gregorio IX fioravanti al cremlino
san giuseppe dossier carlo magno e la seta
Mens. Anno 18 n. 3 (206) Marzo 2014 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
MEDIOEVO n. 3 (206) marzo 2014
UN PASSATO DA RISCOPRIRE
protagonisti
Un italiano al Cremlino
dossier
Carlo Magno sulla via della seta
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EDIO VO M E www.medioevo.it
san
Giuseppe
storie di un capofamiglia speciale
saper vedere
La basilica di S. Ambrogio a Milano
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sommario
Marzo 2014 ANTEPRIMA
grandi papi Gregorio IX
archeologia Massacro o epidemia?
I due volti di Ugolino 6
mostre Carte preziose I tesori dell’abbazia Come nasce un capolavoro
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recuperi Solidarietà e valorizzazione
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appuntamenti Tutti dietro al Vècio L’inverno al rogo L’Agenda del Mese
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di Francesco Colotta
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Dossier
STORIE l’intervista
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André Vauchez
Scherza coi fanti e lascia stare i santi? di Chiara Mercuri
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protagonisti
di Furio Cappelli
Aristotele Fioravanti/2
Missione a Mosca
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di Furio Cappelli
COSTUME E SOCIETÀ
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iconografia San Giuseppe
Una capofamiglia molto speciale di Erberto Petoia
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luoghi saper vedere
Basilica di S. Ambrogio
La memoria di Milano di Furio Cappelli
QUANDO RE CARLO SI VESTIVA DI SETA
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CALEIDOSCOPIO cartoline Sulle orme del sommo poeta 104 libri Lo scaffale
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musica Note melanconiche «Fiore dei fiori» Nel segno del mottetto
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Ante prima
Massacro o epidemia? archeologia • Un pozzo scoperto
in Borgogna, nei pressi dell’antica Intaranum, ha rivelato le tracce di una tragedia consumatasi sul finire del IX secolo. E ora si indaga per accertare le cause del drammatico evento...
P
osta al centro di un importante snodo viario, Intaranum fu un importante centro gallo-romano. I suoi resti si trovano nel territorio dell’odierna Entrains-sur-Nohain, in Borgogna, e sono stati di recente oggetto di scavi condotti dall’Inrap, l’ente francese preposto all’esecuzione degli interventi di archeologia preventiva. L’ultima delle campagne di indagini ha restituito strutture riferibili a laboratori per la forgia dei metalli,
un tratto di strada romana e le tracce di numerose abitazioni, alle cui spalle è stato anche localizzato un impianto termale. All’approvvigionamento idrico di quest’ultimo erano adibiti alcuni pozzi, due dei quali sono stati esplorati. In uno di essi, che ha un diametro di appena 1,30 m, a circa 4 m di profondità, sono cominciati ad affiorare scheletri umani e due grandi chiavi in metallo. Poi, nei livelli successivi, e per uno spessore
complessivo di 3 m circa, è venuta alla luce una quantità eccezionale di ossa, molte delle quali in connessione anatomica, ridotte in frammenti dal peso dei detriti che hanno riempito il pozzo.
Uomini, donne e bambini Alla fine dell’intervento, è stato calcolato che nella struttura fossero stati gettati i cadaveri di 20 o forse 30 individui, che avevano perciò assunto posizioni di giacitura diverse. È subito stata accertata la presenza di uomini, donne e bambini, alcuni in tenera età: segno che gli sventurati dovevano essere parte della popolazione civile. E se le prime datazioni, hanno confermato l’antichità del pozzo, l’analisi preliminare del riempimento ha permesso di collocare la morte del gruppo nel IX secolo. In attesa di ulteriori determinazioni cronologiche, il dramma consumatosi a Entrainssur-Nohain si inquadra dunque nell’epoca carolingia, al tempo in cui la Borgogna perse la sua indipendenza e fu annessa all’Austrasia da Carlo Martello. A sinistra Entrains-sur-Nohain (Nièvre, Francia). Uno dei livelli di riempimento del pozzo con ossa di arti umani superiori e inferiori in connessione parziale, un cranio e una mandibola. VIII-X sec.
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Nella pagina accanto la discesa nel pozzo esplorato dagli archeologi dell’Inrap a Entrains-sur-Nohain (Nièvre, Francia). A destra, in alto resti di un individuo giacente sul fianco sinistro, con la colonna vertebrale ancora in connessione con il bacino e il femore destro. A destra, in basso la parete del pozzo in cui sono stati rinvenuti gli scheletri. Anni difficili, segnati da lotte intestine e guerre di successione, nel cui ambito, per esempio, si combatté, nell’841, una sanguinosa battaglia a Fontenoy, che dista una ventina di chilometri da Entrains e prima della quale gli uomini di Carlo il Calvo si accamparono nell’ancor piú vicina Thury: il villaggio potrebbe quindi aver subito i soprusi della soldataglia fino a pagare con la vita le proprie scelte di campo o il rifiuto a fornire viveri o aiuto.
Le scorrerie dei Vichinghi Un altro degli scenari ipotizzati riconduce la scoperta alle scorrerie che, nella seconda metà del IX secolo, ebbero come protagonisti i Vichinghi, i quali non si limitarono ad attaccare le coste, ma in piú d’un caso di spinsero anche nell’interno. Né si può escludere che gli scheletri siano quelli delle vittime di un’azione compiuta da una delle tante bande di briganti che all’epoca
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infestavano il territorio. Un fatto di sangue sembra dunque all’origine della fine violenta di questi antichi abitanti della cittadina borgognona, anche se un’ultima ipotesi è stata formulata dall’équipe che ha effettuato la scoperta: uomini, donne e bambini potrebbero essere stati gettati nel pozzo perché vittime di un’epidemia e dunque allo scopo di prevenire ulteriori contagi. Grande importanza viene dunque data alle analisi paleopatologiche avviate sugli scheletri, le sole a poter stabilire se la strage sia stata causata da un evento violento e traumatico o non sia invece l’esito di un contagio. Stefano Mammini
Con riferimento alla notizia «Romanico sul mare» (vedi «Medioevo» n. 204, gennaio 2014), accogliamo volentieri l’invito della sezione di Ancona di Italia Nostra a precisare che, dagli anni 2000 e fino al 2012, la chiesa di S. Maria di Portonovo è stata aperta al pubblico grazie all’impegno della Portonovo srl, tramite Italia Nostra sezione di Ancona e poi in gestione diretta da parte dell’Associazione stessa. Un impegno su base volontaria che ha permesso di far conoscere il monumento a turisti italiani e stranieri, nonché a numerose scolaresche.
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Ante prima
Carte preziose mostre • Una
selezione di documenti straordinari e, in molti casi, mai visti prima d’ora. È questa l’ultima (e imperdibile) proposta espositiva allestita nella Sala Bianca di Palazzo Pitti
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l testamento di Folco Portinari, un documento autografo di Michelangelo, la registrazione del battesimo del granduca Cosimo de’ Medici: ecco alcuni dei «gioielli» presenti nella mostra «Una volta nella vita», allestita in Palazzo Pitti. Una sfilata di rarità che oltre all’edizione delle Vite del Vasari del 1568, all’atto di concessione del re francese Luigi XI a Piero de’ Medici, per inserire i gigli di Francia nello stemma della dinastia toscana, comprende il primo vocabolario della Crusca del 1612 e un papiro del I secolo a.C.
Cosí volle Folco Portinari Perle della storia e della cultura, note agli addetti ai lavori e pochi altri, che fanno da cornice a una selezione di inediti, concessi in visione per la prima volta, come la carta delle ultime volontà di Folco Portinari, morto il 31 dicembre 1289 e sepolto
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In alto Michelangelo Buonarroti, schizzi di blocchi di marmo con sagoma per una crocifissione. XVI sec. Firenze, Archivio e Biblioteca della Fondazione Casa Buonarroti. A sinistra la pagina del documento d’archivio in cui compare la registrazione del battesimo di Cosimo de’ Medici, 20 giugno 1519. Firenze, Archivio dell’Opera di S. Maria del Fiore. nella cappella dell’ospedale di S. Maria Nuova a Firenze, da lui fondato per assistere poveri e infermi. Il testamento del ricco mercante, padre della Beatrice dantesca, fu rogato il 15 gennaio 1288 presso la chiesa di S. Egidio dal notaio ser Tedaldo di Orlando Rustichelli, alla presenza di alcuni frati francescani del vicino convento omonimo. Con questo documento, Portinari dava disposizioni per la propria sepoltura e ordinava agli eredi d’impiegare 1000 lire di fiorini piccoli, marzo
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Pagina miniata dall’Antiphonarium a vigilia Nativitatis Domini usque ad vigiliam octave Ephifanie. XIII sec. Firenze, Archivio del Convento della SS. Annunziata. per costituire due dotazioni in beni immobili, con i cui frutti si potessero mantenere il custode dell’ospedale e il cappellano di S. Egidio.
L’esclusione del ramo femminile Inoltre, disponeva che il patronato spettasse «in perpetuum», liberamente e pienamente, ai cinque discendenti maschi che nominava eredi universali delle sue sostanze, escludendo tutte le femmine dall’asse ereditario. Fatti, poi, numerosi lasciti a monasteri e ospizi della città, Folco provvedeva alla moglie, lasciandole la dote, le vesti e le robe di camera insieme a un pezzo di terra come rendita, mentre alla sorella Nuta permise di restare fino al termine della vita nella propria casa, ricevendo dai nipoti gli alimenti e una modesta provvigione in denaro. A ciascuna delle figlie, ancora nubili e minorenni, lasciò una dote di 80 lire di fiorini piccoli, mentre a Bice, sposata a messer Simone de’ Bardi, ne destinò 50. Tra i «mai visti» figurano testi che arrivano dagli archivi della secentesca Accademia degli Immobili, che raccoglie gli atti storici del teatro La Pergola, un disegno di Raffaello e gli schizzi di blocchi di marmo con sagoma per una crocifissione di Michelangelo Buonarroti, in cui il maestro fornisce appunto istruzioni su come cavare un pezzo di marmo a forma di crocifisso da scolpire, un documento mai esposto prima d’ora in Italia. Vasari racconta che Michelangelo, poco prima di morire a Roma nel 1564, aveva bruciato «gran numero di disegni, schizzi e cartoni fatti di man sua, acciò nessuno vedessi le fatiche durate da lui et i modi di tentare l’ingegno suo, per non apparire se non perfetto». L’opera grafica dell’artista risultò subito rara e ricercata; Leonardo, nipote ed erede dell’artista, riuscí a comprare a caro prezzo sul mercato romano, un corpus di suoi disegni,
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poi donati a Cosimo I dei Medici e successivamente restituiti alla famiglia, nel Seicento. La raccolta di 200 «fogli» del «divino» artista è la piú cospicua del mondo, nonostante le vendite fatte, nel corso del tempo, lasciata per testamento al godimento pubblico dall’ultimo erede diretto della dinastia, nel 1858. Attualmente, la collezione è ospitata nella Casa Buonarroti che, per motivi di conservazione, ne espone, a rotazione, piccoli nuclei.
Il battesimo di un genio Nella sequenza dei grandi nomi, spicca quello di Leonardo, con il suo certificato di battesimo che avvenne nella parrocchia di S. Croce di Vinci, nelle vicinanze di Anchiano, luogo natale del genio toscano, figlio illegittimo del facoltoso notaio ser Piero da Vinci e di Caterina, una donna di estrazione sociale inferiore. La notizia della nascita del primo
Dove e quando
«Una volta nella vita. Tesori dagli archivi e dalle biblioteche di Firenze» Galleria Palatina fino al 27 aprile Orario ma-do, 8,15-18,50; lu chiuso Info tel. 055 2388614; uffizi.firenze.it nipote fu annotata dal nonno Antonio, su un antico libro notarile trecentesco, usato come raccolta di «ricordanze» della famiglia. La sezione finale del percorso espositivo è dedicata a opere irrimediabilmente danneggiate dall’alluvione del 1966 e dall’attentato dei Georgofili nel 1993, per ricordare l’importanza della tutela e della salvaguardia del nostro patrimonio culturale. Mila Lavorini
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Ante prima mostre • Il forte
valdostano di Bard accoglie alcuni dei capolavori piú insigni del Museo di Montserrat
I tesori dell’abbazia L
e sale delle Cannoniere del Forte di Bard (Aosta) ospitano la mostra delle opere provenienti dal monastero benedettino di Montserrat, a pochi chilometri da Barcellona. Cento capolavori, dal romanico in poi, raccontano le vicende dell’abbazia, fondata nel 1025, che ancora oggi è meta di pellegrinaggio per il culto legato alla Madonna Nera (la Moreneta), una scultura lignea del XII secolo. In sette sezioni, sfilano, tra gli altri, Dove e quando
«Montserrat. Opere maggiori dell’Abbazia» Forte di Bard fino al 2 giugno Orari ma-ve, 10,00-18,00; sa-do e festivi, 10,00-19,00; lu chiuso Info tel. 0125 833811; fortedibard.it In alto una veduta del monastero di Montserrat (Catalogna). A sinistra scultura in pietra di epoca romanica raffigurante la Nostra Signora di Montserrat. XII sec. Montserrat, Museo.
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tele di Caravaggio, Monet, Pissarro, Degas, e ancora quadri di Picasso, Rouault, Dalí, Mirò. Si tratta di una raccolta, che, come racconta Gabriele Accornero, uno dei curatori dell’esposizione, «è particolarmente eterogenea, perché nata in seguito alle donazioni fatte ai Benedettini».
Un culto antichissimo Un posto privilegiato spetta alla devozione per la Madonna che papa Leone XIII dichiarò patrona della Catalogna: in mostra è esposta una imponente statua romanica dedicata a Maria in trono, ben leggibile nel volto e nella parte superiore del busto. Nella stessa sala si può anche ammirare l’Allenamento dei cavalieri, una porzione di affresco con una scena di scontri, dipinta da un autore ignoto di cultura cortese. Una postazione audiovisiva accompagna quindi il visitatore in un itinerario alla scoperta della storia monastica di Montserrat: «proprio per la mostra è stato prodotto un filmato di quaranta minuti che approfondisce il culto della Moreneta e la singolare morfologia dei monti su cui sorge l’abbazia catalana, soffermandosi poi sulla ricchezza della biblioteca, con esemplari che vanno dall’epoca egizia, e sulla prestigiosa tradizione della scuola di canto», osserva ancora Accornero. Che sottolinea il parallelo marzo
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A destra Nicolás Francés, Costruzione della chiesa di S. Michele sul Monte Gargano. Tempera e foglia d’oro su tavola, 1440-1450. Montserrat, Museo. In basso Pedro Berruguete, Nascita della Vergine Maria. Olio e foglia d’oro su tavola, XV sec. Montserrat, Museo. fra Bard e Monserrat: «entrambi sorgono nel Medioevo, in terre che fecero della propria autonomia un tratto distintivo, in ambito storico e culturale».
La Madonna nella grotta Il convento catalano, collocato a 700 m d’altitudine, ospita un corpus artistico di altissimo livello, all’interno di un museo in cui è stata inaugurata di recente una sala multimediale che fa toccare con mano i «pilastri» di Montserrat, ovvero montagna, monastero e santuario. Con una vista mozzafiato sulle montagne della Catalogna, il centro benedettino si sviluppò attorno alla grotta che, come vuole la leggenda, avrebbe ospitato le apparizioni della Vergine. Secondo la tradizione, dopo il Mille, alcuni pastori furono attirati da una luce proveniente dalla caverna in cui trovarono nascosta la Madonna: seduta su un trono d’argento, con la sfera, simbolo regale, nella mano destra, e il piccolo Gesú trattenuto dall’altra mano, la Moreneta è sempre custodita nel luogo di preghiera. Tutto il complesso si dipana attorno alla basilica neogotica consacrata nel tardo Cinquecento che, assieme agli altri edifici comunitari, fu attaccata nel 1811 dalle truppe napoleoniche. Qui, fra gli altri devoti, per cambiare vita, fece tappa anche Ignazio de Loyola, cavaliere convertito che depose la sua spada ai piedi di Maria. L’abbazia, in cui vivono una settantina di religiosi, oltre agli studenti della Escolania, il piú antico coro europeo di voci bianche, ogni anno richiama oltre un milione di visitatori. E promuove attività di ricerca, lo studio della filosofia e della musica, la pratica dell’artigianato artistico. Stefania Romani
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Ante prima
Come nasce un capolavoro
mostre • A 500 anni dal
completamento del coro, la cattedrale di Friburgo si racconta, svelando i retroscena della sua costruzione
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a cattedrale di Friburgo, considerata l’apice del gotico nell’Alto Reno, celebra i 500 anni dalla conclusione del coro con una mostra in piú sedi, che ne ripercorre la storia e le vicende costruttive. Il duomo del Duecento, diventato il simbolo della città tedesca, vanta splendide vetrate istoriate e un portale d’accesso scolpito, con episodi tratti da Giudizio Universale, Resurrezione, Passione e Natività. Ma a rendere unico l’edificio religioso è la torre filigranata, alta 116 m, un capolavoro artistico e strutturale a un tempo. A causa di problemi di stabilizzazione, la torre è attualmente in fase di restauro, e lo sarà per un altro anno.
Ai margini della Foresta Nera Il compleanno del monumento è l’occasione per scoprire il passato medievale di un centro sorto ai bordi della Foresta Nera, a sud della Germania, vicino ai confini di Francia e Svizzera: grazie alla favorevole posizione geografica, a Friburgo fiorí il commercio di argento e pietre preziose sia a breve che a medio raggio, tanto che, già nel XII secolo, la città aveva una cerchia di mura con quattro porte. Fondata nel 1120 dai duchi di Zaehringen, passò dal 1218 agli Uracher, con i quali ebbe inizio una fase di splendore, con la costruzione di quattro sobborghi destinati alle attività artigianali, ai monasteri femminili, ai vignaioli e alle fondazioni degli ordini cavallereschi. Nel 1368 nel controllo della regione subentrarono gli Asburgo, che domineranno per secoli la zona. L’esterno del coro della cattedrale di Friburgo, di cui ricorre il cinquecentenario.
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Il centro storico è ancora intatto e testimonia la sua antica vocazione commerciale, con la rete di stradine medievali, i quartieri delle botteghe artigiane, la piazza del mercato sulla quale svetta la torre filigranata e i Bächle, i corsi d’acqua che scorrono nei canali di pietra. La cattedrale, frutto di quattro campagne costruttive succedutesi dal tardo Romanico al Cinquecento, è sempre stata al centro della vita comunitaria: sui suoi muri sono incise diverse unità di misura, che fungevano da riferimento per chi frequentava il mercato.
In alto paliotto con figure di sante, del consigliere cittadino Peter Sprung e di sua moglie, Elisabeth Zehenderin. 1510 circa. Friburgo, Museo Diocesano Arcivescovile. A destra un particolare dell’allestimento del Museo degli Agostiniani.
Tutte le fasi della costruzione
all’allestimento di un laboratorio che permette di osservare dal vivo i diversi modi di tagliare, usare e scolpire la pietra. Poi, accanto a reperti del Tesoro della cattedrale, come pezzi plastici e vetri dedicati a profeti santi e peccatori, figurano prestiti da musei di tutta Europa. E non è tutto, visto che la rassegna si sofferma anche sul ruolo della chiesa nella comunità e sull’organizzazione della liturgia e della vita quotidiana in una struttura particolarmente articolata. All’evento espositivo prende parte anche la Fabbrica del Duomo, che custodisce secoli di testimonianze
La rassegna «Cantiere gotico» racconta il «dietro le quinte» della nascita del duomo, dando l’opportunità di accostarsi ai diversi volti dell’edilizia medievale e di toccare con mano un iter che va dal progetto alla ricerca di finanziamenti per realizzare una chiesa, fino ai meccanismi di gestione interna del cantiere, passando per la lavorazione di pietra, vetro e legno. La prima tappa è al Museo degli Agostiniani, che conta un nuovo percorso espositivo: qui i riflettori sono puntati sulla tecnica costruttiva di un edificio religioso, grazie
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relative alla nascita e ai lavori di manutenzione della cattedrale. Il Museo della storia della città illustra invece la funzione del luogo di preghiera come mezzo di comunicazione privilegiato. S. R. Dove e quando
«Cantiere gotico» Friburgo, Museo degli Agostiniani (e altre sedi) fino al 25 maggio Info germaniainsolita.it, freiburg.de/museen (info anche in inglese)
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Solidarietà e valorizzazione
recuperi • La piccola chiesa
dei SS. Giacomo e Filippo, nel suburbio milanese, è divenuta il centro motore di importanti progetti sociali e culturali
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l complesso paleocristiano e medievale di Nosedo, a sud di Milano, è divenuto sede di attività di recupero sociale e ambientale grazie all’insediamento di una comunità religiosa. In un’area in cui grattacieli e vecchi condomini sfumano verso la campagna e dove i confini della periferia lasciano spazio a edifici abbandonati e insediamenti di fortuna, la chiesa dei SS. Giacomo e Filippo e le costruzioni agricole che la affiancano sono state strappate al degrado, dando il via a progetti che coniugano solidarietà, storia e riappropriazione dell’ambiente. All’incrocio di vie importanti per i commerci, che univano Liguria, Appennino e valichi alpini, nel luogo in cui sorgeva un tempietto pagano, fu costruita una prima chiesa che, dopo la caduta dell’impero, divenne punto di riferimento per i Milanesi in fuga dalla città nei momenti piú drammatici: vi si rifugiarono nel 536, durante la presenza dei Goti; e altrettanto fecero all’arrivo dei Longobardi. Tra il 1162 e il 1163, dopo la distruzione di Milano voluta dal Barbarossa, l’imperatore fece costruire a Nosedo una torre e un nucleo fortificato. Nel XIII secolo in quell’area si stabilirono alcuni Cistercensi di Chiaravalle, che si trova a meno di 2 km: iniziarono a lavorare i terreni circostanti, a bonificare quelli paludosi e a incanalare i corsi d’acqua, in un’operazione di valorizzazione che si organizzò intorno a una grangia collegata con l’abbazia madre. Poco piú di dieci anni fa, suor Ancilla Beretta e Gloria Mari, laica, si sono trasferite a Nosedo, vicino alla chiesa, e hanno dato vita a una comunità a «cerchi concentrici»:
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al centro la comunità residenziale aperta, intorno laici impegnati in un programma di comunità, attorno ancora gli Amici di Nocetum che ne condividono la spiritualità e la disponibilità per servizi di volontariato. In collaborazione con la CEI, con l’Arcidiocesi e il Comune di Milano vengono realizzate attività di accoglienza e di formazione, nonché iniziative culturali e ambientali per valorizzare il territorio e coinvolgerne gli abitanti.
L’arrivo dei Cistercensi L’Associazione Nocetum è il perno di progetti di sviluppo dell’area basati proprio sul connubio fra sociale e cultura. Inseriti nel Parco Agricolo di Milano Sud (che comprende 61 Comuni e 3 milioni di abitanti), prevedono lo sviluppo del Parco della Vettabia e della Valle dei Monaci, che puntano al recupero non solo degli edifici monumentali, ma anche di
Nosedo (Milano). La chiesetta dei SS. Giacomo e Filippo. cascine, corsi d’acqua e di ciò che resta delle forme di un paesaggio agricolo disegnato e definito dall’uomo nel Medioevo, definendo e ridefinendo i rapporti fra città e campagne in periodi di crisi e trasformazioni profonde. L’Expo del 2015 è l’orizzonte di valorizzazione piú vicino, ma non mancano piani a piú lungo termine, a partire da indagini archeologiche che portino in luce le fondazioni della chiesa paleocristiana dei SS. Giacomo e Filippo, anche in relazione con la rete viaria romana. L’obiettivo è restituire alla conoscenza le origini della Chiesa di Milano, i passaggi della cristianizzazione delle campagne, la fase longobarda, i rapporti fra Nosedo e la nobiltà cittadina. Renata Salvarani marzo
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Tutti dietro al Vècio
appuntamenti • Il borgo di Valtorta, nel Bergamasco, festeggia il carnevale
con una sfilata variopinta e chiassosa, alla quale partecipano personaggi che evocano le leggende e le superstizioni del mondo alpino
A
Valtorta, paese bergamasco di trecento abitanti nella Val Stabina, la prima domenica di Quaresima (quest’anno il 9 marzo) si perpetua la tradizione del carnevale alpino, caratterizzato dalle caricature grottesche di personaggi, ruoli e mestieri di montagna. A scandire i tempi della rumorosa sfilata, che transita attraverso le frazioni del paese e si conclude nel centro di Valtorta, è il Vècio, un anziano dal passo incerto, con un ampio mantello, un campanaccio legato alla vita e un bastone in mano, che va a braccetto con la Égia, vestita in nero, con zoccoli ai piedi, un bastone in mano e un cuscino sotto lo scialle per simulare la gobba. Non manca la contrapposizione fra
«belli» e «brutti», tipica dei carnevali montani. I «belli» sono i ballerini che seguono il corteo ballando sulla musica proposta da piccole bande tradizionali. I «brutti» sono creati con sfoggio di maschere in pelle, legno, juta e, in tempi moderni, anche in gomma. Altro personaggio pittoresco è il Diavolo, detto il Forchetí, perché si
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muove usando un lungo bastone biforcuto, che ha il capo sormontato da un paio di corna di mucca o capra e porta una cintura di rumorosi campanelli. Altri ruoli di rilievo sono ricoperti dalle vecchie zitelle, dette Mède, e dai vecchi uomini non sposati, i Barba, avvinazzati e trasandati, che sparano in aria col fucile per spaventare i Diavoli.
Si balla intorno al falò I partecipanti alla sfilata carnevalesca possono rifocillarsi in banchetti con specialità varie e vin brulé predisposti lungo il percorso dai residenti. A concludere la giornata, il gran ballo attorno al falò acceso sulla piazza, l’esibizione di gruppi folcloristici corredata da un
buffet con assaggi della produzione casearia dell’alta montagna brembana. Cosí si conclude un carnevale che rappresenta una preziosa occasione per presentare ai turisti un patrimonio di storia e tradizioni da non disperdere. Piccolo borgo che deve l’origine del proprio toponimo alla conformazione tortuosa della sua
valle posta ai piedi del Pizzo dei Tre Signori, Valtorta ha una storia plurisecolare. I primi insediamenti stabili in zona sono riconducibili all’epoca delle invasioni barbariche; si presume che gli abitanti della vicina Valsassina arrivarono per primi attorno al VI secolo. In epoca medievale nel villaggio si sviluppò una fiorente attività estrattiva di materiali come ferro e argento, con la conseguente nascita di lavorazioni a essa collegate, come la produzione di chiodi tramite magli azionati dai numerosi corsi d’acqua che attraversano il territorio. Oggi Valtorta vanta case di pietra ben Immagini della sfilata che ogni anno anima il carnevale di Valtorta.
tenute con balconi fioriti, verdi vallate di interesse naturalistico, boschi e alti pascoli che consentono una tradizione casearia di nicchia, ma anche un patrimonio di tele e affreschi che lungo i secoli hanno abbellito chiese e cappelle. Da questa passione sono nati l’Ecomuseo e il Museo Etnografico di Valtorta. Tiziano Zaccaria
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Ante prima
appuntamenti • Figlio di una
tradizione ancestrale, il Grande Fuoco di Bouge, in Vallonia, sta per tornare ad accendersi...
F
in dal Medioevo, nella sera della prima domenica di Quaresima le campagne della Vallonia vengono punteggiate dai Grandi Fuochi, una tradizione millenaria che annuncia la fine dell’inverno e l’arrivo della primavera. Riadattamento cristiano di un ancestrale rito pagano destinato a garantire la fertilità dei campi, questo culto ha oggi la sua massima espressione a Bouge, antico borgo situato nel territorio del Comune di Namur, la capitale della Vallonia. Il Grande Fuoco è una catasta di fascine di legna e balle di paglia, predisposta in cima a una collina che domina l’area. La cerimonia segue da secoli un rituale che inizia la domenica precedente, quest’anno il 2 marzo, con una Santa Messa della Confraternita du Grand Feu presso la locale chiesa di S. Margherita, seguita da una sorta di «battesimo» del Grande Fuoco: si tratta di un esercizio che consiste nel far saltare i tappi di bottiglie di vino il piú in alto possibile sulla catasta. La prima domenica di Quaresima, quest’anno il 9 marzo, inizia in mattinata con una camminata nelle campagne intorno a Bouge con distanze a scelta di 5, 10 o 15 km. In serata, dopo le 18,00, ci si ritrova davanti alla chiesa di S. Margherita, da dove, alle 19,00, il corteo con le
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personalità, i confratelli e le società folcloristiche locali parte in direzione del Grande Fuoco, davanti al quale avviene il giuramento dei membri della Confraternita. In seguito il Bonhomme Hiver (Buonuomo inverno), un pupazzo in cartapesta alto piú di 2 m, viene processato, condannato al rogo e issato a braccia sulla catasta prima dell’incendio.
I sette fuochi A tarda sera si accende il falò. A seconda degli anni, l’onore di appiccare il fuoco viene riservato al «capitano della gioventú», all’ultimo sposo dell’anno, al sindaco o a una personalità vallone. Contemporaneamente, sulle colline circostanti vengono accesi altri sei falò periferici a Loyers-Bossimé,
Erpent-Val, Erpent-Les Bleuets, Erpent-Bois Willame, Wépion-La Pairelle e Namur-Citadelle. Secondo un’antica leggenda, chi riesce a vedere tutti i sette fuochi nello stesso momento, è protetto contro le streghe per tutto l’anno. Attorno al rogo è festa per tutta la notte, con musica e distribuzione di specialità gastronomiche. In passato le ceneri venivano poi vendute agli agricoltori, che le spargevano nei campi, e, secondo la tradizione popolare, procuravano buoni raccolti. Fondata nel XIII secolo, Bouge è stata a lungo un Comune autonomo, prima di essere annessa a Namur nel 1977. Deve il suo nome a un borgo fortificato costruito sotto l’impero romano a protezione del territorio. T. Z. marzo
MEDIOEVO
Ante prima
La storia «viva» P
iacenzaExpo torna a ospitare, il 22 e 23 marzo, Armi & Bagagli, la piú grande fiera di rievocazione storica italiana, che quest’anno festeggia la sua X edizione. Appuntamento imperdibile per operatori e appassionati della Rievocazione Storica, la fiera si articola in piú momenti paralleli e potrà contare sulla presenza di oltre 250 tra artigiani e fornitori provenienti da Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Olanda, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Spagna, Svizzera, Ucraina, Ungheria Appassionati di rievocazione e visitatori potranno trovare repliche di armi antiche e moderne, armature da legionario imperiale romano e da homo d’arme medievale, calzature storiche – dalle calighe calzate dei senatori e dai pretoriani fino allo stivale seicentesco o alla calzatura raffinata del Settecento veneziano –, uniformi ed equipaggiamenti del tutto identici agli originali dell’epoca napoleonica, del Risorgimento italiano, o delle due guerre mondiali. E ancora abiti, copricapo, cinture, scarselle, pelli, stoffe, fibbie, panche e tavoli in legno, coppe in vetro, vasi in ceramica graffita, lanterne, fino a complementi di arredo e tende con le quali allestire accampamenti storici dal I al XX secolo!
Nei due giorni di fiera gruppi storici e di spettacolo animeranno i padiglioni con duelli ed esibizioni di falconeria per far rivivere la «Storia Viva». Mentre giullari, giocolieri, musicisti e danzatori faranno assaporare la magia della storia, esibendosi su un palco in legno tipico della tradizione dove sarà possibile assistere anche alle tradizionali commedie. Anche per l’edizione 2014 sarà inoltre presente una sezione a cura della Federazione Italiana Giochi Storici, che riunisce città in cui si svolgono annualmente palii, feste e giochi legati alle piú antiche tradizioni del nostro Paese. E, per avvicinare i piú giovani alle antiche tradizioni e far vivere loro la storia e la sua rievocazione in prima persona, saranno allestite due aree: una con laboratori manuali e l’altra con giochi della tradizione medievale. Infine, nella Sala convegni, domenica pomeriggio, si svolgerà l’assemblea nazionale della sezione Italiana del CERS (Consorzio Europeo Rievocazioni Storiche), organizzatore dell’evento insieme alla Estrela srl.
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Dove e quando
«Armi & Bagagli-Mercato Internazionale della Rievocazione Storica» Piacenza, Piacenza Fiere dal 22 al 24 marzo Orario sabato, 10,00-19,00; domenica, 10,00-18,00 Info tel. 345 7583298 oppure 333 5856448; e-mail: info@armiebagagli.org; web: armiebagagli.org
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aprile
MEDIOEVO
agenda del mese
Mostre bologna FEDELTÀ/TRADIMENTO. Racconti d’infedeltà e dedizione U Galleria Maurizio Nobile fino al 29 marzo
a cura di Stefano Mammini
è il filo conduttore di un discorso che, spaziando tra la mitologia e le Sacre Scritture, racconta vizi e passioni, talmente connaturati nell’animo umano da rendere ancora universali e attuali i significati delle opere. info tel - 051.238363; e-mail: bologna@ maurizionobile.com; maurizionobile.com New York piero della francesca: incontri personali U The Metropolitan Museum of Art fino al 30 marzo
In occasione dell’arrivo a Bologna de La Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer, la Galleria Maurizio Nobile si interroga sul ritorno del valore della fedeltà contrapposta al tradimento. La lettura iconografica delle opere
Nata innanzitutto grazie alla collaborazione con le Gallerie dell’Accademia di Venezia e la Galleria Nazionale delle Marche di Urbino, la mostra presenta quattro dipinti devozionali realizzati da Piero della Francesca, che si trovano cosí riuniti per la prima volta: il San Girolamo e il donatore Girolamo
Amadi (da Venezia), la Madonna di Senigallia (da Urbino), il San Girolamo penitente (dalla Gemäldegalerie di Berlino) e una Madonna con Bambino facente parte di una collezione privata newyorchese. L’intento dell’esposizione, pur nella sua limitata selezione, è quello di
indagare il contributo dato dal grande maestro toscano alla produzione di opere di devozione privata. info metmuseum.org Saint-Romain-engal - vienne Gli irochesi del San Lorenzo, popolo del mais U Musée romain fino al 15 aprile
Gruppo etno-linguistico
dell’America Settentrionale, gli Irochesi erano genti agricole riunite nella Lega delle Cinque Nazioni, un’unione formatasi a sud del lago Ontario fra le tribú Onondaga, Mohawk, Seneca, Kayuga e Oneida (e in seguito estesa ad altre tribú). Stanziate sulle sponde del fiume San Lorenzo fino al XVI secolo, queste comunità sono protagoniste di un’ampia esposizione, che riunisce materiali provenienti da siti archeologici scoperti in Quebec, nell’Ontario e nello Stato di New York. I reperti ricostruiscono il modus vivendi del popolo irochese, che basava la propria sussistenza sull’agricoltura e introdusse nella valle del San Lorenzo la coltivazione del mais. La documentazione offerta da questi oggetti è integrata dalle notizie contenute
mostre • Pontormo e Rosso Fiorentino. Divergenti vie della «maniera» U Firenze – Palazzo Strozzi
fino al 20 luglio (dall’8 marzo) – info palazzostrozzi.org
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ontormo e Rosso Fiorentino sono i protagonisti piú anticonformisti e spregiudicati del nuovo modo di intendere l’arte in quella stagione del Cinquecento italiano che Giorgio Vasari chiama «maniera moderna». E la rassegna a loro dedicata rappresenta anche un viaggio attraverso le vite parallele di questi artisti, «gemelli diversi» che, alla fine del loro percorso, arrivarono a un riavvicinamento. Pontormo e Rosso, che hanno reso straordinaria con il loro tratto artistico la prima metà del Cinquecento, nascono da una costola di Andrea del Sarto e con lui si formano, pur mantenendo entrambi una forte indipendenza e una grande libertà espressiva: uno, Pontormo, fu pittore sempre preferito dai Medici e aperto alla varietà linguistica e al rinnovamento degli schemi compositivi della tradizione, l’altro, Rosso, fu invece legatissimo alla tradizione pur con aneliti di spregiudicatezza e di originalità. Uno piú naturalista, vicino a Leonardo, l’altro influenzato da suggestioni michelangiolesche. marzo
MEDIOEVO
nel resoconto dell’esploratore bretone Jacques Cartier, che incontrò gli Irochesi nel 15341535, in occasione del suo primo viaggio in America. info musees-galloromains.com firenze UNA VOLTA NELLA VITA. TESORI DAGLI ARCHIVI E DALLE BIBLIOTECHE DI FIRENZE U Galleria Palatina fino al 27 aprile
Tre documenti archivistici di Michelangelo; un disegno di Raffaello; il certificato di battesimo di Leonardo da Vinci e un altro testo che reca le sue postille; una lezione scritta di Galileo sull’Inferno di Dante; opere di Andrea Mantegna, Alessandro Allori e Giovanni Stradano; autografi di Girolamo Savonarola, Poliziano, Cosimo I de’ Medici, Joachim Winckelmann,
Ugo Foscolo, Giuseppe Pelli Bencivenni, Giovanni Fabbroni, Pietro Vieusseux, Eugenio Barsanti, Vasco Pratolini, Eduardo De Filippo e Dino Campana, del Premio Nobel Eugenio Montale, presente anche con due inediti acquerelli. Tutto questo, e molto altro, è possibile ammirare nella mostra in programma nella Sala Bianca di Palazzo Pitti. Obiettivo dell’esposizione è quello di offrire l’opportunità di ammirare tesori cartacei custoditi in alcuni dei principali «scrigni» culturali della città. Tra i quali non manca una selezione di inediti, sequenza di «mai visti» di carta che arrivano da vari archivi e biblioteche. info tel. 055 2388614; uffizi.firenze.it
monza AMORE E PSICHE. La favola dell’anima U Villa Reale fino al 4 maggio
ascoli piceno angeli nel medioevo ascolano U Pinacoteca Civica, Sala della Vittoria fino al 4 maggio
La mostra è la prima tappa di un progetto triennale sul tema degli angeli nella tradizione artistica ascolana dal Medioevo al XIX secolo. Un programma che prevede, nel triennio 2013-2015, la realizzazione di tre esposizioni che presentano opere (dipinti, sculture, miniature, oreficeria...) raffiguranti «angeli» provenienti dall’Ascolano. L’obiettivo è quello di presentare il ricco patrimonio di opere presenti nel territorio, accomunate appunto dal tema degli angeli, scelto come osservatorio sul piú vasto ambito dell’arte sacra. Il risultato atteso è quello di uno studio organico del tema, divulgato attraverso la realizzazione di un catalogo-mostra, e quindi la diffusione della conoscenza del patrimonio storico e artistico del territorio. info associazione giovaneuropa.eu
MEDIOEVO
febbraio
Dopo essere stata presentata con successo a Mantova, fa tappa a Monza la mostra che approfondisce la favola di Apuleio grazie a capolavori archeologici della Magna Grecia e dell’arte romana, per arrivare a Tiepolo, Tintoretto, Auguste Rodin, Salvador Dalí. Nel nuovo allestimento viene inoltre proposto un confronto con la Rotonda dell’Appiani, edificio realizzato da
Giuseppe Piermarini nel complesso della Villa Reale, che conserva gli affreschi di Andrea Appiani del 1791 che rappresentano proprio i vari episodi della favola narrata ne L’asino d’oro di Apuleio. Amore e Psiche. La favola dell’anima si basa sull’interpretazione del mito in chiave neoplatonica che venne data nell’Umanesimo, per la quale l’errore di Psiche consiste nel ritenere il divino come una realtà tangibile e verificabile con i sensi, mentre è solo il cuore che può percepirne pienamente
la presenza. info tel. 0392 312185; e-mail: info@ fondazionednart.it; reggiadimonza.it Londra una strana Bellezza: Maestri del Rinascimento tedesco U The National Gallery fino all’11 maggio
Che cosa determina la bellezza di un’opera d’arte? E in quale misura la percezione di questa qualità può mutare in funzione del contesto in cui vive il suo osservatore? Sono questi i quesiti che hanno ispirato la
mostra che la National Gallery dedica ai maestri del Rinascimento tedesco. La rassegna presenta in una prospettiva diversa dipinti, disegni e stampe di artisti notissimi, come Hans Holbein il Giovane, Albrecht Dürer e Lucas Cranach il Vecchio; opere di cui viene ricostruita l’accoglienza che ebbero presso i contemporanei e nel recente passato, confrontandola con il modo in cui vengono oggi fruite. Il Rinascimento tedesco fu parte del piú ampio risveglio culturale e artistico che
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agenda del mese
interessò il Nord Europa tra il XV e il XVI secolo e grazie ai suoi talenti migliori, che sono appunto i protagonisti della mostra londinese, guadagnò presto fama internazionale. info nationalgallery.org.uk
firenze RI-CONOSCERE MICHELANGELO. LA SCULTURA DEL BUONARROTI NELLA FOTOGRAFIA E NELLA PITTURA DALL’OTTOCENTO AD OGGI U Galleria dell’Accademia fino al 18 maggio
Realizzata in occasione delle celebrazioni per i quattrocentocinquanta anni dalla morte di Michelangelo Buonarroti, la mostra affronta il complesso tema del rinnovato interesse e dell’ammirazione per l’artista dall’Ottocento alla contemporaneità, attraverso l’opera di scultori, pittori e fotografi che hanno guardato alla figura del Buonarroti e alle sue opere come riferimento iconografico per le loro realizzazioni. Partendo dalla produzione fotografica realizzata da
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alcuni tra i piú noti atelier e professionisti del XIX e del XX secolo, viene evidenziato il ruolo determinante che la fotografia ha svolto nel consolidare la fortuna critica e iconografica di Michelangelo e, attraverso di essa, la celebrazione del suo mito. Una lettura trasversale, in chiave storico-fotografica, che mette al centro il ruolo svolto dalla fotografia, fin dalle sue origini, nel celebrare uno dei massimi artisti del Rinascimento italiano, e nell’eleggere un ristretto pantheon di immagini di sue sculture a monumenti della memoria collettiva. info tel. 055 2388609; uffizi.firenze.it Venezia L’immagine della città europea dal Rinascimento al Secolo del Lumi U Museo Correr fino al 18 maggio
Gli spazi al secondo
piano del Museo Correr si aprono alla rievocazione dell’universo urbano europeo. Il visitatore ha l’opportunità di conoscere l’evolversi e i cambiamenti iconografici che il tema della raffigurazione della città ha subito nel corso dei secoli, dalla visione rinascimentale alla concezione dinamica delle avanguardie del primo Novecento. La mostra raccoglie immagini globali della città, topografie dipinte e disegnate da mani espertissime, di grande impatto qualitativo e spettacolare, che per secoli sono state l’unico o il piú suadente e immediato mezzo per mostrare la bellezza e la ricchezza delle maggiori città d’Europa. Tavole, tele, incisioni, atlanti e disegni danno vita a un viaggio attraverso il tempo e lo spazio, tra le capitali europee e le città italiane: da quel «monumento
xilografico» che è la Venetie MD di Jacopo de’ Barbari alle vedute di Firenze, Roma, Napoli, Genova, Siracusa di Gaspar van Wittel, Didier Barra, Alessandro Baratta, Jacob Philippe Hackert; dalle spettacolari rappresentazioni di Varsavia di Bernardo Bellotto fino agli scorci della Londra del XVIII secolo. info call center, tel. 848 082 000; e-mail: info@fmcvenezia.it; correr.visitmuve.it
1178 e il 1180. La trasferta a New York è stata organizzata in occasione del restauro che ha interessato le strutture murarie della chiesa inglese e che ha reso necessaria la temporanea rimozione dei preziosi vetri. Nella sezione medievale del
New York Luce raggiante: vetrate della cattedrale di Canterbury U The Metropolitan Museum of Art, The Cloisters fino al 18 maggio
Sei vetrate policrome della cattedrale di Canterbury hanno lasciato per la prima volta la loro sede naturale: un evento eccezionale, mai prima d’ora verificatosi nella storia del magnifico ciclo, realizzato tra il Metropolitan Museum of Art, i Cloisters, sono dunque giunti i ritratti in trono di sei personaggi – Jared, Lamech, Terach, Abramo, Noè e Peleg –, provenienti dal coro della cattedrale, dal transetto orientale e dalla cappella della Trinità: fanno parte di una serie che comprendeva in origine le immagini di 86 antenati di Cristo e che viene considerata come il piú antico ciclo genealogico nella storia marzo
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il Tempio e la Corte: «L’arte nell’India Classica» e «L’india dei Maharaja». Due poli, quello del Tempio e quello della Corte, che sfuggono al dualismo tipicamente occidentale tra sacro e profano e che nella cultura indiana non sono in alcun modo in contraddizione. info tel. 0422 513150 BRESCIA dell’arte universale. info metmuseum.org
indiana U Casa dei Carraresi fino al 31 maggio
Bologna
Gli oggetti e le opere d’arte riuniti in Casa dei Carraresi permettono di immergersi nel mondo magico dell’India, godendo di una rassegna che spazia dal II millennio a.C. all’epoca dei Maharaja. Elementi architettonici, miniature, fotografie d’epoca, oggetti di uso
LA RAGAZZA CON L’ORECCHINO DI PERLA U Palazzo Fava fino al 25 maggio
Il capolavoro di Vermeer è la presenza piú illustre all’interno della mostra che in Palazzo Fava ripercorre la storia del Secolo d’Oro della pittura olandese, realizzata grazie ai prestiti concessi dal Mauritshuis Museum de L’Aia, dal quale provengono tutti i dipinti in esposizione. La ragazza con l’orecchino di perla è accompagnata da un altro importante dipinto di Vermeer, Diana e le sue ninfe, e, tra gli altri, da opere di Rembrandt e Frans Hals, Ter Borch, Claesz, Van Goyen, Van Honthorst, Hobbema, Van Ruisdael, Steen. info Call center, tel. 0422 429999; lineadombra.it Treviso Magie dell’India. Dal tempio alla corte, capolavori dell’arte
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rituale e quotidiano, costumi, tessuti, gioielli, accanto a statue e bassorilievi sono distribuiti in un percorso espositivo che ricostruisce le tappe salienti della civiltà indiana seguendo due filoni principali, che hanno come centro focale, rispettivamente,
MORETTO, SAVOLDO, ROMANINO, CERUTI. 100 capolavori dalle collezioni private bresciane U Palazzo Martinengo fino al 1° giugno
La mostra presenta i piú significativi ritrovamenti compiuti negli ultimi anni, che riportato alla luce capolavori di cui si erano perse le tracce, e propone un viaggio attraverso secoli di storia dell’arte, esplorando le correnti pittoriche succedutesi nel tempo. Tra il XV e il XVI secolo, si è vissuta in Italia una stagione artistica straordinaria, di cui furono protagonisti furono tre soggetti: gli artisti, i committenti e i collezionisti, legati tra di loro dal comune denominatore del «gusto per il bello». Da un lato, gli artisti, con estro creativo e perizia tecnica, diedero alla luce opere ancora oggi capaci di emozionare; dall’altro, i committenti, appartenenti alle gerarchie ecclesiastiche, alla
nobiltà o alle classi medie arricchitesi col fiorire dei commerci, investirono parte dei loro capitali commissionando dipinti, sculture e arredi destinati ad abbellire chiese e palazzi, ville e castelli; infine i collezionisti, raffinati esteti dotati di una particolare sensibilità per il bello, crearono veri e propri «musei privati», che talvolta, spinti da intenti educativi e da un forte senso civico, donarono alla propria città. info tel. 030 2906403; e-mail: mostre@ provinciadibresciaeventi.
e convergenze dei protagonisti della storia dell’arte: da Cima a Pordenone, da Lotto a Tiziano. Di questo affascinante e inquieto momento storico l’esposizione percorre i tratti salienti, soprattutto negli esiti pittorici, documentando la presenza e gli influssi da alcuni dei protagonisti di una stagione d’arte manifestata in dipinti di ufficiale e di pubblica devozione, opere piú sommesse e private, decorazioni e prodotti d’arte applicata, stoffe e suppellettili religiose e profane.
com
info uncinquecentoinquieto.it
Conegliano Un CinQuecento inQuieto. Da Cima da Conegliano al rogo di Riccardo Perucolo U Palazzo Sarcinelli fino all’8 giugno
Nel XVI secolo Conegliano vive un’eccezionale esperienza di cultura e si impone come uno dei cuori culturalmente piú dinamici del territorio veneto. La città, con i suoi dintorni, da Serravalle a Montello fino ad Asolo, per circostanze storiche e territoriali e per la sua ineguagliabile qualità ambientale e paesaggistica, è stata un centro di interessi culturali e testimonianze artistiche e letterarie di singolare ricchezza, luogo di incontri
Ravenna L’incanto dell’affresco. Capolavori strappati da Pompei a Giotto, da Correggio a Tiepolo U Museo d’Arte della città fino al 15 giugno
Risalgono ai tempi di Vitruvio e di Plinio le prime operazioni di distacco, secondo una tecnica che prevedeva la rimozione delle opere con l’intonaco e il muro che le
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agenda del mese ospitava. Il cosiddetto «massello», che favorí il trasporto a Roma di dipinti provenienti dalle terre conquistate altrimenti inamovibili, dopo secoli di oblio trovò nuova fortuna a partire dal Rinascimento – nel Nord come nel Centro della Penisola – favorendo la conservazione ai posteri di porzioni di affreschi che altrimenti sarebbero andati perduti per sempre. Cosí, in un arco temporale compreso fra il XVI e il XVIII secolo, vennero traslate, tra le altre, alcune delle opere piú importanti presenti in mostra: la Maddalena piangente di Ercole de’ Roberti (dalla Pinacoteca Nazionale di Bologna) e il gruppo di angioletti di Melozzo da Forlí (dai Musei Vaticani). Un modus operandi difficile e dispendioso che a partire dal secondo quarto del Secolo dei Lumi venne affiancato, e piano piano sostituito, dalla piú innovativa e pratica tecnica dello strappo, prassi che tramite uno speciale collante permetteva di strappare gli affreschi e quindi portarli su di una tela. Una vera rivoluzione nel campo del restauro, della conservazione, ma anche del collezionismo del patrimonio murale italiano. info tel. 0544 482477 oppure 482356; e-mail: info@museocitta.ra.it; mar.ra.it
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Londra
Milano
Il Veronese: splendore nella Venezia del Rinascimento U The National Gallery fino al 15 giugno (dal 19 marzo)
Da Gerusalemme a Milano. Imperatori, filosofi e dèi alle origini del Cristianesimo U Civico Museo Archeologico fino al 20 giugno
Conosciuto come Il Veronese, Paolo Caliari (1528-1588) fu uno degli artisti piú rinomati e ambiti che operavano nella Venezia del XVI secolo. Le sue opere decoravano chiese, palazzi patrizi, ville ed edifici pubblici in tutto il Veneto e sono legati all’idea di fasto e splendore che abbiamo della Repubblica di Venezia di quel tempo. La mostra allestita alla
A 1700 anni dalla promulgazione dell’Editto del 313 d.C., il Civico Museo Archeologico di Milano propone un percorso espositivo che illustra il contesto storico, politico e religioso in cui è nato il cristianesimo e le correnti filosofiche e religiose che interagiscono con il suo progressivo affermarsi tra il I e il IV secolo
importanti, quali il cristianesimo e le filosofie classiche, l’Egitto tra antichi e nuovi dèi, i culti misterici, i cristiani e l’impero e le origini del cristianesimo a Milano. Quest’ultima chiude idealmente il percorso nella torre poligonale delle mura romane, i cui affreschi del XIII secolo documentano la devozione verso i primi martiri milanesi, a quasi mille anni di distanza dal vescovo Ambrogio, figura cardine della Chiesa locale. info tel. 02 88465720 (Direzione Museo) o 02 88445208 (Biglietteria); comune.milano.it/ museoarcheologico; e-mail: c.museoarcheologico@ comune.milano.it londra vichinghi: vita e leggenda U The British Museum fino al 22 giugno (dall’8 marzo)
National Gallery (che sarà poi ripresentata in Italia, a Verona, dal prossimo 5 luglio) riunisce le opere provenienti da ogni aspetto dell’attività dell’artista: ritratti, pale d’altare, allegorie e scene mitologiche, che rappresentano il picco della produzione dell’artista per ogni fase della sua carriera. info nationalgallery. org.uk
d.C., nonché i complessi rapporti tra la Chiesa cristiana e il potere imperiale. Accompagnato da un ricco corredo esplicativo di pannelli illustrati che ne spiegano le tematiche, il percorso si apre con la sezione dedicata alla Giudea al volgere dell’era cristiana. Nelle sezioni successive vengono quindi sviluppati altri temi
Dopo essere stata presentata a Copenaghen, giunge a Londra una delle piú ricche esposizioni sulla storia dei navigatori scandinavi. Tra gli obiettivi della rassegna, vi è quello di presentare un volto «internazionale» della cultura vichinga ritenuta in passato, erroneamente, come un sistema chiuso di valori e usanze che riflettevano la posizione di isolamento della penisola scandinava. Oltre a oggetti d’arte e manufatti artigianali di notevole pregio, la
mostra propone la ricostruzione integrale della piú grande nave vichinga a oggi nota. Si tratta dell’imbarcazione scoperta nel 1997 a Roskilde, in Danimarca, e databili agli inizi dell’XI secolo: un legno possente, che misurava 37 m di lunghezza, 4 di larghezza, aveva circa 80 remi e poteva trasportare un centinaio di guerrieri. Degni di nota sono inoltre il tesoro scoperto nel 2007 a Harrogate, nello Yorkshire, e reperti inediti provenienti dalla Norvegia e dalla Russia. info britishmuseum.org trento ARTE E PERSUASIONE. LA STRATEGIA DELLE IMMAGINI DOPO IL CONCILIO DI TRENTO U Museo Diocesano Tridentino fino al 29 settembre (dal 7 marzo)
L’esposizione analizza, per la prima volta, il rapporto tra le decisioni assunte dal concilio in materia di immagini sacre e le arti figurative in uno specifico contesto territoriale. In una delle ultime sessioni dell’assise tridentina, la XXV del 3 dicembre 1563, fu infatti promulgato il marzo
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decreto Della invocazione, della venerazione e delle reliquie dei santi e delle sacre immagini, con il quale la Chiesa assolveva l’uso delle immagini sacre, la cui liceità era stata aspramente criticata dalla Riforma protestante. Richiamandosi alla tradizione, la norma esaltava la funzione didattica delle immagini e stabiliva alcuni principi generali circa le caratteristiche delle rappresentazioni da collocare negli edifici di culto. Demandava inoltre ai vescovi il controllo sulle raffigurazioni inconsuete da esporre nelle chiese. Sulla base del contenuto del decreto, nei decenni
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conseguente volontà di riportarla entro i parametri precostituiti e codificati da una superiore autorità religiosa. info tel. 0461 234419; e-mail: info@museo diocesanotridentino.it; museodiocesano tridentino.it
Bath successivi furono pubblicati numerosi trattati dedicati alle arti figurative a soggetto sacro, all’architettura dei luoghi di culto e alla suppellettile liturgica, testi a prevalente carattere precettistico che svelano la forte preoccupazione della gerarchia ecclesiastica nei confronti dell’attività artistica e la
Nuovo Mondo, antiche mappe U American Museum in Britain fino al 2 novembre (dal 22 marzo)
Organizzata per salutare la pubblicazione del relativo catalogo ragionato, la mostra si basa sui documenti che fanno parte della collezione di mappe storiche di Dallas Pratt, uno dei fondatori dell’American Museum
in Britain di Bath. Le carte documentano il mutare e l’arricchirsi delle conoscenze geografiche, resi possibili dal susseguirsi dei grandi viaggi di scoperta e di esplorazione alla volta delle Americhe. Tra il XV
e il XVII il «volto» del Nuovo Mondo cambiò piú volte e, grazie alle informazioni ricevute dai navigatori, geografi e disegnatori poterno tempestivamente aggiornarne le cartografie. infoamericanmuseum.org
Appuntamenti bassano del grappa Medioevo a due facce. È proprio come lo pensiamo? U Centro Studi Medievali Ponzio di Cluny fino al 22 marzo
L’associazione bassanese propone un ciclo di incontri serali per fare il punto sugli sviluppi della medievistica europea.
Le conferenze si svolgono al sabato, alle ore 17,30, presso l’Istituto Scalabrini della cittadina veneta. info tel. 0444 965129; e-mail: info@ ponziodicluny.it
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interviste andré vauchez
Scherza coi fanti e lascia stare i santi? di Chiara Mercuri
A lungo considerate poco attendibili, le biografie e le agiografie dei santi stilate nel Medioevo sono state oggetto di una importante opera di rivalutazione. Ma in che cosa consiste il particolare valore storico di questo tipo di documenti? Lo abbiamo chiesto allo studioso francese André Vauchez
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el mercato editoriale le storie dei grandi santi – al pari delle biografie dei grandi personaggi – sono tra i libri piú venduti. Un successo dovuto, forse, al fatto che i loro protagonisti si presentano come modelli chiari di comportamento, bandiere d’identità politica e religiosa. O, forse, perché – da sempre – la «vita degli altri» ci incuriosisce, nella misura in cui riesce, quasi sempre, anche a raccontarci qualcosa della nostra. André Vauchez è lo studioso che ha consacrato la sua carriera di medievista allo studio della santità, facendola uscire dal ristretto ambito della devozione per renderla – a tutti gli effetti – materia per lo storico e patrimonio vivo della cultura occidentale.
◆ Professor Vauchez, lei è conosciuto in Italia per aver scritto un libro divenuto un grande classico: La santità nel Medioevo. All’indomani della sua pubblicazione, anche nel nostro Paese si è inaugurata una grande stagione di studi sulle fonti agiografiche. Può spiegare di che cosa si tratta? «Le agiografie sono scritti in onore dei santi. In primo luogo le Vitae, che possono essere paragonate alle nostre biografie; poi ci sono i racconti dei miracoli, i processi
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A destra pagina miniata di un’edizione dell’opera agiografica Vita sancti Georgii et sancte Margarite. XIII sec. Verona, Biblioteca Civica. Nella pagina accanto statua in legno policromo di san Giovanni Evangelista facente parte di un gruppo raffigurante il compianto sul Cristo morto. XIV sec. Firenze, Seminario Maggiore Arcivescovile.
di canonizzazione, gli uffici liturgici (ovvero i testi e le preghiere cantati nel giorno anniversario della morte del santo). Si tratta quindi di fonti diverse tra loro, ma che hanno una medesima finalità: celebrare il santo, tenerne viva la memoria».
◆ Queste fonti agiografiche venivano un tempo considerate marginali o, peggio, guardate con sospetto, perché ritenute fonti confessionali valide ai soli scopi devozionali. Perché questo rifiuto? «L’uso di queste fonti è molto delicato. Il primo rischio, infatti, è di avere in esse piena fiducia; il secondo è di prenderle per ciò che non sono. L’agiografia somiglia a una biografia in quanto inizia con la nascita del santo e termina con il giorno della sua morte. Tuttavia, se si scambiasse un’agiografia per una biografia si commetterebbe un errore. Una biografia, in senso moderno, intende raccontare l’intera vita del suo personaggio, l’agiografo, invece, vuole esaltarne le virtú. Il suo interesse, quindi, non è di essere esaustivo, ma di scegliere gli episodi che si prestano a delineare un ritratto a tutto tondo di un santo. Per questo, del resto, ancora oggi, quando vogliamo rimproverare a qualcu-
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Un francese a Roma Nato nel 1938, professore emerito di storia medievale all’università di Parigi Ovest, già allievo di Michel Mollat e di Jacques Le Goff, André Vauchez è stato Direttore dell’Ecole française de Rome dal 1995 al 2003. Attualmente è membro dell’Institut de France e dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Tra le sue opere maggiori ricordiamo: La santità nel Medioevo (il Mulino, Bologna 2009; prima ed. 1989); Il mito di Roma (Laterza, Roma-Bari 2008); Francesco d’Assisi (Einaudi, Torino 2010). Nel 2013 è stato insignito del prestigioso premio «Balzan» per la storia medievale.
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interviste andré vauchez no di aver parlato troppo bene di un personaggio pubblico, gli diciamo: «Hai tessuto un’agiografia!».
◆ Perché, a partire dagli anni Ottanta del Novecento, si è invertita la tendenza, e gli storici hanno iniziato a privilegiare il ricorso a tale tipo di fonte, soprattutto per l’età medievale? «Questo nuovo sguardo sull’agiografia è legato all’evoluzione della storiografia. Un’evoluzione che, a partire dagli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, ha visto l’affermazione della storia sociale e della storia della
mentalità. Da allora gli storici non hanno piú ragionato in termini di falsità o autenticità delle fonti. Si è smesso di ricercare un’impossibile oggettività di tipo positivista e si è cercato di ragionare, piuttosto, sui gusti e le tendenze di un’epoca. Se leggiamo una Vita di san Francesco scritta nel Duecento e poi una scritta nel Settecento, ci rendiamo subito conto del cambiamento di mentalità avvenuto nel tempo: i fatti narrati sono gli stessi, ma l’interpretazione che se ne dà è differente, poiché differente è la cultura che l’ha espressa».
Nella pagina accanto Madonna con il Bambino tra san Francesco e sant’Antonio Abate, polittico attribuito a Pellegrino di Giovanni. Prima metà del XV sec. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria.
Ancora una miniatura tratta dall’opera agiografica Vita sancti Georgii et sancte Margarite. XIII sec. Verona, Biblioteca Civica.
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◆ Qual è il segreto, la chiave per leggere queste fonti? «Non posso dire di possedere un “segreto”! Tuttavia, quando si è alle prese con queste fonti, occorre avere una cautela maggiore di quella che adottiamo nell’accostarci a un qualunque altro documento storico. Un principio che vale nonostante la storiografia abbia ormai asserito l’impossibilità di trovare “fonti oggettive”, poiché, come ho già detto, esse riflettono sempre il contesto in cui sono state prodotte e presentano quindi alcune “deformazioni”. Ci si deve allora chiedere quali siano state le finalità che l’autore ha seguito nel redigere quegli scritti. È sempre necessario, inoltre, compiere un’attenta esegesi: studiare bene l’ambiente nel quale le fonti sono state redatte, il milieu di provenienza, il contesto religioso, politico e istituzionale. Se si legge una Vita di San Francesco, per esempio, è di fondamentale importanza riuscire ad accertare se il suo biografo sia un Francescano al servizio del papa o l’eremita di uno sperduto romitorio umbro. È evidente, infatti, che la prospettiva cambia notevolmente: il primo, probabilmente, è stato incaricato di scrivere una biografia ufficiale, ponendo l’accento sulla felice collaborazione tra il santo e la Chiesa, mentre il secondo scrive per ricordare l’esempio di vita di Francesco ai confratelli».
◆ Che cosa si può trarre da queste fonti per «fare» storia? Qual è la loro importanza per lo storico?
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«I testi agiografici hanno avuto il grande merito di portare sotto i riflettori i poveri e i diseredati. Hanno dato la parola a ceti sociali che di solito non l’avevano. Ceti che – nell’età medievale – erano analfabeti, che non conoscevano il latino ed erano al di fuori dell’interesse delle classi dominanti. Nelle fonti istituzionali si parla di re e imperatori, di nobili e notabili, mentre nelle fonti agiografiche troviamo una nutrita schiera di contadini, servi, nutrici, disabili, indigenti di varia natura, che chiedono miracoli, aiuto, protezione, intercessione. Gente che cerca presso i patroni celesti quella giustizia che non trova dai loro governati terrestri. Nel Medioevo, infatti, per canonizzare un uomo ritenuto “santo” si procedeva con inchieste nel corso delle quali chiunque poteva andare a rendere la propria testimonianza. Presso i punti di raccolta, i commissari incaricati dell’inchiesta registravano le deposizioni, che venivano poi – come oggi – allegate alla documentazione del processo. Sono testimonianze che ci fanno conoscere con vividezza di particolari le condizioni di vita e di salute di questi uomini, i loro problemi e le loro difficoltà, le loro aspirazioni e la loro speranza in una società migliore. Non bisogna poi dimenticare che le vite dei santi servivano come base per la predicazione nelle piazze e avevano quindi anche lo scopo di fustigare i costumi e le pratiche ritenute dannose dalle autorità civili e religiose. Una connotazione che può concorrere alla
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interviste andré vauchez definizione di uno spaccato della società medievale, difficilmente reperibile altrove».
◆ All’inizio della sua carriera, anche per lei non fu facile affrancare tali fonti dall’accusa di essere manoscritti «devozionali», semplice materia per preti, priva di ogni validità scientifica. Perché è stato tanto arduo convincere di quale enorme portata avessero, invece, per la storia sociale? «All’inizio, in effetti, è stata dura. L’impostazione storiografica classica, infatti, privilegiava – per ciò che atteneva alle fonti scritte – le fonti documentarie o comunque istituzionali e, come ho detto, considerava questi scritti semplice letteratura di edificazione intessuta di errori e di pregiudizi. Con alcuni storici della mia generazione, abbiamo faticato non poco a far comprendere che tali fonti avevano attendibilità storica al pari delle altre».
◆ Ma il bottino d’informazioni ricavabile da queste fonti è lo stesso che si può trarre da un atto notarile? «È diverso. In un atto notarile i nomi e le date sono certi, quasi sicuramente veniamo a conoscenza dell’identità e della professione del contraente, ma la luce che da esso promana, a illuminare la società circostante, è piuttosto fioca. Le fonti agiografiche, invece, ci dicono molto sul modo di ragionare e di sentire dell’uomo medievale. Prendiamo ancora l’esempio di san Francesco d’Assisi: sono state scritte Vitae diversissime su di lui e ci sono stati agiografi che, come Tommaso da Celano, hanno scritto piú di una biografia dell’Assisiate, in diverse fasi della loro esistenza. Se confrontiamo la Prima Vita con la Seconda del Celano, troviamo che la Seconda contraddice su alcuni punti le cose scritte dallo stesso autore nella Prima. Allora è evidente che, nel frattempo, il contesto è cambiato, e che probabilmente sono in-
tervenute censure precise da parte dei committenti ai quali l’autore era legato: la Curia pontificia e la leadership dell’Ordine francescano».
◆ Qual è il rapporto tra l’agiografia e la storia sociale? «La prima è figlia della seconda. Un assioma che dobbiamo al movimento delle Annales, che ha cambiato l’idea di «storia». Le Annales dichiararono guerra alla storia «evenementielle», ovvero al racconto seriale degli avvenimenti, e, per prime, hanno imposto il principio secondo il quale la storia, prima che politica, è storia delle società. Le società dovevano dunque essere indagate con tutti i mezzi a disposizione: reperti archeologici, paleografia, sociologia, comparativismo… Ciò aprí la strada alla “scoperta” delle fonti agiografiche come fonti privilegiate per la storia. La svolta storiografica ha fatto sí che davanti a queste fonti non ci si interrogasse piú sulla loro attendibilità – in merito a una data o a un miracolo –, ma si indagasse piuttosto la psicologia degli uomini dell’epoca: i loro meccanismi mentali, le loro proiezioni, in una parola il loro “orizzonte d’attesa”». ◆ In giugno si terrà a Roma un convegno in suo onore. Amici e colleghi desiderano tributarle il giusto riconoscimento per i tanti anni di lavoro e attività di ricerca nella Capitale. Come nasce il suo rapporto con Roma, a cui ha dedicato anche un libro, Il mito di Roma, che nelle vendite ha superato anche il suo primo best seller, La santità nel Medioevo? «È nato innanzitutto da un dato biografico: ho vissuto diciotto anni della mia vita nella capitale italiana, prima come Direttore di Studi poi come Direttore dell’École française de Rome. In secondo luogo, la storia di Roma mi interessava per il peso che essa ha esercitato su tutto il mondo medievale occidentale. Roma, come dice il titolo del mio libro, non è solo una città ma è innanzitutto un mito. Nel Medioevo, nonostante fosse ridotta a meno di
Qui accanto reliquiario della veste di san Francesco. XIII-XIV sec. Assisi, basilica di S. Francesco, Museo del Tesoro. Nella pagina accanto Assisi, basilica di S. Francesco, chiesa superiore. L’estasi di san Francesco, dal ciclo giottesco delle Storie di San Francesco. 1297-1300.
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40 000 abitanti, irradiava un richiamo su tutta la cristianità. A Roma, infatti, c’era la tomba degli Apostoli, ma c’erano anche il Colosseo e i ruderi del Foro. La Roma antica rappresentava un modello per la società medievale in quanto società regolata da leggi. Nelle guide per i pellegrini dell’epoca si legge questa duplice ammirazione per la Roma imperiale e per quella cristiana».
◆ Nel Medioevo, dunque, nonostante la città fosse imbarbarita e impoverita, il suo mito le sopravviveva? «Sí, esattamente. Il nome “Roma” diceva qualcosa a tutti. Ancora nel Cinquecento, Montaigne scrive che giungere a Roma per la prima volta ha significato per lui ritrovare una città conosciuta col cuore durante i lunghi anni di studio della sua giovinezza. Tutti avevano all’epoca un’idea di Roma e di Gerusalemme, che erano i due poli di riferimento della cristianità».
◆ Applicando questa sua teoria della città-mito ai tem-
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pi moderni, crede che lo stesso paradigma possa valere per città come Venezia o Firenze? «Certamente. Si tratta di città che nel Medioevo erano veri e propri fari di civiltà e cultura. A partire dal Trecento e per tutto il Rinascimento poi, Firenze è stata uno dei maggiori poli culturali non solo per l’Italia ma per l’Occidente in genere. Oggi queste città sono troppo dipendenti dal turismo, e questo fa un po’ paura. Però certamente anche per Venezia e Firenze si può dire che sono città che hanno vissuto una loro significativa dimensione mitica, almeno fino alla seconda guerra mondiale».
◆ Restando in tema di miti, Einaudi ha pubblicato una sua biografia su Francesco d’Assisi (vedi «Medioevo» n. 165, ottobre 2010; anche on line su medioevo.it). Un personaggio trasformatosi in «un mito» non solo a livello spirituale e religioso, ma anche da un punto di vista storiografico (basti pensare ai molti convegni
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interviste andré vauchez ◆ Il suo libro, però, è solo per metà una biografia. L’altra metà è dedicata all’immagine di Francesco... «Ho voluto rendere conto della trasformazione della sua immagine nei secoli, col cambiare della sensibilità, delle mentalità, delle attese spirituali e religiose delle varie epoche storiche. Questa operazione è stata possibile con Francesco proprio perché è un personaggio che, nel bene e nel male, non ha mai smesso di destare interesse».
◆ Mi è capitato di recente di consi-
Roma, basilica di S. Maria in Trastevere. Particolare del mosaico del catino absidale con le immagini della Vergine e di Cristo in trono. 1140 circa.
storici a lui dedicati negli ultimi cento anni). Perché ha voluto misurarsi con questo personaggio? «Dagli anni Sessanta del secolo scorso mi sono interessato a Francesco. Tuttavia ho sempre pensato che per arrivare a studiarlo fosse necessaria una perfetta conoscenza delle fonti e della storiografia francescane. Una conoscenza che, fino a vent’anni fa, non era facile avere, in quanto si era nel pieno di un incessante lavorio sulle edizioni critiche che per la prima volta vennero eseguite secondo criteri scientifici. Permanevano poi aperti diversi problemi filologici e interpretativi e infatti, fino a pochi anni fa, sono state scoperte nuove fonti, mentre altre già conosciute sono state datate in modo piú preciso. Solo quando ho giudicato concluso tale processo, mi sono deciso a scrivere una sua biografia. Era inoltre per me molto importante inserire Francesco nel contesto storico-comunale italiano e anch’esso ha trovato una sua piú accettabile definizione solo negli ultimi trent’anni».
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gliare la lettura del suo libro a una persona di buona cultura e devota a Francesco d’Assisi. Mi ha risposto che non legge mai biografie di santi scritte da storici per paura che le procurino un disincanto: crede anche lei che quando uno storico si accosta alla vita dei santi finisce per togliere loro fascino e carisma? «No, non credo affatto. Non ha senso entusiasmarsi per la costruzione, talvolta puramente fittizia, di un agiografo. Alcune “favole”, del resto, si rivelano meno attraenti della realtà. Proprio nel caso di Francesco, i tratti di vita e di personalità certi che lo storico ci restituisce, ci permettono di accostarci per davvero al «nostro» personaggio e di conoscerlo realmente nonostante la lontananza temporale e lo sbalzo di mentalità. Lo storico, infatti, compie un’operazione inversa a quella dell’agiografo. L’agiografo si sforza di presentare un personaggio a tutto tondo, immobile, in quanto già ancorato all’eternità; lo storico – da parte sua – mira a comprendere una mentalità lontana e diversa dalla nostra. Ma questo, invece di togliergli fascino, a mio avviso, lo accresce, proprio come il restauro di un affresco ci restituisce un’opera ancora piú brillante al netto del nerofumo e delle incrostazioni dei secoli».
◆ Nel caso di Francesco, che cosa è finito nel «nerofumo» tolto dagli storici? «Per esempio, la famosa Preghiera per la pace, ritenuta opera del Poverello, ma scritta, probabilmente in Francia, alla fine dell’Ottocento… un testo bello ma spurio. Non si tratta di desacralizzare la figura del santo, ma semmai di fornire fondamento alla stessa devozione. Vorrei portare l’esempio di un dipinto ritrovato da poco a Bitonto, in Puglia. Sembrava un banale e mediocre ritratto del Settecento, ma poiché marzo
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Roma. Uno scorcio del quartiere del portico d’Ottavia. Sulla sinistra si riconoscono alcune arcate del teatro di Marcello, trasformato in fortezza nel Medioevo.
il cartiglio tenuto in mano dal santo era scritto in caratteri gotici che sembravano autentici, si è proceduto a un lavoro di ripulitura che ha rivelato uno dei piú antichi e bei ritratti dell’Assisiate risalente addirittura alla metà del Duecento».
◆ In chiusura non posso non chiederle, come già ho fatto col suo maestro e amico Jacques Le Goff, un confronto tra i nostri Paesi circa l’interesse che riserviamo all’età medievale... «L’Italia, per un medievista, resta un paradiso. In ogni comune, in ogni villaggio italiano si conservano vestigia dell’epoca medievale. Non credo si possa capire l’Italia senza conoscere il Medioevo. Nel vostro Paese infatti, l’età medievale ha una centralità che in Francia non ha, in quanto in Francia c’è stata la cesura della Rivoluzione, che, per contrastare l’Ancien régime, si è scagliata anche contro il Medioevo. Noi Francesi abbia-
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mo riscoperto il Medioevo solo con il Romanticismo, ma quella cesura non è mai venuta meno. Si è solo in parte ricomposta con l’arrivo sulla scena storiografica di grandi storici del Medioevo, quali Marc Bloch, George Duby, Jacques Le Goff, che nel Novecento hanno posto la Francia al centro degli studi sull’Età di Mezzo. Purtroppo, oggi in Europa, e non solo in Italia, mancano i mezzi per conservare questo grande patrimonio storico, culturale e artistico. Un fatto tanto piú paradossale ove si consideri che nel resto del mondo, in America – ma anche in Cina e Giappone –, negli ultimi trent’anni, è letteralmente esploso l’interesse per gli studi sul Medioevo, che sempre piú spesso diviene oggetto di indagine da parte degli studiosi. Sarebbe un vero peccato se l’Europa arretrasse nello studio e nell’interesse per un’epoca – che è stata centrale per la nostra civiltà – proprio mentre il resto del mondo la riscopre».
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I due volti di di Francesco Colotta
Ugolino
Chi fu veramente Gregorio IX, al secolo Ugolino di Anagni? La storiografia lo raffigura come un bellicoso assolutista, esaltandone, al contempo, il ruolo di paladino della rivoluzione monastica del Santo di Assisi. Resta il fatto che «l’amico di Francesco», negli anni del suo governo, non solo dichiarò guerra all’imperatore Federico II, ma istituí, anche, la prima forma di tribunale dell’Inquisizione...
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e due facce del cristianesimo medievale furono incarnate da uno dei papi piú discussi della storia: Gregorio IX, al secolo Ugolino di Anagni. Il pontefice professava una spiritualità di tipo mistico, ma era al contempo mosso da un’ambizione politica sfrenata, che lo portò ad assumere la veste di stratega nella guerra contro l’imperatore Federico II. Molto legato a Francesco d’Assisi, accolse le istanze riformatrici del monachesimo, ma si sentiva erede soprattutto del pensiero teocratico di Innocenzo III del quale cercò di riprodurre i principi con un’ostinazione senza precedenti. Tuttora gli studiosi si interrogano sulla vera identità di Gregorio: quale lato del suo carattere prese il sopravvento nell’azione di governo della Chiesa? Quello del caritatevole erudito oppure dell’intransigente assolutista, ritenuto, inoltre, anche il vero padre dell’Inquisizione? Molti biografi sostengono che Ugolino di Anagni, nato intorno
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al 1170, avesse un rapporto di parentela con Innocenzo III, ipotesi avvalorata dalla coincidenza del luogo d’origine. Nessuna fonte documentale, però, è in grado di confermare tale discendenza, se non un’affermazione di Nicola Roselli, domenicano spagnolo del Trecento, curatore di anonime biografie sui pontefici in seguito raccolte nel Rerum Italicarum scriptores (1723) di Ludovico Antonio Muratori.
Una carriera folgorante
Si tende a escludere che il rapporto di consanguineità derivi dal ramo paterno, identificato nella facoltosa famiglia dei Papareschi o Paparoni. L’eventuale parentela sarebbe, invece, da ascrivere agli avi materni. Potendo contare su genitori cosí munifici, il futuro Gregorio IX ebbe l’opportunità di studiare nelle migliori università europee, prima a Bologna, e poi a Parigi, dove si specializzò in teologia. Dopo aver prestato servizio come uditore presso il tribunale ro-
mano della Sacra Rota, Ugolino fu notato da Innocenzo III, che ne apprezzò l’erudizione e la spiccata personalità. Il papa lo nominò suo cappellano e, nel 1198, gli conferí il titolo di cardinale diacono di S. Eustachio. La carriera ecclesiastica procedette in modo folgorante con la successiva nomina a cardinale vescovo di Ostia e con i delicati incarichi diplomatici che gli vennero affidati in zone particolarmente calde al confine con lo Stato Pontificio. Il papa lo inviò come ambasciatore nella Marca di Ancona per trattare la pace con il margravio Marcovaldo di Annweiler, che stava minacciando i territori della Chiesa. Giunto a destinazione, Ugolino non si fece intimidire dal signore tedesco e lo convinse a interrompere le violenze: «Ecco il mandato del papa – si limitò ad affermare il religioso – Noi non possiamo mutarlo». In seguito Gregorio divenne uomo di fiducia anche del successore di Innocenzo, Onorio III, assumendo l’incarico di legato per la predicamarzo
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il sogno di gregorio Gregorio IX è ritratto in una delle piú celebri scene del ciclo di affreschi delle Storie di san Francesco, attribuiti a Giotto, che si trovano nella chiesa superiore della basilica di Assisi. Il santo, nella pittura, appare in sogno al pontefice mostrando le stimmate del suo costato, sulle quali Gregorio nutriva qualche dubbio. L’episodio è ripreso da una delle narrazioni contenute nella Legenda Maior, biografia di san Francesco scritta da Bonaventura di Bagnoregio nel 1263.
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grandi papi gregorio ix zione della crociata in Terra Santa. Nello stesso periodo le doti diplomatiche e la forte personalità del cardinale impressionarono anche l’imperatore Federico II, che poi sarebbe diventato il suo peggior nemico.
Una stima reciproca
In ogni caso, Ugolino strinse legami profondi con ambienti ben lontani dai fasti della curia e dai giochi di potere delle corti. Il cardinale apprezzava, infatti, l’operato di Francesco d’Assisi e lo aveva piú volte difeso dalla persistente diffidenza delle gerarchie ecclesiastiche. Presto quella stima crebbe fino
a rasentare la devozione: «Quanto a me – disse un giorno Ugolino a Francesco – fino da questo punto mi ti dono interamente». Il sentimento di stima era reciproco, tanto che, nel 1218, l’ecclesiastico divenne il protettore dell’Ordine dei Minori su richiesta dell’Assisiate e, invitato al primo capitolo francescano della Pentecoste, fu accolto dai monaci con i massimi onori. Nell’occasione, emerse il lato piú umile del carattere del cardinale Gregorio, che accettò di partecipare al rito della lavanda dei piedi, subendo le lamentele dei poveri per la sua scarsa pratica in quel cerimoniale. La sua lotta in difesa degli Ordini mendicanti si intensificò sempre di piú. Nel 1220, durante un incontro a Bologna con l’amico Francesco d’Assisi e con Domenico di Guzman, il prelato maturò la convinzione che anche i monaci votati alla povertà dovessero diventare vescovi. Si trattava di una proposta rivoluzionaria, che trovò poi accoglienza, aprendo la strada alla trasformazione della Chiesa feudale in un’istituzione evangelica. Nel 1223, inoltre, proprio Ugolino lavorò a una stesura giuridicamente Frammento di mosaico policromo con il volto di Gregorio IX, dalla facciata dell’antica basilica di S. Pietro, rinnovata intorno al 1230. Roma, Museo di Roma.
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piú compiuta della Regola dell’Ordine dei Minori, che Onorio III approvò definitivamente con la bolla Solet annuere. Tuttavia, nell’animo del protettore dei Francescani si faceva sempre piú spazio uno spirito teocratico, assolutista. Non deve, quindi, sorprendere il fatto che, una volta eletto papa, nel 1227, Ugolino facesse subito sua l’intransigenza di Innocenzo III nei rapporti con l’impero e nella lotta all’eresia. Una delle prime preoccupazioni del neoeletto Gregorio IX fu l’allestimento di una missione militare in Terra Santa, il cui comando spettava a Federico II, in base a precedenti accordi intrapresi tra il sovrano e Onorio III.
La spedizione fallita
Erano gli albori della Sesta Crociata, passata alla storia per gli eventi catastrofici che precedettero il suo fallimento. L’imperatore si attivò subito radunando l’esercito a Brindisi, dove stavano convergendo altre truppe provenienti dall’Inghilterra e dalla Francia. L’impresa fu subito ostacolata da un’epidemia di malaria, la cui diffusione era stata favorita dalle elevatissime temperature registrate nell’agosto del 1227. Federico, anch’egli contagiato, interruppe la spedizione in Oriente, sbarcando a Otranto, e molti altri partecipanti alla missione tornarono a casa. Alla notizia che il capo della crociata si era ritirato, Gregorio accantonò l’apparente mitezza e nella cattedrale di Anagni pronunciò la scomunica contro l’imperatore. Il papa aveva agito secondo quanto stabilito dalla dieta di San Germano del 1225, che prevedeva appunto la scomunica per il monarca in caso di rinuncia alla missione in Terra Santa. Gregorio era stato indotto a tale risoluzione anche dal timore per le mire espansionistiche di Federico, il cui impero nordico unificato al regno di Sicilia stringeva in una morsa i territori della Chiesa: solo i Comuni dell’Italia settentrionale potevano ormai immarzo
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Miniatura al centro della quale è ritratto papa Gregorio IX (al secolo Ugolino di Anagni), da un manoscritto del XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.
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grandi papi gregorio ix pedire l’accerchiamento dello Stato Pontificio. E il sovrano, da tempo, ambiva ad assoggettarli. Colto di sorpresa dal provvedimento, anche Federico II reagí con rabbia. Inviò lettere di fuoco non solo al pontefice, ma anche ai re della cristianità per giustificare la rinuncia alla crociata: era il primo grande atto di protesta del potere temporale contro la teocrazia di ispirazione innocenziana, paragonata in quelle missive a una forma demoniaca di governo. A Roma il papa si trovò alle prese con la crescita di consenso del partito filo-imperiale, che beneficiava di munifici finanziamenti dalla Germania ed era spalleggiato dagli eretici. Dopo la riconferma della scomunica, nel marzo 1228, la fazione federiciana organizzò una manifestazione di protesta contro il pontefice, fissandola per il lunedí successivo alla ricorrenza pasquale. Nel giorno convenuto, i partecipanti irruppero in S. Pietro, nel bel mezzo di una messa papale, e coprirono Gregorio di insulti, cercando, poi, di aggredirlo fisicamente. Turbato e spaventato, il papa decise allora di rifugiarsi a Viterbo. Per un periodo risiedette anche ad Assisi, dove, nel luglio dello stesso anno, portò a termine un rapido processo di canonizzazione di Francesco, morto appena due anni prima.
Una scelta inaspettata
Intanto Federico, a sorpresa, decise di partire per la Terra Santa, ma in modo altrettanto inaspettato il papa intimò all’imperatore di rinunciare a quel proposito. Ma cosa poteva aver determinato un simile rovesciamento di posizioni? Il monarca intendeva riabilitarsi agli occhi dell’Occidente cristiano con un’iniziativa spettacolare, ma il pontefice temeva che il sovrano potesse trarre enorme vantaggio
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dalla missione colonizzando tutto il Mediterraneo. La liberazione di Gerusalemme, per la Santa Sede, poteva pertanto essere rinviata. L’imperatore svevo aveva compiuto un atto di grande astuzia strategica perché rendeva, di rimbalzo, equivoco e impopolare l’atteggiamento del capo della Chiesa. Alla fine, Federico salpò davvero per la Terra Santa e riprese Gerusalemme senza spargimento di sangue, grazie a un accordo con il sultano al-Malik al-Kamil. Una vittoria di-
Rovescio di un augustale in oro con il profilo di Federico II. XII sec. L’imperatore svevo ebbe un rapporto controverso con Gregorio IX, nel corso del quale prevalsero, tuttavia, attriti molto forti, tali da sfociare in un vero e proprio conflitto.
plomatica che irritò ancor di piú il papa, il quale pronunciò l’immediato interdetto sulla capitale della Terra Santa, vietando ogni forma di pellegrinaggio ai fedeli cristiani.
Con le chiavi di Pietro
Lo scontro tra papato e impero ebbe ripercussioni anche sul versante italiano. Federico, dopo un’altra mossa ostile del pontefice, che aveva sciolto i sudditi del regno di Sicilia dal giuramento nei riguardi del sovrano, decise di colpire militarmente il nemico invadendo i territori dello Stato Pontificio, a cominciare dal Ducato di Spoleto. L’operazione provocò la durissima controffensiva delle truppe papali «chiavi segnate» (perché portavano sulla divisa le chiavi di S. Pietro come simbolo), che ottennero numerosi successi. Le sorti del conflitto, però, si rovesciarono con il ritorno in Italia dell’imperatore e delle sue truppe d’élite, che ebbero la meglio sull’esercito del pontefice. Resistendo alla tentazione di dare il colpo di grazia al papa, Federico inviò il gran maestro dell’Ordine Teutonico, Ermanno di Salza, a negoziare la pace. Anche Gregorio IX, dopo una lunga riflessione, si mostrò favorevole al
Guerra epistolare
A colpi di penna Questo è il testo dell’enciclica Ascendit de mari, pronunciata da Gregorio IX contro Federico II il 21 giugno 1239: «Un mostro s’è levato dal mare, la cui bocca non pronuncia che bestemmie. Esso è munito, per esprimere la sua rabbia, di zanne di orso e di gola di leone, mentre il resto del suo corpo somiglia a quello di una pantera. Non apre la bocca che per vomitare calunnie contro il nome di Dio, contro la casa del Signore, e contro i santi che sono nel cielo. Con i suoi artigli e i suoi denti vuol tutto stritolare, con i suoi piedi vuol tutto calpestare. Da vario tempo, in segreto, marzo
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Particolare del monumentale trittico con l’albero genealogico dei Babenberg nel quale compare il duca d’Austria Leopoldo VI il Glorioso che fa da paciere tra Gregorio IX e Federico II. Attribuito alla bottega del pittore Hans Part, 1489-1492. Klosterneuburg (Austria), Museo dell’Abbazia.
per distruggere i baluardi della fede cattolica, ha preparato i suoi carri d’assalto, e ora costruisce, alla vista di tutti, le macchine di assedio. Questo mostro ha aperto luoghi di perdizione per le anime, e bestemmia contro Cristo che ha liberato la razza umana, e ha l’audacia di voler cancellare le tavole della legge con lo stilo di un’infame eresia». E questa è la risposta di Federico II, in una lettera ai cardinali del luglio 1239: «La divina provvidenza ha messo due luci nel firmamento: l’una grande e l’altra piccola, e lungi dal nuocersi fra di loro, la piú grande illumina con la propria luce la piú piccola. E, cosí, nello stesso modo, la Divina Provvidenza ha creato sulla terra due potenze: la potenza sacerdotale e la potenza imperiale. Alla prima è stato dato il compito della
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sorveglianza, alla seconda quello della protezione. Ma il fariseo che siede sul trono della pestilenza, unto con l’olio della perversità, ha cercato di turbare quest’ordine divino e di oscurare lo splendore della maestà imperiale, poiché le sue lettere, piene di menzogna, calunniano la purezza della nostra fede. Quest’uomo non ha di papa che il nome; egli ci ha qualificato per un mostro di bestemmia e di calunnia che si leva dal mare; ma, in verità, questo si può dire di lui, riportando le parole dell’Apocalisse: “E uscí dal mare un altro cavallo rosso, e colui che stava su questo cavallo tolse la pace a tutta la terra” (Apoc. VI, III, n.d.r.). Dal giorno della sua elevazione, questo padre, non di misericordia, ma di discordia, ha gettato il turbamento nel mondo intero. Il gran mostro è lui stesso, lui stesso è l’Anticristo, di cui ha preteso che noi fossimo il precursore».
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grandi papi gregorio ix Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
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la nascita dell’inquisizione
Caccia all’eretico Si deve a Gregorio IX il varo ufficiale dell’Inquisizione, sulla scia delle dure leggi contro l’eresia già imposte da Lucio III e Federico I Barbarossa, in occasione del sinodo tenutosi a Verona del 1184. La repressione si fece sistematica e fu portata avanti sotto il diretto controllo della Chiesa di Roma con la stesura di due provvedimenti, pubblicati nel compendio Statuti della Santa Sede del 1231. Nei due documenti, uno firmato Città del Vaticano, palazzo pontificio, Stanza della Segnatura. La Consegna delle Decretali a papa Gregorio IX, dal ciclo affrescato di Raffaello. 1508-1511.
«cessate il fuoco» e tolse la scomunica all’imperatore. In cambio, ottenne varie contropartite, tra cui la sottomissione del sovrano all’autorità della Chiesa, la promessa dello stesso monarca di non invadere i territori dello Stato Pontificio e maggiori diritti per i legati operanti nel regno di Sicilia.
Ideologia protestante?
In apparenza l’accordo somigliava a una nuova Canossa per il potere temporale, ma non era cosí. Il sovrano aveva sottoscritto quelle gravose condizioni per non essere ancora una volta identificato come il principale nemico della Chiesa, un’accusa che poteva costargli l’isolamento politico in Occidente. Non si era, tuttavia, umiliato e continuava, sottotraccia, la sua personale guerra ideologica che, secondo alcuni storici, anticipava i temi della rivoluzione protestante: «I veri cristiani – affermò Federico all’indomani della pace – ricevono la salvezza dal loro Signore e Dio affinché il mondo comprenda che è Lui, e nessun altro, a salvare i suoi servi, quando e come vuole». Nel febbraio del 1230 Gregorio poté tornare a Roma, richiamato a furor di popolo dagli abitanti dopo che la città era stata colpita da un’inondazione. I Romani avevano
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da Gregorio, compare per la prima volta il termine «inquisitore», con espliciti attributi repressivi e non solo in riferimento alla semplice titolarità di un’inchiesta. Con la bolla Ille humani generis del 1233, il pontefice affidò all’Ordine domenicano il compito di procedere alla caccia all’eretico in tutte le grandi città del continente nelle quali, secondo le direttive ecclesiastiche, dovevano essere istituiti appositi tribunali per la celebrazione dei processi.
interpretato l’abbattersi di quella calamità naturale come il segno di una punizione divina per l’assenza del papa dalla sua sede. Rientrato nell’Urbe, il pontefice si impegnò subito nel restauro delle zone devastate dallo straripamento del Tevere e nel fornire sostegno economico ai tanti cittadini caduti in miseria. Oltre alle opere di bene, però, si dedicò alla repressione dell’eresia, che perseguí con mezzi radicali allestendo i primi roghi pubblici. E proprio a causa dei nuovi metodi inquisitori che aveva introdotto, i Romani si ribellarono a Gregorio e lo costrinsero di nuovo alla fuga. In realtà, la rivolta era stata sobillata anche dai maggiorenti della città, per motivi piú strettamente politico-costituzionali: Roma continuava a vivere della luce riflessa del papato e per questo desiderava un margine piú consistente di autonomia che in Italia molti Comuni potevano vantare da tempo. Assediato a Viterbo, il pontefice si salvò proprio grazie all’intervento di Federico II, ma dovette poi fronteggiare un’altra sommossa autonomista, guidata dal senatore Luca Savelli. Una nuova guerra tra tiara e corona stava per scoppiare. Federico, che non aveva accantonato le sue mire sull’Italia settentrionale, sconfisse le truppe della Lega Lombarda a Cortenuova, nel 1237. In segno di spregio nei riguardi degli sconfitti e di sfida per il papa, che era loro alleato, il sovrano fece portare il Carroccio (simbolo dell’unione dei
Comuni del Nord) sul Campidoglio. Ma ancor piú provocatorio fu il gesto compiuto in occasione del matrimonio tra il figlio naturale di Federico, Enzo, e Adelasia, erede dei giudicati di Torres e Gallura. Dopo le nozze, l’imperatore investí il figlio della sovranità sulla Sardegna, un territorio che lo Stato Pontificio rivendicava: un’«appropriazione» che il papa non poteva tollerare e che lo indusse, il 20 marzo 1239, a scomunicare nuovamente il monarca tedesco. Quest’ultimo, offeso per il nuovo provvedimento punitivo, definí Gregorio un profeta stolto e falso, un infedele, un profanatore del santuario, seme di Babilonia. Accuse alle quali il pontefice replicò con la celebre enciclica del giugno 1239, Ascendit de mari (vedi box a p. 40), nella quale associava la figura di Federico II a quella dell’Anticristo, ispirandosi al Libro della Rivelazione di San Giovanni.
Una profezia minacciosa
Al culmine dello scontro, Federico ruppe gli indugi e si diresse verso Roma, deciso a espugnarla. In città, intanto, il partito filo-imperiale, guidato dai nobili Frangipane, spadroneggiava e durante la processione della Vergine Assunta diede vita a una manifestazione di disturbo della ricorrenza, inneggiando all’imminente arrivo del sovrano tedesco. In quella vigilia di guerra, nel 1240, al papa fu recapitata una lettera di Federico II, che
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grandi papi gregorio ix Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
Sulle due pagine miniatura da un’edizione illustrata della Nuova Cronica di Giovanni Villani redatta tra il 1350 e il 1375. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana. Le due scene si riferiscono all’operazione compiuta nel 1241 da Federico II, con l’aiuto dei Pisani, per impedire ai prelati di partecipare al concilio indetto da Gregorio IX contro l’imperatore: nella prima (a sinistra) si vede la nave pisana a bordo della quale si trova re Enzo, figlio naturale del re svevo; nella seconda (nella pagina accanto), la flotta genovese è stata intercettata nei pressi dello scoglio della Meloria e vescovi e cardinali stanno per essere trucidati.
profetizzava il crollo dell’autorità della Chiesa sulla cristianità. A un esame piú attento si sospettò che il documento non fosse stato scritto dall’imperatore, ma piú verosimilmente dal filosofo e astrologo Michele Scoto (1175 circa-1236 circa) su incarico del monarca. Il pontefice non tardò a rispondere e concluse la sua breve missiva con un sinistro presagio: «La tua vita sarà breve, la pena eter-
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na». Gregorio, comunque, poteva ancora contare sul consenso di una parte della popolazione, e, infatti, molti Romani si dichiararono pronti a difenderlo.
Le reliquie in corteo
Per loro Federico non era un liberatore, ma un despota, che aveva l’intenzione di abolire gli statuti del Campidoglio, imponendo un governo ancora piú assolutista di quello
papale. Il 22 febbraio del 1241, proprio mentre gli imperiali si accampavano alle porte della città, il papa fece esporre, durante una processione, le reliquie degli Apostoli e davanti a quelle sacre spoglie esclamò: «O voi Santi, difendete Roma che i Romani vogliono tradire». Da quel momento quasi l’intera popolazione si schierò dalla parte del pontefice e Federico, alla fine, preferí rinunciare all’assedio. marzo
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Da leggere U Salvatore Sibilia,
Gregorio IX, Ceschina, Milano 1961 U Mario Bernabò Silorata, Federico II e Gregorio IX. Incontri e scontri tra sacerdozio e impero. Nerbini, Firenze 2007 U Wolfgang Schenkluhn, San Francesco in Assisi: Ecclesia specialis. La visione di papa Gregorio IX di un rinnovamento della Chiesa, Biblioteca Francescana, Assisi 1994 U AA VV, Gregorio IX e gli ordini mendicanti, Fondazione CISAM, Spoleto 2011 U Ernst H. Kantorowicz, Federico II imperatore, Garzanti, Milano 2000 U Franz Xaver Seppelt, Storia dei papi, Edizioni Mediterranee, Roma 1983 U Claudio Rendina, I papi. Storia e segreti, Newton Compton, Roma 1999
Tuttavia, la resa dei conti era solo rinviata e si consumò sulle acque del Mar Tirreno, nel 1241, a largo di Livorno. Nella battaglia della Meloria, Federico affondò la flotta genovese che stava trasportando vescovi e prelati a un concilio generale indetto dal papa. Quell’assise romana, secondo la convinzione del sovrano, era stata concepita solo per processarlo e non per mettere in discussione l’operato del pontefice.
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Stava per compiersi l’ultimo atto della guerra tra Gregorio e l’imperatore, mentre la minaccia mongola premeva alle porte dell’Occidente. Per nulla intimorito dalle numerose rivolte anti-imperiali scoppiate un po’ ovunque nella penisola, Federico II si mostrò deciso ancora a entrare a Roma con il suo esercito. Si accampò nel 1241 a Grottaferrata e nel momento in cui si accingeva a muovere, fu
informato della morte improvvisa del nemico. Ancora una volta si fermò alle porte della città, ma non rese l’onore delle armi all’avversario. Anzi, in una nuova lettera indirizzata ai re e ai principi europei, lanciò gli ultimi strali contro il pontefice defunto: «Gregorio IX papa se n’è andato da questo mondo mentre rifiutava di avere pace e di ricevere trattati di pace, aspirando solo all’universale dissenso». F
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protagonisti aristotele fioravanti /2
Missione a Mosca
di Furio Cappelli
I I
l grande Mattia Corvino, il re umanista dell’Ungheria, volle Aristotele Fioravanti al proprio servizio, e, nel 1465, scrisse a tal fine ai Rettori del Comune di Bologna, affinché concedessero il nulla osta alla trasferta del loro geniale ingegnere, del quale stiamo ripercorrendo la straordinaria vicenda biografica (per la prima parte, vedi «Medioevo» n. 205, febbraio 2014). Il re si era a lungo confrontato con la minaccia ottomana. Si interessava con molta intensità all’arte mili-
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tare, studiando i trattati dei migliori teorici del settore, e non vedeva l’ora di avvalersi della maestria di un architetto unico al mondo come Fioravanti, che definisce singularis. Con la sua preparazione e la sua esperienza, poteva risolvere molteplici problemi logistici e strutturali dell’apparato difensivo ungherese. Non a caso Corvino era in rapporti d’amicizia con il duca di Milano Francesco Sforza, alla cui corte Fioravanti era rimasto per lungo tempo. Nella capitale Buda marzo
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Dopo aver compiuto spettacolari opere d’ingegneria, «l’uomo che spostò le torri» è giunto all’apice della sua fama (vedi «Medioevo» n. 205, febbraio 2014). E nel 1475 il geniale e poliedrico Aristotele Fioravanti, conteso tra principi e sultani, accetta l’invito di Ivan III di Russia...
era presente in pianta stabile un ambasciatore del duca lombardo, il medico Ambrogio Grifo, e si erano intavolate delle trattative, poi fallite, per un matrimonio del re con la figlia dello Sforza, Ippolita. Il Comune di Bologna concesse la licenza solo in seconda battuta, nel 1466, per via degli impegni inderogabili che trattenevano Aristotele in patria. L’invito di Mattia Corvino fu in ogni caso tenuto in gran conto, e non solo per motivi di prestigio, tanto che si decise di
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Mosca, il Cremlino (da kreml, castello). Da sinistra, si riconoscono il Gran Palazzo, la cattedrale dell’Annunciazione, la cattedrale dell’Assunzione, ricostruita tra il 1475 e il 1479 da Aristotele Fioravanti, la cattedrale dell’Arcangelo
Gabriele e la Torre Campanaria di Ivan il Grande, a loro volta opera di maestranze italiane. L’architetto bolognese dette anche avvio nel 1485 al rifacimento della cinta muraria, sul modello del Castello ducale di Milano.
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protagonisti aristotele fioravanti /2 Italiani in Russia
Frjazy alla corte dello zar Non dovette essere facile per un italiano ambientarsi in Russia, non solo a causa della rigidità del clima, ma soprattutto per l’attitudine tendenzialmente chiusa e orgogliosa dei suoi abitanti. Tanto per cominciare, per loro gli stranieri erano «muti», non conoscendo una parola della lingua locale. I Russi, poi, non facevano grandi distinzioni tra i vari popoli del Mediterraneo. Per loro erano tutti frjazy, ossia «franciosi». Chiamavano in questo modo soprattutto i mercanti che facevano la spola con Bisanzio, dove era da secoli diffusa l’abitudine di chiamare «franchi» i popoli dell’Occidente. E quei mercanti che giungevano in Russia erano perlopiú italiani, in particolare Genovesi che avevano creato nel XIII secolo una solida colonia in Crimea, Kaffa, nel luogo del vecchio abitato di Teodosia, nell’attuale Ucraina. Dopo la venuta a Mosca di Aristotele Fioravanti, a parte qualche voce un po’ ostile alla presenza di stranieri in patria, i «franciosi» acquisirono una dignità di tutto rilievo, e il termine frjazin, che venne a definire lo stile delle loro opere, cominciò a denotare perizia tecnica e talento. Si ricorda molto spesso il contributo degli Italiani nella realizzazione di San Pietroburgo, la città «imperiale» voluta dallo zar Pietro il Grande (1696-1724), ma occorre evidenziare che già lo stesso Cremlino, secoli prima, rinacque come complesso monumentale proprio grazie all’impulso di architetti italiani, primo fra tutti Fioravanti.
Il clima gelido, ma anche una certa ostilità dei locali, rese la vita difficile agli stranieri. Ma solo all’inizio...
La cattedrale dell’Assunzione, che, nelle forme attuali, è frutto della ricostruzione integrale operata tra il 1475 e il 1479 sul progetto che Aristotele Fioravanti elaborò per il principe di Mosca Ivan III.
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A destra il portale meridionale, splendidamente affrescato, della cattedrale dell’Assunzione, che si apre sulla piazza delle Cattedrali.
mantenere lo stipendio mensile a Fioravanti durante la sua assenza. Si trattava, infatti, di un impegno che riguardava tutta l’Europa cristiana e non solo l’Ungheria, visto che occorreva rafforzare le difese contro la minaccia dei «perfidi» Turchi (un atto della cancelleria comunale si esprime in questi termini). A quanto sembra, il nostro Aristotele si distinse in modo particolare con le opere di genio, allestendo o progettando ponti di barche sul corso del basso Danubio.
Un genio poco adatto all’imprenditoria
Ma la grande svolta della sua vita, verso un punto ben piú lontano dell’Europa orientale, si ebbe nel decennio successivo, nel 1475. L’architetto-ingegnere si era ritrovato in cattive acque, visto che una fallimentare attività economica di famiglia, la gestione di un mulino, lo aveva fatto precipitare in un mare di debiti. Occorreva quindi mettersi alla ricerca di un ingaggio conveniente, e le occasioni non mancarono. Mentre
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protagonisti aristotele fioravanti /2 un caso ante litteram di «fuga dei cervelli» 1465 Il re d’Ungheria Mattia Corvino scrive il 23 novembre ai Rettori di Bologna per richiedere la presenza di Aristotele Fioravanti a corte. 1466 Probabile soggiorno dell’ingegnere bolognese in Ungheria, tra febbraio e novembre. 1467 Accertato soggiorno in Ungheria, tra gennaio e giugno. 1470-71 Fioravanti realizza un acquedotto che corre da San Giovanni in Persiceto a Cento, per la lunghezza di 42 km. 1471 Nel mese di giugno si reca a Roma per il progetto di traslazione dell’obelisco Vaticano promosso da papa Paolo II, ma il pontefice muore all’improvviso. 1471-72 Si trova a Napoli, dove gli viene affidato il recupero di una cassaforma precipitata nel fondale del porto. 1472 Tra agosto e settembre è impegnato nei lavori di verifica delle rocche bolognesi, e realizza probabilmente un progetto di restauro della facciata del Palazzo del Podestà. 1473 Mentre si trova a Roma al servizio di papa Sisto IV, viene raggiunto dall’accusa di aver spacciato moneta falsa a Bologna. Viene arrestato e processato, riuscendo a dimostrare la propria innocenza. 1475 Si indebita gravemente per la gestione di un mulino. Riceve a Venezia le proposte di lavoro di Maometto II e di Ivan III, e aderisce all’invito di quest’ultimo, che gli affida il rifacimento della cattedrale dell’Assunzione a Mosca. Il 26 novembre accoglie nella propria casa moscovita l’ambasciatore veneziano Ambrogio Contarini, di ritorno dalla sua missione in Persia. 1478 Realizza un ponte di barche sul fiume Volchòv durante la guerra contro Nòvgorod. 1479 Si inaugura la cattedrale dell’Assunzione. Il Comune di Bologna richiede invano a Ivan III il rientro in patria del Fioravanti per gli importanti lavori al Palazzo del Podestà, che saranno poi intrapresi in sua assenza nel 1483. 1482 Conduce le artiglierie di Ivan III a Niznij Nòvgorod, durante la campagna contro Kazan’. 1483 Subisce un periodo di prigionia durante l’inverno per aver manifestato la volontà di tornare in Italia. 1485 È capo dell’artiglieria durante l’assedio di Tver’. Svolge in questo periodo anche mansioni di zecchiere. Contribuisce al progetto di ricostruzione del Cremlino. 1486 Probabile anno di morte.
Incisione su legno dipinta che ritrae Ivan IV il Terribile (1530-1584), nipote di Ivan III, incoronato nel 1547 primo zar di Russia. 1672. Mosca, Museo Storico. Nel 1552 un pronipote di Aristotele Fioravanti trovò la morte combattendo al suo servizio.
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Miniatura raffigurante la costruzione della cinta muraria del Cremlino nel 1367. 1570 circa. Mosca, Museo Storico.
litare, doveva manifestare ai propri sudditi e al mondo intero la grandezza della nuova capitale, la «terza Roma» (dopo l’Urbe e Costantinopoli). Per dare lustro alla propria discendenza era innanzitutto necessario un congruo matrimonio, e la sua scelta ricadde su Zoe Paleologo. Appartenente alla dinastia degli ultimi sovrani di Bisanzio, era figlia di Tommaso Paleologo, despota di Morea (Peloponneso), regione nella quale si attestarono inutilmente le forze residue dell’impero sconfitto, cadute in modo definitivo nel 1460 sotto la dura pressione di Maometto II. Tommaso, ormai ridotto al ruolo imbelle di imperatore pretendente, riparò a Roma, mettendosi sotto la protezione del papa. L’Italia giocò quindi un ruolo di primo piano nelle trattative per il matrimonio della figlia, che un arguto gesuita paragona a un affare di maquignonnage (vendita di bestiame). Da un lato il principe russo, impalmando Zoe, ambiva a dichiararsi erede di Bisanzio, dall’altro papa Sisto IV e il cardinal Bessarione (amico di Fioravanti) si proponevano di sfruttare la congiuntura ai fini della caldeggiata unione con Roma della Chiesa ortodossa. L’ambasceria che con tali proponimenti accompagnò la sposa in Russia nel 1472 tornò a mani vuote. La stessa Zoe si sposò secondo il rito ortodosso, assumendo il nome di Sofia (in onore della divina Sapienza). Ma l’intreccio che si era stabilito con la Penisola doveva dare ben altri frutti.
L’uomo giusto per il gran principe
si trovava a Venezia fu raggiunto dall’offerta di Maometto II, il sultano che aveva conquistato Costantinopoli. Emulo di Alessandro Magno, di cui rileggeva di continuo le gesta, egli intendeva infatti circondarsi di letterati e di artisti di prim’ordine, abbinando l’immagine dell’esteta-mecenate a quella del conquistatore vittorioso, che voleva far rinascere l’impero romano nel segno dell’Islam. E un’altra offerta giunse dal principe di Mosca, Ivan III il Grande (1462-1505). Al pari di Maometto era un autocrate risoluto, che agiva però in nome di Cristo. Dopo aver tenuto a bada l’Orda d’oro dei Mongoli, era riuscito a creare un potente Stato russo incentrato su Mosca, debellando la potenza delle illustri città rivali, come Novgorod. Voleva consolidare la sua immagine ergendosi a erede del distrutto impero bizantino, e per farlo, oltre a rafforzare il suo potere mi-
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Il gran principe aveva un ambasciatore a Venezia, Simeon Tolbuzin, che ebbe modo di invitare Aristotele Fioravanti a Mosca. Dopo l’unione con l’erede di Bisanzio, era infatti venuto il momento di trasformare la fortezza del Cremlino nel centro monumentale del nuovo Stato (vedi box alle pp. 54-55). Aristotele era l’uomo giusto per imprimere una robusta spinta iniziale, risolvendo in primo luogo le carenze delle maestranze locali. Era infatti bastato un terremoto tutt’altro che devastante, nel 1474, per rendere pericolanti le strutture della cattedrale dell’Assunzione, in corso di rifacimento dal 1472. Fioravanti si trovò cosí a dover scegliere tra Maometto e il principe russo. La sua preferenza cadde su Ivan III, complice forse l’amicizia che l’architetto intratteneva con il cardinal Bessarione. Il dotto umanista greco, che sognava la riconquista della «sua» Costantinopoli, lo avrebbe certo sconsigliato di mettersi al servizio del massimo nemico della cristianità. Fu cosí che l’architetto bolognese giunse a Mosca, con il figlio Andrea e l’accolito Pietro al seguito, il 26 o il 29 marzo 1475. Una lettera che Fioravanti ebbe modo di scrivere il 22 febbraio 1476 a Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano (1466-1476), è piena di entusiasmo e di meraviglia. Fu inviata in Italia per il tramite del figlio Andrea, che portava con sé un dono speciale per il duca, due maestosi girifalchi catturati nelle foreste russe. Aristotele tiene a sottolineare che sta lavorando con grande lena in onore dello Sforza, come se l’opera che sta prestan-
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protagonisti aristotele fioravanti /2 do a Mosca possa riservargli un rientro trionfale in Italia, magari proprio al suo servizio (il che non fu comunque possibile, poiché il 26 dicembre Galeazzo fu assassinato). Ma un ampio spazio è riservato a una serie di belle notazioni sulla «gran terra» che lo ospita, a degna cornice dei rapaci inviati in omaggio. Mosca, innanzitutto, è una «zittà nobilissima et richisima et merchantescha». Giunto a una località del Nord ricchissima di selvaggina, si era messo a cacciare zibellini, ermellini, lepri, e osserva che le sue prede spesso si rifugiavano nell’acqua, e vi rimanevano «per paura» ben 15 o 20 giorni, vivendo al modo dei pesci. In estate il sole non tramontava mai, a mezzanotte era alto sull’orizzonte «chomo da noi» in pieno giorno. E qui il Fioravanti si interrompe abilmente, come se i prodigi da raccontare siano ancora tanti, e tali da suscitare qualche naturale perplessità. Proprio a questo punto inserisce a memoria una fedelissima citazione della Commedia dantesca, il passo in cui il poeta fiorentino sta per raccontare qualcosa di talmente straordinario che a dirlo cosí come è si rischia di apparire menzogneri (Inferno, XVI, vv. 124-26). Forse è la prima volta che la voce dell’Alighieri risuona sulla riva della Moscova.
Soluzioni sbalorditive
Nella fase di demolizione della cattedrale i maestri locali rimasero stupefatti nel vedere che, grazie agli accorgimenti di Fioravanti, fu possibile radere al suolo in pochi giorni quel che aveva richiesto mesi di lavoro. L’architetto bolognese mise in opera un ariete costituito da due pali posti in diagonale, congiunti alla sommità, a cui era sospeso un palo trasversale. Tirando il palo dalla parte opposta al bersaglio, questo si scaricava con violenza sulla parete da abbattere. Gli operai russi rimasero sbalorditi, poi, quando Aristotele abbatté i pilastri conficcando cunei di legno nei giunti di malta, tra un concio e l’altro. Dando fuoco ai cunei, la muratura cedeva con estrema facilità, grazie ai vuoti che si erano creati al suo interno. Quando poi si passò alla fase realizzativa, l’ingegno dell’architetto bolognese continuava a fare faville. Fioravanti pensò bene di utilizzare catene di ferro al posto degli elementi lignei solitamente utilizzati per rinforzare la malta. Introducendo il metallo nel conglomerato delle strutture, aveva sostanzialmente inventato il cemento armato. E grazie alla robustezza dell’impianto cosí ottenuta, si poterono realizzare volte sottilissime, dello spessore di un solo mattone, secondo una tecnica
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di muratura «a foglio» del tutto inedita in terra russa. Il nostro Aristotele fu vincolato al rispetto dei modelli architettonici tradizionali, a tal punto che, in prima battuta, ci rimarrebbe difficile credere che la cattedrale moscovita sia frutto di un architetto italiano, se non avessimo al riguardo informazioni documentarie estremamente dettagliate. Ma, nonostante l’inevitabile adeguamento ai canoni dello stile locale, il Fioravanti lasciò il suo tocco da maestro, anche al di fuori degli aspetti puramente tecnici. L’interno, in primo luogo, ha un’intonazione ben diversa da quella di una tipica chiesa bizantina. In un edificio ortodosso si ha solitamente l’impressione che vi siano blocchi di spazio distinti, congiunti gli uni con gli altri intorno a un elemento centrale di spicco, su cui campeggia la cupola maggiore. La cattedrale del Fioravanti, invece, mostra uno spazio unitario di ampio respiro. Le navate e le cinque cupole hanno uguale larghezza. Gli alti pilastri cilindrici, che i cronisti dipingono come «alberi di pietra», non creano alcun diaframma. Le volte del soffitto sono impostate allo stesso livello su tutta l’aula, secondo il principio delle chiese «a sala» che si ritrova nel duomo di Pienza del marzo
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Dal bianco ai colori In alto due immagini dell’interno della cattedrale dell’Assunzione. Le pareti, che Aristotele Fioravanti aveva in origine rivestito con un semplice intonaco bianco, furono poi interamente coperte dagli affreschi oggi visibili tra il 1481 e il XVII sec. A destra pianta della cattedrale dell’Assunzione. Impostata come spazio unitario e di ampio respiro, la chiesa fonde elementi tipici della tradizione russa con elementi rinascimentali di impronta italiana, quali navate e cupole della stessa larghezza, alti pilastri che non creano nessun diaframma, volte del soffitto allo stesso livello, secondo il modello delle chiese «a sala». N
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il cremlino
Costantinopoli come modello Ogni grande città russa aveva il suo cremlino (da kreml, castello). Quello di Mosca sorge nell’area del nucleo urbano originario, e, con l’adiacente Piazza Rossa (la «piazza bella», che funge da entrata solenne), dove campeggia la cattedrale di S. Basilio voluta da Ivan il Terribile, il Cremlino è inserito dal 1990 nel Patrimonio culturale dell’Umanità dell’UNESCO. La prima Mosca, difesa da un vallo e da palizzate, e con gli edifici in pareti di legno, risale all’XI secolo. Alla fine del XIII secolo, sul punto piú alto, nei pressi della sede principesca, sorgono le cattedrali in pietra dedicate all’Assunzione, all’Arcangelo Michele e all’Annunciazione. L’idea di base del complesso è mutuata dal Sacro Palazzo di Costantinopoli, con la residenza imperiale affiancata dalle cattedrali di S. Irene e di S. Sofia. Il Cremlino si adeguò in pieno all’illustre modello nel XV secolo, quando si presentò come una cittadella a sé stante, una sorta di Vaticano nel cuore di Mosca.
La cattedrale dell’Assunzione, a cui il Fioravanti legò il proprio nome, fu ricostruita una prima volta nel 1326. Tra il 1365 e il 1367, su interessamento del gran principe Dimitri (1359-1389), viene ricostruita in filari di pietra bianca la cinta muraria, in funzione della nuova immagine della capitale. E con Ivan III il Grande inizia un completo restyling del complesso. Inaugurata la nuova cattedrale dell’Assunzione (1479), a partire dal 1484 i maestri di Pskov (città ai confini con l’Estonia) ricostruiscono l’Annunciazione, cappella palatina del principe. Si realizza poi il palazzo «a faccette» (cosí chiamato per la parete su piazza a conci sfaccettati, o a bugnato, di schietto stile ferrarese), con la sua enorme sala di ricevimento. L’edificio fu costruito nel 1487-91 dal lombardo Marco e dal ticinese Pietro Antonio Solari da Carona (morto a Mosca nel 1493). Aloisio da Caresana (Vercelli) intraprende nel 1499 la nuova residenza del sovrano.
Pianta del Cremlino di Mosca disegnata nel 1663. Tra gli edifici e i monumenti accuratamente riportati, si riconoscono le cattedrali dell’Annunciazione (1), dell’Arcangelo Michele (2) e dell’Assunzione (3), nonché la torre campanaria di Ivan il Grande (4).
Inaugurata nel 1508, fu semidistrutta da un incendio nel 1532. Alvise Alberti da Montagnana (Padova) nel 1505-09 ricostruisce la cattedrale dell’Arcangelo, che fungeva da mausoleo dei principi, impreziosita all’esterno da lunettoni a conchiglia di chiara impronta veneziana. Negli stessi anni sorge la torre campanaria dedicata a Ivan il Grande (1505-1508), opera del maestro lombardo Bono. Nel 1485 si avvia il rifacimento del circuito murario. Le cortine trecentesche in pietra, parzialmente riutilizzate, furono sostituite da un’elegante e solenne cinta in laterizio, punteggiata da 19 torri per una lunghezza complessiva di 2 km. Faceva da modello il Castello Sforzesco di Milano. La trasposizione dell’opera sulle rive della Moscova fu intrapresa su progetto di Fioravanti, e dopo la sua morte vide impegnati i predetti Pietro Antonio Solari, Aloisio e Alvise, tra il 1490 e il 1508. L’assetto definitivo della fortificazione si ebbe nel XVII secolo.
Rossellino (1459-1462). Per giunta, ogni spazio e ogni elemento architettonico scaturiscono dall’applicazione di un preciso canone proporzionale, in linea con una modalità armonica già tipica dell’arte gotica padana. L’effetto complessivo, prettamente rinascimentale, benché rispettoso della tradizione, era esaltato dal biancore dell’intonaco steso su tutte le pareti, oggi completamente ricoperte da affreschi.
Un colpo di genio
L’aspetto esterno sembra refrattario a ogni innovazione, dominato com’è dall’emergere delle cupole e dalla successione dei tipici archi zakomary (frontoni ad archivolto, n.d.r.) alla sommità delle pareti, in corrispondenza delle volte interne. Ma Fioravanti ha un colpo di genio. Riduce i risalti plastici delle absidi e delle decorazioni architettoniche, e tratta ogni parete come una superficie a sé stante, con una sensibilità tutta italiana nella cura del rapporto tra l’edificio e l’ambiente in cui si inserisce. In particolare, ruota leggermente l’asse della chiesa, in modo che il fianco sud chiuda degnamente lo scenario della piazza prospiciente, come fosse la facciata di un pa-
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lazzo. La piazza delle Cattedrali, ancora ferma al suo assetto medievale, si trasformò cosí in un corridoio d’onore all’ingresso laterale dell’edificio, di fianco alla residenza del sovrano. Era il primo passo verso la definitiva configurazione del centro monumentale del Cremlino. L’opera dell’architetto bolognese riscosse un successo immediato e unanime. Il metropolita, forse disorientato, compí in senso inverso la processione all’interno della chiesa durante la consacrazione, facendo infuriare il gran principe (da un errore del genere poteva venir fuori una robusta dose di malaugurio). Ma, a parte questo «incidente di percorso», tutto procedette nel migliore dei modi, e si rimase incantati di fronte a quella chiesa solenne e spaziosa. Luogo di incoronazione dei sovrani, e anche luogo di sepoltura del primo santo moscovita, il metropolita Pjotr, la cattedrale dell’Assunzione diveniva a tutti gli effetti la Reims della grande Russia, e il S. Pietro della Chiesa ortodossa, secondo la definizione della studiosa moscovita Anna L. Choroskevic. E come prima realizzazione del nuovo Cremlino, divenne un simbolo dello Stato russo, unificato per grazia del gran principe di Mosca. Con l’avallo del patriarca di Costantinopoli, il sovrano assunse poi l’illustre qualifica di zar (ossia Caesar) con Ivan IV il Terribile (1547-1584), nipote di Ivan III. Per consolidare il suo impero, il sovrano non poteva fare solo affidamento sulla solennità dei nuovi edifici. Occorrevano fortificazioni, artiglierie e opere di genio militare. Del resto, come asseriscono i cronisti locali con
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In alto la cattedrale dell’Arcangelo Michele, la Cattedrale dell’Annunciazione e il Gran palazzo del Cremlino visti dalla Torre Campanaria di Ivan il Grande. A destra dipinto nel quale si immagina lo zar Ivan III che consegna un ordine ad Aristotele Fioravanti. Olio su tela di Pyotr Vasilyevich Basin. XIX sec. San Pietroburgo, Museo di Russia.
disarmante sincerità, gli architetti italiani erano molto apprezzati in Russia perché erano bravi sia a costruire chiese che a fondere cannoni. Fioravanti, che di quella folta presenza italiana fu l’apripista (vedi box a p. 48), era in tal senso l’artista ideale per le esigenze del principe, che non esitò a saggiarne la perizia nei teatri di guerra.
Il rimpatrio negato
In particolare, mentre era in corso la spedizione punitiva su Novgorod, Aristotele si distinse nel realizzare in pieno inverno un ponte di barche sul vorticoso fiume Volchov, talmente ben riuscito da essere mantenuto in funzione anche a conclusione della campagna militare. E la perizia tecnica di Fioravanti segnò il suo destino, perché il sovrano lo considerò talmente prezioso e insostituibile da trattenerlo a corte fino alla fine della sua vita. Il Comune di Bologna, forse informato sull’avvenuta conclusione della cattedrale moscovita, nel 1479 richiese Aristotele al gran principe per poter avviare marzo
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Da leggere U Aristotele Fioravanti a Mosca. 1475-1975. Atti del
Convegno, in Arte Lombarda, nuova serie, n. 44-45 (1976). U Paolo Galluzzi (a cura di), Prima di Leonardo. Cultura delle
i lavori di consolidamento del Palazzo del Podestà su Piazza Maggiore, lavori che lo stesso Fioravanti aveva pianificato, ma Ivan III ignorò la richiesta, se non oppose un netto rifiuto. Leggenda vuole che l’architetto tentò la fuga da Mosca, ma venne riacciuffato dai soldati. Di certo era nelle sue intenzioni tornare carico di gloria in Italia, per trascorrere l’ultima parte della sua vita accanto alla famiglia. Ivan III lo dissuase con la forza, nell’inverno del 1483, chiudendolo in prigione. Quando ne uscí, rassegnato, Aristotele continuò a servire il sovrano senza sosta, costretto magari a seguire le truppe come addetto alle artiglierie. Tra le incombenze svolte spicca senz’altro l’avvio della nuova fortificazione del Cremlino, la cui realizzazione fu avviata dopo la sua morte, con l’apporto di nuovi artefici italiani. Per un curioso paradosso, l’architetto che voleva tornare a servire gli Sforza, finí i suoi giorni nel cuore della Russia, avviando un’opera di architettura militare progettata sul modello del Castello ducale di Milano.
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macchine a Siena nel Rinascimento, Electa, Milano 1991 U Paolo Galluzzi, Gli ingegneri del Rinascimento da
Brunelleschi a Leonardo da Vinci, Giunti, Firenze 1996 U Adriano Ghisetti Giavarina, Fioravanti (Fieravanti)
Aristotele, in Dizionario biografico degli italiani, Fondazione Treccani, Roma 1997 (anche on line su treccani.it)
La gloria di Aristotele eclissò ogni momento difficile del suo soggiorno forzato, e nella storia della famiglia Fioravanti non mancò un seguito in terra russa. Il figlio Andrea, che era stato con il padre a Mosca negli anni 1475-76, vi fece ritorno in cerca di fortuna. Nel 1552 un probabile pronipote di Aristotele trovò la morte sul campo, mentre militava al servizio di Ivan il Terribile. Giovannino, figlio di Paolo Fioravanti, cadde durante l’assedio di Kazan’, mentre lo Stato russo spingeva i suoi confini al di là del Volga, verso gli Urali e la Siberia. F (2 – fine)
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iconografia san giuseppe
Un capofamiglia di Erberto Petoia
molto speciale
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Uno scontro teologico, combattuto a colpi di immagini. Ecco come potremmo raccontare la vicenda di Giuseppe (di cui, nel mese di marzo, ricorre la festività), il membro forse meno fortunato della Sacra Famiglia. Un destino agrodolce, quello del padre putativo di Gesú, «oscurato» dal secolare predominio del culto per la Vergine Maria
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er secoli, a partire dall’iconografia cristiana delle origini, Giuseppe è stato considerato una figura irrilevante, secondaria nell’economia della redenzione, prima di diventare lo sposo e il padre putativo nell’immagine della Sacra Famiglia. Egli è spesso assente nelle scene della Natività o, come nelle raffigurazioni bizantine, compare sullo sfondo, immerso in un sonno profondo, oppure lontano dalla culla del figlio, con aria imbronciata e dubbiosa, quasi sempre distante dalla scena centrale e con le spalle rivolte al miracolo della venuta del Figlio di Dio. Un’evoluzione secolare e complessa, che risponde a esigenze di tipo dogmatico e dottrinale, lo trasformò da santo idealizzato e di una certa imponenza – come, per esempio, nell’arco trionfale della basilica di S. Maria Maggiore a Roma – nei primissimi secoli del cristianesimo, a vecchio, umile, modesto, spesso confuso tra pastori, angeli, asini e buoi. Pur essendo determinante per lo sviluppo del disegno divino, i Vangeli canonici non parlano molto di lui; è completamente assente nelle scritture di Marco e Giovanni, e nei pochi casi in cui a lui si fa riferimento, Giuseppe rimane in ombra senza mai parlare. Luca lo cita genericamente come genitore nell’episodio dello smarrimento di Gesú e del ritrovamento nel tempio (Luca, 2, 41-52), e direttamente nell’episodio della nascita di Gesú (Luca, 2, 4-5); mentre troviamo qualche notizia in piú in Matteo, che ci fornisce la sua genealogia, come discendente della famiglia di Davide: «Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesú chiamato Cristo» (Matteo, 1, 16). Assente nella narrazione durante la visita dei Magi, Giuseppe ricompare al momento della fuga in Egitto e in occasione del suo ritorno nella terra di Israele, dopo la morte di Erode (Matteo, 2, 19-23).
Un padre disconosciuto
Dandogli il suo nome e assumendone la paternità, Giuseppe consente a Gesú di entrare a far parte della condizione umana, come essere sociale e membro riconosciuto di una comunità. Tuttavia, non vi è alcuna menzione del rapporto tra lui e Cristo nei Vangeli, tesi come sono a dimostrare il rapporto di Gesú con il Padre e il progressivo staccarsi dalla famiglia terrena per compiere la missione per cui è sceso sulla terra. E quando Maria e Giuseppe ritrovano Gesú nel tempio, dopo averlo smarrito, alle parole angosciate della madre, Gesú risponde: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Luca, 2, 49), disconoscendo in questo modo qualsiasi ruolo e legame con il padre putativo. Particolare del Trittico di Mérode, attribuito al pittore fiammingo Robert Campin. 1427. New York, Metropolitan Museum. Nel pannello di destra dell’opera (qui accanto) compare Giuseppe al lavoro nella sua bottega di falegname. Il pannello centrale è invece occupato dalla scena dell’Annunciazione.
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iconografia san giuseppe Il prodigio del bastone fiorito
Da leggenda a reliquia Nelle stampe popolari, l’iconografia di san Giuseppe è quella di un vecchio con in mano un bastone fiorito, gli attrezzi da carpentiere e la lanterna o candela con cui illuminò la notte di Natale, mentre nel presepe napoletano il santo è spesso raffigurato anziano e calvo, in piedi accanto al Bambino, con il bastone, a volte fiorito, e vestito di una tunica e di un mantello, con la barba fluente grigia o bianca. L’attributo del bastone fiorito prende spunto dalla narrazione medievale degli apocrifi, a loro volta di derivazione veterotestamentaria, con riferimento all’elezione al sacerdozio della tribú di Levi, prescelta in seguito alla fioritura della verga di Aronne, dopo che questa era stata riposta nel tabernacolo con le verghe di altre undici tribú. Negli apocrifi, invece, il segno della scelta che scaturisce dalla verga è una colomba, immagine dello Spirito Santo, e la leggenda deriverebbe dalla forzata interpretazione del Libro di Isaia (XI, 1): «Un germoglio spunterà dal tronco di Jesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore». Il bastone fiorito, dal quale si sviluppò il giglio come simbolo della sua «verginità», sembra essere cosí frutto di un sincretismo delle due profezie veterotestamentarie, veicolate attraverso le scritture apocrife, e divenne uno degli attributi della figura del santo. Il tema del bastone fiorito trovò ampia rielaborazione nei canti folklorici e nelle stampe popolari. In un canto raccolto a Palmi, durante la fuga in Egitto, Maria chiede a Giuseppe di raccogliere datteri per lei, ma lui risponde che non può perché stanco e vecchio. Nel momento in cui la pianta si china per permettere a Maria di servirsene da sola, il bastone di Giuseppe fiorisce. In altri racconti, invece, l’evento della fioritura si ripete quando il santo, che interviene sulla terra per portare giustizia nelle vicende umane, vuole rivelarsi ai suoi devoti. Esso è all’origine di un prodigio nella fiaba siciliana raccolta da Pitrè, intitolata Lu S. Giusippuzzu, prodigio che cambia la condizione sociale della protagonista, mentre in una fiaba calabrese, La Nia (La tacchina), il bastone fiorito indica l’opera buona compiuta dal santo. Da un livello mitologico e leggendario ben presto il bastone di Giuseppe è diventato reale, e come tale è venerato e conservato in alcune chiese. Per limitarci a pochi casi, bastoni appartenuti a san Giuseppe si ritrovano a Firenze, in S. Maria degli Angeli, a Roma, nelle chiese di S. Cecilia e S. Anastasia, in S. Giuseppe dei Nudi a Napoli, a Beauvais e in altre parti di Europa. A Napoli il bastone di san Giuseppe era un tempo oggetto di notevole devozione e si dice che vi fosse stato portato dall’Inghilterra dal cavalier Grimaldi. Questi, per accogliere la reliquia, aveva trasformato una stanza della sua abitazione in una sorta di cappella e, in occasione della festa del santo, era consentito l’accesso a tutti i devoti. Questi non si contentavano di baciare la reliquia, ma cercavano di staccare pezzetti di legno dal bastone per conservarli, e da tale usanza avrebbe avuto origine il detto, tuttora in uso: «Nun sfruculià ’a mazzarella ’e S. Giuseppe» (letteralmente, «Non sfregare il bastone di san Giuseppe»), che per la nota simbologia fallica a cui richiama il motivo del bastone equivale al piú prosaico invito a non arrecare fastidio.
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Dopo questi episodi, nei Vangeli canonici, di Giuseppe non si parlò piú. Le lacune riguardanti la sua figura non hanno colpito solo la fantasia degli esegeti e, come già avvenuto per Maria, sono state colmate dalle narrazioni degli apocrifi, che vengono cosí a integrare e compensare le scarne e stringate descrizioni degli evangelisti. In tali narrazioni vengono ripresi e rielaborati motivi diffusi a livello popolare e motivi fantasiosi, rielaborati sulla base di episodi vetero- e neotestamentari, che finirono per stabilire – talvolta con il consenso della Chiesa – alcuni modelli e caratteristiche fisiche e iconografiche, quali la vecchiaia, il bastone fiorito di Giuseppe (vedi box alla pagina precedente) e altri elementi, divenuti attributi imprescindibili della figura del santo. Come la sua professione di falegname, attestata apertamente dagli apocrifi, che spiegano meglio il termine molto generico tekton dei testi canonici, tradotto alla Vulgata con faber, che può rimandare a molteplici attività materiali. Nella pagina accanto Spoleto, chiesa di S. Maria della Concezione. Affresco di Giovanni Serodine che ritrae san Giuseppe con il bastone fiorito. 1623-24 circa.
In basso Gargilesse Dampierre (Francia centrale), chiesa di Notre-Dame. Affresco con la palma che si piega per permettere alla Vergine di raccogliere i datteri. XIII sec.
A partire dal V secolo l’immagine di Giuseppe giovanissimo e nel pieno delle sue forze, cosí come era stata raffigurata fino a questo momento, cede il passo alla tradizione del santo avanti negli anni, con una folta barba e stanco. Tali variazioni iconografiche non sono dettate da un gusto estetico, né influenzate da fonti scritturali canoniche; come già detto, esse scaturiscono da motivazioni di ordine dogmatico e teologico che hanno come oggetto la verginità di Maria, un dogma che nei primi secoli del cristianesimo diede adito a speculazioni, fratture, eresie e a tentativi mitici di risolvere il complesso problema teologico lasciato insoluto dalla narrazione di Luca.
Per l’illibatezza di Maria
La vecchiaia di Giuseppe, e di conseguenza la sua relativa impotenza, garanzia per la salvaguardia della verginità di Maria, si inserisce cosí in questo dibattito, con lo scopo di fugare ogni dubbio circa una sua partecipazione attiva alla gravidanza di Maria e di offrire spiegazioni convincenti e soluzioni anche ad altri problemi posti da alcuni passi evangelici. Uno dei primi apocrifi a parlare di Giuseppe e a fare riferimento alla sua età è il Protovangelo di Giacomo, databile alla metà del II secolo, in cui egli viene con-
miti e leggende
Il dattero che divenne ciliegio Una delle leggende piú diffuse, che trovò ampia trattazione nella pittura e nei canti popolari, è quella della palma da dattero che si piega cosí da consentire a Maria di raccogliere i suoi frutti, dopo che Giuseppe, al quale la donna aveva chiesto di farlo per lei, non avendo accettato l’idea della sua gravidanza ed essendo ancora dubbioso al riguardo, le aveva risposto in maniera sgarbata, invitandola a rivolgersi al vero padre di suo figlio. Con ogni probabilità, il tema colpí l’immaginazione popolare e passò in Europa dove, per esempio, in un’antica ballata britannica medievale, la pianta miracolosa è sostituita da un ciliegio. Il nucleo originale di questa ballata, che si ritrova anche nei diversi canti natalizi, come per esempio il Cherry-Tree Carol, è il Vangelo dello PseudoMatteo (XX, 1-2). In tempi piú recenti, in Italia, il cantautore Angelo Branduardi, rifacendosi alla ballata medievale, ha ripreso il tema nella sua canzone Il ciliegio (1977).
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iconografia san giuseppe In basso Thunn (Alsazia, Francia), collegiata di S. Ubaldo. Lo sposalizio della Vergine, particolare dei rilievi del portale principale. XIV-XV sec. Nel Protovangelo di Giacomo, Giuseppe viene descritto come un anziano vedovo con figli, che non vuole sposare Maria temendo la derisione della comunità.
Nella pagina accanto Adorazione dei Magi. Olio su tavola di Pieter Bruegel il Vecchio. 1564. Londra, National Gallery. Nella scena si vede un uomo che sussurra malignamente all’orecchio di Giuseppe, raffigurato come un anziano e goffo contadino, per insinuare in lui ulteriori dubbi sulla purezza della Vergine.
vocato insieme ad altri uomini, rigorosamente vedovi, per la scelta dello sposo di Maria, ormai adolescente, che i sacerdoti vogliono escludere dal tempio in base alla norma sulla impurità legale della mestruante. Quando la scelta cade su di lui, in seguito all’episodio della verga da cui scaturisce una colomba, Giuseppe non accetta di essere stato prescelto dal Signore per ricevere in custodia la sua vergine e lamenta: «Ho figli e sono vecchio, mentre ella è una giovinetta: ch’io non divenga lo zimbello dei figli di Israele!». Nel Protovangelo si fa esplicitamente riferimento
Questioni dottrinali
Un matrimonio discusso Se a livello folklorico il matrimonio di Giuseppe, a seconda dei casi, veniva sanzionato o deriso, e a livello artistico si cercava di veicolare tradizioni o simbologie inerenti al rito, lo status del santo poneva non pochi problemi ai legislatori medievali per quanto riguarda le diverse condizioni di validità del matrimonio. Infatti, quando Graziano nel suo Decretum (1141 circa) cercò di risolvere i dubbi dei vecchi legislatori e di stabilire se fosse necessario il consenso o una relazione sessuale, o entrambi, affinché il matrimonio fosse valido, le opinioni restarono contrastanti. La questione era particolarmente delicata, né i giuristi osavano affermare che il matrimonio di
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Giuseppe e Maria, genitori di Gesú, fosse imperfetto perché mai consumato. Graziano tentò di risolvere il problema distinguendo due fasi: il matrimonium initiatum, quando gli sposi esprimevano il consenso, e il matrimonio ratum, dopo l’unione sessuale. Questi due tipi di nozze, secondo Graziano, non solo erano ritenuti entrambi giuridicamente validi, ma risolvevano alla radice anche il problema della verginità di Maria, perché Giuseppe e Maria, secondo quanto affermato dai Vangeli canonici, erano entrati nella prima fase, ma non erano mai entrati nella seconda. In realtà le formulazioni di Graziano suscitavano molti dubbi tra
i legislatori circa la perfezione del matrimonio, e la disputa fu risolta da Pietro Lombardo, autore delle Liber Sententiarum, la cui teoria divenne dottrina ufficiale della Chiesa e fondamento della legge e della teologia del matrimonio. Affinché il matrimonio fosse valido e avesse tutti i requisiti necessari bastava soltanto il consenso per verba de presenti («con parole in tempo presente»). E poiché Giuseppe e Maria avevano espresso il loro consenso in tal modo, si ritrovavano in un matrimonio pienamente realizzato, anche in assenza di rapporto sessuale, secondo la teoria del «consensus non concubitus» (il consenso e non la convivenza [fa il matrimonio]).
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In alto San Giuseppe asciuga le fasce di Cristo sotto una tettoia, particolare del Trittico dell’Epifania (detto anche dell’Adorazione dei Magi) di Hieronymus Bosch. 1495 circa. Madrid, Museo del Prado. A sinistra Natività, dipinto attribuito a Jean Malouel o alla cerchia di Melchior Broederlam. Fine del XIV-inizi del XV sec. Anversa, Museum Mayer Van Den Bergh. Giuseppe è colto mentre taglia i suoi pantaloni (o calze) per ricavarne delle fasce con cui avvolgere il Bambino.
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Vangelo dello Pseudo-Matteo, del VI secolo, e nel Libro sulla Natività di Maria, databile intorno al IX secolo. Il ritratto di Giuseppe che emerge dalle scarne notizie dei Vangeli è quello di un uomo giusto, obbediente al volere del Signore, ma sovente incapace di comprendere appieno il mistero divino e perciò dubbioso della gravidanza di Maria. Tale perplessità, appena accennata nel testo canonico e fugata dalle rassicurazioni dell’angelo del Signore, diventa molto piú esplicita nel Vangelo dello Pseudo-Matteo, in cui Giuseppe, nella sua umanità, dà sfogo alla sua rabbia e al suo dolore, convinto di essere vittima di un raggiro, preoccupato del giudizio censorio che la comunità può esprimere e dell’ira dei sacerdoti, e a nulla valgono le rassicurazioni delle vergini, lasciate in compagnia di Maria durante la sua assenza, che lui considera complici del tradimento alle sue spalle.
Eppure... qualche dubbio rimane
allo stato di vedovanza dei convocati e dei figli di Giuseppe, nel tentativo di giustificare storicamente l’espressione «fratelli di Gesú» che ricorre piú volte nel Nuovo Testamento, salvaguardando in questo modo il dogma della triplice verginità – ante partum, in partu e post partum – di Maria. Con lo stesso scopo, lo stato di vedovanza di Giuseppe fu garantito, tra gli altri, dall’autorità del padre della Chiesa Epifanio di Salamina (315 circa-403), il quale attribuisce a Giuseppe la veneranda età di 84 anni, al suo ritorno dall’Egitto, e parla anche di una sua prima moglie appartenente alla tribú di Giuda, da cui ebbe sei figli, quattro maschi e due femmine. Ma fu la Storia di Giuseppe il falegname, un apocrifo greco del IV o V secolo, a presentarci Giuseppe ancora piú anziano di quanto non avesse fatto Epifanio, fissando un’età che non lasciava ombra alcuna di dubbio sulla sua castità, avendo egli sposato Maria alla veneranda età di 90 anni, dopo essere stato sposato per 49 anni con la sua prima moglie, e morendo all’età di 111 anni. Lo status di Giuseppe e la sua età furono oggetto di discussione nell’ambito dell’esegesi patristica per lunghi secoli, e come tale comparve ancora negli apocrifi del
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Il dubbio circa un possibile tradimento di Maria, piú volte accennato, ora velatamente ora apertamente, negli apocrifi, ebbe ulteriori sviluppi durante il Medioevo e divenne motivo di canzonatura e di derisione della figura di Giuseppe, trovando espressione nelle diverse forme artistiche e letterarie dell’epoca, come nei dipinti e nelle sacre rappresentazioni drammatiche, nelle leggende e, in tempi a noi piú vicini, nei canti popolari. I motivi principali di scherno sono la paternità putativa di Giuseppe, la verginità di Maria, il concepimento divino, che contrastano fortemente con il modello maschile della virilità agli occhi dell’uomo medievale. Temi mirabilmente espressi, per esempio, nel Trittico di Mérode databile al 1427 e attribuito a Robert Campin (vedi l’immagine in apertura dell’articolo) o, successivamente, nell’Adorazione dei Magi di Pieter Bruegel il Vecchio, datata 1564 (vedi a p. 63), in cui qualcuno gli sussurra malignamente qualcosa all’orecchio, con l’intento di insinuare in lui ulteriori dubbi sulla purezza di Maria e alimentare cosí la sua confusione. L’ambiguità della figura di Giuseppe, che oscilla fin verso la fine del Medioevo tra raffigurazione iconografica talora ai limiti dell’irriverenza e prime manifestazioni di una devozione nei suoi confronti, è determinata anche dalla difficoltà di separare il suo culto da quello di Maria, di cui era stato considerato per secoli una sua conseguenza e a esso subalterno, e dove all’esaltazione della Vergine Madre seguiva un processo caricaturale della sua figura, tratteggiato nelle arti figurative secondo la tipologia che si avvicina a quella del contadino goffo e deriso. Un processo che aveva avuto inizio tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo, con la raffigurazione di Giuseppe come un vecchio decrepito, spesso come una figura sciocca, che con i suoi abiti e con i suoi atteggiamenti risultava essere di gran lunga inferiore a Maria per posizione sociale, relegato in un cantuccio, con la
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iconografia san giuseppe A sinistra Martin Schongauer, Natività, pannello dall’altare della Cappella dei Domenicani di Colmar (Alsazia, Francia). 1470-75 circa. Colmar, Musée d’Unterlinden. Nella pagina accanto Nascita di Cristo. Tempera su legno, 1350 circa. Praga, Narodni Galerie. In entrambe le opere Giuseppe appare impegnato in mansioni domestiche tipiche delle donne, come portare una lampada per illuminare la stalla o aiutare la levatrice a preparare il bagno per Gesú.
testa appoggiata su una mano nell’atto di dormire, collocato presso il fuoco a riscaldarsi, quasi insensibile a ciò che accade, o, piú banalmente, intento in mansioni di competenza delle donne. Ma è soprattutto nelle rappresentazioni dei misteri medievali che la figura di Giuseppe viene sfruttata per la trattazione di uno dei temi preferiti del teatro popolare, ovvero quello del vecchio che sposa una donna incinta, travestita da vergine e da questa tradito. La trama di queste rappresentazioni trae spunto dai racconti apocrifi, dal tema perenne del tradimento delle rappresentazioni buffonesche popolari, dai Fabliaux francesi, dai Fastnachtspiele tedeschi, in cui il protagonista principale oggetto di scherno e di lazzi è il senex amans, il marito cornuto, ingannato dalla moglie sessualmente e con le parole. Nel mistero inglese del Ludus Coventriae, oggi meglio noto come Ciclo di N-Town, le allusioni alla mancanza di
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vigore sessuale di Giuseppe, prima che il matrimonio abbia luogo, sono frequenti e quando scopre la gravidanza di Maria egli respinge le sue spiegazioni, l’accusa di mentire spudoratamente e le rinfaccia che tutti rideranno ora della sua impotenza. Il timore di essere deriso dai giovani e di dover subire la loro rabbia viene apertamente identificato con il rituale di charivari (vedi «Medioevo» n. 169, febbraio 2011; anche on line su medioevo.it) della beffarda cavalcata sull’asino in un mistero francese, dal titolo Nativité de N.S. Jésus Christ, in cui Giuseppe mostra tutte le sue perplessità e timori.
Solo un marito tuttofare?
Sempre in bilico tra l’immagine del padre protettore e che provvede ai bisogni della Sacra Famiglia e quella ridicola del marito che svolge mansioni domestiche, Giuseppe viene raffigurato di volta in volta nell’atto di prendere marzo
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una lanterna per illuminare la stalla (ma la sua preoccupazione è resa vana dal fulgore della nascita di Gesú); intento a tenere acceso un fuoco con l’aiuto di un mantice per riscaldarsi o per cuocere qualcosa da mangiare; mentre taglia i suoi pantaloni per farne fasce per il Bambino, probabilmente connesso con il motivo di Giuseppe che si riscalda un piede nudo accanto al fuoco; mentre aiuta le ostetriche a fare il bagno a Gesú Bambino, versando l’acqua o avvolgendo il neonato per asciugarlo; oppure, motivo questo molto piú raro, mentre allontana il bue e l’asino che cercano di mangiare il lenzuolo del Bambino. Tra le varie rappresentazioni caricaturali, non poteva poi mancare quella del vecchio ubriacone indolente. Uno dei temi piú diffusi, e che aveva suscitato l’indignazione dei teologi, è quello di Giuseppe che cucina la pappa per il Bambino, maggiormente sfruttato dalle arti visive, con una concentrazione geografica nell’Eu-
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ropa centrale a partire dal periodo compreso tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo, proprio negli stessi anni della nascita del dramma sacro in vernacolo. Il tema è raffigurato su pannelli d’altare, in sculture policrome, in manoscritti miniati, arazzi e incisioni. Insieme agli altri finora elencati, il motivo rappresenta una sorta di tendenza controcorrente alla campagna concertata dai teologi del tardo Medioevo, come Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274) e Jean de Gerson (1363-1429), per stabilire il culto di san Giuseppe e esaltare la figura del nutritor domini.
Lotta per la riabilitazione
Contro queste immagini scaglia tutta la sua indignazione Bernardino da Siena (1380-1444). E, in Germania, il teologo tedesco Johannes Eck (1486-1543), uno dei piú grandi avversari di Lutero, dovette intervenire perché,
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iconografia san giuseppe almeno lí, dove maggiore e piú radicata era la tradizione, si rappresentasse Giuseppe in maniera piú dignitosa e si smettesse di fargli cucinare pappe per Gesú, o fargli asciugare fasce accanto al fuoco. Strettamente connessi al tema di Giuseppe che prepara da mangiare per il Bambino, sono i Kindelwiegenspiele di Hesse, Sterzing e Erlau, in cui un neonato (o una sua effigie) viene ritualmente fasciato e messo nella culla, e poi, su richiesta di Maria, cullato da Giuseppe, che brontola e si lamenta per i suoi acciacchi. All’incirca nello stesso periodo, si diffonde il tema delle fasce per Gesú che Giuseppe ricavò dai suoi calzoni (o dalle calze), anch’esso destinato a trovare fortuna nelle rappresentazioni pittoriche e che perdurò anche dopo essere stato abbandonato dagli artisti. Il tema appartiene al piú ampio corpo di leggende delle fasce ricavate dagli indumenti piú disparati in cui Gesú venne avvolto, diffuso durante il Medioevo grazie al contributo delle mistiche e delle loro visioni.
I pantaloni e le fasce
La storia di Giuseppe e dei suoi pantaloni è stata riprodotta in opere di artisti olandesi, tedeschi e fiamminghi: una delle prime sembra essere un pannello della Natività di artista sconosciuto, attribuito a Jean Malouel o al circolo di Broederlam e databile tra la fine del 1300 e i primi del 1400. Nel dipinto (vedi a p. 64), sulla parte destra, c’è una levatrice che bada al Bambino Gesú nudo, adagiato nella mangiatoia, mentre Maria, distesa su un giaciglio, osserva Giuseppe, a piedi nudi, che sta tagliando i suoi pantaloni di foggia medievale per ricavarne le fasce. Agli occhi dell’uomo medievale ogni minimo dettaglio della vita di Cristo era di grande interesse, soprattutto se poteva essere utile a reperire o fornire reliquie, le piú efficaci delle quali erano senz’altro quelle che erano state a stretto contatto con la sua persona. E cosí, durante il Medioevo, piú d’una chiesa sosteneva di essere in possesso delle vestimenta infancie ipsius, del-
le fasce di Gesú, come la Sainte-Chapelle di Parigi e la basilica romana di S. Maria Maggiore, che custodivano panni che si credevano ricavati dal mantello di Giuseppe. Quelli che il santo avrebbe tratto dai pantaloni, invece, furono custoditi come reliquie nella Cattedrale di Aquisgrana, dove ancora oggi vengono ritualmente mostrate ai fedeli ogni sette anni.
Una nuova devozione
Nei primi secoli della Chiesa, la necessità di far prevalere il culto di Cristo, le dispute sulla verginità di Maria e i problemi da queste derivanti e, non ultimo, l’esigenza di evitare di alimentare ogni dubbio circa la paternità carnale di Giuseppe, hanno impedito e frenato per lungo tempo un suo culto. L’interesse dei teologi per Giuseppe si manifestò solo quando essi affrontarono la storia della Vergine e il problema del matrimonio: un’attenzione che si crea di riflesso, solo all’ombra di Maria, e la presenza del falegname è giustificata soltanto dalla necessità di darle un aiuto e uno sposo legittimo. Nel Medioevo, accanto alla devozione mariana, affiora lentamente, e debolmente, anche una devozioQui accanto gruppo in legno dorato che rappresenta la Sacra Famiglia in un momento familiare, con Gesú che gioca con la barba di san Giuseppe. XVI sec. Parigi, Museo di Cluny, Musée National du Moyen-Age.
ricorrenze
Patrono della Chiesa e del lavoro Il culto di Giuseppe, fortemente valorizzato nella devozione sviluppatasi all’indomani del Concilio di Trento, che ne fece, soprattutto nelle regioni meridionali, uno dei santi patroni piú diffusi, come è testimoniato anche dalla sua fortuna onomastica, fu introdotto ufficialmente nella liturgia nel XV secolo da papa Sisto V e a lui venne consacrata la data del 19 marzo. Nel 1870 Pio IX nominò Giuseppe patrono della Chiesa. La nomina a patrono del lavoro, voluta da Pio XII nel 1955, perché la festa del lavoro del 1° maggio potesse essere celebrata a pieno titolo anche dai lavoratori cattolici, non hai mai avuto un seguito particolare. Al secolo scorso risale invece la festa del papà, giornata che in altre parti del mondo si celebra in altre date e che in Italia si celebra il 19 marzo.
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A destra la Sacra Famiglia in un momento di riposo durante la fuga in Egitto. Incisione su legno dipinta, 1410 circa. Vienna, Graphische Sammlung Albertina. Giuseppe è raffigurato alle spalle di Maria, intento a cucinare qualcosa da mangiare, forse la pappa per il Bambino. Il motivo iconografico, che contrastava la campagna avviata per esaltare la figura del santo come nutritor domini, fu pesantemente attaccato da Bernardino da Siena e dal teologo Johannes Eck.
ne per Giuseppe, che vede tra i suoi promotori i monaci benedettini Rupert di Deutz (1070-1135) e Bernardo di Chiaravalle (1090-1153). Successivamente, a prodigarsi per l’istituzione della festa di san Giuseppe, per il quale avevano una venerazione speciale, furono Pierre d’Ailly (1350-1420) e, soprattutto, il già citato Jean de Gerson, che condannò energicamente tutte le caricature artistiche del santo. Grazie alla loro opera e all’incoraggiamento dei Francescani e dei Gesuiti, il suo culto poté finalmente decollare, e l’immagine di Giuseppe, vecchio, incerto e dubbioso, che prepara pappe e lava e asciuga le fasce del bambino, fu gradualmente sostituita con quella di un padre di famiglia dotato di autorità, al quale Maria e Gesú prestano ascolto e obbedienza, ridefinendo cosí i ruoli all’interno della Sacra Famiglia, che per la Chiesa diviene modello di tutte le famiglie secolari. F
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saper vedere basilica di s. ambrogio
La memoria di Milano di Furio Cappelli
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a basilica di S. Ambrogio è un elemento fondamentale della città di Milano, un punto cardine della sua identità storica, religiosa e civile. Rispetto al celebre Duomo, le manca senz’altro il requisito della grandezza spropositata, dell’esuberanza decorativa e della centralità, ma il suo orgoglioso distacco, la purezza delle sue linee, la solennità della sua atmosfera, avvincono il visitatore. L’atrio crea un momento prezioso di mediazione tra il caos della quotidianità e la quiete avvolgente della basilica. Varcato l’ingresso, si avverte il senso di un luogo che rapisce e intriga, serbando ben vivo il ricordo del vescovo fondatore e titolare che lí è sepolto, sotto l’altar maggiore: il senatore e governatore imperiale Aurelio Ambrogio (vedi box alle pp. 76-77), promosso agli onori episcopali a furor di popolo, quando ancora era un semplice catecumeno (ricevette il battesimo al momento di salire in cattedra). La chiesa ne evoca la presenza autorevole, in modo diretto e inconfondibile, come se egli continuasse a predicare ai fedeli dallo stesso altare. E Ambrogio volle questa chiesa, con quei caratteri fondamentali che mostra ancor oggi, proprio per eternare la memoria di sé. All’epoca del santo, quell’area, fuori Porta Vercellina, ospitava un’antica necropoli punteggiata dai sepolcri di illustri seguaci di Cristo. Luogo prediletto di raccoglimento per il vescovo milanese,
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divenne un cimitero di famiglia. Di fianco alla tomba di san Vittore, nei pressi dell’attuale Cappella di S. Vittore in Ciel d’Oro (adiacente alla basilica), fu tumulato nel 375 il fratello maggiore san Satiro, salito anch’egli agli alti ranghi dell’amministrazione.
Amore fraterno
La sorella santa Marcellina, ritiratasi a condurre una vita da penitente a Roma, era rimasta legata ad Ambrogio grazie a intensi scambi di lettere, in nome di una sconfinata devozione a Cristo. Anch’ella (segue a p. 74) Milano, basilica di S. Ambrogio. L’ingresso della chiesa, che si articola in un ampio quadriportico antistante la facciata. L’assetto attuale dell’edificio di culto è frutto della ricostruzione integrale promossa nel XII sec. e dei successivi rimaneggiamenti, ma la sua prima fondazione è ben piú antica e risale all’epoca dello stesso vescovo Ambrogio, vale a dire la seconda metà del IV sec.
L’attuale assetto della basilica risale al XII secolo, quando la città , grazie a un periodo di particolare slancio, decise di dare nuovo lustro a questo monumento, come segno della propria autonomia e del proprio orgoglio. I nuovi interventi non alterarono, però, il programma costruttivo originale, voluto dallo stesso sant’Ambrogio, e che tuttora possiamo ammirare
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la città antica In alto e a destra confronto tra una foto aerea e uno spaccato assonometrico della basilica di S. Ambrogio: 1. atrio porticato; 2. torre dei monaci; 3. torre dei canonici; 4. navata centrale; 5. tiburio; 6. abside. A sinistra pianta a volo d’uccello della città di Milano, dal Codice di Tolomeo. XV sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Il riquadro evidenzia l’area in cui sorse la basilica di S. Ambrogio.
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Il monumento in sintesi
Un capolavoro dal forte valore identitario 3 Perché è importante S. Ambrogio di Milano, come uno scrigno solenne, racchiude la memoria di un vescovo che ha lasciato un’impronta indelebile sul mondo tardo-antico, permeando l’identità storica della stessa città. Milano si definisce tuttora «ambrosiana», cosí come «ambrosiana» fu già detta la basilica quando il suo fondatore era ancora in vita. 3 Sant’Ambrogio nella storia La basilica ambrosiana è un edificio che nelle sue diverse componenti racconta i momenti nodali della Milano tardo-antica e medievale. Il suo impianto di base
è quello voluto da sant’Ambrogio in persona. Quando Milano diviene un caposaldo dell’impero carolingio, la tomba del santo vescovo si arricchisce con il prorompente Altare d’oro. E quando la città intraprende la propria esperienza comunale, la chiesa viene ricostruita in pompa magna. 3 Sant’Ambrogio nell’arte L’altare di Sant’Ambrogio, con il suo rivestimento istoriato di età carolingia e il suo ciborio, lavorato a stucco sul fastigio nella prima età romanica, è un insieme prezioso e inconfondibile, con due «pezzi» unici nella storia dell’arte europea. L’atrio e il nuovo assetto della basilica compongono, dal canto loro, un organismo solido, compatto e armonioso, che segna l’apogeo del romanico lombardo.
La basilica racchiude la memoria di un vescovo che ha segnato indelebilmente l’identità cittadina
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trovò in questo luogo la propria sepoltura, nel 397, «confidando nella compagnia del riposo dei fratelli», come recita il suo epitaffio. Lo stesso Ambrogio, infatti, aveva fondato la basilica come una sorta di mausoleo personale, con la propria tomba sotto l’altare. Solo in un secondo momento, mentre infuriava la lotta contro gli ariani (che non accoglievano le risoluzioni del concilio di Nicea sulla consustanzialità di Cristo), il vescovo «fece spazio» alle reliquie dei martiri locali Gervasio e Protasio. La nuova basilica fu cosí detta «dei martiri» e la sepoltura di Ambrogio sarebbe stata ancor piú santificata dal contatto con i corpi di coloro che si erano sacrificati in nome di Cristo.
bile sempre a Milano nei mosaici di S. Aquilino a S. Lorenzo (410-450), coevi ai mosaici ravennati del mausoleo di Galla Placidia. L’effigie giovanile del vescovo milanese ha l’immediatezza di un ritratto, ed è forse basata su una rappresentazione ufficiale, risalente all’epoca in cui era ancora governatore. Sopra alla teoria dei santi, spicca il cupolino rivestito di tessere dorate (da cui l’appellativo «Ciel d’Oro» della cappella). Durante il regno di Teodorico, quando sulla cattedra milanese sedeva il vescovo Lorenzo I (489-511), fu realizzato il ciborio su colonne di marmo antico che tuttora sormonta (segue a p. 78)
Come un ritratto
Nei mosaici della Cappella di S. Vittore, eseguiti tra la fine del V e gli inizi del VI secolo, sant’Ambrogio compare proprio tra Gervasio e Protasio (vedi a p. 77). Le nobili figure paludate, che risaltano come statue sul fondo monocromo, sono in linea con lo stile «classico» ravvisa-
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la pietra e la parola In alto il magnifico ambone della basilica, la cui cassa sovrasta il sarcofago «di Stilicone» (IV sec.). Nella pagina accanto una delle facce della parte superiore del ciborio, ornata da un rilievo in stucco policromo raffigurante sant’Ambrogio, che, affiancato, dai santi Gervasio e Protasio, riceve il ciborio stesso dal presule che ne ha commissionato la decorazione. Età ottoniana, X-XI sec. In basso planimetria della basilica di S. Ambrogio: 1. atrio; 2. torre dei canonici; 3. torre dei monaci; 4. navata centrale; 5. navata laterale; 6. altar maggiore e ciborio; 7. abside; 8. ambone; 9. ingresso al Tesoro e alla Cappella di S. Vittore in Ciel d’Oro.
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saper vedere basilica di s. ambrogio Vita di Ambrogio
Buono come il miele Appartenente a una famiglia romana di rango senatorio, Aurelio Ambrogio nacque nel 338-339 a Treviri (Trier), città della Germania occidentale, sulla Mosella. Alla morte del padre, prefetto del pretorio delle Gallie, si trasferí a Roma con la madre vedova e la sorella Marcellina. Il futuro santo intraprese la carriera di avvocato, poi passò agli alti ranghi dell’amministrazione e, grazie alle brillanti doti, fu ben presto nominato governatore a Milano, preposto alla provincia di Emilia e Liguria (370 circa). La città lombarda era assai illustre ed era una delle capitali imperiali della riforma tetrarchica, insieme alla predetta Treviri e alle orientali Sirmio (Serbia) e Nicomedia (Anatolia). Proprio l’epoca di sant’Ambrogio segna il culmine della vicenda romano-imperiale di Milano, conclusasi definitivamente, nel 403, con l’elezione di Ravenna a capitale dell’Occidente. L’agiografo di Ambrogio, il diacono Paolino, suo stenografo e segretario per tre anni, nonché testimone della sua morte, tramanda un prodigio che aveva prefigurato le virtú del santo sin da bambino. Mentre si trovava a Treviri, nel cortile dell’ufficio paterno, dormendo a bocca aperta nella culla, ebbe il volto ricoperto da un immenso sciame d’api, che poi si volatilizzò d’incanto.
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In tal modo, Ambrogio era designato come fonte di verità e di saggezza, grazie alla profondità di pensiero e alla maestria di retore che l’avrebbero reso celebre: le api erano attratte da lui perché «i buoni discorsi sono favi di miele». Alcuni anni dopo, a Roma, osservando le pie consuetudini della madre e della sorella Marcellina, che aveva abbracciato una vita da «sposa di Cristo» ricevendo il velo da papa Liberio (353), Ambrogio offrí la destra per il baciamano, scherzando sul fatto che un giorno sarebbe diventato vescovo. L’occasione gli si presentò a seguito dei tumulti scoppiati a Milano per la successione alla cattedra episcopale, dopo la morte del vescovo ariano Aussenzio (374). Ambrogio affrontò egregiamente la situazione, raccogliendo consensi tra entrambe le fazioni, e fu designato a furor di popolo. L’imperatore Valentiniano I (364-375) e il prefetto Probo, non ebbero alcunché da eccepire, anzi, Probo in persona assegnò l’ufficio di governatore ad Ambrogio raccomandandogli di agire come un vescovo, per far leva sull’animo della gente. Ma Ambrogio, stando alla sua agiografia, affrontò questi sviluppi con grande timore e titubanza. Fece di tutto per convincere il popolo della propria incompatibilità
con gli onori della cattedra episcopale. Salí sul palco e ordinò a gran voce che diverse persone venissero torturate. Scelse di condurre una vita ritirata, da vero saggio seguace di Cristo. Fece entrare prostitute in casa. Ma ogni volta che commetteva peccato, la gente se ne assumeva la colpa. Tentò, infine, di fuggire alla volta di Pavia, e dopo un lungo cammino si ritrovò al punto di partenza, di fronte alla Porta Romana di Milano. Dovette cosí rassegnarsi, perché in tal modo Dio gli fece intendere che egli era un milite della fede, preposto alle fortificazioni erette contro i nemici della Chiesa cattolica. Nell’autunno del 384 giunse a Milano sant’Agostino (354-430), con un incarico di maestro di retorica che gli garantiva prestigiose mansioni presso l’aula imperiale. Ricercatore imperterrito della Sapienza, deluso lettore della Bibbia, nonché deluso seguace della dottrina manichea, il futuro vescovo africano studiava con attenzione Ambrogio, affascinato dalla forza persuasiva dei suoi sermoni, e, poco a
ln alto il mosaico a tessere dorate che fodera la cupola della Cappella di S. Vittore, che è perciò detta «in Ciel d’Oro». Al suo interno figura, tra gli altri, il ritratto a mosaico di Ambrogio (vedi nella pagina accanto). V-VI sec.
poco, l’ammirazione per l’arte dell’eloquio lasciò spazio all’interesse per gli argomenti, laddove la dottrina cristiana era esaltata dalla sapienza greca e dalla retorica di Cicerone. La madre santa Monica, che lo raggiunse a Milano nel 385, si uní senza esitazione alla comunità di Ambrogio. Attraverso gli occhi della donna, Ambrogio stesso si rivelò ad Agostino come una «fonte d’acqua che zampilla verso la vita eterna». Alla sterminata cultura, alla potenza oratoria e alla nobiltà del suo rango, faceva da controcanto una figura mite e silenziosa, che conduceva una vita grama, consacrata alla penitenza, alla meditazione, alla scrittura. Dopo un periodo di assenza, Agostino tornò a Milano per ricevere il battesimo da Ambrogio in persona, la notte del 24 aprile 387. marzo
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Nelle sue Confessioni risalta ben vivido il ricordo della cerimonia, scandita dagli inni e dai cantici mutuati dagli usi delle chiese orientali. Come sottolinea lo stesso Agostino, il rito si era
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cosí rafforzato in funzione anti-ariana, proprio mentre si era scatenato lo scontro tra il vescovo milanese e l’imperatore Valentiniano II, per effetto della madre Giustina,
alleata degli eretici. Nel 386, in seguito a una disposizione imperiale a favore degli ariani, che reclamavano una propria sede, i soldati avevano cinto d’assedio una basilica foranea, saldamente presidiata dai fedeli della Chiesa ambrosiana. Durante la settimana santa, i soldati giunsero persino alle porte della cattedrale, ma Ambrogio mantenne il controllo della situazione, continuando imperterrito a svolgere le sacre funzioni, e costrinse Valentiniano II a recedere. La notizia della vittoria giunse il giovedí santo (2 aprile 386), e fu accolta da un’ovazione trionfale. La lotta contro gli ariani era stata anche ingaggiata a colpi di reliquie. Presso la basilica dei martiri Nabore e Felice, il 17 giugno 386, si ebbe cosí il miracoloso ritrovamento dei corpi di Protasio e Gervasio, che andarono a occupare il loculo che Ambrogio stesso aveva in precedenza destinato alla propria sepoltura, sotto l’altare della «sua» basilica. E quando la questione ariana si era risolta, il vescovo milanese non esitò a misurarsi in un duro braccio di ferro con l’imperatore Teodosio I (379-395). Il sovrano volle punire i crimini commessi dai cristiani a Callinico, città di frontiera sulle rive dell’Eufrate, laddove una sinagoga era stata assaltata e data alle fiamme (388). Fedele ai propri principi, con un atteggiamento che può apparire «estremista»,
Ambrogio reagí in modo sdegnato, schierandosi dalla parte del vescovo locale, che, in nome di Cristo, aveva avallato quell’oltraggio. Con le sue sciagurate disposizioni, Teodosio metteva il vescovo di Callinico di fronte a un dilemma esiziale: ricostruire la sinagoga, recando offesa a Dio, o disobbedire al sovrano, esponendosi al martirio. Mentre assisteva alla messa celebrata da Ambrogio nella cattedrale lombarda, l’imperatore fu messo alle strette. Di fronte alla folla dei fedeli, durante la predica, il vescovo minacciò di sospendere la celebrazione se Teodosio non avesse promesso solennemente di ritornare sui suoi passi. Il sovrano non ebbe scelta, e obbedí. Ambrogio morí il 4 aprile 397, pregando con le braccia aperte a croce. Il corpo fu condotto nella cattedrale maggiore (S. Tecla), dove rimase per tutta la notte della vigilia di Pasqua, durante i riti battesimali. E molti neofiti, appena ricevuto il sacramento, lo videro seduto in cattedra. Gli stessi battezzati aprirono il corteo che l’indomani accompagnò il feretro alla basilica. Lungo il cammino, fazzoletti e cinture venivano gettati sulla cassa, per ricevere un salutare contatto con quell’anima prodigiosa. La salma fu quindi interrata accanto alle reliquie di Gervasio e Protasio. In tal modo si obbediva ai precetti dello stesso Ambrogio, allorché sosteneva che il sacerdote doveva essere sepolto nel luogo stesso in cui aveva predicato.
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le date da ricordare 370 circa Sotto il regno di Valentiniano I, Aurelio Ambrogio viene nominato governatore della provincia Aemilia et Liguria, con sede a Milano, all’epoca capitale imperiale. 374 Morte del vescovo ariano Aussenzio. I Milanesi, schierati su due opposte fazioni (ariani e cattolici), non riescono a trovare un accordo sulla successione e scoppia un tumulto. Ambrogio affronta la crisi con energia e moderazione, e viene scelto per la cattedra episcopale. 386 Il 17 giugno si scoprono i corpi dei martiri milanesi Gervasio e Protasio. Ambrogio dispone la loro traslazione sotto l’altare della nuova basilica ambrosiana, di seguito nota con l’intitolazione ufficiale di «basilica dei martiri». 397 Il 4 aprile Ambrogio muore. Il suo corpo viene sepolto accanto al loculo di Gervasio e di Protasio. 489-511 Sotto l’episcopato di Lorenzo I, si compie una prima ricognizione canonica delle reliquie e si realizza la prima edizione del ciborio. 784 Per iniziativa dell’arcivescovo Pietro, di origini franche, si insedia presso S. Ambrogio una comunità monastica. 810 Sepoltura in S. Ambrogio di Pipino re d’Italia, figlio di Carlo Magno. 830 circa L’arcivescovo franco Angilberto II trasferisce le reliquie di Gervasio, Protasio e Ambrogio in un antico sarcofago di porfido, e commissiona al maestro Vuolvinio l’Altare d’oro. 875 Sepoltura in S. Ambrogio dell’imperatore Ludovico II il Giovane. 1029 Prima menzione della canonica di S. Ambrogio. 1097 Prima attestazione dei consoli del Comune di Milano. 1100 circa Inizia la ricostruzione della basilica. 1128 Risulta già edificato il campanile dei canonici. 1138 Prima attestazione della sede ufficiale dei consoli, connessa al palazzo vescovile. 1140 circa Vengono eseguiti l’ambone e il coro, successivamente eliminato. 1144 In un documento relativo alla disputa sui diritti d’uso del campanile dei canonici, viene menzionato un anonimo architectus preposto al cantiere della chiesa. È il probabile progettista della nuova basilica, ma di lui non si sa altro. 1192-1194 Il tetto viene ricoperto in lamina di piombo. 1194-1196 Crolla la volta della terza campata, al di sopra dell’ambone. 1201 La volta della terza campata risulta riedificata. Si è compiuto anche il restauro dell’ambone, con la ricostruzione della parte sommitale. 1267 Si realizza presso l’attuale Capitolino la tomba dell’abate Guglielmo Cotta, arricchita da un complesso di affreschi e di rilievi.
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In alto il fronte dell’Altare d’oro, la magnifica arca in legno rivestita da formelle istoriate in lamina d’oro e d’argento, realizzato dal magister phaber Vuolvinio. 830 circa.
l’altar maggiore, in origine impiantato sul pavimento in cocciopesto della fase paleocristiana.
L’Altare d’oro
Intorno all’830, quando Milano era nel novero degli episcopati di rango metropolitano di tutto l’impero carolingio, l’arcivescovo franco Angilberto II (824-859) trasferí le reliquie dentro un sarcofago di porfido, sovrapposto agli antichi loculi. E tutt’intorno alla nuova sepoltura realizzò l’Altare d’oro, una sontuosa arca di legno rivestita di formelle istoriate in lamina d’oro o d’argento dorato, esaltate da un’intelaiatura arricchita da smalti policromi, gemme e filigrane. L’apertura (fenestella) al centro del lato posteriore, i cui sportelli erano in origine foderati di sete ricamate, permetteva di osservare il sarcofago. Nella decorazione marzo
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In basso la teca della cripta della basilica al cui interno sono conservate le spoglie dei santi Ambrogio, Gervasio e Protasio. L’aspetto attuale del sacrario è frutto di rifacimenti ottocenteschi.
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Particolare del mosaico del catino absidale raffigurante Ambrogio che assiste ai funerali di san Martino a Tours. La composizione oggi visibile è frutto dei restauri di età moderna eseguiti dopo i danni riportati dalla basilica nella seconda guerra mondiale. L’opera originaria fu forse patrocinata dall’arcivescovo Angilberto II (IX sec.), ma fu ampiamente ricomposta da presumibili maestranze veneziane nei primi decenni del XIII sec.
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esterna della fenestella, gli arcangeli Michele e Gabriele, armati di lancia, vegliano sulla serratura, e sant’Ambrogio riceve l’omaggio del committente e dell’artefice, il magister phaber («fabbro») Vuolvinio. Le formelle contigue raccontano gli episodi cruciali della vita del santo vescovo. Sul fronte opposto, tutto in lamina d’oro, bene in vista a chi entra in chiesa, trionfa invece il racconto della vita di Cristo. Il nitore delle scene, le cui figure risaltano con vivacità e armonia, esprime un senso dello spazio e un gusto della narrazione che trasfigura la tradizione classica del fregio istoriato nel campo dell’oreficeria, quell’arte «minore» già promossa, a tutti gli effetti, tra le arti «maggiori» del Medioevo.
Rilievi policromi
Un nuovo intervento sulla tomba ambrosiana si ebbe nella seconda metà del X secolo, allorché dietro l’altar maggiore si realizzò una cripta (modificata in piú fasi, fino ad assumere l’assetto attuale nel XIX secolo). Il ciborio, impiantato sul pavimento antico e rimasto cosí con le basi «interrate», richiese una modifica del suo fastigio per ritrovare una congrua visibilità. Venne cosí ideato l’assetto attuale, con gli alti frontoni su cui prendono corpo pregevoli rilievi eseguiti a stucco policromo (i colori attuali non sono però quelli originali, ma sono frutto di un restauro trecentesco). Le figure si stagliano con classica autorevolezza, con un grande rigore compositivo e una resa assai dettagliata del modellato, secondo uno stile che si ricollega agevolmente agli avori di produzione milanese tipici dell’epoca degli imperatori Ottoni (vedi a p. 75). Lo schema, puntualmente ripetuto sui quattro lati, prevede un personaggio dallo sguardo rigido e frontale che troneggia al centro, mentre riceve l’omaggio di due figure minori rese vivacemente in movimento, intente a «salire» lungo le ciglia degli archi. In perfetto accordo con l’Altare d’oro sottostante, il fregio frontale ha per protagonista
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saper vedere basilica di s. ambrogio Affresco sulla navata centrale della basilica che raffigura il nobile orante Bonamico Taverna. XIII sec.
Cristo, mentre quello retrostante sant’Ambrogio. Secondo il concetto della Traditio legis et clavium («Consegna della legge e delle chiavi»), Cristo affida le chiavi del Paradiso a Pietro e il Libro della legge a Paolo. Sant’Ambrogio, affiancato da Gervasio e Protasio, riceve il ciborio dal presule che ne ha commissionato la decorazione.
La ricostruzione
L’assetto della chiesa ambrosiana si mantenne sostanzialmente inalterato fino al 1100, quando si volle ricostruirla quasi integralmente. Rimanevano esclusi dai lavori l’abside centrale e il complesso sacro del ciborio e dell’Altare d’oro, concreta manifestazione della perpetua identità della basilica nel segno di Ambrogio. La decisione era maturata in un momento di particolare vivacità economica e sociale della città, che vedeva nel santo vescovo un simbolo di autonomia e di orgoglio civico. Il rinnovamento mirava a dare un nuovo lustro alla basilica, ma senza comprometterne i valori fondamentali. Non solo si mantenne cosí come era l’assetto presbiteriale, ma le dimensioni dell’edificio rimasero le stesse.
Dove e quando Basilica di S. Ambrogio Piazza S. Ambrogio, 15 Orario lu-sa, 10,00-12,00 e 14,30-18,00; do, 15,00-17,00 Info tel. 02 86450895; www.basilicasantambrogio.it Note la visita alla basilica è a ingresso libero, mentre è previsto il pagamento di un biglietto per il Tesoro di S. Ambrogio e la Cappella di S. Vittore, che osservano i medesimi orari della chiesa; dopo la chiusura dello storico Museo della Basilica,
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già ospitato nei locali della canonica, una selezione delle opere che lí erano esposte è attualmente fruibile nei locali del Tesoro e nel nuovo Museo Diocesano, allestito nell’ex convento di S. Eustorgio Museo Diocesano corso di Porta Ticinese, 95 Orario ma-do, 10,00-18,00; chiuso lu (eccetto festivi), 1° maggio, 25 e 26 dicembre, 1° gennaio Info tel. 02 89420019; www.museodiocesano.it marzo
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L’innovazione piú evidente riguardava il sistema delle coperture. In luogo delle lisce pareti sostenute da colonnati continui e coronate da un semplice soffitto a capriate, fu introdotta una poderosa sequenza di volte a crociera, in funzione della quale la linearità originaria della struttura fu rivoluzionata dal ritmo dei sostegni, con pilastri alternati a colonne. Eliminata l’antica decorazione pittorica con le didascalie dettate da Ambrogio in persona, il gioco delle membrature architettoniche divenne l’unico elemento cromatico dell’ambiente, grazie anche all’alternanza della pietra e del mattone sugli archi e sui costoloni. Il pesante mantello delle ampie volte impedí l’apertura di un piano di finestre lungo i lati della navata centrale. A questo si rimediò alleggerendo le pareti stesse con l’elegante matroneo. Sulla facciata, poi, si aprirono tre ampi, inconsueti finestroni, a cui corrisponde all’esterno una galleria, con un solenne triforio in corrispondenza della navata centrale.
Doppia gestione
Il vasto atrio porticato, che sorge sul luogo di un presumibile quadriportico paleocristiano, accoglieva numerose sepolture, e nel Medioevo era deputato all’amministrazione della giustizia e ad attività di mercato. Le torri campanarie individuavano le comunità religiose preposte alla gestione della chiesa: la piú antica (a destra) è la torre dei monaci (X secolo), che fa capo al cenobio ambrosiano fondato nel 784. L’alta torre dei canonici (a sinistra), già in uso nel 1128 ma completata solo nel 1891, era affidata al nuovo
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Il ritratto di un santo vescovo affrescato nel sottarco dell’abside minore di sinistra. XI sec.
collegio che affiancò il monastero alla fine del X secolo. Monaci e canonici (questi ultimi in numero di 12, come gli Apostoli) ressero la chiesa a lungo nel segno di una fattiva convivenza, anche se non mancarono momenti di forte attrito. Il coro in cui prendevano posto durante le funzioni, demolito nel 1509, si estendeva dalla terza campata all’altar maggiore, articolandosi su due piani, e prevedeva due ingressi distinti per le rispettive comunità.
Rimane ancora oggi l’ambone istoriato, che si basa su un cospicuo «relitto» della chiesa ambrosiana: il sarcofago detto «di Stilicone» (fine del IV secolo). Un occhio attento può notare una lieve divergenza tra l’asse del sarcofago e l’asse del pulpito, dal momento che le strutture delle due fasi seguono allineamenti lievemente diversi. D’altro canto, la sobria impaginazione dell’ambone, con un repertorio decorativo che non si discosta molto dalla composta linearità dei capitelli dell’atrio e della chiesa, suggerisce un senso di rigore e di misura, tale da evitare ogni divergenza e ogni sovrapposizione con la memoria delle origini. Solamente l’antico nucleo focale del presbiterio, tuttora dominato dalla presenza di Ambrogio, risalta con forza su tutto l’insieme. F
Nel prossimo numero ● Gli affreschi di Castelseprio e Torba
Da leggere U Agostino, Confessioni,
U Santo Mazzarino, Storia sociale
a cura di Roberta De Monticelli, Garzanti, Milano 1991 U Paolino, Vita di Ambrogio, in Antonius Adrianus Robertus Bastiaensen (a cura di), Vita di Cipriano. Vita di Ambrogio. Vita di Agostino, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, Milano 2012; pp. 51-125 U Richard Krautheimer, Tre capitali cristiane. Topografia e politica, Einaudi, Torino 1987
del vescovo Ambrogio, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 1989 U Carlo Capponi (a cura di), La basilica di Sant’Ambrogio a Milano. Guida storico-artistica, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Milano) 2003 U Roberto Cassanelli, La basilica di Sant’Ambrogio a Milano, in Roberto Cassanelli, Paolo Piva (a cura di), Lombardia romanica. I grandi cantieri, Jaca Book, Milano 2010; pp. 125-146
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di Furio Cappelli
Quando re Carlo si vestiva di seta Agli scambi diplomatici tra il regno carolingio e i potentati d’Oriente si affiancò un’intensa attività commerciale. Che non si limitava, però, al pur febbrile accaparramento delle sacre reliquie, ma si estendeva ai materiali stessi in cui quest’ultime venivano avvolte: stoffe pregiate, mirabilmente decorate, ambite da nobili e uomini di chiesa, e in grado di accendere, nei protagonisti del nostro «austero» Medioevo, l’esotica nostalgia per gli sfarzi del Levante… Particolare di una litografia colorata del 1890 raffigurante Carlo Magno e i territori del suo impero. In secondo piano, sulla sinistra, si immagina l’ambasceria di Harun al-Rashid alla corte di Aquisgrana, in occasione della quale al sovrano carolingio fu donato un prezioso orologio.
Dossier
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el 1663 il pittore fiammingo Jacob Jordaens (15931675), seguace del Rubens, volle evocare in una tela gli ambasciatori di Harun al-Rashid, califfo di Baghdad, nell’atto di rendere omaggio a Carlo Magno, e, a tal fine, mise in scena l’incontro tra un gruppo di autorevoli personaggi di un mondo esotico e l’erede del-
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la gloriosa romanità. Carlo Magno, riccamente ammantato, compare sullo sfondo di sontuose architetture classicheggianti ed è affiancato da una eterea Ermengarda (ma anche l’ultima compagna ufficiale del sovrano, Liutgarda, era già morta quando vi fu l’unico incontro a corte con una legazione del «re della Persia», nell’807).
I tre messi del califfo di Baghdad (due dei quali di pelle scura e col turbante, come due tipici berberi) sono appena discesi dai loro cammelli, e sembrano i Magi di fronte al Bambino di Betlemme. La loro dignità è indubbia, ma lo è anche la superiorità del sovrano europeo: uno dei legati si inchina di fronte a lui, e gli si rivolge con un’espressio-
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A destra un dinar battuto all’epoca di Harun al-Rashid e riutilizzato come pendente di collana. XI-XII sec. Gerusalemme, Israel Museum. In basso, sulle due pagine cosí il pittore fiammingo Jacob Jordaens immaginò l’omaggio degli ambasciatori del califfo Harun al-Rashid a Carlo Magno. Olio su tela, 1663. Collezione privata.
Commerci a lungo raggio
Monete di Harun in giro per l’Europa… Nel 1961 archeologi polacchi rinvennero nella laguna veneziana, a Torcello, sul piano dell’antica piazza del mercato, due monete assai indicative, fuse tra di loro a seguito di un incendio. Erano custodite in un sacchetto di tela che aveva lasciato la sua impronta sul metallo. Si tratta di un denarius d’argento di Carlo Magno, emesso a Milano tra il 793 e l’812, e di un dirham, parimenti d’argento, emesso sotto il califfato di Harun intorno all’800, con la tipica scritta in caratteri cufici: «Non c’è altro dio al di fuori di Allah…» (è la professione di fede del Corano). Già nel 748 papa Zaccaria aveva riscattato a Roma un grosso «carico» di schiavi che proprio i Veneziani intendevano destinare al mercato africano. Ma non solo Venezia intesseva rapporti economici con l’impero islamico, oltreché con Bisanzio. Monete d’oro e d’argento dell’epoca di Harun costellano diversi corridoi, come la millenaria via dell’ambra tesa tra il Baltico e il Mediterraneo o il «circuito vichingo» che collegava lo stesso Mar Baltico alle terre di là del Caucaso tramite la steppa. Il califfato era ricco d’oro e di merci esclusive, come le pregiate sete della Siria e dell’Asia centrale, mentre le foreste europee fornivano in abbondanza legname e pellicce. Grazie all’operato dei mercanti dell’antica Russia (la Rus’, corrispondente all’attuale Ucraina), l’Islam era anche rifornito di schiavi della penisola balcanica. Una volta appreso l’arabo o il persiano, gli stessi slavi deportati facevano da interpreti ai mercanti europei.
Dritto e rovescio di un dirham battuto al tempo di Harun al-Rashid. Monete simili sono state trovate in varie località europee, a testimonianza della fitta rete di rapporti commerciali stabilita con l’Oriente.
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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur GRAN tendamusam consent, perspiti conseque BRETAGNA no nis maxim eaquisR eearuntia cones apienda.
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In alto orbicolo (pezza di forma circolare) in seta decorato con un motivo a palmette. Produzione egiziana, VII-VIII sec. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum.
Itinerario degli scambi tra Aquisgrana e Baghdad Impero carolingio alla morte di Carlo Magno Califfato abbaside
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Tripoli
Qui sopra e a destra le due facce di un’ampolla in piombo con le scene della Crocifissione e delle pie donne al Santo Sepolcro. Fine del VI-inizi del VII sec. Washington D.C., Dumbarton Oaks, Byzantine Collection.
Spalato
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Taranto
Mar Tirreno Tunisi
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ne quasi supplice. I loro doni sono quelli che ci si può aspettare da un potentato orientale: una teca, un braciere, un orcio dai finimenti dorati (contenitori che alludono a gemme, olii, spezie, essenze), e un orologio meccanico da tavolo, di un tipo assai diffuso in Europa all’epoca del dipinto (cosí come immaginato da Jordaens, il dono appare ordinario, ma l’orologio condotto ad Aquisgrana dall’ambasceria di Harun era in realtà un oggetto pregiatissimo marzo
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di tutt’altro genere, e che suscitò grande meraviglia: vedi «Medioevo» n. 192, gennaio 2013; anche on line su medioevo.it). Il re ricambia l’omaggio, offrendo uno dei suoi scattanti e impavidi cani da caccia.
Dal Siam a Versailles
Non è difficile pensare che il pittore abbia voluto proiettare nel passato i fasti di un illustre re del suo tempo, Luigi XIV (il re Sole, 1643-1715), che era peraltro l’erede di Carlo Magno sul trono di Francia. Qualcosa
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Qui accanto borsa per reliquie in seta e altri materiali, da Treviri. 993 circa. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum.
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Dossier Qui sotto tessuto in seta policroma prodotto a Zandan (Uzbekistan). VIII-IX sec. Londra, Victoria & Albert Museum.
Dalla Sogdiana alla Borgogna
La lunga marcia della seta Nella cattedrale francese di Saint-Etienne, a Sens, si conserva un telo-reliquiario (impropriamente chiamato «sudario») dei santi Colomba e Lupo che, per caratteristiche stilistiche, tecniche e iconografiche, può essere accomunato ad altri ricami analoghi, tutti disseminati in Europa (in Francia, in Belgio, e a Roma, presso il Sancta Sanctorum), tranne il caso di Dunhuang («faro scintillante»), città della Cina centro-occidentale situata presso l’oasi omonima, sulla via della seta,
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A sinistra custodia di sutra costituita in parte da un ricamo zandani in seta policroma, da un tempio rupestre del complesso buddhista di Mogao. VIII-IX sec. Dunhuang (Cina), Dunhuang Museum
in quella provincia del Gansu che faceva da cerniera tra il Celeste impero e il mondo della steppa, al capo ovest della Grande Muraglia. L’esemplare asiatico del gruppo è cucito sulla custodia di una sutra (una raccolta di testi sacri del Canone di Buddha). Il manufatto, marzo
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del genere, d’altronde, si verificò effettivamente proprio negli antichi domini di Carlo, ventun anni dopo l’esecuzione del dipinto fiammingo. Nell’ottobre 1684 giunse a Versailles una delegazione del gran visir del regno del Siam (attuale Thailandia), allora tributario della Cina dei Manciú. Dopo aver accolto in pompa magna gli ambasciatori giunti dall’Oriente con il loro carico di doni sontuosi, Luigi XIV inviò all’imperatore K’ang Hsi (1662-1722) un’ampia collezione di incisioni che evocavano le meraviglie di Versailles, meraviglie che, nel secolo successivo, furono imitate nei palazzi e giardini alla francese che il nipote di K’ang Hsi, Ch’ien Lung (1736-1795), realizzò nel parco della propria residenza estiva, avvalendosi di artefici reclutati in Europa. In una tale vicenda, la Francia del re Sole gioca sulla sua superiorità in fatto di cultura e di sfarzo, mentre il regno dell’estremo Oriente fa affidamento su prodotti esclusivi e ricercati: sete, porcellana, vetri, erbe per infusi, balsami, profumi, spezie. Ma quando rivolgiamo la nostra attenzione all’Alto Medioevo europeo, un paragone impietoso tra Aquisgrana e Versailles ci induce a immaginare un mondo arretrato,
appartenuto a un monaco o a un pellegrino, è stato rinvenuto presso le famose Grotte di Mogao, lo straordinario santuario buddhista che si compone di 492 templi scavati nella roccia, in larga parte realizzati tra il IV e il IX secolo d.C. Il telo conservato nella collegiata belga di Notre Dame a Huy, ha rilevato sul retro una preziosa iscrizione a inchiostro, che permette di riconoscere con sicurezza il luogo di produzione di tutte le stoffe in questione. Si tratta della città di Zandan, non lontano da Bukhara
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incapace di ogni dialogo con gli orizzonti della via della seta. Ci risulta difficile pensare che un’economia di sussistenza desse spazio all’importazione di merci di lusso. Il grande storico belga Henri Pirenne, nel saggio Maometto e Carlo Magno (1937), aveva liquidato in poche righe i rapporti di amicizia tra il sovrano franco e il califfo di Baghdad, convinto che si trattasse di una vicenda isolata, priva di qualsiasi correlazione o conseguenza economica.
Il cronista balbuziente
Eppure, nonostante lo stato di depressione generale in cui l’Europa si dibatteva, nuove motivazioni avevano dato vigore al traffico dei beni voluttuari, all’unisono con i segnali di una lentissima ma sempre piú evidente ripresa. D’altra parte, il pittore fiammingo da cui abbiamo preso spunto, nella sua personale rivisitazione storica non seguiva solo le suggestioni del proprio tempo, o il cliché iconografico dell’omaggio dei re Magi. Piú o meno direttamente, egli si attenne anche a fonti letterarie dell’alto Medioevo, e, in particolare, trasse profitto dalla cronaca del monaco di San Gallo (Svizzera) Notkero Balbulo (il Balbuziente), dal titolo Gesta Karoli Magni imperatoris (883).
(Uzbekistan), nell’antica Sogdiana, tra la Persia e la Cina. Le manifatture zandani dell’VIII-IX secolo cosí individuate, permettono di riconoscere un fiorente centro di produzione tessile che lungo la via della seta dava il suo contributo al dialogo tra l’Europa e l’Asia. Quelle stoffe andavano sia verso la Cina (come si è visto a Mogao), sia verso l’Occidente, tramite la «piazza» di Baghdad. Potevano cosí essere utilizzate per avvolgere reliquie cristiane o per custodire il sacro testo di un devoto buddhista.
Da lí derivano molti dettagli, tra cui l’anacronismo della presenza della già defunta Ermengarda a fianco di Carlo Magno, ma da lí deriva, soprattutto, l’esaltazione gloriosa del sovrano franco a fronte della tremebonda presenza dei messi orientali, come pure il ruolo dei cani da caccia, che sarebbero stati portati a Baghdad proprio su desiderio del califfo, per avere una prova del valore del sovrano europeo e della sua stirpe. Occorre sottolineare che Notkero è una fonte che richiede molta prudenza, dal momento che il suo racconto è a tutti gli effetti semileggendario: egli è, in sostanza, l’iniziatore di quella rivisitazione in chiave epica dell’immagine dello stesso Carlo Magno. Ma, a ben vedere, il monaco è molto accorto nel dosare realismo ed esaltazione, e muove sempre da circostanze o particolari verosimili, anche se poi ne fa uso per storie di fantasia o reinventate, allo scopo di fornire insegnamenti e modelli di comportamento all’imperatore del suo tempo, Carlo III il Grosso (881-887). Stando a Notkero, grazie all’amicizia tra Carlo e Harun, i viaggiatori franchi e «persiani» potevano affrontare il percorso tra i due regni con assoluta tranquillità, al punto tale che ogni distanza sembrava d’incanto annullata. «In questo modo si verificò ciò che il poeta [Virgilio] dichiarò impossibile: “O il Parto esule berrà le acque della Saône o la Germania le acque del Tigri” [Bucoliche, I, 63]».
Cammelli a noleggio
Carlo non aveva meriti particolari nella tenuta di una rete di contatti tra l’Europa e il Mediterraneo orientale, ma è certo che quel sistema di rapporti alla sua epoca funzionava. Il pellegrino Bernardo, che per recarsi in Terra Santa passò attraverso la Libia e l’Egitto (870), limitandosi le scomodità della navigazione, elogia l’organizzazione delle strade garantita dall’impero islamico. Si potevano noleggiare facilmente cammelli in Egitto, erano numerosi i punti attrezzati di sosta, e non c’era pericolo di essere
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In alto frammento del telo-reliquiario in seta di san Benigno di Digione. VII-IX sec. Parigi, Musée national du Moyen-Âge. A sinistra tessuto in seta con l’immagine della quadriga imperiale, dal tesoro della cattedrale di Aix-la-Chapelle. 800 circa. Parigi, Musée national du Moyen-Âge.
assaltati dai briganti, cosa che era all’ordine del giorno nelle impervie strade italiche. D’altronde, grazie anche all’interesse di Carlo Magno per la Città Santa, a Gerusalemme era comparso l’ospizio per i pellegrini di S. Maria, con una piazza annessa che accoglieva un piccolo mercato. Un probabile pellegrino franco, Egibaldo, si era fatto monaco ribattezzandosi con il nome di Giorgio, ed era divenuto poi abate al monastero latino del Monte degli Ulivi. Insieme a un altro monaco gerosolimitano, era al fianco di Abdullah, messo del califfo, nella delegazione che si presentò nell’807, ricolma di doni, alla corte
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Ebrei nel mondo carolingio
I poliglotti fornitori della real casa Il mercante a cui si rivolge Carlo Magno per burlare un presule vanaglorioso (vedi, nel testo, a p. 99) è un ebreo, e la cosa non deve stupire. Era infatti un ebreo, forse anch’egli mercante, quell’Isacco che guidò gli ambasciatori carolingi alla corte califfale di Baghdad, e che al ritorno, unico sopravvissuto, scortò ad Aquisgrana il favoloso elefante Abul al-Abbas, dono di Harun al sovrano europeo (802). La scelta di un tale fiduciario dovette essere piú che naturale. Gli Ebrei infatti, ammessi nel mondo franco come stranieri direttamente sottoposti all’autorità del sovrano, non
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appartenevano alla sfera cristiana né a quella musulmana, e avevano al contempo intensi rapporti economici e commerciali con personaggi di entrambe le etnie, sia nei regni cristiani sia nell’Islam. Erano i principali fornitori della corte, erano tra i pochi a conoscere le terre del Medio Oriente, ed erano poliglotti. I mercanti ebrei originari della penisola iberica (noti nell’Islam come radhaniyyah) parlavano arabo, persiano, andaluso e franco. Un Forum Iudeorum («mercato degli Ebrei») sorgeva sul luogo dell’attuale città austriaca di Völkermarkt (da
Volchimercatus, «mercato dei popoli»), sulla Drava, lungo la via dell’ambra, e in questi pressi è stata rinvenuta una moneta araba battuta in Africa nell’VIII secolo. La presenza degli Ebrei alla corte franca venne fortemente ridimensionata solo dopo la morte di Carlo Magno, a seguito delle posizioni oltranziste dei prelati che facevano capo all’arcivescovo Agobardo di Lione (816-840). Miniatura raffigurante banchieri ebrei, da un’edizione delle Cantigas de Santa Maria di Alfonso il Saggio. XIII sec. Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial.
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di Aquisgrana. Mercanti franchi frequentavano una fiera internazionale che si teneva nella Città Santa nella ricorrenza dell’Esaltazione della Croce (14 settembre), e già il monaco irlandese Adamnano di Iona (628-704) registra l’importanza commerciale di Gerusalemme, sulla base della testimonianza autoptica del vescovo franco Arculfo. Gli stessi ambasciatori di Carlo che si mossero alla volta di Baghdad nel 797 dovettero approdare in
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Libia o in Egitto, seguendo un percorso ampiamente frequentato da quegli stessi mercanti che facevano la spola tra l’Oriente e l’Occidente.
Una tappa obbligata
Con ogni probabilità, i legati giunsero cosí proprio a Gerusalemme, che era una meta d’obbligo per Ebrei, Armeni e Bizantini sulla via che conduceva alla Mesopotamia. Un’opera agiografica di poco successiva alla morte di Carlo, i Miracu-
la sancti Genesii, racconta che i legati del re franco erano giunti nella Città Santa insieme agli inviati di Gebardo conte di Treviso. Si trattava di un prete e di un diacono che dovevano prendere in consegna dal patriarca le reliquie di san Genesio per conto del nobile trevigiano, il quale aveva a tal fine preparato un santuario di tutto rispetto e aveva offerto ricchi doni alla Chiesa di Gerusalemme. Le due legazioni avrebbero concordato di compiere insieme anche il marzo
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In alto clipeo della seta policroma con la caccia fortunata del principe Bahram di Persia. Manifattura siriaca, VIII-IX sec. Ascoli Piceno, Museo Diocesano. A sinistra Harun al-Rashid nella sua tenda con i sapienti d’Oriente. Olio su tela di Gaspare Landi, 1813. Napoli, Museo di Capodimonte.
solo ai semplici pellegrini, ma anche agli agenti che si recavano in Oriente per recuperare (e anche per rubare) le sante reliquie, vere o presunte che fossero. Anche Carlo, tramite i suoi inviati, si prodigava a raccoglierle, per poi donarle ai maggiori santuari del suo regno.
Ricerche accanite
viaggio di ritorno, ma gli ambasciatori carolingi si fecero attendere piú del previsto: erano morti. Visto che era sopraggiunta anche la morte del compagno, il diacono di Treviso si fece coraggio e riprese da solo il lungo cammino, approdando felicemente nei pressi di Roma. Una vera e propia febbre induceva a raccogliere un gran numero di reliquie delle terre di Cristo. Il flusso sempre piú intenso dei mercanti fece cosí da supporto non
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Ma gli stessi abati e vescovi si impegnavano personalmente nel pianificare questa ricerca pervicace di ossa miracolose. Si creavano cosí vaste collezioni, la cui importanza era data proprio dall’incidenza di reliquie d’oltremare. Nel monastero di Chelles (Île-de-France), che fu governato da Gisella (757-810), sorella di Carlo, un cartiglio del IX secolo attesta che una delle reliquie proviene dalla terra situata «tra il Tigri e l’Eufrate». Insieme al patrimonio di sante reliquie spesso traslate da Roma e da altri centri illustri della cristiani-
tà, episcopati e monasteri dell’impero carolingio si dotavano di un gran numero di stoffe di importazione. Un caso eloquente è fornito dalla cattedrale di Saint-Etienne a Sens (Borgogna), la cui straordinaria «collezione» di stoffe pregiate (una delle principali concentrazioni di tessili medievali superstiti) fa eco alla corposa presenza di sacre ossa lí pervenute a ritmo sempre piú intenso, sulla base di un cospicuo nucleo iniziale già definitosi in età merovingia, e che si ampliò anche in senso geografico, interessando molteplici santuari del Mediterraneo orientale (bizantino e islamico), a partire dagli ultimi decenni dell’VIII secolo. Un donativo di reliquie venne offerto dallo stesso Carlo Magno nell’809, in occasione della consacrazione della nuova chiesa. Ma sul tema dei rapporti con l’Oriente e, soprattutto, con le merci che provenivano da quei mondi lontani, Notkero riserva altri curiosi e illuminanti aneddoti. Come testimonia anche il biografo Eginardo (755-840), il sovrano franco aveva gusti spartani in fatto di vestiario. Solo in talune occasioni solenni si adeguava all’etichetta, altrimenti indossava come unico «accessorio» di valore una daga (una spada larga
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Frammento di tessuto di seta con l’immagine di un senmurv, la favolosa creatura attestata nella tradizione letteraria iranica, per metà uccello e per metà cane. Arte sasanide, VIII-IX sec. Londra, Victoria & Albert Museum.
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Sete e reliquie
Quelle morbide custodie delle sacre spoglie... Tra l’VIII e il IX secolo le attestazioni in Europa di stoffe pregiate di fabbricazione orientale si infittiscono enormemente. Oggi le nostre conoscenze dirette di simili manufatti si limitano a quanto è stato conservato nei sarcofagi e nelle teche dei santi, e questo ha fatto pensare al traffico delle reliquie come veicolo privilegiato nella diffusione delle sete orientali in Europa,
in quanto le stoffe preziose si sarebbero prestate come «scrigno» delle reliquie durante il loro trasporto. In realtà quelle stoffe avvolsero anche sacri corpi che non derivavano affatto dall’Oriente, e venivano adottate solo al momento in cui la reliquia riceveva la sua sistemazione definitiva, per custodirla degnamente. Peraltro, nel caso di un lungo viaggio, che si affrontava magari in
buona parte via mare a bordo di navi mercantili, drappi di pregio e sacre ossa non potevano essere stivati assieme. Anche per proteggerle dall’acqua, le stoffe erano arrotolate entro pelli robuste, e le ossa dovevano essere sparpagliate e occultate entro recipienti come ceste di vimini, assieme a masserizie di tutt’altro genere, onde evitare una grave accusa di oltraggio funebre. marzo
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e corta, con lama a doppio taglio), guarnita in oro o in argento. Questa sua scarsa propensione per un guardaroba di lusso gli riservò una certa soddisfazione, allorché, trovandosi a Cividale del Friuli in un giorno di festa, appena uscito dalla chiesa in cui si trovava, invitò tutti i suoi cortigiani a una battuta di caccia, perché non cedessero troppo alle lusinghe della quiete. L’invito non dovette suscitare grande entusiasmo, poiché i cavalieri erano tutti vestiti alla leggera, con pelli finissime guarnite da stoffe di gran pregio, anche lavorate a ricamo. Passando in precedenza a Pavia, visto che si erano recati là alcuni mercanti veneziani con un vasto assortimento «levantino» di tessuti, sete ricamate e pelli, ne avevano fatto man bassa e si erano subito confezionati molti abiti «sciccosi». Lo
storico Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) osserva a questo punto che quei cortigiani, di fronte agli articoli del favoloso Oriente, dovevano aver dimostrato quella stessa ansietà «con cui i mal’accorti Italiani corrono oggidí a comperare i bijoux [gioielli, n.d.A.], e le stoffe oltramontane e forestiere».
Sarcasmo reale
Era una giornata fredda e piovosa, e mentre Carlo rientrò dalla battuta senza alcun problema, bardato com’era di una robusta ed economica pelliccia di castrato, i suoi compagni ne uscirono con le vesti inzaccherate e strappate. L’indomani, il sovrano li convocò ordinando che comparissero con quelle stesse pelli ormai lacere, e chiese qual era l’abito piú prezioso, il suo che costava pochissimo e che era intatto, o il
loro, che era costato un’enormità e già andava a pezzi? Riecheggiano in questo aneddoto i severi giudizi sulle sfarzose mode orientali (e in particolare sull’utilizzo della seta) che si rinvengono non di rado negli autori classici e nella patristica, ma emerge anche un dato storicamente verificabile, quantomeno all’epoca dello stesso Notkero, a partire dal secondo quarto del IX secolo. Pavia era davvero un vivace centro commerciale ben posizionato tra le terre d’oltralpe e i percorsi che conducevano alle coste italiche. Intorno all’830 l’arcivescovo di Ravenna spendeva nella città lombarda 500 solidi aurei per l’acquisto di vesti battesimali in candido lino con ricami in filo d’oro. Ed era già proverbiale il ruolo di Venezia nei rapporti tra l’Oriente e l’Occidente. Il corpo di san Marco era stato trafugato da una flotta mercantile veneziana approdata ad Alessandria d’Egitto intorno all’828, e la «presenza» dell’Apostolo costituí un elemento fondativo cruciale per la potenza della Serenissima. Il doge Giovanni (829-836), promotore della piú antica basilica di S. Marco (vedi «Medioevo» n. 203, dicembre 2013), per accogliere degnamente il sacro corpo volle creare in città una replica ideale del Santo Sepolcro, conosciuto con i propri occhi durante una sosta a Gerusalemme (828 circa). Ma il nostro monaco-cronista non lesina storielle gustose anche nei riguardi dello sfarzo dei suoi «colleghi» dell’élite religiosa. È il caso della burla giocata Particolare di un piatto in argento dorato con l’immagine di un senmurv. Arte sasanide, VI-VII sec. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.
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Dossier Tra sacro e profano
Il tesoro di Pasquale I Una Natività a smalto di tradizione palestinese compare sul reliquiario della Vera Croce di papa Pasquale I (817-824), già conservato nel tesoro del Sancta Sanctorum. La stauroteca (dal greco stauròs, «croce», e theke, «custodia»), in lamina d’oro, racchiudeva un frustolo di legno intriso di balsamo, che si riteneva derivato dalla celebre reliquia della croce di Cristo conservata a Gerusalemme. Forse il sacro frammento era tra quelli giunti a Roma nell’813-814 come omaggio di una legazione bizantina, che aveva fatto tappa, in precedenza, alla corte carolingia di Aquisgrana. I legni giunti da Costantinopoli erano avvolti in un pezzo
di lino chiuso da un sigillo di piombo, all’interno di una custodia metallica. Racchiuso in una teca d’argento istoriato, il reliquiario di Pasquale, a forma di croce, era deposto su un ricamo serico di produzione bizantina dell’VIII-IX secolo. La stoffa ripropone il tema ellenistico del cacciatore stante, in posa dinamica, alle prese con una belva. Una lettura della scena in chiave religiosa è
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In basso il reliquiario di papa Pasquale I che si diceva contenesse un frustolo del legno della Vera Croce. IX sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
In alto la teca in argento che racchiudeva il reliquiario di papa Pasquale I raffigurante Cristo in trono, i santi Pietro e Paolo ai lati, due angeli omaggianti nei clipei superiori. IX sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
suggerita dalla croce che sormonta il diadema dei personaggi, mentre una croce meno netta si trova alla base del palmizio centrale (un tipico albero della vita cosí associato alla simbologia cristiana). I cacciatori, che si ripetono in simmetria ai lati del palmizio, operano dunque al servizio di Dio, e alludono alla sacra dignità del sovrano bizantino. Il felino abbattuto (leone sopra, leopardo sotto) agisce di conseguenza come simbolo del Male. marzo
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da Carlo Magno a un vescovo vanaglorioso, che amava collezionare oggetti rari e preziosi. Il sovrano si rivolse a tal fine a un mercante ebreo che si recava spesso in Terra Santa, riportandone merci di ogni genere, spesso mai viste prima in terra d’Occidente.
Un vescovo alla berlina
In alto la seta con scena di caccia che avvolgeva il reliquiario di papa Pasquale I. VIII-IX sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. In basso seta policroma raffigurante l’Annunciazione. Manifattura siriaca, VIII-IX sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
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Grazie alla sua rinomata esperienza, gli fu facile convincere il vescovo che era riuscito a reperire un animale favoloso delle terre della Giudea. Si trattava in realtà di un volgarissimo topo imbalsamato. Dopo lunghe ed estenuanti contrattazioni, il vescovo, bramoso di possedere il roditore, accortamente intriso di aromi esotici e avvolto in una preziosa stoffa di seta, arrivò a sborsare una gran quantità di argento. Il mercante consegnò la mercede al sovrano, e questi, lasciandola in bella vista, convocò un’assemblea di vescovi in cui smascherò l’incauto presule, che non dava nulla ai poveri ma sborsava ingenti somme per acquistare un topo. Anche in questo caso è evidente la morale sottesa alla narrazione, che prende di mira l’edonismo sempre piú diffuso nelle alte sfere del ceto religioso. Ma se simili prese di posizione sono frequenti, soprattutto in ambiente monastico, è
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Dossier sorprendente il sarcasmo, degno di Boccaccio, con cui Notkero prende di mira il traffico di oggetti rari (o presunti tali), alimentato in Occidente da personaggi creduloni, orgogliosi e spendaccioni. Insieme alla richiesta delle sete e degli altri articoli di lusso, questi beni non meno ricercati sono l’indice di una mentalità molto diffusa, in cui emergono in varie proporzioni un concetto «materialistico» del sacro, la fascinazione dell’Oriente e un impulso a raccogliere e a esibire collezioni di meraviglie. E il tocco geniale della burla sta nel panno serico che avvolge il prodigio d’oltremare: stoffe del genere erano chiamate ad avvolgere le sacre reliquie, per certificarne l’autenticità e l’importanza, già all’epoca dello storico Gregorio di Tours (538 circa-594), che testimonia come in tal modo veniva custodito un frammento della Vera Croce o un dente di san Matteo.
I lussi di Riculfo
Il cronista Notkero ci riserva infine un gustoso ritratto, a proposito di religiosi in vena di ostentazione. Quando i funzionari di Carlo che si occupavano dei rapporti con i potentati territoriali (i missi dominici) furono ricevuti dall’arcivescovo Riculfo di Magonza (787-813), si trovarono di fronte a uno scenario degno delle Mille e una notte. Il presule li accolse in una sala adorna di tappeti e drappi alle pareti, con vasi d’oro e d’argento tempestati di pietre preziose da cui si spandevano nell’aria essenze orientali. Egli stesso era vestito di seta e di porpora e assiso su cuscini di seta, nello stile dei dignitari della corte abbaside di Baghdad. Anche se la scena è verosimilmente esagerata, è piuttosto significativa di come, già all’epoca di Notkero, fosse familiare l’idea dello sfarzo di una corte orientale, gra-
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Seta policroma con la scena di Sansone che smascella il leone. Manifattura siriaca, VIII-IX sec. Washington D.C., Dumbarton Oaks.
zie a ripetuti contatti diretti con le terre d’oltremare. Persino alla corte di Carlo e di suo figlio Ludovico il Pio non era disdegnata la presenza esotica di qualche eunuco, magari giunto come dono ufficiale o come «oggetto» di scambio.
Come una reliquia
D’altronde, è chiaramente attestata la passione di Riculfo per preziosi beni di importazione. Il prelato regalò ad Alcuino di York un elaboratissimo pettine in avorio, con due teste di animale ai capi, unite da una mascella dalle cui fauci uscivano sessanta denti: un oggetto talmente pregiato e singolare da divenire una reliquia miracolosa. L’epistolario del predetto Alcuino fornisce per giunta molteplici informazioni sui doni di lusso che i dignitari religiosi del suo tempo amavano scambiarsi: una sella o una tunica finemente decorata, vasi d’oro e d’argento, drappi preziosi. Il patriarca friulano Fortunato di Grado (803 -825 circa), in stretti rapporti d’amicizia con Carlo Magno ed esule a Costantinopoli sotto Ludovico il Pio, ha lasciato un dettagliato testamento con il resoconto della sua attività di inguaribile collezionista di tesori. Spicca un ampio assortimento di stoffe e oreficerie, si registrano reliquiari acquistati nella capitale dell’impero bizantino, un calice d’oro risulta restaurato grazie alla fusione di 50 monete arabe (dinar), e molti beni sono valutati in «mancosi», parola di origine araba che sta a indicare una valuta virtuale, corrispondente a un «tot» di dinar o a un «tot» equivalente di monete carolingie. Il «visigoto» Teodulfo, letterato e vescovo d’Orléans (798 circa-821), assai legato a Carlo Magno e all’ambiente della sua corte, commissionò intorno all’800 una marzo
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monumentale Bibbia, attualmente conservata nel tesoro della cattedrale di Le Puy-en-Velay. La pergamena di talune pagine è tinta di porpora, oro e argento sono impiegati per parti di testo in evidenza o capilettera, la rilegatura è arricchita da gemme e da porpora, e una serie di stoffe leggere di varia provenienza e di evidente finezza, protegge le pagine in cui sono impiegati l’oro e l’argento. All’inizio del volume Teodulfo asserisce che esso risplende di fuori grazie alle materie preziose, ma ciò che racchiude al suo interno (il testo sacro) risplende di una bellezza piú sfolgorante.
Bahram in S. Ambrogio
Con lo stesso spirito, l’arcivescovo di Milano Angilberto II (824-859), di origini franche, commissionò il celebre altare d’oro di Sant’Ambrogio (830 circa), che brulica per giunta di smalti, gemme e filigrane (sono 4739 le pietre preziose utilizzate, tra cui tantissimi smeraldi e zaffiri; vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 70-83). Gli sportelli dell’apertura che consente di visionare il sepolcro interno, erano rivestiti di pregevoli sete istoriate di manifattura siriaca, con la raffigurazione della caccia fortunata del principe Bahram di Persia (vedi «Medioevo» n. 176, settembre 2011; anche on line su medioevo.it). Il Liber Pontificalis, raccolta di biografie dei papi, documenta la presenza a Roma di stoffe istoriate con scene sacre, soggetti di tipo imperiale (con la semplice effigie del sovrano bizantino o con scene di caccia), o con motivi zoomorfi (leoni, aquile, grifi, elefanti...), soprattutto a partire dal pontificato di Adriano I (772-795). Le pezze venivano utilizzate per confezionare paramenti sacri e per impreziosire le aule delle chiese, con tovaglie da altare (vestes) e parati (vela, cortinae). Questi ultimi si appendevano ai baldacchini, alle recinzioni presbiteriali, e adornavano anche colonnati, archi e basi delle pareti. In diversi casi si specifica persino la manifattura o lo stile del manu-
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fatto in rapporto ad alcuni luoghi illustri del Mediterraneo orientale, come Alessandria d’Egitto o la siriaca Tiro, città di origine fenicia oggi in territorio libanese. Le notizie su drappi preziosi e oreficerie diventano cosí numerose e particolareggiate che lo storico dell’arte Seroux d’Agincourt (1730-1814) suggerisce un paragone tra le basiliche romane dell’epoca e il biblico tempio del re Salomone, laddove anche il velo che chiudeva il santuario era ricoperto d’oro. Dal tesoro del Sancta Sanctorum deriva una stupenda seta ricamata
Placca in avorio facente parte della rilegatura di un codice miniato con scene della vita di san Remigio. Ultimo quarto del IX sec. Amiens, Musée de Picardie. Dall’alto: Remigio resuscita una giovane donna; la mano di Dio, per intercessione del santo, riempie due ampolle miracolose; battesimo di re Clodoveo e miracolo della Santa Ampolla.
di manifattura siriaca con le scene dell’Annunciazione e della Natività, in cui la veste della Vergine è tinta di porpora, la preziosa materia che a Bisanzio era attributo esclusivo degli indumenti regali. L’iconografia
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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
In alto seta policroma con figura femminile danzante che si ripete di lato all’albero della Vita, dal bordo interno della casula di san Marco papa. Manifattura siriaca, VIII-IX sec. Abbadia San Salvatore, Abbazia di S. Salvatore al Monte Amiata. A sinistra brocca in argento dorato con figure femminili danzanti entro arcate. Arte sasanide, VI-VII sec. New York, The Metropolitan Museum of Art.
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della Natività è quella a tutti noi familiare, con il «corredo» della mangiatoia, del bue e dell’asinello: la stessa iconografia proposta, sin dal VI secolo, nelle ampolle metalliche con l’olio delle lampade del Santo Sepolcro che i pellegrini acquistavano in Palestina.
Doni e «doppioni»
Le stoffe orientali, non appena giunte in Europa, entravano in un capillare sistema di diffusione attraverso i doni dei sovrani e anche grazie alle vendite e alle permute tra le diverse sedi religiose. Potevano essere acquistate in «stock» di marzo
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pezzi uguali o simili, il che permetteva ai possessori di ridistribuire i «doppioni» all’interno della rete delle proprie amicizie. Ma anche i singoli drappi di seta potevano essere agevolmente suddivisi in piú fasce, grazie alla strutturazione del disegno, costituito da motivi ripetuti su piú ordini di bande o di clipei. Si spiega cosí la presenza di sete assai simili in molteplici contesti europei, non sempre vicini tra loro. Spesso si tratta di ritagli di esigue dimensioni, per la teca di una reliquia o per la fodera di un codice miniato. Un bel caso di diffusione è costituito dai ricami che raffigurano il biblico Sansone nell’atto di aprire, a mani nude, le fauci del leone incontrato nel deserto. Si tratta di una manifattura siriaca, con evidenti agganci ai ricami dell’Annunciazione e della Natività al Sancta Sanctorum (vedi immagine a p. 100). Oltre dieci fasce, ricavate da piú teli, erano destinate ad almeno sette reliquiari illustri, sparsi un po’ ovunque: in Italia (proprio nel tesoro del Sancta Sanctorum), in Svizzera, in Francia, in Germania, in Belgio, in Inghilterra. In un caso, tra il IX e il X secolo, un frammento finí come fodera nella rilegatura di un codice pergamenaceo della cattedrale di Trento. Nel santuario di S. Remigio a Reims, dedicato al vescovo che battezzò re Clodoveo, la sepoltura del santo presule venne traslata e riallestita nell’852 per iniziativa del vescovo Incmaro (845-882), uomo di corte già all’epoca di Ludovico il Pio, che fu incoronato proprio a Reims (816). Nel sepolcro furono deposti un lenzuolo e un cuscino ricavati da due pregevoli ricami di seta in trama monocroma, di un rosso intenso, quasi purpureo. Il disegno, «impresso» da un ordito di seta gialla e arancione, si compone di leoni alati con testa canina e coda di pavone, ripetuti entro clipei sovrapposti. Si ripresenta cosí un animale sacro identificato con il persiano senmurv (essere favoloso, attestato nella tradizione letteraria iranica, solitamente rappresentato come una creatura per metà uccello
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e per metà cane, n.d.r.). Simili immagini caratterizzavano il vestiario da parata dei sovrani sasanidi, come è evidente nei rilievi di Taq-iBustan (Iran) dedicati al re Cosroe II (590-628). Il senmurv trovò poi una larga fortuna nell’arte tessile sia nei domini islamici sia a Bisanzio, forse per la sua contiguità con animali ibridi tipici della «zoologia» di ispirazione religiosa (grifoni, ippogrifi, pegasi). Si discute ancora se le pezze di Reims provengano dalla Persia islamica o da Costantinopoli. Ma quel che ci interessa sottolineare è che Carlo il Calvo, nipote di Carlo Magno e figlio di Ludovico il Pio, presiedette alla solenne cerimonia di traslazione delle spoglie di san Remigio. Come sembra attestare l’iscrizione che lo guarnisce tutt’intorno, lo stesso cuscino per il sacro cranio venne probabilmente confezionato da sua sorella Alpheide, badessa del vicino monastero di S. Pietro delle Donne. È dunque probabile che le due pezze di seta derivino dalle collezioni reali.
La casula di papa Marco
In tutt’altro contesto, nell’abbazia toscana di S. Salvatore al Monte Amiata, una casula, ossia una solenne veste sacerdotale tradizionalmente riferita a san Marco papa (IV secolo), risulta confezionata con una pezza di seta istoriata in tutto analoga ai drappi di Reims: anche in questo caso un dono regale? Come se non bastasse, il paramento toscano è arricchito sull’orlo interno da una raffinata bordatura, ricavata da un ricamo di manifattura siriaca con l’immagine di una danzatrice che, ripetendosi, «volteggia» ai lati dell’albero della vita: un motivo facilmente ricollegabile alle personificazioni della primavera tipiche dell’oreficeria sasanide. L’abbazia dell’Amiata era molto legata ai sovrani franchi, tanto che Carlo Magno in persona sarebbe passato di lí, rimanendo ospite dei monaci per qualche tempo. Ed è certo che una guarnizione della casula presentava, ricamato in per-
le, il nome di un papa Giovanni, da identificarsi con quel Giovanni VIII (872-882) che era in rapporti di amicizia con l’abbazia stessa e che, soprattutto, consacrò imperatore il predetto Carlo il Calvo (875): un sovrano che, in fatto di vestiario, si distinse assai dal nonno Carlo Magno. Conoscitore del greco oltreché del latino, come suo padre Ludovico il Pio, Carlo volle assumere una solenne veste cerimoniale nelle assemblee e nelle ricorrenze festive, secondo gli usi della corte bizantina. Come attesta il vescovo Incmaro di Reims, il popolo non gradí molto queste sue predilezioni, e lo accusò di essere vanitoso. Ma era inevitabile che la diffusione delle materie e delle manifatture preziose negli ambienti di corte influenzasse anche il «look» dei sovrani. All’inizio della storia della monarchia francese, la regina Clotilde, moglie di Clodoveo, in occasione del battesimo del figlio Ingomiro (494 circa), fece guarnire di sete la chiesa prescelta, e fece confezionare paramenti di lusso per i celebranti: lo sfarzo era tutto concentrato sulla liturgia, ed era offerto alla gloria di Dio. Carlo il Calvo, con il suo abbigliamento «alla greca», ruppe la severa tradizione dei sovrani della propria stirpe. I fasti del Re Sole non erano poi cosí lontani… V
Da leggere U Loretta Dolcini (a cura di), La
casula di San Marco papa. Sciamiti orientali alla corte carolingia, S.P.E.S., Firenze 1992 U La seta e la sua via, catalogo della mostra, a cura di Maria Teresa Lucidi, De Luca, Roma 1994 U Michael McCormick, Le origini dell’economia europea. Comunicazioni e commercio, 300-900 d. C., Vita e Pensiero, Milano 2008 U Xinru Liu, Lynda Norene Shaffer, Le vie della seta, Il Mulino, Bologna 2009
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Sulle orme del sommo poeta
cartoline • Affacciata sulla Riviera ligure di Ponente, Noli
è oggi nota soprattutto come località balneare. Il suo, però, è un passato ricco anche di storia, i cui fasti sono testimoniati da importanti architetture civili e religiose
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ittadina balneare della Riviera ligure di Ponente, Noli conserva pressoché integro il suo centro storico, che si rivela come un autentico museo a cielo aperto. Segnalata tra i borghi piú belli d’Italia e lambita da un mare cristallino insignito della Bandiera Blu, la cittadina, situata a una quindicina di chilometri da Savona, sino al XII secolo veniva indicata nei documenti con le forme Naboli o Nauli, molto probabilmente derivate da Neapolis, ossia «città nuova». Per la sua fondazione si ipotizza un’origine bizantina – seppur ridimensionata dal rinvenimento di materiali risalenti all’età imperiale romana in recenti scavi –, basata sulla vicinanza e integrazione distrettuale con la limitrofa Varigotti e sulla presenza del culto di derivazione mediterranea di san Paragorio e dei suoi compagni Parteo e Partenopeo, che, nella tradizione
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medievale, richiamava anche la rotta maestra seguita dai naviganti tra Napoli, la Corsica e la Liguria. Certo è che l’abitato, cardine nel sistema difensivo del «limes» italico, rafforzato anche per fronteggiare l’avanzata dei Longobardi, venne ampliato nel VI secolo con la dominazione bizantina in Liguria. Divenuto sede di un Comitato autonomo fra l’VIII e il X secolo,
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nel pieno della lotta ai Saraceni che infestavano le coste, il territorio nolese, incuneato tra i pivieri di Finale e Vado, comprendeva: Spotorno, Bergeggi e l’isola e abbazia di S. Eugenio, rifugio monastico fin dall’età tardo-romana.
Una chiesa tra gli alberi Considerata una delle emergenze monumentali piú rilevanti della regione, la chiesa suburbana di S. Paragorio, al centro di un percorso archeologico didattico che ne illustra le diverse fasi architettoniche e le vicende insediative succedutesi
nell’area circostante, è il punto di partenza del nostro tour. Protetta da un recinto alberato e definita da caratteri tipologici riferibili al «protoromanico lombardo», la basilica è decorata in facciata da scodelle in ceramica murate di provenienza islamica risalenti all’XI-XII secolo (sostituite da copie per motivi di conservazione) e nelle pareti laterali da lesene e archetti, suddivisi a gruppi di tre e quattro ai lati, binati in corrispondenza dell’abside maggiore. Sul fianco sinistro un portale, preceduto da un bel protiro trecentesco,
«Vassi in Sanleo e discendesi in Noli...» Nel 1306 Dante, diretto in Francia, percorrendo il sentiero tracciato sulle alture sovrastanti Noli, ammirò la turrita repubblica. Se ne ricordò durante la stesura del Purgatorio, nel IV Canto ai versi (25-27): «Vassi in Sanleo e discendesi in Noli / montasi su in Bismantova e ‘n Cacume / con esso i piè; ma qui convien ch’om voli». Organizzata ogni anno a primavera inoltrata, la Passeggiata Dantesca di Noli, arricchita con varie manifestazioni collaterali, propone un originale percorso alla scoperta del centro storico cittadino e del notevole patrimonio ambientale e architettonico disseminato tra i colli retrostanti, compresi nel Parco naturale regionale delle Manie. Quest’anno l’appuntamento è previsto per domenica 27 aprile. In alto una veduta panoramica di Noli (Savona), cittadina della Riviera ligure di Ponente il cui centro storico conserva pressoché inalterata la fisionomia assunta nel corso del Medioevo. A sinistra i resti del castello sorto sulla cima del Monte Ursino, chiuso da una cinta muraria a forma di poligono irregolare e dominato da una poderosa torre circolare.
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caleido scopio La pesca, una tradizione antica Fino agli anni Sessanta del Novecento Noli era un importante centro di pesca, commercio e lavorazione del pesce. Oggi i pochi pescatori rimasti, fieri della millenaria vocazione marinara, sono gli eredi di un’importante e antichissima tradizione legata alla pesca costiera, quella con la «rete a sciabica». Un tempo ogni spiaggia del Ponente ne aveva un esemplare, ora sopravvissuto in pochissime località, di cui Noli è uno sparuto esempio. Probabilmente d’origine araba questo secolare attrezzo è formato da due parti principali: la manica (sacco), un cono a maglie fitte in fondo al quale si raccoglie il pescato, e due bande (o ali) a maglie progressivamente piú larghe, a cui si collegano i cavi di traino, detti sciabicotti. La messa in opera avviene con la barca a remi. Fissata l’estremità di un cavo a riva, i pescatori «filano» la rete, percorrendo in mare un ampio semicerchio e portando l’altro capo nuovamente a riva, a circa 100 m dal primo. Compiuta quest’operazione inizia il tiro a mano, lento e continuo dei pescatori dalla spiaggia; trascinando la sciabica sulla battigia si chiude il semicerchio e i pesci rimangono nel sacco. A Noli restano impigliati anche i cicciarelli (gymnammodites cicerellus), argentei pesciolini, affusolati e privi di squame che, chiamati dai locali lüssi o lussotti, vivono in grossi banchi sia vicino alla costa che al largo, fino a 120 m di profondità, e, facile preda di pesci carnivori e uccelli acquatici, si difendono nascondendosi sotto la sabbia con movimenti rapidissimi. Tutelati da un apposito presidio Slow Food, istituito in collaborazione con la Regione Liguria nell’ambito di una campagna a favore della piccola pesca come risorsa culturale, turistica ed economica questi pescetti azzurri, lunghi quanto le dita della mano, vengono venduti freschi. La tradizione gastronomica locale vuole siano consumati senza alcuno scarto in piatti di frittura di pesce o conservati «allo scabecciu», ossia al carpione, dopo essere stati essiccati, fritti e riposti in barattoli con un’emulsione di aceto e sale.
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fiancheggiato da tombe ad arcosolio del XIII-XIV secolo, conduce all’interno. Che, scandito in tre navate da massicci pilastri a sezione composita con arcate a doppia ghiera e terminante in tre absidi prive di transetto, è custode nel presbiterio della cattedra vescovile tradizionalmente appartenuta al primo vescovo nolese e nell’altare del «Volto Santo», un superbo crocifisso in legno policromo, realizzato nella seconda metà del Duecento.
Dalle case in legno al primo borgo La chiesa cela però altre preziose sorprese. Sotto al tempietto altomedievale di S. Paragorio (XI secolo), infatti, si trova ancora il precedente edificio battesimale, databile alla fine del V o agli inizi del VI secolo e costituito da un ambiente monoabsidato con vasca ottagonale a fonte circolare. Accanto a questo luogo di culto, nel periodo tardo-antico e altomedievale, si svilupparono un’area funeraria con tombe privilegiate, una necropoli rimasta in uso fino al tardo Medioevo e un aggregato demico separato dal battistero tramite un camminamento inclinato verso il mare. Gli ambienti abitativi contigui, formati da case di legno con perimetrali in pietra e suoli in terra battuta, furono utilizzati dal V alla fine del X secolo, dopodiché un ulteriore processo di riassetto micro-territoriale, connesso al potere signorile e a nuovi strumenti di pianificazione urbanistica, portò allo sviluppo del burgus murato medievale, alle falde del Monte
Gozzi sulla spiaggia di Noli. Tra i pescatori della cittadina ligure sopravvive l’uso della «rete a sciabica»
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Un’altra veduta di Noli. In secondo piano, al centro, svetta la Torre del Comune, la cui fondazione risale al XIII sec. dall’impianto topografico. Impostato su isolati stretti e lunghi, ortogonali alla costa e raccordati a monte al borgo lineare di S. Giovanni, tutto l’aggregato insediativo risulta protetto da due anelli difensivi collegati a una terza cinta, che racchiudendo l’altura di Monte Ursino, termina in cima con il castello, arroccato sopra la collina.
Il cuore della Repubblica
Ursino. Inizialmente inserita nei domini territoriali dei marchesi del Vasto, poi del Carretto, nell’XI secolo la località, già fornita di una propria marineria efficiente e autonoma, grazie al rapido sviluppo economico e alla precoce vocazione marinaresca, divenne una Repubblica marinara fiorente, tanto da partecipare nel 1098 alla prima Crociata.
Forte, libera e ricca Nel corso del XIII secolo Noli, interposta ai principali centri urbani costieri di Savona e Finale, alleatasi nel 1202 con Genova, riuscí ad affermare la propria indipendenza in campo civile, commerciale e religioso, ottenendo da papa Gregorio IX, nel 1239, il titolo di Cattedrale per la chiesa di S. Paragorio e la sua erezione a Diocesi,
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autonoma sino al 1820. Fortificata, libera e ricca la cittadina visse quindi una condizione privilegiata. La sua agiatezza si avverte ancor oggi varcata la Porta di Piazza, che, situata nel tratto settentrionale dei Portici e della Loggia della Repubblica, nel Medioevo compresa in un lungo porticato con funzioni di passaggio pubblico coperto, ricovero per barche e attrezzi marinari, è l’ingresso principale al nucleo storico. Raccolto e facile da percorrere a piedi è l’epicentro, ingranditosi col tempo all’interno della cinta muraria medievale, nonostante molti dei singoli edifici costruiti tra il XIII e il XV secolo rivelino costanti trasformazioni posteriori, e che presenta pressoché intatto l’antico tessuto urbano, chiaramente riconoscibile
Visibile da ogni angolo della città, la sagoma del suo recinto a forma di poligono irregolare e la sua poderosa torre circolare, circondata da terrazzamenti a fascia coltivati a olivo, domina tuttora su di un mare di tetti, tra cui svetta l’ardito profilo di alcune torri dalla tonalità rossastra dei mattoni, emblema piú significativo della Noli medievale. Fulcro della vita politica ed economica della Repubblica, il Palazzo del Comune, innalzato nei secoli XIV-XV e piú volte rimaneggiato, conserva nella seicentesca sala del Consiglio alcuni frammenti di affreschi tardomedievali. Nelle immediate vicinanze la duecentesca Torre del Comune, innalzata su di un basamento in pietra verde locale, è ornata sulla sommità da merli a coda di rondine. Dal Palazzo del Comune alla Cattedrale la strada è breve. Circondata da significative case medievali del XIII-XIV secolo, decorate con elementi architettonici evidenziati da parziali restauri, resti di torri mozzate, archivolti e graziosi loggiati, la cattedrale di S. Pietro ha mantenuto, sotto la veste barocca, la struttura medievale a grandi conci perfettamente squadrati, ancora evidente sui fianchi. Di notevole pregio è il Tesoro della Cattedrale, che comprende rari oggetti sacri e arredi devozionali quattrocenteschi. Info: Ufficio Informazioni e Accoglienza Turistica, corso Italia 8; tel. 019 7499003. Chiara Parente
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Lo scaffale Angelo Turchini I Malatesta Signori di Rimini e Cesena
Società Editrice «Il Ponte Vecchio», Cesena, 325 pp., ill. b/n
15,00 euro ISBN 978-88-6541-353-1 ilpontevecchio.com
Molto è stato scritto sulla famiglia che, tra il XIII e il XV secolo, ha esercitato il potere su di un territorio vasto, dalla Romagna alle Marche, ma soprattutto tra Rimini e Cesena. Eppure la pubblicazione di uno studio su di una realtà apparentemente conosciuta in tutti i suoi aspetti acquista un valore aggiunto: la storia è solo in parte già scritta, il resto è un costante lavoro di interpretazione. Si delineano, dunque, piú livelli di lettura degli avvenimenti, spesso influenzati dai diversi contesti in cui sono inseriti, e ciò è maggiormente vero quando ci si accosta a personaggi illustri, sempre in bilico tra realtà storica e trasfigurazione
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mitica. Nel caso dei Malatesta, avverte l’autore, ci troviamo di fronte a piú signorie, a una situazione piuttosto complessa che, a differenza di quanto avvenuto per dinastie come quelle dei Gonzaga o degli Este, non si è tradotta in una forma stabile di potere. L’analisi compiuta in questo volume è accurata, e, come dichiarato esplicitamente in sede di premessa, vuole prendere le distanze dal materiale divulgativo dilettantesco che ha spesso danneggiato il lavoro degli storici a favore di un’informazione superficiale ed errata. Ci si può dunque calare in quella che non è semplicemente una storia familiare: si tratta di uno spaccato del mondo sociale, culturale e istituzionale di un’epoca, con elementi di continuità con il Medioevo e, contemporaneamente, contenente i presupposti del futuro; le testimonianze sospese tra documenti storici e riletture tramandate dalla tradizione familiare aiutano a comprendere che «Il pellegrino e il viandante, il guerriero e il mercante, l’artista e il villano, il signore e il cortegiano qui
vivono la stagione del Rinascimento, superano i confini del territorio dando un contributo alla nascita dell’uomo moderno». Giorgio Rossignoli Fernando Rigon Il tetramorfo dei quattro Evangelisti Il prato, Saonara (PD), 158 pp., ill. col.
25,00 euro ISBN 978-88-6336-220-6 ilprato.com
Prima pubblicazione monografica a cura del Centro Studi Medievali Ponzio di Cluny, il volume dà conto della conferenza tenuta da Fernando Rigon, in occasione del corso che l’istituto di Bassano del Grappa ha dedicato alla rappresentazione e alla funzione simbolico-religiosa nell’iconografia delle quattro figure zoomorfe concatenate nel sacro emblema. Un’iconografia che non ci riporta necessariamente alle grandi espressioni artistiche. Anzi, sono forse proprio le
raffigurazioni legate al mondo popolare, cosiddette «minori» e immediate, a costituire un buon punto di partenza per l’analisi di quello che può essere definito il «logo» – nell’accezione moderna del termine – del Verbo nelle Scritture, di cui rappresenta il sigillo riassuntivo, «ipostasi di «parola» (…) non manifesta, ma totalmente integrata anche se sottaciuta». La ricerca prende avvio dall’Adorazione del Bambino nella capanna di Betlemme custodita nella Pinacoteca di Forlí. L’importanza di tale scelta risulta evidente quando ci si rende conto di non essere di fronte a «personaggi piú o meno concreti e a tutti noti», ma ai «simboli astratti dei quattro Evangelisti (...) fissati e codificati a partire dal III secolo». Dopo aver rintracciato le radici dei quattro elementi in cui si fondono, in numerose varianti, sembianze umane e zodia (forme animali), riconducibili ai quattro Viventi, citati nell’Antico e nel Nuovo Testamento, recepiti dal cristianesimo delle origini e associati agli Evangelisti, l’autore si occupa delle diverse disposizioni e combinazioni rintracciabili nell’arte figurativa in cui la
rappresentazione del quadrilatero è stata declinata. Un’appendice illustrativa arricchisce un’opera di stampo «pionieristico», focalizzata su di un elemento figurativo di cui è difficile trovare trattazioni approfondite, eppure ricorrente, in una sorta di «ciclicità» che mirava a racchiudere in sé la forma indissolubile e unica del messaggio evangelico. G. R. Sergio Tognetti I Gondi di Lione Una banca d’affari fiorentina nella Francia del primo Cinquecento
Leo S. Olschki Editore, Firenze, 146 pp.
18,00 euro ISBN 9788822262851 olschki.it
In un panorama, quello italiano, in cui – come denuncia lo stesso Tognetti nella Premessa – la ricerca d’archivio registra una progressiva contrazione, e che vede ridursi la fruizione delle fonti inedite – abbondanti nel nostro Paese e apprezzate all’estero –, va accolta con favore la pubblicazione di questo saggio, dedicato all’attività di un’importante compagnia fiorentina in una delle piazze finanziarie principali dell’Europa del XVI secolo. marzo
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Uno studio di taglio specialistico, frutto del lavoro di analisi di quelle miniere di informazioni spesso trascurate che sono i libri contabili, e che apre il sipario sullo scenario vivace del capitalismo commerciale e bancario del tempo. Ripercorriamo cosí la vicenda di Antonio di Antonio Gondi, che, appena ventenne, approda a Lione agli inizi del secolo e, al
contempo, entriamo nel vivo del «mestiere dell’oro», la carriera a cui venivano avviati i giovani delle grandi famiglie mercantili fiorentine. Seguiamo le vicende del personaggio scoprendo quanto gli «aridi» registri possano rivelare su vita personale, tenore e stile di vita. Per non parlare di quello che indirettamente apprendiamo a proposito della situazione commerciale e delle differenti
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concezioni di borghesia mercantile in Italia, Europa e nel Mediterraneo: tutte le informazioni derivano dall’esame dettagliato delle fonti, tra uno sguardo di insieme e l’approfondimento della enorme messe di dati contabili. Un lavoro nato da «un’esigenza fortemente empirica» che si pone quasi controcorrente rispetto a quello che l’autore lamenta essere un impoverimento del lavoro dello studioso, molto spesso assorbito in improbabili «approcci tematici» che sembrano confluire in un continuo sforzo di «demitizzazione e decostruzione della storia d’Italia (…) con effetti involontariamente autolesionistici». G. R. Marco Cursi La scrittura e i libri di Giovanni Boccaccio
Viella, Roma, 172 pp., ill. b/n e col.
40,00 euro ISBN: 978-88-6728-092-6 viella.it
Lo studio di Marco Cursi analizza Giovanni Boccaccio nella sua veste di copista: una attività a cui dedicò una cura particolare, tanto da costituire quasi un unicum nel panorama letterario del Trecento.
Ne sono frutto numerosi autografi autoriali, nonché editoriali con scelte che cadono su scrittori che spaziano dall’antichità sino ai contemporanei, e con una presenza di autografi che supera di gran lunga il Petrarca, generalmente riconosciuto come l’inventore del libro d’autore; senza contare una grande serie di opere postillate (marginalia) che arricchiscono generosamente il campionario grafico boccaccesco. Nella convinzione che uno studio completo della produzione grafica debba basarsi sull’esame dell’intera produzione dell’autore, a livello diacronico e sincronico, il saggio inizia con la rocambolesca storia delle ricerche e dei riconoscimenti degli autografi boccacceschi a partire dal Settecento; una storia lunga, che ha portato al graduale recupero della fisionomia grafica di Boccaccio nel corso
del XIX secolo. La padronanza di varietà grafiche da parte del Certaldese si rispecchia nell’uso della scrittura posata (una semigotica), che è anche la piú utilizzata, mentre la corsiva è relegata a funzione piú marginali; vi è poi la scrittura «sottile» utilizzata per le postille e infine la scrittura di glossa. Lo studio si sofferma anche sull’uso particolare della «maiuscola distintiva» e delle cifre arabiche, senza omettere aspetti piú particolari come l’uso degli accenti. Un capitolo è dedicato alla copia di opere dantesche che, peraltro, fecero la fortuna del poeta fiorentino, e di cui fanno parte le tre edizioni della Divina Commedia, una testimonianza eccezionale, che permette di tracciare analiticamente l’evoluzione della grafia boccaccesca. Il libro è arricchito da grafici, tabelle comparative e 48 tavole a colori dei manoscritti boccacceschi che illustrano le caratteristiche morfologiche e l’evoluzione della pratica scrittoria di un autore che ha segnato un’epoca in fatto di «editoria» manoscritta. Franco Bruni
Marco Trotta Il Santuario di San Michele sul Gargano dal tardoantico all’altomedioevo
Mario Adda Editore, Bari, 336 pp., ill. b/n e col.
30,00 euro ISBN 9788867170210 addaeditore.it
Luogo sacro tra i piú importanti e ricchi di storia del nostro Paese, il santuario micaelico di Monte Sant’Angelo, sul Gargano, è l’oggetto di questo ampio studio, di taglio specialistico, che ripercorre la vicenda
del monumento in tutti i suoi aspetti principali. Il volume si apre con l’analisi delle testimonianze archeologiche a oggi note e in particolare di quelle riferibili alle necropoli di epoca tardo-antica, al cui utilizzo si lega, con ogni probabilità, la nascita del primo luogo di culto. Da quel momento in poi lo sviluppo del santuario è costante e ne determina la crescita
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Lo scaffale progressiva, che ha uno dei suoi momenti di svolta intorno alla seconda metà del VII secolo, quando la devozione per l’Arcangelo Michele viene fatta propria anche dai Longobardi. La struttura si fa piú ampia e articolata, dando il via a una plurisecolare stagione di rimaneggiamenti, che nel volume vengono seguiti in maniera puntuale e analitica. E uno dei meriti maggiori dell’opera sta proprio nella minuziosa descrizione delle diverse fasi di costruzione e ricostruzione, che dà modo di «leggere» un complesso in cui all’occhio del visitatore si offre un palinsesto di elementi che, dal punto di vista cronologico, sono spesso separati da molte centinaia d’anni. Insieme alla vicenda architettonica, viene sviluppato anche l’esame di quella religiosa, che, oltre a quanto si può ricavare dalle testimonianze materiali, può essere riletta attraverso le notizie riportate dalle fonti scritte. L’esito finale è dunque un ritratto a tutto tondo del santuario, che offre importanti conferme, ma propone anche molte novità importanti sulla sua storia. Stefano Mammini
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Walfredo Siemoni Santo Stefano a Empoli La chiesa e il convento degli Agostiniani
Edizioni Polistampa, Firenze, 200pp., ill. col.
32,00 euro ISBN 978-88-596-1329-9 polistampa.com
Nel corso della seconda guerra mondiale aveva rischiato la distruzione e all’indomani del conflitto era stato adibito a caserma e poi a deposito: queste, in brevissima sintesi, due delle tappe della travagliata
storia moderna del complesso formato dalla chiesa e dal convento di S. Stefano a Empoli. Che ha poi cominciato a vivere, finalmente, una nuova e piú serena stagione. Gli Agostiniani, che ne furono i titolari, ottennero l’autorizzazione alla costruzione della chiesa nel 1367 e, da allora, la vicenda dell’edificio e dell’annessa struttura conventuale è stata cadenzata dagli interventi di molti
artisti importanti, di cui solo in parte, tuttavia, si sono conservate tracce tangibili. Il volume opera, quindi, una sorta di ricucitura, ripercorrendo la storia del complesso, documentandone il patrimonio artistico e architettonico giunto fino a noi e, soprattutto, cercando di ricostruirne la fisionomia assunta nel corso del tempo. Un’operazione, quest’ultima, che Walfredo Siemoni compie segnalando tutte le opere che, per motivazioni diverse, sono andate perdute. Merita d’essere segnalato l’ottimo corredo iconografico, che documenta in maniera esemplare un monumento senz’altro meritevole di una notorietà ben piú vasta dell’ambito locale. S. M.
DALL’ESTERO Joana Barreto La majesté en images Portraits du pouvoir dans la Naples des Aragon
École française de Rome, 500 pp., ill. col.tav.
46,00 euro ISBN 978-2-7283-0974-00 publications.efrome.it
Lo studio di Joana Barreto si sofferma sulla dinastia aragonese a Napoli a partire dall’arrivo
di Alfonso V in Italia, nel 1420, sino al 1495, anno della sconfitta subita dalle truppe francesi, e al successivo passaggio al dominio vicereale spagnolo nel 1503. In questi sessant’anni di presenza aragonese, Napoli conosce un periodo artistico florido, con un’apertura alle nuove correnti artistiche dettate dall’Umanesimo; la città diviene un importante punto di approdo o trampolino di lancio per numerosi artisti (Pietro di Martino, Francesco Laurana, Pisanello, Paolo Romano, Giuliano e Benedetto da Maiano, ecc.), che nella corte aragonese trovano un luogo favorevole e mecenati ben disposti verso un linguaggio moderno e rappresentativo della corona. Ripercorrendo le tracce artistiche superstiti e la documentazione esistente – molti cicli affrescati del XV secolo sono andati purtroppo perduti –, l’autrice analizza sia la produzione pittorica e scultorea, sia quella ceramica e numismatica, incentrando le sue riflessioni sulla questione della ritrattistica reale e della sua portata politica. Una
produzione che, in realtà, circolò prevalentemente entro la stretta cornice della corte e delle élite che la circondavano, favorendo la creazione di un modello «napoletano» atto a esprimere la singolarità dello statuto monarchico aragonese all’interno di un’Italia «governata da condottieri». Una produzione, quella napoletana, che in questo periodo si dimostra attratta dall’arte fiamminga e
dalle innovazioni del linguaggio fiorentino, con uno sguardo attento all’antichità, espresso dal recupero di modelli quali l’arco di trionfo e il ritratto «all’antica». Chiude questo brillante studio, un ampio corredo iconografico a colori che illustra la variegata produzione artistica partenopea, dalla pittura alla scultura, passando per la produzione miniata sino a quella numismatica e ceramica. F. B. marzo
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Note melanconiche musica • Due recenti antologie esplorano la ricca produzione dei compositori
inglesi John Dowland e John Danyel e offrono una testimonianza significativa delle atmosfere musicali che caratterizzarono l’epoca elisabettiana
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edicate al repertorio per liuto e voce, due registrazioni incentrate su John Dowland e John Danyel offrono un saggio del gusto tutto elisabettiano per questo medium vocale/strumentale, che, nella seconda metà del Cinquecento, ebbe un grandissimo sviluppo grazie alla rapida diffusione in territorio anglosassone della moda italiana rappresentata dalla monodia accompagnata. Questa full immersion nel clima musicale tanto caro a Dowland, caratterizzato da atmosfere melanconiche che ne fanno l’esponente per eccellenza del lamento musicale, si apre con John Dowland & Friends. Earth, Water, Fire and Air (Lute Songs) (ALC 1223, 1 CD, musicalconcepts.net). Sebbene non manchino momenti piú briosi – è il caso del primo ascolto, Come Again –, è in brani come From Silent Night, Sorrow Stay o In Darkness Let Me Dwell che emerge il senso di struggente intimità della sua musica. Uno stile che influenzò molti colleghi di Dowland e che ritroviamo in brani come Cease Sorrows Now di Thomas Weelkes, o Deep Lamenting di Thomas Morley, presenti nell’antologia. Con un approccio profondamente legato al contesto poetico, lo storico gruppo inglese The Consort of Musicke, diretto dal liutista Anthony Rooley, dà prova di una perfetta padronanza dello stile di Dowland e dei suoi contemporanei, dando voce, attraverso le varie combinazioni possibili – da una a cinque voci con l’accompagnamento del liuto – a un esempio di approccio interpretativo straordinario, e ancora oggi insuperato per questo repertorio.
Carriere parallele Pregio dell’antologia John Danyel. Like as the lute delights (STR 33903, 1 CD, stradivarius.it) è quello di dare spazio a un autore meno noto, ma dotato di
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notevoli qualità artistiche e capace di esprimere uno spiccato senso melodico, fortemente imparentato con quello di Dowland. Al quale è accomunato dalla vicenda professionale: di un anno piú giovane, era nato nel 1564, anche Danyel cercò a piú riprese di ottenere un incarico alla corte di Elisabetta, ma, come Dowland, vi riuscí solo negli ultimi anni di carriera, sotto il regno di Giacomo I. Di lui vengono proposte songs per voce e liuto che ci riportano allo stile e alle atmosfere musicali già ascoltate nella precedente registrazione. Tra gli elementi originali di alcuni dei suoi brani vi è l’uso del cromatismo, enfatizzato da passaggi in semitono nella parte vocale che crea linee melodiche di suadente bellezza: è il caso di No, Let Chromatic Tunes. Inequivocabile è la vicinanza stilistica con lo stile melanconico di Dowland, a cui Danyel ricorre anche con citazioni dirette: è il caso, per esempio, del noto tema del brano liutistico Lachrimae di Dowland, impiegato in brani come Dost Thou Withdraw Thy Grace?, I Die Wheas I Do Not See e Eyes Look No More, nei quali la citazione è da intendere come atto di omaggio nei confronti del collega. Le composizioni sono qui affidate a una voce solista, quella del controtenore Michael Chance, interprete storico di questo repertorio e voce di falsetto per eccellenza, caratterizzata da una dolcezza di emissione davvero eccezionale. Lo accompagna in questo straordinario viaggio Paul Beier, altro grande interprete della letteratura liutistica. Franco Bruni
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caleido scopio
«Fiore dei fiori» musica • Compositore, ma
anche letterato, Guillaume de Machaut fu una delle personalità di spicco della cultura francese trecentesca. Una mente eclettica, di cui l’Orlando Consort esalta alla perfezione l’estro creativo
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ssorto nella scrittura o nell’atto di comporre musica, alcune preziose miniature francesi conservate alla Biblioteca nazionale di Francia a Parigi, ci mostrano il poeta Guillaume de Machaut nelle attività che maggiormente hanno contribuito a renderlo famoso nelle corti di tutta Europa. L’eclettico letterato-musicista francese, nato nei pressi di Reims nel 1300 e ivi morto nel 1377, è una delle piú grandi figure della lirica francese trecentesca; un’attività che andò di pari passo con quella di canonico al servizio della corte boema di Giovanni di Lussemburgo e successivamente di Carlo II re di Navarra. Una vita intensa, ricca di viaggi al seguito della corte, che contribuí ad accrescerne la fama internazionale e a rendere i suoi lavori ricercatissimi.
Un autore prolifico Autore di circa 400 poemi, di cui molti messi in musica, Guillaume de Machaut è anche uno dei compositori piú rappresentati nei codici musicali del Trecento, con una produzione che ha spaziato in tutti i generi poetico-musicali dell’Ars nova: ballate, rondeaux, virelais, lais,
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complaintes chants royaux; senza dimenticare la celeberrima Messe de Notre Dame, primo esempio di ciclo completo di messa polifonica. Dalla vasta produzione letteraria emergono anche alcuni poemi narrativi di particolare rilievo come Le Remède de Fortune e Le Voir Dit. A quest’ultimo è dedicata la raccolta Machaut. Songs from Le voir dit (CDA67727, 1 CD, hyperionrecords.co.uk). I brani selezionati ripercorrono tutte le forme in auge nel Trecento, ma colpisce soprattutto il riutilizzo del genere del lai, particolarmente adottato nella letteratura trobadorica ma caduto in disuso nel XIV secolo, e che ritroviamo nel Lay de Bon Esperance (Longuement me sui tenus): il solo brano monodico dell’album, di grande modernità ed efficacia espressiva, realizzata attraverso una complessità metrica e musicale che rappresentano un vero e proprio tour de force compositivo. Accanto a questo lai, gli altri brani sono composti nella forma della ballata o del rondeau, generi di origine popolare legati all’azione coreutica, riqualificati attraverso un linguaggio metrico raffinatissimo a cui si associa un’altrettanta
eleganza compositiva. Un linguaggio musicale cosí ricercato non poteva avere interprete migliore dell’Orlando Consort, gruppo inglese formato dal controtenore Matthew Venner, i tenori Mark Dobell e Angus Smith e il baritono Donald Greig.
Intensità ed equilibrio Voci limpide, calde, evidentemente a loro agio nella frequentazione del repertorio tre-quattrocentesco, a cui hanno dedicato numerose incisioni discografiche. Di particolare pregio è l’esecuzione del summenzionato Lay de Bon Esperance, affidata ad Angus Smith; un brano della durata di 21 minuti, in cui la voce, senza accompagnamento, si snoda con convincente intento interpretativo attraverso un percorso melodico di grande bellezza. Grande è l’equilibrio vocale delle quattro voci che interagiscono nei brani a 2/3/4 parti, con melismi preziosi e un approccio consono alla grande musica di Machaut, un compositore che il grande poeta Eustache Deschamps definí, non a torto, il «fiore dei fiori di ogni melodia» e «dio terreno di ogni armonia». F. B. marzo
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Nel segno del mottetto musica • Una scoperta d’archivio è all’origine di un’incisione pregevole, che getta
luce sulla produzione musicale tedesca del primo Rinascimento, grazie a una scelta di brani che testimoniano la varietà di generi e di stili allora in voga
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itrovato negli archivi municipali della città tedesca di Stralsund, il manoscritto musicale 229, datato 1585, è una testimonianza preziosa del panorama musicale sacro del primo Rinascimento. I suoi brani piú rappresentativi sono ora confluiti nell’antologia Petitiones Cordis. Music from Manuscript 229 (1585), in the Stralsund Municipal Archives (RAM 1208, 1 CD, ramee. org) che propone l’ascolto di mottetti polifonici a 4, 5 e 6 voci, grazie ai quali possiamo seguire lo sviluppo di questo genere lungo un arco che va dalla seconda metà del Quattrocento alla metà del secolo successivo. Ottime sono la scelta e la varietà degli stili musicali e dei compositori coinvolti: tutti provenienti dalla scuola musicale franco-fiamminga benché tutti, piú o meno, influenzati da una diffusa «italianità» che si esprime nel gusto per un melodismo accentuato rispetto al verticalismo dell’intreccio polifonico piú complesso.
Eucharius e gli altri A omaggiare Stralsund, apre la rassegna il mottetto di Eucharius Hoffmann, cantore originario della città tedesca, ma non mancano presenze ancor piú illustri come i grandi fiamminghi Josquin Desprèz, Heinrich Isaac e Jacques Arcadelt. A dispetto dell’approccio asettico che talvolta caratterizza le
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esecuzioni di polifonia antica, la Schola Stralsundensis, gruppo vocale/strumentale diretto da Maurice van Lieshout, eccelle in senso opposto, offrendo un’interpretazione in cui ogni singola parola, ogni frase, e l’intero discorso musicale si fanno portavoce di una lettura intensamente vissuta e padroneggiata. Tutte le sfumature suggerite dal testo vengono colte grazie a un’emissione vocale particolarmente curata che lascia spazio, in alcuni brani, a un’interpretazione strumentale o vocale/strumentale
intensa e caratterizzata da una profonda sensibilità musicale. Un altro elemento di interesse di questa incisione è infatti la scelta di accompagnare le quattro voci soliste con strumenti quali flauti traversi e a becco, viole, dulciana e organo, secondo una prassi ben diffusa nelle cappelle di corte, dove le parti vocali erano raddoppiate ovvero rimpiazzate dagli strumenti, creando una mutevolezza di colori e impasti vocali-strumentali sempre diversi, ben esaltati in questo contesto. F. B.
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