amalasunta l’oca duomo di modena bominaco nemi dossier vagabondi e senza patria
Mens. Anno 18 n. 1 (204) Gennaio 2014 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
MEDIOEVO n. 1 (204) gennaio 2014
UN PASSATO DA RISCOPRIRE
medioevo nascosto
Bominaco Tesoro d’Abruzzo
www.medioevo.it
EDIO VO M E www.medioevo.it
luoghi
L’isola di Amalasunta regina dei Goti
saper vedere
Il Duomo di Modena
dossier
vagabondi e senza patria
€ 5,90
sommario
Gennaio 2014 ANTEPRIMA
luoghi
restauri È proprio un capolavoro! L’Incoronazione ritrovata
saper vedere Lo splendore di Modena
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itinerari Un’abbazia di confine Romanico sul mare
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appuntamenti Cristina si è fermata a Sepino Addio all’inverno L’Agenda del Mese
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STORIE di Luca Pesante
52 Medioevo nascosto 26
Bominaco
Re Carlo (Magno?) e il pellegrino di Franco Bruni
scienza e tecnica Le navi di Nemi
Quasi una maledizione di Flavio Russo
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94
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COSTUME E SOCIETÀ immaginario L’oca Ma non chiamatela «giuliva»! di Domenico Sebastiani
Senza patria di Roberto Roveda
mostre Cercando il «vero» Machiavelli Omaggio a Firenze
protagonisti L’isola di Amalasunta
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di Furio Cappelli
Dossier
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40 CALEIDOSCOPIO cartoline Un castello in Valdambra
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libri Tesori dell’Irpinia medievale Lo scaffale
106 108
musica Dalla teoria alla pratica I suoni dell’Est Maestri di chanson
111 112 113
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Ante prima
È proprio un capolavoro!
PRIMA
restauri • L’intervento avviato sulla Porta Nord del
Battistero fiorentino di S. Giovanni conferma l’esito eccezionale della ventennale fatica di Lorenzo Ghiberti
S
traordinaria finezza e qualità di esecuzione, splendida doratura ad amalgama di mercurio sulle figurazioni che si stagliano contro il fondo bronzeo: sono questi i due inaspettati elementi, emersi durante le prime fasi del restauro della Porta Nord del Battistero fiorentino di S. Giovanni (vedi «Medioevo» nn. 188 e 202, settembre 2012 e novembre 2013; anche on line su www. medioevo.it). Eseguita da Lorenzo Ghiberti, tra il 1403 e il 1424, la monumentale opera presenta un impianto compositivo molto diversificato, passando da scene essenziali a una narrazione articolata, nella quale il modellato abbandona la forma gotica e propone una spazialità piú ampia, propria del Rinascimento, come rivelano alcuni particolari architettonici.
Esperienza collaudata Dopo 600 anni, nel marzo 2013, l’Opificio delle Pietre Dure ha iniziato l’intervento di pulitura e conservazione dei rilievi scultorei delle 28 formelle, raffiguranti episodi del Nuovo Testamento, Evangelisti e Dottori della Chiesa, accompagnati da 47 teste di Sibille e Profeti e da un fregio a motivi vegetali e animali. L’incarico è stato affidato ai restauratori del laboratorio fiorentino, a conclusione del progetto, durato ben 27 anni, che aveva riguardato un’altra delle porte del S. Giovanni,
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quella del Paradiso (commissionata allo stesso Ghiberti dalla potente corporazione dell’Arte di Calimala, nel 1425). La lunga esperienza e le innovazioni tecnologiche adottate per risolvere le problematiche conservative hanno portato a una immediata e positiva ricaduta sul restauro in corso che, a pochi mesi dal suo avvio, ha già restituito due formelle, raffiguranti il Battesimo e le Tentazioni di Cristo. Nonostante la disomogeneità dovuta alla tecnica usata in origine e alle condizioni ambientali che, nel tempo, avevano favorito l’insorgere di concrezioni materiali che oscuravano la superficie, gli esiti finora ottenuti sono sorprendenti. Una testimonianza inattesa è venuta dal battente sinistro che, liberato dalle spesse alterazioni che lo offuscavano, ha mostrato la straordinaria cura dei dettagli nella lavorazione della figura del diavolo, protagonista nella scena della Tentazione di Cristo. I pannelli mistilinei «a compasso», ricchi di elementi naturalistici e di formicolanti figurine rivelano una cura analitica dei particolari insospettata, che conferma l’appartenenza dell’artista alla corrente tardo-gotica, di cui sono espressione i manufatti aggraziati e vivaci e il linguaggio formale. Le fasi operative si svolgono su aree di piccole dimensioni, tali da permettere il controllo e la valutazione dei risultati. Dopo
la microaspirazione delle polveri depositate sulla superficie, si è passati al lavaggio tramite vaporizzazione, per allontanare parte dei sali solubili. Anche il retro dei due battenti è stato sottoposto a micro vaporizzazione, dopo aver schermato le teste leonine che presentavano sporadiche tracce di doratura, presumibilmente a foglia.
Laser e strumenti odontoiatrici Lo sporco e le incrostazioni superficiali vengono gradualmente rimossi, attraverso l’azione selettiva della fotoablazione laser, nel rispetto delle caratteristiche materiche ed estetiche dell’opera. In alcune zone, il laser è stato integrato da piccoli strumenti I restauratori dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze al lavoro sulla Porta Nord del Battistero di S. Giovanni.
durante
dopo
La formella con il Battesimo di Cristo prima, durante e dopo il restauro. Insieme a quella delle Tentazioni di Cristo, è la prima di cui è stata ultimata la ripulitura. La Porta Nord fu realizzata da Lorenzo Ghiberti, che se ne aggiudicò il concorso ai danni di Filippo Brunelleschi. Il lavoro ebbe inizio nel 1403 e terminò nel 1424, dopo essere costato ben 22 000 fiorini, una cifra pari a quella che Firenze investiva ogni anno per la sua difesa.
odontoiatrici. Le prove di pulitura meccanica, con bisturi, micromartelletti ad aria compressa e spazzoline di metallo e seta, si alternano a quelle di pulitura chimica che adotta vari tipi di solventi gelificati. Al termine dei lavori di restauro, la Porta Nord che misura 3 m di larghezza per 5 di altezza, con un peso totale di 9 t, affiancherà la sua «sorella» piú famosa, la già ricordata Porta del Paradiso, nel nuovo Museo dell’Opera del Duomo, attualmente in fase di ampliamento e ristrutturazione. L’inaugurazione è prevista nell’autunno del 2015, quando anche la trecentesca Porta Sud, di Andrea Pisano, la prima realizzata, sarà rimossa per poter essere ripulita. Mila Lavorini
Ante prima
L’Incoronazione ritrovata restauri • Presentata a Torino una
splendida tavola inedita del pittore piemontese Defendente Ferrari
È
stata presentata per la prima volta al pubblico, dopo un intervento di restauro che l’ha riportata alla magnificenza originaria, l’Incoronazione della Vergine, un dipinto inedito di Defendente Ferrari, realizzato intorno al 1530. Nato a Chivasso, Ferrari, la cui attività è documentata tra il 1509 e il 1535, si formò nella bottega di Martino Spanzotti – il caposcuola della pittura rinascimentale piemontese –, elaborando ben presto una propria personale cifra stilistica. Le sue opere, spesso grandi macchine d’altare, ancora conservate nelle chiese piemontesi o smontate e disperse in musei italiani e stranieri, documentano l’attività di una bottega vivace, con collaboratori capaci di rispondere alle richieste di una vasta committenza, concentrata soprattutto negli antichi domini sabaudi, e anche in grado di mantenere, sotto il coordinamento del caposcuola, uno standard elevato, sia dal punto di vista della narrazione delle storie sacre, sia da quello della realizzazione tecnica dei dipinti.
Un’iconografia inconsueta L’Incoronazione della Vergine è una grande tavola, alta 180 cm, con una composizione monumentale che raffigura la Trinità, con Dio Padre, la colomba dello Spirito Santo, e Gesú che pone la corona sul capo della Vergine. Si tratta di un’iconografia piuttosto rara, dove il ruolo di Maria come Regina del cielo non assume una posizione centrale ma tende piuttosto a sottolineare l’umiltà della Vergine in preghiera. La composizione, concepita per grandi blocchi di colore, si sviluppa davanti allo sfondo dello spettacolare manto rosso del Dio padre, che domina maestoso. Non abbiamo purtroppo notizie sulla Una veduta d’insieme (a destra) e un particolare (in alto) dell’Incoronazione della Vergine di Defendente Ferrari. 1530 circa. Collezione privata.
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originaria destinazione di questa Incoronazione, che risulta proprietà di una prestigiosa e antica famiglia piemontese già nei primi decenni dell’Ottocento.
Quel che resta d’una macchina d’altare? È probabile che la tavola fosse l’elemento centrale di una grande macchina d’altare, smembrata con le soppressioni degli ordini religiosi di epoca napoleonica, e solo successivamente isolata come un dipinto adatto a un ambiente privato. Venduta di recente, è stata dal nuovo proprietario restaurata e dotata di una cornice moderna che riprende, nei profili essenziali, il disegno delle pale cinquecentesche. Grazie alla collaborazione prestata da Palazzo Madama alle operazioni di restauro, l’Incoronazione della Vergine viene ora temporaneamente depositata nel museo per essere esposta al pubblico in dialogo con i 17 dipinti di Defendente Ferrari già presenti nel percorso della Sala Acaia, tra cui la prima opera sicuramente datata del pittore, la Natività notturna del 1510. Sarà cosí possibile ammirare e studiare il dipinto nel contesto del prezioso nucleo di tavole, raccolte nel secondo Ottocento da Leone Fontana ed entrate nelle collezioni di Palazzo Madama nel 1909 grazie al dono dei figli Maria e Vincenzo. (red.) gennaio
MEDIOEVO
Cercando il «vero» Machiavelli L’
esposizione è nata con l’intento di presentare, anche ai non specialisti, il Machiavelli «storico», per sfatare il Machiavelli «mitico», fondato su una conoscenza arbitraria e spesso lacunosa della sua opera e della sua biografia. Le nove sezioni del percorso, biografico e cronologico, ricostruiscono la figura del grande pensatore e letterato fino alla stesura del Principe (1532): una biografia tortuosa per una vita difficile, dagli studi dell’infanzia,
mostre • Chi è stato davvero
l’autore del Principe? Un quesito a cui risponde la mostra allestita presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, svelando come il personaggio fosse assai meno «machiavellico» di quanto non si possa immaginare...
fino alla Segreteria della Repubblica, alla caduta in disgrazia, all’esilio di San Casciano e alla redazione dell’opera che lo ha reso immortale.
Una copia preziosissima Fra i tesori in mostra vi sono il manoscritto autografo dell’Arte della guerra e la Tavola Doria, che s’ipotizza sia una copia tratta dall’affresco leonardesco Battaglia d’Anghiari, se non eseguita dallo stesso Leonardo, databile post 1503.
In alto il manoscritto autografo dell’Arte della guerra. XVI sec. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale. A sinistra il Libro dei Vangeli sul quale giuravano gli ufficiali pubblici della Signoria. XIV-XVI sec. Firenze, Archivio di Stato.
MEDIOEVO
gennaio
Dove e quando
«La via al Principe: Niccolò Machiavelli da Firenze a San Casciano» Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Sala Galileo-Tribuna Dantesca fino al 28 febbraio Orario lu-ve, 10,0-18,00; sa, 10,00–13,00; chiuso do e festivi Info tel. 055 24919201; e-mail: bnc-fi@beniculturali.it. Dopo il clamoroso ritorno in Italia a seguito di un accordo internazionale con il Tokyo Fuji Art Museum (la nostra polizia le dava la caccia dal 1938), La Tavola Doria è stata esposta in Italia solo nel novembre 2012 a Roma, nelle sale del Quirinale e, piú recentemente, ad Anghiari. La sua presenza nella mostra di Firenze è l’ultima occasione per ammirarla prima del suo rientro in Giappone, previsto dall’accordo con il museo giapponese. Da segnalare, inoltre, il bando di cattura di Niccolò Machiavelli, datato 19 febbraio 1512 e conservato all’Archivio di Stato di Firenze. E poi ancora autografi di lettere, minute di documenti, carteggi legati all’incarico di Cancelliere fino ai manoscritti delle opere letterarie di Machiavelli del periodo quali Belfagor, Andria, Serenata. Si finisce con un piccolo epigramma, scoperto proprio durante le ricerche per la mostra dallo studioso Alessio Decaria, in memoria di un cagnolino appartenuto a Lorenzo Strozzi. (red.)
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Ante prima
Omaggio a Firenze mostre • Una ricca rassegna allestita
a Bonn ripercorre la storia della città del giglio e ne celebra la straordinaria fioritura artistica
C
rescita, sviluppo e trasformazioni del tessuto urbano attraverso i secoli: è questo il filo conduttore dell’esposizione con cui la Germania celebra Firenze e i suoi artisti. La mostra presenta un ritratto della città e del suo «spirito», da potenza finanziaria e mercantile nel Medioevo a laboratorio propulsore di arti e scienze nel Quattrocento e Cinquecento, fino al suo imporsi come centro intellettuale e cosmopolita tra il XVIII e il XIX secolo. Sono cinque le sezioni del percorso espositivo, che si snoda cronologicamente, introdotto dall’Allegoria della Divina Commedia
In alto Masaccio, Trittico di san Giovenale. 1422. Cascia di Reggello, Museo Masaccio di Arte sacra. In basso, a sinistra Domenico di
Michelino, Ritratto di Dante Alighieri, la città di Firenze e l’allegoria della Divina Commedia. Tempera su tela, 1465. Firenze, Chiesa di S. Maria del Fiore. Dove e quando
«Firenze!» Bonna, Kunst- und Ausstellungshalle der Bundesrepublik Deutschland fino al 9 marzo Orario ma-me, 10,00–21,00; gio-do e festivi, 10,00–19,00; lu chiuso Info www.bundeskunsthalle.de
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gennaio
MEDIOEVO
di Domenico di Michelino, omaggio alla città e al suo insigne poeta. E proprio la portata delle opere di Dante è un tema ricorrente in questo viaggio nella storia fiorentina, che prende avvio con l’epoca della autonomia comunale, evidenziando la stretta connessione tra i diversi rapporti di potere, le attività bancarie e commerciali e la vita delle istituzioni. Intorno al 1300, Firenze era una metropoli con oltre 100 000 abitanti, all’apice della fioritura economica, ma politicamente travagliata da tensioni interne, a cui si aggiunsero calamità naturali che sconvolsero l’organizzazione urbana. Eppure è anche il momento delle grandiose costruzioni come la Cattedrale e della nascita di un nuovo linguaggio figurativo e letterario, quando Tino da Camaino, Giotto, Dante, Petrarca e Boccaccio si impongono nel panorama artistico, punteggiato dalle committenze dei ricchi mercanti.
e Cinquecento, quando Leonardo e Michelangelo, omaggiati in mostra con alcuni bozzetti per gli affreschi di Palazzo Vecchio, sono in piena attività. L’oscuro periodo sfociò presto nello splendore del granducato mediceo, soggetto del terzo settore espositivo che si occupa della supremazia riconquistata in tutti i campi, grazie al governo di Cosimo I e del figlio Francesco, che trasformarono Firenze in una vera residenza reale. Firenze assurse a centro propulsore del dibattito teoretico sul concetto di «disegno», mentre il granduca Cosimo fondò l’Accademia delle Arti del Disegno, riunendo insieme pittori, scultori e architetti.
Dopo i Medici
L’invenzione della prospettiva Il commercio, fondamento della prosperità finanziaria è il leit motiv della seconda sezione, incentrata sul XV secolo, contraddistinto dall’espansione territoriale e dall’effervescente rinascita delle arti. Fondandosi sullo studio della letteratura classica, l’Umanesimo fiorentino formulò nuovi ideali etici, che coincisero con una nuova articolazione dello spazio pittorico, soprattutto attraverso
l’invenzione della prospettiva, e con la riscoperta della ritrattistica, dei bronzi monumentali e l’attenta osservazione della natura. La cooperazione tra rinomati artisti e facoltosi patroni, ordini religiosi e corporazioni, dà vita a opere eccezionali, firmate, tra gli altri, da Filippino Lippi, Andrea del Verrocchio, Sandro Botticelli e Masaccio. Si amplia anche l’interesse per la geografia che porta alla nascita di una cartografia scientifica testimoniata dalle rappresentazioni topografiche di Leonardo e dalla Pianta della Catena, mentre l’orafo fiorentino Marco di Bartolomeo Rustici realizza una preziosa documentazione, nota come Codice Rustici, in cui narra il suo viaggio verso Gerusalemme, dando anche una descrizione accurata della Firenze quattrocentesca. Forti conflitti sociali affliggono il capoluogo toscano tra Quattrocento
In alto Giovanni del Biondo, Santa Caterina. 1370. Firenze, Museo dell’Opa. Qui sopra cassone ligneo con figure in gesso. Produzione fiorentina o senese, 1345-54. Londra, Victoria and Albert Museum.
MEDIOEVO
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Purtroppo, nella seconda metà del Seicento, iniziò un declino graduale ma inesorabile, che portò all’estinzione della dinastia medicea, quando nel 1737, Gian Gastone, ultimo membro maschile, morí senza lasciare eredi. La Toscana passò sotto il controllo dei Lorena che rilanceranno una politica del territorio, promuovendo riforme. E il cammino verso la modernizzazione è il tema della quarta sezione che presenta la creazione dei musei scientifici fiorentini e il primo radicale riordino della Galleria degli Uffizi, consegnandoci una città cosmopolita, destinata a diventare meta di viaggi culturali. La mostra si chiude con l’Ottocento, quando l’orgoglio dei Fiorentini per la propria identità arriva a configurarsi in un mito con radici che risalgono al Medioevo, ben espresso dalla inossidabile figura di Dante. Divenuta capitale del neonato regno d’Italia, Firenze cambiò parzialmente aspetto, in seguito alla drastica trasformazione del piano urbanistico, diventando contemporaneamente ritrovo di intellettuali, collezionisti e mercanti d’arte, che contribuirono alla formazione di prestigiose raccolte museali in tutto il mondo. Mila Lavorini
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Ante prima
Un’abbazia di confine
itinerari • Fondato nel 1163
per volere del marchese Ottokar III, il monastero austriaco di Vorau conserva preziose testimonianze della sua vita in epoca medievale
F
esteggia un traguardo importante il monastero agostiniano di Vorau, che si adagia nel cuore della Stiria, Land austriaco ricco di boschi. Per gli 850 anni dalla fondazione il convento propone visite guidate quotidiane per illustrare le vicende della chiesa, della sagrestia e degli oltre 40 000 volumi custoditi nella biblioteca. E, sino alla fine di aprile, ospita una mostra che fa luce sulla storia del complesso architettonico e In alto e a sinistra due vedute del monastero agostiniano di Vorau, che nel 2013 ha celebrato gli 850 anni dalla fondazione.
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Storia di un monastero Nel prezzo del biglietto d’ingresso al complesso monastico è inclusa anche la visita alla mostra «850 anni nel monastero di Vorau», allestita fino al 26 aprile 2014. La rassegna ripercorre la storia del monastero attraverso le praelatorum Serie, la «spina dorsale» della storiografia monastica, che va dai necrologi dei conventuali piú conosciuti alle cronologie che indicano i passaggi di mano dei terreni abbaziali, fino agli atti relativi agli interventi artistici effettuati nella chiesa, nella sagrestia e nella biblioteca. Poi c’è spazio per il «tesoro» del monastero, con preziosi paramenti sacri, dipinti e foto storiche. Info tel. 0043 3337 2351; www.stift-vorau.at A destra l’interno della chiesa di Vorau. Realizzata nel 1660-62 su progetto di Domenico Sciassia, è decorata da pitture e affreschi ultimati nel 1750. del borgo sviluppatosi nei secoli a ridosso delle mura monastiche (vedi box in questa pagina). All’abbazia, voluta nel 1163 dal marchese Ottokar III (1124-1164), in segno di ringraziamento per la nascita del figlio, si accede attraversando un lungo viale di tigli, ben ordinato, che porta alla Colonna della Peste. Due torri angolari stringono la facciata della chiesa, che tradisce l’impronta barocca lasciata da Domenico Sciassia fra il 1660 e il 1662. Il luogo di culto è a navata unica, con cappelle laterali sormontate da gallerie: l’interno è un trionfo squisitamente barocco di luci, riflessi, prospettive, affreschi illusionistici e decorazioni in legno dorato. E la stessa impressione vale per la sagrestia, nella quale sono dipinte le storie di Cristo firmate da Cyriak Hackhofer all’inizio del Settecento.
La storia travagliata di una biblioteca ricchissima Ma il vero gioiello per gli appassionati dell’Età di Mezzo è la biblioteca, che conta 415 manoscritti e 206 incunaboli. Nella sala a volte ribassate sono custoditi 17 500 libri, mentre altri 20 000, per ragioni di sicurezza, si trovano in locali diversi. La raccolta di testi ha subito nei secoli diverse vicissitudini: nel 1237 scoppiò un incendio devastante, dal quale l’abate Bernardo II salvò numerosi scritti, gettandoli dalle finestre, con un gesto che però gli costò la vita. All’inizio del XX secolo la collezione contava 392 incunaboli, ma i religiosi furono
MEDIOEVO
gennaio
costretti a venderne un gran numero, per fronteggiare la grave crisi degli anni Venti. Nella seconda guerra mondiale il monastero fu bombardato, i frati costretti ad andarsene e nelle razzie almeno 5000 libri furono trafugati. Oggi i filoni della raccolta, con esemplari che vanno dall’XI al XVIII secolo, sono sempre filosofia, teologia e giurisprudenza. Fra gli scritti piú rari figura il Kaiserchronik, che copre un arco cronologico compreso fra l’operato di Giulio Cesare e la seconda crociata, contando anche venti fra i primi poemi germanici. Un altro pezzo da segnalare è l’Evangeliario, l’unico manoscritto usato ancora oggi dai monaci quando vengono ordinati. Nonostante gli interventi di epoca barocca, l’abbazia mantiene la fisionomia urbanistica di età medievale. Per la sua collocazione di confine, Vorau era costantemente sotto la minaccia di invasioni, quindi il complesso che si dipana attorno a due cortili fu fortificato con il classico fossato ad anello e con torri via via piú numerose: le quindici di oggi ne fanno il monastero piú turrito dell’intera Austria. A soli 17 km da Vorau, verso nord, si trova poi Festenburg, cittadina che si snoda attorno al castello degli abati di Vorau, fondato nel XIV secolo ma ampliato nel corso del Settecento secondo il gusto barocco, con stucchi e pitture illusionistiche. Stefania Romani
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Ante prima
Romanico sul mare
La chiesa romanica di S. Maria di Portonovo, sulla Riviera del Conero (Ancona).
itinerari • La splendida chiesa di S. Maria di Portonovo si offre all’ammirazione
del pubblico grazie al recente accordo per la sua valorizzazione e fruizione
L
a chiesa di S. Maria di Portonovo sorge in uno dei luoghi piú belli e suggestivi delle Marche, la Riviera del Conero. L’edificio si eleva quasi a picco sul mare e risalta magicamente grazie al contrasto visivo tra la pietra bianca con cui è stato costruito, il colore turchese del mare e il verde della macchia mediterranea che lo avvolge in un equilibrio perfetto tra architettura e natura. Le origini di S. Maria risalgono alla prima metà dell’anno 1000, quando il signore del castello del Poggio di Portonovo, Stefano Grimaldi, donò 35 misure di terreno del fondo Cumano all’abate Paolo per costruirvi il monastero dei Benedettini, che fu edificato ai piedi del Monte Conero, di fronte al mare. Intorno al 1500, a seguito di un’invasione turca, l’edificio conventuale fu distrutto e quasi raso al suolo, mentre la chiesa, interamente costruita in pietra del Conero, rimase miracolosamente in piedi. E proprio grazie a questo
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miracolo, nel 1837, cinque secoli dopo l’abbandono da parte dei monaci, l’abate Pietro Casaretto si stabilí nei pressi della chiesa e diede avvio ai lavori di recupero.
I primi restauri Tuttavia, S. Maria di Portonovo dovette aspettare il 1893 per subire un vero e proprio intervento di restauro sistematico da parte dell’architetto Giuseppe Sacconi (1854-1905). Il terremoto che scosse Ancona il 30 ottobre 1930 causò gravi danni alla città e alla chiesa che, ulteriormente restaurata sotto la guida del soprintendente Luigi Serra, fu riaperta al culto nel 1934. Nel 1988 la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici delle Marche ha avviato un progetto di restauro scientifico conservativo dell’edificio. L’intervento, terminato nel 1996, ha restituito in pieno i valori architettonici di questo antico gioiello del Romanico in Italia. Un gioiello la cui identificazione
stilistica non è immediata, poiché, a una prima lettura, l’impianto dell’edificio sembrerebbe ispirato da influenze orientali, per la presenza della croce greca e della cupola che sovrasta il transetto. La navata principale è voltata a botte, mentre quelle laterali sono voltate a crociera. S. Maria di Portonovo è, in realtà, un esempio unico nell’arco adriatico e l’importanza architettonica deriva dall’armonia dell’insieme e dalla perfetta integrazione delle parti che rendono l’edificio piú imponente di quello che è realmente. Dalla scorsa estate, la chiesa è regolarmente visitabile, grazie all’accordo raggiunto tra la Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici delle Marche, la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici delle Marche, il FAI Marche e l’Assessorato alla Cultura della Regione Marche. (a cura del FAI Giovani Ancona) gennaio
MEDIOEVO
Cristina si è fermata a Sepino
appuntamenti • Il centro molisano nutre una
forte devozione per la martire di Bolsena, le cui spoglie vi giunsero nel 1099 dopo essere state trafugate da due pellegrini francesi
L
e figura di santa Cristina, martire di Bolsena, appartiene agli albori del cristianesimo. Vissuta nel III secolo, a undici anni fu chiusa in una torre dal padre Urbano, prefetto della cittadina laziale, affinché ripudiasse la fede cristiana. Ma lei non ne volle sapere e il padre la consegnò ai giudici, che la rinchiusero in carcere, infliggendole supplizi terribili. Secondo la leggenda, Cristina fu perfino gettata nelle acque del lago con una pietra al collo, ma per miracolo il macigno galleggiò e la fanciulla potè tornare a riva; l’episodio impressionò a tal punto Urbano, che, vinto dal dolore, ne morí. In seguito i giudici tornarono a torturare la piccola, fino a ucciderla, il 24 luglio di un anno imprecisato agli inizi del IV secolo. Pochi anni dopo, a Bolsena, la tomba di Cristina divenne oggetto della devozione popolare e la fama del suo martirio si propagò in tutto il mondo cristiano (vedi anche, in questo numero, l’articolo alle pp. 26-39). Nel gennaio 1099 due pellegrini francesi provenienti da Montpellier e diretti in Terra Santa trafugarono
le sue spoglie da Bolsena. Furono però scoperti quando arrivarono nel paese molisano di Sepino, dove i resti della martire rimasero fino al 1160, quando furono donati alla Cattedrale di Palermo.
Sotto la protezione del braccio A Sepino è tuttavia rimasto il frammento di un braccio, in segno di protezione sulla comunità, che Il busto di santa Cristina conservato a Sepino, nella chiesa intitolata alla martire (in alto), che viene portato in processione durante i festeggiamenti (a sinistra).
MEDIOEVO
gennaio
tuttora la venera come patrona cittadina. Nel piccolo centro, oggi in provincia di Campobasso, le tradizioni secolari del culto per santa Cristina iniziano al mezzogiorno del 5 gennaio, quando il suono delle campane commemora l’arrivo delle sue spoglie in città. Nelle successive giornate del 9 e 10 gennaio si svolge la festa della traslazione, che inizia nella serata dell’8, quando le famiglie si riuniscono per la crianzola, un momento allegro con brindisi alternati a racconti di poeti dialettali. Nella mattinata del 9, in Comune, l’Amministrazione locale riceve le «verginelle», bimbe vestite di bianco con una coroncina di fiori in testa, alle quali offre il «cartoccio», un pacco con dolciumi da donare alla santa. Tutta la cittadinanza si sposta poi nella chiesa parrocchiale, dove il sindaco pronuncia un discorso consuntivo dell’anno appena trascorso e di auspici per quello nuovo, e la Giunta comunale offre oro, incenso e mirra alla martire. Terminata la funzione religiosa, nella sacrestia avviene il sorteggio delle campane, che per tutta la nottata successiva vengono suonate dai fedeli secondo i turni sorteggiati. Il giorno 10, dopo la solenne messa, parte la processione con le reliquie della martire e i fedeli al seguito. Il corteo giunge fino al rione Canala, prima di rientrare nell’antica chiesa parrocchiale di S. Cristina, un edificio di origine romanica con tre navate a croce latina, che sorge nella parte piú elevata dell’antico centro urbano, in piazza Nerazio Prisco. Tiziano Zaccaria
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Ante prima
Addio all’inverno appuntamenti • Con il «traino del tronco», a Fiss, nel Tirolo austriaco, si celebra
ogni quattro anni un rito dalle origini antichissime, celebrato per auspicare il ritorno della primavera e la ripresa delle attività agricole
D
a secoli, in periodo di carnevale, il pittoresco villaggio montuoso di Fiss, nel Tirolo austriaco, è animato dalla celebrazione del Blochziehen. Il termine significa letteralmente «traino del tronco» e si riferisce al grande pino cembro, alto circa 30 m e pesante almeno 5 t, che simboleggia l’aratro pronto a solcare i campi per la semina primaverile e che viene abbattuto nelle foreste circostanti e trascinato fino al centro del paese. All’antico rito propiziatorio, teso a scacciare gli spiriti maligni del rigido inverno, si sono aggiunti nel tempo elementi e maschere carnevalesche, che oggi ne fanno un evento imperdibile del folclore tirolese. In epoca moderna il Blochziehen (dichiarato dall’UNESCO Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità) si svolge ogni quadriennio. Quest’anno tornerà, dopo l’edizione 2010, nella giornata del 26 gennaio.
Una sfilata chiassosa e colorata Poco dopo mezzogiorno, nella piazza centrale di Fiss, si radunano gli Schallner (simbolo della gioventú, della dinamicità e della forza), i Mohrelen (figure di «mori») e il Bajatzl (simbolo di bontà, incarna l’allegria nella vita), che aprono chiassosamente la strada al corteo del Bloch. A seguire, altre maschere antropomorfe quali il Fuhrmann, gli Scheller e gli Zwergelen si dispongono Due immagini del Blochziehen di Fiss, che si svolge ora con cadenza quadriennale.
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attorno al tronco per difenderlo dagli attacchi dello Schwoaftuifl, una figura diabolica che prova a rallentarne la corsa, aiutato da alcune raccapriccianti streghe che urlano selvaggiamente e agitano scope. Intanto, nei pressi del corteo si aggirano altri strani elementi come il Miasmann, ovvero l’Uomo Selvaggio, un personaggio mitologico vestito di licheni che incarna la natura misteriosa, e il Giggeler, cioè il gallo, che rappresenta la fertilità e cerca di corteggiare le belle ragazze. Tutto attorno, altri personaggi raffigurano la vita del villaggio: i contadini, gli sposi, il droghiere, i musicisti, i falegnami, gli indovini, i servi, i mendicanti, i commercianti. Insomma, il Blochziehen vuole essere una colorata e affascinante espressione del secolare confronto fra l’uomo, il suo lavoro e le forze della natura, che da sempre rendono dura la vita della popolazione contadina sulle Alpi tirolesi. Situato su un altopiano a 1436 m di quota, il paese di Fiss conta circa un migliaio di abitanti, che hanno ormai abbandonato le loro origini contadine per dedicarsi in larga parte al turismo. Caratterizzato da stradine strette, il villaggio in passato era soprattutto composto da masi (le antiche abitazioni dei contadini tirolesi), oggi trasformati in alberghi o Bed & Breakfast. T. Z. gennaio
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agenda del mese
Mostre Rovereto Antonello Da Messina U Mart fino al 12 gennaio
Il progetto espositivo propone un’indagine articolata e uno sguardo originale sulla figura del grande pittore del Quattrocento e sul suo tempo, attraverso
lo studio degli intrecci storico-artistici e delle controversie ancora aperte, presentati in questa sede come punti di forza attraverso i quali approfondire nuovi percorsi di interpretazione critica. Questa rilettura di Antonello da Messina non offre solo la ricerca della collocazione cronologica delle opere, l’analisi dei rapporti con i maestri a lui contemporanei, delle similitudini e delle differenze, ma è concentrata anche su una profonda analisi
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a cura di Stefano Mammini
dell’intelligenza poetica di un artista «non umano», come lo definí il figlio Jacobello, che ha saputo cogliere le sfumature psicologiche e le caratteristiche piú intime dell’esistere. info numero verde 800 397760; e-mail: info@mart.trento.it, infogruppi@mart.trento.it; www. mart.trento.it
prato Da Donatello a Lippi. Officina pratese U Museo di Palazzo Pretorio fino al 13 gennaio
A coronamento di un lungo restauro, che lo ha riportato all’originario splendore e ora lo restituisce alla collettività (vedi «Medioevo» n. 200, settembre 2013), il Palazzo Pretorio di Prato ha riaperto le sue porte e lo ha fatto con una grande mostra, che fa rivivere uno dei momenti magici dell’intera storia dell’arte italiana, quello
vissuto nel Quattrocento dalla città toscana, quando qui operarono molti tra i maggiori artisti dell’epoca. Su tutti, domina la figura carismatica di Filippo Lippi, che fra gli anni Cinquanta e Sessanta del Quattrocento tenne aperto il cantiere degli affreschi di Santo Stefano e del Battista, nella cappella maggiore del Duomo. Altre sue opere in mostra documentano la fantasia eccitata e le estenuate eleganze di questa splendida maturità. Intorno a lui si formarono pittori che meritano di essere meglio conosciuti, come il Maestro della Natività di Castello o Fra Diamante. Prima di Lippi le figure di maggiore spicco che operarono per Prato furono Donatello e Paolo Uccello. Attraverso opere di grande qualità, la mostra fa luce su
queste personalità, per aiutare a capire meglio quanto a Prato di loro è rimasto. Al tempo stesso si prefigge alcune operazioni esemplari di ricostruzione di opere che erano a Prato e che sono state smembrate, riunendo predelle e pale ora divise fra i musei pratesi e le collezioni straniere. info e prenotazioni tel. 0574 1934996; www.officinapratese.com
prato Moneta e Devozione U Spazio Mostre Valentini fino al 12 gennaio
Realizzata in occasione dell’evento espositivo «Da Donatello a Lippi. Officina Pratese», la mostra, che ha come fili conduttori Gerusalemme e la Sacra Cintola, la devozione e le monete, racconta la storia della fede a Prato e in Toscana dal Medioevo al Rinascimento. Monete che i pellegrini
portavano con sé come offerta, monete che diventavano oggetto di culto in quanto considerate vere e proprie reliquie e monete utilizzate per chiedere grazie e protezioni: che fossero d’oro, d’argento o di rame, raffiguranti il Cristo o la Madonna o che rappresentassero santi e vescovi locali, custodivano segreti e finalità del tutto slegate dal mero valore economico. Nel percorso figurano anche una tavola su fondo oro di Bicci di Lorenzo (1373-1452), raffigurante san Ludovico da Tolosa, fratello di Roberto d’Angiò signore di Prato, un reliquiario tedesco del Trecento dal Museo d’arte sacra e una Madonna lignea di scuola milanese della metà del Quattrocento. info www.artinpo.it PArigi Angkor. Nascita di un mito. Louis Delaporte e la Cambogia U Musée national des arts asiatiques Guimet fino al 13 gennaio
Il museo parigino risale alle origini del mito del sito cambogiano di Angkor, cosí come venne elaborato in Europa, e in Francia in particolare, tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. L’esposizione racconta in che modo il patrimonio della cultura khmer fu riscoperto e come i monumenti di Angkor vennero presentati al pubblico all’epoca delle grandi gennaio
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mostre • L’incanto dell’affresco. Capolavori strappati da Pompei a Giotto, da Correggio a Tiepolo U Ravenna – Museo d’Arte della città
fino al 15 giugno (dal 16 febbraio) – info tel. 0544 482477 oppure 482356; e-mail: info@museocitta.ra.it; www.mar.ra.it
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isalgono ai tempi di Vitruvio e di Plinio le prime operazioni di distacco, secondo una tecnica che prevedeva la rimozione delle opere con l’intonaco e il muro che le ospitava. Il cosiddetto «massello», che favorí il trasporto a Roma di dipinti provenienti dalle terre conquistate altrimenti inamovibili, dopo secoli di oblio trovò nuova fortuna a partire dal Rinascimento – nel Nord come nel Centro della Penisola – favorendo la conservazione ai posteri di porzioni di affreschi che altrimenti sarebbero andati perduti per sempre. Cosí, in un arco temporale compreso fra il XVI e il XVIII secolo, vennero traslate, tra le altre, alcune delle opere piú importanti presenti in mostra: la Maddalena piangente di Ercole de’ Roberti (dalla Pinacoteca Nazionale di Bologna) e Il gruppo di angioletti di Melozzo da Forlí (dai Musei Vaticani). Un modus operandi difficile e dispendioso che a partire dal secondo quarto del Secolo dei Lumi venne affiancato, e piano piano sostituito, dalla piú innovativa e pratica tecnica dello strappo, prassi che tramite uno speciale collante permetteva di strappare gli affreschi e quindi portarli su di una tela. Una vera rivoluzione nel campo del restauro, della conservazione, Esposizioni universali e coloniali. Per farlo, sono state selezionate piú di 250 opere: sculture khmer in pietra databili tra il X e il XIII secolo, repliche in gesso, fotografie, dipinti e grafiche otto-novecentesche (acquarelli, disegni a inchiostro, stampe, ecc.). Un insieme di materiali che dà conto dei primi contatti del Paese transalpino con
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dicembre
ma anche del collezionismo del patrimonio murale italiano. Cosí mentre nelle appena riscoperte Ercolano e Pompei si trasportavano su nuovo supporto e quindi al Museo di Portici le piú belle pitture murali dell’antichità, nel resto d’Italia si diffondeva la rivoluzione dello strappo. Nulla sarebbe stato piú come prima. Tra la metà del Settecento e la fine del XIX secolo tutti i grandi maestri dell’arte italiana furono oggetto delle attenzioni degli estrattisti: da Andrea del Castagno al Bramante, dal Correggio a Giulio Romano, da Guido Reni al Domenichino, solo per citare alcuni dei piú noti fra quelli che saranno protagonisti della mostra del MAR.
l’arte della Cambogia antica, sviluppati soprattutto grazie alla personalità emblematica di Louis Delaporte (18421925), grande esploratore francese che coltivava il sogno di «far entrare l’arte khmer nei musei». info www.guimet.fr PArigi il rinascimento e il sogno. bosch,
veronese, el greco... U Musée du Luxembourg fino al 26 gennaio
Dopo essere stata presentata con successo a Firenze, in Palazzo Pitti, sbarca a Parigi la mostra che celebra il legame tra il Rinascimento e il sogno, ideata proprio perché il grande movimento artistico e culturale nacque appunto dal sogno di una nuova vita, e
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attribuí ai sogni, nonché alla loro interpretazione e rappresentazione, un’importanza straordinaria: nella vita politica e sociale, grazie alla rinascita delle pratiche divinatorie; nella letteratura, sia in prosa che in poesia (Francesco Colonna e Rabelais, l’Ariosto e il Tasso, la Pléiade e d’Aubigné…) e nei dibattiti medici e teologici, in particolare durante la terribile caccia alle streghe che imperversò in Europa dal XV al XVII secolo. Tentare di dipingere l’onirico, come avevano già fatto gli artisti medievali, seppure in un contesto diverso, significa quindi superare in piú modi le frontiere dell’arte, ampliandone considerevolmente l’ambito di espressione e conferendole nuovi poteri. info www. museeduluxembourg.fr
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roma Antoniazzo Romano, «Pictor Urbis» U Palazzo Barberini fino al 2 febbraio
Antonio Aquili, detto Antoniazzo Romano (1435/40-1508), figura centrale del Rinascimento, fu attivo per quasi mezzo secolo, fino al primo decennio del Cinquecento, a Roma e nel territorio laziale. La sua ricca produzione era destinata a un pubblico
composto in prevalenza di alti prelati della curia romana, comunità religiose ed esponenti dei ceti nobiliari. Opere di grande suggestione e di qualità altissima, i suoi dipinti uniscono le novità rinascimentali agli splendori dell’arte medievale, nella profusione degli ori e nella bellezza sacrale dei suoi personaggi, specie le sue straordinarie Madonne dalle sembianze modernamente affini alle tipologie femminili di quel periodo. Circa cinquanta sono le opere esposte – polittici, grandi pale, piccoli dipinti devozionali, tavole fondo oro, e un ciclo di affreschi staccati, insieme a opere di confronto e testimonianze documentarie –, che offrono al pubblico un viaggio nel Rinascimento «quotidiano» di Antoniazzo e della sua nutrita bottega. A completare l’iniziativa, un itinerario cittadino, promosso in collaborazione con il
Comune di Roma, accompagna il pubblico alla scoperta delle testimonianze della pittura di Antoniazzo e della sua scuola presenti in numerosi edifici storici di Roma. info tel. 06 4814591; http://galleriabarberini. beniculturali.it zurigo Carlo Magno e la Svizzera U Museo nazionale fino al 2 febbraio
Le innovazioni introdotte da Carlo Magno (741–814) sono tra i fondamenti
della nostra cultura ed è questo uno dei motivi ispiratori della rassegna che il Museo nazionale di Zurigo dedica al grande imperatore, a 1200 anni dalla sua morte. In un momento in cui lo spazio economico, politico e culturale europeo lotta per mantenere la coesione interna, una mostra sul periodo di Carlo Magno acquisisce un’attualità inaspettata: fu proprio il sovrano carolingio a riunire sotto un unico impero parti dell’Europa occidentale, orientale e
meridionale. Oggi i rappresentanti delle relative nazioni discutono quasi ogni settimana, nell’ambito dell’Unione Europea, sulla conservazione dell’unità europea. Carlo Magno, primo imperatore del Medioevo, ha introdotto molte riforme, le cui basi rimangono attuali. La sua riforma scolastica rappresenta una strada da seguire. La scrittura da lui promossa è la base dei nostri caratteri tipografici. Grazie a lui sono stati tramandati testi di autori antichi e, di conseguenza, il loro sapere. La sua riforma monetaria è la base del nostro sistema moderno. E le sue costruzioni palatine hanno dato impulso all’edilizia in pietra. Ha rafforzato il cristianesimo in Occidente, fissato la liturgia, rivisto la Bibbia, costruito monasteri e disciplinato la vita dei monaci. Non a caso, Carlo è l’unico sovrano del Medioevo europeo ad avere ricevuto l’appellativo di Magno quando era ancora in vita. L’interesse attorno alla sua persona, al suo dominio e alle conquiste culturali del suo tempo perdura fino a oggi. La mostra illustra come le sue riforme abbiano inciso sull’istruzione, sulla fede e sulla società, e quali innovazioni vanno rilevate nell’arte e nell’architettura. L’esposizione, inserita gennaio
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nel contesto europeo, è incentrata sul patrimonio culturale della Svizzera odierna risalente all’epoca di Carlo Magno. info www.nationalmuseum. ch (anche in lingua italiana) roma Il tesoro di Napoli. I capolavori del Museo di San Gennaro U Fondazione Roma Museo, Palazzo Sciarra fino al 16 febbraio
Lasciano Napoli per la prima volta i capolavori del Museo di San Gennaro: oltre novanta opere, che offrono un assaggio di un tesoro che conta oltre 21mila pezzi, donati in settecento anni di devozione, e che ripercorrono la storia di un culto legato a doppio filo a Napoli, ma anche le ragioni del suo radicarsi in modo tanto particolare sia in loco che fra i sovrani di tutta Europa. Da segnalare è la presenza di due opere angioine di rarità
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assoluta: il busto reliquiario commissionato da Carlo II d’Angiò (1254-1309) a tre orafi provenzali e realizzato fra il 1304 e l’anno successivo; e il reliquiario tronetto per il trasporto in processione delle ampolle con il sangue di san Gennaro, commissionato invece da Roberto d’Angiò (1277-1343), figlio di Carlo II. info tel. 06 69205060; www. fondazioneromamuseo.it Trento La città e l’archeologia del sacro: il recupero dell’area di S. Maria Maggiore U Museo Diocesano Tridentino fino al 23 febbraio
Dopo il complesso intervento di scavo condotto in S. Maria Maggiore tra il 2007 e il 2011, la mostra propone per la prima volta i reperti rinvenuti nel sottosuolo
della chiesa, offrendo l’opportunità di conoscere gli esiti di un ampio lavoro di ricerca che ha restituito alla città una fase importante e poco nota della sua storia. L’esposizione, inoltre, contestualizza le testimonianze venute alla luce durante lo scavo, integrando le novità emerse dallo studio di questi reperti con le conoscenze già acquisite nei precedenti interventi nell’area di S. Maria Maggiore e in altri siti della città. Mediante l’esposizione di reperti particolarmente evocativi, alcuni dei quali riferiti agli altri luoghi di culto, come la basilica di S. Vigilio, S. Apollinare, la chiesa del Doss Trento, S. Lorenzo, l’esposizione fornisce al visitatore un’esaustiva panoramica dei siti archeologici cittadini riferibili alla Trento paleocristiana. Cuore dell’esposizione sono comunque gli scavi effettuati nel sottosuolo di S. Maria Maggiore. L’indagine archeologica ha permesso di ipotizzare che la zona in età romana (fine del I secolo d.C.) fosse occupata da un impianto termale pubblico del quale restano solo alcune tracce; in mostra sono presentati materiali lapidei appartenenti alle strutture e all’arredo di tali ambienti. Lo scavo, inoltre, ha evidenziato il definitivo abbandono dell’impianto romano tra IV e V secolo d.C. e,
Lo Stato coreano di Silla, nato alla metà del I secolo a.C. nella zona
tappe principali, che videro il regno di Silla assumere una connotazione cosmpolita. Fautori dell’espansione del regno furono i sovrani che si succedettero alla guida dello Stato dal V secolo in poi; personaggi oggi noti soprattutto grazie ai materiali recuperati nei loro monumenti funerari, realizzati nell’area dell’allora capitale Kum-song (l’odierna Geyongju), inserita nel 2000
sud-orientale della penisola coreana, visse il suo momento di massimo splendore tra il 400 e l’800 d.C., un’età dell’oro a cui il Metropolitan Museum of Art dedica ora un’ampia rassegna, la prima mai allestita in Occidente su questo tema. Attraverso le opere selezionate – oltre un centinaio, tra cui spiccano magnifiche oreficerie e manufatti legati alla pratica della religione buddhista – la storia di questa importante realtà viene dunque ripercorsa nelle sue
dall’UNESCO nella lista del Patrimonio dell’Umanità. Ai preziosi corredi funebri sono dedicate le prime sezioni del percorso espositivo, che poi, nell’ampio e ricco capitolo conclusivo, documenta le manifestazioni artistiche legate alla diffusione del buddhismo. La dottrina di origine indiana fu adottata come religione dello Stato di Silla nel 528 e tale passo segnò un mutamento decisivo nella società e nella cultura. Pervasa da uno slancio estetico
di conseguenza, un mutamento di funzione dell’area sulla quale sorgerà l’ecclesia. info tel. 0461 234419; e-mail: info@museo diocesanotridentino.it; www.museodiocesano tridentino.it New York Silla: il regno d’oro di Corea U The Metropolitan Museum of Art fino al 24 febbraio
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agenda del mese assolutamente originale, l’arte buddhista della Corea reinterpreta i canoni elaborati in Cina e nei centri del Sud-Est asiatico, facendosi espressione della natura pan-asiatica del credo ispirato da Gautama Buddha. info www.metmuseum.org milano Leonardo3. il Mondo di Leonardo U Sale del Re fino al 28 febbraio
Punto di forza della mostra, dedicata a Leonardo artista e inventore, sono le oltre 200 macchine interattive in 3D, oltre a ricostruzioni fisiche dei diversi congegni, molti inediti e mai ricostruiti dopo Leonardo. Tra le esperienze interattive in 3D vi sono le anteprime del Codice Atlantico in edizione completa, con oltre 1100 fogli consultabili digitalmente. E, nella sezione Leonardo a Milano, è compresa una stazione dedicata al Cavallo gigante, ovvero al monumento a Francesco Sforza, che svela anche come
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avrebbe potuto essere l’opera completa. info tel. 02 794181; e-mail info@leonardo3. net; www.leonardo3.net, www.facebook.com/ leonardo3museum Saint-Romain-engal - vienne Gli irochesi del San Lorenzo, popolo del mais U Musée romain fino al 15 aprile
Gruppo etno-linguistico dell’America Settentrionale, gli Irochesi erano genti agricole riunite nella Lega delle Cinque Nazioni, un’unione formatasi a sud del lago Ontario fra le tribú Onondaga, Mohawk, Seneca, Kayuga e Oneida (e in seguito estesa ad altre tribú). Stanziate sulle sponde del fiume San Lorenzo fino al XVI secolo, queste comunità sono protagoniste di un’ampia esposizione, che riunisce materiali provenienti da siti archeologici scoperti in Quebec, nell’Ontario e nello Stato di New York. I reperti ricostruiscono il modus vivendi del popolo irochese, che basava la propria sussistenza sull’agricoltura e introdusse nella valle del San Lorenzo la coltivazione del mais. La documentazione offerta da questi oggetti è integrata dalle notizie contenute nel resoconto dell’esploratore bretone Jacques Cartier, che incontrò gli Irochesi nel 1534-1535, in
occasione del suo primo viaggio in America. info www.musees-galloromains.com ascoli piceno angeli nel medioevo ascolano U Pinacoteca Civica, Sala della Vittoria fino al 4 maggio
La mostra è la prima tappa di un progetto triennale sul tema degli angeli nella tradizione artistica ascolana dal Medioevo al XIX secolo. Un programma che prevede, nel triennio 2013-2015, la realizzazione di tre esposizioni che presentano opere
realizzazione di un catalogo-mostra, e quindi la diffusione della conoscenza del patrimonio storico artistico del territorio. info www.associazione giovaneuropa.eu Londra Bellezza insolita: Maestri del Rinascimento tedesco U The National Gallery fino all’11 maggio (dal 19 febbraio)
(dipinti, sculture, miniature, oreficeria...) raffiguranti «angeli» provenienti dall’Ascolano. L’obiettivo è quello di presentare il ricco patrimonio di opere presenti nel territorio, accomunate appunto dal tema degli angeli, scelto come osservatorio sul piú vasto ambito dell’arte sacra. Il risultato atteso è quello di uno studio organico del tema, divulgato attraverso la
Che cosa determina la bellezza di un’opera d’arte? E in quale misura la percezione di questa qualità può mutare in funzione del contesto in cui vive il suo osservatore? Sono questi i quesiti che hanno ispirato la mostra che la National Gallery dedica ai maestri del Rinascimento tedesco. La rassegna presenta in una prospettiva diversa dipinti, disegni e stampe di artisti notissimi, come Hans
Holbein il Giovane, Albrecht Dürer e Lucas Cranach il Vecchio; opere di cui viene ricostruita l’accoglienza che ebbero presso i contemporanei e nel recente passato, confrontandola con il modo in cui vengono oggi fruite. Il Rinascimento tedesco fu parte del piú ampio risveglio culturale e artistico che interessò il Nord Europa tra il XV e il XVI secolo e grazie ai suoi talenti migliori, che sono appunto i protagonisti della mostra londinese, guadagnò presto fama internazionale. info www.nationalgallery. org.uk Treviso Magie dell’India. Dal tempio alla corte, capolavori dell’arte indiana U Casa dei Carraresi fino al 31 maggio
Lo scrittore veronese Emilio Salgàri ambientò molti dei suoi romanzi piú celebri gennaio
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nell’affascinate continente indiano senza mai lasciare l’Italia. Un’opportunità analoga viene ora offerta dalla mostra allestita in Casa dei Carraresi, che propone oggetti e opere d’arte grazie ai quali ci si può immergere nel mondo magico dell’India, godendo di una rassegna che spazia dal II millennio a.C. all’epoca dei Maharaja. Elementi architettonici, miniature, fotografie d’epoca, oggetti di uso rituale e quotidiano, costumi, tessuti, gioielli, accanto a statue e bassorilievi provenienti da importanti collezioni museali e private, sono stati collocati in un adeguato contesto scenografico che ne ricrea gli ambienti originari. Il percorso espositivo ricostruisce le tappe salienti della civiltà indiana seguendo due filoni principali, che hanno come centro focale, rispettivamente, il Tempio e la Corte:
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gennaio
«L’arte nell’India Classica» e «L’india dei Maharaja». Due poli, quello del Tempio e quello della Corte, che sfuggono al dualismo tipicamente occidentale tra sacro e profano e che nella cultura indiana non sono in alcun modo in contraddizione. Il cerimoniale dei templi è simile a quello del palazzo e la figura del re è ammantata di sacralità tanto da renderla divina. La saggezza tradizionale indiana, affinché l’esistenza umana sia significativa e armonica, impone l’impegno etico, ma anche il perseguimento del piacere; sostiene la frugalità, ma non svalorizza la ricchezza; incita al distacco, ma legittima la conquista del potere. Benché il fine ultimo in buona parte della cultura indiana – ma non in tutta – sia la liberazione e il trascendimento del mondo doloroso e finito, la vita e i suoi
istanti preziosi sono ampiamente celebrati, soprattutto nell’arte. info tel. 0422 513150 Milano Da Gerusalemme a Milano. Imperatori, filosofi e dèi alle origini del Cristianesimo U Civico Museo Archeologico fino al 20 giugno
In occasione dei 1700 anni dalla promulgazione del cosiddetto Editto del
313 d.C., con cui Costantino, proprio dal palazzo imperiale di Milano (di cui restano tracce a poche decine di metri dal Civico Museo Archeologico) concesse libertà di culto in tutto l’impero, il Civico Museo Archeologico di Milano propone un percorso espositivo che illustra il contesto storico, politico e religioso in cui è nato il cristianesimo e le correnti filosofiche e religiose che interagiscono con il suo progressivo affermarsi tra il I e il IV secolo d.C., nonché i complessi rapporti tra la Chiesa cristiana e il potere imperiale. Accompagnato da un ricco corredo esplicativo di pannelli illustrati che ne spiegano con un
linguaggio semplice le tematiche, il percorso si apre con la sezione dedicata alla Giudea al volgere dell’era cristiana. Vi sono esposti materiali provenienti dagli scavi condotti negli anni Sessanta dalla Missione Archeologica Italiana a Cesarea Marittima (Israele) e ad Acco-Tolemaide (la San Giovanni d’Acri dei Crociati). Tra i materiali spiccano, oltre ai
Nelle sezioni successive vengono quindi sviluppati altri temi importanti, quali il cristianesimo e le filosofie classiche, l’Egitto tra antichi e nuovi dèi, i culti misterici, i cristiani e l’impero e le origini del cristianesimo a Milano. Quest’ultima chiude idealmente l’esposizione nella torre poligonale delle mura romane, i cui affreschi del XIII secolo
balsamari vitrei rinvenuti nelle tombe di Acco, che attestano il passaggio alla tecnica di soffiatura, scoperta proprio nella zona verso la fine del I secolo a.C., il calco dell’epigrafe di Ponzio Pilato, unica attestazione diretta e coeva del prefetto noto dai Vangeli, rinvenuta nel teatro di Cesarea, e un tesoretto, composto da gioielli e croci d’oro, sempre da Cesarea.
documentano la devozione verso i primi martiri milanesi, a quasi mille anni di distanza dal vescovo Ambrogio, figura cardine della Chiesa locale. info tel. 02 88465720 (Direzione Museo) o 02 88445208 (Biglietteria); www.comune.milano.it/ museoarcheologico; e-mail: c.museoarcheologico@ comune.milano.it
Appuntamenti bassano del grappa Medioevo a due facce. È proprio come lo pensiamo? U Centro Studi Medievali Ponzio di Cluny fino al 22 marzo
L’associazione bassanese propone un ciclo di incontri serali
per fare il punto sugli sviluppi della medievistica europea. Le conferenze si svolgono al sabato, alle ore 17,30, presso l’Istituto Scalabrini della cittadina veneta. info tel. 0444 965129; e-mail: info@ ponziodicluny.it
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storie amalasunta
L’isola di Amalasunta di Luca Pesante
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olti storici sono ormai concordi nel ritenere che i tre giorni in cui la furia dei Goti devastò Roma (nell’agosto del 410) segnino l’inizio del Medioevo. La tribú germanica orientale premeva da circa un secolo sui confini sempre piú deboli dell’impero, ma solo con Alarico riuscí a penetrare nel cuore del potere. La data del 476 passa cosí in secondo piano: in effetti, ciò che avvenne in quell’anno – l’invio a Costantinopo-
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li delle insegne del potere imperiale romano da parte del capo barbarico Odoacre, signore di Roma – non segna grandi trasformazioni rispetto a quanto si era da tempo messo in moto (gli stessi contemporanei se ne accorsero a malapena). Fu invece la storiografia dei secoli seguenti a rivitalizzare tale data, come fece Paolo Diacono alla fine dell’VIII secolo, parlando del 476 come dell’anno fatidico in cui l’impero perse il suo potere.
La civiltà medievale trae origine dalle rovine del mondo romano, già in crisi a partire dal III secolo e precipitato definitivamente in seguito alle invasioni barbariche (o migrazione di popoli, a seconda dei punti di vista) del V secolo, che accelerano un processo già in atto. Lo sviluppo demografico, l’attrazione verso territori piú ricchi, il «mito» di Roma, i cambiamenti climatici, ma, soprattutto, la fuga da altri popoli invasori spingono i Goti verso la nogennaio
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Un’isola misteriosa nel mezzo del lago vulcanico piú grande d’Europa, e una regina dei Goti, figlia del leggendario Teodorico: ecco lo scenario (e la protagonista principale) di una vicenda in cui si rispecchiano la fine dell’evo antico e il passaggio a una nuova era…
Sulle due pagine isola Martana (lago di Bolsena, Viterbo). Scale scavate nel tufo che conducono sull’altura sulla quale sorgevano la chiesa e il convento di S. Stefano. Sulla destra, un tratto delle mura difensive costruite alla fine del Medioevo con materiali di spoglio d’età romana. In basso incisione raffigurante Amalasunta, regina gota, figlia di Teodorico. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.
stra Penisola. E il mondo medievale è l’esito dello scontro tra cultura romana e cultura barbarica.
Città che si spopolano
La città romana perde le sue strutture vitali, i pochi abitanti sono ormai raggruppati all’ombra di qualche grande rovina, molti si spostano nelle campagne che, a causa dello sfaldamento della rete economica, si sono sempre piú allontanate dal centro urbano. Non si è piú in gra-
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storie amalasunta do di mantenere le antiche e grandi Tra le radicali trasformazioni e zo, e in queste vicende si possono strade basolate che scompaiono in gli incontri/scontri di civiltà di quegià cogliere le prime forme dei cabreve tempo, a favore delle vie flusti anni, la figura di Amalasunta ci ratteri originari che segneranno viali e dei percorsi naturali. offre un punto di vista privilegiato gran parte dell’identità italiana. Sebbene mossi da un impeto per la comprensione della fine di Le notizie su Amalasunta unitravolgente e distruttivo i Goti, scono leggende e realtà stoormai stanziati nel nostro terririca. La fonte principale è Orvieto torio, sanno riconoscere ciò che Procopio di Cesarea, grande Onano Grotte del vecchio impero può essere storico bizantino autore deldi Castro loro utile, soprattutto nel camla Guerra gotica, il libro che po della cultura e dell’organiznarra il conflitto combattutto Bolsena zazione politica. Fondamendal 535 al 553 tra l’imperatoLago Latera talmente incapaci di creare, re Giustiniano e i Goti (vedi Bagnoregio di essi riadoperano e riutilizzano, box a p. 30). Scrive ProcoBolsena segnando in tal modo un repio: «In Toscana c’è un lago, Isola gresso tecnico che privò gran detto di Bolsena, all’interno Valentano Martana parte del Medioevo di molti del quale c’è un’isola molCapodimonte «saper fare»: cosí l’incapacità di to piccola, con una fortezza Fastello Montefiascone Piansano estrarre e lavorare la pietra ne ben solida. Fu lí che Teodafece un’epoca a lungo caratteto fece rinchiudere [la cugirizzata dall’uso quasi esclusivo na] Amalasunta». Le isole in Tessennano del legno. Lo sforzo estetico si realtà sono due: la Bisentina concentra nella decorazione; e la Martana; la seconda è la motivo per cui l’oreficeria, gli piú piccola e, dalla dettagliaLago di Bolsena Viterbo avori e i mosaici esprimono ta descrizione contenuta nel una raffinatissima forma d’arpoema anonimo che celebra te «decorativa». In quegli anni, la costruzione di una fortezza i centri urbani piú importanti da parte di Teodato (vedi box fungono da residenze dei re a p. 32), sembra in effetti di barbarici e vescovi, oppure sono un’epoca e il passaggio verso una poterne riconoscere la forma. posti lungo le principali vie di pellenuova era. La biografia, i contatti, i La regina, scrive Procopio, «gogrinaggio; per il resto dilagano l’abluoghi della regina gota sono testivernava il regno, in qualità di tutribandono e la desolazione. moni della nascita dell’età di Mezce del figlio Atalarico, ricca di pruSulle due pagine veduta del lago di Bolsena. Sulla sinistra, in primo piano, l’isola Martana; a destra, l’isola Bisentina. In alto cartina del territorio bolsenese con l’ubicazione dell’isola Martana.
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Nella pagina accanto Musei Vaticani, Galleria delle Carte Geografiche. Particolare della mappa della Tuscia, in cui si riconosce il lago di Bolsena, con le sue due isole. 1580-1583.
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MEDIOEVO
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storie amalasunta A sinistra Ravenna, basilica di S. Vitale. Particolare di uno dei mosaici raffigurante alcuni soldati della guardia imperiale. La morte di Amalasunta rappresentò il pretesto per l’intervento di Giustiniano I in Italia, conclusosi con la riconquista bizantina della Penisola. Nella pagina accanto, al centro solido d’oro con l’effigie dell’imperatore Giustiniano I. Zecca di Costantinopoli, VI sec. Londra, British Museum.
La guerra greco-gotica
Un ventennio che sconvolse l’Italia Vent’anni di guerra (535-553) in Italia opposero i Goti, dilaniati da scontri interni tra chi promuoveva una politica filo-imperiale e chi rifiutava qualsiasi accordo con gli avversari, e l’impero. Nel conflitto intervennero Burgundi, Franchi, Alamanni, provocando vaste distruzioni, carestie, pestilenze con una mortalità altissima tra la popolazione: una interminabile guerra di movimento diffusa in ogni regione. Milano fu distrutta, Roma subí quattro assedi e fu presa e ripresa piú volte dagli uni e dagli altri. I Goti, ormai radicati nelle loro proprietà fondiarie erano in molti casi pronti a qualsiasi compromesso politico con l’impero pur di mantenere il loro status di possessori armati di terre sul suolo italiano, ma restarono sempre poco
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inclini al pagamento di quei tributi che dovevano proprio sulla base dei loro beni. Il rifiuto da parte di alcuni senatori romani e di comandanti militari bizantini di qualsiasi forma di compromesso portò allo scontro diretto e violento. La dominazione gota finí rovinosamente, ma ciò non segnò la fine della loro presenza nella Penisola. Gli scampati alla guerra passarono dalla parte dei Bizantini o rimasero in Italia nei loro fondi. In ogni caso, la fine dei Goti aprí la via all’irruzione longobarda. A destra l’assetto geopolitico dell’Europa, alla morte di Teodorico e all’indomani della guerra greco-gotica.
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denza, osservantissima del giusto, d’animo virile». Nel 515 aveva sposato Eutarico dal quale ebbe anche una figlia, Matasunta. Al momento di investire il nipote Atalarico come suo successore, il vecchio re Teodorico, padre di Amalasunta, si sarebbe raccomandato di «onorare il re, amare il senato e il popolo romano e di ricercare sempre la pace e l’amicizia dell’imperatore d’Oriente, dopo quella di Dio». Amalasunta fu dunque reggente del regno dal 526 al 534, per un breve periodo associata a Teodato con il titolo di regina, ed effettivamente onorò le parole del padre con il tentativo di allentare la tensione tra Goti e Romani, restituendo i beni sottratti loro con la forza e impegnandosi a non colpirli piú nelle persone e nei possedimenti.
lasunta, Teodato, amante della cultura e della filosofia platonica, si era costituito un vasto possedimento in Italia centrale tanto da essere chiamato «re [o duca] di Tuscia». Teodorico aveva già visto nel nipote (Teodato era figlio della sorella Amalafrida) un possibile oppositore, e altrettanto temeva la cugina. Perciò,
Via dall’Italia
La regina voleva educare il figlio come un principe romano (la corte costantinopolitana rappresentava il piú alto modello culturale dell’epoca), un desiderio che irritò molti capi goti, al punto che, nel 532, nel timore di venire uccisa, Amalasunta chiese a Giustiniano di poter lasciare l’Italia per trasferirsi a Costantinopoli portando con sé un tesoro di quasi tre milioni di soldi d’oro. Nel frattempo, il cugino di Ama-
Un uomo tranquillo subito dopo la morte del figlio Atalarico, il 2 ottobre 534, Amalasunta, forse nel tentativo di anticiparne le eventuali mosse a lei contrarie, chiamò Teodato accanto a sé per condividere la reggenza del trono. In questa confusa situazione la
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Teodato († 536) viene descritto da Cassiodoro come «paziente nelle avversità, moderato nelle prosperità, padrone di sé, erudito nelle lettere non solo profane ma anche ecclesiastiche come pochi altri»; Procopio narra che «di altro non si curava se non di assicurare a se stesso una vita tranquilla, circondandosi di quante piú ricchezze poteva (…) e
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pressione dei Goti avversi ad Amalasunta avrebbe convinto Teodato a far imprigionare la regina in un’isola del lago di Bolsena. Le fonti non concordano sui tempi di tali vicende, né sulle loro modalità. Si può solo affermare che la figlia di Teodorico fu vittima dello scontro di poteri interno al suo stesso popolo. In seguito Giustiniano riconobbe il regime di Teodato, che poté dirsi pienamente legittimato quando, forse il 30 aprile 535, Amalasunta fu uccisa nell’isola del lago da quei Goti parenti di coloro che lei stessa aveva ordinato di uccidere. La morte della regina fu il pretesto per l’intervento di Giustiniano nella Penisola e per tentare di ricomporre le innumerevoli fratture sul suolo italiano, ma ogni sforzo di riappacificazione fu vano se si pensa che proprio in quell’anno ebbe inizio la lunghissima e disastrosa guerra greco-gotica.
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storie amalasunta Amalasunta, sua cugina, si premurava di mandare a vuoto quelle sue bramosie, e perciò quello ce l’aveva sempre con lei ed era mal disposto». Egli era in effetti un avido raccoglitore di ricchezze al punto da ritagliarsi un’enorme proprietà terriera in Italia centro-settentrionale. Non vi sono molte prove materiali a oggi note, ma due testimonianze epigrafiche meritano d’essere citate al riguardo: una fistula aquaria (conduttura per la acque) rinvenuta all’inizio del XX secolo a Roccalvecce, un castello posto tra Bagnorgio e Viterbo, che reca l’iscrizione GLORIOSISSIMUS REX THEODAHADUS; e alcuni frammenti di un’epigrafe in marmo, trovati durante i lavori nella vecchia casa padronale dell’isola Martana, pertinenti ad un’iscrizione sepolcrale in cui sembra leggersi parte di un nome proprio di origine gotica ([…]BIERCO). È molto probabile, dunque, che il sovrano goto abbia promosso varie attività edilizie all’interno dei suoi possedimenti, ivi compresa l’isola del lago di Bolsena. E sembra che, nell’ambito delle intricatissime
vicende politiche di quegli anni, a un certo punto della sua vita, egli abbia persino meditato di donare tutti i suoi beni all’imperatore di Bisanzio in cambio di una dignità senatoriale. Ma non fece in tempo a ottenere nulla di ciò che desiderava, giacché, appena un anno dopo aver fatto uccidere la cugina, morí sgozzato mentre fuggiva da Roma verso Ravenna.
Chiese e peschiere
Papa Pasquale I fu priore, prima di salire al soglio pontificio, del monastero di S. Stefano dell’isola Martana. Alla sua morte, nell’824, sappiamo da una bolla di papa Leone IX del 1053 che nell’isola c’erano due chiese: S. Stefano e S. Valentino, circondate da abitazioni per i monaci e peschiere per l’allevamento dei pesci. Già dall’anno 741 sull’isola erano giunte le reliquie di santa Maria Maddalena, per merito di Gherardo, conte di Borgogna, che le portò via dalla Provenza per salvarle dalle incursioni saracene. Nel 1462 papa Pio II Piccolomini (vedi box alle pp. 34-36) racconta che, durante una
Nella pagina accanto, in alto isola Martana. I resti della torre del monastero di S. Stefano. Nella pagina accanto, in basso incisione raffigurante Martino IV (1281-1285), papa che Dante colloca nel girone dei golosi, per essere stato un grande estimatore delle anguille del lago di Bolsena.
sua gita sull’isola, poté venerare e baciare le sacre reliquie della santa «scoperte recentemente non senza fama di miracolo» nella chiesa posta sull’altura. Alla metà dell’XI secolo sembra che la popolazione dell’isola fosse cresciuta fino a raggiungere l’entità di una piccola comunità e al punto da divenire, di lí a poco, un libero Comune. Ne esiste ancora uno splendido sigillo, databile al XIV secolo, oggi conservato a Firenze nel Museo del Bargello: vi sono effigiati santo Stefano accanto a santa Maria Maddalena, inginocchiata su uno scoglio al di sotto di un’edicola, e in basso un grande pesce (forse un luccio). E probabilmente proprio per pregare davanti alle preziose reliquie della Maddalena il re d’Irlanda Donnchad Mac
l’isola e il castello di teodato
Quasi un Eden in mezzo al lago In un manoscritto del XII secolo conservato nella Bodleian Library di Oxford, subito dopo una copia delle Elegie di Massimiano, si trovano varie poesie in latino, alcune delle quali narrano di una fortezza fatta erigere sull’isola Martana, intorno al 534, dal re ostrogoto Teodato, il sovrano presso il quale con ogni probabilità viveva l’autore stesso dei carmi. Eccone alcuni brani: «Qui non c’è bisogno di usare le armi per difendersi: le armi cedono di fronte ad un tale luogo, al posto dei soldati le rupi stesse combattono. Gli scogli fortificati con torri, le fortificazioni appoggiate alla mole dei muri, le onde minacciose, le ripe scoscese da ogni parte, i sentieri che, quando ci si cammina, sembrano quasi prossimi a precipitare nel lago data la rovinosa pendenza, vi assicurano una vita tranquilla e senza pericoli. Tutto è stato opera del solerte Teodato, che perlustrando questi lidi aveva osservato questo scoglio dall’arido suolo e dagli scoscesi dirupi.
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Aveva detto: sei una terra aspra che non produci alcun germe di vita. Meglio cosí! Sei proprio adatta ad accogliere depositi di viveri e a nascondere i miei tesori! Sopra gli scogli sorsero allora le mura, quasi una decorazione di quell’altezza che, mentre prima incuteva timore, assunse ora uno spettacolo di grande decoro. Vi incominciarono a crescere svariati alberi da frutto e vi vennero custoditi ostaggi preziosi: da terra avara, in poco tempo divenne una terra promessa. Da cosa tanto vile, si trasformò in luogo di tanto valore, anche perché dava salvezza, rifugio e vita gradita a quanti vi si rifugiarono. Solo Teodato fu capace di costruire dei locali cosí splendidi e di cosí varia bellezza, da unire l’amenità della campagna ai luoghi della città. Vi si possono ammirare, infatti, al di là dei tetti, le selve e le acque, e si può godere contemporaneamente di tutti i conforti della vita cittadina» (traduzione di Alfredo Tarquini). gennaio
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Le anguille
Il papa goloso Già in età antica si parla della pesca nel lago di Bolsena: intorno al II secolo d.C. i Romani tentarono un esperimento di piscicoltura qui e nelle acque di Bracciano e Vico, dove furono introdotti il luccio e i pesci «dorati», provenienti da acque marine. Ma il «prodotto» piú celebre delle acque bolsenesi è l’anguilla. Tutto il bacino lacustre ne è popolato, ma i pescatori erano soliti catturarle soprattutto nel «lago di Marta», quando, nel tentativo di giungere al mare, le anguille entravano nell’unico emissario del lago, il fiume Marta. Fu cosí costruita una «cannara» sul fiume, protetta da una torre, cioè una struttura che permetteva all’acqua il regolare suo corso, ma intrappolava le anguille mediante grate di ferro, prima forse costituite da canne intrecciate (di qui il nome «cannara»). Lungo il letto dello stesso fiume alcune vasche contenevano le anguille vive per mesi e ne facilitavano la cattura. La custodia della cannara di Marta era considerata cosí importante che, nel 1370, il papa ne affida la cura al vescovo di Montefiascone.
Scrive Dante a proposito di papa Martino IV nella Divina Commedia: «Ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia: / dal Torso fu, e purga per digiuno / le anguille di Bolsena e la vernaccia» (Purgatorio, canto XXIV). Eletto nel conclave di Viterbo del febbraio del 1281, questo papa francese è in effetti passato alla storia piú per la sua ossessione per la carne delle anguillle del lago che per particolari meriti nel governo della Chiesa. E due sono le probabili ricette impiegate dai cucinieri pontifici per preparare le anguille: la prima, ancora oggi in uso, prevede la cottura del pesce arrostito sulla brace e poi servito accompagnato con la vernaccia (cioè il vino vernacolo di Marta, forse la Cannaiola); oppure venivano cotte nel vino e poi condite con zafferano e altre spezie.
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storie amalasunta Isola Bisentina. La chiesa di S. Caterina (detta la Rocchina), commissionata ad Antonio da Sangallo il Giovane dal cardinale Alessandro Farnese.
dai commentari di pio ii
Briain soggiornò sulla Martana per qualche mese prima di proseguire il pellegrinaggio verso Roma, dove morirà nel 1064.
Dopo aver celebrato la festa del Corpus Domini a Viterbo (17 giugno 1462), papa Pio II Piccolomini, diretto verso nord, giunse sulle rive del lago di Bolsena. Si fermò per alcuni giorni nella rocca di Capodimonte con un piccolo seguito. Racconta il pontefice nei suoi Commentari, parlando di sé in terza persona: «Quando aveva tempo libero, fattosi portare per i boschi vicini ne aspirava le dolci brezze; esplorò le immediate vicinanze, spostandosi un po’ per terra un po’ sul lago». Con la curiosità e l’attenzione di un geografo e di un antropologo, Pio II annota la vita che lo circonda: «Sul lago ci sono due isole degne di menzione e sulle quali sorgevano un tempo numerosi edifici. Rimangono ancora i resti di antiche macerie. Si sa che le autorità del luogo se ne servirono come di prigione, sappiamo difatti che ci furono relegate la vergine Cristina e
Il culto di santa Cristina
L’isola è in qualche modo all’origine anche del culto ancora oggi piú importante di tutto il bacino lacustre. Verso la fine del III secolo, al tempo di Diocleziano, alcune fonti indicano la Martana come il luogo in cui santa Cristina sarebbe stata imprigionata dal padre Urbano all’interno di una torre-fortezza. Convertitasi alla nuova fede cristiana, la giovane fu sottoposta dal genitore, in quegli anni prefetto della città, a tormenti e minacce, affinché tornasse all’antica religione. In realtà non esistono prove storiche o archeologiche che possano sostenere tale ricostruzione, tuttavia il luogo del culto della santa nacque già in età paleocristiana accanto alla basilica di Bolsena
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La messa, il pranzo e infine la regata
Amalasunta, la nobilissima regina dei Goti, che fu poi uccisa a tradimento dalla mano empia dei suoi. L’isola piú grande è chiamata Bisentina dal borgo di Bisenzio di cui si vedono le rovine sul monte vicino. L’abitano i frati Minori i quali per il fatto che ritengono di osservare la loro regola, si chiamano Osservanti. E invero sono religiosi esemplari, ricchi nella loro povertà e astinenza, se non ingannano se stessi piú che gli altri (...). L’altra isola, che è la minore, è abitata dai frati di Sant’Agostino, chiamati gli Eremiti; anche di questa la parte in piano è coltivata a orto, l’altra è aspra e elevata su un alto scoglio, di difficile accesso. Vi sono due chiese antiche e venerabili, quella nel piano è piú grande ed è circondata dalle celle dei monaci e da novelle piantagioni di alberi e viti. Sulla cima dell’altura sorge l’altra, nella quale furono scoperte recentemente, non senza gennaio
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fama di miracolo, le ossa di Santa Maddalena che con le sue lacrime lavò i sacri piedi del Signore e li asciugò con i capelli per cui vi accorre una gran folla di fedeli (...). Il Pontefice, accostatosi all’isola, le navigò attorno. Assisté alla Santa Messa nella chiesa superiore, poi esaminò le sacre ossa che venerò e baciò. Vi avevano già cominciato a costruire le abitazioni dei monaci col valido aiuto del vescovo di Corneto, per il cui zelo erano stati introdotti appunto i religiosi; e l’isola che fino ad allora era rimasta deserta cominciava di nuovo ad essere abitata. Il Pontefice insieme a due cardinali fece colazione col vescovo... Il Pontefice avendo deciso di celebrare la nascita di San Giovanni precursore di Nostro Signore (24 giugno 1462), nella cappella dei Minori dell’isola Bisentina, ordinò che si annunciasse l’indulgenza plenaria a tutti i fedeli che vi avrebbero assistito. Gabriele Farnese, il signore del luogo, per un maggior afflusso di persone propose dei premi per coloro che avessero partecipato ad una regata. (...) Nell’ora stabilita fu celebrata la Santa Messa con devota pietà. Quindi fu imbandita sui prati, all’ombra dei pioppi, una colazione che i monaci avevano preparato con l’elemosina raccolta molti giorni prima dai borghi intorno. (...) Finito il pranzo si presentarono i capitani delle barche che intendevano partecipare alla corsa e i rematori, giovani robustissimi. Fra le tante furono scelte cinque barche. La prima era stata allestita dai Volsiniesi, vanagloriosi, boriosi, sicurissimi di avere la palma della vittoria, la seconda era dei Clarentani [di Valentano], la terza dei famigli del Cornetano [di Tarquinia], la quarta di coloro che abitano le grotte di San Lorenzo, la quinta dei Martani. (...) Il punto di partenza della corsa fu stabilito presso Capodimonte,
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Duomo di Siena, Libreria Piccolomini. Particolare di uno degli affreschi del Pinturicchio in cui compare papa Pio II (al secolo Enea Silvio Piccolomini). Primo decennio del XVI sec.
la mèta era il porto dell’isola e qui disposero i premi da distribuire ai vincitori: otto braccia di ottimo panno scarlatto fiorentino per il vincitore e altri oggetti per quelli che sarebbero arrivati subito dopo. Le barche (non piú grandi di un canotto) ebbero, secondo l’accordo avvenuto, ciascuno quattro rematori e un pilota. Quando giunsero alla riva di Capodimonte tirarono a sorte il posto da dove avrebbero preso l’abbrivio come i cavalli dalle barre (...). (segue a p. 36)
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storie amalasunta Appena la tromba dà il segnale, di colpo balzano fuori dai loro limiti e un rauco suono riempie l’aria, spumeggia l’onda agitata dalla spinta delle braccia vigorose, fendono l’acqua in solchi paralleli e lacerate dai remi e dai rostri si aprono le onde del lago. Una flottiglia di barche li segue da vicino piene di spettatori, tifosi che con urla o applausi incitano questi o quelli, riempiendo i luoghi dei loro strepiti. Risuonano le selve dei monti vicini, i litorali si rimandano le voci e riecheggiano i colli. Prima, da quella calca confusa e schiamazzante, fugge la barca di Bolsena e sorpassa le altre di tutta la sua lunghezza, da presso la seguono la Cornetana e la Martana, a poca distanza le altre due. Sebbene il Pontefice si trovasse lontano dal porto in un luogo appartato a parlare di questioni di Stato con i cardinali, tuttavia guardò la gara delle barche e la corsa non senza diletto e sollievo dell’animo. I Martani raggiunsero il porto molto prima degli altri e ottennero il premio
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del vincitore, il secondo premio toccò ai Clarentani, i Volsiniesi rimasero gli ultimi e temendo le invettive di Guicciardo e il generale vituperio, deviarono dal porto; i Grottani divisero con loro lo smacco; i Cornetani se ne stettero in mezzo sospesi fra la gloria e l’ignominia. Terminata la gara tutti partirono, sebbene sorgesse un gran vento che sconvolse la superficie del lago e portò una non piccola tempesta». Uno scorcio di Bolsena (Viterbo), centro principale sul lago omonimo. In secondo piano si riconosce la Rocca Monaldeschi della Cervara.
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che ne porta ancora il nome, nonostante il corpo di Cristina fosse probabilmente rimasto nascosto proprio sull’isola Martana, al riparo dalle prime incursioni di Goti e Longobardi fino al 1084, quando la contessa Matilde di Canossa e papa Gregorio VII lo trasferirono di nuovo nell’antica chiesa bolsenese. È in ogni caso interessante rilevare che piú d’una fonte medievale definisce il lago «di Santa Cristina». Certa è, d’altronde, la frequentazione della Martana in età romana: ne sono prova frammenti di colonne e conci modanati in pietra lavica riutilizzati nelle murature medievali e moderne.
L’altare portatile
All’indomani del Mille, l’isola sembra essere fonte inesauribile di scoperte meravigliose: secondo le cronache viterbesi, nel 1095, le milizie di Viterbo dopo averla conquistata, trovarono al suo interno un altare portatile che un antico cronista dice essere stato trasferito dai Goti dalla città di Ravenna. I Viterbesi erano soliti portarlo in guerra sul loro carroccio (il carro trainato da buoi che soprattutto in Italia settentrionale e in Toscana recava le insegne cittadine e intorno al quale combattevano le milizie dei Comuni). Narra un altro cronista, Niccolò della Tuccia, che «esso aveva in sé una virtú: in ogni loco dove lo portavano sempre erano vincitori delle guerre e sottomisero assai castelli d’intorno», ed era pertanto tenuto come una delle sei nobiltà di Viterbo (le altre erano: la propria libertà comunale, una giovane di straordinaria avvenenza di nome Galiana, una donna di nome Anna dai capelli rossi e verdi, un cavallo famoso in tutta Italia per la sua bellezza, uno scolaro di nome Frisigello che faceva operazioni e giochi meravigliosi). L’altare fu poi donato dai Viterbesi a papa Innocenzo III (1161-1216), il quale, a sua volta, ne fece dono all’imperatore Enrico VI di Svevia, e sembra che da quel momento per Viterbo abbia avuto inizio una lunga serie di sconfitte.
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storie amalasunta Tradizioni leggendarie
Una carrozza d’oro per Amalasunta Ancora oggi esistono vive testimonianze della cultura popolare sulla figura di Amalasunta, la regina legata ai luoghi di Marta e, in particolare, all’isola Martana. Si narra, per esempio, che avesse fatto fare un calice da regalare alla Madonna del Monte di Marta, e che, durante la processione, fosse lei stessa Amalasunta
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a «buttare il fiore di maggio». Per prendere il calice, la regina mandò a Roma un pescatore, del quale si innamorò, e Tomao, regnante che viveva con lei, la fece uccidere «per gelosia», strangolata «dietro l’isola», mentre faceva il bagno. Infatti, nei giorni di prigionia, Amalasunta, cercando un
po’ di sollievo dalla calura estiva, era solita percorrere una galleria scavata nel tufo, che dalla sommità dell’altura scendeva fino alla costa verso Bolsena, per bagnarsi nelle acque del lago. Altre versioni della leggenda narrano che la regina fu rinchiusa in quel lungo canale sotterraneo, ancora oggi percorribile. Nelle leggende ricorrono anche un tesoro e una carrozza d’oro. Quest’ultima sarebbe stata deposta nella sepoltura di Amalasunta, che si troverebbe in uno dei sette colli di fronte all’isola: «Alcuni tombaroli – raccontavano alcuni pescatori fino a qualche anno fa – sono riusciti ad avvicinarsi alla tomba, ma hanno trovato trappole e serpenti che la difendevano». Forte, forse, di qualche fondamento storico, è la notizia riportata da Gaetano Moroni nel suo Dizionario di erudizione storicoecclesiastica: «La regina Amalasunta ritiratasi o piuttosto rilegata dal perfido sposo e cugino Teodato nell’isola Martana, vi portò una cassetta di ss. Reliquie, che alla violenta sua morte restò al monastero di monache da lei fabbricato, e contenente: una mascella e 5 denti di San Biagio, un pezzo d’osso del cranio di Santa Marta coperto d’argento, 3 denti di Santa
Maria Maddalena colla catena cui si legava e disciplinava, un sasso col quale fu lapidato Santo Stefano, un pezzo d’osso del cubito fino alla mano del braccio di San Giovanni Battista, e un dito della mano (…), e inoltre 3 carboni del fuoco col quale l’empio Giuliano l’Apostata fece bruciare il corpo del S. Precursore (…), le quali tutte trovate da’ Martani nell’isola religiosamente le portarono nella loro chiesa principale [la collegiata di Marta] ove le venerano». Replica di una testa femminile tradizionalmente identificata con Amalasunta (recentemente è prevalsa l’ipotesi che possa trattarsi di Ariadne, imperatrice bizantina moglie di Zenone e Anastasio I). VI sec. Roma, Museo della Civiltà Romana.
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Veduta di Marta, cittadina che sorge sulla sponda meridionale del lago di Bolsena.
Negli anni successivi l’isola appare contesa tra Viterbesi, Orvietani e alcuni signori del territorio alla ricerca di nuovi beni da annettere ai propri possedimenti. Nel 1254 uomini della Martana firmano un atto con il quale si mettevano sotto il protettorato di Viterbo; l’anno successivo l’isola fu occupata da Giacomo Nicola e Tancredi di Bisenzo (un importante insediamento fortificato sulle rive meridionali del lago); gli stessi signori fecero, nel 1259, atto di sottomissione a Orvieto. Ancora nel 1262 papa Urbano IV inviò i soldati a riprendere l’isola e sciolse gli abitanti dagli impegni presi con i signori di Bisenzo e con Orvieto. Nel 1296 Bonifacio VIII, in una bolla firmata il 4 settembre, riconobbe a Orvieto alcuni diritti sull’isola Martana e sull’isola Bisentina e l’obbligo che queste avevano di fornire armati al Comune orvietano. Nel 1323 sono annotate alcune spese per riparazioni fatte al castello dell’isola, ormai abbandonato dai benedettini, a carico della
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Camera Apostolica. Nel 1351 il rettore del Patrimonio fece fortificare l’isola Martana e l’isola Bisentina per salvarle delle mire di Giovanni di Vico (un rampante ghibellino, già prefetto di Roma) che aveva appena occupato Marta. Nel XV secolo l’isola passò ai Farnese, in piena ascesa economica e politica, padroni di Marta e Capodimonte, che nel 1537 la inglobarono nel ducato di Castro.
Verso l’abbandono
Tuttavia, i duchi di Castro preferirono come loro residenza abituale sul lago di Bolsena l’isola Bisentina e nel XVI secolo iniziò il declino della Martana, con il suo progressivo abbandono: nel 1511 gli Agostiniani lasciarono definitivamente il monastero di S. Maria Maddalena, e con loro alcuni famigli. La situazione dell’isola fu fotografata cosí, intorno al 1630, in una relazione commissionata dai Farnese a Benedetto Zucchi: «Quest’isola è dentro il lago, di rincontro a Marta, lontano poco piú di un miglio, dove è pari-
mente un convento di San Francesco di Paola con sempre 3 o 4 frati non solo di molta soddisfazione alla Terra, ma de’ forestieri che per barca vanno a vedere quest’isola nella quale vi è una vigna, un alboreto e frutti. Vi fanno l’orto e vi raccolgono legumi e altre robbe per il servizio del Convento loro. Inoltre la Camera Serenissima dà a detti Frati di elemosina per loro sostentamento ogni anno scudi 100. Vi hanno una barca per venire a terra. Alla loro porta vi è una pesca di lattarini che a suo tempo la vendono ai pescatori martani, e tengono ancora loro le reti per pescare da loro stessi, non mangiando quella Religione mai carne. Vi è nel basso fondato un Convento e la Chiesa sotto il titolo di Santa Maria Maddalena. Del resto, levati la vigna, l’alboreto e l’orto, dall’alto dell’isola è tutto scoglio». Qualche anno dopo, nel 1651, la chiesa di S. Stefano appare completamente diruta, mentre quella della Maddalena era divenuta la sede della parrocchia. In tutta l’isola Martana si contavano due sacerdoti e un oblato, i quali, poco dopo, se ne andranno per sempre. F
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immaginario l’oca Per molti è sinonimo di scarsa intelligenza, eppure l’oca non ha solo dato il nome a un celebre gioco. Animale simbolico fin dall’antichità, la ritroviamo accanto a grandi figure di santi, fino a scoprirne tracce inaspettate nel ciclo arturiano di Domenico Sebastiani
Ma non chiamatela «giuliva»!
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ncora oggi ampiamente presente sulle tavole dell’Europa occidentale, l’oca fu molto apprezzata già nel Medioevo. Se pecore e maiali erano i «principi» delle mense, largo era l’impiego di animali di bassa corte, cioè galline, oche e anatre. Dalla documentazione pervenuta sembra che la presenza di tali volatili fosse di proporzioni notevoli, sia nei possedimenti signorili, sia nei poderi contadini, ma, soprattutto, negli ambienti monastici. Se, infatti, andava tendenzialmente bandito il consumo di carne, alla fine prevalse la Regola benedettina con una scelta di compromesso: il divieto assoluto vigeva solo per la carne di quadrupedi ed era quindi implicitamente
ammesso il consumo di volatili, animali dalla carne bianca piú leggera e digeribile. Dell’oca non si buttava nulla, tanto da essere comparata al maiale per le svariate risorse e utilizzazioni. Un «maiale dei poveri», non bollato da divieti di carattere religioso o alimentare, e quindi ben accetto e utilizzabile da tutti, tanto da riscuotere una particolare fortuna nelle comunità ebraiche insediatesi in Italia. A nord dell’Appennino il sapore dei prosciutti, dei salami d’oca e del foie gras si contrapponeva a quello delle mortadelle e dei prosciutti di maiale: una sorta di cultura dell’oca in opposizione a quella del porco.
Un destino ingrato
Strano destino, quello dell’oca: nessun altro animale ha probabilmente subito un processo di degradazione simbolica tanto marcato. Si usa dire «oca giuliva» per additare donne belle, poco intelligenti e dedite alle chiacchiere, e l’oca viene presa come simbolo di animale stupido e dal piccolo cervello. Se della loquacità dell’animale, dovuta al suo continuo stridere, si lamentava già Plinio e, in epoca rinascimentale, Cesare Ripa, i moderni pregiudizi risultano alquanto impietosi nei confronti di questo palmipede saggio, forte, coraggioso e nobile, che, invece, godette di una sua sacralità presso le civiltà del mondo antico e dell’età di Mezzo, tanto in Oriente quanto in Occidente. Uccello che, insieme all’anatra, condivide in parte i significati simbolici del cigno – con il quale viene spesso confuso nel folclore –, l’oca è un volatile a metà strada tra il «selvatico e migratorio», che, nella specie a noi piú familiare, è animale «da cortile e d’allevamento». Mansueta solo in apparenza, l’oca è fiera combattente, non si fa intimorire dal pericolo, anzi è apprezzata fin dall’antichità per la sua funzione di allarme all’avvicinarsi di predatori e pericoli, posta perciò a difesa di abitazioni e di templi, ed è vista come emblema di vigile custodia. Nella Roma antica, all’animale si attribuivano proprietà profetiche, divinatorie e psicopompe; anche nelle culture nordiche l’oca metteva in comunicazione il mondo dei vivi con quello dei morti e, comunque, con una dimensione «altra». Qui accanto scultura raffigurante un fanciullo che strozza un’oca, dalla villa dei Quintili sulla via Appia. I-II sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto Ragazzo con oca, dipinto di Jacob Gerritsz Cuyp. 1650 circa. Tallinn (Estonia), Palazzo Kadriorg, Museo Estone d’Arte.
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immaginario l’oca Leggende zoologiche
Quel palmipede figlio di un albero e di una conchiglia... Durante il Medioevo si sviluppò la credenza circa l’esistenza di piante immaginarie, mostri vegetali stravaganti e ricchi di simbolismo, come l’agnello vegetale di Scizia, l’albero degli uomini e l’albero della morte. Tali piante si situavano in una posizione intermedia tra l’universo vegetale e quello animale. In questo quadro troviamo la curiosa leggenda relativa all’oca colombaccio (Branta bernicla), un’oca selvatica che dai paesi artici torna di solito a svernare lungo le coste della Gran Bretagna. Si riteneva che essa nascesse o si sviluppasse da alcuni crostacei che crescevano sugli alberi in riva al mare, detti bernache o bernacle. Il primo a parlare della leggenda delle «ocheanatre vegetali» fu Giraldus Cambrensis, nella Topographia Hiberniae (1187), seguito poi da Vincent de Beauvais (1190-1264) nello Speculum naturale. Giraldus racconta che esistevano uccelli simili ad anatre di palude, che venivano generati dai tronchi di abete gettati dal mare, e che, all’inizio, sembravano escrescenze su di essi. Successivamente si appendevano col becco, racchiusi in conchiglie per potersi sviluppare piú liberamente. Ricopertisi poi di uno strato di piume, essi cadevano in acqua o si alzavano a volare nell’aria. La leggenda colloca inizialmente le anatre vegetali in Irlanda per poi spostarle in altre regioni. Il caso di questi volatili «vegetali», non costituiti da carne,
diede vita a una vera disputa tra i prelati, che li mangiavano anche in periodo di magro, e coloro che si opponevano sostenendo che si trattasse comunque di carne. Alla fine, nel 1215, dovette intervenire addirittura papa Innocenzo III a porre fine a tale diatriba alimentare, proibendo la «carne vegetale» durante la Quaresima e nei giorni di astinenza. Nonostante eminenti pensatori fossero contrari all’esistenza di tali volatili, la leggenda non si spense, anzi fu addirittura papa Enea Silvio Piccolomini, Pio II (1405-1464), a darle maggior credito, assicurando l’esistenza di un albero che, cresciuto lungo un fiume, produceva frutti
Particolare di una tavola raffigurante alcune oche come frutti generati da un albero.
Come tutti gli animali considerati sacri dai popoli pagani, nel Medioevo l’oca è andata incontro a un duplice destino: da un lato è stata demonizzata, divenendo uno degli animali che accompagna le streghe al Sabba, dall’altra è stata accostata agli usi devozionali della cristianità. Durante la prima crociata e soprattutto nella zona renana, si diffuse la leggenda secondo la quale le oche marciavano insieme ai pellegrini, per indicare loro il cammino da seguire verso la Terra Santa.
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che avevano forma di anatre e che, maturando, cadevano in acqua e prendevano vita, nuotando sull’acqua per poi librarsi in aria. Pian piano la collocazione delle anatre vegetali si spostò geograficamente in Scozia, successivamente nelle Isole Orcadi. Solo verso la fine del XVIII secolo la questione fu chiarita dal punto di vista zoologico: l’anatra vegetale è una comunissima anatra irlandese, mentre la conchiglia nella quale sarebbe racchiuso l’embrione dell’anatra è un crostaceo. Questo è contenuto in una conchiglia bivalve, che si attacca con un peduncolo ai tronchi che vanno alla deriva e ha un ciuffo di appendici che possono ricordare le piume.
Anche nell’area norrena, per esempio, l’oca ha forti connotazioni simboliche. L’uccello, presente talvolta nelle saghe nel contesto di pratiche magiche finalizzate a togliere i malefici, ha valore profetico e si presenta con il suo verso quale annunciatore di eventi sconvolgenti, come nel caso della morte dell’eroe Siguròr. Il carattere sacro e misterioso dell’oca può essere desunto dall’accostamento dell’animale all’arte di forgiare i metalli e alla figura del fabbro. In un passo della gennaio
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Miracolo di San Cerbone, dipinto di Astolfo Petrazzi (1579-1665). Siena, Archivio di Stato. Secondo la tradizione, il santo, patrono di Massa
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Marittima, si recò da papa Virgilio accompagnato da uno stormo di oche selvatiche, che congedò una volta giunto al cospetto del pontefice.
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immaginario l’oca Thidhrekssaga, poema composto al tempo di re Haakon IV di Norvegia, viene descritto il processo attraverso cui il mitico fabbro della mitologia nordica, Wieland, realizza una spada per il suo re. Dopo una prima forgiatura, Wieland riduce la spada in fine limatura che, mescolata a della farina, fa mangiare ad alcuni uccelli domestici digiuni da tre giorni. Con gli escrementi degli uccelli, porta a fusione il ferro per depurarlo da ogni scoria, e con il metallo cosí ottenuto forgia una nuova spada. Wieland ripete piú volte la procedura descritta, fino a ottenere, dopo tre settimane, un vero gioiello. In questo caso il fabbro si serve di uccelli, probabilmente oche secondo Franco Cardini, al fine di ottenere una lega sempre migliore. Le feci delle oche, infatti, contengono buone quantità di carbonio e di ammoniaca, ottimi agenti nella cementazione dell’acciaio. Pertanto il demiurgo teneva le oche presso di sé per sfruttarne le proprietà degli escrementi. Lo storico, peraltro, si chiede se questo fosse il solo motivo o se ve ne fosse un altro piú celato e arcano. Il fabbro, infatti, è una figura ammantata di mistero e di divino, a metà strada tra il mago e lo sciamano, addirittura del musico, in quanto suole recitare carmina durante la sua lavorazione. Wieland, che vive relegato e sofferente di una mutilazione fisica, ha come compagni
la fucina, i metalli e, appunto, le oche. Forse tali volatili, dotati di valore profetico, potevano servirgli anche per la divinazione. Il legame tra l’oca e l’arte fucinatoria ne nasconderebbe quindi un altro, piú profondo, tra oche e profezia, sapienza iniziatica, poteri magici.
Al cospetto di papa Virgilio
Nell’agiografia cristiana, l’oca è avvicinata a varie figure di santi. In Italia, per esempio, troviamo san Cerbone di Populonia (544-575 circa), patrono di Massa Marittima, la cui iconografia lo vede spesso associato alle oche, che ne diventano uno degli attributi. La tradizione vuole che papa Virgilio lo convocasse a Roma, e che il santo si trovasse in difficoltà perché non aveva doni da presentare al pontefice. Alle porte dell’Urbe, apparve per miracolo uno stormo di oche selvatiche, che si aggregò alla comitiva e al quale Cerbone intimò di non allontanarsi fino a quando non fossero giunti al cospetto del papa. Il pontefice ne rimase impressionato. Cerbone, quindi, benedisse le oche e le congedò, dicendo loro che erano finalmente libere di andarsene. Associato al palmipede è anche Baudolino d’Alessandria – spesso rappresentato nelle vesti di vescovo circondato da oche, cervi e altri animali –, santo eremita che visse nella prima metà dell’VIII secolo sulle
Miniatura raffigurante Kevin di Glendalough. 1220 circa. Londra, British Library. Secondo una leggenda, il santo irlandese ringiovaní miracolosamente l’oca del re O’ Toole e ne ebbe in cambio le terre su cui fondò il proprio monastero. gennaio
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araldica
Emblema della contrada «nobile» Un esempio dell’oca quale simbolo araldico si riferisce allo stemma degli Obriachi, famiglia ghibellina di Firenze di cui ci parla Dante. Il poeta colloca nel canto XVII dell’Inferno un suo anonimo componente, forse Ciapo degli Obriachi, colpevole di usura con al collo una borsa con lo stemma di famiglia, un’oca bianca in campo rosso («Poi procedendo di mio sguardo il curro, / Vidine un’altra piú che sangue rossa, / Mostrare un’oca bianca piú che burro»). In Italia altri esempi sono dati dalla famiglia Lucconi di Ravenna, e dallo stemma araldico del Comune di Orvieto. Non va peraltro dimenticato il fatto che l’oca è uno degli animali totemici tra le contrade del Palio di Siena. Le prime notizie circa quella che poi sarebbe divenuta la «Nobile Contrada dell’Oca» risalgono agli inizi del XII secolo: si ricordano, infatti, numerose operazioni militari compiute dagli uomini di Fontebranda (quartiere di Siena che prende il nome dalle omonime fonti) nella battaglia
di Montemaggio (1145) e in quella di Montaperti (1260). La tradizione vorrebbe che tali truppe, che si riunivano nella chiesa di S. Antonio Abate, sventolassero un’insegna recante un’oca bianca in campo verde, forse scelta in ricordo del celebre episodio del Campidoglio. In ragione del valore riconosciuto ai soldati in tali battaglie, oltre che nella guerra di Siena (1552-1555), la Civica Magistratura della città toscana Siena, nel 1846, conferí alla futura contrada dell’Oca il titolo di «Nobile».
In alto lo stemma della Nobile Contrada dell’Oca di Siena, che ricorda la bandiera delle truppe distintesi nelle battaglie di Montemaggio e Montaperti.
A destra lo stemma del Comune di Orvieto, con una delle partizioni occupata da un’oca su fondo rosso.
sponde del Tanaro, nei pressi del luogo in cui, nel 1168, sorse Alessandria. La sua fama di santità e di taumaturgo attirò le popolazioni della zona, ma un giorno alcuni cittadini, rimproverati da Baudolino per la loro cattiva condotta, decisero di vendicarsi accusandolo falsamente presso il vescovo di Acqui: questi, preoccupato, convocò l’eremita al suo cospetto affinché si giustificasse. Durante il tragitto, Baudolino si rese protagonista di un evento prodigioso: fermatosi per riposare, apprese dagli abitanti della zona che le oche selvatiche infestavano i campi, rovinando i raccolti. Il santo, allora, intimò loro di allontanarsi ed esse gli obbedirono.
Il miracolo di san Kevin
Appartiene invece all’Irlanda un altro famoso santo che ebbe a che fare con l’oca: si tratta di Kevin di Glendalough, vissuto nel VI secolo e protagonista di una vicenda assieme a un re affezionatissimo al proprio animale. La storia, dal titolo Il Re O’ Toole e la sua oca, fu raccolta nei primi decenni del XIX secolo da Samuel Lover, anche se si tratta di un racconto che è rimasto praticamente invariato fin dal Medioevo. La trama è la seguente: re
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O’Toole, proprietario di un’oca ammaestrata, si intristisce mortalmente quando l’uccello, invecchiando, diviene incapace di volare. Gli si presenta allora san Kevin, che, in incognito, si offre di ringiovanire l’oca, a patto che il re gli conceda tutta la terra su cui l’oca volerà dopo essere ritornata «come nuova». Il re accetta e il santo compie il miracolo, risanando l’animale e ottenendo in cambio il territorio nel quale fonderà il suo monastero.
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immaginario l’oca Parsifal (Perceval) si congeda dalla madre, affresco della Sala dei Cantori nel castello di Neuschwanstein (Baviera), in omaggio al compositore Richard Wagner. 1880 circa. Nel cortile si vede un’oca schiamazzante, quasi un preludio dell’episodio che, nella Storia del Graal, vede protagonisti il giovane cavaliere e un’oca selvatica.
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Il santo che per eccellenza è associato all’oca è però darsene, ma esse si rifiutano, lamentando l’assenza di Martino di Tours (316 o 317-397), uno dei piú vene- una compagna. Scoperto ciò che è accaduto e compresa rati nell’Alto Medioevo. Grande evangelizzatore della la causa dell’infelicità dei volatili, il santo resuscita l’oca Gallia, dove a lungo si battè per cercare di estirpare le rubata a partire dalle ossa e dalle piume. A questo punantiche usanze pagane, incarna il difficile passaggio dei to i palmipedi ripartono, spesso dopo aver ricevuto dal pagani, appena convertiti, verso la nuova fede religiosa santo il comando di non tornare piú ai suoi orti. cristiana, un processo che richiese la «cristianizzazione» Il topos della resurrezione degli animali a partire daldi antichi rituali. Per questo, probabilmente, assieme al le ossa e dalle pelli non è nuovo, ma risulta attestato fatto che la sua festa è ricordata nel calendario cristiano in varie parti d’Europa. Si può pensare, come illustri l’11 di novembre, a ridosso dell’antico Samhain (festa precedenti, al caso di Thor che, nell’Edda, risuscita un di capodanno nel calendario celtico, n.d.r.), Martino ri- capro, oppure a quello di san Germano, vescovo di Ausultò cosí popolare tra le popolazioni gallo-germaniche. xerre nel V secolo, che miracolosamente riporta in vita Martino è famoso nell’Occidente cristiano per l’episo- un vitello appena mangiato. Il motivo si ritrova anche dio del «mantello», ma il suo forte legame con la cultu- nelle confessioni di molte donne accusate di stregonera celtica riappare anche nell’associazione con l’oca; un ria, le quali raccontano di animali mangiati e poi resucollegamento rintracciabile ancora oggi nei scitati durante il sabba. Tornando al caso delle oche, si proverbi popolari delle regioni dell’Italia può pensare che le varianti specifiche tra i vari racconsettentrionale, che invitano, nel giorno ti siano dovute a uno scambio tra materiale scritto e della sua festa, a banchettare a base di vinarrazione orale; d’altra parte la presenza del motivo no, castagne e, appunto, oche. della resurrezione a partire dalle ossa, diffuso in Sulpicio Severo, suo biografo ufficiale, ractradizioni molte diverse e lontane tra loro e conta che quando il santo, desiderato quale scandagliato da diversi autori, fa presuvescovo dalla gente di Tours, si nascondeva nel mere l’estrema arcaicità dello stesso. Se suo eremitaggio, timoroso per la futura carica, Carlo Ginzburg lo aveva a suo tempo riun fedele di nome Rusticio lo attirò in città con collegato ai riti venatori siberiani, studiosi un tranello, chiedendogli di risanare la come Paolo Galloni lo riconducono alle moglie malata, grazie alle sue capacità Un’oca svelò agli credenze dei cacciatori del Paleolitico. taumaturgiche. Prontamente accorso, abitanti di Tours Tre gocce di sangue Martino fu acclamato dalla folla e proil nascondiglio Affascinanti presenze dell’oca si ritroclamato a gran voce vescovo della città. nel ciclo arturiano e graalico. Il Della leggenda esiste però una versione in cui si celava vano volatile è al centro di una delle immaalternativa: Martino teneva nel suo roMartino, il loro gini piú poetiche e discusse del Percemitorio un’oca, ma la sua compagna lo di Chrétien de Troyes. Ne La storia tradí con le sue strida nel momento in futuro vescovo val del Graal si legge infatti che l’omonimo cui gli abitanti di Tours andarono a cerprotagonista, si alzò presto dopo una carlo per elevarlo alla cattedra vescovile ed egli si appartava. Come le oche capitoline dell’antica nevicata notturna e si diresse verso la prateria, gelata e coperta di neve, dove il re si era accampato con i suoi. Roma avevano messo all’erta gli abitanti in occasione dell’assedio dei barbari, cosí un’oca – o alcune oche, in «E prima che giungesse alle tende, volò nel cielo uno altre versioni – indicò alla popolazione il nascondiglio stormo di oche selvatiche che la neve aveva abbacinato, le ha viste, le ha sentite che se ne volavano via del futuro grande evangelizzatore delle Gallie. fuggendo da un falco che, stridendo, le inseguiva cosí Un canovaccio ricorrente velocemente da raggiungerne una rimasta indietro, Un motivo agiografico di particolare interesse, come è separata dalle altre; l’ha ferita e colpita tanto che l’ha stato ampiamente descritto da Dominic Alexander, è abbattuta al suolo. Ma fu troppo lento, e se ne andò, la resurrezione delle oche. Esso si ritrova in sei diver- non volle raggiungerla né finirla». se Vitae di santi occidentali, in particolare in quelle di Perceval sprona il cavallo per raggiungere il luogo Waldberto di Luxeuil, Wereburga di Chester, Pharail- e trova l’oca selvatica ferita al collo: la bestia sanguina de di Gent, Amelberga di Tamise, Opportuna di Sées, e tre gocce si spargono sul bianco della neve. Benché Vigore di Bayeux, redatte tra il X e il XII secolo. I santi ferito, l’animale riesce però ad allontanarsi. Il colore in questione, con alcune varianti da caso a caso, ripor- del sangue, misto al candore della neve, ricordano al tano in vita i volatili che, all’inizio della storia, stavano protagonista il viso dell’amata Biancofiore. L’episodio rovinando i loro orti. Il canovaccio, infatti, contempla del ferimento dell’oca, in cui l’animale ghermito suscita che il santo o la santa ordini a un servo di condurre le un’estasi amorosa, è stato interpretato nei modi piú dioche dentro un recinto; questi, però, dopo aver eseguito versi. Secondo alcuni egli sarebbe in uno stato di «trance l’ordine, ne cattura una e la mangia. Il giorno seguente d’amore», dal quale sembra non risvegliarsi. In questa il santo si reca dalle oche per dar loro il permesso di an- condizione molti cavalieri sono indotti a sfidarlo. Perce-
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Nella pagina accanto Il Diletevole Gioco di Loca, xilografia colorata a mano, stampata a Venezia da Carlo
Coriolani. 1640 circa. Milano, Castello Sforzesco, Civica Raccolta delle Stampe «A. Bertarelli».
Il gioco dell’oca
A colpi di dado nel labirinto Il gioco dell’oca sembra riassumere i significati simbolici dell’oca. Incerta ne è l’origine, probabilmente molto antica. La maggior parte degli studiosi della materia, basandosi sulla testimonianza di Pietro Carrera ne Il giuoco de li scacchi (1617), sostengono che il gioco dell’oca abbia avuto origine in Italia. Questo perché tale autore cita il dono di un esemplare del gioco inviato, attorno al 1580, da Francesco dei Medici a Filippo II di Spagna. La prima testimonianza certa dell’esistenza e della pratica del gioco si ritrova nello Stationer’s Hall di Londra, dove esiste un’iscrizione, del 16 giugno 1597, che menziona appunto «The new and most pleasant game of the goose» («Il nuovo e molto dilettevole giuoco dell’oca»). Per quanto concerne il nostro Paese, attestazione certa del gioco è quella risalente al 1640, quando Carlo Coriolani incide a Venezia Il Dilettevole Gioco di
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Loca, riconosciuto come il piú antico tra quelli a noi pervenuti. Teorie suggestive vorrebbero ricollegare la denominazione alla particolare considerazione dell’animale presso i popoli dell’antichità, o alla sua valenza divinatoria o iniziatica nell’ambito delle tendenze astrologicocabalistico-divinatorie del Rinascimento. Probabilmente la ragione di tal nome è legata a connotazioni piú «materiali», ossia al valore d’uso e di scambio che l’oca ha storicamente avuto nella storia della civiltà culinaria, dato che essa rappresentava un ottimo premio per il vincitore del gioco. Diversi studiosi fanno notare che il tortuoso percorso del gioco ricorda le rappresentazioni «labirintiche», incise fin dalle epoche preistoriche nelle caverne, atte a rappresentare veri e propri percorsi iniziatici, nonché i medievali labirinti incisi o scolpiti nelle chiese e nelle cattedrali.
val li sconfiggerà in duello, ma quasi in una situazione di sovrappensiero, perduto nel suo sogno d’amore. Altri vedono nell’episodio la conferma dell’avvenuta maturazione, non solo cavalleresca ma cortese, del giovane cavaliere. Cardini ricorda invece come la caccia col falcone sia una metafora sessuale, e come il sanguinare dell’oca sia stato posto in rapporto con la perdita della verginità. Ancora diversa è la chiave di lettura che ne ha proposto il celtista Jean Markale (al secolo Jean Bertrand; 1928-2008), secondo il quale l’origine dell’episodio va rintracciata nell’archetipo, dato che una scena molto simile si ritrova nella versione gallese del Peredur e in un racconto irlandese di molto piú antico, La storia di Derdra (L’Histoire de Déirdré). In definitiva, secondo lo studioso, la scena apparterrebbe al patrimonio della letteratura amorosa celtica, da cui Chrétien avrebbe attinto adattandola con rara maestria ai suoi dettami di romanziere.
I due padri di Artú
Philippe Walter, studioso della letteratura arturiana e del ciclo del Graal, ha cercato di ricostruire in chiave mitologica l’origine di Artú. Secondo Walter le origini di Artú, a prescindere da una probabile figura storica vissuta tra il V e VI secolo d.C., sono puramente mitiche e, come per gli eroi, anche le sue modalità di concepimento e nascita devono fuoriuscire dai canoni della normalità. Le vicende sono piuttosto note: Uther Pendragon (il drago), innamoratosi di Ygerne (Ygraine), sposa del duca di Tintagel, grazie alle magie di Merlino assume le sembianze del duca, si introduce nella rocca di Tintagel e si unisce a Ygraine, concependo il futuro re. La paternità di Artú si realizza nell’ambiguità: egli ha due padri in uno, ossia Uther e il duca, a cui si aggiungono Merlino e il padre putativo Antor, al quale il bimbo sarà poi consegnato. Certa è invece la madre, Ygraine, che, nella parte del Perceval dedicata a Galvano, appare in compagnia di altre due figure femminili per formare una triade, schema questo molto frequente nella mitologia indoeuropea e celtica in particolare. Galvano, dopo una cerca nell’Oltretomba, ritrova tre «madri» che sono all’origine della sua famiglia: Ygraine, madre di Artú, nonché la madre e la sorella di Galvano stesso. Walter evidenzia la rilevanza mitologica della figura del Tarvos trigaranos (il toro con le tre grú), in cui i volatili sono un’epifania animale delle dee madri che, in quanto fate e creature dell’Altro Mondo, possono autotrasformarsi. In lingua gallica «gru» si dice garan e il termine è molto simile al greco Gerana, nome derivante da geranos, gru, e appartenente a una regina pigmea che la dea Era trasformò appunto in gru per punizione. Il collegamento tra garan, Gerana e il nome Ygerne appare evidente. Tra l’altro, nonostante i testi riportino diverse varianti del nome della madre di Artú (Igerne, Iguerne, Yverne, Iverme, Ygraine), è proprio il termine Ygraine a contenere il segreto mitico del personaggio: secondo lo studioso francese esso andrebbe
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immaginario l’oca L’allevamento delle oche, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Nel Medioevo l’oca divenne una sorta di «maiale dei poveri», perché veniva sfruttata in ogni sua parte.
ricondotto all’antico irlandese gigren (o giugrann), che significa «oca». Pertanto Ygraine risulterebbe una «fatauccello», una «dama-oca», epifania animale della donna creatrice, ossia della Grande Madre. Probabilmente, nel caso di specie, un’oca selvatica che, insieme alle gru e alle cicogne, appartiene agli uccelli migratori che arrivano a nidificare nelle Isole Britanniche.
Un’eredità della preistoria?
Se la madre di Artú è mitologicamente un’oca, Uther, mascherato da duca di Tintagel, si unisce a «Ygraineoca» per concepire il futuro «Artú-orso». La teoria di Ygraine quale «fata-oca», non priva di una sua suggestione, potrebbe apparire in un primo momento alquanto fantasiosa. Alla luce di recenti studi condotti da Francesco Benozzo sull’iconomastica ferica, ossia sui nomi delle fate nei vari dialetti europei, sembrerebbero emergere collegamenti con concezioni risalenti a periodi molto piú arcaici del Medioevo, in particolare a un’epoca paleo-mesolitica. Ci si muoverebbe in un contesto totemico, in cui gli animali cacciati e mangiati vengono «assunti a capostipiti ed eroi demiurghi delle comunità selvagge del Paleolitico». Gli iconici animali piú ricorrenti sono quelli dell’anatra, della renna e del cervo. Ne risulta, ai nostri fini, l’evidenza del collegamento tra una possibile genesi della «fata-anatra», cosí come illustrata da Benozzo, e una «fata-oca», nel senso narrato in precedenza da Walter in relazione a Ygraine, madre di Artú. A ben vedere, il carattere fatato e oltremondano di «donne-oche», o comunque di creature femminili «magiche» che abbiano una qualche connessione con l’oca, può essere desunto seguendo un percorso diverso, che attiene all’analisi dei «piedi» o, in senso lato, di difetti deambulatori. Ancora Carlo Ginzburg, nel saggio Storia notturna, ha analizzato minuziosamente una serie di figure mitologiche o religiose caratterizzate dall’andatura malferma, dal «monosandalismo» o da malformazioni articolari. Ginzburg afferma che «chi va o torna dall’altro mondo – animale, uomo, o un miscuglio di entrambi – è contrassegnato da un’asimmetria deambulatoria». Tali figure risultano presenti anche nelle leggende e nei miti medievali, nonché nel folklore europeo in generale, con particolare riferimento ad alcuni personaggi legati al Ciclo dei Dodici Giorni. Si suole osservare che diverse creature con caratteri zoomorfi che si muovono tra il mondo terreno e l’Altro Mondo, con una frequenza di certo «sospetta» presentano piedi o zampe palmate. È il caso della mitica regina Pedauque, dalla zampa d’oca. Ma
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anche nel racconto di Berta dal gran piè (Berte aus grans piés), che leggende medievali vogliono sposa di Pipino re dei Franchi e madre di Carlo Magno, troviamo che nell’impianto della «sposa sostituita» si innesta un motivo melusiniano: in molte versioni della storia la protagonista non presenta solo un piede o entrambi i piedi enormi o deformi, ma vere zampe d’oca.
Piedi palmati e scarpe rotte
Tale anomalia si riscontra in molti racconti folclorici europei riguardanti fate: la presenza di un piede palmato rende evidente la natura ferica e non strettamente umana delle fanciulle, assimilabili alle donne-cigno. La figura di Berta, nella tradizione germanica è stata accostata a Perchta, condottiera delle Dodici Notti. In alcune regioni della Francia anche Tante Arie (Harié), vecchia che si presenta nel periodo natalizio a cavallo di un asino per dispensare doni o punizioni ai bimbi, spesso possiede piedi palmati. Tutte figure assimilabili, per certi versi, alla nostra Befana che, guarda caso, possiede «scarpe tutte rotte». Si narrava che anche le streghe avessero al posto di un piede uno zoccolo, con una cavità interna per nascondere i loro strani filtri, e la stessa baba jaga russa, altra figura simile alla Befana, presenta una gamba costituita da un osso. Tutti questi personaggi, dispensatori di fortuna o ricchezza, provengono indubbiamente da un «Mondo-Altro»: sono incarnazione degli antenati e appartengono al mondo dei morti. Il che ci riconduce al concetto originario da cui siamo partiti: Oca quale simbolo allo stesso tempo di Grande Madre, ma anche animale arcano e oltremondano, «segno» attraverso il quale si materializzano donne fatate, il cui confine con le streghe è alquanto labile. Se i ruoli sono in parte interscambiabili e se, all’interno di un processo progressivamente degradatorio, il Diavolo stesso, in alcune raffigurazioni medievali, presenta il piede di un’oca, non ci si può meravigliare del fatto che le oche in un primo momento marcino assieme ai pellegrini in direzione della Terra Santa e, pochi decenni piú tardi, siano raffigurate nell’iconografia dell’epoca come compagne delle streghe che si recano al sabba. F
Da leggere U Franco Cardini, L’oca, Abstracta, n.16 (giugno 1987) U Philippe Walter, Artú. L’orso e il re, Arkeios, Roma 2005 U Dominic Alexander, Saints and Animals in the Middle
Ages, Boydell Press, Wodbridge 2008 U Paolo Galloni, Le ombre della Preistoria. Metamorfosi
storiche dei signori degli animali, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2007 U Sonia Barillari (a cura di), Fate. Madri, amanti, streghe, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2013 U Roberto Gardelli, La danza dell’anima, Dal labirinto al gioco dell’oca, in «Charta», Anno 7, n. 36, settembre-ottobre 1998.
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saper vedere duomo di modena
Lo splendore di Modena
di Furio Cappelli
Nel 1099 la città emiliana dà avvio alla fabbrica di un nuovo, grande duomo. L’impresa viene affidata all’architetto Lanfranco, che firma una delle espressioni piú felici dello stile romanico. Una chiesa «candida» e pressoché perfetta, le cui forme magnifiche vengono anche sfruttate come veicolo per la trasmissione degli insegnamenti di fede e rettitudine rivolti all’indirizzo dei fedeli
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l monaco cluniacense Rodolfo il Glabro (985 circa-1050 circa), nelle sue Cronache dell’anno Mille, attesta che, valicata la fatidica soglia del secondo millennio, la cristianità poté rinsaldare la santa alleanza con il Creatore. A sancire il nuovo patto, per disposizione della divina provvidenza, reliquie di santi riemersero per incanto in ogni dove. Anche per rendere tutti gli onori dovuti a quelle sacre spoglie, fu ben presto neces-
sario riedificare o costruire ex novo una miriade di chiese. Episcopati e monasteri si lanciarono in una vera e propria gara per realizzare edifici sacri sempre piú ampi e sontuosi. Come recita un brano famosissimo di quelle Cronache, «Pareva che la terra stessa, come scrollandosi e liberandosi della vecchiaia, si rivestisse tutta di una veste candida di chiese». L’espressione «veste candida» ha dato luogo all’immagine delle «bianche» basiliche di nuda pietra che vennero cosí a costellare l’Europa cristiana. Un’immagine a cui venne ricollegato lo stesso duomo di Modena, nel sottotitolo di una mostra che gli fu dedicata nel 1984: «Quando le cattedrali erano bianche». Il rivestimento di pietra che distingue l’esterno di quella chiesa da tanti episodi del romanico emiliano era già esaltato dalle fonti storiche locali, e suggeriva un facile aggancio alla bella metafora del Glabro.
Modena. Veduta del duomo, intitolato a S. Maria Assunta e S. Geminiano. La costruzione della chiesa, capolavoro dell’architettura romanica, fu iniziata nel 1099 sotto la guida dell’architetto Lanfranco.
saper vedere duomo di modena Ma, a ben vedere, il monaco di Cluny non si riferiva all’effettiva veste degli edifici, bensí al loro significato. Come evidenzia lo storico Georges Duby, la «veste candida» si ricollega infatti agli antichi riti battesimali. Come il neofita rinasce in Cristo nel momento in cui riceve la veste candida da parte dell’officiante, cosí l’Europa cristiana si riveste di un abito nuovo e puro, rendendo piú belle e piú grandi le proprie sedi di culto.
Doppia intitolazione
Visto nell’ottica di Rodolfo il Glabro, il duomo di Modena rientra perfettamente nel contesto europeo da lui evocato, piú di ogni altra cattedrale del romanico italiano. È il caso esemplare di un edificio di grande costo e di elevata ambizione, chiamato a sostituire una chiesa di lunga storia, ma ancora del tutto agibile, per giunta fresca di impegnativi restauri. Intitolato, di fianco a S. Maria Assunta, al patrono locale, il protovescovo san Geminiano, il duomo è anche il santuario che ne custodisce le reliquie. La ricognizione delle ossa, compiuta durante i lavori di ricostruzione, appura che il sacro corpo si è mantenuto miracolosamente integro. Non appena il coperchio del sarcofago viene sollevato, si diffonde nell’aria un profumo soave, segno che la nuova chiesa rientra nei disegni della provvidenza. La cittadinanza si imbarca in questa impresa nel 1099. È l’anno della presa di Gerusalemme, a degna conclusione del secolo dell’Anno Mille: il secolo in cui prendono avvio la nuova abbaziale di Cluny (Cluny III) e la nuova cattedralesantuario di Santiago de Compostela. Queste e le numerose altre chiese basilicali d’oltralpe, erano destinate a ospitare moltitudini di pellegrini; la loro vasta struttura era concepita per far fronte alla massa dei fedeli, e tutti costoro erano guidati verso la retta via da corredi scultorei assai articolati, posti a celebrare e a narrare il trionfo della (segue a p. 58)
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In alto pianta settecentesca della città di Modena. Milano, Castello Sforzesco, Civiche raccolte d’Arte Applicata e Incisioni. Nella mappa, indicati dalla cornice, si riconoscono al centro il duomo e la torre campanaria. Nella pagina accanto la facciata del duomo, con il grande rosone realizzato dai maestri campionesi nei primi decenni del XIII sec. in sostituzione di una finestra affiancata da loggette trifore. A destra la torre campanaria, detta Ghirlandina, per via delle balaustre di marmo che, come ghirlande, avvolgono la guglia ottagonale.
All’apertura del sarcofago di Geminiano, si diffuse nell’aria un profumo soave MEDIOEVO
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saper vedere duomo di modena l’autore e la data A sinistra la lastra della facciata raffigurante il patriarca Enoch (a sinistra) e il profeta Elia che sorreggono una lapide con la data di fondazione della cattedrale e la lode allo scultore Wiligelmo. In basso, sulle due pagine assonometria del duomo di Modena. In basso, a sinistra il Portale Maggiore, dotato di protiro a due piani, piedritti, architrave e archivolto riccamente scolpiti da Wiligelmo.
Il monumento in sintesi
Un forte segnale di autonomia e rinnovamento 3 Perché è importante Il duomo di Modena è una chiesa di grande valore comunitario, avviata dalla società laica cittadina in assenza dell’autorità vescovile. È il cuore e il nucleo identitario di una nuova città medievale, ed è un esemplare illustre della fioritura architettonica e figurativa del romanico europeo. 3 Il duomo di Modena nella storia Dopo le vicissitudini della lotta per le investiture, Modena può affermare la propria autonomia e la propria volontà di rinnovamento. Il duomo di Lanfranco e Wiligelmo determina un taglio netto con le vicende travagliate dell’episcopato di Eriberto,
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e pone la città alla stregua delle realtà piú agguerrite del Medioevo italiano. 3 Il duomo di Modena nell’arte L’opera figurativa di Wiligelmo è sapientemente orchestrata con senso di orgogliosa personalità, ma è anche in perfetta armonia con il concetto generale dell’architettura di Lanfranco. La solennità dell’apparato murario esterno, con il suo forte senso dell’antico, fa da contraltare alla potente rievocazione biblica delle lastre della Genesi, che compongono un fregio trionfale dedicato alla redenzione dell’umanità.
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In alto la Porta Regia, ingresso solenne del duomo, costruita dai Maestri Campionesi tra il 1209 e il 1231 con marmo rosso di Verona e marmo bianco, per creare un forte effetto cromatico. Presenta un ampio protiro sormontato da una loggia che racchiude un portale strombato con cordonature multiple a sezione alterna cilindrica e quadrata, secondo la tradizione lombarda. Ăˆ la porta piĂş riccamente decorata di tutta la struttura, ma la meno ricca di sculture.
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fede sul peccato. Simili edifici erano ben noti nei loro aspetti essenziali all’architetto Lanfranco, scovato dai Modenesi dopo pazienti ricerche, forse italiano forse no, di sicuro ben informato sui progressi che veniva conseguendo oltralpe quell’arte che definiamo romanica.
Sulla via Emilia
Il duomo di Modena è esaltato da un sistema di finte gallerie e di logge cieche che unifica interno ed esterno, nel segno di un’elegante solennità di radici tardo-antiche. In questo modo, vuole porsi alla stregua dei grandi edifici della cristianità, ed è motivato dalla sua felice collocazione in rapporto alle reti di collegamento viario. Con il suo fianco sinistro la nuova chiesa si allinea al tracciato della via Emilia, l’antica strada consolare che congiunge Piacenza a Rimini, facendo
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da raccordo agli itinerari della via Francigena (o Romea). I Modenesi erano in lizza con le illustri città del territorio padano, come Parma, che avviò la sua grandiosa cattedrale romanica negli stessi anni. Per imporsi degnamente di fronte a un tale edificio, che in lunghezza sopravanza il duomo di Modena di oltre 20 m, occorreva puntare sulla ricerca di soluzioni innovative. Lanfranco riuscí a creare una sontuosa articolazione esterna, che, con le sue grandi arcate sapientemente cesellate, univa la suggestione degli anfiteatri antichi alla vivace sensibilità plastica e cromatica del romanico europeo. Wiligelmo, con la solenne porta centrale e con il fregio istoriato della Genesi sulla facciata, fece ancor piú la differenza, e riaprí il cammino della scultura monumentale in Italia. (segue a p. 64) gennaio
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storie della genesi In questa pagina due dei quattro rilievi della Genesi, scolpiti da Wiligelmo. A sinistra la lastra che inizia con la scena del cieco Lamech, raffigurato col cappello a punta, che scocca una freccia uccidendo Caino, quindi prosegue con l’Arca di Noè, rappresentata come una chiesa romanica, e si chiude con l’abbandono dell’Arca stessa da parte di Noè e dei suoi figli alla fine del Diluvio. In basso la prima lastra, con Dio Padre in una mandorla sorretta da due angeli; la narrazione continua con la creazione di Adamo e la creazione di Eva, che sorge dal fianco dell’uomo addormentato, e si conclude con la scena del Peccato Originale.
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saper vedere duomo di modena la porta della pescheria
Artú di Britannia in terra emiliana La Porta della Pescheria (1110-20) del duomo di Modena si apre a nord, verso la via Emilia, e proprio a settentrione, secondo un’antica consuetudine, è ubicata la porta del pellegrino. Rivolta a tramontana, dove spirano i freddi venti e dove si estendono le oscurità del peccato, la porta settentrionale fa da specchio alle insidie e alle fatiche della vita terrena. Lungo gli stipiti, sui lati interni, il ciclo con le rappresentazioni dei mesi (il piú antico superstite della scultura romanica italiana) coglie perlopiú figure di contadini nelle pose tipiche della loro esistenza (l’uccisione del maiale, i rigori dell’inverno, i lavori dei campi, la vendemmia). La figura stante di Aprile e il cavaliere di Maggio alludono invece
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alla nobiltà: il ritorno del tempo mite è legato agli svaghi del mondo cortese, alla caccia e alla guerra. Sul fronte degli stipiti, due telamoni sostengono a fatica un tralcio che racchiude uomini e animali di regioni sperdute, oppure «vignette» ispirate a favole assai popolari all’epoca. La stessa commistione tra elementi favolistici e figure fantastiche si trova nelle formelle dell’architrave, di fianco all’elaborazione astratta di una croce fiorita. L’archivolto racconta una storia esemplare in cui viene tratta in salvo una donna prigioniera. Il suo nome è Winlogee, cosí come è indicato per lei e per gli altri dalle rispettive epigrafi. Si trova nella cerchia di un castello (ma potrebbe anche trattarsi di una città,
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Nella pagina accanto la Porta della Pescheria sul lato settentrionale del duomo, rivolta ai peccatori. L’intero portale è forse opera di un solo scultore, detto il Maestro d’Artú.
A destra due figure del ciclo dei Mesi, rappresentati da contadini colti in azioni tipiche delle stagioni. Marzo (MAR, in alto) che pota la vite e febbraio (FEB, in basso) che si scalda al fuoco.
come sostiene Chiara Frugoni). Dall’espressione accorata del suo volto e dalla sua posa a mani giunte si capisce che desidera essere portata via da lí. La cinta muraria si affaccia su uno specchio d’acqua, ed è rafforzata sui lati da due torri costruite a traliccio di legni, di differente grandezza. La torre maggiore, a destra, è quella meglio presidiata. Dalla porta esce Carrado, un cavaliere con la lancia in resta. Appena fuori dalle mura si affronta con un prode giunto insieme ad altri per liberare la dama. Il suo nome è Galvaginus, e riesce a mettere fuori gioco Carrado, dal momento che la propria lancia ha trafitto lo scudo dell’avversario. Due compagni dell’eroe, Galvariun e Che, assistono tranquilli al duello, sicuri del fatto che si risolverà a suo favore (la lancia di Galvaginus, si può supporre, ha poteri magici). Tengono infatti la lancia sulla spalla, in posizione di riposo, e non si apprestano quindi a combattere. Nel mentre, all’interno delle mura, il «cattivo» Mardoc, situato nei pressi della torre maggiore, manovra il ponte levatoio (afferra una leva, infatti), per evitare che il nemico penetri le difese, ma è tutto inutile. Rivolge atterrito lo sguardo dalla parte opposta. Il nemico sta entrando dalla torre minore. Winlogee è rivolta proprio verso quel lato. Ha riconosciuto il suo sposo, che corre a salvarla insieme ai suoi compagni Isdernus e Burmaltus: è il condottiero Artus de Bretania. Come asserisce la Frugoni, va identificato con il cavaliere centrale, che si volge all’indietro verso Isdernus per incitarlo o per impartire un ordine. A differenza di tutti gli altri cavalieri, come se non temesse alcun colpo mortale, è protetto dal solo scudo. È a viso scoperto (non indossa l’elmo) e non è avvolto nella cotta in maglia di ferro. Davanti a lui, Burmaltus è alle prese con un gruppo di fanti, simboleggiati da una singola figura anonima. È l’unica difesa che si oppone agli eroi, forse perché un assalto da quel lato sembrava impossibile. Deve trattarsi di un gruppo di contadini e artigiani, al servizio del signore del luogo, che usano gli strumenti di lavoro come armi. La figura rappresentata si para davanti al fiero cavaliere brandendo goffamente una martellina, tipico attrezzo adoperato da muratori e scalpellini. È facile prevedere che quest’ultima, disperata reazione non otterrà alcun effetto. Winlogee sarà liberata, e potrà cosí ricongiungersi con il suo Artú.
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saper vedere duomo di modena I temi e le soluzioni formali dei rilievi modenesi rimandano al ricamo di Bayeux
ricami e rilievi In alto un particolare del ricamo di Bayeux, che celebra la conquista normanna dell’Inghilterra. 1066-77. Bayeux, Musée de la Tapisserie de Bayeux. In basso l’archivolto del portale, sul quale si susseguono scene ispirate al ciclo bretone, di cui sono protagonisti Winlogee e Artus de Bretania (Artú).
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La domanda viene a questo punto naturale: che cosa ci fa l’eroe bretone in quel di Modena? L’eroe celtico (il cui nome significa «orso», simbolo di forza e di autorità) non è ancora, con Carlo Magno, il sovrano per antonomasia della letteratura epica medievale. La sua consacrazione in tal senso, compiuta da Goffredo di Monmouth con la Storia dei re di Britannia, pubblicata nel 1137, è ancora di là da venire, e deve richiedere tempo per potersi diffondere adeguatamente. L’episodio raffigurato (del tutto assente in Goffredo) mostra vari addentellati con diverse elaborazioni delle leggende arturiane, sia per la situazione che per i personaggi citati, ma non è stato sinora individuato un testo specifico che lo riproponga fedelmente. Ginevra, la moglie di Artú variamente denominata nelle leggende piú antiche, potrebbe essere il corrispettivo della dama modenese. Ginevra infatti, come asserisce non senza humour lo storico della letteratura inglese Edmund K. Chambers (1866-1954), è «una dama assai soggetta alla sventura di essere catturata». In un testo agiografico la cui prima versione è forse coeva alla porta modenese, la Vita di san Gilda, il protagonista fa da paciere tra il condottiero Artú e Melwas, il re che ha rapito sua moglie Guennevar traendola prigioniera nella propria Città di Vetro (un luogo semifatato, sul crinale del mondo dei morti). La cinta delle mura è protetta dalle acque, come nell’archivolto emiliano. L’agiografo di san Gilda, il monaco gallese Caradoc di Llancarfan, risiedeva nell’abbazia di Glastonbury, e per dare lustro alla sua istituzione la ritenne fondata proprio sul luogo della Città di Vetro (Glass), in base a una forzata etimologia. Assai noti agli odierni cultori del folclore celtico, i ruderi dell’abbazia campeggiano sull’alto di una collina verdeggiante, un tempo circondata dalle paludi. L’immagine della città-fortezza protetta dalle acque sarebbe nata da questa suggestione, cui si ricollega per giunta un altro luogo epico arturiano, l’isola di Avalon, luogo di sepoltura dello stesso Artú.
animali da fiaba L’architrave decorato con episodi ispirati ad antiche fiabe o derivanti dal Roman de Renart, raccolta di storie di animali a sfondo morale. Da sinistra a destra, una Nereide cavalca un cavallo marino, due galli trasportano una volpe che si finge morta, due ibis con un serpente, la Storia del lupo e della gru.
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Tra i personaggi secondari dell’archivolto, è perfettamente riconoscibile Galvaginus, ossia Galvano, nipote di Artú. Il suo avversario, Carrado, è il gigantesco signore della Torre Dolorosa, una terribile prigione dove finisce, tra gli altri, proprio Galvano. Il prode Che è Keu o Kai, il siniscalco di Artú, un alto dignitario della sua corte. Il carceriere della dama, Mardoc, si ritrova in tutt’altra veste nel Lanzelet (Lancillotto) del germanico Ulric von Zatzikhoven (1195 circa), che si basa su un originale francese piú antico: Madruc aiuta l’eroe a liberare la regina, prigioniera in un castello incantato, grazie alle proprie arti magiche. Di sicuro, grazie alla Porta della Pescheria, questi personaggi e le loro storie divennero molto popolari a Modena già agli inizi del XII secolo. Un atto del 1125 conservato proprio nell’Archivio capitolare del duomo, annovera un tale Artusius tra i testimoni, una persona battezzata in evidente allusione all’eroe della Britannia. A Bari, la Porta dei Leoni, eretta alla fine dell’XI secolo sul fianco nord della basilica di S. Nicola, presenta sull’archivolto un assalto alla porta di un castello (o di una città) da parte di un duplice drappello di cavalieri, non identificati. Viste le analogie con la Porta della Pescheria, si suppone una suggestione dei temi arturiani anche nell’archivolto pugliese, con almeno un decennio di anticipo rispetto a Modena. In ogni caso, la precoce accoglienza dell’epica cavalleresca in un santuario di valenza continentale del Regno normanno, in uno dei punti d’imbarco per la Terra Santa, suggerisce che i pellegrini, i mercanti e gli stessi crociati di Oltremanica abbiano giocato un ruolo rimarchevole nella diffusione di queste storie. Proprio il clima religiosomilitare delle crociate dovette essere determinante in tal senso. Analoghe considerazioni, estensibili ai temi della Reconquista, si possono fare per la distrutta Porta Francigena della cattedrale di Compostela (1100-1110), aperta anch’essa sul lato nord, arricchita da una colonna istoriata con spunti della materia bretone. La porta modenese rappresenta comunque un episodio pressoché unico nell’Europa romanica. Sebbene esistano varie opere d’arte sacra con personaggi epici dei cicli cavallereschi, questa si evidenzia in modo indiscutibile per la sua rigorosa impaginazione generale, per la sua complessità narrativa e per la cura nell’identificazione dei personaggi. A tal riguardo, il raffronto piú convincente è quello proposto da Chiara Frugoni, e prescinde dalla scultura monumentale. La vivacità e la puntigliosità del racconto, la presenza di immagini favolistiche e mostruose che fanno da contrappunto ironico, negli stipiti e nell’architrave, rimandano al celeberrimo ricamo della cattedrale di Bayeux (1066-77), eseguito forse a Canterbury su commissione del vescovo Oddone, fratellastro di Guglielmo il Conquistatore, per commemorare la battiglia di Hastings: un’opera di soggetto profano destinata a essere esposta all’interno di una chiesa, nel corso delle solenni cerimonie.
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saper vedere duomo di modena In anticipo sulla Torre di Pisa (iniziata nel 1173), venne poi eretta la Ghirlandina, la torre campanaria del duomo, fino all’imposta della lanterna ottagonale, coronata con l’alta cuspide da Enrico da Campione nel 1319. Con i suoi 88 m complessivi di altezza, la torre costituisce per Modena un simbolo e un motivo di vanto di forte valenza civica (è tuttora di proprietà comunale), ed è anche un elemento di richiamo di grande valore percettivo, capace di segnalare la presenza della città su una lunghissima distanza, come si conviene a una meta importante per chi giunge da lontano.
Una scoperta miracolosa
Modena vantava un passato di città romana, ma dell’antica Mutina, abbandonata nell’Alto Medioevo, non era rimasto che il ricordo. Fu scelto persino un sito distante sei miglia per rifondarla, ma poi la vita urbana riprese lentamente il suo corso appena fuori dalla cinta antica. Lí risorse il duomo, il fulcro della nuova città. Grazie a una vasta messe di marmi antichi scoperti – si disse – per miracolo, in quella che doveva essere la necropoli romana, fu pos-
liturgia della lettura In alto il pontile del duomo, struttura sopraelevata di recinzione presbiteriale per le letture liturgiche, realizzata da maestranze piacentinoemiliane intorno al 1184, anno di consacrazione della chiesa. Sullo sfondo, la cripta che custodisce le reliquie del patrono, ricostruita tra la fine del XII e gli inizi del XIII sec. a seguito dell’erezione del pontile. A destra lastre del pontile con Scene della Passione: Pietro che taglia l’orecchio a Malco, il bacio di Giuda e Gesú di fronte a Ponzio Pilato, seduto in trono.
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sibile completare un edificio cosí ambizioso. Come a Pisa o a Firenze, le spoglie del mondo antico acquisiscono un forte protagonismo, e danno ragion d’essere a una chiesa di riferimento che vuol far rinascere le glorie del passato. Si reinventa in chiave trionfale la storia della città, con il patrono san Geminiano a fare da eroe indiscusso. La nuova Modena avvia la sua chiesa in modo corale, senza alcun intervento dall’alto. La sede episcopale nel 1099 è vacante, e si crea cosí per la società laica la prima grande occasione per esprimere il proprio fattivo protagonismo. Era terminata una fase storica assai turbolenta, di cui il vescovo locale Eriberto, dichiaratamente filoimperiale, fu uno degli esponenti piú faziosi. Modena partecipa in pieno a un momento di fervore autonomista che accomuna molte città lombardo-emiliane, e taglia di netto ogni legame con le vicende dei decenni trascorsi, demolendo l’antico duomo restaurato dallo stesso Eriberto. Solo a cantiere avviato, dopo aver subito qualche resistenza iniziale, il nuovo vescovo «ortodosso», Dodone, ebbe modo di essere coinvolto nell’impresa, cosí come la potente
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anni di rivalità incrociate 1056 Inizia l’episcopato del presule filoimperiale Eriberto. 1077 Il re di Germania Enrico IV ottiene la revoca della scomunica comminatagli da papa Gregorio VII, compiendo tre giorni di penitenza fuori dal castello di Canossa. Eriberto è schierato a fianco del re, e gli offre forse armi e aiuti, insieme ad altri alleati, cercando di scongiurare questa famosa «umiliazione». 1081 Gregorio VII scomunica Eriberto per aver aderito al partito filoimperiale del vescovo metropolita Guiberto di Ravenna. Il pontefice affida la sede di Modena al vescovo «ortodosso» Benedetto. Non potendo esercitare la sua carica, il presule trova probabilmente ospitalità presso Matilde di Canossa. 1084 Lo «scismatico» Guiberto di Ravenna sale sulla cattedra di S. Pietro con il nome di Clemente III, insediato da Eriberto e dal vescovo Sigifredo di Bologna, scomunicato anch’egli. Nello stesso anno il nuovo antipapa incorona imperatore Enrico IV. 1092 Enrico IV conquista Mantova, controllata da Matilde, ma non riesce a prendere la rocca di Canossa. Benedetto di Modena si insedia nel castello di Savignano, in mano a Matilde. 1093 Corrado, primogenito di Enrico IV, fomenta una ribellione in Germania e l’imperatore deve abbandonare l’Italia. 1094-1095 Morte di Eriberto. 1095-1096 Benedetto si insedia finalmente a Modena ma muore nel 1096-97. La sede episcopale rimane vacante. 1099 Il 23 maggio Lanfranco inizia gli scavi delle fondamenta del nuovo duomo. Il 9 giugno si posa la prima pietra. 1100 Risulta insediato il vescovo Dodone, forse su nomina del defunto papa Urbano II, ma non ha ancora ricevuto la consacrazione. Muore l’antipapa Clemente III. 1106 Il 30 aprile si compie la traslazione delle reliquie di san Geminiano dal vecchio duomo al nuovo. In agosto muore Enrico IV. Il 7 ottobre viene effettuata la ricognizione del sacro corpo di san Geminiano. Il giorno dopo, papa Pasquale II celebra la dedicazione dell’altare. 1106 circa Il magiscola (magister scholarum) Aimone, che diresse la scuola annessa al duomo negli anni 1096-1110, compone l’epigrafe che commemora la fondazione del duomo, e redige con tutta probabilità la Relatio de innovatione ecclesie Sancti Geminiani. 1110 circa Si procede con i lavori sul blocco della facciata. Lo scultore Wiligelmo, già all’opera nei capitelli della decorazione architettonica, subentra nella direzione del cantiere. 1115 Muore Matilde di Canossa. 1117 Un terremoto colpisce l’Emilia e danneggia numerosi edifici. Seguono ampie campagne di restauro e di ricostruzione. Il cantiere modenese non risulta compromesso dal sisma. 1125-30 Completamento del duomo. Il Maestro delle Metope realizza le «antefisse» sui contrafforti esterni della campata presbiteriale. 1135 Morte del vescovo Dodone. Prima attestazione della magistratura cittadina dei consoli. 1169 Risultano già elevati i primi cinque piani della Ghirlandina. 1184 Il 12 luglio papa Lucio III, giunto a Modena con 10 cardinali al seguito, procede alla solenne consacrazione del duomo con l’esposizione delle reliquie del patrono.
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saper vedere duomo di modena Dove e quando Duomo di Modena Corso Duomo Orario tutti i giorni, 6,30-12,30 e 15,30-19,00; le visite non sono consentite durante le celebrazioni Info tel. 059 216078; www.duomodimodena.it La visita del duomo può essere integrata da quella dei suoi musei: Museo del Duomo
Museo Lapidario Via Lanfranco, 6 Orario ma-do, 9,30-12,30 e 15,30-18,30; lu chiuso Note Con un biglietto a sé stante è possibile inoltre accedere all’interno della Ghirlandina Info tel. e fax 059 4396969; www.duomodimodena.it; www.turismo.comune.modena.it
A sinistra statua lignea di san Geminiano, protovescovo e patrono di Modena, collocata nella navata nord del duomo.
Matilde di Canossa, il che sanciva il ritorno definitivo della città all’obbedienza papale. Ma i Modenesi mantenevano ben saldo il controllo di ogni fase. Al momento della solenne ricognizione delle sante reliquie del patrono, nel 1106, vigilava sulle operazioni un drappello di milites e cives, a rappresentare i due ordini della nobiltà e della borghesia. I grandi temi della redenzione e della lotta contro il peccato furono accolti a Modena in perfetta sintonia con gli orientamenti generali della scultura romanica europea. Il coerente programma iconologico della chiesa emiliana, articolato intorno ai portali originari della facciata e dei fianchi, mostra notevoli agganci, per esempio, con quanto si realizzava a Compostela nella stessa epoca. Un tessuto comune creava forti rispon-
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L’interno del duomo, con aula a tre navate e presbiterio rialzato su cripta. La navata centrale è suddivisa in quattro grandi campate da archi-diaframma che poggiano su pilastri polistili, alternati a colonne con capitello corinzio. Le volte a crociera sono state eseguite negli anni 1444-55. Nell’assetto originale, il soffitto, scandito dagli archi-diaframma, era in travature di legno a vista.
denze tra realtà lontane, allorché si creava un perfetto raccordo tra le istanze della società laica e il rinnovamento in atto in seno alla Chiesa. Gli ingegni chiamati a realizzare i complessi scultorei sulle pareti esterne delle chiese, a Modena o a Compostela, operavano in modi e con esiti ben distinti, senza relazioni reciproche, ma rispondevano alla volontà unanime di coinvolgere il pubblico nel dramma della fede, nel vivo scenario delle piazze e delle strade maggiormente frequentate. L’esigenza di catechizzare le masse e una schietta volontà di stupire e affascinare lo spettatore, andavano perfettamente d’accordo, esaltando l’impegno di chi aveva disposto e finanziato l’opera. Nelle lastre modenesi della Genesi, capolavoro di Wiligelmo (1110 circa), la storia sacra assume la forza persuasiva e la suggestione di una rappresentazione scenica. Le figure si staccano dal fondo con un senso
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dolente della realtà terrena. I loro volti e i loro gesti hanno una scarna immediatezza, i loro corpi possiedono una concretezza avvincente.
Un racconto toccante
Non si può parlare di realismo, né di realismo abbozzato. L’artista vuole avvincere lo spettatore con un racconto chiaro, toccante, che arriva subito al nerbo di una verità che sta ben al di sopra della semplice evidenza delle cose. È una rappresentazione rigorosamente scandita dal ritmo degli archetti di coronamento, che raccordano lo spazio del racconto alla superficie architettonica. Si crea cosí un’intima e robusta fusione tra le storie bibliche e la realtà dell’osservatore, accentuandone la partecipazione emotiva. Per giunta, grazie agli studi di Chiara Frugoni, possiamo essere certi che Wiligelmo seguí proprio la traccia di un dramma semiliturgico, come quel Jeu d’Adam (Rappre-
sentazione di Adamo) che ci è giunto dall’area anglo-normanna, e la cui versione originaria, legata a una lunga tradizione orale, è datata tra il 1125 e il 1175. Il racconto della Genesi si conclude con l’approdo di Noè dopo il diluvio. L’arca si presenta come una chiesa romanica, e la scena finale con Noè e i suoi figli, avvolti nella veste candida della nuova alleanza, allude ai riti battesimali. La chiesa è dunque lo spazio della rigenerazione, in perfetto accordo con l’immagine di Rodolfo il Glabro da cui siamo partiti. E il concetto si completa in perfetta coerenza con i Profeti che adornano gli stipiti del portale centrale, annunciatori della nascita di Cristo, e con le porte originarie dei fianchi, opere di due seguaci di Wiligelmo: la Porta della Pescheria, sul lato nord, rivolta ai peccatori (vedi box alle pp. 60-63), precede il racconto della Genesi; la Porta dei Principi, sul lato sud, detta anche «del battesimo» perché da lí uscivano i neofiti dopo il rito, racconta le storie del patrono san Geminiano, facendo seguito alla rivelazione di Cristo. F
Nel prossimo numero ● Gli affreschi di Castelseprio e Torba
Da leggere U Lanfranco e Wiligelmo. Il Duomo
di Modena. Quando le cattedrali erano bianche (catalogo della mostra), Panini, Modena 1984 U Cristina Acidini Luchinat, Chiara Frugoni, Monica Chiellini Nari, La porta della Pescheria nel Duomo di Modena, Panini, Modena 1991 U Wiligelmo e Lanfranco nell’Europa romanica (atti del convegno), Panini, Modena 1993 U Chiara Frugoni, Wiligelmo. Le sculture del Duomo di Modena, Panini, Modena 1996 U Chiara Frugoni (a cura di), Il Duomo di Modena, Panini, Modena 1999
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di Roberto Roveda
Mendicanti in attesa dell’elemosina, particolare del dipinto Carlo Magno depone nella cattedrale di Aquisgrana il piatto d´argento e il calice della cena di Cristo di Bernard van Orley. XVI sec. Torino, Galleria Sabauda.
Senza
patria Il mondo medievale era attraversato da un’avversione, un sospetto e una paura quasi ancestrali nei confronti di coloro che, costretti o per scelta, abbandonavano la naturale e desiderabile stabilità del vivere sociale. Uomini senza patria e senza Dio, inclini secondo il sentire comune ad azioni vili e delittuose
Dossier
I I
senza patria, cioè coloro che non vivevano in un contesto familiare, sociale e lavorativo fisso e facevano del viaggio un elemento prioritario della propria esistenza, faticavano a trovare una propria collocazione all’interno della società medievale. Il processo di emarginazione colpiva in particolare le persone che, a differenza di pellegrini, mercanti e soldati, viaggiavano apparentemente senza un valido motivo, una giustificazione, e risultavano perciò sospetti agli occhi del buon cittadino. I motivi di una tale diffidenza nei confronti dei viaggiatori erano fortemente radicati nel rigido conformismo della società, dominata dai valori della sedentarietà e della stabilità. La comunità in cui l’uomo medievale trovava il centro e il punto di riferimento della sua esistenza presentava confini ben definiti e che di rado ammettevano eccezioni: i valori erano immediatamente identificabili e riconoscibili, privi di zone d’ombra, perché dettati da un’autorità sacra e inviolabile, quella cristiana; ogni aspetto della vita doveva essere vissuto in compartecipazione con il gruppo di appartenenza (ceto sociale, corporazione, ordine religioso); la comunità, in quanto tale, doveva farsi espressione di un concetto di «purezza», in cui anima e corpo erano intimamente legati, al punto che la malattia del corpo era considerata una chiara manifestazione della malattia dell’anima, quindi del peccato. Questa tendenza a «chiudersi verso l’interno» e la correlata diffidenza verso tutto ciò che presentava difformità comportamentale e di aspetto trovavano giustificazione anche nel clima di insicurezza materiale e mentale in cui nasceva e si sviluppava la comunità (scossa da continue invasioni, guerre, carestie ed epidemie). Risultava dunque naturale sospettare delle persone che in modo piú o meno cosciente sembravano minacciare i punti fermi e l’equilibrio della società, che poggiava sul principio di
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autorità – della Chiesa, del sovrano, delle istituzioni, del Comune e delle corporazioni – e su una concezione gerarchica dei rapporti sociali. Qualsiasi tentativo di sfuggire agli schemi e alle istituzioni comunitarie prestabilite era avvertito come un atto contro Dio e l’ordine sociale che Dio stesso aveva stabilito.
Una società in movimento
In realtà, nonostante questa condivisa visione del vivere sociale, la società medievale era meno statica di quanto si potrebbe pensare: si muovevano i mercanti tra le diverse fiere e città, i pellegrini verso i luoghi di culto, i soldati verso i campi di battaglia, i lavoratori a giornata in cerca di un lavoro, i pastori per guidare le pecore nella transumanza e si muovevano figure ai margini della società come i banditi, gli eretici, i vagabondi, i professionisti dello spettacolo e le prostitute. Da quanto detto è perciò facilmente comprensibile perché il fatto di vivere in una dimora fissa, di trascorrere tutta la propria vita in uno stesso luogo e in una stessa comunità rappresentasse per l’uomo medievale un fattore qualificante, o meglio imprescindibile, per potersi dire a tutti gli effetti un buon cittadino. Ordine e sicurezza sociale potevano infatti essere istituiti e mantenuti soltanto in un contesto sociale strutturato sui vincoli di sangue, sul buon vicinato e sulla condivisione, quindi contraddistinto dall’immediata identificazione – sul piano familiare, sociale e lavorativo – di coloro che ne facevano parte. Condizione naturale e massimamente desiderabile era vivere nella «terra dei padri», nella stessa terra in cui da lungo tempo si era stabilita la propria famiglia. La percezione sociale dell’uomo del Medioevo era dunque determinata da metafore spaziali poco flessibili e poco inclini al cambiamento, intimamente percorse da dicotomie come quelle di stabilità/mobilità, gennaio
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Il misantropo, tempera su tela di Pieter Bruegel il Vecchio. 1568. Napoli, Museo di Capodimonte. Il protagonista dell’opera, un vecchio dal mantello nero, è raffigurato mentre fugge il mondo ingannatore, impersonato dallo straccione in un globo vitreo che lo deruba della borsa.
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Dossier L’uomo selvatico
Il solitario maestro dell’arte casearia La figura «non del tutto umana» dell’«homo salvaticus», estranea alla comunità e avvezza a vivere nella natura selvaggia e inospitale alla stregua di un lupo, era estremamente diffusa nell’immaginario medievale ed era protagonista di racconti leggendari che variavano da luogo a luogo. La tradizione popolare voleva vivesse solitario al di fuori del consesso umano nei boschi di alta montagna, sulle Alpi o sugli Appennini. Nei racconti sia orali che scritti l’«uomo selvatico» è in genere caratterizzato da un corpo ricoperto da un pelo talmente folto da rendere sostanzialmente superfluo l’impiego di abiti.
Nonostante un’esistenza solitaria e selvaggia, in molte tradizioni locali l’«uomo selvatico» viene descritto come un grande esperto di arte casearia, che insegna agli uomini a fare burro e formaggio. Inoltre è considerato abile nel pascolo del bestiame. In molti racconti questa figura presenta quindi un’evidente ambivalenza: è un essere solitario che cerca però il contatto con la gente, dimostrando la volontà di trasmettere i suoi insegnamenti, ma spesso sono proprio gli uomini che per diffidenza, paura o cattiveria lo spingono ad allontanarsi. Cosí lo ha descritto l’etnografo trentino Giuseppe Šebesta (1919-2005): «È sostanzialmente un comune mortale che vive al
di fuori del consesso umano preferendo i luoghi isolati, la montagna, il bosco. A contatto con la natura ha esaltato al massimo le sue caratteristiche fisiche che gli assicurano la vita: forza, robustezza, fiuto eccezionale per inseguire la preda. È timido, rifugge dal prossimo isolandosi al punto tale da attenuare le sue capacità psichiche fino alla stupidità. Non si lava né si pulisce. Non si rade né si taglia i capelli cosicché questi si fondono raggiungendo le ginocchia. Per questo diventa una figura terrificante esaltata dalla pelle di caprone con cui si ammanta. Un atto gentile lo intenerisce. A volte sente il bisogno di fraternizzare con gli uomini. Allora si ferma insegnando loro i mestieri della malgazione, della lavorazione dei latticini di cui è maestro».
A sinistra, in basso Sacco (Cosio Valtellina, Lombardia). Pittura murale raffigurante l’«uomo selvatico». 1464 circa. Nella pagina accanto Gli storpi, olio su tavola di Pieter Bruegel il Vecchio. 1568, Parigi, Museo del Louvre.
dentro/fuori, centro/periferia, nelle quali tutti i caratteri positivi venivano attribuiti al primo termine. Chi si decideva o era costretto a vivere fuori dai vincoli sociali e dalla «patria», esposto ai rischi di un ambiente selvatico e inospitale nel quale doveva stabilirsi provvisoriamente o quantomeno transitarvi durante i continui spostamenti, veniva percepito come un trasgressore delle norme del consuetudinario vivere sociale, quindi come una potenziale minaccia. Il viaggiatore rientrava perciò nella categoria delle persone sospette, da evitare. Essendo una
La vita a contatto con la natura sviluppa nell’uomo selvatico forza, robustezza e fiuto eccezionale 72
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figura determinata dai caratteri dell’erraticità e dello sradicamento dalla terra di origine, risultava un estraneo, uno sconosciuto, un pericolo costante per la comunità. Questa dura presa di posizione valeva, però, soprattutto per coloro che, appunto, «erravano», senza una meta ben definita, e, agli occhi dei piú, apparivano privi di una reale funzione sociale. Una vita nomade che contrastava con l’ideale di stabilitas (stabilità): chi si muoveva in continuazio-
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ne era un vagabondo, quindi uno sconosciuto, che dietro alla richiesta di elemosina e di un lavoro poteva celare intenzioni criminose.
Il viaggio come pericolo
L’avversione per le esistenze nomadi tipica del Medioevo era rafforzata dalla concezione che il viaggio fosse in sé un’esperienza da evitare per non incorrere in pericoli: i luoghi deserti e le foreste erano avvertiti come la negazione della vita sociale e comunitaria a cui tendeva l’uomo
medievale. Nella natura si celavano, infatti, non solo banditi e assassini, ma anche creature diaboliche che terrorizzavano l’immaginario popolare. L’uomo esposto ai rischi dell’ambiente selvatico e soggetto alle regole della macchia e dei luoghi privi di civiltà diveniva una sorta di «uomo-lupo», dunque un nonuomo, o quantomeno l’antitesi del buon cittadino (vedi box alla pagina precedente). Se lo spostarsi da un luogo all’altro non trovava una motiva-
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Dossier Eretici e scomunicati
Respinti dalla Chiesa e privi di ogni diritto All’esilio sancito con il bando sul piano legislativo-giudiziario corrispondeva, su quello etico-religioso, la scomunica, le cui vittime erano escluse dalla Chiesa e dalla comunità cristiana. Vista la centralità della Chiesa, dei suoi valori, dei suoi dettami, e delle sue prescrizioni all’interno della comunità medievale – che era prima di tutto una comunità cristiana –, è facile comprendere come l’esclusione dai luoghi e dai riti religiosi non potesse risolversi in conseguenze prettamente etiche e religiose: essere esclusi dalla «casa di Dio» significava in concreto un’espulsione dalla società, che non poteva accettare nel suo grembo individui non (o poco) inclini a conformarsi ai dettami dell’unica autorità che deteneva il diritto di predicare la parola del Signore, in quanto vicaria di Cristo sulla terra. L’espulsione dalla comunità dei fedeli e dai luoghi consacrati, insieme al divieto di partecipare ai sacramenti, erano dunque la
premessa a un’emarginazione pressoché totale e inguaribile (almeno per coloro che non appartenevano a una classe agiata o nobiliare). L’eretico, e, piú in generale, chi aveva subito scomunica, non godeva piú di alcun diritto non solo all’interno della Chiesa, ma anche nella società e addirittura nella sua famiglia. Al pari del bandito era costretto a lasciare la comunità d’origine e a iniziare un errare incessante, privo di beni, fonti di reddito e ovviamente «marchiato» dalla scomunica ricevuta.
A sinistra Siena, Palazzo Pubblico, Sala dei Nove. La figura di impiccato, particolare de Gli Effetti del Buon Governo in città e in campagna, affresco di Ambrogio Lorenzetti. 1338-1339. A destra esecuzione di eretici al tempo del re Filippo II Augusto, miniatura tratta da un’edizione de Les Grandes Chroniques de France. 1460 circa. Parigi, Bibliothèque Nationale de France.
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Mendicanti e storpi chiedono la carità, particolare de La Lotta tra Carnevale e Quaresima, olio su tavola di Pieter Bruegel il Vecchio. 1559. Vienna, Kunsthistorisches Museum.
zione valida e condivisibile (lavorativa, religiosa, militare), allora il viaggiatore veniva tendenzialmente identificato con alcune figure dominate da caratteri prettamente negativi: il bandito, cioè colui che tramite un bando era stato allontanato da un determinato territorio perché considerato un pericolo per la comunità; il mendicante, che conduceva una vita ambulante «ufficialmente» per seguire il calendario delle elemosine ecclesiali e le distribuzioni occasionali, ma di cui era bene diffidare perché, sotto quelle spoglie, poteva nascondersi un criminale o un malfattore; l’eretico o lo scomunicato, cioè colui che la Chiesa, massima autorità spirituale e sociale nel Medioevo, aveva ritenuto necessario escludere dalla «comunità sacra», isolandolo di conseguenza dai rapporti comunitari mondani (gli stessi familiari non potevano intrattenere alcun rapporto con lo scomunicato); il disoccupato o l’ozioso, definito nei trattati e negli atti dei tribunali dell’epoca «inutile al mondo e alla cosa pubblica» o ancora «peso inutile della terra».
Espulsione o confino
La figura del bandito incarnava in pieno il concetto di emarginato dalla società: una decisione della comunità, una disposizione di legge o la sentenza di un tribunale gli imponevano infatti l’interdizione perpetua da un determinato territorio, che molto spesso coincideva con la sua terra d’origine. In alcuni casi si trattava di una semplice espulsione, in altri di un vero e proprio confino in un luogo definito e controllato dalle autorità (per esempio un’isola). Con il bando gli veniva infatti precluso qualsiasi beneficio di residenza e di ospitalità, in quanto su di lui gravava la scure della pena di morte (almeno nella regio-
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Dossier le fonti
Gli archivi della repressione Testimonianze sui vagabondi, veri e propri «paria» del Medioevo, si trovano, innanzitutto, nei cosiddetti «archivi della repressione», registri giudiziari locali nati a partire dal XII secolo, nei quali erano annotate le diverse tipologie di crimini commessi, le relative sentenze e, in alcuni casi, anche una descrizione delle modalità di esecuzione del reato e di coloro che ne erano accusati. Un significativo resoconto è riportato nel registro giudiziario del Bedfordshire (Inghilterra nord-orientale), riguardante un omicidio commesso nei pressi del villaggio di Dunton il 28 aprile 1272. Nella sentenza con cui l’assassino viene condannato a morte, il tribunale locale lo definisce «vagabondo e persona non appartenente ad alcuna decuria». Il suo stato di vagabondo e la correlata non appartenenza ad alcuna decuria evidenziano la sua pericolosità non solo in quanto assassino, ma anche e soprattutto in quanto estraneo e non soggetto ai vincoli sociali. La «qualità» di assassino è infatti intesa come conseguenza quasi inevitabile di uno stile di vita socialmente riprovevole. I trattati erano elaborati con l’intento di stilare elenchi e descrizioni di tutte le possibili tipologie di vagabondi e mendicanti. Essi utilizzavano come fonti prevalenti proprio i registri giudiziari e i documenti redatti dalle autorità urbane, per fornire una classificazione quanto piú rigorosa, ordinata e intelligibile dei diversi «tipi» di emarginati sociali: chi e quanti erano, come variavano nel tempo e nei diversi luoghi il loro numero e i loro comportamenti, in che modo il potere reagiva al problema. Le categorie di vagabondi e mendicanti indicate erano molto numerose e tra loro differenziate, ma tutte apparentemente collegate da una caratteristica comune: una continua commistione fra vera e falsa povertà, fra sincera e falsa sofferenza, fra buone e cattive intenzioni, fra onesti e criminali. ne colpita da interdetto). Era però la prima delle ipotesi, in genere considerata storicamente piú antica, che costringeva il bandito a intraprendere un vagabondaggio senza fine. Anche se in linea teorica aveva la possibilità di stabilirsi altrove e di trovare ospitalità in un’altra comunità, in genere il bandito difficilmente riusciva a trovare una dimora e un lavoro fissi, proprio per la diffidenza che il suo vagare errabondo suscitava nella maggior parte delle persone e per il peso del bando che gravava sulle sue spalle.
L’emarginazione dei mendicanti
La figura del mendicante e piú in generale quella del povero sono andate incontro nel Medioevo a una graduale marginalizzazione all’interno della società, da cui è in molti casi derivata la necessi-
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A sinistra Verona, S. Anastasia. Lo stemma della famiglia Pellegrini, che reca l’immagine di un pellegrino, affrescato dal Pisanello. 1433-1438. gennaio
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Il Vagabondo (o Il figliol prodigo), olio su tavola di Hieronymus Bosch. 1490-1505. Rotterdam, Museum Boijmans Van Beuningen.
Tra coloro che finivano con il ritrovarsi a mendicare vi erano spesso agricoltori gettati sul lastrico da un mancato raccolto MEDIOEVO
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tà di continui spostamenti, di un disperato vagabondaggio alla ricerca di pane e ospitalità, almeno temporanea. Cosí come provano documenti, atti e testimonianze, fino al XII secolo la presenza dei poveri era avvertita con molta tolleranza e talvolta anche con una certa compassione: in una società ancora prevalentemente rurale e caratterizzata da comunità piccole e raccolte i poveri e i mendicanti erano persone conosciute, ben accette nei villaggi, nelle residenze signorili e nei monasteri. Non di rado si trattava di individui che avevano subito un cattivo raccolto e che per questo erano costretti a mendicare per sopravvivere. Le cose cominciarono però a cambiare tra il XII e il XIII secolo, con l’affermazione in Occidente di una società mercantile e urbana nella quale la ricchezza divenne un valore positivo, mentre la povertà, al contrario, portatrice di discredito e disprezzo. Dato che per arricchirsi era necessario prima di tutto lavorare, il lavoro si impose come uno dei valori cardine; di conseguenza il povero, che di «mestiere» chiedeva l’elemosina, cominciò a essere percepito come un ozioso, un parassita che viveva alle spalle della società operosa. Da ciò derivò un lento ma costante processo di emarginazione del mendicante, a cui venivano anche addebitati comportamenti subdoli e sospetti per simulare infermità e malattie (esternare i propri difetti fisici era fondamentale per suscitare pietà). Quando poi, con le crisi economiche e sociali del tardo Trecento,
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Dossier il numero dei mendicanti crebbe a dismisura, dal sospetto si passò alla paura: dietro a un mendicante si riteneva si celasse nella maggior parte dei casi un malfattore. Poveri e mendicanti furono colpiti da una dura repressione di carattere poliziesco-giudiziario, oltre che sociale. In questo contesto i mendicanti si videro costretti ad aumentare gli spostamenti e a condurre una vita nomade, da vagabondi, che aumentò ulteriormente la diffidenza di chi viveva all’interno di contesti sociali stabili. Il mutato atteggiamento nei confronti dei mendicanti influí anche sulle sorti di uno dei piú importanti movimenti religiosi del Medioevo: l’Ordine dei Frati Minori, fondato da san Francesco d’Assisi come «ordine mendicante». Francesco, infatti, si proponeva di seguire il modello neotestamentario del Cristo sofferente, povero e privo di ogni bene. La povertà e la predicazione della parola del Signore costituivano l’unica via ver-
so il Regno dei cieli, dunque per sopravvivere doveva bastare quanto ottenuto tramite la questua. Eppure, dopo la morte del santo (1226), sotto la spinta del papato e delle mutate condizioni sociali, anche l’ordine francescano fu costretto a uniformarsi progressivamente al modus vivendi di tutti gli altri ordini religiosi (residenza in convento, possesso di beni, ecc.).
Vietato fare elemosine
L’azione repressiva di carattere giudiziario, legislativo e sociale intrapresa nel tardo Medioevo contro i mendicanti coinvolse anche coloro che, pur avendone in apparenza tutte le capacità, non lavoravano o lo facevano saltuariamente, dedicandosi piuttosto a uno stile di vita ozioso e licenzioso e vagabondando da una comunità all’altra. Le legislazioni inglesi e francesi emanate nel XIV secolo contro poveri e mendicanti, oltre al divieto di elargire elemosine, si soffermavano con insistenza sull’obbligo per le persone fisicamente abili e prive di rendite di prestare servizio e guadagnarsi il necessario per vivere. In una ordinanza francese del 1351 Giovanni il Buono – re di Francia dal 1350 al 1364 – fece scrivere: «Giacché nella città di Parigi e nelle altre città molte persone, tanto uomini quanto donne, conducono una vita oziosa e non vogliono piegare il loro corpo a nessuna fatica, ma anzi perdono tempo e si intrattengono in taverne e bordelli, si ordina che tutte quelle specie di persone oziose, perditempo o mendicanti, di qualunque condizione e stato siano, con un mestiere o senza, siano uomini o donne, di qualunque condizione e stato siano, si rendano disponibili a fare lavori con i quali possano guadagnarsi da vivere, oppure entro tre giorni dall’emanazione di questa grida se ne vadano dalla città di Parigi e dalle città sottoposte allo stesso prevosto e visconte». Con tutta evidenza, queste stesse ordinanze emesse contro i
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In alto miniatura che evoca i pericoli della strada, da un’edizione dei Factorum et dictorum memorabilium di Valerio Massimo. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto miniatura di scuola francese raffigurante alcuni mercanti. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Come i pellegrini, anche i mercanti erano considerati «viaggiatori autorizzati», perché guidati da una motivazione (il trasporto di merci) e da una meta (mercati e fiere) ben precise, che giustificavano i loro continui spostamenti. A lato miniatura raffigurante un albergo, da un’edizione de Le Cent Nouvelles nouvelles. XV sec. Glasgow, Glasgow University Library.
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Miniatura raffigurante il saccheggio di una casa di Parigi da parte di alcuni soldati, da un’edizione de Les Grandes Chroniques de France. XIV sec. Londra, British Library. Il servizio militare sconfinava spesso nel brigantaggio, poiché, all’indomani dell’impegno bellico, le truppe si abbandonavano spesso alle razzie nei territori attraversati nel corso delle loro missioni.
senza lavoro e i «depravati» contribuirono a incentivare la pratica del vagabondaggio, in quanto contenevano vere e proprie ingiunzioni di espulsione.
Vagabondi per necessità
In realtà molti di quelli che erano considerati «per natura» oziosi e perditempo, quindi parassiti della società, erano spesso costretti a spostarsi dalla loro terra proprio per cercare una nuova opportunità lavorativa. La migrazione e la mobilità rappresentavano infatti un inevitabile corollario dell’organizzazione sociale
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ed economica del Medioevo: la saltuarietà e la stagionalità del lavoro, accompagnate da una distribuzione ineguale delle risorse sul territorio, costringevano una parte non irrilevante della manodopera a uno spostamento incessante. Le migrazioni dalla campagna alla città, dalla terra al mare, e viceversa, erano un percorso obbligato per molti lavoratori, che in questo modo cercavano di compensare i bassi salari e il comune fenomeno della sottoccupazione. Se in un primo momento questa «manodopera vagante» subiva uno sradicamento solo parziale dalla comunità di origine – in cui piú o meno frequentemente cercava di fare ritorno –, a lungo andare tendeva a staccarsi in modo quasi definitivo dalla propria terra e da una vita stanziale: la ricerca di un lavoro li spingeva in luoghi sempre piú lontani e perdeva in molti casi l’iniziale cadenza stagionale, trasformandosi in una costante di vita; giunti a questo punto non solo era sostan-
zialmente precluso il ritorno a casa, ma anche la possibilità di stabilire altrove la propria dimora (prima di tutto per un’effettiva mancanza di disponibilità economica). I continui spostamenti non garantivano però alcuna certezza di trovare un nuovo lavoro, perciò molti dei «lavoratori a giornata» si trovavano a dover elemosinare un’offerta per sfamarsi, a chiedere asilo a un convento o, talvolta, a commettere furti. Da modalità provvisorie, il viaggio, l’incertezza e lo sradicamento si trasformavano cosí in elementi prioritari nell’esistenza di queste persone, che nell’opinione dei piú passavano da lavoratori in cerca di lavoro a oziosi, perditempo e potenziali criminali, trattati con sospetto e ritenuti un pesante fardello per la società.
L’unione fa la sicurezza
Molti di questi vagabondi si riunivano in piccoli gruppi o in bande. Gli spostamenti attraverso terre digennaio
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Soldati e mercenari
Dalle battaglie alle razzie Nel Medioevo anche la guerra obbligava a spostamenti lunghi e pericolosi. Sebbene si trattasse di viaggi formalmente «leciti», perché determinati dalla necessità di raggiungere i luoghi di battaglia e di seguire gli ordini del proprio signore, in molti casi divenivano causa di estraniazione anche definitiva dal comune vivere sociale. La guerra, soprattutto nel Basso Medioevo, si dimostrò infatti un potente catalizzatore di emarginazione: contadini, commercianti, artigiani, vagabondi, figli di nobili trovavano
nella vita nomade del soldato un’eccezionale sospensione delle norme e delle gerarchie sociali acquisite. La linea di demarcazione tra il servizio militare e il brigantaggio era infatti piuttosto labile, dato che spesso reparti regolari tendevano a gestirsi nei loro spostamenti in maniera del tutto autonoma e ad approfittare della propria forza per commettere soprusi sulla popolazione. Numerosi sono i documenti del tempo che ci raccontano di questa radicata tendenza delle compagnie dell’esercito a comportarsi come bande di briganti. Lo sradicamento vero e proprio da un’esistenza stabile e socialmente accettabile si compiva però in maniera definitiva al termine della guerra, quando molti soldati, lontani da casa, si trovavano senza denaro e senza lavoro. Non di rado decidevano perciò di
«mettere a frutto» le esperienze e i rapporti maturati nel corso della guerra, continuando a spostarsi in bande armate alla ricerca di denaro facile. Cosí se in un primo momento la guerra forniva una stabilizzazione sociale almeno apparente agli individui considerati un peso per la società (come i vagabondi), che nel ruolo di soldato trovavano una collocazione nello schema sociale, al termine dei conflitti si avviava un processo contrario di emarginazione di entità decisamente maggiore. Numerosi erano dunque i senza patria che avevano alle proprie spalle un’esperienza militare. Non di rado anche le «compagnie di ventura», truppe mercenarie guidate da un condottiero che combattevano per denaro, durante i loro spostamenti in attesa di essere assoldate da un re, un principe o un signore feudale, depredavano le città e le campagne in cui si trovavano a transitare.
Miniatura raffigurante il furto di una mandria, dal Codice Manesse. 1300-1340. Heidelberg, Biblioteca dell’Università.
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Dossier A sinistra miniatura raffigurante un’esecuzione capitale, da un’edizione illustrata de Les Grandes Chroniques de France. XIV sec. Londra, British Library. Quello del boia era uno dei mestieri considerati disonorevoli, per via del contatto con il sangue.
sabitate e sconosciute comportavano rischi notevoli per i viaggiatori, che preferivano cosí percorrere assieme a individui nella loro stessa situazione i tratti di strada tra una comunità e l’altra. Ciò significava prima di tutto compagnia e maggiore sicurezza, ma anche la possibilità di conoscere persone in grado di fornire informazioni su dove trovare un alloggio temporaneo e, soprattutto, un lavoro. Questi gruppi di senza patria, composti da persone che diverse vicissitudini avevano spinto verso una vita errante, erano però in molti casi considerati ancora piú sospetti dei vagabondi solitari: si temeva, infatti, che si trattasse, in realtà, di bande criminali solo in apparenza unite dal caso e dal bisogno di un reciproco aiuto. D’altra parte, non si trattava di paure del tutto infondate, perché l’esperienza e il «buon senso» insegnavano che non sempre queste persone erano in realtà quello che dicevano di essere: cosí il pellegrino poteva non avere alcuna intenzione di recarsi a Santiago de Compostela per far peA destra miniatura raffigurante la macellazione del maiale. XIII sec. Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial. Come nel caso del boia, anche quello del macellaio era ritenuto un mestiere poco onorevole.
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Molte attivitĂ venivano considerate infamanti e guardate con disprezzo: era il caso, per esempio, dei macellai e dei boia
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Dossier nitenza, il lavoratore a giornata poteva non essere in cerca di un lavoro per sfamarsi, il mendicante poteva non essere in cerca di elemosina. Per questo risultava molto difficile non mostrarsi estremamente diffidenti verso i gruppi di girovaghi che giungevano alle porte delle città o delle comunità rurali. Banditi, mendicanti, eretici, disoccupati e vagabondi erano quindi categorie di persone ai margini della società medievale proprio per la vita errabonda a cui erano costretti, la quale impediva loro di stringere vincoli duraturi e stabili all’interno di una comunità. Diverso era invece l’atteggiamento verso coloro che pur dedicando al viaggio una parte consistente della propria esistenza si spostavano guidati da una motivazione e con una meta ben precise: i pellegrini e i mercanti. I primi si muovevano infatti per esigenze di fede (fare penitenza, chiedere un miracolo) ed erano in genere diretti nei principali luoghi di culto della cristianità (Gerusalemme, Roma e Santiago de Compostela). Mentre i secondi viaggiavano per esigenze prettamente lavorative (il trasporto delle merci da commerciare) ed erano diretti nei principali fulcri del commercio medievale (come i mercati locali e le grandi fiere).
Spostamenti legittimi
A differenza delle classi di viaggiatori prima illustrate, pellegrini e mercanti potevano dunque giustificare agli occhi delle comunità che attraversavano questi continui spostamenti: il loro viaggiare aveva un perché e soprattutto non era sintomo di uno sradicamento definitivo e irreparabile dalla terra d’origine, ma, al contrario, di una momentanea assenza che, portando benefici spirituali o economici, era potenzialmente in grado di rafforzare la posizione dell’individuo nella sua comunità. Per questo pellegrini e mercanti trovavano con piú facilità ospitalità e accoglienza. Eppure la diffidenza nei confronti dei viandanti era cosí radica-
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i pastori
Uomini solitari e dalle abitudini sospette Sebbene rientrasse all’interno del mondo agrario, che nel Medioevo veniva in genere valutato in termini positivi, il lavoro del pastore era circondato da una profonda diffidenza, poiché riuniva due elementi sospetti per l’uomo medievale: la vita nomade e la solitudine. La pastorizia richiedeva infatti un ritmo di vita migratorio, caratterizzato da lunghi periodi a stretto contatto con la natura, lontano da casa e al di fuori dalla collettività. I pastori dovevano seguire i ritmi della transumanza, una migrazione stagionale delle greggi da pascoli situati in alta collina o montagna a zone di pianura – nel periodo autunnale – e nel ta che non sempre i viaggi proseguivano senza difficoltà, in particolare per i pellegrini: a causa delle condizioni di indigenza in cui viaggiavano venivano spesso assimilati ai vagabondi o sospettati di essere pellegrini solo «di facciata» (cioè malfattori che sfruttavano le vesti del pellegrino per compiere con maggiore libertà i propri crimini). Testimonianze scritte di questa diffidenza verso la figura del pellegrino si trovano nei capitolari di Carlo Magno. Nella Admonitio generalis in synodo Aquensi a. 789 edita viene per esempio suggerito a chi voglia espiare gravi colpe di rimanere in uno stesso luogo, lavorare e fare lí penitenza, piuttosto che intraprendere un «viaggio di espiazione». La situazione per i pellegrini migliorò comunque nel Basso Medioevo, quando la Chiesa si impegnò a regolamentare e organizzare i pellegrinaggi fornendo regole di condotta e luoghi di ospitalità (come gli ospizi), in modo da renderli parte integrante sia dell’ordine religioso che di quello sociale e da evitare il piú possibile ai pellegrini condizioni di disordine e instabilità. In epoca medievale vi erano occupazioni e attività considerate infamanti e che esponevano chi le esercitava a un forte grado di emarginazione, anche se ricoprivano un ruolo spesso fondamentale per il buon funzionamento della società. Il concetto di indegnità di taluni mestieri – definiti «mercimonia inhonesta» o «vilia officia» – trovava la propria
giustificazione negli scritti dei padri della Chiesa e si rifletteva nel diritto canonico e negli statuti municipali. Con disprezzo erano guardate le attività che richiedevano un contatto diretto con il sangue – macellai, barbieri, boia, ma anche chirurghi –, un tabú che derivava dal Libro del Levitico, nel quale viene affermato il legame tra vita e sangue e l’importanza che esso ha nei riti e nelle proibizioni imposte da Dio.
Tintori e becchini
Dato che la purezza costituiva un valore fondante della società medievale erano disprezzati anche coloro che lavoravano a contatto con la sporcizia come lavandai, tintori e becchini. A lungo furono considerati indegni anche i mestieri «del denaro», come l’usuraio, ma nella società mercantile del Basso Medioevo questo genere di emarginazione assunse connotati decisamente meno rilevanti. Un mestiere indegno pesava anche sui discendenti: nelle corporazioni poteva infatti ottenere i diritti corporativi solo chi era in grado di dimostrare «buoni natali», cioè non era figlio illegittimo e non discendeva da genitori non liberi o che svolgevano una professione infamante. La discriminante della stabilità, dell’integrazione in una comunità, rappresentava un ulteriore elemento di accettazione o di condanna di una determinata occupazione. Se il lavoro del mercante come già abbiamo visto trovava legittimità nel gennaio
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periodo primaverile in direzione opposta. Di conseguenza quella del pastore era avvertita come un’attività parecchio sospetta: passare mesi e mesi in compagnia soltanto di animali favoriva la diffusione tra la popolazione di dicerie che contenevano gravi accuse, come quella di sodomia.
Particolare di un capolettera miniato con scena di pastorizia, del maestro Turone di Maxio. Seconda metĂ del XIV sec. Verona, Biblioteca Capitolare.
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Dossier suo ruolo sociale e nelle motivazioni dei suoi spostamenti, diverso era il caso di quanti si dedicavano ad altre occupazioni itineranti, causa di condanna morale, civile e religiosa: parliamo dei pastori, degli attori, dei saltimbanco, dei giullari e delle prostitute.
Gente di spettacolo
Attori, giullari, giocolieri e saltimbanchi scontavano nel Medioevo la dura condanna proveniente dalla tradizione cristiana. Nei primi sinodi e concili furono infatti giudicati alleati del diavolo e portatori del male, mentre sant’Agostino proibí loro addirittura i sacramenti. La condanna delle professioni dello spettacolo non aveva però un carattere meramente religioso e morale, dato che era presente sia nei trattati teologici che negli atti giuridici. Giocolieri e istrioni rientravano nella classe piú bassa della gerarchia sociale, a fianco di mendicanti e vagabondi (quindi tra i senza patria). Nella condanna di questi mestieri, oltre a fattori legati alla morale di derivazione cristiana, giocava un ruolo non secondario la vita nomade, che spingeva appunto ad assimilare i girovaghi dello spettacolo a vagabondi. Anzi, la stessa diffidenza ideologica della Chiesa, che influiva in modo determinante sulla valutazione sociale e giudiziaria, trovava un fondamentale punto d’appoggio nella vita non stabilizzata, e quindi asociale, di questa categoria professionale. In realtà non sempre nel Medioevo i professionisti dello spettacolo si ponevano al di fuori delle strutture organizzate della società: sono infatti note corporazioni organizzate di menestrelli e la loro presenza stabile all’interno delle corti.
Vagabonde e peccatrici
Sulle prostitute pendeva una durissima condanna religiosa e morale, che le costringeva a vivere in una condizione di emarginazione data per scontata. La principale accusa a loro rivolta era ovviamen-
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A destra donne licenziose in una miniatura di scuola francese da un’edizione del De Claris Mulieribus di Giovanni Boccaccio. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto Beverley (Yorkshire, Regno Unito), Cattedrale. Rilievo raffigurante un musico. XIII-XIV sec. Nel Medioevo i professionisti dello spettacolo venivano condannati in quanto costretti a vita nomade, e il loro lavoro era considerato fuori dalla morale cristiana al punto di arrivare a proibire loro i sacramenti.
te quella di far commercio del proprio corpo, dove, nella concezione medievale, si annidava il peccato e quindi il male. L’estraniazione dalla comunità era inoltre rafforzata dal fatto che si trattava di donne, una categoria già di per sé emarginata nel Medioevo, e dal fatto che conducevano un’esistenza in aperto contrasto con l’assetto sociale tradizionale: non avevano il diritto di formare una propria famiglia e per di piú conducevano spesso una vita nomade. I continui spostamenti erano determinati in buona parte dall’impossibilità di un’integrazione stabile all’interno di una stessa comunità, ma dipendevano anche dalle «esigenze» dei diversi luoghi. Oltre che nelle città, le prostitute erano infatti presenti anche nei mercati,
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nelle fiere e nelle taverne; inoltre tendevano a spostarsi da un villaggio all’altro in compagnia di mietitori, operai o mercanti. Come nel caso dei professionisti dello spettacolo la condanna della società lasciava però spazio a forme di parziale «integrazione», o meglio di tolleranza, da cui scaturivano abitudini di vita piú sedentarie: nelle città venivano spesso relegate in spazio noti e ben circoscritti, come le case di tolleranza e i ghetti della prostituzione. Alcune riuscivano anche a farsi spazio nella sfarzosa vita di corte. Ciò non toglie che la maggior parte di queste donne erano prostitute ambulanti che vivevano in condizioni misere e degradate, legate a vagabondi e delinquenti, oltre che sfruttate da intermediari e protettori. V
Da leggere U Michel Mollat Du Jourdin, I poveri
nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 2001 U Bronislaw Geremek, La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, Laterza, Roma-Bari 2003 U Andrew Mc Call, I reietti del Medioevo. Fuorilegge, briganti, omosessuali, eretici, streghe, prostitute, ladri, mendicanti e vagabondi, Mursia, Milano 2008 U Jacques Le Goff (a cura di), L’uomo medievale, Laterza, Roma-Bari, 2010 U Jacques Le Goff, Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale, Laterza, Roma-Bari 2010
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Le navi di Nemi
Quasi una
di Flavio Russo
maledizione
Il recupero dei «palazzi galleggianti» di Caligola colati a picco nel lago di Nemi fu tentato, senza successo, alla metà del XV secolo e poi nel 1535. Imprese che, tuttavia, hanno lasciato testimonianze importanti sulle tecnologie messe a punto per l’immersione e il lavoro subacqueo. Dal canto loro, le navi, finalmente riportate in superficie negli anni Trenta del Novecento, ebbero una seconda vita davvero breve...
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el 1441 il cardinale Prospero Colonna affidò a Leon Battista Alberti l’incarico di sollevare le navi romane che confusamente si sapevano adagiate sul fondale limaccioso del lago di Nemi (centro dei Colli Albani, situato una trentina di chilometri a sud-est di Roma), non lontano dalla riva. L’impresa, tentata tra il 1446-47, ebbe in Flavio Biondo un cronista d’eccezione, ma si confermò presto velleitaria e dannosa per gli scafi, dimostrandosi inadeguati tutti i preparativi, tra cui un ampio pontone sostenuto da botti vuote, sormontato da una poderosa gru. Alcuni marangoni genovesi, tra i piú rinomati specialisti in lavori subacquei, furono incaricati di individuare gli scafi sommersi. Il primo fu trovato subito e, dopo averne valutato le dimensioni, si optò per il suo immediato sollevamento, imbracandolo con funi e arpioni: il solo esito fu però quello di strappargli un pezzo di prua e frammenti di tubi di piombo. Una stampa coeva raffigurò, sia pure ingenuamente, quel tentativo, che, tuttavia, grazie all’esposizione a Roma dei reperti riportati in superficie, suscitò un diffuso stupore, condiviso persino dal
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In basso il profilo di Leon Battista Alberti su una medaglia in bronzo coniata in suo onore nel 1453. Firenze, Museo del Bargello.
A destra, in alto il lago di Nemi (Lacus Aricini) in una incisione di Romeyn de Hooge nella quale compaiono il pontone di barche e la gru apprestati da Leon Battista Alberti nel tentativo di recuperare le navi di Caligola. 1671. Roma, Biblioteca Hertziana.
L’unico effetto tangibile del primo tentativo di recupero furono i gravi danni inferti alle navi gennaio
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pontefice Pio II, che volle ammirare quei materiali. Dei suddetti cimeli si persero in seguito le tracce, al contrario dell’ubicazione delle navi che da allora divennero l’irresistibile richiamo per i cercatori di tesori.
Tavole di larice spesse tre dita
Questa è la rievocazione del Biondo: «[La nave] era composta tutta di tavole grosse tre dita di un legno chiamato larice; e tutta intorno al di fuori era coperta d’una buona colla di color giallo, o purpureo; e sopra questa vi erano tante piastrelle di piombo, chiavate con spessi chiodi non di ferro, ma di bronzo, che mantenevano le navi e la colla intera, e la difendevano dall’acqua e dalle pioggie. Di dietro poi era talmente fatta, che non solo era sicura dall’acqua; ma si poteva dire e dal ferro, e dal fuoco. Era prima sopra il legno tutto disteso di buona creta,
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sparsa tanto ferro liquefatto (sarà stato in altra maniera) che faceva una piastra, poco meno quanto era tutta la nave di tavole, e in qualche luogo era grossa un dito, in alcun altro due; e sopra il ferro era un’altra impiastrazione di creta; e ci parve di vedere che mentre era il ferro caldo vi fosse su posta la creta; per essere talmente cosí la creta di sotto, come quella di sopra, afferrata, e ristretta col ferro, che pareva e il ferro e la creta una medesima colla. (…) furono nel fondo del lago trovate alcune fistole, o tubi di piombo, lunghe due cubiti e ben massicce, le quali si vedeva, che erano attaccate l’ una all’altra (…). In ognuna (...) erano scolpite belle lettere, le quali dimostravano (come pensiamo), che l’autore della nave fosse stato Tiberio Cesare; e giudicò Leon Battista Alberti, che dal bel fonte e abbondante che scaturisce presso Nemore (…) si stendessero molte di quelle fistole di piombo infin nel mezzo del lago, per condurre
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scienza e tecnica Il lago di Nemi, olio su tela di Feodor Michailovic Matveev. 1821. San Pietroburgo, Museo Russo.
acque in servizio delle case sontuose e belle che noi crediamo che fossero sopra quelle navi edificate. Bella cosa e quasi meravigliosa a vedere i grandi chiodi di bronzo, di un cubito lunghi, cosí interi e cosí puliti che pareva che allora appunto fossero da mano del maestro usciti».
Ingegnere, scalatore e... palombaro
Nel 1535, nell’ambito di un nuovo tentativo di recupero, furono effettuate alcune ricognizioni subacquee per constatare le effettive condizioni di giacenza degli scafi e le reali potenzialità della delicata impresa. A compierle fu un celebre ingegnere militare, che tra le varie conoscenze richieste all’epoca dalla professione,
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possedeva anche una discreta competenza idraulica: il bolognese Francesco De Marchi. Tipico spirito rinascimentale, il De Marchi, nato a Bologna nel 1504 e morto all’Aquila nel 1576, è ricordato come trattatista, come speleologo e alpinista – tra le sue imprese vi è la scalata del Gran Sasso nel 1573 –, ma, soprattutto, come antesignano palombaro, grazie a un curioso scafandro, inventato da Guglielmo di Lorena. Questa è la sua relazione dell’impresa, nella quale le imbarcazioni sono ancora attribuite a Tiberio: «Passa mille trecento quarant’anni che detta barca è nel fondo di detto lago, alla ripa che guarda verso il levante; la quale sta in pendivo nel lago; dove che maestro Gulielmo da Lorena trovò un gennaio
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A destra ricostruzione grafica dello scafandro di Guglielmo di Lorena utilizzato da Francesco De Marchi per le immersioni nel lago di Nemi, in vista del tentativo di recupero delle navi di Caligola.
La botte trasformata in scafandro, era stata assemblata con spesse doghe di quercia, superiormente irrigidite da traverse chiodate e lateralmente da tre massicci cerchioni di ferro, anch’essi chiodati. All’interno un rivestimento di lamiera di piombo ne garantiva l’assoluta impermeabilizzazione L’oblò si deve immaginare come una piccola feritoia rettangolare, chiusa da un robusto vetro mantenuto in sede da uno spesso telaio di bronzo, fissato con perni ribattuti al fasciame laterale della botte. La sua collocazione coincideva con il volto del palombaro, in modo da agevolargli la visione. Gli spostamenti sui rottami, richiedevano la massima attenzione: bastava un lieve inciampo per far entrare l’acqua nella botte, compromettendone la riserva d’aria. Per migliorare l’equilibrio il palombaro fu dotato di un bastone ferrato, simile ai bastoncini da sci, da maneggiare con la mano sinistra essendo la destra destinata alla presa dei reperti e ad azionare la fune per sollecitare il recupero.
istromento nel qual’entrava in essa; e se faceva calare nel fondo del lago, dove stava ivi un’ora, e piú e meno, secondo l`haveva da fare, overo che il freddo lo cazzava via, con il qual’istromento si può lavorare, con segare, tagliare, turare, ligar corde, adoperar mazzi, scarpelli, tanaglie et altri simili instromenti, ma non se può già fare, se non puoca forza, per grande che l’huomo l’habbia, per rispetto dell’acqua che impedisce; ancora se li vede alquanto quando il Sole è lucente; com’era quando io vi andai, che fu a 15 de luglio 1535 (…) Hora nell’andare giú sotto l’acqua io sentiva una passione nell’orecchie tanto grande che pareva che mi fusse posto un stillo d’azzale, che mi trapassasse dall’una orecchia all’altra: grandissimo dolore io sentii; dico che fu tale che mi si rompete
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una vena del capo, ch’l sangue mi usciva per la bocca, e per il naso dove che quando io cominciai a battere con il martello nella barca, mi cominciò a moltiplicar il dolore, e abondare il sangue, che fui sforzato à dare il segno e farmi tirare sopra; quando io fui di sopra che io fui fora dell’Instrumento, era tutto sangue il giupone bianco, ch’io haveva à dosso, il quale era cosí sutto da mezzo brazzo adietro, come era quando io entrai nell’instromento, e di piú havea un capello de seda cremisina, con una quantità di penne bianche, le quali erano cosí sutte, come erano quando io entrai nel lago, e per segnale i miei compagni me le tolsero per memoria».
Un barile come respiratore
Dunque, stando ai ricordi del De Marchi, l’istrumento era verosimilmente un barile rinforzato munito di un piccolo oblò di vetro e imbracato dall’alto con funi o catene, in pratica una sorta di campana individuale. All’interno il subacqueo poteva respirare l’aria che l’acqua aveva compresso nella parte alta del barile alla giusta pressione necessaria: «Steti mezz’hora di horologio la prima volta sotto l’acqua, et haveva portalo l’horologio con me per veder il tutto, e
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da poi che io fui di sopra, saltai nel lago a notare, e subito ch’io presi acqua in bocca, e che hebbi bagnato il capo, si fermò il sangue che non uscia né dal naso, né dalla bocca; poi volse tornare un’altra volta in basso, dove mi posi le braghe e mi turai le orecchie con bobace muschiato, et non mi diedero piú noia li pesci, né sentij piú quel dolore del capo, dove stetti un’hora à basso e ligai una parte della sponda della barca, la qual con un’argano che havevano di sopra in su un ponte di botte, trassimo tanto di questo legname che haveressimo potuto caricare doi buonissimi muli, il qual legname era di piú sorte; v’era larice, pino e cipresso; cosi fu giudicato in Roma da tutti gli valent’huomini». La notevole durata dell’immersione, però, non è compatibile con l’aria disponibile nel barile, che saturandosi in brevissimo tempo dell’anidride carbonica espirata diveniva irrespirabile. Del resto, se cosí fosse stato, non si spiegherebbe in che cosa consistesse il segreto gelosamente custodito, trattandosi della riproposizione del lebete da immersione di ellenistica memoria. Appare perciò ragionevole ipotizzare un sistema di ricambio d’aria effettuabile, per la modesta profondità della immersione, mediante un mantice collegato con gennaio
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In alto lo scafo di una delle navi di Caligola collocato nel museo (ancora in costruzione al momento della foto) realizzato a Nemi per le due imbarcazioni. L’edificio, innalzato tra il 1933 e il 1939 su progetto dell’architetto Vittorio Ballio Morpurgo, venne ultimato chiudendo la parete verso il lago, solo dopo avervi introdotto le due imbarcazioni, recuperate tra il 1929 e il 1932. A sinistra una foto scattata nel 1929 in cui una delle due navi è in corso di recupero. L’operazione fu compiuta anche attraverso l’abbassamento del livello delle acque del lago.
un tubo all’interno del barile. L’aria inviata dalla superficie scacciando dall’alto verso il basso quella viziata avrebbe allora consentito una permanenza illimitata.
Un palazzo costruito sull’acqua
Scrive ancora Francesco De Marchi: «Dentro della barca v’erano pavimenti de Matoni (...). Ancora cavassimo un pezzo de Smalto de un pavimento, il quale era rosso e di bel colore; era cinque palmi per un verso e otto per l’altro, grosso un mezzo palmo. In detta barca si vedevano certe oscurità, le quali erano le camere del Palazzo, che qui era edificato sopra questa barca, dove non mi attentai di entrarvi per paura di non mi perdere,e ancora per il pericolo dell’instrumento, che se per sorte l’huomo cadesse e non restasse dritto, subito saria morto, per l’acqua che entreia nell’instrumento con tanta velocità, ancora perche pesa assai bene; ma quando fusse uno che sapesse notare ò havesse animo, potria lasciare l’instrumento a basso, e venire sopra, come facea il maestro spesse volte. Il maestro diceva, che ancora egli havea paura à entrare in dette camere perché se cadeva era necessario lasciar lo instromento, ma trovar la porta da riuscire era il fatto. Il provare con una corda, e tornar per essa, hebbi
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una volta a restarvi, perché hebbi a cader giú per una scala: dove che ‘l s’avisò di voler levar detta barca, per di fuora andandola disfacendo». La nave che il De Marchi sta esplorando, al pari dell’altra, possiede ancora il ponte di coperta pavimentato e su questo si aprono gli ambienti originali. La consapevolezza che un passo falso e la conseguente caduta avrebbe fatto riempire quel precario scafandro, unitamente alla paura di entrare in un dedalo oscuro e sconosciuto impediscono allo studioso bolognese di andare oltre, lasciando però anche cosí una preziosa testimonianza sulle condizioni di conservazione delle navi: «Vi sono altri c’hanno parlato di detta barca, che con barche o ponti, vi andavano sopra e gittavano abbasso instromenti per cavarne, e di quel poco che cavarno ne fecero mentione per iscrittura. Ancora si trovò in essa un pezzo di canone di piombo grosso tre dita, e havea tanto di vacuo che vi entrava il pugno, della mano dentro. Misurassimo ancora la barca… La lunghezza é canne settanta [circa 140 m]; la larghezza è canne trentacinque [circa 70 m]; l’altezza dal fondo alla cima della sponda, canne otto».
La «riabilitazione» del De Marchi
La ricognizione subacquea del De Marchi, a lungo ritenuta non veritiera quando non inventata di sana pianta, fu riabilitata solo dopo il recupero delle navi, realizzato abbassando il livello del lago nel 1929-32, poiché si poté constatarne la sostanziale rispondenza. Le dimensioni degli scafi, tuttavia, risultavano pari a meno della metà di quelle citate, rispettivamente di 70 e 25 m, una diversità cosí notevole da non trovare una valida spiegazione se non quella di una voluta esagerazione, forse per scoraggiare ulteriori tentativi. Il ritrovamento di tenaglie, ganasce e ganci, infatti, forse appartenenti all’Alberti, stavano comunque a testimoniare gli inutili danni inferti alle navi e che purtroppo, nonostante la precauzione, si sarebbero moltiplicati nei secoli successivi. È impossibile per noi tentare di valutare l’esatta entità di quelle vandaliche asportazioni: di certo, quando i relitti uscirono finalmente dall’acqua, erano ormai ridotti al solo fasciame dell’opera viva, senza alcun ponte o frammento in sede dell’opera morta. Fra i reperti recuperati dal De Marchi vi era il frammento di un grande tubo di piombo, sul quale si poteva leggere Caesar Augustus Germanicus: lo studioso olandese Steven Pigge, nel 1547, notò che l’iscrizione si avvicinava soltanto al nome di Caligola. Per la prima volta le navi furono cosí associate a Caligola, una paternità subito ribadita da Pirro Ligorio, che nel X dei XXX libri delle Antichità, alla voce lachi, precisò che quei mitici relitti non andavano considerati vere imbarcazioni, assurde in un lago cosí piccolo, ma residenze galleggianti volute da Caligola e in seguito affondate. Le due navi cosí laboriosamente recuperate, poste in un apposito museo, furono poi incendiate da militari tedeschi in ritirata, nella notte del 31 maggio del 1944. F
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medioevo nascosto bominaco di Franco Bruni
Re Carlo (Magno?)
e il pellegrino
A pochi chilometri dall’Aquila sorse, intorno al X secolo, il complesso benedettino di Bominaco. Un insediamento importante, i cui monaci furono protagonisti di un vivace rapporto dialettico con le autorità ecclesiastiche, curando, nel contempo, la realizzazione di una magnifica chiesa abbaziale e di un oratorio splendidamente affrescato. Inizia con la visita a questo tesoro nascosto il nostro viaggio alla riscoperta del meraviglioso – e in massima parte ancora sconosciuto – patrimonio architettonico e artistico del nostro Medioevo
L L
ontano dalle rotte turistiche piú battute, il complesso benedettino di Bominaco (frazione di Caporciano, 30 km a sud de L’Aquila) è uno dei siti monastici piú interessanti ma anche meno conosciuti dell’Abruzzo medievale; un luogo in cui si può ancora respirare un’atmosfera spirituale autentica e dove – fatto ancor piú raro – la gestione attenta del patrimonio ne ha permesso la conservazione in un contesto urbano e paesaggistico rispettoso dell’eredità tramandataci. Sebbene la documentazione d’archivio sia andata dispersa, la fondazione del complesso monastico viene fatta risalire al X secolo, sulla base di quanto narra il perduto Registrum actorum et scripturarum S. Mariae de Bominaco, citato da Anton Ludovico Antinori nelle Antiquitate Italicae Meii Aevi di Ludovico Antonio Muratori. Ma sono il Chronicon farfense e il Regesto di Farfa a fornirci ulteriori notizie sul legame del complesso con l’abbazia laziale, un legame peraltro testimoniato anche in vari atti imperiali, che lo citano appunto come proprietà farfense. Da un atto del 1093 si apprende che il normanno Hugues de Gerbert aveva donato l’abbazia al capitolo di S. Pelino a Corfinio, appartenente alla diocesi di Valva: un episodio che si inserisce nel processo di scambi a seguito della conquista normanna. E la storia del monastero benedettino si dipana pro-
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A sinistra Bominaco (frazione di Caporciano, L’Aquila), chiesa di S. Maria Assunta. Uno dei capitelli della navata centrale. Nella pagina accanto l’interno dell’oratorio di S. Pellegrino.
L’edificio, molto sobrio dal punto di vista architettonico, presenta una ricchissima decorazione ad affresco, che copre poco meno di 500 mq, sulle volte e sulle pareti.
prio nel segno del difficile rapporto, sempre oscillante tra la dialettica e lo scontro vero e proprio, fra i monaci di Bominaco, che rivendicavano la propria autonomia, e il vescovo di Valva. Tensioni che si inasprirono soprattutto a partire dal 1153, dopo che papa Atanasio IV aveva sancito la pertinenza vescovile del complesso abruzzese, confermata in una bolla da Adriano IV nel 1156. Ulteriori tensioni si ebbero nel 1166 quando papa Alessandro III ribadí ancora una volta che l’elezione dell’abate era subordinata all’approvazione del vescovo di Valva: un atto che, invece di indurli all’accettazione, spinse i monaci a reagire con ancor piú coraggio.
Una conflittualità perenne
Tra l’ultimo ventennio del XII secolo e il primo decennio del successivo i papi Lucio III, Clemente III e Innocenzo III confermarono la pertinenza vescovile sul monastero bominacense nonostante l’opposizione dei gennaio
MEDIOEVO
MEDIOEVO
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medioevo nascosto bominaco MARCHE Ascoli Piceno UMBRIA
Giulianova
Teramo
Campli
MAR A D R I AT I C O
Roseto degli Abruzzi
Pietracamela Assergi
L’Aquila
Santo Stefano di Sessanio
Bominaco Ovindoli
Penne
Pretoro Navelli
Guardiagrele
Sulmona
Celano Tagliacozzo
Avezzano Civitella Roveto
Ortona Lanciano Casoli
Vasto
Fara San Martino
Introdacqua
Scanno Pescasseroli Alfedena
LAZIO
MOLISE
monaci, che soprattutto nella figura dell’abate Todino (anni Sessanta del XIII secolo) ebbero uno strenuo difensore, oltre che il promotore della ricostruzione dell’oratorio di S. Pellegrino. Nonostante il periodo di grande floridezza vissuto tra il XII e il XIII secolo, l’eterna contesa tra i religiosi bominacensi e il potere vescovile non si affievolí: nel 1330 Roberto d’Angiò riconobbe ancora una volta al vescovo di Valva la giurisdizione sull’abbazia bominacense. In seguito al saccheggio subito dall’abbazia nel 1423 da parte del capitano di ventura Fortebraccio da Montone negli scontri tra Aragonesi e L’Aquila, e del successivo affidamento in commenda della stessa a cardinali, inizia un lungo periodo di decadenza nella storia del complesso monastico, chiuso definitivamente nel 1792 da Benedetto XIV e assegnato alla diocesi de L’Aquila.
Un gioiello dell’architettura romanica
Frutto dei lavori di ampliamento di un precedente complesso monastico del X secolo, la chiesa abbaziale oggi visibile, intitolata a S. Maria Assunta e databile tra il XII e XIII secolo, dalle forme rigorose ed eleganti, è un magnifico esempio di architettura romanica: a pianta basilicale a tre navate, si distingue per alcuni elementi della decorazione esterna e interna, certamente attribuibili a esperti lapicidi. Peculiare è la facciata, che si distingue per il doppio spiovente della navata centrale a cui si oppongono i coronamenti orizzontali delle coperture delle due navate laterali, con una soluzione che piú tardi si diffuse nell’architettura sacra locale. Il tipico portale benedettino, arricchito con architrave e archivolto ornati da motivi ricorrenti anche in altre chiese abruzzesi, è sovrastato da un lucernario circondato da quattro leoni su mensole che evocano, invece, modelli pugliesi. Il lato posteriore esterno, con le tre absidi che ripetono la suddivisione interna, ci riporta a reminiscenze lombar-
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s. maria assunta
San Pellino
In alto la facciata della chiesa. A sinistra cartina dell’Abruzzo con l’ubicazione di Bominaco. In basso particolare del capitello che corona la colonna tortile che sostiene il candelabro pasquale.
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In alto, a destra l’altare della chiesa, sormontato dal ciborio realizzato nel 1223. A destra la cattedra abbaziale, realizzata nel 1184 su commissione dell’abate Giovanni.
Qui sopra sezione della chiesa. L’edificio, innalzato tra il XII e il XIII sec. su una fabbrica preesistente, si articola in tre navate, separate da colonne di spoglio.
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s. pellegrino
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In alto la facciata del piccolo oratorio, al cui interno si può leggere un’iscrizione che pone la sua fondazione in relazione con un «re Carlo», da alcuni identificato con Carlo Magno. In basso sezione dell’oratorio.
Qui sopra Cristo giudice pesa le anime, particolare della scena del Paradiso affrescata nella prima campata. I quattro cicli pittorici riconosciuti seguono un andamento inconsueto rispetto alla norma.
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Un settore degli affreschi che si succedono nella parete sinistra della seconda campata dell’oratorio. Al centro si riconoscono
due scene appartenenti al ciclo dell’Infanzia di Gesú: la Natività e l’Adorazione dei pastori; in basso, alcune scene della vita di san Pellegrino.
de per la presenza di eleganti arcatelle cieche a coronamento delle pareti absidali. Ad arricchire queste ultime concorrono le decorazioni delle monofore dell’abside centrale e di quella di destra, sormontate da iscrizioni inneggianti alla Madonna e circondate da fasce con elementi vegetali e animali; decorazioni simili si ritrovano nel fianco sinistro della chiesa, dove, attorno ad alcune monofore, tornano, ma con soluzioni piú fantasiose, analoghi elementi ornamentali.
Lo stile corinzio rivisitato
L’interno presenta la classica tripartizione a tre navate, con sei colonne di spoglio per lato, un elemento, questo, che la differenzia da altre chiese coeve d’Abruzzo, nelle quali predomina la presenza dei pilastri. Si è subito colpiti dalla fattura dei capitelli d’influenza nordica, finemente lavorati, in maniera diversa l’uno dall’altro, a motivi vegetali che reinterpretano lo stile corinzio. Ma è soprattutto l’ambone del 1180 a catturare l’attenzione; commissionato dall’abate Giovanni, si presenta con un lettorino semicilindrico su quattro colonne con straordinari capitelli corinzi e fregi sul parapetto che raffigurano tralci frammisti ad animali e figure umane.
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Un’altra testimonianza significativa dell’arte lapidea bominacense è l’elegante ciborio del 1223 che sovrasta l’altare, affiancato dal coevo candelabro pasquale su colonna tortile, posto su un leone stiloforo e terminante con un capitello che è un vero tripudio di creatività. Dietro l’altare vi è poi la cattedra abbaziale anch’essa finemente decorata e voluta nel 1184 dall’abate Giovanni, ritratto sul lato destro insieme a una iscrizione che reca la datazione dell’opera. Terminata la visita della chiesa e ripercorrendo a ritroso il percorso, si costeggia poco piú in basso un altro monumento eccezionale, unico superstite, oltre a S. Maria Assunta, del complesso monastico originale: il piccolo oratorio di S. Pellegrino. Opera di artisti anonimi che al suo interno hanno lasciato una testimonianza considerevole della loro produzione pittorica, è un edificio quasi anonimo, realizzato in semplice muratura ad aula unica. L’accesso originario, affiancato da un rosone, si trovava nel lato posteriore; risale invece al XVIII secolo il portico su colonne che caratterizza l’ingresso attuale. L’aspetto dimesso degli esterni crea un contrasto sorprendente con l’interno. L’aula fu fatta ricostruire dall’abate Teodino nel 1263 – periodo di maggior splendore per il complesso di Bominaco – su un precedente edificio voluto da un non meglio specificato re Carlo, come recita l’iscrizione su uno dei plutei interni (h. domus a rege carulo fuit edificata ad q.p. abate teodinu stat renovata (…) anni doni tuc mille cc et edxaginta tres leto di-
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A destra prima campata, parete destra: la Flagellazione di Gesú. È una delle composizioni attribuite al cosiddetto Maestro della Passione, che si distingue dagli altri di cui si ipotizza la partecipazione alla decorazione dell’oratorio – il Maestro Miniaturista e il Maestro dell’Infanzia –, per lo stile piú realista e vigoroso.
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Il Calendario liturgico
Come un libro miniato
Terza campata, parete sinistra: il registro intermedio, raffigurante il primo semestre del calendario liturgico, attribuito al Maestro Miniaturista.
Il Calendario liturgico bominacense è una delle testimonianze piú interessanti dell’oratorio di S. Pellegrino, nonché uno dei rari esempi di calendario liturgico dipinto giunto sino a noi in ottimo stato di conservazione. Merita peraltro d’essere segnalata la presenza, non lontano da Bominaco, di un secondo calendario dipinto, coevo, all’interno della chiesa di S. Maria ad Cryptas (nel Comune di Fossa). In questo caso, però, si è conservato, in uno stile prettamente popolaresco, solo il secondo semestre. Disposti specularmente, i due semestri di S. Pellegrino circondano l’altare, a ricordare il tempo liturgico, con le sue festività. Forte è l’influenza del dettame romano, come ci si può aspettare a seguito del processo di uniformazione liturgica
cito gent). Gli storici hanno proposto di identificarlo con Carlo Magno, che – come ci testimonia il Chronicon volturnense – in questi luoghi soggiornò e, secondo la leggenda, avrebbe visto in sogno un santo pellegrino. Le spoglie di quest’ultimo sarebbero conservate sotto l’altare, come si legge in un’altra iscrizione presente sullo stesso: credite quod hic est corpus beati pellegrini. È questa l’origine delle rivendicazioni della mitica fondazione carolingia del sacello, ricordata dai monaci – anche nei cicli pittorici dell’oratorio – a difesa della loro indipendenza contro le pretese vescovili. Come nelle prime chiese cristiane, l’aula è divisa in due settori dai due plutei che separano la zona riservata ai battezzati da quella dei celebranti. Su di essi sono raffigurati un grifone e un drago alato, probabilmente un simurg, un essere mostruoso della mitologia persiana, diffuso anche nell’iconografia occidentale. Sulla volta e sulle pareti si possono ammirare ben 470 mq di affreschi, che si dispongono in una serie di cicli nelle quattro campate, suddivise da quattro ampi archi ogivali – d’influenza cistercense – alternati a figure isolate di santi, che si concentrano in particolar modo nella zona presbiteriale. Quattro sono anche i cicli individuabili e la loro disposizione – piuttosto insolita rispetto alla classica sequenza di lettura dalla parete di sinistra a quella di destra – ha dato adito a numerose ipotesi interpretative dell’originale, e a tratti ambiguo, percorso narrativo.
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che andò affermandosi nel corso del XIII secolo. Ma c’è spazio anche per le festività dell’Ordo benedettino. Di straordinaria fattura – è stata riconosciuta la mano del Maestro Miniaturista come autore del ciclo –, ogni mese è rappresentato da due vignette trilobate, che raffigurano, nella parte superiore, rispettivamente la fase lunare e il segno astrologico, e, nella parte inferiore, il mese – caratterizzato da vivaci descrizioni di personaggi intenti nelle attività piú diverse – e il calendario vero e proprio con tutte le sue festività principali. La dovizia di particolari e i dettagli con cui sono descritti i personaggi dei mesi si sposano, peraltro, a una eccezionale resa miniaturistica, tanto da far pensare di trovarci di fronte a un libro miniato di tipico gusto goticheggiante.
Apre l’itinerario pittorico nella parete di sinistra, avendo alle spalle l’entrata, il ciclo dell’Infanzia di Cristo, nel registro superiore della prima arcata, d’impronta bizantineggiante, con l’Annunciazione e la Visitazione di Maria. Il registro intermedio propone, invece, il ciclo della Passione, con l’Ultima cena, in cui è assente Giuda; quest’ultimo è però il protagonista del terzo registro sottostante con l’articolata scena del tradimento. Nel quarto registro, il piú basso, vengono narrate alcune scene infernali: composizioni normalmente ritratte nei registri inferiori delle pareti affrescate, e sicuramente capaci, data la loro prossimità al fedele, di incutere una certa impressione.
Una presenza insolita: il paesaggio
Passando alla seconda campata, nel registro superiore prosegue il ciclo dell’Infanzia, con la Natività, e, soprattutto, con un bellissimo Annuncio ai Pastori, caratterizzato dall’insolita presenza di dettagli paesaggistici. Al di sotto del ciclo dell’Infanzia, sei vignette narrano episodi della vita di san Pellegrino, alcune di difficile interpretazione, altre di chiara lettura, con il santo davanti alle autorità imperiali, la sua flagellazione, e mentre predica il Vangelo. Nel terzo registro è raffigurato Cristo in trono, circondato da quattro Apostoli. Nell’ultimo registro, invece, contro un panneggio decorativo, è presente un medaglione raffigurante una lotta, da intendersi come un simbolico scontro tra il bene e il male.
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Il sogno di Carlo Magno
I due registri inferiori sono piuttosto mal conservati; uno di essi rappresenta forse la continuazione del ciclo di san Pellegrino (iniziato nella parete opposta). Nella quarta e ultima campata prosegue il ciclo dell’Infanzia, con la scena dell’Epifania ed Erode che ordina la Strage degli Innocenti. Nel registro sottostante è invece rappresentato il sogno di Carlo Magno, a rimarcare le già ricordate origini regali dell’oratorio: la rivendicazione «carolingia» sulla fondazione dell’abbazia – rappresentata indirettamente in queste scene – potrebbe essere interpretata come atto simbolico/politico contro le ingerenze del vescovo da sempre interessato al controllo dell’abbazia. Nei due registri sottostanti torna il ciclo della Passione con le sue scene piú drammatiche: la Flagellazione, la Deposizione e la Sepoltura di Cristo. Il registro piú basso rappresenta il Paradiso, con san Pietro che ne spalanca le porte.
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Con la terza campata – oltrepassati i plutei – siamo in piena area presbiteriale, e con essa mutano anche le tematiche raffigurate. La divisione spaziale determinata dai plutei corrisponde a una differenziazione dei soggetti: se nelle pareti che li precedono predomina la narrazione sacra, al di là di essi, nella zona dell’altare, s’impongono la corte celeste dei santi e le sacre scritture. Nel registro superiore della campata ecco dunque figurare i profeti del Messia: Mosè, Giona, Isaia e Giobbe. Nel registro sottostante è rappresentato il primo semestre del calendario liturgico bominacense, mentre il secondo è rappresentato nella parete opposta. Il calendario in prossimità dell’altare, oltre a costituire una presenza pittorica piuttosto rara, trova la sua ragion d’essere in qualità di regolatore del tempo liturgico. Nel registro sottostante il primo semestre, viene narrato l’incontro di Cristo a Emmaus, con il Salvatore nei panni di un pellegrino a ricordare il santo dedicatario dell’oratorio; accanto compare san Martino che cede il suo mantello a un povero pellegrino. Il muro di fondo e la quarta campata (parete di destra dando le spalle all’entrata), sono principalmente dedicati alla raffigurazione di santi, molti dei quali ritratti all’interno di medaglioni e spesso di dubbia identificazione anche per il cattivo stato di conservazione. La quarta campata (lato destro dando le spalle all’entrata), molto deteriorata, ospita la rappresentazione di una tavola con tre personaggi purtroppo non identificabili. In quella successiva tornano, specularmente, nel registro superiore alcuni patriarchi e profeti, mentre quello inferiore è dedicato al secondo semestre del calendario liturgico; sono invece quasi del tutto illeggibili gli affreschi nel registro inferiore. Con la seconda campata riappare il ciclo dell’Infanzia, già incontrato nel registro superiore della parete di fronte: qui sono raffigurati la Presentazione al Tempio e l’arrivo dei Magi.
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i pittori di s. pellegrino
Tre maestri per un capolavoro Negli affreschi di S. Pellegrino, dietro l’anonimato degli artisti che si fecero carico dell’impresa pittorica, è possibile individuare almeno tre maestri. Il Maestro Miniaturista, autore del calendario liturgico, dallo stile minuzioso e quasi calligrafico nelle descrizioni dei mesi; uno stile che si ritrova anche nelle fasce decorative della volta o come elementi divisori tra le scene, in cui si alternano cartigli sapientemente raffigurati nella loro geometrica tridimensionalità, come nelle altrettanto eleganti fasce a motivi fitomorfi e nei variegati cieli stellati. Piú legato ai dettami dell’iconografia bizantina è invece il Maestro dell’Infanzia, benché le sue rappresentazioni – per esempio l’Adorazione dei Pastori – non manchino di sensibilità nel raffigurare la realtà con vivace realismo. Al cosiddetto Maestro della Passione, infine, vanno la maggior parte delle restanti scene che, oltre a quelle della Passione, includono il ciclo di san Pellegrino, le scene dell’incontro di Emmaus e di san Martino, il Cristo Salvatore tra gli Apostoli e i vari santi e profeti raffigurati nei medaglioni. Come ha giustamente osservato Serafino Lo Iacono, il suo stile si discosta dall’immobile ieraticità bizantina a favore di una narrazione piú realistica e di evidente impatto drammatico. In alto particolare degli affreschi della controfacciata dell’oratorio. Si riconosce, sulla sinistra, una raffigurazione colossale di san Cristoforo, alla cui sinistra compare san Francesco. A sinistra prima campata, parete destra: Deposizione dalla croce e Sepoltura di Gesú.
A completamento dell’articolato percorso narrativo, la controfacciata, al cui apice è rappresentato l’agnello pasquale, colpisce soprattutto per la gigantesca figura di san Cristoforo, ritratto sul lato sinistro del portale. Appare evidente la funzione apotropaica del santo, che sostiene da un lato il Bambino Gesú, mentre alla sua sinistra è raffigurato san Francesco, la cui presenza in «suolo» benedettino è sintomatica dell’enorme popolarità e diffusione che il santo iniziava ad avere nella cultura religiosa del tempo. Sono poi raffigurati Zaccaria e Isaia, mentre, sul lato sinistro del portale d’accesso, il registro superiore propone la Strage degli Innocenti; quello intermedio l’entrata trionfale a Gerusalemme e, in basso, la Lavanda dei Piedi, simbolo dell’atto purificatorio per l’accesso alla casa del Signore. Giunti a conclusione di questo inusuale percorso pittorico, resta impresso il fascino della grande ricchezza cromatica dei cicli affrescati la cui singolare disposizione, i rimandi tra una scena e l’altra, in una successione apparentemente illogica, rispecchia, come ribadisce lo storico Jérôme Baschet, collegamenti simbolici e funzionali rispetto allo spazio architettonico. Un monumento che insieme alle eleganti architetture della chiesa abbaziale di S. Maria Assunta, con i suoi capolavori d’arte lapidea, ha saputo difendere con fierezza il suo splendore, e che il terribile sisma del 2009 non è riuscito a scalfire. F
Nel prossimo numero ● I segreti di Amatrice
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Un castello in Valdambra
Galatrona è ciò che resta di uno dei piú importanti castelli del territorio. Per la sua posizione strategica si suppone che la collina sia stata sede di insediamenti molto antichi: secondo alcuni il toponimo Galatrona sarebbe di derivazione etrusca, mentre le tracce murarie, di notevole spessore, a forma ellittica e formate da grosse pietre arenarie posizionate intorno alla torre, indicano la presenza di un insediamento etrusco-romano. La prime notizie certe sul castello risalgono al X secolo. In un atto del 963 si cita Galatrona con l’antico nome di Canastruna e risulta evidente il suo controllo su una vasta porzione di territorio. Per tutto il Medioevo e fino alla fine del XII secolo le vicende di Galatrona sono legate, come per l’intera Valdambra, alle contese tra Firenze e Arezzo prima e tra Firenze e Siena poi.
Ripetuti passaggi di mano
cartoline • La torre
di Galatrona, nel territorio di Bucine, in provincia di Arezzo, è quanto resta dell’antica fortezza di Canastruna, un caposaldo di grande importanza nelle contese tra Firenze, Arezzo e Siena 104
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entro del Valdarno Superiore, nella bassa valle del torrente Ambra, la cittadina di Bucine (in provincia di Arezzo) vanta origini etrusco-romane e, nel Medioevo, fu un importante castello a controllo della Valdambra. Nel territorio comunale si contano importanti monumenti dell’epoca medievale, che valgono senz’altro una visita e tra i quali abbiamo scelto le mete di questo itinerario. Visibile da buona parte del Valdarno e della Valdambra, la torre di
Nel XII secolo il castello faceva parte del viscontado della Valdambra e, nel 1220, Federico II confermò ai conti Guidi la proprietà del castello, come risulta anche dallo statuto del conte Guido Guerra III di Modigliano. In seguito alle dure guerre intraprese dai Tarlati di Arezzo contro i Guidi e gli Umbertini tra il 1318 e il 1321, Galatrona fu occupata da Saccone Tarlati e passò sotto il dominio aretino. Solo nel 1335, con il declino dei Tarlati e del Comune di Arezzo, i Fiorentini occuparono il castello di Canastruna e furono i suoi stessi uomini a nominare sindaco Martino Barfoli, che rese pubblico atto di sottomissione alla repubblica fiorentina il 3 novembre di quell’anno. Proprio da questo atto risulta l’esistenza di due torri: quella denominata «vecchia», non piú esistente, data in custodia a Piero Jannuzzi e quella «nuova» affidata a Gino Cociacchi. Dai documenti catastali dei primi del 1400 risulta inoltre che il castello di Galatrona ospitava al suo interno una ventina di abitazioni, e una quarantina nel borgo esterno. Le guerre del XV secolo e gennaio
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l’occupazione nel 1529 da parte delle truppe del principe d’ Orange coinvolsero l’intera Valdambra. Dalla cartografia dei capitani di parte (1584) risulta evidente l’espandersi di borghi e insediamenti sparsi, mentre le mura fortificate del castello appaiono in disuso. Una tela del 1600 custodita nella pieve romanica di S. Giovanni Battista in Galatrona, ritrae sullo sfondo il castello con le due torri, di cui una in decadenza, e i borghi all’esterno scomparsi, segno evidente del definitivo abbandono del luogo. Infatti, risulta che dal 1600 il castello perse la sua funzione militare passando alla comunità di Bucine e, dal XVIII secolo a oggi, non si è trovato coinvolto in particolari avvenimenti storici di rilievo, passando a un totale abbandono fino al recente restauro. Fa parte della storia anche una vecchia credenza popolare, che narra l’esistenza di un tunnel sotterraneo che univa il castello di Galatrona con il castello di Torre di Mercatale. Del fatto non esistono prove concrete, ma qualcuno, per dimostrarne la veridicità, ha scavato per una trentina di centimetri nel muro della cisterna alla ricerca dell’entrata del fantomatico tunnel, ma lí si è presto fermato… La comunicazione tra le torri dei castelli limitrofi era solo visiva.
piccola rampa di scale, costruita durante il restauro, si arriva al varco di accesso attraverso un ballatoio di legno, la cui struttura ricorda quella di un ponte levatoio. Quest’unico ingresso si apre a 4 m d’altezza: segno che, per accedervi, anticamente venivano usate scale retrattili, sempre pronte all’uso e a essere rimosse in caso di pericolo. All’interno la costruzione è suddivisa in sei piani, ai quali si aggiunge una splendida terrazza-tetto. Il primo piano possiede una volta a botte in mattoni e dal pavimento, attraverso una botola originale, si accede al seminterrato, verosimilmente utilizzato come cisterna, come suggerisce l’attenta stuccatura in cocciopesto, che rende tutt’oggi le pareti perfettamente impermeabili. Inoltre, all’interno si
possono ancora distinguere i segni lasciati nel tempo dai diversi livelli dell’acqua. Si tratta di un serbatoio di notevoli dimensioni: è infatti profondo 8 m, di cui 4 interrati e 4 al di sopra del piano di campagna.
Ambienti di dimensioni modeste Lo spazio abitabile della torre, nonostante l’ampiezza delle pareti esterne, è decisamente ristretto, con lati di 3,40 m ciascuno. Ciò si deve allo spessore delle mura, pari a 1,80 m circa, che grantiva la robustezza e la resistenza dell’edificio. Una scala di ferro moderna porta al secondo piano, anch’esso con soffitto a volta, che ha un’altezza di 3,80 m rispetto al piano di spiccato dal livello inferiore. E anche gli altri quattro piani, in legno, misurano 3,80 m di altezza.
Posizione dominante Costruita in pietra arenaria e murata a calcina, la torre di Galatrona si innalza per circa 27 m, sulla sommità di una collina che tocca i 500 m di quota e dalla quale domina i centri abitati di Torre, di Mercatale Valdarno e di San Leolino. I lati della base quadrata, hanno una larghezza di 7 m, che si mantiene inalterata verso la cima, conferendo alla struttura un aspetto severo e imponente. Dopo aver percorso una A destra la pieve di S. Giovanni Battista a Galatrona (Bucine, Arezzo). Nella pagina accanto la torre di Galatrona, in origine appartenente al castello di Canastruna citato dalle fonti.
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Il ponte medievale sul torrente Ambra, nella frazione di Pogi del Comune di Bucine (Arezzo). Dal secondo al quinto ambiente, si contano quattro feritoie a piano, con il classico basamento a imbuto, la cui parte larga (verso l’interno) permetteva l’appoggio delle armi del tempo quali la balestra. All’ultimo piano, invece, si apre una piccola finestra su tutti i lati, con basamenti calpestabili per facilitare l’affaccio in sicurezza verso l’esterno. Il torrione termina con una terrazza a lastre di pietra (alcune originali) di circa 7 m di lato, il cui pavimento è sostenuto da una volta, anch’essa in mattoni disposti a coltello. Nella parte sommitale della costruzione, si possono ancora notare molti dei beccatelli originali che sorreggevano il ballatoio utilizzato dalle sentinelle. Durante lo scavo per la costruzione della scala esterna che permette l’accesso alla torre sono stati rinvenuti frammenti ceramici di notevole interesse, ma di difficile identificazione e datazione. Si tratta, perlopiú, di ceramica acroma medievale, utilizzata per vasi d’uso domestico, come testi, tegami
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e pentole. Sono stati rinvenuti inoltre frammenti piú recenti di ceramica policroma invetriata di origine fiorentina e locale, che possono essere collocati tra il XIV e il XVII secolo. Esposti all’interno della torre, i reperti riescono a fornirci una chiave di lettura della tipologia e diffusione della ceramica delle diverse epoche trascorse, e ci mostrano uno spaccato della vita quotidiana all’interno del castello.
La pieve e il ponte Lungo il percorso che da Mercatale Valdarno conduce alla torre, si incontra, e vale la sosta, anche la pieve di S. Giovanni Battista a Galatrona, che, sorta probabilmente in epoca paleocristiana, viene citata per la prima volta nel 963. L’edifcio attuale, rimaneggiato nel corso dei secoli, è a tre navate e presenta una copertura a capriate lignee. Il campanile a vela con tre luci è stato innalzato su quello originario. Sopra il portale è una finestra architravata con lo stemma Piccolomini (1619). All’interno si conserva un ricco arredo invetriato, costituito da un fonte battesimale, un ciborio a tempietto e un San Giovanni Battista,
eseguiti da Giovanni Della Robbia, probabilmente con l’intervento del figlio Marco, tra il 1517 e il 1521. Infine, percorrendo la strada provinciale 540 della Valdambra, che da Bucine porta in direzione Ambra-Siena, appena fuori dell’abitato si incontra la frazione di Pogi e dopo una piccola deviazione si raggiunge un ponte medievale. Dopo il recente restauro, terminato nel luglio del 2012, il manufatto è tornato all’antico splendore. Il ponte sorge sul torrente Ambra in una diramazione dell’antica via consolare Cassia Adrianea che da Roma portava a Firenze. Con la sua forma a schiena d’asino, è un caso tipico di riutilizzo in età medievale di basamenti dell’antica Roma. Il disegno a cinque arcate mostra la classica tipologia di costruzione medievale con muratura a sacco molto in uso in quel periodo. Per informazioni sulla visita della torre di Galatrona, si può contattare il Gruppo «Amici del Torrione»: tel. 055 9707336; cell. 333 3768631; mentre per quella della pieve ci si può rivolgere allo 055 9707019 oppure al 333 430222. Giuseppe Amilcarelli gennaio
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Tesori dell’Irpinia medievale
libri • Frutto di un lungo e sistematico lavoro di studio
sul campo e forte di un ricco apparato iconografico, il volume rivela la partecipazione della regione irpina alla temperie artistica e culturale dell’Età di Mezzo
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rutto di un lavoro a quattro mani, il volume ripercorre in otto sezioni e oltre 300 pagine le realtà artistiche del territorio, dal crepuscolo del mondo antico alle soglie dell’età moderna, passando per le architetture angioine, la crisi del tardo XIV secolo e l’adesione al Gotico. Dietro alla pubblicazione c’è uno studio a tappeto, condotto sul campo in anni di sopralluoghi, che hanno portato gli autori alla conoscenza diretta di monumenti, affreschi, tavole, corredi plastici, poi confrontati con opere coeve del territorio napoletano e italiano. Da questo repertorio, attento e documentato, si delinea un’immagine vivace della terra irpina, poco conosciuta, ma inserita a pieno titolo nella geografia culturale del Medioevo. Il testo si apre con Le testimonianze paleocristiane e longobarde, legate a un periodo che segna un certo distacco rispetto all’antico, aprendo di fatto la via a un’espressione figurativa già medievale. Gli autori inaugurano queste pagine trattando la chiesa di S. Ippolito ad Atripalda, la cui cripta, rimaneggiata in epoca barocca, aveva mosaici pavimentali e dipinti improntati a un sentire nuovo.
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La seconda parte, sulla realtà normanna, affronta una produzione raffinata, che, dopo la fase di stallo dell’ultima epoca longobarda, registra una rinnovata vivacità nella cultura figurativa dell’Irpinia. E qui non poteva mancare l’abbazia femminile di Goleto, fondata da Guglielmo di Vercelli nel 1130-1132, con un’ampia stratigrafia che arriva fino al periodo svevo.
Una Maestà per Filippo Il capitolo successivo, dedicato alla produzione federiciana, analizza, fra gli altri, una pietra miliare dell’architettura, quale la cattedrale di Sant’Angelo dei Lombardi. Le tre sezioni seguenti (Dagli Svevi agli Angioini, Centro e periferia nella prima età angioina e Le architetture di età angioina), abbracciano due secoli, il XIII e il XIV, ai quali sono ascrivibili edifici e dipinti di notevole livello qualitativo. Da segnalare l’abbazia di Montevergine, con una Maestà di Montano d’Arezzo (1295-1298) commissionata da Filippo, fratello di Roberto d’Angiò. La tavola mariana di grandi dimensioni ha segnato una svolta nell’Irpinia, introducendo un formato inusuale, ma anche riferimenti a Cimabue e Duccio.
Francesco Gandolfo e Giuseppe Muollo Arte medievale in Irpinia Artemide Edizioni, Roma, 336 pp., ill. col. 60,00 euro ISBN 978-88-7575-171-5 www.artemide-edizioni.com Tocca quindi a La crisi del secondo Trecento, legata alla situazione di difficoltà dell’ambiente napoletano: l’abbazia di Montevergine è al centro anche della nuova temperie. Infine, gli autori affrontano l’avvio Verso il tardo Gotico, partendo dagli affreschi della cattedrale di Trevico, in cui i riferimenti a una cultura alta si fondono con l’uso esasperato della linea di contorno e qualche ingenuità. Stefania Romani
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Lo scaffale Francesca Bocchi Per antiche strade Caratteristiche e aspetti delle città medievali Viella, Roma, 524 pp., ill. b/n
40,00 euro ISBN 978-88-6728-058-2 www.viella.it
È possibile determinare le caratteristiche della città-tipo nell’Italia del Medioevo? La risposta, negativa, è la conclusione – ma, in un certo senso, anche la premessa – dello studio sulle diverse realtà urbane condotto dal punto di vista del tessuto viario. Quale prospettiva di osservazione è piú utile di quella delle «antiche strade», «l’intelaiatura che regge la struttura materiale della città»? La ricerca di Francesca Bocchi ripercorre la storia, anzi, le molte storie che hanno lasciato tracce e apportato cambiamenti ben evidenti in tutta la Penisola, da nord a sud, calandosi nell’elemento che racchiude (e si collega a) tutti gli aspetti della «fisicità della città». La destrutturazione del mondo antico e l’elaborazione dei nuovi assetti della società, le infrastrutture e i servizi sono i temi dei primi tre capitoli. Gli
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esempi si spingono anche al di fuori del territorio italiano: oltre a Roma, con la sua crescita in parte caotica sulle rovine del mondo antico, e Palermo, divisa in due intorno al Mille, ecco Treviri e Münster in Germania, il cui assetto è stato fortemente caratterizzato dalle sedi vescovili, Tours in Francia
e Salisbury nelle isole britanniche, che presentano un’accentuata separazione in parti. Il quarto capitolo è dedicato al concetto di «modernizzazione» della «città storica», alle esigenze di adeguamento delle strutture di volta in volta avvertite, mentre l’ultimo offre una visuale «dall’alto» della vita urbana, quello che poteva essere lo spettacolo vissuto dal davanzale delle finestre, insieme all’analisi della
varietà architettonica che caratterizzava gli edifici del Medioevo e a uno spaccato di vita quotidiana. Si spazia dagli aspetti «materialmente» urbanistici a quelli che riguardano da vicino la composizione e le caratteristiche della popolazione, perché «nella città medievale si può incontrare anche un paesaggio “sociale”, cioè una separazione su base topografica di etnie, di ceti sociali, di appartenenze religiose diverse». Uno dei punti di forza dell’opera è la ricchezza e l’estrema varietà di esempi che l’autrice porta in primo piano, pur continuando a seguire il filo conduttore dell’intera trattazione. La rete stradale è la chiave di lettura approfondita per cogliere e capire meglio i processi storici, lunghi e costellati di trasformazioni, in cui si è concretizzata quella che viene appunto ricordata come l’Età di Mezzo: anni in cui l’eredità classica, specialmente in Italia, non è mai venuta meno, anche se «non sempre è stata una memoria consapevole», ma è stata in qualche modo metabolizzata e rielaborata. Giorgio Rossignoli
Giovanni Maria De Rossi Fossanova e San Tommaso Sulle orme di San Tommaso d’Aquino a Fossanova: un percorso tra agiografia e topografia
Collana di Studi Archeologici 1, Espera, Roma, 274 pp., ill., 27 tavv.
25,00 euro ISBN 978-88-798244089
L’abbazia di Fossanova (Priverno, Latina), gioiello del gotico cistercense nel Lazio, restituisce l’immagine antica di una «città di Dio» in miniatura, quale doveva essere il complesso abbaziale nella concezione della comunità monastica ideale. Il Museo annesso illustra la vita comunitaria, che ebbe tra i suoi ospiti personaggi d’eccezione, primo fra tutti Tommaso d’Aquino – dottore della Chiesa e santo, pilastro teologico e filosofico della dottrina cristiana – che trascorse gli ultimi momenti della sua vicenda terrena a Fossanova, dove spirò il 7 marzo 1274. L’abbazia, con le sue complesse architetture, diviene teatro delle intricate vicende che riguardano il corpo del santo: sepolto,
traslato, occultato, asportato e mutilato, nell’ambito di una lotta tra religiosi e poteri politici che se ne contendevano i resti e il prestigio che essi avrebbero conferito a chi se ne fosse appropriato. Il «cammino» di quelle sacre spoglie viene ricostruito nel volume che, ripercorrendone le singole tappe «tra agiografia e topografia», serra le fila di un ordito che il tempo aveva sfibrato sino a
renderlo inutilizzabile ai fini di una corretta lettura storica della vicenda post mortem dell’Aquinate. La ricerca condotta da De Rossi trova il suo fulcro nella proposta di individuazione del sarcofago marmoreo in cui furono deposte le spoglie del santo. Il prezioso reperto, del quale si era persa memoria, si direbbe ora ritrovato a conclusione di un’indagine quasi «poliziesca», basata sugli indizi di natura letteraria, architettonica gennaio
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e archeologica, uniti alla appassionata e pressoché completa conoscenza di ogni meandro del complesso abbaziale. In questo avvincente percorso si tocca anche la suggestiva e intricata vicenda della duplicazione della testa di san Tommaso, che trova ora una sua documentata spiegazione. Completano i contenuti del volume il riconoscimento, su di una parete dell’abbazia, di una testimonianza graffita relativa a uno dei tanti miracolati dell’Aquinate, e la revisione del «divenire» di alcune parti del complesso monastico di Fossanova coinvolte nelle vicende di san Tommaso, cosí come anche del vasto territorio di pertinenza dell’abbazia. Francesca Ceci Mark Gregory D’Apuzzo e Massimo Modica (a cura di) L’Acquamanile del Museo Civico Medievale di Bologna
Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Milano), 64 pp., ill. col.
12,00 euro www.silvanaeditoriale.it
Attribuito a un artista della Germania settentrionale (ora denominato Maestro dell’Acquamanile), che lo realizzò
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Maria Pia Pedani La grande cucina ottomana Una storia di gusto e di cultura Il Mulino, Bologna, 212 pp., ill. col.
16,00 euro ISBN: 978-88-15-24041-5 www.mulino.it
nel 1240-1250, l’Acquamanile del Museo Civico Medievale di Bologna, già nella collezione del pittore Pelagio Palagi, è stato recentemente restaurato. L’operazione ha portato importanti novità sull’opera, prima fra tutte quella che riguarda l’«identità» dell’animale montato dal cavaliere, che era probabilmente un unicorno e non un cavallo. Del restauro, dell’inquadramento storico e dell’analisi stilistica del prezioso manufatto si occupa il volume, la cui pubblicazione è stata voluta per dare conto dei contributi presentati in occasione della giornata di studi organizzata a coronamento dell’intervento che ha interessato l’acquamanile. Un oggetto che, come si legge a piú riprese, si colloca senz’altro tra le espressioni piú felici di questa particolare produzione, tanto da essere definito «tra i capostipiti del genere».
All’indomani dei primi contatti con l’impero ottomano, l’Occidente cominciò a conoscere meglio questo mondo per i piú lontano ed esotico, grazie ai resoconti di viaggiatori e diplomatici. Le loro cronache sono il punto di partenza di questo saggio che, ancora una volta, dà prova di quanto possa essere riduttivo e
fuorviante considerare la gastronomia come una semplice summa delle tecniche messe a punto per la preparazione dei cibi. Anche nel caso degli Ottomani, infatti, l’arte culinaria è parte integrante della cultura e diviene spesso un veicolo attraverso il quale sottolineare
l’importanza dei precetti religiosi e delle dottrine filosofiche. Il volume si articola in capitoli ordinati secondo un criterio cronologico e tematico, ai quali fanno da corollario un ricco glossario e un ricettario con alcuni suggerimenti per quanti vogliano ricreare i profumi e i sapori delle ricche mense dei sultani.
quali, in molti casi, si deve l’elaborazione di tecniche tuttora in uso. I contributi passano in rassegna tessuti, ricami, arazzi, smalti, oreficerie… in una galleria davvero ricca, che è anche una riprova di quanto labile o forse fittizio sia il
Maria Pia Bortolotti Artigianato e lusso Manifatture preziose alle origini del Made in Italy Skira, Milano, 224 pp., ill. col.
25,00 euro ISBN 978-88-572-2008-6 www.skira.net
Pubblicato nell’ambito di un piú ampio progetto sulla valorizzazione e il censimento degli archivi di moda, il volume ripercorre, nell’ambito della Milano visconteosforzesca, la storia di alcune delle piú importanti produzioni manifatturiere, con una particolare attenzione per i beni di lusso. Ne nasce un viaggio di particolare interesse, in quanto, accanto all’ammirazione suscitata dai manufatti di volta in volta riprodotti, si unisce il fascino di un mondo artigianale nel quale operavano veri e propri maestri, ai
confine tra artigianato e arte. Né mancano le curiose divagazioni, come nel caso degli sport e dei giochi con la palla, ai quali è dedicato il penultimo capitolo del volume, che riscossero sempre grande apprezzamento e, spesso, da passatempi di matrice popolare, furono «reinventati» in chiave signorile. Marco Gamannossi L’Abbazia di San Salvatore a Settimo Un respiro profondo mille anni
Edizioni Polistampa, Firenze, 206 pp., ill. col.
32,00 euro ISBN 978-88-596-1189-9 www.polistampa.com
I mille anni dell’abbazia di Settimo (Firenze) cominciano nel 1011, data a cui risale la prima
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caleido scopio
Lo scaffale attestazione certa della presenza in quel luogo di un monastero fondato dal conte Lotario dei Cadolingi. Da allora, la storia del complesso monastico è ricca e articolata è Gamannossi la ripercorre in maniera puntuale, facendone la base su cui poi fonda l’ampia analisi
delle caratteristiche architettoniche e delle opere d’arte del monumento. Supportato da un corredo iconografico molto ricco, il «viaggio» nell’abbazia si sviluppa in maniera sistematica e sottolinea i numerosi tesori che in essa si possono ammirare: dal ciborio di Giuliano da Maiano alle formelle in terracotta invetriata con angeli e Agnus Dei plasmate da Benedetto Buglioni, da alcuni affreschi di Domenico Ghirlandaio allo spettacolare altare maggiore, che si deve all’Opificio delle Pietre dure di Firenze. Un complesso, dunque, di notevole ricchezza e importanza, di cui l’autore non manca di sottolineare il ruolo
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nel piú ampio contesto del monachesimo medievale. Marco Toti La preghiera e l’immagine L’esicasmo tardobizantino (XIII-XIV secolo): temi antropologici, storicocomparativi e simbolici
Jaca Book, Milano, 186 pp., ill. col.
24,00 euro ISBN 978-88-16-41177-7 www.jacabook.it
«L’esicasmo – scrive Julien Ries nella Prefazione – è un metodo di preghiera che colloca il monaco nella vita contemplativa, nell’unione con Dio». Frutto, in origine, delle scelte compiute nel
legati alla pratica della preghiera. Il secondo capitolo è invece dedicato a vari aspetti che alla pratica dell’esicasmo sono legati, primo fra tutti quello iconografico. Come si legge nel volume e come si può osservare nelle illustrazioni che lo corredano, infatti, anche la realizzazione di icone e miniature fu spesso ispirata dai dettami di questa particolare forma di ascesi. Fausto Iannello Jasconius rivelato Studio comparativo del simbolismo religioso dell’«isola-balena» nella Navigatio sancti Brendani Edizioni dell’Orso, Alessandria, 638 pp.
60,00 euro ISBN 978-88-6274-447-8 www.ediorso.it
III secolo in Egitto dai Padri del deserto, fu recuperato nel XIII secolo dai monaci del Monte Athos e di qui nasce questo saggio, di taglio specialistico. Nella sua prima parte, Marco Toti analizza il fenomeno soprattuto dal punto di vista storico e ne indaga alcuni degli aspetti piú peculiari, come quelli
Le vite (quando non le agiografie) dei santi hanno contorni spesso fiabeschi e tale è il caso dell’irlandese Brendano, del quale, in particolare, ci è stato tramandato il resoconto della navigazione che avrebbe compiuto alla ricerca della Terra Promessa. In quel testo, la Navigatio sancti Brendani, uno degli elementi che suscitano maggiore curiosità è la descrizione dell’«isola-balena», quel Jasconius che il
monaco esploratore incontra nel corso del suo peregrinare. Al di là delle suggestioni, si tratta di un tema cruciale nella tradizione medievale, tanto che Fausto Ianniello ne ha fatto l’argomento della
sua tesi di dottorato di ricerca, di cui questo ponderoso volume costituisce la pubblicazione riveduta e corretta. Un’opera destinata innanzitutto al pubblico degli specialisti, i quali hanno da tempo intuito la valenza non solo pittoresca dell’isola-balena.
DALL’ESTERO Sarah Rees Jones York The Making of a City 1068-1350
Oxford University Press, Oxford, 416 pp., ill. b/n
75,00 GBP ISBN 978-0-19-820194-6 www.oup.com
Fondata dai Romani con il nome di Eboracum (o Eburacum), York, nel Medioevo divenne uno dei centri piú
importanti della Gran Bretagna e Sarah Rees Jones ne ripercorre le vicende, soffermandosi, in particolare, sul periodo compreso tra la conquista normanna dell’Inghilterra e la Peste Nera del 1348. La studiosa sottolinea come la volontà dei sovrani normanni di fare della città la capitale delle regioni settentrionali del loro regno abbia avuto un impatto notevole sullo sviluppo urbanistico dell’agglomerato
urbano, che, in passato, non è stato a suo avviso adeguatamente considerato. In parallelo, viene confermato il ruolo essenziale della locale abbazia, che fu sempre uno dei poli di riferimento della comunità cittadina e diede un contributo decisivo all’emergere di una classe dirigente colta e avveduta soprattutto tra il XII e il XIII secolo. (a cura di Stefano Mammini) gennaio
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Dalla teoria alla pratica musica • Ricordato soprattutto per la sua
attività presso il Duomo di Milano, Franchino Gaffurio ha firmato importanti trattati, ma anche composizioni brillanti e innovative
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ra i teorici musicali che nel XV secolo posero le basi per lo sviluppo delle tecniche compositive, pochi ci hanno lasciato un corpus di musiche di reale interesse artistico. Tra le eccezioni, spicca Franchino Gaffurio, sia per la vastità dell’opera teorica, che conta cinque importanti trattati, sia per il livello qualitativo delle composizioni. Intrapresa la carriera ecclesiastica, Gaffurio ebbe l’opportunità di approfondire gli studi musicali, divenendo a sua volta maestro di musica, ruolo che svolse in piú parti d’Italia, sino a raggiungere Napoli, dove, nel 1480, conobbe Johannes Tinctoris, altro luminare della teoria musicale. La sua carriera musicale è legata al Duomo di Milano, presso il quale, oltre al ruolo di maestro di cappella, diede un considerevole impulso alla riorganizzazione della prestigiosa istituzione musicale. All’ultimo quarantennio della sua vita, legata al magistero milanese, ci riconduce molta della sua produzione sacra presentata nell’antologia
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Franchino Gaffurio. Missa de Carneval. Stabat Mater. Mottetti (Tactus 450701, 1 CD, www. soundandmusic.it), che ci viene proposta con grande autorevolezza interpretativa da Stefano Buschini alla guida de Il Convitto Armonico e del Baschenis Ensemble.
Scelte inusuali Il primo ascolto è dedicato alla Missa de Carneval, un titolo insolito, che, in realtà, ci riporta al periodo liturgico precedente alla Quaresima: una messa a 4 voci in cui tornano alcune delle caratteristiche di Gaffurio, il cui stile risente della grande tradizione polifonica fiamminga quattrocentesca. Inusuale è anche la scelta di una messa non basata sul cantus firmus – una melodia di origine liturgica o profana precedentemente composta – che in Gaffurio si trasforma semmai in una sorta di motivo ricorrente,
parafrasato e utilizzato nelle varie voci per ottenere un’unità melodico-compositiva dai tratti fortemente personali. All’eccellente esecuzione della Missa, dove al «tutti» si alternano passaggi affidati a voci soliste che esprimono con grazia le affascinanti linee melodiche della messa, seguono alcuni brani mottettistici, nei quali emerge la devozione mariana, peraltro diffusa nel rito ambrosiano milanese come testimoniano i quattro Codices Gaffurienses conservati al Duomo di Milano. In questi brani Gaffurio si muove ancor piú liberamente dagli schemi del complesso contrappunto fiammingo, intrattenendo anche un rapporto piú stretto con il testo, che sempre piú ispira la costruzione musicale. Il Convitto Armonico si esibisce in maniera esemplare in questo repertorio, poco frequentato dalla discografia – si tratta della prima registrazione dedicata interamente a questo compositore –, e lo fa con grande garbo e maestria, grazie a una direzione sensibile e convincente. Franco Bruni
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caleido scopio
I suoni dell’Est
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ovimenti di danza vorticosi che, a tratti, lasciano spazio a melodie di struggente bellezza, ritmi insoliti e lontani dalla tradizione occidentale, atmosfere musicali orientaleggianti... Questo e molto altro ci offre l’antologia Esprit des Balkans (AVSA 9898, 1 CD, www. talemusica.com) ultimo progetto di Jordi Savall. Con Esprit des Balkans il paesaggio sonoro proposto regala prospettive musicali inaspettate e una varietà di generi musicali che colpiscono per la loro inventiva e per le molte soluzioni strumentali adottate, come d’altronde è complessa, e anche tragica, la storia dei tanti Paesi dell’area balcanica. Forte è l’influenza ottomana, che ha dominato la regione per quattrocento anni, come d’altronde è evidente la presenza culturale dei Rom, che, partiti dal Nord dell’India, sono emigrati in questi territori, portando con sé un sostrato culturale che anche nella musica ha lasciato tracce tangibili.
Presenze eccellenti Toccando gli Stati dell’ex Iugoslavia, la Romania, la Bulgaria, la Grecia, la Turchia e riprendendo anche brani dalla tradizione Rom e sefardita, il labirintico itinerario proposto da Savall ripropone, grazie al contributo di musicisti di fama internazionale provenienti dai vari Paesi (come Bora Tugic, Tcha Limberger, Nedyalkov, Dimitri Psonis, Gyula Csik e Moslem Rahal), musiche di tradizione popolare che tradiscono – anche nei brani piú recenti – origini molto antiche nell’uso di modalità desuete e nell’utilizzo di strumenti della tradizione medievale. Tra questi prevalgono il kaval (flauto) diffuso in tutta l’area balcanica; il gadulka (lira) tipico della Bulgaria e della Macedonia; il frula, piccolo flauto della tradizione serba e rumena; il qanun (cetra a 78 corde) di origine araba e diffuso nella Turchia e nella Grecia ottomana;
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musica • L’ultima
fatica musicale di Jordi Savall recupera le antiche tradizioni balcaniche e vuol essere anche un appello alla concordia e alla fratellanza tra i popoli
il kemence, cordofono a tre corde anch’esso tipico dell’area greco-turca; l’oud (liuto diffusissimo sin dal Medioevo in tutta l’area europea occidentale e orientale e nord africana). A questi si accompagnano altri strumenti vicini alla nostra tradizione occidentale come l’accordeon, il salterio, la lira, l’organo e la chitarra.
Stili e combinazioni sempre diversi Al brano di apertura, un ballo forsennato del Sud della Serbia dalle evidenti influenze turche si passa a momenti piú pacati come la Doina Hora, danza lenta rumena con evidenti elementi ottomani, oppure al tono struggente della canzone serba Zajdi, per poi toccare stili decisamente piú orientaleggianti come nella canzone tradizionale dell’isola greca di Mitilene Ta xila & Cecen Kizi. Gli stili e le combinazioni strumentali si rinnovano a ogni brano, cosí come i ritmi che spesso si discostano dalla nostra visione binario/ternaria per adottare soluzioni inusuali, come nel caso della danza bulgara a sette tempi Galabovska Ruchnitsa. Non mancano, infine, brani di tradizione tzigano-ungherese, curda e sefardita – di quest’ultima da menzionare la splendida romanza Cuando el Rey Nimrod –, che, nonostante i diversi schemi compositivi e le diverse provenienze, evocano un comune sostrato culturale. Nella convinzione che il dialogo tra culture musicali diverse possa offrire un contributo fondamentale verso la pacificazione dei popoli, questo ennesimo progetto di Savall ha il merito di far risaltare alcune matrici culturali che accomunano, musicalmente e non solo, popoli che, fino a poco tempo addietro, hanno vissuto guerre fratricide; e lo fa con quel gusto e sensibilità che solo un musicista del suo calibro sa esprimere. F. B. gennaio
MEDIOEVO
Maestri della chanson musica • La ristampa di un’incisione
storica e una nuova registrazione rendono omaggio a due figure di spicco della musica rinascimentale francese, tra giochi onomatopeici e poetici
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icordato principalmente per il suo Chant des oiseaux e per la Bataille de Marignan, Clément Janequin, compositore francese attivo nella prima metà del XVI secolo, incarna perfettamente il gusto per l’onomatopeica, in cui il testo poetico diventa stimolo per ardite architetture che vedono l’elemento musicale sostituirsi, in un gioco di imitazioni sonore, al contesto reale. L’antologia Clément Janequin. Le Chant des Oyseaulx (HMG 501099, 1 CD, www.ducalemusic.it) riproposta dall’Harmonia Mundi a trent’anni dalla prima uscita, mantiene inalterato il suo valore artistico, proponendosi tra le migliori interpretazioni di un gruppo francese storico, l’Ensemble Clément Janequin, che alle chanson di questo autore ha dedicato un’attenzione particolare.
Polifonia e virtuosismi Apre la raccolta una splendida esecuzione del Chant des oiseaux, dove alla tecnica polifonica si associano giochi onomatopeici sorprendenti, che imitano i volatili piú diversi, in un virtuosistico gioco verbalemusicale; e un analogo gusto per la pittura musicale ricorre nello Chant de l’alouette e nello Chant du rossignol. Oltre al gioco onomatopeico, che costituisce una costante nello stile di Janequin, altri brani evidenziano toni patetici, lirico-amorosi e anche devozionali messi in risalto
MEDIOEVO
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da un approccio interpretativo sempre attento al testo, in cui le cinque voci maschili, capeggiate dal sopranista Dominique Visse, si muovono in un’armonia di insieme davvero notevoli ed esaltano la scrittura polifonica con l’aderenza perfetta al significato testuale.
Un linguaggio nuovo All’ambiente francese della chanson profana e devozionale ci riporta anche la seconda antologia, Guillaume Costeley. Mignonne allons voir si la rose (RAM 1301, 1 CD, www.soundandmusic. it) in cui, seppure alle prese con lo stesso genere e gli stessi organici vocali praticati da Janequin, il risultato sonoro e stilistico si rivela assai diverso. Già a distanza di un cinquantennio – Costeley fu attivo come organista e compositore di musica vocale nella seconda metà del XVI secolo – il linguaggio musicale si distacca ancor piú dallo stile imitativo fiammingo, prediligendo l’andamento armonico-accordale ed enfatizzando, dunque, quel senso melodico e poetico in parte già anticipato da Janequin, da cui Costeley fu influenzato.
Lo stile di Costeley, come si evidenzia dai 27 ascolti della raccolta, è caratterizzato da un’eleganza di scrittura e da un trattamento delle linee vocali sempre estremamente naturale, il cui senso lirico non è mai offuscato, ma, anzi, accentuato da una scrittura lineare e raffinata. Il gruppo Ludus Modalis diretto da Bruno Boterf non tradisce i principi costitutivi di questa musica, assecondando con un corretto approccio stilistico lo spirito e le atmosfere dolcemente pacate dei testi. Le sette voci dell’ensemble restituiscono la giusta rotondità di suono in un contesto polifonico in cui sono essenziali l’equilibrio tra le voci e il modo di porgere la voce, come testimonia questa eccellente registrazione. F. B.
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