Medioevo n. 216, Gennaio 2015

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MEDIOEVO n. 216 gennaio 2015

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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esoterismo

medioevo nascosto

San Giovenale di Orvieto

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gli storie di un potere occulto € 5,90

francesco sassetti Un finanziere illuminato alla corte dei Medici

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Mens. Anno 19 numero 216) Gennaio 2015 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

abramelin francesco sassetti scimmia la rocca di Angera s. giovenale dossier gli antipapi

Il manoscritto di Abramelin nella Biblioteca di Brescia



sommario

Gennaio 2015 ANTEPRIMA

52

almanacco del mese

5

mostre «Bonissimo inventore» Sí, viaggiare...

6 8

celebrazioni I suoi primi 900 anni

10

restauri Maria ritrova la corona

14

appuntamenti La fame è finita Due pani, due storie L’Agenda del Mese

16 17 22

La scimmia

52

di Lorenzo Lorenzi

misteri

32

saper vedere Angera La rocca della Fortuna

111

musica L’Europa al ritmo di danza Corsica sacra

112 113

62

personaggi

di Furio Cappelli

Il finanziere erudito

medioevo nascosto

Francesco Sassetti di Alessio Montagano

libri Lo scaffale

luoghi

Abraham Abramelin di Maria Elena Loda

immaginario Quel mutante lontano da Dio

STORIE Libri, maghi e misteri

COSTUME E SOCIETÀ

40

40

S. Giovenale

Dipingere con l’anima

di Giuseppe M. Della Fina

102

CALEIDOSCOPIO cartoline Nella città di re Sancho

108

Dossier

habemus papam, anzi due Storia degli antipapi di Elena Percivaldi

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storica del Medioevo. Stefania Romani è giornalista. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

MEDIOEVO Anno XIX, n. 216 - gennaio 2015 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Tel. 02 0069.6352

Illustrazioni e immagini: DeA Picture Library: pp. 59, 82 (alto), 86-87, 94, 96/97, 100; Veneranda Biblioteca Ambrosiana: copertina (e pp. 36/37); G. Dagli Orti: p. 61 (basso); G. Gnemmi: p. 65; A. Dagli Orti: pp. 77, 84; M. Seemuller: p. 79 – Cortesia Ufficio stampa: pp. 6-11, 14 – Cortesia dell’autore: pp. 16-18, 37, 43, 44 (alto), 46-49, 56, 58, 61 (alto), 102-107 – Bridgeman Images: pp. 32-35, 81; Costa/Leemage: p. 82 (basso); Archives Charmet: p. 83 – Archivi Alinari, Firenze: pp. 40; Giuliano Valsecchi: p. 41 – Corbis Images: Atlantide Phototravel: p. 42; Historical Picture Archive: p. 60; Walter Zerla: pp. 62/63 – Doc. red.: pp. 44 (basso), 45, 50-51, 72, 80 – Foto Scala, Firenze: pp. 68-70, 88/89; su concessione MiBACT: pp. 52-54; BPK, Bildagentur für Kunst, Kultur und Geschichte: p. 57 – Mondadori Portfolio: Electa/Sergio Anelli: pp. 55, 73, 78/79; The Art Archive: p. 85; Album: p. 90; Leemage: p. 91; AKG Images: pp. 95, 97 – Marka: Yoko Aziz: p. 64; Giovanni Mereghetti: pp. 66, 71; Gustavo Tomsich: pp. 66/67 (alto) – ANSA: pp. 66/67 (basso) – Shutterstock: pp. 74, 92/93, 98-99 – Archivo del Museo Diocesano de Jaca: pp. 108-110 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 64, 104. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it

Editore: MyWay Media S.r.l.

Impaginazione: Alessia Pozzato

Presidente: Federico Curti

Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Cristina Ferrari è archeologa e giornalista. Mila Lavorini è giornalista. Maria Elena Loda è giornalista. Lorenzo Lorenzi è storico dell’arte. Alessio Montagano è membro dell’Accademia Italiana di Numismatica. Chiara Parente è giornalista. Elena Percivaldi è giornalista e

Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Segreteria marketing e pubblicità: segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 0069.6346 Direzione, sede legale e operativa: via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 00696369

Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1 Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Fax: 02 252007333 Posta: Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl - titolare del trattamento - al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere elencocompleto ed aggiornato dei responsabili.

In copertina Stregone, olio su tela del pittore francese Bénigne Gagneraux. 1790-1795. Milano, Pinacoteca Ambrosiana

Nel prossimo numero la guerra nel medioevo/1

saper vedere

Barbari contro Romani

Il tempietto di Cividale

immaginario

dossier

Il gallo di Carnevale

Scrivere nell’età di Mezzo


Almanacco del mese Box titolo box titolo

Testo Box 2009 l’Assessorato all’Istruzione, formazione e lavoro della Regione Lombardia ha avviato in Valtellina l’iniziativa a cura di Federico Canaccini sperimentale Learning Week, proponendo alle scuole settimane di iniziative culturali extracurricolari. Nel panorama scolastico e formativo italiano i percorsi Learning Week, caratterizzati da una forte valenza esperienziale U 1 gennaio 1001 U 16 sono gennaio sul territorio e da una modalità «full immersion», unici per lo schema Stefano sale al trono d’Ungheriaattuativo e per la possibilità data a ogni destinatario di poter partecipare al U 17 gennaio 1377 percorso formativo ritenuto piú corrispondente alle proprie esigenze. All’interno U 2 gennaio 1492 Gregorio XI riporta la sede papale a Roma, del progetto «L’Orlando Furioso in Valtellina» è stata quindi inserita la Learning I re cattolici conquistano Granada dopo la vacanza avignonese Week «L’immaginario ariostesco negli affreschi valtellinesi», che, organizzata dal Centro di Formazione ProfessionaleUe 18 dal Liceo Scientifico U 3 gennaio 1177 gennaio 532Donegani di Sondrio, oltre a offrire Repressione, agli studenti un momento di formazione culturale Un devastante terremoto in Nord Italia a Costantinopoli, della Rivolta di Nika provoca circa 30 000 morti tipicamente scolastico, permette loro il positivo inserimento in un contesto U 19 gennaio 1419 sociale e lavorativo. U 4 gennaio 871 Rouen cede all’assedio di Enrico V Lancaster: I Danesi sconfiggono presso Reading i Sassoni guidati la Normandia diventa inglese da Etelredo, re di Wessex e di Kent U

20 gennaio 1265

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21 gennaio 1276

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22 gennaio U 23 gennaio 24 gennaio 1458

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25 gennaio 1327

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26 gennaio 1340

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27 gennaio 1077

5 gennaio 1477

Prima seduta del Parlamento inglese a Westminster

U

6 gennaio 1412

Pietro di Tarantasia sale al soglio pontificio con il nome di papa Innocenzo V

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7 gennaio 1325

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8 gennaio 1324

U

A seguito della sconfitta di Carlo il Temerario a Nancy, la Borgogna viene annessa alla Francia Nasce a Domremy, Giovanna d’Arco

U

Alfonso IV è incoronato re del Portogallo

Mattia I Corvino è eletto re d’Ungheria

Muore Marco Polo, autore de Il Milione U

9 gennaio 475

Edoardo III il Plantageneto è il nuovo re d’Inghilterra

Basilisco costringe alla fuga l’imperatore Zenone U

10 gennaio 1072

Edoardo III viene polemicamente incoronato re di Francia: è la Guerra dei Cent’anni

U

11 gennaio 1055

L’imperatore Enrico IV si umilia al castello di Canossa ai piedi di papa Gregorio VII

Il normanno Roberto, detto il Guiscardo (l’Astuto) conquista Palermo Teodora Porfirogenita sale al trono di Bisanzio U

12 gennaio 475

U

Basilisco usurpa il trono di Zenone e diviene augusto dell’impero d’Oriente U

Dida, niet qui odio quisquunt, soluptae? 29 gennaio 904 Pe moloressenim estis enduci quia nim Consacrazione di papa Sergio III sequi doluptu rescius eni optiur, quae U

13 gennaio 888

Oddone I, conte di Parigi, è re dei Franchi U

U

Prima rappresentazione del dramma Romeo e Giulietta di William Shakespeare

15 gennaio

Napoli viene ceduta agli Aragonesi

U

mese

30 gennaio 1595

14 gennaio 1301

Con la morte di Andrea III, finisce la dinastia degli Arpadi d’Ungheria

MEDIOEVO

28 gennaio 814

Muore Carlo Magno

U

.

31 gennaio 814

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Ante prima

«Bonissimo inventore» mostre • Una ricca selezione di opere, poste in

uno stimolante dialogo con i dipinti della collezione permanente della Pinacoteca di Brera, getta luce sulla personalità di Donato Bramante, documentandone la carriera, la lezione e l’eredità

A

cinquecento anni dalla morte, la Pinacoteca di Brera celebra Donato Bramante (1443/44-1514), tratteggiandone la poliedrica personalità. Fra’ Sabba da Castiglione (1480-1554), nei Ricordi ovvero ammaestramenti, lo definisce «cosmografo, poeta volgare, et pittore valente (…) et gran prospettivo». Per Giorgio Vasari (1511-1574), è «risoluto, presto e bonissimo inventore». Ma chi è davvero Donato Bramante? Indubbiamente uno spirito inquieto e ingegnoso, nonché grande innovatore. Malgrado l’indiscussa fama, però, parte della sua attività è ancora avvolta nel mistero. Educato a Urbino, alla corte dei Montefeltro, ove entra in contatto con gli architetti, gli scultori e i pittori attivi per il duca Federico, egli interpreta in modo originale la lezione di Piero della Francesca. Tuttavia, in lui, rispetto all’impegno speculativo del maestro di San Sepolcro, prevale un’attitudine pragmatica. La prima testimonianza attendibile della sua presenza in Lombardia come pittore risale al 1477. In quell’anno si occupa della decorazione affrescata nel Palazzo del Podestà a Bergamo. La qualità disomogenea e la natura irrimediabilmente frammentaria degli elementi superstiti, non aiutano a ricostruirne la matrice culturale. A Milano è segnalato per la prima volta nel 1481, come colui che fornisce a Bernardo Prevedari un disegno con architetture e figure,

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In alto Donato Bramante, Cristo alla colonna. Olio su tela, 1490-1499. Milano, Pinacoteca di Brera. A sinistra Donato Bramante, Uomo d’arme. Affresco strappato e trasportato su tela, 1490-1492. Milano, Pinacoteca di Brera. perché lo incidesse (1481). All’epoca Bramante è già un artista compiuto, capace di scardinare i parametri figurativi della tradizione locale.

Una straordinaria forza inventiva Il suo è un linguaggio rigoroso, eloquente e coinvolgente, profondamente diverso dal classicismo erudito espresso da Andrea Mantegna nella vicina città di Mantova. Dotato di una straordinaria forza inventiva, rielabora le regole della prospettiva e gli ordini dell’architettura classica, realizzando opere celeberrime, che hanno profondamente rinnovato il linguaggio architettonico in Italia tra Quattro e Cinquecento. I curatori della rassegna milanese gennaio

MEDIOEVO


(che ha potuto avvalersi del sostegno finanziario dello stilista Giorgio Armani) hanno quindi voluto fare nuova luce sulla personalità del maestro urbinate, rievocandone le tappe essenziali per la formazione, ricostruendone il lungo soggiorno in Lombardia e a Milano (documentato almeno dal 1477 fino al 1499) e indagando l’influenza che la sua attività ha avuto in modo particolare tra gli esponenti lombardi delle diverse arti figurative.

L’occupazione eroica dello spazio Grandi nomi come Foppa, Bergognone, Zenale, Bartolomeo Suardi (dal 1489 noto con il soprannome di Bramantino), protagonisti indiscussi della pittura rinascimentale in Lombardia, ma anche scultori, plasticatori, orafi e miniatori rimangono affascinati dal suo modo eroico di occupare e di raffigurare lo spazio, in cui il riferimento all’antico è la chiave essenziale per rendere attuale la rappresentazione della realtà. Ciascuno di loro, secondo i diversi registri espressivi, ne risulta influenzato, cogliendone tematiche, motivi e suggestioni. A sua volta, lo stesso Bramante è attratto dai materiali, dalle tecniche e dalle esigenze di prestigio espresse dalla corte sforzesca che, tra gli altri, in quel periodo ospita anche Leonardo da Vinci e il poeta fiorentino Bernardo Bellincioni. Bramante fu comunque capace di soddisfare le ambizioni dei suoi committenti, creando un’architettura di mattoni e di materiali umili, destinata a occupare spazi ristretti. La tribuna della chiesa di S. Maria delle Grazie a Milano, innestata su una struttura preesistente, è il miglior esempio della sua stupefacente capacità di conciliare il linguaggio «moderno» (e perciò all’antica) con quello delle epoche precedenti. Probabilmente tale crescita espressiva poteva maturare solo in Lombardia, dove

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In alto Donato Bramante, Eraclito e Democrito. Affresco trasportato su tela, 1490-92. Milano, Pinacoteca di Brera. In basso Donato Bramante, Uomo d’arme. Affresco strappato e trasportato su tela, 1490-1492. Milano, Pinacoteca di Brera.

i modelli «classici» da lui studiati, appartengono soprattutto ai secoli alti del Medioevo. Tema centrale dell’esposizione sono proprio l’insieme delle arti figurative, il rinnovamento architettonico, e non solo, innescato dal grande maestro nel territorio lombardo, in un periodo storico di straordinaria vitalità culturale. Nelle sale della Pinacoteca di Brera, la vasta selezione di opere firmate da Donato Bramante, ma anche da Andrea Mantegna, Melozzo da Forlí, Bernardo Zenale è distribuita in un percorso che permette a queste di interagire con i capolavori esposti nella collezione permanente. Chiara Parente Dove e quando

«Bramante a Milano. Le arti in Lombardia 1477-1499» Milano, Pinacoteca di Brera fino al 22 marzo Orario ma-do, 8,30-19,15; lu chiuso Info tel. 02 72263.259; e-mail: sbsae-mi.brera@beniculturali.it ; www.brera.beniculturali.it Catalogo Skira editore

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Ante prima

Sí, viaggiare... mostre • Quando, come e perché si decideva

di partire alla volta di mete piú o meno lontane? Risponde al quesito la nuova esposizione allestita a Parigi, nel Museo di Cluny, e che, a primavera, farà tappa anche in Italia

A

gli albori della nostra specie, il viaggio, almeno nell’accezione che oggi diamo al termine, non esisteva. Semplicemente, le prime comunità umane, basando la propria sussistenza sulla caccia e sulla raccolta, vivevano spostandosi, di continuo. Poi vennero l’agricoltura e l’allevamento e con esse la sedentarizzazione, ma non per questo i nostri antenati si fermarono e, anzi, ebbero inizio i primi «viaggi d’affari», anche a lungo raggio, vuoi per approvvigionarsi d’ambra, vuoi per barattare i propri beni piú preziosi con la nera e lucente ossidiana di Lipari o di Milos, nelle Cicladi.

Viaggiatori illustri E la storia potrebbe continuare, con Erodoto, Strabone, Pitea di Marsiglia, l’imperatore Adriano e tanti altri… La pratica del viaggio in età medievale, perché è di questo che tratta la nuova esposizione allestita al museo parigino di Cluny, ha dunque radici antiche, ma il taglio scelto dai curatori della mostra non è quello di una semplice storia del fenomeno. «Viaggiare nel Medioevo», frutto di un progetto che vede coinvolti anche il Museo Episcopale di Vic (Catalogna, Spagna), il Museo Nazionale del Bargello di Firenze (dove la mostra

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Dove e quando

«Viaggiare nel Medioevo» Parigi, Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 23 febbraio 2015 Orario tutti i giorni, 9,15-17,45; chiuso il martedí Info www.musee-moyenage.fr A sinistra statua in legno policromo raffigurante uno dei re magi. Opera dell’artista noto come Meister Tilman 1505, Colonia, Museum Schnütgen. gennaio

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A sinistra battelli alla fonda nello scomparto dipinto di una predella. Seconda metà del XV sec. Firenze, Museo Stibbert. Nella pagina accanto, a destra statua di san Giacomo nelle vesti di pellegrino, dalla Borgogna. 1500 circa. Parigi, Musée de ClunyMusée national du Moyen Âge. In basso cofanetto nuziale in legno, rame, argento dorato e seta. Produzione italiana, XIV sec. Colonia, Museum Schnütgen. arriverà il prossimo 20 marzo) e il Museum Schnütgen di Colonia, intende infatti analizzare i diversi tipi di viaggiatore e le motivazioni che potevano indurre alla decisione di intraprendere lo spostamento, fosse esso a breve, medio o lungo raggio. In una ideale

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gennaio

rassegna, sfilano quindi il mercante, il pellegrino, il principe, l’artista: uomini (e donne) mossi, di volta in volta, da ragioni economiche, religiose, politiche o di opportunità. Le loro vicende vengono ricostruite attraverso una gamma assai variegata di opere d’arte e oggetti, nella cui descrizione

è frequente la sottolineatura dei paralleli che si possono istituire con i viaggiatori dell’età moderna e contemporanea.

Oltremare o al di là della strada Tra gli spunti di maggior interesse, vi è senz’altro la distinzione delle possibili categorie di viaggio, che vanno dalla partenza alla volta di mete lontane e lontanissime – per esempio per compiere esplorazioni o ricercare nuovi mercati – al meno faticoso… attraversamento di una strada: passo, quest’ultimo che si trovavano a compiere molte donne in occasione del matrimonio, quando lasciavano la dimora familiare per trasferirsi nella casa dello sposo. Grande rilievo hanno poi i documenti relativi alle missioni militari, prime fra tutte le crociate, e ai pellegrinaggi. A piedi, a cavallo, a bordo di un carro o di una nave, anche molti uomini del Medioevo erano insomma viaggiatori instancabili. Stefano Mammini

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Ante prima

I suoi primi 900 anni celebrazioni • Ricco e articolato

è il calendario delle iniziative previste per ricordare i nove secoli dalla morte di Matilde di Canossa, la comitissa che obbligò a una cocente umiliazione perfino l’imperatore Enrico IV

È

un quadro articolato, quello degli eventi in calendario nel 2015 per celebrare il IX centenario della morte di Matilde di Canossa (1046-1115), che, nella fase complessa dello scontro fra papato e impero, gioca un ruolo di primo piano, godendo di un’egemonia senza precedenti nella Penisola. «A capo di un territorio che va dal Garda a nord di Roma, passando per Reggio Emilia, Modena, Ferrara, Bologna e parte della Toscana, la contessa è legata all’imperatore Enrico IV da rapporti di parentela e vassallaggio, ma fa una scelta ideale, schierandosi con il pontefice Gregorio VII per la riforma della Chiesa», racconta Paolo Golinelli, docente di storia medievale all’Università di Verona, coinvolto in numerose iniziative dedicate alla comitissa. «Se inizialmente si prefigge di mediare fra i poteri forti, piú tardi adotta una politica di appoggio dell’istituzione ecclesiastica, concedendo beni e privilegi a chiese e monasteri», aggiunge lo storico.

A tu per tu con l’abate Ugo La figura di Matilde, figlia di Bonifacio di Canossa e di Beatrice di Lorena, gode di un fascino leggendario: è una donna che, in pieno Medioevo, tiene testa a un sovrano, intreccia alleanze per neutralizzarne il dominio in Italia, è referente del papa, tratta in prima persona con Ugo di Cluny, l’abate del monastero borgognone da cui parte l’ondata di rinnovamento religioso destinata a coinvolgere l’intero Occidente. Dopo un’infanzia turbata dalla morte di padre, fratello, sorella, e un lungo soggiorno in Lorena, la contessa si sposò due volte, ma il suo legame privilegiato è con la madre, come emerge da numerosi atti. Nel cuore del potere canossiano, lungo l’Appennino Emiliano, per tutto l’anno sono previsti incontri, convegni, conferenze. Ma verranno anche promossi gli

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gennaio

MEDIOEVO


Appuntamenti per un anno Il calendario delle celebrazioni previste in occasione del IX centenario matildico è molto ricco. Qui di seguito, riportiamo alcuni degli appuntamenti piú importanti. . Il 24 gennaio a San Cesario sul Panaro (Mo) verrà presentata la pubblicazione Da Matilde di Canossa all’età moderna, atti del convegno tenutosi due anni fa. . Il 28 marzo all’Università di Reggio Emilia si terrà un incontro su Matilde, organizzato dal Lions Club con relatori italiani e austriaci. . A Bologna, Rolando Dondarini, docente di storia medievale presso la locale Università, organizza per l’amministrazione comunale premi e concorsi rivolti alle scuole. . Dal 20 al 24 ottobre a San Benedetto Po (Mn) e al Castello di Bianello, a Quattro Castella (Re), si svolgerà il Congresso internazionale del Centro Studi Italiani dell’Alto Medioevo di Spoleto, con la presenza di relatori da Regno Unito, Germania, Stati Uniti e Italia. Info sulle iniziative: www.paologolinelli.it Info sugli itinerari: www.terredimatilde.it, www. oltrepomantova.it A sinistra e a destra Nonantola, abbazia. Particolari dei rilievi che ornano il portale di scuola wiligelmica. Nella pagina accanto Modena, Duomo. La figura del profeta Malachia, scolpita all’interno di uno degli stipiti del portale maggiore. Opera di Wiligelmo, attivo nei primi decenni del XII sec.

itinerari che ripercorrono i circuiti medievali strategici nel collegamento fra Roma e il resto del Vecchio Continente (vedi box in alto). Partendo all’inizio della Val d’Enza, il sentiero matildico porta al castello di Bianello, dove la nobildonna riceveva, fra gli altri, papi, principi, dignitari, per poi toccare la rocca di Rossena, che svetta sulle rocce vulcaniche, e i resti di Canossa, teatro della penitenza piú celebre della storia. Lungo la direttrice per la Toscana si raggiungono quindi il forte di Sarzano e il castello di

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Carpineti, che si affaccia sulle valli del Tresinaro e del Secchia. Altri progetti legati al IX centenario fanno capo alle diocesi di Mantova, Reggio Emilia, Modena, Lucca, che stanno organizzando un pellegrinaggio a Roma, per visitare la tomba della contessa dopo l’udienza papale del mercoledí. La nobildonna riposa infatti in S. Pietro, nella navata destra della basilica, in un monumento realizzato da Bernini su incarico del pontefice Urbano VIII, che nel 1632 volle a Roma le spoglie prima custodite a San Benedetto Po, nel monastero legato a Cluny.

I luoghi della comitissa L’iniziativa coinvolgerà anche i Comuni Matildici: «Nel nostro Paese», spiega Golinelli, «sono circa duecento i centri che a vario titolo vantano legami con Matilde, a testimonianza della fortuna del personaggio». A Tarquinia, per esempio, c’è una torre, in realtà quattrocentesca, dove sorgeva il castello nel quale sembra che Matilde dirimesse le questioni cittadine; a Bolsena la fondazione della basilica si deve alla devozione della comitissa per santa Cristina; a Viterbo, nella sala regia del palazzo comunale, sono affrescate le terre della Tuscia donate dalla contessa alla Chiesa; a Pisa è sepolta Beatrice di Lorena, la madre di Matilde. E in Veneto, infine, dove i Canossa avevano un castello, la contessa ha soggiornato diverse volte. Stefania Romani

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Viaggio in Terra Santa/1

Un porto dei crociati sul Mediterraneo

Dall’alto in basso la sala adibita a refettorio nel complesso dell’Ordine di San Giovanni; una veduta aerea di Acco; la fortezza dei crociati; i bastioni che difendevano la città da possibili attacchi portati via mare.

U

n piccolo promontorio sul margine orientale del Mediterraneo chiude, a settentrione, la baia di Haifa. Sin dall’età del Bronzo, l’uomo s’insediò in quell’ameno luogo tra il cielo e il mare, dando cosí inizio a una storia millenaria. Stiamo parlando di Acco (Acri), la città menzionata già nelle fonti egizie e mesopotamiche, nonché nell’Antico e nel Nuovo Testamento. I Greci la chiamarono Tolemaide, gli Arabi Akka, i cristiani San Giovanni d’Acri. Oggi Acco è forse la città piú «orientale» di Israele: i vicoli della Città Vecchia e le costruzioni erette tra l’XI e il XVIII secolo racchiudono un’intensa atmosfera ottomana. Il suo impianto, inoltre, risente ancora dell’intervento dei crociati: dal 1104 (anno in cui i cavalieri di Baldovino I presero Akka, ribattezzandola San Giovanni d’Acri) fino alla riconquista musulmana del 1291, i Latini fecero di Acco la loro capitale. Per 187 anni la città portuale divenne il principale punto d’appoggio dei crociati, ospitando gli ordini religioso-militari (quello dei Cavalieri di San Giovanni, dei Templari e dell’Ordine Teutonico) e fungendo da base per le Repubbliche marinare italiane. Iniziati negli anni Sessanta del secolo scorso, gli scavi archeologici hanno portato alla scoperta della sede dei Cavalieri di San Giovanni. Fortunatamente, nel Settecento, quando Acco era un importante centro ottomano, l’area appartenuta all’ordine giovannita fu interrata per costruirvi il Palazzo del Governatore, poi utilizzato dagli Inglesi – nel periodo mandatario – come prigione per gli attivisti del movimento indipendentista ebraico. Nel 1991 è stato completato il restauro dell’intero complesso che, insieme alle imponenti mura cittadine

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informazione pubblicitaria

MEDIOEVO

(che nel 1799 riuscirono a resistere all’assedio da parte di Napoleone, durato 61 giorni, e del quale sono ancora oggi testimonianza i cannoni abbandonati sui bastioni), alle sue moschee e ai caravanserragli, rappresenta una delle maggiori attrazioni monumentali e storiche di Israele. Nel 2001, l’UNESCO ha dichiarato la Città Vecchia di Acco Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Per informazioni: www.goisrael.it


Ante prima

Maria ritrova la corona restauri • Si è

concluso il restauro della tavola dell’Annunciazione di Pietro del Donzello, che si offre nel suo splendore originario e con particolari fino a oggi inediti

A

Pietro del Donzello (1452-1509) si devono importanti cicli pittorici nei piú rappresentativi edifici di Napoli, dove era giunto grazie alla collaborazione con l’architetto e scultore Giuliano da Maiano, scopritore del suo talento. Figlio di un messaggero del governo fiorentino e allievo del pittore Giusto d’Andrea, che si era formato presso la bottega di Benozzo Gozzoli, Pietro firmò numerose opere anche per la natia Firenze, eseguite dopo il suo ritorno dal capoluogo partenopeo. Disegnò, tra l’altro, gli arredi per il refettorio dell’Ospedale di S. Matteo e alcuni modelli di affreschi per l’Opera del Duomo.

Il ritorno «a casa» E ora, al termine di un impegnativo intervento di restauro, è tornata visibile la sua Annunciazione, collocata nella cappella Frescobaldi, nella chiesa di Santo Spirito, fondata nel 1200, ma rinnovata su progetto di Filippo Brunelleschi nel XV secolo. Il dipinto, su tavola in legno di pioppo, risale agli ultimissimi anni del Quattrocento e presentava una diffusa fragilità degli strati di colore, particolarmente accentuata nella zona centrale dove si evidenziavano tracce della colatura d’acqua proveniente dalla vetrata della cappella. Rifacimenti e ridipinture avevano portato a

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una situazione confusa con intere sezioni cromatiche che, sottoposte a indagini con raggi UV, risultavano inaspettatamente disomogenee. Un esempio significativo era la figura della Vergine, il cui volto manifestava una visibile differenza pittorica e tecnica rispetto a quello dell’Angelo, per il quale era stato rilevato un disegno preparatorio, sottile, a pennello, non riscontrabile invece nell’immagine della Madonna.

Oro zecchino e colori trasparenti Nascosta per lunghissimo tempo da due interventi grossolani e invasivi, è tornata a splendere la corona originale costituita da una sottilissima foglia di oro zecchino, applicata da Pietro, quando aveva già completato la pittura dei capelli

L’Annunciazione di Pietro del Donzello dopo il restauro. Il dipinto è custodito nella cappella Frescobaldi della chiesa fiorentina di Santo Spirito. e del velo. Le perle e le pietre che la decorano sono dipinte al di sopra della foglia con pigmenti trasparenti in un’alternanza di verde, rosso, azzurro e viola. Spazialità, luce e corrette relazioni strutturali caratterizzano l’architettura del chiostro in cui è inserita la scena dell’Annunciazione, il cui tessuto cromatico è stato ricollegato con trasparenti velature ad acquerello, mostrando particolari inediti, come, per esempio, il velo che ricopre le maniche della veste dell’angelo e avvolge, svolazzante, le sue caviglie. Mila Lavorini gennaio

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Ante prima

La fame è finita! appuntamenti • 20 000 razioni di salame, pane e fagioli vengono distribuiti

ogni anno nelle strade di Santhià: è uno dei momenti culminanti del Carnevale che anima la cittadina piemontese, rievocando una tradizione attestata fin dal 1328

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gni anno, a Santhià, centro vercellese di 8000 abitanti adagiato nella Pianura Padana occidentale, va in scena un Carnevale Storico documentato almeno dal 1328. Il «piú antico Carnevale del Piemonte» inizia il giorno dell’Epifania (6 gennaio) e prosegue fino al Martedí grasso (quest’anno il 17 febbraio), raggiungendo il suo apice nella colossale Fagiolata del Lunedí grasso, quando nella piazza del mercato, in 150 grandi caldaie di rame, vengono preparate circa 20 000 razioni di salame, pane e fagioli, distribuite gratuitamente alla cittadinanza grazie ai finanziamenti

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reperiti nelle settimane precedenti mediante «pule» e «congreghe». A mezzogiorno in punto, al segno di un doppio sparo di fucile, trecento camerieri iniziano a distribuire la «Fagiolata piú grande d’Italia»: per prepararla si utilizzano 20 q di fagioli, 10 di salumi e 3 di pane!

L’Elemosina di maggio Dal punto di vista storicoantropologico, questa distribuzione gratuita di cibo simboleggia l’antico desiderio di liberarsi dalla «schiavitú della fame». Nella tradizione di Santhià se ne trova traccia fin dalla cosiddetta «Elemosina di maggio»

fissata dallo Statuto cittadino del Trecento, quando l’amministrazione civica faceva eseguire una distribuzione di pane il 1° maggio di ogni anno, festa dei santi apostoli Giacomo e Filippo, richiedendo un contributo alle famiglie piú benestanti. Nei secoli successivi i cibi destinati a questa elargizione iniziarono a essere ottenuti tramite «questue». A tal proposito, nel XVIII secolo, fu fondata l’Antica Società Fagiuolesca, che tuttora organizza Santhià (Vercelli). Il Corpo Pifferi e Tamburi sfila per le vie della città in occasione del Carnevale.

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la manifestazione. Ciascuno dei suoi soci è riconoscibile dalla caratteristica fascia di colore diverso, a seconda del ruolo ricoperto, e dalla feluca, tipico cappello napoleonico di colore rosso adornato da piume di marabú. Resta tuttavia ferma la tradizione medievale di questo Carnevale: documenti rinvenuti nell’archivio comunale attestano che, già nel 1328, a Santhià esisteva un’Abadia, ovvero un’associazione giovanile laica che si occupava di organizzare balli e festeggiamenti carnevaleschi. Esiste perfino la prova di un «richiamo» indirizzato ai giovani dell’Abadia, che nel 1430 furono condannati a pagare 25 soldi per aver condotto in chiesa «con la massima solennità, un asino ricoperto con abiti sacerdotali». Come detto, il Carnevale si apre la sera del 6 gennaio, quando la Direzione, lo Stato Maggiore, il Corpo Pifferi e Tamburi, le Bande musicali e le Compagnie si ritrovano, alle 20,00, in piazza Roma. Da lí parte il corteo che percorre la via centrale della città, annunciando alla popolazione l’apertura del Tempo Carnevalesco.

Il volto del Brusacoeur, personaggio che dominava uno dei carri allegorici dell’edizione 2014 del Carnevale di Santhià. delle feste. Le offerte in denaro sono talvolta sostituite da una gallinella, detta appunto pula, o da altri prodotti che, alla fine della giornata, vengono messi all’asta nelle congreghe, per raccogliere fondi. Nella sera del martedí antecedente il Giovedí grasso, nel padiglione delle feste viene presentata la coppia che impersonerà le storiche maschere locali di Stevulin d’la Plisera e Majutin dal Pampardú, che diventano i padroni della città per qualche giorno. Si tratta di una coppia di giovani sposi contadini, simboli delle antiche lotte popolari per l’affrancamento dal dominio e dalle vessazioni dei signori feudali. Secondo la tradizione, i due giovani contibuirono a detronizzare il

Le gallinelle come offerta Dall’Epifania al Martedí grasso ogni Compagnia, titolare di una parte del territorio, è impegnata, il sabato e la domenica, nello svolgimento delle pule: i suoi componenti, assieme a musicisti della banda cittadina, si recano di casa in casa per ricevere una questua per l’organizzazione Suonatori e comparse riuniti in piazza Roma per l’apertura del Carnevale.

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Ante prima signorotto locale ed erigere Santhià a libero Comune. Nella serata del Giovedí grasso, lungo il corso principale, i gruppi carnevaleschi allestiscono stand enogastronomici per la distribuzione gratuita di cibi e bevande. Nell’ultimo sabato di Carnevale, in piazza Maggiore, Majutin e Stevulin ricevono dal sindaco le chiavi della città e leggono un proclama al popolo, analizzando con arguzia gli avvenimenti dell’annata trascorsa. Segue una sfilata lungo le vie cittadine con i pifferi, i tamburi e le bande cittadine.

Due pani, due storie

Qui passò Napoleone

I miracolosi interventi di Biagio

L’ultima domenica di Carnevale, alle 14,30, si tiene il primo corso mascherato nel centro cittadino, con oltre 2000 comparse a piedi, carri allegorici di cartapesta, bande e gruppi storici, in particolare lo Stato Maggiore in divisa napoleonica, a ricordo del passaggio da Santhià del Bonaparte in occasione della battaglia di Marengo. In serata, nelle vie del centro storico, va in scena il «Girone Infernale»: un serpentone musicale seguito dalla popolazione che si muove al ritmo dei balli tradizionali Bisse e Curantun. Il Lunedí, a mezzogiorno, si svolge la già citata Fagiolata, poi, in serata, alle 20,00, parte una suggestiva sfilata notturna di carri illuminati e maschere attraverso il centro storico, seguita da un grande veglione in maschera con i gruppi musicali. Nella mattina del Martedí grasso, in centro si svolgono giochi popolari di origine medievale: la corsa nei sacchi, la rottura delle pignatte piene di farina, il tiro alla fune, il recupero della mela nella tinozza e altri. Alle 14,30 inizia il secondo corso mascherato, al termine del quale vengono premiati i vincitori delle varie categorie. In serata chiusura in piazza Maggiore con il Rogo del Babàciu, un pupazzo che viene appeso su una pira e poi bruciato, fra le note di una marcia funebre. Tiziano Zaccaria

I cuddureddi hanno la forma di un anello e simboleggiano la gola, di cui san Biagio è protettore. Secondo la leggenda il martire armeno, vissuto fra il III e il IV secolo, salvò la vita di un ragazzo che stava morendo soffocato da una lisca di pesce. I cavadduzzi, invece, ricordano un avvenimento accaduto durante il regno di Carlo V nel 1542, quando le campagne salemitane sarebbero state liberate da un’invasione di cavallette per intercessione del santo. Da allora, il popolo promise di ringraziarlo a ogni ricorrenza, riproducendo le cavallette negli artistici cavadduzzi, che oggi assumono forme fantasiose: dai cavallucci marini ad altri animaletti immaginari, dalla mano benedicente del martire, a quella di bastone decorato con fiori, simbolo della fertilità. La festa ha il suo apice nel corteo storico che si snoda per le vie del centro, rievocando la liberazione di Salemi dall’invasione delle cavallette. T. Z.

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entro trapanese nel cuore della Valle del Belice, Salemi è una cittadina arabo-medievale raccolta intorno al castello, sorto su una preesistente struttura di età bizantina o islamica, poi ristrutturata in età normanna nel XII secolo. Nel quartiere del Rabato, il 3 febbraio, si celebra la Festa di san Biagio, compatrono cittadino insieme a san Nicola di Bari. Per l’occasione, nella chiesa intitolata al santo, il pavimento e la tribuna dove è posta la sua statua vengono adornati con alloro, mirto e fiori. In segno di devozione i Salemitani preparano due tipi di pani tradizionali, i cuddureddi e i cavadduzzi, fatti di pasta non lievitata e cotti al forno, benedetti dal parroco prima di essere distribuiti alla cittadinanza.

La statua di san Biagio, alla quale i fedeli offrono i tradizionali pani votivi chiamati cuddureddi e cavadduzzi, fatti di pasta non lievitata e con forme originali.

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Ante prima

MITI NORDICI

Nel mondo di Odino e Thor

♦ La cavalcata delle Valchirie ♦ Tutti gli dèi di Asgard ♦ La profezia delle rune ♦ Sigfrido e i Nibelunghi ♦ Nani, draghi e giganti ♦ Il Natale pagano

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l nuovo Dossier di «Medioevo» compie un viaggio affascinante nel mondo ancora poco conosciuto dei miti nordici, tra le leggende e le credenze religiose precristiane dei popoli germanico-scandinavi. Odino, Thor, le Valchirie, i nani, i giganti e Sigfrido compongono solo una piccola parte di un suggestivo universo, popolato da creature di ogni genere. In origine regnava Ymir, dal cui corpo fatto a pezzi, nacquero la terra, il mare e il cielo; in seguito presero il sopravvento cinquanta divinità, che risultarono, però, non del tutto invulnerabili; e mentre i lupi Sköll e Hati minacciavano la sopravvivenza del sole e della luna, un tesoro rubato trasmise una maledizione a chiunque ne entrava in possesso… Il Dossier non si limita a presentare ai lettori un particolareggiato racconto mitologico, ma riporta anche le incredibili vicende di uomini comuni, verosimilmente esistiti, tratte dal patrimonio delle saghe islandesi. Non mancano, inoltre, approfondimenti sulle tracce archeologiche dell’antica religione del Nord, sulle feste che i popoli celebravano nel Medioevo e un excursus sul fenomeno del neopaganesimo. Un capitolo a parte, infine, è dedicato alla diffusione dei miti nordici nella cultura contemporanea: dalla Tetralogia di Richard Wagner alla letteratura fantasy, con un resoconto anche sulle opere cinematografiche.

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il nuovo dossier di medioevo


agenda del mese

Mostre ravenna IMPERIITURO. Renovatio Imperii. Ravenna nell’Europa Ottoniana U Museo TAMO e Biblioteca Classense fino al 6 gennaio

1200 anni fa, il 28 gennaio 814, moriva Carlo Magno, che concepí una forma di unità europea attraverso il Sacro Romano Impero, nel tentativo di restaurare l’antica grandezza di Roma. Un progetto politico che, tuttavia, fu presto minato da divisioni interne, destinate a protrarsi per secoli. Sul tema della Renovatio Imperii, cioè appunto la trasmissione dell’idea imperiale, è stata organizzata una mostra didattica, che ha per fulcro Ravenna

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a cura di Stefano Mammini

ed è ospitata nelle due sedi del museo TAMO e della Biblioteca Classense, articolandosi in diverse sezioni. «Carlo Magno e l’Italia, Gli Ottoni, Ravenna e l’Italia. Il ruolo della tradizione classica e la circolazione dei modelli in epoca ottoniana a TAMO», illustra il ruolo di Ravenna come punto di riferimento culturale per Carlo Magno nella sua impresa di trasformare Aquisgrana nella Roma secunda e poi per gli Ottoni, come dimostra il sito archeologico di S. Severo a Classe. Alla Biblioteca Classense, con il titolo «Da Carlo Magno agli Ottoni, testimonianze documentarie, storiografiche, iconografiche», attorniate dalle immagini dei

rappresentanti imperiali di età ottoniana – giunteci attraverso grandi esempi di miniatura provenienti dalle biblioteche d’Europa –, si espongono nell’Aula Magna del monastero camaldolese, importanti documenti della politica degli Ottoni a Ravenna. info Museo TAMO: tel. 0544 213371, www.ravennantica.it; Biblioteca Classense: tel. 0544 482116, e-mail: segreteriaclas@ classense.ra

La nuova esposizione allestita nelle sale del

un ampio panorama dell’arte toscana e veneta tra il XV e il XVIII secolo. Riunite e ordinate nelle quattro sezioni della mostra, 86 opere, tra tavole e tele, sono messe a confronto a partire dai soggetti in esse contenute, consentendo di recuperare affinità e rimandi, e di avvicinare, nella lettura iconografica, dipinti di differente scuola e di diversa epoca e origine.

museo pratese offre l’occasione di vedere riunite le piú importanti opere d’arte provenienti dalla collezione della Banca Popolare di Vicenza, alcune delle quali mai esposte finora al grande pubblico, proponendo

Tra gli altri, si possono ammirare capolavori come la Crocifissione di Giovanni Bellini, la Coronazione di Spine del Caravaggio, la Madonna col Bambino e San Giovannino di Jacopo Bassano, la Madonna col Bambino

San Gimignano. info tel. 0577 286300; sangimignanomusei.it prato CAPOLAVORI CHE SI INCONTRANO. Bellini, Caravaggio, Tiepolo e i maestri della pittura toscana e veneta nella Collezione Banca Popolare di Vicenza U Museo di Palazzo Pretorio fino al 6 gennaio

San Gimignano Pintoricchio. La Pala dell’Assunta di San Gimignano e gli anni senesi U Palazzo Comunale, Pinacoteca fino al 6 gennaio

Con questa iniziativa prende avvio un piú ampio progetto che, con cadenza annuale, intende proporre un approfondimento critico e storico intorno ai capolavori e ai maestri presenti nelle collezioni civiche. Come questa che ora si apre su Pintoricchio e quella che è in preparazione per il 2015 su Filippino Lippi e i suoi meravigliosi tondi, ogni mostra è costruita con prestiti importanti, anche se numericamente limitati per le esigenze dello spazio espositivo, scelti per raccontare una vicenda artistica che ha lasciato una testimonianza di grande rilievo nel patrimonio storico e artistico di

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castelfranco veneto Villa Soranzo. Una storia dimenticata U Museo Casa Giorgione fino all’11 gennaio

di Filippo Lippi, il Ritratto di Ferdinando de’ Medici di Santi di Tito e il Ritratto del Doge Nicolò da Ponte del Tintoretto. info tel. 0574 19349961; palazzopretorio.prato.it, capolavori chesiincontrano.it

Padova VERONESE E PADOVA. l’artista, la committenza e la sua fortuna U Musei Civici agli Eremitani fino all’11 gennaio

Il cromatismo limpido e armonioso, gli audaci impianti architettonici, la forza scenografica delle composizioni, perfino l’intensa drammaticità nei soggetti sacri dell’ultimo periodo: quella di Paolo Veronese è stata una pittura potente e di straordinaria forza comunicativa, capace di

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influire sulla produzione artistica di tanti contemporanei e d’intere generazioni d’artisti, ovunque egli sia stato chiamato a operare. Fu cosí anche a Padova, città con la quale Veronese ebbe intensi rapporti a partire dal 1556, apportando nuova linfa alla civiltà figurativa locale. La mostra prende le mosse proprio dai capolavori di Paolo Veronese conservati a Padova, riuniti per l’occasione nelle sale dei Musei Civici agli Eremitani, con la sola eccezione dell’inamovibile Pala di Santa Giustina. Nell’insieme, si possono ammirare circa cinquanta dipinti e una quarantina di stampe tratte dai lavori del pittore. info padovacultura. padovanet.it

Un fil rouge intrigante lega Giorgione e Paolo Veronese, due dei protagonisti del Rinascimento: un filo fatto di patrizi veneti amanti dell arte – i Soranzo – di decorazioni pittoriche d’interni, di vita in villa, di temi profani e mitologici e – infine – di giovani, giovanissimi pittori, alla ribalta della scena artistica veneziana nella prima metà del Cinquecento. Un filo rievocato anche in questa mostra, a cui fa da corollario un itinerario in tema dedicato al «Trionfo della decorazione in Villa», che conduce a Villa Maser, Villa Emo e Villa Corner Chiminelli. Al centro del percorso vi sono le vicende degli affreschi realizzati da

Paolo Veronese, sul volgere degli anni Quaranta del Cinquecento, nella dimora progettata da Michele Sanmicheli e costruita, poco dopo il 1540, a Treville di Castelfranco Veneto per il patrizio veneziano Piero Soranzo. info tel 0423 735626; e-mail: info@ museocasagiorgione.it REGGIO EMILIA L’ORLANDO FURIOSO: INCANTAMENTI, PASSIONI E FOLLIE. L’ARTE CONTEMPORANEA LEGGE L’ARIOSTO U Palazzo Magnani fino all’11 gennaio

I personaggi de L’Orlando Furioso, le imprese di valorosi cavalieri, la passione per Angelica che diverrà poi follia d’amore rivivono in una rassegna che legge e reinterpreta in chiave contemporanea l’immaginario ariostesco, carico di

suggestioni e connessioni di evidente attualità. L’esposizione rivisita la fortuna dell’Ariosto nel passato, partendo dalla preziosa collezione delle edizioni del Furioso di proprietà della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, e propone le suggestioni esercitate dalla sua figura e dall’atmosfera, e soprattutto da specifici episodi del poema su alcuni tra i piú importanti artisti contemporanei, italiani e stranieri. info palazzomagnani.it Rancate (Mendrisio) DONI D’AMORE. Donne e rituali nel Rinascimento U Pinacoteca cantonale Giovanni Züst, fino all’11 gennaio

Protagonisti dell’esposizione sono i preziosi oggetti che, tra il XIV e il XVI secolo, venivano offerti alla donna per celebrare il

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agenda del mese mostre • Alla scoperta del Tibet. Le spedizioni di Giuseppe Tucci e i dipinti tibetani U Roma – Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci»

fino all’8 marzo info tel. 06 46974832; www.museorientale.beniculturali.it

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a cultura tibetana e la sua tradizione artistica erano virtualmente sconosciute in Occidente fino alle otto importanti spedizioni condotte da Giuseppe Tucci, fondatore della moderna tibetologia, tra il 1926 e il 1948. Le sue ardite missioni sul «Tetto del Mondo», grazie anche alla sua profonda conoscenza della lingua e della cultura locale, possono essere considerate un lascito scientifico che ancora oggi è il fondamento delle ricerche su questo lontano Paese. I materiali che egli selezionò con grande acume scientifico e raccolse con amorevole cura, furono portati in Italia, grazie alla benevolenza del governo locale, oggi accessibili al pubblico e agli studiosi nel museo che porta il suo nome. Due sono i filoni di indagine dell’esposizione: da un lato la storia delle esplorazioni di Giuseppe Tucci, cosí come la raccontano le fotografie d’epoca, dall’altro quella che narrano i capolavori pittorici tibetani databili tra l’XI e il il XVIII secolo, documenti di vita religiosa, interpretati alla luce della prospettiva storica. Il percorso si articola in tre sezioni: Le spedizioni Tucci [19261948] presenta quaranta fotografie, scelte tra le oltre 20 000 dell’Archivio Tucci, che offrono una preziosa testimonianza dei monumenti e dei monasteri oggi in parte scomparsi o in rovina. Capolavori di pittura tibetana comprende una scelta dalla collezione di thangka tibetane, portate da Giuseppe Tucci e oggi facenti parte delle raccolte del MNAO. Tale collezione è considerata la piú importante raccolta di dipinti su stoffa, conservata in un Museo statale. Per la mostra sono stati scelti 59 esemplari databili tra il XIV e il XVIII secolo, due manoscritti illustrati dell’XI secolo e due dipinti murali del XV secolo, in rappresentanza dei piú importanti stili artistici e regionali del Paese. Conservazione dei dipinti e delle cornici tessili è riservata al lungo e certosino lavoro di restauro, condotto dal fidanzamento, il matrimonio e la nascita di un erede. In queste occasioni la cultura del tempo conferiva alla figura femminile un ruolo fondamentale che le famiglie abbienti festeggiavano con fastose cerimonie e commissionando pregiati manufatti da offrirle in dono. Articolata in tre sezioni, la mostra propone dunque i regali destinati alla donna: dal cofanetto contenente

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piccoli oggetti in avorio e costose cinture, che il futuro sposo inviava alla giovane per suggellare il fidanzamento, ai gioielli e alle suppellettili, offerte dal marito e dal suo parentado o portate in dote dalla sposa il giorno delle nozze, fino a comprendere un desco da parto e stoviglie in maiolica, utilizzati per servire alla puerpera il primo pasto rinvigorente dopo le fatiche, e lo scampato pericolo, del parto. Tra i regali nuziali

Laboratorio di Restauro e Conservazione del Museo e di analisi non distruttive, condotte dall’ ICCROM, dall’ENEA e dall’’Istituto Superiore di Conservazione e Restauro di Roma. Il restauro delle cornici tessili è stato condotto invece presso il Laboratorio di Restauro dei Tessuti di Palazzo Pitti a Firenze. I dipinti tibetani esposti per centinaia di anni all’adorazione o alla meditazione dei fedeli infatti presentavano sia la superficie dipinta, sia le cornici tessili e i veli rovinati dalla polvere e dalla fuliggine prodotta dalle lampade a combustione di burro.

figurano anche cassoni e fronti di cassoni dipinti – nei quali si riponeva il corredo –, esibiti durante il corteo che dalla dimora natale scortava la sposa a quella del marito. info tel. +41 (0)91 8164791; www.ti.ch/ zuest; e-mail: decspinacoteca.zuest@ti.ch Torino Leonardo e i Tesori del Re U Biblioteca Reale fino al 15 gennaio

Nello straordinario Salone realizzato nel 1837 dall’architetto di corte Pelagio Palagi e nei due spazi espositivi del piano interrato, la Biblioteca Reale propone una selezione di oltre ottanta capolavori facenti parte dei propri fondi: dal celeberrimo Autoritratto al Codice sul volo degli uccelli e altri dieci fogli di Leonardo da Vinci, e poi disegni di Raffaello, Carracci, Perugino, Van Dyck, Rembrandt,

Tiepolo, il Theatrum Sabaudiae, codici miniati, carte nautiche e altre opere grafiche. info tel. 011 535181; e-mail: biglietteria@ turismotorino.org; www.turismotorino.org fabriano Da Giotto a Gentile. Pittura e scultura a Fabriano fra Due e Trecento U Pinacoteca Civica «Bruno Molajoli», S. Agostino-Cappelle Giottesche, S. Domenico-

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Cappella di S. Orsola e Sala Capitolare, cattedrale di S. Venanzio-Cappelle di S. Lorenzo e della Santa Croce fino al 18 gennaio

Dipinti, pale d’altare, tavole, affreschi staccati, sculture, oreficerie, miniature, manoscritti, codici – in tutto, oltre 100 opere, descrivono il contesto culturale in cui si inscrive il progetto espositivo. Consolidatosi il potere longobardo su Fabriano, l’egemonia culturale dell’Umbria vide la sua affermazione nel corso del Trecento, sia dal punto di vista artistico che sotto il profilo dei valori spirituali. Del percorso espositivo fanno parte alcuni capolavori di Gentile, come la Crocefissione del polittico proveniente da Valleromita di Fabriano, ora nella

Pinacoteca di Brera, o la raffinata Madonna dell’Umiltà del Museo Nazionale di San Matteo di Pisa. info mostrafabriano.it parma Cima da Conegliano e l’Emilia U Galleria Nazionale di Parma fino al 18 gennaio

La presenza eccezionale nelle sale della Galleria Nazionale di Parma della Madonna dell’arancio di Cima da Conegliano, abitualmente esposta a Venezia, nelle Gallerie dell’Accademia offre l’occasione per mettere in luce una congiuntura speciale nel contesto artistico padano, a cavallo fra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento. La Madonna dell’arancio testimonia

infatti ai piú alti livelli la produzione veneta di Cima nel periodo in cui dipinse la maggior parte delle opere eseguite per l’Emilia, riunite per la prima volta nelle sale a Parma: la drammatica Deposizione, oggi alla Galleria Estense di Modena ma eseguita per Alberto Pio, Signore di Carpi, la piú serena Madonna col Bambino della Pinacoteca Nazionale di Bologna, nonché la monumentale Pala dell’Annunciata, una delle ben tre tavole d’altare che il pittore di Conegliano eseguí per le chiese parmigiane; affiancare a queste le altre opere di Cima oggi conservate nella Galleria Nazionale di Parma consente un approfondimento specifico sul rapporto particolare fra cultura veneta ed Emilia, meno scontato forse di quanto non fosse il contatto con l’area bolognese o lombarda, ma sicuramente ricco di stimoli fecondi, scambi e richiami reciproci. info tel. 0521 233309 o 233617; e-mail: gallerianazionaleparma@ beniculturali.it; www. gallerianazionaleparma.it; ; genova Turcherie. Suggestioni dell’arte ottomana a Genova U Musei di Strada Nuova, Palazzo Bianco fino al 18 gennaio

La mostra presenta un nutrito gruppo di ceramiche liguri del XVI,

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XVII e XVIII secolo, di collezioni pubbliche e private, che costituiscono una testimonianza importante dei rapporti che continuano a intercorrere tra la Repubblica di Genova e l’impero ottomano in epoca moderna. Oltre ai molteplici motivi mutuati dalla splendida ceramica ottomana di Iznik, innumerevoli figure di Turchi popolano il vasellame destinato alle dimore aristocratiche genovesi, alludendo a una realtà in cui Genova e Istanbul erano unite da un filo continuo di commerci, ambascerie, rapporti politici e diplomatici. info tel. 010 5572193; e-mail: museidistradanuova@ comune.genova.it; museidigenova.it Cerreto Guidi A caccia con Cosimo I. Armi medicee in villa U Villa medicea fino al 18 gennaio

A fare da leit motiv della mostra, che riunisce una ventina di opere provenienti da sette diversi musei e istituzioni, sono sia la

caccia, sia la villa stessa di Cerreto Guidi, amata da Cosimo I, dalla figlia Isabella e poi da tutti gli altri componenti della dinastia medicea. Infatti è importante ricordare le ragioni della realizzazione della Villa, luogo ideale per le partenze delle cacce, e di vedere uno dei tipi di arredo, quali gli arazzi, di cui un tempo la villa era sontuosamente ornata. Tra i materiali esposti, spiccano l’arazzo che raffigura la caccia al cinghiale con l’archibugio, accanto al quale figurano armi, perlopiú cinquecentesche, la piú rilevante delle quali è l’archibugio mediceo, probabilmente appartenuto a Francesco I. info tel. 0571 55707 o 559534; e-mail: villacerreto@ polomuseale.firenze.it parigi Il Marocco medievale. Un impero dall’Africa alla Spagna U Museo del Louvre, Hall Napoléon fino al 19 gennaio

Inserita in una piú ampia serie di eventi

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agenda del mese architettoniche alla produzione dei tessuti, dalla ceramica alla calligrafia. info louvre.fr new york el greco a new york U The Metropolitan Museum of Art fino al 1° febbraio

dedicati al Paese nordafricano (e che coinvolgono il Musée Eugène Delacroix e l’Institut du monde arabe), la mostra rilegge la storia del Marocco tra l’XI e il XV secolo, un periodo di straordinaria fioritura dell’Occidente islamico. Il succedersi degli Almoravidi, degli Almohadi e dei Merinidi sancisce l’unificazione di uno spazio politico e culturale che ha nel Marocco il suo centro nevralgico e raggruppa un areale compreso fra l’Africa subsahariana e l’Andalusia. L’influenza di questi imperi, sotto i quali i confini dell’Occidente islamico vengono unificati per la prima volta, fu assai forte e si fece sentire fino all’Oriente. Per l’esposizione nella Hall Napoléon del museo parigino sono state selezionate poco meno di 300 opere, attraverso le quali si possono ammirare testimonianze significative dell’arte e dell’artigianato artistico: dalle decorazioni

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A 400 anni dalla scomparsa, il Met rende omaggio al pittore spagnolo di origine cretese Dominikos Theotokopulos, meglio noto, proprio in virtú delle sue origini, come El Greco. La rassegna documenta l’intera carriera dell’artista, dal suo arrivo a Venezia nel 1567, per poi passare al periodo trascorso a Roma nel 1570 e concentrarsi infine sul lungo soggiorno a Toledo, in Spagna, scelta come residenza dal 1577 fino all’anno della morte. Alla retrospettiva contribuisce anche la Frick Collection, che, per la prima volta, espone insieme i suoi tre dipinti di El Greco. info metmuseum.org

conto la nuova esposizione del Musée du Quai Branly, per la quale sono state riunite oltre 400 opere, capaci di destare un’ammirazione che possiamo immaginare simile a quella provata dai primi Occidentali che per primi ebbero modo di scoprirle. Un’ammirazione che, purtroppo, con Hernán Cortés e i suoi uomini non tardò a trasformarsi, tra il XVI e il XVII secolo, in cupidigia sfrenata, segnando la fine della grande civiltà precolombiana. info www.quaibranly.fr Milano Le dame dei Pollaiolo. Una bottega fiorentina del Rinascimento U Museo Poldi Pezzoli fino al 16 febbraio

Organizzata con il sostegno di Fondazione Bracco, la mostra è stata ideata intorno al

simbolo della casa museo di Via Manzoni: il prezioso Ritratto di Dama di Piero del Pollaiolo, fra i maggiori capolavori della ritrattistica della seconda metà del Quattrocento. Protagonisti della rassegna sono i quattro splendidi ritratti femminili, riferibili ad Antonio e Piero del Pollaiolo, riuniti per la prima volta nella loro storia uno accanto all’altro. Insieme alla dama del Poldi Pezzoli vengono presentati gli altri dipinti di donna attribuiti ai fratelli, provenienti da importanti istituzioni internazionali: la Galleria degli Uffizi di Firenze, la Gemäldegalerie di Berlino e il Metropolitan Museum of Art di New York. Oltre ai ritratti delle quattro dame vengono esposti dipinti di medio e piccolo formato e altri

capolavori della bottega di Antonio, prodotti della sua grande maestria: disegni, sculture in bronzo e terracotta, oreficerie e altre opere insolite e preziose (come uno scudo da parata e un crocifisso in legno di sughero). A corollario e a completamento della mostra sono previste molteplici iniziative diffuse sul territorio cittadino. Per il pubblico piú specialistico sono inoltre previsti momenti dedicati, tra i quali un Simposio Internazionale che si terrà martedí 13 gennaio 2015 nel Museo. info tel. 02 794889 o 796334; www. museopoldipezzoli.it torino Cavalli Celesti. Raffigurazioni equestri nella Cina antica U MAO, Museo d’Arte Orientale fino al 22 febbraio

parigi Maya. Rivelazione di un tempo senza fine U Musée du quai Branly fino all’8 febbraio

I ritrovamenti a tutt’oggi effettuati nelle loro numerose città hanno permesso di ricostruire un profilo a tutto tondo dei Maya, rivelandone le mirabili architetture, la statuaria e, in generale, le notevoli capacità sviluppate nel campo della produzione artigianale. Di tutto questo e molto altro dà gennaio

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della sposa che, all’indomani delle nozze, s’insediava sotto il nuovo tetto coniugale), alle grandi spedizioni militari o scientifiche. Un’attenzione particolare è inoltre riservata alle peregrinazioni dei grandi artisti, sulle orme dei ripetuti viaggi compiuti da Albrecht Dürer tra la Germania e l’Italia. info www. musee-moyenage.fr San Secondo di Pinerolo (To)

Il MAO celebra quello che, secondo il calendario cinese, è l’anno del cavallo, esplorando uno dei simboli della storia e della cultura del Paese asiatico, attraverso opere provenienti dalle collezioni del museo e da una raccolta privata torinese e databili tra l’XI secolo a.C. e il X secolo d.C. Emblemi di nobiltà, eleganza, velocità e potenza, i cavalli si sono arricchiti nel corso del tempo di valenze soprannaturali ammantate di resoconti leggendari. Uno dei miti piú noti è proprio quello dei «Cavalli Celesti», straordinari destrieri capaci di trasportare chi li cavalcava nelle terre degli immortali. info tel. 011 4436928; e-mail: mao@ fondazionetorinomusei.it; www.maotorino.it

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parigi Viaggiare nel Medioevo U Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 23 febbraio

Allestita nel frigidarium delle antiche terme oggi comprese nel complesso del Museo di Cluny, la mostra evoca categorie diverse di viaggiatori – mercanti, pellegrini, principi, artisti – e indaga sulle motivazioni che li spinsero a lasciare le proprie dimore e la propria terra per lanciarsi in avventure che, in realtà, avevano inizio proprio nel cuore delle rispettive abitazioni. Il viaggio è dunque inteso nella sua accezione piú ampia: da quello simbolico, che poteva durare poche ore o consistere nel semplice attraversamento di una strada (come nel caso

San Sebastiano. Bellezza e integrità nell’arte fra Quattro e Seicento U Castello di Miradolo fino all’8 marzo

Giovane soldato convertitosi al cristianesimo, Sebastiano fu condannato a morte da Diocleziano, ma nulla poterono le frecce: esse trafissero il suo corpo, ma non scalfirono la sua bellezza, la sua fede, la sua integrità fisica e morale. La purezza dell’anima e l’incrollabile fede si specchiano nella sublime bellezza del giovane corpo di Sebastiano, che rimanda a quello dell’Apollo pagano, ma che nella figura del martire si riveste di sacralità e di una luce di eternità. È proprio l’aurea di bellezza e intimo splendore che avvolge il corpo virile e nudo di Sebastiano ad aver catturato

l’attenzione di tutti i piú grandi artisti, dal Rinascimento ai giorni nostri, che nel desiderio di sperimentare nuove accezioni del nudo maschile, partendo dai canoni classici, si sono cimentati nella raffigurazione del santo. In tal senso la storia dell’arte gli è debitrice di capolavori assoluti, declinati in un perfetto accordo tra fede, devozione, spiritualità e raffigurazione. info tel. 0121 376545; fondazionecosso.it new york la bibbia di winchester. un capolavoro dell’arte medievale U The Metropolitan Museum of Art fino al 9 marzo

La magnifica Bibbia di Winchester – considerata uno dei capolavori dell’arte medievale del XIII secolo – è per tre mesi in trasferta a New York. Commissionato probabilmente da Enrico di Blois (vescovo di Winchester, nonché nipote di Guglielmo il Conquistatore), il

manoscritto è il solo manufatto superstite del tesoro della cattedrale inglese. Si compone di quattro tomi, per un totale di 468 fogli, che furono scritti, in un arco di tempo di circa trent’anni, da un solo amanuense, accanto al quale lavorarono invece non meno di sei miniatori.. info metmuseum.org milano Bramante a Milano. Le arti in Lombardia 1477-1499 U Pinacoteca di Brera, fino al 22 marzo

A cinquecento anni dalla morte, Donato Bramante (1443/44-1514) viene celebrato con una mostra che nel tratteggiarne la poliedrica personalità («cosmografo, poeta volgare, et pittore valente… et gran prospettivo», lo dice fra’ Sabba da Castiglione) ricostruisce il suo lungo soggiorno in Lombardia e a Milano (almeno dal 1477 fino al 1499), e l’impatto che la sua opera ha avuto sugli artisti lombardi. Spirito

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agenda del mese inquieto e ingegnoso, Donato Bramante si è sicuramente educato alla corte dei Montefeltro a Urbino, dove è stato in contatto con gli architetti, gli scultori e i pittori attivi per il duca Federico. Piero della Francesca deve avere giocato un ruolo fondamentale nella sua formazione ma, rispetto all’impegno speculativo del pittore di San Sepolcro, in Donato ha prevalso un’attitudine pragmatica, da cui sono scaturite realizzazioni che hanno rinnovato il linguaggio architettonico in Italia tra Quattro e Cinquecento. info tel. 02 72263.264 o 229; e-mail: sbsae-mi. brera@beniculturali.it; brera.beniculturali.it;

tardo-gotica bolognese che, insieme alle altre testimonianze ancora presenti nella basilica, tra cui i grandi affreschi di significato allegorico nella Cappella dei Dieci di Balia (1420), costituirà un necessario completamento del percorso espositivo. Sarà l’occasione per mettere a confronto varie opere del pittore provenienti da musei e collezioni private – dipinti su tavola, affreschi e miniature – per ricostruirne il lungo periodo di attività, avviato all’inizio del XV secolo. info tel. 051 2193930; e-mail: museiarteantica@ comune.bologna.it

prenotazioni tel. 02 92800361; pinacotecabrera.net

Gambettola (FC)

Bassano del Grappa

Dalla fattoria al Palazzone. Storie di Gambettola U Biblioteca Comunale fino al 3 maggio

Matilde di Canossa. La «gran contessa» e del suo tempo U Istituto Scalabrini 24 gennaio, 7 e 21 febbraio

La costruzione di un parcheggio nella cittadina romagnola ha recentemente portato alla scoperta dei resti di un’antica fattoria costruita alla metà del Quattrocento, raro caso di edificio rurale di età rinascimentale. Dal suo scavo nasce questa mostra che espone ceramiche cinquecentesche, rinvenute perlopiú in una piccola cisterna utilizzata prima per la raccolta dell’acqua piovana e poi come discarica. Piatti, ciotole e boccali facevano parte del servizio da tavola mentre le pentole e i coperchi in ceramica grezza erano

Ecco i prossimi appuntamenti del XVII ciclo di incontri organizzato dal Centro Studi Medievali Ponzio di Cluny: 24 gennaio, San Benedetto Po: un monastero matildico (Angelo Chemin); 7 febbraio, La donazione di Matilde: documenti di carta e documenti di pietra (Enrico Dumas); 21 febbraio, Matilde com’era: nella vita privata, nelle amicizie,nella politica, nelle sue piú intime aspirazioni religiose (Paolo Golinelli); info tel. 0444 1801049; e-mail: info@

Bologna Giovanni da Modena. Un pittore all’ombra di San Petronio U Museo Civico Medievale, Basilica di San Petronio fino al 12 aprile

Giovanni di Pietro Falloppi, meglio noto come Giovanni da Modena, è per la prima volta protagonista di una rassegna monografica. Modenese di nascita, ma bolognese di adozione, l’artista fu autore della decorazione della Cappella Bolognini in S. Petronio (1411-12 circa), con Il Giudizio universale, Storie dei Magi e Storie di San Petronio, capolavoro assoluto della pittura

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usati in cucina per la cottura e preparazione dei cibi. Le porcellane da mensa hanno decori brillanti di colore giallo/ arancio e azzurro/blu, con fogliame su fondo berettino o repertori di candelabri e robbiane. info tel. 0547 45338; e-mail: biblioteca@comune. gambettola.fc.it

Appuntamenti

ponziodicluny.it, segreteria@ponziodicluny. it; ponziodicluny.it

milano Medioevo in libreria, XIII Edizione: «Fede e devozione nel Medioevo» U Civico Museo Archeologico di Milano, Sala Conferenze 17 gennaio, 14 febbraio

L’iniziativa prevede visite guidate al mattino, proiezioni video e conferenze al pomeriggio. Ogni incontro pomeridiano ha luogo, con inizio alle ore 15,30, presso la Sala Conferenze del Civico Museo Archeologico di Milano e si apre con la proiezione di Medioevo Movie. Viaggio nel Medioevo filmato (a cura di Italia Medievale). Questi i prossimi appuntamenti: 17 gennaio, ore 11,00:

visita guidata alla chiesa di S. Maria del Carmine, a cura di Maurizio Calí. Ore 16,00: Maria Pia Alberzoni, Università Cattolica di Milano: Francesco d’Assisi e la Chiesa di Roma. 14 febbraio, ore 11,00: visita guidata alla chiesa di S. Maria Incoronata e Biblioteca Umanistica, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore

16,00: Marina Benedetti, Università degli Studi, Milano: I margini dell’eresia. info tel. 02 45329840; e-mail: info@ italiamedievale.org; italiamedievale.org; medioevoinlibreria. blogspot.it/ gennaio

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misteri abraham abramelin

Libri, maghi e misteri

di Maria Elena Loda

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Nella Biblioteca Queriniana di Brescia è conservata la copia di un enigmatico volume medievale, attribuito all’esoterista Abraham Abramelin. Avvolto da una fama sinistra, viene considerato uno dei testi piú importanti della storia dell’occultismo. Ma perché questo manoscritto giunse nella città lombarda e qual è il suo segreto?

«C

redo nella pratica e nella teoria di ciò che vi è convenuto chiamare Magia, credo in quella che chiamerò l’evocazione degli spiriti, sebbene non sappia che cosa essi siano; credo nel potere di creare magiche illusioni, nelle visioni della verità nel profondo della mente, a occhi chiusi: e poi credo (...) che i confini della mente si spostino di continuo e che diverse menti possano confluire l’una nell’altra, per cosí dire, e creare o rivelare una Singola Mente, un’Unica Energia». Con queste parole, il poeta irlandese William Butler Yeats (1865-1939) descriveva le sue personali convinzioni metafisiche durante gli anni di permanenza presso l’Ordine Ermetico della Golden Dawn (Alba Dorata), rivelando non solo il suo interesse verso il misticismo, ma anche la vena di spiritualismo perseguito all’interno di questo particolare gruppo d’ispirazione rosicruciana. Nel 1896, Samuel Liddell McGregor Mathers, uno dei fondatori della Golden Dawn, che, assieme a William Robert Woodman e William Wynn Westcott, si riproponeva di indagare le vie cabalistiche come mezzo di elevazione spirituale, si trasferí a Parigi per iniziare la traduzione di un singolare manoscritto di magia teurgica (Arte magica di provocare l’apparizione di un Dio, costringerlo a incarnarsi, per divinizzare l’anima,

Il simbolo dell’Ordine Ermetico della Golden Dawn (Alba Dorata), società segreta d’ispirazione rosicruciana con forte interesse per l’esoterismo.

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n.d.r.) da proporre a stampa ai sodali della sua società segreta, di cui facevano parte anche poeti e filosofi del calibro di Arthur Machen, Edward Waite e il già citato Yeats. Purtroppo per Mathers, al termine dell’ingente lavoro, intercalato da sfortunati e misteriosi eventi, la traduzione andò inspiegabilmente persa durante un viaggio in treno, e al Gran Maestro toccò ricominciare da capo, riuscendo comunque a fornire una coerente versione del testo per gli usi interni della sua congrega esoterica.

Un’opera sfortunata

Prima di accennare ai contenuti del misterioso scritto, ricostruiamo le incredibili vicende che coinvolsero le sue diverse edizioni. Il libercolo, The Book of the Sacred Magic of Abramelin the Mage, uscí dai torchi dello stampatore Watkins grazie all’apporto finanziario di F.L. Gardner, amico di Mathers, nel 1897, ma anche qui la sfortuna non cessò di perseguitarne le ambizioni: su 1000 copie, ne andarono vendute forse 120, e l’editore decise perciò di disfarsi delle rimanenze a prezzo di realizzo, sospendendo la pubblicazione delle ristampe che erano state previste. Meno di trent’anni dopo, nel 1929, uno scrittore inglese, Ralph Shirley, già autore del trattato esoterico La Magia Segreta degli Specchi e la Visione nel Cristallo e di altri saggi sulle realtà trascendenti, pubblicò, sul mensile inglese Occult Review, una lettera nella quale raccontava la sua strabiliante

esperienza paranormale, avvenuta a seguito della consultazione di un manoscritto che parlava di magia sacra: durante la luna nuova, Shirley aveva ricevuto in sogno la visita di un’entità con lunghi capelli fluenti e gli occhi abbassati che aveva tutta l’aria di essere uno spirito di Luce. Attorno alla gamba del letto sul quale dormiva, stava avvinghiato un serpente rosso. Terrorizzato da una serie di avvenimenti che gli accaddero successivamente, Shirley abbandonò lo studio del testo, decidendo – a differenza di Mathers – che certa metafisica non faceva al caso suo. Trasferiamoci ora nell’Italia di circa tre secoli prima: nella biblioteca di una nobile famiglia bresciana, i Martinengo, giace un polveroso libro, vergato a mano con cura sollecita e destinato a entrare in sordina, nel corso dell’Ottocento, tra i registri della Biblioteca Queriniana: Abraham Abramelin, la vera et real Magia Sacra con la quale li antichi facevano tutti et diversi prodigi con la virtú della Santa Cabballa, raccolta dal dottissimo Abraham Abramelin d’Egitto. Si tratta, cioè, della stessa opera tradotta e studiata da McGregor Mathers, il quale, però, non venne mai a sapere che le copie manoscritte dell’Abramelin (il piú famoso grimorio, o libro di magia, esoterico a oggi noto) – la traduzione latina custodita presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, le quattro copie conservate in Germania, la copia inglese, le due francesi – non erano le sole, ma che ne esistesse un’altra, quella di Brescia.

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misteri abraham abramelin Del resto, questo rarissimo grimorio è da sempre tra i piú sfuggenti per quanto riguarda la vicenda storica e la sua composizione primaria. Come il Grand Grimoire attribuito al re Salomone – ma piú probabilmente scritto dal medico, filosofo e astrologo tedesco Cornelius Agrippa (14861535) – o il Grimorio di Papa Onorio del XIII secolo, anche l’Abramelin ha una gestazione fluttuante: la prima traduzione latina conservata presso la Biblioteca Marciana porta la data del 1458, ma fu scoperta solo nel XVIII secolo; le due copie tedesche del Codex Guelfibus della Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel sono considerate le piú antiche, in quanto risalenti al 1608; mentre il manoscritto in ebraico della Bodleian Library di Oxford è databile al XV secolo; il testo di Parigi, nei fondi della Biblioteca dell’Arsenale, è certamente del XVIII secolo, se è vero che è tratto dalla traduzione latina della Marciana.

Samuel Liddel McGregor Mathers ritratto dalla mogle Moina (Mina Bergson) con le insegne cerimoniali relative alla magia rituale. 1895 circa. Collezione privata.

Fu vero furto?

In merito a quest’ultimo, va detto che alcuni anni fa la biblioteca parigina ha annunciato di non possederlo piú – inizialmente sostenendo di non averlo mai avuto –, ma sappiamo che Mathers e lo storico ed esoterista Robert Ambelain (1907-1997) avevano lavorato su di esso; in seguito, fu diramata una rettifica, secondo la quale il testo sarebbe stato «smarrito o rubato» e che di esso si era conservata solo la versione in microfiche. Presso la Biblioteca Nazionale di Francia, esiste anche una copia degli inizi del XIX secolo, tratta da quella dell’Arsenale, il cui re-

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di Brescia, n.d.r.) Giovanni Bracesco, autore de Il Legno della Vita, che, assieme a Paracelso, all’arabo Geber (Giabir Ibn Hayyan) e ad Agrippa di Nettesheim, nel Seicento veniva considerato il principe degli alchimisti. Lavorando nel suo gabinetto alchemico, Bracesco intratteneva rapporti con molti dotti del suo tempo, e tra le cronache dell’epoca spicca il resoconto di viaggio di un grande ermetista del XVII secolo, Robert Tauladanus di Francia, che gli fece visita proprio nel feudo di Barco. Non solo: i Martinengo, famiglia alquanto eccentrica, dettero ospitalità anche allo storico Giovanni Nazari, autore del trattato Il Metamorfosi Metallico et Humano, che (secondo gli studi di Ennio Ferraglio) sarebbe stato steso grazie alla libertà di consultazione offerta a Nazari dai Martinengo all’interno della loro collezione: prima di quell’esposizione, infatti, Nazari non si era mai cimentato con la materia alchemica.

Amanti dell’occulto

dattore certo è il cabalista Lazare Lenain (1793-1877): si tratta di una replica perfetta, studiata da Ambelain. Collocabile al primo Seicento – come i due manoscritti del Codex Guelfibus – è invece l’esemplare della collezione Martinengo. Quello per la letteratura occulta era un interesse coltivato da piú di un esponente dei Martinengo. Questi, per esempio, ospitarono nel proprio palazzo di Barco (oggi frazione di Orzinuovi, in provincia

Data questa congerie di scambi culturali e l’instancabile vena di ricerca sull’occulto che animava i signori di Barco e Torre Pallavicina (località nella pianura bergamasca, sul fiume Oglio, n.d.r.), non sorprende, dunque, che un’opera fugace come l’Abramelin sia entrata in loro possesso. Ma, esaminiamolo piú da vicino, questo enigmatico lavoro. La tradizione storiografica colloca la stesura del nucleo madre intorno al XIV secolo, probabilmente a Zagabria. L’originale perduto fu in seguito tradotto dall’ebraico in latino, a Venezia, forse da uno dei suoi gennaio

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La cabala

Tra filosofia e religione La cabala (dall’ebraico qabbalah, «dottrina ricevuta», «tradizione») è una dottrina esoterica degli Ebrei che riguarda Dio e il mondo, e si diceva fosse stata originata da una rivelazione e trasmessa da una catena ininterrotta di iniziati. Causata da un profondo travaglio spirituale che agitò la società ebraica nei due secoli precedenti alla venuta di Cristo, la dottrina è contaminata da influssi neopitagorici e ha una base panteistica: la nostra intima essenza singola come pure l’essenza del cosmo è la confluenza di un lungo, multiforme processo in cui Dio manifesta se stesso. Inaccessibile nella sua natura, Dio è però in qualche modo conoscibile attraverso la bellezza, la potenza, lo splendore, ecc., che rappresentano altrettante sue emanazioni. Preesistente alla nascita dell’uomo, la sua anima è formata da un elemento maschile e da uno femminile, che subiscono una separazione innaturale e che ricercano la loro unità originaria, trasmigrando di corpo in corpo. primi possessori, un certo Antonio Veneziano, detto anche Antonio Del Rabbino o Antonio Da Praga, per via dei suoi numerosi spostamenti; il manoscritto entrò quindi a far parte dei fondi della Biblioteca Marciana. La data della traduzione veneziana dovrebbe essere il 1458, che è la stessa riportata nella copia posseduta dall’Arsenale di Parigi e che Robert Ambelain mette in diretto rapporto di filiazione con il manoscritto marciano. Ma qui sorgono alcuni dubbi: come detto sopra, la versione latina della Marciana fu ritrovata solo nel XVIII secolo, mentre l’unico esemplare in ebraico esistente (e a cui la traduzione latina potrebbe essere legata) – la copia Oppenheimer di Oxford – deriva invece, secondo lo studioso del pensiero cabalistico-giudaico Gershom Scholem (1897-1982), da una piú antica stesura in tedesco. Il libro noto come l’Abramelin dell’Arsenale appartenne alla biblioteca privata del conte Antoine René de Voyer d’Argenson, marchese di

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Quando si saranno ricongiunti, finirà il loro trasmigrare e sulla Terra si manifesterà di nuovo il Messia, avviando un’era di felicità. Delle dottrine della cabala furono considerati depositari gli Ebrei spagnoli, i Sefarditi. Nel 1492, con la loro espulsione dalla Spagna, si rafforzò la tendenza messianica espressa dalla cabala luriana. Formatesi completamente solo nel XIV secolo, le dottrine della cabala sono raccolte nel Libro della creazione del rabbino Akiba e nel Libro dello splendore, ed esercitarono un grande influsso su Filone, Avicenna, Raimondo Lullo, Pico della Mirandola, Paracelso, Reuchlin, ecc.; tali dottrine decaddero nel XVI secolo, quando la magia le svuotò dei loro significati filosofici e religiosi. Per estensione, il termine «cabala» ha finito con il designare l’arte divinatoria, per cui, attraverso l’esame e la varia combinazione di numeri e lettere, si presumeva di antivedere il futuro. (red.)

La Carta del Tempio di Osiride N. 4, atto costitutivo dell’Ordine Ermetico della Golden Dawn, stilato nel dicembre 1888. Collezione privata.

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misteri abraham abramelin

Paulmy. Nato a Valénciennes nel 1722, morí nel suo palazzo dell’Arsenale nel 1787, lasciando la sua collezione al conte di Artois, poi passata allo Stato francese. Gli antenati del marchese furono ambasciatori a Venezia negli anni di governo secenteschi della Serenissima. Il nonno nacque in Laguna nel 1652, regolando in tribunale anche tardi episodi di

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stregoneria. Ma che cosa lega il manoscritto medievale francese a questa famiglia nobiliare? Forse la figura dell’abate Luigi Baroni, segretario del marchese dell’Arsenale. L’occupazione principale dell’abate consisteva nel ricercare e copiare per il suo mecenate le opere rare; può darsi che egli abbia attinto davvero a un manoscritto quattrocentesco realmente

esistito, ma a noi sconosciuto e a cui è legata anche la copia della Marciana, tenendo ferma la data indicata dalla sua fonte anche per la trascrizione postuma.

L’Affare dei Veleni

Come è anche possibile che la copia dell’Arsenale derivasse dalle confische fatte ai maghi di Parigi dopo l’Affare dei Veleni, di cui perfino gennaio

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Nella pagina accanto Stregone, olio su tela del pittore francese Bénigne Gagneraux. 1790-1795. Milano, Pinacoteca Ambrosiana. In basso il frontespizio del manoscritto Abraham Abramelin, la vera et real Magia Sacra con la quale li antichi facevano tutti et diversi prodigi con la virtú della Santa Cabballa, raccolta dal dottissimo Abraham Abramelin d’Egitto, ritrovato nella biblioteca della nobile famiglia bresciana dei Martinengo. Inizi del XVII sec. Brescia, Biblioteca Queriniana.

do fuori legge l’attività dei fattucchieri francesi, molti dei quali furono rinchiusi alla Bastiglia; i testi e le pergamene che venivano loro confiscate dal tenente D’Argenson furono acquisiti dallo zio marchese, costituendo il primo fondo della futura Biblioteca dell’Arsenale. È dunque possibile che il manoscritto su cui lavorò McGregor Mathers non fosse stato redatto di suo pugno dall’abate Baroni, ma fosse uno dei documenti confiscati durante il decennio 1670-1680. E il mago che lo aveva originariamente posseduto prima del marchese potrebbe a sua volta averlo copiato dal manoscritto della Marciana, ancora ignoto all’epoca del conte d’Argenson e di Baroni.

Un mago egiziano?

Alexandre Dumas ci parla nei suoi Delitti Celebri, Volume I: correva l’anno 1670, e la morte per avvelenamento del cavalier Godin de SainteCroix a opera della sua amante, la marchesa di Brinvilliers, aveva sollevato una coltre sinistra su tutta la corte di Francia: gentildonne come madame de Pompadour, madame de La Motthe, o le nipoti del cardinal Mazzarino, erano state sorprese

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in possesso di grimori e di incantamenti forniti dai maghi parigini per avvelenare i rispettivi mariti – la Pompadour tentava di affatturare d’amore il re di Francia –, mentre gli amici del ministro delle Finanze, Colbert, mandavano maledizioni alla Corona. L’Affare dei Veleni, durato un decennio, portò a numerose esecuzioni e processi per accusa, metten-

Ma chi era l’autore dell’Abraham Abramelin? Su tale quesito, la tradizione sfocia in nebulosa leggenda, evocando Abramo figlio di Simone, inizialmente discepolo di Mosé il Rabbino, il quale, a seguito di un viaggio in Oriente, viene introdotto ai misteri piú antichi degli angeli e dei demoni da un mago egiziano, Abraha-Melin, un venerabile vecchio che viveva nel deserto, fuori della città di Araki. Due sono le proposte di identificazione di questo affascinante personaggio: una, largamente condivisa e ripresa anche dalla studiosa di folklore Devon Scott, e l’altra, piú recente, che appartiene all’esoterista Georg Dehn. Sulla base dei confronti tematici, Devon Scott accetta l’idea che l’Abramelin possa essere un derivato dal grimorio conosciuto sotto il nome di Aptocalter, il Libro di Potenza, ritrovato nel 1800 dall’occultista Sayed Idries Shah in una versione inglese. Redatto per la prima volta nel 1724 da un autore noto col nome di Mago di Adrianopoli, sarebbe apparso in forma manoscritta già nell’anno Mille come traduzione greca di un originale

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misteri abraham abramelin un antico ordine ermetico

Dai Rosacroce all’Alba Dorata I fondatori dell’Hermetic Order of the Golden Dawn («Ordine Ermetico dell’Alba Dorata») – tra i quali figurava Samuel Liddell McGregor Mathers, uno principali studiosi dell’Abramelin – facevano parte di una confraternita di Rosacroce. I Rosacroce erano un ordine ermetico cristiano, nato secondo una leggenda nel Medioevo o addirittura nell’antichità, che divenne operativo in Germania a partire dal XVII secolo, in concomitanza con la pubblicazione di tre enigmatici opuscoli: Fama fraternitatis, Confessio fraternitatis e Le nozze chimiche di Christian Rosenkreuz. Considerati i veri e propri manifesti dell’ordine, i testi annunciavano il prossimo avvento di una comunità di illuminati, depositari dei segreti delle principali scienze occulte che avrebbero rigenerato spiritualmente un mondo ormai avviato alla fine. A questa dottrina si ispirò, nel XIX secolo, l’ordine della Golden Dawn, una società di iniziati articolata in due livelli, «esteriore» e «interiore» (in quest’ultimo, denominato Rosæ Rubeæ et Aureæ Crucis, si praticavano forme di magia che dovevano essere tenute nascoste al primo). Tra i protagonisti dell’ «Alba Dorata» figura il discusso esoterista britannico Aleister Crowley. Il simbolo adottato dalla società segreta (l’alba, appunto) rappresenterebbe la rinascita spirituale dell’umanità attraverso la riscoperta della piú «autentica» tradizione occidentale. (red.)

La prima pagina del manoscritto dell’Abraham Abramelin appartenuto ai Martinengo. Inizi del XVII sec. Brescia, Biblioteca Queriniana.

L’ipotesi che il codice derivi da un’antica fonte di nozioni cabalistiche è tuttora controversa arabo rimasto ignoto, forse di origine iranica o mesopotamica. Tale asserzione appare plausibile, se si considera che la redazione piú antica della Clavicula Salomonis (considerata proveniente dal sepolcro di Salomone in Gerusalemme e oggi al British Museum), non menziona il re Salomone, ma è piuttosto un manoscritto di magia generico, in greco e per di piú acefalo (mancante della sillaba iniziale, n.d.r.) dell’XI secolo: un testo ignoto, solo successivamente attribuito al figlio di Davide.

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Occorre considerare che il pensiero cabalistico, in accordo con Gershom Scholem e Giuseppe Laras, fa la sua comparsa relativamente tardi, in età altomedievale, verso la fine del XII secolo, piú plausibilmente nel 1180 con il Sefer haBahír, precoce base dello Zohàr, testo principe per i cabalisti del XIII secolo.

Un’ipotesi azzardata

Nel caso dell’Abramelin, dunque, l’ipotesi di un’antica fonte smarrita di nozioni cabalistiche giudee

risalenti ad «Abramo l’Ebreo» precedente al 1180 suona alquanto azzardata, e Gershom Scholem, a proposito del manoscritto in ebraico di Oxford, annota che gli elementi indicati non appartengono agli insegnamenti cabalistici di ambito giudaico: «[Il testo] mostra una parziale influenza di idee ebraiche, ma non ha alcun parallelo diretto con la letteratura cabalistica». Per questo motivo, Scholem esclude anche che l’ignoto autore possa essere stato ebreo. gennaio

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Naturalmente, se si dovesse considerare l’Aptocalter come un coacervo di fermenti rimandanti a una cabala diversa da quella ebraica, si potrebbe accettare la congettura che le nozioni ivi contenute affondino le proprie radici ben prima dell’anno Mille, nell’antichità classica mediterranea. Era, quest’ultimo, un contesto fortemente ellenizzato che favoriva i sincretismi e le sovrapposizioni di tradizioni simili: si tratterebbe di una raccolta di magia caldeo-babilonese arcaica, dunque, mediata dalla Persia e dai regni ellenistici, arrivata fino all’impero romano d’Oriente, con cui Venezia aveva floridi commerci, soprattutto grazie all’ambiente corporativo dei filatori e dei tessitori, molti dei quali erano ebrei. Ecco allora che non suonerebbe strano se qualche viaggiatore (magari lo stesso misterioso Antonio Veneziano, Da Praga o Dal Rabbino, forse gentile, forse ebreo) tra Costantinopoli e Venezia avesse riportato in Occidente – a Zagabria e in Laguna – testi magici caldeo-persiani di cui a Costantinopoli c’era peraltro libera circolazione. Occorre aggiungere che Pierre Vincent Piobb, uno degli ultimi maghi del 1900, nel trattato Formulario di Alta Magia, asserisce che la magia in Europa non è di derivazione ebraica come sovente si pensa, ma è semplicemente «rivestita» con caratteri ebraici, per nasconderla agli ignoranti o perché, in effetti, molti rabbini che portavano dall’Oriente pergamene in arabo, persiano, greco, siriaco, le traducevano poi nella propria lingua. La stessa dicitura Aptocalter sembrerebbe riportare a una matrice etimologica mediorientale diversa da quella legata all’ebraismo: si pensa infatti che possa derivare da Abd-al-Kaldir, che significa «servo dell’Onnipotente». In ogni modo, l’Aptocalter viene presentato ufficialmente come il libro dei segreti cabalistici e riporta palindromi per varie operazioni

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teurgiche molto simili a quelli che compaiono in calce all’Abramelin: secondo Devon Scott, Antonio da Praga avrebbe tratto le nozioni utili sia per rendere pratica la magia, che per tramandarla a sua volta nella prima gestazione dell’Abramelin, che, in questo caso, non risulterebbe come un grimorio a sé stante, ma piuttosto come un compendio, una summa, del piú vasto Aptocalter.

Vittima dei demoni

Di Antonio da Praga non si sa nulla, se non che sarebbe stato ucciso misteriosamente dai demoni che egli stesso aveva evocato. Quasi certamente si tratta, a nostro parere, di un nome fittizio, e sarebbe lo stesso personaggio che si ritrova nel Grand Grimoire, poiché la parte dedicata ai demoni risulta molto simile a quella dell’Abramelin. Il Grand Grimoire è stato presentato, nel corso del tempo, come un agile libercolo appartenente alla letteratura destinata al commercio ambulante dalle stamperie clandestine di Lilla, Lione, Liegi, che, in genere, attingevano i propri riassunti a uso «tascabile» da manoscritti piú corposi, in questo caso da un altro documento dell’Arsenale datato 1402: nel Grand Grimoire, Antonio, o chi per lui, si firma col nome «Dal Rabbino». Molto spesso questo genere di grimori, la cui gestazione è sempre difficile da seguire con metodicità scientifica, si richiamano tra loro anche laddove i contenuti sono molto corrotti e i sigilli imprecisi (indice del fatto che, a monte, sussisteva una tradizione orale di pratiche unitarie) e vengono tramandati attribuendoli ad autori che figurano perlopiú sotto pseudonimi, come Alibeck l’Egiziano, il Veglio delle Piramidi, il Mago di Adrianopoli, il Mago Iroe-Grego (irano-greco?), ecc. Antonio da Praga non doveva fare eccezione. La seconda proposta di attribuzione d’identità è stata tentata invece da Georg Dehn e riguarda il rab-

bino talmudista Yaakov Moelin, che visse tra il XII e il XIII secolo su suolo germanico con il nome di Abraham di Worms o di Würzburg: secondo Dehn, il rabbino Moelin avrebbe scritto l’Abramelin senza il supporto di alcuna fonte antecedente, nemmeno l’Aptocalter, attribuendone il contenuto alla figura fantastica del Mago Abraha-Melin per rafforzare l’auctoritas della sua opera. In questo frangente, almeno cronologicamente, si può rilevare una maggiore coerenza rispetto alla complessa tesi che rinvia all’Aptocalter e a perduti manoscritti cabalistici antecedenti alla stessa nascita ufficiale della Qabbalah ebraica, ma, nonostante ciò, resta comunque chiaro come nel caso dell’Abramelin si tratti – come già detto – di una cabala ancor piú antica e senza collegamento con quella giudaica. Pur essendo divulgate, entrambe le ipotesi non hanno ancora trovato un avallo definitivo, e molte sono le zone d’ombra che oscurano questo antico libro di magia. Desidero ringraziare Ennio Ferraglio, della Biblioteca Queriniana di Brescia, per avermi consentito la consultazione dell’Abramelin, da cui sono tratte anche le immagini qui riprodotte. F

Da leggere U Devon Scott, Tradizioni perdute,

Edizioni Lunaris, Viareggio 2001 U Eliphas Levi, Storia della Magia,

Edizioni Mediterranee, Roma 1985 U Scholem Gershom, La Cabala,

Edizioni Mediterranee, Roma 1982 U Pier Luca Pierini, La Magia

Segreta, Rebis Edizioni, Viareggio 2005 U Ennio Ferraglio, Prete Giovanni de Bressa, alchimista, in Medici, Alchimisti, Astrologi. Inquietudini e ricerche del Cinquecento (catalogo della mostra), Museo DiocesanoEditrice Serra Tarantola, Brescia 2005

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personaggi francesco sassetti

Il finanziere erudito di Alessio Montagano

Affarista ma anche mecenate e personalità di larghe vedute, Francesco Sassetti fu uno dei piú oculati banchieri della Firenze del Quattrocento. Vicino alla famiglia dei Medici, diresse importanti filiali dell’omonimo Banco e, con l’amico Lorenzo il Magnifico, coltivò la passione per i testi classici e le monete antiche...

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ra i personaggi illustri che hanno contribuito all’ascesa dei Medici nel Quattrocento, un ruolo di primo piano spetta a Francesco di Tommaso Sassetti. Vissuto fra il 1420 e il 1491, era l’uomo di fiducia di Piero e di Lorenzo il Magnifico «con il quale il nostro Francesco ebbe tanta familiarità, che li confidò tutto lo stato suo interamente, di maniera che, quanto a negozi, non si faceva se non quando disponeva e voleva Francesco», con negozi – nel significato letterale di attività – ad Avignone, Lione, Bruges, nelle Fiandre, oltre che a Roma e a Milano. Figura poliedrica e dinamica, Sassetti godeva di larghi mezzi e di fama di mecenate, tanto che all’apice della sua carriera si calcolava che disponesse di «5.500 fiorini di masserizie, 1.100 fiorini solo di panni per il vestire, 1.600 fiorini di argenti e 1.750 di orerie, 800 fiorini di libri». Era quello il tempo in cui Francesco, come ci riferisce il suo discendente e omonimo Francesco di Giovambattista, «negoziava con li medesimi nomi, al governo di vari ministri, li quali tutti d’ordine e volontà del Magnifico Lorenzo, riconoscevano Francesco nostro per principale, e a lui davano conto e ragguaglio del tutto: e con questi tanti maneggi e occasioni aveva fatto grandissime facultà; di maniera che in quei tempi, la sua si contava per una delle prime ricchezze di Fiorenza».

Una carriera fulminea

Appena ventenne, era già ad Avignone per occuparsi degli affari di Cosimo il Vecchio, tanto da dare questo nome al suo secondogenito. Dopo quasi vent’anni trascorsi all’estero come direttore del Banco dei Medici, in particolare a Ginevra, nel 1459 rientrò a Firenze per occuparsi degli affari della casa medicea. Aveva all’epoca 38 anni e decise di sposarsi con Nera Corsi, per poi dare il via a importanti

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Firenze, chiesa di S. Trinita, Cappella Sassetti. Particolari degli affreschi realizzati da Domenico Ghirlandaio e dalla sua bottega raffiguranti Francesco Sassetti (in questa pagina) e sua moglie, Nera Corsi (nella pagina accanto). 1483-1486.

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La Cappella Sassetti in S. Trinita a Firenze

Gruppo di famiglia in una chiesa Nel 1479 Domenico Ghirlandaio cominciò a concordare con Francesco Sassetti il programma iconografico della cappella di famiglia in S. Trinita a Firenze, come testimoniano due disegni conservati nel Gabinetto delle Stampe di Roma. In quell’anno morí Teodoro, figlio (di appena quattro anni) di Francesco Sassetti, al quale nacque pochi mesi dopo un altro bambino, a cui fu dato lo stesso nome. Nel 1483 Domenico Ghirlandaio avviò la realizzazione dell’interno della cappella di S. Trinita, tra cui la Natività di Cristo, una pala affiancata da due affreschi con i ritratti di Francesco Sassetti e della moglie Nera Corsi.

Tra i personaggi raffigurati troviamo il Gonfaloniere di Giustizia Antonio Pucci, cognato del Sassetti, Lorenzo il Magnifico, Francesco Sassetti e il figlio Federigo. Lorenzo tende la mano verso Agnolo Poliziano, che sale le scale alla testa dei figli Giuliano, Piero e Giovanni. Lo stesso Francesco indica i figli: Galeazzo, Teodoro e Cosimo. I sarcofagi di Francesco Sassetti e sua moglie Nera, forse opera di Giuliano da Sangallo, sono in marmo bianco lumeggiati d’oro e di profido nero. Sopra l’arco d’ingresso della cappella si vede lo stemma di famiglia, in terracotta invetriata di derivazione robbiana.

operazioni immobiliari nella città del giglio, fra il 1465 e il 1469, quando costruí una bella e comoda casa, sufficientemente grande per la sua numerosa prole (undici figli). Nei dieci anni successivi acquistò tre poderi in Val di Bisenzio nel popolo di San Leonardo di Casi, denominati rispettivamente el Palagio, el Mulinaccio e la Strada, unitamente ad altri beni nel popolo di San Martino a Gonfienti, casa e terre a Cavagliano e una vigna vecchia posta in «luogo detto Soffignano». In quel periodo era in costruzione a Vaiano il nuovo chiostro della badia di S. Salvatore, sotto l’egida dei Medici, grandi protettori, come già accennato, di Francesco, che compare accanto al Magnifico negli affreschi realizzati dal Ghirlandaio nella cappella Sassetti, in S. Trinita (vedi box in questa pagina). E proprio a lui si deve la realizzazione stessa di questa cappella, nella quale è ritratto con la moglie, i figli e il cognato Antonio Pucci. È probabile che la decisione di acquistare casa e terre a Vaiano sia maturata durante la frequentazione dei Medici, in particolare nel periodo in cui Carlo (1464), figlio naturale di Cosimo il Vecchio, diventò abate commendatario del monastero di Vaiano.

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Nella pagina accanto veduta generale della Cappella Sassetti, con il ciclo d’affreschi dedicato alla vita di san Francesco d’Assisi di Domenico Ghirlandaio e bottega. Al centro, in basso è la splendida pala d’altare con la Natività, sempre del Ghirlandaio, affiancata dai ritratti di Francesco e Nera. 1483-1486.

In alto particolare degli affreschi del Ghirlandaio in cui compare ancora una volta Francesco Sassetti, accanto a Lorenzo il Magnifico, al quale fu legato da un rapporto assai intenso, non soltanto per l’impegno del primo nella cura degli interessi economici dei signori di Firenze, ma anche per le affinità e le passioni in campo culturale.

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personaggi francesco sassetti Ma chi erano i Sassetti? Le notizie sulle origini della famiglia vanno ricercate in un manoscritto del XVII secolo, a firma di Francesco di Giovambattista Sassetti, figlio del nipote del capostipite. La ricostruzione della storia del casato ha un esordio molto significativo: «Con buona memoria di mio padre, che passò di questa a miglior vita, d’anni sessanta, mi diceva di avere sempre sentito dire da Teodoro suo padre e da Cosimo suo zio, che la nostra casa era antichissima e nobile, e veniva di Germania (...). Sono bene informato la nostra famiglia essere nobile e vetusta, venuta dalla Sassetta, castello di maremma di Pisa, da signori e gentiluomini di quel luogo, che seguirono in quel tempo le parti degli imperatori della Magna e lor setta, che allora dominavano e imperavano in Italia».

Facoltosi e perciò bene accetti

In alto Migliana (Cantagallo, Prato). Rilievo sul campanile dell’antica chiesa parrocchiale, raffigurante lo stemma e l’impresa (fionda con il sasso da scagliare) della famiglia Sassetti. Fine del XV sec.

In basso la Villa del Mulinaccio in Val di Bisenzio, acquistata da Francesco Sassetti. La costruzione del palazzo si deve a Cosimo, figlio di Francesco nato nel 1463, a cui fu affidata la direzione dei lavori.

Siamo dunque al cospetto di una stirpe di ghibellini che misero radici a Firenze e che soffrirono, e non poco, quando la parte alla quale si legarono (che fu ghibellina) restò al di sotto. Vale la pena leggerlo dalle parole stesse di Francesco: «Insino all’anno 1318 stettano, se non tutti li consorti la maggior parte fuor di Firenze, come ribelli. Accordati poi il detto anno con il Comune, e tornati in Firenze, come si dirà a suo luogo, stettano molto tempo abbattuti, come quelli che per la memoria della contraria fazione non erano, da quelli che governavano, visti con buon occhio né volentieri, solo erano ritrovati, sempre che si aveva a mettere qualche gravezza per li bisogni della città, che erano assai e spesso; nella quale i Sassetti, che erano in concetto di denari, e però si cercava tenerli bassi, erano ritrovati e riconosciuti dagli altri». Queste memorie, che ci riportano con lucida vivacità al periodo di Dante e alla lotta fratricida tra i partiti avversi, ci testimoniano come, nella realtà, la disponibilità economica portasse questa famiglia a essere comunque bene accolta a quei tempi anche dalle consorterie rivali, dal momento che alcuni dei suoi esponenti «attendevano alla mercatura; e particolarmente tenevano tavolo in Mercato nuovo, e facevano il cambiatore». Sviluppando una forte vocazione al commercio, molti membri di questa famiglia fecero ritorno a Firenze «nel 1358, fino al 1450 e vel circa, se ne stettano quietanamente, attendendo a’ loro negozi e faccende mercantili, senza intromettersi né essere adoperati in cose pubbliche». Databile tra il 1480 (anno in cui le filiali di Bruges e Venezia vennero liquidate) e il 1485 (anno in cui l’amministratore Lionetto de’ Rossi fu licenziato e arrestato a Lione in relazione alla sua scorretta gestione degli affari delle compagnie medicee), il documento, pubblicato nel 1963 dallo storico Raymond De Roover (1904-1972), descrive un possibile piano di risanamenNella pagina accanto Francesco Sassetti e suo figlio Teodoro, tempera su tavola di Domenico Ghirlandaio. 1488 circa. New York, Metropolitan Museum of Art.

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personaggi francesco sassetti la zecca fiorentina

I signori dell’oro e dell’argento A Firenze la scelta dei domini monetae era soggetta al vaglio delle Arti Maggiori di Calimala e del Cambio, che, ogni sei mesi, eleggevano «sorte et fortuna» due loro iscritti per sovrintendere a tutte le operazioni della coniazione: la prima arte eleggeva il «signore» della zecca per l’oro, mentre la

seconda, quello per l’argento e la mistura. L’attività degli iscritti alle Arti, perlopiú mercanti e banchieri, era regolamentata da uno

statuto, il Monetieri del Chomune, che specificava, tra le varie cose, i privilegi concessi agli zecchieri e a tutti i monetieri e operai della zecca, che consistevano in esenzioni da tasse e servizi militari e nel diritto di essere giudicati da un foro interno. Alle supreme magistrature repubblicane spettavano le decisioni che esulavano dalla normale amministrazione dell’ufficio della zecca, quali, per esempio, la determinazione del costo di lavorazione delle monete, la modalità dell’invio del metallo da monetare, la scelta del taglio e dell’intrinseco da adottare nelle nuove emissioni, il controllo della circolazione della moneta vecchia e i provvedimenti su quella da bandire. Gli atti (ricevute, verbali, consegne, ecc.) venivano registrati dal notaio nel Libro del Camerario, che i signori della Zecca dovevano poi approvare. A partire dal 1317, per iniziativa dello storico Giovanni Villani (al quale si

In alto grosso fiorentino in argento, detto «guelfo», coniato sotto la direzione di Francesco Sassetti. Al rovescio, sopra il braccio del santo patrono Giovanni Battista, compare il simbolo araldico della fionda con sassolino, con accanto la F gotica, iniziale di Francesco.

to del Banco in un momento di estrema difficoltà organizzativa e finanziaria. Anonimo, ma probabilmente redatto da Giovambattista Bacci, dipendente della filiale fiorentina, il progetto prevede di creare due nuove compagnie (chorpi) con due direttori distinti: Francesco Sassetti, per la società che avrebbe gestito le sedi di Firenze, Pisa e Lione; Giovanni Tornabuoni per quelle di Roma e Napoli. Fiorino «guelfo» del Sassetti, nel quale, al posto della fionda, è rappresentato lo scudo araldico bandato della famiglia. I semestre del 1482.

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Il prezzo del risanamento

Il capitale complessivo per l’intera operazione era previsto in 48 000 ducati (di cui 18 000 a carico di Lorenzo de’ Medici, 15 000 per uno a carico di Giovanni Tornabuoni e Francesco Sassetti), espandibili a 68 000 con l’intervento di alcuni gennaio

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deve, lo ricordiamo, la redazione della celebre Nuova cronica, n.d.r.) allora signore della zecca per l’argento e la mistura, si introdusse un nuovo strumento di controllo e di memoria, il Libro della Zecca detto Fiorinaio, che si conserva oggi presso l’Archivio di Stato di Firenze e che resta la fonte principale per gli studi delle monete di questa Zecca. In esso, per ogni semestre, venivano riportati i nominativi e i rispettivi «segni» di ciascun signore, consentendo cosí di avere un’attribuzione certa per ogni moneta. L’individuazione di un segno di zecchiere piuttosto che un altro, su ciascuna moneta, ci permette infatti di poter attribuire a ogni esemplare la paternità di coniazione e il suo preciso periodo storico, altrimenti difficilmente individuabile a causa della ripetitività iconografica che si riscontra nelle emissioni repubblicane. Ex libris di Francesco Sassetti. Firenze, Biblioteca Laurenziana. Il marchio presenta una composizione araldica articolata, nella quale sono compresi un medaglione con il nome Francisci Sassetti, un cartiglio col motto «a mon povoir» e la fionda con i sassi, emblema della famiglia, sorretta da due centauri.

soci minori. La compagnia lionese avrebbe poi potuto finanziare un’attività di arte della seta o di battiloro sotto la direzione di Francesco del Tovaglia; candidati alla direzione della sede fiorentina erano Giovanni Lanfredini o Lodovico Masi. La decisione definitiva sull’intero progetto era affidata al giudizio, alla cura e all’avvenutezza di Lorenzo: «Lorenzo achonci il chonto, il tempo e modo di paghamento chon quella discrezione che suole»; il Magnifico era dunque chiamato a essere «ago della bilancia» anche negli affari, un ruolo che probabilmente non gli era cosí congeniale come in politica. Mai effettivamente realizzato, il progetto mette in

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evidenza il particolare rapporto personale e professionale tra il Magnifico e Francesco Sassetti, chiamato a far fronte alle necessità finanziarie e organizzative delle compagnie medicee. In tal senso colpiscono le espressioni conclusive del documento («Chome si vede Francesco nel traficho nuovo oltre la sua industria metterebbe per Lorenzo ducati 3.000 sua magnificenza è atta a restorarvela in molti modi»), in cui Francesco viene invitato a impegnare la sua industria, intesa nel classico significato di operosità mista ad abilità e discrezione, unitamente ai suoi denari, che Lorenzo sarà pronto a rimborsare «in molti modi»: un’espressione che lascia trasparire i profondi legami

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personaggi francesco sassetti socio-culturali tra il Medici e il Sassetti, fondati su altri valori e interessi che i due condividevano, dalla passione per i codici classici latini e greci a quella per l’antiquaria.

La passione per la numismatica

Nella pagina accanto la carta del Fiorinaio (Libro della Zecca) che elegge Francesco Sassetti signore della Zecca per l’emissione di moneta d’argento e di mistura nel I semestre 1482. Firenze, Archivio di Stato, Ufficiali della Moneta. Tra gli emblemi, si riconosce lo scudo bandato dei Sassetti (al centro) sormontato dalla F e con accanto la fionda con il sassolino.

L’amore per il mondo antico trovò in Francesco Sassetti espressione anche nella passione numismatica, condivisa da molti altri suoi amici e contemporanei. Gli interes- che. Per esempio, oltre a una definizione del valore delsi «antiquari», termine con cui si indicava inizialmente l’«asse» romano, Della Fonte si dilunga in questioni di la passione per i volumina di testi letterali o poetici e che terminologia, facendo notare alcune differenze occorse – in epoca umanistico-rinascimentale – fu esteso a quel- nella traduzione greca o latina fino alla lingua volgare, la per l’arte antica, specificatamente la scultura, la glit- della denominazione della medesima moneta: «Inde “as” tica e anche la numismatica, facevano parte, infatti, di ex duodecim unciis constat. “Mia” a Graecis, “mina” a nostris, quel patrimonio culturale recuperato dall’Umanesimo interpositione literae appellatur; hanc et “libram” dicimus, cueuropeo di cui Francesco Sassetti e la famiglia Medici ius dimiutivum libella». Attingendo, poi, allo studio dei classici tenta di stabierano protagonisti principali. lire i valori intrinseci delle monete, citando per esempio L’inventario dei beni di Piero il Gottoso e quello di Lorenzo il Magnifico dedicano molte pagine a elencare Plinio e Varrone, che danno definizioni diverse di un «talento» romano. In conclusione, l’autore spiega che la gli oggetti preziosi (tra cui, appunto, anche le monete classiche e romane) riuniti nel piccolo ma riffina- materia è trattata da molti e che le monete antiche erato vano, situato al primo piano di Palazzo Medici che no spesso di metalli diversi, meno nobili dell’oro, argendava su via Larga, denominato «studiolo», nel quale i to e bronzo, come il ferro o l’allume, debitamente fuso e proprietari amavano incontrare gli amici colti e appas- trattato, indugiando in un paragone tra quanto espresso sionati per far loro condividere, studiare e ammirare i da Curzio Rufo e da Erodoto ancora in riferimento al «talento»: «Materiam autem tesori di famiglia. Nel cliNel trattato dedicato a Sassetti, variam extitisse gravissimi atma culturale della Firenze autores. Nam non sodella metà del QuattrocenDella Fonte dimostra una vasta testantur lum aurum, argentum, aes hoc to molti erano gli interesconoscenza delle fonti antiche pondere aestimari comperimus sati al settore, e, fra questi, sed ferrum etiam et allumen. particolari rapporti di amicizia e affinità culturale, anche in ambito numismati- Curtius nam candidi ferri talenta centum et Herodotus alluco, si strinsero fra Bartolomeo della Fonte, alias Fontio, minis mille talenta scribit». Testimonianza concreta, quindi, del comune interesse per la numismatica, il breve e la famiglia Sassetti. Della Fonte si inserisce a pieno titolo nel panorama trattato non è l’unico documento che leghi Della Fonte dell’Umanesimo in veste di studioso ed editore di testi e Sassetti all’argomento: in una lettera all’amico Francesco Gaddi, che si trovava a Roma, il primo chiede per classici, insegnante presso lo Studio fiorentino, copista e collezionista di antichi codici (motivo per cui diven- Cosimo Sassetti, figlio di Francesco, di trovare e inviare ne, fra le altre attività, bibliotecario del re d’Ungheria alcune monete romane, definite comunemente «medaMatteo Corvino, bibliofilo appassionato). Protetto dai glie»: «Recordarvi le medaglie promesse a Cosimo Saxetti quanMedici e in particolar modo dalla famiglia Pandolfini, do n’avete alcuna antiqua e bella». che annoverava fra i suoi membri non solo prestigiosi uomini politici del tempo, ma anche signori di zecca, Dirigere la Zecca Della Fonte scrisse per Francesco Sassetti, a cui dedicò, Oltre che prestigioso, la gestione della zecca cittadina fra l’altro, la sua edizione del De Medicina di Cornelio era un incarico molto remunerativo. Ciò spiega perché Celso, un breve trattato di pesi e misure sotto forma Giovanni di Bicci, fondatore «della piú grande e famosa di epistola: Bartholomei Fontii ad Franciscum Saxetum banca d’Europa nel XV secolo», e suo figlio Cosimo (il epistula in qua mensurarum itemque ponderum vocabula Vecchio), furono eletti «signori» per l’emissione di moneta d’argento, rispettivamente, nel 1406 e nel 1422; accuratissime explicantur. Conservato in un codice della Biblioteca Nazionale lo stesso dicasi per il figlio di Cosimo, Piero il Gottoso, eletto «signore per l’oro» per ben due volte, nel 1445 e nel Centrale, il documento si divide in due brevi sezioni: la prima dedicata alle equivalenze fra pesi e misure di 1455. Questo privilegio, tuttavia, non toccò solamente superficie dell’antichità con quelle a lui contemporanee; agli esponenti del Banco, ma anche ai collaboratori mela seconda a una spiegazione del valore intrinseco delle ritevoli e in qualche modo «raccomandati» dalla famimonete antiche, con precisi riferimenti a fonti classi- glia Medici. Primo fra tutti, ancora una volta, Francesco

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In alto Firenze, S. Trinita. La tomba di Francesco Sassetti nella cappella di famiglia, eseguita da Giuliano da Sangallo. 1485-1490. A destra il medaglione con il profilo di Sassetti affiancato da due centauri con scudo e fionda.

Sassetti, nominato «signore della zecca per l’argento» nel 1482, all’apice cioè della sua carriera. Dal 1372, soltanto figli e discendenti dei monetieri ebbero il diritto di ammissione alla Zecca, con la sola formale approvazione dei signori: il monetiere divenne cosí un mestiere ereditario. È probabilmente questo il motivo per cui, dall’ultimo quarto del Trecento sino alla chiusura della Zecca repubblicana, nel 1533, si susseguirono nella sua direzione ben ventinove membri della famiglia Medici, e altrettanto accadde nel 1519 e nel 1522, quando un Sassetti, Cosimo, figlio secondogenito di Francesco, fu scelto proprio perché il padre aveva diretto il medesimo ufficio quarant’anni prima.

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A seguito di quell’ordinamento gli zecchieri poterono anche godere della libertà di apporre sulle proprie emissioni lo stemma araldico di appartenenza, accompagnandolo talvolta anche alle proprie iniziali di battesimo, per meglio distinguerlo da quello di un altro componente della stessa casata. Le monete coniate sotto la direzione di Francesco Sassetti nel primo semestre del 1482 sono riconoscibili grazie al simbolo «parlante» impresso su ciascuno di esse accompagnato dalla lettera F di Francesco, ovvero una fionda al cui interno c’è un sassolino da scagliare: in questo caso, il nome della figura (sassolino) si identifica con il nome della famiglia (Sassetti). gennaio

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Da leggere U AA.VV., Nel segno del corvo. Libri e miniature della

biblioteca di Mattia Corvino re d’Ungheria (1443-1490), Il Bulino edizioni d’arte, Modena 2002 (anche on line: http://www.corvina.oszk.hu/studies/corvo_it.pdf) U Cinzia Bartolozzi, Annalisa Marchi, Il Mulinaccio in Val di Bisenzio. Storia della Villa e Fattoria, Comune di Vaiano-CDSE, 2004 U Mario Bernocchi, Le monete della Repubblica fiorentina, vol. I: Il libro della Zecca (1252-1533), Casa Editrice Leo Olschki, Firenze 1974 U Francesco Bernocchi, Alessio Montagano (a cura di), Fior di Fiorini. Monete, mercanti e cambiavalute al tempo del Banco Medici-Sassetti. Monaci, signori e contadini. Le monete della Badia dal Medioevo ai tempi del Granduca, Libro Co. Italia, San Casciano Val di Pesa 2011 U Raymond A. de Roover, The Rise and Decline of the Medici Bank: 1397-1494, Beard Books, Washington D.C., 1999 U Alessio Montagano, Monete Italiane Regionali (M.I.R.), Firenze, Ed. Numismatica Varesi, Pavia 2011 Ancora un particolare dei rilievi della tomba di Francesco Sassetti, raffigurante lo stemma araldico tra fionde.

In araldica, si tratta dell’impresa piú antica di quella consorteria a oggi nota, accompagnata solitamente dal motto francese «A mon puouvoir» («A mio potere», «Mi adopero io... [e Dio farà il resto]») e dalla figura del Centauro, come si può vedere nel monumentale ex libris apposto sull’Etica Nicomachea di Aristotele, tradotta da Giovanni Argiropulo. L’impresa pagana del Centauro trova il suo corrispettivo ideologico e filosofico nella figura biblica di David: la morte di Golia ribadiva la necessità dell’aiuto divino per il successo delle imprese, proponendo all’uomo del Rinascimento il concetto di «nuovo eroe cristiano». All’impresa della fionda si sostiuisce poi un’altra figura araldica, già impressa sulle monete di Francesco e poi riproposta da suo figlio Cosimo, piú comune e ben rappresentata in tutti i contesti familiari (come, per esempio, nel dipinto sulla facciata esterna di palazzo Sassetti e nei bassorilievi sulle tombe di famiglia nella chiesa di S. Trinita), caratterizzata cioè dallo scudo bandato di azzurro e listato d’oro in campo bianco. Nel corso del Cinquecento, quest’ultima, in particolare, prese piede e si sviluppò secondo il gusto del periodo.

partecipazione diretta del Magnifico. Le motivazioni dei rovesci vanno ricercate nel fatto che il Sassetti, probabilmente distratto da altri interessi in terra toscana, non aveva controllato strettamente l’operato degli amministratori della filiale, i quali avevano compiuto frodi, provocando una perdita disastrosa, che lo costrinse, nonostante l’età, a lasciare Firenze e recarsi nella città francese per risolvere la situazione, appoggiato da Lorenzo che mai gli negò l’amicizia e il sostegno. Di lí a poco morí (1491), lasciando l’immenso patrimonio immobiliare ai suoi figli, ma fu Cosimo (14631527) a disporre la cessione della sua amata raccolta «antiquaria» all’amico di sempre, Lorenzo il Magnifico. Pur non essendo stato propriamente un uomo di lettere, la sua collezione di codici classici era considerata addirittura piú ricca di quella di Coluccio Salutati e grazie al sodalizio intellettuale con Bartolomeo della Fonte, Francesco Sassetti potè vantare frequentazioni illustri, gravitanti attorno alla sua biblioteca, meta abituale di personaggi come Marsilio Ficino, Ugolino Verini, Alessandro Braccesi e Angelo Poliziano.

L’ultima impresa commerciale

Desidero ringraziare Francesco Bernocchi, Veronica Vestri e il sindaco di Vaiano, Annalisa Marchi, che, con i loro contributi e la collaborazione dimostrata, hanno permesso la realizzazione della mostra «Fior di Fiorini», tenutasi a Vaiano (PO), dall’8 al 30 ottobre 2011, presso la Villa del Mulinaccio, e dalla quale nasce la stesura dell’articolo. F

Verso la fine dei suoi anni (1488) Francesco Sassetti fu chiamato nuovamente a gestire una pesante incombenza causata dalla «mala gestio» della filiale del Banco di Lione da parte del suo direttore Lionetto de’ Rossi, crisi poi superata grazie all’impegno dello stesso Sassetti e alla

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Quel mutante lontano da Dio di Lorenzo Lorenzi

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È l’animale che piú ci somiglia. Eppure, nell’arte del Medioevo e nel Rinascimento, la scimmia non fu vista soltanto come un nostro lontano «parente». Furono numerose, invece, le rappresentazioni che ne sottolineavano l’aspetto bestiale, insieme alla sua «natura diabolica»...

Venditore di animali esotici, olio su tela di Joachim Beuckelaer. 1566. Napoli, Museo di Capodimonte. Tra le bestie, si notano due scimmie, animali esotici particolarmente apprezzati dalle corti europee.

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ell’età medievale, la rappresentazione dell’animale occupa un posto privilegiato nell’arte e nella letteratura, in tutte le sue sfaccettature, siano esse simboliche e allegoriche: tali dimensioni riflettono uno sconfinato universo fantastico nel quale fa la sua comparsa, come presenza inattesa e inquietante, la scimmia effigiata in miniature, tavole, bassorilievi, citata nei piú importanti bestiari dei secoli XII-XIV alla stregua dei rapaci, dei pennuti notturni e dei rettili mostruosi. Tradizionalmente rappresenta la degenerazione dell’essere umano, poiché imita goffamente l’uomo – creatura razionale e sociale –, senza però averne le capacità intellettive.

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Sua caratteristica principale è l’esibizione provocatoria della parte corporea nell’insensatezza dei gesti, a cui si accompagnano l’immoralità del comportamento e la conseguente lontananza da Dio.

Un essere corruttore

Il pensiero medievale la vede come un umanoide senza coscienza, avendo coda e lungo pelo, dall’anima prava, perché ingorda e subdola: Satana stesso è additato dagli apostoli quale scimmia dell’uomoicona rappresentata da Cristo, come riferisce il Vangelo di Giovanni (12.31), che afferma come la simia dei (Lucifero) ami corrompere quanto già creato dall’Onnipotente, animata com’è dalla smania di ap-

propriazione e distruzione di ogni bontà divina. Nel suo Bestiario (XIII secolo), il monaco e poeta francese Filippo di Thaon la descrive come uno strumento diabolico, capace di sedurre in virtú della sua frivolezza e slealtà, incline all’imitazione come alla contraffazione, quasi una specie di mutante. Come il serpente tentatore, incarna il vizio della carne in connessione con la follia o con l’istinto omicida, sebbene l’arte e la letteratura propongano altre chiavi di lettura, in cui la scimmia compare come socievole figura domestica, aggressivo umanoide fantastico, semplice animale selvatico da addomesticare. Quest’ultimo aspetto si osserva, già alla fine del XII seco-

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In alto Assisi, basilica di S. Francesco. Particolare dell’affresco della Flagellazione di Pietro Lorenzetti in cui una scimmia, tenuta al guizaglio da un bambino, s’avventura sul cornicione del palazzo. 1320 circa. Nella pagina accanto Gentile da Fabriano, Adorazione dei Magi (particolare). 1423. Firenze, Galleria degli Uffizi. In primo piano, sulla destra, compaiono due scimmie.

lo, in alcuni bestiari che ne esaltano sia il lato irriverente, consistente nell’esporre all’osservatore le grandi natiche rossastre, sia quello sentimentale e, in questo senso, sono importanti le notizie contenute nel Fisiologo latino e nelle Etymologiae di Isidoro di Siviglia (santo, vescovo, dottore della Chiesa, teologo e storico spagnolo, 560-636). L’uomo e la scimmia costituiscono l’emblema

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dicotomico fra sostanza e apparenza, eterna lotta fra buona ragione e turpe sentimento.

Bestia del malaugurio

Sulla scorta di un’antica tradizione allegorico-moraleggiante, a cui si unisce un solido retaggio classico di matrice latina, la scimmia ha sempre goduto dell’infame marchio di bestia del malaugurio: lo dimostra l’antica leggenda ebraica che narra come Yahweh avesse punito uno dei tre uomini responsabili della torre di Babele trasformandolo in scimmia. Plinio ne sottolinea l’indole malvagia, poiché ama soffocare i suoi piccoli in un involontario e mortale abbraccio amoroso; nel bestiario di Gervaise (1200 circa) se ne cita l’orribile fisionomia paragonata al demonio, connotato con tratti scimmieschi: l’esatto contra-

rio di Cristo, simboleggiato dall’agnello sacrificale, docile, innocente e mansueto. Per l’autore, la scimmia «sembra piú diavolo che bestia (…) non ha di che coprirsi le terga». Citazioni relative al contesto silvano esaltano furbizia e aggressività nel procurarsi cibo o nel divincolarsi dalla morsa del cacciatore. Nel bestiario intitolato Libro della natura degli animali, scritto in volgare toscano alla fine del Duecento, si fa riferimento alla sua andatura spedita, ma anche alla sua capacità di correre tanto veloce da scomparire dalla vista del predatore, portando con sé i suoi piccoli: il meno amato caricato sul dorso, il prediletto stretto fra le braccia con tale forza da finire soffocato. Nelle corti, la scimmia è una presenza costante e per niente inquietante. Appare come un’entità

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immaginario la scimmia

Nella pagina accanto Due scimmie incatenate, olio su tavola di Pieter Bruegel in Vecchio. 1562. Berlino, Gemäldegalerie. L’immagine ben sintetizza l’abitudine dei ricchi signori di possedere animali esotici in cattività. In questa pagina miniatura raffigurante una scimmia tenuta al guinzaglio da un valletto armato di frusta, da un codice di scuola fiamminga. Seconda metà del XV sec. Londra, British Library.

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giocosa (come fu in parte per l’orso; vedi box a p. 58), capace di stimolare il riso, divertire grandi e piccini, allietare feste e banchetti del signore, assieme a nani e giocolieri: stuolo di anime reiette facenti parte di compagnie di attori girovaghi e cantastorie. Se in un sermone attribuito a Ugo di San Vittore (XII secolo) si afferma che essa è l’animale piú vile, sporco e detestabile, al tempo stesso si menziona come, paradossalmente, i chierici amino tenerle in casa e farle sporgere dalle finestre in modo da impressionare la gente che passa con la gloria dei loro beni; nel XIII secolo, documenti riferiscono che un esercito scimmie popolava il chiostro della cattedrale di NotreDame a Parigi distraendo i monaci dalla preghiera. Pier Damiani (santo e dottore della Chiesa, 1007-1072) racconta

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la storia del conte ligure Guglielmo, che possedeva una scimmia di nome Maimo («capo dei diavoli», in arabo), tanto amata da sua moglie da renderlo geloso e fargli sospettare che la donna avesse rapporti intimi con la bestia. E, nel 1228, nel palazzo del duca di Borgogna, una scimmia domestica, presa da un attacco d’ira, distrusse importanti documenti del secolo precedente e per questo motivo fu incatenata e sorvegliata a vista.

Esotismi al guinzaglio

La moda di tenere primati addomesticati al guinzaglio in palazzi e castelli (una sorte simile sfiorò nella raffigurazione pittorica anche il cervo; vedi box a p. 58) indusse molti signori a costruire leziose gabbie decorate con tralci floreali e fogliacei o a tenerle legate a catene fissate

al muro. Nei resoconti di Jean de Berry, si afferma come nel 1376 l’artista Jehan d’Estampes fosse stato incaricato di realizzare una ciotola rotonda in legno dotata di catena di ferro cui legare la scimmia del duca di Borgogna, stessa sorte ebbe la scimmia della regina Isabella di Baviera: indicazioni queste di una consuetudine persistente nelle corti europee piú raffinate. Manoscritti miniati presentano deliziose scimmie a guinzaglio oppure legate a tralci floreali, quasi fossero catene, alla stregua dei piú comuni animali domestici, con espressione assorta, talvolta malinconica e svagata; tale iconografia è tipica del tardo Medioevo con risvolti inusuali nel Rinascimento: Michelangelo ritrae ai piedi dei Prigioni l’effigie appena abbozzata di una scimmia, trattenuta a forza dalla grezza materia. In questo caso, come nei racconti precedenti, l’animale impossibilitato a muoversi rappresenterebbe sia l’anima umana privata della libertà, sia la natura animale mancante del vinculum corporeo autosufficiente. In una miniatura fiamminga della seconda metà del XV secolo (vedi foto nella pagina accanto), osserviamo una scimmia tenuta a guinzaglio da un valletto che stringe nell’altra mano una frusta. Essa digrigna i denti e agita una picca, indicazione della sua aggressività belluina; poiché dirimpetto sta assiso un alano bianco seduto, l’ipotesi piú probabile è che i due esseri rappresentino la fedeltà e il tradimento, ma anche la razionalità e la follia, poli imprescindibili dell’universo psichico. Completa la scena un giullare con scettro, a significare il contesto farsesco e ludico, stante i desideri del signore che ama possedere animali esotici in cattività. In un Libro d’Ore all’uso di Roma della fine del XV secolo (oggi alla Bibliothèque Mazarine di Parigi) una scimmia fa il bucato: l’animale (segue a p. 60)

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immaginario la scimmia Orsi e cervi

Un destino comune

ORSO

ome la scimmia, l’orso era percepito in duplice C modo: essere potente e aggressivo, capace di uccidere e decapitare con una sola zampata, oppure simpatico mammifero dai sentimenti umani, il piú comune dei quali è l’irresistibile richiamo del miele. Aristotele e Plinio sostenevano che i piccoli dell’orso appena nati non abbiano ancora una forma definitiva e che sarà la madre stessa a provvedere a ciò leccandoli accuratamente. Nel Bestiario moralizzato di Gubbio, l’orsa che plasma i figli con la bocca diviene il simbolo della Chiesa che forma il cristiano per mezzo del battesimo. Nel Medioevo, gli orsi come i primati, godevano di uno status privilegiato: sono ritenuti non umani, ma nemmeno interamente animali; entrambi assumono una postura eretta, usano le zampe anteriori per cibarsi, anche il loro intenso sguardo ha qualcosa a che vedere con la fisionomia umana. E questa ambivalenza impressiona l’immaginario popolare dando loro lo status di quasi umano. Gaston Phébus, nel suo Livre de la chasse (XIV secolo), scrive che gli orsi si accoppiano come gli umani e come loro vivono in grotte e amano i frutti. Come le scimmie, possono essere ammansiti e addomesticati. I Dialogi di Gregorio Magno raccontano dell’eremita Fiorenzo che pregò Dio di mandargli compagnia; fu accontentato con un orso socievole e intelligente, capace di aiutarlo nella cura del gregge e di difenderlo dagli aggressori.

cervo Il cervo è considerato come uno dei tanti simboli

della rinascita per il rinnovarsi periodico delle sue corna (simili ai rami degli alberi), inteso come un’allegoria dello sviluppo e dell’unione tra forze superiori e inferiori. Nella leggenda greca di Ciparisso, il cipresso richiama l’immortalità e l’eternità, è il simbolo del dolore provato dal giovinetto amato da Apollo che per errore uccise la cerva da lui stesso allevata: per poter mettere fine a un dolore straziante, Apollo lo trasformò in pianta. Contrapposto al toro, elemento della forza cieca, il cervo rappresenta la forza buona, e per questo viene invocato contro il morso dei cani e la rabbia: a lui sono legate molte leggende, la piú importante delle quali riguarda la vita di sant’Uberto, ispirata alla leggenda di sant’Eustachio. Vi si narra di come un Venerdì Santo, a conclusione di una battuta di caccia, Uberto ebbe la visione di un crocifisso parlante, inquadrato fra le corna di un cervo, che lo invitava ad abbandonare la vita dissoluta e a convertirsi. Vi è poi il caso di sant’Egidio abate, la cui esistenza, trascorsa da eremita in una foresta presso Nîmes, è contrassegnata dalla serena presenza di una cerva che lo nutrí con il suo latte accudendolo amorevolmente, come si vede, per esempio, in un dipinto del Maestro di Saint-Gilles (vedi foto alla pagina accanto).

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Nella pagina accanto miniatura raffigurante un orso che s’arrampica su un albero, dal Libro d’Ore di Simon de Varie, ufficiale delle finanze di Carlo VII di Francia. 1455-1460. L’Aia, Biblioteca Reale. A sinistra Sant’Egidio e la cerva, olio su tela del Maestro di Saint-Gilles. 1500. Londra, National Gallery. L’artista rappresenta la bestia che, inseguita dai cacciatori del re, trova rifugio, similmente a un animale domestico, tra le amorevoli braccia del santo.

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immaginario la scimmia Esotico animale da compagnia, suonatrice di flauto, bestia da soma... quella della scimmia è una presenza dai mille volti

A destra miniatura raffigurante una scimmia che lavora alla zangolatura del burro, da un Libro d’Ore all’uso di Roma. Fine del XV sec. Parigi, Bibliothèque Mazarine. A sinistra La Madonna della scimmia, incisione di Albrecht Dürer. 1498 circa. Berlino, Staatliche Museen.

appare tanto integrato nel tessuto domestico da svolgere mansioni adatte a un essere umano. Sebbene sia una tipica rappresentazione fantastica di drôlerie, la scena richiama una realtà molto particolare, a tratti inquietante e relativa agli animali sfruttati se non schiavizzati, costretti a subire punizioni corporali in caso di ribellione (alcune miniature della fine del Trecento presentano scimmie punite con frecce conficcate nelle terga).

Lavoratrici instancabili

La scimmia lavoratrice non è un’eccezione presente solo nel codice di cui sopra. Sono molti, infatti, quelli coevi in cui le scimmie lavorano senza sosta: è il caso della scimmia intenta alla zangolatura del burro, mansione delicata e di fatica, testimone un gatto che si abbevera in una ciotola colma di latte (vedi foto in alto, sulle due pagine). Senza contare le scimmie suonatrici di strumenti a fiato o a percussione: particolarmente interessante è il Concerto nell’uovo di Bosch, in cui scorgiamo

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In basso Il concerto nell’uovo, olio su tela di Hieronymus Bosch. Seconda metà del XVI sec. Lilla, Palais des Beaux-Arts.

una scimmia che suona un cornetto nero e curvo, immagine della dissipazione della coscienza, l’opposto della meditazione e della preghiera (foto qui a sinistra). Per ciò che concerne l’iconografia sacra, è di fondamentale importanza l’incisione di Albrecht Dürer nota come La Madonna della scimmia (foto nella pagina accanto). Sullo sfondo di un paesaggio lacustre, vediamo l’animale assiso ai piedi da Maria. L’indole malvagia e rissosa sembra essersi trasformata in serafica calma; questo si deve al potere dell’Immacolata Concezione che ne controlla gli impulsi e cosí facendo viene mitigato il tratto subdolo e menzognero. La fede e la preghiera impediscono dunque il ritorno dell’uomo al peccato originale, cioè a uno stato di ferinità, impurità perenne e falsità infinita, proprio perché la venuta nel mondo del Dio fatto uomo esplicita la rinnovata conciliazione fra creato e creatore. F

Da leggere U Jurgis Baltrušaitis, Il Medioevo

fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, Adelphi, Milano 1973 U Louis Charbonneau-Lassay, Il bestiario del Cristo, vol. I, Edizioni Arkeios, Roma 1995 U Paolo Galloni, Cacciare l’orso nelle foreste medievali (ovvero, degli incerti confini tra umano e non umano), conferenza (Pistoia, Antico Palazzo dei Vescovi, 29/10/2011, in Atti e Memorie della Società Pistoiese di Storia Patria; anche on line: www.continuitas.org/texts/ galloni_cacciaorso.pdf). U René Gilles, Il simbolismo nell’arte religiosa, Edizioni Arkeios, Roma, 1993

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saper vedere angera

La rocca della

Fortuna

L L

a rocca lombarda di Angera (Varese) domina il Lago Maggiore, di fronte alla cittadina piemontese di Arona (Novara). La sua altura, nel mezzo di un’insenatura naturale, accoglieva una postazione militare già nell’Alto Medioevo, sicuramente all’epoca del regno longobardo di Pavia, e una fortificazione era nello stesso tempo presente sull’opposto caposaldo di Arona. Posti a breve distanza sulle sponde meridionali del lago, i due presidi controllavano infatti i traffici lacustri nell’ambito di un antichissimo percorso di collegamento tra le Alpi e la Padania. Nel pieno Medioevo, agli inizi del XIII secolo, il riassetto del passo del San Gottardo, agevolmente raggiungibile su questa direttrice, riconfermò e accrebbe il ruolo strategico di entrambe le località. Angera, frattanto, aveva acquisito un valore aggiunto, poiché da tempo era entrata a far parte del vivo della storia di Milano. L’intero feudo che faceva capo alla rocca era infatti compreso tra i possedimenti della Chiesa ambrosiana, cosí come venne ufficialmente ratificato da

di Furio Cappelli

papa Alessandro II nel 1162. Tale circostanza fece entrare la costruzione nell’agone delle complesse vicende politiche della città lombarda, tanto che la rocca stessa può essere definita un vero e proprio «frammento» del Medioevo milanese. La città ambrosiana mostra solo indizi di quella profusione di arte profana che la caratterizzò sul piano monumentale, nell’epoca, assai intensa, che vide il suo passaggio dall’assetto comunale alla signoria dei Visconti, tra il XIII e il XIV secolo. Dal canto suo, la rocca di Angera testimonia quella storia con un’immediatezza e con un’ampiezza senza confronti.

Un’epoca con poche tracce di sé

Di fatto, se si escludono i formidabili rilievi della Porta Romana, eseguiti intorno al 1171 da Gerardo da Mastegnanega e da Anselmo da Alzate (oggi nel Museo d’Arte antica del Castello sforzesco), l’unico monumento figurativo superstite della Milano «profana» del Medioevo è il ritratto equestre del podestà Oldrado da Tresseno


L’imponente fortezza che domina il Lago Maggiore è una delle poche testimonianze dell’arte medievale «profana» della Lombardia. Nella sua Aula di Giustizia possiamo ammirare un ciclo affrescato che rievoca le imprese di Ottone Visconti, arcivescovo della Chiesa ambrosiana. Uomo di Stato con una buona dose di spregiudicatezza, si impose anche come detentore del potere temporale

(1233), che tuttora occupa una nicchia nella facciata del Palazzo della Ragione, l’antico broletto (palazzo comunale) della città. Molte altre opere, presumibili o attestate dalle fonti documentarie, sono perdute. Nulla resta, per esempio, del ciclo di affreschi dedicato agli uomini illustri ed eseguito da Giotto nella dimora dei Visconti per volontà di Azzone (1335). La rocca di Angera, invece, conserva in misura estesamente apprezzabile un ciclo di affreschi commissionato proprio dai signori di Milano, non ancora giunti a rafforzare in modo definitivo la presa di potere sulla città, almeno due decenni prima della venuta di Giotto. L’opera si articola sulle pareti e sul soffitto di un’aula, suddivisa in due campate da un arcone trasversale. L’ambiente era destinato all’amministrazione della giustizia, ed è situato al piano nobile di un’ala della rocca che si distingue, all’esterno, per le pareti in ampi conci perfettamente profilati e levigati. Si tratta del cosiddetto Palazzo di Ottone Visconti, dal nome del suo presumibile committente. Eleganti bifore si aprono proprio in cor-

Una suggestiva immagine della rocca di Angera (VA), nota anche come Rocca Borromeo, che si erge su uno sperone roccioso a dominio della sponda meridionale del Lago Maggiore.

rispondenza dell’Aula di Giustizia, e la terrazza terminale, oggi coperta da un tetto, è cinta da merli che erano in origine a coda di rondine (ghibellini), modificati poi nell’attuale forma guelfa.

Come roccia viva

Aderisce al lato nord della struttura la preesistente torre Castellana (detta anche Maestra), un importante esempio di architettura fortificata risalente agli inizi del XIII secolo, e che sostituisce, probabilmente, un piú antico mastio (nucleo residenziale del presidio). La muratura è resa visivamente piú solida e inespugnabile dal ricorso al bugnato, lasciando cioè allo stato grezzo la parte centrale di numerosi conci, con un effetto di roccia viva. È una tecnica già diffusa nell’antichità, e che si viene riscoprendo proprio in questo periodo. La si vede impie-


saper vedere angera Lo storico dell’arte Pietro Toesca avvicinò le grottesche dell’Aula di Giustizia alle decorazioni miniate

Gravellona

Verbania

Lago Laveno Gemonio Maggiore Stresa Gavirate Vaare Vares Varese Vare V a esssee ar

Besozzo Nella pagina accanto veduta dall’alto della rocca di Angera. Sorta su una fortificazione preesistente, si presenta articolata in cinque corpi di fabbrica realizzati tra il XIII e il XIV sec., in seguito variamente modificati. Legata alle vicende della famiglia Visconti, nel 1449 venne acquistata dai Borromeo, che tuttora ne sono proprietari. In basso la possente torre d’ingresso della rocca, il cui portale è sormontato dallo stemma visconteo.

Ispra

ANGERA Arona Sesto Calende ALESSANDRIA/GENOVA

Vergiate Gallarate MILANO

gata in una modalità molto simile nella torre annessa al broletto di Como, che risale alla stessa epoca. In origine, si accedeva alla torre solo da una piccola apertura (pusterla) situata 7 m sopra il livello del terreno. Quando è stato addossato il Palazzo di Ottone Visconti, la pusterla si è trovata in fondo all’Aula di Giustizia, ed è stata rimurata per essere poi nascosta dall’intonaco dipinto. Caduto l’intonaco, è stata riaperta e corredata da una scala di legno, al servizio del percorso di visita alla torre.

Grottesche e illusioni ottiche

Gli affreschi dell’aula si sviluppano in maniera articolata. Lungo la parte basamentale corre un finto velario, sormontato da due bande di motivi decorativi. La componente ornamentale si estende poi su tutto il soffitto e sui fascioni di inquadramento lungo i profili delle volte. Le volte stesse sono «tappezzate» da fantasie di elementi geometrici intrecciati. All’imposta del soffitto e lungo i fascioni di inquadramento c’è poi un ampio assortimento di figure mostruose, che lo storico dell’arte Pietro Toesca (1877-1962) ricollega alle grottesche (drôleries) poste ai margini dei manoscritti miniati. Molto efficace è poi l’effetto trompe-l’oeil delle scodelle con diversi effetti di illuminazione che si succedono lungo le fasce alla base delle lunette figurate, e che si interpongono alle figure stesse nella lunetta della parete di ingresso. Il fregio che corre sopra alla zona basamentale è costituito da una sequenza di ampi quadri di carattere narrativo. Interessava in origine tutte le pareti, salvo

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Dove e quando Il complesso della rocca di Angera, con tutte le sue molteplici e varie attrattive, è interamente visitabile. Dall’Aula di Giustizia si può accedere alla torre Castellana, salendo fino alla sua cima, in modo da godere il panorama sul lago e sulle alture. L’ala Viscontea (o Borromea) ospita al pianterreno il Museo della Bambola e del Giocattolo. I saloni del piano nobile, oltre a una raccolta di maioliche, presentano gli affreschi quattrocenteschi di scuola del

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Masolino strappati nel 1946 dal Palazzo Borromeo di Milano, nonché tele con ritratti di personaggi illustri della stessa casata. Nella contigua Torre di Giovanni Visconti si osserva un residuo della decorazione trecentesca ad affresco, con il biscione dello stemma familiare. Nell’area libera compresa dal recinto fortificato è, infine, presente un complesso di giardini tematici ispirati al Medioevo monastico e cortese. Info www.isoleborromee.it

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saper vedere angera nell’aula di giustizia

Il monumento in sintesi

Il segno di un’epoca nuova 3 Perché è importante La rocca di Angera è un elemento di grande valore storico nel paesaggio del Lago Maggiore, ed è una testimonianza preziosa per rievocare ambienti, stili e caratteri della Milano laica degli inizi del Trecento. È il segno di un’epoca nuova, con i suoi palazzi civici e nobiliari sempre piú dotati di elaborate decorazioni, che suggellano l’ascesa politica e culturale di personaggi e istituzioni. 3 La rocca di Angera nella storia Radicata su uno sperone a dominio del Lago Maggiore sin dall’Alto Medioevo, la rocca di Angera diviene, almeno sin dal XII secolo, un presidio del potere arcivescovile milanese, finendo per essere ideologicamente e concretamente coinvolta nelle dure lotte di potere che videro l’affermarsi della signoria dei Visconti. 3 La rocca di Angera nell’arte Il complesso pittorico dell’Aula di Giustizia è un episodio significativo della pittura lombarda degli inizi del Trecento, e, piú in generale, è un raro esempio di pittura profana del Medioevo, legato a una committenza illustre. È un ciclo monumentale basato su un programma ideologico e simbolico, privo di un qualsiasi riferimento religioso, ed è anche un racconto trionfale di un fatto di storia contemporanea.

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Sulle due pagine, in alto l’Aula di Giustizia, ornata lungo le pareti da un ciclo di affreschi che narra le vicende dell’arcivescovo Ottone Visconti, mentre sulle lunette si sviluppa lo Zodiaco con i pianeti; qui accanto, dal ciclo astrologico, il Sole e la Luna sui loro carri. Lo stesso soggetto si riscontra anche negli affreschi dell’Aula Gotica nel monastero agostiniano dei SS. Quattro Coronati a Roma, realizzati tra il 1235 e il 1246 (foto in basso).

quella di fondo, dominata da figurazioni allegoriche (si leggono ancora, a sinistra, la Fortuna e una presumibile personificazione della Virtú assisa in trono). Al centro della stessa parete era situata la cattedra del giudice. Il fregio racconta una vicenda pressoché contemporanea alla stesura dei dipinti. Si tratta, infatti, della presa di potere su Milano a opera dell’arcivescovo Ottone Visconti. In particolare, l’evento illustrato nel primo riquadro superstite, sulla parete d’ingresso, ha una cronologia precisa. È la sottomissione di Napo Della Torre allo stesso Visconti, dopo la sconfitta subita nella battaglia di Desio, disputata il 21 gennaio 1277.

Una successione difficile

Ottone (1207-1295) era stato nominato a presiedere la Chiesa ambrosiana da papa Urbano IV nel 1262. Impegnandosi di persona in questa elezione, il pontefice si era sostituito di diritto ai Milanesi. Essi avevano il privilegio di eleggere il proprio presule, ma da troppo tempo non riuscivano a trovare una soluzione in merito. Dopo la morte dell’arcivescovo Leone da Perego (1257), in cinque anni, il capitolo dei canonici del duomo non era infatti riuscito a designare un successore, né la situazione politica permetteva un’agevole risoluzione. Da un lato la parte popolare premeva in favore di Raimon-

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L’ingresso trionfale di Ottone Visconti (a sinistra, sotto la croce) a Milano dopo la vittoria di Desio, accolto dal clero e dal popolo festante, altra scena del ciclo affrescato nell’Aula di Giustizia.

do Della Torre, arciprete di Monza e cugino di Martino, signore della città. Sull’altro fronte i nobili preferivano Francesco da Settala. Quest’ultimo ritirò infine la propria candidatura, ma proprio in quel momento il pontefice risolse la questione nominando Ottone. Urbano IV temeva che l’ascesa alla cattedra ambrosiana di un Della Torre, cugino del signore della città Martino, avrebbe favorito i disegni di supremazia politica che quest’ultimo nutriva sulle città padane, complice l’alleanza con il marchese Oberto II Pelavicino, esponente del partito ghibellino in Lombardia e in Emilia. Lo stesso Manfredi avrebbe cosí potuto stabilire o rafforzare fruttuosi legami con l’Italia settentrionale, accerchiando pericolosamente i domini della Chiesa di Roma. Dal canto suo, Ottone Visconti, arcidiacono della Chiesa milanese, proveniva da una nobile famiglia, all’epoca priva di vistose ricchezze e di appannaggi, e dichiaratamente ostile ai Torriani. Era dunque il personaggio giusto per sventare i piani fino a quel momento messi in atto da Martino Della Torre, ormai convinto di avere in pugno la città.

La vittoria di Desio

Martino, naturalmente, mal digerí l’affronto patito per mano del pontefice. Già colpito da un interdetto papale per il suo orientamento filosvevo (11 febbraio 1263), con l’aiuto dell’alleato Pelavicino mise in atto una campagna militare per impedire a Ottone di salire in cattedra. L’arcivescovo era giunto il 10 aprile sino ad Arona, nel feudo della Chiesa ambrosiana posto di fronte ad Angera, e proprio lí venne stretto d’assedio per un mese, per essere poi costretto a ritirarsi. Molti anni piú tardi, quando la signoria di Milano era stata assunta da Napoleone Della Torre (meglio noto con il diminutivo Napo), Ottone ebbe modo di far valere i propri diritti. Grazie a una rete di alleanze con altre città lombarde e forte del malcontento che serpeggiava nella stessa Milano, riuscí a organizzare un esercito. Assunto personalmente il comando delle operazioni militari, riuscí a debellare il nemico a Desio (Monza e Brianza). Cosí, nel 1277, Ottone non solo prese finalmente possesso della cattedra a cui era stato assegnato, ma divenne anche signore della città. Era l’inizio delle fortune della casata dei Visconti. Non a caso, il concetto di fortuna e di divina provvidenza fa da sfondo alla narrazione di Angera, tanto che proprio l’immagine della Fortuna, all’apice della ruota che simbolizza il mutare dei destini di ogni individuo, campeggia sulla parete di fondo dell’aula. E lungo la narrazione delle gesta di Ottone, su tutte le lunette soprastanti, si sviluppa lo Zodiaco, che proietta la storia narrata sul piano universale del cosmo, del tempo e del

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destino. Al centro di ogni lunetta appare uno dei cinque pianeti della cosmologia medievale, mentre i cosiddetti luminari (il Sole e la Luna) sono appaiati su una distinta lunetta, sulla prima campata, a sinistra. Di fianco a ogni pianeta compaiono i dodici segni zodiacali, abbinati al corpo celeste secondo il concetto astrologico del domicilio. Sulla parete d’ingresso, per esempio, al di sopra dei riquadri che mostrano la sottomissione di Napo e la successiva deportazione in carcere, appare la splendida personificazione di Saturno, ai cui fianchi stanno le costellazioni dell’Acquario e del Capricorno. L’Acquario è il domicilio notturno (o lunare) del pianeta, il Capricorno è il domicilio diurno (o solare). Questo sta a significare che quando Saturno, nell’arco dell’anno, si trova in una delle due costellazioni, sviluppa positivamente il proprio ascendente. Il domicilio è notturno o diurno in base al settore dello Zodiaco in cui si trova la costellazione: dal Leone al Capricorno i segni si trovano nell’emiciclo solare, dal Cancro all’Acquario nell’emiciclo lunare.

tra cronache e allegorie Nella pagina accanto il soffitto affrescato dell’Aula di Giustizia. Sulla lunetta della parete di ingresso compare Saturno (foto in alto), rappresentato come un vecchio seduto in trono, tra le costellazioni dell’Acquario e del Capricorno; nei riquadri sottostanti sono narrati la cattura (foto in basso) e la deportazione in carcere di Napo della Torre.

Quel serpente che si morde la coda

La personificazione di Saturno è in linea con la tradizione classica: è un vegliardo seduto in trono e con un velo in testa; tiene nella destra un serpente che si morde la coda, nella sinistra una falce. Il serpente che descrive un cerchio, l’antico Ourobos, esprime la ciclicità del tempo, mentre la falce è un riferimento all’età dell’oro, quando il grano cresceva nei campi senza che qualcuno dovesse affaticarsi a mieterlo. Sulla parete opposta, in fondo all’aula, sopra alla personificazione della Fortuna, a Saturno corrispondeva la personificazione di Giove, anch’essa seduta solennemente in trono.

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saper vedere angera una contesa lunga due secoli 1162 Papa Alessandro II conferma il possesso di Angera alla Chiesa milanese. 1261 Ottone Visconti viene nominato arcivescovo di Milano. 1262 Ottone viene estromesso dai Torriani, che si appropriano anche della rocca di Angera. 1277, Battaglia di Desio, con la vittoria di Ottone sull’antagonista 21 gennaio Napo Della Torre. Fine della dominazione dei Torriani. Il controllo sulla rocca di Angera è in mano a Ottone Visconti. 1287 Grazie all’appoggio del prozio Ottone, Matteo Visconti viene eletto podestà e capitano del popolo di Milano. 1296 L’arcivescovo Francesco Fontana di Parma, nominato da papa Bonifacio VIII, prende il controllo di Angera in aperta opposizione ai Visconti e ai ghibellini. 1302 Matteo Visconti, signore della città, viene cacciato da Milano a opera dei Torriani. 1308 Morte dell’arcivescovo Fontana nella rocca di Angera. Il successore è Cassone Della Torre, in rotta con una fazione della propria famiglia, e momentaneo alleato di Matteo Visconti. Guido Della Torre lo imprigiona proprio ad Angera, insieme ad altri suoi parenti. 1310 Grazie all’appoggio dell’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, Matteo Visconti torna al potere. 1311 Arrigo VII nomina Matteo vicario imperiale. L’arcivescovo Cassone Della Torre viene cacciato da Milano. 1312 I Torriani si alleano con re Roberto d’Angiò contro Matteo Visconti. 1313 I Visconti prendono possesso della rocca di Angera. 1314 L’arcivescovo Della Torre, di ritorno da Avignone, scomunica Matteo Visconti. 1316 Papa Giovanni XXII accusa Matteo Visconti di appropriazione indebita dei beni arcivescovili, tra cui la rocca di Angera. 1317 Per effetto di una bolla papale, Matteo rinuncia al titolo di vicario imperiale e mantiene la qualifica di rettore di Milano. 1318 Matteo viene scomunicato dal papa, che colpisce l’intera città di Milano con un interdetto. 1320 Matteo viene accusato alla corte papale di Avignone di coltivare arti magiche. 1321 Su incarico del papa, alcuni inquisitori istruiscono un processo per eresia a carico di Matteo. 1322 Conclusione del processo per eresia con la condanna dell’inquisito. Papa Giovanni concede un’indulgenza ai soldati che si battono contro Milano. Matteo rimette i suoi poteri in mano al figlio Galeazzo Visconti. Muore il 24 giugno. 1339 Con la morte dell’arcivescovo avversario Aicardo, Angera diviene di fatto possesso indiscusso dei Visconti. 1350 circa Ampliamento della rocca a opera dell’arcivescovo Giovanni II Visconti. 1375-85 Bernabò Visconti promuove la cosiddetta ala Scaligera nel complesso della rocca, in onore della sua terza moglie, Regina Della Scala. 1384 Caterina Visconti, figlia di Bernabò e moglie del proprio cugino Gian Galeazzo, ottiene la concessione di diritto di Angera da parte dell’antipapa Clemente VII. 1449 La Repubblica Ambrosiana concede Angera a Vitaliano Borromeo. La stessa famiglia ne detiene tuttora la proprietà.

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In alto Milano, S. Eustorgio. Busto e stemma di Matteo I Visconti, inseriti nella parete esterna della Cappella Visconti, da lui realizzata nel 1297. In basso statua di Arrigo VII di Lussemburgo. 1315. Pisa, Museo dell’Opera del Duomo.


Ancora un affresco dell’Aula di Giustizia raffigurante Ottone Visconti che arringa i soldati prima di entrare in Milano.

Come sottolinea lo scrittore e saggista Jean-François Sonnay, il nesso Saturno-Giove non è casuale, poiché, quando avviene la congiunzione tra i due pianeti, l’astrologia prevede uno sconvolgimento radicale. Tutto quel che sembra stabile e indiscusso può essere rivoluzionato, ed è proprio questo il senso dell’esperienza che lo sconfitto Napo Della Torre dovette vivere sulla propria pelle. Per giunta, la battaglia di Desio si svolse il

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gennaio

21 gennaio, e Saturno, che sormonta le immagini della vittoria, in gennaio si trova nel suo domicilio diurno, ossia nel segno di Capricorno (22 dicembre-20 gennaio). E se Giove era il dio che amministrava l’ordine e la giustizia (sotto di lui, infatti, risiedeva il giudice di Angera), Saturno era il dio dell’età dell’oro, e indicava quindi il ritorno a un’epoca di pace e di ricchezza. Il ciclo di Angera, in definitiva, stabilisce un nesso tra i movimenti degli astri e gli eventi della storia, e l’astrologia, d’altronde, serviva ai regnanti per avere precise indicazioni sul destino che li attendeva. Proprio

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saper vedere angera Uno scorcio del cortile interno della rocca. La torre Castellana fa da angolo tra il Palazzo di Ottone Visconti (a sinistra), in cui si trova l’Aula di Giustizia, e l’ala Scaligera (a destra).

in questo periodo, tra il XIII e il XIV secolo, si infittiscono le attestazioni di esperti convocati presso le corti per redigere oroscopi di alta perizia. Piú in generale, la rappresentazione del cosmo doveva già da tempo essersi sviluppata fuori dalle chiese. A tal riguardo Sonnay ricorda il mantello dell’incoronazione di Enrico II, conservato a Bamberga (inizi dell’XI secolo), con una sgargiante rassegna iconografica nella quale trovano spazio le costellazioni, il Sole, la Luna, Cristo, gli Apostoli e altri simboli religiosi e profani. All’inizio del XII secolo, per giunta, nel palazzo della contessa di Blois si poteva ammirare una sala adorna di arazzi sulle pareti, e con un soffitto affrescato con le raffigurazioni dei pianeti e dello Zodiaco. Possiamo poi aggiungere, grazie alla recente acquisizione dell’Aula gotica presso il monastero romano dei SS. Quattro Coronati, che il caso di Angera appartiene verosimilmente a una tipologia ben codificata. L’aula romana, infatti, realizzata tra il 1235 e il 1246 (prima di Angera, dunque), era anch’essa destinata all’amministrazione della giustizia, presenta la stessa impostazione a due campate ed è dotata di un complesso pittorico per molti versi analogo, con una netta preminenza di aspetti profani.

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Anche a Roma domina il tempo, in questo caso evocato attraverso il succedersi dei mesi, a comporre un calendario simbolico che riconduce il concetto della giustizia alla volontà divina che tutto presiede.

Un’arte di rappresentanza

Riferirsi ai pianeti o alle occupazioni tipiche delle diverse stagioni, rinunciando ai santi o limitandone lo spazio, non implicava, naturalmente, l’esclusione del concetto di Dio e della provvidenza. Forniva bensí l’opportunità di sviluppare rappresentazioni di ampio respiro in contesti non religiosi, laddove occorreva evitare l’imitazione o la ripetizione di quanto si osservava in genere all’interno di una chiesa o di una cappella. Ciò non toglie che proprio il rispetto per l’alta funzione delle immagini prettamente religiose aveva finito con il favorire lo sviluppo di un’arte figurativa a sé stante, riservata alle sale di rappresentanza dei palazzi e dei castelli. Rispetto al ciclo romano, che è situato in un complesso monastico, quello di Angera si distingue per lo spiccato elemento narrativo, e lascia sorpresi per come le gesta di un arcivescovo siano raccontate alla stregua del trionfo di un sovrano vittorioso. Ottone, infatti, non gennaio

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è mai ritratto mentre svolge le sue funzioni di prelato. La sua dignità religiosa emerge solo dalla croce, tenuta alta su di lui, e che allude piú che altro a un vessillo, visto il carattere politico del racconto. In quanto arcivescovo milanese, Ottone è il dignitario religioso piú importante d’Italia subito dopo il pontefice, e la sua entrata in Milano non ricorda quella di Cristo a Gerusalemme, ma la venuta di un imperatore o di un papa, con il popolo festante ad accoglierlo. E quando Ottone si avvicina alla meta agognata, a quella cattedra ambrosiana che gli era stata preclusa, è di nuovo raffigurato mentre monta fieramente a cavallo. La presa di possesso della Chiesa milanese è infatti evocata dall’incedere del corteo dei vincitori nell’atrio della basilica di S. Ambrogio.

vicende assai travagliate, i Visconti poterono stabilmente accampare le loro pretese su Angera, che venne cosí strappata dal patrimonio arcivescovile per divenire, di fatto, un bene di famiglia.

Padroni per volere divino

In questa fase il ruolo di Matteo I Visconti (1250-1322) è davvero fondamentale, ed è lui il committente piú probabile dei dipinti. Signore della città su designazione di Ottone, vicario imperiale di Arrigo VII e detentore «abusivo» della rocca, aveva tutti gli interessi ad affermare visivamente i diritti della sua stirpe. Il prozio Ottone «recuperò» Angera con l’appoggio della divina provvidenza, poiché questa era, in realtà, un antico bene della sua famiglia. Nel 1311 Matteo non aveva esitato a Da leggere Quasi un’agiografia incendiare gli archivi arcivescoviIl racconto ha una base letteraria li custoditi presso il monastero di U Jean-François Sonnay, riconoscibile nella cronaca redatta S. Radegonda proprio per vantare Il programma politico e alla fine del Duecento dal domenisenza ostacoli i suoi diritti su Anastrologico degli affreschi di cano Stefanardo da Vimercate, prigera, visto che i Visconti sarebbero Angera, in Carlo Bertelli (a cura di), ore negli anni 1290-92 del convenproprio provenuti da quel feudo. Il Millennio Ambrosiano. La nuova to milanese di S. Eustorgio. La sua Dal canto suo, il domenicano città dal Comune alla Signoria, storia in versi della città (il Liber de Galvano Fiamma (1283-post 1344), Electa, Milano 1989; pp. 164-187 gestis in civitate Mediolani) racconta nel Chronicon maius – una monuU Pio Francesco Pistilli, Angera, in le vicende di Ottone, e in essa si mentale storia di Milano dedicaEnciclopedia dell’Arte Medievale, possono scorgere alcuni addentelta ad Azzone Visconti nel 1339 –, Fondazione Treccani, Roma 1991; lati con le epigrafi che corredavano esalta l’antichità e il prestigio delanche on line su Treccani.it. i dipinti. In particolare si riscontra la stirpe dei conti di Angera, che U Thea Tibiletti, Dipingere il l’accento posto sulla benevolenza avrebbe espresso sette re, uno dei contemporaneo, in Carlo Bertelli, di Ottone, che avrebbe dimostrato quali imparentato con i Carolingi Lombardia medievale. Arte e pietà di fronte agli sconfitti. (lo stesso Azzone si era fatto rafarchitettura, Skira, Milano 2002; Nella prima scena, infatti, il prefigurare vicino a Carlo Magno nel pp. 339-349 lato sembra quasi trattenere i suoi perduto ciclo affrescato da Giotto). U Roberto Cassanelli (a cura di), soldati, che vorrebbero accanirsi su Nell’immaginare, poi, un rito amLombardia gotica, Jaca Book, Napo Della Torre, che compare in brosiano di incoronazione imperiaMilano 2002; pp. 105-113 ginocchio, in atteggiamento supplile, Galvano mette in scena nel vivo ce, affinché gli venga risparmiata la del cerimoniale proprio il conte di vita. Nell’arringa ai soldati che precede l’ingresso nella Angera, che appone la corona sulla testa del sovrano. città, Ottone raccomanda poi di non infierire, perché la L’arcivescovo si limita a impartire la benedizione. provvidenza è stata già generosa. Lo stesso Stefanardo Il possesso di Angera qualifica dunque i Visconti può aver influito anche per l’accento posto dal ciclo dicome personaggi di antica e illustre stirpe, degni di pinto sul concetto della Fortuna. In un suo poemetto esercitare le loro prerogative anche nel vivo della Chiesulla Fortuna ispirato proprio al contrasto tra Torriani e sa milanese, oltreché nelle istituzioni comunali. ProVisconti, essa si impone proprio come agente della provprio sul fronte ecclesiastico, tra le altre cose, fu guervidenza, e dunque l’appoggio che la sorte ha accordato a ra aperta tra l’eretico Matteo e papa Giovanni XXII. Ottone è un chiaro segno della volontà divina. Matteo Visconti sosteneva come arcivescovo il proprio L’ipotesi che riconosceva in Ottone stesso il comcongiunto Giovanni II, mentre il pontefice aveva demittente dei dipinti non ha avuto molto seguito. Egli, signato il francescano Aicardo da Camodeia, che solo d’altronde, era riuscito senz’altro a prendere possesso nel 1339, per poco tempo, riuscí a salire in cattedra. In di Angera, ma già nel 1296 la rocca era finita in mauno scenario del genere gli affreschi di Angera, oltre no a Francesco Fontana, un prelato ostile ai Visconti, a vantare le pretese dei Visconti sulla rocca, potevano che non avrebbe certo consentito che simili affreschi anche rivendicare il diritto di Giovanni II a risiedere potessero rimanere in bella mostra. Solo nel 1313, dopo sulla stessa cattedra ambrosiana. F

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di Elena Percivaldi

habemus

papam,

anzi due Sin dagli esordi del cristianesimo, a contendersi la cattedra di Pietro furono in molti. E non sempre la controversia tra gli aspiranti si risolse in un accordo: ne è un esempio il fenomeno dei cosiddetti «antipapi», che spesso determinò fratture profonde, come lo scisma che dilaniò la Chiesa tra il 1378 e il 1417

Miniatura raffigurante Innocenzo III (al secolo Lando di Sezze), che fu il quarto antipapa a essere opposto ad Alessandro III e rimase «in carica» dall’ottobre 1178 al gennaio 1180, da un manoscritto latino del XII sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.


Dossier

L L

a storia della Chiesa è complessa, difficile, contraddittoria. Ma, proprio per questo, può essere letta da molteplici punti di vista. Il suo grande protagonista è di solito il pontefice, che, in quanto «vicario di Cristo» in terra, è somma autorità della religione cattolica e pastore della Chiesa universale. Ebbene, questa storia è finora stata sempre narrata da tale prospettiva e attraverso il succedersi delle vicende umane e spirituali dei papi. Ma, nel corso di duemila anni, molte altre figure hanno determinato le intricate vicende del papato: cardinali, vescovi, santi, eretici, imperatori, chierici e laici. E, tra questi, anche gli «antipapi». Ma chi è un «antipapa»? La ri-

Roma, basilica di S. Lorenzo fuori le Mura. Mosaico dell’arco trionfale, con Cristo Benedicente, tra i santi Paolo, Stefano e Ippolito (a destra) e san Pietro, san Lorenzo e papa Pelagio II. VI sec.

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sposta è apparentemente semplice: è qualcuno che aspira al papato, viene eletto da un certo numero di persone che lo sostengono, si oppone al pontefice canonicamente eletto e si comporta come se fosse legittimamente collocato sul soglio di Pietro. Legislazione, scomuniche, convocazioni di concili e nomine di prelati comprese. Tecnicamente, però, affinché possa esistere un «antipapa» deve per forza esserci anche un «papa» al quale contrapporsi.

Un iter travagliato

L’osservazione può sembrare scontata, ma è invece importante, perché per lunghi secoli, a cominciare dall’inizio della storia della Chiesa, il «papa» inteso come vertice assoluto della cristianità di fatto non è esistito. E, di conseguenza, anche chi si opponeva al «papa» legittimo non venne subito indicato come «antipapa». Del resto, anche il percorso che portò lo stesso pontefice a

imporsi sugli altri vescovi della cristianità fu travagliato. Dai primi nebulosi inizi, quando il papa era solo vescovo di Roma e non aveva ancora raggiunto la posizione di prestigio e universalità in seguito detenuta, fino al grande scisma durato quasi quarant’anni tra Tre e Quattrocento (1378-1417; vedi box alle pp. 94-96), la storia dei molti antipapi (alcuni dei quali dubbi) è lunga. Considerati usurpatori ed eretici, subirono umiliazioni pubbliche e condanne, furono catturati, scomunicati, processati, imprigionati, uccisi. Alcuni fuggirono, altri si ritirarono in convento, altri ancora scomparvero nel nulla. Fieri oppositori del papato ufficiale per motivi dottrinali e ideologici, oppure mere pedine mosse dal potere laico (quello delle famiglie aristocratiche romane, ma anche degli imperatori), gli antipapi rivivono in queste pagine non piú come comprimari, ma come protagonisti.

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Ecco allora una lunga sfilata di varia ed eterogenea umanità: dalle evanescenti personalità dei primi antipapi (per i quali le notizie sono tanto scarse quanto contraddittorie) alle figure mefistofeliche o inette che si agitano sul tetro palcoscenico di una Roma sconvolta dalla corruzione nella cosiddetta «età ferrea» del papato; dagli antipapi di creazione imperiale alle figure icastiche del Grande Scisma, fino agli originali (e a tratti grotteschi) oppositori moderni e contemporanei. Alcuni di loro, come il cardinal Luna, antipapa per tre decenni (dal 1394 al 1423), oppure Roberto di Ginevra, alias Clemente VII, detto anche il «boia di Cesena», sono personalità che difficilmente si dimenticano.

Il primo fu Ippolito

Ma andiamo con ordine. Il primo antipapa della storia può essere considerato Ippolito di Roma (217235) sebbene all’epoca il pontefi-

In alto miniatura raffigurante i santi Lorenzo e Damaso I (papa dal 366 al 384), dall’Evangeliario di Helmarshausen. 1140 circa. Uppsala, Universitetsbibliotek. Succeduto a Liberio, Damaso dovette fronteggiare l’antipapa Ursino.

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Dossier Il Liber Pontificalis

L’opera di un antipapa? Il Liber Pontificalis è una delle fonti piú importanti per la storia del papato (e degli antipapi). Scritta in tempi diversi e da autori differenti, è una raccolta di biografie dei pontefici ricchissima di particolari, ma con molti problemi interpretativi. Il Liber vero e proprio inizia con Pietro e si chiude con Stefano V (885-891), ma altri autori – piú facilmente individuabili e quindi meno difficili da interpretare – portarono avanti la storia fino a Martino V (1431). Fino agli studi del filologo francese Louis Duchesne (1843-1922), si riteneva che l’opera fosse stata composta da uno o, al massimo, due autori. La prima parte, fino a Liberio, fu attribuita addirittura a papa Damaso, uomo colto e particolarmente incline a tramandare le memorie storiche. La seconda parte, invece, si riteneva scritta Anastasio III, il quale, in qualità di bibliotecario, poteva accedere anche a documenti ad altri preclusi, poi col tempo perduti. L’edizione critica di Duchesne, pubblicata tra il 1886 e il 1892 e per molti versi ancora fondamentale, ha invece dimostrato che l’opera fu compilata da piú redattori. Anzi, a suo avviso, un primo nucleo piú antico – l’Epitome Feliciana – sarebbe stato scritto nella prima metà del VI secolo, mentre l’Epitome Cononiana avrebbe visto la luce un secolo piú tardi, con aggiunte e continuazioni da parte di uomini della cancelleria papale. Altri studiosi, come Georg Waitz (1813-1886) e Theodor Mommsen (1817-1903), ritennero invece che entrambe le redazioni fossero state scritte dopo il pontificato di Gregorio Magno (590-604) e andassero quindi posticipate al VII secolo. Sembrerebbe certo che Anastasio si sia occupato delle biografie di Niccolò I e Adriano II. E, a proposito degli antipapi, poiché il Liber è la «voce ufficiale» della Santa Sede, non stupisce che gli anonimi biografi siano spesso inclementi e poco obiettivi con gli oppositori. ce, in quanto capo universale della Chiesa cattolica, ancora non esistesse (e quindi, a ben vedere, nemmeno il suo antagonista). Gli scarsi dati biografici certi ne fanno una figura oscura e controversa. All’ambiguità dei documenti si aggiunge la confusione fatta, sin dall’età antica, da agiografi e scrittori che sul suo conto mescolarono alcune notizie, equivocandone altre, confondendo

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la storia con la leggenda e sovrapponendo tra loro persone diverse. Il Martirologio Romano, il libro che sta alla base del calendario liturgico della Chiesa cattolica, alla data del 10 agosto, riporta: «Festa dei santi martiri Ponziano, papa, e Ippolito, presbitero, furono deportati insieme in Sardegna, dove entrambi scontarono la loro condanna e vennero coronati della corona del martirio;

Il Liber Pontificalis nell’edizione manoscritta di Albert de Sternberg. 1376. Praga, Biblioteca del Monastero di Strahov.

ambedue furono seppelliti a Roma, Ippolito nel cimitero sulla via Tiburtina, Ponziano invece nel Cimitero di Callisto». Secondo la versione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana, Ippolito fu dunque un uomo di Chiesa. Catturato durante le persecuzioni, finí i suoi giorni in Sardegna insieme a Ponziano, che in quel tempo era papa.

Una notizia infondata

La morte avvenne il 10 agosto, probabilmente del 235, e questo suo dies natalis – il giorno della nascita alla vita eterna – viene ancora oggi celebrato. Le fonti antiche – da Eusebio di Cesarea a Fozio – sostengono anche che fu un teologo e tramandano i titoli delle sue opere. Un epigramma dettato da papa Damaso nel IV secolo e collocato sulla tomba lungo la via Tiburtina, reca la notizia della sua iniziale adesione allo scisma di Novaziano, ma la notizia è errata, perché lo scisma ebbe luogo dopo la morte di Ippolito. Sembra certo, gennaio

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tuttavia, che Ippolito sia stato discepolo di Ireneo di Lione. A restituire una personalità a questa figura evanescente fu una fortunata scoperta compiuta in età moderna, nel 1842. Ne fu artefice Minoide Mynas, archeologo ed erudito greco di origine macedone fuggito a Parigi durante la guerra per l’indipendenza dagli Ottomani. A capo di spedizioni promosse dal governo francese e condotte sotto lo pseudonimo di Constant Ménas, Mynas setacciò monasteri e conventi sul Monte Athos trovandovi una vera e propria fortuna. Tra le opere strappate all’oblio millenario, ci furono anche i Philosophumena attribuiti dagli antichi a Ippolito, ma fino a quel momento mai ritrovati: un corposo trattato in dieci libri che conteneva la confutazione delle principali eresie e religioni professate nella sua epoca.

Città del Vaticano, basilica di S. Pietro. Medaglione marmoreo con il ritratto di papa Damaso I, scolpito su un pilastro della navata. XVIII sec.

Il sepolcro ritrovato

Ai lavori forzati

Quel ritrovamento fece luce anche sulla biografia dell’autore: Ippolito entrò in contrasto con papa Zefirino (198-217) e poi con il suo successore Callisto († 222) sulla questione della natura di Cristo. La sua vis polemica lo portò però allo scoperto come cristiano e fu quindi catturato per ordine dell’imperatore Massimino il Trace. Finí i suoi giorni in esilio, condannato ai lavori forzati nelle miniere della Sardegna (ad metalla), come tante altre vittime delle persecuzioni. Ma con lui, in quei drammatici momenti, c’era il nuovo papa, Ponziano, successo nel frattempo a Callisto. Lo conobbe, ci parlò, e i due si riconciliarono appena in tempo per far rientrare il primo scisma della storia della Chiesa. Poi la morte, a pochi mesi di distanza. È probabile che la profonda ostilità di Ippolito nei confronti dei pontefici e le sue posizioni al limite dell’ortodossia abbiano determina-

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ad altri personaggi con tale nome: un martire che secondo il poeta Aurelio Prudenzio Clemente (348-413 circa) sarebbe morto dilaniato da due cavalli (reminescenza classica del mito, appunto, di Ippolito, punito allo stesso modo da Poseidone perché ritenuto colpevole di aver insidiato la matrigna Fedra?); un ufficiale romano convertito da san Lorenzo (martirizzato il 10 agosto) e che, come lui, venne martirizzato; infine un Ippolito identificato con il martire Nonno, primo vescovo di Porto. Con ogni probabilità si tratta di persone diverse, confuse, o fuse, in una sola.

to l’incertezza delle fonti su molti particolari della sua biografia, che già agli antichi dovette sembrare controversa e scomoda. Ma c’è di piú. Negli Acta Sanctorum (la monumentale raccolta di documenti sulle vite dei santi e le leggende e i culti fioriti sul loro conto compilata a partire dal Seicento dal gesuita belga Jean Bolland e dai suoi seguaci) alla data che corrisponde al giorno in cui il Martirologio Romano assegna la festa di sant’Ippolito, ci sono notizie riferite

Sembra certo che il corpo di Ippolito fu sepolto nel Campo Verano, lungo la via Tiburtina, il 13 agosto 235. Conosciamo la tomba grazie alla descrizione di Prudenzio, ma nell’XI secolo del sepolcro si erano perse le tracce: restava ormai solo il toponimo che dava il nome al monte («mons sancti Ypoliti»). Nel Quattrocento anche la basilica a tre navate costruita già in antico sul posto fu spogliata di ciò che restava. Dopo una serie di infruttuose ricerche, il mistero del luogo fu squarciato, finalmente, solo nel 1882 quando un archeologo romano, Giovanni Battista De Rossi (1822-1894), scoprí la tomba dimenticata (oggi nel quartiere Nomentano: ma l’entrata in via dei Canneti è chiusa al pubblico). Ne seguí un ampio studio, che ribadí innanzitutto una discrepanza cronologica importante: Lorenzo, Ippolito e gli altri morti con loro subirono il martirio durante la persecuzione di Valeriano (257-258) e non di Decio (249-251), quindi le fonti iniziali già di per sé erano poco accurate. Emerse poi che il sepolcro di Ippolito presbyter era stato aperto da papa Paolo I tra il 757 e il 761 e (segue a p. 84)

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Dossier A destra miniatura raffigurante Ottone I incoronato dalla Vergine, dal Sacramentario del vescovo Varmondo. X sec. Ivrea, Biblioteca Capitolare. Nella pagina accanto miniatura raffigurante Giovanni XII che assiste alla mutilazione dei prelati Azzone e Giovanni, suoi nemici. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso papa Benedetto VI in una incisione della fine dell’Ottocento.

donno ii

Lo «scherzo» di un amanuense distratto... L’antipapa Domnus, tradotto in italiano come Donno, risulta in carica tra il 973 e il 974, nella discordanza totale delle fonti, che lo vogliono in carica per pochi giorni, tre mesi oppure sei. Ma la sua esistenza è forse frutto di un equivoco. Donno sarebbe salito al soglio di Pietro il 20 dicembre 973, alla morte di Benedetto VI (973-974). Ma quest’ultimo a quella data era vivo e vegeto. Morí solo nel giugno dell’anno dopo, in circostanze peraltro tragiche. Benedetto, di origine tedesca, era stato eletto con il favore dell’imperatore Ottone I nel quadro delle virulente lotte tra la fazione filoimperiale e quella filoromana per il controllo sull’elezione del papa. Per essere consacrato aveva dovuto aspettare ben quattro mesi, perché Ottone, che doveva confermare l’elezione, si trovava lontano in Germania. Quando Ottone era morto, il 7 maggio del 973, la famiglia dei Crescenzi – che, deceduto

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papa Giovanni XIII (965-972) aveva espresso un suo candidato, ma era stata sconfitta – rialzò la testa, sobillò il popolo e Benedetto fu catturato e imprigionato in Castel Sant’Angelo. Fu dunque eletto al secondo tentativo Francone di Ferruccio, che prese il nome di Bonifacio VII. Non appena Ottone II (973-983), succeduto da poco al padre, venne a saperlo, mandò il suo legato Siccone per chiedere l’immediato rilascio del prigioniero. Il povero Benedetto, che languiva in carcere, dovette essere giudicato una presenza pericolosa e ingombrante e, forse per mano dello stesso Francone, dell’intrigante rampollo della famiglia Crescenzi, Crescenzio, o di un prete di nome Cyrithius, fu strangolato e tolto di mezzo. Passarono però solo un mese e dodici giorni e Francone-Bonifacio, sull’onda della rivolta della plebe sobillata dai Tedeschi che lamentarono lo scempio perpetrato sul pontefice, fuggí a Costantinopoli, portando con sé il tesoro. Al suo posto fu eletto legittimo papa Benedetto VII (974-983), vescovo di Sutri, un’utile soluzione di compromesso dopo che Ottone II aveva offerto la tiara a Maiolo, il grande abate di Cluny, ricevendone in cambio un rifiuto: gennaio

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Benedetto, infatti, era di antica e nobile schiatta, quella dei Conti di Tuscolo, parente di papi e stimato sia dalla fazione imperiale sia dalle famiglie romane, compresa quella dei Crescenzi. Risulta quindi difficile, se non impossibile, che in un cosí breve lasso di tempo fosse riuscito a inserirsi addirittura un altro antipapa, il misterioso Donno. La comparsa improvvisa del nome è però spiegabile se si ricorre alla paleografia e allo studio delle «abbreviature». I notai, infatti, non scrivevano tutte le parole per esteso, ma le abbreviavano, sostituendo le lettere omesse con altrettanti segni grafici. Ebbene, i cataloghi papali che contengono l’accenno a «Donno» inseriscono tra Benedetto VI e Benedetto VII questo «Domnus de Suri», non altrimenti specificato. Ma «Domnus de Suri» potrebbe, in realtà, essere l’abbreviazione per «Dominus de Suri», vale a dire «signore (vescovo) di Sutri», appellativo che si riferisce

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a Benedetto, il quale era effettivamente vescovo di Sutri quando venne eletto papa. Il fantomatico Donno, quindi, non avrebbe mai calcato le scene romane, ma sarebbe nato dall’equivoco di lettura di un amanuense, che scambiò una qualifica per un nome proprio, e da questo errore derivò tutta la tradizione manoscritta giunta fino ai giorni nostri. L’antipapa Donno ha continuato a esistere suo malgrado fino al 1947, quando l’Annuario Pontificio – l’elenco ufficiale dei papi e dei prelati edito dalla Santa Sede – dopo averne sempre riportato il nome sin dalla sua prima pubblicazione, data alle stampe nel 1912, non lo ha espunto dalla lista.

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Dossier

Gli antipapi: una cronologia . Ippolito

. Dioscuro

. Costantino

. Novaziano

. Teodoro

. Filippo

. Donno

. Felice

. Pasquale

. Giovanni VIII

. Bonifacio VII

. Teofilatto

. Anastasio

. Giovanni

(217-235) (251-258)

II

(355-365)

. Ursino

(366-367)

. Eulalio

(418-419)

(530)

II

(686-687)

(687)

(757)

(767-768)

II

(768)

(903 - 904)

II

(dubbio, 973 - 974)

(844)

(855)

. Cristoforo

III

(974 e 984-985) (997-998)

XVI

. Gregorio VI

(1012)

. Laurenzio

(498-506)

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gennaio

MEDIOEVO


Sulle due pagine miniature raffiguranti l’elezione di un antipapa incoronato da due demoni (nella pagina accanto) e la vittoria della Chiesa di Roma sugli antipapi. XIII sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

. Benedetto

X

(1058-1059)

. Onorio

II

(1061-1064)

. Clemente

III

(1080-1100)

. Anacleto

II

(1130-1138)

. Vittore

IV

. Vittore

IV (V)

(1138)

. Pasquale

. Adalberto

. Callisto

. Silvestro

. Innocenzo

(1100-1101)

IV

(1105-1111)

. Gregorio VIII

(1118-1121)

(1164-1168)

III

gennaio

III

(1178-1180)

. Alessandro V

. Benedetto

. Giovanni

XXIII

. Clemente VIII

. Benedetto

XV

. Benedetto

XIV

. Benedetto

XVI

. Benedetto

XIV

. Felice V

XIII

(1394-1423?) (1423-1429)

(1425-1430) (1430-1437)

(1409-1410)

(1410–1415) (1437-1470)

(1470-1499)

(1439-1449)

. Niccolò V

(1328-1330)

una parte delle reliquie erano state da lui donate al re dei Franchi Pipino il Breve, il quale le traslò presso l’abbazia di Saint-Denis, nei pressi di Parigi. Memoria di ciò si conserva in un’iscrizione che il pontefice fece affiggere nella chiesa di S. Silvestro in Capite. Un secolo dopo, papa Leone IV aveva invece fatto aprire altri sepolcri di martiri e traslare i corpi, e i resti dell’altro Ippolito, con la nutrice e i diciannove soci, erano momentaneamente finiti nella ba-

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III

(1168-1178)

(1101)

Obbedienza pisana

. Clemente VII

(1378-1394)

(1159-1164)

. Teodorico

Obbedienza avignonese

silica dei SS. Quattro Coronati. I due martiri erano quindi due persone diverse, vissute e morte a distanza di anni, erano stati seppelliti in due luoghi distinti e tra loro non esisteva alcuna relazione.

Quella statua senza testa

L’importante scoperta stimolò anche nuove ricerche e fu riaperta la questione relativa a una misteriosa statua che, scampata alle spoliazioni della basilica, era stata ritrovata per

caso nel 1551 e attribuita all’Ippolito presbyter, teologo e «antipapa». La statua di marmo raffigurava un personaggio seduto su un trono. Ma quando fu ritrovata, in mezzo alle rovine, era priva della parte superiore del corpo. Tuttavia, sulla base, si poteva leggere un’iscrizione, datata dai paleografi al III secolo, che conteneva un elenco di opere attribuite dalla tradizione al nostro Ippolito. La statua fu restaurata da Pirro Ligorio, integrata delle parti perdute e collo-

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Dossier

Frasetta in latin totaspit apisi dolendis dolum, inum, sim abo. Aped est faccus, officius, od quam

Miniatura raffigurante sant’Ugo il Grande di Cluny con l’imperatore Enrico IV che implora Matilde di Canossa, dalla Vita Mathildis di Donizone di Canossa. 1111-1115 circa. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

cata nella Biblioteca Vaticana dove – salvo un momentaneo trasloco nel Museo sacro del Palazzo Lateranense nel 1854 – si trova tuttora. Ma, nel 1977, l’archeologa Margherita Guarducci (1902-1999) sostenne che il panneggio della statua

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apparteneva a una tunica femminile e che il ritratto era di Themista di Lampsaco, discepola di Epicuro: una scoperta sensazionale, perché Themista era stata la sola filosofa ad aver conservato una discreta fama anche nel mondo romano.

Figure evanescenti

Molti furono gli antipapi succedutisi agli albori del cristianesimo. Tra il III e il VI secolo, oltre a Ippolito, troviamo i nomi di Novaziano, Felice II, Ursino, Eulalio, Laurenzio e

Dioscuro: figure spesso oscure ed evanescenti, la cui ragion d’essere deriva dall’intrinseca debolezza dell’istituzione ecclesiastica, dilaniata da scontri di tipo dottrinale (e infatti le eresie fanno quasi sempre da sfondo alle vicende di questi antipapi) e caratterizzata dalla mancanza di un’autorità forte e univoca a guida dell’intera ecclesia. In questo quadro il vescovo di Roma inizia a muovere i primi passi per reclamare il primato. Ma su che cosa basava questa istanza? Intanto gennaio

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sul fatto che l’Urbe era stata la capitale storica e universale dell’impero romano, sul cui ordinamento si basavano anche le strutture del cristianesimo. Il prestigio maggiore le derivava però dall’aver ospitato come primo vescovo nientemeno che l’apostolo Pietro, al quale, secondo il Vangelo di Matteo, Cristo stesso aveva conferito il compito di fondare la sua Chiesa. Pietro, inoltre, compariva sempre come primo in tutti gli elenchi degli apostoli. Nella Città Eterna erano presen-

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ti luoghi di culto legati in maniera suggestiva e profonda a Pietro e Paolo, che tanto vi avevano predicato fino a ricevervi il martirio: primo fra tutti la Memoria apostolorum, ossia il luogo – lungo l’Appia antica – che aveva ospitato le loro reliquie (oltre, naturalmente, alla tomba di Pietro).

Arbitrare per conto di Dio

Vi era poi una lettera, attribuita al vescovo di Roma Clemente (88-97), in cui il primate, senza che gli fosse stato richiesto, interveniva a sedare

Vignette raffiguranti Enrico IV e l’antipapa Guiberto, Gregorio VII cacciato da Roma, il pontefice con i vescovi che tratta della scomunica di Enrico e la morte di Gregorio VII, dalla Cronaca del vescovo Ottone di Frisinga. XII sec. Jena, Universitatsbibliothek.

alcuni disordini sorti nella comunità ecclesiastica di Corinto, sostenendo di avere scritto sotto la guida dello Spirito Santo, e quindi sentendosi chiamato direttamente da Dio a rivestire il ruolo di arbitro. L’episto-

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Dossier la, che per un certo periodo fu addirittura inserita nel novero dei testi canonici, insieme al legame diretto con Pietro e ad altre testimonianze, è dunque la prova dell’esistenza, già nel II secolo, di un embrionale primato «morale» della Chiesa romana rispetto a tutte le altre. Ripercorrendo la vicenda dell’antipapa Ippolito, abbiamo già citato Ireneo di Lione, e proprio il dotto vescovo originario di Smirne (130-202) fu uno dei primi a fornire una lista dei vescovi romani (e non quelli di altre sedi), mostrando di tenere in particolare considerazione ai fini del suo discorso proprio la chiesa «fondata e stabilita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo». Il suo esempio venne seguito da Eusebio di Cesarea (265340), nella sua monumentale e importantissima Storia ecclesiastica, nonché dall’anonimo estensore del cosiddetto Catalogo Liberiano (compreso nel Cronografo romano del 354), che contiene la lista dei primi «papi» da Pietro a Liberio (352-366) compreso. Tra le fonti fondamentali troviamo poi il Liber pontificalis (vedi box a p. 80), vera e propria raccolta delle vite dei singoli «papi» redatta in seno alla corte papale stessa: fumosa e superficiale sui primi pontefici, si fa piú corposa e accurata con le biografie dei papi saliti al soglio di Pietro dal IV secolo in poi, di pari passo con la progressiva presa di coscienza del primato del vescovo di Roma su tutti gli altri.

Nelle mani del «padre»

Figura chiave in questo processo fu Damaso (366-384), il quale, dopo aver ottenuto dall’imperatore Graziano (367-383) il potere giurisdizionale sui suoi omologhi d’Occidente, nel 381 ottenne da Teodosio il primato morale anche sull’Oriente. La sua eredità fu raccolta da Leone Magno (440-461) e, soprattutto, da Gelasio (492-496) che, utilizzando come titolo quello, da poco entrato nella prassi, di «papa» (dal termine

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Siena, Palazzo Pubblico, Sala di Balia. L’incoronazione dell’antipapa Pasquale III, scena del ciclo con le Storie di papa Alessandro III, affrescato da Spinello Aretino e dal figlio Parri. 1407-1408 circa.

usato nel lessico familiare greco per indicare il padre), distinse per primo, in una lettera all’imperatore, il potere temporale da quello spirituale, precisandone nel contempo la reciproca autonomia e la comune derivazione dalla volontà divina. Una presa di posizione destinata a rivelarsi fondamentale e che determinò la storia degli equilibri fra i due poteri per tutto il Medioevo. La loro distinzione, tuttavia, non ne implicava la separazione: cosí come i governanti erano soggetti ai sacerdoti in materia spirituale, questi ultimi lo erano ai primi per l’aspetto temporale. Ma mentre in Oriente gli imperatori continuarono ad agire unendo nella propria figura entrambi i poteri, con complessi e suggestivi cerimoniali (si tratta del fenomeno noto come «cesaropapismo»), in Occidente l’autorità del papato finí con il soppiantare quella, ormai lontana e fatiscente, dell’impero. Elevatisi a contraltare pressoché unico dei barbari, i pontefici difesero Roma dalle invasioni e gettarono le basi per la costruzione di un autentico dominio temporale, che trovò la sua prima legittimazione in età longobarda. E proprio in questo periodo – tra il VII e il IX secolo – incontriamo un’altra lunga serie di antipapi: Teodoro II, Pasquale, Teofilatto, Costantino II, Filippo, Giovanni VIII, Anastasio III. Tutti costoro si trovarono a operare in uno scenario nuovo, quello che vedeva Occidente e Oriente ormai irrimediabilmente divisi. Il primo fu travolto dai barbari, il secondo, invece, fu soltanto lambito dal passaggio degli invasori e riuscí a conservare l’eredità della tradizione imperiale romana, anzi ne rimase l’ultima roccaforte. E mentre l’Europa continentale in crigennaio

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In alto miniatura raffigurante la morte dell’antipapa Clemente VII (al secolo Roberto di Ginevra), da un manoscritto de Les Chroniques di Jean Froissart. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A sinistra Santa Caterina da Siena di fronte a papa Gregorio XI ad Avignone, tempera su tela di Giovanni di Paolo. 1460 circa. Madrid, Museo ThyssenBornemisza.

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si sprofondava nell’economia rurale e perdeva quasi del tutto l’uso della moneta, l’Oriente poteva continuare a esercitare i suoi floridi commerci e a scontrarsi, oltre che con il nemico storico persiano, anche con la nascente potenza dell’Islam.

Il regno fragile

In Occidente, dopo la brevissima parentesi durante la quale Giustiniano era riuscito a reimpadronirsi dell’Italia, sottraendola agli Ostrogoti, i nuovi invasori longobardi avevano dato vita a un regno sostanzialmente fragile, minacciato com’era da un lato da Bisanzio – tutt’altro che rassegnata a perdere i territori – e, dall’altro, dalla nascente potenza dei Franchi. E, infatti, in questo contesto, la conversione dei Longobardi al cattolicesimo per volontà della coppia regnante formata da Agilulfo e Teodolinda, con la collaborazione di papa Gregorio Magno (590-604), va letta come il tentativo di consolidare il regno soprattutto in chiave antibizantina.

I primi tre antipapi di questo periodo (Teodoro II e Pasquale nel 686-687 e Teofilatto nel 757) furono eletti in un quadro di estrema debolezza di Roma, che cercava di emanciparsi dal controllo di Bisanzio affidandosi ora ai Longobardi ora al nuovo interlocutore franco. Il che, tuttavia, non aveva impedito al papato di consolidarsi a sua volta e ottenere anche le basi di un primo potere territoriale di tutto rispetto: nel 752, con la Promissio Carisiaca, Stefano II strappò infatti a Pipino il Breve – in cambio del titolo, per sé e per i figli, di patrizio (ossia protettore) dei Romani – Ravenna e l’Esarcato, appena sottratti ai Longobardi a seguito della vittoria contro il loro re Astolfo. Il nascente potere temporale della Chiesa si rafforzò poco dopo grazie al longobardo Liutprando (712-744), artefice della donazione territoriale di Sutri. Ma la sua politica espansionista e quella di Astolfo (749-756), che occupò Ravenna e l’Esarcato e arrivò a minacciare Roma, suscitarono la reazione non solo di Bisanzio, ma anche del pontefice. Quest’ultimo chiese aiuto ai Franchi, i quali, conquistando il regno longobardo, di fatto risolsero il problema in maniera definitiva. Fu cosí possibile, con Carlo Magno, tentare di realizzare di nuovo il sogno di ridare vita al vecchio impero romano, questa volta in una inedita alleanza col papato e rivestendolo però di connotati cristiani. Ma, ancora una volta, era un sogno destinato a durare veramente poco.

Un bibliotecario potente

L’antipapa piú interessante, e per certi versi emblematico, di questo periodo, fu Anastasio III, romano, conosciuto anche come Anastasio il Bibliotecario (810 circa-879 circa). Nipote – se non addirittura figlio – del vescovo Arsenio di Orte (uomo potentissimo e molto vicino all’imperatore Lotario II, di cui era consigliere personale), grande eru-

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Dossier dito, era uno dei pochi intellettuali del tempo – con l’abate Ilduino di Saint-Denis († 855/861) e l’irlandese Giovanni Scoto († 875) – a conoscere perfettamente il greco. La sua vita è divisa in almeno due fasi ben distinte, al punto che la storiografia, in passato e fino all’Ottocento, ha ritenuto di dover considerare l’Anastasio antipapa per tre giorni nell’855 una persona diversa dall’Anastasio grecista e collaboratore diretto e fidato di ben tre pontefici. Sembra invece ormai assodato che si tratti dello stesso personaggio. La sua storia comincia con un mistero. Pochi mesi dopo essere stato nominato cardinale prete di S. Marcello da Leone IV (847-855), abbandonò Roma all’insaputa del pontefice per darsi alla macchia. Probabilmente, sfruttando il fatto che Leone era stato eletto senza l’approvazione dell’imperatore (necessaria in base alla Constitutio Lotharii), intendeva tramare per deporlo. L’ambizione in effetti non gli mancava. Dopo cinque anni di

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latitanza, fu scomunicato e deposto dall’ufficio sacerdotale in perpetuo. Ma, nell’estate 855, alla morte di Leone, Anastasio, forte dell’appoggio dell’imperatore Ludovico II, marciò su Roma e, il 21 settembre, detronizzò il nuovo papa Benedetto III (855-858) prendendone il posto.

Il greco come arma

Tuttavia, in una città dominata dalla paura e dalla violenza, tre giorni dopo fu convinto dai suoi stessi seguaci a farsi da parte. Reintegrato nella sua dignità, Benedetto III preferí non infierire e riassegnò al rivale gli antichi incarichi. Ma l’ambizioso prelato si limitò a cambiare strategia e, questa volta, utilizzò come arma il greco. Non molto tempo dopo, infatti, la conoscenza della lingua e degli ambienti di Costantinopoli risultò indispensabile in occasione del sinodo chiamato a dirimere la controversia scoppiata tra il nuovo patriarca Fozio e il predecessore Ignazio, deposto dall’imperatrice Teodora:

una contesa che aveva trasceso il piano teologico e dottrinale, coinvolgendo questioni di grande importanza come il celibato dei preti, la data della quaresima, la processione dello Spirito Santo. Papa Nicolò I e Fozio si erano scomunicati a vicenda e la tensione tra Oriente e Occidente si era fatta altissima. In questo contesto Anastasio ottenenne da Nicolò e poi da Adriano II importanti incarichi diplomatici e la nomina a bibliotecario di Santa Romana Chiesa: un incarico delicatissimo – di solito era riservato ai vescovi! –, perché affiancava al lavoro di cancelleria anche quello di conservazione degli atti dei concili, dei registri delle lettere e dei libri che componevano la biblioteca del papa. Cosí ne approfittò per far sparire i documenti relativi al «golpe» dell’855. La sua vita, in ogni modo, non doveva esaurirsi in un polveroso archivio e fu travolta da un grave scandalo. Papa Adriano II, in gioventú, era stato sposato con una

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certa Stefania e aveva avuto da lei una figlia, ora promessa sposa al rampollo di una nobile schiatta. Ma Eleuterio, forse fratello di Anastasio, la rapí e la sposò, per poi ucciderla assieme alla suocera, dopo essere stato scoperto. Colpito negli affetti familiari, il papa convocò un concilio e Anastasio fu accusato di aver consigliato al fratello di sbarazzarsi delle due donne. Al bibliotecario furono allora rinfacciate tutte le malefatte che aveva cercato di nascondere, ma, ancora una volta, riuscí a salvarsi. L’uomo, infatti, continuava a godere dell’appoggio di Ludovico II e quindi non solo fu riammesso al suo ruolo, ma divenne anche decisivo in occasione dell’importante concilio indetto a Costantinopoli (5 ottobre 869-28 febbraio 870) per affrontare l’ormai esplosivo caso di Fozio. Anastasio riuscí a farsi inviare contemporaneamente come legato imperiale e con un incarico del pontefice. E, ricorrendo alla sua perizia di traduttore, scoprí

addirittura che, a conclusione del sinodo, i legati orientali avevano consegnato ai colleghi occidentali documenti diversi da sottoscrivere, che omettevano alcune formule rispetto agli originali approvati. Rimessa la questione al papa, le due delegazioni occidentali (quella ufficiale e quella di supporto, di cui faceva parte Anastasio) partirono da Costantinopoli nel marzo 870 per separarsi a Durazzo: i delegati papali salparono verso Ancona, gli altri verso Siponto, diretti a Benevento per riferire all’imperatore.

Una copia provvidenziale

Ma poco dopo la dipartita, i delegati del papa furono assaliti dai pirati, che saccheggiarono le navi, rubando anche la copia originale degli atti sinodali destinata a Roma, e li rapirono, tenendoli in ostaggio per ben otto mesi. Per fortuna Anastasio, giunto per l’altra strada a casa sano e salvo, aveva con sé una copia che s’era fatto fare per suo uso personale, e provvide ad appron-

tarne la traduzione in latino per il pontefice, che poté cosí conoscere e ratificare il testo. Riconosciuto come un grande diplomatico, Anastasio continuò a condurre missioni per conto sia del papa che dell’imperatore, legando il suo nome a una lettera importantissima, redatta per Ludovico II e rivolta al basileus Basilio nell’871, che contiene un’appassionata rivendicazione di titoli dell’impero restaurato da Carlo Magno, di fronte al rifiuto, opposto ancora una volta da Basilio, di riconoscerne la legittimità. Anastasio trascorse gli ultimi anni di vita dedicandosi allo studio e alla traduzione. Le sue opere piú importanti furono la trasposizione in latino degli atti del settimo concilio ecumenico (tenutosi a Nicea nel 787), un’opera storica – la Chronographia tripertita – e i Collectanea (silloge di scritti sul monotelismo, dottrina che affermava l’esistenza in Cristo della sola natura divina), oltre a versio-

Veduta di Avignone (Francia). In secondo piano si riconosce il Palazzo dei Papi, sede della curia negli anni della «cattività avignonese» (1309-1377).

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Dossier ni di testi greci di carattere dottrinale e agiografico. Come già aveva fatto san Girolamo con la Vulgata (la traduzione in latino dell’Antico Testamento, n.d.r.), Anastasio non procedeva traducendo parola per parola, bensí cercando di conservare il senso del discorso. Prima di morire si riconciliò con Fozio, al quale indirizzò una lettera amichevole, purtroppo perduta: la risposta dell’ex patriarca, altrettanto distesa per quanto velata di amarezza giunse però a Roma nella primavera dell’879 quando Anastasio probabilmente era già morto. O almeno cosí si ritiene, visto che a marzo risulta al suo posto un altro prelato, il vescovo Zaccaria di Anagni. Per alcuni studiosi, però, la scomparsa di Anastasio fu piú tarda: le lettere di Giovanni VIII composte dopo l’879 sono state scritte nello stesso stile delle precedenti. E lo stile, si sa, non mente. Nel caos istituzionale che travolse l’impero all’indomani della clamorosa deposizione di Carlo il Grosso (887), iniziò anche il durissimo scontro tra fazioni per il controllo e la gestione della corona. Il papato, che in epoca carolingia era riuscito a mantenere il prestigio e a confermare sia l’aspirazione all’universalismo, sia il primato di Roma come «capitale» della cristianità, fu chiamato a intervenire fattivamente, sostenendo ora l’uno, ora l’altro candidato. E non esitò a entrare in prima persona nella gestione degli affari temporali, fornendo il destro a quanti andavano chiedendo la riforma della Chiesa e delle sue istituzioni. E in ciò anche gli antipapi ebbero il loro ruolo.

Il Grande Scisma

Una tiara per tre Subito dopo l’elezione di Roberto da Ginevra (Clemente VII, 1378-1394), lo scisma coinvolse le principali potenze europee, chiamate a professare l’obbedienza romana oppure quella avignonese. Molti Stati italiani, l’Inghilterra, l’impero e le corone scandinave si schierarono con Urbano, mentre Clemente poté vantare l’appoggio di Carlo V di Francia, dei sovrani spagnoli e della Scozia. Ma l’adesione all’una o all’altra causa era dettata dalle circostanze imposte dal sistema di potere e dal gioco di equilibrio delle alleanze, piú che da motivazioni «ideologiche». Il conflitto coinvolse anche gli ordini monastici e persino gli intellettuali: Caterina da Siena, per esempio, si espresse a favore del papa romano, mentre il predicatore valenziano Vicente Ferrer per quello avignonese. Lo scisma continuò con il cardinale Luna (Benedetto XIII, 1394-1423) per gli avignonesi e Bonifacio IX (1389-1404), Innocenzo VII (1404-1406) e Gregorio XII (1406-1415) per i romani. E, a un certo punto, le fazioni rivali divennero addirittura tre: i cardinali di entrambe le obbedienze, infatti, (segue a p. 96)

A destra miniatura raffigurante la deposizione e la scomunica di Benedetto XIII, dalle Cronache del Concilio di Costanza di Ulrich Richenthal. 1464-65. Costanza, Rosengarten Museum. A sinistra papa Gregorio XII (14061415) durante un concistoro, illustrazione da un manoscritto in pergamena. XIV sec. Siena, Archivio di Stato.

L’età ferrea del papato

L’«età ferrea del papato», cosí come fu definito il periodo tra il IX e l’XI secolo, vide punte di imbarbarimento oggi difficili da concepire. A farla da padrone era soprattutto l’aristocrazia romana che, suddivisa in va(segue a p. 98)

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Dossier avevano cercato di convocare un grande concilio a Pisa per la primavera del 1409, con l’auspicio di porre fine alla lotta. Ma, ricevuto l’invito, entrambi i papi in carica, per tutta risposta, avevano convocato un proprio concilio: Benedetto a Perpignan, in Spagna, e Gregorio a Cividale. La maggior parte degli invitati, però, optò per Pisa. I due assenti furono processati, condannati e deposti. Nella sessione di giugno, la sede papale fu dichiarata vacante e si procedette all’elezione a pontefice di Pietro Filargo, arcivescovo di Milano, che salí al soglio con il nome di Alessandro V e fissò la sua residenza a Bologna, ma nessuno degli altri due rinunciò alla carica. Anche Alessandro ebbe un successore, Giovanni XXIII (1410-1415). Il problema dello scisma era legato anche alla situazione politica internazionale, e, per superare le divisioni, occorreva una mediazione. Ci provò Sigismondo di Lussembrugo, re di Germania, presso il quale Giovanni si era rifugiato. Nel corso di lunghi colloqui e di estenuanti trattative con le corone di Francia, Inghilterra, Castiglia e Aragona, Borgogna, Napoli e con altri Stati italiani, Sigismondo riuscí a convincere il papa a convocare un nuovo concilio a Costanza per l’autunno del 1414 (vedi «Medioevo» n. 212, settembre 2014). La soluzione, però, si rivelò piú difficile del previsto: le votazioni sarebbero dovute avvenire per nationes, cioè per gruppi nazionali, mentre all’interno di ogni nazione il voto era conteggiato per capita, ossia un voto a testa. E tutti i cardinali erano considerati una natio. Queste innovazioni erano state introdotte per rendere piú facile la via che sembrava auspicabile alla maggioranza: la rinuncia di tutti e tre i pontefici e l’elezione di un nuovo papa estraneo alle logiche di parte. Ma Giovanni XXIII, che – unico dei tre presente – contava sulla riconferma grazie al favore degli Italiani, che erano la maggioranza, dopo settimane di incertezza, nella notte tra il 20 e il 21 marzo 1415, fuggí, travestito da palafreniere, a Friburgo, sotto la protezione del duca d’Austria Federico IV d’Asburgo, sperando di indurre il concilio a sciogliersi. Il 6 aprile, invece, l’assemblea emanò il decreto Haec Sancta Synodus, nel quale si stabiliva che il concilio, riunito nel nome dello Spirito Santo, riceveva la sua potestà senza intermediazioni direttamente da Cristo e pertanto la sua autorità era superiore a quella dello stesso pontefice. I passi successivi furono diretti a rendere inoffensivi i vari contendenti. Si iniziò con la cattura, il processo e la deposizione di Giovanni XXIII, che accettò il verdetto e fu confinato dapprima nel castello di Hausen, presso Mannheim, e poi, dopo un tentativo di evasione, a Heidelberg. A seguire, si passò a Gregorio XII, il quale, ormai novantenne, volle uscire di scena in grande stile e in maniera formalmente ineccepibile: in base alle sue prerogative di legittimo pontefice, convocò il concilio

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Miniatura raffigurante l’antipapa Giovanni XXIII (1410-1415), al secolo Baldassarre Cossa, che fugge in barca dal Concilio di Costanza insieme al duca d’Austria Federico IV d’Asburgo, dal codice Diebold Schilling, Amtliche Berner Chronik. 1478.1483 circa. Berna, Burgerbibliothek.

(lo stesso già riunito a Costanza), nominò due delegati e chiese a uno di loro, il signore di Rimini Carlo Malatesta, di pronunciare in suo nome la rinuncia al papato. Cosa che avvenne il 4 luglio 1415. Restava ancora attivo Benedetto XIII ma, abbandonato anche dal suo ultimo sostenitore Ferdinando d’Aragona, dopo un effimera reazione, fu deposto e scomunicato. Poco dopo il nuovo re d’Aragona, Alfonso V il Magnanimo, assediava il castello di Peñíscola, dove l’ormai ex pontefice si trincerava e resisteva per altri sei anni, fino alla morte il 23 maggio 1423 (ma vi è anche chi fissa la data al 29 novembre 1422). Intanto, il concilio di Costanza provvedeva, l’11 novembre 1417, a porre fine allo scisma con l’elezione a pontefice di Oddone Colonna col nome di Martino V (1417-1431). La complicata vicenda ebbe un epilogo quasi farsesco, perché gennaio

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Assisi, basilica di S. Francesco. Ritratto dell’antipapa Alessandro V (1409-1410), nato Pietro Filargo (e detto Pietro di Candia), affresco di Cesare Sermei. 1609-1610 circa.

l’irriducibile Benedetto, prima di morire, aveva obbligato i quattro cardinali che lo sostenevano a dargli un successore. Di questi, tre elessero un nuovo papa con il nome di Clemente VIII, ma il quarto, che si trovava fuori sede, impugnò la nomina, e, accusando i colleghi di simonia, elesse papa, da solo e in segreto, l’arcidiacono Bernard Garnier, con il nome di Benedetto XIV. Mentre Clemente, sull’onda dell’indignazione dell’intera Europa, si dimetteva nel 1429, si svelava per caso (complice Giovanna d’Arco) l’esistenza dell’antipapa «segreto», che veniva costretto a fuggire per mettersi in salvo. Ultimo atto della farsa fu che un certo Jean Farald – forse un cardinale eletto dal Garnier – avrebbe imposto un nuovo «antipapa fantasma» con l’identico appellativo di Benedetto XIV, che poi fu catturato dai sostenitori di Martino V e morí nel 1437 in circostanze che non conosciamo.

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Dossier Peñíscola (Spagna). Particolare della scultura che ritrae l’antipapa Benedetto XIII (Pedro Martínez de Luna, detto anche papa Luna).

rie fazioni violentemente ostili l’una all’altra, trattava il soglio di Pietro come una sorta di propria dependance. A distinguersi, in particolare, erano le famiglie dei Crescenzi e dei conti di Tuscolo. Tresche, assassinii, incesti erano all’ordine del giorno, con la complicità di pontefici dalla scarsissima levatura e dall’infimo profilo morale. Protagonista assoluta di questa stagione fu la spregiudicata Marozia (892-955), concubina e madre di papi che per vent’anni tenne in mano le redini della Santa Sede, della quale dispose a suo piacimento, sfruttando la corruzione e le intemperanze sessuali dei pontefici.

Un processo grottesco

In una Roma ancora sconvolta dal surreale «Sinodo del cadavere», che aveva visto Stefano (896-97) processare e condannare la salma del suo predecessore Formoso (891-96) in S. Giovanni in Laterano (vedi «Medioevo» n. 184, maggio 2012; anche on line su medioevo.it), riusciva momentaneamente a porre ordine Ottone I il Grande (936-973). Nel tentativo di restaurare l’autorità dell’impero, il sovrano emanò un documento fondamentale – il Privilegium Othonis –, in cui riconosceva al neoeletto Giovanni XII (955963), in cambio del titolo imperiale, tutte le donazioni che il papato aveva ricevuto da Pipino e Carlo Magno ed estendeva ulteriormente il territorio posto sotto il controllo temporale del vescovo di Roma. Confermava anche, per iscritto, il suo diritto a ricevere a sua volta dal papa, che era eletto dal clero e dal popolo romano, il giuramento di fedeltà. Se dunque il papa voleva servirsi dell’impero come suo braccio armato – Ottone diventava il difensore della Chiesa romana –, dal canto suo, l’imperatore si assicurava il controllo sul papato. Ma mantenere l’equilibrio, e i fatti lo dimostrarono, non sarebbe stato semplice. Gli antipapi di questo periodo (Cristoforo, Bonifacio VII, Giovan-

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Il castello templare di Peñíscola, scelto quale «sede papale» da Benedetto XIII, che vi morí il 23 maggio 1423 (o, secondo un’altra ipotesi, il 29 novembre 1422).

germanica era prassi ritenere che qualsiasi istituzione ecclesiastica fondata da un laico si dovesse considerare come proprietà (privata) del fondatore, tutti i signori (e soprattutto l’imperatore) che fondavano chiese e monasteri sentivano il diritto di mantenere su di essi un fortissimo ascendente. E cosí come vescovi e abati erano perlopiú scelti dal sovrano, anche i pontefici, in età ottoniana, finirono per essere non solo approvati – come prescritto dal Privilegium –, ma addirittura imposti dagli imperatori stessi.

Il conflitto con l’impero

ni XVI, oltre all’enigmatico Donno II; vedi, per quest’ultimo, il box alle pp. 82-83), sono perlopiú frutto delle contese scoppiate a Roma tra alcune importanti famiglie aristocratiche sullo sfondo (ci riferiamo in particolare a Giovanni XVI detto «Filagato») dei complicati rapporti tra imperatore d’Occidente e basileus d’Oriente, la cui risoluzione naufragò con la scomparsa del giovanissimo Ottone III alla vigilia delle nozze con la nipote di Basilio II Bulgaroctono, la bella Zoe.

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Tornando invece a Ottone I e ai rapporti con il papato e con la Chiesa, la prassi di far giurare ai membri del clero fedeltà all’imperatore determinò alla lunga una forte dipendenza dei primi dal secondo. E se è vero che la forma di investitura feudale era stata, rispetto al passato pagano, «cristianizzata» tramite l’uso del Vangelo e delle reliquie dei santi su cui giurare, lo è altrettanto che l’amministrazione della Chiesa venne «feudalizzata». Ora, poiché nella mentalità

Non stupisce affatto, quindi, che il progressivo inasprirsi della contesa tra i due sommi poteri – cominciata con la cosiddetta «questione delle investiture» e continuata con la ripresa dell’ideale universale dell’impero durante la reggenza di Federico Barbarossa a cui la Santa Sede tentava vigorosamente di sottrarsi –, vide comparire sulla scena anche numerosi antipapi. Tra il 1012, anno della consacrazione di Gregorio VI, spalleggiato dalla potente famiglia romana dei Crescenzi e da Enrico II, e il 1180, quando fu catturato e deposto Innocenzo III, se ne susseguono ben tredici (Benedetto X, Onorio II, Clemente III, Teodorico, Adalberto, Silvestro IV, Gregorio VIII, Anacleto II, Vittore IV, Pasquale III, Callisto III, oltre ai due già citati), molti dei quali di nomina imperiale. Un momento cardine nel contenzioso si ebbe durante il pontificato di Niccolo II (1059-1061), quando il concilio indetto in Laterano, oltre a condannare le piaghe dilaganti di simonia e concubinato, vietò di ricevere cariche ecclesiastiche dalle mani dei laici (e quindi anche dell’imperatore). Si rifiutò

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Dossier Milano, basilica di S. Maria Nascente. Statua di papa Martino V (al secolo Oddone Colonna), eletto nel 1417. Opera di Jacopino da Tradate, 1420-25.

anche ogni intervento laico nell’elezione dello stesso pontefice, che da quel momento in poi sarebbe stato scelto solo da un congresso composto dai titolari delle chiese piú importanti di Roma (i cardinali) e dai vescovi delle diocesi suburbicarie (cioè vicine all’Urbe). La frattura decisiva si consumò nel 1073, quando fu elevato al soglio pontificio Ildebrando di Sovana, già consigliere di Niccolò II, col nome di Gregorio VII (1073-1085): egli rivendicò con forza la sua indiscussa supremazia su ogni altra autorità laica (compreso l’imperatore), la preminenza del pontefice su tutti gli altri vescovi della cristianità e il potere di deporre gli imperatori considerati indegni, sciogliendo di conseguenza i suoi sudditi da ogni vincolo di obbedienza.

L’umiliazione di Canossa

Da parte del papato il tentativo era quello di approfittare della lontananza anche fisica dell’imperatore, impegnato perlopiú in Germania a sedare conflitti interni, per rimarcare progressivamente l’indipendenza della Santa Sede dalla corona. Ma gli imperatori non si erano limitati ad assistere agli eventi e ne erano nate fratture profonde e insanabili, a colpi di scomuniche e deposizioni, la piú epocale delle quali fu l’umiliazione di Enrico IV a Canossa davanti a Gregorio VII. Alla prima occasione, Enrico si era «vendicato», eleggendo un antipapa – il parmense Guiberto, col nome di Clemente III – destinato a regnare per vent’anni. Papi inflessibili da una parte, dunque, e deboli antipapi di creazione imperiale dall’altra, sovente poco piú che pedine in un gioco piú grande di loro. Il tutto proiettato in un

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mondo che stava rapidamente cambiando: i movimenti ereticali, le crociate, le città – che in Italia chiedevano autonomie sempre piú forti nei confronti dell’impero centrale –, i regni nazionali (Inghilterra e Francia) che andavano ritagliandosi un ruolo sempre piú importante sul palcoscenico internazionale, potenze emergenti – come quella dei Normanni nel Mezzogiorno –, che erodevano territori a Costantinopoli (ormai peraltro separata sul piano religioso dall’Occidente a seguito del Grande Scisma del 1054), instaurando con il papato un rapporto peculiare e contraddittorio.

Una tregua virtuale

Le tensioni tra impero e papato continuarono ben oltre il Concordato di Worms (1122) che, almeno sulla carta, aveva posto fine alla lotta per le investiture, decretando per la Chiesa lo svincolo dell’elezione del clero dal controllo imperiale e per l’impero il diritto a investire i prelati di beni fondiari sottoponendoli a obblighi di tipo feudale. Fu antipapa per otto anni Anacleto II (1130-1138), eletto in seno a forti divisioni tra le famiglie romane ben presto trascese a livello internazionale, coinvolgendo, oltre all’impero, anche i Normanni, la Francia e l’Inghilterra, tutti combattuti tra l’obbedienza a lui o al papa autentico Innocenzo II. E un ventennio durò il braccio di ferro tra Federico Barbarossa, teso a restaurare il prestigio e il potere dell’impero, e i pontefici Adriano IV (1154-1159) e Alessandro III (11591181): una contrapposizione che vide succedersi ben tre consecutivi antipapi di creazione imperiale (Vittore IV, Pasquale III, Callisto III), i quali, a loro volta, si innestarono nell’epocale lotta intrapresa dallo Staufer contro le autonomie comunali. La pace, conclusa a Venezia nel 1177, dopo un primo abboccamento ad Anagni, sanciva l’alleanza dei

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due massimi poteri, con il papato che otteneva la conferma di importanti regalie e la rinuncia, da parte dell’imperatore, a ogni pretesa su Roma. E apriva a un secolo e mezzo ricco di tensioni (basti pensare alle scomuniche comminate a Federico II), ma privo di scismi. Morto anche Federico II, lo Stupor Mundi, e tramontato definitivamente con lui il sogno di un impero davvero universale, anche il papato iniziò un lungo periodo di declino: dopo un aspro contenzioso con Filippo IV il Bello (è l’episodio, celeberrimo e controverso, dello «schiaffo di Anagni»), il conclave decise di tenere con la corona francese un atteggiamento conciliante che, complice l’elezione di Bertrand de Got (Clemente V, 1305-1314), portò al trasferimento della sede nel feudo angioino di Avignone. La cattività avignonese (1309-1377) decretò la fine delle velleità teocratiche del papato medievale e fu foriera di nuovi scismi. Dopo la breve parentesi di Niccolò V (1328-1330), ultimo antipapa intronizzato da un imperatore (Ludovico IV il Bavaro), si aprí il Grande Scisma, che per quasi quarant’anni dilaniò l’Occidente.

Le ultime lacerazioni

E questa volta gli antipapi non furono piú nominati da soggetti esterni, ma in seno ai concili stessi, sintomo di una spaccatura ben piú grave e drammatica dentro la Chiesa stessa. Il primo, all’indomani della morte di Gregorio XI (1378) – che aveva riportato il papato a Roma –, fu il cardinale Roberto di Ginevra, che già era stato incaricato di riportare l’autorità pontificia nel Centro Italia: cosa che aveva fatto ricorrendo ai mercenari e meritandosi, per il massacro di Cesena del 1377, addirittura l’appellativo di «boia». Gregorio era spirato lasciando, su influenza di Caterina da Siena, disposizioni per una riforma del collegio cardinalizio atta a ribadire il primato del papa sul collegio e la

sua indipendenza da esso. Quello che si tenne allora fu uno dei conclavi piú drammatici della storia, in cui la folla addirittura assaltò il palazzo e fu respinta solo dall’intervento dei mercenari. Ma il papa che uscí eletto, Urbano VI (1378-1389), dopo un avvio in sordina, impose un giro di vite ai costumi lassisti e principeschi dei prelati, ancora abituati agli sfarzi avignonesi, suscitando un malcontento tale che parte dei cardinali abbandonarono Roma ed elevarono al soglio l’abile e spregiudicato Roberto da Ginevra, che trasferí la sua corte di nuovo ad Avignone. Aveva cosí inizio il Grande Scisma d’Occidente). La lunga vicenda degli antipapi si concluse (salvo un effimero capitolo ai giorni nostri, di cui sono protagoniste figure evanescenti e sostanzialmente autoreferenziali emerse dalla polemica antimodernista instaurata dagli ambienti tradizionalisti contro le linee guida stabilite dal Concilio Vaticano II) solo l’11 novembre 1417, con l’elezione, da parte del concilio di Costanza, di Oddone Colonna: prese il nome di Martino V (1417-1431) e fu il «pontefice della concordia». La scelta, frutto di lunghe trattative e compromessi, ebbe come stella polare la necessità di procedere a una grande riforma della Chiesa, i cui mali erano all’origine di tutti i problemi emersi in quei quattro lunghissimi decenni. Ma di lí a poco gli stessi mali, mai realmente sanati, diedero origine a una nuova e ancora piú radicale spaccatura nella cristianità: all’orizzonte già si profilavano Martin Lutero e la Riforma. V

Da leggere U Elena Percivaldi, Gli antipapi.

Storia e segreti, Newton Compton, Roma 2014 (disponibile anche nella versione e-book)

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medioevo nascosto s. giovenale Un intervento di restauro appena ultimato ha riportato all’antico splendore la chiesa orvietana di S. Giovenale. Un vero e proprio scrigno, che custodisce affreschi tre-quattrocenteschi di mirabile fattura

Dipingere con l’anima «L’ L antica chiesa, che nel corso dei secoli è andata soggetta a deprecate espoliazioni artistiche, è una originale costruzione romanica, che si erge sul ciglio della rupe orvietana, la fronte rivolta a occidente. Dalla solitaria piazzetta antistante, cinta dal verde di orti e da vicoli silenziosi, si domina, come da un balcone, la cerchia delle colline sorgenti sull’angusta valle del Riochiaro». Cosí scriveva il sacerdote Carlo Pacetti in apertura della monografia dedicata a S. Giovenale e pubblicata per la prima volta nel 1937. Il fascino che affiora dalle sue parole è rimasto intatto e per chi, a Orvieto, cerchi un luogo di meditazione e preghiera, non potrebbe esserci scelta migliore. Le dimensioni contenute, l’essenzialità delle forme architettoniche, l’apparente ingenuità dei cicli pittorici che ornano la chiesa, il senso della profondità storica emanato dall’edificio sacro creano infatti un’atmosfera

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In alto Orvieto. La chiesa di S. Giovenale, fondata, secondo la tradizione, nel 1004, probabilmente su un tempio preesistente.

di Giuseppe M. Della Fina

Nella pagina accanto affresco della controparete della navata sinistra raffigurante san Giovenale, che fu vescovo di Narni. XIV sec.

di raccoglimento particolare. A tutto ciò si aggiunge ora la possibilità di visitare il monumento dopo l’importante intervento di restauro che l’ha interessato e ha dato nuova luce alle sue pareti affrescate a partire dal terzo quarto del XIII secolo.

Fondazione o ri-fondazione?

Una tradizione – ben radicata nell’erudizione locale già dal Cinquecento – vuole che S. Giovenale sia stata fondata nel 1004, ma si trattò, probabilmente, di una rifondazione, poiché un edificio sacro precedente sembra

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attestato dalla presenza di reperti lapidei di spoglio che presentano motivi a treccia tipici dell’età carolingia. La sacralità del luogo si può comunque far risalire molto piú indietro nel tempo: resti archeologici rinvenuti nell’area segnalano infatti la presenza di un tempio già in epoca etrusca ed è stato anche ipotizzato che nella zona si trovasse un santuario di Giove, la cui esistenza potrebbe aver influenzato la scelta di dedicare la chiesa proprio a san Giovenale. Si tratta di una congettura forse semplicistica, ma resta la suggestione di una continuità di culto che si ripete altrove in città come, per esempio, nella chiesa di S. Andrea, nel cui sito gli scavi degli anni Venti e Sessanta del Novecento hanno portato alla luce resti di epoca etrusca, romana e altomedievale.

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In alto, a sinistra l’interno della chiesa, suddiviso in tre navate e decorato da affreschi databili dal XIII ai primi anni del XVI sec. A destra cartina di Orvieto con, in evidenza, la chiesa di S. Giovenale. Un’ipotesi, suggestiva, ma a oggi priva di riscontri certi, vuole che l’edificio sia sorto nel sito occupato, in età antica, da un tempio dedicato a Giove.

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L’altare maggiore L’altare maggiore della chiesa di S. Giovenale è stato assemblato nel XII sec.: la fronte è costituita da una lastra, montata capovolta, databile, sulla base della decorazione, al IX sec.; i pilastrini angolari e i capitelli figurati sono romanici. Un’iscrizione sul fianco destro ricorda i nomi dell’abate Guido e di un certo Bernardo e reca la data del 1170.

Qui sopra, sulle due pagine due nicchie della navata destra, con affreschi del XIV sec., tra cui una Maestà (Madonna in trono con Bambino) datata 1305. In primo piano, un pilastro, con scena di Annunciazione del XIII sec.

In ogni caso la documentazione d’archivio attesta che la chiesa era definita parrocchiale nel 1028 e che, dalla fine del XII secolo, era sottoposta al patronato dell’Ordine di San Guglielmo, nel quale veniva osservata la regola agostiniana. Il culto del santo si era esteso nella diocesi di Orvieto tra il 1174 e il 1181, per impulso del vescovo Martino da Grosseto, molto legato alla sua figura e ai seguaci. Tali eventi influenzarono le trasformazioni architettoniche e artistiche della chiesa.

La testimonianza di Pio II

Altrettanto peso hanno avuto le vicende storiche, economiche e sociali del Comune di Orvieto: dalla sua rapida e decisa ascesa – culminata nella scelta di costruire, nel 1290, una Cattedrale destinata a rivaleggiare con le maggiori del tempo – sino alla crisi profondissima dovuta alle insanabili divisioni prima tra i Guelfi (raccolti intorno alla famiglia Monaldeschi) e i Ghibellini (capitanati dai Filippeschi), e poi all’interno della famiglia guelfa. Il pontefice Pio II, in visita alla città nel settembre del 1460, annotò nei suoi Commentarii: «Quivi sorgevano splendide case di cittadini e ampi palazzi in bozze di pie-

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tra. Il tempo ne ha distrutti molti, piú ancora furono incendiati e devastati dalle lotte civili. Restano ora le torri semidistrutte e le chiese crollate». Ma passiamo a osservare la chiesa piú da vicino, proprio dalla solitaria piazzetta antistante, ricordata da Pacetti: la facciata è del tipo a capanna ed è sormontata, anzi in parte celata, da una torre campanaria, sviluppatasi intorno a una struttura piú antica, eretta a controllo della valle sottostante. L’interno si presenta suddiviso in tre navate, separate da colonne di tufo con capitelli ad anello su cui s’impostano archi a tutto sesto. Esaminando le strutture, ci si rende conto che la chiesa venne ampliata nell’ultimo quarto del XIII secolo e l’intervento modificò sensibilmente la zona presbiteriale. Fasi diverse si colgono anche nella decorazione pittorica, che costituisce il principale motivo di attrazione: non è un caso che lo studioso orvietano Pericle Perali (1884-1989) ebbe a descriverla come il «vero malversatissimo museo storico della pittura in Orvieto nel secolo XIV». Il «malversatissimo» non era un aggettivo a effetto: gli affreschi di S. Giovenale hanno subito nei secoli ripetute aggressioni: scalpellinature, umidità eccessiva, ad-

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medioevo nascosto s. giovenale A sinistra la cappella in cui era conservato il prezioso reliquiario del cranio di san Savino, realizzato tra il 1340 e il 1345 da Ugolino di Vieri e

Viva di Lando, oggi al Museo dell’Opera del Duomo. In basso il primo pilastro della navata sinistra, affrescato con una Crocifissione. XIII sec.

Nella decorazione della chiesa, le fasi piú significative, che dobbiamo ad autori ignoti, sono comprese tra il XIII e il XIV secolo

dirittura una mano di calce stesa nel 1632 per ordine del priore intenzionato cosí a rimodernare la chiesa – ormai fatiscente nella descrizione che ne fece al suo vescovo – e tenerla al passo con le nuove tendenze artistiche.

Maestri senza nome

La prima fase decorativa viene fatta risalire agli anni 1250-1275 e vide impegnati artisti rimasti anonimi e conosciuti solo attraverso definizioni di comodo: il Maestro della Maestà dei Servi e il Maestro dei Santi Severo e Martirio, ai quali si aggiunsero altri pittori che ne risultano influenzati. La seconda fase non è lontana cronologicamente ed è riferibile agli anni a cavallo tra il Duecento e il Trecento: diversi dipinti sono attribuibili a maestranze attive nella bottega del Maestro della Madonna di San Brizio, il cui stile risulta aggiornato rispetto alle novità artistiche maturate a Roma e Oltralpe. In questa temperie stilistica e cronologica s’inseriscono un raro Lignum Vitae, dipinto in controfacciata; un gigantesco San Cristoforo, raffigurato sulla parete sinistra; un San Guglielmo di Malavalle, il fondatore dell’Ordine dei Guglielmiti, posizionato a destra dell’abside; una Conversione di San Paolo, rappresentata sul pilastro proprio di fronte.

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I Dieci Comandamenti

Un decalogo in volgare Nel sottoarco della campata ogivale è raffigurato san Guglielmo di Malavalle vestito di un saio bianco. Proprio sotto la sua figura, in volgare del tardo Duecento, sono riportati i Dieci Comandamenti: . Non adorare Dii haltrui Non recetarae lu nome sancto invano de Dio tuo Fae aricordamento de ariposare lu sabato Onora lu patre tuo e la matre tua Non occidarae Non farae peccato carnale Non farae furtu Non farae falsu testimoniu co lu parlare tuo Non desiderarae la mogliera de lu prosimu tuo Non desiderarae la robba de lu prosimu tuo . Il terzo momento decorativo si colloca nella prima metà del Trecento quando operarono pittori che mostrano di avere assimilato il linguaggio figurativo di Simone Martini e Lippo Memmi – è il caso del San Ludovico di Tolosa – o di Pietro Lorenzetti, la cui lezione si può individuare nella Crocifissione che figura in apertura della parete di sinistra. La quarta fase, databile dalla seconda metà del Trecento ai primi anni del Quattrocento, è dominata dalla figura di Ugolino di Prete Ilario: ai suoi collaboratori e continuatori possono essere ascritti il maggior numero degli affreschi tuttora presenti nella chiesa. In tale temperie risulta particolarmente attivo Piero di Puccio. Nel periodo successivo, riferibile alla

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Il Decalogo in volgare tardo-duecentesco, affrescato nel sottarco della campata ogivale, in prossimità dell’altare maggiore.

prima metà del Quattrocento, vanno inserite le opere assegnate di recente a Pietro di Nicola Baroni, come la Santa Caterina di Alessandria, unico dipinto superstite della decorazione dell’abside.

Le ultime fasi della decorazione

Un intervento ulteriore, che interessò il registro superiore della navata centrale, fu eseguito negli anni iniziali del Cinquecento (il lavoro deve essersi concluso entro il 1505) per volontà del canonico Antonio Alberi, che collaborò con Luca Signorelli nella scelta dei temi da dipingere nella Cappella Nova del Duomo di Orvieto e che dotò la Cattedrale di una libreria anch’essa restaurata di recente. E proprio maestranze legate al Signorelli devono avere eseguito i grandi tondi raffiguranti gli Evangelisti e i santi Guglielmo, Savino, Giovenale e Pietro. Altri lavori, d’impegno spazialmente piú limitato, vennero portati avanti durante il Cinquecento e il Seicento, come la Crocifissione tra i santi Savino e Marco, dipinta sulla parete di fondo della cappella di S. Savino. Al 1739, infine, appartengono le quattro croci di riconsacrazione. Siamo insomma di fronte a dipinti di epoche diverse e a maestri di capacità differente, ma, osservandoli, si può concordare con il poeta Tommaso Gnoli, quando diceva che: «Si dipingeva con l’anima nel piccolo San Giovenale». Il restauro della chiesa S. Giovenale, iniziato nel 2010, si deve alle Soprintendenze per i Beni Storici e Artistici e ai Beni Architettonici e Paesaggistici dell’Umbria ed è stato eseguito con fondi della Presidenza del Consiglio dei Ministri. F

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Nella città di re Sancho

cartoline • Il Museo Diocesano di Jaca, in Aragona, custodisce un patrimonio

ricchissimo e, soprattutto, offre la spettacolare ricostruzione della chiesa di Bagues, che vanta una straordinaria Biblia Pauperum, affrescata sul finire dell’XI secolo


Qui accanto la sala di Bagues, con i magnifici affreschi della chiesa parrocchiale, che formano il piú vasto insieme di pittura romanica della Spagna. Nella pagina accanto l’ex Refettorio (in alto), nel quale sono esposti affreschi di varia provenienza e la Biblioteca, che accoglie la sezione dedicata al Gotico.

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n epoca romanica, lo sviluppo della pittura murale nell’Europa mediterranea si manifestò con schemi regionalmente differenziati, anche se il modello figurativo bizantino rappresentò un referente comune, facendo sentire la sua autorità iconografica e formale. La Spagna irruppe sulla scena artistica pittorica tra l’XI e il XII secolo, soprattutto grazie all’accelerazione dei contatti politici favoriti dalla Reconquista dei territori occupati dagli Arabi e dagli scambi lungo le vie di pellegrinaggio verso Santiago de Compostela. In particolare, nei territori dei regni cristiani del Nord, l’indirizzo antinaturalistico locale si inserí nella tradizione carolingia, dando vita a una tendenza espressionistica nuova, che superava i modelli di riferimento occidentali e orientali da cui derivava. Nacque un’arte «internazionale», che avanzava dalla montagna verso valle, penetrando in Aragona, fino a Jaca, per poi dirigersi in terra navarra, fornendo un prolifico serbatoio, a testimonianza della ristabilità libertà. Nel 1077, divenuta capitale del

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regno aragonense e sede vescovile per volere del re Sancho Ramirez, Jaca comincia la costruzione del suo complesso cattedralizio, che tuttora conserva il primitivo impianto, nonostante alcune modificazioni sopraggiunte nel corso del tempo. Allo stesso periodo è da ricondursi anche la parrocchiale di Bagues, villaggio distante circa 40 km, dedicata a san Giuliano e Basilissa, il cui interno viene interamente affrescato tra il 1080 e il 1096 da un artista sconosciuto, forse originario della Francia occidentale.

Una replica perfetta Qualità, estensione e conservazione fanno di questo insieme pittorico, oggi ospitato dal Museo Diocesano di Jaca, un punto di riferimento a livello mondiale, nonostante la perdita di alcune porzioni. La cosiddetta sala di Bagues riproduce esattamente le stesse dimensioni della chiesa di provenienza, offrendoci una delle massime espressioni di arte romanica, inserita in uno spazio espositivo di oltre 2000 mq, corredato da manufatti medievali,

Dove e quando

Museo Diocesano de Jaca Jaca, plaza de la Catedral Orario 02/01-15/06 e 15/09-31/12: lu-ve, 10,0013,30 e 16,00-19,00; sa, 10,00-13,30 e 16,00-20,00; do, 10,00-13,30 16-30/06 e 1-14/09: lu-sa, 10,00-13,30 e 16,00-20,00; do, 10,00-13,30; 01/07-31/08: tutti i giorni, 10,0014,00 e 16,00-20,30 Info www.diocesisdejaca.org recuperati da vari edifici religiosi della diocesi di Jaca. Gioiello della collezione museale, il ciclo di affreschi rappresenta la piú completa Biblia Pauperum, realizzata in un tempio romanico, concepita proprio per «spiegare», attraverso le immagini, la storia della Bibbia agli analfabeti. La traduzione visiva propone un programma iconografico che vede la concordanza tra i due Testamenti, secondo un uso già attestato in epoca paleocristiana. Suddivise in quattro registri sovrapposti su entrambi i lati,

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caleido scopio A sinistra la sezione del museo dedicata alla scultura, con opere databili al XII e XIII sec. In basso particolare del capitello romanico con Re David e i Musici. XII sec.

le scene si svolgono in forma di fregio continuo, senza separazioni verticali. Il registro superiore è dedicato all’Antico Testamento, con episodi che vanno dalla Creazione di Adamo ed Eva alla Preghiera di ringraziamento di Noè, mentre gli altri tre livelli ci parlano del Nuovo Testamento, dall’Annunciazione alla Passione di Cristo, per arrivare alla Resurrezione e Ascensione, posti nella zona absidale. Oltre alle pareti, la composizione narrativa, eseguita a fresco con finiture a secco, occupa l’arco trionfale, la strombatura delle finestre settentrionali e meridionali e il timpano della porta d’ingresso. Rigore ed energia delineano i composti personaggi, per i quali è stata utilizzata la gamma degli ocra, enfatizzata dai toni blu e verdi per i fondi a fasce

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della decorazione. Testimonianze culturali preziose, le pitture murali di Bagues sono accompagnate da altri pregevoli reperti che provengono da alcuni villaggi della regione jachense, a formare un singolare unicum artistico, esposto in dieci ambienti che si dipartono dal chiostro romanico della cattedrale, ritornato alla primaria funzione di deambulatorio, che custodisce anche il capitello di Re David e i Musici, documento di alto valore per la rappresentazione di vari strumenti del XII secolo.

La storia della diocesi Il percorso si snoda attraverso la sala della Torretta che presenta gli Atti relativi alla storia della diocesi di Jaca, spiegata anche da una postazione multimediale all’interno della sala del Capitolo,

adiacente alle cosiddette Cappelle dei chiostri, la cui divisione muraria è qui simulata mediante vetrine che propongono una selezione di sculture lignee romaniche, tra cui emerge la Vergine di Santa María di Iguácel oltre a due Crocifissi di grandi dimensioni provenienti da San Michele di Ardisa e da Seo. È, però, nell’ex Refettorio dei Canonici, l’ambiente piú grande del museo, che hanno trovato posto le duecentesche pitture di Osia che trattano in modo completo la vita e il martirio di santa Lucia, insieme all’abside che proviene dalla chiesa di S. Giovanni Battista di Ruesta, con la caratteristica iconografia del Cristo in Maestà, seduto e benedicente con la mano destra, circondato dalle sette lampade dell’Apocalisse e accompagnato dai simboli del Tetramorfo e da un gruppo di Serafini a guardia del Trono. Ognuna delle sezioni delle pareti laterali, separate da archi diaframma, accoglie pannelli di legno che, come pale d’altare, espongono i frammenti conservati del resto degli insiemi di pittura murale della fondazione: Navasa, Urriés, Sieso, Cerésola, Ipas, Sorripas e Concilio. Opere riconducibili a Gotico, Rinascimento e Barocco, tra cui notevoli pezzi di oreficeria del tesoro liturgico della chiesa, sono invece visibili al piano superiore del museo. Mila Lavorini gennaio

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Lo scaffale Statuto del Comune di Cortona (1325-1380) edizione a cura di Simone

Allegria e Valeria Capelli, Leo S. Olschki Firenze, Olschki, 564 pp.

55,00 euro ISBN 9788822263193 www.olschki.it

Sita sulle pendici dei monti che separano la Valchiana dalla Val Tiberina, e minacciata costantemente da Arezzo, Siena e Perugia, Cortona, nel Basso Medioevo, era uno dei «centri

minori» piú popolosi e importanti dell’area, tanto da riottenere la sede vescovile nel 1325, dopo essere rimasta per quasi nove secoli inglobata nella diocesi aretina. E non casualmente, forse, il 1325 fu anche l’anno di promulgazione del suo primo statuto, qui pubblicato e corredato di tutte le aggiunte fino al 1380, nonché illustrato dai saggi introduttivi di Andrea Barlucchi, Pierluigi Licciardello e Lorenzo

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Tanzini, sugli aspetti politici e istituzionali , economici e religiosi che ne emergono. Il terzo decennio del XIV secolo fu dunque un periodo cruciale per la città in cui si andava definendo la sua identità urbana in concomitanza con il ripristino della sede vescovile. Negli stessi anni furono compilati i nuovi statuti di molti altri centri urbani della Toscana (come Siena): le tensioni militari e diplomatiche che caratterizzarono questa fase di riposizionamento degli schieramenti guelfi e ghibellini, infatti, ebbero come conseguenza il tentativo di consolidare in questo modo le identità cittadine, ed erano contemporaneamente espressione della piena maturità istituzionale dei regimi di popolo. Uno degli elementi principali che emergono dalla compilazione statutaria è il ruolo di primo piano, sia economico che politico, delle Arti (ben 12, tra cui una potente corporazione laniera), i cui rappresentanti erano al governo in quegli anni. Nello statuto rivestono perciò un’importanza particolare le norme volte a favorire

l’economia cittadina, come quelle protezionistiche per agevolare la manifattura tessile cortonese. Tra le arti di cui si regolamenta l’attività c’erano in primo luogo quelle annonarie (fornai, mugnai, macellai e lardaroli), e quella, altrettanto importante, degli speziali, anch’essi soggetti a particolari controlli e regolamenti. Venivano poi previste, a tutela della collettività, la nomina di un medico e di un maestro di scuola retribuiti dal comune, l’esistenza di un carcere e la buona gestione degli ospedali cittadini. Ugualmente erano oggetto di specifiche norme i calzolai, i fonditori di campane, i lavoratori del legno, (materia prima che scarseggiava per i disboscamenti devastanti, ed era sottoposta perciò a particolari restrizioni), i lavoratori del lino e del cotone, e soprattutto la manifattura laniera, la cui produzione, di qualità mediobassa, veniva favorita da severe norme volte a impedire l’importazione di prodotti di tipo analogo, lasciando libero invece il commercio dei

panni di pregio. Per il resto Cortona appare un importante centro di scambio delle granaglie, di produzione del vino (sia bianco che rosso), dell’olio, della frutta (fichi in particolare), e del materiale tintorio (guado e soprattutto robbia) che si accaparravano in gran parte i mercanti fiorentini e aretini a discapito dei produttori locali. Un altro tema ricorrente è quello delle difficoltà economiche e della struttura finanziaria fragile del Comune cortonese dovuta all’assenza di una fiscalità diretta solidamente organizzata, per cui le risorse venivano tratte soo dai dazi e dalla gestione dei beni demaniali. Problema a cui si ricollegava quello della sicurezza militare della città: la mancanza di risorse, infatti, rendeva impossibile pagare un numero sufficiente di uomini che garantissero la difesa delle mura, nel momento in cui la minaccia di Arezzo e del suo vescovosignore Guido Tarlati (che ambiva a recuperare Cortona sotto la sua diocesi) era al culmine. Maria Paola Zanoboni

Severina Russo (a cura di) La Bibbia di Calci Un capolavoro della miniatura romanica in Italia

Edizioni ETS, Pisa, 141 pp., ill col. e b/n

20,00 euro ISBN 978-884674063-2 www.edizioniets.com

Il volume saluta il ritorno a casa di un capolavoro della miniatura medievale, la Bibbia realizzata per il monastero pisano dei SS. Vito, Gorgonio e Melchiade a partire

dal 1168 ed entrata in possesso della Certosa di cui porta il nome nel 1425. L’opera si compone di quattro tomi e, salvo l’asportazione di una pagina, ci è giunta sostanzialmente integra. La sua vicenda viene dunque qui ripercorsa, affiancando alla ricostruzione degli eventi piú significativi l’analisi del manoscritto, sia dal punto di vista contenutistico che formale. Stefano Mammini

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caleido scopio

L’Europa al ritmo di danza musica • Quali melodie accompagnavano la pratica

coreutica? Ricca e variegata era la scelta, come dimostra l’ultima fatica discografica dell’Accademia del Ricercare, in cui si amalgamano sapientemente studio filologico delle fonti e brillantezza interpretativa

P

rogredendo di pari passo con lo sviluppo della musica, l’attività coreutica si è andata affermando sia come espressione popolare di puro svago, sia come espressione raffinata della cultura di corte, senza tralasciare le sue implicazioni con la ritualità. Ma è nel Cinquecento che la musica per danza si sviluppa in maniera specifica, grazie alla graduale emancipazione del linguaggio strumentale che, sino ad allora, si era ispirato alla musica vocale, imitandola e trascrivendola. Nel XVI secolo appaiono anche i primi trattati dedicati alla musica strumentale – soprattutto danze – nei quali emerge il tentativo di rendersi sempre piú autonoma dalla musica vocale.

danza dovette conoscere sin dagli inizi del XVI secolo. Grazie a una scelta di composizioni tratte da manoscritti e da stampe coeve, l’itinerario musicale si snoda attraverso le principali aree geografiche in cui il repertorio ebbe

Tripudio di sonorità

Un repertorio di successo A questa fase storica è dedicata la spumeggiante antologia Danze a stampa del Rinascimento europeo (STR 33988, 1 CD, www. stradivarius.it) con l’Accademia del Ricercare diretta da Pietro Busca in un’avvincente lettura di questo repertorio. La varietà dei brani e degli stili che si alternano all’ascolto rendono appieno l’idea del successo che questo repertorio legato alla

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riportano sei brani anonimi che ci presentano alcune delle forme di danza piú praticate all’epoca: pavane, gagliarde e branle (un genere di origine medievale e fortemente imparentato alla bassadanza, che si eseguiva a coppie disposte in fila o in circolo). Per la tradizione francese non potevano mancare brani del compositore/stampatore musicale Pierre Attaingnant (1494-1552), che rappresentò una vera fucina di produzione musicale per la sua epoca, lasciando celeberrime hit, come la Tourdion – l’equivalente del saltarello italiano –, qui presentata in abbinamento alla piú solenne bassadanza La Magdalena. All’ambiente francese ci riportano anche le tre branle di Claude Gervaise (1525-1583). Alla tradizione tedesca si rifanno le composizioni di Michael Praetorius (1571-1621), grande teorico e organologo, di cui ascoltiamo cinque brani, tra cui la Pavana di Spagna.

diffusione: l’Italia, la Francia e la Germania. Se simili, pur nella loro grande varietà, risultano i generi proposti nelle varie zone d’Europa, restano comunque percepibili alcune differenziazioni stilistiche anche in merito alla prassi esecutiva. All’ambiente di corte italiano ci

Diversissime sono le atmosfere che si respirano in questo florilegio di stili, ritmi e combinazioni strumentali saggiamente scelte dall’Accademia del Ricercare a sottolineare le peculiarità di ogni brano. Ricco anche il campionario strumentale che vede in primis la «famiglia» del flauto (flauti soprani, alti, tenori, bassi) alternarsi/combinarsi con strumenti d’origine medievale come virginale, viola, cornamusa, cromorno, liuto, vihuela e percussioni, in un vivace tripudio di sonorità e colori. L’Accademia del Ricercare, impegnata tanto nel versante concertistico quanto in quello educativo/formativo, si conferma ancora una volta tra i migliori gruppi nel panorama italiano della musica antica. Franco Bruni gennaio

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musica •

Guidato da Marcel Pérès, l’Ensemble Organum ha confezionato un’antologia preziosa, che offre un saggio significativo del poco noto repertorio corso

Corsica sacra U

na voce solista intona il Kyrie eleison, brano di apertura del ciclo della messa; poche battute, ed ecco entrare altre due voci a distanze intervallari di terza e quarta ad arricchire, in una sorta di bordone, la melodia principale. Con una sonorità e un intreccio polifonico fortemente arcaici, il disco Chant corse. Manuscrits franciscains (HMA 1951495, 1 CD, www.harmoniamundi.com) propone un ascolto piuttosto raro, in cui la tradizione sacra, e in particolare la monodia d’influenza gregoriana, assume stilemi fortemente legati alla tradizione popolare corsa. Inevitabile è il raffronto con la dimensione popolare di questo repertorio, per il quale, probabilmente, l’isolamento culturale e una serie di circostanze storiche hanno contribuito alla nascita di una prassi musicale piuttosto insolita nel suo porsi in bilico tra elementi colti e popolari.

Di generazione in generazione Originale e di grande fascino, questo progetto discografico curato da Marcel Pérès alla direzione dell’Ensemble Organum nasce dal tentativo di recupero del canto tradizionale corso e, in particolare, della prassi polifonica orale, dettata da regole che si sono tramandate per secoli. Peculiare è anche la scelta del repertorio eseguito, che vede protagonisti brani della tradizione francescana tratti da alcuni libri conservati alla Biblioteca Provinciale Francescana di Bastia, tra cui la Cantilena del Convento di Niolo e il Manuale Choricanum. E furono proprio i Francescani a giocare un ruolo decisivo, dopo il Concilio di Trento, nel diffondere lo stile del canto fratto, in cui le melodie gregoriane prive di divisione ritmica venivano

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gennaio

adattate alla mensuralità della battuta, creando un «ordine» ritmico all’interno di un repertorio nel quale, in precedenza, l’andamento era dettato dalla prosodia e non dagli accenti delle battute musicali. Variegata risulta la scelta dei brani che, oltre a parti della Missa defunctorum, comprende partiture tratte dall’Ordinarium Missae e pezzi legati alla tradizione francescana come il Paschalis Admirabilis – un responsorio per la Memoria di San Pasquale Baylon (frate francescano) –, il Laeta devote e il Tantum ergo sacramentum.

Un repertorio da riscoprire Eccezionale è il risultato artistico dell’operazione che, attraverso lo studio delle fonti e grazie alla collaborazione con l’associazione E Voce di u Commune di Pigna e l’Atelier pour la recherche et l’interprétation des musiques médiévales, ha saputo resuscitare le perdute dimensioni sonore di un repertorio ancora da scoprire. Fondato nel 1982, l’Ensemble Organum è oggi una delle punte di diamante per quel che concerne l’esecuzione del canto monodico nelle sue differenziazioni regionali (canto romano antico, beneventano, ambrosiano), nonché della polifonia medievale; un’esperienza che, oltre ad aver portato alla realizzazione di incisioni prestigiose, come quella qui proposta, si accompagna a un’intensa attività musicologica e didattica che fanno di questo gruppo uno dei piú attivi nel campo della ricerca e dell’interpretazione della musica dell’età di Mezzo. F. B.

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