’effimero trono di Gerusalemme e lo stesso ducato di Svevia, ridotto a ben poca cosa, non valevano a trattenerlo dallo scendere nel Mezzogiorno a recuperare il regno di Sicilia, occupato, dopo la disfatta di Manfredi a Benevento, da Carlo d’Angiò.

1250 Muore Federico II. 1252 Nasce Corrado V, detto «Corradino». 1254 Muore Corrado IV. Manfredi è re di Sicilia. 1260 Battaglia di Montaperti. 1262 Prima curia di Corradino a Ulm. 1265 Clemente IV invita Carlo I d’Angiò in qualità di re di Sicilia. 1266 Manfredi è sconfitto e ucciso a Benevento. 1268 Corradino viene scomunicato. Sceso in Italia, è sconfitto a Tagliacozzo da Carlo d’Angiò e decapitato a Napoli.

Il regno usurpato

Forse i suoi sogni di giovane lo avrebbero ancora appagato per qualche tempo, ma i ghibellini d’Italia lo stimolarono a tal punto che, probabilmente, i tempi vennero rapidamente bruciati. Corradino, forse, voleva anche rivendicare quel regno che gli era stato sottratto con l’inganno da Manfredi, figlio di seconde nozze di Federico II. Costui infatti, dopo la morte di Corrado IV, aveva fatto circolare ad arte, nel regno di Sicilia, la falsa notizia della morte di Corradino, proclamandosi di conseguenza legittimo sovrano. Dopo tale nomina, Manfredi conseguí in Italia alcuni grandi successi, e con lui i ghibellini d’Italia.

Ma si trattò di affermazioni venate da una contraddizione interna: a chi appoggiava Manfredi, ormai insediatosi a Palermo, si opponevano quanti reclamavano la legittimità di Corradino. Nel 1260 un’ambasciata proveniente dalla Germania si era recata dal papa, lamentando l’usurpazione del regno da parte di

la discendenza di federico II Federico II = (1) Costanza d’Aragona († 1222) (2) lolanda (o Isabella) di Brienne († 1228) (3) Isabella d’Inghilterra († 1241) discendenti illegittimi

(1)

Enrico (VII) 1220-1242

(2)

Corrado IV re di Sicilia 1250

Corradino

(3)

Margherita sposa Alberto langravio di Turingia

1252-1268

Federico «de Stuffa» † 1323

78

(3)

Enrico II (Carlotto)

(Bianca Lancia d’Agliano) Manfredi † 1266

(?) Violante sposa Riccardo conte di Caserta

(Adelaide d’Urslingen)

(?)

(Maria/Matilda d’Antiochia)

Fedrico di Pettorano

Enzo

Federico d’Antiochia sposa Margherita di Poli

† 1272

sposa Adelasia di Sardegna

agosto

MEDIOEVO


Corradino di Svevia, in una miniatura del Codice Manesse, una collezione di ballate e componimenti poetici redatta a Zurigo tra il 1300 e il 1340. Heildeberg, Biblioteca dell’Università. Il giovane sovrano, che è incluso nella raccolta perché fu anche autore di due canzoni a tema amoroso, è ritratto mentre pratica la caccia con il falcone, uno «sport» molto in voga tra la nobiltà nel Medioevo.

79


Dossier Carlo I d’Angiò

Brama di potere Figlio di Luigi VIII di Francia, Carlo I d’Angiò nacque nel 1226. Ebbe le contee del Maine e dell’Anjou dal fratello, Luigi IX, e, dalla moglie, quella di Provenza (1246); ulteriori ampliamenti territoriali gli vennero dalla guerra di Fiandra (124756). Ottenuta la corona di Sicilia (1266), scese in Italia e sconfisse Manfredi a Benevento (1266); due anni dopo, a Tagliacozzo, vinse Corradino. Diede quindi il via a un’ambiziosa politica estera: all’imperatore bizantino Michele VIII tolse Corfú, Valona, Durazzo e si attribuí il titolo di re d’Albania (1272), mentre da Maria d’Antiochia ebbe il titolo di re di Gerusalemme (1277). Le spese per sostenere tale politica (il predominio sul Mediterraneo), la sua esosità, il suo dispotismo provocarono la rivolta dei Vespri Siciliani (1282). In aiuto dei Siciliani accorse Pietro III d’Aragona e Carlo I morí nel 1285, mentre cercava di impedire la conquista dell’isola da parte del sovrano aragonese. (red.)

80

agosto

MEDIOEVO


A sinistra e nella pagina accanto Pernes les Fontaines, Tour Ferrande. Due particolari del ciclo pittorico che narra la conquista della Sicilia da parte di Carlo I d’Angiò: il combattimento tra un cavaliere francese e Manfredi re di Sicilia (o la morte di Manfredi; qui accanto); l’incoronazione del sovrano angioino, che, in realtà, non fu consacrato re da papa Clemente IV, ma da cinque cardinali da lui incaricati. XIII sec.

Manfredi, nei confronti del quale era montato l’odio sia del pontefice, sia del rampollo svevo, rappresentato nell’occasione dai cavalieri Konrad Kropf von Flüglingen e Corrado Bussaro. Nel ritorno in patria, i due ricevettero l’offerta di aiuto dei guelfi toscani, interessati, piú che alla legittimità di Corradino, alla lotta contro Manfredi e, anche alla luce di simili episodi, Firenze organizzò una missione per allettare il giovane svevo a scendere in Italia. Il giudice e notaio Guglielmo Beroardi si sarebbe dovuto recare in Baviera, da Corradino, ma, lungo il tragitto, gli fu riferita la notizia della disfatta fiorentina consumatasi presso Montaperti, dove, come scrisse poi Dante nella Divina Commedia, «lo strazio e ‘l grande scempio» resero l’Arbia colorata in rosso. Il 4 settembre del 1260, infatti, l’esercito ghibellino, composto da Senesi, da diversi fuoriusciti fiorentini e da soldati tedeschi inviati da Manfredi, annientò dopo una sanguinosa giornata, l’esercito guelfo che si dirigeva a Montalcino, stretta d’assedio, per rifornirla. Nel

MEDIOEVO

agosto

1261, dopo che i guelfi toscani patirono l’esilio per opera dei ghibellini appoggiati da Manfredi, Corradino fu precipitosamente raggiunto da un’ambasciata guelfa che gli chiedeva un intervento contro l’usurpatore, una sua discesa in Italia oppure l’invio di un contingente in aiuto di Lucca, isolata in una Toscana ora fedele a Manfredi.

La mantellina in pegno

La risposta del giovane duca di Svevia fu gentile e condiscendente: Corradino, infatti, aderiva alla Lega creata per contrastare Manfredi e i ghibellini; ma non si faceva accenno alcuno all’invio di truppe nell’immediato. Del resto le risorse finanziarie del giovane duca di Svevia non erano particolarmente brillanti. I guelfi gli chiesero comunque la sua «mantellina di vaio» (animale simile allo scoiattolo, n.d.r.) come pegno e che fu mostrata a Lucca come una reliquia. Quando però Corradino scese in Italia, proprio Lucca, salda roccaforte guelfa e filoangioina, gli oppose resistenza. Poco piú di un anno dopo, all’età

di undici anni, Corradino celebrò la sua prima curia, a Ulm, per la Pentecoste, il 28 maggio del 1262. In Italia, però, il governo ghibellino e re Manfredi non riuscirono a contrastare la progressiva rinascita degli antagonisti, capeggiati da Carlo d’Angiò, chiamato dal papa. A Benevento il 26 febbraio del 1266 Manfredi, si gettò nella mischia, presago del suo destino. Due anni soltanto lo separavano dal fato di Corradino. A infrangere le speranze imperiali in Italia fu dunque uno dei sovrani piú cinici e freddi dell’epoca: il fratello del futuro santo Luigi IX, Carlo I d’Angiò, che, di fatto, si trasformò nello strumento con cui la Chiesa eliminò alla radice il problema svevo dalla Penisola, aprendo però la via alla pesante dominazione angioina. I ghibellini italiani, ancora frastornati e dispersi dopo la disfatta di Benevento, si riorganizzarono nel tentativo di cacciare il nuovo signore francese. Re Enzo, figlio di Federico II, languiva in catene a Bologna, né potevano alcunché i figli di Manfredi che, seppur infanti, fu-

81


Dossier rono rinchiusi da Carlo in una tanto regale quanto eterna prigione: Castel del Monte, in Puglia.

Il sogno di Corradino

I maggiori esponenti del ghibellinismo italiano si ricordarono allora di quel Corradino, tradito da Manfredi e da loro stessi anni prima. Molti di loro avevano servito re Manfredi ed erano scampati alla strage nella piana di Grandella, presso Benevento. Presero perciò la

82

via di Germania Pietro da Prezza, i fratelli Capece, Galvano Lancia, Corrado di Antiochia e il nobile Manfredi Maletta. Nel settembre del 1266 il conte Guido Novello, podestà di Firenze, che aveva combattuto e vinto a Montaperti, confidando sulle positive notizie che giungevano da Ulm, rinnovò la Lega Ghibellina. Ambasciatori provenienti da Pisa, Verona, Palermo giunsero in Baviera ad allettare con le loro profferte l’aquilotto sve-

vo. La vista di quei nobili italiani che gli rendevano omaggio in ginocchio e gli offrivano doni, «come i re magi al futuro Cristo re» – scrisse il cronista Saba Malaspina (attivo nel XIII secolo) – evocò in Corradino le terre calde del Sud, gli eserciti trionfanti dell’avo Federico. All’entusiasmo di Corradino si unirono lo zio Ludovico, il patrigno Mainardo e altri nobili. Si diffuse ben presto in Italia la voce che Corradino avesse tenuto ad Augu-

agosto

MEDIOEVO


sta un grande Consiglio di Corte, convocando tutti i signori tedeschi, per preparare la spedizione italiana. Quale vicario del senatore di Roma, Enrico di Castiglia, giunse ad Augusta Guido da Montefeltro. Ma già il 18 novembre fu intentato un primo processo ecclesiastico contro Corradino, sceso in Italia nel settembre del 1267. Allorché le voci circa il disegno di Corradino si fecero però piú insistenti, nella primavera del 1268 il papa, sollecitato anche dalle

L’omaggio allo Svevo dei nobili italiani evocò quello dei Magi per il futuro Cristo re Miniatura raffigurante Corradino che riceve l’ordine di Clemente IV di non combattere contro Carlo I d’Angiò, da un’edizione illustrata della Nuova cronica di Giovanni Villani redatta tra il 1350 e il 1375. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana. Il giovane sovrano, seduto su uno scranno e privo di ogni insegna, riceve i due messi pontifici che gli consegnano la lettera con cui il papa gli ordina di desistere dal proposito di conquistare il regno di Sicilia, pena la scomunica.

MEDIOEVO

agosto

crescenti intemperanze dei ghibellini toscani, scomunicò Corradino e i suoi fautori e pose sotto interdetto le città di San Miniato e Poggibonsi che, contro il suo volere, avevano accolto messi e partigiani del giovane svevo. Ma la scintilla aveva ormai acceso l’incendio in tutta Italia: Corrado Capece, tornato dalla Svevia, emanò in suo nome proclami presso Pisa; contemporaneamente, la ribellione si estese anche nel Mezzogiorno. Capece, giunto a Tunisi grazie ai Pisani, convinse Federico di Castiglia a sbarcare, con alcune centinaia di armati, a Sciacca. Ai primi di settembre del 1267 gran parte dell’isola insorse e Carlo d’Angiò, ora occupato a mantenere l’ordine nel suo regno, non poté piú recarsi nel Nord Italia per bloccare la discesa del giovane svevo che, giorno dopo giorno, sembrava accrescere il proprio ascendente. Roma, fino a poco tempo prima fedele a Carlo, cadde nelle mani di Enrico di Castiglia, cugino del re francese. Tra i due, però, non correva buon sangue, a motivo di un ingente debito di denaro mai saldato da Carlo.

La discesa in Italia

Nel settembre del 1267, Corradino partí dalla Baviera per dirigersi verso l’Italia. Scendeva nel Mezzogiorno per recuperare un regno strappatogli da un usurpatore che in ciò aveva avuto anche la ratifica pontificia. Il rischio, infatti, che il Patrimonium Petri venisse stritolato tra Toscana e Regno di Sicilia era troppo grande. Prima della partenza, pronunciò un discorso redatto ad arte dal notaio Pietro da Prezza, in cui rivendicava, con lo stile pomposo proprio della cancelleria del regnum, i suoi diritti di sovrano. Lo seguivano uno stuolo di parenti e amici: lo zio Ludwig, conte del Reno, il patrigno Mainardo, conte del Tirolo, il coppiere Konrad von Limpurg, Konrad von Frundsberg, Rodolfo d’Asburgo e Alberto di Neiffen. Dal punto di vista militare, aveva un ruolo di primaria

importanza l’anziano maresciallo Kropf von Flüglingen. In testa allo schieramento si posero Corradino e Federico di Baden, figlio del conte Ermanno, anch’egli orfano e giovanissimo, pretendente alla corona d’Austria e legato al cugino da un’amicizia profondissima. Attraversando l’Alto Adige e la Val d’Isarco, l’esercito giunse in Italia, dove fu accolto da Mastino della Scala. Il cronista fiorentino Giovanni Villani ci informa sulle dimensioni di questo esercito: «il seguirono infino a Verona presso a diecimila uomini a cavallo e a ronzino» (Nuova Cronica; salvo diversa indicazione, dalla stessa opera sono tratte anche le altre citazioni contenute nel testo, n.d.r.). Era il 21 ottobre del 1267 e Verona accolse questo giovane biondo come un liberatore. Si unirono a lui i ghibellini di Lombardia, capeggiati da Oberto Pelavicino e Buoso da Dovara. Effettivamente, però, di questo enorme stuolo di armati, nel gennaio dell’anno seguente rimasero accanto a Corradino non piú di 3500 uomini a cavallo, seppur scelti «de’ migliori cavalieri tedeschi». Nel lungo soggiorno a Verona, infatti, la compagine imperiale mostrò la sua fragilità. Per paura della scomunica, che incombeva anche su coloro che appoggiavano Corradino, il quale era da considerarsi esecrando, molti lo abbandonarono. Ciononostante Guido da Montefeltro ratificò a Roma l’alleanza tra l’Urbe e le città della Toscana occupate dai ghibellini. Dopo aver creato il suo entourage, Corradino uscí da Verona per raggiungere l’alleata Pavia. Il cammino attraverso la piana lombarda non era privo di rischi, essendo la zona perlopiú sotto il dominio guelfo. Nei periodo cui il giovane Hohenstaufen si trattenne a Pavia, dalla Puglia giunsero allarmate le truppe angioine, con a capo lo stesso Carlo e Guido di Montfort. Dopo aver conquistato il porto di Motrone (sul litorale di Pietrasanta, Lucca; 2 marzo 1268) e altri porticcioli fortificati, al fine di evitare qualsiasi possibilità di attracco allo Svevo, si

83


Dossier sottomisero in tutta fretta all’angioino, le città toscane di Prato, Lucca, Pistoia e Firenze. L’angioino aveva in mente di portarsi a settentrione e scontrarsi con il giovane rivale. Ma il papa, allarmato dalla crescente tensione nel Mezzogiorno, gli impone di tornare nel Sud e domare la rivolta, lasciando un maresciallo in Toscana. Mentre il papa rinnovava la scomunica, estendendo l’interdetto a Ludwig di Baviera, al patrigno Mainardo e a tutti coloro che seguivano o accoglievano l’Hohenstaufen, Corradino decise la strategia da seguire per raggiungere il regno avito. Il 22 marzo, lasciata Pavia assieme a cinquecento cavalieri, a cui si erano unite truppe fornite dal Pelavicino, raggiunse la Liguria: «arrivò di là da Saona, alla piaggia di Varagine e quivi entrò in mare, e per la forza de’ Genovesi, con loro navilio di 25 galee passò per mare a Pisa». Il grosso dell’esercito fece invece ritorno a Pavia, sotto la guida di Federico di Baden. I due si ritrovarono poi a Pisa allorché, attraverso la Lunigiana, anche il grosso della cavalleria raggiunse il porto ghibellino.

Primi successi militari

L’accoglienza riservatagli dalle città toscane colpí la fantasia di Corradino. Egli rivide i fasti del nonno, il grande Federico. Sbarcato a Pisa il 7 aprile, di Sabato Santo, si trattenne in città sino al 15 giugno, coprendosi di onori e ricevendo sostanziosi aiuti dalle città toscane. Inoltre ricevette gli ambasciatori provenienti da Roma, che lo invitarono in Campidoglio, dove lo attendevano il conte Galvano, il senatore Enrico di Castiglia e Guido da Montefeltro. In luglio una flotta, approntata per l’occasione, fece quindi vela verso Napoli: l’intento era quello di fomentare la rivolta nella Terra di Lavoro e in Calabria, dove le città si erano in larga parte schierate contro Carlo d’Angiò. Ai primi di giugno del 1268 l’esercito svevo puntò su Lucca, passata alla parte angioina dopo aver subíto un lungo assedio, e

84

nella quale si era asserragliato il maresciallo Guglielmo di Braiselve con 500 cavalieri francesi, stipendiati dalla Lega Guelfa e incoraggiati da alcuni predicatori che tratteggiavano Corradino come il novello Anticristo. Contro l’esercito del giovane Hohenstaufen, infatti,

si presentarono novelli crociati, soprattutto fiorentini, che si dichiararono pronti a cacciare l’emissario di Satana dall’Italia, da poco posta nelle mani di Carlo d’Angiò per volontà del papa, in qualità di difensore della Chiesa. (segue a p. 88) agosto

MEDIOEVO


Roma. Veduta del Foro Romano. In secondo piano, il Colosseo e la chiesa di S. Francesca Romana, nota anche come S. Maria Nova al Foro Romano.

A destra pianta di Roma realizzata da Georg Braun e Franz Hogenberg per il Civitates Orbis Terrarum, atlante in sei volumi pubblicato a Colonia tra il 1572 e il 1617. Nel settembre 1267, mentre Corradino partiva dalla Baviera per recarsi in Italia, gran parte della Penisola si ribello all’Angiò. Roma cadde nelle mani di Enrico di Castiglia che ne divenne senatore e invitò lo Svevo a recarsi in Campidoglio.

MEDIOEVO

agosto

Corradino giunse a Roma dopo la vittoriosa battaglia di Ponte a Valle, accolto trionfalmente da Guido di Montefeltro.

85


Dossier Passo della Cisa Passo della Cisa

Varazze Varazze

Genova Genova

Pontremoli Pontremoli Pistoia Pistoia Lucca Lucca

Firenze Firenze

Pisa Pisa Poggibonsi Poggibonsi Siena Siena Colle Colle

A sinistra ancora due miniature tratte da un’edizione illustrata della Nuova cronica di Giovanni Villani redatta tra il 1350 e il 1375. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana. La prima, in alto, raffigura la sconfitta di Giovanni di Braiselve, maresciallo di Carlo I, nella battaglia di Ponte a Valle presso Laterina il 25 giugno 1268; nella seconda si vede l’esercito di Corradino partito da Roma e in marcia verso il Sud Italia, attraverso le montagne abruzzesi.

86

agosto

MEDIOEVO


Il campanile e la cupola della cattedrale di S. Maria Assunta, Duomo di Siena. Qui Corradino, nel giugno 1268, offrí alla Vergine un panno di seta come ringraziamento per il fastoso trionfo tributatogli dalla città.

Ponte PonteaaValle Valle Ponte a Valle Arezzo Arezzo Arezzo 25 25giugno giugno1268 1268 25 giugno 1268

Buonconvento Buonconvento Buonconvento

Bolsena Bolsena Bolsena

Viterbo Viterbo Viterbo

TAGLIACOZZO TAGLIACOZZO TAGLIACOZZO 23 23agosto agosto1268 121268 12 Tivoli Tivoli Tivoli

23 agosto 1268 12

Roma Roma Roma

Disegno che ricostruisce le tappe della discesa in Italia di Corradino di Svevia, nonché il suo tentativo di fuga, all’indomani della sconfitta patita a Tagliacozzo, conclusosi con la cattura ad Astura. Il percorso marittimo tratteggiato in verde si riferisce all’itinerario della flotta che il Comune di Pisa armò per sostenere lo Svevo e della quale affidò il comando al nobile Guido Bocci e al rappresentante del re, Federico Lancia.

MEDIOEVO

agosto

Astura Astura Astura


Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Corradino lasciò quindi Pisa per fare marcia verso Siena, dove si trattenne fino a metà luglio. Il Comune senese gli aveva già in precedenza dimostrato il suo favore, inviandogli 5000 once d’oro per sostenere il suo esercito. Ma quando Corradino varcò la porta della città dovette certamente restare stupito per il trionfo allestito in suo onore. Ancor prima di entrare infatti il re si vide venire incontro il Carroccio, trainato da due tori ammantati di rosso, cosí come erano vestiti di manti purpurei i conducenti. Sul carro, simbolo della città, troneggiavano due aquile dorate, sistemate per l’occasione. Varcata poi una delle porte della città di Siena, le cinque trombe del Comune squillarono, accompagnate dal rullio dei tamburi, e, mentre dai balconi venivano gettati fiori e ghirlande, i Ventiquattro, i magistrati della città, anch’essi inghirlandati, lo accolsero. Il giovane svevo, sotto un baldacchino tessuto in candida seta, faceva rivivere i fasti di un passato re-

88

cente e, recatosi in Duomo, offrí immediatamente alla Vergine un panno di seta come ringraziamento.

Il segnale convenuto

Il contingente lasciato da Carlo a Lucca si era frattanto spostato presso Firenze, dove si trattenne fino al giorno del patrono, il 24 giugno. In quella data, forse dopo aver appreso dell’arrivo dello Svevo a Siena, i due comandanti francesi, Guglielmo Stendardo e Giovanni di Braiselve, stabilirono di dirigersi verso Arezzo e «impedire li andamenti di Curradino». Conoscendo il carattere infido degli Aretini, e sapendo il rischio che potevano correre attraversando il Valdarno, i Fiorentini li scortarono fino a Montevarchi. La sera del 24 giugno un fuoco, acceso sulla rocca di Monteluco Berardenga, a una ventina di chilometri da Siena, segnalò ai Senesi che i Francesi stavano attraversando il Valdarno. Era il segnale convenuto per attaccare gli Angioini.

Dopo la sosta a Montevarchi, «sentendo il cammino dubbioso e temendo d’aguato per lo contado d’Arezzo», i Fiorentini, capeggiati forse dal conte Guido Guerra e dal vicario reale Isnardo Ugolini, si offrirono di scortare gli 800 cavalieri angioni «infino presso a Arezzo». I Francesi rifiutarono con sdegno l’offerta e il mattino del 25 giugno si inoltrarono, ora soli, nel contado aretino. Nell’Alto Valdarno signoreggiavano due famiglie di sentimenti ghibellini: i Pazzi del Valdarno e gli Ubertini, un membro dei quali, Guglielmino, era vescovo di Arezzo. Il maresciallo Giovanni di Braiselve stabilí che sarebbe passato per primo Guglielmo Stendardo con trecento cavalieri, l’avanguardia del contingente. Il percorso era agevole e non presentava ostacoli. Era il momento di far attraversare l’Arno al grosso del contingente angioino. Rassicurato dalla buona riuscita dei compagni, «il maliscalco con 500 cavalieri senza ordine e piú agosto

MEDIOEVO


A sinistra Ponte Scaligero, o di Castelvecchio, a Verona, realizzato tra il 1354 e il 1356. Corradino raggiunse la città veneta, a lui fedele, il 21 ottobre 1267 e vi si trattenne fino all’anno successivo.

La statua di Carlo I d’Angiò (1266-1285), attribuita ad Arnolfo di Cambio. 1275-77. Roma, Musei Capitolini. Figlio di Luigi VIII e di Bianca di Castiglia, Carlo I, signore dell’Angiò, del Maine, della Provenza e di Forcalquier, fu incoronato re di Sicilia il 6 gennaio 1266.

25 giugno 1268,

ponte a valle GUIDO NOVELLO

ubertini

pazzi di valdarno

MEDIOEVO

Sceso in Italia, Corradino di Svevia conseguí una importante vittoria a Ponte a Valle (presso Laterina, nel territorio di Arezzo; vedi anche, in questo numero, l’articolo alle pp. 28-39). Lo Svevo sconfisse l’avanguardia angioina in una battaglia che vide le sue truppe inalberare, tra gli altri, gli stemmi qui riprodotti.

agosto

89


Dossier di sua gente disarmata», si apprestò a raggiungere il Ponte a Valle, presso Laterina (oggi Ponte al Romito). Gli uomini di Corradino, informati infatti «de li andamenti del detto maliscalco erano partiti di Siena» e su consiglio e «per condotta degli Uberti e altri usciti ghibellini di Firenze», avevano raggiunto, cavalcando di notte, l’Alto Valdarno. Li comandavano Federico di Baden, duca d’Austria, il conte Guido Novello, il marchese Pallavicini e Konrad Kropf von Flüglingen, da poco insignito del titolo di Maresciallo dei Tedeschi in

Italia. Presso Laterina si erano riuniti coi fuorusciti fiorentini e con i ghibellini aretini e, nascostisi in un luogo detto Val d’Inferno, una zona ricca di gole e anfratti, attendevano il passaggio dei nemici. Dopo il passaggio di Guglielmo Stendardo, le fila serrate delle truppe ghibelline travolsero quella massa di cavalieri con le spade nel fodero e gli elmi appesi alle selle, «non provveduti e senza gran difesa». Molti Francesi caddero e coloro che riuscirono a fuggire, furono ben presto catturati e condotti a Siena. Lo stes-

Il castello di Torre Astura, struttura costiera fortificata a sud di Anzio, sul litorale pontino, edificata su un isolotto collegato alla terraferma da un ponte. Qui vennero rinchiusi Corradino, Federico di Baden e altri loro alleati scampati alla sconfitta di Tagliacozzo, che avevano tentato la fuga attraverso le paludi a sud di Velletri.

so Giovanni di Braiselve venne fatto prigioniero assieme ad altri cavalieri che furono portati al cospetto di Corradino. Guglielmo Stendardo, invece, riuscí a fuggire, trovando riparo prima presso i Guelfi aretini,


poi presso il Papa, a Viterbo. «E ciò fu il dí dopo la festa di S. Giovanni addí 25 di Giugno li anni di Cristo 1268». Dopo essere giunto a Roma, accolto tra grandi trionfi da Guido da Montefeltro, Corradino decise assieme ai suoi comandanti la via e la strategia per entrare nel regno: considerato che la strada campana era ben protetta nella zona di Ceprano, si optò per entrare nel Regnum dalle terre d’Abruzzo. Imboccata in agosto la via Tiburtina, Corradino giunse, passando «per Ciculi partes», cioè dal Cicolano, nei pressi di Tagliacozzo, dove, il 23 del mese, entrò in contatto visivo con il suo rivale. Sullo svolgimento della battaglia siamo informati abbastanza bene (vedi anche, in questo numero, l’articolo alle pp. 28-39). Dopo una apparente vittoria sveva e dopo che si era addirit-

tura creduto che lo stesso Carlo fosse caduto in battaglia, sull’esercito tedesco piombò un’onda di cavalleria pesante francese, capeggiata da Carlo in persona, rimasto nascosto sino a quel momento, su suggerimento del suo generale Alardo da Valéry, con 800 cavalieri francesi fidatissimi. Per Corradino fu la fine.

L’ultimo viaggio

Alla vista della disfatta, Corradino e i suoi piú intimi fuggirono, percorrendo a ritroso la via appena intrapresa. Il giovane svevo entrava a Roma, dove si era già diffusa la voce della sconfitta. Questa volta nessuna festa accolse il triste drappello e perfino Guido da Montefeltro, vicario del Senatore, non aprí le porte del Campidoglio al giovane fuggiasco e ai suoi, considerando che i guelfi stavano rientrando in città. Gli al-

leati di Corradino organizzarono un piano per fuggire, nella speranza di raggiungere il Meridione, dove la rivolta comunque non si era spenta. Nei giorni seguenti alla battaglia, altri eminenti ghibellini furono catturati e in alcuni casi giustiziati: a Roma fu arrestato il conte da Donoratico, poi consegnato a Carlo; furono messi a morte il camerlengo di Corradino, Tommaso della famiglia di Aquino, e anche l’anziano maresciallo Kropf. L’unico a cui fu risparmiata la vita, oltre al Senatore, fu Corrado di Antiochia. Nel suo castello a Saracinesco, tenuto da sua moglie Beatrice, languivano, infatti, i guelfi romani, che sarebbero stati utilizzati come oggetto di scambio poco tempo dopo. Verso questo maniero si diresse lo sfortunato drappello guidato da Corradino in cerca di riparo


Dossier e tentando di sfuggire alla cattura. Lí si ricongiunse a Galvano Lancia, padre di Beatrice, che vi aveva trovato rifugio a battaglia conclusa.

In fuga verso il mare

Lo sparuto gruppo, senza meta e senza aiuti, si risolse di raggiungere la costa per tentare di imbarcarsi alla volta della Puglia, della Sicilia, o magari dell’alleata Pisa. Le strade del regno erano battute dalle milizie angioine e i fuggiaschi dovettero vagare per le paludi a sud di Velletri, raggiungendo il mare presso Astura. Lí il drappello, ormai ridotto ai pochi intimi di Corradino, trovò un’imbarcazione e, preso il largo, parve che almeno la libertà fosse conseguita. Ma il signore del luogo, Giovanni Frangipane, avendo appreso che alcuni scampati alla disfatta si erano appena imbarcati, li fece inseguire da un rapido naviglio. Il Frangipane agí forse a seguito dei dispacci emessi dal papa e da Carlo all’indomani della battaglia che ordinavano di arrestare tutti i fuggiaschi, forse per interesse privato.

92

Corradino di Svevia e Federico di Baden attendono la sentenza, olio su tela di Johann Heinrich Wilhelm Tischbein. 1785. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage. Carlo I d’Angiò aveva tentato di dare una parvenza di legalità al processo-farsa, chiedendo ai giuristi se i due principi potessero essere considerati aggressori stranieri e colpevoli di lesa maestà, reati per i quali era prevista la morte. Alla risposta affermativa, seguí la condanna come «traditori della corona e nemici di Santa Chiesa».

agosto

MEDIOEVO


MEDIOEVO

agosto

93


Dossier Il mito di Corradino

«Era biondo, era bello, era beato...» La rapida e tragica avventura di Corradino di Svevia, una storia che sembrerebbe piú adatta a un romanzo che non a un reale episodio storico, è stata oggetto di attenzioni da parte di poeti e letterati, di scultori e artisti vari. È in effetti difficile rimanere estranei al pathos dinnanzi alla vicenda dello sfortunato giovane Hohenstaufen. L’Alighieri cantò la figura dell’innocente Corradino nella sua Commedia, in Purg., XX, 66-69: Pontí e Normandia prese e Guascogna. Carlo venne in Italia e, per ammenda, vittima fe’ di Curradino; e poi ripinse al ciel Tommaso, per ammenda.

L’artista danese Bertel Thorvaldsen (1770-1849) poi progettò il ritratto marmoreo del re sedicenne, ma l’opera fu realizzata solo nel 1845 dal monacense Peter Schoepf e quindi sistemata là dove erano stati posti i resti del sovrano, nella chiesa del Carmine. Tra il 1283 e il 1300 la chiesa fu rifatta per una generosa donazione di Elisabetta di Baviera, che volle cosí ricompensare i monaci del Carmelo per aver custodito le spoglie del figlio. L’attuale tomba fu voluta nel 1847 dal principe Massimiliano di Baviera, discendente degli Hohestaufen. In origine il giovane sovrano era stato sepolto dietro l’altare maggiore. Infatti, nel 1646, quando il cardinale Filomarino fece abbassare il pavimento, vennero alla luce, appunto dietro l’altare maggiore, due casse in piombo con i resti di Corradino. Finalmente le spoglie furono tumulate nella base della statua e il 14 maggio 1847 si celebrarono solenni funerali commemorativi. Agli inizi del Novecento fu girato a Napoli anche un film, muto, che è uno dei primi lungometraggi italiani. E fu infine Aleardo Aleardi (1812-1878) a celebrare poeticamente la sfortunata vicenda del giovane re svevo che, come egli scrive nella sua poesia Corradino di Svevia (1863), rimane nel l’immaginario di piú di una generazione come colui che «era biondo, era bello, era beato». Napoli, chiesa di S. Maria del Carmine. Il monumento di Corradino, realizzato da Peter Schoepf nel 1845, su disegno dell’artista danese Bertel Thorvaldsen.

94

Corradino doveva ricordare che la famiglia dei Frangipane era stata in passato beneficiata da suo nonno, il grande Federico. Convinto di poter ricevere aiuto, svelò la propria identità a Giovanni, ignorando però come quegli stessi Frangipane, divenuti ostili a Manfredi, avessero giurato fedeltà al papa. Il signore di Astura, appresa l’identità del giovane, trattenne il drappello nel maniero, in atteagosto

MEDIOEVO


Napoli, Castel dell’Ovo. Trasferiti nella città partenopea in condizioni umilianti, dopo essere stati fatti prigionieri ad Astura e poi consegnati a Carlo d’Angiò a Genazzano, Corradino di Svevia e i suoi fedelissimi trascorsero qui le loro ultime ore prima d’essere giustiziati.

sa degli eventi. Il caso volle che in quei giorni transitasse presso Gaeta l’ammiraglio angioino, Roberto di Laveno, reduce dalla sconfitta subita presso Messina dai Pisani, che attendevano l’arrivo di Corradino.

Nelle mani degli Angioini

Venuto a conoscenza di quanto accaduto ad Astura, Roberto di Laveno ordinò al Frangipane di consegnargli i prigionieri. La voce di una

MEDIOEVO

agosto

simile cattura si sparse in fretta e giunse da Roma anche il cardinale Giordano di Terracina, chiedendo in nome del papa la consegna dei prigionieri, nemici del pontefice, scomunicati e peraltro catturati sul suolo della Chiesa. Il Frangipane cedette alla richiesta degli uomini di Carlo, forse dietro un piú lauto pagamento. Tratti in catene dal fortilizio dei Frangipane, Corradino e i suoi fu-

rono condotti attraverso le paludi pontine sino a Genazzano, dove Carlo I aveva posto il suo quartier generale e poi di lí trasferiti, a circa due ore di cammino, nella rocca di S. Pietro, sopra Palestrina dove già languivano Enrico di Castiglia e Corrado di Antiochia, il conte Galvano Lancia e suo figlio Galeotto. Tra tutti i prigionieri, Carlo detestava in special modo il conte Galvano, zio di Manfredi e padre di Bianca

95


Dossier Lancia, un nemico di vecchia data, giacché aveva servito come generale suo genero. Senza processo, gli uccise sotto gli occhi il figlio Galeotto per poi decapitarlo pubblicamente. Qualche giorno piú tardi Carlo era a Roma e, proclamatosi «Senatore dell’illustre città», prese possesso del Campidoglio, vendutogli da Guido da Montefeltro per 4000 fiorini d’oro. Distribuí quindi numerosi feudi ai Romani di fede guelfa che avevano combattuto per lui, tra i quali spicca il nome di Giovanni Frangipane. Per volontà dello stesso Carlo, molti ghibellini romani catturati a Tagliacozzo furono invece terribilmente mutilati dei piedi, in modo che non potessero piú nuocere. Ma quando al neosenatore fu fatto notare che la vista di quei moncherini non avrebbe fatto altro che risvegliare l’odio, il sovrano li fece rinchiudere in una torre a cui poi diede fuoco. A questo punto l’Angioino partí nuovamente per Palestrina e con il triste corteo di prigionieri si diresse verso Napoli per far eseguire la pubblica condanna di Corradino e dei suoi.

Miniatura raffigurante l’esecuzione di Corradino e dei suoi compagni, da un’edizione illustrata della Nuova cronica di Giovanni Villani redatta tra il 1350 e il 1375. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana.

Nemici della Chiesa

Con un sommario e farsesco processo, lo Svevo e i suoi, sottratti al giudizio ecclesiastico, vennero condannati come «traditori della corona e nemici di Santa Chiesa». Il celebre legislatore Guido da Suzzara aveva preso le difese del giovane sovrano. Ma bastò il voto di uno solo dei giudici, Roberto di Bari – il quale propose la pena capitale –, per decretare la fine di Corradino. L’Angioino doveva sbarazzarsi al piú presto dello Svevo, pretendente al regno. L’azione di Carlo venne tacitamente assecondata dal silenzio di papa Clemente, accusato da alcuni di non aver preteso la consegna di Corradino, in quanto catturato in territorio pontificio da emissari del papa. Il Villani, guelfo convinto, scagionò il pontefice, a distanza di quasi un lustro, affermando che Carlo «ne fu molto ripreso e dal papa e da’suoi cardinali e da chiunque fu savio, perocch’egli avea preso Curradino e’suoi

96

per caso di battaglia, e non per tradimento, e meglio era a tenerlo pregione, che farlo morire». E ancora proseguí, chiosando, a giustificazione di Clemente, contro cui dovette levarsi piú di una rimostranza: «E chi disse che’l papa l’assentí: ma non ci diamo fede, perchè era tenuto santo uomo». Sulla attuale piazza del Mercato di Napoli venne allestito il palco, «lungo il ruscello dell’acqua che corre di contra alla chiesa de’ frati del Carmine», tra il monastero degli Eremiti e il cimitero ebraico. Carlo assisteva

seduto su di un trono improvvisato. Le narrazioni sulla fine dell’ultimo degli Hohenstaufen sono quanto mai varie. Saba Malaspina narra che il giovane sovrano dimostrò coraggio, affrontando la morte con fermezza. Bartolomeo di Neocastro si diffonde lungamente sul discorso che Corradino avrebbe pronunciato davanti a una folla ammutolita, diversamente da quanto accadeva solitamente in occasione di esecuzioni capitali. L’ultimo degli Svevi si dichiarò agosto

MEDIOEVO


annotò come la folla, solitamente rumorosa dinnanzi a una esecuzione capitale, fosse ammutolita. Al secco colpo della scure sul collo di Corradino, fecero seguito le decapitazioni di Federico di Baden, del conte Gherardo Donoratico da Pisa, del conte Gualferano, del conte Bartolomeo e di due suoi figli. Poi vennero trascinati sul palco i baroni del regno accusati di tradimento e, allestite le forche, furono pubblicamente impiccati. Molti altri baroni di Puglia e degli Abruzzi, «ch’erano stati contro allo re Carlo e suoi rubelli, fece morire con diversi tormenti».

Uno scenario nuovo

«figlio dell’innocenza», giunto in Italia a reclamare quel regno ereditato di diritto dal padre. Essendogli negato il perdono, Corradino lo implorò almeno per quegli amici che la sua sfortunata stella aveva ingannato. Ma non ottenne soddisfazione. Chiese di morire allora per primo, per non assistere alla triste sorte dei suoi compagni che lo avevano seguito nelle calde terre del Mezzogiorno e anche in quanto principale responsabile di tale tragico destino. Secondo altri, fu invece

MEDIOEVO

agosto

preceduto sul patibolo dal giovane cugino Federico di Baden, del quale avrebbe baciato il capo ormai reciso. Lo Svevo chiese poi di essere sepolto accanto a costui e ai suoi fedeli compagni. Prima di chinarsi sul ceppo, Corradino levò le mani al cielo, invocando l’aiuto del Signore e ripetendo le parole di Cristo nel Getsemani: «Se devo bere da questo calice, rimetto a Te l’anima mia». In un anomalo, ma rispettoso silenzio, spirava cosí l’ultimo degli Hohenstaufen. Il cronista, infatti,

A un mese dalla morte di Corradino, il 29 novembre 1268, spirava papa Clemente. Era assai diffusa la voce della sua implicazione in un’esecuzione anomala e fuori dal diritto vigente. Ma se Clemente IV poteva però morire sereno, per aver estirpato il rischio di rivendicazioni tedesche sul Mezzogiorno, sarà stato altrettanto angosciato per aver posto nelle mani di Carlo d’Angiò poteri e titoli che avrebbero comportato altrettanti rischi. Enorme fu l’impressione suscitata in tutta la Germania per la morte del giovane Staufen. Ma nessuno prese l’iniziativa di vendicare lui e la casa sveva. Con Corradino si chiudeva un’epoca, tramontata di fatto con la morte di Federico II, e trascinatasi ancora sino al 1268. Lo scontro tra papato e impero si estinse sulla piazza del Mercato di Napoli e l’esecutore di questa cesura fu un nuovo, inedito protagonista della storia d’Italia: Carlo I d’Angiò. Segno di come la questione italiana non fosse piú uno scontro bipolare, ma si stesse complicando con l’irruzione sulla scena di questo terzo polo. Con Corradino si estinsero la casa degli Hohenstaufen e le pretese sveve in Italia, obiettivo anelato tanto dal papa quanto da Carlo. Ma non altrettanto accadde con l’idea di impero. Nel 1282, infatti, la Sicilia insorse contro gli Angioini nella ribellione nota come i Vespri Siciliani. Ma questa è un’altra storia. V

97


luoghi ascoli piceno Porta Solestà , edificata nel 1230, in capo al ponte augusteo sul fiume Tronto. Nella pagina accanto Ascoli Piceno in un particolare dell’Annunciazione di Pietro Alemanno. 1484, Ascoli, Pinacoteca Civica.

Ascoli , fra torri e chiese di Furio Cappelli

98

agosto

MEDIOEVO


Le origini del capoluogo marchigiano si perdono nel IV secolo a.C. Ma è dall’anno Mille che la città vive la sua massima fioritura: lo testimoniano le sue architetture, tra cui il duomo, che la leggenda vuole sorto in seguito a un dono molto speciale...

L L’

epigrafe composta nel 1230 per la Porta Solestà di Ascoli, in capo al ponte augusteo che valica il Tronto, raffigura la città come una sorta di isola. Vi leggiamo, infatti, che essa è circondata dal fiume da ogni parte. La descrizione non è del tutto veritiera, poiché, in realtà, un lato del centro storico non è delimitato da un corso d’acqua. Resta tuttavia il fatto che fino al secolo scorso la città picena non ha oltrepassato gli alvei dei suoi profondi fiumi (il Tronto e il torrente Castellano), e non ha mai spostato la barriera delle fortificazioni che la cingevano a occidente. Proprio su quel versante, le stratificazioni delle mura permettono di leggere la vicenda di un centro urbano che si è costantemente riproposto, con gli stessi requisiti fondamentali, nell’arco ininterrotto di oltre duemila anni. È possibile infatti osservare che, in alcuni tratti, le nuove mura di cinta edificate tra il XIII e il XIV secolo incorporano il tracciato precedente, vale a dire un sistema difensivo del IV-III secolo a.C. realizzato in opera quadrata con blocchi d’arenaria, con una tecnica analoga a quella delle coeve Mura Serviane di Roma. Quando la nuova cinta fu iniziata, nei primi decenni del XIII secolo, Ascoli era schierata dalla parte del papa. Federico II in persona la assediò, senza successo, nel

MEDIOEVO

agosto

1240, ma, due anni piú tardi, le sue truppe riuscirono a invadere la città, e molte torri gentilizie delle fazioni avverse furono abbassate, demolendone la sommità.

Echi di costruzioni antichissime

A quei tempi già sorgeva la nuova Porta Romana, lievemente spostata a ovest rispetto all’ingresso antico. Si presentò con una lunga e poderosa fascia basale di blocchi di riuso che si sviluppava ai suoi fianchi. Un viaggiatore erudito del Settecento, Giovan Girolamo Carli, originario di Ancaiano (Siena), trovatosi di fronte a quella compatta tessitura muraria, ripensò alle mura etrusche di Volterra. Quell’impiego massiccio di conci antichi, secondo una modalità tipica dell’edilizia ascolana già nell’XI secolo, dava effettivamente la sensazione di una struttura arcaica, «megalitica» (realizzata cioè con blocchi di grosso taglio), che faceva riemergere con orgoglio il profondo «substrato» della storia urbana. Dopo la lunga stagnazione dell’epoca altomedievale, Ascoli conobbe un forte risveglio nell’XI secolo, grazie alla fattiva presenza di alcuni vescovi molto impegnati anche sul fronte politico-istituzionale. Il primo presule che merita d’essere citato è Bernardo II (1045-1069). Il suo governo pastorale, infatti, lasciò un’impronta in-

99


luoghi ascoli piceno

ITO

DE

. BO

LLE

VIA

NI

ERI

VIA

OD EI S

D

V.APOLLO V.DEI FIORI

P.ZZA ROMA

CO RS O

IO . EGID RUA S ZARI V.TEMPLARI

AZ V.T.L

P.ZA S. ORLINI

P.ZA DELLA VIOLA

L.GO

6 4 5

MBRANZ A

PI A

AT I CO DR I

V.M

A

.S

CA R

I G L IA

VIA

IAZ AP LL

V TO SI S

ZA RO LA

COC CIA

DE VIA

P

RO

LU NG O

AZZON I

E P.T

O AR RT CA

SPERI

BAR

CA ST EL LA NO

VIA

Porta Romana

Lettura «archeologica» di un’architettura La via consolare Salaria (cosí chiamata per il commercio del sale marino) collegava Roma alla costa adriatica, passando per Rieti e per Ascoli. L’entrata in città avveniva attraverso Porta Romana, e lí la lettura delle fasi storiche è davvero sorprendente. Sebbene restaurata e priva di alcune componenti, si può infatti ancora vedere la porta augustea a due archi gemelli (perciò detta «gemina»), in origine affiancata da due torri (I secolo a.C.-I secolo d.C). Ma un accesso monumentale esisteva già nel IV-III secolo a.C., come hanno provato

100

F

7

. DE GA

P

CA ST EL LA NO

VIALE P ACIFICI M

V.S AC

VIALE A

VIA DEI CONTI VIA DI VESTA

EN TE

D. RIME

RR

I

TO

VIA RIC C

O

VIA PRETORIANA

LA FORTE DEL ZZ A

B M A VI

E V.L

LE

P.ZZA M

CORSO V. EMANUELE

P.ZZA ARRINGO

V.C. COLO

A ILL UF

VIA IANNELLA

CORSO MAZZINI

CORSO MAZZINI

VIA CIN SIMONETTI OD EL DU CA

AT RT PO

VIA RICCI

V IA

VIA L.M. TO RQUATO V.D.ANGELI NI

8

P

VIA POR TA T UF ILL A

VIA XIX SETTEMBRE

CORSO MAZZINI

BARTOLOMEI P.ZZA GIACOMINI

VIA DELLE CANTERINE

P.ZZA DEL POPOLO

VIA PONTE VEC CHIO

VIA SACCONI

3

P.ZZA S.AGOSTINO

VIA PIAVE

VIA D’AGLIANO

P.ZZA CECCO D’ASCOLI

VIA NICCOLO’ IV

VIA DEI SALADINI

LUNGOTRONTO

CORSO TRENTO E TRIESTE

D

TO OT IS

P.ZZA V.BASSO VI A CA IR OL I VIA DEL TRIVIO

VIA MANILA

VIA ASIAGO

2

VIA PASUBIO

VIA MONTELLO

VIA AM ADIO

TA OLES VIA S

TE ES LL

GRAPPA

VIA TOTI

PONTE NUOVO

A VIA

1

DERIC I

VIA MONTE

IANI EBB VIA TR

VIA DELLE TORRI

INI

V IA S .

M DA INO AF R E S

G TE ON

RO NA RA

VIA DELLA FORTEZZA

CC

ZIO SAN VIA

PU AP IC DE VIA

DI VER VIA

VIA R

SI

NGA IA BE

V

IGAN

TE’

VIA M ARCEL LO FE

I V.P. T OS E LL

VIALE VELLEI

O SS VI AT RO IO UC D I CI M S.E A I V

le indagini archeologiche, rivelando una porta preromana in arenaria, affiancata da due torri, che sorgeva sullo stesso luogo della porta gemina in travertino. E la porta di età romana non si era solo sovrapposta alle preesistenze, ma le aveva anche incorporate nel nuovo assetto. Le torri di rinfianco, in particolare, erano in sostanza le stesse della fase piú antica. Quelle stesse torri, poi, conosceranno un restauro all’epoca del dominio vescovile, tra l’XI e il XII secolo, quando le loro facciate furono rifoderate da blocchi di travertino di reimpiego. agosto

MEDIOEVO


torre ercolani

FIU ME TR ON TO

1

A

MATTEOTTI

GL IA

P.ZZA E. CANTALAMESSA

.SC V.M

AR

I

In alto alcune delle torri medievali di Ascoli, tra cui, al centro, quella degli Ercolani, la piú alta e la meglio conservata della città. A destra la chiesa dei SS. Vincenzo e Anastasio edificata nell’XI sec. nella Platea inferior, oggi piazza Ventidio Basso. In basso Porta Romana. Si vedono, ancora intatti, i due archi gemelli di epoca augustea.

porta romana

MEDIOEVO

agosto

3

2

ss. vincenzo e anastasio

delebile sulla storia di Ascoli. Si pose sotto la protezione dell’imperatore Enrico III il Nero (1046-1056), che incontrò personalmente. Seguendo gli stessi indirizzi di Enrico, Bernardo si impegnò a riformare la Chiesa locale. Accanto alla riorganizzazione delle strutture esistenti (come il capitolo dei canonici della cattedrale, che adottò uno stile di vita monastico, sulla base delle norme conciliari), Bernardo impiegò grandi energie e considerevoli sostanze nella creazione di nuove istituzioni religiose, tra cui molteplici monasteri e ospedali. Era molto fiero della sua dignità, e per questo motivo fu bersaglio di una durissima rampogna da parte di san Pier Damiani, allorché si trovò a sfoggiare un pastorale d’oro durante il concilio lateranense del 1063. Di pari passo alla vita religiosa si sviluppava anche quella economica e sociale. I proprietari terrieri tendevano sempre piú a trasferirsi in città, dando vita a una tipica «selva» di torri gentilizie (nel XIII secolo se ne contavano almeno un centinaio). La collocazione di Ascoli nel crocevia dell’Appennino centrale favoriva il passaggio di molteplici pellegrini diretti a Roma o al

101


luoghi ascoli piceno Monte Gargano, che potevano essere adeguatamente accolti negli appositi ospedali (che solo accessoriamente funzionavano come centri di cura).

La fonte degli artigiani

Si stava per giunta definendo la Platea inferior (la «piazza di Sotto», oggi piazza Ventidio Basso), un ampio spazio da dedicare al mercato manifatturiero, intorno alla presenza «baricentrica» della chiesa dei SS. Vincenzo e Anastasio, a fianco della quale si riconosce ancora un magazzino duecentesco. Fuori dalle mura, superata la Porta Solestà ricordata all’inizio, nell’XI secolo esisteva l’arco dei Tintori, una loggia collegata a una copiosa fonte di acqua sorgiva, al servizio degli artigiani che lavoravano la lana prodotta in abbondanza nei pascoli delle vicine montagne. Ben presto specializzata anche nella lavorazione del cotone, l’attività di filatura, tessitura e tintura costituí l’elemento di forza dell’economia locale, e non a caso la predetta fonte presso gli opifici di Borgo Solestà sarebbe scaturita per miracolo grazie al patrono della città, sant’Emidio. In basso veduta del Duomo, che, nell’aspetto attuale è frutto degli interventi operati tra XV e XVI sec., e dell’adiacente Battistero, fatto costruire dal vescovo Presbitero nel XII sec.

4

E grazie al predetto vescovo Bernardo II si riscoprí la memoria di quel santo martire (vedi box alle pp. 106107), riconosciuto come primo vescovo della città. Le ossa attribuite a lui e ai suoi tre compagni, rinvenute nel sepolcreto paleocristiano di Campo Parignano, nel suburbio di Ascoli, furono traslate nella cattedrale di S. Maria, e la circostanza indusse a ricostruire l’edificio, che da allora in avanti fu condedicato al santo locale (e con il solo nome di S. Emidio fu in seguito menzionato, come è nell’uso tutt’oggi). La nuova chiesa, in larga parte ricostruita tra il XV e il XVI secolo, fu concepita proprio per accogliere degnamente le sacre spoglie. Il feretro del santo, costituito da una semplice cassa di legno, fu avvolto da una splendida seta ricamata di produzione siriaca, giunta ad Ascoli con tutta probabilità grazie ai rapporti di amicizia che il vescovo aveva intrattenuto con la corte imperiale. Negli stessi anni fu elaborata la Passione, che raccontava puntualmente la vita avventurosa del mar-

Nella pagina accanto la cripta del Duomo (S. Emidio), realizzata, in larga parte, con materiali di spoglio recuperati da edifici di epoca romana.

duomo e battistero

102

agosto

MEDIOEVO


tire. Come spesso accadeva, l’incarico della redazione fu dato a uno scriptorium di prestigio, e la scelta ricadde sull’abbazia umbra di S. Eutizio in Val Castoriana, all’ombra dei Sibillini. Quando la nuova chiesa era ormai in via di ultimazione, il feretro di sant’Emidio e le casse dei suoi compagni furono sistemate all’interno di una sepoltura di lusso. Si trattava, infatti, di un sarcofago marmoreo di età romana, con la tipica rappresentazione centrale della porta socchiusa dell’Ade (facilmente adattabile al concetto della porta del Paradiso), fiancheggiata agli estremi da due eroti funebri, ossia due fanciulli alati che potevano facilmente passare per angeli, una volta scalpellato il loro attributo militare (una lancia).

A eterna memoria degli offerenti

Prima che la sepoltura fosse chiusa definitivamente, al centro della vasta cripta chiamata a custodirla, un gruppo di fedeli godette di una speciale opportunità. In cambio di un’offerta, essi ottennero che il proprio nome venisse registrato su una pergamena, a conclusione di una preghiera. Quella pergamena, racchiusa in una custodia di piombo, venne posta di fianco alle ossa del patrono, affinché, nel giorno del giudizio, egli potesse agevolmente ricordare i loro nomi, potendo cosí intercedere per la loro eterna salvezza. Il momento di massimo fulgore nella storia dell’epi-

5

scopato ascolano fu raggiunto con Presbitero, sicuramente in carica negli anni 1134-1165. Si trattò anche di un periodo minato da gravi incertezze, per via delle incursioni dei Normanni. Essi avevano infatti raggiunto e superato in piú punti la linea del Tronto, quel fiume che all’epoca di Dante definí il confine storico tra la Chiesa e il regno sul versante adriatico dell’Appennino. Alcuni castelli già sottoposti alla giurisdizione vescovile finirono in mano ai conquistatori, e Ascoli temeva cosí di non poter tenere sotto controllo nella sua integrità un ragguardevole dominio, esteso anche a territori oggi compresi nel Lazio e nell’Abruzzo. Presbitero chiese aiuto a Lotario II (1133-1137), che incontrò nell’accampamento stabilito dall’esercito imperiale nella bassa valle del Tronto, nel 1136-37, mentre era in procinto di portare guerra proprio al re normanno Ruggero II. Un’altra richiesta di aiuto fu inviata a Corrado III di Svevia (1138-1152), tramite il potente consigliere di corte Wibaldo. Per effetto di questa iniziativa, Presbitero nel 1150 fu accolto in pompa magna alla corte di Norimberga e riportò dalla missione un lusinghiero privilegio, che riconfermava tutte le prerogative del vescovo sulla città e sul territorio. Egli veniva anche riconosciuto come magistrato di nomina imperiale (conte), ed entrava nel rango dei principi dell’impero. Grazie anche a questi solenni riconoscimenti, Pre-

cripta del duomo

MEDIOEVO

agosto

103


luoghi ascoli piceno

6

7

battistero A sinistra l’interno del Battistero costruito accanto al Duomo. Al centro si conservano i resti della vasca per la pratica del battesimo a immersione. In basso particolare di uno degli affreschi nella chiesa di S. Vittore, edificata nel X sec.

s. vittore

sbitero svolse un ruolo assai incisivo nella propria città. Eresse un pulpito sulla piazza antistante al duomo, e, con ogni probabilità, decise la ricostruzione del battistero paleocristiano. Il nuovo edificio, tramandato fortunatamente nella sua interezza, è uno degli esemplari di chiesa battesimale isolata che si rinvengono negli scenari urbani del Medioevo italiano, ed è anche l’opera che segna la maturità di uno stile costruttivo inconfondibile, assai radicato nella storia culturale e nell’immagine della città picena. Non c’è solo il consueto ricorso a grossi conci di reimpiego a colpire l’attenzione. Con la sua energica modulazione, il battistero ha l’eloquenza di un mausoleo antico. E, attraverso un’architettura cosí autorevole, la città si qualifica recuperando il proprio passato. Questa coscienza storica, che si sostanzia nella memoria del patrono sant’Emidio, dà vita a una storiografia cittadina proprio all’epoca di Presbitero, con la perduta «cronaca» dell’arciprete Trasmondo. Quando approda al Duecento, il secolo del «suo» papa Niccolò IV (1288-1292), Ascoli ha da poco assistito al nascere di una magistratura civica autonoma. La prima testimonianza dei consoli quali rappresentanti della città di fianco al vescovo, è presente infatti in una bolla di Celestino III (1197).

L’apogeo

Il Comune ascolano si afferma fortemente nella scena cittadina solo dopo il ricordato saccheggio delle truppe di Federico II (1242), nella seconda metà del XIII secolo e agli inizi del successivo. Il regime federiciano aveva ingenerato, in definitiva, un effetto positivo. La città guadagnò uno sbocco sul mare (1245), coltivò solidi rapporti con il regno e rafforzò la propria autonomia territoriale. In questo periodo la popolazione tende verso la sua massima espansione (25mila abitanti). L’edilizia sacra conosce uno sviluppo stupefacente, che si misura tutt’oggi con la ricostruzione o la realizzazione ex novo di ben 15 chiese, senza contare quelle demolite nei secoli scorsi. Il proliferare di soggetti nuovi nella scena cittadina è testimoniato dalla pittura votiva. Ogni superficie disponibile si copre di dipinti legati all’iniziativa di una miriade di committenti, che si affidano spesso a

104

agosto

MEDIOEVO


A sinistra disegno a volo d’uccello di piazza del Popolo, il cui perimetro è incorniciato da alcuni monumenti importanti, come il Palazzo dei Capitani del Popolo, la chiesa di S. Francesco e la Loggia dei Mercanti.

piazza del popolo

8

A destra uno scorcio di piazza del Popolo. Si riconoscono, sulla sinistra, la facciata del Palazzo dei Capitani del Popolo e, in fondo, la chiesa di S. Francesco.

MEDIOEVO

agosto

105


luoghi ascoli piceno A sinistra braccio reliquiario in argento contenente una reliquia di sant’Emidio. XV sec. Ascoli, Museo Diocesano. A destra il polittico di S. Emidio realizzato da Carlo Crivelli nel 1473 e custodito nella cappella del SS. Sacramento del Duomo. Ai lati della Madonna con Bambino, seduta in trono, vi sono, a sinistra, san Pietro e san Giovanni Battista, e, a destra, sant’Emidio vescovo e san Paolo.

sant’emidio

Bello, colto e... con la testa in mano Emidio viene da lontano, dalla Germania occidentale, e non è forse un caso, vista la fedeltà dell’episcopato di Ascoli al potere imperiale. Una Passione elaborata nel XIII o nel XIV secolo specifica che è nato a Treviri. Di nobile stirpe gallica e di bell’aspetto, colto e dai modi gentili, abbandonate la religione e la «scienza» pagane, Emidio in giovane età si lascia guidare da una voce celeste udita in sogno. Intraprende insieme ai suoi compagni un viaggio verso Roma, e lungo il cammino ha modo di compiere molti miracoli. Giunto nella Città Eterna, arriva a ingaggiare una sorta di duello con il suo diretto concorrente, il simulacro, ossia la venerata statua di Esculapio, il dio della medicina che aveva il suo santuario sull’isola Tiberina. Di fronte agli esterrefatti Romani, con il solo ausilio degli occhi rivolti al cielo, Emidio fa librare in aria la

106

statua, che fluttua sulle teste dei presenti per poi sprofondare e sparire nel Tevere. Il papa Marcello (308-309) si convince della potenza della sua fede, e pensa di metterla al servizio della Chiesa. Vince le titubanze di Emidio, che vorrebbe seguire alla lettera gli insegnamenti del Vangelo, rinunciando a tutti gli onori terreni, e gli conferisce la carica di sacerdote. La potenza del santo venuto d’oltralpe diviene sempre piú travolgente. Giunto in una città, viene salutato da un potente terremoto, che fa cadere a pezzi tutti i templi pagani. I demoni annidati nelle are degli dèi «falsi e bugiardi» fuggono terrorizzati spandendo nell’aria le loro orribili grida. Emidio arriva infine in Ascoli, dove è tenuto d’occhio da un tale re Polimio, che possiede in città un palazzo gigantesco e semina il terrore per tutta Italia perseguitando i cristiani per mano dei suoi sgherri. Emidio continua la sua opera di predicatore e di guaritore, e Polimio tenta agosto

MEDIOEVO


pittori di buon mestiere. Al posto di cicli pianificati, cio tra le due principali strade della città (il Trivio), si si assiste cosí a una singolare ondata di immagini contrappose alla piazza Arringo (cosí chiamata in quanimpaginate in modo accurato, ma senza un criterio to luogo deputato all’assemblea), che rimase lo spazio generale (vi sono soggetti talvolta ripetuti sulla stes- di rappresentanza e il luogo della solenne celebrazione sa parete, come a S. Vittore). civica in onore del patrono, condiviso dalla cattedrale e Lo sviluppo delle attività artigianali aveva dato vita dal palazzo comunale (l’Arengo). a un commercio di lungo raggio dei prodotti manifatturieri ascolani. Mercanti della città picena si trovano Tensioni sociali e sviluppo urbanistico spesso nelle piazze del regno. Hanno un console in Pu- Il rapporto molto stretto tra i due poteri si configurava cosí in modo assai limpido, glia, con sede a Trani, e smerciano i lasciando emergere una deferenza loro prodotti anche a Tunisi. Tra i loDa leggere all’autorità religiosa, ben esemplaro clienti c’è Carlo I d’Angiò, che nel ta dall’offerta dei ceri sul sagrato 1276 acquista 550 pezze ascolane di U Furio Cappelli, La Cattedrale di del duomo in occasione della fefustagno (un grosso tessuto di lana o Ascoli nel Medioevo. Società e sta patronale. Ma emergeva anche di cotone). Necessarie all’armamencultura in una città dell’Occidente, una sempre piú spiccata incidenza to, pezze del genere potevano essere Lamusa, Ascoli Piceno 2000 dell’elemento laico sul piano della acquistate dai mercanti veneziani, U AA. VV., Guida alle chiese vita pubblica. Proprio nella seconma le botteghe ascolane le produceromaniche di Ascoli Piceno, da metà del Duecento l’Arengo si vano a prezzo minore e di una qualicittà di travertino, D’Auria, Ascoli arricchisce di una cospicua ala, in tà piú resistente. Piceno 2006 cui trovano sede definitiva le riuI protagonisti della vita economiU Giuliano Pinto, Ascoli Piceno, nioni consiliari e le assemblee, al ca avevano senz’altro premuto per Centro Italiano di Studi sull’Alto primo piano, mentre al pianterreno far sentire la propria voce nella vita Medioevo, Spoleto 2013 due eleganti sale dall’alto soffitto a politica cittadina, e, per effetto di volta fungono da «fondaci», cioè da queste forze nuove, nacque la magistratura del populus, che si insediò presso la chiesa di S. magazzini al servizio dei mercanti. Probabilmente, l’emergere delle nuove forze all’inFrancesco, il fulcro della «nuova» religiosità cittadina. Lí si definí la piazza del Popolo. Il nuovo polo di riferimen- terno della società cittadina favorí il divampare delle to urbanistico e sociale, situato presso il punto di incro- lotte tra le fazioni, e lo stesso Niccolò IV si prodigò molto per placare gli animi. Era d’altronde inevitabile che una società in cosí rapido sviluppo si creassero tensioni e tumulti. Ma in quella stessa società vi erano le giuste premesse per esprimere pagine memorabili di architettura e di urbanistica. E sotto questo punto di vista l’Ascoli del Duecento trova la sua massima espressioinvano di indurlo a sacrificare sulle are degli dèi pagani, ne nella già ricordata chiesa di S. Francesco, che trova offrendogli la mano della figlia Polisia, giovane, colta e spazio in un contesto urbano che ha ritrovato la sua bellissima, nonché una carriera di gran sacerdote. In tutta centralità (il foro della città antica era forse ubicato sul risposta il santo vescovo battezza Polisia sulle rive del luogo stesso in cui si insediarono i frati Minori). Anche Tronto. Il rex, a quel punto, ordina la sua decapitazione. se alcune parti del transetto furono completate solo nel Dopo aver subito il supplizio, sant’Emidio XV secolo, è dimostrabile, in base agli studi piú recenti, raccoglie la testa nel mantello e si incammina che l’edificio era già sostanzialmente definito intorno verso la sua sepoltura (il santo è dunque un martire al 1330, e il suo progetto dovette ricevere una svolta «cefaloforo», che può camminare trasportando la testa importante intorno al 1290, proprio all’epoca di Niccolò recisa tra le braccia, come diversi santi della tradizione IV, che giocò forse un ruolo nella vicenda del cantiere. franca, primo fra tutti san Dionigi). Frattanto il popolo Lo splendido portale centrale della facciata racchiuinferocito distrugge la reggia di Polimio, e una pia matrona de in una sintesi elegantissima il gusto per l’esuberanza raccoglie il sangue del martire misto a un’essenza dell’ornato, mutuata dalle cattedrali gotiche, e un senso profumata in tre ampolle di vetro. «classico» di misura e di simmetria, legato alla fascinaUna di esse viene donata a un nuovo re che zione della Roma antica, richiamando l’ambiente artiprovvederà alla costruzione della cattedrale stico dell’Urbe quale si era definito all’epoca del papa di Ascoli. L’antica Passione si conclude in questo ascolano. E nella limpida triangolazione sul timpano modo, unendo la vita del santo al mito di fondazione tra il Cristo giudice, san Francesco e sant’Antonio da della sua chiesa, che già nel XII secolo si riteneva eretta Padova, si coglie un riferimento alle coraggiose scelte nientemeno che per volontà di Costantino il Grande in iconografiche del mosaico di S. Giovanni in Laterano persona, come S. Giovanni in Laterano o S. Pietro a Roma. (1291), nel quale Niccolò inserí i due santi nel solenne corteo che rende omaggio al sovrano dei cieli. F

MEDIOEVO

agosto

107


caleido scopio

Nella città piú verde libri • Un atlante

storico corredato da un inedito apparato iconografico ci introduce alla ricchezza delle ville e dei parchi di Roma. Una finestra sul panorama delle vicende che hanno caratterizzato la cultura del «giardino» nella capitale

I

ncontriamo Alberta Campitelli e Alessandro Cremona nel loro ufficio al primo piano della Meridiana di Villa Borghese, un padiglione seicentesco, ornato di un orologio solare, che si affaccia su un giardino di fiori esotici e rari. Un altro edificio, l’Uccelliera, di identiche proporzioni ma

108

sormontato da due voliere di forma elaborata, delimita il giardino sul lato della Galleria Borghese. Se lo sciagurato progetto di lottizzazione della villa, nella febbre speculativa che aveva investito la capitale d’Italia tra l’Otto e il Novecento, fosse andato in porto, oggi non potremmo trovarci qui. Villa

Qui sopra Villa Medici, sulla collina del Pincio. Nelle sue forme attuali, l’edificio è frutto degli interventi del cardinale Giovanni Ricci da Montepulciano e poi di Ferdinando de’ Medici (1549-1609). In alto la «Villa Nuova» di Villa Doria Pamphilj, sorta tra il 1644 e il 1652, sotto il pontificato di Innocenzo X Pamphilj.

agosto

MEDIOEVO


Alberta Campitelli e Alessandro Cremona (a cura di) Atlante storico delle ville e dei giardini di Roma testi di Anna Paola Agati, Silvana Bonfili, Alberta Campitelli, Alessandro Cremona, Claudio Impiglia, Cecilia Mazzetti di Pietralata, Elisabetta Mori, Bianca Maria Santese, Jaca Book, Milano, 320 pp. 98,00 euro ISBN 978-88-16-60473-5 www.jacabook.it

Borghese si salvò – acquistata dallo Stato italiano – perché molte voci, tra cui anche quella di Gabriele D’Annunzio, si levarono contro la barbarie che stava distruggendo le ville di Roma.

Un patrimonio da scoprire L’Ufficio Ville e Parchi Storici fu istituito nel 1982, nell’ambito della Sovraintendenza Comunale, per volontà di Renato Nicolini, assessore ai Giardini e alla Cultura della Giunta Argan. «Quando vi entrai – rievoca Alberta Campitelli – non esisteva neppure un elenco delle ville storiche di competenza del Comune di Roma. Cercando negli archivi ho scoperto che erano 42, una ricchezza ragguardevole». Questo Atlante Storico, forte di un corredo iconografico che comprende una sorprendente serie di foto aeree realizzate per l’occasione, copre l’arco temporale che va dal Medioevo al Novecento. È dedicato non soltanto alle ville e ai giardini oggi esistenti a Roma ma anche ai molti che l’evoluzione della città ha cancellato: 161 per l’esattezza. Sulla scorta delle ricerche piú aggiornate, e con i contributi di altri studiosi – Anna Paola Agati, Silvana

MEDIOEVO

agosto

Bonfili, Claudio Impiglia, Cecilia Mazzetti di Pietralata, Elisabetta Mori e Bianca Maria Santese –, il volume attraversa, con ricchezza e novità di documentazione, tutti i periodi storici, non soltanto quelli abitualmente considerati di maggior splendore come il Rinascimento e il Barocco. Roma è una delle città piú verdi del mondo, anche se non sempre i Romani ne sono consapevoli. Fra le capitali europee è quella che può vantare piú verde per abitante. Un primato che ha origini lontane: infatti i Romani, quelli antichi, nutrivano per i giardini una predilezione illimitata. I giardini erano al centro della casa, circondati da un giro di colonne, un peristilio che creava un portico sovente decorato con statue e pitture. «Le ville romane – sottolinea Alberta Campitelli – hanno costituito un modello per l’evoluzione del giardino in tutti periodi storici. Le ville di Lucullo, di Mecenate, di Sallustio sono state l’esempio sempre imitato. La villa romana è il filo conduttore della evoluzione dei giardini romani». Un filo che sembra spezzarsi quando, nel 537, l’acqua viene quasi

completamente a mancare. Opera dei Goti, al comando di Vitige, che assediano Roma. I Bizantini, guidati dal grande generale Belisario, difendono validamente la città, ma ciò non impedisce ai Goti di tagliare i 14 acquedotti che la riforniscono. Si salva solo l’Acquedotto Vergine (tuttora perfettamente funzionante), grazie al suo percorso sotterraneo, che gli assedianti non riescono a sabotare. Approvvigionava il Campo Marzio (la sua mostra sarebbe poi divenuta la Fontana di Trevi), ma aveva una portata ridotta e non riusciva a soddisfare altre esigenze. La scarsità di acqua, che sarebbe durata un millennio, trasformò il paesaggio. «Quello predominante nella Roma medievale fino ai primi decenni del Rinascimento – spiega Alessandro Cremona – era di zone collinari tenute a vigne, che non necessitavano di una irrigazione autonoma, mentre i giardini, costretti ad alimentarsi tramite pozzi o cisterne, furono drasticamente ridimensionati. Gli ordini religiosi tennero in vita la tradizione del giardino, secondo due distinte tipologie: l’orto conventuale e il giardino di chiostro, che si evolveranno nei secoli successivi. Il giardino di chiostro diventerà il giardino di palazzo mentre dall’orto conventuale, che era generalmente collocato sulle alture intorno ai monasteri, deriva la villa di grande estensione.»

Palazzi con giardino «A Roma – interviene Alberta Campitelli – le residenze in villa arrivano piú tardi rispetto a Firenze dove si affermano già nel Quattrocento. Nell’Urbe la committenza di grandi residenze nobiliari inizia nel Cinquecento, e assume connotazioni particolari. Mentre altrove si ha il passaggio dalla fortezza al palazzo con giardino, a Roma questo passaggio non c’è, nasce direttamente il palazzo con giardino. Il Belvedere

109


caleido scopio Vaticano, alla fine del XV secolo, è la prima residenza in villa realizzata a Roma. Una novità romana è che il piano nobile non è piú il piano alto, ma quello a livello del giardino. O accade che il giardino venga sopraelevato per arrivare al livello del piano nobile. Peculiari di Roma sono i giardini di antichità. Già nel Quattrocento a Roma si era scatenato il collezionismo di opere d’arte antica, che toccherà livelli parossistici nei secoli successivi. Le sculture trovano posto non solo dentro le case ma anche nei giardini, che diventano giardini museo. Un uso già degli antichi Romani. La presenza dell’antichità condiziona tutto. Il motivo per cui a Roma non si diffonde il giardino all’inglese è che l’idea di disseminare false rovine nei giardini faceva ridere, data l’abbondanza di quelle vere». La villa è un luogo separato, nel quale schivare il caos della vita pubblica, uno spazio di riflessione, anche di incontro,

110

per dedicarsi a un’attività intellettuale sganciata dalle esigenze produttive. Una residenza arredata confortevolmente, in cui ospitare ambasciatori stranieri o cardinali in visita a Roma. Nel passaggio dal Cinque al Seicento si fa strada la richiesta di maggiori estensioni di terreno. Dopo aver saturato tutte le aree all’interno delle mura, appariva necessario uscire fuori dalle mura per disporre di spazi adeguati.

Sculture e fiori pregiati La prima residenza costruita fuori dalle mura è Villa Borghese, la cui grande dimensione si articola in numerosi scenari: lo scenario formale, con il giardino ornato di sculture e di fiori pregiati, il palazzo principale, che ospita una raccolta di opere d’arte, e un boschetto ameno. Ma anche la natura libera, che non potrebbe trovare posto all’interno delle mura. Grande passione degli aristocratici (papi e cardinali inclusi) era la caccia. Disporre di ampi territori consentiva di installare i

serragli, creando i cosiddetti «barchi di caccia». Anche a Villa Borghese c’era un’area destinata a tale scopo, che in epoca moderna si è evoluta nel Giardino Zoologico. «Il ripristino degli acquedotti – prosegue Alberta Campitelli – permetteva di caratterizzare, grazie a impianti anche molto complessi, i vari settori della villa con giochi d’acqua e fontane dalla spiccata teatralità. Il barocco si afferma in modo particolare nelle fontane, che si sbizzarriscono nelle forme piú svariate, diventando teatro d’acqua. Intanto esplode la moda dei fiori e degli uccelli esotici. Il cardinale Scipione mostrava con lo stesso orgoglio il David del Bernini e il narciso bianco doppio che gli era arrivato da Bruxelles o i volatili e che gli venivano da tutto Nella pagina accanto il Casino dell’Uccelliera e la Meridiana di Villa Borghese (di cui si riconosce parte della struttura nella parte bassa della foto). In basso Villa Albani, sulla via Salaria.

agosto

MEDIOEVO


il mondo, custoditi nell’Uccelliera. Le meraviglie della natura erano apprezzate come quelle dell’arte».

Splendido immobilismo Nel Settecento, mentre il barocco viene esportato nelle grandi ville in Francia e nei Paesi del Nord, a Roma si esauriscono i presupposti sociali ed economici che ne avevano permesso l’affermazione. Roma non ha una rivoluzione industriale. Mentre gli Stati sovrani gradualmente si industrializzano, l’Urbe è ferma, rimane la meravigliosa città che i viaggiatori descrivono, con intorno un deserto di pascoli desolati e di malaria. Le famiglie riducono le proprie esigenze. Calano le dimensioni delle ville, e l’uso si orienta piú sulla villeggiatura che sulla rappresentanza. Diventano anche piú funzionali, c’è un garage per la carrozza e cominciano ad apparire i gabinetti annessi alle camere da letto. Sono Villa Chigi sulla Salaria, Villa Carpegna presso l’Aurelia, Villa Paolina a ridosso di Porta Pia, Villa Alberoni sulla Nomentana, di fronte a villa Torlonia. Sempre sulla nomentana Villa Bolognetti e Villa Patrizi, oggi scomparse. Nel XVIII secolo a Roma il verde era esclusivamente privato mentre tutte le piú importanti città europee come Londra, Parigi o Milano, già dalla fine del Seicento, si erano dotate di parchi pubblici. Offrire al popolo una possibilità di svago implicava, secondo il papato, un allentamento dei freni morali, e inoltre poteva favorire l’aggregazione popolare. Il carnevale era l’unico momento in cui il popolo era autorizzato a riunirsi. A Roma il verde pubblico si afferma solo all’inizio dell’Ottocento quando l’occupazione francese porta le istanze della rivoluzione, e quindi anche il diritto del popolo al piacere

MEDIOEVO

agosto

e al diletto. Nel 1811 il governo francese progetta due passeggiate pubbliche, del Pincio a nord, del Celio (che però non sarà realizzata) a sud. Infine anche il papato supera i pregiudizi piú retrivi ed è Gregorio XVI a completare il Pincio – incaricandone Valadier – mentre il cardinale Consalvi si oppone alla restituzione ai frati agostiniani del terreno che era stato loro espropriato da Napoleone.

posto alle lottizzazioni. L’espansione di Roma capitale innesca la tragedia della distruzione delle grandi ville storiche, prima fra tutte Villa Ludovisi. Una strage che ha il suo culmine tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, quando anche villa Borghese, come già ricordato, rischiò di essere lottizzata, ma che dura fino agli anni Cinquanta del XX secolo. In questo periodo nascono anche numerosi villini privati per opera della piccola nobiltà o della borghesia arricchita con la speculazione edilizia. Di dimensioni ridotte, si rifanno però, come sempre a Roma, ai modelli del passato.

L’età moderna

Nel XIX secolo, a parte Villa Torlonia e le due ville reali di Vittorio Emanuele II, (Villa Ada Savoia sulla Salaria per la famiglia ufficiale, Villa Mirafiori sulla Nomentana per Rosa Vercellana, contessa di Mirafiori), la committenza dei nobili romani scompare, ma si afferma in compenso quella degli stranieri con Villa Poniatowski, Villa Wolkonski, Villa Strohl-Fern, Villa Abamelek. Si assiste anche all’acquisto, da parte di stranieri, delle ville della nobiltà romana in crisi. Qualche anno dopo le ville saranno vendute per fare

Durante il fascismo si assiste da una parte agli sventramenti indiscriminati, dall’altra a un proliferare di nuovi giardini che s’inaugurano ogni 21 aprile, spesso incorporando lacerti delle ville distrutte. È il caso di Villa Paganini, sulla Nomentana, che sorge sui resti di Villa Alberoni. Le ultime ville d’epoca fascista, costruite tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta, immediatamente prima della caduta del regime, adottano lo stile razionalista, come Villa Badoglio, che è stata appena restaurata e diventerà sede del Centro dati del Ministero dell’Ambiente, Villa Osio (oggi sede della Casa del Jazz) o Villa Farinacci. Con la guerra, il dopoguerra e il boom economico, fino agli anni Settanta, si registra un generale disinteresse per le ville che si degradano drammaticamente. Un processo che si inverte a partire dal 1976, con la giunta guidata da Giulio Carlo Argan, quando le ville cominciano a essere acquisite dalla pubblica amministrazione: entrano a far parte del patrimonio comunale Villa Torlonia, Villa Mazzanti,Villa Lais, Villa Lazzaroni, Villa Leopardi. Mimmo Frassineti

111


caleido scopio

Lo scaffale Tommaso di Carpegna Falconieri Medioevo militante La politica di oggi alle prese con barbari e crociati Einaudi, Torino, 344 pp.

19,00 euro ISBN 9788806198558 www.einaudi.it

Ricercatore e docente di storia medievale all’Università di Urbino, Tommaso di Carpegna Falconieri propone un’analisi di come il Medioevo sia risorto piú forte che mai (in realtà senza mai morire), fino a divenire un elemento protagonista della mitologia contemporanea utilizzato perfino nelle varie forme dell’ideologia politica. Come ogni elemento invischiato nella logica dei giochi di potere e della politica, l’idea di Medioevo è sempre mutevole, contraddittoria, mai oggettiva. Se per la tradizione culturale della riforma protestante, poi illuminista e marxista si tratta di un’epoca di barbarie, di servi della gleba, della corruzione del potere ecclesiale, delle streghe, della infinita povertà e dell’ingiustizia, al contrario, l’eredità culturale della riforma cattolica che culmina con il movimento romantico vede nel Medioevo un universo di simboli:

112

poesia, amor cortese, cavalieri e dame, fedeltà, eroismo. Posizioni politiche e storiografiche opposte hanno continuato a segnare, e lo fanno ancora oggi, questa suddivisione tra Medioevo «buono» e «cattivo»: posizioni conservatrici o progressiste rispettivamente orientate (nella pura e rozza semplificazione del dibattito politico) a giudizi positivi o negativi su incerte e malferme idee sull’Età di Mezzo. Ma veniamo a un esempio concreto che l’autore fa nel suo libro. 11 settembre 2001: l’attacco alle Torri Gemelle di New York fa crollare in un solo colpo quel manto di invulnerabilità che ha contribuito a rendere gli USA il primo attore nello scenario geopolitico globale. Agli occhi del mondo era in atto uno «scontro di civiltà», e vi fu chi intravide una mano divina nella punizione inflitta al potere americano. Tutto accadde secondo un copione già noto: nell’agosto del 410 i Visigoti di Alarico entrarono a

Roma, dissacrando i simboli del potere imperiale. L’evento ebbe risonanza in tutto l’impero, sant’Agostino vide nel sacco la punizione inflitta da Dio alla capitale del paganesimo e della corruzione. Subito dopo l’11 settembre il «medievalismo» è divenuto in America un paradigma ricorrente

per comprendere la «Guerra al terrorismo»: le analisi delle varie componenti dell’Islam riconducevano frequentemente alla contrapposizione tra «modernisti» e «medievalisti». In gran parte dei discorsi di propaganda di quegli anni i politici (a cominciare da George W. Bush) calcarono sistematicamente la metafora dei «nuovi

crociati» chiamati a debellare la cultura terroristica di uomini «medievalisti». L’idea di Medioevo che se ne ricava, almeno nelle intenzioni di chi ne usava il termine per definire i propri nemici, è dunque quella di un mondo incivile, arretrato, violento, antimoderno, cioè esattamente il contrario della cultura che ispira la civiltà americana. Di qui lo sviluppo in certi ambienti politici conservatori della teoria del New Medievalism che giustifica l’adozione da parte degli Stati Uniti di una strategia svincolata dalle regole del diritto internazionale per meglio annientare il nemico che, ricordiamo, in quanto medievale, non gode dei diritti di qualsiasi cittadino di Stato sovrano o delle tutele dovute alla condizione militare e sancite dalla Convenzione di Ginevra. Ecco dunque i presupposti ideologici e giuridici, ben evidenziati dallo storico Bruce Holsinger, che portano a «Guerre preventive» o prigioni in cui si pratica

quotidianamente la tortura. Esiste del resto anche un uso politico dell’idea di Medioevo nell’ambito della cultura cristiana, ed è forse questo il caso piú complesso, in quanto il cristianesimo è parte fondativa della civiltà medievale. Basti per un solo attimo pensare al recente e non ancora esaurito dibattito sulle «radici cristiane dell’Europa» alimentato da piú parti da una presunta identità cristiana europea che si sarebbe raggiunta nell’Età di Mezzo, in realtà «tra cristianesimo ed Europa – ha scritto Franco Cardini – non v’è alcun intrinseco legame quale invece v’è, profondo, tra tradizione cattolica e romanità». Già attraverso questi rapidi esempi si può cogliere l’importanza che il libro di Tommaso di Carpegna Falconieri riveste per la comprensione di passaggi chiave della nostra attualità. Come scrive l’autore, «Analizzare il medievalismo e il suo impatto nell’oggi significa rinsaldare le fondamenta del ponte che lega la storiografia alla contemporaneità, riportando la storia medievale al centro del dibattito». Luca Pesante agosto

MEDIOEVO


Vite movimentate musica • Manoscritti che si credevano

perduti e poi riapparsi a Berlino e Ascoli Piceno sono le fonti per due antologie di brani, in parte inediti, del XIV e XV secolo

I

l Glogauer Liederbuch, redatto in Slesia alla fine degli anni Settanta del XV secolo, rintracciato nel 1874 nella Biblioteca Reale di Berlino, risultato disperso nel 1945, è infine ricomparso, nel 1977, nella Biblioteca Jagiellonska di Cracovia. Al di là della sua storia movimentata, il codice, che prende nome dalla Cattedrale di Glogow (oggi in Polonia), è l’esempio piú antico, in Europa centrale, di libriparte distinti, in cui sono annotate le varie «voci» di brani polifonici, che raccolgono un repertorio di 293 composizioni vocali e strumentali di provenienza tedesca, francese, fiamminga, italiana. L’antologia Das Glogauer Liederbuch. Songs, Comic tales and Tails (Naxos 8.572576, 1 CD, distr. www. ducalemusic.it) offre una scelta variegata dei generi rappresentati nel codice: dai canti devozionali alle melodie di danza (schwanz), sino a brani di carattere comico. Un panorama che, da un lato, riflette l’uso del canto devozionale presso i clerici che frequentavano la Cattedrale di Glogow, e, dall’altro, esprime al meglio una pratica quotidiana piú intima, e di uso piú o meno diffuso, in cui prevale un linguaggio semplice, immediato nell’utilizzo di forme polifoniche non troppo complicate e, quindi, di piú facile accesso. Questo senso di leggiadra immediatezza accompagna anche l’interpretazione dell’ensemble Dulce Melos, diretto da Marc Lewon, che si avvale del soprano Sabine Lutzenberger e del baritono Martin Hummel, ben calati nell’atmosfera del repertorio: voci educate, lontane

MEDIOEVO

agosto

da quell’approccio castigato spesso in uso nel repertorio medievale, ma, al contrario, estremamente espressivi. Al canto si accompagnano inoltre il liuto, la chitarra rinascimentale, la viola d’arco, e i flauti dolci che, secondo i diversi accostamenti, caratterizzano la natura di ogni brano.

Frammenti preziosi Non meno avventurose sono le vicissitudini di un manoscritto pergamenaceo della fine del Trecento, ritrovato nel piatto interno di una rilegatura di un documento notarile appartenuto a un notaio di Montefortino, presso Ascoli Piceno. Dopo il restauro e la ricostruzione dei brani superstiti a cura di Agostino Ziino e Michael Cuthbert, l’Istituto Superiore di Studi Medievali «Cecco d’Ascoli» ci presenta oggi l’antologia I Frammenti Ascolani nel contesto della musica europea intorno al 1400 (1 CD, distr. www.issmceccodascoli.org), in cui, accanto ai brani tratti dal suddetto manoscritto (Ms. Ascoli Piceno, Montefortino 142), vengono proposte composizioni dello stesso periodo (fine del XIV secolo), fornendo un panorama della musica sacra e profana del periodo. Accanto a nomi celebri – tra cui Zacaria da Teramo, Ildegarda di Bingen e Oswald von Wolkenstein –, i brani polifonici ascolani, tutti inediti, evidenziano la loro appartenenza

stilistica all’Ars Nova italiana, contribuendo ad ampliare questa importante fase della storia della musica. Di particolare interesse è l’approccio interpretativo dell’Ascoli Ensemble, diretto da Sasha ZamlerCarhart: il canto si presenta quasi «rozzo», spogliato di ogni intento belcantistico nelle monodie gregoriane proposte, per lasciare poi spazio a una fusione armoniosa nei suggestivi brani polifonici, alcuni dei quali piuttosto lacunosi, ma abilmente completati da Ziino, Cuthbert e dal direttore dell’ensemble secondo una ricostruzione filologicostilistica esemplare. Franco Bruni

113


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.