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Mens. Anno 17 n. 9 (200) Settembre 2013 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
MEDIOEVO n. 9 (200) settembre 2013
EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE
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numero
200 !
dossier in guerra per la
vera croce
araldica
Il mistero del sigillo ghibellino
società
Quando Petrarca incontrò Cicerone
scoperto un antico manoscritto ebraico
bologna
sommario
Settembre 2013 ANTEPRIMA
grandi santi
Bernardino da Siena
scoperte Cinque libri in un rotolo
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La forza delle parole di Francesco Colotta
8
44
44
56 COSTUME E SOCIETÀ letteratura Grandi bibliofili
Caccia al libro
56
di Cesare Capone
arte Porte bronzee Fusioni divine di Federico Canaccini
70
CALEIDOSCOPIO mostre Indispensabili, eppure disprezzati
12
musei Il cuore di Prato
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Multimedialità Sublimi tormenti
19
appuntamenti La volata della Vergine Re per un anno L’Agenda del Mese
20 22 26
STORIE guerra di simboli Ercole o Sansone? di Federico Canaccini
Dossier
cartoline Affreschi come miniature L’Europa per l’arte sacra
104 104
libri Assistenza e finanza Lo scaffale
109 111
musica Parole in armonia Omaggio a Josquin In alto i calici!
112 112 113
vera croce
32
32
la e la guerra dei mondi di Furio Cappelli
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20 medioevo 200, un Cari lettori, con questo numero «Medioevo» compie il suo duecentesimo mese. Un’età non ancora «venerabile», eppure significativa. Costituisce la riprova, infatti, che la nostra sfida – editoriale, giornalistica, di divulgazione scientifica –, lanciata sedici anni fa, aveva intercettato l’esistenza di un interesse reale, da parte di un pubblico colto ma non necessariamente specialista, per questo millennio cosí particolare, stretto – e talvolta costretto – tra i fasti dell’antichità da una parte, e la nostra «storia di ieri», quella della modernità, dall’altra. Oggi come sedici anni fa, dunque, il Medioevo continua a rappresentare un «passato da riscoprire», come recita il titolo sotto la testata. Un passato che possiamo assaporare quotidianamente, grazie alla fortunata e nient’affatto scontata presenza, nel Paese in cui viviamo, di uno straordinario, diffuso patrimonio monumentale e artistico. Ma il Medioevo, i nostri lettori lo sanno bene, è un fenomeno che travalica le frontiere
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grazie ai lettori! nazionali, perfino continentali: è un’epoca, come possiamo leggere nel dossier di questo numero, in cui il confronto tra mondi diversi è all’ordine del giorno. E al racconto di questi mondi continueremo a dedicare i futuri numeri di «Medioevo», coadiuvati, da qualche settimana, anche dal nostro sito www.medioevo.it. All’interno del quale, da settembre, metteremo a vostra disposizione la versione on line del primo numero della rivista sfogliabile. Come piccolo omaggio e in segno di ringraziamento per la fedeltà con cui ci avete seguito finora. Andreas M. Steiner
Ante prima
Cinque libri in un rotolo decine di metri il rotolo, con dispendio di tempo e di energie. Il codice entrò nel mondo latino nei primi secoli dell’era volgare, mentre nel mondo ebraico fu adottato dal VII-VIII secolo.
Fulcro dell’ebraismo Dopo la catastrofe del 70 d.C., che vide la distruzione di Gerusalemme da parte delle legioni romane, impegnate a sedare la prima rivolta ebraica contro l’impero, il Rotolo del Pentateuco assunse una pregnanza nuova, divenendo il fulcro dell’ebraismo sopravvissuto alla catastrofe. Espulsi da Gerusalemme, costretti a disperdersi nella diaspora tra i Paesi dell’Oriente e dell’Occidente, gli Ebrei riuscirono a preservare la loro fede e la loro religione, concentrando tutta la loro visione religiosa del mondo e le
scoperte • All’interno del lavoro per la redazione di un nuovo catalogo
dei manoscritti ebraici della Biblioteca Universitaria di Bologna, fra i tanti ritrovamenti interessanti spicca quello di un rotolo in ebraico che, conservato da diversi secoli nei depositi della Biblioteca, si è rivelato molto piú antico, importante e prezioso di quanto si pensasse
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urante la redazione di un nuovo catalogo dei manoscritti ebraici della Biblioteca Universitaria di Bologna (BUB), condotta da chi scrive e da Giacomo Corazzol, è stato scoperto un importante e antico rotolo in ebraico. Si tratta del cosiddetto Rotolo 2 (segnatura Banc. I. A. Cass. 1. H 2), di cui sono ignote la provenienza e la data in cui giunse a Bologna, che contiene il testo ebraico della Torah, ossia quello che con nome dall’etimo greco è meglio noto al mondo
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cristiano come il Pentateuco, in quanto contenente i «cinque libri» di Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio. Occorre innanzitutto precisare che non si tratta di un codice, ma di un rotolo, ossia di quella che era la forma antica del libro, sostituita dal piú agevolmente consultabile codice per il fatto che in esso si possono voltare le pagine, passando direttamente dall’inizio alla fine in un attimo, senza dover srotolare e riarrotolare per diverse
loro liturgie nel Sefer Torah, che potevano portare sotto braccio per tutti i luoghi del loro esilio. Con il giudaismo rabbinico del I-II secolo, il Rotolo del Pentateuco divenne sacro non solo per il testo a cui le membrane cucite fra loro
fanno da supporto scrittorio, ma anche di per se stesso, come oggetto dotato di enorme sacralità. Mentre prima esistevano rotoli separati dei cinque libri attribuiti a Mosè, ora diviene obbligatorio copiare tutti e cinque i libri del
Il professor Mauro Perani (a sinistra) e il rabbino capo di Bologna, Alberto Sermoneta, esaminano il Rotolo 2. Nella pagina accanto il Rotolo 2. Datato tra il XII e il XIII sec., è il piú antico Rotolo della Torah completo a oggi noto.
Pentateuco su un unico rotolo, che quindi diventa particolarmente lungo e pesante, e che non si può piú reggere con le braccia mentre si legge, ma deve essere posto su una sorta di ambone che in ebraico si chiama bemah.
Ante prima Bologna-Parigi, andata e ritorno È verosimile ritenere che, come la quasi totalità degli attuali 38 manoscritti ebraici conservati nella BUB, anche il nostro rotolo provenga dall’acquisizione del patrimonio archivistico e bibliotecario delle congregazioni religiose di Bologna, quando esse furono soppresse da Napoleone. In particolare, i manoscritti provengono dai due conventi bolognesi di S. Salvatore e S. Domenico, e dopo essere stati qualche tempo alla BUB, furono da Napoleone portati tutti a Parigi, presso la Bibliothèque nationale, dalla quale ritornarono a Bologna, quasi tutti e quasi integri, in seguito alla Restaurazione. Molti, infatti, recano il timbro della prestigiosa biblioteca parigina nelle prime o nelle ultime pagine. Tornando al Rotolo di Bologna, occorre chiarire che la Bibbia ebraica, quasi coincidente con l’Antico Testamento cristiano, che nel prenderla aggiunse alcuni libri detti «deuterocanonici», è composta da tre grandi gruppi di testi, ossia il Pentateuco o Torah, i Profeti, divisi in anteriori e posteriori e gli Scritti o Agiografi. Noi dunque, per il Rotolo di Bologna, non stiamo parlando dell’intera Bibbia ebraica, come erroneamente si è scritto su alcuni giornali in occasione della scoperta, ma solo del Pentateuco. Inoltre, è bene precisare che ci riferiamo a un rotolo di 36 m e non a un codice, perché di Bibbie ebraiche o di Pentateuco scritti su codice, ne esistono di piú antichi.
Puro testo consonantico Un’altra peculiarità del Sefer Torah di uso liturgico è che deve contenere solo il puro testo consonantico del Pentateuco, senza il sistema di punti e lineette che aggiungono le vocali e altri segni per gli accenti indicanti, oltre all’accento tonico, la punteggiatura e una guida alla cantillazione liturgica del testo. Possiamo affermare, allora, che il Rotolo 2 della Biblioteca Universitaria di Bologna, a queste condizioni, ossia di essere un rotolo di uso liturgico con il solo testo consonantico intero, costituisce il Sefer Torah piú antico a oggi noto. Ma come, esattamente, è avvenuta
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la sua «riscoperta»? Tutto è nato dalla decisione di chi scrive di redigere un nuovo catalogo della piccola collezione di manoscritti ebraici posseduti dalla BUB, composta da una trentina di documenti, già catalogata alla fine dell’Ottocento da un ebreo di Pieve di Cento, che lavorava appunto come bibliotecario alla BUB. Si chiamava Leonello Modona e, nel suo Catalogo dei codici ebraici della Biblioteca della R. Università di Bologna del 1889, al Rotolo 2 dedica poche righe, in cui scrive: «Carattere di tipo italiano piuttosto goffo, in cui alcune lettere, oltre le solite coroncine o apici (taghín) portano delle appendici non comuni e strane. Secolo XVII (?). Contiene l’intero Pentateuco. È scorrettissimo e presenta non poche omissioni e aggiunte in margine della stessa mano dello scriba del testo. Ne è ignota la provenienza».
Quando lo ebbi fra le mani, per esaminarlo e confrontarlo con quanto diceva il precedente catalogatore, mi sono subito accorto che il Sefer Torah di Bologna era vergato in una bellissima grafia orientale antica, e che la scheda del catalogatore ottocentesco andava ignorata e rifatta. Esaminatolo piú attentamente e consultatomi con i maggiori esperti di Rotoli del Pentateuco e di paleografia ebraica, ho potuto trovare un consenso unanime sull’antichità del Sefer, con una datazione che, nella nostra discussione, oscillava tra il tardo XI e il XIII secolo, per alcuno sforando nel XIV. Jordan Penkower, con Angelo Piattelli, propendeva per una collocazione alla seconda metà del XII secolo e, comunque, non oltre il 12201230, ossia una generazione dopo la morte del Maimonide, avvenuta nel 1204. Questo perché appunto Mosè ben Maimòn (o Maimonide) contribuí a fissare le regole relative alla copia del Rotolo del Pentateuco, che dopo di lui furono unanimemente accettate dagli scribi, con quanto scrisse nel Trattato sul Rotolo della Torah, contenuto all’interno del suo opus magnum, il Mishneh Torah (La Ripetizione della Legge).
Il responso del radiocarbonio Dall’analisi al radiocarbonio condotta sotto la guida di Lucio Calcagnile, direttore del CEDAD (CEntro di Datazione e Diagnostica) del Dipartimento di Ingegneria dell’Innovazione dell’Università del Salento di Lecce, è risultato che il rotolo deve essere datato tra la seconda metà del XII e il primo quarto del XIII secolo, vale a dire tra il 1155 e il 1225, un termine cronologico che ne fa il piú antico Rotolo della Torah completo che si conosca. Perché il Rotolo di Bologna è di estremo interesse? Non solo per la sua antichità, ma anche per la tradizione scrittoria che il suo copista segue, che fa di esso un autentico fossile graficosettembre
MEDIOEVO
A destra e nella pagina accanto alcuni particolari del Rotolo 2, con il testo in ebraico, vergato nella grafia orientale antica, con coroncine di due o tre tratti sopra alcune lettere.
scrittorio di grande importanza. Prima che fosse canonizzata verso il XII secolo una delle tradizioni scrittorie note nel I millennio in relazione alla copia del Sefer Torah, si seguiva una tradizione che possiamo chiamare orientale babilonese, accanto a quella sviluppata dalle accademie rabbiniche palestinesi, o della terra d’Israele. Questa seconda tradizione scrittoria sarà quella canonizzata dal XII secolo in poi, soppiantando la prima, quella attestata dal rotolo bolognese, che praticamente scomparve. Anche se Maimonide per certe cose
seguiva la tradizione babilonese, per altre si assestò e contribuí alla diffusione della tradizione palestinese rabbinica. In poche parole, il Rotolo della BUB non presenta e non segue le regole della tradizione palestinese, perché segue quella babilonese.
Sopra e sotto le lettere Un fenomeno analogo si verifica negli stessi ultimi secoli del I millennio per il sistema di puntazione vocalica e degli accenti. Ne esistevano almeno due: uno di
Morbido come il lino Ecco alcune caratteristiche materiali codicologiche e paleografiche del Sefer. Rotolo in pelle ovina; alto 640 mm x 36 m di lunghezza; composto da 58 sezioni cucite fra loro, delle quali 37 di 3 colonne, 18 sezioni di 4 colonne e solo 3 sezioni di 5 colonne, per un totale di 198 colonne, tutte di 48 linee, con qualche eccezione di 47; elegante scrittura calligrafica quadrata orientale, con spaziature, ornamentazioni e coroncine (taghín) e forme arricciate delle lettere secondo la tradizione orientale del Sefer Taghe. Presenta una rigatura a secco, mentre la foratura nei margini esterni delle sezioni appare spesso doppia. La pelle è caratterizzata da un’estrema morbidezza tale da sembrare un tessuto di lino. Il rotolo, integro, non è tuttavia piú ancorato ai suoi due perni lignei originari: ne presenta infatti solo uno, interno, ossia alla fine del Deuteronomio, il quale è costituito da un bastone recente, senza impugnature. Copiato in grafia orientale, probabilmente in Oriente o in Italia meridionale (Puglia?) da uno scriba di origine babilonese tra la seconda metà del XII e il primo quarto del XIII secolo.
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tipo palestinese, sviluppato dalle accademie rabbiniche di Tiberiade e degli altri centri di studio di Galilea, basato su punti in prevalenza da porre sotto le lettere, e un altro babilonese, che invece usava in prevalenza segni sopra lineari. Per il diffondersi e di fronte alla accettazione e canonizzazione di quello tiberiense, il sistema babilonese scomparve. È avvenuta la stessa cosa con la tradizione grafico-scrittoria relativa alla copia del Rotolo del Pentateuco: ne esisteva una babilonese, che tuttavia, dal XII secolo, quasi scompare, soppiantata da quella palestinese. Il Rotolo della BUB è, a oggi, non solo il testimone piú antico del Pentateuco intero su rotolo di uso liturgico, ma altresí per l’uso della tradizione babilonese nelle varie scribal devices usate dai copisti. Le coroncine, o taghín, e le lettere arricciate che ornano il Sefer Torah, in entrambe le tradizioni, non sono semplici abbellimenti estetici, ma ogni tratto di essi è latore di significati mistici ed esoterici, di cui abbiamo perduto la sintassi. Sarebbe auspicabile che questa scoperta ci stimolasse a recuperare una tale sapienza perduta. Mauro Perani
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Ante prima
Indispensabili, eppure disprezzati mostre • Ebrei/denaro: quali ragioni storiche e sociali hanno presieduto
al formarsi di questo binomio? Un’affascinante esposizione al Museo Ebraico di Francoforte indaga le origini medievali di un topos dell’immaginario collettivo europeo
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on è solo un luogo comune, ma un dato storicamente accertato il fatto che le professioni svolte dagli Ebrei durante il Medioevo fossero legate, soprattutto, al prestito di denaro. Ricco di implicazioni storiografiche e ideologiche, l’argomento è stato affrontato dalla mostra in corso al Museo Ebraico di Francoforte (moderna «città delle banche» per eccellenza). L’esposizione prende le mosse da alcuni interrogativi, primi fra tutti: è stata, quella di dedicarsi alle attività finanziarie, una scelta libera o, in qualche maniera, imposta? E quali furono le sue ripercussioni sul piano giuridico e sociale? Come chiarisce nella premessa del catalogo una delle curatrici della mostra, Martha Keil, agli esordi della presenza ebraica in Germania (tra il IX e il X secolo), l’attività piú diffusa era quella del commercio internazionale, sebbene le fonti sull’argomento su questo periodo siano troppo scarne per poter affermare che si trattasse di un’occupazione «tipica» dell’ebraismo ashkenazita della prima ora. Per i secoli tra il XIV e il XVI, invece, la documentazione elenca una grande varietà di professioni svolte dai membri delle comunità ebraiche, tra cui medici e piccoli impiegati, ma soprattutto professioni legate ai precetti rituali della religione ebraica, come viticultori, fornai, e perfino sarti. Nelle fonti sono anche saltuariamente menzionati
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rilegatori, conciatori, fabbri, orafi e vetrai. Come dimostrano numerosi documenti originali esposti in mostra, il passaggio dal commercio internazionale al prestito di denaro Shylock
si verificò tra l’XI e il XIII secolo, ovvero in un epoca di generale crescita e sviluppo dell’Europa cristiana. L’impellente necessità di denaro richiesto per l’ampliamento dei centri urbani, l’incremento delle corti imperiali e principesche, la costruzione di castelli, monasteri e chiese fece sí che gli stessi regnanti promuovessero l’istituzione di comunità ebraiche, alle quali era concesso (contrariamente ai cristiani) di esercitare il prestito di denaro.
Privilegi ed esclusioni Agli Ebrei vennero garantite condizioni particolarmente favorevoli per l’esercizio di questa attività, mentre l’accesso ad altre professioni – tra cui lo stesso commercio – fu ostacolato da norme che, invece, favorirono la popolazione cristiana.
I due volti dei soldi Due figure letterarie hanno contribuito a diffondere, nella cultura europea rinascimentale e illuministica, un’immagine simile, ma anche diversa, del binomio «Ebreo-denaro»: quella del prestatore di denaro Shylock, coprotagonista del Mercante di Venezia di William Shakespeare (opera scritta tra il 1586-89) e quella del colto e benestante Nathan il Saggio, creata duecento anni dopo dallo scrittore e drammaturgo tedesco, Gotthold Ephraim Lessing, e protagonista dell’omonimo dramma. Nathan il Saggio
Nella pagina accanto, dall’alto monete d’argento facenti parte del «tesoro di Erfurt», XIII-XIV sec. (vedi «Medioevo» n. 196, maggio 2013); lo shakespeariano Shylock, interpretato da Werner Kraus; Otto Rouvel nei panni di Nathan il Saggio, nell’omonimo dramma di G.E. Lessing. Qui accanto un ebreo nella «danza della morte», in un’incisione di Matthäus Merian il Vecchio. 1649. Almeno a partire dalla fine del XIII secolo, agli Ebrei furono interdetti ogni attività commerciale nonché l’accesso allo studio del diritto e – con l’eccezione di alcune università italiane e spagnole – anche a quello della medicina. I privilegi concessi, da una parte, e le severe norme esclusive dall’altra, fecero sí che, nel XIII secolo, quasi tutta la popolazione ebraica, dai livelli piú alti fino ai servi, fosse coinvolta nel prestito di denaro. Essenziale economicamente e, pertanto, promossa dai regnanti attraverso l’elargizione di privilegi, quella del prestito di denaro era una professione conflittuale, soggetta a crisi e tale da attirare risentimento e pregiudizio da parte della popolazione. Sia sul piano teologico, sia nella quotidianità venne cosí a crearsi l’equiparazione tra i concetti di «Ebreo» e di «usuraio», binomio che ebbe la sua fortuna nella lotta religiosa contro «l’usuraio peccatore», oltre a sedimentarsi nell’immaginario europeo dei secoli successivi. Andreas M. Steiner
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A destra miniatura raffigurante un cambiavalute, dal Mahzor (libro di preghiere) di Worms. 1272. In basso l’edificio che ospita il Museo Ebraico di Francoforte sul Meno. Dove e quando
Il Museo Ebraico di Francoforte sul Meno, inaugurato il 9 novembre del 1988 (nel cinquantenario della persecuzione del novembre 1938), illustra e documenta la storia e la cultura della comunità ebraica della città, dal XII al XX secolo. Oltre alle sale che ospitano l’esposizione permanente insieme a mostre temporanee, il Museo accoglie il Centro Studi «Oskar e Emilie Schindler», l’Archivio «Ludwig Meidner», una biblioteca e una mediateca. «Juden. Geld. Eine Vorstellung» («Gli Ebrei. I soldi. Una rappresentazione») Francoforte sul Meno, Museo Ebraico fino al 6 ottobre 2013 Orario tutti i giorni, 10,00-17,00 (mercoledí, 10,00-20,00); chiuso il lunedí Info www.juedischesmuseum.de
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Ante prima
Il cuore di Prato musei • Con la mostra Da Donatello
a Lippi, riapre il Palazzo Pretorio della città toscana. Nello splendido edificio medievale è allestita anche l’esposizione permanente, che comprende un percorso dedicato alla reliquia della Sacra Cintola
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opo un restauro ventannale, riapre, dal 13 settembre, in occasione della mostra Da Donatello a Lippi, il Palazzo Pretorio di Prato, struttura civile fra le piú belle dell’Italia centrale, che torna a giocare un ruolo di primo piano nella veste di museo. Nella tessitura muraria di questo parallelepipedo merlato, si leggono, già dall’esterno, diverse fasi medievali: l’edificio destinato al podestà, alla magistratura e alle prigioni ha acquisito la
fisionomia attuale fra Due e Trecento, incorporando tre strutture preesistenti.
Le testimonianze piú antiche Dopo il restauro di affreschi, soffitti, materiale lapideo, è stato studiato un allestimento dalle linee pulite, che esalta le testimonianze piú antiche: si possono infatti ammirare il capitello figurato del Trecento al pianterreno,
l’affresco mariano firmato da Bettino di Corsino nel 1307, e gli splendidi soffitti, sempre del XIV secolo, con travicelli lignei dipinti al primo piano. Nel nuovo museo, oltre a locali di accoglienza (biglietteria, bookshop, guardaroba), il pianterreno accoglie una sezione introduttiva sulle vicende storiche pratesi e sulla vita all’interno del Palazzo Pretorio. Al piano superiore una videoproiezione racconta la Sacra Cintola, fra storia, In alto Filippo Lippi e bottega, Natività. Prato, Museo di Palazzo Pretorio. A sinistra il palazzo pratese dopo il restauro.
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Ante prima leggenda e identità cittadina. La sottile fettuccia è una reliquia mariana, che la Vergine avrebbe affidato a san Tommaso prima dell’Assunzione al cielo. Dopo diversi passaggi di proprietà, la Cintola finí nelle mani del mercante Michele Dagomari da Prato, che, rientrato in patria da Gerusalemme, appena prima di morire, donò alla comunità la stoffa, destinata a richiamare fra i pellegrini anche nobili, imperatori e pontefici. La Cintola è diventata nel tempo anche un simbolo di Prato e della sua vocazione per il tessile. Al suo culto si riferiscono gli affreschi eseguiti da Agnolo Gaddi per la cappella del Duomo e riproposti nell’allestimento multimediale di Palazzo Pretorio: si tratta di un racconto articolato, coinvolgente, anticipato in maniera piú sintetica nella predella con Storie della cintola (1337-1338) di Bernardo Daddi, giottesco che guardava alla pittura senese contemporanea. E anche Filippo Lippi dedica allo stesso soggetto una Madonna,
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immagine simbolo della mostra Da Donatello a Lippi. Officina pratese, allestita con opere che si dipanano fra il primo e il secondo piano del palazzo. La rassegna fa rivivere un periodo d’oro dell’arte pratese, restituendo il clima e il fervore creativo che prendono vita attorno alla fabbrica della cattedrale nel primo Rinascimento.
L’allestimento permanente All’indomani dell’esposizione, quando, nella primavera del 2014, il museo acquisirà la struttura definitiva, accanto al polittico di Bernardo Daddi troveranno collocazione due nuclei importanti, le opere del Trecento e le tavole di Filippo Lippi. Nella sezione del tardo gotico figurerà un innovatore del giottismo come Giovanni da Milano, accanto a Lorenzo Monaco, che, agli stilemi del gotico internazionale, unisce la presenza di elementi fantastici. Poi ci saranno i lavori di Mariotto di Nardo e Andrea di Giusto che guarda già all’Angelico.
Sempre al primo piano verrà presentata l’arte del Quattrocento, con opere di Filippino Lippi, Luca Signorelli e Donatello. Il percorso espositivo del museo continuerà quindi con un criterio cronologico: al secondo piano troveranno collocazione le grandi pale dipinte fra il XVI e il XVIII secolo, nel mezzanino i quadri del Settecento e al terzo piano i lavori dei secoli successivi, fino al Novecento. Stefania Romani Dove e quando
«Da Donatello a Lippi. Officina pratese» Museo di Palazzo Pretorio Prato, piazza del Comune fino al 13 gennaio 2014 (dal 13 settembre) Orario tutti i giorni, 10,00-19,00; chiuso martedí Info tel. 0574 1934996; www.officinapratese.com Info su Palazzo Pretorio www.palazzopretorio.prato.it
settembre
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Sublimi tormenti N
el 2014 cade il 450° anniversario della morte di Michelangelo e Firenze si prepara a celebrare l’evento offrendo uno strumento moderno e innovativo, che permette di far conoscere le opere michelangiolesche presenti nel capoluogo toscano. Si tratta di un sistema interattivo multimediale monografico che, tramite 31 videoclip, «sfogliabili» su tre postazioni touch screen collocate nella Galleria dell’Accademia, nel Museo Nazionale del Bargello e nella Sacrestia Nuova del complesso monumentale di S. Lorenzo, offre un percorso virtuale degli otto luoghi fiorentini che ospitano opere di Michelangelo. Il progetto, volto a un pubblico allargato, si presenta con una grafica stimolante dai contenuti essenziali e aggiornati, redatti in italiano e in inglese per una fruizione dell’arte da parte di tutti. Sarà possibile organizzare un itinerario personalizzato, magari partendo proprio da Casa Buonarroti che ospita la Madonna della Scala e la Battaglia dei Centauri, lavori giovanili, eseguiti dall’artista quando ancora si trovava sotto la protezione di Lorenzo il Magnifico. I due bassorilievi mostrano come, appena quindicenne, Michelangelo già possedesse una estrema abilità nel maneggiare la materia e la tecnica scultorea, dando vita ed energia alle sue composizioni.
Artista eccelso ed eclettico Ne sono testimonianza unica il David, capolavoro realizzato tra il 1501 e il 1504, simbolo universale della vittoria sopra la tirannia e i 4 Prigioni, figure emblema del suo «genio» e della sua tormentata vita spirituale, nei quali parti appena abbozzate si fondono ad altre rifinite, oggi visibili all’Accademia. Eccellente scultore, ma anche «divino» pittore, come dimostra il Tondo Doni alla Galleria degli Uffizi. Il contrasto interiore e la ricerca costante di una perfezione spirituale, nella lotta per liberare l’anima
Alcuni dei disegni a carboncino di Michelangelo che sarà possibile vedere con il nuovo sistema multimediale. dalle catene della materia inerte, contribuirono alla realizzazione della Sacrestia Nuova della basilica di S. Lorenzo, opera maestra di architettura e scultura. Dalla Sacrestia Nuova si accede alla minuscola stanza segreta che custodisce i disegni a carboncino raffiguranti vari soggetti, creati da Michelangelo durante i tre mesi in cui rimase nascosto in questo spazio ristretto per timore di ritorsioni da parte dei Medici, dopo il loro rientro a Firenze. Per motivi di sicurezza non è consentita l’entrata al pubblico, ma ora è possibile vederli attraverso le «pagine» virtuali dei totem multimediali. Intensamente drammatica è l’ultima Pietà, quasi un testamento artistico, conservata al Museo dell’Opera del Duomo, risalente agli ultimi anni di vita dell’artista, quando le crisi depressive erano ormai aggravate dal peso della vecchiaia. Michelangelo muore a Roma nel 1564, ma il suo corpo è sepolto in S. Croce a Firenze, in una tomba monumentale, eseguita nel 1570 su disegno di Giorgio Vasari, che lo riteneva ineguagliabile nelle tre arti, pittura, scultura e architettura, definendolo «colui che porta la palma». Mila Lavorini
Errata corrige con riferimento al n. 198 (luglio 2013) al dossier «Teodorico, il Goto che volle farsi romano», desideriamo segnalare che nella didascalia di p. 90 (Damnatio memoriae) l’oggetto della cancellazione della figura del sovrano in trono è stato erroneamente indicato in Giustiniano e non in Teodorico. Nell’articolo «Esplorare e... deportare», a p. 70, la località di capo Bianco è stata invece indicata come appartenente alla Tunisia, mentre il promontorio, oggi noto come Ras Nouadhibou, si trova sulla costa occidentale dell’Africa, alla latitudine di 20° Nord circa, al termine di una lunga penisola, spartita tra la Mauritania e il Sahara Occidentale. Infine, con riferimento al «Dossier di Medioevo» Il Medioevo nascosto-Parte II: Italia centro-meridionale, nella didascalia di p. 5, il castello di Mussomeli (vedi foto) è stato «proiettato» in cima a una rupe «a picco sul mare»: ubicazione evidentemente improbabile, dal momento che la costa piú vicina si trova a una cinquantina di chilometri dal sito. Del tutto ci scusiamo con gli autori degli articoli e con i nostri lettori.
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Ante prima
La volata della Vergine appuntamenti • La festa della Madonna della Consolazione, patrona di Reggio
Calabria, si svolge quest’anno il 14 settembre. Le celebrazioni che animano la città ruotano intorno a un’icona che vanta una storia antichissima
A
Reggio Calabria il culto della Madonna della Consolazione, patrona cittadina fin dal 1576, risale alla fine del Quattrocento, quando una famiglia genovese si trasferí nella città sullo Stretto portandovi un’immagine della Vergine alla quale era molto devota. Il dipinto fu custodito inizialmente dai frati francescani, poi cappuccini, in una cappella costruita appositamente sulla collina denominata La Botte. Nel 1547, su incarico del nobile Camillo Diano, il pittore reggino Niccolò Andrea Capriolo riprodusse quell’immagine in un quadro di dimensioni notevolmente maggiori (una tavola di 120 x 120 cm), che raffigura la Vergine seduta in trono mentre sorregge Gesú Bambino, tra san Francesco con una croce e il libro delle Regole e sant’Antonio da Padova con il giglio e il libro della scienza teologica; in alto due angeli incoronano la Madonna, che reca in mano una palma. Del dipinto originario si persero invece le tracce, dopo il trasferimento della famiglia Diano a Malta. Nel 1569 sulla collina dell’Eremo sorse la prima chiesa e il culto della Madonna della Consolazione si diffuse tra i Reggini negli anni successivi, quando superò, indenne, ripetute calamità, quali terremoti, gravi pestilenze e, non ultimo, assalti dei Turchi.
La corsa sul carro d’argento Oggi la festa della patrona di Reggio Calabria ricorre ogni anno il sabato successivo all’8 settembre, quest’anno il giorno 14. Dopo le celebrazioni dei sette sabati precedenti, nella serata del venerdí di vigilia centinaia di fedeli si recano in pellegrinaggio nella basilica
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del santuario dell’Eremo, per una grande veglia notturna. La mattina del sabato, dopo la Messa solenne, l’icona della Madonna della Consolazione viene accompagnata in processione per essere consegnata all’arcivescovo in piazza del Popolo, da dove procede alla volta della Cattedrale cittadina. Il dipinto viene trasportato dai fedeli su una pesante Vara (carro) argentea, che, prima di entrare in Cattedrale, è oggetto della tradizionale «Volata»: i portantini fanno un giro della piazza di corsa sotto il peso dell’effigie.
La Madonna della Consolazione sfila per le vie di Reggio Calabria. Il martedí seguente, in mattinata, nella cattedrale va in scena la suggestiva Offerta del Cero da parte del sindaco di Reggio Calabria; poi, in serata, si svolge per le vie cittadine una nuova processione, con l’immagine della Vergine. Durante i giorni di festa la città muta il suo aspetto con spettacoli, musica, danze popolari e bancarelle che propongono piatti tradizionali. Tiziano Zaccaria settembre
MEDIOEVO
Ante prima
Re per un anno appuntamenti • Le Puy-en-Velay, in
Francia, torna ad animarsi con il festival rinascimentale, che ha il suo clou nella gara di tiro con l’arco, il cui vincitore riceve un premio davvero particolare
A
ntica cittadina situata nella regione francese dell’Auvergne, Le Puy-en-Velay è il punto di partenza della via Podense, uno dei grandi cammini storici che portano a Santiago de Compostela. Nell’anno 950 il vescovo cittadino Godescalc affrontò per primo un pellegrinaggio nel centro spagnolo noto quale sede delle spoglie mortali di Giacomo il Maggiore, apostolo di Gesú, secondo la tradizione cristiana. Nei secoli successivi Le Puy-en-Velay si consolidò come base di partenza di questo cammino e, di conseguenza, divenne un importante centro per la fede cristiana, tanto che, nel 1210, il vescovo Bertrand Chalancon concesse di vendere ai pellegrini grandi conchiglie raffiguranti san Giacomo. La chiesa di S. Chiara, costruita alla fine del XVI secolo, fu sede di una confraternita di Santiago, e anche l’ospedale locale, menzionato per la prima volta in un testamento del 1253, venne intitolato al santo di Compostella. Dunque, per tutto il Medioevo, questo centro godette di grande prosperità per l’arrivo di migliaia di pellegrini, attirati anche dalla presenza in città di una sacra effigie della Madonna Nera.
La corona al miglior tiratore In questo contesto di grande religiosità, non mancavano però i momenti di svago e divertimento. Le celebrazioni cristiane si
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Le Puy-en-Velay. Due momenti della rievocazione che ogni anno si conclude con l’incoronazione del Re dell’Uccello
trasformavano spesso in occasioni ludiche e fu cosí che nel Lunedí di Pentecoste del 1524 venne assegnato per la prima volta il titolo di Roi de l’Oiseau, il Re dell’Uccello, all’arciere che riuscí a colpire un volatile di paglia da grande distanza. Quella tradizione si protrasse negli anni successivi: il vincitore della gara di tiro con l’arco, oltre a ricevere onori e gloria, veniva prolamato «re» per
un anno, riceveva le chiavi della città e il diritto di portare la spada, allora riservato soltanto ai nobili oltre che ai militi, ma soprattutto veniva esonerato dal pagamento delle tasse locali nell’anno seguente. Oggi, nella terza settimana di settembre, quest’anno dal 18 al 22, Le Puy-en-Velay propone un festival rinascimentale a rievocare quel periodo florido. Per cinque giorni tremila figuranti in costume animano le strade e le piazze del centro storico, suddiviso in otto «isole» (Miramande, Viguerie, Estrapade, Lioussac, Panaveyre, Papelengue, Mochafède e Garamentes). In programma grandi parate, spettacoli di teatro di strada, musica, canti, danze, mostre sul tema del Rinascimento, fra accampamenti militari e scene di vita quotidiana nel XVI secolo. Naturalmente non mancano le figure dei pellegrini, pronti a partire per Santiago de Compostela. E immancabile è il torneo che proclama il Re dell’Uccello, in programma nella giornata di sabato nella place du Breuil. T. Z. settembre
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agenda del mese
a cura di Stefano Mammini
Mostre Roma Costantino 313 d.C. U Colosseo fino al 15 settembre
Dopo essere stata presentata a Milano, giunge a Roma la grande rassegna che celebra l’anniversario dell’emanazione, nel 313 d.C., dell’Editto di Milano da parte dell’imperatore romano d’Occidente Costantino e del suo omologo d’Oriente, Licinio. Con esso il cristianesimo, dopo secoli di persecuzioni, veniva
dichiarato lecito e si inaugurava cosí un periodo di tolleranza religiosa e di grande innovazione politica e culturale. info tel. 06 39967700; www.pierreci.it firenze Il Sogno nel Rinascimento U Galleria Palatina, Palazzo Pitti fino al 15 settembre
L’esposizione permette di addentrarsi per la prima volta in un argomento coinvolgente
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e affascinante, cercando di metterne in luce la ricchezza e varietà. Il tema del sogno assume infatti un rilievo particolare nella mitologia antica e nella cultura del Rinascimento, come dimostra il suo diffondersi nelle arti figurative e in particolar modo in opere di soggetto religioso o legate alla riscoperta dei miti antichi. Varie sezioni articolano la mostra, a partire da quelle che definiscono e precisano il contesto in cui il sogno si manifesta, cioè la notte e il sonno. Tra le altre tappe successive del percorso, spicca La vita è sogno, che trae origine dall’eccezionale fortuna iconografica di un disegno di Michelangelo, Il Sogno o la Vanità dei desideri umani, come dimostra il gran numero di riprese e copie che ne sono state eseguite, fra le quali quelle di Giulio Clovio, Francesco del Brina, Battista Franco. La mostra si conclude con un richiamo all’Aurora considerata
nel Rinascimento come lo spazio-tempo dei sogni veri (rappresentata da un dipinto di Battista Dossi) per aprirsi, infine, al Risveglio (con il Risveglio di Venere di Dosso Dossi) come espressione della ciclicità paradigmatica e complementare del tempo. info tel. 055 294883; www.unannoadarte.it Fano Guido Reni, La consegna delle chiavi. Un capolavoro ritorna U Pinacoteca San Domenico fino al 29 settembre
Le stanze della Pinacoteca accolgono la Consegna delle Chiavi, tela dipinta da Guido Reni per l’altare maggiore della chiesa fanese di S. Pietro in Valle, confiscata in epoca napoleonica, e oggi al Musée du Louvre di Parigi. L’opera è accompagnata da altri due prestigiosi capolavori del pittore bolognese, due Annunciazioni, una realizzata per la chiesa di S. Pietro in Valle e
oggi nella Pinacoteca Civica del Palazzo Malatestiano, e l’altra proveniente da Ascoli Piceno. Guido Reni (1575-1642) rappresenta uno degli esponenti di spicco del barocco italiano, e la mostra, oltre a costituire un’occasione imperdibile per ammirare uno dei suoi maggiori capolavori, recuperato, seppur temporaneamente, dopo quasi tre secoli di assenza dal territorio italiano, costituisce altresí una testimonianza del mecenatismo culturale del patriziato marchigiano nel corso del diciassettesimo secolo, nel momento in cui diversi aristocratici iniziano a mostrare interesse nei confronti della produzione artistica dei maggiori esponenti della scuola emilianobolognese, quali Ludovico Carracci, Domenichino, Guercino, Tiarini, Geminiani, Simone Cantarini e
Guerrieri. Per tutta la durata della mostra è stato predisposto un itinerario guidato alla scoperta delle opere del Seicento fanese. info tel. 0721 802885; www.fondazionecarifano.it roma Il Tesoretto di Montecassino U Museo Nazionale dell’Alto Medioevo fino al 30 settembre
È la prima esposizione del cosiddetto Tesoretto di Montecassino, costituito da una fibula aurea e da 29 monete d’oro databili tra i
secoli XI-XII. Proviene dal Lazio meridionale, ove fu rinvenuto nel 1898, presso la Badia di Cassino. Il prezioso insieme fu quindi separato: le monete vennero depositate presso il Medagliere del Museo Nazionale Romano, mentre la fibula fu affidata al Museo Nazionale dell’Alto Medioevo. L’accorpamento tra le Soprintendenze Archeologiche di Ostia e Roma ne ha favorito la riunificazione, in attesa di una sua definitiva sistemazione. Le fibule erano impiegate per la chiusura di capi di settembre
MEDIOEVO
vestiario e di mantelli, costituendo un elemento di continuità con l’abbigliamento dei tempi piú antichi, sia femminili che maschili. In questo caso la preziosità dell’oggetto e la sua squisita fattura, memore della precedente tradizione classica, fanno pensare a una committenza di alto rango. Le monete che compongono il gruzzolo rappresentano uno spaccato della monetazione aurea dei Normanni di Sicilia. Si tratta di 29 tarí in oro emessi dalle zecche siciliane di Palermo e Messina sotto tutti i signori normanni che in quegli anni si sono avvicendati. info tel. 06 54228199 firenze Nello splendore mediceo. Papa Leone X e Firenze U Museo delle Cappelle Medicee fino al 6 ottobre
La rassegna celebra Leone X, primo papa di casa Medici, a cinquecento anni dall’elezione al soglio pontificio. La mostra segue la vita di Giovanni, figlio secondogenito di Lorenzo il Magnifico,
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settembre
mostre • Carlo Magno e la Svizzera U Zurigo – Museo nazionale
fino al 2 febbraio 2014 (dal 20 settembre) info www.nationalmuseum.ch (anche in lingua italiana)
L
e innovazioni introdotte da Carlo Magno (741–814) costituiscono per molti aspetti i fondamenti della nostra cultura ed è questo uno dei motivi ispiratori della rassegna che il Museo nazionale di Zurigo dedica al grande imperatore, a 1200 anni dalla sua morte. Proprio ora, in un momento in cui lo spazio economico, politico e culturale europeo lotta per mantenere la coesione interna a seguito della diversità dei suoi sviluppi, una mostra sul periodo di Carlo Magno acquisisce un’inaspettata attualità: fu proprio il sovrano carolingio a riunire sotto un unico impero parti dell’Europa occidentale, orientale e meridionale. Oggi i rappresentanti delle relative nazioni discutono quasi ogni settimana, nell’ambito dell’Unione Europea, sulla conservazione dell’unità europea. Carlo Magno, primo imperatore del Medioevo, ha introdotto molte riforme, le cui basi rimangono attuali. La sua riforma scolastica rappresenta una strada da seguire. La scrittura da lui promossa è la base dei nostri caratteri tipografici. Grazie a lui sono stati tramandati testi di autori antichi e, di conseguenza, il loro sapere. La sua riforma monetaria è la base del nostro sistema moderno. E le sue costruzioni palatine hanno dato impulso all’edilizia in pietra. Ha rafforzato il cristianesimo in Occidente, fissato la liturgia, rivisto la Bibbia, costruito monasteri e disciplinato la vita dei monaci. Non a caso Carlo Magno è l’unico sovrano del Medioevo europeo ad avere ricevuto l’appellativo di Magno quando era ancora in vita. L’interesse attorno alla sua persona, al suo dominio e alle conquiste culturali del suo tempo perdura fino a oggi. La mostra illustra come le sue riforme abbiano inciso sull’istruzione, sulla fede e sulla società, e quali innovazioni vanno rilevate nell’arte e nell’architettura. L’esposizione, inserita nel contesto europeo, è incentrata sul patrimonio culturale della Svizzera odierna risalente all’epoca di Carlo Magno. dalla nascita a Firenze, nel 1475, fino al 9 marzo 1513, quando venne eletto papa, e al suo breve ritorno in patria nel 1515. Uno dei capitoli salienti del percorso è quello in cui si rievocano il pontificato di Leone X e i suoi riflessi su Roma. Gli anni del papato leonino furono celebrati come una nuova «età dell’oro», in cui la capitale della cristianità poté rivivere per opera non solo di artisti, ma anche di poeti e di umanisti, le istanze del mondo classico. Sono gli anni in cui si iniziarono o si proseguirono le grandi fabbriche dell’Urbe: fra le altre la basilica di S. Pietro, mentre
Raffaello dette seguito a imprese pittoriche straordinarie. info www.polomuseale. firenze.it Pieve di Cadore Tiziano, Venezia e il papa Borgia U Palazzo COSMO fino al 6 ottobre
La si potrebbe definire una mostra dossier, una mostra indagine, una potente lente di ingrandimento attraverso la quale il pubblico può penetrare nei diversi aspetti storici, stilistici, compositivi, iconografici di un’opera chiave degli inizi della carriera del grande Tiziano Vecellio. Un modo affascinante e insolito di cogliere i significati e i processi creativi che stanno
«dietro» e «dentro» un capolavoro. L’esposizione vuole essere il racconto, assolutamente inedito, di quella notissima e fondamentale opera, conservata al Museum voor Schone Kunsten di Anversa, in cui Tiziano dipinge «Il vescovo Jacopo Pesaro e papa Alessandro VI davanti a San Pietro». Un’opera che ora si conosce meglio, grazie alla recente pulitura e alle preliminari indagini e che – dopo tanti tentativi compiuti negli anni passati – è prestata in Italia per la prima volta solo in occasione degli eventi tizianeschi di questa stagione. info tel. 0435-212170; www.tizianovecellio.it
Torino Il collezionista di meraviglie, l’Ermitage di Basilewsky U Palazzo Madama fino al 13 ottobre.
Offre diverse chiavi di lettura la mostra delle opere di Alexander Basilewsky, diplomatico e collezionista di spicco nell’Europa dell’Ottocento. Attraverso capolavori mai usciti dalla Russia, la rassegna avvicina a un’idea raffinata dell’Età di Mezzo, con oggetti liturgici di altissima qualità, quali calici, reliquiari, croci, pissidi, piatti di legature per codici. Dopo gli oggetti di culto dei primi cristiani, come le lucerne in bronzo e i vetri dorati in foglia d’oro, su tutti il
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agenda del mese Tivoli Cacce principesche. L’arte venatoria nella prima età moderna U Villa d’Este fino al 20 ottobre
Le sale della villa tirburtina ospitano oltre sessanta opere, rare e talvolta inedite (dipinti, sculture, armi, utensili e stampe) inerenti alle cacce principesche, praticate nelle corti italiane tra il Cinque e il Settecento. Sacrificio di Isacco del IV secolo, l’esposizione presenta, tra gli altri, materiali bizantini, romanici, avori dalla Sicilia e dall’Italia meridionale, poi Limoges del Duecento e oreficeria mosana. Non mancano le armi, che Basilewsky cominciò a collezionare in Oriente, né materiali di età rinascimentale, tra cui maioliche italiane, francesi, e smalti dipinti di Limoges. info tel. 011 4433501; www.palazzo madamatorino.it perugia RAFFAELLO E PERUGINO. Modelli nobili per Sassoferrato a Perugia U Nobile Collegio del Cambio fino al 20 ottobre
La mostra, che propone il confronto fra tre grandi maestri – Perugino, Raffaello e Sassoferrato –, è la prima importante estensione fuori dalla Toscana del progetto «La città degli Uffizi». Per Raffaello si tratta di un ritorno a Perugia, che avviene attraverso il
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celeberrimo Autoritratto (dipinto tra il 1504 e il 1506), capolavoro collocato nella Sala dell’Udienza del Nobile Collegio, la stessa che, con il suo maestro Perugino, lo vide all’opera, probabilmente come semplice collaboratore, agli esordi della carriera. Insieme al suo Autoritratto giungono dagli Uffizi quello del suo maestro, il Perugino appunto, e quello non meno straordinario di un artista posteriore che ai due ispirò il proprio lavoro, ovvero Giovan Battista Salvi detto il Sassoferrato. Un gioco di autoritratti in cui si esemplifica la nuova consapevolezza degli artisti del Rinascimento. info tel. 075 5728599
U Museo Diocesano, Palazzo De Vio fino al 27 ottobre
La prima mostra interamente dedicata alla produzione artistica del maestro gaetano Scipione Pulzone (1540 circa-1598) si confronta con il territorio di origine del pittore. Il progetto espositivo si articola in sei sezioni e offre l’opportunità di ammirare dipinti firmati attribuzione per una stimolante occasione di vaglio critico. info tel. 0771 4530233 Firenze Diafane passioni. Avori barocchi dalle corti europee U Museo degli Argenti, Palazzo Pitti fino al 3 novembre
Manifestazione del potere e dell’eleganza delle élite di tutta Europa, la caccia fu, sin dal Medioevo, uno dei piú importanti momenti di aggregazione sociale. La mostra trova una sede eccezionale a Villa d’Este, decorata con temi venatori già nei primi decenni del Seicento dalla scuola di Antonio Tempesta. Inoltre, la villa, il suo parco e i boschi circostanti furono, sin dal primo Cinquecento, i palcoscenici delle leggendarie cacce degli Estensi e dell’aristocrazia papale. info tel. 0774 335850; www.villadestetivoli.info Gaeta SCIPIONE PULZONE DA GAETA A ROMA ALLE CORTI EUROPEE
e datati, riuniti e messi a confronto per la prima volta secondo il criterio tematico e cronologico, insieme alle opere di incerta
Dalla metà del Cinquecento, e per circa due secoli, la scultura in avorio fu apprezzata e ricercata dalle corti europee
come una delle massime e piú sofisticate forme di espressione artistica. I piú importanti scultori del periodo barocco, sia in Italia che nei Paesi transalpini e addirittura nelle colonie portoghesi e spagnole, si cimentarono in questa tecnica raffinatissima e difficile, che univa alla perizia dell’artefice la preziosità della materia prima. Gli avori barocchi, nella loro importanza artistica internazionale, non sono mai stati oggetto né in Italia né all’estero di una grande esposizione, e questa rappresenta la prima occasione per rimediare a questa lacuna. Occasione che non è un caso venga colta a Firenze, al Museo degli Argenti, dove si trova la piú estesa e formidabile raccolta storica di avori, composta da opere dei maggiori scultori in questa tecnica. Una mostra di quasi centocinquanta pezzi, che unisce i tesori fiorentini a pregevoli esemplari provenienti dai piú importanti musei stranieri e ad altri avori mai visti prima, custoditi in collezioni private, dà vita a un nuovo e spettacolare capitolo della storia dell’arte. info tel. 055 294883; www.unannoadarte.it
e Palazzo San Sebastiano fino al 10 novembre 2013
Mantova
Firenze
AMORE E PSICHE La favola dell’anima U Palazzo Te
Dal giglio al David. Arte civica a Firenze fra Medioevo e
MEDIOEVO
settembre
Nell’ambito della valorizzazione di Palazzo Te, la Fondazione DNArt ha studiato un progetto che, attraverso l’esposizione, ripercorre il tema dell’anima ricercandone le tracce simboliche e archetipiche nell’arte. Le opere archeologiche e artistiche dislocate negli spazi della residenza gonzaghesca accompagnano il visitatore alla riscoperta del mito di Amore e Psiche. Il progetto acquista un ulteriore valore simbolico, in quanto proprio a Palazzo Te si trova la sala di Amore e Psiche, affrescata da Giulio Romano
per Federico II Gonzaga tra il 1526 e il 1528. Per la mostra sono confluiti a Palazzo Te e al Museo di Palazzo San Sebastiano reperti archeologici e opere d’arte di maestri tra cui Tintoretto, Auguste Rodin, Salvador Dalí, Tamara de Lempicka. info tel. 0376 323266; e-mail: biglietteria.te@ comune.mantova.gov.it
Rinascimento U Galleria dell’Accademia fino all’8 dicembre
Protagoniste dell’esposizione sono le opere d’arte nate per arricchire sia i palazzi pubblici fiorentini, sia gli edifici sedi delle Arti, cioè le antiche corporazioni dei mestieri, o delle magistrature, e addirittura la cerchia di mura cittadine. Temi come l’araldica e la religione civica, legati ai luoghi emblematici della città come il Palazzo dei Priori e Orsanmichele, offrono dunque una nuova chiave di lettura che sottolinea l’importanza delle immagini nella comunicazione e nella propaganda delle fazioni che governavano in età comunale e repubblicana, prima che l’ascesa dei Medici modificasse profondamente l’assetto politico ed
estetico del capoluogo toscano. info tel. 055 2388612; e-mail: galleriaaccademia@ polomuseale.firenze.it; www.polomuseale.firenze.it Trento Sangue di drago squame di serpente. Animali fantastici al Castello del Buonconsiglio U Castello del Buonconsiglio fino al 6 gennaio 2014
successo, la mostra abbraccia un arco cronologico compreso tra l’antichità e l’Ottocento, e, grazie a opere di scultura, pittura, architettura e disegno, racconta il mondo animale, frutto delle fantasie e delle paure dell’uomo. Ricca di postazioni multimediali e filmati, la rassegna è inoltre arricchita da una sezione, allestita a Riva del Garda, dal titolo «Mostri smisurati» e creature fantastiche tra i flutti, che espone un ristretto ma importante nucleo di opere prevalentemente cinquecentesche aventi per tema creature fantastiche e animali mitici che, nell’immaginario antico, abitavano le acque dei laghi e dei mari. info tel. 0461 233770; e-mail: info@buonconsiglio.it; www. buonconsiglio.it
Organizzata in collaborazione con il Museo Nazionale Svizzero di Zurigo, che l’ha già ospitata con
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agenda del mese Ferrara
milano
Zurbarán (1598-1664) U Palazzo dei Diamanti fino al 6 gennaio 2014 (dal 14 settembre)
Leonardo3. il Mondo di Leonardo U Sale del Re fino al 28 febbraio 2014
Insieme a Velázquez e Murillo, Francisco de Zurbarán fu tra i protagonisti del Siglo de oro della pittura spagnola e di quel naturalismo raffinato che lasciò un’eredità duratura nell’arte europea. A rendere unico lo stile del pittore fu la sua capacità di tradurre gli ideali religiosi dell’età barocca con invenzioni grandiose e al contempo quotidiane, plasmando forme di una tale essenzialità, purezza e poesia, da toccare profondamente l’immaginario moderno. La rassegna è l’occasione per ammirare per la prima volta in Italia i capolavori di uno dei massimi interpreti dell’arte barocca e della religiosità controriformista. Il percorso espositivo, scandito in sezioni cronologico-tematiche, evidenzia il talento del pittore nell’imporre un registro innovativo a generi e temi della tradizione. info tel. 0532 244949; e-mail: diamanti@comune. fe.it www.palazzodiamanti.it
Allestita in piazza della Scala, all’ingresso della Galleria, la mostra, interattiva e multidisciplinare, è dedicata a Leonardo artista e inventore e alle sue macchine ingegnose. Sono presentate oltre 200 macchine interattive in 3D, oltre a ricostruzioni fisiche dei diversi congegni, molti inediti e mai ricostruiti dopo Leonardo, realizzati nel rispetto del progetto originale. Tra gli altri, possiamo ricordare: la clavi-viola, il leone meccanico, il cavaliereRobot o la bombarda multipla. Tra le esperienze interattive in 3D vi sono le anteprime del Codice Atlantico in edizione completa, con oltre 1100 fogli consultabili digitalmente. E, nella sezione Leonardo a Milano, è compresa una stazione dedicata al Cavallo gigante, ovvero al monumento a Francesco Sforza, che svela anche come avrebbe potuto essere l’opera completa. info tel. 02 794181; e-mail info@leonardo3. net; www.leonardo3.net, www.facebook.com/ leonardo3museum
Rovereto Antonello Da Messina U Mart fino al 12 gennaio 2014 (dal 5 ottobre)
Il progetto espositivo propone un’indagine articolata e uno sguardo originale sulla figura del grande pittore del Quattrocento e sul
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suo tempo, attraverso lo studio degli intrecci storico-artistici e delle controversie ancora aperte, presentati in questa sede come punti di forza attraverso i quali approfondire nuovi percorsi di interpretazione critica. Questa rilettura di Antonello da Messina non offre solo la ricerca della collocazione cronologica delle opere, l’analisi dei rapporti con i maestri a lui contemporanei, delle similitudini e delle differenze, ma è concentrata anche su una profonda analisi dell’intelligenza poetica di un artista «non umano», come lo definí il figlio Jacobello, che ha saputo cogliere le sfumature psicologiche e le caratteristiche piú intime dell’esistere. info numero verde 800 397760; e-mail: info@mart.trento.it, infogruppi@mart.trento.it; www. mart.trento.it
Appuntamenti modena, carpi, sassuolo FESTIVALFILOSOFIA 2013: EROS E DINTORNI U Sedi varie 13-15 settembre
Un concetto chiave della tradizione filosofica e una questione cruciale dell’esperienza contemporanea, l’«amare», è il tema dell’edizione 2013 della rassegna, che si svolge in 40 luoghi diversi delle tre città coinvolte e prevede lezioni magistrali, mostre, spettacoli, letture, giochi per bambini e cene filosofiche. È anche in programma «la lezione dei classici», in cui esperti eminenti commentano i testi che, nella storia del pensiero occidentale, hanno costituito modelli o svolte concettuali rilevanti per il tema dell’amore, da Platone ad Aristotele, dal Cantico dei cantici alle opere di Agostino, da Baruch Spinoza e Adam Smith, fino alle elaborazioni novecentesche di Lacan e Foucault, con in piú un fuori pista comparativo sul
pensiero cinese tradizionale. Tra le mostre allestite a corollario dei dibattiti, segnaliamo quella sui temi amorosi nei dipinti
del barocco emiliano e l’esposizione, in prima assoluta, dei corpi di due amanti rinvenuti in una tomba d’epoca romana. info tel. 059 2033382; www.festivalfilosofia.it milano Cenacolo vinciano. aperture straordinarie u Cenacolo Vinciano 13 settembre, 15 novembre, 6 dicembre e 20 dicembre
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appuntamenti • Scopertura del pavimento figurato del Duomo di Siena U Siena – Duomo
fino al 27 ottobre info e prenotazioni tel. 0577 286300; e-mail: opasiena@operalaboratori.com; www.operaduomo.siena.it
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bitualmente protetto dal calpestio dei fedeli e dei visitatori, il prezioso tappeto di marmo del Duomo senese torna, come è ormai consuetudine, a offrirsi all’ammirazione del pubblico. Il pavimento «piú bello… grande e magnifico» mai realizzato, secondo la definizione di Giorgio Vasari, è il risultato di un complesso programma iconografico realizzato dal Trecento fino all’Ottocento. I cartoni preparatori per le cinquantasei tarsie furono disegnati da importanti artisti, quasi tutti «senesi», fra cui il Sassetta, Domenico di Bartolo, Matteo di Giovanni, Domenico Beccafumi, oltre che da pittori «forestieri», come l’umbro Pinturicchio. Nelle tre navate l’itinerario si snoda attraverso temi dell’antichità classica e pagana: la Lupa che allatta Romolo e Remo, l’egiziano Ermete Trismegisto, le dieci Sibille, i filosofi Socrate, Cratete, Aristotele e Seneca. Nel transetto e nel coro si narrano invece la storia del popolo ebraico, le vicende della salvezza compiuta e realizzata dalla figura del Cristo, costantemente evocato e mai rappresentato nel pavimento, ma presente sull’altare, verso cui converge l’itinerario artistico e religioso. Nel periodo della scopertura si svela, allo sguardo dello spettatore, anche la parte disegnata da Domenico Beccafumi che qui perfezionò la tecnica del commesso marmoreo tanto da ottenere risultati di luci e ombre, assimilabili al chiaro-scuro del disegno. Contemporaneamente continua l’apertura straordinaria de «La Porta del Cielo», i sottotetti della Cattedrale, in cui per secoli nessuno è potuto accedere, con l’eccezione delle maestranze e degli addetti ai lavori. Una volta giunti sopra le volte stellate della navata destra inizia un itinerario riservato a piccoli gruppi che, accompagnati da una guida, possono camminare «sopra» il sacro tempio e ammirare gli interni del Duomo e gli esterni della città. Attraverso le vetrate dal tamburo della cupola, si può inoltre osservare il pavimento nel suo insieme da una prospettiva diversa rispetto a quella abituale. Dal ballatoio della controfacciata si può godere poi della vista generale sulle tre navate con le tarsie raffiguranti i personaggi del mondo antico. Nel periodo della scopertura, le visite guidate al Pavimento e quelle alla Porta del cielo vengono effettuate non solo in orario consueto, ma anche in notturna. I due percorsi saranno aperti infatti tutti i sabati, fino al 26 ottobre, dalle 20,00 alle 24,00. Fino al prossimo dicembre, grazie a Eni, per cinque venerdí, le luci del Refettorio di S. Maria delle Grazie a Milano, dove Leonardo ha dipinto l’Ultima Cena, non si spegneranno e sarà possibile ammirare il capolavoro. Le visite guidate al Cenacolo Vinciano sono in programma dalle 19,30 alle 22,30. La prenotazione è gratuita, ma obbligatoria (vedi info). info tel. 02 92800360; www.cenacolovinciano.net
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storie guerra di simboli Nella Toscana dei Comuni, la lotta tra fazioni non si combatte solo con le armi, ma si consuma anche sul terreno dell’araldica: quasi un botta e risposta a suon di sigilli, che ha tuttora in serbo molte sorprese. Vedi il personaggio, raffigurato nello stemma ghibellino, che affronta il leone a mani nude…
Ercole o Sansone? «D D
di Federico Canaccini
icono che Dio sia guelfo, Giovanni evangelista ghibellino, ma il Battista guelfo. Il leone è guelfo, ma l’aquila ghibellina. Ma io vorrei sapere una cosa: l’asino di che fazione è? Pazzi, ditemi se l’asino è della vostra fazione! Tali animali che sono stemmi al di là delle Alpi, in Italia sono diventati Dèi, al punto che si meritano maggiore fedeltà, amore e monumenti che il Creatore Iddio». Cosí, nel XV secolo, tuonava san Giacomo della Marca (francescano, seguace di Bernardino da Siena; 1394-1476) ed effettivamente nelle cronache del Basso Medioevo vediamo come perfino i santi e gli animali avessero preso partito. Al di là della critica contro le lotte che ancora nel Quattrocento dilaniavano l’Italia, il brano è utile per analizzare i simboli adottati dalle due fazioni. Tra il XII e il XIII secolo, i Comuni italiani si erano infatti dotati di sofisticati strumenti di propaganda politica, tra cui nuove immagini, stemmi e sigilli. Già negli anni di Federico II
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(1220-1250), le modalità di scontro tra guelfi e ghibellini avevano travalicato dalla sfera religiosa a quella politica, con l’adozione da parte del papato di iniziative di ambito ecclesiastico, ora piegate a fini politici. Se, nella propaganda pontificia, Federico diviene l’Anticristo, il verde basilisco, i suoi seguaci possono essere perseguitati come fautori del Male.
Un «giglietto vermiglio»
Negli anni della guerra contro Manfredi, a questa lotta senza esclusione di colpi si aggiungono ulteriori tasselli, e l’araldica e la sfragistica (dal greco sphragis, sigillo, è la disciplina che si occupa appunto del loro studio, n.d.r.) divengono nuovi campi di confronto politico. Vediamo allora quali nuovi simboli divennero strumenti di propaganda e lotta politica nella Toscana bassomedievale. Il cronista Giovanni Villani riporta che nel 1265 Clemente IV avrebbe donato a una legazione di guelfi fiorentini fuorusciti il proprio personale stemma: un’aquila
rossa su campo bianco che artiglia un drago verde. Successivamente i guelfi vi avrebbero aggiunto un piccolo giglio: «In questi tempi [1265] i Guelfi usciti di Firenze e dell’altre terre di Toscana (…) mandarono loro ambasciadori a papa Chimento, acciò che gli raccomandasse al conte Carlo eletto re di Cicilia, e profferendosi al servigio di santa Chiesa; i quali dal detto papa furono ricevuti graziosamente, e proveduti di moneta e d’altri benifici; e volle il detto papa che per suo amore la parte guelfa di Firenze portasse sempre la sua arme propia in bandiera e in suggello, la quale era, e è, il campo bianco con una aguglia vermiglia in su uno serpente verde, la quale portarono e tennero poi, e fanno insino a’ nostri presenti tempi; bene v’hanno poi agiunto i Guelfi uno giglietto vermiglio sopra il capo dell’aquila. E con quella insegna si partirono di Lombardia in compagnia de’ cavalieri franceschi del conte Carlo quando passarono a Roma; e fu della migliore gente, e che piú adoperarono d’arme alla battaglia contro a Manfredi» (Nuova Cronica, Libro VIII). settembre
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Nella pagina accanto miniatura raffigurante Sansone che apre le fauci del leone, da un manoscritto in lingua ebraica del tardo XIII sec. Londra, British Library.
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sigillo ghibellino Calco del sigillo della Parte Ghibellina che reca l’immagine tradizionalmente identificata con quella di Ercole che combatte il leone nemeo. Ultimi decenni del XIII sec. Firenze, Museo del Bargello.
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A sinistra e nella pagina accanto miniatura raffigurante i guelfi cacciati da Firenze dai cavalieri di Federico II, da un’edizione illustrata della Nuova Cronica di Giovanni Villani redatta tra il 1350 e il 1375. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana.
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Questo stemma è un chiaro manifesto politico. L’aquila, che era appannaggio dell’impero, viene ora quasi rivendicata dal pontefice. Muta colore, dal nero al rosso, ed è raffigurata araldicamente scorretta, con il capo rivolto a sinistra, episodio già accaduto ai tempi della Lega Lombarda (lo stemma di Alessandria ha l’aquila rivolta e cosí anche il sigillo della Lega). Una rivendicazione, dunque, della vera aquila della giustizia e di quel Regnum per il quale il papa aveva già nominato Carlo I d’Angiò contro Manfredi, definito invece come un verde basilisco, quel drago che appare stretto tra gli artigli dell’aquila.
Guerra in nome di Dio
Il simbolo del Drago, nell’Antico e poi nel Nuovo Testamento, è il «draco magnus», che rappresenta nell’Apocalisse «l’antico serpente che si chiamava Diavolo e Satana, il seduttore del mondo intero»: il simbolo dell’aquila che artiglia un serpente è poi un tema antico, che simboleggia la lotta tra il Bene e il Male, delle energie dell’aria e della luce rispetto alle forze terrene, delle tenebre. Nella formulazione figurativa cristiana a carattere naturalistico, il rapace rappresenta naturalmente Cristo, mentre il rettile, Satana. Il simbolo scelto evoca inoltre la crociata contro gli Svevi e quindi contro il Maligno, se si considera in quali termini il papa e i predicatori si esprimessero riguardo a Manfredi e ai ghibellini. Infine, l’argento del fondo, rappresentato con il bianco, simboleggia la trasparenza, quindi la Verità e la Giustizia, elementi di cui il papa era portatore. Che lo stemma della Parte Guelfa sia stato inoltre donato dal pontefice, caricava il vessillo di un significato religioso: se il pontefice rappresenta il vicario di Cristo, il vessillo appare quasi un novello chrismon di costantiniana memoria, un signum sacro, sotto cui combattere quello che troviamo definito come un vero e proprio «bellum Dei».
Dall’altra parte della barricata la fazione ghibellina non dovette rimanere passiva dinnanzi a una simile mossa. Conosciamo un sigillo della Parte Ghibellina di Firenze, conservato presso il Museo del Bargello, la cui scena viene descritta nel catalogo dei Sigilli Civili come: «Ercole a cavallo del Leone Nemeo, in atto di sganasciarlo». Il sigillo è datato agli ultimi decenni del XIII secolo e attorno all’immagine corre la traballante iscrizione: «Sigillum Parte Ghibellinorum de Florenzia+» In realtà, quanto osservato per lo stemma adottato dalla Parte Guelfa, induce a una riflessione sul confronto tra le due fazioni a livello araldico e sfragistico. È infatti probabile che la nascita dei due stemmi sia contestuale, uno in risposta dell’altro. Al momento non sembra possibile fornire risposte su chi abbia avuto il primato, e forse non si potrà mai stabilirlo, ma sembra difficile immaginare una Firenze in cui se una Parte si dota di un simbolo, l’altra non risponda con un controemblema. Come afferma lo storico Michel Pastoureau, «una bandiera non esiste mai isolatamente; essa vive e acquista il proprio significato solo quando associata o opposta a un’altra bandiera».
La dolcezza del forte
Da una analisi piú attenta, ho però potuto accertare come il tema del sigillo non sia Ercole e il leone di Nemea, come sinora ritenuto. Si deve porre l’attenzione su alcuni particolari stilistici e ridiscutere il tema iconografico: il personaggio appare vestito, sul dorso della bestia, e ne spalanca le fauci col fine di smascellarlo, mentre Ercole affronta la belva nudo, e in un combattimento sempre frontale, a simboleggiare il coraggio dell’eroe. Ebbene le medesime caratteristiche ricorrono in
il sigillo e il vessillo In alto calco del sigillo della Parte Guelfa con l’immagine dell’aquila, simbolo del potere imperiale, che artiglia il drago, simbolo del Male. Fine del XIII sec. Firenze, Museo del Bargello. Racconta Giovanni Villani che fu papa Clemente IV a donare lo stemma ai guelfi, che aggiunsero un piccolo giglio sulla testa del rapace. A destra le truppe guelfe inalberano la bandiera al centro della quale campeggia l’aquila di colore rosso che artiglia un drago verde. Il rapace ha il capo rivolto verso sinistra, in una posizione che, araldicamente, è quindi da considerare scorretta, e che già era stata adottata ai tempi della Lega Lombarda, per esempio nello stemma della città di Alessandria.
diversi capitelli di chiese europee, per esempio St. Trophime, ad Arles; a Vézelay, nella basilica di S. Maria Maddalena; ad Autun, nella cattedrale di St. Lazare; in Spagna, nella chiesa di S. Maria la Real, ad Aguilar de Campo; in Italia, in un capitello del duomo di Genova; nella Pietra di Varenna, conservata nel Museo Civico di Como; e nella decima formella dell’abbazia di Nonantola, peraltro corredata dalla scritta «De forte dulcedo, de
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Con la forza e con l’astuzia
A sinistra Vézelay (Borgogna), basilica di S. Maria Maddalena. Particolare di uno dei capitelli con l’immagine di un personaggio che apre le fauci di un leone. Inizi del XII sec. Come si legge nell’articolo, per motivi iconografici e stilistici, è probabile si tratti dell’episodio biblico che ha per protagonista Sansone e non della lotta tra Ercole e il leone di Nemea.
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di identificazione preannunciati all’inizio: è vestita, monta la belva e ne spalanca le fauci. Dalle immagini proposte notiamo che, accanto alla giovane, se non giovanissima, figura che uccide il leone, compaiono altre due figure adulte, una maschile e una femminile. La seconda immagine introduce un particolare illuminante: il medesimo personaggio che smascella il leone infila una mano nelle fauci della fiera giacente, da cui volano via alcune api, mentre con l’altra sembra porgere qualcosa alla bocca dell’uomo.
Una forza sovrumana
Grande piatto in argento decorato con la lotta tra Ercole e il leone nemeo. Produzione bizantina. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Secondo il mito, la fiera era un mostro invulnerabile, inviato da Era a Nemea, nell’Argolide. Poiché la sua pelle non poteva essere ferita in alcun modo, il semidio la stordí con la clava e poi la strangolò a mani nude.
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comedente cibus» («Dal forte [verrà] la dolcezza, dal divoratore, il cibo»), un’iscrizione che si rivelerà un prezioso indizio. E, ancora, il tema compare in un crocefisso ligneo russo, in cui l’eroe ha addirittura l’aureola – novello Cristo – o in un superbo acquamanile tedesco del XIII secolo. Ciò che però ci interessa, a questo punto, è assegnare il titolo corretto all’episodio rappresentato nel sigillo, considerato che «Ercole che strangola il leone Nemeo» non sembra davvero il piú adatto per questa messe di capitelli di chiese. Ci soccorre, allo scopo, l’arte della miniatura: la prima proviene dalla Bibbia Maciejowski; la seconda, invece, da un manoscritto tedesco del 1340, in cui è narrata la storia del mondo. La figura risponde ai criteri
Siamo vicini alla soluzione del rompicapo. Il personaggio raffigurato non è infatti Ercole, e il leone non è la fiera di Nemea, per quanto, considerata la nera fama dei ghibellini quali antipontifici e quasi anticlericali, un eroe pagano come simbolo della protervia ghibellina potesse forse essere l’ideale. Risulta a questo punto illuminante leggere nella Bibbia le vicende di Sansone, uno dei Giudici biblici che governò per vent’anni il popolo d’Israele, costellando la sua vita di gesta memorabili, grazie alla forza smisurata infusagli da Dio. Tra le prime imprese narrate, figura proprio quella dell’uccisione di un leone, incontrato nel deserto, a cui spalanca le fauci a mani nude. Sansone si reca verso Timna, in compagnia del padre e della madre (le due figure che compaiono nelle miniature) e, evidentemente da solo e fuori dalla strada abituale, affronta il leone, non rivelando in seguito l’accaduto ai genitori. Successivamente, tornando da Timna, Sansone si allontana dal sentiero, per andare a vedere la carcassa e vi trova un favo e del miele che offrirà, senza dichiararne la provenienza, ai genitori. «De forte dulcedo, de comedente cibus», l’iscrizione già incontrata a Nonantola, è l’enigma che Sansone propose ai Filistei, la cui soluzione fu estorta alla sua sposa, come fa ben comprendere il doppio capitello di Monreale con le vicende dell’eroe vetero-testamentario.
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storie guerra di simboli A questo punto, basandoci sul confronto stilistico e iconografico, possiamo asserire che la scena sul sigillo della Parte Ghibellina di Firenze rappresentasse «Sansone che smascella il leone», come narrato nel Libro dei Giudici. Il che non è privo di significato. Che la figura sia vestita, e non nuda, rimanda a un modello di eroe vetero-testamentario, dal momento che la nudità era condannata dal Dio degli Ebrei, e poi dei cristiani. La sua posa, a cavalcioni della bestia, sottolinea l’astuzia dell’eroe, ispirato da Dio, ed è ben diversa dall’atteggiamento sprezzante di Ercole, che sfida frontalmente il leone nemeo. Ma perché affidarsi a Sansone, anziché alla forza di un eroe mitico e pagano come Ercole? Il cristianesimo dei primi secoli aveva ereditato dalla tradizione ebraica l’immagine di Sansone. E nelle regioni occidentali dell’impero la sua figura andò incontro, da subito, a una sorta di sdoppiamento, sovrapponendosi ora a Eracle ora a Cristo. Infatti, per gli aspetti piú muscolari, si accostava al semidio greco con il quale condivideva analoghi problemi tanto con i leoni che con le donne, in particolare per le sue vicende con Dalila che – come nel caso di Deianira con Ercole – condusse il suo amato alla morte. Per quanto invece riguardava gli aspetti piú spirituali, come la consacrazione all’Eterno e l’estremo sacrificio finale, la figura di Sansone fu facilmente accostata dai cristiani a quella di Gesú. Sansone fu dunque usato nell’iconografia paleocristiana come simbolo del Cristo, e, per secoli, fu un archetipo dell’eroe, a rappresentare l’oscillazione fra l’eccesso di forza fisica – nonché la peccaminosa passione per le donne e la tentazione continua di abusare
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della propria potenza, donatagli da Dio – e l’effetto di annichilimento prodotto sull’eroe dal fascino femminile – un annichilimento da cui riesce a scuotersi solo a prezzo del sacrificio estremo di sé.
Credere per vincere
Nello scontro col leone si manifesta per la prima volta la straordinaria forza di Sansone, ricordato tra i campioni della fede. Aver fede in Dio significa credere e avere certezze. In questa circostanza avere fede significò per Sansone essere
sicuro di poter avere la meglio sul leone, anche se umanamente la cosa appariva impossibile. Ma, come recita il Nuovo Testamento, «Nulla è impossibile a Dio». La lotta contro il leone è dunque il simbolo della lotta del credente contro il Diavolo e le potenze del Maligno, alla quale nessuno può sottrarsi. Sansone, infine, si trovò davanti alla bestia quando lasciò la diritta via e si inoltrò per i campi: il leone, il Maligno, si nasconde fuori dalla rettitudine. Alla luce di queste ri-
flessioni, che gli intellettuali del Duecento conoscevano bene, l’opzione ghibellina per questo episodio non appare casuale. Ma non c’è solo questo. La scelta dei ghibellini di adottare questo simbolo ha altri risvolti da indagare, attinenti al pensiero medievale, alla simbologia zoomorfa e alle lotte tra fazioni e tra Comuni. Quali animali possiamo dire guelfi e quali ghibellini? L’aquila, come diceva Giacomo della Marca, è ghibellina, ma perché? Che l’aquila fosse il simbolo per eccellenza dei ghibellini, sembra ovvio, considerato che l’adesione agli Svevi li aveva legati anche ai fasti di Roma. Dante rimprovera i ghibellini che «faccian lor arte sott’altro segno», ma di non adombrarsi sotto le ali dell’aquila. Significativo è, per esempio, un atto delle Biccherne senesi in cui si ingiungeva di togliere le due piccole aquile dorate scolpite e poste sul Carroccio in occasione della discesa di Corradino, sostituendole con i gigli angioini. Agli inizi del Trecento, nel corso di una campagna contro Arezzo, si proibí a Firenze di dipingere o scolpire il segno dell’aquila sulle porte delle case. La devozione del Comune all’impero, in quegli anni sotto la guida del ghibellino vescovo Guido Tarlati, dovette far associare in maniera cosí forte la città all’aquila di Ludovico il Bavaro, che Arezzo – che aveva già vissuto una breve ma significativa esperienza ghibellina sotto Guglielmino Ubertini – rimase bollata come città ghibellina. Il Tarlati, nel suo stemma, vi associò il capo dell’impero legando, anche araldicamente, il proprio casato alle sorti imperiali. Quando poi, in quegli stessi anni, il Comune fiorentino stipulò settembre
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A cavalcioni sulla fiera Due attestazioni della scena di Sansone che ha la meglio sul leone, spalancandone le fauci: la prima, in basso, compare su un rilievo del XII sec., conservato a Pavia, nella Pinacoteca Malaspina dei Musei Civici; la seconda, nella pagina accanto, è compresa nella decorazione a rilievo di un crocifisso ligneo di produzione russa. La scelta di mostrare l’eroe vetero-testamentario a cavalcioni della fiera può essere interpretata come un’allusione alla sua astuzia, ispirata da Dio, ben diversa dall’atteggiamento sprezzante di Ercole, che affronta il leone nemeo frontalmente.
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La lotta contro il leone è il simbolo della lotta del credente contro il Diavolo e le potenze del Maligno, alla quale nessuno può sottrarsi
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un’alleanza con Pistoia, i ghibellini pistoiesi, per mostrare buona volontà, sostituirono lo stemma dell’«aguglia e di Bavero e di Castruccio e di Parte Ghibellina», con le conchiglie d’oro, simbolo di san Jacopo, patrono della città. A quale leone dobbiamo invece fare riferimento nella lotta immaginaria tra stemmi comunali? Nell’Europa medievale non era raro vedere leoni vivi; i serragli con i grandi felini erano da sempre simboli di forza, e a Firenze, durante il Primo Comune di Popolo, doveva trovarsi una gabbia in cui ne venivano tenuti diversi esemplari. Il leone divenne l’animale totemico di Firenze; il Marzocco ereditò la funzione che era stata di Marte, antico protettore della città (Martoctus= piccolo Marte). Inoltre l’animale si prestava a interpretazioni di tipo religioso, benché – come spesso accade – i simboli siano ambivalenti e possano essere usati sia in chiave positiva che negativa. Per i guelfi, possiamo supporlo, non sarà passato inosservato il breve di sant’Antonio da Padova che recita «Ecce crucem Domini. Fugite partes adversae. Vicit Leo de tribu Iuda, radix David. Alleluia!» («Ecco la croce del Signore. Fuggite, nemici. Il leone della tribù di Giuda ha trionfato, la radice di Davide. Alleluia!»).
Una creatura temibile
Ma nella Bibbia il leone poteva rappresentare superbia e forza incontrollata: è «pericoloso, feroce, violento, furbo, empio, incarna le forze del Male, i nemici di Israele, i tiranni e i re malvagi, gli uomini che vivono nell’impurità». I Salmi e i Profeti gli accordano un posto importante, facendone una creatura temibile, che occorre fuggire a tutti i costi, implorando la protezione divina. Sansone si imbatte nella bestia, che rappresenta Satana/il peccato, quando esce dal sentiero, che rappresenta Dio/la salvezza. Nel Nuovo Testamento, san Pietro lo indica come animale dannoso e anche san Giovanni accosta il leone al diavolo, quando descrive i cavalli
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«De forte dulcedo, de comedente cibus» L’impresa di Sansone raffigurata in una formella dell’abbazia di Nonantola (a destra), corredata dall’iscrizione «De forte dulcedo, de comedente cibus» e su un capitello del duomo di Monreale (in basso).
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Nella pagina accanto miniatura con il leone che si para davanti a Sansone e ai genitori e viene poi ucciso dal giovane eroe, dalla Bibbia Maciejowski. 1240 circa.
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In alto e in basso ancora una rappresentazione dell’episodio biblico, cosà come fu raffigurata in un manoscritto tedesco del 1340.
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L’aquila contro il leone Il leone fu scelto come simbolo, tra le altre, dalle città guelfe di Firenze e di Brescia. A sinistra il Marzocco scolpito da Donatello nel 1420. Firenze. Museo del Bargello. A destra particolare di una miniatura con il simbolo della città lombarda. XV sec. Brescia, Biblioteca Queriniana.
infernali le cui teste erano di leone, volendo indicare, come interpretò san Bernardino da Siena (vedi in questo numero, l’articolo alle pp. 44-55) nella sua I predica, che «erano capi di leoni, cioè sono capi di diavoli tutti coloro che tengono parte». San Bernardo di Chiaravalle, nella sua Regola della Nova Militia, proibisce ai Templari di cacciare, ma tollera la caccia al leone. Dante si imbatte in un leone, in una lupa e in una lonza. L’esegeta domenicano Ugo di San Caro (1263†), nel suo commento alla Bibbia, secondo il quadruplice senso letterale, allegorico, morale e anagogico, interpreta misticamente le fiere che compaiono nell’opera dantesca e non lascia molto spazio al dubbio: «Leo est diabolus in quantum superbus» («Il leone è un diavolo, perché è superbo»). Nella volgarizzazione del Trésor di Brunetto Latini (1220 circa-1294), infine, si trova come il leone sia definito «forte e orgoglioso sopra tutte le cose», che «per la sua fierezza uccide la preda ciascun dí» .
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Quindi, in una ipotetica e fantastica lotta tra animali-simbolo dei Comuni toscani, potremmo immaginare da un lato un leone-guelfo, dall’altro un’aquila-ghibellina. In testa allo schieramento guelfo, e forse unica grande città, Firenze, con il suo Marzocco. Ma il leone comparve in molti stemmi di comunelli legati alla Lega Guelfa: da Valle Fiorentina a Lamporecchio, da Samminiato a Montevarchi. Di contro, Pisa, Siena e Arezzo sono sotto le ali dell’aquila.
Le aquile nella torre
A Pisa, dunque, troviamo lo stemma di una compagnia di armati che raffigurava nuovamente il simbolo di Sansone che smascella il leone. Ma se a livello di propaganda i due principali contendenti sono l’aquila e il leone, non sarà certo casuale che il simbolo del guelfismo venisse artigliato proprio da un’aquila in un sigillo che l’erudito Domenico Maria Manni (1690-1788) definisce «della Parte, del Comune e del Popolo di Pisa», la città toscana settembre
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A sinistra lo stemma del vescovo ghibellino Guido Tarlati (1327†). Il presule volle associare araldicamente il proprio casato all’impero, inserendo nel blasone l’aquila ghibellina.
imperiale per antonomasia. Il primo marchio pisano, stando a Ludovico Antonio Muratori (16721750), sarebbe stato infatti con l’aquila su di un capitello, e risalirebbe addirittura al 1161 e sarebbe stato usato anche sino alla disfatta di Corradino (1268). Non a caso, dunque, se Firenze teneva nel serraglio alcuni leoni, i Pisani tenevano a nido alcune aquile nella torre dei Gualandi. Nel verso compariva la Vergine col bimbo, con due angeli ai lati. Un modello che ricorre anche a Siena. Nel 1266, in pieno governo popolare filo-ghibellino, vi troviamo infatti un sigillo con la Vergine nell’atto di calpestare un serpente. Alcuni legano l’introduzione di questo stemma alla creazione del Governo di Popolo del 1252, altri al momento in cui Siena si confrontò con Firenze nel 1260, prima cioè della elargizione dello stemma di Clemente IV. Per i Senesi, dunque, il drago, e il Male, erano i Fiorentini. Il simbolo con la Vergine che schiaccia il serpente, sarebbe stato
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utilizzato in Siena almeno fino al 1293. Alla fine del Duecento, però, in Siena apparve un altro sigillo, questo relativo alla Parte Guelfa di Siena, che raffigurava – non a caso – un leone rampante bianco, in campo rosso e armato di spada che sarebbe probabilmente divenuto il simbolo del Popolo di Siena e si sarebbe diffuso in molti Comuni sottoposti.
Il vescovo e il pittore
Quando il confronto, agli inizi del XIV secolo, è tra la sempre guelfa Firenze e la ghibellina Arezzo, gli animali coinvolti non cambiano. Nel cenotafio del vescovo Tarlati, realizzato nel 1330, si nota una grande aquila che, ad ali spiegate, ghermisce un quadrupede esanime, identificabile con un leone. Riguardo a questa simbologia abbiamo come testimone la Novella 161 di Franco Sacchetti (1330 circa-1400 circa). In essa si narra di come il vescovo ghibellino domandasse al pittore Buffalmacco di dipingergli un’aquila «che pares-
se viva, che fosse addosso a un Leone, e avesselo morto», simbolo che doveva anche comparire scolpito sopra gli ingressi della città. Ma Buffalmacco richiede al suo illustre committente che, nel corso del lavoro, per non esser disturbato, «sia coperto attorno attorno di stuoie, e che nessuna persona non mi veggia». E cosí, all’insaputa del vescovo, egli dipinse «un fiero e gran leone addosso a una sbranata aguglia». Per gli eserciti del XIII-XIV secolo la bandiera era un elemento fondamentale. Sui campi di battaglia le bandiere svolgevano funzioni militari, simboliche, religiose e anatemiche. In piú di un caso le bandiere e l’araldica risultano essere anche fondamentali strumenti di strategia militare. Lo storico italiano della guerra, Aldo Settia, ha però sottolineato come le bandiere «dovessero avere soprattutto una funzione pratica di segnalazione visiva, ed era loro estranea la sacralità simbolica; doveva mancare perciò quello spirito di corpo dei vari reparti, nato successivamente». Nei casi che invece abbiamo esaminato si avverte un bisogno di identità. Per affermarsi nella lotta comunale, l’araldica svolge ormai un peso determinante. Dunque quella «sacralità simbolica», che manca ai reparti, è invece intrinseca alle bandiere di Parte. Questi vessilli, infatti, contraddistinguono una intera Pars del Comune, ma anche – e forse piú ancora – la sua fede e identità politica e religiosa. L’immagine è dunque prepotentemente entrata nel turbolento confronto politico della Toscana comunale. La bandiera, il sigillo, il simbolo sono armi nuove con le quali si combatte – anche propagandisticamente – quel conflitto che trova nelle esclusioni il suo momento giuridico e nelle battaglie il suo momento militare. F
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La
forza delle parole di Francesco Colotta
Era un predicatore combattivo e per molti versi «moderno» il francescano Bernardino, intransigente nei confronti dei potenti e dei costumi corrotti del suo tempo. Ogni mattina, in piazza del Campo, cuore di quella Siena che l’aveva accolto da bambino, il suo talento oratorio catturava l’attenzione di un pubblico sempre piú vasto, grazie alla veemenza delle invettive e all’uso di una gestualità coinvolgente
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poi questi politici vogliono essere chiamati «governatori del popolo». A loro ben conviene un solo nome: “ladroni”»: nel Quattrocento, in Italia, la polemica piú violenta contro i privilegi e la corruzione proveniva dalle prediche di un frate toscano, Bernardino da Siena. I principali bersagli delle sue invettive, oltre alla classe dirigente, erano le abitudini frivole della popolazione media, tra cui il gioco d’azzardo, le dottrine esoteriche, la cura dell’aspetto e la filosofia del profitto a ogni costo. Era un predicatore dal profilo moderno, che precorse i tempi nell’analisi di problemi economici complessi riguardanti discipline come la proprietà privata, l’usura e quello che oggi definiremmo «commercio solidale». In molte biogra-
Sano di Pietro, Predica di san Bernardino da Siena in piazza del Campo. Dipinto su tavola, 1445. Siena, Museo dell’Opera Metropolitana.
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fie, inoltre, viene ricordato come il pioniere dell’umanesimo cristiano, di quel movimento di pensiero che propugnava la convivenza di fede e sapienza classica, un esperimento dottrinale destinato a diffondersi soltanto nel XVI secolo con le opere di Erasmo da Rotterdam.
Settembre nel destino
A dispetto dell’epiteto, Bernardino, in realtà, era originario di Massa Marittima, ma si trasferí giovanissimo all’ombra della torre del Mangia. Nel suo destino ricorre curiosamente una data: l’8 settembre, che fu il giorno della sua nascita (nel 1380), del suo ingresso nell’Ordine francescano (nel 1402), della professione dei voti (nel 1403) e della prima messa da officiante (nel 1404). Il padre, Albertollo, apparteneva alla facoltosa famiglia degli Albizzeschi, mentre la madre, Raniera, veniva descritta come una delle piú belle donne della città. Rimasto orfano ad appena sei
anni, quando ancora risiedeva a Massa, fu cresciuto dai parenti, paterni e materni, e, in particolare, dalla zia Bartolomea e dalla cugina Tobia, che lo accolsero a Siena, dove risiedevano. Le due donne, entrambe terziarie, influirono molto sul carattere e sulle scelte «controcorrente» del nipote. Il giovane Bernardino studiò nelle migliori scuole mostrando una particolare predilezione per la filosofia. Scelse, però, di dedicarsi alla vita religiosa, seppure da laico, e volle farlo in modo radicale aderendo alla compagnia di flagellanti che si riuniva nei sotterranei dell’ospedale di S. Maria della Scala. In una Siena affollata di mercanti, giocatori d’azzardo, cavalieri e donne avvenenti – che l’imperatore Sigismondo di Lussemburgo aveva definito tra le piú belle del mondo – i giovani penitenti erano spesso oggetto di derisione. Un giorno Bernardino, preso di mira, reagí duramente, sferrando un pu-
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grandi santi bernardino da siena Piazza del Campo
Un luogo simbolo Se accettiamo che Siena, alla fine del Duecento, abbia avuto 47 000 abitanti circa, diventa solo una suggestiva metafora che il Campo abbia rappresentato – come si usa dire – la «misura» della città, in quanto, nemmeno in potenza, tutta la popolazione avrebbe mai potuto trovarvi posto. Qui, però, la gente di Siena poteva essere chiamata a parlamento; qui si svolgevano tornei e «battagliole», si armavano cavalieri, si proclamavano bandi e si eseguivano le pene. La nuova piazza, sulla quale si stava costruendo anche il palazzo pubblico, era il simbolo dell’emergere di forze nuove, collocata com’era fuori dal nucleo piú antico, dove si trovava la cattedrale, e vicino alla strada maestra e alle aree dell’espansione urbana. Quella piazza, tra le piú belle d’Italia, che oggi riunisce, ancora una volta in potenza, l’intera popolazione senese due volte l’anno in occasione del Palio, rappresentò un grande spazio sulla cui immagine i governanti senesi investirono con decisione. Non a caso, deliberando nel 1297 sulle nuove costruzioni, il Comune stabilí, con una sorta di regolamento edilizio, che da allora tutte le finestre delle case che vi si affacciavano dovessero essere delle bifore «a colonnelli et senza gno e lanciando sassi contro i suoi persecutori. Pur amando la sua nuova città provava una profonda avversione per l’ambiente sociale malsano in cui i giovani crescevano: «Oh, s’io fusse sanese come io so’– affermò qualche anno dopo nel corso di una predica – e avessi figliuoli come io non ho, io farei di loro quello ch’io vi dirò; che come e’ fussero in età di tre anni, subito gli manderei fuori di Italia, né mai tornassero se non avessero almeno quarant’anni». Nel 1400 Siena fu toccata dalla peste. Molti religiosi, in prima
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alcuni ballatoi». Nella prima metà del Duecento il Campo è come un cantiere aperto. La morfologia difficile dell’area, inclinata e attraversata da piccoli fossati, necessitò di una lunga serie d’interventi di adattamento, livellamento delle quote, riempimento delle buche. Per costruire là intorno si richiese uno specifico permesso comunale e chi l’otteneva non poteva, comunque, occupare il suolo pubblico con i materiali edilizi per piú di un mese prima e uno dopo i lavori. Per metà luogo dell’economia e per metà della politica, veniva circondato da palazzi e torri magnatizie non meno che dai magazzini e dalle botteghe aperte ai loro piedi, e su di esso si affacciava il palazzo del governo, prima modesto edificio della dogana del sale, poi, a poco a poco, imponente linea nell’assistenza ai malati, furono contagiati e morirono in pochi giorni. Nonostante l’altissimo rischio di contrarre l’infezione, Bernardino corse in ospedale per accudire i ricoverati.
Un sogno, una scelta
Quando l’epidemia perse la sua carica virale, fu anch’egli colpito da una grave malattia, ma sopravvisse, e poté iniziare ufficialmente la sua carriera da religioso. In un primo momento manifestò l’intenzione di entrare nell’Ordine agosti-
quinta del palcoscenico della vita pubblica cittadina. Il palazzo non conserverebbe ancor oggi il suo fascino senza l’intero organismo urbano che gli sta intorno. Nel centro, una conca di terra battuta, il mercato brulicante di dettaglianti, strumento chiave della gestione della cosa pubblica. Intorno, almeno dalla metà del Duecento, una lastricatura di pietra. Su questo mercato, appositi «custodi» esercitavano manutenzione e sorveglianza, denunciando chiunque sporcasse, sventrasse animali, ingombrasse l’area accatastando materiali. A terra o sui banchi, sotto le tende, divisi in file regolari, controllati nelle misure e negli spazi perché non creassero ostacoli al transito verso il palazzo, uomini e donne vendevano le merci piú varie. (red.) In alto veduta dall’alto di piazza del Campo, cuore della città di Siena, dominata dalla torre del Mangia. Nella pagina accanto Siena, torre del Mangia, sala della Giunta. Affresco di Sano di Pietro raffigurante san Bernardino che regge la città. 1450 circa.
niano, nel quale la zia Bartolomea militava da tempo. In seguito, influenzato da un sogno, scelse di diventare francescano e prese servizio nel convento di Siena. Il novizio ambiva, però, a un regime monastico piú estremo risettembre
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un santo tra fede e politica 1377 Fine della «cattività avignonese». La sede del papato torna a Roma. 1378 Inizio dello Scisma d’Occidente. I cardinali francesi eleggono l’antipapa Clemente VII. 1380 Bernardino nasce a Massa Marittima. 1395 Gian Galeazzo Visconti ottiene il titolo di duca di Milano. 1400 Siena è colpita da un’epidemia di peste. 1402 Bernardino entra nell’Ordine francescano. 1405 Bernardino ottiene l’autorizzazione a esercitare l’attività di predicatore. 1406 Fine della Repubblica pisana in seguito all’attacco dei Fiorentini. 1409 Gli Aragonesi conquistano la Sardegna. Dopo il Concilio di Pisa la Chiesa risulta ancora piú lacerata, con ben tre papi in carica, che si contendono il dominio sulla cristianità occidentale. 1413 Roma viene occupata da Ladislao, re di Napoli. 1415 Il teologo boemo Jan Hus è condannato al rogo per eresia. Nella Guerra dei Cent’Anni gli Inglesi sbaragliano i Francesi ad Azincourt. 1422 Costantinopoli respinge l’assedio turco. 1427 Accusato d’eresia, Bernardino finisce sotto processo, ma viene assolto. 1429 Giovanna d’Arco guida i Francesi alla vittoria nell’Assedio di Orléans. 1431 Bernardino viene nuovamente accusato d’eresia, ma il processo intentato contro di lui viene interrotto in seguito all’intervento di papa Eugenio IV. Il Concilio di Basilea riafferma la supremazia del collegio dei cardinali rispetto al pontefice. 1432 In una bolla promulgata l’8 gennaio, Eugenio IV loda pubblicamente la vita, la dottrina e i costumi di Bernardino. 1434 Ha inizio la signoria dei Medici su Firenze. 1438 A Magonza il tipografo Johann Gutenberg inventa la stampa a caratteri mobili. 1439 Il Concilio di Firenze sancisce la riunificazione temporanea tra la Chiesa latina e quella greca. 1440 I Fiorentini sconfiggono i Milanesi nella battaglia di Anghiari. 1442 Alfonso V d’Aragona viene incoronato re di Napoli con il nome di Alfonso I. 1444 Bernardino muore a L’Aquila. 1450 Nel giorno di Pentecoste, durante le celebrazioni per il Giubileo, Bernardino viene canonizzato dal papa Niccolò V. 1453 Con la conquista di Costantinopoli da parte degli Ottomani cade l’impero bizantino.
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grandi santi bernardino da siena spetto a quello praticato dai Minori della sua città e chiese di essere trasferito nel convento del Colombaio, sul monte Amiata, in una zona chiamata «il deserto» per il suo assoluto isolamento. In quel suggestivo eremo maturò le linee fondamentali del suo pensiero che, sulla scia di filosofi come Bonaventura di Bagnoregio (1217 circa-1274) e Giovanni Duns Scoto (1265-66 circa-1308), ruotava intorno al concetto di meditazione finalizzata alla carità e al sacrificio di Cristo. Tale era il fervore di Bernardino per questa visione teologica che una sera si caricò sulle spalle un grande crocefisso in legno e mezzo nudo condusse una processione nella cittadina di Seggiano, nei pressi di Grosseto. Gli abitanti credettero di avere a che fare con uno squilibrato, ma, ascoltando la sua prosa, dovettero ricredersi e ne furono incantati. La parola aveva per Bernardino un significato spirituale profondo, manifestandosi come architrave dell’evangelizzazione. In Toscana le sue sortite oratorie nelle piazze facevano sempre scalpore attirando masse di curiosi. Di solito le città si fermavano nel giorno fissato per la predica: i padroni concedevano
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una licenza ai dipendenti, i commercianti chiudevano il negozio, mentre dal circondario accorrevano masse di contadini. Dagli spettatori il frate francescano pretendeva non solo attenzione, ma che «ruminassero» le parole ascoltate e quindi le trasmettessero ad altri. Esigeva un ascolto presente, dinamico, che usando un termine dei nostri tempi poteva essere definito «interattivo», anche attraverso ripetuti botta e risposta con il pubblico.
La profezia di Vincenzo
Il parlare alla gente gli appariva come un’attività congeniale, affine alla propria natura e rappresentava inoltre il compimento di una profezia formulata dal celebre predicatore (e poi santo) spagnolo Vincenzo Ferreri (1350-1419) nel corso del suo ultimo discorso pubblico in terra italiana, ad Alessandria, alla presenza dello stesso Bernardino: «Io torno a evangelizzare la Francia e la Spagna. Non scenderò piú in Italia, ma ringraziate Iddio. C’è tra di voi che mi state a sentire un frate minore che predicherà per tutta l’Italia la parola di Dio come non s’è mai sentito». Nella sua Siena, dove tornò nel
1405, Bernardino ebbe in concessione il romitorio della Capriola dove costruí il convento dell’Osservanza. La scelta del nome non era stata casuale. Il predicatore aveva da tempo compiuto una scelta di campo all’interno dell’Ordine dei Minori, schierandosi con gli Osservanti, i fautori di una regola ispirata alla piú rigorosa povertà. Bernardino non possedeva solo un gran talento oratorio, ma anche un’abilità mimica. Non di rado accompagnava le sue dissertazioni con gesti di grande effetto visivo per rendere ancora piú diretto ed esplicito il discorso. A un frate che un giorno gli chiese quali dovessero essere i comportamenti consoni a un religioso del suo rango, rispose con un’eloquente espressione di umiltà («abbasso, abbasso»), camminando nel contempo con il busto e le ginocchia piegate, quasi come una papera. Il suo modo di predicare rientrava nei canoni della tradizione scolastico-medievale e quindi si poneva in totale rottura con le tecniche oratorie dell’età classica. Le parole non rivestivano un valore estetico, non si limitavano a un mero esercizio di eloquentia, ma dovevano soprat-
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ihs
Il mistero del cristogramma Qual era il reale significato del cristogramma con il cerchio e i raggi che Bernardino disegnò per un gruppo di commercianti a Bologna? Notando che quasi ogni famiglia nella propria abitazione esponeva stemmi riferiti a discendenze familiari o ad appartenenze partitiche, il santo pensò di farne circolare uno autenticamente cristiano. Anche la croce poteva assolvere a questa funzione, ma troppo spesso veniva utilizzata come componente di stemmi nobiliari. Bernardino voleva sintetizzare in un simbolo un complesso di temi teologici difficili da apprendere dai testi sacri o anche ascoltando le parole dei predicatori. Il nome abbreviato di Gesú, IHS, derivava dall’espressione greca IHΣOUΣ
(Iésous), poi liberamente reinterpretata in latino come sigla dell’espressione Iesus Hominum Salvator. Il cerchio, simbolo del sole, rappresentava la carità di Gesú, mentre i raggi avevano ognuno un proprio significato allegorico. La grazia del Messia veniva cosí trasmessa alle genti con il medesimo processo attraverso cui il sole riscaldava la terra. I raggi nel disegno di Bernardino erano di due tipi: dodici maggiori e otto minori. I primi corrispondevano al numero degli apostoli ma nascondevano un significato mistico. I secondi si riferivano alle otto beatitudini. In seguito la scritta IHS venne modificata: l’asta sinistra della lettera H subí un allungamento verso l’alto cosí da poter comporre una croce. La sigla IHS o trigramma venne poi adottata dalla Compagnia del Gesú nel Cinquecento.
A destra san Bernardino da Siena, con il cristogramma a dodici raggi, in un dipinto del Vecchietta (al secolo Lorenzo di Pietro). 1444-80. Siena, Pinacoteca Nazionale. Nella parte bassa dell’opera (vedi il particolare a sinistra), il santo è ritratto mentre predica, e, tra i suoi ascoltatori, si riconosce un gruppo di flagellanti.
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grandi santi bernardino da siena tutto essere comprese e in seguito ricordate in quanto espressione della verità. Non a caso, alla fine della predica, il religioso riassumeva i punti del suo lungo ragionamento, a differenza di quanto avrebbe fatto un oratore classico, che terminava il suo discorso con la perorazione, allo scopo di stupire. Le verità di fede, insomma, si servivano degli strumenti della ragione per diffondere il verbo divino. E Bernardino assolveva bene al compito, arricchendo le sue lucide argomentazioni con espressioni brillanti, non di rado esplosive.
Viaggio in Lombardia
Un altro evento sovrannaturale segnò la biografia di Bernardino quando rivestiva la carica di guardiano del convento di Fiesole. Nell’inverno del 1417 un novizio originario di Lucca, nel pieno della notte, colto come da un raptus, cominciò a correre intorno al chiostro gridando: «Frate Bernardino, non tenere piú nascosti i tuoi talenti. Va’ e predica in Lombardia!». Il nuovo arrivato, rinchiuso in cella per quegli schiamazzi, si giustificò spiegando di essere stato mosso da una misteriosa forza interiore che non aveva potuto reprimere. Il futuro santo, colpito dal comportamento del novizio, lo interpretò come un segno divino e decise davvero di partire per la Lombardia, con destinazione Milano. Nella città ambrosiana spadroneggiava all’epoca Filippo Maria Visconti, servendosi di metodi odiosi e repressivi. L’arrivo di un predicatore fu, quindi, salutato come un segno della provvidenza da quanti si sentivano oppressi dall’autoritarismo del duca e dalle crudeltà inaudite del suo braccio destro,
I politici nel mirino
«Voi siete le eccellenze zero!» San Bernardino non temeva i signori delle città e i governanti. Spesso pronunciava invettive a loro dirette anche quando erano presenti in piazza durante le prediche: «Il tiranno si presenta come un benefattore, ma è uno strozzino – gridò il santo un giorno – Sapete cosa vi dico? Voi siete le eccellenze zero. Potete farvi temere per un certo tempo, ma mai sarete rispettati, anzi arriverà il giorno in cui il popolo vi disprezzerà e spargerà urina sulla vostra testa». Francesco Bussone, detto il conte di Carmagnola. Nei suoi vibranti discorsi pubblici, però, l’atteso frate preferí non attaccare direttamente il tiranno, pur essendo al corrente delle sue malefatte. Si trattenne poco a Milano e visitò le città del Nord dilaniate dalle lotte intestine tra fazioni. Bernardino non credeva che esistessero reali motivi politici alla base delle faide cittadine, ma intravedeva un comune vizio «culturale» riconducibile al carattere tipico dell’italiano medio malato di partigianeria: «In quale parte – disse un giorno – sapresti tu dire, dove sia piú dilettevole abitare che in Italia? La quale, dico, se non avesse questo vizio delle divisioni, non credo che si potesse pareggiare in niuna parte».
Contro il capitalismo
Tornato in Lombardia, Bernardino trascorse qualche giorno a Cremona e a Piacenza, cadute nelle mani di Filippo Maria Visconti, cercando di risollevare l’animo degli abitanti. Nel 1422 si recò, invece, a Venezia, trovando un ambiente idilliaco rispetto al turbolento Nord Italia conosciuto in precedenza. La città lagunare viveva in uno stato di invidiabile pace sociale e di benessere dietro ai quali, tuttavia, si
Tornato a Milano quand’era già anziano, Bernardino non si lasciò intimidire dal clima instaurato dal duca Filippo Maria Visconti e ne denunciò pubblicamente i soprusi, commessi con l’aiuto del conte di Carmagnola 50
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Miniatura raffigurante un usuraio, dal Livre des Bonnes Moeurs (Libro del Buon Costume), manoscritto francese del 1490. Chantilly, Musée Condé. La pratica del prestito con tassi che potevano facilmente sconfinare nello strozzinaggio fu uno dei bersagli delle invettive di Bernardino, che dedicò molte delle sue energie alla lotta contro l’adozione di sistemi economici basati sullo sfruttamento e la speculazione.
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grandi santi bernardino da siena nascondevano ingiustizie e specuCostume lazione. Quando il predicatore si rese conto che il motore economico di Venezia era alimentato dalla pratica dell’usura, mutò il giudizio Bernardino spesso si scagliò contro i costumi della società positivo iniziale, lanciando pesanti senese, in particolare dei giovani. Celebre fu una lunga predica del 15 agosto accuse contro il sistema capitalisti1427 in una piazza del Campo gremita in gran parte di donne. Proprio a queste co della Serenissima. ultime il santo rimproverava il pessimo gusto nelle pettinature: «Mi pare vedere In quel periodo cominciò a conne’ capi vostri tanta vanità, che mi pare un orrore: chi ‘l porta a merli, chi a cepire il suo progetto di economia casseri,chi a torri trasportate in fuore, come questa torre (quella del Mangia, sociale o «di comunione». Una delle n.d.r.). Io vego i merli dove si rizzano le bandiere del diavolo; e tali hanno le proposte piú radicali riguardava il balestriere atte a poter percuotere altrui, e cosí da essere percossi». sistema dei mutui, che voleva riformare in senso solidale: nessun interesse doveva essere corrisposto ai prestatori di danaro e, in caso zione dei Bolognesi, che rimasero Bernardino si occupò anche di di caduta in povertà del beneficia«annientati dal tono apocalittico, questioni giuridiche, mostrando rio, nemmeno il capitale. Il frate di spaventoso del fratino senese», coin quell’ambito lo stesso piglio riSiena si scagliò contro la classe dei me riporta Pietro Bargellini, uno dei soluto e severo che esprimeva nei nuovi ricchi che aveva accumulato suoi piú insigni biografi. In molti, suoi discorsi. L’occasione fu la rifacili fortune solo grazie a spregiudopo le sue prediche, smisero di forma degli statuti di Siena che il dicate manovre finanziarie, ma non giocare, partecipando attivamente frate francescano contribuí a stilare condannava in sé il concetto di proal rogo in piazza di carte, tarocchi, inasprendo le sanzioni nei confronfitto. Era lecito per un imprenditore dadi e scacchiere durante la Pasqua ti di reati come la sodomia recidirealizzare lauti guadagni, a patto del 1423. va (per cui si prevedeva la pena di che la sua attività contribuisse a Dopo il rogo Bernardino ricemorte), l’usura (punita con il taglio ridurre gli squilibri sociali. Come? vette la visita di alcuni commerdel piede) e lo sciopero (per il quaDestinando, per esempio, i le si prescriveva l’esilio). beni verso zone che ne eradiceva, all’epoca, che se Bernardino placò il malcontento Si no sprovviste o anche conle cosiddette Riformazioni servando prodotti di prima di frate Bernardino fossero dei commercianti, causato necessità. state applicate alla lettera, dal mancato smercio di carte Un altro tratto singolare in pochi avrebbero potuto del profilo di Bernardino fu da gioco e scacchiere, suggerendo vivere al riparo dalla scure il rapporto di proficua intribunali, e nelle carceloro di vendere tavolette con un dei terazione con gli ambienti ri non ci sarebbe stato piú umanistici. Non condivisimbolo misterioso... posto. Per questo motivo, deva di certo la nostalgia qualche anno dopo, le peper il mondo classico ma riteneva cianti, che si sentivano danneggiati ne previste dai suoi statuti vennero un fatto positivo l’emergere di una dall’improvvisa conversione dei ammorbidite. filosofia di vita che poneva al cengiocatori. Non riuscendo piú a venCome molti predicatori «rivotro l’uomo, lo studio e il dibattito dere carte e scacchiere, rischiavano luzionari», anche Bernardino subí culturale. Il nemico della fede non di fallire in poco tempo. l’accusa di eresia. Nel 1426 fu papa era certo il sapere, ma la corruzione, Il monaco toscano prese a cuoMartino V, influenzato da calunil danaro e la frivolezza che contire quella lamentela e forní ai connie che circolavano sul conto del nuavano a sedurre giovani e adulti testatori l’opportunità di sfruttare frate, ad aprire un’inchiesta sulla senza distinzioni di classe. un altro mercato: su una tavoletsua attività evangelizzatrice. Le La sua predicazione divenne ta, all’interno di un cerchio con informazioni sul misterioso disepiú minacciosa nelle piazze di Bododici raggi, scrisse l’abbreviaziogno con impresso il cristogramma logna «la dotta», nota anche come ne del nome greco di Gesú (IHS) e avevano insospettito il pontefice «la grassa». Oltre all’usura, era la invitò i commercianti a vendere le facendogli credere che si trattasse febbre del gioco a scandire la quocopie di quel simbolo. Vista la podi una forma di idolatria o di matidianità cittadina, un fenomeno polarità del predicatore, le riprogia. Nel Medioevo, infatti, alcune inarrestabile di fronte al quale anduzioni stampate del misterioso dottrine esoteriche, prima fra tutte che il vescovo Niccolò Albergati si cristogramma andarono a ruba la Cabala ebraica, ritenevano fosse era dovuto arrendere. Bernardino, in tutta Bologna, facendo nascere possibile scoprire il vero volto delinvece, riuscí a catturare l’attenuna fiorente attività. la divinità attraverso un sistema di
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La Vanagloria, particolare dell’Allegoria del Cattivo Governo, affresco dipinto da Ambrogio Lorenzetti nella sala della Pace del Palazzo Pubblico di Siena. 1337-1339.
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grandi santi bernardino da siena maestro bartolomeo
Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
Il cimatore di panni Se il contenuto di molte prediche di Bernardino di Siena è giunto fino ai nostri giorni il merito va ascritto a maestro Bartolomeo che di mestiere faceva il cimatore (operaio tessile) di panni. Come tanti Senesi, Bartolomeo si alzava presto la mattina per recarsi a piazza del Campo nel giorno della predica. Si sedeva e pazientemente appuntava su alcune tavolette di cera tutto il contenuto dei discorsi del santo. Riportava in modo integrale ogni frase, senza tralasciare le esclamazioni e le raccomandazioni che il predicatore rivolgeva a lui su come riportare, per esempio, le citazioni in latino: «E però tu che scrivi – si legge in uno dei tanti resoconti di Bartolomeo –, scrivila bene, ch’io te la dirò nel modo che tu la intendarai, e anco poi te la ridirò perché tu la pigli bene. Amor formae rationis». Il cimatore era molto scrupoloso e quando ascoltava una citazione sprovvista di fonte, alla fine della predica chiedeva a Bernardino o ai suoi collaboratori di indicargli il nome dell’autore. combinazione tra numeri e lettere. In realtà l’accusato fu vittima di una battaglia teologica che la curia aveva intrapreso contro i nuovi predicatori degli Ordini mendicanti. L’ala conservatrice della Chiesa non approvava la tendenza al profetismo e l’eccessivo fervore mistico dei monaci, che spesso affermavano di sentirsi investiti direttamente dallo Spirito Santo e non dal vescovo di Roma.
La difesa di Giovanni
Nel periodo in cui venne formulata l’accusa di eresia Bernardino perse popolarità, ma poté contare su un forte alleato: il francescano abruzzese Giovanni da Capestrano, un religioso molto stimato dal papa. Giovanni assunse la difesa dell’imputato davanti alla commissione d’inchiesta pontificia che, comunque, si era resa ben presto conto dell’infondatezza delle accuse, avendo trovato negli scritti del sospetto eretico numerosissimi riferimenti a santi della Chiesa come Gregorio Magno, Bernardo di Chiaravalle, Bonaventura di Bagnoregio, Giovanni Grisostomo, e Tommaso d’Aquino. Anche il papa si convinse dell’innocenza di Bernardino e pensò di affidargli un incarico prestigioso. Avallò, per esempio, la
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Roma, S. Maria in Aracoeli. cappella Bufalini. Affresco del Pinturicchio raffigurante i funerali di Bernardino da Siena. 1482-85.
proposta dei Senesi di nominarlo vescovo della città, ma l’investito rifiutò sdegnosamente. Voleva restare un semplice predicatore. «Se tu mi vedessi senza questo saio, dí pure che non son io», disse in quei giorni al fedele collaboratore fra’ Vincenzo. I suoi concittadini, quindi, continuarono a vederlo predicare in piazza del Campo dove di solito cominciava a parlare la mattina presto. E lui poté proseguire indisturbato la stesura dei suoi numerosi Sermones. Negli ultimi anni di vita Bernardino fu impegnato in delicate missioni politiche. La prima, che si concluse con un insuccesso, nella stessa Siena, nel tentativo di convincere i governanti e i cittadini a fare pace con la potentissima Firenze. La seconda missione, che andò invece in porto, investiva la questione dei rapporti conflittuali tra l’imperatore Sigismondo di Lussemburgo e la Chiesa. Il sovrano e il papa, grazie alla mediazione del predicatore senese, si incontrarono e Sigismondo fu incoronato a Roma nel 1433. Con l’avanzare dell’età, Bernardino, che nel frattempo aveva ac-
cettato anche la carica di ministro generale dei Minori, perdeva le forze, ma non lo spirito combattivo. In un nuovo soggiorno milanese si scontrò – questa volta in modo diretto – con Filippo Maria Visconti, accusandolo pesantemente nel corso delle prediche. Preoccupato per il massiccio seguito su cui il religioso poteva contare, il duca tentò di portarlo dalla sua parte arrivando a offrirgli del danaro. Fallito settembre
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Da leggere U Piero Bargellini, San Bernardino da
Siena, Cantagalli, Siena 2012. U Franco Cardini, Nel nome di Gesú.
il tentativo, Filippo Maria minacciò di morte il predicatore e lo fece poi espellere dalla città. Sebbene soffrisse di vari mali, Bernardino non rinunciò fino all’ultimo giorno della sua vita alle prediche. Viaggiava a cavallo, con grandi sofferenze, e tornò in uno dei suoi luoghi preferiti, Milano, dove lo accolse, pentito, Filippo Maria Visconti. Sempre piú provato, il frate partí quindi per Padova, via fiume.
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Morí a L’Aquila, il 20 maggio del 1444, presso un convento francescano. Sei anni piú tardi, in occasione del Giubileo del 1450, fu proclamato santo da Niccolò V. Non solo la Chiesa, ma anche l’arte contribuí a diffondere il suo culto grazie ai numerosi dipinti che maestri come Piero della Francesca, Andrea Mantegna, Pinturicchio e Perugino dedicarono al piú popolare predicatore del Quattrocento. F
Bernardino da Siena e la battaglia mistica, Il Cerchio, Rimini 2012. U San Bernardino da Siena, Antologia delle prediche volgari, Cantagalli, Siena 2011. U Oreste Bazzichi, Economia e scuola francescana, Libreriauniversitaria. it, Padova 2013. U Vittorio Stanzial, Una voce da seguire. San Bernardino da Siena e la vita di tutti i giorni, Tau Editrice, Todi (PG) 2006.
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costume e società grandi bibliofili Un’avventura entusiasmante, degna di un cacciatore di tesori: si può definire cosí la ricerca, da parte degli artefici dell’umanesimo, delle opere dei grandi autori classici. Una curiosità insaziabile che ha sottratto numerosi testi all’oblio, conducendo Petrarca a Liegi, all’inseguimento di Cicerone, e Boccaccio nei recessi della biblioteca di Montecassino, sulle tracce di Tacito
Caccia al libro U U
di Cesare Capone
n gelido giorno di gennaio del 1318 ser Petracco, notaio, andò a trovare il figlio Francesco, universitario a Montpellier, in Francia, per verificare se stesse facendo progressi negli studi di giurisprudenza verso i quali aveva mostrato scarso impegno. Ser Petracco aveva stabilito che Francesco doveva fare il notaio come lui. Entrato nella stanzetta del ragazzo, ispezionò i suoi libri e ne trovò alcuni di letteratura latina: adirato, li gettò tra le fiamme del camino e Francesco scoppiò a piangere. Impietosito, ser Petracco corse vicino al fuoco e riuscí a salvare due volumi un po’ bruciacchiati, l’Eneide di Virgilio e la Retorica di Cicerone, che porse al figlio ammonendolo: «Usa Virgilio come svago e Cicerone per i tuoi studi di legge», riferisce Pierre de Nolhac, filologo e letterato e francese, studioso di Petrarca (1859-1936). Il figlio di ser Petracco non divenne notaio. Toccò invece le piú alte vette della poesia come cantore di Laura. Non solo: Francesco Petrarca fu uno studioso appassionato dei grandi autori latini e un cercatore accanito di codici (volumi manoscritti) delle loro opere andate perNella pagina accanto una pagina illustrata tratta dal Virgilio Ambrosiano, il codice con le opere del poeta latino che contiene numerose annotazioni autografe del Petrarca, che ne era il proprietario. Milano, Biblioteca Ambrosiana.
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Francesco Petrarca
Particolare del ritratto del Petrarca dipinto da Andrea del Castagno. 1450 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi. Nato nel 1304 ad Arezzo, il poeta si divise a lungo tra Francia e Italia, prima di stabilirsi definitivamente nella Penisola nel 1354. Come tutti gli uomini colti del tempo, padroneggiava il latino (mentre apprese il greco solo in tarda età) e vide nell’antichità classica un modello insuperato di vita al quale fare riferimento per costruire una vera cultura.
dute, sepolte perlopiú nelle biblioteche dei monasteri. In Europa fiorivano le prime università, nelle quali, però, i dotti dedicavano la loro attenzione soprattutto alla teologia. La Chiesa, che esercitava un dominio pressoché assoluto nel campo della cultura, manifestava diffidenza e avversione, e comunque ben poco interesse, verso i libri della Grecia e della Roma pagane, privilegiando gli autori cristiani, soprattutto Agostino. La letteratura classica era caduta nell’oblio anche per una causa piú generale: le invasioni barbariche, che avevano distrutto biblioteche e centri del sapere. Contro di esse, e contro i successori dei barbari, si scaglia Petrarca nel trovare fra i suoi libri citazioni di capolavori dei qua-
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costume e società grandi bibliofili li sembra scomparsa ogni traccia. Scrive nelle Familiari: «Per ogni nome illustre che invoco, richiamo alla mente un delitto delle oscure età che seguirono. Come se la loro sterilità non foste stata bastante vergogna, lasciarono perire le opere nate dalle veglie dei nostri padri e i frutti del loro genio. Quell’epoca che nulla produsse non temette di dilapidare l’eredità paterna». Questa era la situazione quando il giovane Petrarca prese l’iniziativa di salvare dal grande naufragio quanto piú era possibile della letteratura antica, andando a caccia di codici in tutta Europa. «Verso il venticinquesimo anno
della mia vita», racconta ancora nelle Familiari, «giunto a Liegi e avendo appreso che vi si trovava un buon numero di libri, mi sono fermato e ho trattenuto i miei compagni di viaggio fin quando ho copiato di mia mano un’orazione di Cicerone e fatta trascrivere un’altra da uno dei miei amici. Le ho poi diffuse in Italia». Ma si lamenta che «in quella barbara città facemmo una fatica incredibile a trovare inchiostro, e quando riuscimmo a procurarcelo aveva il colore dello zafferano». Una delle due orazioni ciceroniane era la Per Archia. Fu il fortunato inizio delle molte scoperte di codici avvenute per opera o su commissione di Petrarca. Ovunque andasse durante i suoi numerosi viaggi attraverso l’Italia e l’Europa, spinto dall’ansia di sempre nuove esperienze umane e culturali, Petrarca cercava libri: seguiva voci e indicazioni, promuoveva indagini, comprava, trascriveva, faceva eseguire copie. Appena scorgeva all’orizzonte le mura di un monastero, «cambiavo strada, mi dirigevo a quella volta, sempre con la speranza di trovare qualcosa delle opere che avidamente cercavo».
Una cupidigia «inspiegabile»
Marco Tullio Cicerone
Busto marmoreo di Marco Tullio Cicerone. Copia di età augustea di un originale databile agli anni 60-50 a.C. Roma, Musei Capitolini. Nato ad Arpino da una facoltosa famiglia equestre, il celebre oratore, scrittore e uomo politico latino (106-43 a.C.), compose numerose opere, che divennero il principale obiettivo delle ricerche di Francesco Patrarca.
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Cercava di facilitare le sue ricerche tramite le persone influenti con le quali aveva rapporti diretti o indiretti (anche per la sua attività di diplomatico), e se veniva a sapere che qualcuno possedeva un esemplare raro, non esitava a scrivergli, chiedendogli di poterlo leggere, copiare o acquistare. Aveva sparsa la voce che cercava opere di autori classici. Rivolgendosi all’amico Giovanni dell’Incisa, maestro di teologia e priore del convento di S. Marco a Firenze, cosí gli scriveva nelle Familiari: «Se mi vuoi bene, incarica qualche persona colta e degna di fiducia di girare la Toscana e frugare negli scaffali dei monasteri e di amici dello studio, per riuscire a trovare qualcosa che plachi – anche se servirà solo ad aumentarla – la mia sete. Benché tu sappia benissimo in quali acque sono solito pescare e in quali boschi ami cacciare, tuttavia, per evitare che tu incorra in errore, includo nella mia lettera l’elenco di ciò che particolarmente desidero. E perché tu sia piú zelante, ricordati che ho rivolto eguali preghiere ad altri amici in Inghilterra, Francia e Spagna. Che nessuno dunque ti preceda in premura e diligenza; datti da fare e addio». Fautore di quella bibliofilia che caratterizzò la cultura umanistica, Petrarca si dichiara afflitto da una «inesplicabile cupidigia» per cui «non riesco a saziarmi di libri». In tutto questo cercare, Cicerone era il suo pensiero dominante. Fu l’Arpinate a guidarlo nella sua scoperta del mondo antico. «La caccia agli scritti di Cicerone», osserva Leo Deuel, «cominciò prima che il Petrarca avesse mai posato gli occhi su Laura e continuò molto tempo dopo che la passione per lei si era intiepidita. La volontà di recuperare tutte le opere del maestro diventò un’autentica ossessione (...). Spese senza risparmio tempo, energia e denaro nel tentativo di raccogliere i resti della letteratura classica; ma Cicerone venne sempre prima». settembre
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Petrarca fece la sua piú grande scoperta umanistica a Verona, nella primavera del 1345: nella biblioteca della cattedrale scoprí un codice (poi perduto) contenente i primi sedici libri delle epistole Ad Attico di Cicerone di cui si ignorava l’esistenza. Benché malato, il poeta si affrettò a trascriverle, ricavandone un volume enorme, reso ancor piú ingombrante e pesante da una grossa copertura di legno e rame. Non si sarebbe poi stancato di dire agli amici quanto sforzo gli fosse costata quella impresa, e quanta gioia gli avesse dato. Date le sue dimensioni, il libro non poteva trovare posto nella sua biblioteca, e Petrarca lo posò sul pavimento accanto alla porta, dove si rivelò ben presto pericoloso: infatti, entrando nella stanza se lo fece cadere piú volte sulla gamba sinistra, e sempre nello stesso punto; tanto da produrre una piaga infetta che lo fece molto soffrire e lo costrinse a letto con il rischio di perdere l’arto. Il manoscritto delle lettere Ad Attico copiate da Petrarca fa ora parte della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze. La loro scoperta fu uno dei maggiori eventi nella storia dell’umanesimo. Quelle epistole rivelarono al mondo la personalità fino allora poco conosciuta del grande oratore romano, con tutte le sue virtú e le sue debolezze.
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Due pagine del Virgilio Ambrosiano, sulle quali si possono vedere le numerose
annotazioni di Francesco Petrarca. Milano, Biblioteca Ambrosiana.
«Diventarono una fra le letture preferite degli uomini del Rinascimento», rileva Deuel, «e non soltanto per il contenuto: il loro stile elegante e nello stesso tempo familiare rivoluzionò il latino degli umanisti. Sul modello di Cicerone, l’epistolografia diventò un genere letterario molto in voga. E furono proprio le epistole Ad Attico a ispirare il Petrarca a scrivere la sua prima lettera in latino a Cicerone; e a quella ne seguirono altre, dirette a Varrone, Livio, Quintiliano, Orazio, Omero».
L’umanesimo petrarchesco
La biblioteca di Petrarca, che annoverava piú di 60 manoscritti, non ebbe eguali quanto ad autori classici, molti dei quali recuperati nelle sue ricerche in tutta Europa: innanzitutto Cicerone, quasi al completo, poi Seneca, Virgilio, Ovidio, Orazio, Catullo, Giovenale, Properzio, Plinio il Vecchio; ma solo due opere greche (Petrarca non conosceva il greco), l’Etica di Aristotele e l’Iliade, il cui codice fu rozzamente tradotto in latino da Boccaccio.
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Miniatura raffigurante Giovanni Boccaccio che riceve la visita della Fortuna, da un’edizione del De claris mulieribus, composto dal poeta stesso. XV sec. Londra, British Library.
A lui Petrarca scrisse l’ultima delle sue lettere, prima di spirare, nella notte tra 18 e il 19 luglio 1374. E, secondo la tradizione, il poeta avrebbe esalato l’ultimo respiro con il capo reclinato sull’amato codice dell’Eneide virgiliana. A questo punto va detto, con Umberto Bosco, che l’importanza di Petrarca consiste sí «nell’avere egli scoperto questo o quel testo, chiarito questo o quel particolare dell’antica vita, conquistata una padronanza del latino rispetto ai suoi predecessori prodigiosa»; ma soprattutto «nell’avere per primo (...) postulata per sé e per gli altri la necessità di sostituire all’ingenuo medievale vagheggiamento dell’antica Roma dai favolosi contorni una conoscenza diretta e critica di essa, attraverso le antiche testimonianze rigorosamente controllate e comparate fra loro». La molla dell’umanesimo di Petrarca è tutta nel suo
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impulso e nella sua responsabilità di suscitatore verso i contemporanei e verso i posteri di modelli, esemplari per alta umanità, dedotti dalla cultura classica. Scrive Deuel: «L’umanesimo petrarchesco rivalutò la funzione dell’uomo nel mondo e guardò alle libertà, da tanto tempo dimenticate, del passato. Nell’antichità classica il Petrarca e i suoi seguaci trovarono ideali di verità e di bellezza che proposero al mondo occidentale. Il passato era per loro la chiave del progresso. Chi credeva nel valore e nella perfettibilità dell’uomo non poteva essere indifferente al problema della rinascita della cultura classica; chi voleva sviluppare la propria personalità, diventare un essere razionale, acquistare un certo stile nella condotta pubblica e privata, coltivare l’eleganza del parlare e dello scrivere, doveva leggere gli antichi». I libri, allora soltanto manoscritti, erano considerati settembre
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A sinistra pagina di un manoscritto contenente la trascrizione degli Annali di Tacito e appartenuto a Giovanni Boccaccio. XI sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.
con venerazione, se non altro per la loro scarsità o rarità e per il loro costo; il che rendeva ogni loro possessore un bibliofilo anche inconsapevole. Petrarca va visto come bibliofilo anche nel senso espresso dal suo amico inglese Richard de Bury (1287-1345) autore del primo manuale di collezionismo bibliofilo, il Philobiblion, Tractatus pulcherrimus de amore librorum.
Ai libri si addice il silenzio
Sulle orme di Seneca, prima ancora che di Bury, Petrarca traccia nelle Familiari questo elogio: «Ho amici la cui compagnia mi è deliziosa. I miei libri sono genti di tutti i paesi e di tutti i secoli, abituati a essere sempre ai miei ordini. Li faccio venire quando voglio e li rimando allo stesso modo. Non sono mai di cattivo umore e rispondono a tutte le mie domande. Gli uni fanno scorrere davanti a me gli avvenimenti dei secoli passati; altri mi svelano i segreti della natura; questi mi insegnano a vivere bene e a ben morire; quelli scacciano la noia con la loro allegria e mi divertono con le loro arguzie; ve ne sono che dispongono la mia anima a sopportare tutto, a non desiderare niente, e mi fanno conoscere me stesso. In una parola, mi aprono le porte di tutte le arti e di tutte le scienze; li trovo in tutte le mie necessità (...). Per ricompensa di cosí grandi servizi, non mi chiedono che una stanza ben chiusa in un angolo della mia piccola casa, dove siano al riparo dai loro nemici
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Cornelio Tacito
Particolare di un’incisione con il profilo dello storico latino Publio Cornelio Tacito (55 circa-120 circa). I suoi Annali descrivevano i regni degli imperatori della famiglia giulio-claudia, da Tiberio a Nerone, cioè dall’anno 14 al 68; erano in tutto 16 libri, di cui a noi sono giunti interi i primi 6 (Tiberio) e, con lacune, gli ultimi 6 (Claudio e Nerone).
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costume e società grandi bibliofili
I salvatori del sapere Il copista Jean Miélot al suo tavolo di lavoro, dai Miracles de Notre-Dame. 1456. Parigi, Bibliothèque nationale de France. I copisti, che nell’Alto Medioevo lavoravano tenendo la pergamena sulle ginocchia, successivamente iniziarono a utilizzare tavoli d’appoggio, a volte con il piano inclinato (del tipo di quello illustrato in questa miniatura). La decorazione delle opere spettava poi ai miniatori e agli alluminatori, mentre i legatori completavano il lavoro, con la confezione dei volumi.
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In alto un pagina dell’Ilias Picta Ambrosiana, splendida edizione illustrata delle opere
omeriche (vedi box a p. 68). V sec. Milano, Biblioteca Ambrosiana.
(cioè dall’umidità e dai topi). Infine li porto con me in campagna il cui silenzio conviene loro meglio che il tumulto delle città». E qui viene a proposito ricordare che ciò faceva parte dell’ideale idillico di Petrarca, da lui attuato con perfetta coerenza nella vita pratica: il rifiuto di ogni carica anche lucrosa che potesse continuativamente distrarlo dagli studi; i suoi ritiri a Valchiusa, Selvapiana, Arquà; e, nelle stesse città dove dimorava, la scelta di case lontane dai rumori, circondate possibilmente da orti; nonché il genere di vita costantemente tenuto: libri, giardinaggio, qualche amico e di nuovo libri, sempre libri.
L’ozio senza le lettere è una morte
Petrarca dedica una intera operetta, La vita solitaria, a questo suo programma. Commenta Bosco: «Descrive e polemicamente difende, con ricchezza di esempi e di digressioni, l’otium degli intellettuali latini che è un “ozio operoso”: giacché, secondo una sentenza di Seneca che il Petrarca cita piú volte, l’ozio senza le lettere è una morte, la sepoltura di un uomo vivo; otium vuol dire respingere ogni ansietà, rifiutare di protendersi continuamente verso un domani che forse non verrà e che comunque è incerto. La vita solitaria vagheggiata dai classici: un se-
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costume e società grandi bibliofili dimenticati diventò autentica passione». Gran parte di questa caccia ai codici avvenne nell’ambito dell’umanesimo che ebbe la sua culla a Firenze. Il piú fervido seguace di Petrarca fu Giovanni Boccaccio, di circa dieci anni piú giovane e che con lui condivise la gloria di essere stato uno fra i maggiori iniziatori dell’umanesimo. Il loro primo incontro avvenne probabilmente nel 1350, anno del Giubileo, mentre Petrarca stava andando in pellegrinaggio a Roma per ottenere l’indulgenza (vedi «Medioevo» n. 194, marzo 2013). Boccaccio gli diede il benvenuto alle porte di Firenze. Nacque allora fra i due una intensa amicizia, destinata a durare fino alla morte di Petrarca. Boccaccio, che si guadagnava da vivere lavorando come amanuense (copista), trascrisse per Petrarca lunghi testi di Cicerone e di Varrone e gli donò una sua trascrizione della Commedia dantesca.
Scoperte a Montecassino
Un apografo (copia fedele dell’originale) di Poggio Bracciolini del codice di Iacopo Angeli (1360 circa-1410 circa) contenente le Filippiche di Cicerone.
reno appartarsi in seno a una natura amica, con molti libri, a quanto a quanto visitato da dolci amici senza dei quali l’esistenza sembrerebbe manchevole e quasi cieca, senza stimoli esterni che costringano a fare quello che fare non si vorrebbe, cioè concessioni al “volgo”». Un ozio stoicamente concepito come tranquillità dell’animo, senza ambizioni né passioni, senza affanni né fatiche, ma non infingardo. Un otium, come ogni altro ideale, non totalmente raggiungibile, ma al quale occorre avvicinarsi quanto piú si può, insegna Petrarca. Deuel mette in rilievo che: «Petrarca non solo riportò alla luce opere perdute e dimenticate, ma stabilí nuovi canoni per lo studio della letteratura e per l’amore delle lettere (...). In tutto questo ottenne un cosí splendido successo, che sulle sue orme tutta una nuova generazione di umanisti cacciatori di libri mosse a salvare quanto rimaneva di salvabile in terra europea (...). Non vi è nulla di tanto contagioso quanto un grande esempio. Ancora vivo il Petrarca, gli Italiani furono presi dal desiderio febbrile di esplorare il mondo sconosciuto che egli aveva schiuso. E dopo la sua morte, la ricerca dei classici smarriti, nascosti,
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Boccaccio fece la sua scoperta piú importante nel 1370 quando, durante il viaggio alla volta di Napoli, decise di far sosta a Montecassino, il monastero benedettino che, fin dal VI secolo, era stato uno dei principali centri in cui i monaci copiavano e custodivano, oltre che opere della cultura cristiana, quel che restava dell’immenso patrimonio letterario e filosofico del mondo greco e romano. Nel suo fondamentale commento della Commedia dantesca, Benvenuto da Imola (1330-1388) cosí racconta: «Il mio venerabile maestro, Boccaccio di Certaldo, andò a visitare il nobile monastero di Montecassino. Desideroso di vedere la biblioteca che gli avevano descritta molto ricca, chiese cortesemente a un monaco (era sempre gentile di natura) che avesse la compiacenza di aprirgli la biblioteca. Ma il monaco gli rispose con aria arcigna, additando una ripida scala: “Sali pure, è aperta”. Boccaccio salí gioiosamente e trovò che il luogo in cui era ospitato un cosí prezioso tesoro era privo di chiave e di porta. Entrò, e vide che le erbacce spuntavano dalle finestre e che, libri e
banchi, tutto era coperto da uno spesso strato di polvere. Stupefatto, cominciò ad aprire un libro, poi un altro, e trovò una infinità di opere antiche e straniere. Ad alcuni mancavano interi fascicoli, ad altri erano stati tagliati i margini, per la maggior parte erano in vari modi mutilati. Nel vedere che i lavori e i frutti degli studi di tanti illustri geni erano caduti nelle mani di simili uomini, se ne andò addolorato e con le lacrime agli occhi. Sceso nel chiostro, chiese a un monaco che incontrò come mai quei libri preziosi fossero stati mutilati in un modo cosí vergognoso. Quello gli rispose che i monaci, per guadagnare qualche soldo, raschiavano i fascicoli per farne dei salteri [libretti] che vendevano ai ragazzi e che tagliavano i margini per farne brevi [foglietti] che vendevano alle donne». Benvenuto conclude, amaramente ironico: «E ora, uomo di studio, rompiti la testa per scrivere libri!». Ma proprio a Montecassino Boccaccio trovò buona parte degli Annali e delle Storie di Tacito. È curioso notare come non ne parlasse con alcuno, nemmeno con Petrarca. Ma era una segretezza allora molto frequente fra i cacciatori di codici, gelosi del fatto che i concorrenti venissero a sapere il luogo e il valore delle loro scoperte, non sempre regolarmente acquistate. Fra essi vi era chi quasi si faceva vanto di averle sottratte alla biblioteca di un convento o di uno studioso, secondo la formula «si ius violandum est, librorum gratia violandum est» («se la legge deve essere violata, lo sia grazie ai libri») citate in una lettera di Leonardo Bruni a Niccolò Niccoli, due umanisti fiorentini del XV secolo. Sembra che proprio il Bruni e il Niccoli abbiano rubato il codice di Tacito agli In basso veduta di Firenze, particolare dell’incisione di Bernard Picart con il ritratto di Poggio Bracciolini (vedi qui accanto).
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eredi di Boccaccio. Un furto provvidenziale, perché la maggior parte dei suoi libri andò distrutta qualche anno dopo da un incendio. Sulle orme di Petrarca e Boccaccio, un altro insigne umanista e bibliofilo, Coluccio Salutati (1331-1406), pur non impegnandosi personalmente nella caccia ai codici perduti, ne promosse la ricerca, ottenendo molti successi. Il maggiore fu la scoperta delle Lettere familiari di Cicerone, fino ad allora sconosciute, in un codice che Gian Galeazzo Visconti gli aveva inviato da Vercelli. La ricerca si accentuò in un’atmosfera di straordinario fervore. Niccoli giunse al punto di vendere le sue terre per arricchire la propria biblioteca di manoscritti recuperati. Non solo uomini di lettere, ma anche principi, ecclesiastici e borghesi si entusiasmarono per i successi dei cacciatori di codici. L’intera Europa venne setacciata. Papi come Niccolò V e Leone X mandarono i loro agenti fino in Danimarca, in Svezia e nel Medio Oriente.
Poggio Bracciolini Particolare di un’incisione di Bernard Picart (1673-1733) con il ritratto a mezzo busto, di profilo, dell’umanista Poggio Bracciolini (1380-1459), al quale si deve, tra gli altri, il ritrovamento del trattato di Vitruvio L’architettura.
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costume e società grandi bibliofili Fama ben meritata di grande cacciatore di codici ebbe un altro umanista, l’aretino Poggio Bracciolini (1380-1459), che fu anche uno dei piú prolifici e combattivi uomini di lettere del suo tempo oltre che, per quasi mezzo secolo, membro di primo piano della curia pontificia. La sua carriera di cacciatore di codici cominciò nel 1407, quando a Montecassino trovò un antichissimo frammento di Livio. Fece le sue scoperte piú rilevanti in occasione del concilio ecumenico di Costanza (1414-1418), al quale papa (poi antipapa) Giovanni XXIII lo aveva mandato come suo emissario. Il concilio, che riuscí a comporre il grande scisma d’Occidente, condannò come eretico il boemo Jan Hus, che venne bruciato sul rogo (vedi «Medioevo» n. 165, ottobre 2010; anche su www.medioevo.it). Ma uno dei suoi piú significativi risultati fu anche la diffusione dei semi dell’umanesimo in tutta la cristianità occidentale, grazie all’affluenza di studiosi provenienti dall’Italia. Approfittando del fatto che il concilio andava per le lunghe, Bracciolini fece quattro viaggi fuori Costanza alla ricerca di codici. Frutto del primo viaggio fu il ritrovamento, nella gloriosa abbazia di Cluny, in Borgogna, di alcune orazioni cicero-
niane, due delle quali fino ad allora del tutto ignote in Italia. Trovò anche il trattato di Vitruvio L’architettura, che divenne la base per ogni studio architettonico del Rinascimento. Nel secondo viaggio raggiunse l’abbazia di San Gallo, in Svizzera, risalente al VII secolo, che era stata uno dei centri intellettuali piú vivi del mondo tedesco. Godeva ancora di notevole prestigio, ma grande fu la delusione di Bracciolini e degli amici italiani che lo accompagnavano, nel vedere lo stato miserando della biblioteca. Un abbandono paragonabile a quello in cui Boccaccio aveva trovata la biblioteca di Montecassino, ma senza poi raccontarlo.
Lo sconcerto di Poggio Bracciolini
Scrive invece Bracciolini in una lettera all’amico Guarino Veronese, altro grande umanista, annunciandogli la riscoperta delle Istituzioni oratorie di Quintiliano: «Trovammo un Quintiliano sano e salvo, benché pieno di muffa e coperto di polvere. I libri, lungi dall’essere posti in una biblioteca come il loro valore meriterebbe, li abbiamo trovati accatastati in una specie di immondo e oscuro carcere al fondo di una torre, in un luogo dove non si getterebbero nemmeno i condannati a morte». Bracciolini aggiunge di avere trovato altre opere di letteratura latina, fra cui varie orazioni di Cicerone. In Italia la riscoperta del codice Istituzioni oratorie di Quintiliano (il Petrarca era stato il primo a trovarne una copia, ma incompleta e in cattivo stato) suscitò l’entusiasmo degli umanisti. Uno di essi, Leonardo Dati, cosí scriveva a Bracciolini: «La repubblica delle lettere ha motivo di rallegrarsi non solo per le opere che hai scoperte, ma anche per quelle che devi ancora trovare. Quale gloria per te avere riportato alla luce, con le tue fatiche, gli scritti degli autori piú illustri! La posterità non potrà dimenticare che manoscritti pianti come irrimediabilmente perduti, grazie a te sono stati invece recuperati. (...) Grazie a te ora possediamo tutto Quintiliano; prima ne avevamo soltanto la metà, e in un testo difettoso e corrotto. O prezioso acquisto! O gioia inaspettata! Potrò dunque davvero leggere tutto Quintiliano, quel Quintiliano che, mutilato e deformato come l’abbiamo conosciuto fino a oggi, già cosí era il mio conforto? Ti scongiuro di mandarmelo subito, affinché possa posarvi gli occhi prima di morire». Dal terzo viaggio, fatto di nuovo a San Gallo e verso
Giovanni Bessarione
Cardinale, teologo e bibliofilo bizantino, Bessarione (1399 o 1400-1472), fu uno dei promotori dell’incontro tra la cultura greco-bizantina e l’umanesimo italiano. Copista egli stesso e dotato di raro acume filologico, fondò un centro scrittorio che gli permise di costituire una biblioteca ricchissima. Lasciò alla Serenissima i suoi manoscritti, che ancora oggi rappresentano il fondo piú importante della Biblioteca Marciana di Venezia.
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Miniatura raffigurante una scena di pesca, da un’edizione della Cynegetica dello pseudo Oppiano appartenuta al cardinal Bessarione. XI sec. Venezia, Biblioteca Marciana.
altri monasteri svizzeri e svevi, Bracciolini portò altre importanti opere latine, soprattutto La natura di Lucrezio, ormai data per perduta. Nel quarto viaggio si spinse in Francia e in Germania. Fra un monastero di Langres sulla Marna e la biblioteca episcopale di Colonia, scoprí tredici orazioni di Cicerone, otto delle quali fino allora completamente ignorate. «Né la rigidezza del freddo invernale, né la neve, né la lunghezza del viaggio, né l’asperità delle strade gli impedirono di portare alla luce i monumenti della letteratura antica», scrisse di lui l’umanista veneziano Francesco Barbaro. Terminato il concilio di Costanza, dopo un lungo, infruttuoso e infelice soggiorno in Inghilterra, durante il ritorno in Italia Bracciolini acquistò, probabilmente a Colonia, il piú importante frammento del Satyricon di Petronio. Poi a Roma, dal suo quartier generale presso la curia pontificia, diresse le ricerche fino a Treviri, Utrecht e in Portogallo. Le piú fruttuose avvennero proprio a Treviri con la scoperta di un codice contenente commedie di Plauto, dodici delle quali interamente nuove. Quanto ai classici greci, gli umanisti ne avevano solo una vaga idea. Li conoscevano perlopiú attraverso le citazioni di autori latini. La cultura ellenico-ellenistica era stata introdotta in Europa, soprattutto nel XII seco-
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lo, dalle traduzioni in latino eseguite da studiosi arabi, ebrei e cristiani dell’Andalusia (la Spagna islamica), di gran parte delle opere filosofiche e scientifiche della Grecia – un grande contributo allo sviluppo del Rinascimento e dell’Europa moderna – con la voluta esclusione di quelle letterarie. La cultura islamica medievale conosceva bene Aristotele, Galeno, Tolomeo, Euclide, ma ignorava totalmente Omero, i poeti lirici e i grandi tragediografi Eschilo, Sofocle ed Euripide. Petrarca e Boccaccio pensavano che i classici greci fossero inferiori a quelli latini, ma furono presi dal desiderio di riscoprire nella letteratura greca le radici di quella latina.
Vestiti in cambio di codici
Il cacciatore di codici a cui si attribuisce il merito di aver fatto per i classici greci ciò che Bracciolini aveva fatto per quelli latini, fu l’umanista siciliano Giovanni Aurispa (1376-1459) che insegnò greco a Bologna e a Firenze e scoprí e divulgò numerosi testi greci tra cui quello dell’Iliade conservata nella Biblioteca Marciana di Venezia. A lui va il merito di avere inviato a Niccoli da Costantinopoli il famoso Codice Mediceo – ora alla Laurenziana di Firenze – contenente ben sei tragedie di Eschilo, sette di Sofocle e le Argonautiche di Apollonio Rodio. Aurispa
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costume e società grandi bibliofili ilias picta ambrosiana
Omero a colori L’Ilias Picta Ambrosiana (Codice Ambrosiano F 205 inf.) è uno tra i piú splendidi esempi di edizioni delle opere omeriche, contenente 58 scene, miniate su pergamena, di gare e combattimenti che illustrano il capolavoro dell’epica greca, l’Iliade di Omero. Le scene epiche del poema in questo manoscritto risalgono al V secolo d.C., e si collegano con il raffinato ambiente culturale mediterraneo di una delle capitali piú internazionali e cosmopolite del mondo antico: Alessandria d’Egitto. Il codice, poi riutilizzato in Italia meridionale nel Medioevo, è infine giunto fino a noi grazie alla rinascita degli studi umanistici e al collezionismo di età rinascimentale. Questa Iliade fu presumibilmente dipinta da un artigiano alessandrino nel V secolo, e trasformata in un manuale didattico sull’opera da un precettore in Italia meridionale (Calabria o Sicilia), che aggiunse didascalie in greco per illustrare i personaggi e i luoghi rappresentati nelle scene. I disegni, di fine fattura, giunsero nel XVI secolo nella collezione del bibliofilo Gian Vincenzo Pinelli di Padova, e furono acquistati nel 1608 per la ragguardevole cifra di 3000 scudi dal cardinale Federico Borromeo per la Biblioteca Ambrosiana.
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giunse al punto di vendere i suoi vestiti per avere codici da mercanti greci di Costantinopoli. Nel 1423, tornando da quella città, portava con sé molte casse contenenti 238 libri, solo pochi dei quali, però, erano rari. Aurispa fu un mercante di codici piú che un bibliofilo e fu anche sospettato d’essere quasi un truffatore. L’arrivo a Firenze nel 1397 dell’umanista bizantino Manuele Crisolora, insegnante di greco e fra i primi a divulgare opere di rilievo (tradusse, fra l’altro, la Repubblica di Platone), segnò una svolta fondamentale. Da allora la conoscenza del greco divenne un privilegio per gli umanisti, mentre molti codici continuavano ad arrivare da Costantinopoli, dalla Grecia e dall’Asia Minore. Guarino Veronese e Francesco Filelfo, contemporanei di Bracciolini, si recarono a Costantinopoli per studiarvi il greco e tornarono carichi di testi fino ad allora ignoti, almeno in Italia. Il trasferimento su larga scala di una parte del patrimonio letterario greco in Europa prima della caduta di Costantinopoli (1453) e della Grecia per mano dei Turchi, fu una grande fortuna, sebbene la Costantinopoli ottomana conservasse una ricca collezione di opere greche e, per tutto il periodo del dominio turco fino ai tempi nostri, i monasteri greci abbiano preservato dalla distruzione innumerevoli manoscritti. Miniatura raffigurante Ettore che, con l’aiuto di Apollo, uccide Patroclo, dall’Ilias Picta Ambrosiana. V sec. Milano, Biblioteca Ambrosiana.
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«Benché gli Aurispa e i Filelfo del tempo non possano forse definirsi né gli scopritori né i salvatori dei classici greci», osserva Deuel, «il loro contributo fu importantissimo in quanto essi misero queste opere a disposizione dell’Occidente in un periodo di sua particolare ricettività, e cosí allargarono in misura incalcolabile la base classica dell’Umanesimo (...). E quando papa Niccolò V varò un programma di traduzione di tutti i classici greci in latino, il Filelfo poté proclamare: “La Grecia non è morta: è migrata in Italia, il paese che fin da antichi tempi portò il nome di Magna Grecia”. Cosí, proprio mentre perdeva terreno in Oriente, la letteratura greca diventava oggetto di studio e ricerche in Occidente; e fu il trasferimento su larga scala di manoscritti a rendere possibile la nuova fioritura».
Il grande lascito di Bessarione
Dopo Bracciolini, le scoperte di codici furono meno numerose e mancarono di quella continuità che aveva caratterizzato le ricerche di Petrarca, di Boccaccio, di Salutati e dello stesso Bracciolini. Quasi tutti i classici conosciuti fino alla metà del Cinquecento – specialmente nel campo della letteratura latina – sono gli stessi che possediamo oggi. Altre scoperte avvennero specialmente all’inizio del XIX secolo grazie ai palinsesti, codici in cui il testo originale, piú antico e cancellato, veniva reso leggibile con vari procedimenti. Fu cosí che nel gennaio 1820 il filologo cardinale Angelo Mai, direttore della Biblioteca Vaticana, poté annunciare la
scoperta di quasi tutti i primi due libri della Repubblica di Cicerone che Petrarca e Salutati avevano cercato invano. L’avvenimento fu prontamente celebrato da Giacomo Leopardi nella canzone Ad Angelo Mai. Non sono mancati i critici che hanno cercato di ridimensionare l’importanza delle scoperte fatte dai cacciatori di codici sostenendo che, copiati nel Medioevo nei monasteri, erano già parzialmente noti e non erano mai stati veramente perduti. È vero che fra quei ricercatori vi erano uomini vanagloriosi, arroganti, reciprocamente adulatori, invischiati in intrighi e rivalità, lontani da quella dignità «classica» di cui si professavano ammiratori. Ma «con tutto questo», conclude Deuel, «i critici dimenticano che molte opere furono tramandate in un’unica copia, che molti di quei codici già rari stavano cadendo a pezzi, e che la loro sopravvivenza fu dovuta esclusivamente al tempestivo recupero. I codici antichi erano in via di sparizione; molti di quegli stessi che gli umanisti riuscirono a rintracciare e copiare sparirono piú tardi, alcuni libri di cui i documenti ci attestano l’esistenza nel Medioevo e persino nel Rinascimento non sono giunti fino a noi (...) Ma è innegabile che (...) nessun termine piú modesto di “scoperta” è adatto a definire il contributo degli umanisti nel restituire i testi della letteratura e della filosofia greca e latina alla conoscenza degli uomini». «I libri sono pieni delle parole dei saggi, degli esempi degli antichi, dei costumi delle leggi, della religione. Vivono, discorrono, parlano con noi, ci insegnano, ci ammaestrano, ci consolano, ci fanno presenti ponendole sotto gli occhi cose remotissime dalla nostra memoria. Tanto grande è la loro dignità, la loro maestà, e infine la loro santità, che se non ci fossero i libri noi saremmo tutti rozzi e ignoranti, senza alcun ricordo del passato, senza alcun esempio; non avremmo conoscenza alcuna delle cose umane e divine; la stessa urna che accoglie i corpi cancellerebbe anche la memoria degli uomini». È la parte saliente della lettera che il 31 maggio 1468 l’umanista greco cardinale Giovanni Bessarione indirizza al doge Cristoforo Mero nell’offrire in dono a Venezia la sua biblioteca di 482 codici latini e greci che costituiscono il nucleo della preziosa Biblioteca Marciana. Una lettera in cui i libri, ben piú che oggetti da collezione secondo una certa bibliofilia, sono oggetti d’amore per la cultura secondo gli ideali dell’umanesimo. F
Da leggere U Umberto Bosco, Francesco Petrarca, Laterza, Bari 1968 U Leo Deuel, Testamenti nel tempo, Bompiani, Milano 1968 U Edward Gibbon, Storia della decadenza e della caduta
dell’impero romano, Einaudi, Torino 1967 U Pierre de Nolhac, Petrarque et l’umanisme, Paris 1907 U Petrarca, Familiari, Aragno, Roma 2007 U Pier Giorgio Ricci, Petrarca, Dizionario Autori, Rizzoli,
Milano 2006
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arte porte bronzee di Federico Canaccini
Fusioni
divine Cosí come il porfido è il materiale scelto dagli imperatori romani come simbolo del proprio potere, il bronzo conosce una popolarità straordinaria nel Medioevo: dalla statuetta equestre di Carlo Magno, agli immensi portali delle grandi cattedrali
I
l bronzo vide crescere nel Medioevo il suo valore, non solo perché materiale raro e prezioso, ma anche per il riferimento simbolico della lega alla dignità imperiale di Roma. Nell’Urbe, infatti, facevano ancora mostra di sé grandi manufatti realizzati dalle capaci maestranze romane dell’epoca: la statua equestre di Marco Aurelio e la Lupa capitolina, poste dinnanzi al palazzo del Laterano, e poi le porte del Pantheon, della Curia, del tempio di Romolo, la Pigna e i Pavoni del Vaticano. Il primo a voler riutilizzare il bronzo, con il chiaro intento di richiamare l’aura imperialis, fu Carlo Magno che lo usò per realizzare la piccola statua equestre, ispirata al Marco Aurelio, e alcuni elementi della Cappella Palatina di Aquisgrana (vedi box alle pp. 72-73). La porta d’accesso all’edificio simbolo del Sacro Romano Impero è un chiaro tentativo di recuperare la grandezza di Roma: la sua fattura non raggiunse certo l’abilità degli antichi, ma recuperava stilisticamente i modi classici, e le due protomi leonine, per quanto reinterpretate alla maniera franca, sono il piú bel segno di una imitazione dell’arte romana. Per realizzare la fusione delle due valve, fu allestita una vera e propria officina a termine, nelle vicinanze immediate della Cappella Palatina, riportata alla luce da recenti scavi archeologici. Come nel tardo impero il materiale simbolo del-
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la corte era il rosso porfido – la cui importazione dall’Egitto era prerogativa esclusiva della famiglia imperiale –, cosí nei secoli a cavallo tra Alto e Basso Medioevo, il bronzo divenne il materiale simbolo del prestigio, e affermò, con la sua presenza, un’elevazione di dignità, un’associazione alla imperialitas. Ecco perciò che le città italiane – ma non solo – in competizione con Roma, si accaparrano, a partire dal Mille, statue bronzee: a Pisa, sul tetto del duomo, spicca un grifone di fattura islamica; i Genovesi invece fanno sfoggio di un grande lampadario e di porte bronzee, strappate come prede di guerra dalla città di Almeria, conquistata nel 1147; i Veneziani, dopo il Sacco di Costantinopoli del 1204, riportano e sistemano sulla basilica marciana i quattro cavalli bronzei del IV secolo che ancora sono uno dei simboli della città lagunare; a Milano infine, sin dall’XI secolo, era possibile ammirare nella basilica di S. Ambrogio un serpente bronzeo, anch’esso di probabile provenienza costantinopolitana. (segue a p. 75) In alto Aquisgrana. Particolare della decorazione del portale bronzeo della cattedrale. XII sec. Nella pagina accanto Verona, basilica di S. Zeno. La porta bronzea della chiesa, le cui ante sono decorate da 48 formelle, in parte realizzate da un ignoto artista dell’XI sec. e in parte attribuite ai maestri Niccolò e Guglielmo, attivi nel XII sec. settembre
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arte porte bronzee Aquisgrana: il primo reimpiego ideologico aula palatina
Aquisgrana deve il suo nome alle acque calde già note ai Romani, che vi impiantarono diverse strutture termali, abbandonate verso la fine del IV secolo. La cittadina ricompare solo quattro secoli piú tardi, prima in occasione di un soggiorno di Pipino il Breve, poi con la decisione di Carlo Magno di farne la residenza imperiale, dopo
porta monumentale
Atrio
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Statuetta equestre tradizionalmente identificata con un’immagine di Carlo Magno, ma che potrebbe anche ritrarre Carlo il Calvo, dalla cattedrale di Metz. Parigi, Museo del Louvre. Restaurata nel XVIII sec., la piccola scultura assembla un cavallo scolpito in età tardo-imperiale romana o nel IX sec. e la figura del cavaliere, che è invece certamente databile al IX sec.
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l’incoronazione dell’800. Del complesso di edifici atti a svolgere le funzioni necessarie per servire degnamente la corte, non rimane traccia, trattandosi perlopiú di strutture in legno. Per contro, si conservano tracce archeologiche dell’aula palatina (la grande sala delle udienze) e di una porta monumentale su cui terminava l’asse viario principale. È invece giunta integra, anche se poi rimaneggiata, la Cappella Palatina, dedicata alla Vergine Maria, progettata da Oddone di Metz, e inaugurata nell’804 da papa Leone III. Circa un secolo piú tardi, nel 936, Ottone I stabilí che i sovrani germanici dovessero farsi incoronare ad Aquisgrana, una disposizione trasformata in obbligo nel 1356. La struttura, a pianta ottagonale, si ispira agli edifici romano-bizantini che Carlo aveva potuto ammirare in Italia. Eginardo e gli altri intellettuali di corte, inoltre, cercarono in ogni modo di presentare Aquisgrana come una «nuova Roma» e quindi il palazzo
fu ornato con opere antiche, tra cui una notevole serie di bronzi. Le porte – quella principale, detta «del Lupo» (3,95 x 2,72 m), e quattro minori – dovettero impressionare i contemporanei se Eginardo stesso sentí l’esigenza di citarle nella sua biografia dell’imperatore. Oltre alle porte, al primo piano sono ancora visibili otto parapetti traforati (ciascuno dei quali misura 1,22 x 4,22 m), decorati con girali d’acanto di ispirazione classica. Inoltre da Ravenna fu trasportata una statua equestre di Teodorico il Grande, simbolicamente assimilabile all’imperatore carolingio. Una pigna di bronzo, simile a quella che oggi campeggia nel cortile dei Musei Vaticani, fu posta su di una fontana nell’atrio della chiesa. Infine un’orsa in bronzo, datata al II secolo d.C., che si può oggi ammirare nell’ingresso della Cappella Palatina, fu portata come immagine della lupa di Roma. Alla testa dell’orsa si ispirò il maestro franco che scolpí le protomi leonine dei battenti.
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L’orsa in bronzo databile al II sec. d.C. e oggi collocata all’ingresso della Cappella Palatina.
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Ricostruzione grafica ipotetica del palazzo di Carlo Magno ad Aquisgrana, che comprendeva strutture residenziali ed edifici a uso politico e religioso. Di questi ultimi, il piú celebre era la Cappella Palatina, tuttora conservata.
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Pigna in bronzo originariamente appartenente a una fontana collocata nell’atrio del palazzo. Arte carolingia.
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arte porte bronzee Bernoardo di Hildesheim
Un grande mecenate La biografia di questo attivissimo prelato medievale, ci è giunta grazie a Tangmaro, il quale dovette iniziare a redigerla quando il vescovo di Hildesheim era ancora in vita e già in odore di santità. Nato verso il 960 da una nobile famiglia sassone, entrò nella corte di Ottone II (955-983) per divenire poi il precettore del figlio, a sua volta sovrano col nome di Ottone III (980-1002). Fu consacrato vescovo di Hildesheim nel 993. La sua attività di promotore dell’arte, confermata dalle firme apposte sulle opere, ne fa uno degli esempi piú fulgidi di mecenate dell’epoca ottoniana. Dopo aver promosso e ultimato la ricostruzione della cattedrale di Hildesheim – capolavoro dell’architettura ottoniana in Sassonia –, seguendo i canoni delle moderne cattedrali dell’epoca, ne commissionò le grandi porte bronzee. Fece poi fondere un candelabro tortile, di cui purtroppo rimane solo una copia ottocentesca, una In alto particolare delle porte bronzee della cattedrale di Hildesheim, realizzate su commissione del vescovo Bernoardo, come ricorda l’iscrizione evidenziata dalla cornice rossa. A sinistra particolare della statua di Bernoardo, collocata nella piazza della cattedrale di Hildesheim. XIX sec.
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grande croce in argento e oro e una coppia di grandi candelabri, la cui iscrizione riporta sempre la sua committenza. Per la biblioteca della cattedrale, Bernoardo fece realizzare una Bibbia e due evangeliari, per uno dei quali fece venire da Ratisbona il famoso miniatore Guntbald, noto per la sua abilità. Morí nel 1022, dopo aver celebrato, appena due mesi prima, la messa d’inaugurazione della cattedrale di S. Michele di cui egli stesso aveva posto la prima pietra nel 1010. Nel 1192 fu fatto santo da Celestino III e nel 1985 l’UNESCO ha inserito i bronzi bernoardeschi nella lista del Patrimonio dell’Umanità. settembre
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Tra gli utilizzi della lega, la realizzazione delle porte divenne, nel Basso Medioevo, una prassi sempre piú diffusa, sebbene fondere simili manufatti fosse un’impresa assai impegnativa oltreché dispendiosa. Se nell’Occidente medievale, come abbiamo visto, si deve attendere la realizzazione della porta di Aquisgrana, dopo la lunga pausa seguita alle invasioni germaniche, a Bisanzio la produzione di porte bronzee non conobbe arresto. Perciò i modelli a cui i fonditori occidentali si ispirarono – oltre le poche porte romane spesso reimpiegate nelle chiese cristiane dell’Urbe – furono i grandi portali della basilica di S. Sofia e quelli delle chiese e dei palazzi costantinopolitani o ravennati.
Un mezzo per avvicinarsi a Dio
È importante sottolineare che, utilizzando la preziosa lega metallica – fino ad allora impiegata unicamente per gli arredi liturgici e perciò prerogativa dei soli clerici – per le porte, poste fuori dall’edificio sacro, si dava la possibilità ai fedeli di usufruire di un bene fino a quel momento visibile a pochi eletti. Un passo di Sugerio (1081-1151) suggerisce come tale idea fosse ormai diffusa nella mentalità degli intellettuali del tempo: «La porta, già mezzo per avvicinarsi a Dio, acquista maggiore valor proprio in relazione alla sua Il grifone in bronzo di fattura islamica un tempo collocato sul tetto del Duomo di Pisa. XI sec. circa. Pisa, Museo dell’Opera del Duomo.
funzione, ma anche al materiale in cui essa è realizzata». Sugerio, abate di Saint-Denis dal 1122, nel 1140, in occasione della ricostruzione dell’abbazia, fece inserire nella facciata un portale dai battenti in bronzo dorato, fusi probabilmente su ispirazione di modelli bizantini da lui ammirati durante i suoi viaggi in Italia. Soprattutto dopo l’anno Mille, le città europee iniziano a dotare i propri edifici principali di porte bronzee in palese continuità con i modelli antichi. L’area germanica, in particolare, conserva numerosi portali metallici la cui realizzazione e ostentazione vengono percepiti dai contemporanei come «un fiore all’occhiello» dell’estetica urbana e dell’innalzamento spirituale dei fedeli. Datata al 1000 è la porta del duomo di Magonza, voluta dal vescovo Willigiso (975-1011), e realizzata da tal «Beringerus artifex», entrambi nominati nell’epigrafe commemorativa in cui, non certo casualmente, si fa riferimento all’imperatore Carlo Magno. Beringerus, fra l’altro, detiene il primato di primo fonditore medievale noto tramite l’apposizione della propria firma. Risale invece a pochi anni piú tardi la porta del duomo di Augusta, nei cui riquadri compaiono scene mitologiche e bibliche: si tratta di trentatré riquadri dovuti a due diversi maestri e raffiguranti la lotta del Bene contro il Male e la Redenzione operata da Cristo. Un’epigrafe, posta sul monumento funerario del vescovo Wolfhart von Roth (1302†), ci rivela come il lavoro fosse ripartito tra scultore e fonditore. Si legge infatti «Otto me cera fecit Cunratque per era» («Ottone mi ha fatto con la cera e Corrado con il bronzo»). Quando, come a Magonza, si trova citato un solo nome, si tratta senza dubbio del fonditore, il cui apporto, almeno sino all’età barocca, era oggetto di maggior apprezzamento dai contemporanei.
Un’impresa eccezionale
Altro esempio di questa branca della metallotecnica, e forse il piú celebre tra quelli del Basso Medioevo, è il portale della cattedrale di Hildesheim, realizzato nel 1015, per volere del vescovo Bernoardo (vedi box alla pagina precedente), che doveva certamente aver ammirato le porte bronzee di Costantinopoli e dell’Urbe, in occasione dei suoi viaggi in Italia e a Bisanzio quale tutore del giovane imperatore Ottone III, compito che lo portò anche a Pavia e a Vercelli. L’opera, che richiese una grande perizia, in quanto le due valve furono fuse in un’unica colata – impresa piú che ardua per l’epoca – è suddivisa in 16 ampi riquadri, in cui trovano posto scene tratte dalla Bibbia: tali figure, in altorilievo, sono considerate il primo esempio del ritorno della scultura plastica monumentale e il preludio alla rinascita di quest’arte nell’Occidente medievale. La narrazione delle singole scene è molto equilibrata e
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arte porte bronzee gli studiosi ne legano lo stile agli schemi decorativi delle miniature del Salterio di Utrecht e delle Bibbie miniate della scuola di Tours. Realizzata dalle stesse maestranze, nella medesima cattedrale, è possibile ammirare una colonna istoriata a spirale, la cosiddetta Christussäule, fusa qualche anno prima. Su di essa corre un fregio, che imita nella forma quello delle colonne tortili di Traiano e Marco Aurelio, un modello che però viene «aggiornato» con la narrazione della storia di Cristo, dal battesimo nel Giordano sino alla crocifissione sul Golgota con uno stile dal grande risalto plastico.
Composizioni simili a fumetti
Databile invece alla metà del XII secolo, è la porta bronzea della cattedrale di Novgorod, in cui trovano posto 26 formelle, nelle quali si alternano episodi della vita di Gesú, scene e personaggi vetero-testamentari e altri elementi. Tra questi ultimi spiccano le immagini del vescovo Alessandro di Blucich, committente dell’opera, con il suo seguito di clerici, dei maestri fonditori e un centauro armato di arco e frecce. Al centro, fungono da battenti due protomi leonine di chiara ispirazione prima romana e poi franca. Nei due spazi superiori, lasciati unici e non suddivisi in piú riquadri, trovano in-
A destra le porte bronzee della cattedrale di Novgorod, ornate da 26 formelle nelle quali episodi e immagini di carattere religioso sono alternati a figure che comprendono, tra gli altri, il committente dell’opera, Alessandro di Blucich, e i suoi artefici.
I ferri del mestiere Sulla porta di bronzo della cattedrale di S. Sofia di Novgorod, i maestri Riquinus, Waismuth e Abraham (questo aggiunto piú tardi) non solo vennero citati per nome, come si osserva in altri casi, ma furono anche raffigurati con i loro utensili in mano. In questa formella si vedono due di loro con le pinze per afferrare il crogiolo, in una sorta di ritratto a tutto tondo degli artifices della fusione.
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In alto particolare della formella della porta di Novgorod con l’immagine del Cristo benedicente, attorniato dai quattro evangelisti.
vece posto Gesú attorniato dagli apostoli da un lato, e, dall’altro, Cristo benedicente in una mandorla sorretta da quattro angeli e circondato dai simboli dei quattro evangelisti. Le scene sono talvolta sormontate da alcuni testi esplicativi, o da quelli che potremmo definire veri e propri fumetti, sia in latino che in glagolitico (il piú antico alfabeto slavo, creato dai santi Cirillo e Metodio nella seconda metà del IX secolo, n.d.r.). La scena della visitazione, per esempio, riporta proprio il testo del saluto dell’angelo Gabriele mentre si rivolge alla Vergine. La porta venne fusa nei cantieri del Magdeburgo, in Sassonia e le forti analogie con le porte della cattedrale di S. Zeno a Verona ci forniscono preziose informazioni sulla circolazione delle maestranze di quest’arte.
Benedettini germanici a Verona
Le ante della porta della basilica di S. Zeno a Verona, infatti, sono decorate con 48 formelle bronzee. Anche qui, come spesso accade per lavori cosí onerosi, compaiono i ritratti dei committenti, Matilde di Canossa e il suo sposo Goffredo, e l’ignoto scultore. Le formelle non sono tra loro coeve e, mentre le prime sono relative all’XI secolo, forse fuse in Sassonia e comunque in linea con quelle di Hildesheim – non a caso, in quel tempo, a Verona troviamo monaci benedettini di origine germanica –, le altre, in cui figurano i miracoli di san Zeno e scene dell’Antico Testamento, sono ascrivibili ai celebri maestri Niccolò e Guglielmo che realizzarono anche il magnifico protiro della cattedrale. Bonanno Pisano, vissuto nel corso del XII secolo – al quale è stato a lungo attribuito il progetto del campanile del duomo di Pisa, la celebre Torre pendente – fu anche autore di due portali in bronzo: quello principale del Duomo, andato distrutto nel corso dell’incendio del 1595, e quello del transetto di S. Ranieri, databile al 1190. Nei riquadri, circondati da figure di Profeti, trovano spazio scene dell’Infanzia e della Passione di Cristo. Il maggior numero di porte bronzee della Penisola
La raffigurazione dei committenti era frequente soprattutto nel caso di opere particolarmente onerose MEDIOEVO
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A sinistra Trani, cattedrale. Una delle formelle in bronzo della porta, opera del maestro Barisano, raffigurante san Giorgio e il drago. Fine del XII sec.
L’attività delle officine fusorie medievali non è testimoniata solo dalle opere giunte sino a noi, dalle fonti letterarie o dalle rare miniature in cui si possono talvolta ammirare fonditori all’opera. Anche l’archeologia, infatti, ha dato il proprio contributo, riportando alla luce le strutture di alcuni di questi laboratori, e fornendo preziose informazioni sull’ubicazione, l’organizzazione e il funzionamento di questi micro-cantieri. Vere e proprie fonderie furono impiantate in conventi, come quello di St. Pantaleon a Colonia, attivo fino alla metà del XII secolo, ma anche in città, come a Haithabu o Lubecca.
Il primo trattato
Nella pagina accanto la porta bronzea centrale della cattedrale di Troia, in Puglia, databile al 1119.
è però concentrato in Puglia. Sulla porta del santuario di S. Michele al Gargano, troviamo infatti due battenti bronzei, fusi nel 1076 a Costantinopoli, su richiesta del ricco mercante Pantaleone da Amalfi. Nelle 23 formelle si alternano fatti dell’Antico e del Nuovo Testamento, nonché le tre apparizioni dell’Arcangelo a cui il santuario è dedicato. Il portale del mausoleo di Boemondo d’Altavilla, a Canosa, fu realizzato da Ruggero da Melfi, attorno al 1120, in un’unica fusione. In quest’opera, di alta committenza normanna, trovano spazio i ritratti dei figli di Roberto il Guiscardo e i futuri principi normanni. Nella cattedrale di S. Maria, a Troia, sono addirittura due le porte in bronzo, datate la prima, quella centrale, al 1119, mentre quella laterale, di dimensioni minori e datata al 1127, è ascrivibile a Oderisio da Benevento, rappresentato accanto a tale Berardo, forse l’architetto della chiesa. A un tal Barisano, attivo alla fine del XII secolo, si devono invece il grande portale della cattedrale di Trani, nonché le porte bronzee di Ravello e Monreale, realizzate con l’aiuto di Bonanno Pisano.
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Le tecniche di fusione, descritte nella Diversarum artium schedula, il primo trattato di tecniche artistiche del Medioevo, composta da Teofilo attorno al 1100, riprendevano le tecniche antiche, con una particolare attenzione alla tecnologia bizantina e islamica che avevano proseguito e innovato quanto era stato inaugurato dai Romani. Nel suo trattato vengono descritti, con chiari riferimenti all’opera di Plinio, i materiali e le tecniche artistiche, suddividendole in tre libri: nel primo si trattano la miniatura e la pittura murale; nel secondo il vetro; nel terzo la metallotecnica e la lavorazione di pietre dure. L’arte della fusione del metallo richiedeva una notevole perizia, e la preziosità del metallo, unita al richiamo all’antichità, circondava i manufatti di una aurea reverentia; i committenti, già ben consapevoli del proprio ruolo, erano considerati come mecenati e i fonditori artisti degni di memoria perenne. Che le porte fossero un bene raro e prezioso per i contemporanei, lo si intuisce dalla minuzia con cui vengono elencate le modalità di mantenimento delle porte. In una delle valve del santuario di S. Michele Arcangelo sul Gargano, il magister pensò bene di lasciare incisi, direttamente sul bronzo, alcuni suggerimenti per conservare le superfici della sua opera, ben lucida sino ai nostri giorni! F
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di Furio Cappelli
Nel maggio del 614, dopo venti giorni di assedio, Cosroe II conquista Gerusalemme: le sue armate si danno al saccheggio, il Sacro Legno viene trafugato. L’equilibrio che aveva permesso all’impero romano d’Oriente e a quello persiano di convivere piú o meno pacificamente si è spezzato, e Costantinopoli e Ctesifonte iniziano a fronteggiarsi in una guerra che si combatte anche «a colpi di reliquie». Uno scontro che segna la fine della potenza sassanide, ma che, soprattutto, apre le porte alle conquiste islamiche Particolare di una pala d’altare raffigurante Elena e l’imperatore Eraclio con la Vera Croce alle porte di Gerusalemme. Opera di Miguel Jiménez e Martin Bernat, 1485-1487. Saragozza, Museo Provincial de Bellas Artes.
La Vera Croce e la guerra dei mondi
Dossier
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ell’anno 614 si verifica un evento di proporzioni inaudite per la storia dell’impero bizantino. La Persia aveva già oltrepassato un confine all’apparenza inviolabile. Presa la fortezza di Dara (nei pressi dell’odierna città turca di Mardin, a ridosso del confine con la Siria, n.d.r.), nel 605, aveva dato inizio a un’invasione senza precedenti. Dopo aver debellato le ultime
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resistenze nei pressi di Antiochia, nel 611, l’esercito nemico era avanzato senza trovare ostacoli ed era cosí dilagato nei territori costieri del Mediterraneo orientale, nelle antiche province romane della Siria e della Palestina. Il 5 maggio 614, secondo la cronologia di Antioco lo Stratega (un monaco del monastero gerosolimitano di S. Saba che fu testimone di-
Sulle due pagine Firenze, basilica di S. Croce, Cappella Maggiore. Il trafugamento della Vera Croce da Gerusalemme, un riquadro della Leggenda della Vera Croce, ciclo dipinto da Agnolo Gaddi. 1388-1393.
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vera croce Secondo
gerusalemme
la tradizione, il Sacro Legno sarebbe stato trovato a Gerusalemme da Elena, madre dell’imperatore Costantino, in occasione di un viaggio in Terra Santa compiuto probabilmente tra il 326 e il 327.
La Città Santa fu sconvolta dalle truppe persiane, che si abbandonarono al massacro. Secondo le fonti bizantine, sarebbero state uccise 56 000 o addirittura 65 000 persone.
Cosroe ii detto Parviz (il Vittorioso), regnò fra il 590 e il 628. Il 5 maggio 614, dopo venti giorni di assedio, le sue truppe presero Gerusalemme e si diedero poi al saccheggio, trafugando anche le reliquie piú sacre, tra cui la Vera Croce.
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Dossier storia di una reliquia
Il Sacro Legno, da Elena a Eraclio Tra il 383 e il 384 si svolge il pellegrinaggio in Terra Santa della nobile vedova Egeria, partita dalla lontanissima Galizia, sul versante atlantico della penisola iberica. Mentre si trova a Gerusalemme durante la Settimana pasquale, il Venerdí santo ha modo di vedere la Vera Croce. Estratto da un cofanetto d’argento dorato, il sacro legno viene esposto proprio sulla roccia del Golgota, a quell’epoca a cielo aperto, all’angolo del Triportico che connetteva la basilica alla rotonda del Santo Sepolcro. Mentre il vescovo seduto in cattedra tiene la reliquia in mano, i fedeli, uno a uno, posano su di essa la fronte e gli occhi, e la baciano. I diaconi vigilano con molta attenzione, perché in passato, ha sentito dire Egeria, un tale ha rubato un pezzo del sacro legno, strappandolo con un morso. Il complesso monumentale, ricco di suppellettili d’oro, retto dei fatti e ne diede conto nella Presa di Gerusalemme) le truppe al comando del generale Shahrbaraz, dopo venti giorni di assedio, penetrano entro le mura di Gerusalemme, la Città Santa, e la mettono a ferro e a fuoco.
mosaici e marmi preziosi, era stato realizzato su commissione dell’imperatore Costantino tra il 325 e il 335. La scoperta della Vera Croce risale alla sua stessa epoca, forse tra il 333 e il 337, come è possibile desumere dalla testimonianza di Cirillo, vescovo di Gerusalemme (348-387). Alcuni anni dopo, non oltre il 395, si diffonde la narrazione che vede in sant’Elena, madre di Costantino, la protagonista del rinvenimento. Un miracolo avrebbe consentito di stabilire quale fosse la croce di Cristo (la Vera Croce) tra le tre riportate alla luce. Secondo sant’Ambrogio, una grave malata, messa a contatto dei tre legni, guarí d’incanto, toccando quello giusto, mentre per il vescovo Paolino di Nola il dubbio fu sciolto dalla resurrezione di un morto. La leggenda, assai popolare, si incardinò sulla festività dell’Invenzione della
Ctesifonte. I resti del Taq-i Kisra, il palazzo imperiale fatto costruire nel VI sec. da Cosroe I (531-579). La città mesopotamica, fondata dai Parti, fu capitale dell’impero persiano fino al 637 e visse il suo momento di massimo splendore sotto i Sassanidi.
Il saccheggio e la strage
L’eccidio degli abitanti, stando alle fonti bizantine, giunge a cifre da capogiro: 57 o 65 mila vittime. Ebrei stanchi di sottostare al potere dei cristiani e masnade di beduini, richiamate dalla possibilità di un facile bottino, si affiancano alle truppe persiane. Molte chiese vengono profanate, saccheggiate e date alle fiamme. 35 mila abitanti, tra cui lo stesso patriarca Zaccaria, vengono deportati in Persia. Viene finanche trafugata la veneratissima reliquia della Vera Croce, gelosamente conservata nella basilica costantiniana del Santo Sepolcro. Lo scrittore greco Sofronio (570 circa-638), testimone della strage (diventerà patriarca di Gerusalemme nel 634), è sgomento: «L’ondata di lacrime che sgorga dai miei occhi non basta di fronte a un funerale di tale enormità. Il gemito del mio cuore è troppo flebile di fronte a un dolore cosí crudele». Il duro colpo era stato inferto
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Croce (3 maggio). Il ritorno della reliquia a Gerusalemme dopo i fatti del 614, si celebra invece con l’Esaltazione della Croce (14 settembre). Anche su questo versante si ebbe un’ampia messe di racconti, che deformarono la verità storica, proponendo, per esempio, un finale d’effetto, con l’uccisione del trafugatore Cosroe per mano di Eraclio. Una vasta tradizione iconografica coinvolse in Occidente la leggenda di sant’Elena e l’epica di Eraclio, talvolta proposte nello stesso complesso figurativo. Questa fioritura di scene eloquenti, ambientate in massima parte a Gerusalemme, fu favorita dalla diffusione dei frammenti della Vera Croce, come pure dal clima delle crociate, e conobbe un particolare impulso grazie ai Francescani, in omaggio ai desideri del Poverello, che voleva rafforzare e diffondere il messaggio evangelico
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La Vera Croce nella scena del saccheggio di Gerusalemme dipinta da Agnolo Gaddi (vedi foto alle pagine precedenti).
nell’Oriente musulmano, anche a costo del martirio. Vanno ricordati al riguardo il ciclo di Agnolo Gaddi a S. Croce di Firenze (1388-1393) e quello celeberrimo di Piero della Francesca ad Arezzo (1452-1466), realizzato a ridosso della caduta di Costantinopoli (1453).
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Dossier Sulle due pagine Resafa (Siria). I resti della basilica di S. Sergio. Eretta sul luogo del martirio del santo, la chiesa ne conservava le reliquie e risale agli anni tra il 490 e il 520. In basso i volti dei Magi cosí come appaiono nel mosaico che raffigura il loro omaggio al Bambino nella basilica ravennate di S. Apollinare Nuovo. Commissionata dal vescovo Agnello (556-565), l’opera ha subíto un radicale restauro nel XIX sec.
Universalità dei Magi
Quei sacerdoti mazdei... A contatto con il variegato mondo arabo-siriaco, Cosroe dovette scoprire o approfondire la vicenda di quei Magi venuti dalla Persia a omaggiare il Bambino di Betlemme. Il Vangelo dell’Infanzia, un apocrifo della metà del VI secolo, scaturito proprio dal mondo arabo-cristiano della Siria, asserisce che la nascita di Gesú corrisponde all’avvento di quel Salvatore dell’umanità annunciato da Zarathustra, il profeta della fede mazdea. D’altronde le stesse truppe di Cosroe, trovatesi di fronte a un mosaico raffigurante l’omaggio dei Magi, nella basilica della Natività di Betlemme, non osarono saccheggiarla. Quelle tre figure riccamente ammantate, dotate di un berretto frigio o di un berretto a punta tipicamente persiano, furono identificate come sacerdoti mazdei (i «magi» propriamente detti). E dobbiamo convincerci che nel trafugare la Vera Croce, il «criptocristiano» Cosroe voleva sí accaparrarsi un amuleto prodigioso, ma rispondeva anche alle attese e ai sogni di rivincita della Chiesa nestoriana del suo Paese, da secoli ignorata e ghettizzata dai patriarcati dell’Oriente bizantino. Una volta giunta in Persia, la reliquia fu accolta in pompa magna dal vescovo Yazden, che ne ottenne un frammento destinato al tesoro della cattedrale di Kirkuk (Iraq).
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con una determinazione lucida e implacabile, in un momento in cui l’impero bizantino era una facile preda, fiaccato com’era da lotte di potere e da una crisi che si era annidata sempre piú nel cuore stesso dello Stato. Già in precedenza l’impero persiano aveva potuto contare sulle ampie schiere di un esercito ben organizzato, eppure non aveva mai osato rompere in modo cosí eclatante il delicato equilibrio che, da secoli, aveva permesso una convivenza indiscussa alla Roma d’Oriente e alla confinante potenza asiatica. Non erano mancati momenti di tensione tra le parti, né si era esitato a prendere le armi in molte occasioni, ma i due imperi sapevano bene che le loro forze dovevano tener conto di confini vastissimi, sui quali premevano popolazioni nomadi o semino-
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madi capaci di minacciare a un tempo sia la Persia che Bisanzio, come i Turchi o gli Avari. Le due «superpotenze» non potevano d’altronde estendere agevolmente il proprio potere l’una a danno dell’altra, poiché non erano in grado di assorbire nuovi territori: con la loro forza organizzativa, a fronte di popolazioni eterogenee e irrequiete, era già difficile tenere le redini in casa propria. La diplomazia giungeva cosí a ricomporre ogni attrito, stabilendo tra le parti una lunga sequela di paci piú o meno «eterne», interpunte da eventi bellici piú o meno eclatanti.
Confini variabili
La guerra, quasi sempre ingaggiata dalla Persia, era piú che altro un pretesto per ridiscutere i confini, con il vantaggio immediato che derivava dal saccheggio dei terri-
tori momentaneamente occupati, da cui si traevano ricchezze di vario genere: non solo oggetti preziosi, armi e macchinari, ma ampie schiere di persone, tra le quali artisti, letterati e musici o lavoratori specializzati, che potevano dare man forte agli opifici e alle miniere dell’impero iranico. Lo stato delle cose sembrava destinato a perdurare all’infinito, ma la presa di Gerusalemme segna una svolta epocale. Una catena di eventi portò infine alla scomparsa definitiva di due sopravvivenze del mondo antico: l’impero persiano e il dominio di Roma in Egitto e in Siria. Sul trono di Ctesifonte siede Cosroe II (590-628), consegnato alla storia con il titolo onorifico di Parviz, «il Vittorioso». È lui la mente che sta dietro alla campagna senza precedenti sferrata contro Bisanzio. Lo shahanshah, il «Re
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Mar Mediterraneo
Antiochia
Damasco Gerusalemme
Alessandria
EGITTO
ARABIA
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Tremisse in oro con l’imperatore Maurizio, con il quale Cosroe II stabilí una solida alleanza, arrivando a definirsi «figlio» del sovrano bizantino. 582-602.
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gerusalemme La Città Santa è teatro della scoperta della Vera Croce. La reliquia vi rimane fino alla conquista di Cosroe II, nel 614, per poi tornarvi, grazie a Eraclio, nel 630.
Ma
dei Re» che trafuga la Vera Croce, è un uomo di sconfinata ambizione, che vive nel lusso piú sontuoso. Vuole riportare la Persia alle vette dell’età achemenide, e ora che le sue truppe sono giunte sulle rive del Mediterraneo, un primo obiettivo è raggiunto: dopo lunghi secoli, la potenza iranica torna ad affacciarsi sul «Mare Bianco» (cosí il Mare Nostrum era noto ai Persiani, in opposizione al Mar Nero). Non si tratta di un’occupazione temporanea, ma della prima fase di un’operazione militare su larga scala che ha un preciso obiettivo finale: la conquista di Costantinopoli. Occorre a questo punto fare un passo indietro, precisamente all’epoca in cui lo stesso Cosroe si definiva
Mar Nero
IMPERO BIZANTINO
Nilo
326-327 Elena, madre dell’imperatore Costantino, si reca in pellegrinaggio in Terra Santa e, secondo la tradizione, scopre a Gerusalemme la Vera Croce. 383-384 Egeria, una nobile pellegrina cristiana, narra di aver visto la reliquia, esposta in un cofanetto, in occasione dei riti della Settimana Santa. 614 Le truppe persiane, guidate dal generale Shahrbaraz, prendono Gerusalemme e la devastano; il complesso del Santo Sepolcro viene danneggiato e la reliquia della Vera Croce portata a Ctesifonte come trofeo di guerra. 622 Egira (hijrah, migrazione) del profeta Muhammad da La Mecca a Yatrib (piú tardi detta Medina, «la Città»). 629 L’imperatore bizantino Eraclio sostiene il generale Shahrbaraz nell’ascesa al trono persiano e stipula con lui un accordo di pace che apre la strada alla liberazione di Gerusalemme dai Persiani stessi. 630 Boran, figlia di Cosroe II, sovrana dell’impero sassanide, restituisce la Vera Croce a Gerusalemme, dove si restaura il Santo Sepolcro. 632 Morte del profeta Muhammad, a Medina. 638 Il califfo Omar conquista Gerusalemme.
Bisanzio
Esten sion e
terra di reliquie e... di guerre
«figlio» dell’imperatore di Bisanzio. Proprio Cosroe, il profanatore di Gerusalemme che sognava di mettere le mani su Costantinopoli, aveva trovato un alleato prezioso nella Roma d’Oriente. Spodestato da una congiura di corte, era fuggito da Ctesifonte e aveva chiesto sostegno e protezione all’imperatore bizantino Maurizio. Cosroe II era rimasto vittima di una macchinazione che egli stesso aveva in principio avallato. Morto suo nonno, il grande Cosroe I (531-579), coevo di Giustiniano, era salito al trono suo padre Hormizd IV (579-590). Si trattava di un uomo di tutt’altra stoffa rispetto al suo predecessore. Non ne eguagliava minimamente il carisma e la risolutezza. Uno dei suoi piú validi settembre
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l’impero sassanide al tempo di cosroe II
GEORGIA Derbent
ARMENIA
SOGDIANA
Mar Caspio
Merv
Oxus
GORGAN
AZERBAIGIAN
KHORASAN
GILAN
Takht-I Sulaiman
takht-i sulaiman Rilievo oggi situato nell’Azerbaigian iraniano, sulla cui sommità fu realizzato il complesso cultuale dell’Adur Gushnasp, nel quale veniva custodito il fuoco sacro.
KURDISTAN Ctesifonte
IMPERO SASSANIDE
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SISTAN
KHUZISTAN
ctesifonte Città della Mesopotamia, sul fiume Tigri, fu capitale dell’impero persiano fino al 637 e dunque custodí la Vera Croce all’indomani del suo trafugamento da parte di Cosroe II.
generali, che militava già sotto Cosroe I, si chiamava Bahram, e apparteneva alla nobile famiglia dei Mihran, imparentata con gli Arsacidi, la dinastia di quei sovrani parti che dominarono la Persia fino all’avvento dei Sassanidi.
FARS Firuzabad KERMAN
Golfo Persico
A destra solido aureo con l’immagine dell’imperatore bizantino Eraclio, insieme al figlio, Eraclio Costantino. 615-625 circa. Cleveland, Cleveland Museum of Art.
La congiura di Bahram
Dopo aver condotto una vittoriosa campagna contro i temibili Turchi, Bahram era reduce da una guerra di alterne fortune contro i Bizantini, conclusasi in un nulla di fatto. Il re Hormizd, geloso dei suoi successi, volle approfittare della situazione per metterlo in disparte. Determinato e orgoglioso, Bahram non la prese affatto bene e non esitò a ordire una con-
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A sinistra denario aureo di Foca che, acclamato imperatore in seguito a una rivolta militare (602), fece uccidere il suo predecessore Maurizio. Deposto da Eraclio, fu a sua volta assassinato nel 610. VII sec. Padova, Musei Civici Eremitani.
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monoteisti contro idolatri
La profezia di Muhammad La notizia delle vittorie persiane era giunta nell’Higiaz, l’altopiano desertico della penisola arabica da cui scaturí la vicenda del Profeta dell’Islam. Secondo il cronista Tabari (838-923), gli abitanti della Mecca furono lieti di quegli eventi, poiché si sentivano piú affini ai Persiani, e non avevano dubbi sul fatto che i Bizantini avrebbero perso la guerra. Non era però dello stesso avviso Muhammad in persona.
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Nel 617, in base alla cronologia di Tabari, ossia cinque anni prima dell’egira, Allah gli aveva infatti rivelato che le cose sarebbero andate in tutt’altro modo. Si legge infatti nel Corano, alla Sura 30: «Sono stati vinti i Romani al confine della nostra terra, ma essi, dopo la loro sconfitta, vinceranno entro qualche anno. (…) e in quel giorno si rallegreranno i credenti del soccorso di Dio, che soccorre chi vuole». settembre
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giura a danno del sovrano. Hormizd da uno dei suoi migliori generali, Simocatta, sono al riguardo illumivenne accecato e sul trono salí suo Narsete, e ottiene in contropartita nanti: «Da tempo immemorabile, la figlio Cosroe II (590). Lo stesso Co- alcune concessioni territoriali. Bi- Divinità ha provveduto il mondo di sroe provvide in seguito a togliere sanzio si assicura una parte cospi- due occhi, a illuminarlo e guidarlo: definitivamente di mezzo suo padre, cua dell’Armenia e riprende entro la possanza del regno dei Romani e forse uccidendolo di persona. i suoi confini l’importante città di la saggezza del regno dei Persiani. A quel punto, però, nacquero at- Martyropolis e la fortezza di Dara Ché sono, questi due grandi imperi, triti insanabili tra il nuovo sovrano (che Cosroe riconquistò nel 605, baluardo contro l’irruenza bellicosa e il generale ribelle. Cosroe voleva come visto). di irrequiete nazioni barbariche, gaesercitare in pieno la sua autorità, Si tratta di concessioni virtuali, ranzia del buon ordine e della sicumentre Bahram non voleva saperne poiché il potere è in mano a Bahram rezza tra gli esseri umani». di prendere ordini dal giovane re. VI, il quale, a sua volta, si attiva con Il riferimento a una Divinità Non esitò a ordire una nuova con- una proposta di analogo tenore per senza nome, alla cui saggezza si giura con l’appoggio di una fazione tenere Maurizio fuori dalle contese devono i «due occhi» che guidano nobiliare, e salí al trono con il nome persiane. Ma il sovrano si attiene il mondo, elimina d’incanto ogni di Bahram VI, e con il sopranno- a una linea legittimista e respinge elemento di frattura tra i due Stame onorifico Chubin (forse «Uomo le proposte dell’usurpatore. Si crea ti. Si impone una visione dall’alto di legno», per la sua cocche supera ogni distinzione ciutaggine). Si trattò di A seguito della congiura e pur non e ogni logica di contrasto. La un evento sconvolgente, sovversione patita dal trono poiché, per la prima vol- appartenendo alla linea dinastica, della Persia è un pericolo per ta, assumeva il potere un l’umanità intera, e solo la Bahram salí al trono di Persia personaggio estraneo alla Roma d’Oriente, con un atlinea dinastica, per giunta to di «infinita giustizia» può imparentato con quei dominatori cosí una solida amicizia. Il rapporto scongiurare la catastrofe. della Persia che gli stessi Sassanidi personale tra Cosroe e Maurizio anQuel riferimento neutrale alla avevano sconfitto. dò infatti ben al di là della freddez- Divinità palesa la volontà di guarCosroe corre ai ripari, come ac- za e della diffidenza reciproca che dare con rispetto il dio che protegcennato, chiedendo aiuto all’impe- molto spesso connotarono le rela- ge l’impero dei Romani. Il sovrano ratore Maurizio. Lascia la sua capi- zioni tra le due potenze. persiano non abbandona affatto tale con la famiglia e un gruppo di Come si è detto, Cosroe si defi- la religione del suo Stato e della fedeli al seguito, trovando rifugio a niva «figlio» di Maurizio. Non era il sua tradizione regale, ma non esiCircesium, l’odierna Karsim (Siria), semplice principe straniero ospita- ta a concedere uno spazio al dio città-fortezza dell’impero bizan- to come ostaggio presso la corte di dei cristiani. Questo avvicinamentino alla confluenza tra l’alto cor- una potenza confinante, né, tanto- to era determinato da vari fattori. so dell’Eufrate e il fiume Khabur. meno, il re di uno Stato-cuscinetto. All’interno della sua corte agivano Maurizio concede ben volentieri Era il sovrano di un impero potente, funzionari cristiani che fungevano il suo appoggio al sovrano legitti- che intendeva legare i suoi destini anche da consiglieri persomo della Persia, dal momento che a quelli di un impero altrettanto nali, come il medico Gapuò sfruttare la situazione a pro- potente. Le sue parole pronunciate briele. Da tempo la Chiesa prio vantaggio. Fornisce a Cosroe nella richiesta di aiuto, tramanda- nestoriana di Persia si era un contingente militare guidato te dallo storico bizantino Teofilatto posta sotto la protezioNella pagina accanto miniatura raffigurante la battaglia combattuta a Badr, nel 624, dalle forze fedeli a Maometto contro i «pagani» della Mecca. 1594-95. Parigi, Museo del Louvre.
L’interesse del Profeta per il conflitto grecopersiano, e la sua simpatia per i Bizantini, si devono al fatto che in quegli eventi si poteva vedere un rispecchiamento di quanto accadeva nella penisola arabica. Quando inizia la riscossa di Eraclio, cristiano e dunque monoteista come i musulmani, Muhammad è in guerra contro i «pagani» della Mecca, «idolatri» come i Persiani. Commenta ancora Tabari: «In quello stesso periodo
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in cui i Greci ottennero le loro vittorie, quei miscredenti [i Meccani, n.d.a.] fecero avanzare un esercito verso Badr». Quella battaglia, che vide la prima vittoria musulmana, si combatté nel marzo 624, mentre Eraclio si apprestava a devastare il santuario mazdeo di Adur Gushnasp.
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Dossier ne del sovrano, che determinava la successione dell’importante vescovo (katholikos) di Ctesifonte, con un ruolo arbitrale che metteva a tacere ogni contrasto interno. Per giunta, Cosroe aveva come moglie prediletta una cristiana, Scirin («la Dolce»), contravvenendo in questo al divieto opposto dalla religione di Stato (il mazdeismo) ai matrimoni «misti» con i seguaci di altre credenze. Ed è possibile, a questo punto, che, sin dall’occasione determinata dalla richiesta d’aiuto, l’imperatore Maurizio abbia brigato per un’opera di proselitismo in terra persiana, facendo leva sugli stessi sentimenti religiosi di Cosroe.
Il Gran Re e i vescovi
Il re persiano adoratore del fuoco stabilisce rapporti di amicizia con due importanti dignitari ecclesiastici inviati dallo stesso Maurizio. Si tratta dei vescovi Gregorio di Antiochia e Domiziano di Melitene, quest’ultimo congiunto del sovrano. Essi accompagnarono in modo assai significativo l’imperatore persiano a Ctesifonte, quando riprese possesso del trono, e quivi giunto Cosroe provvide di persona a promuovere la costruzione di chiese e monasteri nel cuore della capitale. Agendo in tal modo, compie un atto di ringraziamento al dio dei Romani. Come poté accadere ciò? Nello scenario dell’esilio in terra straniera fa la sua comparsa una donna, Maria, introdotta al cospetto di Cosroe dal predetto vescovo Domiziano. Non è senz’altro la figlia dell’imperatore Maurizio, come sostiene una tradizione, ma potrebbe ben essere una donna di nobile famiglia posta sotto l’ala del sovrano. E divenne un’ulteriore moglie cristiana di Cosroe, a fianco di Scirin. Maria racconta al suo futuro coniuge, ammaliandolo, che esiste un prodigioso protettore celeste a cui potrebbe appellarsi. Il suo nome è san Sergio. Il grandioso santuario realizzato nel luogo del suo martirio nella città oggi in rovina che da lui prendeva nome, Sergio-
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In basso, sulle due pagine Il sogno di Eraclio, un altro riquadro della Leggenda della Vera Croce dipinta da Agnolo Gaddi in S. Croce, a Firenze. 1388-1393.
cosroe Assiso in trono, il re persiano si fa adorare dai suoi sudditi: certo che la Vera Croce sia un talismano invincibile, ora che ne è entrato in possesso, vuole che gli si renda omaggio come a un dio.
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eraclio Assopito nella sua tenda, l’imperatore bizantino riceve in sogno la visita di un Angelo che lo esorta a combattere contro i Persiani: «In hoc signo vinces», gli annuncia, mostrandogli la Croce. È una variante rispetto alla tradizione del sogno di Costantino prima della battaglia di Ponte Milvio.
Dopo Scirin, «la Dolce», Cosroe prese in moglie una seconda donna cristiana, Maria, introdotta a corte dal vescovo Domiziano
la riscossa Eraclio accoglie l’esortazione dell’Angelo e prende le armi contro Cosroe: lo scontro si risolverà a suo favore e il re persiano sarà costretto a restituire la Vera Croce.
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Dossier Adur Gushnasp
Il tempio del fuoco Il complesso di Adur Gushnasp era una sorta di città sacra cinta da mura, nell’immensa distesa di un altopiano. Custodiva il fuoco consacrato ai re e ai cavalieri. Il suo culto fu istituito già in età partica o, addirittura, in età achemenide, e il nome Gushnasp («Stallone») deriva dal titolo onorifico del suo leggendario fondatore. Il santuario fu edificato da Cosroe I, che lo elesse a luogo di pellegrinaggio privilegiato della casa reale. La sua articolazione derivava dall’essere al tempo stesso un tempio, un edificio palatino con ambienti privati destinati al sovrano e alla corte, e un luogo di richiamo per l’intera popolazione. L’ambiente sacro principale, nel quale ardeva il fuoco di Gushnasp profanato da
Eraclio, costituiva il fulcro dell’insieme. Era una sala quadrata coperta da una cupola, a immagine della volta celeste, sostenuta da quattro robusti pilastri d’angolo, secondo lo schema tipicamente iranico del chahar taq («baldacchino a quattro archi»). Il fuoco sacro ardeva in un vaso disposto sull’alto di una piattaforma di pietra (il «trono»). I sacerdoti, gli unici che potevano accedervi,
poli (Resafa, in Siria), era situato nel cuore del regno-cuscinetto dei Ghassanidi, un’etnia di Arabi cristiani alleati di Bisanzio.
Il santo della luce
Il nome di san Sergio deriva dal persiano ciragh, che significa «lampada, lucerna». Non a caso, il suo culto si sovrappone a quello solare di Aziz, che in Siria era la personificazione del pianeta Venere, la Stella del Mattino che segna il passaggio dall’oscurità alla luce. Uno sceicco «pagano», adepto di Venere, si era convertito al cristianesimo proprio grazie a san Sergio. Nell’ottica di Cosroe, le sue credenziali consentono risonanze immediate con il culto solare della Persia, laddove il dio supremo Ahura Mazda è emanazione della luce. San Sergio, per giunta, è
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Moneta battuta durante il regno di Cosroe II. 592. Al dritto (in alto) è il busto del sovrano sassanide, con la propria corona ad ali sormontata da un crescente lunare; al rovescio (qui sopra) si vede un altare consacrato al culto del fuoco. Nella pagina accanto i resti del complesso di Adur Gushnasp a Takht-I Sulaiman.
avevano un velo sulla bocca e le mani inguantate, per non contaminare il fuoco. Dopo un iwan, un solenne corridoio a volta inquadrato sull’esterno da un arco «trionfale», si apriva la corte riservata al re. In base alla testimonianza del patriarca Niceforo, la sala delle udienze era sormontata da una cupola culminante con l’apoteosi di Cosroe II, assiso in trono su uno sfondo di stelle, in una gloria di vittorie alate. Un meccanismo vivificava l’immagine del cielo, dando l’impressione di una pioggia accompagnata da tuoni.
un soldato valoroso, per le virtú militari che scaturiscono dal suo essere un’avanguardia del sole, come nel caso del dio persiano Mitra. Cosroe si mette nelle sue mani. Il 7 gennaio 591, quando i cristiani hanno appena festeggiato il Natale (che in quelle circostanze cadeva il 6 gennaio, in coincidenza con l’Epifania), e i mazdei hanno prefigurato l’avvento della primavera con i fuochi rituali del Sada (una sorta di «Natale» persiano della luce), il re si impegna solennemente a offrire in voto a san Sergio tre croci preziose (una delle quali trafugata anni prima da suo nonno Cosroe I, proprio dal santuario di Resafa). È un’offerta valida solo a condizione che il santo gli faccia pervenire la testa del suo rivale Bahram, testa che viene recapitata puntualmente poco piú settembre
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Takht-i Bostan (Iran). Rilievo raffigurante un re in armatura, a cavallo, forse identificabile con Cosroe II.
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di un mese dopo, il 9 febbraio 591. Nel 602, esasperati dalle interminabili campagne e dalle ristrettezze delle paghe, i soldati bizantini di stanza contro gli Slavi e gli Avari sul fronte del Danubio, si ammutinano in massa. Sotto la guida di Foca, un sottufficiale di origini semibarbare, marciano sulla capitale e detronizzano l’imperatore. Maurizio assiste impotente all’uccisione dei propri figli, e, infine, viene anch’egli decapitato. Cosroe dispone subito che l’esercito si diriga verso Costantinopoli per vendicare l’uccisione del suo padre adottivo. Si diffonde la diceria che sia sopravvissuto l’erede legittimo al trono, Teodosio, il figlio maggiore di Maurizio, e che Cosroe si stia adoperando per rendergli giustizia. Ma in realtà di Teodosio non c’è traccia, e proprio Cosroe, in quanto unico «figlio» sopravvissuto di Maurizio, si ritiene egli stesso unico legittimo erede al trono. Non c’è dubbio che, pervaso da un sacro furore – degno di Alessandro Magno, ma senza la grandezza d’animo del Macedone –, sogni di ridurre la Roma d’Oriente a una satrapia della Persia. Il vescovo di Ctesifonte, Sabrisho, gli ha predetto la vittoria. Il dio dei Romani è dunque ancora una volta dalla sua parte. Il ribelle Foca, una volta salito al potere, sfoggia una condotta brutale e oltranzista, senza alcun ritegno. Le sue durissime persecuzioni contro gli Ebrei sono alla base di quel forte malcontento che sfocerà in violenza durante la presa di Gerusalemme. E mentre il generale Shahrbaraz («il cinghiale del re» che conquistò la Città Santa) azzanna l’Anatolia, l’esarca di Cartagine, Eraclio, si ribella. Coinvolge nella rivolta l’Egitto e affida a suo figlio Eraclio junior una spedizione navale
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vito a considerare il «piissimo» Eraclio come un figlio. Ma ormai il dado era tratto, e Cosroe non volle mettere freno alle sue ambizioni. La «saggezza» dell’impero persiano e la bella metafora dei «due occhi» erano ormai un lontano ricordo. Dopo la Siria, nel 619 inizia la conquista dell’Egitto, con gravissime ripercussioni sui rifornimenti di grano per la popolazione della capitale. Gli Avari, intanto, si fanno sempre piú minacciosi, ed Eraclio, in piú occasioni, cerca di metterli a freno con eccezionali donativi d’oro.
Un novello Davide
Scambio di sovrani Coppa detta «di Salomone», in cristallo di rocca, granati, vetro verde e oro, proveniente dal tesoro dell’abbazia regale di Saint-Denis. Produzione dell’ultimo periodo sassanide. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Il sovrano in trono, che compare al centro, fu identificato con il re d’Israele (donde la denominazione dell’oggetto), ma è invece, con buona probabilità il re persiano Cosroe II.
contro il tiranno. La flotta viene accolta dalla popolazione festante il 3 ottobre 610. Foca viene ucciso. Due giorni dopo il giovane Eraclio viene incoronato imperatore dalle mani del patriarca di Costantinopoli. L’esercito persiano era ormai alle porte della capitale, ed Eraclio cercò da subito di stabilire un accordo di pace con Cosroe. Gli appelli alla clemenza giunsero a espressioni di autentica sottomissione, con l’in-
La crisi supera di gran lunga i livelli di guardia, ma il sovrano bizantino, che sfoggia per primo il titolo greco di basileus (in luogo di imperator), dimostra di possedere una tempra eccezionale. Si concentra sulla riorganizzazione del suo regno, in modo da trovare le energie necessarie per ristabilire la situazione. È una strategia di lungo periodo, ed è l’unica percorribile. Con una propaganda ben studiata, in cui si fa coinvolgere in prima persona con forte abilità oratoria, mobilita il Paese a tutti i livelli. Presenta il nemico persiano come un Anticristo, e, novello re Davide, invita tutti a dare il proprio contributo a quella che si configura come una guerra santa. La presa di Gerusalemme e il trafugamento della Vera Croce offrono il destro per dare di Cosroe l’immagine di un despota feroce e sanguinario, che vuole convertire tutti i Romani al culto pagano del Sole. Per la prima volta, la Chiesa appoggia un’operazione militare su tutta la linea. Né il patriarca si scompone quando Eraclio, in contrasto con la dottrina dei Padri, propugna l’uso delle armi in nome di Cristo, e mette a disposizione denaro e tesori liturgici.
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guerra per l’egitto Frammento di un gambale in lana policroma, da Antinoe (Egitto). Arte copta, VII sec. Lione, Musée Historique des Tissus. Vi compare la probabile raffigurazione di Cosroe II in trono, impassibile, mentre alle sue spalle sono in corso i combattimenti per la conquista dell’Egitto.
Eraclio in persona si mette alla testa dell’esercito e, dopo le solenni benedizioni pasquali, lascia Costantinopoli il 5 aprile 622. L’intera estate è dedicata all’addestramento delle truppe in Asia Minore. Si favorisce l’armamento leggero, per rapidi movimenti di incursione e di ripiegamento, e si introducono tecniche di guerriglia. Si delinea cosí un’organizzazione spiccia ed efficiente, che non disdegna di imitare i cavalieri delle steppe. A settembre, con una spedizione in Armenia, inizia finalmente la controffensiva, subito coronata da una vittoria di grande importanza psicologica. Anche se poi deve ripie-
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gare, Eraclio ha capito che è quella la strada da seguire: occorre impegnare il nemico dove è piú sguarnito, cercando di penetrare nel cuore del suo regno. Le truppe persiane sono infatti concentrate nei territori conquistati, e la via verso Ctesifonte è paradossalmente la piú facile da percorrere.
La prima vittoria
Il primo grande successo arriva nell’aprile 624, quando Eraclio si spinge fino al santuario mazdeo di Adur Gushnasp in località Takht-I Sulaiman (Iran), verso la sponda meridionale del Lago di Urmia. Il palazzo reale di Cosroe viene deva-
stato, e, nel tempio annesso, il fuoco sempiterno simbolo della maestà divina viene spento. È un affronto di eccezionale gravità. Nel quadro propagandistico della guerra santa è un’ovvia risposta alla presa di Gerusalemme, ma si tratta in realtà di un’oculata mossa strategica che punta su un clamoroso obiettivo simbolico. Il messaggio di Eraclio è chiaro: o Cosroe recede dai suoi piani, o la Persia sarà data alle fiamme. Seguono mesi difficili, durante i quali Eraclio non riesce a conseguire risultati altrettanto memorabili. Si continua a saggiare il nemico tra l’Armenia e la Cilicia, con tentativi di sfondamento alternati a ritirate strategiche. Cosroe mobilita i generali Shahrbaraz, Shahin e Sarablagas. E, nel febbraio 625, Eraclio ottiene una smaccante vittoria, simulando la ritirata. Invia allo scopo due finti disertori nel campo nemico. In realtà, si è appostato in una giogaia, e piomba sulle truppe baldanzose con un fulmineo attacco a sorpresa. Cosroe alza il tiro e punta direttamente su Costantinopoli. Nello stesso momento, forse su istigazione degli stessi Persiani, gli Avari si affacciano minacciosi sul versante europeo del Bosforo, uniti a un ampio contingente di Slavi. La capitale si trova cosí minacciata su due fronti. Eraclio è lontano, ma la città, stringendosi intorno al suo patriarca Sergio I, riesce a fronteggiare il nemico. Le mura teodosiane reggono l’urto, e un tentativo di sfondamento via mare, condotto dagli Slavi su piccole imbarcazioni, viene sventato con audacia ed esperienza dalla flotta bizantina. Il 7 agosto 626 viene tolto l’assedio. Il generale persiano Shahrbaraz, in rotta con un delusissimo Cosroe che lo vuole morto, si ritira in Siria. Lascia a Calcedonia Shahin, che viene poi duramente sconfitto da Teodoro, fratello di Eraclio. Eraclio stesso, frattanto, stabilisce un’alleanza con i Kazari, una popolazione di etnia turca che coltiva un odio secolare verso la Persia, e che mette a disposizione un folto gruppo di arcieri temibilissisettembre
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mi, specializzati nel cavalcare pony. Con una mossa a sorpresa, anziché svernare come di consueto nelle retrovie, il sovrano bizantino inizia la sua nuova avanzata nel settembre 627. Si spinge fino alla celebre città assira di Ninive, sulle rive del Tigri, nei pressi dell’odierna Mosul (Iraq), dove nel mese di dicembre decide di battersi contro l’armata del generale Rhahzadh: lo scontro si risolve con il successo schiacciante delle truppe bizantine. La via verso Ctesifonte è ormai spianata. Nel gennaio 628 viene occupata la vicina residenza imperiale di Dastaegard, edificata dallo stesso Cosroe. Le truppe scovano centinaia
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di vessilli romani, ereditati dai tanti conflitti ingaggiati nel corso degli ultimi decenni, e si sorprendono di fronte alla gran quantità di animali esposti nei serragli (struzzi, gazzelle, asini selvatici, pappagalli e fagiani). Nel parco (paridaiza) che fa da riserva di caccia, si aggirano leoni e tigri. Non dovranno piú temere l’arco di Cosroe. Il sovrano persiano, nonostante gli ultimi gravissimi smacchi, non si dà per vinto. Se richiamasse le truppe dai territori occupati potrebbe far fronte al nemico. Ma, a quel punto, nell’am-
attributi imperiali Ricamo in lana colorata e lino raffigurante un imperatore bizantino, forse identificabile con Eraclio, da Akhmim. Manifattura copta, VIII sec. Londra, Victoria and Albert Museum. Il rango imperiale del personaggio è indicato dalla corona, dal globo, dallo scettro e dal mantello purpureo.
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biente della sua corte, è ormai palpabile il timore che si prolunghi senza fine uno stato di guerra che perdura ormai da oltre venticinque anni. Entra cosí in scena Kavad II Sheroe, figlio di Cosroe e della cristiana Maria. I nobili si accordano con lui per detronizzare il padre, che viene imprigionato e ucciso. Il 15 maggio 628, dall’ambone di S.
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Sofia di Costantinopoli, il patriarca legge la lettera di Eraclio che annuncia la vittoria.
Il «fratello» di Eraclio
Il nuovo sovrano della Persia si dichiara «fratello» del vincitore e il 17 giugno 628 si impegna a riportare la situazione territoriale dei due imperi come era al momento dell’ami-
cizia tra Maurizio e Cosroe. Kavad ha una moglie bizantina, Bore, e la sua vicinanza al cristianesimo facilita i negoziati. Eraclio si propone di fare forza su queste affinità per stabilire un nuovo ordine in Persia, instaurando un dialogo che tolga di mezzo ogni ostilità e livore. Le accuse rivolte al nemico nel corso di un’aggressiva propaganda prosettembre
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A sinistra particolare di una placca smaltata raffigurante Eraclio che riporta la Vera Croce a Gerusalemme. Manifattura francese, 1160-1170. Nantes, Musée Dobrée. Il manufatto apparteneva alla decorazione di una croce in legno a due facce. In basso un’altra delle placche che ornavano la medesima croce, raffigurante l’uccisione di Cosroe da parte di Eraclio. Parigi, Museo del Louvre.
dio di intolleranza religiosa di tutta questa vicenda, Eraclio li bandí da Gerusalemme per un arco di tre miglia. In seconda battuta, nel 634, ingiunse il battesimo forzato a tutti i figli di Mosé residenti nell’impero. Dopo la morte prematura di Kavad, a Ctesifonte si ebbe una serie convulsa di passaggi di potere. Peraltro, Shahrbaraz salí sul trono dell’impero persiano con l’appoggio di Eraclio, ma fu ucciso dopo quaranta giorni. Dopo di lui entrò in scena una donna, Boran, figlia di Cosroe. La prima sovrana della storia dell’impero sassanide restituí la Vera Croce a Gerusalemme, nel 630. Con questo atto soddisfece una precisa richiesta fatta già a Shahrbaraz negli accordi di Arabissos (Cappadocia) del luglio 629. In quell’occasione venne sancito il ritorno all’amministrazione bizantina della Siria e dell’Egitto, in cambio dell’alleanza per l’ascesa al trono persiano dello stesso Shahrbaraz. A suggello del trattato, l’imperatore bizantino e il generale persiano (già in precedenza di simpatie cristiane) fondarono congiuntamente una chiesa dedicata a sant’Irene («la Pace»).
La richiesta della Vera Croce fu avanzata da Eraclio con molto tatto, evitando qualsiasi accusa di profanazione. Quella reliquia, a quanto si diceva, era stata individuata proprio da Shahrbaraz torturando i religiosi che la custodivano. Una volta arrivata a Ctesifonte, sarebbe stata utilizzata per umiliare i prigionieri, costretti a viva forza a calpestarla. Finita nelle mani di Cosroe, avrebbe fatto gioco per mettere in scena una Trinità blasfema, con il sovrano al posto del Padre Eterno e un gallo al posto dello Spirito Santo.
La custodia intatta
Queste e altre storie continuarono a essere raccontate a lungo, spesso supportate dall’autorità degli scrittori bizantini, confluendo in parte nella cronaca dell’arabo Tabari o nella Leggenda Aurea (1255-66) del domenicano Iacopo da Varazze. Ma Eraclio intende ricomporre le fratture del passato, e guarda oltre. Come per incanto, la custodia della reliquia mostra i sigilli intatti: non c’è stata alcuna manomissione. Le chiavi di apertura, rimaste a Gerusalemme, girano regolarmente
trattasi per anni, si dissolvono d’incanto. Eraclio stabilisce addirittura una forte amicizia con il generale Shahrbaraz, che, con il suo beneplacito, rimane di stanza in Siria fino al giugno 629. Alla fine, per i tanto vituperati crimini commessi nella Città Santa, solo gli Ebrei patiscono un castigo esemplare. Nell’unico, vero episo-
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Dossier nella serratura, e non vi è dunque alcun dubbio sull’autenticità del sacro legno. La solenne cerimonia di restituzione può avere inizio (21 marzo 630). Dopo il trionfo a Costantinopoli (629), Eraclio completa cosí, nella Città Santa, la celebrazione della sua vittoria. Ma lo attendono tempi difficili, nonostante la pace con la Persia. Finita l’emergenza, il clima di concordia generale si dissolve, e torna a galla l’eterno problema del monofisismo, che contrappone Costantinopoli alle province orientali dell’impero. Ora che le armi sono deposte, torna a far scalpore il «crimine» del matrimonio di Eraclio con la nipote Martina (613). La violazione della norma canonica viene rinfacciata al sovrano in mille modi, causandogli una profonda amarezza, che lo accompagnerà fino alla morte (641).
il trionfo L’imperatore si accinge a entrare trionfalmente in città con la Vera Croce, ma un Angelo gli ricorda che Cristo era entrato a Gerusalemme con un atteggiamento ben piú umile. Il sovrano bizantino smette allora gli abiti regali e, scalzo, si avvia verso la porta della Città Santa.
Sulle due pagine Firenze, basilica di S. Croce, Cappella Maggiore. L’episodio conclusivo della Leggenda della Vera Croce di Agnolo Gaddi: Eraclio riconquista la Croce ed entra in Gerusalemme. 1388-1393.
Le chiavi al califfo
Nel 635 gli Arabi irrompono all’orizzonte. Eraclio cerca di contrastarli, ma si convince ben presto che ogni resistenza è vana. Arriva forse a persuadersi che una simile sventura sia il giusto castigo divino che in tanti gli avevano predetto. Nel 638 il patriarca di Gerusalemme Sofronio, memore della tragica conquista persiana occorsa poco piú di vent’anni prima, apre le por-
la fine A Cosroe, sconfitto, Eraclio offre la salvezza in cambio della conversione: il re persiano rifiuta e viene quindi passato per le armi. La sua testa, grondante di sangue, viene avvolta in un manto, mentre Eraclio con il suo seguito si reca a Gerusalemme per riportarvi la Vera Croce.
te al califfo Omar, offrendogli le chiavi della città. Frattanto, l’intero Eranshar (il «paese iranico») cade in seno all’Islam in seguito alle battaglie di Al-Qadisiya (636) e di Nahavand (642). La folle avventura di Cosroe da un lato e la pervicace reazione di Eraclio dall’altro, avevano gettato i «due occhi del mondo» in una lotta sfibrante, e avevano in definitiva
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Nel 638, il patriarca di Gerusalemme sventa nuove devastazioni, aprendo le porte della città al califfo Omar
spianato la strada alle truppe musulmane. È la fine dell’impero sassanide, mentre quello bizantino perde definitivamente la Siria e l’Egitto. La conquista della Città Santa da parte dell’Islam riportò in auge, secoli dopo, quei concetti di guerra santa che Eraclio aveva inalberato alla vigilia della sua spedizione in Persia. Ma questa è un’altra storia. V
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Da leggere U Giuseppe Bolis, Elena e la santità,
in Costantino 313 d.C. L’Editto di Milano e il tempo della tolleranza (Catalogo della Mostra), Electa, Milano 2012; pp. 154-159. U Georg Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Einaudi, Torino 1993 U Antonio Panaino, La Chiesa di
Persia e l’Impero sasanide. Conflitto e integrazione, in Cristianità d’Occidente e cristianità d’Oriente (secoli VI-XI), Centro italiano di Studi sull’alto medioevo, Spoleto 2004; pp. 765-863. U Gianroberto Scarcia, Scirin, la regina dei Magi, Jaca Book, Milano 2004.
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caleido scopio
Affreschi come miniature
cartoline • Uno splendido ciclo di pitture
romaniche orna la chiesa di S. Tommaso, ad Acquanegra sul Chiese. Non ne conosciamo gli artefici, ma possiamo tuttora apprezzare l’originalità di un raffinato «messaggio per immagini»
L
a chiesa di S. Tommaso ad Acquanegra sul Chiese, oggi in provincia e diocesi di Mantova (ma appartenente alla diocesi di Brescia fino al XVII secolo), è ritenuta di grande interesse e oggetto di studio da quando, tra il 1977 e il 1984, grazie all’allora soprintendente per i Beni Artistici e Storici di Mantova, Ilaria Toesca, venne portata alla luce una vasta decorazione dipinta di epoca romanica. Nel Medioevo la chiesa di S. Tommaso faceva parte di un’abbazia benedettina, la cui storia è scarsamente documentata. Una scarsità di testimonianze scritte che fa della chiesa, con i suoi affreschi, un «monumentodocumento» di straordinaria importanza nella ricostruzione delle vicende del complesso abbaziale. L’interno – a croce latina, a tre navate, con transetto e presbiterio absidato – appare come uno spazio quasi ininterrotto tra navate e coro. La navata centrale era illuminata da quattro monofore su ogni parete ed era coperta da un tetto a capriate. La torre campanaria occupava un angolo del braccio sud del transetto.
La chiesa si colora Intorno al 1100 (o poco dopo) le pareti della navata furono completamente affrescate, realizzando le pitture murali che
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ancora oggi possiamo ammirare e che andarono a sostituire una decorazione precedente. In epoca moderna le monofore furono sostituite da tre finestroni che, insieme alle volte della navata centrale (che nel XVI secolo sostituirono l’antica copertura a capriate) hanno modificato l’aspetto della chiesa, riducendo l’altezza della navata, oltre a danneggiare i dipinti
romanici e interromperne lo schema. La torre campanaria, ancora esistente nel 1546, crollò, forse a causa di un terremoto, danneggiando una parte degli affreschi romanici della parete sud della navata centrale e fu sostituita dall’attuale torre tardorinascimentale. Infine, in epoca barocca, un nuovo pavimento nascose i mosaici e gli antichi capitelli romanici furono scalpellati, dando un nuovo volto alla chiesa, che oggi mostra le varie modifiche avvenute nei secoli.
In alto e in basso particolari degli affreschi romanici che decorano l’interno della chiesa di S. Tommaso ad Acquanegra sul Chiese (Mantova). La decorazione pittorica, di eccezionale qualità, nonostante il passare dei secoli, le numerose lacune e l’affievolirsi del colore in gran parte a secco, affascina per il complesso «messaggio per immagini» programmato dall’impaginatore degli affreschi, in un perfetto e armonioso rapporto tra architettura e pittura. Le due pareti della navata centrale, al di sopra delle arcate, sono divise in due registri principali, con personaggi dell’Antico Testamento. Ciascuno di essi era riconoscibile grazie a un’iscrizione con il proprio nome e ad altre iscrizioni sul rotulus che teneva in mano (sono stati identificati i nomi di Iudit, Macabeus, Malachia, Sofonia, Nahum, Michea, Giona). Sotto il registro inferiore corre un altro registro con narrazioni tratte da episodi biblici. I personaggi (tutti nimbati) che si susseguono lungo le pareti della navata centrale sono imponenti e di grande effetto visivo: quelli del registro intermedio vestono lunghe tuniche all’antica, coperte da mantelli svolazzanti, che danno un senso di movimento alle figure, dai settembre
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volti austeri, che sembrano rivolgersi direttamente al fedele. Quelli del registro superiore indossano tuniche leggermente piú corte, che lasciano vedere i piedi calzati. Tutti si stagliano su un fondo bianco, che dà loro risalto, in un modo che, come ha sottolineato Ilaria Toesca, ricorda «la pagina di un manoscritto».
L’asina e il profeta Tra le storie del terzo registro, vi sono la vicenda del profeta Balaam e della sua asina (Balaam non presta fede alla presenza divina rivelategli dall’asina fedele, percuotendola per tre volte, fino a quando non gli appare l’angelo del Signore) e, sulla sinistra, la leggenda del leone di san Girolamo, ingiustamente accusato di aver divorato l’asino posseduto dai monaci, che poi ricompare con i carovanieri che se ne erano impossessati. È stato ipotizzato che i due episodi vogliano evocare il mistero della virtú della fede, alludendo a san Tommaso, titolare della chiesa, devoto, ma incredulo. La decorazione prosegue nella parete dell’arco trionfale con scene tratte dal Libro della Genesi, di cui oggi rimangono frammenti mal conservati e difficili da interpretare. Al Peccato dei Progenitori, rappresentato sull’arco trionfale, si contrappone sulla controfacciata il Giudizio Finale, in una sorta di monito, per il fedele, che al peccato degli uomini sarebbe seguita necessariamente la punizione eterna. Gli affreschi proseguivano sicuramente nella parte della chiesa riservata ai monaci, dove probabilmente ebbe inizio la decorazione. L’arco trasversale dipinto che separava l’incrocio del transetto dalla cappella del santuario conserva infatti, nel sottotetto, i resti delle pitture murali, di poco precedenti quelle della navata, «eseguite a secco con una tecnica ancora piú sbrigativa» e che mostrano «estrema facilità di mestiere», come afferma Ilaria Toesca. Sul lato rivolto verso il coro è rappresentato Elia rapito in cielo su un carro trainato da due cavalli
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alati ed Enoc portato in cielo da due angeli. I due episodi sono divisi da un arco dipinto, al cui interno si intravede il tetto di un’edicola, che sempre Toesca ipotizza poter essere l’arca dell’alleanza «nella sua nota forma di cassa con copertura a tetto, poggiata su un alto basamento». Altre raffigurazioni sull’arco esterno e sul muro a nord del presbiterio sono poco leggibili e quelle del catino absidale sono perdute; è tuttavia possibile ipotizzare vi fosse rappresentata, come di consueto, la Maiestas Domini (Piva).
Citazioni e rimandi simbolici Completava il programma iconografico sviluppato dalle pitture la decorazione pavimentale a mosaico (di cui alcuni tratti erano venuti alla luce nel 1899) Chiesa di S. Tommaso ad Acquanegra sul Chiese. Il campanile, innalzato in età tardo-rinascimentale.
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caleido scopio che rivestiva le tre navate della chiesa (non rimangono tracce per quanto riguarda la zona riservata ai monaci), ritenuta coeva agli affreschi della navata (intorno al 1100). Purtroppo non molto resta di quello che doveva essere un grandioso pavimento musivo, vivace per l’uso di tessere di marmo rosso, giallo, nero e rossastro, ricco di citazioni e rimandi simbolici. Gli affreschi e il pavimento musivo che possiamo ancora oggi ammirare lasciano immaginare che l’aspetto della chiesa romanica di S. Tommaso dovesse essere sontuoso, colorato e di grande effetto, a evocazione del regno di Dio e ad ammaestramento dei fedeli. Le pitture murali coprivano probabilmente tutte le zone della chiesa (nel transetto tuttavia non rimangono tracce), capitelli scolpiti decoravano le colonne (un tempo dipinte, oggi a mattone) e, come era d’uso all’epoca, arazzi e tappeti potevano arricchire l’effetto, insieme all’altare, che di solito rifulgeva di oggetti d’oro, spesso incastonati di pietre preziose. L’eterna lotta tra il Bene e il Male, tra Peccato e Redenzione si svolgeva cosí, attraverso le pitture e i mosaici, all’interno della chiesa, dove, attraverso le Scritture (con l’Antico Testamento collocato nella navata come necessaria preparazione al Nuovo, le cui storie si trovavano probabilmente nell’area destinata ai monaci), era indicato l’unico cammino di salvezza.
Maestri senza nome Purtroppo non sappiamo chi fossero gli artefici degli affreschi di Acquanegra: pittori sicuramente esperti, che facevano uso di disegni preparatori, colori caldi e linee decise, utilizzando una tecnica di pittura parzialmente a fresco, rifinita a secco. L’evidente classicità dei personaggi rappresentati sulle pareti della navata della chiesa di S. Tommaso ha fatto supporre l’uso di modelli romani (il fatto che il rapporto tra
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l’abbazia di Acquanegra e Roma sia storicamente documentabile – l’abbazia risulta sottoposta alla sede pontificia almeno dal 1136 – non significa che i pittori provenissero da Roma; essi potevano però seguirne i modelli ai quali volevano allacciarsi ideologicamente), ma il senso di movimento e l’intensità che caratterizza i personaggi di Acquanegra si ritiene dovuto alla cultura lombarda dei pittori (non
Ancora un particolare degli affreschi romanici nella chiesa di S. Tommaso ad Acquanegra sul Chiese (Mantova). mancano confronti lombardi; sempre Ilaria Toesca richiamava il confronto con gli affreschi di Civate) e all’evidente rapporto con la miniatura (Piva). Il possibile legame con le miniature delle Bibbie Atlantiche, oltre a collegare ideologicamente gli affreschi alla Riforma, lascia aperta la questione di quanto i manoscritti, di grande importanza nella cultura
romanica e sicuramente essi stessi occasioni di scambio culturale, potessero essere messi a disposizione degli artisti o potessero esercitare un influsso sullo stile delle pitture murali o sui loro committenti.
Un monastero importante In ogni caso la scelta di rappresentare le solenni figure di personaggi dell’Antico Testamento (personificazioni dei Libri della Bibbia) in successione al posto di episodi narrativi biblici rende questi affreschi estremamente originali, costituendo un unicum nel panorama noto (Piva). Le pitture dell’arcone che separava l’incrocio del transetto dalla cappella del santuario, invece, sono ritenute precedenti rispetto a quelle della navata e opera di pittori ancora legati alla cultura dell’XI secolo, non influenzati dalla Riforma. La qualità della decorazione dipinta e dei mosaici fanno supporre che quello di Acquanegra fosse un monastero importante (a cui apparteneva un vasto territorio e che sicuramente aveva dato un’impronta anche urbanistica alla zona), probabilmente dotato anche di una biblioteca e di uno scriptorium. Per questo la chiesa di S. Tommaso è oggi un importante documento da conservare, ammirare, studiare, per cercare di dare una risposta alle molte domande ancora aperte sul ruolo dell’abbazia e sulla sua storia. Sandra Baragli
per saperne di piÚ U Paolo Piva, La Chiesa abbaziale di
San Tommaso ad Acquanegra sul Chiese, in Lombardia Romanica. I grandi cantieri, Jaca Book, Milano, 2010; pp. 243-254. U Ilaria Toesca, Notizie sugli affreschi medioevali della chiesa di San Tommaso ad Acquanegra sul Chiese, Civiltà Mantovana, 1990, 27; pp. 1-22. U Franco Negri, Oculis, mente, corde. Leggere gli affreschi romanici di San Tommaso ad
Acquanegra, Megalini Editrice 2, Rezzato (BS), 2002 U Ugo Bazzotti, Il Medioevo. Da Matilde di Canossa ai Gonzaga, in Mina Gregori (a cura di), Pittura a Mantova dal Romanico al Settecento, Cariplo, Milano 1989; pp. 4-5 U Serena Romano e Julie Enckell Julliard (a cura di), Roma e la Riforma gregoriana. Tradizioni e innovazioni artistiche (XI-XII secolo), Viella, Roma 2007. settembre
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L’Europa per l’arte sacra cartoline • Tre Comuni del Piemonte rappresentano l’Italia all’interno di un
programma di percorsi europei di ispirazione ecclesiastica. Un viaggio indietro nel tempo, alla riscoperta di conventi e abbazie...
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ell’ambito del progetto europeo THETRIS – sviluppo di percorsi tematici transnazionali legati alla cultura ecclesiastica con il diretto coinvolgimento delle comunità locali – è stato messo a punto un nuovo circuito religioso europeo. All’iniziativa partecipa anche l’Italia, di cui è stata individuata come area pilota il Piemonte, e, in particolare, la Provincia di Alessandria con il territorio dei Comuni di Sezzadio, Cassine e Bosco Marengo e il loro patrimonio di chiese e abbazie.
In questa zona dell’Alto Monferrato acquese la profonda eredità romanica s’intreccia con la storia altomedievale, le vicende del marchese Aleramo, le influenze religiose di importanti fondazioni monastiche e le suggestioni di mistiche leggende. Come quella legata alla fondazione dell’abbazia di S. Giustina a Sezzadio, annotata tra realtà e immaginazione nella Cronaca del frate domenicano Jacopo d’Acqui. Il fatto straordinario accadde nell’VIII secolo, durante la traslazione delle spoglie di sant’Agostino. Il re longobardo Liutprando (712-744) e il suo seguito, ricevute a Genova le reliquie del santo d’Ippona, provenienti dalla Sardegna, si misero in viaggio per Pavia. Spossati dall’estenuante cammino, si fermarono in una pianura, a cui la tradizione locale assegna ancora la denominazione di Prato Regio, situata sul bordo del fiume Bormida, nei pressi dell’attuale paese di Sezzadio. Il sovrano, che portava abitualmente
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In alto Cassine (Alessandria). La facciata del complesso conventuale di S. Francesco. XIII sec. A sinistra statua lignea di sant’Antonio Abate. Fine del XV sec. Cassine, Complesso conventuale di S. Francesco. con sé il reliquiario della martire cristiana Giustina, protettrice del popolo longobardo, volendo riposare, appoggiò il cofanetto d’avorio sul ramo di un albero e si addormentò. Risvegliatosi, fece per riprendere l’oggetto sacro, ma non vi riuscí, poiché il manufatto, come per miracolo, iniziò a saltellare da un ramoscello all’altro, sfuggendogli di mano. Cosí il nobile guerriero ordinò la fabbricazione di una chiesa in onore di santa Giustina sul posto del presunto miracolo.
Un disegno politico ambizioso In realtà, la decisione di fondare la cappella di Sezzadio s’inserisce nell’ambizioso disegno politico di Liutprando, volto a favorire l’integrazione tra la monarchia
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caleido scopio longobarda e la Chiesa romana. L’architettura monastica raggruppa attualmente la chiesa conventuale di S. Giustina, mirabile esempio di architettura romanica impreziosito all’interno da affreschi trecenteschi. La mole della chiesa, piena e possente, si nota a chilometri di distanza. Pare un’inespugnabile fortezza che, con il transetto terrigno, ritmato da lesene, e la torre, si eleva a controllo e difesa dell’universo bucolico sottostante.
Elementi romanici e gotici Risale invece ai secoli XIII-XIV il convento di S. Francesco a Cassine, località collinare adagiata nella Bassa val Bormida e caratterizzata da un bel centro storico medievale. L’architettura religiosa, eretta nel Duecento, somma elementi romanici di chiara influenza cistercense a moduli di gusto gotico. Di notevole
interesse è la sala capitolare, ornata da affreschi che, realizzati da un abile quanto ignoto artista, profondamente intriso di cultura lombarda, chiamato a Cassine in un torno di anni riconducibili alla fine del quarto decennio del Trecento, sono una delle poche decorazioni architettoniche e figurate dell’epoca in Piemonte. A Cassine merita una sosta anche il Museo di S. Francesco (vedi «Medioevo», n. 187, agosto 2012). Il percorso espositivo, annesso alla chiesa, integra e completa la visita al luogo di culto e raccoglie arredi devozionali provenienti dal monastero francescano, da poco recuperati e restaurati. A Bosco Marengo si può invece ammirare il grandioso complesso monumentale di S. Croce. Fondato nel 1566 da papa Pio V (1504-1572) nel luogo della sua nascita, come
In alto Sezzadio (Alessandria). La chiesa dell’abbazia di S. Giustina e, in basso, un particolare degli affreschi che si conservano al suo interno.
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Assistenza e finanza
libri • Un ospedale o un istituto di credito?
Il sacrificio di Isacco, dipinto attribuito a Giovanni Battista Naldini. XVI sec. Bosco Marengo (Alessandria), Museo di S. Croce. centro di diffusione della fede, del pensiero e della testimonianza cristiana attraverso la presenza dei Domenicani, il monastero documenta materialmente, e non solo, la risposta data dal Concilio di Trento alla Chiesa e alla Riforma protestante.
Un complesso emblematico Il rinnovato impulso imposto da san Pio V alla Chiesa in un secolo, il Cinquecento, molto controverso per la storia politica, sociale e religiosa d’Europa, si avverte costantemente in questo manufatto-simbolo, emblematico degli orientamenti ideologici della Riforma tridentina. Inoltre, fin dall’inizio, la chiesa fu immaginata come uno scrigno prezioso, ricco di opere commissionate ai piú rinomati artisti del tempo, in contrasto con la povertà degli ambienti della vita monastica. L’affollata Adorazione dei Magi, nella quarta cappella destra, incastonata entro un vivace altare settecentesco in stucco, è stato il primo dipinto commissionato al Vasari dal pontefice, che presumibilmente voleva metterne alla prova le capacità in vista del piú impegnativo incarico della macchina destinata all’altar maggiore. Della bellissima opera, progettata nel 1567 dal maestro, restano sul posto quasi tutte le tavole dipinte, ora esposte nel Museo Vasariano. Chiara Parente
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Il dualismo del complesso senese del S. Maria della Scala, che nel Medioevo ricoprí un ruolo insolito, è il filo conduttore di una raccolta di saggi capaci di narrare una storia articolata con toni avvincenti
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abriella Piccinni riunisce in questo volume nove saggi, frutto delle decennali ricerche nei fondi sterminati dell’Ospedale senese di S. Maria della Scala, la maggiore istituzione assistenziale cittadina (nata nel X secolo e che funzionò come struttura sanitaria fino al 1995), e una delle maggiori italiane ed europee, situata nel cuore della città, sulla piazza del Duomo. Va in primo luogo sottolineata la peculiarità del soggetto: un’opera caritativoassistenziale come un ospedale, che però svolgeva, a tutti gli effetti, le funzioni di un vero e proprio istituto di credito, un caso che, allo stato attuale delle ricerche, è abbastanza unico. Anche se le fonti non parlano mai, esplicitamente, dell’esistenza di un «banco» dell’ospedale, di fatto l’istituzione accolse in modo continuato e consistente, dal 1326 al 1377 almeno, il risparmio dei cittadini, che poteva reinvestire, sul quale pagava interessi, e che gestiva in conti correnti. Prestava poi la liquidità incassata sia, moderatamente, a privati, sia, in larga misura, al Comune di Siena. Il «logo» raffigurante la Madonna, scelto dall’istituzione per presentarsi al mondo, garantiva la moralità e la legalità delle sue operazioni
Gabriella Piccinni Il banco dell’Ospedale di Santa Maria della Scala e il mercato del denaro nella Siena del Trecento Pacini, Pisa, 336 pp. 20,00 euro ISBN 978-88-6315-389-9 www.pacinieditore.it
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caleido scopio finanziarie, e talvolta si arrivava persino a far benedire il denaro maneggiato.
Il denaro è neutro Il volume si può dividere in due parti, strettamente legate fra loro: la prima concerne l’ospedale e il suo banco, e quindi la connessione tra denaro, che «di per sé stesso è neutro», e carità, verso la quale il denaro può essere indirizzato. La seconda riguarda la città di banchieri alla quale l’ospedale e il suo banco facevano capo, una città di cui il S. Maria della Scala era lo splendido frutto, e che percepiva l’istituzione assistenziale come parte di sé e mezzo attraverso il quale fornire aiuto materiale e spirituale ai soggetti piú deboli della propria comunità (poveri, orfani, malati, bambini abbandonati, fanciulle prive di dote). Una comunità cittadina, dunque, indissolubilmente legata al proprio ospedale, nel momento in cui il Governo dei Nove (1287-1355), cioè il governo mercantile del ceto medio – il Buon Governo celebrato da Ambrogio Lorenzetti sulle pareti
di Palazzo Pubblico (1337-1339) – raggiungeva il suo apogeo, e poi il suo declino, con i fallimenti bancari degli anni Trenta-Quaranta del Trecento. La straordinaria accelerazione nel processo di circolazione e accumulazione del denaro, verificatasi dal XIII secolo in poi, spingeva mercanti e banchieri a finanziare l’ospedale della propria città in vista della realizzazione di quel bene comune di cui la carità verso il prossimo era percepita come parte integrante ed essenziale. L’istituzione assistenziale, collettrice appunto di questo denaro ed erogatrice di servizi ai piú bisognosi, si poneva dunque come mediatrice fondamentale in questo processo di «ridistribuzione della ricchezza» in vista del bene comune. E bisognosi non erano soltanto i poveri da sempre, ma anche chi dall’agiatezza era scivolato in una situazione precaria, cosí come finanziatori del banco dell’ospedale con piccole somme potevano essere persone di estrazione sociale modesta: donne, per esempio, che
investivano la propria dote in cambio di un interesse del 5%. Tra chi beneficiò dei prestiti vi fu in modo massiccio anche l’istituzione comunale in prima persona, che, negli anni Settanta-Ottanta del secolo coinvolse l’ospedale in una spirale interminabile di prestiti, costringendolo a vendere alcune proprietà, e persino a ricorrere all’usura per fornire liquidità alle casse comunali, una pratica che portò il S. Maria della Scala a rasentare il tracollo economico alla fine del secolo.
L’ingerenza comunale Gestito, almeno a partire dalla fine del Duecento, come struttura assistenziale a piú livelli, e in stretta connessione con un potere politico dalle molteplici reti di relazioni, l’ospedale, che la città di Siena nel suo statuto del 1262 aveva giurato di difendere, e i cui rapporti col Comune si erano fatti sempre piú stretti nei primissimi anni del Trecento (nonostante l’opposizione dei frati che lo avevano in custodia), era amministrato da un gruppo di
Lo scaffale Spartaco Mencaroni Il principe dimenticato Esilio e ritorno in patria di Uguccio da Casali Albatros, Roma, 296 pp.
19,50 euro ISBN 978-8856760156
Su Uguccio da Casali, appartenente a una famiglia ghibellina cortonese, le notizie sono piuttosto scarne e incerte. Sicuramente era uno dei cittadini piú ragguardevoli e orientati verso una posizione moderata quando, nella notte fra il 1° e il 2 febbraio 1258 gli Aretini si impossessarono di Cortona
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saccheggiandola e incendiandola, aiutati dai fuoriuscti guelfi e sostenuti segretamente dal loro vescovo Guglielmino degli Ubertini, che su Cortona vantava diritti signorili. Dopo la caduta della sua città, Uguccio fu sicuramente a capo dei ghibellini esiliati, sebbene appaiano poco probabili un suo viaggio alla corte di Manfredi e la sua partecipazione alla battaglia di Montaperti (vedi «Medioevo» n. 164, settembre 2010; anche su www.medioevo.it),
come vorrebbero successive leggende encomiastiche. Dopo la vittoria ghibellina di Montaperti (4 settembre 1260), gli esuli poterono tornare in patria, e tra loro il da Casali che, secondo la tradizione sarebbe divenuto signore di Cortona, mentre la documentazione superstite attesta soltanto che diventò l’uomo di fiducia del vescovo aretino, il quale, nel frattempo, aveva decisamente cambiato linea politica, rendendosi protagonista di una
delicata operazione di mediazione per il rientro dei ghibellini nella città. Nel 1265 Guglielmino degli Ubertini fece nominare il Casali podestà di Cortona. Partendo da queste basi storiche e in parte rielaborandole, Mencaroni costruisce un romanzo avventuroso e di gradevole lettura, in cui gli intrighi e i colpi di scena si alternano a momenti descrittivi della splendida natura che circonda Arezzo e Cortona, fatta di rupi boscose, placidi ruscelli, eremi nascosti
dalla fitta vegetazione. Tre episodi scandiscono la narrazione: il saccheggio da parte delle truppe del vescovo di Arezzo del monastero di Camaldoli (1257 nel romanzo, 1260 nella realtà), colpevole di essersi appellato al pontefice contro l’esosità delle imposozioni fiscali aretine; la caduta di Cortona (febbraio 1258); la battaglia di Montaperti (4 settembre 1260). Il fulcro del racconto è costituito dalla presa e dal saccheggio settembre
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professionisti esperti nella gestione della cosa pubblica e nella contabilità aziendale. Nel 1309 il Comune, che già ne nominava i revisori dei conti, tentò persino di collocare le proprie insegne all’ingresso dell’ospedale, atto poi immediatamente revocato per le fiere proteste che ne erano derivate, ma che testimonia l’ingerenza crescente dell’autorità pubblica nell’organizzazione dell’assistenza, in linea con quanto avveniva contemporaneamente in tutta Europa. L’ente rappresentava, infatti, anche un’impresa economica di primaria importanza, impegnata nell’amministrazione di quello che nel Trecento era ormai un patrimonio vastissimo. E in tutto questo intervenivano al massimo grado i criteri di «gestione aziendale» dettati dagli stessi amministratori/banchieri, ai vertici del ceto dirigente cittadino e del «consiglio di amministrazione» dell’ospedale, criteri che riecheggiano chiaramente negli statuti trecenteschi dell’ente (1318): chi non si prende cura
di Cortona da parte delle truppe aretine guelfe inviate segretamente dal vescovo Guglielmino, episodio dal quale derivano le vicende successive. E tra i personaggi emerge proprio la figura del vescovo di Arezzo, il cui aspetto imponente, la lunga barba bianca e i candidi capelli ondulati, i lineamenti duri, ravvivati dagli occhi vivi e pungenti, «minuscole gemme azzurre incastonate nel volto cinereo che splendevano quasi di luce propria» attraverso la fessura
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adeguatamente, e con efficaci strumenti di revisione dei conti, delle proprie entrate e delle proprie uscite – scrivevano – è destinato a veder fallire miseramente la propria impresa e a veder svanire anche i patrimoni piú grandi. E di fallimenti, in quel periodo, i banchieri senesi avevano una notevole esperienza.
L’età d’oro di Siena In effetti, proprio la precaria situazione a livello internazionale aveva spinto gli uomini d’affari senesi a disinvestire il proprio denaro dalle situazioni rischiose che avevano già portato molti di loro al tracollo, deviandolo verso il piú sicuro deposito presso l’ospedale della loro città, un’operazione che aveva liberato al tempo stesso anche un importante capitale umano – quello degli esperti in gestione aziendale – da mettere al servizio dell’istituzione assistenziale. I capitali disinvestiti dalla finanza internazionale avevano anche contribuito in modo massiccio all’abbellimento della città, che sotto
delle palpebre, riflettevano un’indole avida e rapace, che lo aveva portato a costruire una rete di spie e di assassini con cui controllava la vita politica della città. Tra i protagonisti occupa un ruolo di primo piano anche la moglie del Casali, della quale nella realtà storica non sappiamo nulla, neppure il nome, ma che nel romanzo viene chiamata Margherita, con evidente riferimento alla santa cortonese aiutata da Uguccio a fondare la confraternita
il governo dei Nove (nonostante la situazione precaria e il fallimento di molte compagnie coinvolte nei prestiti al re di Francia), raggiunse l’apogeo del suo splendore architettonico con l’ampliamento del Duomo e la realizzazione della piazza del Campo, proprio grazie ai prestiti al comune erogati dai grandi banchieri senesi. Tutto questo in un momento in cui la spesa pubblica aumentava a dismisura, e i tassi d’interesse altissimi impedivano a mercanti e artigiani di trovare liquidità per i propri affari, costringendoli a rivolgersi agli usurai. Oltre alla vastità delle ricerche che costituiscono il fondamento del volume, all’autrice va riconosciuta anche una qualità rarissima tra gli storici del Medioevo: quella di saper narrare con la piacevolezza (spesso non priva di suspense) di un racconto, pur nell’ineccepibilità dei riferimenti documentari, avvenimenti, idee e persino descrizioni archivistiche, come ben pochi medievisti avrebbero saputo fare. Maria Paola Zanoboni
di S. Maria della Misericordia (1286), e che fu acerrima nemica del vescovo Guglielmino, rivestendo al tempo stesso un ruolo non trascurabile nella creazione della diocesi di Cortona. Altra figura molto ben delineata è quella del focoso mercante Orlando Alticozzi, appartenente a una delle famiglie ghibelline piú in vista della città. Suggella il romanzo l’ampia descrizione della battaglia di Montaperti. M. P. Z.
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Parole in armonia musica • Non solo la musica, ma anche, e
soprattutto, il linguaggio, con i suoi ritmi e la metrica, nonché la particolare attenzione alla comprensione del testo: sono gli ingredienti della produzione di Claude Le Jeune
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ifficilmente si potrebbe comprendere la natura di Claude Le Jeune, compositore francese del Cinquecento, senza tenere conto del grandissimo influsso che su di lui ebbero le lunghe frequentazioni con il grande letterato Jean Antoine de Baïf e i poeti della Pléiade. Un gruppo che ispirandosi alla metrica greca classica, cercò di ricreare, nella lingua francese, un linguaggio poetico basato sulla metrica quantitativa greca, riproponendo i generi lirici dell’antichità. Un tentativo che influenzò lo stile compositivo di Le Jeune, capace di raggiungere la totale aderenza tra accento musicale e accento poetico, come si evince dall’ascolto delle chanson proposte nell’antologia Claude Le Jeune. Autant en emporte le vent (HMA 1951863, 1 CD, distr. www.ducalemusic.it). Personaggio dalla biografia quasi sconosciuta per il periodo giovanile, negli anni Ottanta del XVI secolo fu a servizio del duca di Joyeuse, in seguito del duca d’Anjou, per arrivare, nel 1594, a essere impiegato come compositore alla corte di Enrico IV, ruolo ricoperto sino alla morte nel 1600.
Tra sacro e profano Incarichi importanti, dunque, segnati da una produzione vocale altrettanto valida, purtroppo molto ostacolata a causa della fede protestante di Le Jeune, che si prodigò sia nella musica sacra – sono note le sue raccolte di salmi protestanti pubblicate postume come i Psalms en vers mésurés et
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octonaires –, sia nella produzione profana, di cui questa antologia offre un saggio. Con un stile compositivo cosí attento alla parola e al valore delle sillabe, la musica di Le Jeune è una sorta di manifesto delle direttive poetiche elaborate da de Baïf e dai sostenitori della Pléiade. Tutto ciò si riflette in un linguaggio in cui la declamazione assume un ruolo di primo piano, a favore anche di un andamento
parallelo delle voci finalizzato alla totale comprensione del testo cantato. Ma lo contraddistingue anche una vivacità ritmica variegata come nell’ampio brano La Guerre, in cui si commentano con grande vividezza i singoli episodi guerreschi.
Omaggio a Josquin musica • Una raccolta presenta il tributo che Jean
Richafort, con grande maestria e padronanza tecnica, volle dedicare al musicista fiammingo Desprez
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ella storia della musica, mai sono stati cosí frequenti i tributi musicali a un compositore come accadde a Josquin Desprez (1450-1521), figura capitale della polifonia fiamminga. Il disco Jean Richafort. Requiem. Tributes to Josquin Desprez (SIGCD 326, 1 CD, www.soundandmusic. it), riunisce alcuni di questi omaggi, opere in cui è particolarmente presente l’insegnamento del grande fiammingo, capace di fondere, con il suo linguaggio, le ferree leggi del contrappunto con il senso cantabile e, soprattutto, una sensibilità verso il contenuto poetico di grande modernità. L’antologia è incentrata sulla figura di Richafort, compositore franco-fiammingo attivo tra la fine del XV e la prima metà del XVI secolo, settembre
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Sono affascinanti anche le situazioni piú intime, nelle quali prevalgono, quasi sempre, l’andamento accordale e un senso melodico incredibile come in Je suis deshéritée, oppure un senso piú polifonicocontrappuntistico, come nel Povre coeur entourné, senza dimenticare momenti piú vivaci e gioiosi come Une puce, Nostre vicaire un jour de feste, e, soprattutto, Je boy à toy mon compagnon, in cui il lirismo intenso lascia spazio a giochi vocali piú esuberanti. Interpreta queste musiche un gruppo di eccezione, l’Ensemble Clément Janequin, diretto dal sopranista Dominique Visse, formazione che si esibisce generalmente con sole voci maschili, ma qui accompagnata, in alcuni brani, anche dai soprani Agnès Mellon e Catherine Greuillet. I solisti di canto sono eccellenti e mostrano tutta la loro esperienza nella frequentazione del repertorio francese rinascimentale di cui sono tra gli interpreti piú stimati nel panorama internazionale. Franco Bruni
In alto i calici! C
on un titolo che lascerebbe pensare a una raccolta di musiche goliardiche, l’antologia Vinum et Musica. Songs and dances from Nuremberg sources (CC 72554, 1 CD, www.ducalemusic.it) si sofferma, in realtà, su un repertorio piú aulico, con ascolti tratti dalla produzione sacra e profana del tardo XV secolo, in qualche modo legati alla città di Norimberga. Nel disco figurano grandi esponenti della polifonia fiamminga quali Josquin Desprez, Guillaume Dufay e musicisti meno noti (Hess, Paumann, Von Bruck, ecc.) che si cimentano in mottetti sacri, ma anche in fanfare e basse danze, fino a brani piú popolareschi come l’invito al bere del So trinken wir alle di Arnold von Bruck. Tra le composizioni che esaltano il lato piú pagano del panorama musicale cittadino, incontriamo il notissimo tema popolare dell’Homme armé, ripreso in un brano a 4 voci da Roberto Morton, a cui fa da contraltare lo splendido mottetto Ave Maria a 6 voci di Desprez. Un panorama musicale variegato, dunque, che il gruppo strumentale della Capella de la Torre, diretto da Katharina Bäuml, ripropone egregiamente, avvalendosi, per la parte vocale, della partecipazione del controtenore francese Dominique Visse. F. B.
e che a Desprez dedicò, nel 1532, il Requiem in memoriam Josquin des Prez. Una messa composta a sei voci in cui l’impronta di Josquin si presenta con sofisticate citazioni da sue opere: il mottetto Nimphes, nappés, che è anche presente nell’antologia, a cui si aggiungono le citazioni di canoni ed elementi musicali utilizzati nel mottetto Circumdederunt me e nella chanson Faulte d’argente, di cui viene impiegata la musica scritta sul verso Cést douleur, non pareille.
Tributi e citazioni La straordinaria musica del Requiem, egregiamente interpretata dal gruppo inglese The King’s Singers, si accompagna a tributi altrettanto suggestivi, nei cui testi ricorre il nome di Josquin, dal O mors inevitabilis del misconosciuto Hieronymous Vinders, alle due versioni del mottetto Musae Jovis a 4 e 6 voci, rispettivamente di Benedictus Appenzeller e Nicolas Gombert, sino al bellissimo Dum vastos Adriae fluctus di Jacquet da Mantova, che cita cinque dei famosi mottetti di Josquin, tra cui il Salve Regina, incluso nella registrazione. Il magma sonoro di questo travolgente brano è splendidamente interpretato dai King’s Singers, un gruppo al maschile, che affronta questo repertorio con un gusto, un approccio vocale e una sensibilità nel fraseggio davvero eccezionali. F. B.
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