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Mens. Anno 18 n. 5 (208) Maggio 2014 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
MEDIOEVO n. 5 (208) maggio 2014
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misteri
Il Purgatorio di San Patrizio
milano eretica
La profezia di Guglielma
L’età degli zingari
dossier
sommario
Maggio 2014 ANTEPRIMA
protagonisti
restauri L’ultima fatica Azzone, devoto gottoso
Quando lo Spirito si fece donna
musei L’antico nel verde Prato ritrova il «suo» museo
Guglielma la Boema 6 8
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COSTUME E SOCIETÀ 9 10
il vetro Quell’arte di soffiare sul fuoco di Maria Paola Zanoboni
mostre Variazioni su un tema di successo
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archeologia Non c’è tempo per la pietas
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appuntamenti Medioevo Oggi Il ricordo di un’età felice Quella tassa non s’ha da pagare L’Agenda del Mese
di Roberto Roveda
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Dossier
l’età degli intoccabili gli zingari nel medioevo
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di Renata Salvarani
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STORIE misteri
Purgatorio di San Patrizio
Nella caverna dei dannati di Francesco Colotta
54
32
luoghi saper vedere Arezzo e le storie di Piero di Chiara Mercuri
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CALEIDOSCOPIO
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Lo scaffale
tesori di carta L’imperatore bibliofilo
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libri Le storie bianche
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musica Note fiamminghe Un campione dell’Ars Nova Cantare l’Eneide
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Ante prima
L’ultima fatica restauri • Il fiorentino
Opificio delle Pietre Dure ha riportato allo splendore originario una delle ultime opere di Donatello. Che, tuttavia, mostra intatti l’estro e il vigore del maestro
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onatello aveva piú di settantacinque anni quando, nel 1461, mise mano a una serie di pannelli in bronzo con Storie di Cristo e di San Lorenzo, probabilmente su commissione di Cosimo il Vecchio de’ Medici. Se ne ignora la destinazione originaria; sappiamo, però, che nel 1515, in occasione della visita di papa Leone X, furono montati, sotto le ultime arcate della basilica di S. Lorenzo, su due pulpiti, uno detto della Passione e l’altro della Resurrezione. Proprio questo, collocato sul lato destro, è tornato a splendere, dopo il restauro condotto dall’Opificio delle Pietre Dure, che
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ne ha riportato alla luce la doratura originaria. Le scene illustrano episodi evangelici: le Marie al Sepolcro, la Discesa di Cristo al Limbo, la Resurrezione, l’Ascensione, la Pentecoste e il Martirio di San Lorenzo.
L’età non offusca il genio Fin dal Cinquecento, emersero contraddizioni sulla datazione, la disposizione iconografica e la dislocazione dei rilievi, realizzati
con il prezioso aiuto di Bertoldo di Giovanni e Bartolomeo Bellano, che Donatello, vista l’età avanzata, scelse come principali collaboratori per l’esecuzione. Il maestro si riservò invece il progetto e, forse, la preparazione dei modelli in cera, preliminari alla fusione. Dalla creatività di un uomo stanco, al culmine del suo percorso terreno, nasce un capolavoro pervaso di energia travolgente, in cui la libertà maggio
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Qui accanto Firenze, basilica di S. Lorenzo. Un momento dell’intervento sul pulpito della Resurrezione di Donatello. Nella pagina accanto un particolare del pannello con la Discesa di Cristo al Limbo, prima (in alto) e dopo il restauro. In basso la figura di un soldato, dopo il restauro. di composizione, che denuda e disarticola le figure, ne mostra la forza, ma anche l’emozionante e fragile precarietà. Del resto, fin dagli esordi, Donatello aveva optato per un realismo espressivo che privilegiava la carica sentimentale, l’emotività e il pathos. ll lavoro ai pulpiti occupò l’ultimo periodo della sua esistenza, in una Firenze profondamente mutata, nella quale le predilezioni dei committenti andavano verso la scultura raffinata e priva di eccessi. Una generazione di artisti era scomparsa e, tra questi, anche l’amico Filippo Brunelleschi. E nel 1464 morí anche Cosimo de’ Medici, suo affettuoso protettore, che gli aveva assicurato i mezzi di sostentamento, un vitalizio e addirittura la futura sepoltura proprio in S. Lorenzo, in una collocazione prestigiosa, al di sotto dell’altare, vicino alla sua stessa tomba. Era un legame forte, quello tra il potente banchiere e l’artista, che le fonti ci raccontano taciturno, brusco, ombroso, poco disposto alla piaggeria e alle regole dell’etichetta, prodigo e per nulla attento al denaro.
«Homo raro e simplicissimo» Seppur in solitudine, Donatello continuò a sperimentare, senza lasciare trattati scritti, senza atteggiarsi a grande maestro,
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incisa sul timpano la data del 15 giugno 1465, l’ultima che troviamo in un’opera dello scultore: tuttavia, non sappiamo se si riferisca all’esecuzione del pannello, o a quella del completamento del modello di cera. La scena, con il punto di vista ribassato che favorisce il coinvolgimento dello spettatore, si svolge in un ambiente prospetticamente ben individuato. Il lungo bastone del boia, che spinge il santo sulla graticola ardente, taglia in due la composizione e accentua il pathos, la foga della rappresentazione, ignorando ogni principio di ordine e di armonia nella disposizione dei personaggi, alcuni dei quali fuoriescono dalla cornice e sembrano invadere lo spazio reale. Vent’anni dopo la morte di Donatello, sopraggiunta nel 1466, i pergami erano inventariati come cantorie, mentre successivamente furono dotati delle colonne di mischio che attualmente li sostengono. Mila Lavorini
comportandosi da «homo raro e simplicissimo»; si pose al di fuori di ogni moda e tendenza, proseguendo il suo cammino innovativo, anche quando la malattia, una forma di paralisi progressiva, gli rese difficoltosa ogni attività. Nel pulpito della Resurrezione, nella scena del Martirio di San Lorenzo, è
Lo scorso mese di marzo è venuto a mancare Piero Gamacchio. Aveva 82 anni. Archeologo di formazione, intellettuale raffinato ed eclettico, profondo conoscitore della storia e della cultura del continente africano, nei primi anni Settanta era stato direttore editoriale della casa editrice Lerici, per ricoprire in seguito lo stesso ruolo presso la ERI (Edizioni Rai Italia). Dal 1984, come direttore editoriale della società Editing di Roma, è stato tra i principali promotori delle riviste «Archeo» e «Medioevo», che ha contribuito a fondare, rispettivamente nel 1985 e nel 1997.
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Ante prima
Azzone, devoto gottoso restauri • Al via i lavori
per il risanamento della chiesa di S. Gottardo in Corte, voluta nel 1336 dal signore di Milano e per la quale l’architetto cremonese Francesco Pecorari studiò soluzioni fortemente innovative
L
a trecentesca chiesa di S. Gottardo in Corte a Milano, che rientra nel complesso immobiliare di Palazzo Reale, è stata data in concessione fino al 2031 dal Comune alla Veneranda Fabbrica del Duomo, che riqualificherà il luogo di culto, per farlo rientrare nel percorso di visita legato a Expo 2015. La Fabbrica si farà carico della manutenzione ordinaria e dei restauri, che toccheranno sia la struttura religiosa, sia i locali adibiti a uffici, spazi di deposito e abitazione del rettore, per un totale di oltre 1000 mq. La chiesa nacque come cappella di corte, nell’ambito della campagna edilizia con la quale Azzone Visconti
intendeva dare un volto elegante ai luoghi simbolo del potere politico, a cominciare dal suo palazzo.
Il santo bavarese Nel 1336 il signore di Milano affidò al cremonese Francesco Pecorari la costruzione del luogo di preghiera intitolato a Maria, ma con un altare dedicato a Gottardo, il santo bavarese invocato da chi
soffriva di malattie come la gotta, che spesso colpiva lo stesso Azzone. L’impianto originario ad aula unica rettangolare, articolata in tre campate, era corredato da un’abside che costituiva una novità nell’area lombarda: al tradizionale profilo quadrangolare subentrò quello semiottagonale, ma con dimensioni cosí ampie rispetto all’intero corpo, da suggerire l’idea di uno spazio Milano, chiesa di S. Gottardo in Corte. Lo stemma visconteo posto sul campanile (in alto) e il mausoleo realizzato da Giovanni di Balduccio per Azzone Visconti (in basso).
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L’antico nel verde N
Calco in gesso di una testa di Satiro (oggi perduta) attribuita a Michelangelo.
el 1492, con la morte di Lorenzo il Magnifico, l’equilibrio politico italiano che il principe aveva perseguito comincia ad incrinarsi, fino a portare, due anni dopo, alla discesa di Carlo VIII. Fu l’occasione per accusare di tradimento Piero il Fatuo, signore di Firenze, e per cacciare la famiglia Medici, saccheggiando buona parte delle loro proprietà, incluso il Giardino delle da lui eseguita). Un verde dalla tonalità severa e delicata Sculture di S. Marco che, in breve tempo, perse la sua insieme, desunto dalle pitture di Paolo Uccello, è il colore connotazione originale, fino a sparire. selezionato per le pareti dei due vani e dell’intero settore Il Giardino era stato ideato dal colto Lorenzo, come sede del corridoio di ponente destinato a ospitare la pittura di un’esclusiva scuola di formazione artistica. Statue fiorentina del secondo Quattrocento. antiche, reperti archeologici e disegni Il primo ambiente ospita una selezione di Dove e quando di autori contemporanei riempivano copie di età romana da originali databili l’ambiente, organizzato e sorvegliato tra il V e il III secolo a.C., appartenenti Galleria degli Uffizi alle collezioni granducali e importanti per dall’esperto in «anticaglie» Bertoldo Firenze di Giovanni, già collaboratore di ripercorrere il complesso cammino che Orario ma-do, 8,15-18,50; Donatello, che impartiva agli allievi portò alla crisi di quel linguaggio formale chiusura: tutti i lunedí, idealizzato, contraddistinto da produzioni anche i suoi insegnamenti. Nomi Capodanno, 1° maggio, Natale. come Leonardo, Lorenzo di Credi, «tipologiche». Info tel. 055 2388651; Francesco Granacci crebbero in Lo studio dell’antico è il tema della prenotazioni: Firenze Musei, questa raffinata atmosfera, che ebbe seconda sala, che intende richiamare tel. 055 294883; web: in Michelangelo lo studente piú appunto il Giardino di S. Marco, luogo polomuseale.firenze.it prestigioso. che si connotò come superbo esempio di una tradizione di collezionismo di antichità, finalizzato all’educazione artistica. Una tonalità severa e delicata Le opere allestite ricordano i soggetti visti dai La suggestione dell’antico nella Firenze rinascimentale frequentatori dell’Accademia laurenziana, mentre e la memoria di quel mitico spazio «verde» sono ora i sarcofagi con scene mitologiche come le fatiche di evocate dall’allestimento e dalla scelta cromatica delle Ercole, le teste di Satiro, o il Cupido dormiente riportano sale 33 e 34 nella Galleria degli Uffizi, inaugurate nello ad altrettante sculture realizzate da Michelangelo, scorso febbraio, anniversario dei 450 anni dalla morte proprio in quegli anni di studio. del Buonarroti (protagonista assoluto nella sala attigua M. L. che ospita il Tondo Doni, l’unica opera pittorica su tavola autonomo. La facciata a capanna, con tre aperture, era fiancheggiata dalla torre campanaria ottagonale, maestosamente slanciata, che Visconti volle dotare di uno fra i primi orologi pubblici della città. Dopo averle donato un tesoro molto ricco, il nobile milanese affidò la chiesa ai Francescani.
I rimaneggiamenti moderni L’insieme fu rimaneggiato nel tardo Settecento da Giuseppe Piermarini, chiamato per il rifacimento di Palazzo Ducale e un intervento si ebbe anche dopo il 1925, anno della cessione di Palazzo Reale al Comune di Milano. In questa occasione fu realizzato
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il parziale ripristino dell’assetto originario, grazie al quale si può avere un’idea di come la chiesa di S. Gottardo dovesse presentarsi. Peraltro ne abbiamo la descrizione del domenicano Galvano Fiamma in una cronaca dell’epoca: amboni in avorio, un paliotto con gemme incastonate, un trittico con scolpite le Storie di Maria, ricchi paramenti, affreschi in cui trionfavano lapislazzulo e dettagli in foglia d’oro, conferivano un senso di splendore, che tradiva la passione per il Gotico di Milano e la volontà di guardare oltralpe, in modo particolare alla corte di Avignone. Stefania Romani
Con riferimento all’articolo I due volti di Ugolino (vedi «Medioevo» n. 206, marzo 2014) desideriamo precisare che una parte della storiografia (Muratori, Vecchi, Malispini, Balan, Guglielmotti e Sibilia, per esempio) colloca il luogo dell’attacco del 1241 da parte della flotta federiciana contro quella genovese agli scogli della Meloria, come citato nel testo. Tuttavia, è opinione oggi prevalente che lo scontro navale sia avvenuto presso l’isola del Giglio e, dunque, a diverse miglia di distanza dalla Meloria. Integriamo volentieri il dato su segnalazione dei nostri lettori.
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Ante prima
Prato ritrova il «suo» museo musei • Dopo una lunga chiusura, spezzata dalla
magnifica anteprima di Officina Pratese, il Palazzo Pretorio di Prato riapre al pubblico in via definitiva
I
l momento, tanto atteso, è finalmente arrivato. il Palazzo Pretorio di Prato ha riaperto in via definitiva i suoi battenti, restituito alla funzione di museo che già aveva assunto nel 1912. Nei mesi scorsi, grazie all’esposizione «Da Donatello a Lippi. Officina pratese» (vedi «Medioevo» n. 200, settembre 2013; anche on line su medioevo.it), era stato possibile scoprire i tratti che caratterizzano il nuovo volto del palazzo, ma ora la visione è completa e consente
di apprezzare appieno tanto il contenitore, quanto i suoi contenuti. Per la città toscana, il recupero di Palazzo Pretorio è un traguardo carico di un forte significato simbolico: il monumento, infatti, al di là della splendida collezione di cui torna a essere la casa, è uno dei simboli di Prato, connotato da un valore identitario stratificatosi nel corso della sua lunga storia. Situato nel cuore del centro storico, esso acquisí l’assetto con il quale si presenta
Dove e quando
Museo di Palazzo Pretorio Prato, piazza del Comune Orario tutti i giorni, 10,00-19,00; chiusura: tutti i martedí e il 25 dicembre Info tel. 0574 1934996; web: palazzopretorio.prato.it In alto, sulle due pagine particolare della predella con la Storia della Cintola, parte della pala (oggi dispersa) dipinta da Bernardo Daddi. 1337-1338. Qui sopra il Palazzo Pretorio di Prato, composto da due corpi di fabbrica: uno in laterizi (XIII sec.) e l’altro del secolo successivo. La merlatura e il campaniletto a vela sono aggiunte cinquecentesche. A sinistra polittico dipinto da Giovanni da Milano per lo Spedale della Misericordia, la piú antica istituzione caritatevole della città di Prato. 1355-60.
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Qui sopra santo Stefano, patrono di Prato, e santa Caterina d’Alessandria, particolare di un affresco di Filippino Lippi, staccato dal tabernacolo del Mercatale. 1498. A sinistra Filippo Lippi e bottega, Madonna della Cintola. Tempera e oro su tavola, 1456-1466.
ancora oggi tra il XIII e il XIV secolo, conglobando tre edifici preesistenti e, nella trama dell’architettura, è possibile distinguere le diverse parti originarie, magistralmente unite nella nuova costruzione. Voluto come sede del Podestà cittadino, della magistratura e delle prigioni, l’edificio medievale venne rimaneggiato in epoca cinquecentesca anche a causa di un parziale crollo. Mutando, in parte, le funzioni, mutò anche la
MEDIOEVO
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suddivisione degli spazi interni: i grandi ambienti di rappresentanza e di incontro vennero suddivisi in vani piú piccoli.
La prima rinascita Nuovi danni furono causati nel 1899 da un terremoto, al quale fece seguito una prima rinascita, nel 1912, quando Palazzo Pretorio, come già detto, fu destinato a Museo Civico. Come tale, rimase in funzione sino al 1997 quando,
dovendo soddisfare evidenti esigenze di restauro, le opere furono provvisoriamente esposte nel vicino Museo di Pittura Murale. Oltre che adeguare l’intero edificio alle nuove esigenze di fruizione e di conservazione, il restauro, che, con la riapertura del Museo, è giunto al suo completamento anche funzionale, ha messo in sicurezza la parte muraria e ha riportato all’antica bellezza gli stemmi dei podestà affrescati alle pareti e i meravigliosi soffitti lignei dipinti. Palazzo Pretorio è stato dunque messo nelle condizioni migliori per ospitare i capolavori della sua raccolta, che annoverano tra i loro autori maestri quali Bernardo Daddi, Giovanni da Milano, Donatello, Filippo e Filippino Lippi. Al Palazzo Pretorio e alle opere che è tornato a ospitare «Medioevo» dedicherà presto un piú ampio articolo. (red.)
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Ante prima
Variazioni su un tema di successo
mostre • Bologna
e Siena propongono due illustri versioni della Madonna del Latte, una delle iconografie mariane piú celebrate da pittori e scultori
L’
immagine di Maria, madre per antonomasia, ha conosciuto, nel tempo, numerose declinazioni. Una delle piú suggestive è quella che la vede intenta ad allattare il Bambino: l’immagine che piú di ogni altra esalta il suo sentimento materno. Considerate come discendenti dirette dell’Iside lactans attestata in ambito egizio, le Madonne del Latte sono diffuse nell’arte medievale e rinascimentale ed è attualmente possibile ammirarne due importanti esemplari a Bologna e a Siena. Nel primo caso si tratta della mostra allestita all’indomani del ritrovamento di una replica in gesso del tondo in marmo che orna il monumento funebre del giurista, civilista e canonista imolese Alessandro Tartagni (1424-1477), il cui sepolcro si trova nella basilica bolognese di S. Domenico.
In memoria di un insigne giurista L’opera è venuta alla luce in occasione di lavori di sistemazione del cortile interno del palazzo Tartagni Bianchetti, situato a Bologna in Strada Maggiore 42. Come detto, l’altorilevo riproduce il tondo inserito nella lunetta del sepolcro Tartagni, realizzato interamente in marmo dallo scultore fiesolano Francesco di Simone Ferrucci (1437-1493) per volere dei figli di Alessandro e portato a compimento, secondo gli ultimi studi, tra la fine degli anni Settanta del Quattrocento e la metà del decennio successivo. Il rilievo raffigura la Vergine e il Bambino con una modalità espressiva diretta
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A sinistra tondo in gesso raffigurante la Madonna col Bambino, nell’atto di allattare (particolare nella pagina accanto). Attribuito alla bottega di Francesco Ferrucci, fine del XV sec. Bologna, Opera Madonna della Fiducia. Dove e quando
Esposizione della Madonna del Latte Bologna, Raccolta Lercaro fino al 13 luglio Orario me-ve, 11,00-14,00; sa-do, 11,00-18,00; lu-ma chiuso Info tel. 051 6566.210-211; e-mail: segreteria@raccoltalercaro.it
al coinvolgimento di chi guarda. Maria, con gli occhi socchiusi, volge leggermente il capo verso quello del Bambino, fermando la mano sul seno in un gesto di paziente e tenera attesa. Il Bambino, seduto sulle gambe della madre e in procinto di essere allattato, si volge verso il fedele. È un invito a contemplare il mistero che si compie nel Natale: un Dio che si fa uomo e una madre che lo nutre, stringendolo in un abbraccio affettuoso in cui ogni uomo, interrogandosi sull’origine della propria vita, può ritrovarsi.
Un dipinto «unico» Nei locali adiacenti la Cripta sotto il Duomo di Siena è invece esposta la Madonna del Latte di Ambrogio Lorenzetti, una tempera su tavola che l’artista realizzò intorno al 1340. Proveniente dal Museo Diocesano di Arte Sacra di Siena, il dipinto è ritenuto da alcuni studiosi «unico» nel Trecento per la sua «sacralità umanizzata» e può essere considerato come il paradigma iconografico di questo soggetto. Simbolo della Chiesa, la Vergine nutre con la grazia divina i fedeli in
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A destra Ambrogio Lorenzetti, Madonna del Latte. Tempera su tavola, 1340 circa. Siena, Museo Diocesano d’Arte Sacra. modo che essi possano dare alla luce in se stessi il verbo divino e divenire cosí «altri Cristi». Lo sguardo penetrante del Figlio sembra quasi un invito all’osservatore perché, come Lui, attinga alle sorgenti della salvezza. L’esposizione della tavola nella Cripta è stata l’occasione per realizzare un percorso all’interno del Complesso monumentale del Duomo (Museo e Cattedrale) al fine di illustrare la tematica della Madonna del Latte. Durante il periodo dell’esposizione sono inoltre organizzate visite guidate lungo l’itinerario mariano (Madonna del Latte di Paolo di Giovanni Fei e Polittico di Gregorio di Cecco nel Museo dell’Opera, Altare Piccolomini in Duomo). La mostra offre inoltre la possibilità di estendersi con il percorso Viae, dedicato alla Vergine Maria. L’itinerario comprende, oltre alla Cattedrale, la collegiata di Provenzano e la Basilica di S. Maria dei Servi. (red.)
La Madonna del Latte di Ambrogio Lorenzetti Siena, Cripta sotto il Duomo fino al 31 ottobre Orario tutti i giorni, 10,30-19,00 Info tel. 0577 286300; e-mail: opasiena@operalaboratori.com; web: operaduomo.siena.it
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Ante prima
EDIO VO M E G G
oggi
li strumenti musicali ad arco sono da tempo oggetto di interesse e di studio, mentre assai meno indagata e conosciuta è la figura dell’artefice di questi oggetti, il costruttore di liuti. In Italia si contano oggi circa trecento liutai e archettai. Ma come si diventa fabbricante o restauratore di liuti? Dal Medioevo fino all’inizio del Novecento quest’attività professionale si imparava nelle botteghe, grazie a un consolidato sistema di apprendistato. Poi la formazione dei liutai è stata progressivamente affidata a scuole specializzate. La storia è stata molto discreta nel tramandarci i nomi dei fabbricanti di strumenti ad arco, che hanno reso possibili le straordinarie performance degli artisti. Belacqua, alias Duccio da Bonavia, è il piú antico liutaio del quale abbiamo informazioni biografiche (è morto prima del 1302). A lui Dante ha dedicato un passo nel Purgatorio. Secondo una fonte antica egli: «costruiva chitarre [citharas]
Nella stessa Milano ludoviciana giunse nel 1482 Leonardo da Vinci (1452-1519), il quale si presentò al duca con una lira, che solo lui era in grado di suonare. Se l’arte di fabbricare strumenti musicali è ancora presente con successo nel capoluogo lombardo, si deve alla fondazione di una scuola di liuteria, che ha avuto il doppio merito di riattivare la tradizione cittadina e di richiamare con la sua fama studenti da tutto il mondo. Il primo Corso di liuteria del Comune di Milano risale al 1978, quando la Civica scuola di musica ha istituito, con il supporto di una struttura privata, un corso per la ricostruzione e il restauro di strumenti musicali antichi. Nella «Bottega di Liuteria», inaugurata nel vecchio quartiere artigiano di Isola, alcuni studenti hanno appreso un mestiere di tradizione, iniziando a creare violette, salteri, lire da braccio, spinette e viole da gamba. Un sapiente mix di ricerca e lavoro manuale ha
e altri strumenti musicali, quindi con molta cura ne scolpiva e intagliava i manici e i caviglieri, e talvolta le suonava». Lorenzo Gusnasco da Pavia († 1517) è stato il liutaio di fiducia di Isabella d’Este (1474-1539). Per lei il maestro ha creato molti tipi differenti di strumenti musicali: spinette (all’epoca chiamate «arpicordi» e «clavicordi»), liuti, viole d’arco e un «liuto grande alla spagnola», cioè una «viola da mano» di grandi dimensioni. Nella Milano governata da Ludovico il Moro (1452-1508) marito di Beatrice d’Este (1475-1497), sorella minore di Isabella, lavorava Giacomo da Turate (1443-1513), costruttore di liuti e viole, insieme ai due allievi Pomerio de Monterli di Pallanza e Pietro de Ricchi di Oggiono.
caratterizzato fin dall’inizio la struttura dei corsi, che ben presto si sono trasformati in Civica scuola di liuteria e hanno privilegiato l’indirizzo professionale. La riscoperta di un antico mestiere attraverso l’uso delle nuove tecnologie e la collaborazione con istituzioni culturali, associazioni di categoria e operatori del settore, costituiscono parte integrante dei progetti della Civica scuola di liuteria di Milano. Suddivisa in corsi di formazione professionale, seminari di aggiornamento e corsi per principianti e amatori, la Scuola è frequentata ogni anno da un’ottantina di studenti sia italiani che stranieri. Info: http://civicascuoladiliuteria.it Chiara Parente
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MEDIOEVO
Ante prima
Non c’è tempo per la pietas archeologia • Indagini condotte nell’ambito del
progetto per la realizzazione dei Grandi Uffizi hanno svelato un piccolo cimitero collettivo, realizzato per dare sepoltura alle probabili vittime di un’epidemia
L
e recenti indagini archeologiche condotte nell’area sottostante il Salone di lettura della Biblioteca degli Uffizi hanno permesso di localizzare un piccolo cimitero, apprestato tra il V e il VI secolo. Il sepolcreto ospitò una sessantina di individui e ha restituito l’istantanea di una catastrofe che colpí la Firenze altomedievale. Il contesto che si è presentato agli occhi degli archeologi, infatti, è solo una piccola porzione di un’area cimiteriale vasta, costituita da numerose tombe a fossa multiple, stipate una accanto all’altra. In ognuna di esse i defunti furono deposti pressoché simultaneamente,
o in un brevissimo arco temporale. Le fosse comuni, ciascuna delle quali ospitava almeno 4-5 cadaveri ma anche piú di 10, e scavate dovunque vi fosse spazio disponibile, esprimono la necessità di seppellire rapidamente ogni giorno un gran numero di morti.
In piena emergenza Anche la posizione e la disposizione dei defunti nelle fosse attestano inequivocabilmente una situazione di emergenza. Si osservano infatti caratteristiche di sepoltura frettolosa, spesso senza atti di composizione del cadavere in atteggiamento rituale; sembra
In alto e a sinistra due immagini dello scavo delle sepolture scoperte sotto la Biblioteca degli Uffizi. piuttosto che i defunti siano stati, se non proprio gettati, calati e sistemati di taglio, uno accanto all’altro, con il solo obiettivo di occupare meno spazio possibile. Esclusa l’ipotesi di un eccidio collegabile con le varie invasioni barbariche per l’assenza di traumi mortali da ferita e per l’aspetto delle giaciture (piú fosse comuni in luogo di una sola fossa) e scartata la morte per fame in fase d’assedio o per malattie di lungo decorso, rimane solo la possibilità di una moria imponente e rapida, quale si verifica nel corso di un’epidemia ad alto contagio e a evoluzione acuta e mortale, come per esempio la peste, il colera, la dissenteria, l’influenza. (red.)
Il ricordo di un’età felice appuntamenti • Nola si appresta e
rievocare l’epoca che la vide governata dagli Orsini: una stagione fortunata, che rivive grazie alla testimonianza dello storico Ambrogio Leone 16
N
el 1290, alla morte del conte Guido di Monfort, la contea di Nola passò, per concessione di re Carlo II, nelle mani di Romano Orsini. Con lui iniziò la saggia signoria degli Orsini, che segnò la storia di questa cittadina oggi in provincia di Napoli fino al 1533. Grazie a questa famiglia furono realizzati importanti edifici come la nuova Cattedrale, il monastero di S. Chiara, (segue a p. 18) maggio
MEDIOEVO
Ante prima Immagini del Corteo Storico che attraversa la città di Nola, animato da figuranti che la riportano all’epoca in cui, tra il 1290 e il 1533, fu amministrata dagli Orsini.
il monastero delle Rocchettine, il collegio dell’Annunziata, la chiesa e il convento di S. Francesco dei Minori Osservanti, ma anche il «sedile», ovvero il luogo in cui nobili e cittadini si riunivano per amministrare la giustizia. La stirpe si estinse nel 1533 con la morte di Enrico Orsini, ma a distanza di cinque secoli la cittadina campana li rievoca ancora con vivo apprezzamento, in occasione del Corteo Storico che si svolge solitamente nell’ultimo week end di maggio. Quest’anno, dopo le Serenate serali di venerdí 30 maggio, per tutta la giornata di sabato 31 si svolgerà il Mercato Medievale ispirato al Quattrocento, che vedrà il banco dei cambiavalute con monete d’epoca quali augustali e bisanti, e varie figure artigiane: la ceramista, il mugnaio, lo speziale, il cuoiaio, il fabbro armaiolo, la fucina del conio, il trascrittore amanuense di pergamene con caratteri gotici. Un accampamento militare ospiterà la «giostra della spada teutonica», mentre le strade di Nola saranno animate da altri personaggi quali saltimbanchi, frati, cartomanti, zingare, contadini, nobili e militari
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di ronda. In un’osteria si potranno gustare piatti preparati con ricette medievali accompagnati da un bicchiere di ippocrasso. Di particolare suggestione in piazza Duomo la consegna delle chiavi della città da parte del conte al maestro del mercato.
I progenitori dei Gigli Infine, nella serata di domenica 1° giugno, andrà in scena il Corteo Storico: circa 150 personaggi in costumi del XV secolo usciranno dalla reggia degli Orsini, in piazza Giordano Bruno, annunciati dal suono delle campane. Ad aprire la sfilata saranno i cataletti, progenitori degli attuali Gigli di Nola, altissimi obelischi di legno portati in processione nel centro storico in occasione della principale festa religiosa del paese, in onore del patrono san Paolino, la domenica successiva al 22 giugno. Il Corteo è composto da suonatori di chiarine, tamburini, armigeri, il capitano di giustizia, i paggi con le chiavi della città e la pergamena
delle guarentigie, il maestro del mercato, i bambini di corte, la nobiltà cittadina e del contado, il conte e la contessa, il vescovo con i monaci e i chierici, il banditore e il buffone di corte, i contadini. Fanno da contorno artisti di strada, suonatori, madonnari, danzatori e poeti. La rievocazione si rifà a notizie desunte dal De Nola patria, opera scritta dallo storico e medico nolano Ambrogio Leone, vissuto al tempo degli Orsini. Tiziano Zaccaria maggio
MEDIOEVO
Ante prima
Quella tassa non s’ha da pagare appuntamenti •
Il borgo spagnolo di Sorzano ricorda l’affronto subito nell’VIII secolo da parte dell’emiro di Cordova. Un oltraggio a cui presto posero rimedio due coraggiosi nobili
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orzano è un piccolo borgo con meno di trecento abitanti situato a 17 km da Logroño, capitale della comunità autonoma di La Rioja, nella Spagna settentrionale. In questo antico centro ogni anno, nella terza domenica di maggio (quest’anno il 18), va in scena un suggestivo rito che vede protagoniste un centinaio di fanciulle e ragazze vestite in abiti da sposa. Le «cento donzelle» si recano in processione in onore della Madonna della Hermedaña, a rievocare una leggenda medievale innestatasi sul piú antico rituale romano pagano delle Vestali, le sacerdotesse vergini incaricate di glorificare Cerere, la dea della fertilità, alla quale era dedicato il mese di maggio. Secondo il mito altomedievale, nel 783 Mauregato, figlio illegittimo del re delle Asturie Alfonso I, ereditò il trono grazie al supporto di Rahman I, emiro di Cordova, il quale chiese un tributo pesantissimo in cambio della sua collaborazione: un centinaio di fanciulle per il suo harem. L’orribile concessione, però, non durò a lungo. Infatti, nel 788, i conti don Arias e don Oveco si ribellarono a Mauregato,
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uccidendolo per aver accordato un simile omaggio ai Mori. Il successore, re Bermudo I, decise di porre fine a questa oltraggiosa «tassa umana», sostituendola con un pagamento in contanti. E tre anni dopo Alfonso II (subentrato a sua volta a Bermudo I) respinse anche il pagamento del tributo in moneta e decise di affrontare militarmente i Mori, sconfiggendoli in battaglia e uccidendo il loro capitano Lutos Mugait. Il fondamento storico della «gabella» di un centinaio di fanciulle non è certo; tuttavia, nei secoli successivi, il racconto di questa vicenda sospesa fra verità e leggenda divenne una metafora efficace del dominio islamico sulla penisola iberica, suscitando le successive reazioni delle popolazioni spagnole.
Agrifogli in fiore Se in epoca romana le Vestali utilizzavano lampade votive per le loro cerimonie, oggi a Sorzano le fanciulle portano in mano rami di agrifoglio in fiore, perché, secondo tradizione, l’immagine della Vergine della Hermedaña fu trovata in una data imprecisa del Medioevo da un pastore che portava un ramoscello
La processione delle cento donzelle che ogni anno, a Sorzano, rievoca il singolare «compenso» preteso dall’emiro di Cordova per il sostegno dato ad Alfonso I, affinché questi ereditasse il trono delle Asturie. di questa pianta. Le giovani, tutte di età superiore ai tredici anni ma non oltre i venti, arrivano anche dai paesi vicini. Con i loro abiti bianchi simbolo di purezza, le cento donzelle si spostano in processione dalla chiesa parrocchiale di S. Martino alla cappella della Madonna della Hermedaña, accompagnate da ballerini che eseguono alcune danze intorno alla statua della Vergine prima della messa. Dopo la funzione religiosa, si procede alla distribuzione di vino. Elevato al rango di «città» nel 1632 da un regio decreto di Filippo IV di Spagna, Sorzano mantiene intatti alcuni interessanti elementi del suo passato. In particolare merita una visita la chiesa di S. Martino, costruita nella prima metà del XVI secolo (torre e sagrestia furono aggiunte del Seicento), al cui interno conserva una preziosa pala d’altare realizzata intorno al 1572. T. Z. maggio
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agenda del mese
Mostre firenze RI-CONOSCERE MICHELANGELO. LA SCULTURA DEL BUONARROTI NELLA FOTOGRAFIA E NELLA PITTURA DALL’OTTOCENTO AD OGGI U Galleria dell’Accademia fino al 18 maggio
Realizzata in occasione delle celebrazioni per i quattrocentocinquanta anni dalla morte di Michelangelo Buonarroti, la mostra affronta il complesso tema del rinnovato interesse e dell’ammirazione per l’artista dall’Ottocento alla contemporaneità, attraverso l’opera di scultori, pittori e fotografi che hanno guardato alla figura del Buonarroti e alle sue opere come riferimento iconografico per le loro realizzazioni. Partendo dalla produzione fotografica realizzata da alcuni tra i piú noti atelier e professionisti del XIX e del XX secolo, viene evidenziato il ruolo determinante che la fotografia ha svolto nel consolidare la fortuna critica e iconografica di Michelangelo e, attraverso di essa, la celebrazione del suo
a cura di Stefano Mammini
mito. Una lettura trasversale, in chiave storico-fotografica, che mette al centro il ruolo svolto dalla fotografia, fin dalle sue origini, nel celebrare uno dei massimi artisti del Rinascimento italiano, e nell’eleggere un ristretto pantheon di immagini di sue sculture a monumenti della memoria collettiva. info tel. 055 2388609; uffizi.firenze.it Venezia L’immagine della città europea dal Rinascimento al Secolo del Lumi U Museo Correr fino al 18 maggio
Gli spazi al secondo piano del Museo Correr si aprono alla rievocazione dell’universo urbano europeo. Il visitatore ha l’opportunità di conoscere l’evolversi e i cambiamenti iconografici che il tema della raffigurazione della città ha subito nel corso dei secoli, dalla visione rinascimentale alla concezione dinamica delle avanguardie del primo Novecento. La mostra raccoglie immagini globali della città, topografie dipinte e
disegnate da mani espertissime, di grande impatto qualitativo e spettacolare, che per secoli sono state l’unico o il piú suadente e immediato mezzo per mostrare la bellezza e la ricchezza delle maggiori città d’Europa. Tavole, tele, incisioni, atlanti e disegni danno vita a un viaggio attraverso il tempo e lo spazio, tra le capitali europee e le città italiane: da quel «monumento xilografico» che è la Venetie MD di Jacopo de’ Barbari alle vedute di Firenze, Roma, Napoli, Genova, Siracusa di Gaspar van Wittel, Didier Barra, Alessandro Baratta, Jacob Philippe Hackert; dalle spettacolari rappresentazioni di Varsavia di Bernardo Bellotto fino agli scorci della Londra del XVIII secolo. info call center, tel. 848 082 000; e-mail: info@fmcvenezia.it; correr.visitmuve.it New York Luce raggiante: vetrate della cattedrale di Canterbury U The Metropolitan Museum of Art, The Cloisters fino al 18 maggio
Sei vetrate policrome della cattedrale di Canterbury hanno lasciato per la prima volta la loro sede naturale: un evento eccezionale, mai prima d’ora verificatosi nella storia del magnifico ciclo, realizzato tra il 1178 e il 1180. La trasferta a New York è stata organizzata in
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occasione del restauro che ha interessato le strutture murarie della chiesa inglese e che ha reso necessaria la temporanea rimozione dei preziosi vetri. Nella sezione medievale del Metropolitan Museum of Art, i Cloisters, sono dunque giunti i ritratti in trono di sei personaggi – Jared, Lamech, Terach, Abramo, Noè e Peleg –, provenienti dal coro della cattedrale, dal transetto orientale e dalla cappella della Trinità: fanno parte di una serie che comprendeva in origine le immagini di 86 antenati di Cristo e che viene considerata come il piú antico ciclo genealogico nella storia dell’arte universale. info metmuseum.org
mostra che in Palazzo Fava ripercorre la storia del Secolo d’Oro della pittura olandese, realizzata grazie ai prestiti concessi dal Mauritshuis Museum de L’Aia, dal quale provengono tutti i dipinti in esposizione. La ragazza con l’orecchino di perla è accompagnata da un altro importante dipinto di Vermeer, Diana e le sue ninfe, e, tra gli altri, da opere di Rembrandt e Frans Hals, Ter Borch, Claesz, Van Goyen, Van Honthorst, Hobbema, Van Ruisdael, Steen. info Call center, tel. 0422 429999; lineadombra.it Treviso Magie dell’India. Dal tempio alla corte, capolavori dell’arte indiana U Casa dei Carraresi fino al 31 maggio
Gli oggetti e le opere d’arte riuniti in Casa dei Carraresi permettono di immergersi nel mondo magico dell’India, godendo di una rassegna che spazia dal II millennio a.C. all’epoca dei Maharaja. Elementi architettonici, miniature, fotografie d’epoca, oggetti di uso rituale e quotidiano, costumi, tessuti, gioielli, accanto a statue e
Bologna LA RAGAZZA CON L’ORECCHINO DI PERLA U Palazzo Fava fino al 25 maggio
Il capolavoro di Vermeer è la presenza piú illustre all’interno della maggio
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bassorilievi sono distribuiti in un percorso espositivo che ricostruisce le tappe salienti della civiltà indiana seguendo due filoni principali, che hanno come centro focale, rispettivamente, il Tempio e la Corte: «L’arte nell’India Classica» e «L’india dei Maharaja». Due poli, quello del Tempio e quello della Corte, che sfuggono al dualismo tipicamente occidentale tra sacro e profano e che nella cultura indiana non sono in alcun modo in contraddizione. info tel. 0422 513150
mostre • Templari: storia e leggenda dei Cavalieri del Tempio U Genova – Commenda di Pré
fino al 2 giugno info tel. 010 5573681; e-mail: templari@fondazionednart.it
BRESCIA MORETTO, SAVOLDO, ROMANINO, CERUTI. 100 capolavori dalle collezioni private bresciane U Palazzo Martinengo fino al 1° giugno
La mostra presenta i piú significativi ritrovamenti compiuti negli ultimi anni, che hanno riportato alla luce capolavori di cui si erano perse le tracce, e propone un viaggio attraverso secoli di storia dell’arte, esplorando le correnti pittoriche succedutesi nel tempo. Tra il XV e il XVI secolo, si è vissuta in Italia una stagione artistica straordinaria, di cui furono protagonisti tre soggetti: gli artisti, i committenti e i collezionisti, legati tra di loro dal comune denominatore del «gusto per il bello». Da un lato, gli artisti, con estro creativo e perizia tecnica, diedero
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A
llestita negli spazi dell’antico complesso dell’Ospitale della Commenda di Prè, costruito nel 1180 come luogo di assistenza a pellegrini e crociati che si recavano o tornavano dalla Terra Santa, l’esposizione illustra il problema templare innanzitutto come eredità storica, partendo dal contesto di questa epoca chiaroscurale e dando particolare rilevanza a due elementi fondamentali nella storia dell’Ordine: il fascino dell’Oriente e il processo contro il Tempio. Documenti, quadri, sculture e oggetti illustrano la nascita, lo sviluppo, la fine e l’eredità dei Templari, lungo il percorso di diverse tappe diacroniche e le gesta dei personaggi che ne hanno fatto la storia. Inoltre, inserisce la figura di Caffaro, un uomo politico genovese che fu in Terra Santa al tempo di re Baldovino I. Lungo il percorso espositivo si snoda una vicenda divenuta epopea, capace di illustrare molti aspetti della nostra storia contemporanea. La nascita dell’Ordine del Tempio, infatti, è uno degli avvenimenti chiave della storia europea: la creazione di una forza, per la prima volta universalmente riconosciuta e riconoscibile, preposta alla difesa dei pellegrini, di un’idea di bene e di valori comuni e condivisi, che da quel momento risulteranno fondanti per i sistemi di governo futuro. La protezione dei deboli, la virtú e l’abnegazione al servizio del compimento del dovere, la subordinazione degli interessi particolari a un concetto di bene universale, rappresentano le nuove parole d’ordine di una comunità del coraggio e della cavalleria. In forza della dimensione internazionale dei Templari e del loro porsi come ordine monasticocavalleresco, questi valori rappresenteranno una delle prime forme «politiche» interpreti del concetto di dovere universale in ambito medievale.
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agenda del mese alla luce opere ancora oggi capaci di emozionare; dall’altro, i committenti, appartenenti alle gerarchie ecclesiastiche, alla nobiltà o alle classi medie arricchitesi col fiorire dei commerci, investirono parte dei loro capitali commissionando dipinti, sculture e arredi destinati ad abbellire chiese e palazzi, ville e castelli; infine i collezionisti, raffinati esteti dotati di una particolare sensibilità per il bello, crearono veri e propri «musei privati», che talvolta, spinti da intenti educativi e da un forte senso civico, donarono alla propria città. info tel. 030 2906403; e-mail: mostre@ provinciadibresciaeventi. com
Conegliano Un CinQuecento inQuieto. Da Cima da Conegliano al rogo di Riccardo Perucolo U Palazzo Sarcinelli fino all’8 giugno
Nel XVI secolo
Conegliano vive un’eccezionale esperienza di cultura e si impone come uno dei cuori culturalmente piú dinamici del territorio veneto. La città, con i suoi dintorni, da Serravalle a Montello fino ad Asolo, per circostanze storiche e territoriali e per la sua ineguagliabile qualità ambientale e paesaggistica, è stata un centro di interessi culturali e testimonianze artistiche e letterarie di singolare ricchezza, luogo di incontri e convergenze dei protagonisti della storia dell’arte: da Cima a Pordenone, da Lotto a Tiziano. Di questo affascinante e inquieto momento storico l’esposizione percorre i tratti salienti, soprattutto negli esiti pittorici, documentando la presenza e gli influssi di alcuni dei protagonisti di una stagione d’arte manifestata in dipinti di ufficiale e di pubblica devozione, opere piú sommesse e
private, decorazioni e prodotti d’arte applicata, stoffe e suppellettili religiose e profane. info uncinquecentoinquieto.it
Ravenna L’incanto dell’affresco. Capolavori strappati da Pompei a Giotto, da Correggio a Tiepolo U Museo d’Arte della città fino al 15 giugno
Risalgono ai tempi di Vitruvio e di Plinio le prime operazioni di distacco, secondo una tecnica che prevedeva la rimozione delle
opere con l’intonaco e il muro che le ospitava. Il cosiddetto «massello», che favorí il trasporto a Roma di dipinti provenienti dalle terre conquistate altrimenti inamovibili, dopo secoli di oblio trovò nuova fortuna a partire dal Rinascimento – nel Nord come nel Centro della Penisola – favorendo la conservazione ai posteri di porzioni di affreschi che altrimenti
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sarebbero andati perduti per sempre. Cosí, in un arco temporale compreso fra il XVI e il XVIII secolo, vennero traslate, tra le altre, alcune delle opere piú importanti presenti in mostra: la Maddalena piangente di Ercole de’ Roberti (dalla Pinacoteca Nazionale di Bologna) e il gruppo di angioletti di Melozzo da Forlí (dai Musei Vaticani). Un modus operandi difficile e dispendioso che a partire dal secondo quarto del Secolo dei Lumi venne affiancato, e piano piano sostituito,
dalla piú innovativa e pratica tecnica dello strappo, prassi che tramite uno speciale collante permetteva di strappare gli affreschi e quindi portarli su di una tela. Una vera rivoluzione nel campo del restauro, della conservazione, ma anche del collezionismo del patrimonio murale italiano. info tel. 0544 482477 oppure 482356; e-mail: info@museocitta.ra.it; mar.ra.it
Londra Il Veronese: splendore nella Venezia del Rinascimento U The National Gallery fino al 15 giugno
Conosciuto come Il Veronese, Paolo Caliari (1528-1588) fu uno degli artisti piú rinomati e ambiti che operavano nella Venezia del XVI secolo. Le sue opere decoravano chiese, palazzi patrizi, ville ed edifici pubblici in tutto il Veneto e sono legati all’idea di fasto e splendore che abbiamo della Repubblica di Venezia di quel tempo. La mostra allestita alla National Gallery (che sarà poi ripresentata in Italia, a Verona, dal prossimo 5 luglio) riunisce le opere provenienti da ogni aspetto dell’attività dell’artista: ritratti, pale d’altare, allegorie e scene mitologiche, che rappresentano il picco della produzione dell’artista per ogni fase della sua carriera. info nationalgallery. org.uk maggio
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Milano Da Gerusalemme a Milano. Imperatori, filosofi e dèi alle origini del Cristianesimo U Civico Museo Archeologico fino al 20 giugno
A 1700 anni dalla promulgazione dell’Editto del 313 d.C., il Civico Museo Archeologico di Milano propone un percorso espositivo che illustra il contesto storico, politico e religioso in cui è nato il cristianesimo e le correnti filosofiche e religiose che interagiscono con il suo progressivo affermarsi tra il I e il IV secolo d.C., nonché i complessi rapporti tra la Chiesa cristiana e il potere imperiale. Accompagnato da un ricco corredo esplicativo di pannelli illustrati che ne spiegano le tematiche, il percorso si apre con la sezione dedicata alla Giudea al volgere dell’era cristiana. Nelle sezioni successive vengono quindi sviluppati altri temi importanti, quali il cristianesimo e le filosofie classiche, l’Egitto tra antichi e nuovi dèi, i culti misterici, i cristiani e l’impero e le origini del cristianesimo a Milano. Quest’ultima chiude idealmente il percorso nella torre poligonale delle mura romane, i cui affreschi del XIII secolo documentano la devozione verso i primi martiri milanesi, a quasi mille anni di distanza dal vescovo Ambrogio, figura
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cardine della Chiesa locale. info tel. 02 88465720 (Direzione Museo) o 02 88445208 (Biglietteria); comune.milano.it/ museoarcheologico; e-mail: c.museoarcheologico@ comune.milano.it londra vichinghi: vita e leggenda U The British Museum fino al 22 giugno
Dopo essere stata presentata a Copenaghen, giunge a Londra una delle piú ricche esposizioni sulla storia dei navigatori scandinavi. Tra gli obiettivi della rassegna, vi è quello di presentare un volto «internazionale» della cultura vichinga ritenuta in passato, erroneamente, come
un sistema chiuso di valori e usanze che riflettevano la posizione di isolamento della penisola scandinava. Oltre a oggetti d’arte e manufatti artigianali di notevole pregio, la mostra propone la ricostruzione integrale della piú grande nave vichinga a oggi nota. Si tratta
dell’imbarcazione scoperta nel 1997 a Roskilde, in Danimarca, e databile agli inizi dell’XI secolo: un legno possente, che misurava 37 m di lunghezza, 4 di larghezza, aveva circa 80 remi e poteva trasportare un centinaio di guerrieri. Degni di nota sono inoltre il tesoro scoperto nel 2007 a Harrogate, nello Yorkshire, e reperti inediti provenienti dalla Norvegia e dalla Russia. info britishmuseum.org
milano Giovanni Bellini. La pittura devozionale umanistica U Pinacoteca di Brera fino al 6 luglio
Il restauro della Pietà di Giovanni Bellini, appartenente alla Pinacoteca di Brera, è l’occasione per
Pescara GRANDI MADRI GRANDI DONNE. Percorsi d’Arte dalla Preistoria al Rinascimento U Casa natale di Gabriele d’Annunzio fino al 30 giugno
La mostra rende omaggio al ruolo della donna come madre, attraverso un suggestivo percorso tra reperti archeologici e opere d’arte del patrimonio abruzzese. Anche nel Medioevo la Madre Terra rappresenta la principale sorgente di vita in questa regione impervia, di montagne, di valli e di orridi, dove è la donna il porto sicuro, il punto fermo di una umanità in perenne cammino con l’alternanza delle lunghe, silenziose e operose tappe di pellegrini, uomini d’arme, mercanti e pastori. info tel. 085 60391; casadannunzio. beniculturali.it
ripercorrere la prima carriera del pittore veneziano, grande protagonista dell’arte rinascimentale italiana, attraverso il particolare angolo di visuale offerto dal suo modo di affrontare il tema del Cristo in pietà, che ricorre con frequenza nella produzione dell’artista e della sua efficientissima bottega. Tra i temi dominanti che come un fil rouge unisce tutte le 26 sceltissime opere della mostra – evidente nel distico di grande commozione della Pietà di Brera – vi è il legame dell’artista con gli ambienti umanistici veneziani, attraverso i quali egli conobbe e sviluppò gradualmente la sua propensione per la rappresentazione degli affetti, della natura, del sentimento, della devozione e della commozione.
info tel. 02 72263.257; e-mail: sbsae-mi.brera@ beniculturali.it; brera. beniculturali.it
Firenze BACCIO BANDINELLI. SCULTORE E MAESTRO (1493-1560) U Museo Nazionale del Bargello fino al 13 luglio (dal 9 aprile)
Per la prima volta, una mostra monografica viene dedicata a Baccio Bandinelli, «Maestro» di un’intera generazione di artisti e che, insieme a Michelangelo, Raffaello, Vasari e Cellini, ci ha lasciato tra i piú estesi carteggi di artefici del Cinquecento. Le sale del Bargello ospitano tutte le sue opere di scultura e di pittura il
cui trasferimento sia possibile, i disegni e le stampe di sua invenzione, bronzetti, medaglie e un raro modello in cera proveniente da Montpellier. Accanto ai capolavori come il Bacco di Palazzo Pitti, figurano, tra gli altri, i
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agenda del mese busti-ritratto di Cosimo I e il magnifico Mercurio giovanile del Louvre; in pittura, la Leda e il cigno (da Parigi), unico dipinto del Bandinelli sicuramente autografo e mai presentato in una mostra, e il celebre Ritratto di Baccio Bandinelli dell’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston. Sono inoltre esposti i rilievi (in marmo, stucco e bronzo, provenienti da vari musei esteri) che gli sono riferiti con certezza, o che direttamente derivano da suoi originali, a confronto con studi grafici preparatori. info tel. 055 2388606; unannoadarte.it FERRARA Ferrara al tempo di Ercole I U Museo Archeologico Nazionale fino al 13 luglio
I lavori di riqualificazione del centro storico di Ferrara hanno permesso di effettuare indagini archeologiche che aiutano a comprendere meglio il complesso palinsesto delle residenze estensi. Gli scavi hanno interessato la piazza Municipale, il retrostante Giardino delle Duchesse e la parte interna del Castello Estense,
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inclusa l’area dei «Camerini d’alabastro», restituendo una notevole quantità di oggetti in ceramica, vetro, metallo, alcuni di eccezionale qualità. Reperti che sono ora protagonisti della mostra ospitata al piano nobile del Museo Archeologico Nazionale. I temi della vita a corte e dell’aspetto del palazzo estense prima della trasformazione avviata da Ercole I, sono illustrati da circa 200 pezzi per lo piú della seconda metà del XV secolo tra cui spiccano, per bellezza e rarità, un’eccezionale coppa su alto piede in vetro, probabilmente usata come fruttiera, e una seconda coppa in vetro verde smeraldo, realizzata a Murano. Notevoli, per numero e qualità, le ceramiche graffite e smaltate che si sommano ad altre importate dall’area mediorientale e dalla Spagna; molto interessanti le mattonelle pavimentali in ceramica smaltata, una serie di frammenti architettonici decorati e numerosi elementi pertinenti a una stufa in ceramica di grandi dimensioni. info tel. 0532 66299; archeobologna. beniculturali.it
Firenze Pontormo e Rosso Fiorentino. Divergenti vie della «maniera» U Palazzo Strozzi fino al 20 luglio
Pontormo e Rosso Fiorentino sono i protagonisti piú anticonformisti e spregiudicati del nuovo modo di intendere l’arte in quella stagione del Cinquecento
italiano che Giorgio Vasari chiama «maniera moderna». La rassegna a loro dedicata rappresenta anche un viaggio attraverso le vite parallele di questi artisti, «gemelli diversi» che, alla fine del loro percorso, arrivarono a un riavvicinamento. Pontormo e Rosso, che hanno reso straordinaria con il loro tratto artistico la prima metà del Cinquecento, nascono da una costola di Andrea del Sarto e con lui si formano, pur mantenendo entrambi
una forte indipendenza e una grande libertà espressiva: uno, Pontormo, fu pittore sempre preferito dai Medici e aperto alla varietà linguistica e al rinnovamento degli schemi compositivi della tradizione, l’altro, Rosso, fu invece legato alla tradizione, pur con aneliti di spregiudicatezza e di
originalità. Uno piú naturalista, vicino a Leonardo, l’altro influenzato da suggestioni michelangiolesche. info palazzostrozzi.org New york Regni perduti: sculture indobuddhiste dell’asia sud-orientale antica. V-VIII secolo U The Metropolitan Museum of Art fino al 27 luglio
Dal I millennio, si registra in Estremo Oriente l’avvento di regni potenti, che fanno
propria la matrice culturale indiana per esprimere la propria identità politica e religiosa: sono quelli di Pyu, Funan, Zhenla, Champa, Dvaravati, Kedah e Srivijaya, che vengono in questa occasione definiti «perduti», perché la loro identità, quando non addirittura la loro esistenza, sono state rivelate in tempi recenti, all’indomani delle prime esplorazioni e dei primi studi epigrafici e archeologici condotti nel XX secolo. Per rappresentarli, il Met ha riunito oltre 150 sculture, in molti casi monumentali, frutto di prestiti concessi da Cambogia, Vietnam, Thailandia, Malesia, Singapore e Myanmar, ai quali si aggiungono quelli del Musée Guimet di Parigi e di altre raccolte statunitensi. info metumuseum.org londra costruire l’immagine: l’architettura nella pittura rinascimentale italiana U National Gallery fino al 21 setembre
Obiettivo dell’esposizione è quello maggio
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di documentare e sottolineare l’importanza di alcuni dei piú riusciti dipinti d’ispirazione architettonica firmati da maestri italiani quali Duccio di Boninsegna, Botticelli o Carlo Crivelli e da artisti loro contemporanei. Si vuole indurre il visitatore a guardare a queste opere con un occhio diverso, per scoprire in che
modo gli spazi fossero stati concepiti dai pittori e come essi avessero reso la concreta realtà delle materie da costruzione, come i mattoni, la calce o il marmo. Attraverso i dipinti selezionati, l’intento è inoltre quello di sfatare il luogo comune secondo il quale l’architettura, all’interno dei quadri,
fosse soltanto uno sfondo, passivo e subordinato alla preminenza delle figure. Le opere esposte dimostrano infatti quanto le composizioni potessero essere spesso imperniate sui motivi architettonici e come essi venissero studiati fin dal primo abbozzo. info nationalgallery. org.uk
mostre • Padova è le sue mura. Cinquecento anni di storia 1513-2013 U Padova – Musei Civici agli Eremitani
fino al 20 luglio info tel. 049 8204551; e-mail: musei@comune.padova.it
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adova riporta al centro di una doverosa attenzione il tema della sua storica cinta muraria – per secoli fortemente identificativa della città – con una mostra che celebra i 500 anni della sua costruzione. Il 1513 può infatti considerarsi l’anno d’inizio dell’edificazione delle nuove mura di Padova – successive a quelle carraresi – sotto la guida di Bartolomeo d’Alviano. La città aveva da poco sostenuto con successo l’ultimo degli assedi conseguenti alla sconfitta di Agnadello (1509) contro le forze della Lega di Cambrai. In quell’occasione le mura carraresi erano state riadattate alla meglio grazie al coraggio e all’ingegno di molti, ma, con la conclusione del conflitto sul campo, si erano create le condizioni per dare forma definitiva, in muratura, alle difese apprestate in forma provvisoria, con opere in terrapieno, nel corso dei quattro anni
di guerra. Molto di quanto s’iniziò a realizzare in quell’anno è giunto fino a noi, integrato dalle aggiunte e modifiche apportate nei quattro decenni successivi. La mostra ricostruisce mezzo millennio di storia delle mura cittadine attraverso reperti archeologici, manufatti, armi e strumenti bellici, disegni, incisioni, preziosi volumi e dipinti antichi, nonché ricostruzioni appositamente realizzate (fotopiani, modellini, video, ecc.). Scopo della esposizione è mostrare e celebrare le mura, ma soprattutto riportarle al centro del dibattito culturale sul futuro della città: non piú soltanto come problema urbanistico, ma come nodo identitario e risorsa per la città.
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agenda del mese trento ARTE E PERSUASIONE. LA STRATEGIA DELLE IMMAGINI DOPO IL CONCILIO DI TRENTO U Museo Diocesano Tridentino fino al 29 settembre
L’esposizione analizza, per la prima volta, il rapporto tra le decisioni assunte dal concilio in materia di immagini sacre e le arti figurative in uno specifico contesto territoriale. In una delle ultime sessioni dell’assise tridentina, la XXV del 3 dicembre 1563, fu infatti promulgato il decreto Della invocazione, della venerazione e delle reliquie dei santi e delle sacre immagini, con il quale la Chiesa assolveva l’uso delle immagini sacre. Richiamandosi alla tradizione, la norma esaltava la funzione didattica delle immagini e stabiliva alcuni principi generali. Sulla base del contenuto del decreto, nei decenni successivi furono pubblicati
numerosi trattati dedicati alle arti figurative a soggetto sacro, all’architettura dei luoghi di culto e alla suppellettile liturgica, testi a prevalente carattere precettistico che svelano la forte preoccupazione della gerarchia ecclesiastica nei confronti dell’attività artistica e la conseguente volontà di riportarla entro i parametri precostituiti e codificati da una superiore autorità religiosa. info tel. 0461 234419; e-mail: info@museo diocesanotridentino.it; museodiocesano tridentino.it
Bath Nuovo Mondo, antiche mappe U American Museum in Britain fino al 2 novembre
Organizzata per salutare la pubblicazione del relativo catalogo ragionato, la mostra si basa sui documenti che fanno parte della
collezione di mappe storiche di Dallas Pratt, uno dei fondatori dell’American Museum in Britain di Bath. Le carte documentano il mutare e l’arricchirsi delle conoscenze geografiche, resi possibili dal susseguirsi dei grandi viaggi di scoperta e di esplorazione alla volta delle Americhe. Tra il XV e il XVII secolo il «volto» del Nuovo Mondo cambiò piú volte e, grazie alle informazioni ricevute dai navigatori, geografi e disegnatori poterno tempestivamente aggiornarne le cartografie. info americanmuseum.org Artegna (UD) Il Castrum Artenia nel ducato longobardo
di Forum Iulii U Castello Savorgnan fino al 13 novembre
La mostra rientra in un piú ampio progetto di valorizzazione del territorio e degli insediamenti castrensi altomedievali della
Appuntamenti Perugia I martedí di San Bevignate U Complesso monumentale di San Bevignate 13 maggio
Il complesso monumentale, di cui è parte integrante la piú importante e piú riccamente decorata chiesa templare d’Italia, costruita tra il 1256 e il 1262, ospita un ciclo di conferenze avviato in occasione del settimo centenario della morte sul rogo a Parigi del Gran Maestro del Tempio Jacques de Molay. L’ultimo appuntamento in programma è il 13 maggio, con Chiara Frugoni, che parlerà sul tema: Diabolus in nubecula. Il diavolo si nasconde nei dettagli. info tel. 075 577.2829-2834; comune.perugia.it Oglianico (TO) XXXIV Rievocazione Storica medievale 1, 3, 4, 9, 10 e 11 maggio
La cittadina
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regione, un progetto collegato ai programmi di sviluppo del sito UNESCO di Cividale del Friuli. Oltre a presentare i risultati delle ricerche archeologiche sul colle di San Martino, viene sottolineata la centralità dei siti castrensi nelle dinamiche di sviluppo del ducato del Friuli nell’Alto Medioevo. info tel. 0432 977811; e-mail: info@com-artegna. regione.fvg.it
piemontese torna agli usi e ai costumi del XIV e XV secolo. Momento clou della rievocazione sono le Idi di Maggio, in programma per domenica 11: una giornata in cui, dal mattino alla sera, si succedono spettacoli, tornei, degustazioni, giochi, che culminano con la battaglia finale, nella quale i rappresentanti dei vari rioni si sfidano in una giostra di forza e abilità. info prolocooglianico.it maggio
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pistoia Dialoghi sull’uomo 23, 24 e 25 maggio
Torna l’appuntamento con il festival di antropologia del contemporaneo, giunto alla sua quinta edizione. Tre giorni di incontri, spettacoli, conferenze e dialoghi in programma nel cuore di Pistoia, per capire e approfondire, con antropologi, sociologi, filosofi, intellettuali italiani e stranieri il tema «Condividere il mondo. Per un’ecologia dei beni comuni». Come ricorda l’antropologo Adriano Favole, «I beni condivisi sono stati per lungo tempo uno dei pilastri delle società agropastorali europee, cosí come continuano a essere fondamentali nella vita di moltissime comunità di interesse etnografico». info dialoghisulluomo.it Italia Giornate Nazionali dell’Associazione delle Dimore Storiche Italiane 24 e 25 maggio
Quarta edizione dell’iniziativa che mira a diffondere una piú ampia conoscenza delle dimore storiche e una maggiore consapevolezza della rilevanza degli edifici privati di importanza
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storico-artistica. Sarà possibile visitare gratuitamente cortili, palazzi, ville e giardini di antiche dimore usualmente non aperte al pubblico, assistendo spesso a eventi culturali correlati quali mostre e concerti. Quest’anno è inoltre previsto, in varie località, il coinvolgimento di numerosi maestri artigiani: marmisti, restauratori, corniciai,
vetrai, ceramisti, bronzisti, argentieri, orologiai, mosaicisti, pittori. Ospiti dei cortili delle dimore storiche, esporranno al pubblico le loro realizzazioni e daranno dimostrazioni delle loro attività. info adsi.it Cividale del Friuli AD 568. Cividale primo Ducato 31 maggio e 1° giugno
Seconda edizione della manifestazione che rievoca l’età
longobarda promossa da La Fara. Nella splendida cornice del Belvedere sul Natisone, gruppi italiani, tedeschi e ungheresi offriranno uno scorcio di VI secolo con scene di vita quotidiana, artigianato, stage di combattimento, archeologia sperimentale, duelli, ricostruzione di rito funebre longobardo. L’evento è realizzato in collaborazione con
Fortebraccio Veregrense e Perceval Archeostoria, ed è patrocinato da «Medioevo». È in programma anche un convegno, presso il Museo Archeologico Nazionale. info ad568.jimdo.com; e-mail: infoad568@lafara.eu firenze Esposizione della Tavola Doria U Galleria degli Uffizi, Sala delle Carte Geografiche fino al 29 giugno
La cosiddetta Tavola
Doria, copia dalla Battaglia di Anghiari, di Leonardo da Vinci, viene esposta con altre tre tavole dipinte del XVI secolo appartenenti alle raccolte delle gallerie fiorentine e raffiguranti copie o derivazioni da invenzioni originali del maestro: Leda col cigno, Sant’Anna Metterza e un’altra versione dell’episodio della lotta per lo stendardo tratto dalla pittura murale con la Battaglia d’Anghiari. L’iniziativa è stata organizzata in concomitanza con il rientro in Italia dell’opera (uscita illegalmente e restituita nel 2012, quale donazione del Fuji Art Museum di Tokyo), che il MiBACT ha deciso di assegnare in via definitiva alla Galleria degli Uffizi. info tel. 055 2388651; polomuseale.firenze.it Siena Porta del cielo U Duomo fino al 6 gennaio 2015
Il Duomo di Siena
riapre la sua «Porta del Cielo». Si può cosí tornare ad ammirare la sommità dell’imponente fabbrica. Il percorso, aperto per la prima volta la scorsa primavera, ha permesso di accedere a una serie di locali mai aperti al pubblico e utilizzati solo dalle maestranze dirette dai grandi architetti che si sono avvicendati nei secoli. L’itinerario permette di camminare «sopra» il sacro tempio e ammirare suggestive viste panoramiche «dentro»e «fuori» della cattedrale. info tel. 0577 286300 (lu-ve, 9,00-17,00); e-mail: opasiena@ operalaboratori.com
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misteri purgatorio di san patrizio
Nella caverna dei dannati
di Francesco Colotta
Una credenza singolare, eppure assai diffusa nel Medioevo, vuole che i peccatori, in viaggio alla ricerca del perdono (e dunque del Paradiso) transitino nelle viscere di un’isola situata nelle acque di un lago irlandese...
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n misterioso itinerario di pellegrinaggio conduceva nel Medioevo verso un’isola sperduta del lago Lough Derg, in Irlanda. Lo compivano in tanti – cavalieri, notabili, comuni fedeli –, malgrado la pericolosità che il viaggio in quel versante nordico comportava. Secondo la leggenda, la destinazione finale era un luogo sotterraneo, in prossimità dell’Inferno, dove alcuni dannati scontavano pene terribili con la prospettiva di conquistare il perdono. Anche i vivi, attraversando quei «gironi» di sofferenza, avrebbero potuto ottenere la remissione di tutti i peccati, qualora non si fossero macchiati di colpe molto gravi.
Miniature raffiguranti Satana e i demoni che tormentano i dannati (a sinistra) e il cavaliere francese Lodovico di Auxerre (detto anche di Sur) che assiste alla punizione dei dannati (a destra), da un’edizione del Viaggio di Lodovico di Auxerre al Purgatorio di San Patrizio. Prima metà del XV sec. Venezia, Biblioteca del Museo Correr.
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misteri purgatorio di san patrizio Ma perché si arrivò a credere che una delle porte dell’Aldilà si trovasse in latitudini cosí fredde e impervie? Tutto cominciò nel V secolo, al tempo del santo irlandese Patrizio: un giorno, Cristo gli avrebbe indicato una caverna, dalla quale si poteva accedere al regno dell’oltretomba. La rivelazione del Messia rivestiva una precisa finalità evangelizzatrice: nelle profondità di quell’antro, chi dubitava della fede avrebbe potuto appurare in prima persona quanto atroci fossero le sofferenze per le anime dei peccatori.
Il mito del Purgatorio
Nacque cosí il mito del Purgatorio di san Patrizio, destinato a divenire un topos letterario e, soprattutto, una delle prime formulazioni articolate della teoria tripartita dell’Aldilà: i condannati all’Inferno, compiendo un cammino di redenzione, potevano accedere alle porte del Paradiso. La tesi un po’ vaga sull’esistenza di un percorso riabilitativo dell’anima, elaborata in tempi piú antichi negli Atti di Paolo e Tecla (II secolo) e da Agostino d’Ippona (354-430), aveva trovato, pertanto, una sua
forma compiuta, anche lessicale. Solo a partire dal XII secolo, infatti, il termine Purgatorium cominciò a circolare con una certa insistenza nel linguaggio comune, proprio in riferimento al percorso sotterraneo irlandese. La prospettiva di concedere un’occasione di riscatto ai peccatori, attraverso una transizione punitiva nella dimora ultraterrena, non trovava opposizioni all’interno della Chiesa, malgrado l’assunto fosse sprovvisto di un preciso riferimento biblico. Anzi, il principio venne accettato favorevolmente come un naturale segno dei tempi, nell’ottica di una maggiore apertura teologica nei riguardi di una società in rapido mutamento, che vedeva crescere d’importanza le ambizioni individuali. L’espressione Purgatorio, legata al nome di san Patrizio, comparve per la prima volta in una biografia sul patrono d’Irlanda, curata da Jocelyn di Furness nel 118083. Nell’opera, tuttavia, la terra di transito degli spiriti non era collocata nel sottosuolo, ma sul sacro monte Croagh Patrick, nella contea di Mayo. Una descrizione piú dettagliata della leggenda fu, in seguito, resa dallo storico gallese Giraldus Cambrensis nella Topographia Hibernica, A sinistra riproduzione moderna di una miniatura raffigurante san Patrizio che apre il suo Purgatorio. La collocazione in Irlanda del luogo di transito dei trapassati nasce da una presunta rivelazione di Cristo al santo irlandese.
San Patrizio
L’evangelizzatore tollerante Il futuro patrono irlandese aveva origini scozzesi. Nato nel 385, venne rapito dai pirati e trascorse la sua adolescenza in una regione dell’odierna Irlanda del Nord, lavorando come pastore. Espresse, ancora giovane, una religiosità precoce, ma in ambienti pagani, e partecipò a riti druidici. Ribellatosi ai suoi padroni, fuggí percorrendo a piedi oltre 180 miglia e, giunto sulla costa, si imbarcò su una nave che aveva come destinazione l’Inghilterra. Rientrato in famiglia, un giorno udí una voce che lo invitava a recarsi di nuovo in Irlanda per convertire gli abitanti al cristianesimo. Decise prima di compiere un viaggio di istruzione religiosa, in Gallia, soggiornando a
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pubblicata nel 1188. Si tratta di un’importante testimonianza che lo scrittore riporta, narrando le impressioni di viaggio in terra irlandese, nel periodo in cui era al servizio di Giovanni Senzaterra, futuro sovrano d’Inghilterra. Da cultore delle usanze locali, lo storico rimase colpito in particolare dai racconti circa una misteriosa cavità che consentiva di accedere al mondo dei morti, tanto da operare successive integrazioni sul tema.
Il reliquiario in bronzo, oro, argento e pietre preziose che custodisce la campana che, secondo la tradizione, sarebbe appartenuta a san Patrizio. VIII-IX sec. (la campana), 1100 circa (il reliquiario). Dublino, National Museum of Ireland.
Nove fosse verso l’ignoto
In base alle narrazioni di Giraldus l’entrata del Purgatorio si trovava nella parte piú oscura e selvaggia della citata isola del Lough Derg, mentre sul versante ameno del suo territorio sorgeva una chiesa abitata da un gruppo di canonici. Nel testo, inoltre, si parla di ben nove fosse, solo alcune delle quali davano accesso all’Aldilà: «Se qualcuno intende passare la notte in una di queste – scrisse il cronista gallese – (cosa che sappiamo per certo essere stata fatta talvolta da persone temerarie) immediatamente viene ghermito dagli spiriti maligni ed è tormentato per tutta la notte con pene tanto gravose, incessantemente afflitto da tante, tanto grandi e tanto indicibili torture di fuoco, d’acqua e di vari generi, che al mattino a mala pena si reperiscono nel suo misero corpo le minime tracce di spirito vitale». Sopravvivendo a questa sorta di martirio, chiunque «non subirà piú le pene infernali».
lungo nel monastero di Auxerre. Nel 432 sbarcò nuovamente in Irlanda e divenne vescovo di Armagh. La sua opera di evangelizzazione fu rispettosa degli antichi culti pagani, che Patrizio, sapientemente, riuscí a armonizzare con la religione cristiana. Prima di morire, compí un lungo pellegrinaggio che lo condusse a Roma. Al patrono d’Irlanda sono legate diverse leggende, oltre a quella del Purgatorio. È diffusa la credenza che il santo, gettando una campana dalla sommità della montagna sacra (Croagh Patrick) sulle acque della Baia di Clew, riuscí a far scomparire tutti i serpenti. Dopo quel prodigio si sarebbero formate le isole che oggi caratterizzano la fisionomia geografica irlandese. Si narra, inoltre, che Patrizio abbia convertito alcune genti di religione celtica, servendosi di un trifoglio per spiegare il concetto di trinità. La sua ricorrenza si celebra il 17 marzo.
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misteri purgatorio di san patrizio Sul luogo della leggendaria caverna sorge oggi una grande basilica Lough Derg, Station Island. Statua moderna che ritrae san Patrizio nelle vesti di pellegrino.
Secondo altre fonti, le nove fosse citate da Giraldus Cambrensis sarebbero state, in realtà, antiche celle di meditazione dei monaci. A ogni modo, non veniva escluso che una di quelle cavità potesse fungere come ingresso nel regno dei morti. Nelle varie testimonianze l’immagine del Purgatorio assumeva quasi sempre una fisionomia infernale, rivelandosi ben distante dalla luminosa terra di transito immaginata da Dante Alighieri, il quale la raffigurò come una scala tesa verso il Paradiso. I racconti sui viaggi nel mondo dell’oltretomba proliferarono soprattutto in ambiente monastico, nonostante la loro antica matrice letteraria fosse perlopiú pagana. Elementi di cultura folclorica, intrisi di leggende e reinterpretati in chiave cristiana, ebbero grande diffusione anche in virtú del fatto che i religiosi non detenevano piú il monopolio della scrittura. Con il
continuità di una tradizione
Tra veglie e digiuni Molti fedeli accorrono ancora oggi sul sito del Purgatorio di San Patrizio, nella contea di Donegal. Tra il 1° giugno e il 15 agosto sbarcano sull’isola del Lough Derg, che rappresenta il piú antico luogo di pellegrinaggio d’Irlanda. Sulla Station Island non c’è piú l’edificio sotterraneo descritto dalla leggenda, ma al suo posto sorge una splendida basilica (dedicata a san Patrizio), insieme a uno sparuto gruppo di case in pietra grigia. I pellegrini, perlopiú giovani, rimangono nel santuario per ben tre giorni, a piedi scalzi e osservano il digiuno. Come nei racconti medievali, anch’essi vegliano per 24 ore, ma senza avventurarsi nelle profondità della terra. I fedeli svolgono una parte dei loro impegnativi riti penitenziali in ginocchio, davanti alle antiche rovine di alcune celle monastiche sulle quali sono piantate sei croci. All’interno della chiesa, invece, trascorrono la veglia notturna.
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Oceano Atlantico REGNO UNITO Irlanda del Nord
Donegal
Clifden
Lough Derg
Dublino Nenagh Kilkenny
Dingle Cork
Mare Celtico
A sinistra cartina dell’Irlanda con la localizzazione del Lough Derg. A destra la caverna del Purgatorio e le strutture penitenziali in una mappa seicentesca della Station Island. In basso, sulle due pagine la Station Island con la basilica sorta nel luogo del leggendario edificio sotterraneo.
passare degli anni fiorí una vera e propria letteratura sull’argomento e, in seguito al moltiplicarsi delle versioni narrative, le coordinate della porta di ingresso della regione ultraterrena divennero sempre piú precise.
L’isola dei maghi
Delle numerose isole presenti nel Lough Derg, due vennero indicate come probabili sedi del passaggio sotterraneo: la Saint’s Island e la Station Island, con una netta preferenza per la seconda. In quel sito, accanto a una cappella, si provvide a costruire un edificio sotterraneo che avrebbe dovuto accogliere i pellegrini nel loro viaggio negli inferi. Il sottosuolo della Station Island era, comunque, considerato sacro fin dai tempi pagani, perché ritenuto residenza dei potenti maghi Tuatha (leggendario popolo della tradizione celtica d’Irlanda, n.d.r.). Alcune testimonianze riferirono che sull’isola prestava servizio un canonico addetto al trasporto via mare dei pellegrini, attraverso una rudimentale imbarcazione composta da un semplice tronco d’albero scavato.
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L’opera medievale che fornisce maggiori particolari sul Purgatorio irlandese è il resoconto del monaco cistercense Enrico di Saltrey (vissuto nel XII secolo), rielaborato in forma letteraria nel Tractatus de Purgatorio Sancti Patricii e dagli storici Matteo Paris e Maria di Francia. Lo stesso racconto del religioso, però, sarebbe il riadattamento di una piú antica testimonianza resa da un cavaliere di nome Owein a un altro monaco, Gilberto. Le numerose stratificazioni evidenziarono gli accenti romanzati della narrazione, risentendo dell’influsso di un certa letteratura visionaria di impatto dichiaratamente divulgativo.
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misteri purgatorio di san patrizio
Il resoconto risalirebbe a un arco di tempo compreso tra il 1135 e il 1154, in un periodo in cui le visite al sottosuolo dell’isola risultavano una prassi ormai consolidata. Il cavaliere Owein si era avventurato nel celebre eremo, in cerca di un radicale e rapido processo di espiazione dei propri peccati. Aveva optato per la soluzione piú estrema, nonostante il parere contrario del suo confessore, che riteneva troppo temerario quell’atto di penitenza. Giunto a destinazione, venne scoraggiato a compiere l’impresa anche dai monaci del luogo, ma non volle desistere.
Owein e i quindici monaci
Owein dovette sottoporsi a un rituale preparatorio prima di accedere al sotterraneo: un ritiro monastico di purificazione, scandito solo da digiuni e preghiere, della durata di quindici giorni. Esaurita la fase propedeutica il cavaliere si avviò all’accesso della caverna, seguito da una processione e, poco dopo, sentí chiudere la porta alle sue spalle. Proseguí nel buio e, dopo qualche me-
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tro, notò davanti a sé un leggero chiarore che proveniva da una costruzione di forma simile a quella di un chiostro. All’interno trovò quindici monaci vestiti di bianco, l’ultimo contatto umano prima di entrare nell’Aldilà. Dai religiosi ricevette ammonimenti riguardo alle orribili scene a cui avrebbe assistito proseguendo nel suo itinerario penitenziale. Solo con una fede salda e con frequenti preghiere sarebbe scampato agli attacchi dei demoni lungo il tragitto. Appena congedatosi dai monaci, Owein fu aggredito da un gruppo di diavoli, che lo trascinarono tra i gironi dei dannati, alle soglie dell’Inferno. Anche il cavaliere avvertí sulla propria pelle tutti i tormenti inflitti a quei peccatori e provava sollievo dalle sofferenze solo invocando Cristo. Le torture a cui assisteva erano agghiaccianti: vide corpi inchiodati a terra che divenivano pasto per belve feroci e altri, invece, arrostiti in spiedi e immersi in metalli fusi. Grazie alle preghiere, l’ospite sfuggí al martirio a cui stava per essere sottoposto nei locali di un edificio maggio
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fumante, che aveva le sembianze di uno stabilimento termale. All’improvviso, poi, si ritrovò sulla cima di un monte, ma le violentissime raffiche di vento lo fecero precipitare in un fiume gelido. Riuscí anche questa volta a salvarsi e mostrò lo stesso irriducibile spirito di sopravvivenza all’interno di un pozzo in fiamme. Dovette infine affrontare la prova piú impegnativa, l’ultima: oltrepassare un ponte pericolante e sottile, sospeso su un abisso affollato di demoni. Lentamente lo attraversò e verso la fine del percorso intravide in lontananza le mura del Paradiso Terrestre.
L’ingresso in Paradiso
Giunse, quindi, all’entrata, al cospetto di un gigantesco portone decorato di gemme che, subito dopo, si aprí. Lo accolsero due arcivescovi, che gli svelarono il significato di quanto aveva visto fino a quel momento lungo il tormentato itinerario: «Questo è il Paradiso Terrestre – rivelarono i prelati – Noi vi siamo giunti perché abbiamo espiato i nostri peccati tra le torture che hai visto pas-
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Todi, monastero di S. Francesco. La redenzione delle anime in Purgatorio, in un affresco attribuito a Iacopo di Mino del Pellicciaio. 1346. Il dipinto mostra l’uscita delle anime dal Purgatorio e il loro passaggio al Paradiso per il
tramite della Vergine Maria e di san Filippo Benizi. Il Purgatorio è una montagna nella quale si scorgono sette caverne, sulla cui cima c’è un pozzo, accanto al quale compaiono san Patrizio e un cavaliere di nome Nicolaus.
sando, e nelle quali siamo rimasti piú o meno a lungo a seconda della quantità delle nostre colpe. Tutti coloro che hai visto nei diversi luoghi penali, fatta eccezione per quelli che sono al di sotto della bocca dell’Inferno, dopo la purgazione pervengono al riposo nel quale noi ci troviamo, e infine saranno salvati». Owein poté, quindi, tornare indietro ripercorrendo in senso inverso il cunicolo sotterraneo. All’uscita trovò il priore dell’attiguo convento che lo attendeva con trepidazione. Prima di rientrare nella sua terra d’origine, il cavaliere si sottopose a un nuovo rito di purificazione,
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misteri purgatorio di san patrizio della stessa durata del primo. Sull’esperienza nel sottosuolo d’Irlanda, riportò dettagli simili il cavaliere Ludovico di Sur, nel Trecento. Nel suo racconto, però, sono alcune bellissime donne a insidiarlo e non un gruppo di orribili demoni.
Realtà o allucinazione?
Testimonianze sul Purgatorio di San Patrizio provengono anche dall’Italia, in particolar modo dalla «missione» del cavalier Malatesta di Rimini, detto Ungaro, il quale, nel 1358, si introdusse nel pericoloso antro irlandese. Non lo fece per espiare le proprie colpe, ma per entrare in contatto con lo spirito dell’amante, brutalmente assassinata dal marito. Dalle cronache risulta soltanto che il cavaliere romagnolo riuscí a compiere il rito di permanenza nel cunicolo, ottenendo dal re d’Inghilterra un’attestazione scritta del superamento della terribile prova. Orvieto, il pozzo di San Patrizio. Si tratta di una grande cisterna per l’acqua con due scalinate a doppia elica, costruita nel Cinquecento da Antonio da Sangallo il Giovane su incarico di papa Clemente VII e «intitolata» al santo solo nel Settecento.
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il pozzo di orvieto
Un capolavoro d’ingegneria idraulica Anche in Italia esiste un’antica cavità che porta il nome di San Patrizio. Si trova a Orvieto ed è una delle piú ingegnose opere idrauliche del Rinascimento. L’enorme pozzo, concepito nel Cinquecento per volere di papa Clemente VII, garantiva a tutta la città l’approvvigionamento d’acqua anche in caso di lunghi assedi. Inizialmente chiamato pozzo della Rocca, per la vicinanza al locale castello Albornoz, assunse nel Settecento il nome del patrono d’Irlanda per una contiguità solo «strutturale» con la caverna della Station Island. La cisterna orvietana ha una forma cilindrica, una profondità di 53 m e un diametro di 13. L’espressione «pozzo di San Patrizio» ha assunto nel tempo il significato di ricchezza inesauribile, probabilmente in riferimento alle enormi riserve d’acqua che l’opera ha garantito alla città umbra.
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Un’altra miniatura tratta da un’edizione del Viaggio di Lodovico di Auxerre al Purgatorio di San Patrizio raffigurante il cavaliere francese che incontra la morte. Prima metà del XV sec. Venezia, Biblioteca del Museo Correr.
Da leggere
In base al resoconto di un altro Il culto sembrava ormai sradicacavaliere, William Lisle, è stata proto, ma nonostante l’intervento del U Maria di Francia, Il Purgatorio posta una spiegazione razionale per papa Borgia, i pellegrinaggi nelle di San Patrizio, Edizioni dell’Orso, i presunti viaggi nell’Aldilà dei pelisole del Lough Derg continuarono Alessandria 2004 legrini nell’isola irlandese. L’uomo senza sosta e anche i monaci feceU Jacques Le Goff, La nascita del d’armi inglese riferí di essere stato ro ritorno nel sito incriminato. Nel Purgatorio, Einaudi, Torino 1996 come avvolto da un vapore caldo Seicento il flusso di fedeli risultava U Arturo Graf, Miti, leggende mentre si trovava all’interno deldi nuovo particolarmente intenso, e superstizioni del Medioevo, la caverna di San Patrizio e, subito tanto da attirare l’interesse di granBruno Mondadori, Milano 2006 dopo, aveva iniziato a dormire. Nel di poeti che trassero ispirazione da sonno gli erano quindi apparse straquel fenomeno devozionale. ne figure, forse come effetto di un’alterazione di coIl drammaturgo spagnolo Pedro Calderón de la scienza prodotta da gas geotermici e vulcanici, presen- Barca (1600-1681) gli dedicò Il Pozzo di San Patrizio, ti in notevole quantità in quel territorio. interpretando la vicenda del Purgatorio come una fantasia popolare. Ma il pubblico dell’epoca non conLa scomunica di papa Borgia siderava i racconti sulla caverna irlandese come una Alla fine del Medioevo un religioso olandese, giunto leggenda, secondo quanto riportato nella prefaziosul luogo di accesso al Purgatorio, entrò nella caverne di una delle versioni italiane del dramma: «Tutta na trascorrendovi un’intera notte. Attese sveglio inl’assemblea del teatro di Madrid sedeva, non come a vano che si manifestassero le presenze demoniache spettacolo d’invenzione del poeta, ma a rappresentadi cui aveva letto nei numerosi resoconti letterari. E zione di una cosa esistente, vera e tale che il dubitardeluso per il mancato incontro con gli spiriti, sospetne non era lecito». tò di essere stato ingannato dai monaci, ai quali, tra In quello stesso secolo i protestanti, indispettiti l’altro, aveva corrisposto un’ingente somma di danadall’enorme traffico di pellegrini diretti alle cavità di ro. Segnalò, quindi, il fatto alla curia pontificia, deSan Patrizio, si opposero violentemente al culto. Era nunciando la truffa che al Nord si stava perpetrando il periodo delle grandi persecuzioni contro i cattoliai danni dei fedeli. L’esposto fu accolto dall’allora pa- ci in terra britannica. I monaci dovettero ancora una pa Alessandro VI, il quale, dopo una rapida inchiesta, volta emigrare e tutti gli edifici legati alla tradizione decise di attuare severe misure repressive: l’edificio del Purgatorio vennero rasi al suolo. Il fascino della sotterraneo posto sulla Station Island venne distrutleggenda, però, sopravvisse e, nel Settecento, la devoto proprio nel giorno della ricorrenza di san Patrizio, zione rifiorí. Nell’isola della sacra caverna sorse una il 17 marzo del 1497, e i canonici furono costretti ad chiesa e, in seguito, una basilica che tuttora accoglie abbandonare l’attiguo monastero. masse di fedeli. F
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protagonisti guglielma la boema Una carismatica figura femminile domina il panorama dei movimenti religiosi nella Milano della fine del Duecento. Il suo nome è Guglielma, detta «la Boema», e intorno alla sua profezia, rivoluzionaria quanto provocatoria, si riunisce un folto numero di seguaci. Ma la reazione della Chiesa non si fa attendere...
Quando lo Spirito si fece
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donna
el XIII secolo Milano era una delle città piú vitali e importanti d’Europa, centro nevralgico attraversato dalle grandi vie di commercio che mettevano in collegamento l’Italia con l’Europa centrale e settentrionale. Era un agglomerato urbano in costante movimento, nel quale si poteva acquistare di tutto, si incontravano persone provenienti da luoghi e culture lontani, dove circolavano idee. Rappresentava, insomma, l’humus ideale per nuove forme di pensiero, affermazioni contrarie alle ideologie dominanti e ai modi di vivere non convenzionali. Era quindi l’ambiente ideale per la nascita di un’esperienza di vita cristiana certamente eterodossa come quella collegata a Guglielma
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detta «la Boema», figura di volta in volta osannata ed esecrata: per alcuni incarnazione di un modello tutto femminile di identificazione col Cristo, per altri rappresentazione dell’eresia nella sua espressione piú conclamata. Un personaggio destinato a dividere, quindi.
Un profilo nebuloso
Eppure di Guglielma si sa molto poco: non ne conosciamo le parole, non ci sono rimasti suoi scritti, non ne esiste una biografia coeva. Occorre dunque chiedersi, innanzitutto, chi fosse questa donna che ancora ci parla a piú di sette secoli dal tempo in cui visse. Quel poco che oggi conosciamo di lei lo dobbiamo quasi esclusivamente agli atti dei processi
di Roberto Roveda
In alto miniatura raffigurante la colomba, simbolo dello Spirito Santo, che i seguaci di Guglielma la Boema erano convinti si fosse incarnato in lei. 1490. San Pietroburgo, Biblioteca Nazionale. A destra miniatura raffigurante alcuni Umiliati davanti alle loro celle, da un’edizione manoscritta dell’Historia Ordinis Humiliatorum. XV sec. Milano, Biblioteca Ambrosiana.
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protagonisti guglielma la boema gli umiliati
Preghiera e lavoro manuale Il movimento religioso degli Umiliati nacque in Lombardia intorno alla metà del XII secolo, proponendosi di seguire i dettami della Chiesa primitiva: una vita umile e povera, dedicata alla preghiera e al lavoro manuale. Raccoglieva uomini e donne che si riunivano in comunità votate alla continenza e costituite principalmente da piccoli artigiani e operai della lana. All’interno del movimento si affermarono due diverse tendenze, una piú radicale e l’altra, invece, pienamente inserita nella Chiesa: la prima fu condannata e bandita dalla Chiesa per alcune dottrine considerate eretiche e diede origine ai Poveri Lombardi (nome dei Valdesi italiani in seguito alla scissione dai confratelli francesi); la seconda costituí tre diversi ordini, riconosciuti ufficialmente da papa Innocenzo III nel 1201. I tre ordini erano nei quali furono coinvolti i suoi seguaci, accusati di eresia, quasi vent’anni dopo la sua scomparsa. Guglielma arrivò a Milano intorno agli anni Sessanta del Duecento, molto probabilmente con un figlio, e vi rimase fino alla sua morte, avvenuta nel 1281 (o 1282). Giunta nella città lombarda, entrò in stretto contatto con i monaci dell’abbazia cistercense di Chiaravalle, che sembra le avessero anche messo a disposizione un’abitazione
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rispettivamente composti da religiosi veri e propri, da laici viventi in comunità e da laici che avevano scelto la vita coniugale. Essi si diffusero soprattutto nel territorio lombardo, grazie all’atteggiamento favorevole delle autorità ecclesiastiche. Le case umiliate sono indicate nelle fonti con il termine latino domus e, in genere, prendono il nome dal loro fondatore. Il ramo femminile era di norma sottoposto alla Regola benedettina. Tra le domus di Umiliate piú note nel territorio milanese vi era quella di Biassono, considerata dalla tradizione la prima casa umiliata femminile. Al tempo di Guglielma era abitata da suore dell’ordine, che sotto la guida di Maifreda di Pirovano aderirono al culto di Guglielma, almeno fino ai processi del 1300 e all’uccisione sul rogo di Maifreda. L’Ordine degli Umiliati continuò a esistere fino al 1571, anno in cui fu definitivamente soppresso da papa Pio V. L’abbazia di Chiaravalle, presso Milano, che divenne uno dei principali poli di diffusione del culto guglielmita.
in via San Pietro all’Orto. Altro importante riferimento per la donna era la casa delle Umiliate di Biassono (sempre a Milano). Da questi due luoghi di preghiera e dagli ambienti cittadini a essi legati (sia religiosi che laici) provennero i suoi primi seguaci, molti dei quali appartenevano agli strati medio-alti della società milanese. Anche sul modo in cui Guglielma condusse la propria testimonianza di fede sappiamo pochis-
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In alto la filatura e la tessitura della lana, in un’altra miniatura dall’Historia Ordinis Humiliatorum. XV sec. Milano, Biblioteca
Ambrosiana. Le comunità degli Umiliati erano costituite in gran parte da piccoli artigiani e operai della lana.
simo: coloro che si legarono a lei furono attratti da una sincera e intensa religiosità, fondata sull’amore cristiano e la moralità evangelica, al punto da conferirle un chiaro alone di santità. Allo stesso tempo, dalle parole della donna ricordate dai seguaci durante i processi appare evidente come ella rifiutasse qualsiasi «divinizzazione» della sua persona.
Figlia di re?
Ai devoti che la indicavano come l’incarnazione dello Spirito Santo riservava parole molto dure, ribadendo come fosse «nata da un uomo e una donna» e come non fosse «ciò che essi credevano», tanto che «se non avessero fatto penitenza di
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quelle parole che avevano detto di lei, sarebbero andati all’inferno». Ciononostante, la morte di Guglielma non fece che rinvigorire il culto della sua persona, stroncato, come vedremo, dalla dura reazione della Chiesa. La denominazione con cui è conosciuta Guglielma «la Boema» indicherebbe origini nobili: sempre secondo le testimonianze rese dai suoi seguaci sotto processo, Guglielma, infatti, sarebbe stata figlia di re Ottocaro I di Boemia. In realtà non esistono fonti sicure che possano garantire l’effettiva discendenza reale della donna, della cui veridicità si era fatto garante durante gli interrogatori Andrea Saramita, uno dei maggiori protagonisti del culto a lei dedicato. La stessa denominazione «Guglielma la Boema» non compare ne-
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protagonisti guglielma la boema Qui sotto abbazia di Chiaravalle. Affresco di Stefano Fiorentino con gli Apostoli che accompagnano la salma della Vergine. XIV sec.
L’abbazia di Chiaravalle
Nella casa dei Cistercensi L’abbazia di Chiaravalle è parte dell’omonimo borgo, oggi compreso nel Parco Agricolo Sud, all’interno del Comune di Milano. Secondo quanto riportato sulla lapide situata sulla porta che dal chiostro conduceva alla chiesa, la sua costruzione ebbe inizio il 22 gennaio del 1135, per esplicito volere di san Bernardo di Chiaravalle, il quale intendeva diffondere la Regola monastica cistercense, seguita nell’abbazia francese di Clairvaux (che egli stesso aveva fondato). Già nel luglio dello stesso anno fu inaugurato il primo edificio, mentre l’edificazione dell’attuale chiesa fu portata a termine nel 1221, quando il luogo di culto venne consacrato dall’allora arcivescovo di Milano, Enrico Settala. L’Ordine cistercense, prefiggendosi una stretta osservanza della Regola di san Benedetto all’interno di una comunità dominata dalla massima austerità e dal rigorismo evangelico, attribuiva un’importanza rilevante al lavoro manuale. L’impatto dei monaci cistercensi sui territori in cui fu fondata l’abbazia non fu perciò soltanto di carattere spirituale: al continuo ampliamento del complesso architettonico si affiancò il proficuo intervento sul territorio circostante, con la bonifica degli acquitrini della zona. Grazie anche alle donazioni e all’appoggio di ricchi
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gli atti dei processi e sarebbe stata introdotta soltanto nel XVII secolo dal teologo Giovanni Pietro Puricelli, che per primo riuscí a studiare gli atti del processo (rinvenuti intorno al 1670) e a cui si deve il primo fondamentale tentativo di ricostruire la figura di Guglielma sulla base di fonti storiche e non di leggende tramandate nei secoli. Per questo motivo è possibile incontrare in diversi testi sull’argomento una denominazione piú generica – «Guglielma di Milano» –, nella quale si perde, però, un aspetto tramandato dalla tradizione che concorre a delineare non solo il personaggio di Guglielma, ma anche l’orizzonte mentale e di fede dei suoi seguaci (l’origine nobile della donna era un elemento che ne accentuava l’«eccezionalità»). Del resto, la continua oscillazione tra leggenda e storia è una costante nella descrizione della figura di Guglielma e del suo culto, proprio per l’esiguità della documentazione su cui è possibile fare affidamento.
Il 24 agosto del 1281 (o 1282) Guglielma morí nell’hospitium della parrocchia di S. Pietro nell’Orto e venne seppellita nel cimitero di quella stessa parrocchia. Il suo corpo era però destinato a un luogo a cui tanto era stata legata in vita, l’abbazia di Chiaravalle. Il trasferimento e, ancor di piú, il nuovo rito di sepoltura rappresentarono una sorta di momento fondativo e aggregante per la comunità di devoti. Il rito di abluzione (lavaggio con acqua e vino) del corpo e la nuova sepoltura rafforzavano non solo il legame tra Guglielma e Chiaravalle, ma anche quello con la casa delle Umiliate di Biassono, dove fu portato il liquido rimasto dall’abluzione.
Il culto e i miracoli
Non a caso, proprio questi due luoghi rappresentarono il fulcro del breve, ma intensissimo culto di Guglielma. Da un lato i monaci di Chiaravalle diedero il via a un fervente calendario celebrativo incen-
cittadini milanesi, a partire dal XIII secolo l’abbazia cominciò a espandersi, acquisendo i numerosi mulini ad acqua situati lungo il corso MILANO del fiume Vettabia, che i monaci utilizzarono per macinare il grano e per fabbricare panni di lana. Gli abitanti A1 dell’abbazia si fecero conoscere anche per la grande attenzione alle tecniche di irrigazione, che permisero loro di Chiaravalle aumentare la quantità e migliorare la San Donato Milanese qualità del fieno prodotto. Pur avendo accolto le spoglie di Il quadrante Guglielma e celebrato al suo interno molti dei riti sud-orientale a lei dedicati, i monaci cistercensi di Chiaravalle di Milano con non furono colpiti da provvedimenti repressivi: anzi, alcuni l’ubicazione dei piú attivi nel culto di Guglielma ricoprirono il ruolo di di Chiaravalle. abate negli anni immediatamente successivi ai processi Nella pagina del 1300. Su questo aspetto giocò probabilmente un ruolo accanto, in importante l’appartenenza a un ordine in quegli anni in forte basso un’ala espansione e il sostegno mai venuto meno nel territorio del chiostro milanese da parte di autorità sia ecclesiastiche che laiche. Solo alla fine del 1700, quando Napoleone avviò la confisca dell’abbazia di Chiaravalle. dei beni ecclesiastici, i monaci cistercensi di Chiaravalle furono costretti a lasciare il monastero. Per farvi poi definitivamente ritorno nel 1952.
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trato sul suo sepolcro; dall’altro le suore di Biassono, guidate da Maifreda di Pirovano, si dedicarono a un’intensa attività devozionale e di preghiera alimentata da simboli concreti della «presenza» di Guglielma, come appunto il liquido rimasto dall’abluzione (conservato su un altare) e raffigurazioni della donna (tra le quali un panno nel quale Guglielma è impegnata nella liberazione di Ebrei e Saraceni dal carcere). Importanti riunioni conviviali si tenevano anche in altri luoghi, in particolare nelle abitazioni dei guglielmiti appartenenti a ricche casate milanesi. Poiché vi erano conservate le spoglie di Guglielma, ben presto l’abbazia di Chiaravalle divenne un luogo di preghiera e commemorazione nel quale confluivano regolarmente i devoti per pregare sulla sua tomba. Si trattava di veri e propri pellegrinaggi, il piú importante dei quali veniva organizzato il 24 agosto, il giorno della morte di Guglielma: i guglielmiti partivano da Milano a piedi in direzione di Chiaravalle (distante 7-8 km dal centro e non ancora assorbita nella città), dove la ricorrenza veniva celebrata con convivi e prediche tenute dai monaci. Nel monastero di Chiaravalle si tenevano dunque le celebrazioni piú importanti per la comunità di devoti, che trovavano in quel luogo un forte centro di aggregazione e di condivisione in grado di rinvigorire la loro fede. Una spiritualità cosí accentuata da causare anche presunte apparizioni e miracoli. Questi eventi straordinari, che avvenivano nel momento della condivisione e commemorazione comunitaria di Guglielma, trovavano un fondamento decisivo nella convinzione che molti fedeli avevano sviluppato quando ancora la donna era in vita (e ancor di piú dopo la sua morte). Ciò che infatti infervorava i seguaci, ancor piú della sua esistenza dominata da amore cristiano e moralità evangelica, era la fede che in Guglielma si fosse incarnato lo Spirito Santo.
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protagonisti guglielma la boema
A sostenere la rivoluzionaria incarnazione dello Spirito Santo in Guglielma furono in particolare i due principali sostenitori del suo culto: Andrea Saramita e Maifreda da Pirovano. La loro visione spirituale comprendeva, in realtà, altri passaggi fondamentali, tra cui quello secondo il quale ella sarebbe risorta dopo la sua morte per poi ascendere al cielo.
Una profezia sovversiva
Qui sopra la Papessa, carta dei Tarocchi Visconti-Sforza. XV sec. New York, Pierpont Morgan Library. Sembra che i seguaci del culto guglielmita vedessero in suor Maifreda da Pirovano la vicaria di Guglielma in terra e, come tale, addirittura la futura «papessa» della Chiesa rinnovata al femminile.
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A tempo debito sarebbe infine ridiscesa sui propri apostoli, per redimere l’umanità intera, compresi i Giudei e i Saraceni, che all’epoca la Chiesa escludeva dalla salvezza eterna, destinata solo a chi riconosceva la Sacra Trinità e i sacramenti cattolici. Un percorso salvifico che accomuna Guglielma anche al Salvatore, facendone una sorta di «donna-Cristo» e presupponendo una sorta di rifondazione, o meglio di rinascita al femminile della Chiesa. La convinzione della futura risurrezione di Guglielma era rafforzata nei guglielmiti anche dalle parole che la donna avrebbe pronunciato in punto di morte: «Per maggio
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Nella pagina accanto, a destra Milano, basilica di S. Eustorgio. Il busto di Matteo Visconti inserito nel fianco meridionale della chiesa; si dice, ma non ne esistono prove certe, che Maifreda da Pirovano fosse cugina del signore di Milano. A destra abbazia di Chiaravalle, leggio in legno di noce intagliato di Carlo Garavaglia. 1645-1649.
un poco non mi vedrete e poi per un poco ancora e mi vedrete». Come è facile intuire, si trattava di elementi esplosivi che la Chiesa non poteva non considerare sovversivi delle verità evangeliche, dunque eretici: alla pretesa di una nuova incarnazione dello Spirito Santo si aggiungeva la sua identificazione con una donna e la certezza, da parte dei devoti, di far parte di una ristretta famiglia di «eletti», testimoni diretti di visioni, rivelazioni e apparizioni di Guglielma. Piú volte, infatti, ella sarebbe apparsa loro in carne e ossa, mentre ad Andrea e Maifreda si sarebbe presentata anche con le sembianze di una colomba, facendone i primi custodi della sua rivelazione. Il fatto che i guglielmiti si sentissero parte di una comunità a cui Guglielma aveva affidato il proprio messaggio di salvezza è ben testimoniato dall’espressione nella quale si identificavano: «Figli dello Spirito Santo». L’elemento piú rivoluzionario, e per gli inquisitori piú sovversivo (come si evince dagli atti del processo), consisteva però nella centralità acquisita dal genere femminile nel «sogno spirituale» dei suoi seguaci: da un lato Guglielma, venerata come santa e come incarnazione dello Spirito Santo; dall’altro Maifreda, vicaria di Guglielma e, come tale, guida spirituale della comunità. Dagli interrogatori emerge che il gruppo di seguaci possedeva una gerarchia ben definita, al cui vertice stavano proprio Andrea Saramita – definito «primo unigenito» perché per primo sarebbe stato istruito da Guglielma – e suor Maifreda di Pirovano, colei che Guglielma avrebbe incaricato di celebrare e predica-
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re il suo messaggio di salvezza. La centralità di Andrea e Maifreda fu «certificata», tra l’altro, anche dagli inquisitori cattolici: come vedremo, finirono entrambi bruciati sul rogo.
Un seguace di primo piano
Ma chi erano davvero Andrea e Maifreda? Andrea era un laico legato all’abbazia di Chiaravalle, per la quale si occupava anche di operazioni di natura patrimoniale. Con molta probabilità, egli rappresentava anche un imprescindibile punto di contatto tra l’abbazia e la casa delle Umiliate di Biassono (nelle quale vivevano sia la sorella che la figlia). Fu tra i primi seguaci di Gu-
glielma e tra i massimi sostenitori della sua identificazione con lo Spirito Santo. Senza dubbio, occupava una posizione di primo piano nella comunità di devoti, legittimata anche dalle apparizioni e rivelazioni di Guglielma. Da una sua dichiarazione agli atti del processo si evince che si spinse addirittura in Boemia, presso la corte del re, alla ricerca di un appoggio per il suo ardito progetto di ottenere dalla Chiesa la beatificazione di Guglielma. Maifreda era una suora appartenente all’Ordine delle Umiliate che viveva con altre consorelle nella domus di Biassono. Seppure non vi siano prove certe, sembra fosse cugina di Matteo Visconti, si-
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protagonisti guglielma la boema gnore di Milano. Questo presunto legame di parentela fu chiamato in causa anche da papa Giovanni XXII per gettare discredito sulla figura di Matteo Visconti e sulla sua casata, nel contesto degli scontri tra guelfi e ghibellini: con l’obiettivo di annientare definitivamente l’avversario Giovanni XXII accusò Matteo Visconti di eresia e lo fece condannare da un apposito tribunale ecclesiastico. Gli inquisitori, oltre ad attribuire a Matteo presunti rapporti con i dolciniani (i seguaci di Fra’ Dolcino [1260-1307], predicatore piemontese che radicalizzò la polemica antiecclesiastica, inserendo il
Gli inquisitori di S. Eustorgio
Predicatori di nome, giudici di fatto I Domenicani, noti all’epoca anche con il nome di Frati Predicatori, furono uno degli ordini che piú si impegnò nell’opposizione e nella repressione dei movimenti ereticali in Italia. A partire dal XIII secolo, i piú importanti processi istituiti contro gli eretici nel territorio milanese furono celebrati dai Domenicani del convento di S. Eustorgio, nel quale si tennero anche varie udienze dei dibattimenti che nel 1300 videro i guglielmiti sul banco degli accusati. L’impegno nella battaglia antiereticale dei monaci di S. Eustorgio aveva conosciuto un’accelerazione improvvisa pochi decenni prima dell’arrivo di Guglielma a Milano: nel 1232 Gregorio IX inviò presso il convento di S. Eustorgio un monaco noto come Pietro da Verona, che aveva saputo colpire il papa per le sue grandi doti di predicatore. A sinistra Milano, S. Eustorgio, Cappella Portinari. Affresco di Vincenzo Foppa raffigurante san Pietro che smaschera la falsa Madonna (debella il demonio con l’ostia consacrata). 1462-1468. Il dipinto fa parte del ciclo delle Storie di San Pietro Martire, che celebrano il domenicano Pietro da Verona, predicatore, esorcista, taumaturgo e martire.
richiamo a un ideale schiettamente evangelico di vita in una visione apocalittica dello svolgimento storico del cristianesimo, n.d.r.), sortilegi contro il papa e condotta amorale, accusarono tutta la famiglia viscontea di eresia. Prova ne sarebbero stati i tanti membri aderenti a movimenti ereticali, tra i quali appunto anche Maifreda.
Maifreda, la «papessa»
Al di là delle presunte nobili parentele di Maifreda, di grande interesse è anche il suo ruolo tra i seguaci del culto di Guglielma: sembra, infatti, che proprio Maifreda fosse riconosciuta come vicaria di Guglielma in terra e come tale addirittura futura «papessa» della Chiesa rinnovata al femminile. Un’investitura che determinava risvolti certo non secondari sul piano della predicazione e della liturgia, poiché Maifreda, oltre a testimoniare le rivelazioni ricevute da Guglielma, si impegnava in prima persona nella lettura e
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Giunto a Milano, Pietro, che era nato in una famiglia catara e quindi conosceva molto bene gli ambienti ereticali, fondò un’apposita associazione detta «Società della Fede» (o dei Fedeli), tramite la quale operò le adeguate pressioni per far inserire il decreto papale contro gli eretici nello statuto di Milano. L’eresia divenne cosí un reato non piú solo religioso, ma anche politico, punito con dure sanzioni previste e messe in atto dal potere temporale. Le persone condannate per eresia cominciarono quindi a essere bruciate sul rogo (la stessa sorte che toccò poi ad Andrea Saramita e a Maifreda di Pirovano). La carriera di predicatore e inquisitore di Pietro da Verona fu però stroncata il 6 aprile del 1252 in un agguato mortale, ma non la «crociata» contro le eresie portata avanti dai frati di S. Eustorgio.
Particolare di un altro affresco del ciclo delle Storie di San Pietro Martire di Vincenzo Foppa raffigurante un monaco in preghiera. 1462-1468.
nella spiegazione dei testi sacri e, pare, anche nella celebrazione della messa. Le voci della diffusione nell’ambiente milanese di questo nuovo culto giunsero in fretta alle istituzioni ufficiali della Chiesa: già nel 1284 – quindi pochi anni dopo la morte di Guglielma – i Frati Predicatori (Domenicani) di S. Eustorgio convocarono i guglielmiti, sospettati di eresia. In quell’occasione si accontentarono però di un’abiura e i seguaci di Guglielma continuarono a seguire le loro pratiche devozionali, seppur in un clima non certo favorevole. Alcuni anni dopo la situazione precipitò: nel 1300 gli inquisitori milanesi ripresero gli interrogatori, questa volta, però, decisi a stroncare il culto di Guglielma, fondato su idee e liturgie considerate eretiche. Eppure la dura repressione iniziata in concomitanza con il giubileo indetto da Bonifacio VIII, oltre alle necessità di porre fine a specifiche credenze ereticali (su tutte l’identificazione di Guglielma con lo Spirito Santo), rientrava in un piano piú generale volto a riaffermare l’autorità della Chiesa in termini di dottrine, di peso sociale e di orientamento etico-morale. Dottrine eterodosse, in aperta rottura o quantomeno inconciliabili
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protagonisti guglielma la boema miti e leggende
Il mistero del banchiere Con la dispersione dei guglielmiti seguita ai processi del 1300, si diffusero nell’ambiente milanese miti e leggende sulla persona di Guglielma, circondata da un fitto alone di mistero. La leggenda piú nota era quella che la identificava con un’eretica dedita a pratiche orgiastiche e altre dissolutezze, nelle quali avrebbe coinvolto non poche nobildonne milanesi. Nonostante gli atti processuali rinvenuti nel XVII secolo abbiano permesso di ridare almeno in parte «sembianze storiche» a Guglielma, la sua figura e i luoghi a lei legati hanno conservato nei secoli un fascino misterioso, alimentando curiose leggende e interrogativi irrisolti. La vicenda a noi piú vicina è quella del banchiere, letterato e bibliofilo Raffaele Mattioli (1895-1973), per decenni a capo della Banca Commerciale Italiana, prima come amministratore delegato con gli insegnamenti e i dogmi ufficialmente trasmessi dalla Chiesa, erano infatti estremamente diffuse in Italia e in Europa. Lasciare che queste idee e pratiche liturgiche circolassero liberamente significava mettere in dubbio l’autorità assoluta del papa. Per questo, tra il XII e il XIV secolo prese il via, all’interno della cristianità, una sorta di «crociata antiereticale», guidata direttamente dal papato tramite suoi delegati sul territorio, i cosiddetti «inquisitori». Furono perciò ridefiniti in termini molto restrittivi i limiti fra obbedienza (ortodossia) e disobbedienza (eresia) alle gerarchie ecclesiastiche; il dissenso religioso venne considerato come crimine di natura politica; furono elaborate apposite tecniche repressive e strumenti di persuasione; si cominciò a fare un uso piuttosto
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Uno scorcio della corte e del chiostro dell’abbazia di Chiaravalle.
poi come presidente. Prima di morire, egli chiese e ottenne di essere seppellito nel cimitero dell’abbazia di Chiaravalle. Una scelta che spinge ancora oggi piú di un appassionato del mistero a interrogarsi sul perché un grande banchiere e spregiudicato dell’accusa di eresia e dello strumento della diffamazione. Oltre, ovviamente, a sanzioni e pene sia corporali (dalla tortura fino al rogo) che spirituali (dannazione eterna).
I guglielmiti alla sbarra
Nel contesto di questa energica azione contro le esperienze religiose eretiche, iniziò nel 1300 la repressione del culto di Guglielma, che si articolò in una serie di processi avviati nell’estate di quell’anno. Come emerge dalle carte processuali, agli inquisitori poco importava in realtà della figura venerata dagli accusati di eresia: il loro obiettivo era quello di porre fine, una volta per tutte, alle pratiche devozionali portate avanti in suo nome (non a caso e come già detto, i dati sulla vita di Guglielma sono pochi e molto frammentari).
letterato laico, abbia voluto con tanta insistenza essere seppellito in quel ristretto lembo di terra che circa sette secoli prima aveva accolto i resti di Guglielma e che per diversi anni era stato il principale luogo di pellegrinaggio e preghiera dei guglielmiti. Davanti al tribunale guidato dai frati predicatori furono convocate le persone accusate di appartenere alla comunità dei devoti di Guglielma: monaci dell’abbazia di Chiaravalle, suore della domus umiliata di Biassono, uomini e donne laiche tra i quali diversi membri di note casate milanesi. L’accusa di eresia si basava principalmente sull’identificazione di Guglielma con lo Spirito Santo, di per sé sufficiente per una piena condanna degli accusati. A ciò si aggiungevano le molteplici pratiche liturgiche e devozionali seguite dalla comunità che si ponevano ben al di là dei limiti imposti dalla Chiesa e di cui gli inquisitori avevano prove fattuali: già all’inizio del processo, l’accusa possedeva scritti elaborati dai devoti di Guglielma (tra i quali, in particolare, litanie dedicate allo Spirito Santo maggio
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A destra la Sala della Rosa nella Veneranda Biblioteca Ambrosiana, dove è conservato il manoscritto con gli atti dei processi ai guglielmiti. Il suo rinvenimento, nel 1670, portò alla riscoperta di questa antica eresia e diede fondamento storico alla figura di Guglielma.
Da leggere U Marina Benedetti, Io non sono
Dio. Guglielma di Milano e i Figli dello Spirito santo, Biblioteca Francescana, Milano 1998. U Marina Benedetti, Guglielma di Milano, detta la Boema, in Dizionario Biografico degli Italiani, a cura della Fondazione Treccani, vol. 60, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2003; anche on line su treccani.it U Luisa Muraro, Guglielma e Maifreda. Storia di un’eresia femminista, La tartaruga, Milano 1985. U Grado Giovanni Merlo, Eretici ed eresie medievali, il Mulino, Bologna 2011. U Grado Giovanni Merlo, Contro gli eretici, il Mulino, Bologna 1996.
di suor Maifreda e Vangeli rielaborati da Andrea Saramita). Secondo gli atti processuali, diverse persone interrogate confermarono non solo la venerazione di Guglielma come incarnazione dello Spirito Santo, ma anche l’abitudine a pratiche religiose dai forti connotati ereticali (per esempio la celebrazione dell’eucarestia nel corso degli incontri conviviali da parte di Maifreda, con ostie consacrate nell’abbazia di Chiaravalle). Com’era prevedibile, il processo si concluse con la condanna alla morte sul rogo dei principali esponenti del movimento: Andrea Saramita, Maifreda di Pirovano e altri tre seguaci. Probabilmente per evitare che i devoti rimasti in vita – molti dei quali non furono condannati presumibilmente grazie all’appartenenza a influenti famiglie milanesi – potessero riprendere
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clandestinamente il culto, gli inquisitori decisero di esumare i resti di Guglielma e di darli alle fiamme. La Chiesa era dunque riuscita nell’intento di stroncare in maniera definitiva il movimento dei guglielmiti: privato dei suoi principali rappresentanti, delle spoglie sacre di Guglielma e di un luogo in cui riunirsi e pregare, si disperse rapidamente.
La riscoperta
Le letture mitiche della figura di Guglielma continuarono fino a quando, intorno al 1670, furono ritrovati gli atti processuali, dai quali partí il teologo Giovanni Pietro Puricelli (1589-1659) per realizzare la non facile impresa di riportare in luce la Guglielma «storica» insieme alla vicenda ormai dimenticata del suo culto. L’importanza del manoscritto contenente una parte degli atti inquisitoriali, rela-
tivi ai processi istruiti contro i guglielmiti, risiede nel fatto che, fino a oggi, non sono state rinvenute altre dettagliate documentazioni storiche sulla vicenda. Il codice A. 227 inf., conservato presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano, rappresenta dunque l’unico possibile tramite per conoscere la storia di Guglielma la Boema e dei Figli dello Spirito Santo. Un documento che ci permette di dare un volto a Guglielma e ai guglielmiti: nel momento stesso in cui gli inquisitori si impegnarono ad annotare durante il processo interrogatori e testimonianze raccolsero sí le prove necessarie per giungere a una condanna, ma consegnarono anche alla storia la memoria di quella «eresia», che, altrimenti, sarebbe andata perduta per sempre. F
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costume e società il vetro
Quell’arte di soffiare sul fuoco di Maria Paola Zanoboni
Solo in tempi recenti si è riconosciuto che la lavorazione del vetro non fu, durante l’età di Mezzo, appannaggio esclusivo della Serenissima. Ma come, e per quali vie, fu introdotta in Italia? E quali problemi comportava, sul piano della salute e, perfino, della tutela ambientale? Ecco un dettagliato viaggio alla riscoperta di un’attività fiorente, multicolore e... trasparente Qui sopra il bagno delle fanciulle nella fontana della Giovinezza, una delle scene principali della decorazione della coppa nuziale detta «Barovier», opera del mastro vetraio muranese Angelo Barovier. 1470-1480. Murano, Museo del Vetro.
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In alto, sulle due pagine un gruppo di giovani fanciulle cavalca verso la fonte dell’Amore (appena visibile in questa foto, sulla sinistra), altra scena principale della decorazione della coppa Barovier. 1470-1480. Murano, Museo del Vetro. maggio
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olti secoli prima che una delibera dei maggiorenti veneziani (fine del XIII secolo) decretasse di riunire tutte le fornaci da vetro sull’isola di Murano, con lo scopo di scongiurare il pericolo d’incendio, a Torcello l’arte vetraria era già sviluppata, come dimostrano gli scavi archeologici di un impianto ivi esistente nel VII secolo. Tuttavia, la sua produzione non differiva da quella di altri centri che avevano sviluppato analoghi tipi di lavorazione. Solo in seguito il vetro veneziano venne progressivamente distinguendosi, soprattutto grazie alle novità apportate nel processo di lavorazione dal contatto continuo della Serenissima col Mediterraneo orientale, che dai rapporti commerciali si estendeva a quelli artistici e tecnologici: l’utilizzazione delle ceneri siriane, particolarmente ricche di ossidi di potassio e di magnesio, rappresentò una prima e fondamentale tappa verso un deciso miglioramento qualitativo. Si trattò, come spesso accade, di un’innovazione introdotta in modo del tutto casuale e che s’impose gradualmente, fino a diventare dominante negli ultimi decenni del XIII secolo. Nel 1224 i vetrai veneziani erano già riuniti in una corporazione e nel 1271 a Murano erano attive numerose fornaci, che producevano bicchieri di forme diverse, coppe variamente ornate e perle di vetro. Ri-
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sale invece al 1291 l’ordinanza con la quale il Maggior Consiglio ordinò che tutti gli impianti veneziani fossero distrutti e se ne costruissero di nuovi sull’isola di Murano (dove, in realtà, erano già in buona parte riuniti, perché il luogo era particolarmente favorevole alla produzione). L’arte vetraria muranese raggiunse l’apice durante il XV secolo, anche grazie allo sviluppo di tecnologie che le permisero di realizzare nuovi materiali, come il «vetro cristallino», a lungo ritenuto una peculiarità veneziana, e che oggi si riconosce invece come il frutto delle reiterate sperimentazioni di molteplici maestranze, forse non tutte muranesi.
L’ombra di Venezia
Per quanto riguarda, piú in generale, l’Italia settentrionale, le notizie sulla manifattura vetraria in età medievale sono piuttosto scarse, mentre risultano assai abbondanti per l’epoca preistorica e per l’età romana, grazie a ritrovamenti archeologici di paste vitree. Una situazione a cui contribuisce il fatto che la notorietà raggiunta dalla produzione veneziana del primo Rinascimento ha in larga misura offuscato quella degli altri centri della Penisola, falsandone la realtà, tanto che l’esistenza di altre manifatture vetrarie, autonome rispetto a quella della Serenissima, è stata riconosciuta soltanto in tempi recenti.
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costume e società il vetro A destra l’assetto geopolitico dell’Italia alla metà del XV sec. Sono evidenziati alcuni dei piú importanti centri di produzione del vetro. In basso pagina miniata della Mariegola (regola madre) dello statuto dei Vetrai di Murano. XV sec. Murano, Museo del Vetro.
L'ITALIA ALLA METÀ DEL XV SECOLO Ducato di Savoia
Trento
Milano
Principato di Trento
Padova
Verona
Repubblica di Venezia
Murano
Mantova
Repubblica di Genova
Ferrara Modena Bologna
Genova
Altare
Ducato di Milano Venezia
Lucca
Estensi Gonzaga Stato della Chiesa
Firenze
Repubblica di Firenze
Pisa
Ancona
San Gimignano Siena
Repubblica di Siena Regno di Napoli
Perugia Spoleto
Ma r
Corsica Roma
Ad ria tic o
Benevento Napoli
Sardegna Mar Tirreno
Palermo
Accanto a Murano, la cui produzione è attestata ininterrottamente almeno dal XIII secolo, altre due aree si distinguevano da un’epoca ancor piú antica: la Valdelsa, con i centri di Gambassi e Montaione soprattutto, e Altare, nei pressi di Savona, la cui produzione di bicchieri e bottiglie era nota in tutta la Penisola fin dai secoli XI e XII, e i cui maestri costituivano una corporazione per cosí dire «itinerante», che organizzava e governava non solo i vetrai residenti in patria, ma anche quelli attivi in luoghi lontani (maestri altaresi sono documentati persino nelle Fiandre).
Il primato dei Toscani
L’emigrazione continua era una caratteristica costante degli artigiani altaresi che mantenevano però legami assai stretti con il centro di origine. Fra il Trecento e il Quattrocento dovettero, in ogni caso, risentire notevolmente dell’influsso delle maestranze toscane: assai spesso, infatti, i documenti citano la presenza ad Altare di vetrai pisani, fiorentini e valdelsani, e ugualmente
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la presenza a Genova, sin dalla fine del Duecento e per tutto il Trecento, di vetrai fiorentini e aretini. Nel XV secolo furono quasi esclusivamente gli artigiani di queste zone a praticare l’arte vetraria nelle città in cui è sporadicamente attestata: a Mantova operavano tra il XV e il XVI secolo maestranze di Altare e Gambassi; artigiani di Murano, Montaione e ancora di Altare erano attivi a Pavia dall’inizio del Quattrocento, vetrai di Altare a Piacenza. Nel Cinquecento gli Altaresi sono documentati anche a Como, Cremona, Vigevano. E persino le maestranze presenti a Palermo provenivano dalla Toscana e da Murano. Anche a Bologna la manifattura vetraria, le cui prime notizie risalgono alla fine del Trecento, risentí in modo determinante dell’influsso delle maestranze toscane. La prima società documentata nella città (risalente alla fine del XIV secolo) venne infatti stipulata tra la vedova di un maestro vetraio valdelsano (Pietro de Ciatis di Gambassi) e un altro maestro vetraio toscano, sempre di Gambassi. Analoga è la situazione di Mode-
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Piatto in vetro con bordo polilobato a filigrana e, al centro, busto femminile dipinto a freddo. Manifattura di Murano, XV sec. Torino, Palazzo Madama, Museo Civico d’Arte Antica.
na, dove, nel 1339, alcuni vetrai fiorentini avevano impiantato una fornace da bicchieri. E anche a Ravenna, nel 1365, un imprenditore di Cesena si associò con un maestro originario di Gambassi.
Una professione ben remunerata
Oltre che a Venezia, dove, come abbiamo detto, la produzione «industriale» del vetro fu relegata nel XIII secolo nell’isola di Murano per prevenire gli incendi, numerosi impianti di questo tipo continuarono comunque a permanere all’interno dei centri abitati per tutto l’arco del Medioevo e oltre, basando il loro funzionamento su manodopera salariata sempre piú qualificata ed esperta, che, nei pochi casi documentati, arrivò talvolta a percepire retribuzioni elevatissime, sia a livello di maestranze, sia di semplici lavoranti.
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costume e società il vetro In merito alla lavorazione del vetro in Valdelsa, gli studiosi tuttora si interrogano se tale attività fosse praticata fin dall’antichità, o da chi e in quale periodo sia stata successivamente introdotta, e quali motivi ne abbiano decretato un duraturo successo. È stato ipotizzato che un gruppo di monaci di origine normanna, insediatisi nella zona tra la fine del XII e la prima metà del XIII secolo, vi abbia introdotto la nuova arte. Potrebbe trattarsi degli stessi monaci che ne avevano già svelato i segreti nel centro ligure di Altare, la cui tipologia di prodotti è del tutto analoga a quelli valdelsani. In Normandia, infatti, la produzione del vetro era esercitata fin dal XII secolo, almeno presso gli enti religiosi. In ogni caso, la collocazione geografica della Valdelsa, attraversata dalla via Francigena, e ricca di boschi, fu sicuramente un fattore determinante nell’affermazione della nuova arte. Anche la produzione vetraria di San Gimignano rivestí un ruolo di primaria importanza fin dall’inizio del XIII secolo: la prima attestazione risale al 1230. Nume-
rose fornaci erano dislocate nelle ville e nei castelli della zona a ovest del distretto, anche se non ne mancavano all’interno del centro abitato. In quest’epoca l’artigiano che lavorava nella fornace ne era anche il proprietario, solo in seguito i due ruoli si scissero, anche se talvolta, per far fronte agli ingenti costi, due o piú proprietari si associavano tra loro. Tra Gambassi e Montaione erano attive circa 20 fornaci: le notizie sono scarse per il Duecento e piú abbondanti nel Tre-Quattrocento. La produzione di Gambassi riguardava esclusivamente bicchieri, bottiglie e suppellettili di uso quotidiano. Determinante era il sito in cui veniva costruita la fornace per le ingentissime quantità di legna che la cottura a temperature altissime richiedeva. Spesso, perciò, gli statuti comunali presero provvedimenti a tutela del territorio (vedi box alle pp. 62-63): gli statuti di Montaione del 1405, per esempio, prevedevano tasse per coloro che avessero voluto usufruire del patrimonio boschivo. Per Gambassi il XIV secolo fu il periodo di massima espansione, con una diminuzione netta durante il secolo successivo, che portò alla chiusura di quattro fornaci. Testimonianza della momentanea crisi economica fu anche l’emigrazione da Gambassi dei maggiori proprietari di fornaci e degli artigiani piú qualificati, verso centri come Firenze, Pisa, San Miniato, Arezzo, Empoli, Prato, Pistoia. Nella seconda metà del Quattrocento la tendenza si invertí ancora con il ritorno a Gambassi di molti emigrati.
Alla corte degli Sforza
Calice in vetro cristallino con stemma degli Sforza. Produzione muranese, XV sec. Milano, Castello Sforzesco, Civiche Raccolte d’Arte Applicata ed Incisioni.
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Anche a Milano, Liguri e Toscani ebbero un ruolo determinante nell’introduzione dell’arte vetraria. Proprio le maestranze altaresi, al servizio di un imprenditore di origine toscana, Giovanni da Montaione, risultano infatti presenti in modo massiccio nella capitale del ducato sforzesco, durante la seconda metà del Quattrocento. Se per le produzioni di lusso le corti dell’Italia settentrionale si rivolgevano in ogni caso a Murano, per gli oggetti di minor pregio non disdegnavano le manifatture locali, gestite appunto da artigiani liguri e toscani. L’organizzazione della manifattura vetraria nell’Italia centro-settentrionale nel XV secolo vedeva in genere ai vertici gli imprenditori valdelsani, provvisti dei capitali, oltre che delle conoscenze tecniche indispensabili ad avviare l’attività, coadiuvati, nell’esecuzione materiale del lavoro alla fornace, da maestranze specializzate provenienti da Altare. Maestranze che nel capoluogo lombardo erano contese dagli imprenditori toscani e da quelli locali con i salari piú alti in assoluto riscontrati per l’epoca. Il sapere degli Altaresi era cosí importante che a Milano prosperavano gli imprenditori capaci (come i da Montaione), di assicurarsi queste maestranze disponendo di capitali adeguati. Chi, invece, poteva investire capitali piú modesti, spesso maggio
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A destra piatto decorato a fiamma; al centro, lo stemma dei Barbarigo, famiglia che diede a Venezia dogi, diplomatici e uomini di Chiesa. 1500 circa. Murano, Museo del Vetro.
Gli imprenditori si contendevano le maestranze altaresi, offrendo loro salari ben piú alti della media
non riusciva ad assumerli e finiva talora per perdere la bottega e i mezzi di produzione. Giovanni da Montaione venne favorito sicuramente anche dall’interesse della corte sforzesca, sviluppatosi a partire dagli anni Cinquanta del Quattrocento, grazie alla duchessa Bianca Maria Visconti, moglie di Francesco Sforza, e al figlio Galeazzo Maria, e in seguito grazie a Beatrice d’Este, moglie di Ludovico il Moro. Del resto già l’architetto e scultore Antonio Averlino, detto il Filarete (1400 circa-dopo il 1465), anch’egli toscano, durante il suo soggiorno milanese si era interessato molto alla produzione vetraria, affermando che avrebbe fatto realizzare le finestre della chiesa dell’Ospedale Maggiore e del Duomo al piú esperto artista di Murano, il suo amico Angelo Barovier, che soggiornò effettivamente a Milano nel 1455. Il Filarete aveva anche alcune cognizioni in proposito che si ripromise di indicare in un trattatello non pervenutoci. Pare anzi che avesse tentato di introdurre l’arte vetraria nella capitale sforzesca chiamando il maestro veneziano Antonio del Bello.
Da Montaione, i signori del vetro
Qui sopra coppa in vetro blu dipinto. Produzione muranese, XV sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.
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Almeno a partire dai primi decenni del XV secolo, esistevano a Milano, per la produzione di oggetti di uso comune (boccali, bicchieri, alambicchi da farmacia), due fornaci: una accanto al Duomo, gestita appunto dai valdelsani Montaione, e l’altra da un vetraio di origine muranese, con cui i da Montaione si imparentarono. A questi impianti se ne aggiunsero altri durante la secon-
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costume e società il vetro
San Gimignano, Collegiata, Cappella di S. Fina. Particolare di uno degli affreschi del ciclo delle Storie di santa Fina raffigurante un’ancella della santa; accanto alla donna si vedono una bottiglia e un bicchiere in vetro. Opera del Ghirlandaio (al secolo Domenico Bigordi), 1473-1475. San Gimignano fu uno dei maggiori centri di produzione vetraria della Valdelsa.
da metà del Quattrocento, fino a giungere a un totale di almeno cinque. Attraverso l’instaurarsi di legami di parentela tra questi produttori e un’importante famiglia mercantile milanese, la mercatura del capoluogo lombardo, scarsamente a conoscenza dell’arte vetraria, accoglieva i rappresentanti dei due principali centri produttivi dell’epoca: la Valdelsa, le cui località di Montaione e Gambassi erano specializzate in oggetti di uso «comune» (vasi, caraffe, bicchieri), e Murano. Giovanni da Montaione ricoprí, dunque, a partire dalla metà del XV secolo, un ruolo chiave per la diffusione dell’arte vetraria a Milano, divenendo rapidamente il fulcro di una rete di reclutamento delle maestranze estesa a tutti principali centri vetrari dell’epoca, e rifornendo i duchi e la cattedrale che gli commissionava
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le lampade (ma non le lastre per le vetrate che sembra venissero importate dalla Germania). L’instaurarsi di questi legami di parentela tra maestranze di diverse provenienze ebbe effetti determinanti per la diffusione e il perfezionamento delle tecniche produttive nel capoluogo lombardo, tanto che, verso il 1450, si giunse persino alla realizzazione del «vetro cristallino», una pasta vitrea di particolare purezza e trasparenza, il cui segreto era custodito gelosamente dagli artigiani veneziani.
Macinare, riciclare, bruciare
La tecnica per la realizzazione del vetro richiedeva tre componenti essenziali: in primo luogo il vetrificante, ottenuto macinando e riducendo in polvere finissima i ciottoli quarziferi dei fiumi (Pavia, in particolare, era nota per il suo ruolo nella raccolta dei ciottoli quarziferi del Ticino, di ottima qualità), o dal riciclo dei rottami di vetro. In secondo luogo l’allume, costituito da cenere sodica ricavata dalla combustione di piante del litorale mediterraneo: la qualità migliore veniva dalla Siria, meno pregiato era quello maggio
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egiziano. Venezia faceva venire questa materia prima dall’Oriente, cercando di proteggerne l’importazione, destinata alle sole vetrerie muranesi; esisteva anche un tipo di allume di qualità nettamente inferiore, ottenuto dalla combustione della legna delle fornaci (a Murano severamente vietato). La terza componente era costituita dall’allume di feccia, cioè dal tartrato potassico ottenuto dal residuo sedimentato delle botti prima del travaso del vino, o staccato dalla superficie interna delle botti. Fondente e vetrificante venivano mescolati e arroventati in un piccolo forno chiamato calchera, ottenen-
do cosí la «fritta», che poi veniva fusa, con l’aggiunta di rottami di vetro, nella fornace vera e propria. Il tipo di impianto piú diffuso era quello a pianta circolare coperta a volta, con lo spazio interno articolato in camere sovrapposte: quella inferiore destinata al comQui sotto calici e bottiglia in vetro. Inizi del XVI sec. Gambassi Terme, Mostra permanente «La produzione vetraria a Gambassi (secoli XIII-XVI)».
In alto Prato, Duomo. Due ampolle in vetro, particolare dell’affresco della Nascita della Vergine attribuito al Maestro di Prato. XV sec.
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bustibile e ai crogioli, quella centrale riservata alla cottura, e quella superiore per la seconda cottura o il raffreddamento. Un secondo tipo di fornace ci viene descritto dal monaco Teofilo (1140 circa): si trattava di una struttura a pianta rettangolare, le cui tre camere erano affiancate e attraversate da un vano sottostante in cui bruciava il combustibile. Dall’archeologia emerge poi una netta divisione in due tipi degli impianti trecenteschi: quelli che producevano solo il semilavorato (marzacotto), e quelli in cui si soffiava il vetro, senza mettere in pratica le fasi preliminari del ciclo produttivo. Se scarse e frammentarie sono le notizie sugli imprenditori vetrari, ancora piú sporadiche sono quelle
La tutela dell’ambiente
Sí alle fornaci, ma nel rispetto dei boschi
Particolarmente interessante risulta l’atteggiamento del Comune di San Gimignano nei confronti delle vetrerie: si trattò di un ruolo prevalentemente di mediazione tra la disponibilità ad accogliere le fornaci e le esigenze di tutela del territorio, e in particolare delle risorse boschive, messe a dura prova da questa Milano, Duomo. attività. Sembrerebbe, anzi, Pannelli in vetro policromo che le autorità comunali della vetrata del Nuovo non avessero mai realmente Testamento, ricomposta nel promosso la produzione XVI sec. con elementi da vetraria, limitandosi ad differenti vetrate: la Natività accogliere le iniziative di privati di Gesú (a sinistra) e (provenienti soprattutto da l’Annunciazione (in alto). Gambassi e Montaione).
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Nel corso del XIV secolo si arrivò a proibire l’uso del legname per qualsiasi tipo di fornace, e in particolare per quelle da bicchieri. La politica del Comune era dunque volta a difendere il patrimonio boschivo, anche a discapito della produzione vetraria. D’altra parte, il parallelo notevole sviluppo di Gambassi, fino al 1293 sottoposta alla giurisdizione di San Gimignano, portò ugualmente un notevole
contributo alle casse comunali. Il passaggio di Gambassi sotto il dominio fiorentino (1293) fu l’inizio di notevoli problemi tra i due territori. San Gimignano ebbe dunque come interesse primario la difesa dei boschi, cosa che indusse a decentrare le fornaci nel territorio di Gambassi, e poi a tutelarsi dalla concorrenza gambassina, senza però attuare alcuna forma di agevolazione fiscale per il mercato locale.
In basso miniatura di scuola francese con soffiatori di vetro. XV sec. Modena, Biblioteca Estense Universitaria.
I primi chiari segnali di un intervento di questo tipo si ebbero nel 1276, quando fu istituita una tassa, particolarmente elevata, per l’impianto delle fornaci da vetro: l’intenso sviluppo del settore vetrario in questo periodo, unito al massimo sviluppo economico e demografico sangimignanese, infatti, rendevano urgente una regolamentazione che ovviasse ai seri problemi sorti per la mancanza di combustibile. Già con gli statuti comunali del 1255 era iniziata una ferrea tutela del patrimonio boschivo, col divieto di prelevare legname, dissodare e accendere fuochi.
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costume e società il vetro sull’organizzazione del lavoro nelle fornaci. Le officine vetrarie costituivano unità produttive autosufficienti in cui, accanto ai maestri vetrai, operava un certo numero di lavoratori dipendenti: gli addetti all’accensione e al mantenimento del fuoco, gli incaricati di tagliare la legna a misura dei condotti ignei, quelli deputati alla realizzazione dei crogioli e alla triturazione delle materie prime e del vetro da riciclare.
I primi imprenditori
La gestione degli impianti era spesso in mano a piccole compagnie a conduzione familiare, come quelle formate inizialmente dai bicchierai valdelsani. Nella seconda metà del Trecento cominciò a delinearsi un sostanziale cambiamento, col subentrare della figura dell’imprenditore, in genere estraneo alla pratica del mestiere, che poteva formare col maestro vetraio società in cui il primo immetteva il capitale, mentre il secondo, depositario dei segreti dell’arte, metteva a disposizione la sua esperienza, il suo lavoro e i suoi attrezzi, assumendo dipendenti che lo aiutassero. In altri casi, i vetrai prendevano semplicemente in affitto la fornace da proprietari appartenenti alla nobiltà, come accadeva a Venezia, o si impiegavano come lavoratori dipendenti, come fecero due maestri messinesi assunti da un imprenditore palermitano. Le prime strutture per la produzione vetraria dovevano dare lavoro a un numero di addetti piuttosto limitato, ma già verso la fine del Trecento in alcune vetrerie della Valdelsa erano impiegate almeno otto persone. Dalla metà del Quattrocento, con l’in-
grandirsi degli impianti e il ricorso sempre piú frequente alla forma associativa nella gestione, il numero degli operai andò gradualmente aumentando, fino a raggiungere le 15-20 unità e oltre. Negli anni Venti e Trenta del XV secolo infatti erano andati diffondendosi nuovi impianti a quattro bocche che presupponevano una lavorazione a ciclo continuo, strutturata in due turni di lavoro di dodici ore ciascuno, in cui venivano impiegati almeno otto maestri con vari aiutanti. Un progetto del 1481 per la realizzazione di un impianto nel Mugello prevedeva l’utilizzazione di otto lavoranti e tre garzoni, la cui retribuzione, includendo il costo del vitto, avrebbe assorbito circa il 34% dei costi. Un patto associativo della metà del Cinquecento stabiliva che in una fornace di Firenze dovessero lavorare
Coppa in vetro cristallino decorata con rosette e losanghe a smalti bianchi, azzurri e doratura. Manifattura di Murano, XV-XVI sec. Murano, Museo del Vetro.
lavori usuranti
Una professione pericolosa e logorante Il medico seicentesco Bernardino Ramazzini (1633-1714) descrive i danni fisici irreparabili a cui andavano incontro i lavoratori del vetro e sottolinea come si trattasse di un’attività cosí pericolosa da non poter essere sopportata a lungo, se non dalle persone giovani particolarmente sane e robuste. Le patologie derivavano tutte dalla violenza del fuoco o dalla tossicità di alcuni minerali impiegati nella colorazione del vetro.
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Seminudi nel rigore invernale vicino ai forni incandescenti, con lo sguardo fisso sulla fiamma, i lavoratori del vetro erano inevitabilmente destinati ad ammalarsi gravemente. Irreparabili danni alla vista, una sete insaziabile, lenita spesso col vino per evitare le congestioni prodotte dall’acqua troppo fredda, affezioni polmonari causate dai continui sbalzi di temperatura, rappresentavano soltanto alcune delle patologie da cui erano invariabilmente colpiti.
Malattie ancor piú gravi affliggevano chi lavorava i vetri colorati per fare monili, per i quali occorrevano miscele di agenti chimici che producevano esalazioni particolarmente nocive, causa di ulcere all’apparato respiratorio, o di soffocamento. I fabbricanti di specchi, poi, subivano gli effetti tossici del mercurio: guardandosi col volto torvo nel prodotto da essi stessi realizzato – conclude il Ramazzini – essi finivano col maledire il mestiere al quale si erano dedicati. maggio
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Da leggere U Guido Taddei, L’arte del vetro in
Firenze e nel suo dominio, Le Monnier, Firenze 1954 U Guido Malandra, I vetrai di Altare, Cassa di Risparmio di Savona, Savona 1983 U Andrea Faoro, Ceramisti e vetrai a Ferrara nel tardo medioevo. Studi e documenti d’archivio, Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara, Ferrara 2002 U Daniela Stiaffini, Il vetro nel medioevo. Tecniche, strutture, manufatti, Fratelli Paolombi Editori, Roma 1999 U Corine Maitte, L’arte del vetro: innovazione e trasmissione delle
tecniche, in Philippe Braunstein e Luca Molà (a cura di), Il Rinascimento Italiano e l’Europa, vol. III, Produzione e tecniche, Angelo Colla Editore, Costabissara 2007; pp. 235-259 U Maria Paola Zanoboni, «Ciati» ducali e vetro cristallino: nuove indagini sull’arte vetraria a Milano (fine sec.XV-inizio sec. XVI), in Artes, 12, 2004; pp. 53-82 U Maria Paola Zanoboni, Montaione, Giovanni, in Dizionario Biografico degli Italiani, a cura della Fondazione Treccani, vol. 75, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2011; anche on line su treccani.it U Mariacristina Galgani, Marja Mendera,
Produzione e consumo del vetro medievale a San Gimignano: testimonianze archeologiche e storiche, in Miscellanea storica della Valdelsa, Anno CIX, n. 1-3 (294-296), 2004; pp. 7-36; anche on line su storicavaldelsa.it U Marco Spallanzani, Un progetto per la lavorazione del vetro in Mugello nel secolo XV, in Archivio Storico Italiano, CXL, 1982; pp. 569-602 U Maria Paola Zanoboni, Giovanni da Montaione e la manifattura vetraria a Milano, in Rinascimento sforzesco. Innovazioni tecniche, arte e società nella Milano del secondo Quattrocento, CUEM, Milano 2005
sei maestri, un rifinitore, due «garzoni grandi» e due addetti alla calcara (forno piú piccolo per la prima fusione della sabbia con la soda e il sale di tartaro) e al taglio della legna: un totale dunque di undici persone, alle quali si devono aggiungere altri operai con mansioni generiche. Nel 1605 un imprenditore vetrario di Gambassi affermava di dare lavoro nella sua azienda a oltre 21 «povere persone».
Proprietà condivise
Brocca in vetro cristallino con decorazione floreale a smalto policromo. XV sec. Murano, Museo del Vetro.
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Dalla seconda metà del Quattrocento la fornace da vetro era insomma divenuta un grande impianto industriale a lavorazione continua, che talvolta non aveva piú un unico proprietario, ma interi gruppi familiari. Veniva gestita mediante la figura giuridica della comunione, attraverso la quale la proprietà era divisa in quote alle quali partecipavano altrettanti imprenditori, che potevano utilizzare gratuitamente l’impianto secondo una ripartizione temporale in mesi e in giorni, o usufruirne in locazione nei periodi spettanti ad altri condomini. L’organizzazione del lavoro all’interno di queste strutture risultava molto piú complessa della semplice contrapposizione maestro-apprendista: ciascuno dei numerosi maestri era specializzato in un determinato ramo del ciclo produttivo: soffiatori, addetti alla preparazione della fritta, addetti all’accensione, allo spegnimento e alla manutenzione della fornace, ciascuno coadiuvato da un certo numero di aiutanti. Queste maestranze venivano organizzate da patti interni stabiliti di volta in volta all’inizio di ogni lavorazione. In questo complesso sistema l’artigiano proprietario trecentesco era ormai stato sostituito da un caposquadra dipendente che traeva i suoi poteri da una concorde convergenza di interessi con gli altri maestri, essi pure salariati di uno o piú imprenditori. F
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saper vedere arezzo La Cappella Maggiore della basilica aretina di S. Francesco custodisce uno dei capolavori dell’arte del Quattrocento: è il ciclo con le Storie della Vera Croce affrescato da Piero della Francesca, riscoperto nel XIX secolo da viaggiatori inglesi. Un racconto per immagini tanto spettacolare quanto insolito, che il maestro di Sansepolcro elaborò sulla base di un testo favoloso: la Legenda Aurea di Iacopo da Varazze
Arezzo di Chiara Mercuri
e le storie di Piero 66
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lla metà dell’Ottocento, la costruzione della linea ferroviaria tra Firenze e Arezzo portò verso quest’ultima un consistente flusso di turisti e appassionati, in particolare inglesi, innamorati dell’arte e della storia della Toscana. Tra i tanti tesori, Arezzo nascondeva – in una chiesa intitolata a san Francesco – un ciclo di affreschi ormai quasi dimenticato, che catturò presto l’interesse dei nuovi arrivati. Le condizioni delle pitture erano gravemente compromesse: la scarsa manutenzione aveva provocato infiltrazioni d’acqua, con conseguente danneggiamento dell’intonaco murario; altri problemi erano stati portati dalle polveri e dalle resine impiegate in occasione dei primi tentativi di restauro; ma soprattutto, durante l’occupazione napoleonica del 1799, la chiesa era stata adibita ad accampamento per le truppe, e ciò aveva causato ulteriori danni. Il degrado del ciclo aveva quindi trascinato nell’oblio perfino il nome dell’artista che, secoli prima, li aveva realizzati. Ma alle cattive condizioni si aggiungeva il fatto che le tematiche dipinte apparivano quanto mai inusuali, di difficile interpretazione. Del resto, senza la conoscenza del testo che aveva ispirato l’artista, i temi apparivano del tutto oscuri; vi erano, per esempio, accostamenti poco comprensibili, quali quelli tra un vetustissimo Adamo morente, la regina di Saba e il re Salomone. Enigmatica appariva anche la rap-
Arezzo, basilica di S. Francesco, Cappella Maggiore. L’incontro tra la regina di Saba e Salomone, una delle scene del ciclo delle Storie della Vera Croce. Gli affreschi, realizzati da Piero della Francesca tra il 1452 e il 1466, si basano sulla Legenda Aurea, una raccolta di vite di santi composta dal domenicano Iacopo da Varazze alla metà del XIII sec. Salvo diversa indicazione, tutte le pitture riprodotte nell’articolo fanno parte del ciclo dipinto da Piero della Francesca ad Arezzo, nella Cappella Maggiore della basilica di S. Francesco.
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saper vedere arezzo le date da ricordare 1290 Fondazione della chiesa primitiva. Il nome del progettista della chiesa è da cercare tra i discepoli di frate Elia da Cortona: fra Giovanni da Pistoia. 1298 Papa Niccolò IV concede un’indulgenza di 40 giorni a quanti avessero visitato la chiesa durante la festa dell’Annunciazione. 1314 Iniziano i lavori della nuova chiesa progettata da Giovanni da Pistoia. La chiesa francescana che sorgeva un tempo fuori dalle mura doveva essere molto grande: conteneva la grande Croce lignea (oggi spostata nella chiesa attuale) e una tavola della Maestà di Guido da Siena. Quest’ultima rimase esposta fino al 1863, quando venne destinata al Museo. XIV sec. Una pia donna di nome Monna Tessa dona alla Chiesa trecento lire per far rivestire la spoglia facciata. La cifra però copre appena le spese per il basamento, rimasto come testimonianza del progettato rivestimento in pietra scolpita. La facciata primigenia in mattoni bruniti si è preservata fino ai nostri giorni. 1374 L’abside brucia in un incendio. 1397 Terminano i lavori della ricostruzione dell’abside maggiore perita nell’incendio.
1408 La famiglia aretina dei Bacci si offre di pagare le spese per la decorazione della cappella a condizione che i suoi familiari vi siano sepolti. 1447 Gli eredi di Baccio di Magio Bacci vendono una vigna per eseguire le sue disposizioni testamentarie. 1452 Muore Bicci di Lorenzo, il pittore cui era stato dato l’incarico di affrescare la Cappella. Iniziano i lavori di Piero della Francesca chiamato a succedergli. 1466 Termine dei lavori di Piero della Francesca. XVI sec. La costruzione di un campanile, addossato alla parete destra della Cappella Maggiore, provoca gravi danni alla lunetta su cui è dipinta la Morte di Adamo. 1927 Restauro del campanile. 1980 Viene riportato nella chiesa il crocefisso ligneo attribuito a Margaritone d’Arezzo (1290 circa). 1990 Viene ricostruita la base su cui poggiava la facciata. 1992 Si procede a un imponente lavoro di restauro degli affreschi di Piero nella Cappella Maggiore, promosso dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, dalla Soprintendenza ai Beni Ambientali Architettonici Artistici e Storici di Arezzo, dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e dalla Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, finanziatrice del restauro. 2000 Terminano i lavori di restauro. A partire da questo momento la cappella Bacci è musealizzata, consentendo l’accesso a piccoli gruppi di visitatori (25 persone alla volta, ogni 30 minuti) da una porta laterale. A sinistra la sobria facciata in pietra e mattoni della trecentesca chiesa di S. Francesco.
Nella pagina accanto, in alto l’area del centro storico di Arezzo in cui è compresa la chiesa di S. Francesco.
Dove e quando Museo Basilica di S. Francesco Arezzo, via di San Francesco Orario lu-ve, 9,00-18,30; sa, 9,00-17,30; do, 13,00-17,30; le visite si svolgono ogni 30 minuti, con prenotazione obbligatoria Info tel. 0575 352727; fax 0575 302001; e-mail: pierodellafrancesca-ar@beniculturali.it; web: pierodellafrancesca.it
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A destra Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Superiore. San Francesco caccia i diavoli da Arezzo, dal ciclo realizzato da Giotto nell’ultimo decennio del XIII sec. La scena evoca un episodio della vita del santo che sarebbe avvenuto nel 1211.
presentazione dell’Annunciazione legata al sogno di Costantino, o la battaglia di Ponte Milvio, messa in relazione con il rinvenimento delle tre croci che, invece di Gerusalemme, aveva come sfondo una squillante Arezzo rinascimentale. Il ciclo di affreschi si basava su un testo ormai quasi dimenticato: la Legenda Aurea, un libro notissimo nel Medioevo, ma poco conosciuto a partire dall’età della Controriforma (XVI secolo). Era stato scritto dal domenicano Iacopo da Varazze (1228/30-1298), il quale aveva raccolto in piú volumi la storia dei santi e delle feste del calendario liturgico. Dalla fine del Duecento, la
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naturale per il proprio istituto. Artisti di fama internazionale poterono, sulla base dell’accuratissima copia, attribuirne la fattura a Piero della Francesca. Da quel momento, per la gioia degli Aretini che avevano seguito con spasmodico interesse la copiatura dell’opera, il capolavoro tornò al centro dell’attenzione degli studiosi.
A destra miniatura raffigurante Elena, madre dell’imperatore Costantino, che ritrova e identifica la Vera Croce, da un’edizione manoscritta della Legenda Aurea. 1400-1410 circa. Glasgow, Glasgow University Library. Nella pagina accanto particolare dell’affresco raffigurante l’imperatrice Elena che fa eseguire scavi che portano al rinvenimento della Croce di Gesú. Invece che a Gerusalemme, Piero della Francesca sceglie di ambientare la scena ad Arezzo.
sua opera – prima copiata e successivamente stampata – conobbe un successo paragonabile a quelli della Bibbia e della Commedia di Dante, veri «best seller» dell’età di Mezzo. La Controriforma, però, nello sforzo di ripulire la tradizione cristiana dai culti «falsi e risibili» contro i quali aveva tuonato Martin Lutero, relegò la Legenda Aurea in soffitta, proprio a motivo del suo spiccato gusto per il meraviglioso e il leggendario.
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Perché Arezzo?
E cosí, nella memoria collettiva, gli affreschi ispirati alle sue storie persero la loro naturale didascalia. Agli occhi dei viaggiatori inglesi, essi si presentarono dunque danneggiati e senza paternità, ma non mancarono di attirare – attraverso un diffuso passaparola – l’arrivo di altri visitatori stranieri. La svolta si ebbe quando il direttore dell’École des Beaux-Arts di Parigi ne fece realizzare una copia dipinta in scala
Ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire come e perché Piero fu incaricato della realizzazione del ciclo. Arezzo costituisce una tappa importante nella storia francescana, un dato che sembrerebbe non avere relazioni con le pitture, ma è invece di significativa importanza. Le biografie di san Francesco riportano l’episodio secondo il quale, nel 1211, giunto fuori le mura della città toscana, egli scorse un nugolo di diavoli che esultavano nel vedere quante e quali discordie serpeggiassero all’interno della comunità cittadina. Francesco li cacciò, riportando cosí Arezzo alla pace. L’episodio, citato fin dalle prime biografie, fu immortalato da Giotto ad Assisi e da Benozzo Gozzoli a Montefalco. Di qui l’indissolubile legame tra Francesco e la città di Arezzo. Ad Arezzo, fuori le mura, proprio sul luogo in cui l’Assisiate aveva compiuto il miracolo della cacciata dei diavoli, i Francescani s’insediarono, ancora vivente il santo, costruendo una chiesa e un convento. Nel 1290, tuttavia, il luogo – posto, come si diceva, fuori dalle mura – si fece insicuro. I frati chiesero allora il permesso di trasferirsi all’interno della città e fecero costruire una chiesa semplice, a navata unica, come era costume degli Ordini mendicanti. Anche la facciata era di fattura umile, in pietre e mattoni, perché anch’essa doveva apparire espressione del programma di povertà e semplicità tipico dei Francescani. Tale aspetto fu mantenuto sia all’esterno che all’interno dell’edificio per molti decenni, fino a quando un importante lascito te(segue p. 75)
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parete sinistra
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Il ciclo in sintesi Nel distribuire le scene del ciclo, Piero della Francesca non si curò dell’andamento cronologico degli eventi. Qui le riportiamo nell’ordine naturale di lettura, cioè da sinistra a destra. 1. eraclio riporta la croce a gerusalemme Eraclio (al centro), a piedi nudi e vestito della sola tunica in segno di umiltà, porta la Croce verso un gruppo di uomini inginocchiati in preghiera. 2. invenzione della croce Elena, madre di Costantino fa scavare nel luogo svelatole da Giuda. La scena dovrebbe svolgersi a Gerusalemme, ma è invece ambientata ad Arezzo. Sulla destra, per identificarla, alla Vera Croce si avvicina il corpo di un giovane morto, che resuscita. Elena si inginocchia in segno di venerazione, cosí come la regina di Saba nel riquadro corrispondente sulla parete di destra.
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3. Battaglia tra cosroe ed eraclio Nel 615 il re persiano Cosroe II ruba la Croce da Gerusalemme (a destra). L’imperatore d’Oriente, Eraclio, lo chiama in battaglia (a sinistra), ma questi si rifiuta di convertirsi ed Eraclio gli taglia la testa (a destra). La scena cita molte rappresentazioni di battaglia classiche, contenute anche nell’arco di Costantino a Roma.
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5. incontro tra la regina di saba e salomone L’albero è ormai divenuto grande e rigoglioso, e Salomone ha tentato di impiegarlo per la costruzione del Tempio, ma poiché gli operai non sono riusciti a lavorarlo, lo hanno gettato in un piccolo lago. Nella scena si vede la regina di Saba, in visita a Salomone, che si inginocchia (al centro della scena) davanti al legno e svela a Salomone che esso servirà per crocifiggere Cristo.
parete destra
4. adamo morente Adamo (sulla destra) manda il figlio Seth dall’arcangelo Michele per avere «l’olio della misericordia». Michele (sullo sfondo) gli consegna invece alcuni semi presi dall’albero della Conoscenza. Dovrà piantarli nella bocca di Adamo al momento del seppellimento (scena a sinistra): da questi semi nascerà un alberello.
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6. la battaglia di ponte milvio Massenzio fugge davanti alla Croce che Costantino tiene nella mano destra alzata come vessillo (che ricorda quella recata in sogno dall’angelo). La parte destra di questo registro è stata rovinata dall’umidità.
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parete di fondo
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saper vedere arezzo 7. tortura dell’ebreo Giuda, a conoscenza del luogo in cui è sepolta la Croce, viene fatto torturare dall’imperatrice Elena. Nella scena viene estratto dal pozzo in malo modo. 8. sepoltura del legno Salomone ordina di far sparire il legno nelle viscere della terra. 9. annunciazione a maria Questa scena non si trova nella Legenda Aurea e si discute ancora sul perché Piero l’abbia voluta inserire nel suo ciclo. Potrebbe trattarsi di un semplice richiamo all’indulgenza concessa nel 1298 da papa Niccolò IV per quanti avessero visitato la chiesa nel giorno della festa dell’Annunciazione. 10. il sogno di costantino 7 Costantino sogna la Croce la notte prima 8 della battaglia contro Massenzio (312; vedi anche alle pp. 76-77). Nella parte bassa della foto, al centro, è il grande crocifisso ligneo attribuito al Maestro di San Francesco, databile 9 alla seconda metà del XIII sec.
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stamentario destinò una notevole somma alla realizzazione di un ciclo di affreschi nella Cappella Maggiore della chiesa. Il mecenatismo artistico-religioso finalizzato alla sopravvivenza post mortem va messo in relazione con la comparsa in Europa della Peste che, a partire dal 1348, si abbatté con ondate successive, determinando un clima di paura e insicurezza. I lasciti testamentari, destinati a opere d’arte a carattere religioso che potessero ricordare ai posteri la liberalità dei donatori, servivano anche a guadagnare una sepoltura privilegiata all’interno di chiese e cappelle. Tali furono le motivazioni che spinsero il mercante aretino Baccio di Magio Bacci, esponente di una delle famiglie piú in vista della città, a lasciare un’ingente somma di denaro per la decorazione della Cappella Maggiore di S. Francesco. Le sue volontà, tuttavia, vennero eseguite dagli eredi solo trent’anni dopo. Nel 1447, Francesco Bacci vendette una vigna e con il ricavato onorò la disposizione dell’avo, affidando la realizzazione della decorazione a un artista fiorentino legato alla precedente tradizione pittorica, Bicci di Lorenzo, maestro di una delle botteghe piú in vista nella città. Com’era consuetudine, per evitare che le colature di colore potessero rovinare gli affreschi, egli iniziò a dipingere dall’alto, dalla parte superiore; dipinse quattro evangelisti nei pennacchi della volta e due dottori della Chiesa, Gregorio e Girolamo, nella parte superiore del sottarco della cappella. Aveva appena iniziato a realizzare il Giudizio Universale nell’arco trionfale, quando, nel 1452, morí.
Un talento emergente
Giovanni Bacci, figlio del committente dell’opera (Francesco Bacci), era un giovane ben inserito nei circoli piú all’avanguardia della città, cenacoli di umanisti tra i quali spiccava un pittore proveniente dalla vicina Sansepolcro, che aveva già lavorato presso corti prestigiose quali Ferrara, Rimini e Urbino
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ed era ritenuto una promessa della nuova corrente artistica rinascimentale. Fu Giovanni a scegliere Piero della Francesca per portare a termine il lavoro appena iniziato. Solo la raccomandazione del figlio poteva spingere il committente a scegliere un artista poco piú che trentenne (Piero era nato a Borgo Sansepolcro nel 1406 o 1412, n.d.r.) e legato a una cultura figurativa modernissima, ben piú difficile da comprendere rispetto al pittore che l’aveva preceduto nell’incarico.
Il santo e la Vera Croce
All’epoca i mecenati non erano ancora soliti esprimersi sulla scelta dei soggetti che sarebbero stati rappresentati e a scegliere furono, invece, i Francescani, ai quali la chiesa era stata affidata. Il tema – individuato probabilmente già dalla prima assegnazione del ciclo a Bicci di Lorenzo – fu quello delle storie della Vera Croce, molto caro all’Ordine. Il crocefisso è infatti protagonista di molti passaggi salienti della vita di Francesco. È il crocefisso a parlare al Poverello nella chiesa di S. Damiano al momento della conversione: «Va’ Francesco, ripara la mia chiesa che sta cadendo in rovina». Il Cristo crocefisso della Passione resta, anche dopo la conversione, il centro della sua spiritualità. Inoltre, secondo la biografia ufficiale di Francesco scritta da Bonaventura da Bagnoregio, il santo ebbe il dono delle stimmate: unico tra tutti i santi a essere marchiato da Cristo col suo stesso sigillo. Proprio Bonaventura da Bagnoregio aveva creato un ulteriore elemento di collegamento tra Francesco e la Croce. Egli infatti, con una scelta dal deciso significato programmatico, aveva datato l’episodio delle stimmate alla Verna (il santuario francescano nei pressi di Chiusi, n.d.r.) al 14 di settembre, festa dell’Esaltazione della Croce – nella quale si commemorava il rientro a Gerusalemme della reliquia dopo il furto effettuato dal persiano Cosroe II (vedi «Medioevo» n. 200, settembre 2013; anche on line su medioevo.
it) – preferendolo al 3 maggio, data che il calendario liturgico aveva assegnato all’anniversario dell’Invenzione (cioè del ritrovamento della Croce a Gerusalemme da parte di Elena, madre di Costantino). I Francescani, del resto, erano molto attivi nella celebrazione di tale festa, come prova anche il fatto che Luigi IX di Francia li avesse incaricati di officiare i riti del 14 settembre nella Sainte-Chapelle di Parigi. D’altra parte, il legame con la Croce era motivato anche dalla significativa presenza dell’Ordine di Francesco in Terra Santa. Roberto d’Angiò (1277-1343) aveva concesso loro numerose custodie, sia a Nazaret che a Betlemme. Qui assunsero un ruolo di tutela delle vestigia cristiane, compito che li portò, alla fine, ad appoggiare le crociate. La festa dell’Esaltazione della Croce, piú di quella dell’Invenzione, veicolava l’invito alla crociata in nome della tutela dei luoghi di culto cristiani e della salvaguardia delle reliquie. Il ricordo della profanazione della basilica del Martiryum da parte di Cosroe II rinfocolava, infatti, anche il desiderio di sottrarre il Santo Sepolcro dalle mani degli «infedeli». Non stupisce, dunque, che i Francescani di Arezzo optassero per un tema già scelto, qualche decennio prima, dai confratelli fiorentini per la basilica di S. Croce.
L’«arbitrio» di Piero
I frati offrirono come base del ciclo la Legenda Aurea, il cui racconto inizia da molto lontano. Adamo, ormai vecchio e prossimo a morire, chiede al figlio Seth di recarsi in Paradiso, per ottenere dall’Arcangelo Michele l’olio della misericordia, un viatico che dovrebbe rasserenare la sua morte. E Piero, in effetti, inizia il proprio ciclo pittorico dalla rappresentazione dell’Eden; tuttavia, come si noterà, egli segue solo alcuni degli elementi del lungo racconto sviluppato dalla Legenda Aurea, senza rispettarne in modo pedissequo la scansione cronologica. Egli organizza il ciclo in dieci riquadri: quattro maggiori, quattro
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saper vedere arezzo Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia Sulle cones due apienda. pagine veduta d’insieme e particolari dell’affresco raffigurante il sogno di Costantino. La scena si riferisce alla notte precedente la battaglia di ponte Milvio, quando l’imperatore, sorvegliato da due guardie (in basso, il volto di una di esse, colpito dalla luce), sogna un angelo che reca una piccola croce (a sinistra, la mano).
Perché è importante
Un paesaggio lunare La chiesa di S. Francesco custodisce uno dei capolavori dell’arte del Quattrocento, gli affreschi di Piero della Francesca, riscoperti nel XIX secolo da viaggiatori inglesi. Tra tutti troneggia Il sogno di Costantino, definito dalla critica come il primo paesaggio notturno prima di Caravaggio. In realtà, piú che di paesaggio notturno, si tratta di un paesaggio lunare, iconico ed enigmatico come pure sembra suggerire lo sguardo misterioso – fisso verso lo spettatore – del servitore, il quale veglia sull’imperatore addormentato. L’intera scena è costruita seguendo un rigoroso impianto geometrico giocato sulla «X» formata dall’apertura della tenda e il triangolo del cono che la sovrasta. Gli attoniti soldati che montano di guardia sono come fulminati dalla luce dell’angelo che reca in mano una piccola croce, contribuendo a
conferire alla rappresentazione un immobilismo surreale e incantato che ha fatto diventare questa scena un’icona dell’arte rinascimentale. Il linguaggio fortemente simbolico e i sapienti richiami alla costruzione geometrica che si riflettono nello spazio prospettico, corredati da tratti naturalistici
di sapore crepuscolare, fanno di questo affresco la summa della nuova arte di cui Piero è discepolo e maestro al tempo stesso. Nella biografia di Piero, la realizzazione del riquadro va posta infatti dopo la parentesi presso la corte papale, dove egli lavorò fianco a fianco con artisti fiamminghi di cui osservò l’uso sapiente della luce. minori e due lunette, distribuiti sulle due pareti laterali e sulle fasce di muro che fiancheggiano il finestrone del coro. Il ciclo si apre comunque con Adamo morente (vedi a p. 73, foto n. 4). In un unico riquadro egli ritrae in primo piano Adamo, circondato dai figli e da una vecchissima Eva, rappresentata con i seni seminudi e cadenti, quasi a contrastare la funzione di tentatrice avuta in gioventú. In lontananza dipinge invece Seth, il primogenito di Adamo, nel momento in cui si rivolge all’Arcangelo Michele. Secondo il racconto della Legenda, l’Arcangelo rispose a Seth di
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saper vedere arezzo Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
l’attribuzione del ciclo
Un capolavoro in due fasi Ristabilita alla metà dell’Ottocento sulla base di indagini stilistiche, la paternità del magnifico racconto illustrato di Arezzo è oggi attestata da piú di un documento. Un atto notarile testimonia che la stesura del ciclo fu interrotta negli anni 1458-1459, quando Piero della Francesca fu a Roma, alla corte di papa di Niccolò V, presso il quale eseguí nel Palazzo Apostolico affreschi oggi perduti. Qui subí l’influenza – come già accennato – dei pittori fiamminghi che lavoravano alla corte papale. Influenza che non mancò
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di riflettere, al suo rientro in Arezzo, sugli affreschi della Croce, detti «della seconda fase». Un contratto stilato nel 1466, a nome della confraternita della Nunziata, attesta che Piero fu l’autore del ciclo e che esso aveva riscosso un grande successo nella comunità cittadina. Per tale ragione, si legge nel documento, la confraternita gli commissionò la realizzazione del proprio stendardo. Di notevole interesse nella chiesa: il grande Crocifisso ligneo del Maestro di San Francesco, contemporaneo di Cimabue (vedi a p.74). maggio
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non poter soddisfare la sua richiesta, adducendo come motivazione il fatto che i tempi non fossero ancora maturi, in quanto l’olio del viatico era in relazione con la Resurrezione del Cristo, ancora di là da venire. Gli avrebbe però consegnato un ramoscello con alcuni semi, strappato dall’albero della conoscenza, dicendogli di metterli nella bocca di Adamo al momento della sepoltura.
Un legno prodigioso
In alto particolare dell’affresco della battaglia di ponte Milvio nel quale si vede Costantino vittorioso che tiene nella mano destra una croce, alzata come un vessillo.
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Secoli dopo, l’albero nato sulla tomba di Adamo era divenuto maestoso e verdeggiante, e il re Salomone ordinò che fosse tagliato e utilizzato per la costruzione del Tempio di Gerusalemme. I falegnami lo tagliarono, senza riuscire tuttavia a lavorare l’asse ricavata da quel tronco: essa si allargava e restringeva per virtú divina, indocile all’uso che pretendevano di farne i costruttori. A quel punto, rassegnati, i falegnami posarono il legno prodigioso sulle sponde di un lago, per usarlo come passerella. Un giorno la regina di Saba, giungendo in Palestina attirata dalla fama del re Salomone, si trovò a percorrere – del tutto ignara – proprio quell’asse e in quell’istante ebbe una potente visione: a causa di quel legno il Salvatore del mondo sarebbe stato giustiziato, e ciò avrebbe coinciso con la fine del regno degli Ebrei. Tale complesso intreccio narrativo non fu rappresentato nella sua totalità da Piero, il quale, nel secondo riquadro (Incontro tra la regina di Saba e Salomone; vedi a p.73, foto n. 5, e alle pp. 66-67), andò direttamente al momento in cui la regina di Saba, inginocchiata davanti al legno, rivela al re Salomone, sulla destra, la profezia. Il racconto di Iacopo da Varazze prosegue narrando che a quel punto Salomone, allarmato dalla profezia, ordina di seppellire il legno nelle viscere della terra. Di tale passo Piero raffigura la scena (Sepoltura del legno, vedi a p. 74) in cui tre nerboruti manovali spingono il gigantesco asse nelle profondità di un lago fangoso, il quale, grazie alle prodigiose virtú
Una visione potente annunciò alla regina di Saba la crocifissione del Salvatore del legno, si trasformerà nella piscina probatica. La scena è di particolare realismo, soprattutto nella descrizione dei corpi dei manovali, ma appare anche di grande forza simbolica. L’asse smisurato che pesa sulla schiena del portatore aiutato da altri due uomini è infatti una citazione della salita di Cristo con la Croce al monte Calvario.
In alto la raffigurazione di Dio Padre, particolare della scena dell’Annunciazione a Maria.
«In hoc signo vinces»
Iacopo da Varazze prosegue con il racconto della Passione. Venuti i giorni del processo a Gesú, la trave riaffiora dalle acque della piscina e
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saper vedere arezzo viene scelta per costruire la Croce del supplizio. Dopo la Resurrezione, però, se ne perdono di nuovo le tracce, e qui il racconto di Iacopo subisce un notevole salto cronologico. Passati tre secoli, l’imperatore Costantino, alla vigilia della battaglia contro Massenzio, ha una visione: una croce su cui campeggia la scritta: «In hoc signo vinces». L’imperatore pone allora il suo esercito sotto la protezione del simbolo sognato ed esce vittorioso dalla battaglia. Ciò fa maturare in lui la volontà di concedere la libertà di culto ai cristiani, ponendo fine alle persecuzioni. Tali vicende sono riassunte da Piero in due scene: il Particolare della battaglia tra Cosroe ed Eraclio, scatenata dall’imperatore d’Oriente dopo che il sovrano sasanide aveva trafugato la Croce a Gerusalemme.
sogno di Costantino (vedi alle pp. 76-77) e la battaglia di Ponte Milvio (vedi a p. 73, foto n. 6, e a p. 78).
I Cavalieri di Cristo
Occorre tenere conto che la letteratura cavalleresca medievale aveva da tempo trasformato alcuni imperatori cristiani in grandi eroi, primi fra tutti Costantino, Eraclio e Carlo Magno. Nelle chanson, essi furono descritti come «Cavalieri di Cristo», che avevano combattuto e difeso il Santo Sepolcro. In realtà, Carlo Magno non condusse mai alcuna crociata in Terra Santa e Costantino non ne avrebbe mai avuto necessità, visto che la Terra Santa faceva parte integrante dell’impero. Tra i tre, il solo ad avere realmente difeso con le armi Gerusalemme era il bizantino Eraclio; e, infatti, il pittore Agnolo Gaddi, per il suo ciclo in Santa Cro-
ce a Firenze, scelse proprio lui come protagonista delle sue storie. In Piero, invece, il vero protagonista del ciclo è Costantino. Probabilmente il maestro di Sansepolcro vuole sottolineare l’importanza di Costantino nella storia del cristianesimo, poiché è lui che ha dato ai cristiani la libertà di culto. L’intento di Piero di sottolineare la dimensione provvidenziale della storia cristiana è dimostrato dalla scelta di associare l’episodio del sogno di Costantino all’Annunciazione (vedi a p. 74, n. 9), che neanche figura nella narrazione della Legenda Aurea. Egli, insomma, vuole suggerire allo spettatore che entrambe le apparizioni preannunciano eventi fondamentali per il mondo cristiano: l’apparizione dell’angelo a Maria prepara la nascita di Cristo, mentre l’apparizione dell’angelo a Costantino determina la fine delle persecuzioni. Nella raffigurazione della battaglia di ponte Milvio, inoltre, Massenzio fugge davanti alla Croce che Costantino tiene alzata nella mano destra come fosse un vessillo, e che ricorda quella esile recatagli in sogno dall’angelo. Di notevole bellezza appare la resa delle armature dei soldati descritti quasi come duellanti di giostra. Purtroppo, la parte destra di questo registro risulta quasi illeggibile a causa dei gravi danni provocati dall’umidità.
Il segreto di Giuda
Con la vittoria di ponte Milvio, insomma, per il cristianesimo si apre una nuova fase, che Piero riassume sinteticamente nella ricerca della Croce da parte della madre di Costantino, Elena. Il racconto di Iacopo da Varazze narra che una volta giunta a Gerusalemme, l’imperatrice non fu subito in grado di scoprire il luogo in cui Gesú era stato crocifisso e dove, di conseguenza, la croce di legno era stata abbandonata e sepolta. Informata però che un certo Giuda era il custode di tale segreto, decise di costringerlo a parlare: lo fece calare in un pozzo dove lo tenne a digiuno per sette giorni. Alla fine l’uomo parlò.
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Da leggere U Massimo
Mussini, Luigi Grasselli, Piero della Francesca. De prospectiva pingendi, Aboca Edizioni, Sansepolcro 2008 U Edgarda Ferri, Piero della Francesca. Storia e misteri del maestro della luce, Mondadori Editore, Milano 2007 U Carlo Ginzburg, Indagini su Piero, Einaudi editore, Torino 1981 Uomini inginocchiati in preghiera di fronte alle porte di Gerusalemme attendono che Eraclio riporti la Croce in città.
Piero immagina la scena con particolare crudeltà, e rappresenta i carcerieri che estraggono Giuda (nome che allude allo stereotipo dell’Ebreo) dal pozzo, tirandolo per i capelli. Nella Legenda, questo episodio, per quanto drammatico, non era stato descritto con toni tanto violenti. Iacopo era convinto della ragionevolezza della decisione dell’imperatrice di torturare l’uomo, in realtà colpevole solo di conoscere il luogo dell’esecuzione, ma aveva anche precisato che Giuda non aveva voluto parlare per timore di illecite profanazioni e non per odio verso i cristiani. La descrizione vivida e crudele di Piero sembra piuttosto rappresentare un riflesso dell’ideologia dei committenti francescani, i qua-
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li avevano iniziato dai pulpiti delle chiese e delle piazze ad associare i temi della Croce e della Passione alla «colpa degli Ebrei».
La prova decisiva
La narrazione di Piero si chiude con l’identificazione della Vera Croce (vedi a p. 72, foto n. 2). Per distinguerla da quelle dei due ladroni, rinvenute anch’esse nello scavo, Elena fa portare il corpo di un giovane da poco deceduto, il quale, appena toccato dal Legno della Passione, riprende vita. Nella Legenda, a questo punto, si narra il furto della reliquia per mano del re sasanide Cosroe II, che riuscí a portarla via da Gerusalemme. Iacopo da Varazze lo descrive come un uomo dedito alle arti negromanti-
che, bramoso di rapire la reliquia per sfruttarne le virtú taumaturgiche. Tornato in patria, il re fece costruire una torre d’oro e d’argento dove fece chiudere il sacro resto. Sempre nel racconto di Iacopo, l’imperatore bizantino Eraclio, venuto a conoscenza del furto della reliquia, decise di sfidare a duello il figlio di Cosroe; dopo aver vinto il duello, Eraclio decapitò anche il padre e si riappropriò della reliquia, portandola di nuovo a Gerusalemme. A questa seconda parte della storia Piero dedica le scene conclusive, nelle quali rappresenta Eraclio che, dopo la battaglia, taglia la testa a Cosroe II (vedi a p. 72, foto n. 3) e, infine, Eraclio che riporta la Croce a Gerusalemme (vedi a p. 72, foto n. 1). F
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di Renata Salvarani
Le origini degli zigani, seppur ammantate Didascalia aliquatur adi odis alla tarda antichità. dal mito, risalgono que vero ent qui doloreium In Europa giungono nell’età di conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti Mezzo, circondati da un alone di conseque nis maxim eaquis fascino accompagnato da una certa earuntia cones apienda. considerazione: portano missive da sovrani lontani, lavorano il ferro e commerciano i cavalli, suonano e ballano come nessun’altro sa fare... Un’immagine che muterà gradualmente, fino ad arrivare, con l’età moderna, al suo drammatico capovolgimento
L’età degli
intoccabili
Due zingari in una fotografia del 1900 circa.
Dossier
L L
a prima notizia della loro comparsa intorno al bacino del Mediterraneo è legata a un evento di festa e ne dà un’immagine gioiosa. Viene da un testo poetico persiano che racconta la vita di Bahram Gur, il sovrano sasanide che regnò fra il 421 e il 438 (vedi anche «Medioevo» n. 177, settembre 2011; on line su medioevo.it) e sconfisse gli «Unni bianchi», un popolo di saccheggiatori la cui violenza è probabilmente all’origine di un domino di migrazioni che dall’Asia centrale interessò le regioni circostanti. Secondo il racconto, contenuto nel Khamsa (una raccolta di cinque poemi d’argomento epico-cavalleresco) del poeta persiano Nizami (1141-1203), fu lui che, per celebrare il suo sontuoso matrimonio, fece arrivare dall’India diecimila menestrelli, musici e cantori, i quali, dopo aver camminato per mesi con le loro famiglie, arrivarono a corte e la allietarono per giorni e notti con danze e melodie.
Un viaggio leggendario
Il re li ricompensò assegnando loro terre e bestiame e favorendone l’insediamento sull’altopiano iranico, dove poterono mantenere le loro leggi, la lingua, e continuarono a sposarsi fra loro. Questo tragitto dal Punjab e dal Pakistan, risalendo lungo il corso dell’Indo, poi attraverso l’Afghanistan fino alle città della Persia, è fondante nell’etnogenesi dei gitani e ne resta traccia nel patrimonio orale tramandato fino a oggi. Vi si aggiunge che quel primo numeroso gruppo era guidato da tre fratelli: a questa tripartizione mitologica si è fatta risalire la distinzione fra i ceppi dei Kalé, dei Sinti e dei Rom. Bahram V (Bahram Gur) e la principessa indiana attorniati da musici e danzatori, miniatura da una delle opere del Khamsa, la raccolta del poeta persiano Nizami. Metà del XVII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. La prima attestazione relativa agli zingari li dipinge come menestrelli, musicisti e cantori giunti dall’India proprio per allietare le nozze del sovrano sasanide.
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Non sappiamo quando gli zingari ripresero la marcia verso Occidente, né se si sia trattato di una diaspora generale o piuttosto della separazione di alcune componenti che si allontanarono da altri che rimasero stanziali, o, ancora, se si sia verificata una successione di partenze. Sappiamo, però, che gruppi di nomadi con la pelle scura – che non erano arabi, né beduini – erano presenti in Mesopotamia e nel Medio Oriente, all’interno del contesto islamico, nel quale però non si fusero, mantenendo sia una lingua diversa, sia abbigliamenti e abitudini che li contraddistinguevano. Ne parla lo storico e giurista di origine persiana Tabari (839-923) nella sua Storia dei profeti e dei re, il piú grande affresco storiografico del mondo musulmano in epoca abbaside, raccogliendo sia testimonianze contemporanee, sia echi di altre tradizioni memorialistiche. Descrive una turba di prigionieri catturati dai bizantini nell’855, condotti con bestiame e suppellettili dentro i confini dell’impero.
Fonti indirette
La cultura dei nomadi d’Europa, d’altra parte, ha preso forma scritta solo tra la fine dell’Ottocento e il Novecento; di conseguenza, le fonti storiche che si possono utilizzare per ricostruirne il passato sono indirette, perlopiú opere generali, persiane, arabe e greche, e poi cronache cittadine. Riflettono la percezione degli stanziali e delle istituzioni rispetto ai nuovi arrivi, piú che le loro forme di organizzazione o la sequenza degli spostamenti.
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L MIGRAZIONI LE DI SINTI E ROM FINLANDIA
SCANDINAVIA
1584
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RUSSIA POLONIA 1509
GERMANIA 1407
FRANCIA 1427
BOEMIA 1399
SERBIA
Mar di Marmara GRECIA
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SPAGNA
1320
BISANZIO O 855
PPERSIA 750
AFRICA
dall’India
ARABIA
Il poeta persiano Nizami individuò i primi zingari nei diecimila musici e cantori che allietarono le nozze di Bahram Gur In alto cartina con le migrazioni dei Sinti e dei Rom dall’India alla Persia e in Europa. A sinistra miniatura raffigurante un suonatore di strumento a corda, da un trattato arabo sulla musica. XIV sec. Istanbul, Biblioteca del Palazzo Topkapi.
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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
Shutka
L’inizio di un’utopia Suto Orizari, o Shutka (Repubblica di Macedonia) in forma abbreviata, è l’unico Comune d’Europa ad avere una netta maggioranza di residenti rom (13 342 su 22 017 in base all’ultimo censimento), il romanes come lingua ufficiale e un sindaco
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rom, Elvis Bajram. Shutka rappresenta l’utopia realizzata della sedentarizzazione gestita in piena autonomia e, secondo i suoi abitanti, una sorta di modello per l’Europa allargata. Vi sono attive due televisioni e una radio, che trasmettono in romanes, e sono un riferimento per i nomadi maggio
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Paesaggio con gitani, olio su tela di David Teniers II (il Giovane). Prima del 1690. Londra, Dulwich Picture Gallery. Nel dipinto una zingara legge la mano a un uomo, attività molto diffusa tra i nomadi, da sempre connotati come maghi e indovini e circondati da un alone di mistero.
Il patrimonio orale e musicale gitano ha stratificato miti delle origini che marcano l’estraneità rispetto al mondo occidentale, ma poco o nulla precisa sugli spostamenti e le diverse fasi, perché rimane espressione di una memoria svincolata da qualsiasi cronologia: il tempo non si misura e non si fissa, il passato si allontana o si avvicina in relazione con chi lo percepisce, lo racconta e lo fa rivivere. Tanto che gli studi su questo insieme di popoli sono perlopiú di carattere linguistico-etnografico: sulla base di criteri comparativistici con i ceppi parlati dalle popolazioni che sono rimaste, essi hanno individuato il Punjab e il bacino settentrionale dell’Indo come aree di partenza.
Gli «intoccabili»
Nelle fonti scritte occidentali, le notizie compaiono in modo frammentario e, a partire dal Mille, fanno riferimento al massimo a qualche decina di famiglie per ogni raggruppamento. Nel 1054 un monaco del Monte Athos annotò il passaggio di una banda di nomadi, maghi, indovini e incantatori di serpenti. Li chiamò atsigani, intoccabili, coniando cosí il nuovo nome degli zingari, premessa di un millenario futuro di separazione. Fino al XV secolo si tratterebbe, però, di gruppi che, nell’Europa in movimento del Medioevo, erano guardati senza apprensione. Anzi, talvolta sembrano essere circondati da fascino e considerazione particolari: si accreditano come portatori di missive di sovrani lontani, hanno una loro aristocrazia in grado di negoziare con i signori locali,
dei Balcani, della Russia e dell’Occidente. Shutka nacque da un evento tragico, il terremoto che nel 1963 distrusse Skopje: i Rom che da secoli vivevano nel quartiere di Topana furono trasferiti a ridosso delle colline, lontano dal centro. E qui rimasero. Poi, nel 1996, il governo macedone ne riconobbe ufficialmente la municipalità. Da allora, a ondate successive, sono arrivati zingari a migliaia. Alcuni fuggivano dalla Serbia, altri dal Kosovo, altri ancora dalla
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Bulgaria. Dopo diverse ondate migratorie, Shutka oggi ospita dodici tribú rom, formate da cristiani ortodossi e musulmani, che convivono senza problemi di carattere religioso. Problematiche sono, invece, la povertà (comune a tutta la repubblica macedone), la mancanza di un ospedale e un’urbanizzazione caotica che ha permesso di superare la forma del campo e l’uso delle baracche, ma è ancora lontana dall’aver risolto l’emergenza dello smaltimento dei rifiuti e della raccolta delle acque reflue.
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Dossier DISTRIBUZIONE DELLE POPOLAZIONI ROM Rom Sinti Manush Romanichals
Romanisael Kalé gallesi Kalé finnici Kalé spagnoli
Sulle due pagine incisioni su carta di Jacques Callot della serie degli Zingari, raffiguranti un momento di sosta con la preparazione di un festino (in alto) e l’avanguardia di un gruppo in viaggio (in basso). 1621 circa. Collezione privata.
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vendono oggetti che altri non sono in grado di realizzare. Sono cestari, calderari, fabbri, maniscalchi, orafi; domano e commerciano i cavalli, indispensabili sia per le spedizioni militari sia per i tornei, occasione di mobilità sociale e di legittimazione per le élite emergenti. Cantano, suonano e ballano come nessuno sa fare, sono inermi, si mantengono separati dalla popolazione e se ne vanno prima che qualcuno cominci a conoscerli, lasciandosi dietro domande senza risposta e un’atmosfera di mistero. Nomadi, viandanti e pellegrini godono di uno status particolare a cui corrisponde, in varie forme, un obbligo di ospitalità. La loro provvisorietà è accettata, in un mondo in cui il tempo è di Dio, non si compra e non si regola. È questo il tempo del vento e delle stagioni, degli spazi sconfinati, incolti e pericolosi; la volta celeste viene dispiegata dagli angeli a coprire il sonno e i giorni dei giusti e degli
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Dossier Antonio Solario
Dai ferri ai pennelli
Fu l’amore a trasformare la vita del giovane Antonio Solario, «da vil ferrajo nobil pittore fecendolo divenire». Ma la sua sarebbe solo una delle tante appassionanti storie di sentimento della Napoli settecentesca se non si sapesse che era figlio di un maniscalco nomade, tanto che – fino ai giorni nostri – gli è rimasto attaccato l’epiteto di Zingaro. È il pittore e storiografo dell’arte Bernardo de Dominici (1683-1750 circa) a raccontare che forniva ferri e attrezzi per la cucina di corte e che a lui chiese alcune commissioni il pittore Colantonio, che stava lavorando per re Ladislao. Fu cosí che si invaghí della figlia di lui, fino a chiederla in sposa e a implorare l’intercessione della regina Giovanna per raggiungere un risultato che sapeva impossibile. Fu lei a ottenere un’improbabile mediazione: Colantonio avrebbe dovuto acconsentire se fosse divenuto un bravo artista, tanto apprezzato da potergli un giorno lasciare la sua bottega e da garantire un decoroso benessere alla figlia. A quel punto il giovane, che aveva già ventisette anni, lasciò la città e fu prima a Roma, poi a Bologna alla ricerca di un maestro. Rimase a Firenze, poi ancora a Roma, finché, dopo nove anni, tornò a Napoli e, senza palesarsi, si presentò alla regina per farle un ritratto. Lei gli concesse di raffigurare, invece, Giovanni Caracciolo, forse il suo amante. Quando
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il dipinto le fu consegnato, insieme con una Madonna col Bambino e Angeli, davanti al suo stupore e alla sua ammirazione, Antonio ebbe il coraggio di presentarsi. La sovrana allora convocò Colantonio e rivelò a tutti, dunque, che quelle pitture erano frutto della mano del fabbro che molti anni prima aveva accettato di diventare pittore pur di prendere in sposa la figlia. Il vecchio impallidí, ma dovette mantenere la promessa. Seguirono giorni e notti di festeggiamenti e un lungo amore. Il de Dominici colloca la vicenda quasi un centinaio d’anni dopo la morte dello Zingaro (avvenuta nel 1530) e questo basta a inficiare il racconto. Ma i suoi toni romanzeschi racchiudono tutta la diffidenza e il disprezzo che circondava i gitani. Su Antonio nessuno avrebbe scommesso alcunchè: insegnargli l’arte e la bellezza appariva un’impresa impossibile, tanto che la proposta della regina era a corte poco piú di una beffa, un prospettare un’altezza di vita irraggiungibile per chi – per tutti – era condannato a sellare cavalli e riparare paioli spostandosi lungo le strade d’Europa. Caustiche le parole attribuite a Colantonio alla fine della storia: «Io sposo ora la mia figliuola ad Antonio Pittore non ad Antonio lo Zingaro». Come dire che lo scotto da pagare per entrare nella società degli stanziali non poteva che essere, per lui, la rinuncia alla propria identità. maggio
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A destra Buona ventura, dipinto di Lionello Spada. 1617 circa. Modena, Galleria Estense. Protagonisti della scena sono due zingari che leggono la sorte a un ricco signore e cosí lo distraggono, mentre un ragazzo lo deruba. Nella pagina accanto Antonio Solario (Antonio lo Zingaro), Madonna con Bambino, San Giuseppe, un Angelo e il committente, pannello centrale del Trittico Withypoll. 1514 circa. Bristol, Bristol Museum and Art Gallery.
ingiusti. Sotto quel cielo c’è posto anche per gli zingari. Il potere universale e supremo di papi e imperatori finiva per essere addirittura la loro garanzia, soprattutto se si presentavano con lettere di protezione, vere o false che fossero, poco importava. Il permanere di forme di diritto di stirpe aveva permesso, nell’Alto Medioevo, la compresenza di popoli diversi
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nello stesso spazio e favoriva, nella mentalità comune, l’accettazione di gruppi che si autoregolavano sulla base di norme proprie.
Un mutamento graduale
Un mutamento di atteggiamento avviene molto gradualmente. Nei secoli, si sono radicati, da una parte, i sospetti suscitati anche da
comportamenti predatori e dal fatto che, nei periodi di maggiore turbolenza sociale, ai nomadi potevano unirsi fuoriusciti e malviventi. Dall’altra, compare, all’interno, un senso di colpa e di esclusione, la consapevolezza di dover espiare un qualcosa di atavico e di insiegabile, che trova forma anche nell’idea di (segue a p. 95)
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Dossier Trasposizioni letterarie
Esmeralda e Carmen, belle e fatali Carmen, la bella sigaraia gitana dell’omonimo melodramma di Georges Bizet, tratto dalla novella di Prosper Mérimée, è un po’ l’emblema di chi non sottostà ai vincoli e alla noia di una vita sociale regolata e, per questo, viene corteggiato e inseguito, ma finisce per pagare con la vita la propria irriducibile fierezza. Tutti non hanno occhi che per lei, tra invidie e desiderio, e quando si verifica un omicidio nella manifattura dei tabacchi di Siviglia è lei a essere accusata. Riesce poi a convincere a permetterle di fuggire il caporale José, che se ne innamorerà fino a seguirla sulle montagne in un covo di contrabbandieri. Sebbene lui abbia rinunciato a tutto per condividerne la vita, lei si invaghirà del torero Escamillo. Il quarto atto dell’opera si chiude con la pugnalata sferrata al petto di Carmen dall’amante deluso e respinto, a mettere fine a qualsiasi possibilità di unione fra la dimensione gitana e i gadjé (termine con cui erano indicati i non gitani). Tuttavia è Esmeralda, la protagonista femminile di Notre-Dame de Paris, a condensare l’immaginario romantico occidentale sugli zingari, inconciliabilmente diversi, vittime di vincoli che non accettiamo, ma non sappiamo eliminare, poeticamente ammirati per la loro libertà e, per questo, in fondo amati, di un amore che però non può che essere straziante. Nella Parigi dell’autunno del Medioevo guardata con gli occhi di Victor Hugo, tutto ciò che le ruota intorno è emblematico di una ribellione all’ordine costituito che non riesce a trasformarsi in un’alternativa realizzabile e resta un’utopia sentimentale: il processo
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e le torture che subisce per stregoneria, l’amore di Phoebus – che la dimenticherà ben presto per un matrimonio vantaggioso –, le attenzioni del canonico Frollo, fino alla dedizione pura e incondizionata di Quasimodo, il deforme al di fuori di qualsiasi scala sociale che vede in lei l’unica creatura che gli ha rivolto un gesto di attenzione e che arriverà ad annullarsi di fronte alla sua morte. La stessa Corte dei Miracoli da cui viene Esmeralda, ai margini della città sotto il dominio dello scaltro e spietato Clopin Trouillefou, non è un carnevalesco capovolgimento del mondo regolato dalle leggi, ma piuttosto il drammatico teatro in cui
si Bozzetto di Alexander Yakovlevich Golovin per un costume da utilizzare nella Carmen, melodramma di Georges Bizet. 1925. Omsk, Museo Regionale d’Arte «M. Vrubel».
contorcono le esistenze sofferenti di persone a cui è negata l’umanità a cui aspirerebbero. Appare come un’illuminazione per il pubblico borghese a cui Hugo si rivolge, la rivelazione che oltre la normalità ottusa esiste un altro mondo, ben piú profondo, straordinariamente ricco e imprevedibile. Ma per chi ne fa parte non c’è possibilità di vita all’esterno: la tragicità della morte vanifica ogni tentativo di unione. maggio
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In questa pagina Una lacrima per un sorso d’acqua, dipinto di Luc Olivier Merson ispirato a uno degli episodi del romanzo di Victor Hugo Notre-Dame de Paris, di cui sono protagonisti la zingara Esmeralda e il deforme Quasimodo. 1903. Parigi, Maison de Victor Hugo.
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Dossier In basso Le grotte dei gitani sul Sacro Monte (Granada, Spagna), incisione basata su un disegno di Gustave DorÊ e realizzata per l’opera Le Tour du Monde, pubblicata a Parigi nel 1862.
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A sinistra Gitanos de Alcala de Jenarez, dipinto di Emile-Etienne Esbens. XIX sec. Bayonne, Musée Bonnat.
essere stati i forgiatori dei chiodi con cui Cristo era stato crocifisso. In questa dialettica impercettibile affondano le radici dell’opposizione e della separazione fra due mondi, irrigidite da entrambi con la forza della paura, della disperazione, del rifiuto e dell’autoesclusione. Se non è spiegabile come questi due percorsi identitari siano andati di pari passo e si siano reciprocamente influenzati, è invece documentabile in che modo i processi di territorializzazione e la formazione degli Stati, attuando vincoli rigidi fra uomo e spazio, cittadino e fisco, residenza e confini, abbiano, di fatto, limitato le prerogative dei nomadi e le loro possibilità di movimento.
Spazi sempre piú ridotti
L’urbanizzazione, l’aumento degli spazi coltivati, l’incremento dei pascoli destinati all’allevamento dei bovini per la produzione dei formaggi avevano ristretto gli spazi fisici liberi. L’estensione delle riserve di caccia signorili e la difesa dei prati comuni dei cives avevano moltiplicato i divieti. I dazi, i controlli e le frontiere legati alle economie mercantilistiche fecero il resto. Nelle città, le corporazioni delle arti fecero il possibile per limitare la concorrenza dei loro prodotti, imponendo punzoni, segni di identificazione e tasse. In Romania, Ungheria e Bulgaria la protezione dei signori locali arrivò a trasformarsi in vere e proprie forme di schiavitú, con l’obbigo di non allontanarsi dalle terre legate al castello e al districtum. La marginalizzazione progressiva e l’impoverimento dei nomadi sono propri, però, dell’età moderna, cosí come la definizione del prototipo negativo dello zingaro. Anche l’identificazione con la stregoneria risale a que(segue a p. 98)
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Dossier Appuntamento in Camargue
Il raduno di Saintes Maries de la Mer Poco piú di un villaggio, fra le dune di sabbia e gli acquitrini battuti dal vento delle foci del Rodano, è dominato dalla mole di pietra grigia della sua chiesa-fortezza. Lí dentro, in casse di metallo sospese con grosse corde sopra il presbiterio, si conservano le reliquie di Maria Salomé, di Maria madre degli Apostoli Giacomo e Giovanni insieme con quelle di Sara, loro serva. E lí, il 24 e il 25 maggio di ogni anno, per onorarle, si radunano Rom e Sinti di tutte le provenienze, dando vita a canti, danze, preghiere, falò e a una processione che accompagna la statua di legno scuro di Sara, la loro protettrice, fino alle acque del Mediterraneo. Ancora oggi Les Saintes Maries de la Mer è uno dei cuori pulsanti del cristianesimo europeo. Da quelle onde tutto è iniziato: il viaggio delle due donne testimoni della Passione, che per sfuggire alle persecuzioni avevano lasciato Gerusalemme ed erano salite su una barca senza timone né marinai per approdare miracolosamente nel luogo piú selvaggio della Camargue, dove Sara aveva creduto al loro racconto, le aveva accolte nella sua povertà ed
era rimasta con loro per accudirle. Gli stessi rami salmastri del delta hanno guidato gli arrivi dei gitani dal Medio Oriente, dalla Grecia, poi dalla Spagna, fin verso le montagne dell’interno e le grandi città del Nord. Devozioni, musiche, tradizioni e memorie si sono sovrapposte e intrecciate in modo inestricabile fino a formare l’unicum a cui possiamo partecipare ai nostri giorni (info su www.saintesmaries.com, sito dell’Ufficio del Turismo, con sezioni anche in italiano).
Nel 542, nel suo testamento, Cesario, vescovo di Arles, nominava una chiesa dedicata a Notre-Dame du Radeau. Sui suoi resti ne fu costruita un’altra, piú possente, nel IX secolo e, nella seconda metà del XII, fu elevata l’attuale struttura fortificata, che fungeva da riparo per uomini e cose in caso di incursioni piratesche. Al suo interno, nel 1448, il duca di Provenza René commissionò i sondaggi che portarono al ritrovamento delle «tre Marie».
A destra l’illustrazione di copertina de Le Petit Parisien del 24 maggio 1908 dedicata all’annuale festa degli zingari a Les Saintes Maries de la Mer (Camargue, Francia meridionale). Nella pagina accanto Saintes Maries de la Mer. La chiesa-fortezza del paese, edificata tra il IX e il XII sec. come difesa contro i pirati, in cui il 24 e 25 maggio di ogni anno si celebra la festa di santa Sara, patrona di tutti i gitani.
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sto periodo ed è curioso che – allo stato attuale delle ricerche – non si registrino processi o condanne a nomadi per motivi religiosi: la ragione è da reicercarsi nel fatto che i diversi gruppi hanno sempre recepito i culti locali e non si sono uniti a formazioni ereticali. Tuttavia, segnali di un cambiamento di atteggiamento da parte degli Europei si attestano dall’inizio del Quattrocento, quando l’espansione ottomana provoca ondate di
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esuli e spostamenti ripetuti di gruppi rom, i primi a dover fuggire all’inizio di qualsiasi guerra.
I «tatari» di Hildesheim
Nelle cronache cittadine si riscontrano altri arrivi, che corrispondono probabilmente a nuovi spostamenti, se non a vere e proprie migrazioni. Nel 1407, a Hildesheim (Germania) si presentano viandanti definiti «tatari», nel 1417 alcuni gruppi vengono regi-
strati a Basilea. Lo stesso avviene in altri centri: vengono sempre esibite lettere di protezione firmate dall’imperatore Sigismondo, che danno il via libera allo stanziamento fuori dai nuclei urbani, senza che la popolazione manifesti reazioni ostili. Un gruppo piú che consistente, composto da circa 14 000 persone, arriva a Strasburgo nel 1418, guidato da un «conte» Michele, il quale afferma di essere fuggito dall’Egitto. Suo maggio
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A Gerusalemme
I tredici secoli dei Dom A Gerusalemme vive oggi un migliaio di zingari, per lo piú concentrati nella città vecchia, intorno a S. Anna e alla porta di Erode, a Ras al-Amud, Silwan e altri sobborghi. Si definiscono Dom o Domari e si ritengono parte di una popolazione piú ampia, sparsa fra la striscia di Gaza, la Cisgiordania, la Giordania e la Siria. La loro lingua mutua dall’arabo circa la metà dei vocaboli in uso e alcune strutture sintattiche, ma mantiene un forte sostrato indo-iranico che la accomuna al romanes e agli idiomi gitani d’Europa. Il patrimonio identitario dei Dom restituisce miti delle origini che si rifanno a un viaggio primordiale dall’India, all’ingresso nella Persia sasanide meritato con le arti della musica e della danza e a successive divisioni cruente fra vari gruppi tribali. Ne sarebbero derivate altre diaspore, verso la penisola arabica e, da qui, fino alla terra d’Israele, dove si sarebbero insediati prima dell’arrivo degli Arabi. Proprio il periodo dell’arrivo a ovest del Giordano è un problema destinato a restare aperto, per un popolo che ha elaborato una sua memoria svincolata da periodizzazioni cronologiche e che ha mantenuto un sistema di vita nomade o seminomade. Secondo un’altra versione, un primo nucleo (o, piú probabilmente, un insieme di clan che poi si uní ad altri già presenti) sarebbe arrivato a Gerusalemme fra i prigionieri di guerra di Saladino, dopo il 1187. È plausibile che, quando il condottiero curdo incentivò il ripopolamento della città dopo la cacciata dei cristiani latini, egli avesse indotto lo spostamento anche di comunità dom organizzate su base familiare e in grado di esprimere una certa rappresentanza politica. Infatti, a partire da allora, concessioni precise sono rilasciate ai Domari, guidati da un muktar, un capo riconosciuto. Cosí avvenne durante la dominazione ottomana, il mandato britannico, e cosí continua fino ai giorni nostri, con lo Stato di Israele. Viaggiatori e pellegrini nell’Otto e Novecento hanno lasciato testimonianze dei loro spostamenti stagionali da una città all’altra, utilizzando le tende come ripari privilegiati, della loro presenza intorno a Gerusalemme e delle strutture in legno, canne e teli in cui vivevano a ridosso delle porte di Giaffa, dei Leoni e di Erode. Di tutto ciò oggi non resta piú nulla. Benché siano sempre rimasti pressochè estranei alla politica cosí come agli scontri fra Israeliani e Palestinesi, né appaiano particolarmente interessati ad aspetti religiosi confessionali, i Domari rischiano di essere assimilati agli Arabi musulmani, perdendo cosí molte delle loro caratteristiche culturali, a partire dall’uso di ballare e suonare in spettacoli improvvisati all’aperto, dalle abitudini e dagli abbigliamenti delle donne, fino alla possibilità di tramandare la loro lingua in forme di organizzazione scolastica autonome. In alto, sulle due pagine Una decisione difficile, olio su tela del pittore austriaco Aloïs Hans Schram in cui una venditrice ambulante gitana cerca di convincere due donne ad acquistare uno scialle. 1893. Collezione privata. A destra la porta dei Leoni di Gerusalemme in una foto della seconda metà dell’Ottocento nella quale si vede una tenda zigana.
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Dossier Le persecuzioni
Porrajmos, lo sterminio di Rom e Sinti Il numero di 500 000 zingari sterminati dai nazisti e dai regimi loro alleati tra il 1940 e il 1945 è ampiamente approssimativo per difetto. La mancanza di documenti di identificazione dei nomadi, soprattutto dei bambini, ha fatto sí che le tracce di chi è stato deportato e ucciso nei campi di concentramento siano solo i registri dei lager stessi e dei trasporti, spesso distrutti già prima della fine della guerra. Inoltre, il fatto che i Rom si ribellassero violentemente ai trasferimenti forzati ha fatto sí che molti, giovani e uomini, fossero fucilati sul posto, lungo il tragitto. Altri sono morti di freddo e di fame durante marce dai campi in cui vivevano ai punti di raccolta e alle stazioni ferroviarie. L’assenza di una cultura gitana scritta ha fatto il resto: le testimonianze dei sopravvissuti sono state raccolte solo raramente, con pesanti limiti di catalogazione. I testimoni oculari non rom di singoli eccidi e rastrellamenti hanno saputo fornire indicazioni di luogo e date, ma non i nomi delle vittime, né la loro provenienza, che non avevano mai conosciuto. È cosí che la porrajmos – parola che sta per divoramento, distruzione – è un puzzle ancora da completare e da chiarire. Zingari furono internati a migliaia ad Auschwitz, Dachau, Ravensbrück, Treblinka, Buchenwald, Bergen Belsen, Chelmno, Maidanek, Gusen, Theresienstadt, Belzec, Sobibor. In Italia testimonianze parlano di campi di detenzione ad Agnone nel convento di S. Bernardino, in Sardegna a Perdasdefogu, in provincia di Teramo a Tossicia, a Campobasso, a Montopoli di Sabina, Viterbo, Colle Fiorito nella provincia di Roma e nelle isole Tremiti. Purtroppo, a seguito dell’occupazione tedesca, molti
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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
campi dell’Italia centrale e meridionale furono smantellati in vista dell’arrivo degli alleati ed esistono pochissime prove della loro esistenza. Da quel momento in poi la maggior parte degli zingari internati in Italia fu trasferita nei campi nazisti passando da Gries a Bolzano. L’unico campo di cui possediamo dati e documenti precisi grazie agli archivi comunali è quello di Tossicia. La presenza di detenuti zingari è documentata anche nel campo di Ferramonti di Tarsia, attivo dal 1940 al 1943. Le deportazioni avvenivano sulla base di motivazioni etniche, come dimostra la classificazione fra zingari di razza pura, zingari al 50%, zingari per piú o meno del 50% e non zingari introdotta già nel 1938 da Heinrich Himmler, capo delle SS e responsabile per la «questione zingara». Si aggiungevano discriminazioni di altro tipo e l’accusa di comportamenti antisociali. I nomadi venivano concentrati nei ghetti, in spazi separati (Varsavia, Loz). La segregazione rispetto agli Ebrei e agli altri prigionieri continuava anche nei lager, nei quali le famiglie dei nomadi venivano lasciate unite e dove solo una parte degli uomini era destinata al lavoro. Soprattutto i bambini – i gemelli in particolare – erano destinati a esperimenti medici e pseudoscientifici, i piú noti dei quali – per essere i piú documentati – sono quelli diretti da Josef Mengele ad Auschwitz. Rappresentano infatti l’applicazione di una serie di ricerche di eugenetica sviluppate da tempo in Germania. La destinazione di fondi pubblici e privati a sostegno di teorie sull’ereditarietà, l’handicap e la razza aveva incentivato molti sedicenti scienziati a sviluppare classificazioni e dati che servirono da base per leggi e maggio
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22 maggio 1940. Zingari sinti attraversano la città tedesca di Asperg sotto il controllo della polizia. Di lí a poco furono rinchiusi nel carcere di Hohenasperg e poi avviati ai lager della Polonia.
Nella pagina accanto, in alto un’anziana nomade, detenuta in un campo di concentramento in Polonia, viene intervistata da Eva Justin, assistente dello psicologo Robert Ritter, che teorizzò la «pericolosità della razza zingara». 1938. Nella pagina accanto, in basso un convoglio carico di Sinti, destinati a un campo di concentramento in Polonia. 1940.
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interventi politici sistematici. Nel 1936 lo psicologo Robert Ritter aveva iniziato con il supporto economico della Società Tedesca per la Ricerca indagini sulla «biologia degli ibridi zigani e ebrei», arrivando poi a pubblicare con la sua assistente Eva Justin teorie sulla «pericolosità della razza zingara». Tutto questo condusse alla soppressione finale di chi era rinchiuso nei lager, attuata con interventi diversi, tra il 1944 e il 1945. Prima della liquidazione degli zingari di Birkenau, pianificata per il maggio del 1944, vennero trasferiti negli altri campi del Reich tutti quelli ancora idonei a lavorare. Ma l’allora lager führer Georg Bonigut avvertí gli zingari dell’imminente arrivo delle SS. Cosí il 16 maggio gli zingari, organizzandosi e munendosi di qualsiasi attrezzatura potesse essere usata come arma di difesa, riuscirono momentaneamente a contrastare le SS. Quell’eroica rivolta fu inutile: l’eliminazione degli zingari fu solo posticipata al 2 agosto dello stesso anno. Prima di questa data i nazisti divisero la popolazione zingara, trasferendo piú di 1000 individui a Buchenwald in modo tale da togliere forze fresche pronte a resistere nuovamente. La notte del 2 agosto, 2897 zingari tra uomini, donne e bambini trovarono la morte nel crematorio numero 5, quello piú vicino allo Zigeunerlager (il «campo degli zingari»). Gli Ebrei italiani che testimoniano di quella notte collocano questo evento tra i ricordi piú tristi. Gli zingari erano coloro che suonavano, cantavano, e che con le voci dei propri bambini regalavano un po’ di vita a Birkenau. Dopo la loro eliminazione il lager cadde nel silenzio.
fratello, il «conte» Andrea, signore del Piccolo Egitto, si spinge fino a Bruxelles, a da qui in Olanda. Lo stesso ricompare quattro anni dopo a Bologna, diretto verso Roma.
Capi colti e preparati
Gli stessi sono a Parigi nel 1427 e si dichiarano fuggiti dall’Egitto, in quanto cristiani e perseguitati. Nel 1425 un gruppo scacciato dalla Francia giunge in Spagna e nel 1447 una «folla di Egiziani» entra a Barcellona, dove viene perseguitata e scacciata dalle autorità ecclesiastiche. Quel poco che se ne sa fa ipotizzare che queste aggregazioni facessero capo a leader colti e preparati, in grado di interloquire con le corti e con i prelati, capaci di interpretare paure e credulità e di prospettare vantaggi a chi li accogliesse. Né si deve escludere che aggregassero davvero vittime degli scontri militari in atto sulle due sponde del Mediterraneo, insieme con clan familiari già nomadi, avanzi di compagnie di ventura disciolte, diseredati, fuoriusciti. Da allora in poi si moltiplicarono gli attacchi diretti, i bandi, le restri-
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Dossier Al cinema La complessa filmografia sui nomadi testimonia la pluralità dei punti di vista sulla loro irriducibilità alle logiche stanziali e la loro sostanziale incomprensibilità. Latcho Drom (1993) di Tony Gatlif è uno splendido documentario sul viaggio non concluso dei Rom, dall’India fino ai giorni nostri, tutto giocato sulle musiche che, attraverso i secoli, raccolgono nel patrimonio di questo popolo sonorità persiane, danze turche, gioiose improvvisazioni klezmer, fino ai lamenti dei lager, al flamenco, alle contaminazioni del jazz newyorkese, alle canzoni di denuncia della Spagna degli anni Sessanta. Dello stesso Gatlif è Gadjo Dilo (Lo straniero pazzo, 1997), che presenta lo sconcerto di un non-rom che si ritrova all’interno di
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A sinistra una foto di scena da Un’anima divisa in due di Silvio Soldini (1993). In basso una scena dal film Gadjo Dilo (Lo straniero pazzo), girato dal regista inglese Tony Gatlif nel 1997.
una comunità di nomadi in Romania, oggetto dei loro sospetti e delle loro discriminazioni. In un gioco di sguardi, silenzi e canti strazianti, in un mondo di fango e miseria, è lui a sperimentare l’angoscia rabbiosa di chi è respinto e, di volta in volta, è sempre costretto a ripartire.
Forse ancora piú crudo è Il tempo dei gitani (1988) di Emir Kusturica: incentrato sulla storia della crescita del giovane Penhan, non risparmia l’immersione negli aspetti piú laidi della criminalità nascosta negli accampamenti rom (furto e traffico di bambini, nani, infermi, sfruttamento dell’accattonaggio). Fuori da ogni idealizzazione, allo spettatore resta una straniante amarissima simpatia. Un’anima divisa in due (1993) dell’italiano Silvio Soldini è la storia d’amore tutta urbana fra
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una guardia giurata che lavora in un grande magazzino e una giovane zingara che ha tentato di rubare e che lui cerca di aiutare a togliersi dall’ambiente in cui è vissuta. Sarà lui, infine, a perdere i legami con il suo mondo e a iniziare con lei un viaggio senza prospettive. King of the Gypsies (1978) di Frank Pierson è tratto dal libro di Peter Maas del 1975. Racconta la storia di un giovane e della sua famiglia romanes emigrata a New York e l’incancellabilità dei legami ancestrali anche nelle società metropolitane. Nel contesto violento della malavita organizzata, il dramma si sviluppa intorno ai modelli familiari della cultura gitana e alla successione al patriarca morente, Zharko Stepanowicz, che lascia la «sovranità» sul clan al nipote Dave e non all’inetto figlio Groffo, il quale, divorato dal rancore, arriverà a tentare di uccidere il figlio. zioni normative. Di pari passo andò cristallizzandosi l’idea di un diverso difeso solo da salvacondotti e privilegi rilasciati di volta in volta, che, non avendo una dimora fissa e rifutando di inquadrarsi nelle maglie ormai rigide delle corporazioni, di un fisco legato alla residenza, delle nazionalità che stavano fissando confini precisi, non poteva essere considerato altro che un pericolo, fonte di turbolenze, disordini, sospetti. L’impero ottomano da una parte, e gli Stati europei dall’altra, fissando le loro strutture territoriali, misero fine alla magmatica libertà di movimento che aveva caratterizzato – per scelta o per forza – le società nei secoli precedenti. Lo spazio degli zingari andò riducendosi a interstizio fra una legislazione e l’altra, margini fra economie agricole e mercantilistiche, strade strette fra
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La locandina de Il tempo di Gitani, girato da Emir Kusturica nel 1988.
campi e pascoli recintati, fessure fra divieti e permessi, scampoli di libertà pagati con il prezzo della fame, del freddo, della fuga. Vi furono costretti in massa nel 1492 dai decreti di Ferdinando II di Aragona che li cacciò non per motivi religiosi (i gitani erano cristiani) ma sulla base di distinzioni etniche, di motivi di ordine pubblico e di una generale ostilità verso i nomadi.
Migranti per sempre
Le migrazioni interne all’Europa furono una costante dell’epoca moderna, tanto da avere creato una rete di percorsi e di legami che, nei secoli, ha interessato l’intero continente. Nomadismo forzoso o forzata sedentarizzazione furono le due prospettive dettate dagli Stati nazionali e da una società che sempre meno accettava
la presenza degli stranieri e, meno che mai, le diversità. Né l’uno né l’altra, però, sono riusciti a sradicare lingua, identità e vitalità dei gitani. I progetti di assimilazione coatta si moltiplicarono anche nell’età dell’assolutismo illuminato, con la sottrazione sistematica alle famiglie dei bambini, che venivano dati in adozione in zone rurali, l’assegnazione di terre, gli incentivi all’inserimento in attività lavorative organizzate. Tanto che lo sterminio decretato dai regimi totalitari del Novecento appare come l’ultima disperata pagina di un libro di tentativi aperto secoli prima. La marginalità di oggi, negli spazi di risulta delle megalopoli, al di fuori di relazioni economiche positive, una sorta di limbo dolente, a stento ricorda i suoni e i canti dei primi arrivi. Eppure a quella memoria si aggrappa, strimpellando nel grigiore delle metropolitane, agli angoli delle strade, in mezzo al fango ai limiti delle periferie, in attesa – forse – di ritrovare una collocazione nella fluidità di un mondo postmoderno. V
Per saperne di piú U François de Vauxdefoletier, Mille
anni di storia degli zingari, Jaca Book, Milano 1997 U Alle radici dell’Europa: mori, giudei e zingari del Medioevo occidentale. Secoli XV-XVII, Atti del convegno internazionale, Verona 15 e 16 febbraio 2007, SEID Edizioni, Firenze 2008 U Guenter Lewy, La persecuzione nazista degli zingari, Einaudi, Torino 2002 U Giovanna Boursier, Massimo Converso, Fabio Iacomini, Zigeuner: lo sterminio dimenticato, Sinnos, Roma 1996 U Otto Rosenberg, La lente focale: gli zingari nell’Olocausto, traduzione di Maria Balí, Marsilio, Venezia 2000
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L’imperatore bibliofilo tesori di carta • Conservato nella Biblioteca
Riccardiana di Firenze, il Salterio di Federico II è impreziosito da miniature nelle quali si fondono elementi occidentali e orientali, in un amalgama che riflette la personalità del suo illustre committente
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n volume straordinario, per certi aspetti misterioso, come l’aura che circonda il suo committente: l’imperatore Federico II di Hohenstaufen, detto anche lo Stupor mundi. Si tratta del Salterio di Federico II, che il sovrano svevo commissionò con ogni probabilità a uno scrittorio di miniatori dell’Asia Minore per farne dono alla terza moglie, Isabella d’Inghilterra, figlia del re Giovanni Senzaterra e sorella di Enrico III Plantageneto. Il prezioso codice membranaceo, che risale agli anni 1235-1237, è conservato presso la Biblioteca Riccardiana di Firenze e catalogato col numero 323. Le raffinate miniature, che somigliano a veri e propri mosaici, richiamano da vicino lo stile bizantino, con oro e colori che risaltano nelle stupende immagini, ma anche lo stile classico dei manoscritti tedeschi e francesi, un mélange tra Oriente e Occidente. Proprio come era nel carattere dell’imperatore svevo, che parlava
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Un capolettera miniato del Salterio di Federico II. 1235-1237. Firenze, Biblioteca Riccardiana. Tra le scene si riconoscono l’Annunciazione e la Natività. tutte le lingue del Mediterraneo, ammirava Bisanzio e l’Islam, si sentiva egli stesso crocevia di culture, come la «sua» Sicilia.
Un matrimonio «politico» Federico amava i libri e amava leggere. Egli stesso afferma che quando gli impegni di governo glielo permettevano, si appartava per dedicarsi alla lettura, convinto che il sapere predisponesse l’animo alla libertà e all’autentica conoscenza. Ecco perchè aveva scelto proprio un libro come regalo di nozze per Isabella, nozze che oggi definiremmo politiche, in quanto l’intento dell’imperatore era quello di legare i suoi destini a una delle piú potenti casate reali d’Occidente. Il prezioso salterio doveva servire dunque a guidare Isabella nelle
sue preghiere (il termine indica infatti il libro biblico dei Salmi e assunse questo nome per l’abitudine di accompagnarne il canto con l’omonimo strumento a corde, n.d.r.), ma anche ad ammirare le policromie, i preziosi capilettera, la simbologia animale e vegetale che affascinano chiunque abbia la ventura di ammirare il codice federiciano. Ancora due capilettera del Salterio di Federico II, con la Presentazione al Tempio (a sinistra) e l’ingresso di Gesú a Gerusalemme. 1235-1237. Firenze, Biblioteca Riccardiana.
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«Sfogliando le pagine del manoscritto – osserva Antonio Paolucci –, di fronte al bestiario liturgico che occupa con i suoi significati simbolici i capilettera e i decori rampicanti, si comprende il De arte venandi cum avibus (il trattato di falconeria considerato come il capolavoro di Federico II, n.d.r.)». La miniatura iniziale rappresenta l’Uomo Beato, e si richiama alla Sua missione sulla terra, che è Miniatura raffigurante le nozze tra Federico II e Isabella d’Inghilterra, da un’edizione dei Chronica maiora di Matteo di Parigi. 1200-1259. Londra, British Library. Il prezioso salterio che porta il suo nome fu donato dall’imperatore svevo alla principessa britannica appunto in occasione del matrimonio.
missione divina. Sono poi raffigurate l’Annunciazione e la Natività. Nelle pagine del codice le miniature sono disposte accanto alle prime righe della scrittura, vergate in oro. L’aspetto dei personaggi riprende lo stile bizantino, con una coloritura piuttosto cupa e gli incarnati prevalentemente scuri. I decori degli incipit sono tratteggiati da teste umane o da motivi vegetali.
Decorazione esuberante «Le mobili foglie, i lupi macilenti, i leoni imperiali – afferma Giovanna Lazzi, direttrice della Biblioteca Riccardiana – che Federico II amava tanto da farli scolpire persino nel suo bagno personale nel siracusano Castel Maniace e poi le figure delle Sacre Scritture, ieratiche e severe, le
esili architetture cosí evocative dei luoghi santi, costellano ogni pagina». La storia del manoscritto è anch’essa avventurosa. Le notizie non sono moltissime e, come accade spesso in questi casi, fioriscono le ipotesi. È certo che il codice sia appartenuto a una suora, Margherita Scorno, di agiata famiglia pisana, la quale lo ha conservato nel monastero domenicano di S. Silvestro, nel Valdarno pisano, dove doveva rivestire un ruolo assai importante, dato il suo lignaggio. Probabilmente furono i familiari della religiosa a portare dall’Italia meridionale, che essi frequentavano per ragioni commerciali, il prezioso salterio, appartenuto prima forse agli Aragonesi che dominavano a Napoli e in Sicilia. Alcuni studiosi ipotizzano che in precedenza il manoscritto si trovasse ad Acri e che, dopo la sua caduta, nel 1291, sia giunto in Italia. Il fatto che il libro sia transitato o abbia stazionato nel Vicino Oriente, potrebbe trovare conferma nel risalto che nelle pagine del codice viene riservato alla città di Gerusalemme e in particolare al Santo Sepolcro: non dimentichiamo che siamo in epoca di crociate.
Gli ultimi proprietari Pare ormai accertato che, una volta giunto nelle mani di suor Margherita, esso sia rimasto nel monastero di S. Silvestro fino alla sua soppressione, nel 1782, quando il Granduca Leopoldo lo trasformò in conservatorio per fanciulle. Ne farebbe fede la presenza nel calendario, aggiunto successivamente al codice, di santi propri dell’Ordine domenicano, al quale apparteneva suor Margherita. Con ogni probabilità, Gabriello Riccardi, uomo di grande cultura oltre che di altrettanto solida fede, acquistò in quegli anni il manoscritto, passato poi nella biblioteca di famiglia, che già si trovava nel palazzo omonimo, passato dai Medici ai Riccardi intorno alla metà del Seicento e in seguito divenuta pubblica. Alessandro Bedini
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Le storie bianche libri • Il catalogo degli avori raccolti da
Thomas Gambier Perry e donati dal nipote alla Courtauld Gallery di Londra è l’occasione per ripercorrere l’evoluzione di una delle produzioni artistiche piú significative dell’età medievale
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entiluomo di campagna, collezionista, pittore, filantropo, ecclesiologo, viaggiatore: Thomas Gambier Perry (1816-1888) fu uomo dagli interessi davvero vasti, capace di riunire una collezione oggi ritenuta tra le piú importanti dell’epoca vittoriana. Nel 1966 Mark Gambier-Perry, nipote di Thomas, decise di donarla al Courtauld Institute of Art di Londra, che ne ha avviato la catalogazione sistematica e la pubblicazione, di cui questo volume, curato da John Lowden, costituisce la prima tappa. Come esordio, la scelta è caduta
sugli avori, un corpus formato da un numero relativamente modesto di manufatti, 28, ma caratterizzato dall’elevata qualità di ciascuno di essi e dall’ampio orizzonte cronologico rappresentato.
Nozze reali Infatti, nonostante i problemi di datazione diretta – solo un medaglione raffigurante Anna, regina di Boemia e Ungheria, può essere collocato con sufficiente certezza tra il 1521, anno del matrimonio della sovrana con l’arciduca Ferdinando, e il 1524 –,
John Lowden Medieval and Later Ivories in The Courtauld Gallery Complete catalogue The Courtauld Gallery-Paul Holberton publishing, 144 pp., ill. col. 40,00 GBP ISBN 978-1-907372-60-5 paul-holberton.net i confronti stilistici consentono di inquadrare l’insieme tra il XIII e il XVIII secolo, con un nucleo piú consistente composto dai materiali riferibili al Tre e Quattrocento. Il volume propone un’ampia introduzione dell’autore, che illustra i criteri seguiti nello studio degli avori e nel loro ordinamento e ripercorre la vicenda biografica di Gambier Perry e la storia della sua collezione. Segue quindi il saggio di Alexandra Gerstein, che descrive il contesto in cui maturò la passione collezionistica del gentiluomo inglese, stimolata dal rinnovato interesse nei confronti dell’arte gotica che andava allora diffondendosi in Gran Bretagna e, piú in generale, in Europa. Placche in zanna di tricheco decorate a rilievo inserite come decorazioni di una cassetta in legno e rame dorato. 1100 (le placche); 1800-1850 circa (la cassetta).
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ma, anche a una ricognizione superficiale, appare evidente come Gambier Perry avesse saputo costituire una collezione di qualità rimarchevole. A titolo di esempio, possiamo ricordare la cassetta in legno, rivestita di rame dorato e decorata con placche ricavate da zanne di tricheco: si tratta di un assemblaggio effettuato nella prima metà del XIX secolo (epoca alla quale risale la cassetta), servendosi di avori verosimilmente lavorati in Germania intorno al 1100. Su ogni lastrina sono scolpiti vari personaggi, alcuni dei quali facilmente riconoscibili, come il Cristo in Maestà montato sul coperchio, altri per i quali sono state avanzate identificazioni solo ipotetiche, come nel caso di alcune figure femminili, che potrebbero rappresentare le Virtú cardinali (Prudenza, Fortezza, Giustizia e Temperanza).
La mano degli Embriachi?
In alto particolare di una placca, probabilmente appartenente alla decorazione di un altare, raffigurante la Vergine con il Bambino e il Cristo risorto. Manifattura inglese o della Francia settentrionale. 1250-1300. A destra cofanetto ligneo ottagonale decorato con placche in avorio in parte raffiguranti episodi della vita di Paride di Troia. Le placche sono verosimilmente attribuibili alla celebre bottega veneta degli Embriachi e databili al 1400-1430; il manico del coperchio è invece di manifattura francese ed è databile al 1350 circa; l’insieme è frutto di un assemblaggio eseguito intorno al 1800. Si passa quindi al catalogo ragionato dei 28 manufatti, a ciascuno dei quali è dedicata un’ampia scheda analitica, corredata da un apparato iconografico ricco e particolareggiato. Non è certo questa la sede per dare conto in maniera sistematica di ogni singolo oggetto,
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A un altro assemblaggio ottocentesco si deve invece un cofanetto ottagonale, nel quale sono state inserite placchette di cui è certa la produzione veneta e che potrebbero essere state realizzate, nei primi decenni del Quattrocento, dalla Bottega degli Embriachi, che si affermò come uno dei piú importanti atelier per la lavorazione dell’avorio a livello europeo. In questo caso, il tema delle decorazioni è desunto dalla tradizione letteraria classica e, in alcune scene, sono stati riconosciuti episodi della vita dell’eroe troiano Paride. Il catalogo è stato realizzato anche grazie al materiale raccolto e messo a disposizione del web dal Gothic Ivories Project (gothicivories. courtauld.ac.uk) un progetto curato dallo stesso Courtauld Institute, che, dalla sua attivazione, nel 2008, ha catalogato oltre 3000 manufatti in avorio. Stefano Mammini
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Lo scaffale Antonella Ranaldi Paola Novara (a cura di) Restauri dei monumenti paleocristiani e bizantini di Ravenna patrimonio dell’umanità
e
Comune di Ravenna, Archidiocesi di RavennaCervia, Ministero di beni e
delle attività culturali e del turismo, ravenna, 215 pp., ill. col.
25,00 euro ISBN 978-88-907717-2-9
Ravenna vanta alcuni dei migliori esempi di architetture religiose dell’epoca altomedievale e un patrimonio musivo ricchissimo, senza eguali in Occidente. Sebbene molti luoghi di culto siano andati distrutti nel tempo, la città conserva otto monumenti che l’UNESCO ha dichiarato Patrimonio dell’Umanità: le basiliche di S. Vitale, S. Apollinare in Classe e S. Apollinare Nuovo, il Battistero degli Ariani, il Battistero Neoniano, la Cappella Arcivescovile, i mausolei di Galla Placidia e di Teodorico. Testimonianze magnifiche, alle quali è dedicato questo pregevole volume, che riunisce 11 contributi di diversi specialisti, soffermandosi sul delicatissimo tema della conservazione. La prima parte è dedicata alle architetture, con un
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excursus storico, curato da Paola Novara, sulle campagne di restauro intraprese nel XIX secolo; periodo contraddistinto da interventi isolati, nel corso del primo cinquantennio, a cui fa seguito, con l’Unità d’Italia, la creazione di organi istituzionali preposti alla tutela dei beni artistici. A questo secondo periodo risalgono gli importanti sbancamenti operati
dal Genio Civile per riportare alla quota originaria i numerosi monumenti ravennati. Risalgono invece alla seconda metà dell’Ottocento i piú significativi interventi di Filippo Lanciani e Giovanni Battista Cavalcaselle (Maria Carmela Maiuri), in cui finalmente le competenze archeologiche e quelle tecniche si riuniscono in un proficuo dialogo. Partendo dalla creazione, nel 1897, della Soprintendenza
di Ravenna, Antonella Ranaldi analizza quindi il succedersi delle varie direzioni, sino ad arrivare alla storia degli interventi piú recenti, con una serie di contributi dedicati ai singoli monumenti (Valter Piazza, Luciano Marni, Emilio Roberto Agostinelli). Ai mosaici è invece dedicata la seconda parte del volume. I contributi di Antonella Ranaldi, Cetty Muscolino e Linda Kniffitz si soffermano sulla storia degli interventi di restauro intrapresi nei secoli, esaminandone gli aspetti tecnici e metodologici. Interessante è la panoramica esposta, da cui si evince come il mosaico, in fondo, sia il risultato finale di un processo lunghissimo che nel tempo ha portato a inevitabili perdite e successive reintegrazioni, in una sovrapposizione di saperi storicotecnici che riflettono le singole epoche e che necessitano di essere indagati e compresi, per un approccio corretto al monumento e alla sua preservazione. Completano il volume due cronologie dei restauri effettuati sulle architetture e sui mosaici, nonché un ampio corredo iconografico di cui si
segnalano in particolar modo le interessanti foto d’archivio che illustrano varie fasi della storia architettonica ravennate. Franco Bruni Silvia Beltramo e Paolo Cozzo (a cura di) L’accoglienza religiosa. tra tardo antico ed età moderna Luoghi, architetture, percorsi
Viella, Roma, 224 pp., ill. b/n
33,00 euro ISBN 978-88-6728-241-8 viella.it
I temi dell’accoglienza e del pellegrinaggio hanno caratterizzato, a partire dall’epoca altomedievale, la vita delle comunità cristiane, con il conseguente sviluppo di una vera e propria rete viaria, concomitante alla presenza di importanti centri santuariali, ovvero di loca sacra legati alla presenza di culti martiriali. A questa «topografia ospitaliera» si rivolge il volume curato da Silvia Beltramo e Paolo Cozzo, che raccoglie 11 saggi dedicati ad altrettanti aspetti dell’accoglienza religiosa, dall’epoca
tardo-antica sino agli ultimi due contributi che toccano l’epoca moderna (XVI-XVIII secolo) e l’attualità. In realtà, la maggior parte dei contributi analizza la fase nascente – delineata da Diego Peirano nel saggio sull’accoglienza nell’Oriente cristiano – e centrale di questo fenomeno. Dettato da personali esigenze devozionali ma vissuto anche come esperienza diplomatico-politica e di prestigio personale, e benché avesse perduto importanza a seguito della caduta di Gerusalemme in mano degli infedeli alla fine del XIII secolo, il pellegrinaggio in Terra Santa riprese vigore tra il XIV e il XV secolo, nel momento in cui i contatti con quelle regioni si giovano della presenza di una comunità francescana a Gerusalemme. Ecco dunque riprendere
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vigore l’esperienza del viaggio di devozione e, con esso, un genere letterario F. B. Loredana Imperio Vestire nel Medioevo Moda, tessuti ed accessori tratti dalle fonti d’epoca
Edizioni Penne & Papiri, 184 pp. + 8 colore, ill. b/n e col.
19,00 euro ISBN 978-88-89336-54-0 penneepapiri.it
Vuoi per vanità personale, vuoi per decreto di legge, l’abbigliamento sottostava a codici precisi di identificazione, e ogni gruppo sociale vi obbediva.
Cosí le meretrici, gli Ebrei, i giullari e i saltimbanchi portavano vesti a righe, simbolo di promiscuità, disordine, tendenze immorali; e i frati carmelitani, membri di un Ordine nato in Terra Santa dove tale significato non era diffuso, quando giunsero in Europa dovettero abbandonare il loro
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tradizionale mantello a righe bianco-marrone e adottarne uno bianco, a scanso di spiacevoli equivoci. Ma il vestiario era anche il terreno piú adatto per sfoggiare ricchezza, e i nobili ne approfittavano volentieri, calmierati dalle cosiddette «leggi suntuarie» contro il lusso, che poi tanto severe non erano: alle donne nobili era concesso indossare vesti con strascichi lunghi quasi un metro, mostrare il seno nudo sino alla forcella, e sfoggiare oro in collane e monili vari per un peso di diverse once. Velluti «allucciolati», cosí detti perché avevano minuti anellini d’oro infilati nel tessuto che al sole brillavano come lucciole nelle notti d’estate; broccati di seta variopinta, lini finissimi, calzature tinte di rosso, e poi ancora cinture preziose, cappelli e veli, corone d’oro e d’argento tempestate di perle e di pietre preziose: l’immagine di un’era sbiadita e austera non s’attaglia al tardo Medioevo. E sotto il vestito? Niente (o quasi). Gli uomini indossavano i femorali, una sorta di mutande lunghe fino al ginocchio che i contadini, durante il lavoro estivo sotto la canicola, portavano
quale unico indumento in ossequio al dovere di coprire le pudenda. Le donne, soprattutto in certi giorni cruciali del mese, dovevano bardarsi con ingombranti pannolini di lino, mentre per il resto del tempo erano inguainate nella sola camicia, che in ogni caso le copriva dal collo alle caviglie. Ricco di documenti, fotografie, curiosità e riproduzioni di abiti ricavati dalle miniature del tempo, il libro di Loredana Imperio è bello e vario. Leggerlo è divertente, un po’ come sfogliare una rivista di moda. Barbara Frale Mara Nocilla Testimonianze islamiche a Roma I ‘bacini’ del campanile dei SS. Giovanni e Paolo (XII secolo)
Edizioni Quasar, Roma, 270 pp., ill. b/n
70,00 euro ISBN 978-88-7140-505-5 edizioniquasar.it
Opera di taglio specialistico, la monografia prende spunto dal caso del campanile della chiesa dei SS. Giovanni e Paolo di Roma per presentare uno studio dei «bacini», recipienti ceramici, perlopiú di produzione islamica, che venivano inseriti nelle murature degli edifici a scopo decorativo. Il volume offre un contributo
Simone Ferrari, Alberto Cottino Forestieri a Milano Riflessioni su Bramante e Leonardo alla corte di Ludovico il Moro Nomos Edizioni, Busto Arsizio, 192 pp., ill. col.
importante per la conoscenza della città nel Medioevo e svela un patrimonio ceramico e artistico sconosciuto al pubblico dei non addetti ai lavori, proponendo, nel contempo, uno spaccato di vita affascinante, con le sue tecnologie e i suoi vivaci commerci. Dal generale, con la storia del quartiere e del complesso celimontano, si arriva al particolare, cioè allo studio dei 20 manufatti del campanile, di cui si analizzano le forme, i motivi ornamentali ed epigrafici, le tipologie di impasti, i rivestimenti e le tecniche di produzione. Le ceramiche sono inserite in un quadro storico completo, basato sul confronto con altri bacini rinvenuti nell’Europa meridionale, nell’Africa nord-occidentale e in varie città italiane, un fenomeno compreso tra il IX secolo e l’alba del Rinascimento. Cristina Ferrari
49,00 euro ISBN 978-88-88145-94-5 nomosedizioni.it
Quelli della signoria di Ludovico Sforza, detto il Moro, furono anni turbolenti, che, tuttavia, non impedirono al duca di Milano di farsi promotore di importanti imprese artistiche e architettoniche, legando il suo nome alla contemporanea
presenza nel capoluogo lombardo dei due «forestieri» d’eccezione a cui il volume è dedicato: Donato Bramante e Leonardo da Vinci. I due maestri hanno lasciato nella città lombarda testimonianze eccelse del proprio genio, prime fra
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caleido scopio tutte la chiesa di S. Maria delle Grazie e la grande rappresentazione dell’Ultima Cena che ha fatto del Cenacolo del Refettorio della stessa chiesa uno dei luoghi d’arte piú preziosi al mondo. Imprese dunque memorabili, che costituiscono il filo conduttore del volume, ma, al tempo stesso, si trasformano nel «pretesto» per l’approfondimento di spunti critici e riflessioni storiche di notevole interesse, come è nel caso del saggio in cui Simone Ferrari indaga i possibili scambi intercorsi tra Bramante, Leonardo e il grande pittore e incisore tedesco Albrecht Dürer. Stefano Mammini Jacques Rossiaud Amori venali La prostituzione nell’Europa medievale
Editori Laterza, Roma-Bari, 360 pp., 19 figg. col.
24,00 euro ISBN 978-88-581-0594-8 laterza.it
Essenziale, per potersi sintonizzare con la frequenza scelta da Jacques Rossiaud, è la lettura della lunga Introduzione che apre il volume: l’autore, infatti, non si limita a illustrare in che modo abbia scelto di articolare il suo saggio, ma ne inquadra la genesi e lo sviluppo all’interno
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del piú ampio dibattito sulla natura della prostituzione e sulla sua considerazione anche al giorno d’oggi. A questa dichiarazione d’intenti fa dunque seguito una trattazione che va ben oltre la cronistoria del fenomeno o l’esegesi delle fonti documentarie che permettono di ricostruirne i caratteri. Come in una sorta di requisitoria, lo storico francese esordisce con la presentazione dei fatti e fornisce il primo, fondamentale termine di riferimento, vale a dire l’ambito storico in cui si dipana la sua analisi, che corrisponde, grosso modo, al periodo compreso tra il 1000 e il 1500. Segue quindi la descrizione delle piú significative forme di regolamentazione degli amori venali, ispirate, di volta in volta, dall’approccio scelto nei confronti del mestiere piú antico del mondo, sul quale aveva naturalmente un’influenza decisiva l’atteggiamento della Chiesa. La
parte centrale e piú corposa del saggio è quella in cui si mette a fuoco il ruolo del meretricio nelle diverse nazioni europee, ricostruendone tempi e modi. Testimonianze, documenti e osservazioni che contribuiscono a scrivere quella che Rossiaud definisce «la triste e ineluttabile storia di un’integrazione impossibile». S. M.
il destinatario, indicandolo, invece, in un documento successivo, nel principe al-Zahir Gazi, terzogenito di Saladino, che fu governatore di Aleppo dal 1186 al 1216. Il trattato si compone di ventiquattro capitoli, che possono essere divisi in due parti: nella prima, al-Harawi elenca le doti etico-
‘Ali ibn Abi Bakri al-Harawi Consigli sugli stratagemmi di guerra
a cura di Roberto Celestre, il melangolo, Genova, 96 pp. + testo arabo
9,00 euro ISBN 978-88-7018-913-1 ilmelangolo.it
Il principe «deve sapere riconoscere gli immensi favori accordatigli da Dio», «non deve trascurare di sorvegliare chi ha nominato a capo di un governatorato», «deve tener lontano dalla propria cerchia i corrotti e i degenerati»: sono queste alcune delle raccomandazioni che ‘Ali ibn Abi Bakr al-Harawi, asceta, pellegrino, studioso di scienze islamiche e poeta attivo alla fine del XII secolo, elencò nell’opera qui presentata nella traduzione italiana, con testo originale. Nella stesura originaria, l’autore non specificò
morali e le qualità spirituali che deve possedere chi sia chiamato a ricoprire un ruolo di governo; la seconda parte, invece, è una sorta di manuale, dedicato ad aspetti piú propriamente militari. S. M.
M. Palliser, storico del Medioevo che alla città ha dedicato oltre cinquant’anni di studi. La sua ampia e approfondita sintesi si giova dunque di quanto le fonti abbiano tramandato e delle molte informazioni acquisite grazie alle indagini archeologiche che hanno interessato l’area urbana. L’insieme dei dati arricchisce un quadro già particolarmente ricco – non si deve dimenticare che, oltre alla lunga fase medievale che costituisce l’oggetto del volume, York vanta anche l’importante parentesi romana, quand’era nota come Eburacum – e che lo stesso Palliser, tuttavia, definisce ancora provvisorio, prevedendo le possibili
dall’estero David M. Palliser Medieval York 600-1450
Oxford University Press, New York, 332 pp., ill. b/n
45,00 GBP ISBN 978-0-19-925584-9 oup.com
L’amplissima bibliografia su York si arricchisce di un nuovo titolo, questa volta per mano di Daniel
future acquisizioni. Ciononostante, il repertorio dei dati è abbondante e consente di tracciare un profilo storico piú che attendibile della città inglese. S. M. maggio
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Note fiamminghe musica • Grande fu l’importanza della
scuola formatasi nell’area dei Paesi Bassi, la cui lezione venne diffusa, tra gli altri, dai molti autori che scelsero di mettersi al servizio delle ricche e raffinate corti italiane
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edicate alla polifonia quattrocinquecentesca, due recenti registrazioni si soffermano sulla produzione sacra di alcuni illustri esponenti della scuola fiamminga, spesso accomunati dalla scelta di accettare gli incarichi offerti dalle corti italiane che, tra il XV e il XVI secolo, divennero centri di eccellenza nel campo della produzione culturale e del mecenatismo artistico. La figura di Jacques De Wert è per esempio legata alla corte gonzaghesca di Mantova, e in particolare al duca Guglielmo, che, negli anni Sessanta del Cinquecento, fece costruire la basilica di S. Barbara, nominando il compositore fiammingo «maestro di chiesa e di camera». All’attività «di chiesa» è dedicata l’antologia Giaches de Wert. O mors, quam amara est (Brilliant Classics 94684, 1 CD, brilliantclassics. com), che ci propone l’integrale del Motectorum Liber Primus, pubblicato nel 1566. In questi mottetti De Wert prende spunto da alcuni testi dell’Antico Testamento, dei Vangeli e da testi devozionali di varia provenienza, dando voce a splendidi brani a cinque voci – fa eccezione il mottetto Adesto, a sei parti – nei quali padroneggia brillantemente la lezione della grande polifonia franco-fiamminga. Pur trattandosi di una formazione semiprofessionale, il Collegium
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Musicum Amsterdam, guidato da Anthony Zielhorst, esibisce una buona padronanza stilistica.
Alle soglie del barocco Al genere della messa è dedicata la seconda registrazione, La Quinta essentia (HMG 501922, 1 CD, harmoniamundi.com), con brani di Orlando Di Lasso (1532-1594), Giovanni Pierluigi da Palestrina (1525 circa-1594) e Thomas Ashwell (1478-1513 circa). L’apertura è
affidata alla Missa Tous les regrets di Di Lasso che, della polifonia sacra del Cinquecento, rappresenta l’espressione piú esuberante e ricca di inventiva, con un carattere quasi pre-barocco. Mentre la messa di Di Lasso riprende,
rielaborandola, una chanson profana del fiammingo Gombert, la Missa Ut re mi fa sol la di Palestrina si basa su un semplicissimo esacordo ascendente. Espressione di pura spiritualità, questa messa, rispetto alla precedente, è avulsa da ogni elemento profano, con uno stile in cui si compie la piú alta fusione tra il contrappunto fiammingo e una marcata fluidità melodica tutta italiana. Ancora diverso è il caso del misconosciuto Ashwell, vissuto a cavallo tra Quattro e Cinquecento, la cui Missa Ave Maria sfoggia straordinarie soluzioni ritmiche e compositive e un florido virtuosismo delle parti vocali. L’Huelgas Ensemble, diretto dall’olandese Paul Van Nevel, offre quanto di meglio ci si possa aspettare da una esecuzione di polifonia vocale: precisione e intonazione assolute, una vocalità trasparente nei passaggi d’insieme e intensa negli assolo, un fraseggio intelligente e sensibile, frutto di una lettura emozionante e capace di far risaltare ogni singolo passaggio. Franco Bruni
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Un campione dell’Ars Nova
musica • La sensibilità
interpretativa dei Mala Punica dà nuova linfa alle composizioni profane di Paolo da Firenze, un versatile monaco benedettino, di cui conosciamo l’attività di compositore grazie a un prezioso manoscritto oggi custodito a Parigi
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ingolare è la vicenda biografica di Paolo di Marco, un monaco benedettino nato a Firenze intorno al 1355, la cui attività di compositore gli valse l’appellativo di «tenorista». Noto come Paolo da Firenze, ci ha lasciato una vasta opera musicale, quasi interamente contenuta in un manoscritto conservato alla Bibliothèque nationale de France (BnF, Ms. Pit 568); di lui si conoscono soprattutto le vicissitudini della carriera ecclesiastica e di quella diplomatica: dalla sua nomina ad abate nella diocesi aretina (1401), al rettorato dell’ospizio fiorentino di Orbatello (1417), sino all’attività di consigliere della curia vescovile fino al 1428. Una vita «pubblica» impegnata e assai longeva, essendo morto piú che ottantenne nella seconda metà degli anni Trenta del XV secolo. Del Paolo musicista, sorprendono la ricchezza e la raffinatezza delle composizioni, di cui ci sono pervenute principalmente quelle profane. In compenso, il summenzionato codice parigino ci regala pagine bellissime dell’artista,
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che, riprendendo la tradizione arsnovistica, si è distinto per lo suo stile rigogliosissimo delle numerose ballate – genere principe dell’Ars Nova italiana – e in particolare in quello del madrigale allegorico, di cui l’antologia Paolo da Firenze. Narcisso Speculando (HMG 501732, 1 CD, harmoniamundi.com) ci offre un assaggio, proponendo 8 dei 13 madrigali pervenutici.
Dai toni encomiastici all’invettiva Composti per un organico variabile dalle 2 alle 3 voci, questi madrigali, oltre a un intricato virtuosismo fatto di preziosi melismi – che nel brano Non piú infelice alle sue membra nacque Narcisso raggiunge i vertici piú alti del linguaggio del tardo Trecento arsnovistico –, propongono testi la cui pregnanza simbolica e allegorica rivela il pensiero del compositore, le sue posizioni in tema di moralità, di politica, passando dai toni encomiastici all’invettiva diretta.
Ad alternare i brani vocali subentrano anche due istampitte – un genere di danza diffusa in questo periodo – e due ballate strumentali, derivanti da brani originariamente concepiti per le voci, e splendidamente interpretati dai solisti del gruppo Mala Punica che si cimentano con la viella, l’arpa, il flauto e la trombetta a tiro. Questi strumenti si accompagnano alle belle voci dei soprani Tina Aagaard ed Elisa Franzetti, del controtenore Alessandro Carmignani e del tenore Gianluca Ferrarini, diretti da Pedro Memelsdorff in una interpretazione di qualità davvero elevata. Mala Punica è un gruppo musicale eccellente, impegnato nella riscoperta e nella riproposizione degli aspetti meno conosciuti del XIV secolo, che si distingue per le scelte raffinate e meno frequentate del grande repertorio dell’Ars Nova. F. B. maggio
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Cantare l’Eneide musica • I versi
di Virgilio e di altri grandi autori dell’età classica furono fonte d’ispirazione per piú d’un compositore. Una recente antologia ne offre una testimonianza significativa
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on l’avvento dell’Umanesimo, l’antichità classica tornò in auge, innescando un’autentica rivoluzione culturale. E proprio l’ars musicae, sebbene distante anni luce dall’espressione musicale greco-romana, si fece portavoce attraverso il suo linguaggio della grande letteratura classica in latino, recuperando l’utilizzo di una lingua sino ad allora appannaggio quasi esclusivo della produzione liturgica. Tra Quattro e Cinquecento si assiste dunque alla nascita di una produzione musicale che, prediligendo autori come per esempio Virgilio e Orazio, diede luce a un genere totalmente nuovo. A questo specifico repertorio è dedicata l’antologia Le chant de Virgile (HMA 1951739, 1 CD, harmoniamundi.com) che propone musiche composte tra gli ultimi decenni del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento.
Il lamento e la morte di Didone Virgilio fa la parte del leone, con otto brani su testi tratti dall’Eneide, e si possono poi ascoltare pezzi su liriche di Orazio e una parafrasi in lingua francese di Catullo. Nel caso di Virgilio, colpisce l’attenzione di numerosi compositori per il lamento e la morte di Didone, narrati nel IV libro dell’Eneide: Dulces exuviae, dum fata deusque sinebat. È un passaggio di grandissimo pathos, che grande
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fortuna ha avuto nel corso della storia della musica e del quale vengono proposte le versioni polifoniche tardo-quattrocentesche di Josquin Desprez, Jean Mouton, Mabriano de Orto, e quelle cinquecentesche di Jakob Vaet, Theodoricus Gerarde e Orlando di Lasso: brani davvero magnifici, nei quali il sentimento del personaggio virgiliano si riassume in un discorso polifonico di rara bellezza, i cui stili e approcci musicali svelano un mondo sonoro che, seppur dominato dal contrappunto e dalle sue regole matematiche, lascia trasparire il messaggio testuale, anche con il sovente ricorso a passaggi in stile declamatorio-accordale. Varie sono le soluzioni interpretative adottate, dall’uso delle sole voci a cappella, alla voce solista con accompagnamento strumentale (violone rinascimentale, viola da gamba, lirone, flauto a becco) che esaltano gli stili compositivi del variegato panorama musicale quattro-cinquecentesco di cui l’Huelgas Ensemble, diretto da Paul Van Nevel è uno dei massimi interpreti. Dieci voci curatissime, tanto nell’emissione quanto nella fusione d’insieme, che nella polifonia rappresentano requisiti essenziali. Egregi sono anche gli assolo, che si accompagnano con altrettanti egregi strumentisti, in una interpretazione di grandissimo pregio. F. B.
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