La pe m fo ru ag n gi gi ta a o na re
UN PASSATO DA RISCOPRIRE
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Le intuizioni di
Dante
scienza e tecnologia nella divina commedia
immaginario Il mistero dell’unicorno
Arezzo
Una moderna città del Duecento
La guerra nel medioevo
Minacce dall’Oriente
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guerra/2: bizantini e carolingi unicorno fontana maggiore di perugia arezzo dossier dante tecnologico
scoperte
Mens. Anno 19 numero 218 Marzo 2015 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
MEDIOEVO n. 218 MARZO 2015
EDIO VO M E
sommario
Marzo 2015 ANTEPRIMA
luoghi
almanacco del mese
5
saper vedere Perugia Il racconto della fontana
ricorrenze Regina d’Alsazia
6
mostre Dalla Svevia all’Europa
8
restauri Quel sublime candore
10
appuntamenti Qual è la portantina piú bella del contado? Talami e Misteri Processioni sul mare L’Agenda del Mese
di Furio Cappelli
12 14 16 20
STORIE la guerra nel medioevo/2 Come un tris d’assi di Federico Canaccini
28
28
AREZZO Con quella piazza un po’ cosí... di Federico Canaccini
immaginario L’unicorno
Meravigliosa creatura di Cesare Capone
40
50
88
CALEIDOSCOPIO itinerari Sulla Rota giusta
104
libri Lo scaffale
110
musica Accoppiata vincente Balli e indulgenze
112 113
Dossier
dante: sommo ingegnere Scienza e tecnologia nella Divina Commedia di Flavio Russo
COSTUME E SOCIETÀ
50
65
MEDIOEVO Anno XIX, n. 218 - marzo 2015 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Tel. 02 0069.6352 Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Alessia Pozzato Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Cesare Capone è giornalista e saggista. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Mila Lavorini è giornalista. Stefania Romani è giornalista. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Tiziano Zaccaria è giornalista.
32/33; A. Dagli Orti: pp. 49, 66, 81, 82; S. Vannini: pp. 102-103 – Giorgio Albertini: disegni alle pp. 32, 33 – © CUS/Engel: p. 6 (alto) – © CUS/Henry: p. 6 (centro) – © Atout France/Pierre Torset: pp. 6 (basso), 7 – © Musée du Louvre, dist. RMN-Grand Palais/Pierre Philibert: p. 8 (sinistra) © Martine Beck-Coppola: p. 8 (destra) – © Musée du Louvre, dist. RMN-Grand Palais/Thierry Ollivier: p. 9 (sinistra) – © Museum für Kunst und Gewerbe, Amburgo: p. 9 (destra) – Cortesia dell’autore: pp. 10 (alto), 11, 14, 68-69, 70/71, 72 (basso), 74-75, 76 (destra), 77, 79 (basso), 85 (alto), 86 (sinistra), 87 (basso) – Doc. red.: pp. 10 (basso), 12 (basso), 28-30, 36, 38, 38/39 (basso), 58, 67, 70, 93, 96 – Fausto Compagnoni: pp. 12 (alto), 13 – Cortesia Malta Tourism Authority: p. 16 – Bridgeman Images: pp. 42-45, 73 (alto), 76 (sinistra), 84, 86 (destra), 95; Werner Forman Archive: pp. 34-35, 37, 39; Costa/Leemage: p. 80 – Archivi Alinari, Firenze: pp. 57, 59, 60/61; RMN-Grand Palais (Musée de Cluny- Musée national du Moyen-Âge)/ Gérard Blot: pp. 46/47 (alto); Muséum national d’Histoire naturelle, Dist. RMN-Grand Palais/image du MNHN, bibliothèque centrale: pp. 46/47 (basso) – Foto Scala, Firenze: su concessione MiBACT: p. 48 – Shutterstock: pp. 50/51, 52/53, 58/59, 73 (basso), 88/89, 92/93, 97-99, 104 (alto) – Marka: Danilo Donadoni: p. 52; Ernst Wrba/ imageBROKER: p. 54; Alamer: p. 61; Bildagentur-Online: p. 94 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 56/57; Album: p. 85 (basso); Leemage: p. 87 (alto); Electa/Sergio Anelli: pp. 100/101 – Corbis Images: Arte & Immagini srl: pp. 62-63; Rolf Haid/dpa: p. 72 (alto) – E. Lessing Archive/Magnum/Contrasto: pp. 82/83 – Massimo Tosi: disegno alle pp. 90/91 – Getty Images: EyeOn: p. 92 – Stefano Mammini: pp. 104 (basso), 105, 108 (alto e basso, a sinistra), 109 (alto) – Cortesia Rota do Românico: pp. 106107, 108 (basso, a destra), 109 (basso) – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 31, 37, 55, 104.
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In copertina Orvieto, Duomo, Cappella Nova. Ritratto di Dante realizzato ad affresco da Luca Signorelli
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Nel prossimo numero la guerra nel medioevo
storie
A cavallo dell’anno Mille
I martiri negati
protagonisti
dossier
Giovanni dalle Bande Nere
La vera storia del Sacro Graal
Almanacco del mese
a cura di Federico Canaccini
1 marzo 1444
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Giorgio Castriota, detto Scanderbeg, è proclamato comandante della resistenza albanese contro gli Ottomani U
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2 marzo 986
3 marzo 1426
U
4 marzo 1152
Venezia dichiara guerra alla città di Milano
U
18 marzo 1314
U
19 marzo 1279
La vittoria mongola a Yamen pone fine alla dinastia Song in Cina
5 marzo 493
Dopo un lungo assedio, Ravenna si arrende a Teodorico
U
6 marzo 1475
U
Nasce a Caprese (presso Arezzo) Michelangelo Buonarroti
7 marzo 1274
U
U
8 marzo 410
Ad Alessandria, la filosofa Ipazia viene uccisa dai cristiani U
9 marzo
U
10 marzo 1302
U
11 marzo 1387
20 marzo
21 marzo 1413
Enrico V Lancaster è eletto re d’Inghilterra
Muore Tommaso d’Aquino, autore della Summa Theologiae U
17 marzo 624
L’ultimo Gran Maestro dei Templari, Jacques de Molay, viene arso sul rogo a Parigi
Federico Barbarossa viene eletto re dei Tedeschi U
16 marzo 1244
Nella battaglia di Badr (presso Medina), Maometto consegue la sua prima vittoria
Luigi V, detto l’Ignavo, cinge la corona di re dei Franchi U
U
A Montsegur vengono arsi vivi circa 200 catari
U
U
22 marzo
U
23 marzo
U
24 marzo
25 marzo 1409
Si apre il Concilio di Pisa, voluto per sanare il Grande scisma d’Occidente e che invece finisce con l’aggravarlo
Dante Alighieri è condannato all’esilio
U
Battaglia di Castagnaro tra le truppe di Verona e di Padova U
26 marzo
27 marzo 1306
12 marzo 604
Robert Bruce è incoronato re di Scozia
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13 marzo 1516
Bande di Vichinghi saccheggiano Parigi
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14 marzo 1492
U
Muore papa Gregorio Magno
U
Carlo V sale al trono di Spagna
U
Isabella di Castiglia ordina la conversione o l’espulsione di 150 000 ebrei dalla Spagna U
28 marzo 845 29 marzo
U
30 marzo 1282
U
31 marzo 1492
A Palermo esplode la rivolta dei «Vespri Siciliani»
15 marzo 1493
Di ritorno dal primo viaggio nelle Indie, Cristoforo Colombo approda a Palos
Ferdinando il Cattolico decreta l’espulsione definitiva degli Ebrei dalla Spagna
.
Ante prima
Regina d’Alsazia ricorrenze • Strasburgo, la «città delle
strade», festeggia i mille anni della sua magnifica cattedrale. Un’occasione per scoprire un capolavoro dell’architettura gotica, di cui recenti scavi archeologici hanno individuato i nobili precedenti
S
imbolo della città e dell’intera Alsazia, la cattedrale di Strasburgo, fra le piú note della Francia, festeggia i mille anni dalla fondazione, con un calendario fitto di iniziative (vedi box alla pagina accanto). Il monumento, piú volte rimaneggiato in età medievale, vanta una struttura gotica maestosa, che domina l’abitato cittadino, segnandone lo skyline con i suoi 142 m d’altezza. Ormai accreditatasi come capitale politica del Vecchio Continente, Strasburgo, nel Basso Reno, è sempre stata crocevia dell’Europa continentale, contesa
da Francia e Germania. Il centro, di origine romana, prende il nome di Stratiburgum, «città delle strade», durante l’annessione al regno dei Franchi di Clodoveo.
Tre navate e un transetto Nel X secolo entra nella sfera di influenza dei Germani e l’imperatore tedesco investe il vescovo del governo della città. Scarse sono le notizie sulle strutture che hanno preceduto il duomo romanico, ma gli scavi archeologici degli ultimi decenni hanno dimostrato che le fondazioni del 1015 sostengono Strasburgo. Il Pont Royal, che collega le due sponde del Reno in prossimità della chiesa di S. Paolo (in secondo piano).
l’attuale edificio in pietra arenaria, a tre navate, con transetto. Come in altri casi, Milano su tutti, anche a Strasburgo il cantiere della cattedrale non si è mai fermato, tanto che ogni epoca ha lasciato un contributo significativo. Nel 1015, quando la città era già un riferimento in tutta la regione dell’Alsazia, viene posta la prima pietra del nuovo luogo di culto, sui resti della chiesa
6
marzo
MEDIOEVO
Nella pagina accanto, a destra (in alto e in basso) due immagini delle decorazioni che impreziosiscono la cattedrale di Strasburgo. Qui accanto un’imbarcazione fluviale da trasporto tipica della zona (péniche) ormeggiata lungo il quai des Pêcheurs della città alsaziana e oggi adattata a bar.
Un anno di appuntamenti Nel fitto calendario del millennio figurano convegni, celebrazioni e tavole rotonde. Ma anche mostre, come quella che dal 13 maggio al 7 giugno sarà allestita all’Hotel du Departemet: «Mille anni di cattedrali lungo il corso del Reno», dedicata alle strutture religiose nel tratto che va da Strasburgo a Colonia. Il programma si chiude il 7 settembre, con l’anniversario della consacrazione del 1275. La ricorrenza viene festeggiata in tutte le parrocchie della regione. Per informazioni sul millennio della cattedrale: www. cathedrale-strasbourg-2015.fr; it.rendezvousenfrance.com/it è il sito ufficiale del Turismo in Francia, tutto in italiano. carolingia. In seguito all’incendio del 1176, la cripta, alcune cappelle, parte della navata e del transetto vengono ricostruite in stile romanico, con un’impronta che ancora oggi caratterizza l’area presbiteriale. Ma, nel secolo successivo, un’altra imponente campagna edilizia prende il via: nel 1262 la comunità si libera dell’autorità temporale del vescovo e nella fabbrica vengono introdotti i canoni del gotico francese. Nel secolo successivo, dopo la costruzione delle due torri, si realizzano le porte bronzee e le vetrate, e, sul finire del Trecento, viene innalzato anche il campanile fra le due torri; alla stessa epoca risale il maestoso organo che conserva la cassa del 1384.
MEDIOEVO
marzo
All’interno il rosone centrale e le vetrate istoriate, creano suggestivi giochi di luce, valorizzando anche l’orologio astronomico, un capolavoro di arte e meccanica del Rinascimento.
Una tipica Biblia pauperum La chiesa cattolica, che per un periodo è stata protestante, risulta dedicata alla Madonna e la sua facciata plastica, con statue, pinnacoli, colonnine addossate, portali istoriati, è un classico esempio di Biblia pauperum del Medioevo. All’età di Mezzo risale anche parte della Petite France, il quartiere che mantiene la fisionomia originaria, con le piccole abitazioni in legno dal
tetto spiovente e i canali attraversati dai ponti coperti, sui quali svettano le quattro torri trecentesche, ormai senza copertura. Sono medievali anche la chiesa protestante di Saint-Thomas, costruita fra l’XI e il XVI secolo, fra le piú importanti dell’Alsazia, e la chiesa di SaintPierre-le-Jeune, sulla Grande Île, eretta in stile gotico sui resti di una struttura merovingia. Stefania Romani
Errata corrige desideriamo precisare che alcuni schemi di battaglie da noi pubblicati sono rielaborazioni grafiche di creazioni originali realizzate dal sito web www.arsbellica.it; in particolare si tratta di quelli utilizzati a corredo degli articoli sulle battaglie di Legnano («Medioevo» n. 160, maggio 2010), Legnica («Medioevo» n. 183, aprile 2012), Cortenuova («Medioevo» n. 190, novembre 2012) e Poitiers («Medioevo Dossier» n. 3, 2011). Della mancata attribuzione ci scusiamo con gli interessati.
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Ante prima
Dalla Svevia all’Europa mostre • In un periodo breve, ma intenso, la regione
tedesca fu un’apprezzata fucina d’arte sacra, e statue e pale d’altare si diffusero ben oltre i suoi confini. Un saggio eloquente di quella felice stagione è oggetto della nuova rassegna allestita al Museo di Cluny
N
ei decenni a cavallo tra XV e XVI secolo, la Svevia, regione storica che si estende nella Germania sud-occidentale, fra la Foresta Nera e la Baviera, fu la fucina di una produzione scultorea copiosa e raffinata. Una fioritura a cui pose fine il mutare del sentimento religioso all’indomani della Riforma protestante ispirata dall’operato di Martin Lutero (il quale, lo ricordiamo, pubblicò le famose novantacinque tesi sulle indulgenze nell’ottobre del 1517). Prima di allora, in città come Ulm, Augsburg o Ravensburg, che erano centri commerciali assai dinamici, si sviluppò anche una intensa attività artistica, in seno alla quale si distinsero personaggi capaci di scolpire e intagliare magistralmente il legno, sottolineando la potenza del proprio plasticismo attraverso l’uso sapiente della policromia. La vicinanza delle piccole città sveve
Dove e quando
«Sculture sveve della fine del Medioevo» Parigi, Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge fino al 27 luglio (dal 1° aprile) Orario tutti i giorni, 9,15-17,45; chiuso martedí Info www.musee-moyenage.fr
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marzo
MEDIOEVO
(Memmingen, Kempten, Biberach…) alle Alpi svizzere e austriache aveva suscitato una notevole richiesta di sculture e alcuni atelier, organizzati come autentiche piccole imprese, si specializzarono nell’esportazione delle pale d’altare fino alle valli dei Grigioni e dell’Alto Adige. Cosí, grazie a questi scambi, le opere prodotte in Svevia si diffusero ben oltre i confini della loro regione d’origine.
I piú bei nomi della tradizione sveva La rassegna allestita a Cluny riunisce una trentina di opere e pone sotto i riflettori le creazioni di maestri come Niclaus Weckmann, Daniel Mauch, Ivo Stringel, Lux Maurus o Jörg Lederer. Distribuite in un percorso cronologico e geografico, si tratta di sculture perlopiú a soggetto religioso, destinate all’arredo delle chiese, Sulle due pagine, da sinistra Cristo delle Palme, scultura in legno di tiglio e abete rosso (1520-1525; Parigi, Museo del Louvre); San Martino, scultura in legno di tiglio policromo (1520 circa; Saumur, Musée des Arts Décoratifs); Cristo in preghiera, scultura in legno di tiglio policromo (1500-1520; Parigi, Museo del Louvre); Incoronazione della Vergine (o Vergine del Rosario), pannello in legno dipinto (1510-1515; Amburgo, Museum für Kunst und Gewerbe).
MEDIOEVO
marzo
che si distinguono per la grazia dei tipi femminili e la sapiente resa dei drappeggi. Da questo punto di vista, le figure costituiscono una preziosa documentazione dell’abbigliamento dell’epoca, poiché riflettono i modelli piú in voga agli inizi del XVI secolo.
Ricomposizioni inedite Merita inoltre d’essere segnalato il fatto che la mostra riunisce alcuni gruppi da tempo smembrati e dispersi in varie collezioni museali: è il caso del Cristo in preghiera del Louvre, che «ritrova» due dei tre Apostoli dormienti (oggi al Maximilianmuseum di Augsburg), insieme ai quali animava una monumentale composizione dell’episodio del Monte degli Ulivi, probabilmente realizzata per l’abbazia di Wettenhausen ddi Kammeltal. L’esposizione, che rimarrà aperta fino al prossimo 27 luglio, si inserisce in un piú ampio progetto di studio, pubblicazione e valorizzazione delle sculture germaniche oggi presenti nelle raccolte francesi, al cui interno la produzione sveva è una presenza preponderante e significativa. (red.)
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Ante prima
Quel sublime candore restauri • Un intervento protrattosi per otto
anni ha ridato lustro al magnifico Duomo di Modena, precisando anche importanti dettagli sulla storia della sua costruzione
I
l 12 luglio 1184, papa Lucio III, giunto a Modena insieme a un corteo di dieci cardinali, consacra solennemente la «Domus clari Geminiani», la cui ricostruzione era stata avviata 85 anni prima, dedicandola alla Vergine Incoronata (vedi «Medioevo» n. 204, gennaio 2014; anche on line su medioevo.it). Destinato a divenire uno degli emblemi dell’arte romanica in Europa, il «candido» duomo era stato voluto da tutte le classi sociali cittadine, in un periodo di forte vivacità religiosa e artistica, quando la cattedra episcopale modenese si era resa vacante, a seguito della morte improvvisa di Benedetto, successore del vescovo Eriberto, nel 1095. Simbolo di rinnovamento spirituale e, insieme, di autonomia civile, l’edificio è ora tornato a splendere dopo un lungo ciclo di lavori che ne hanno
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Modena. La facciata (a destra) e un particolare dell’abside (in alto) del duomo. La costruzione della chiesa, capolavoro dell’architettura romanica, fu iniziata nel 1099 sotto la guida dell’architetto Lanfranco.
marzo
MEDIOEVO
interessato sia le architetture che l’apparato scultoreo. Ultime a essere liberate dalle impalcature sono state le absidi, rivelando l’originale armonia dell’insieme, contraddistinto da equilibrio e ricerca proporzionale di ispirazione classica e dominato dal contrasto chiaroscurale dei pieni e dei vuoti nella struttura muraria esterna.
Specchio di una nuova identità L’arte di Lanfranco e Wiligelmo prima e dei Maestri Campionesi poi produsse un capolavoro che si palesa come fulcro e concreta manifestazione di un’identità urbana legata a nuove concezioni organizzative territoriali, documentate anche nella Relazione coeva redatta in occasione dell’inaugurazione del tempio. Fu lo stesso Wiligelmo a scolpirne l’atto di fondazione, insieme al suo elogio, su una epigrafe «retta» dal patriarca Enoch e dal profeta Elia, posta proprio sulla facciata della casa di san Geminiano, le cui reliquie furono traslate qui, nel
MEDIOEVO
marzo
Un momento dello smontaggio delle impalcature poste in opera per consentire l’esecuzione degli interventi di restauro e consolidamento che hanno interessato
la Cattedrale modenese. Oltre a risanare elementi architettonici e decorativi, è stato possibile acquisire dati preziosi sulla storia dell’edificio.
1106, quando l’opera costruttiva diretta dal «dotto» Lanfranco era già progredita. La Cattedrale evidenzia, soprattutto nel complesso scultoreo, un progetto biblicoteologico che racchiude, nella sua omogenea essenzialità la storia della salvezza dell’umanità, indagata nelle sue forme materiali e spirituali. Negli otto anni di restauro, sono stati effettuati interventi di consolidamento e conservazione e la documentazione raccolta ha permesso di ricostruire le fasi storiche, le modalità di montaggio e il materiale usato, in gran parte pietre e marmi di recupero, come testimonia una delle lastre della Genesi. È stato inoltre possibile recuperare lacerti di affreschi sulla loggia Sud, fino a oggi trascurati. Mila Lavorini
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Ante prima
Qual è la portantina piú bella del contado? appuntamenti • Attingendo a una tradizione che
affonda le sue radici non solo nel Medioevo, Bormio si prepara alla sfilata dei Pasquali, i cui artefici si sfidano reinventando ogni anno le antiche portantine
L
Qui sopra un momento della festa che anima Bormio in occasione della Pasqua.
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ocalità turistica alpina in provincia di Sondrio, Bormio è situata nell’alta Valtellina, all’interno del Parco Nazionale dello Stelvio. Rinomata per le piste sciistiche e le terme di origini romane, la cittadina si anima annualmente anche nel giorno di Pasqua, quest’anno il prossimo 5 aprile, per una festa dalle caratteristiche uniche, che affonda le proprie radici nelle antiche tradizioni contadine e religiose. Al centro dell’evento ci sono i Pasquali, elaborate portantine allegoriche a tema religioso. La loro costruzione richiede impegno e perizia artigianale: durante i mesi invernali, nei cinque quartieri cittadini di Buglio, Combo, Dossiglio, Dossorovina e Maggiore, gruppi di giovani preparano il loro progetto nei dettagli, scegliendo il messaggio religioso che intendono
Nella pagina accanto due immagini del trasporto dei Pasquali. In basso uno scorcio del centro storico bormino.
marzo
MEDIOEVO
rappresentare, allo scopo di creare il «Pasquale» piú bello per vincere la sfilata. Nella mattinata di Pasqua i Bormini accompagnano le loro creazioni in corteo per il paese, vestiti in costumi tradizionali. Gli uomini portano a spalla le portantine, mentre le donne recano fiori e piccoli prodotti artigianali. Al termine della sfilata, nella centrale piazza del Kuerc, ogni Pasquale viene giudicato in base a diversi fattori, dal significato religioso al lavoro artigianale, senza dimenticare l’abbigliamento e il portamento dei partecipanti durante la sfilata. Dopo la benedizione degli agnelli e la messa, nel pomeriggio viene decretato il vincitore, poi i Pasquali restano in esposizione in piazza fino alla sera successiva.
Dalla condivisione alla gara Le feste di Pasqua a Bormio risalgono al Medioevo, anche se le prime testimonianze scritte sono del XVII secolo e riportano l’uso di cucinare e distribuire un agnello in piazza del Kuerc. Nell’Ottocento venne introdotta la benedizione dell’agnello vivo e, da ciò, nacque la gara tra i quartieri per adornare al meglio il proprio animale. In seguito s’iniziò a trasportare gli agnellini su portantine di muschio addobbate e, da lí, si arrivò ai Pasquali cosí come oggi vengono celebrati. In epoca medievale Bormio fu a lungo sede dell’omonimo contado, comprendente gli attuali territori dei comuni di Valfurva, Valdidentro e Livigno. Il contado mantenne
MEDIOEVO
marzo
la propria indipendenza dal X al XIII secolo, quando finí sotto il controllo di Como. Nel 1377, attraverso la Magna charta delle libertà bormiensi, il Comune riprese autonomia e ottenne importanti privilegi. Nei due secoli successivi Bormio fu al centro della rotta commerciale che collegava Venezia col Nord Europa e si sviluppò economicamente grazie alla possibilità di imporre dazi sulle merci in transito. La prosperità durò sino al 1487, quando cadde sotto l’assedio dei Grigioni. Tiziano Zaccaria
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Ante prima
Talami e Misteri appuntamenti • La
pittoresca Sagra dei Talami di Orsogna affonda le sue radici non solo nel Medioevo, ma anche in piú antichi rituali, celebrati per invocare la prosperità delle messi
A
Orsogna, centro collinare in provincia di Chieti, ogni Lunedí di Pasqua (quest’anno il 6 aprile) va in scena la Sagra dei Talami, un rito popolare le cui origini risalgono all’epoca tardo-medievale e che è legato alla tradizione dei drammi liturgici. I Talami, il cui nome deriva dalla radice greca «thal», che significa portare, sostenere, sono sei carri trainati da trattori, piú un settimo portato a spalla da fedeli, sui quali attori immobili mimano scene del Vecchio e del Nuovo Testamento davanti a un fondale affrescato, mentre in alto una bambina legata a una spalliera a raggiera impersonifica la Madonna del Rifugio, Vergine venerata localmente. Nella mattinata del Lunedí di Pasqua ogni carro parte dal proprio quartiere, per ritrovarsi in piazza Mazzini, da dove prende il via la sfilata generale per le strade del centro storico. Pur essendo d’ispirazione religiosa, questo rito per secoli ha avuto anche un significato laico di buon auspicio per il raccolto agricolo, come è testimoniato dal «carro delle messi» che un tempo accompagnava la sfilata, con i contadini che
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interpretavano l’atto di zappare o mietere il grano. A Orsogna la piú antica attestazione di questi «Misteri» pasquali risale allo Statuto della Bagliva, un codice del 1350. Nei secoli successivi, nonostante il divieto della Chiesa, a Orsogna e in Abruzzo, come in tutto il regno di Napoli, la tradizione dei Misteri e degli Oratori Sacri continuò; anche se, come prescrisse il Concilio di Trento del 1563, alle rappresentazioni recitate si preferirono, in crescendo, le scene mute in processioni figurate.
Il miracolo della Vergine Le sacre rappresentazioni di Orsogna, dette appunto Talami, nacquero in onore della Madonna del Rifugio, nella cui chiesa (distrutta dai bombardamenti del 1944) si conservava un affresco raffigurante la Vergine con il volto bruno, secondo lo stile bizantino. Il dipinto era considerato prodigioso: il popolo riteneva che ogni anno, all’alba del martedí di Pasqua, la Madonna mostrasse il suo volto non piú nero, ma bianco, oppure muovesse gli occhi. E, per assistere al miracolo, ogni anno i pellegrini si
Un Talamo sfila per le vie di Orsogna. raccoglievano nella chiesa per una notte di veglia, canti e preghiere. Cosí, un mattino di un lontano martedí di Pasqua, all’interno della chiesa un gruppo di ragazzi appositamente vestiti rappresentò ciò che era dipinto nel quadro: la Madonna Nera che copriva con il suo manto azzurro quattro persone oranti verso di lei. Al quadro, allestito dai membri della congrega che presiedeva la chiesa, fu dato il nome di Talamo. Negli anni successivi l’iniziativa si ripetè e le rappresentazioni sacre diventarono sei, una per ogni quartiere di Orsogna, con i fedeli che iniziarono a portarle a spalla. In epoca moderna la forza fisica è stata sostituita dalla trazione dei trattori: solo il settimo Talamo, che parte dal luogo in cui era costruita la chiesa della Madonna Nera, viene portato a spalla dagli Alpini in congedo di Orsogna. Seppur arricchite dal punto di vista scenografico, le rappresentazioni conservano il loro fascino e misticismo. Oggi la festa si ripete anche a Ferragosto, in notturna. T. Z. marzo
MEDIOEVO
Ante prima
Processioni sul mare
F
in dal Medioevo gli abitanti dell’arcipelago di Malta, a maggioranza cattolica, celebrano con grande fervore religioso la Settimana Santa, quest’anno in programma dal 29 marzo al 5 aprile. Nella capitale La Valletta si inizia la Domenica delle Palme, con un corteo nel quale un figurante nei panni di Cristo attraversa a dorso d’asino le strade cittadine. Nella mattina del Giovedí Santo, nella cattedrale di S. Giovanni l’Arcivescovo celebra la tradizionale Messa del Crisma. In serata, nelle chiese maltesi va in scena la toccante celebrazione della lavanda dei piedi a dodici uomini, davanti ad altari riccamente allestiti con composizioni floreali, i cosiddetti Sepolcri. Sempre il Giovedí Santo, i fedeli si muovono in città per la tradizionale visita alle «sette chiese» («sebà vizti»). Nel pomeriggio del giorno seguente, il centro di La Valletta è attraversato da un corteo storico in costumi romani ed ebraici, con le figure protagoniste delle Sacre Scritture nell’anno 33 d.C., da Barabba e Ponzio Pilato. Nella serata del Sabato Santo,
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appuntamenti • Cortei
sontuosi e rievocazioni storiche scandiscono le celebrazioni pasquali nelle isole maltesi
nella cattedrale la messa inizia nel buio totale, poi alla mezzanotte, in un’esplosione di luci, viene annunciata la Resurrezione di Gesú sulle note del Glorja. La Settimana Santa si conclude la mattina di Pasqua con la processione che culmina con la corsa dei portatori della statua del Cristo Risorto.
I ricordi di un naufrago A Gozo la settimana pasquale è caratterizzata dall’esposizione nella Cattedrale delle grandi statue che rappresentano la Passione e Morte di Gesú. La provenienza di queste statue è legata a una leggenda medievale, secondo la quale un giorno d’inverno un siciliano trovò rifugio in un porto locale dopo che la sua barca si era capovolta. Il governatore di Gozo gli permise di restare sull’isola, dove il siciliano prese l’abitudine di sedersi in un angolo del mercato a elemosinare, mentre la notte era solito rifugiarsi in una grotta o in qualche edificio fatiscente. Un Venerdí di Quaresima, mentre chiedeva la carità, l’indigente fu attratto da una processione che
Due immagini delle processioni pasquali che si tengono nell’arcipelago maltese. usciva dalla Cattedrale. I membri della vecchia Confraternita del Crocifisso camminavano dietro a una grande croce, un’usanza che gli ricordò quella della sua cittadina d’origine. Cosí decise di realizzare quelle sculture, che l’anno successivo furono introdotte nella processione. L’evento piú toccante è dunque la processione del Venerdí Santo, con le sette grandi statue in cartapesta, che rappresentano i principali momenti della Passione e Morte di Gesú. T. Z. marzo
MEDIOEVO
Ante prima Farinata degli Uberti alla battaglia del Serchio, particolare. Olio su tela di Giuseppe Sabatelli (1813-1843). 1842. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna.
il nuovo dossier di medioevo
medioevo in guerra
Armi, scontri e assedi
Un viaggio affascinante attraverso gli eventi che hanno rivoluzionato la storia: le invasioni barbariche, le crociate, la Reconquista, le lotte per l’indipendenza, la faida tra guelfi e ghibellini, i conflitti svevo-angioini, le invasioni mongole e ottomane, la guerra dei Cent’anni...
L’
epopea delle battaglie medievali può essere riletta come un lungo romanzo storico che inizia con la disgregazione di un impero e si conclude con lo scontro tra grandi regni, preludio delle guerre moderne tra superpotenze europee. Numerosi e avvincenti sono i capitoli di questo turbolento racconto: le invasioni barbariche, la Reconquista spagnola contro l’occupazione araba, l’era delle crociate, i trionfi degli imperatori germanici, la nascita dei primi prototipi di Stati nazionali, la faida tra guelfi e ghibellini, le conquiste degli Angioini, l’espansionismo mongolo e ottomano e la celebre guerra dei Cent’anni tra Francesi e Inglesi. Il ricostruire in senso cronologico l’età di Mezzo e la sua complessità politica attraverso gli eventi bellici si rivela un’operazione ardita, ma allo stesso tempo stimolante, perché in grado di scoprire dove nascono i rancori che tuttora risultano radicati nella memoria collettiva di alcune nazioni. Il nuovo Dossier che «Medioevo» dedica alla guerra presenta anche numerosi approfondimenti sulle tattiche militari e sull’evoluzione degli armamenti. Il lettore potrà ammirare splendidi disegni ricostruttivi sulle strategie degli eserciti e sugli equipaggiamenti dei soldati, apprendendo con sorpresa che nell’età di Mezzo a vincere le battaglie, non di rado, furono le truppe peggio addestrate…
agenda del mese
Mostre roma Alla scoperta del Tibet. Le spedizioni di Giuseppe Tucci e i dipinti tibetani U Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» fino all’8 marzo
La cultura tibetana e la sua tradizione artistica erano virtualmente sconosciute in Occidente fino alle otto importanti spedizioni condotte da Giuseppe Tucci, fondatore della moderna tibetologia, tra il 1926 e il 1948. Le sue ardite missioni sul «Tetto del Mondo», grazie anche alla sua profonda conoscenza della lingua e della cultura locale, possono essere considerate un lascito scientifico che ancora oggi è il fondamento delle ricerche su questo
a cura di Stefano Mammini
lontano Paese. I materiali che egli selezionò con grande acume scientifico e raccolse con amorevole cura, furono portati in Italia, grazie alla benevolenza del governo locale, e sono oggi accessibili al pubblico e agli studiosi nel museo che porta il suo nome. Due sono i filoni di indagine dell’esposizione: da un lato la storia delle esplorazioni di Giuseppe Tucci, cosí come la raccontano le fotografie d’epoca, dall’altro quella che narrano i capolavori pittorici tibetani databili tra l’XI e il il XVIII secolo, documenti di vita religiosa, interpretati alla luce della prospettiva storica. info tel. 06 46974832; www.museorientale. beniculturali.it
scaturite realizzazioni che hanno rinnovato il linguaggio architettonico in Italia tra Quattro e Cinquecento. info tel. 02 72263.264 o 229; e-mail: sbsae-mi. brera@beniculturali.it; brera.beniculturali.it; prenotazioni tel. 02 92800361; pinacotecabrera.net
brescia
new york la bibbia di winchester. un capolavoro dell’arte medievale U The Metropolitan Museum of Art fino al 9 marzo
La magnifica Bibbia di Winchester – considerata uno dei capolavori dell’arte medievale del XIII secolo – è per tre mesi in trasferta a New York. Commissionato probabilmente da Enrico di Blois (vescovo di Winchester, nonché nipote di Guglielmo il Conquistatore), il manoscritto è il solo manufatto superstite del tesoro della cattedrale inglese. Si compone di quattro tomi, per un totale di 468 fogli, che furono scritti, in un arco di tempo di circa trent’anni, da un solo amanuense, accanto al quale lavorarono invece non meno di sei miniatori. info metmuseum.org milano Bramante a Milano. Le arti in Lombardia 1477-1499
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U Pinacoteca di Brera,
Raffaello. Opera prima U Museo di Santa Giulia fino al 6 aprile
A cinquecento anni dalla morte, Donato Bramante (1443/44-1514) viene celebrato con una mostra che nel tratteggiarne la poliedrica personalità («cosmografo, poeta volgare, et pittore valente… et gran prospettivo», lo dice fra’ Sabba da Castiglione) ricostruisce il suo lungo soggiorno in Lombardia e a Milano (almeno dal 1477 fino al 1499), e l’impatto che la sua opera ha avuto sugli artisti lombardi. Spirito inquieto e ingegnoso, Donato Bramante si è sicuramente educato alla corte dei Montefeltro a Urbino, dove è stato in contatto con gli architetti, gli scultori e i pittori attivi per il duca Federico. Piero della Francesca deve avere giocato un ruolo fondamentale nella sua formazione ma, rispetto all’impegno speculativo del pittore di San Sepolcro, in Donato ha prevalso un’attitudine pragmatica, da cui sono
Dopo aver ospitato le rassegne dedicate a Giorgione, Savoldo e fra’ Bartolomeo, il Museo di Santa Giulia ha scelto Raffaello per coronare un progetto espositivo ideato per rivivere il Rinascimento. La mostra riunisce per la prima volta i frammenti dell’opera prima del maestro, la Pala Baronci, presentando l’Angelo della Pinacoteca insieme ad altri tre grandi lavori: l’Angelo dal Louvre di Parigi, il Padre Eterno e la Madonna dal Museo Nazionale di Capodimonte. Arricchiscono la mostra il magnifico disegno preparatorio dal Palais des Beaux Arts di Lille e la copia parziale di Ermenegildo Costantini (1791) dalla Pinacoteca di Città di Castello. La realizzazione del progetto ha segnato l’avvio dell’ultima fase del percorso che porterà alla riapertura della Pinacoteca Tosio
fino al 22 marzo
marzo
MEDIOEVO
Martinengo. info tel. 030 2977834; e-mail: santagiulia@ bresciamusei.com; rinascimento. bresciamusei.com novara In principio. Dalla nascita dell’Universo all’origine dell’arte U Complesso Monumentale del Broletto fino al 6 aprile
Allestita nel complesso medievale del Broletto, la mostra illustra un percorso che si snoda lungo un arco cronologico vastissimo
e nel quale convivono i disegni originali di Galileo Galilei e la rappresentazione del mito di Atlante nelle opere del Guercino, le teorie di Newton e il mito di Medusa. L’obiettivo è quello di interrogarsi, e provare a rispondere, alle domande che l’umanità si pone da sempre,
MEDIOEVO
marzo
costruendo narrazioni diverse, mutevoli e affascinanti dell’idea dell’origine del tutto. Da sempre l’uomo guarda l’immenso alla scoperta delle origini della vita. Siamo attratti dall’origine, vogliamo conoscere l’inizio: del cosmo, della vita, di una teoria o di un’opera d’arte. E scienziati, pensatori, artisti e poeti hanno dato a loro modo risposte sorprendenti per colmare il nostro desiderio di conoscenza, alimentando dopo ogni scoperta, dopo ogni
rappresentazione, nuove emozioni, nuovo stupore, nuove indagini e nuove immaginazioni. info tel. 199 151 115; e-mail mostrainprincipio@ civita.it; www.mostrainprincipio.it Bologna Giovanni da Modena. Un pittore all’ombra di San Petronio
U Museo Civico Medievale, Basilica di San Petronio fino al 12 aprile
Giovanni di Pietro Falloppi, meglio noto come Giovanni da Modena, è per la prima volta protagonista di una rassegna monografica. Modenese di nascita, ma bolognese di adozione, l’artista fu autore della decorazione della Cappella Bolognini in S. Petronio (1411-12 circa), con Il Giudizio universale, Storie dei Magi e Storie di San Petronio, capolavoro assoluto della pittura tardo-gotica bolognese che, insieme alle altre testimonianze ancora presenti nella basilica, tra cui i grandi affreschi di significato allegorico nella Cappella dei Dieci di Balia (1420), costituirà un necessario completamento del percorso espositivo. Sarà l’occasione per mettere a confronto varie opere del pittore provenienti da musei e collezioni private – dipinti su tavola, affreschi e miniature – per ricostruirne il lungo periodo di attività, avviato all’inizio del XV secolo. info tel. 051 2193930; e-mail: museiarteantica@ comune.bologna.it roma Il Principe dei sogni. Giuseppe negli arazzi medicei di Pontormo e Bronzino U Palazzo del Quirinale, Salone dei Corazzieri fino al 12 aprile
Commissionati da
Cosimo I de’ Medici per la Sala de’ Dugento di Palazzo Vecchio, i venti arazzi cinquecenteschi raffiguranti la storia di Giuseppe costituiscono una delle piú alte testimonianze dell’artigianato e dell’arte rinascimentale. I disegni preparatori furono affidati ai maggiori artisti del tempo, primo fra tutti Pontormo. Ma le prove predisposte da quest’ultimo non piacquero a Cosimo I, che decise di rivolgersi ad Agnolo Bronzino, allievo di Pontormo e già pittore di corte, e a cui si deve parte dell’impianto narrativo della serie. Tessuti alla metà del XVI secolo nella manifattura granducale, tra le prime istituite in Italia, furono realizzati dai maestri arazzieri fiamminghi Jan Rost e Nicolas Karcher sui cartoni forniti da Agnolo Bronzino, Jacopo Pontormo e Francesco Salviati. info www.quirinale.it
roma Lorenzo Lotto e i tesori artistici di Loreto U Museo Nazionale di Castel Sant’angelo fino al 3 maggio
Il Museo-Antico Tesoro di Loreto, ospitato negli ambienti del cinquecentesco Palazzo Apostolico della città, adiacente alla basilica della Santa Casa, prende vita a seguito dei periodici trasferimenti di opere e oggetti d’arte che, dalla metà dell’Ottocento, interessarono la basilica e gli altri ambienti contigui. Il museo viene inaugurato ufficialmente l’8 settembre 1951, ma solo molti anni dopo, il 15 giugno 1974, viene aperto in maniera continuativa al pubblico. L’8 settembre 1997 viene inaugurata la ristrutturazione del museo, in nuovi e piú ampi locali. L’attuale mostra è organizzata in vista di un nuovo, piú scientifico e razionale
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agenda del mese riallestimento delle collezioni museali del Museo-Antico Tesoro della Santa Casa di Loreto e per proporre a un pubblico piú vasto, e internazionale, che visita gli spazi del Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo, questo ricco e prezioso patrimonio di arte e di fede. Il percorso della mostra si snoda con una scelta significativa dei dipinti di Lorenzo Lotto, segue l’iconografia lauretana, poi opere già collocate sugli altari e altri ambienti della basilica e infine preziosi reperti del Tesoro della basilica, scampati alle razzie napoleoniche. info tel. 06 32810; http://castelsantangelo. beniculturali.it Gambettola (FC) Dalla fattoria al Palazzone. Storie di Gambettola U Biblioteca Comunale fino al 3 maggio
La costruzione di un parcheggio nella cittadina romagnola ha recentemente portato alla scoperta dei resti di un’antica fattoria costruita alla metà del Quattrocento, raro caso
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di edificio rurale di età rinascimentale. Dal suo scavo nasce questa mostra che espone ceramiche cinquecentesche, rinvenute perlopiú in una piccola cisterna utilizzata prima per la raccolta dell’acqua piovana e poi come discarica. Piatti, ciotole e boccali facevano parte del servizio da tavola mentre le pentole e i coperchi in ceramica grezza erano usati in cucina per la cottura e preparazione dei cibi. Le porcellane da mensa hanno decori brillanti di colore giallo/ arancio e azzurro/blu, con fogliame su fondo berettino o repertori di candelabri e robbiane. info tel. 0547 45338; e-mail: biblioteca@comune. gambettola.fc.it ginevra I sovrani moche. Divinità e potere nell’antico Perú U Museo Etnografico fino al 3 maggio
Tra il I e l’VIII secolo i Moche diedero vita a uno Stato vero e proprio, vale a dire a un organismo sociale, politico ed economico centralizzato e gerarchizzato, pur senza avere sviluppato le principali innovazioni tecniche e intellettuali che solitamente vengono legate all’emergere delle prime civiltà «statali»: la moneta, la scrittura, l’economia di mercato, il sistema stradale…
mostre • Raffaello: la Madonna del Divino Amore U Torino – Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli
fino al 28 giugno (dal 19 marzo) info tel. 011 0062713; www.pinacoteca-agnelli.it
G
razie alla collaborazione con la Soprintendenza speciale per il Polo Museale della città di Napoli e della Reggia di Caserta, la Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli presenta l’esposizione straordinaria per la prima volta a Torino della Madonna del Divino Amore di Raffaello. Negli ultimi anni sono state realizzate importanti mostre dedicate a Raffaello, che hanno messo a fuoco i diversi momenti del percorso artistico del pittore. Dalla mostra della National Gallery del 2004-05 a quella su Raffaello giovane di Urbino (2009) alle recentissime esposizioni dedicate all’ultimo Raffaello al Museo del Prado (2012) e al Louvre, (2013), si sono verificate numerose occasioni di studio, approfondimento e confronto. Il Museo di Capodimonte ha partecipato con i suoi dipinti a queste iniziative, realizzando importanti interventi di restauro e campagne di indagini che hanno contribuito significativamente alla comprensione del complesso e affascinante iter creativo di Raffaello e in particolare della celeberrima Madonna del Divino Amore. Si è Un «controsenso» affascinante, analizzato e riccamente documentato nella mostra scelta per festeggiare l’apertura del nuovo Museo di Etnografia di Ginevra. Per l’occasione sono stati selezionati oltre 300 reperti, tra i quali spicca il corredo funerario del «Signore di Ucupe», un funzionario di alto rango vissuto nel V secolo. info www.meg-geneve.ch
venuto cosí a costituire un patrimonio di conoscenze sui processi di ideazione e sulla tecnica esecutiva del pittore, solo parzialmente resi noti nelle piú ampie mostre monografiche. La mostra alla Pinacoteca Agnelli diventa l’occasione per presentare
Bondeno (FE) Acque e bonifiche a Bondeno dal Neolitico ad oggi U Centro Sociale 2000 fino al 31 maggio
In una regione dove da circa 3500 anni – come ci insegna la grande vasca lignea terramaricola rinvenuta a Noceto (PR) –, trattenere e rilasciare l’acqua ha rappresentato un fattore fondamentale per l’economia e la vita, oltre che una sfida
strategica per la tecnologia, la mostra Aquae ricorda la centralità di questo rapporto. Il percorso inizia con un inquadramento storico-ambientale del paesaggio padano nelle età precedenti la romanizzazione della pianura, prosegue con un approfondimento nell’età romana con la ricostruzione di una porzione di acquedotto e una visione d’insieme della centuriazione, marzo
MEDIOEVO
in maniera esauriente e significativa i risultati di questi studi e attraverso l’utilizzo di supporti digitali, che rendano fruibili le indagini riflettografiche e consentano di leggere – anche al grande pubblico – la struttura interna del dipinto e le numerose varianti e pentimenti passando poi all’età medievale. Ricca è la documentazione archivistica che attesta l’organizzazione e il controllo delle acque nei territori attualmente localizzati alla destra e alla sinistra del Panaro con pannelli e mappe di grande formato, con testi che riportano ad esempio il trattato stipulato nel 1487 fra Giovanni II Bentivoglio e Ercole I d’Este per la realizzazione della
MEDIOEVO
marzo
dell’artista durante la stesura dell’opera, in serrato dialogo con i disegni e gli schizzi preparatori del maestro urbinate conservati nelle piú prestigiose collezioni grafiche europee, due provenienti dall’Albertina di Vienna e uno dal museo delle Belle Arti di Lille.
prima imponente opera di bonifica idraulica, il Cavamento Foscaglia meglio noto come Collettore delle Acque Alte. Vengono poi illustrate le diverse gestioni territoriali delle acque a sinistra del Panaro nel corso del tempo, portando il visitatore a conoscenza del sistema dei «serragli», sistema difensivo utilizzato nelle diverse corti dai Pico o dai Gonzaga che consentivano di
arginare l’invasione delle acque. info tel. 051 6871757 vicenza TUTANKHAMON CARAVAGGIO VAN GOGH. La sera e i notturni dagli Egizi al Novecento U Basilica Palladiana fino al 2 giugno
Quella allestita nella Basilica Palladiana vuole essere un’esposizione di capolavori, sensazioni, emozioni e simboli,
indagando una vicenda antica, quella degli Egizi, ma soprattutto poi una seconda storia, dal Quattrocento al Novecento in pittura, lungo il suo versante struggentemente serale e notturno. Quella in cui alcuni artisti raffigurano una manciata di stelle o un chiaro di luna, come profonde corrispondenze dell’anima. Ma anche la notte come luogo nel quale si raccolgono alcuni grandi passaggi della storia dell’arte. Oltre 100 opere, spesso rare, divise in sei sezioni e provenienti da trenta musei e collezioni di tutto il mondo, musicano questo affascinante racconto sinfonico. Un poema che inizia lungo il Nilo, dove si sedimenta l’idea della notte del mondo oltre il mondo e continua con opere di Giorgione, Caravaggio, Tiziano, El Greco... Nella terza sezione si confrontano Rembrandt e Piranesi, mentre la quarta si sofferma sul paesaggio, dal momento del tramonto fino a quello in cui nel cielo si levano la luna e le stelle. Chiudono il percorso il pieno Novecento e un riassunto di tutti i temi affrontati, affidato a dipinti di Gauguin, Cézanne, Caravaggio, Luca Giordano e altri grandi maestri. info Linea d’ombra, call center 0422 429999; www.lineadombra.it
Reggio Emilia PIERO DELLA FRANCESCA. Il disegno tra arte e scienza U Palazzo Magnani fino al 14 giugno
Attorno al Maestro di Sansepolcro aleggia da sempre un velo di mistero e di enigmaticità dovuto sia ai pochi documenti che lo riguardano, sia alla singolarità del suo linguaggio espressivo che coniuga, magicamente in
equilibrio perfetto, la plasticità e la monumentalità di Giotto e Masaccio con una straordinaria capacità di astrazione e sospensione. Un’essenzialità e purezza di forme che trovano fondamento nei suoi interessi matematici e geometrici mirabilmente espressi nei trattati che ci ha lasciato: l’Abaco, il Libellus de quinque corporibus regularibus, il De Prospecitva pingendi e il da poco scoperto Archimede. Ed è proprio su questi preziosi testimoni dell’opera scritto-
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agenda del mese grafica di Piero, in specie sul De prospectiva pingendi, che la mostra di Palazzo Magnani prende corpo. L’esposizione presenta la figura del grande artista nella sua doppia veste di disegnatore e grande matematico. Per l’occasione è riunito a Palazzo Magnani – fatto straordinario, per la prima volta da mezzo millennio – l’intero corpus grafico e teorico di Piero della Francesca: i sette esemplari, tra latini e volgari, del De Prospectiva Pingendi (conservati a Bordeaux, Londra, Milano, Parigi, Parma, Reggio Emilia) i due codici dell’Abaco (Firenze), il Libellus de quinque corporibus regularibus (Città del Vaticano) e Archimede (Firenze). info tel. 0522 454437 o 444446; e-mail: info@palazzomagnani.it firenze il Medioevo in viaggio U Muso Nazionale del Bargello fino al 21 giugno (dal 20 marzo)
La mostra evoca categorie diverse di viaggiatori – mercanti, pellegrini, principi, artisti – e indaga sulle motivazioni che li spinsero a lasciare le proprie dimore e la propria terra per lanciarsi in avventure che, in realtà, avevano inizio proprio nel cuore delle rispettive abitazioni. Il viaggio è dunque inteso nella sua accezione piú ampia:
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da quello simbolico, che poteva durare poche ore o consistere nel semplice attraversamento di una strada (come nel caso della sposa che, all’indomani delle nozze, s’insediava sotto il nuovo tetto coniugale), alle grandi spedizioni militari o scientifiche. Un’attenzione particolare è inoltre riservata alle peregrinazioni dei grandi artisti, sulle orme dei ripetuti viaggi compiuti da Albrecht Dürer tra la Germania e l’Italia. info tel. 055 2388606; www.polomuseale.firenze.it Milano Arte lombarda dai Visconti agli Sforza. Milano al centro dell’Europa U Palazzo Reale fino al 28 giugno (dal 12 marzo)
Ispirata in modo programmatico, ma criticamente rivisto, alla straordinaria esposizione Arte lombarda dai Visconti agli Sforza – allestita nel 1958 nella medesima sede espositiva risanata dopo i bombardamenti del 1943 –, l’attuale rassegna ripensa quel progetto nella chiave piú pertinente e attuale: quella della centralità di Milano e della Lombardia, alle radici della cultura dell’Europa moderna. Prende in esame lo stesso periodo storico, dunque dal primo
Trecento al primo Cinquecento: tutta la signoria dei Visconti, poi degli Sforza, fino alla frattura costituita dall’arrivo dei Francesi. I due secoli circa di cui la mostra si occupa sono tra i piú straordinari della storia milanese e lombarda, celebrati dalla storiografia e fissati nella memoria comune come una sorta di età dell’oro, il primo momento di compiuta realizzazione di una civiltà di corte dal respiro europeo. Il percorso espositivo si articola in sezioni e sottosezioni; l’ordine cronologico illustra la progressione degli eventi e la densità della
produzione artistica: pittura, scultura, oreficeria, miniatura, vetrate, con una vitalità figurativa che soddisfa le esigenze della civiltà cortese e conquista rinomanza internazionale al punto da divenire sigla d’eccellenza riconosciuta: l’«ouvraige de Lombardie». info tel. 02 0202 conegliano Carpaccio. Vittore e Benedetto da venezia all’Istria. L’autunno magico di un maestro e la sua eredità U Palazzo Sarcinelli fino al 28 giugno
La mostra indaga e illustra gli ultimi dieci anni dell’attività di Vittore Carpaccio (dal 1515 al 1525 circa), considerato il piú grande narratore, «teatralizzatore» e vedutista ante litteram nella pittura veneziana, anni che sono segnati da un’importante svolta nella sua poetica. Per l’occasione, sono state riunite opere di grandissima qualità e originalità, dipinti celebri da ritrovare come il San Giorgio che lotta con il drago di S. Giorgio Maggiore, la Pala di Pirano, il Polittico da Pozzale del Cadore, o la particolarissima Entrata del podestà Contarini a Capodistria che, nella prospettiva adottata, consente allo spettatore un insolito e realistico sguardo sulla città; opere da riscoprire come le clamorose
portelle d’organo dal Duomo di Capodistria o il bellissimo Trittico di S. Fosca ricomposto per la prima volta dopo cinquant’anni, in collaborazione con Permasteelisa Group, da Zagabria, Venezia e Bergamo in occasione della mostra; e ancora dipinti da scoprire, di fatto mai visti, come la novità assoluta del Padre eterno tra i cherubini da Sirtori (Lecco). info tel. 199 151 114; www.mostracarpaccio.it Zurigo 1515 Marignano U Museo Nazionale Svizzero fino al 28 giugno (dal 27 marzo)
A 500 anni dalla fine delle «guerre d’Italia», il Museo Nazionale Zurigo rievoca un periodo straordinario della storia elvetica, quando in Europa la Confederazione era una potenza militare. «1515 Marignano» spiega le cause e le conseguenze della «battaglia dei giganti», che vide schierati 30 000 uomini in entrambi gli eserciti e fece dalle 10 000 alle 12 000 vittime. Che cosa cercavano gli Svizzeri in Lombardia? Come mai si trovarono a battersi ad armi pari per il controllo del ducato di Milano, in piena espansione economica? La mostra cerca anche di illustrare come la Svizzera accusò la sconfitta, spiega il vantaggioso trattato di pace con la marzo
MEDIOEVO
con la Chiesa cattolica romana, determinando il cosiddetto «scisma anglicano». info www. museeduluxembourg.fr
Appuntamenti
padova Donatello svelato. Capolavori a confronto U Museo Diocesano fino al 26 luglio (dal 27 marzo)
Francia e sottolinea il ruolo di Marignano nella storia della Confederazione. info www.nationalmuseum.ch
Parigi I Tudor U Musée du Luxembourg fino al 19 luglio
Fra le dinastie succedutesi sul trono inglese, quella dei Tudor, al potere tra il 1485 e il 1603, è una delle piú note. Ne fecero parte personaggi che hanno vissuto vicende quasi leggendarie – basti pensare a Enrico VIII –, ma che non devono però oscurare i non pochi meriti acquisiti nell’attività politica e culturale. È questo il filo conduttore della mostra al Musée du Luxembourg, che vuole dunque presentare il vero volto dei Tudor, ai quali si devono, per esempio, importanti commissioni in campo artistico – molte delle quali affidate a maestri chiamati dall’Italia – o significative scelte di campo in materia religiosa, prima fra tutte la decisione di rompere
MEDIOEVO
marzo
La scelta del termine «svelato» utilizzato nel titolo non è casuale: protagonista dell’esposizione, infatti, è un Donatello che va ad aggiungersi al catalogo delle opere certe del maestro fiorentino, il Crocifisso dell’antica chiesa padovana di S. Maria dei Servi. Ad affiancarlo, nel Salone dei Vescovi, sono quello realizzato per la chiesa di Santa Croce in Firenze (1406-08) e quello bronzeo della basilica padovana di S. Antonio (1443-1449). L’opera, oltre che nell’attribuzione, è stata svelata anche nella sostanza, perché, sino al restauro appena ultimato, la scultura lignea si presentava con le parvenze di un bronzo, per effetto di uno spesso strato di ridipinture. Ora, invece, ne sono state recuperate la straordinaria finezza dell’intaglio e la cromia originale. info tel. 049 8761924 o 049 652855; www. museodiocesanopadova.it; https://www.facebook. com/donatellosvelato
Bassano del Grappa Matilde di Canossa. La «gran contessa» e del suo tempo U Istituto Scalabrini 7 e 21 marzo
Ecco il programma degli incontri con i quali si chiude il ciclo dedicato a Matilde di Canossa: 7 marzo, La cosiddetta «architettura matildica»: viaggio alla ricerca di una comune identità nel nome di Matilde (Danilo Morini); 21 marzo, «Alla sapiente, nettarea Matilde»: comunicazione letteraria e rappresentazione principesca di Matilde di Canossa (Eugenio Riversi). info tel. 0444 1801049; e-mail: info@ ponziodicluny.it, segreteria@ponziodicluny. it; ponziodicluny.it milano Medioevo in libreria, XIII Edizione: «Fede e devozione nel Medioevo» U Civico Museo Archeologico di Milano, Sala Conferenze 14 marzo, 11 aprile
La formula prevede visite guidate al
mattino, proiezioni video e conferenze al pomeriggio. Ogni incontro pomeridiano ha luogo, con inizio alle ore 15,30, presso la Sala Conferenze del Civico Museo Archeologico di Milano e si apre con la proiezione del documentario Medioevo Movie. Viaggio nel Medioevo filmato (a cura di Italia Medievale), al quale fanno seguito le conferenze. Questi i prossimi appuntamenti: 14 marzo, ore 11,00: visita guidata a S. Pietro in Gessate, a cura di
Maurizio Calí; ore 16,00: Laura Fenelli, Kunsthistorisches Institut di Firenze: Dall’eremo alla stalla. Storia di Sant’Antonio Abate e del suo culto. 11 aprile, ore 11,00: visita guidata alla chiesa di S. Cristoforo, a cura di Mauro Enrico Soldi; ore 16,00: Luigi Canetti, Università di Bologna: Devozione e ornamento nella religiosità medievale. info tel. 02 45329840; e-mail: info@ italiamedievale.org; italiamedievale.org; medioevoinlibreria. blogspot.it/
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la guerra nel medioevo/2
Miniatura raffigurante Carlo Magno che piange la morte di Orlando, da un’edizione delle Grandes Chroniques de France. XIV sec. Bruxelles, Bibliothèque Royale de Belgique.
Come un 28
di Federico Canaccini
tris d’assi
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opo l’incontro-scontro tra la civiltà romana e quelle germaniche, i secoli dell’Alto Medioevo sono caratterizzati dalla nascita e dalla compresenza di nuove potenze concorrenti nello scacchiere del Mediterraneo. Nella parte che fu dell’impero d’Occidente sorsero i regni detti «romano-barbarici» (o «romanogermanici»), entità politiche in cui il diritto e la tradizione romana si fondevano con le prassi militari germaniche: Visigoti in Spagna, Longobardi in Italia, Angli e Sassoni nelle isole britanniche e Franchi in Francia. Nell’Oriente, seppur tra mille difficoltà, l’impero romano sopravviveva guidato dai sovrani risiedenti a Costantinopoli. Giustiniano, nel corso del VI secolo, riuscí a recuperare alcuni dei territori perduti da Roma nei secoli precedenti, ma per un breve periodo: l’Italia, strappata agli Ostrogoti nel 553, cade sotto il dominio longobardo di Alboino appena quindici anni piú tardi (568), e la Spagna e l’Africa, riconquistate rispettivamente alle potenze visigota e vandalica nel 533, furono piú tardi travolte dall’onda araba. Questi sono i tre poteri che, nei secoli dell’Alto Medioevo, mutano la fisionomia del mondo conosciuto con l’uso della forza militare: i Franchi, gli Arabi e l’impero bizantino.
Le due anime dell’Europa
La caduta dell’impero romano d’Occidente creò un vuoto di potere nell’Europa in cui convivevano ormai due diverse anime: la Chiesa di Roma e i regni romano-germanici. Il piú forte di questi ultimi era certamente quello dei Franchi, che comprendeva i territori dell’attuale Belgio, l’Olanda e la Francia settentrionale. Diviso in tre diversi regni, la Neustria, l’Austrasia e la Borgogna, era guidato dai Merovingi, il cui capostipite, Meroveo aveva dato il nome alla dinastia. Dopo un iniziale successo, la monarchia merovingia visse una profonda crisi nel corso del VII secolo, una generale paralisi dovuta all’intraprendenza dell’aristocrazia, ai danni della corona, e a lotte intestine. Da questa critica situazione trassero vantaggio i nobili signori d’Austrasia, la dinastia che poi prese il nome di Carolingia. La via del successo ebbe inizio con Pipino di Heristal, vittorioso contro gli Alemanni, i Frisoni e i Sassoni che minacciavano i confini orientali del regno carolingio, rifiutando sottomissioni anche se solo sim-
L’impero bizantino, la Francia dei Carolingi e l’Islam: sono questi i protagonisti delle vicende belliche che maggiormente segnarono i secoli dell’Alto Medioevo. Una fase essenziale nello sviluppo storico del continente europeo e del Vicino Oriente, a cui fece da innesco il tramonto definitivo dell’impero romano d’Occidente. Che, tuttavia, rimase un modello ispiratore fondamentale per i nuovi poteri emergenti MEDIOEVO
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la guerra nel medioevo/2 boliche. I successi di suo figlio, Carlo (detto Martello, a significare «il piccolo Marte», a motivo della sua bellicosità), consolidarono la potenza della famiglia, grazie a campagne militari condotte con cadenza annuale. Pipino il Breve fu altrettanto intraprendente: dopo aver deposto, con l’aiuto del papa Stefano II, l’ultimo sovrano merovingio, assunse il titolo di re dei Franchi e, nei ventotto anni trascorsi sul trono, condusse una campagna contro i musulmani, due contro gli Alemanni e altrettante contro i Bavari e i Longobardi, tre contro i Sassoni e ben otto contro gli Aquitani. Infine Carlo Magno non fu da meno: gli anni privi di spedizioni militari sotto il suo regno, dovevano essere talmente rari al punto che l’annalista che registrava i fatti eccezionali, segnalò al 790 e al 792, che «in quest’anno non vi fu alcuna spedizione militare».
Cavalieri corazzati
Artefice principale del successo militare dei Carolingi fu la cavalleria pesante, formata da uomini corazzati, nella quale possiamo vedere il preludio – nella piramide sociale, nonché nelle modalità belliche – della cavalleria feudale. Ogni effettivo si presentava in battaglia su di un cavallo possente, bardato di un’armatura detta broyne e, dal XIII secolo, auberge o hauberk (usbergo), composta da una veste di cuoio su cui venivano cuciti anelli o piastre di ferro, di influenza bizantina, che garantivano una maggiore mobilità al combattente rispetto ai secoli precedenti. L’uso della broyne, come (segue a p. 34) A sinistra parte inferiore di dittico in avorio, con raffigurato Carlo Magno vittorioso sui barbari. VIII-IX sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Nella pagina accanto cartina dell’Europa carolingia e post-carolingia, VIII e IX sec.
A destra la Gioiosa, spada che si dice appartenesse a Carlo Magno, con il suo fodero. IX-XII/XIII sec. Parigi, Museo del Louvre.
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Valencia Regno dei Franchi nel 751
Impero romano d’Oriente
Conquiste di Pipino il Breve
Musulmani
Conquiste di Carlo Magno
Spartizione di Verdun (843)
Aree di influenza carolingia
Regno di Ludovico
Massima espansione carolingia
Regno di Lotario
BOEMI Popolazioni slave
attesta un capitolare dell’805 (il termine «capitolare» indica norme aventi valore di legge, n.d.r.), era ormai divenuto obbligatorio per i cavalieri, che dovevano mantenere almeno una dozzina di dipendenti. Successivamente sarebbero invece stati i sovrani e i vescovi a fornire corazza e armi ai guerrieri del seguito.
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Regno di Carlo il Calvo
Le armi in dotazione al cavaliere franco erano la lancia e la spada, che lentamente si rivestí di quell’alone mitico e simbolico che traspare dalle canzoni di gesta quali La chanson de Roland. La lancia, invece, veniva utilizzata perlopiú sopra mano, e non «in resta», giacché l’assenza pressoché totale dell’arcione e delle staffe non consentiva
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la guerra nel medioevo/2 «Il vero re del campo di battaglia» Il successo militare e politico dei Carolingi è stato talvolta spiegato con l’adozione, da parte dei Franchi, della staffa e della sella ad arcione che trasformarono i cavalieri franchi in «un temibile strumento di offesa, il vero re del campo di battaglia», scriveva lo storico americano Lynn White nel 1969. La teoria di White modificava l’ipotesi antica, avanzata da Heinrich Brunner (1840-1915) alla fine dell’Ottocento, che sottolineava come significativa la scelta franca di potenziare numericamente e qualitativamente la cavalleria piú che la fanteria, cosí come era stato almeno sino a Poitiers. Eppure tali innovazioni non sembrano cosí strettamente connesse alla vicenda carolingia, ha osservato, dopo White, Bernard Bachrach. Dalle fonti in nostro possesso, in effetti, non si nota alcuna mutazione tattica da Carlo Martello in poi: i Franchi continuano ad attaccare senza una preponderanza della cavalleria e la diffusione della staffa segue un percorso tutt’altro che semplice. Se i Bizantini la conoscevano già nel VI secolo, probabilmente tramite gli Avari, i nobili franchi la adottarono episodicamente solo dall’VIII, mentre alla metà dell’XI gli Anglo-Sassoni ne rifiutavano ancora l’uso, pur conoscendone la funzione. Dall’analisi dei corpi di circa 700 guerrieri franchi, inumati dalla fine del VII sino agli inizi del IX secolo, appena 135 sono definibili «cavalieri» e, di questi, solo 13 disponevano con certezza di staffe. Si può ipotizzare che solo con Carlo Magno la cavalleria abbia costituito il corpo piú efficiente dell’esercito franco. Tuttavia, ciò non significa che essi potessero caricare in massa con la lancia in resta. Nell’«arazzo» di Bayeux, realizzato nel 1080, si vedono convivere diverse tecniche di combattimento con
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A destra particolare del telo ricamato di Bayeux (comunemente detto «arazzo») raffigurante un gruppo di cavalieri in battaglia sul campo di Hastings. 1066-1077. Bayeux, Musée de la Tapisserie de Bayeux.
la lancia: alcuni la scagliano a guisa di giavellotto, mentre altri la tengono sotto l’ascella, caricando a fondo. Per la carica di questo genere era però necessario servirsi anche di un’altra innovazione tecnica: la sella ad arcione, senza la quale il cavaliere,
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a contatto col nemico, sarebbe stato sbalzato con facilità fuori da cavallo. L’innovazione consisteva in una sella con archi in legno molto rialzati e quasi verticali. Quello posteriore sorreggeva la schiena del cavaliere, nel momento dell’urto a fine carica; quello anteriore, invece, dotato di due incavi laterali, dava una maggiore stabilità in groppa al cavallo, e si rivelava utilissimo soprattutto nel combattimento corpo a corpo.
A destra ricostruzione dell’equipaggiamento del cavaliere carolingio, che si caratterizzava soprattutto per l’uso della brunia, una sorta di armatura ricoperta da scaglie di ferro che proteggeva il tronco e parte delle spalle. Nella pagina accanto, in basso l’equipaggiamento di un cavaliere normanno.
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la guerra nel medioevo/2 ancora la carica con le lance serrate sotto l’ascella. L’uso sempre piú massiccio e diffuso della cavalleria pesante condusse però a uno sviluppo tecnologico che, a partire dall’VIII secolo, culminò nel perfezionamento e nella diffusione della sella lignea e delle staffe di metallo. Riguardo alla prassi militare, i capitolari carolingi fanno luce su molti aspetti precedentemente ignoti. Si deve considerare che tutti i sudditi erano tenuti a prestare servizio di leva: esso doveva essere svolto, in maniera integrale, solo in caso di invasione e solo nell’area realmente minacciata. Veniva allora convocato il lantweri, l’all’arme generale, con pena di morte per i disertori. A partire dall’806 furono precisate le formule di convocazione, specificando la distinzione tra uomini liberi – i cui compiti erano modesti – e vassalli, che invece avevano mansioni ben piú cogenti. Per quanto riguarda invece una stima degli effettivi, lo storico tedesco Karl Ferdinand Werner (1924-2008) ne aveva ipotizzato la consistenza a partire dal conto dei vassalli diretti di cui disponeva Carlo Magno: un totale di 1800 tra vescovi, abbazie, conti e vassi dominici (vassalli del re). Supponendo che ciascuno di questi signori avesse un seguito di una ventina di cavalieri, si raggiungerebbe la cifra di circa 35 000 milites, ben equipaggiati, ai quali va sommata una massa di soldati a piedi, sti-
mabile ad almeno il doppio, se non il triplo, della forza a cavallo. In caso di mobilitazione, questo esercito, composto da circa 130 000 uomini – le cifre sono motivate dalla enorme estensione dell’impero –,veniva impiegato solo in parte. Quando, per esempio, Carlo Magno decise di attaccare gli Avari nel 796, egli poté contare su circa 15 000 fanti e 20 000 cavalieri, numeri sicuramente ragguardevoli per l’epoca. Oltre ai guerrieri palatini, cioè le guardie del palazzo, l’esercito carolingio comprendeva contingenti divisi per regioni e per popoli, a loro volta ripartiti in sottogruppi piú o meno organizzati e autonomi. Vi erano poi corpi posti nelle zone di frontiera, specializzati nella costruzione e nella riparazione delle fortificazioni, e destinati alla difesa delle popolazioni locali, minacciate dagli Ungari o dai Vichinghi o, per quanto riguarda per esempio l’Italia, dalle terribili incursioni saracene che, dopo la conquista del Nord Africa e della Spagna, infestavano il Mar Mediterraneo.
Le conquiste di Maometto
Dopo aver vinto a Badr contro i suoi avversari politici (624), Maometto si confermò leader religioso e guida militare carismatica della appena unificata penisola arabica. Alla morte del profeta (632) la regione costituiva ancora
La fanteria bizantina, riconoscibile dai lunghi scudi, abbandona il proprio generale di fronte all’attacco degli Arabi, che imbracciano invece scudi rotondi, miniatura dalla Sinossi della Storia di Giovanni Scilitze. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.
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In alto un’altra miniatura dalla Sinossi della Storia di Giovanni Scilitze raffigurante Messina assediata dagli Arabi, che presero la città nell’843. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.
un’entità unitaria, ma nessuno avrebbe potuto immaginare ciò che accadde nel secolo seguente, con i califfi suoi successori. Approfittando dell’indebolimento che le guerre e la peste del VI secolo avevano provocato negli imperi persiano e bizantino, gli Arabi riuscirono a convertire la Persia e a conquistare rapidamente il Vicino Oriente, l’Egitto, il Nord Africa e la Spagna, prima di essere fermati, a est, nel 717, a Costantinopoli, dall’imperatore Leone III Isaurico e, a ovest, nel 732, a Poitiers, da Carlo Martello. Oltre al fervore religioso – un elemento da non sottovalutare – le capacità militari degli Arabi si rivelarono ben al di sopra delle stime dei Bizantini e dei Sasanidi. Nei secoli che precedettero il successo di Maometto, gli Arabi erano infatti stati sovente inquadrati negli eserciti che ora andavano a combattere, in qualità di ausiliari o come mercenari, apprendendo le tattiche, le prassi guerresche e le strategie degli avversari.
Un esercito poliedrico e perciò temibile
L’esercito arabo che nel IX secolo conquistò il Mediterraneo, era però molto diverso da quello che due secoli prima era stato guidato da Maometto alla conquista della Mecca. In un primo tempo le truppe del Profeta basavano la loro forza essenzialmente sulla rapidità della cavalleria leggera, mentre, nei secoli seguenti, furono create unità sempre piú specializzate, ereditate da culture diverse: i corpi di marina provenienti dalla Siria, la cavalleria pesante e corazzata, tipica dell’area irano-sasanide o la fanteria pesante, retaggio del mondo romano-bizantino. In breve tempo, questa capacità di fondere e integrare armi e modi diversi di combattere fece dell’esercito islamico un rivale di tutto rispetto
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la guerra nel medioevo/2 La battaglia di Manzikert
Civiltà (e cavallerie) a confronto Gli scontri che videro come protagonisti gli eredi del mondo romano, Franchi e Bizantini, e il mondo arabo, possono essere facilmente divisibili in due tronconi: da un lato quelli combattuti per frenare l’onda araba in Occidente, culminanti nella celebre battaglia di Poitiers (732) e nel mito dell’episodio di Roncisvalle (778); dall’altro le frizioni tra l’imperatore d’Oriente e la crescente espansione islamica, segnate dapprima dal fallito assedio di Costantinopoli nel 717 e poi da una risoluzione con la vittoria selgiuchide di Manzikert, del 1071, preludio alle spedizioni crociate volte anche a restituire a Bisanzio i territori perduti contro i Turchi. Due sono le ragioni della scelta di trattare della battaglia di Manzikert, evento che, in realtà, esula dal periodo preso in esame: la prima è la mole di letteratura sul confronto Franchi-Arabi e, paradossalmente, la penuria di fonti attendibili sugli episodi militari citati e la molteplicità di ricostruzioni degli scontri di cui furono protagonisti i sovrani carolingi, dipinti come difensori della fede da fonti posteriori, viziate da palese partigianeria. Della battaglia di Poitiers, infatti, la ricostruzione è assai dubbia e sull’episodio di Orlando a Roncisvalle, prevale la letteratura epica posteriore, piú della fonte storica coeva. Il secondo motivo è, invece, il fatto che Manzikert fu, oltre che di civiltà, uno scontro tra cavalleria pesante e cavalleria leggera, con un successo schiacciante di quest’ultima. Nell’XI secolo l’impero bizantino doveva fronteggiare, a est, un nuovo nemico convertitosi recentemente alla religione islamica:
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i Turchi Selgiuchidi, cosí chiamati dal nome del loro condottiero, Seljuk. Cosí come i Parti prima di loro, i Selgiuchidi erano abili arcieri a cavallo, una tattica già nota ai Bizantini. La loro strategia consisteva in attacchi fulminei e fughe, colpendo con lanci di frecce dalla distanza, per poi culminare in un corpo a corpo finale, se si rivelava evidente la vulnerabilità dell’avversario. Solo in questo caso, infatti, i cavalli venivano arrestati, rapidamente voltati e lanciati alla carica contro il nemico. Il 19 agosto 1071, l’imperatore Romano IV intendeva riprendere la città di Manzikert, in Armenia, da poco conquistata dai Turchi di Alp Arslan, «il Leone». L’imperatore bizantino era riuscito ad arruolare un esercito di circa 30 000 uomini,
Miniatura raffigurante Alp Arslan (in trono) e Romano IV, da un’edizione manoscritta francese del De casibus virorum illustrium di Giovanni Boccaccio. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
composto da cavalleria e fanteria pesante bizantine e da mercenari provenienti dalla Germania, Normanni del Sud Italia e cavalieri delle province orientali, peceneghi e kipciachi. A capo della seconda schiera era stato posto Andronico Dukas, legato al precedente imperatore, Costantino X, e non del tutto fidato. La scelta di non schierare fanteria leggera e soprattutto arcieri, contro un esercito noto per la sua abilità nel saettare, fu marzo
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Percorso delle truppe di Romano IV
Tripoli
Percorso delle truppe di Alp Arslan
un azzardo di troppo. All’inizio della battaglia i Bizantini fecero quadrato, nel tentativo di opporsi agli attacchi fulminei degli arcieri selgiuchidi, ma senza successo. Decimati dalle frecce turche, i mercenari abbandonarono il campo. L’imperatore ordinò comunque di avanzare, mentre i Turchi attuarono la loro abituale strategia: simulando una ritirata, portarono il nemico molto lontano dagli accampamenti. Solo al tramonto, dopo un interminabile inseguimento, Romano ordinò ai suoi di tornare. Ma, a questo punto, i Turchi attaccarono in massa. Nel parapiglia generale e nel panico che si diffuse tra i Bizantini, solo le prime file resistettero, mentre la seconda schiera, capitanata da Andronico Dukas, sulla base di una falsa notizia che l’imperatore sarebbe caduto, abbandonò il campo. Col favore delle tenebre ormai calanti e con un avversario numericamente dimezzato, Alp Arslan circondò e decimò le truppe nemiche. Pur protetto dalla sua guardia personale, l’imperatore, fu comunque catturato, mentre i pochi fuggiaschi testimoniarono che l’esercito professionista di Bisanzio era stato distrutto dalle truppe leggere dei Turchi. L’Anatolia divenne dominio turco e Manzikert, per Bisanzio, si traformò nel casus belli utile a invocare quell’intervento dell’Occidente nei territori d’outremer che prese il nome di Crociata e di cui si tratterà nel prossimo numero.
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Campo di battaglia
In alto cartina con le direttrici seguite dagli eserciti che si scontrarono a Manzikert nel 1071. Qui sopra rovescio di uno scifato (moneta di forma concavaconvessa) in oro di Romano IV in cui l’imperatore viene benedetto da Cristo. XI sec. Birmingham, Barber Institute of Fine Arts.
nel panorama militare del mondo medievale. Elemento caratteristico delle armate arabe era poi la presenza di dromedari, utilizzati sia per lo spostamento di truppe e mezzi che per le battaglie. I mehari, le cosiddette «navi del deserto», sono infatti in grado di coprire una quarantina di chilometri al giorno, portando carichi di quasi 2 quintali e, a dispetto di quanto si potrebbe immaginare, raggiungono velocità ragguardevoli. Ereditata dai Sasanidi, gli Arabi utilizzarono accanto alla spada anche la sciabola, benché in modo sporadico. Si deve attendere infatti la fine del Duecento perché la sciabola e la spada curva si diffondano dall’Asia centrale nel mondo islamico in modo significativo. I guerrieri al comando dei califfi, e lo stesso Saladino, furono dunque dotati di spade a lama dritta, finemente istoriate. Tra le spade in uso, ebbe particolare rilievo la sayf curda che, a partire dal XII secolo, prese piede nei territori islamizzati, rimanendo in uso sino al XIX secolo in zone marginali del mondo islamico, quali il Sudan, dove si brandiva la kaskara. I guerrieri arabi erano inoltre dotati di un arco, detto nabka, realizzato con un legno particolarmente flessibile. I dignitari e i comandanti potevano disporre di una mazza, con impugnatura o di legno o di ferro e con una testa metallica di varie forme. La latt, dalla caratteristica testa oblunga, divenne poi l’arma prediletta nello scontro diretto assieme alla tabarzin, una scure di origine persiana, che passò da un modello pesante, a due mani, a uno piú ridotto che, legato alla sella, diveniva arma utilissima per il corpo a corpo.
Alla maniera orientale
Dopo le invasioni barbariche, gli intellettuali che scrissero opere di strategia e arte militare nei primi secoli del Medioevo furono perlopiú di origine bizantina. All’imperatore Maurizio si deve, per esempio, lo Strategikon, mentre sono di Leone VI, detto il Saggio, i Taktika, una preziosa raccolta di precetti militari. Pur essendo eredi della romanità e definendosi Romaioi, in ambito militare i Bizantini erano piú influenzati dall’Oriente che non dai «cugini» delle province romane d’Occidente. Fu infatti il modello militare del mondo dei Parti e dei Sasanidi, scomodi vicini di Bisanzio, a indirizzare il loro modo di fare la guerra. La composizione dell’esercito bizantino, infatti, differisce da quello romano in primo luogo nella cavalleria, piú che nella fanteria. Sono infatti debitori alla cavalleria pesante persiana i klibanari bizantini, il cui nome va legato alla corazza a lamelle detta appunto klibanion. Era la cavalleria pesante, dunque, la punta di diamante
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la guerra nel medioevo/2 dell’esercito di Costantinopoli. Questi cavalieri avevano una grande versatilità in battaglia: una volta spezzato il kontos, una lancia lunga 4 m, disponevano di una spada (paramerion) o di una mazza (bardoukion) e, altra eredità orientale, di un arco curvo con una ventina di frecce.
Quaranta frecce per ogni fante
Seguiva, in ordine di importanza, la fanteria, dotata di un’armatura relativamente leggera, un arco composito con una dotazione di una quarantina di dardi, uno scudo e un’ascia per i combattimenti ravvicinati. Vi era l’appoggio della fanteria pesante, protetta da un’armatura a piastre, un elmo e un grande scudo di forma circolare. La fanteria pesante era inoltre dotata di lunghe lance e spade per il corpo a corpo, e veniva schierata in unità di 4, 8 o 16 linee, dietro alla cavalleria o ai suoi fianchi. Tra le armi in dotazione all’esercito bizantino spicca un’arma segreta: il «fuoco greco»
(vedi «Medioevo» n. 191, dicembre 2012; anche on line su medioevo.it). Doveva trattarsi di una letale miscela di «zolfo e resina di pino» – stando alla testimonianza di Anna Comnena nella sua Alessiade – a cui i Bizantini aggiungevano probabilmente anche stoppa, calce viva e la nafta che ottenevano dai loro giacimenti orientali e che veniva sparata da speciali tubi atti all’uopo, fissati alle prue delle navi o sulla sommità delle mura. La miscela si incendiava a contatto con l’aria e con l’acqua, seminando il panico tra gli avversari. Il fuoco greco, infatti, scrive la Comnena, «cadeva come un fulmine, carbonizzando le facce dei nemici» i quali in pochi si salvavano, «fuggendo come sciami di api, scacciate con il fumo». Già dal VI secolo l’esercito bizantino aveva però subito una totale trasformazione: le truppe prima divise tra palatini, comitatenses e limitanei (vedi «Medioevo» n. 217, febbraio 2015), erano state rimpiazzate da nuove categorie chiamate numeri, foederati e buccellarii. I numeri erano le truppe regolari dell’impero, comprendenti sia fanteria che cavalleria; i foederati erano truppe mercenarie, tra cui comparivano persino gli Unni; infine, i buccellarii erano nobili bizantini che prestavano un ulteriore
Il «fuoco greco», una miscela incendiaria devastante, capovolse l’esito di piú d’una battaglia il dromone Ricostruzione grafica della prua di un dromone bizantino provvisto di un «lanciafiamme» per l’uso del «fuoco greco». L’ipotesi si basa su questa miniatura raffigurante un combattimento navale, tratta anch’essa dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skyllitzes. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.
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In alto particolare di un’altra miniatura dal Codex Graecus Matritensis: vi è raffigurato l’accampamento allestito dagli Arabi che avevano dato l’assedio alla città di Edessa. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.
giuramento di fedeltà all’imperatore, ottenendo in cambio alcuni vantaggi economici.
Il declino dell’impero di Bisanzio
Dopo la disfatta di Manzikert (vedi box alle pp. 36-37) e la perdita dell’Anatolia, da cui Bisanzio traeva la gran parte dei suoi cavalli e dei suoi cavalieri, il declino dell’impero romano d’Oriente proseguí in modo inarrestabile. I crociati, che si erano impegnati a combattere anche per riprendere i territori bizantini, dimenticarono ben presto tali promesse e, dopo le prime conquiste e restituzioni, si insediarono nei territori faticosamente strappati al nemico, dando vita a staterelli di tipo feudale, con a capo signori occidentali. Nel 1204 i Veneziani conquistarono addirittura Costantinopoli (vedi «Medioevo» n. 192, gennaio 2013; anche on line su medioevo.it), costringendo il sovrano a fuggire, e dando vita al cosiddetto impero latino d’Oriente, un esperimento destinato a fallire e a cadere nel 1261. Bisanzio sopravvisse ancora per due secoli, sin quando, come vedremo nell’ultima puntata di questo percorso, nel 1453 cadde sotto i colpi dei cannoni turchi di Maometto II. F
Nel prossimo numero ● A cavallo dell’anno Mille
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immaginario l’unicorno
Meravigliosa creatura di Cesare Capone
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Dell’esistenza dell’unicorno tutti, o quasi, si dicevano certi, sebbene nessuno l'avesse mai davvero avvistato. Nel Medioevo il mito di quel prodigioso, candido e velocissimo destriero non venne meno, e, anzi, fu alimentato dalla letteratura e da una copiosa produzione artistica. E anche in seguito, quando cominciarono a circolare i primi dubbi, furono in molti a negare che certi strani e preziosi denti potessero appartenere a un banale cetaceo...
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Roma, Palazzo Farnese. La vergine e l’unicorno, affresco del Domenichino (al secolo Domenico Zampieri). 1604-1605.
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ià presente in contesti culturali diversissimi – nel mondo indiano e cinese, greco e romano, cristiano e islamico – l’unicorno è il piú suggestivo degli animali favolosi che popolarono l’immaginario medievale europeo. Anche la sua descrizione fisica varia moltissimo (asino, gazzella, orice, cervide, cavallo), mentre in ambito europeo assume in definitiva quella di un elegante animale bianco, a metà fra il cavallo e l’asino. Ciò che hanno in comune, e li contraddistingue, è un lungo corno nel mezzo della fronte, da cui il nome. Viene anche descritto concordemente come un animale solitario, forte, fiero, velocissimo, imprendibile, il cui corno è dotato di un grande potere terapeutico. La prima fonte letteraria occidentale a noi nota, contenente un riferimento all’unicorno, è dello storico greco Ctesia di Cnido (V-IV secolo a.C.), che cosí scrive negli Indica: «In India ci sono asini selvatici grandi come cavalli e anche di piú. Hanno il corpo bianco, il capo rosso e gli occhi blu. Sulla fronte hanno un corno lungo circa un piede e mezzo. La polvere di questo corno macinato si prepara in una pozione che è un antidoto contro i veleni mortali. (…) Coloro che bevono utilizzando questi corni come coppe, non vanno soggetti, si dice, alle convulsioni e all’epilessia. Inoltre sono anche immuni ai veleni coloro che, prima di averli ingeriti, bevono vino, acqua o qualsiasi al-
tra cosa da queste coppe». La reale esistenza dell’unicorno è certificata dall’autorità di Aristotele, il quale, nella Storia degli animali, contenente la descrizione di 581 specie diverse, parla genericamente di animali con un unico corno frontale come, per esempio, l’«asino indiano» e l’orice.
Dai Settanta alla Vulgata
Ma la fonte piú autorevole è la Bibbia: in alcuni passi dell’Antico Testamento tradotto in greco fra il III e il II secolo a.C. ad Alessandria d’Egitto (la cosiddetta la Bibbia dei Settanta), la parola ebraica re’em, indicante un animale dotato di corna, ma dalle caratteristiche molto incerte, viene tradotta monòkeros, unicorno. Un errore che passa nella Bibbia tradotta in latino da san Girolamo verso la fine del IV secolo, adottata dalla Chiesa di Roma e nota come Vulgata, nella quale il monòkeros dei Settanta diventa rhinoceros in alcuni passi e unicornis in altri come in Isaia e nei Salmi. Ma il solo passo della Bibbia che menzioni esplicitamente un animale dotato di un solo corno è in Daniele (VIII, 5): «Ecco un capro venire da Occidente sulla terra, senza toccarne il suolo: aveva tra gli occhi un grande corno». Si riferisce a una visione (la seconda) avuta da Daniele e, secondo l’esegesi, l’unicorno simboleggia Alessandro Magno e il suo regno. Ma per tutti coloro (la stragrande maggioranza) che prendevano la Bibbia alla lettera, rifiutando le interpretazioni simboliche,
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immaginario l’unicorno A sinistra rappresentazione allegorica della Annunciazione, da un Libro d’Ore di produzione fiamminga. 1526. Cambridge, Fitzwilliam Museum. Maria siede in un giardino cinto da mura – simbolo della sua verginità – nel quale fa il suo ingresso un unicorno bianco che si accovaccia accanto a lei. In secondo piano, Dio osserva la scena da un boschetto avvolto dalle fiamme, mentre l’Arcangelo Gabriele, sulla destra, soffia in un corno da caccia. Nella pagina accanto Il Trionfo della Castità, pannello di cassone attribuito a Jacopo del Sellaio e facente parte del ciclo ispirato ai Trionfi del Petrarca. 1480 circa. Fiesole, Museo Bandini.
l’unicorno era un animale davvero esistente. Da parte sua, nei primi secoli dell’era cristiana la letteratura patristica legittimò l’unicorno da simbolo pagano a simbolo cristiano. L’impulso maggiore dato alla leggenda e poi al mito dell’unicorno in Occidente venne dal Fisiologo, opera di un ignoto autore alessandrino scritta probabilmente nella seconda metà del II secolo d.C,
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che contiene quarantotto storie di animali, vegetali e pietre preziose, senza alcuna distinzione fra esseri reale e immaginari, seguite di solito da un commento moraleggiante di ispirazione cristiana.
Piccolo, ma ferocissimo
Nel paragrafo XXII si legge: «Il Fisiologo ha detto dell’unicorno che ha questa natura: è un picco-
lo animale, simile al capretto, ma ferocissimo. Il cacciatore non può avvicinarlo a causa della sua forza straordinaria. Ha un solo corno in mezzo alla testa. E allora come gli si dà la caccia? Espongono accanto a esso una vergine immacolata, e l’animale balza nel seno della vergine, ed essa lo allatta, e lo conduce al palazzo del re. L’unicorno è un’immagine del Salvatore che ha marzo
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preso dimora nel ventre della vera e immacolata Vergine Maria». Occorre però rilevare che la storia del legame privilegiato tra la Vergine e l’Unicorno evidenziato dal Fisiologo non è stata inventata da allegoristi cristiani, ma proviene da fonti pagane, mesopotamiche e indiane in particolare, dove tale legame è espresso in termini esplicitamente erotici. Nel corso dell’età carolingia (VIII-IX secolo) al mito dell’unicorno si aggiunge un elemento del tutto nuovo: la sua uccisione, dopo essere stato sedotto
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da una vergine, da parte di uno o piú cacciatori e il suo trasporto al palazzo reale.
Il mito si fa popolare
Grazie alle numerose traduzioni del Fisiologo e alla nascita dei bestiari che a esso si ispiravano, il mito del legame fra la Vergine e l’Unicorno entra profondamente nella cultura medievale. Patrimonio esclusivo dei dotti nell’Alto Medioevo, diviene molto popolare grazie alla sua comparsa nelle miniature che illustrano il Fisiologo e i salterii a partire dal X
secolo e alla tradizione orale. Il mito «pagano» dell’unicorno viene cristianizzato in una direzione celebrativa della verginità e della castità. Fra le molte varianti, predomina quella, mutuata principalmente dal Fisiologo, secondo cui la fanciulla è la Vergine Maria; l’Unicorno è il Cristo nato dal suo grembo; i cacciatori sono gli Ebrei che lo misero a morte; il suo trasporto nel palazzo del re è la sua ascensione in Paradiso accanto a Dio Padre. Da immagine sacra perché simbolo di Cristo, l’unicorno diventa, marzo
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agli occhi della nobiltà europea, anche un figura regale, tanto da entrare a far parte dell’araldica: campeggia sulle insegne dei papi Clemente VII e Paolo III, del cardinale Crivelli, degli Estensi e di Cecilia Gonzaga. Ancor oggi l’unicorno è il simbolo della Scozia nello stemma reale britannico dove fronteggia il leone inglese.
Nella pagina accanto arazzo «millefiori» con la raffigurazione allegorica del tatto in cui compare il motivo della dama con l’unicorno. 1500 circa. Parigi, Musée national du Moyen Âge. In basso particolare dell’elmo di un archibugiere decorato con un unicorno rampante. 1686. Leeds, Royal Armouries.
Dal sacro al profano
Il mito dell’unicorno passò anche, con grande fortuna, dall’amore sacro a quello profano della letteratura cortese (XII-XIII secolo) dove l’innamorato si arrende all’amata come l’unicorno alla vergine. Una delle piú alte voci in tema è quella del troviere francese Richard de Fournival (1201-1260) con un risultato di squisita eleganza. Dice l’innamorato: «Solo il tuo dolce profumo mi ha condotto fino a te, come l’unicorno si addormenta sotto l’influsso della verginale fragranza. Perché questa è la natura dell’unicorno che come nessun altro animale è difficile da catturare, e ha un corno sul naso che nessun’arma può combattere: cosí che nessuno osa attaccarlo, tranne una vergine. Appena si accorge della sua presenza dal profumo di lei, le si inginocchia umilmente davanti e si abbassa fino a farle intendere che vorrebbe mettersi al suo servizio. Per questo i cacciatori esperti, che conoscono la sua natura, preparano cosí una vergine: essa le si addormenta in grembo e, mentre dorme, i cacciatori, che non oserebbero avvicinarlo da sveglio, si fanno avanti e lo uccidono». «Cosí crudelmente Amore si è comportato con me. Perché io sono stato l’uomo piú fiero del mondo nelle questioni d’amore, e non ho mai pensato che avrei trovato una donna che desiderassi possedere
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(…) Ma Amore, abile cacciatore, ha messo sul mio cammino una fanciulla, al profumo della cui dolcezza mi sono addormentato, e cosí muoio della morte a cui ero destinato». Numerosi sono i riferimenti e le allusioni sull’unicorno nella letteratura medievale e rinascimentale. È interessante notare come William Shakespeare citi il favoloso animale attraverso un personaggio che mostra esplicitamente di non credervi: nella Tempesta, il mago Prospero intrattiene Alonso e i suoi seguaci con una strana musica e un banchetto
fantastico; dopo di che l’irriverente Sebastiano commenta ironicamente, con l’aria di un uomo di mondo il cui scetticismo è stato scosso: «Ora sono disposto a credere che vi siano gli unicorni (La Tempesta, III, 3, 21-22). «Possiamo certo dedurne che Shakespeare non credesse all’esistenza degli unicorni – fatto questo assai interessante se si considera che migliaia dei suoi contemporanei, bene educati e nutriti come lui di buone letture, accettavano l’esistenza di questo animale senza alcun dubbio apparente». Il grande bardo vi credeva, «almeno a livello dell’immaginazione, con una intensità proporzionale alle sue necessità poetiche» (Odell Shepard, La leggenda dell’unicorno, Sansoni). Nel saggio Il ciclo dell’unicorno (Marsilio), Marco Restelli osserva giustamente che l’unicorno, figura ambigua e paradossale, simbolo erotico e di casta (anzi sacra) purezza, di irriducibile selvatichezza e di amor cortese, di forza (innanzitutto nel corno), ma anche di debolezza (resa alla vergine), sembra possedere una polarità interna, quasi incarni una coniunctio oppositorum (unione dei contrari) che per lungo tempo ha affascinato l’Occidente senza che esso abbia saputo davvero spiegarsi il senso ultimo, l’origine e il significato di questo essere favoloso.
Una presenza ubiqua
Sulla reale esistenza dell’unicorno, dal Medioevo al Rinascimento e oltre sono stati pubblicati molti racconti di viaggiatori, mercanti, esploratori che affermavano di averlo visto o che riferivano le testimonianze o i «sentito dire» di persone del posto un po’ dappertutto, dall’Etiopia al Sudafrica dal Medio Oriente al Tibet, dai Carpazi alla Scandinavia, dall’India alla Florida.
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immaginario l’unicorno Benché cercato dai molti che credevano nella sua esistenza, il favoloso animale non fu mai trovato. Si materializzò soltanto attraverso il suo corno frontale, il prezioso alicorno, al quale si attribuivano le molteplici virtú di curare numerose malattie, combattere l’impotenza sessuale, agire da afrodisiaco, rivelare la presenza di veleni nei cibi e nelle bevande, neutralizzare gli avvelenamenti e purificare le acque. Il primo documento europeo che si riferisce al benefico alicorno risale al V secolo a.C., nei già citati Indica di Ctesia. Ma nessuno dei medici dell’antichità greco-romana, a cominciare dai grandi come Ippocrate, Dioscoride, Galeno, fa parola sulle proprietà terapeutiche dell’alicorno. Sembra che esse siano state tramandate all’Europa medievale dalla medicina araba. I primi alicorni furono messi in vendita in Europa alla fine del XII
secolo e raggiunsero il culmine della loro importanza nel XVI. Che si trattasse di veri corni di alicorno, non fu messo in dubbio dalla comune opinione per quasi quattro secoli: il corno confermava l’esistenza dell’animale, e ciò che si diceva sia sulla favolosa creatura – cosí rara in natura e cosí difficile da catturare –, sia sulle prodigiose virtú del suo corno, giustificava l’alto costo dell’alicorno che, nel periodo migliore (XV-XVI secolo), superava di almeno dieci volte il suo peso in oro, se venduto a pezzi o in polvere, mentre gli esemplari interi spuntavano talvolta anche il doppio di questa cifra.
Fonte di lauti guadagni
Mentre la Chiesa continuava a interpretare il mito dell’unicorno in senso spirituale, nella società europea fra il XIII e il XVI secolo, l’alicorno era oggetto di interessi del tutto materiali, economici e scien-
tifici. Furono mercanti e farmacisti a magnificare le doti dell’alicorno presso la ricca borghesia e la nobiltà europea ricavandone lauti guadagni. E furono principalmente medici e naturalisti a discuterne in molte pubblicazioni, giungendo nei secoli XVI e XVII a combattere una battaglia pro e contro l’esistenza dell’unicorno – senza averne mai visto un esemplare – e l’utilizzo del suo corno come farmaco. Ecco dunque una breve rassegna degli autori piú importanti. Nella Storia degli animali (1551), il naturalista svizzero Conrad Gessner ipotizza che l’unicorno si è ormai estinto da lungo tempo, probabilmente nel Diluvio universale; e che sono scheletri di unicorno le ossa fossili scoperte in una località tedesca. Ancora in Germania, altri reperti del genere vengono recuperati fra il XVII e il XVIII secolo. Uno di essi, trovato in Bassa Sas-
Il narvalo
Il dente piú strano del mondo Quello che per secoli è stato spacciato come l’autentico alicorno, cioè come il corno del leggendario unicorno, è, in realtà, un dente – il piú strano che si sia mai visto – del narvalo maschio, un cetaceo (mammifero marino) lungo 4-5 m che frequenta le acque litoranee dei mari artici e può anche risalire i fiumi. Il narvalo (Monodon monoceros) ha solo due denti o zanne: il destro, che di rado raggiunge i 30 cm; e il sinistro, lungo quasi 3 m, appuntito come una lancia, che non gli serve per attaccare, né per difendersi. Ha una caratteristica struttura a spirale in senso antiorario che gli conferisce una grande resistenza meccanica e che, quando veniva commerciato per le sue straordinarie, supposte proprietà terapeutiche, ne garantiva il riconoscimento e quindi l’autenticità. Solo di recente, un gruppo di ricerca guidato da Martin Nweeia della Harvard University School of Dental Medicine, ha scoperto che il dentone del narvalo non è quello che un tempo veniva chiamato lusus naturae, scherzo di natura, ma un supersensore dotato di circa 10 000 terminazioni nervose che ne fanno una vera e propria antenna biologica. Esso permette al narvalo, che fa da guida alle femmine, di tenersi lontano dalle acque poco salate che mettono a rischio la sopravvivenza della specie; di funzionare da ecoscandaglio per esplorare entro un vasto raggio l’ambiente circostante; avere un senso del fiuto che lo guida verso i pesci, i calamari e i crostacei di cui si nutre.
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sonia nel 1663, viene ricostruito in un disegno incluso nel trattato di storia naturale e geologia Protogaea di Gottfried Wilhelm Leibniz, pubblicato postumo nel 1749. È sorprendente scoprire come una delle menti piú brillanti del XVII secolo, grande matematico, filosofo e scienziato, fosse convinto dell’esistenza dell’unicorno. Il primo studioso che recisamente lo nega è il medico Andrea Marini nel Discorso contra la falsa opinione dell’alicorno (1566), dove mette in ridicolo tutta la credulità sul favoloso animale e sul suo benefico corno. In tono sprezzante, incolpa la «setta degli arabi» per l’uso dell’alicorno in medicina. Il libro suscita notevole scalpore, ma gran parte degli ambienti scientifici si schiera contro le sue tesi. Nello stesso anno esce L’alicorno del medico e botanico Andrea Bacci, il quale, con altrettanto vigore, sostiene l’esistenza dell’unicorno
e la validità dell’alicorno. Ma la sua influenza fu assai inferiore a quella esercitata dal Marini.
Una posizione ambigua
Di notevole e significativo interesse, anche perché dimostrativa della mentalità dell’epoca anche fra gli studiosi, è la posizione assunta dal celebre medico francese Ambroise Paré, uomo di scienza ma anche di profonda fede, nel suo Discorso del 1584. Come scienziato, riconosce che non vi è alcun ragione per confermare che l’unicorno esista realmente; come credente, riconosce invece che la scienza deve fermarsi di fronte alla fede, e poiché la Bibbia parla dell’unicorno, noi dobbiamo ritenere che esso esista. Una posizione contraddittoria e ambigua, adottata anche su altre materie da studiosi del tempo (Galileo è l’esempio massimo) per non incorrere nella censura e nella condanna ecclesiastica.
Sulle due pagine tavola con il «pesce che gli Islandesi chiamano Narwal e che è dotato di un corno o dente che dicono sia
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Un dente di narvalo originariamente appartenente al tesoro della cattedrale di Saint-Denis. Parigi, Musée national du Moyen Âge.
Uno stesso atteggiamento di prudenza, ma in nome della libertà di giudizio, viene assunto dal naturalista Ulisse Aldrovandi che, nel trattato I quadrupedi solipedi (1639), dedica trentun pagine all’unicorno e passa in rassegna tutta la letteratura corrente dei suoi tempi, ma senza sbilanciarsi: «Alcuni dubitano – scrive – dell’esistenza dell’unicorno; taluni l’affermano e taluni la negano. Da parte mia mi limito a registrare onestamente le loro opinioni, lasciando ai lettori la libertà di giudicare». Ma già nel 1638, un anno prima dell’Aldrovandi, Ole Worm, docente di medicina all’università di Copenhagen, pubblica una disser-
dell’unicorno», dalla Relation du Groenland di Isaac de La Peyrère. XVII sec. Parigi, Muséum national d’Histoire naturelle.
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immaginario l’unicorno Raffaello Sanzio, La dama con liocorno. Tela applicata su tavola (supporto non originale), 1505-1507. Già collezione Aldobrandini. Roma, Galleria Borghese.
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Copenaghen, castello di Rosenborg. I troni reali, di cui quello del re (a sinistra) fu realizzato, tra il 1662 e il 1671, con denti di narvalo. Il prezioso seggio, commissionato da Federico III, è stato utilizzato per tutte le cerimonie di incoronazione dal 1671 al 1840.
tazione in cui svela che l’alicorno non è altro che la lunga zanna del narvalo maschio, un mammifero marino diffuso soprattutto nei mari del Circolo polare artico. Il segreto, noto solo ai pescatori e ai commercianti dell’estremo Settentrione, era stato gelosamente custodito per centinaia d’anni. Mentre l’inafferrabile unicorno era cercato prevalentemente al Sud, il suo corno arrivava dal Nord, ma gli acquirenti lo ignoravano.
Alla mercé dei pazienti
La dissertazione di Worm non pose subito fine al mercato dei creduti alicorni, né alle leggende popolari sull’unicorno. Preparò tuttavia il declino di entrambi. Prima e dopo Worm, molti medici anche famosi, pur non avendo alcuna fiducia nell’alicorno, continuavano a prescriverlo, perché, se non l’avessero fatto e il paziente fosse morto, sarebbero stati perseguitati dai suoi parenti; o semplicemente per compiacere i pazienti che lo richiedevano. La scoperta di Worm non giunse a gran parte del pubblico che, oltre un secolo dopo, continuava a credere nell’alicorno e nelle sue straordinarie virtú. Tanto che i sovrani del suo Paese, la Danimarca, si fecero erigere un trono interamente costituito da denti di narvalo, simbolo di ricchezza e di potenza che stupí l’Europa dell’epoca. Da oltre trecento anni l’alicorno è stato cancellato dalla farmacopea, ma non dalla storia come parte dei tesori reali e della Chiesa, spesso esibiti con gran pompa come oggetti sacri. I fastosi papi del Rinascimento acquistarono numerosi alicorni servendosi di ogni mezzo, anche illegale
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se necessario. Sono giunti fino a noi molti di questi esemplari finemente decorati con oro e argento e incastonati di gioielli, simbolo di prestigio, di potenza e autorità. Tra i piú famosi, ricordiamo quelli dei tesori reali di Francia, Spagna, Inghilterra, dell’abbazia di Westminster a Londra, della cattedrale di Saint-Denis a Parigi, del duomo di Milano e della basilica di S. Marco a Venezia. Quanto all’unicorno, la sua esistenza è legata all’arte, nelle miniature dei manoscritti, nelle sculture gotiche, nelle tele e negli arazzi rinascimentali. Al di fuori della scienza che lo nega, è ancora ben vivo: pascola e corre ancora nei boschi e nelle praterie del mito giunto fino a noi, come altri miti di fondazione, dal lontano Oriente. F
2 La vergine e l’unicorno Poserò il capo sul tuo grembo intatto, bella che siedi nel bosco d’amore. E mi sarà dolce l’inganno delle tue carezzevoli dita. Dal palazzo del re già si parte il nero cacciatore. Mi coglierà nel sogno della mia lunga corsa che si quieta sul finire del giorno. Cesare Capone (da Quel rosso sole, raccolta di poesie, Lucini editore,1996)
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Il racconto della di Furio Cappelli
fontana Perugia, la Fontana Maggiore. Artefici dell’opera, realizzata nel 1277-1278, furono Nicola e Giovanni Pisano (subentrati ad Arnolfo di Cambio), per la gran parte degli elementi scultorei, e il fonditore Rubeus (Rosso) per la coppa di bronzo.
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saper vedere perugia Al di là della sua pur vitale funzione originaria, uno dei monumenti simbolo di Perugia fu voluto a maggior gloria della città. E, per farlo, furono chiamati a realizzarlo Nicola e Giovanni Pisano, che assolsero al mandato plasmando un’opera straordinaria, in cui l’eleganza delle forme si unisce a un affascinante gioco di allegorie ed evocazioni
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uarda tu che passi la gioconda vita di questa Fontana. Se osservi bene puoi vedere cose mirabili. Sant’Ercolano, san Lorenzo, continuate a implorare. Che conservi le acque Colui che siede sopra gli astri». Inizia cosí la lunga iscrizione in esametri latini che si legge sulla Fontana Maggiore di Perugia, lungo la cornice che cinge la vasca superiore, in basso. I santi patroni della città, il martire locale Ercolano e san Lorenzo, al quale è dedicata la cattedrale prospiciente, rappresentano i Perugini al cospetto dell’Eterno, e si assicurano la sua benevolenza con le loro suppliche. È bene, infatti, che l’acqua continui a sgorgare senza sosta. Vengono poi menzionati gli artefici dell’opera. Perugia, innanzitutto, deve al sovrintendente fra’ Bevignate gli stessi onori che si devono a un padre. Egli infatti, su incarico del comune, «ha diretto ogni cosa». Perugino di nascita, oppure oriundo di Cingoli (Macerata), era un monaco benedettino, appartenente alla congregazione rigorista dei Silvestrini. Vantava molteplici competenze che oggi definiremmo ingegneristiche, e fu assai coinvolto nel grande fervore edilizio che caratterizzò il capoluogo umbro alla fine del Duecento.
Un’impresa risolta in tempi brevi
L’epigrafe si concentra quindi sugli autori principali del vasto apparato scultoreo, Nicola Pisano e suo figlio Giovanni, e ricorda infine Boninsegna da Venezia, un esperto di idraulica. Già impegnato a Orvieto, fu convocato dal Comune perugino per concludere la difficile impresa dell’acquedotto che doveva rifornire la fontana. Questa dovette essere realizzata in tempi assai brevi, nell’arco di un anno, visto che l’epigrafe è datata 1278, mentre il progetto era ancora in discussione nell’autunno 1277. Come attesta un’altra iscrizione, d’altronde, nel 1277 era già pronto il catino bronzeo sommitale, opera del fonditore Rubeus (Rosso), un maestro non meglio definito, attestato anche nel cantiere del duomo di Orvieto,
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saper vedere perugia la coppA bronzea della fontana, realizzata nel 1277 dal fonditore Rubeus. Al centro della tazza è il gruppo, anch’esso bronzeo, di evidente gusto classico: raffigura tre ninfe che sorreggono l’anfora da cui zampilla l’acqua.
la vasca superiore della fontana presenta figure allegoriche, personaggi storici, biblici e mitologici. Tra di essi, in corrispondenza di uno degli angoli principali, campeggia Euliste, il re etrusco a cui la tradizione attribuiva la fondazione di Perugia, che, secondo il trecentesco Conto di Corciano, sarebbe avvenuta proprio nel luogo identificato dalla Fontana Maggiore. A destra ancora un’immagine della fontana, dietro la quale è il Palazzo dei Priori, sulla cui facciata, sopra il portale che dà accesso alla Sala dei Notari, sono visibili le copie dei bronzi di un leone e di un grifo, animali-simbolo di Perugia (gli originali si trovano all’interno del palazzo). un’inferriata chiuse la Fontana Maggiore nel 1303. Il manufatto originario fu sostituito una prima volta nel 1806, ma anche quella recinzione è stata in seguito rimpiazzata da quella oggi visibile, posta in opera nel 1948-1949, in occasione di un piú ampio intervento di restauro e ricomposizione filologica del monumento.
Il monumento in sintesi
Il simbolo di una città «nuova» 3 Perché è importante La Fontana Maggiore di Perugia è una delle piú antiche fontane pubbliche superstiti, ed è la prima in assoluto a essere concepita come un grande complesso figurativo di sgargiante impatto visivo, con un’ampia messe di significati e di implicazioni. È il fulcro della «nuova» città di Perugia, il suo stendardo e il «manifesto» che ne enuncia con orgoglio l’identità, i punti di forza e le aspirazioni. 3 La Fontana Maggiore nella storia Ubicata nella sede delle magistrature civiche e del vescovo, in quella piazza dove già nel 1234 la Pietra della giustizia ricordava i primi successi riportati dal popolo sull’aristocrazia, la Fontana Maggiore segna la piú ambiziosa realizzazione promossa dal Comune
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perugino, ormai saldamente guidato dalle forze popolari della società cittadina. Insieme alla scomparsa fontana di Arnolfo e al Palazzo dei Priori, rientra nel quadro di un vero e proprio «piano regolatore», che coinvolge l’intero tessuto urbano. 3 La Fontana Maggiore nell’arte La Fontana Maggiore è l’ultima opera documentata di Nicola Pisano, ed è anche l’ultima che lo vede agire in collaborazione con il figlio Giovanni. Ma la sua singolarità è tale che la sua importanza prescinde dal difficile riconoscimento dell’apporto diretto dei due scultori. Opera corale, quasi una cattedrale laica in miniatura, è un episodio sorprendente di quella rinascita dell’antico che segna la vicenda artistica delle città italiane alla fine del Duecento.
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per l’architrave bronzeo istoriato della Porta della Postierla (o del Vescovado). Se per realizzare la fontana bastarono dodici mesi, l’acquedotto che giungeva fin lí richiese invece una gestazione di ventitré anni. La sorgente si trovava ben lontana, sul Monte Paciano, a quasi 4 km di distanza dalle mura urbiche, a nord di Porta Sant’Angelo. Realizzata interamente con tubature in piombo, la condotta necessitava di molteplici accorgimenti per vincere le differenze di quota, sino a scavalcare le mura etrusche e a tagliare nel vivo l’incasato della città nella zona della Conca, dove tuttora emerge l’antico acquedotto, «alleggerito» alla base da una serie di arcate. L’impresa fu avviata dal Comune nel 1254, ma, dopo una lunga e difficoltosa lavorazione, già nel 1260 l’opera risulta abbandonata. Il progetto fu ripreso con particolare impegno nel gennaio 1277, e una ferrea volontà, condivisa da tutta la cittadinanza a costo di cospicui sacrifici, fece in modo che un lavoro tanto impegnativo da sembrare irrealizzabile venisse finalmente ultimato nel giro di pochi mesi. Già nell’estate dello stesso anno la condotta era giunta al traguardo, in quella piazza del Comune (oggi
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piazza IV Novembre) dove di lí a poco sorse la Fontana Maggiore, il fulcro e il baricentro della «nuova» città, a onore e gloria di un agguerrito governo di segno popolare che basava il suo prestigio sulla difesa del diritto, sull’ordine e sull’abbondanza delle risorse di vita.
Il primo zampillo
Anche ammettendo problemi strutturali o di approvvigionamento dell’acquedotto, sicuramente l’acqua affluiva regolarmente in piazza nel 1280. Il getto che fuoriusciva in alto da una coppa di bronzo, sorretta da tre giovani donne abbigliate all’antica, per poi zampillare nel catino di Rubeus e nelle due vasche marmoree sottostanti, era già uno spettacolo che animava lo scenario della città, e di cui i Perugini, allora come oggi, andavano fieri. Mancava un ultimo tassello: proseguendo la condotta verso sud, sull’asse dell’attuale corso Vannucci, si realizzò un’altra fontana, di minore impatto, situata dai documenti dell’epoca «a piè della piazza», nell’area deputata al mercato che si trovava al margine del polo monumentale e urbanistico della città (la «piazza grande», che comprendeva l’invaso del corso).
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la cornucopia, simbolo di abbondanza, ed è affiancata dalla domina del Lago Trasimeno, che reca i pesci.
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Quasi un preludio del Buon Governo
«In quiete si stendano nella sua vista colli e vallate, verzieri quali nessuna terra nutre, colture di messi e bei vigneti e fonti quali nessuna città costruí: di là [nella fonte di Arnolfo, n.d.A.] l’immagine aurea di un grifo e di un leone, forme diverse e varie figure, di qua [nella Fontana Maggiore, n.d.A.] volti ed aspetti d’uomini, in alta mole. Tutto ciò che è placido e dilettevole a vedersi in te si contempla, o migliore fra le dimore, dolce di prosperità, amenissima, tranquilla di quiete sicura». Le due fontane pubbliche si trovano qui in seno a una lode alla città di Perugia, incastonata in un paesaggio all’insegna della quiete, della prosperità e dell’armonia. Con alcuni decenni di anticipo, sembra di «vedere» gli Effetti del Buon Governo dipinti da Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena (1338-40 circa). I versi appartengono alla Eulistea, un poema in latino commissionato dai reggitori della città umbra al retore Bonifacio da Verona nel 1299. Protagonista dell’opera è Euliste, il re etrusco che avrebbe dato luogo a Perugia. Stando a un ulteriore poema, il trecentesco Conto di Corciano, egli fondò la città proprio nel luogo identificato dalla Fontana Maggiore, di fronte all’antica residenza comunale (oggi inglobata nel Palazzo Arcivescovile) e alla cattedrale di S. Lorenzo (la cui facciata era in precedenza rivolta alla piazza). Il nome di Euliste si ricollega all’Auleste dell’Eneide, il re etrusco che si allea con l’eroe del poema di Virgilio, e la memoria di questo fondatore poteva essere ben
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Per questa nuova impresa venne chiamato il senese Arnolfo di Cambio, che la ultimò nel gennaio 1281. Per renderla ancor piú memorabile, il Comune la impreziosí con due considerevoli sculture bronzee che dovettero esserle poste ai fianchi, sulla fascia sommitale. Rappresentavano un leone e un grifo, ossia gli animali-simbolo di Perugia. Vennero rivestiti di una lamina d’oro in vista della nuova collocazione, ma già nel 1301 furono dislocati sul Palazzo dei Priori, di fianco all’ingresso della Sala dei Notari (ossia di fronte alla Fontana Maggiore), laddove sono oggi sostituiti da copie. La fontana di Arnolfo, nel contempo, venne progressivamente smembrata. Sembra che il suo destino fosse segnato dal malfunzionamento dell’acquedotto, che nel 1308 risulta del tutto fuori uso. Venne intrapreso un vasto programma di interventi di modifica e di riattamento della condotta, coinvolgendo nomi di spicco come Lorenzo Maitani – il capomastro del duomo di Orvieto impegnato a Perugia per realizzare un’ala del Palazzo dei Priori – e solo nel 1322, come attesta un’epigrafe che si legge sulla Fontana Maggiore, i lavori giunsero felicemente a termine.
S. Michele Arcangelo
V.ZEF F
Nella pagina accanto particolare della vasca superiore: la prima figura è Augusta Perusia, che regge
antica e radicata nel territorio. È comunque interessante rilevare come il recupero di una memoria storica cittadina sia strettamente legato all’affermazione del libero Comune. Padova si riteneva fondata dal troiano Antenore, in onore del quale eresse una tomba monumentale (1283), mentre Genova, per facile etimologia, aveva eletto a proprio eroe Giano, trasformato da dio pagano bifronte a re italico. Dal canto suo, Euliste campeggia in forma di statua quasi a tutto tondo proprio sulla Fontana Maggiore, su uno degli angoli della vasca superiore. È una delle quattro figure poste sugli assi principali, e occupa per la precisione il vertice nord. Gli corrisponde, a sud, la personificazione della città, che assume la veste classica di Augusta Perusia, riportando in auge un titolo onorifico che risale all’età romana.
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saper vedere perugia i secoli di un’opera insigne 1234, Dopo una significativa vittoria del popolo sull’aristocrazia aprile cittadina, viene apposta sul campanile della cattedrale la Pietra della giustizia. 1254 Iniziano i lavori di costruzione dell’acquedotto che dovrà collegare la piazza del Comune alle sorgenti del Monte Paciano, a nord della città. Già nel 1260 l’opera risulta interrotta. 1255 Prima attestazione del capitano del popolo. 1260 Vengono stabiliti gli Ordinamenta populi, che definiscono i criteri di organizzazione di tutti i gruppi di professionisti, artigiani e commercianti che compongono il «popolo» perugino. 1266 In un atto ufficiale, i consoli dell’Arte della mercanzia figurano tra i rappresentanti della cittadinanza, di fianco al podestà e al capitano del popolo. 1274, Per solennizzare la festa del patrono sant’Ercolano, il Comune febbraio di Perugia commissiona il leone e il grifo di bronzo attualmente conservati nel Palazzo dei Priori. 1277, Il Consiglio generale del Comune delibera la ripresa dei lavori gennaio dell’acquedotto. Vengono coinvolti due consulenti, il veneziano Boninsegna e frate Alberico, francescano. In seguito Boninsegna risulta affiancato dal sovrintendente fra’ Bevignate. 1277, Convocazione degli abati e dei priori dei monasteri perugini 10 settembre allo scopo di reperire fondi per l’impresa. Nello stesso giorno re Carlo d’Angiò autorizza Arnolfo di Cambio a recarsi a Perugia per la realizzazione della Fontana Maggiore. 1277-1278 Il fonditore Rubeus firma la coppa di bronzo della Fontana Maggiore (1277). Nicola e Giovanni Pisano, subentrati ad Arnolfo di Cambio, sono gli artefici principali dell’apparato scultoreo, completato nel 1278. 1281, Arnolfo di Cambio realizza la fontana a pié della «piazza gennaio grande». 1292 Viene avviato il nuovo Palazzo del Popolo, oggi noto come Palazzo dei Priori. 1297 Si realizza la sala delle adunanze del Palazzo del Popolo, oggi nota come Sala dei Notari. 1299 Il Comune di Perugia affida a Bonifacio da Verona la composizione della Eulistea, un poema in onore della città. 1300 Si delibera il rifacimento della cattedrale. 1303 Viene instaurato il governo dei Priori delle arti. La Fontana Maggiore viene chiusa da un’inferriata. 1322 Un’iscrizione osservabile sulla stessa Fontana Maggiore attesta cospicui lavori di ripristino dell’acquedotto. 1342 Lo Statuto comunale prevede un’ampia e dettagliata serie di disposizioni volte al decoro della fontana e alla conservazione dell’acquedotto. 1349 Restauro della fontana a seguito di un terremoto. 1508 In cima alla fontana viene apposto un gruppo scultoreo duecentesco in bronzo, con grifi e leoni alati, poi rimosso nel 1949. 1806 L’inferriata trecentesca viene sostituita da una nuova recinzione. 1948-49 Restauro e ricomposizione filologica della fontana. Viene realizzata l’attuale inferriata in sostituzione di quella ottocentesca. 1999 Dopo un elaborato restauro, la fontana è riaperta al pubblico.
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A sinistra la personificazione della città di Roma, compresa nella teoria di immagini che ornano la vasca superiore.
In basso particolare di una delle formelle con l’immagine di un’aquila nella decorazione della vasca inferiore.
Nicola Pisano, ormai alla fine della sua carriera, aveva legato il proprio nome a complessi scultorei di notevole impegno, sfoggiando una maestria che traeva linfa dallo studio dell’arte antica. Elaborando la «macchina» della Fontana Maggiore, mise a frutto anni di esperienza, dall’apprendistato svolto in Puglia, nei cantieri promossi da Federico II (tra cui quello di Castel del Monte; vedi «Medioevo» n. 207, luglio 2014; anche on line su medioevo.it), sino alla realizzazione del pulpito del duomo di Siena (1265-68).
La rottura con la tradizione
La Fontana Maggiore può richiamare concettualmente l’idea del battistero o del fonte battesimale, trovandosi peraltro nei pressi di una cattedrale. I parapetti marmorei rigorosamente modellati, l’uno istoriato, l’altro scandito da statue, oltreché sostenuto da una
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saper vedere perugia A sinistra le formelle della vasca inferiore raffiguranti la Trasgressione e la Cacciata dal Paradiso terrestre di Adamo ed Eva.
schiera di colonne, richiamano le celebri impaginazioni dei pulpiti che lo stesso Nicola aveva realizzato. Ma la nuova impresa compie uno stacco clamoroso nei confronti di ogni esperienza pregressa, ed esclude cosí ogni interferenza con i modelli e con le tipologie di ambito religioso, proprio grazie alla geniale e originalissima concezione dell’insieme. La fontana, infatti, presenta un’articolazione geometrica e strutturale assai elaborata. La vasca inferiore, che si staglia dall’alto di un podio gradinato, si compone di un poliedro di 25 lati. Ogni lato, scandito da colonnine che si alternano in singole e a gruppi di tre, presenta due formelle istoriate, in modo da formare, nel complesso, un lunghissimo fregio costituito da 50 bassorilievi. La vasca superiore poggia su una selva di colonne, in larga parte nascoste nella penombra. Si evidenzia solo la cerchia delle 24 colonne perimetrali, ma i fusti sono occultati dal parapetto della vasca sottostante, cosicché la vasca stessa sembra fluttuare nel vuoto.
Marmo rosso di Assisi
Il parapetto disegna una figura mistilinea ancor piú complessa del poligono di base. L’insieme appare infatti costituito da 12 lati di forma convessa che presentano due specchiature ciascuno, lisce, realizzate in marmo rosso di Assisi. Tra una specchiatura e l’altra, in un gioco ritmico di sporgenze e rientranze, si para una ghirlanda di 24 statue classicheggianti. Laddove si presenta la statua in posizione sporgente, spicca alla base un delizioso
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In alto la coppia di formelle del ciclo dedicato alle arti liberali raffiguranti l’Astronomia (a sinistra) e la Filosofia. A sinistra ancora una coppia di formelle della vasca inferiore raffiguranti Romolo (a sinistra) e Remo: entrambi reggono un avvoltoio augurale, in riferimento al presagio che doveva indicare quale dei due fratelli doveva essere designato re.
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doccione di bronzo a forma di testa d’animale, che scarica l’acqua nella vasca sottostante. L’evidenza plastica delle forme e la ricercatezza nel segno dell’antico culmina nel gruppo bronzeo finale con le tre fanciulle che sorreggono la coppa da cui fuoriesce l’acqua. Nulla sappiamo sul fonditore che realizzò questo pezzo di grande maestria (oggi sostituito in situ da una copia), ma l’idea delle tre cariatidi strette l’una all’altra, spalla a spalla, in una composizione «a colonna», rientra bene nel linguaggio di Nicola e dei suoi allievi.
Augusta e le dominae
Nella vasca superiore, attorno al «vertice» nord segnato dalla statua di Euliste, spiccano le figure del podestà Ermanno da Sassoferrato e del capitano del popolo Matteo da Correggio. Sul lato opposto, Augusta Perusia, con la sua cornucopia che è antico simbolo di abbondanza, è affiancata da due personificazioni del territorio, la domina del Chiugino, che reca il grano, e la domina del lago Trasimeno, che reca il pesce. Ai lati, accompagnati dai rispettivi chierici, si evidenziano poi i patroni della città, san Lorenzo e sant’Ercolano. Sull’asse ovest-est le figure riallacciano la città a una piú ampia dimensione storica e religiosa. Salomone, a est, rappresenta Gerusalemme, l’antica capitale e la fonte della sapienza cristiana. Sul lato opposto si impone Roma, la nuova capitale della cristianità. Ai suoi fianchi spiccano san Pietro, con la personificazio-
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ne della Chiesa romana, e san Paolo, con l’immagine allegorica della Teologia. L’Urbe ritorna nelle formelle della vasca inferiore, laddove le origini della città rientrano nel piú vasto quadro della storia universale. Nell’arco di tre sequenze, si parte dalle vicende di Adamo ed Eva (Trasgressione e Cacciata dal Paradiso terrestre) e si giunge infine ai quattro pannelli dedicati a Romolo e Remo. La fondazione di Roma chiude cosí i primordi dell’umanità, in un’evidente ottica moralistica. Si parte, infatti, dal peccato originale e si giunge alla nascita dell’Urbe, in cui si allude al fratricidio che segna appunto il sorgere di Roma: la coppia Romolo-Remo fa da pendant ai progenitori. Nel mezzo, Sansone e Dalila alludono al tradimento, Davide e Golia al coraggio. Si interpone nella narrazione un sintetico bestiario, che impartisce lezioni di vita allo spettatore. Un leone si ritrae impaurito non appena si avvede che l’uomo che ha davanti colpisce a suon di verga un semplice cagnolino (catulus), secondo uno stratagemma diffuso dalla letteratura didattica dell’epoca: l’astuzia vale piú della forza. Ritroviamo poi due celebri favole di Fedro (Il lupo e la gru, Il lupo e l’agnello), riproposte anche ne-
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gli affreschi della prospiciente Sala dei Notari (12981300), visto che le loro morali erano di grande attualità per i reggitori del Comune: non aiutate gli indegni; guardatevi dai manipolatori che ricorrono alle falsità per ottenere i propri scopi.
Dodici segni per dodici coppie
Proseguendo in senso antiorario, si sviluppa il celebre Calendario. Secondo una tradizione iconografica già consolidata, ogni mese è evocato dalle occupazioni che lo distinguono nella vita dei campi. Ogni mese impegna lo spazio di un dittico, cosicché la scena è suddivisa tra due personaggi che si aiutano vicendevolmente, svolgendo ciascuno la propria mansione. La figura del pannello di sinistra è associata al corrispondente segno zodiacale. La figura che la affianca è un aiutante (socius) o la moglie stessa del contadino (uxor). Le fatiche dei campi vengono rese con candida e immediata semplicità, senza che le figure manifestino un senso di oppressione. Come sottolinea Chiara Frugoni, siamo ben lontani dall’ottica biblica per cui il lavoro rappresenta un castigo individuale. Viene bensí celebrato lungo una schiera di 24 pannelli (quasi una metà del marzo
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In alto particolare delle formelle che compongono il Calendario, con le raffigurazioni allegoriche del mese di Maggio (a sinistra) e di Giugno. Nella prima coppia è raffigurata la caccia con il falcone, associata al segno dei Gemelli; nella seconda si vedono invece la mietitura e la battitura, associate al Cancro. A destra un altro particolare del Calendario con una delle immagini riferite alle occupazioni del mese di Novembre, la semina.
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saper vedere perugia Complemento ideale della Fontana Maggiore era quella «a pié della piazza», scolpita da Arnolfo di Cambio Dove e quando La visita della Galleria Nazionale dell’Umbria, ospitata nel Palazzo dei Priori (corso Vannucci, 19), permette di completare al meglio la conoscenza della fontana. Il museo ospita infatti alcuni elementi dislocati dall’opera per ragioni conservative e vi si possono anche ammirare le stupende sculture superstiti della scomparsa fontana di Arnolfo (le due Assetate, il Malato alla fonte e i due Giuristi). Orario ma-do, 8,30-19,30; chiuso tutti i lunedí, a Natale, a Capodanno e il 1° Maggio Info www.gallerianazionaleumbria.it Qui accanto l’Assetata con la brocca, una delle sculture di Arnolfo di Cambio che ornavano la fontana «a pié della piazza» oggi scomparsa. 1280-1281. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria.
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Il malato alla fonte, un’altra delle sculture realizzate da Arnolfo di Cambio per la fontana «a pié della piazza». 1280-1281. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria.
figurata in una tipica posa frontale, ma in una postura che suggerisce comunque un senso di movimento, grazie alle ginocchia sfalsate e al volto proteso di lato. Spesse volte si inserisce in scena un allievo, e l’Arte, raffigurata di profilo, è in tal caso impersonata da una domina intenta ad ammaestrare. La Grammatica è rivolta al suo giovanissimo allievo con il volto dolcemente reclino, in una posa che esprime al tempo stesso tenerezza e premura. La Geometria e la Musica, dal canto loro, sono letteralmente avvinte dal proprio lavoro, l’una piegata sul tavolo da disegno, l’altra avvolta in un attimo di sospensione o di ispirazione, con uno strumento a corda sulle ginocchia e con un martelletto sollevato a mezz’aria, vicino a una serie di piccole campane.
L’orgoglio di un maestro
giro della vasca) come un’attività fondamentale, che richiede sí impegno e sacrificio, ma che è anche condivisa coralmente. I personaggi non si riducono a semplici tipi, essendo bensí figure vive, colte in diverse situazioni concrete, in uno scenario reso in modo coinvolgente dal penetrante realismo dei dettagli.
La dama col falcone da caccia
C’è anche spazio per un semplice aneddoto o per un’annotazione briosa, come si vede nel mese di Marzo, quando un contadino se ne sta seduto a togliersi una spina dal piede, mentre il solenne e barbuto aiutante di Dicembre, intento a camminare con il pesante fardello di una carcassa d’animale caricata sulle spalle, riceve le accoglienze festose di un cane. E, mentre Aprile è reso da due personificazioni anticheggianti, il mese di Maggio tralascia il mondo dei laboratores, dedicando spazio ai riti cavallereschi della caccia e del corteggiamento: da un lato il signore nell’atto di offrire un fiore, dall’altro la dama nell’inconsueto ruolo della cacciatrice, con il falcone posato sul braccio. A completare il giro, le otto personificazioni delle Arti liberali compongono una pagina davvero eloquente di tecnica e di ricerca espressiva. Tutte realizzate con un rilievo poco pronunciato, con le sagome ben rifinite che sembrano modellate nell’avorio, queste formelle non hanno nulla di statico o di ripetitivo. Anche in questo caso l’azione ha il sopravvento. Solo la Filosofia è raf-
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Nello snodo cruciale tra le Arti liberali e la Cacciata di Adamo ed Eva si evidenzia infine la duplice raffigurazione di un’Aquila dalle ali spiegate, saldamente artigliata a una roccia, con la testa girata nell’atto di emettere il suo strido. La forza espressiva della figura e lo studio meticoloso dei dettagli giustificano l’orgoglio con cui Giovanni Pisano vi appose la sua firma, affermando la propria individualità nei riguardi della celeberrima figura paterna. Non a caso, poi, l’aquila è l’animale-simbolo dell’evangelista Giovanni, suo omonimo. Si tratterebbe, quindi, di un vero e proprio spazio di autocelebrazione. Per il resto, in un’opera tanto vasta e complessa come la Fontana Maggiore, eseguita per di piú in breve tempo, è difficile riconoscere distintamente la mano dei due scultori principali, sicuramente coadiuvati da una squadra di aiuti. Ma il genio di Giovanni si avverte nelle statue piú vigorose della vasca superiore, quelle che si evidenziano per gli effetti della lavorazione al trapano, per l’espressività dei volti e per il dinamismo della figura: per esempio, i monumentali San Pietro e San Paolo, e le virtuosistiche personificazioni della Chiesa romana e della Teologia. F
Da leggere U Chiara Frugoni, Una lontana città. Sentimenti
e immagini del Medioevo, Einaudi, Torino 1983 U Francesco Cavallucci, La Fontana Maggiore di Perugia.
Voci e suggestioni di una comunità medievale, Quattroemme, Ponte San Giovanni (Perugia) 1993 U Carlo Santini (a cura di), Il linguaggio figurativo della Fontana Maggiore di Perugia, Calzetti Mariucci, Perugia 1996 U Vittoria Garibaldi, Bruno Toscano (a cura di), Arnolfo di Cambio. Una rinascita nell’Umbria medievale, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Milano) 2005
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di Flavio Russo
Orvieto, Duomo, Cappella Nova (o di S. Brizio). Il ritratto di Dante realizzato ad affresco da Luca Signorelli. 1499-1502.
Scienza e tecnologia nella Divina Commedia
Dante, sommo ingegnere
È possibile che il padre della lingua italiana fosse anche un «vil meccanico»? Può sembrare sorprendente, ma la lettura di numerosi passi della sua opera immortale non lascia dubbi in proposito. Essi rivelano una familiarità straordinaria del poeta con le branche piú disparate della tecnica e capacità intuitive non meno strabilianti...
Dossier
A A
l pari di molte altre opere letterarie medievali, nella Divina Commedia vige la tendenza ad arricchire l’esposizione artistica con la maggior quantità possibile delle nozioni scientifiche e tecnologiche allora disponibili, trasformandola perciò in una summa del sapere e del saper fare. Una sorta di enciclopedia, basata sul presupposto che, con l’avanzare della lettura, dovesse progredire nel lettore il relativo apprendimento, seguendo un criterio che oggi definiremmo divulgativo. Dante, nell’adeguarvisi, adotta il metodo dialogico, portando al suo massimo livello l’artificio della conversazione esplicativa fra tre personaggi, che trovò poi in Galileo Galilei la sua applicazione piú nota. Si tratta, in pratica, di un continuo alternarsi di domande e di risposte tra lui, incompetente dell’aldilà perché vivente, e un defunto, competente in quanto tale, con la mediazione di Virgilio prima e di Beatrice poi. Una asimmetria esistenziale che dà vita in ambito letterario a un qualcosa di analogo alla recentissima «realtà aumentata», la tecnica iconografica che, tramite un elaboratore elettronico, inserisce, in una raffigurazione reale, personaggi e oggetti cronologicamente, spazialmente e materialmente del tutto avulsi, spesso virtuali, originando cosí immagini nelle quali, pur essendo vere le varie componenti non lo è il loro insieme. Dante, infatti, si colloca, nella pienezza della sua natura concreta, in uno scenario immaginario, al cui interno discetta di volta in volta con trapassati, creando perciò un nuovo genere letterario, nel quale pene e sofferenze hanno connotazioni umane, a differenza delle relative condanne, sempre divine. E, nelle pagine di questo Dossier, si è scelto di indagare, invece che sulla figura dell’autore della Commedia, su quella del suo lettore elettivo. È lui il destinatario non tanto della teologia sottesa alle terzine, ma delle nozioni scientifiche che ne sostanziano l’enunciazione, affrancandola dalle incrostazioni della superstizione e dei falsi miti. Ne scaturisce un individuo di media cultura, ma di rilevante curiosità e voglia di apprendere quanto di piú avanzato la tecnica ha inventato e la fisica ha scoperto dall’antichità a quei giorni. Forse, proprio questo obiettivo suggerí la scelta dell’umile lingua volgare in luogo del dotto latino, piú indicata per integrare ciò che la religione non poteva o non voleva chiarire: una singolare sintesi di razionalità scientifica e di fede religiosa. Dante non si limita a dispensare le concezioni scientifiche e tecniche piú condivise – per non parlare di quelle teologiche piú sottili –, ma ne introduce molte altre scarsamente note, quando non pressoché ignote, ripescate o intuite nelle pagine dei classici. Per non parlare di altre ancora, recentissime, che solo la
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sua spiccata propensione per il mondo dei «vil meccanici» gli poteva far conoscere. Si tratta di spiegazioni e delucidazioni che, paradossalmente, pur provenendo spesso da un passato remoto, risultavano per i suoi lettori nozioni avanzate, illuminazioni senza precedenti. È il caso, per esempio, della descrizione di numerosi fenomeni naturali e di varie tecniche ai suoi giorni ancora da verificare, (e che spesso vennero confermate soltanto secoli dopo), che assumono i caratteri di premonizioni piuttosto che di anticipazioni scientifiche. Una scelta che affranca il poeta dalla taccia di passiva subordinazione alla dottrina cattolica e di supina accettazione del sapere scolastico privo di sperimentazione concreta. E se, in materia di teologia, Dante non disdegna di fornire le nozioni piú elementari della liturgia – oltre alle punte piú avanzate della elaborazione dei dottori della Chiesa –, per la scienza sceglie di occuparsi della tecnica, che, per molti aspetti, andava considerata l’applicazione manuale, e pertanto di rango inferiore, del sapere intellettuale, ben conscio della stretta interdipendenza dell’una dall’altro e della necessità della loro simbiosi per il progresso umano. Volendo cercare di dare un ordine a quanto detto in merito alle piú evidenti nozioni scientifiche e tecniche riscontrabili nella Commedia, si può operare una prima suddivisione di massima estrapolando l’esposizione dei fenomeni naturali, delle nozioni di fisica, dei dispositivi militari, delle grandi costruzioni e delle invenzioni da poco comparse, di cui l’Alighieri mostra di conoscere i principi di realizzazione e funzionamento. Per quanto disparato possa sembrare, tale repertorio non è privo di un suo criterio guida, che può ravvisarsi nell’essere i suoi argomenti la riproposizione di antiche nozioni tratte dai testi classici oppure l’enunciazione di acquisizioni recenti e in continua espansione. In ogni caso, sono argomenti perlopiú di nicchia, da specialisti, fino ad allora ignoti o preclusi al popolo del volgare, confermando in tal modo l’asserita finalità divulgativa delle notazioni scientifico-tecnologiche della Divina Commedia. Le citazioni che seguono non hanno la pretesa di essere esaustive, ma forniscono solo alcuni esempi tipologici tra i molti contenuti nell’opera dantesca. Ancora un particolare degli affreschi realizzati da Luca Signorelli nella Cappella Nova del Duomo di Orvieto. 1499-1502. La scena illustra l’episodio narrato all’inizio del canto V del Purgatorio, in cui Virgilio rimprovera Dante per essersi fatto distrarre dalle anime dei pigri, che lo avevano riconosciuto come vivo poiché il poeta proiettava la sua ombra sul terreno. marzo
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La gravità terrestre Perché i corpi pesanti cadono a terra? E perché, invece, il vapore o l’aria calda si comportano in maniera opposta? Ecco uno dei molti quesiti con i quali il poeta mostra di sapersi cimentare
Fenomeni naturali
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ebbene il concetto di gravità fosse stato da sempre relegato alle questioni ovvie, Aristotele, il maestro di color che sanno, cercò di fornirne una spiegazione diversa dal semplice ribadire che tutte le cose cadono verso il basso. Per lui, infatti, i corpi tendono a raggiungere il rispettivo luogo naturale, da identificarsi con il centro della Terra per quelli pesanti e con le sfere celesti per quelli leggeri, come il vapore o l’aria calda. Di conseguenza, il moto dei primi è centripeto, e quello dei secondi – opposto ma ugualmente rettilineo – è invece centrifugo, poiché per entrambi vige una velocità di spostamento in funzione delle rispettive masse. Dante non pone in discussione il criterio aristotelico della destinazione dei gravi al centro della Terra, ma formula una spiegazione alternativa della gravità, attribuendola al bisogno di ogni corpo di rientrare al suo luogo naturale, verso il basso o verso l’alto. Un «ritorno alle origini», dall’evidente valenza simbolica nel destino umano, che coincide nella sua manifestazione con la forza di gravità soltanto per i corpi pesanti. Tale teoria risulta errata, ma spiegava razionalmente il diverso comportamento dei corpi pesanti e leggeri. Cosí nell’Inferno, al canto XXXII, ai versi 73-74: E mentre ch’andavamo inver’ lo mezzo al quale ogne gravezza si rauna La particolare concezione della gravità viene nuovamente esposta nel Busto di Aristotele, da un originale in bronzo di Lisippo fatto eseguire da Alessandro Magno. Età adrianea. Roma, Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps. marzo
canto XXXIV (110-111), in concomitanza con l’attraversamento del centro della Terra: quand’io mi volsi, tu passasti ‘l punto al qual si traggon d’ogne parte i pesi.
Precessione degli equinozi
La struttura immaginaria del regno dei dannati consiste in una voragine a imbuto, la cui profondità, arrivando al centro della Terra, è pari al suo raggio, 6000 km circa; misu-
Dossier
ra invece 5000 km circa il suo diametro al di sotto dello spesso strato di roccia che sostiene la città di Gerusalemme che ne sovrasta l’asse. Il cono cosí formatosi per l’impatto di Lucifero, ha pertanto un’apertura angolare di circa 46° e coincide esattamente col cono descritto dall’asse terrestre durante la sua intera rotazione, definita precessione degli equinozi, della durata di 26 000 anni. Una simile corrispondenza non può essere una mera coincidenza, ma è l’ennesima conferma delle conoscenze che Dante possedeva anche dei testi classici di argomento scientifico, poiché quella lentissima rotazione era già stata enunciata da Ipparco di Nicea,
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nel 130 a.C., nel trattato Sullo spostamento dei segni solstiziali ed equinoziali, un’opera perduta, ma il cui metodo fu riproposto dall’astronomo Claudio Tolomeo nell’Almagesto, nel II secolo. Poiché quando Dante scrive era stata da tempo acquisita la forma sferica della Terra, raggiunto il vertice inferiore dell’imbuto infernale, occorreva attraversare il centro del globo, punto verso il quale sono tratte tutte le masse senza esserne attratte per quanto detto, per poter emergere ai suoi antipodi, cioè alle falde del monte del Purgatorio. Dante, pertanto, ricorda la necessaria inversione personale, che, a prima vista, gli fa sembrare Virgilio di nuovo diretto verso l’ingresso degli
Sandro Botticelli, La voragine infernale. 1480-95. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. L’opera fa parte delle tavole che l’artista eseguí per illustrare la Divina Commedia.
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La struttura che Dante immagina per il regno dei dannati è la prova della sua conoscenza dei testi classici di argomento scientifico
Paradiso terrestre Emisfero delle acque Emisfero della terra emersa
Purgatorio Inferno
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VEGA costellazione della Lira
Stella polare
Precessione 46° 54’
pian Piano equatoriale
o ec
littica
attrazione solare forze che determinano la rotazione dell’asse attrazione lunare LUNA
Qui sopra, a destra diagramma del moto di precessione degli equinozi: la rotazione dell’asse terrestre descrive un doppio cono dall’ampiezza angolare di 46°.
In alto rappresentazione schematica dell’Universo dantesco. In basso la miniera a cielo aperto di diamanti Trubka Udacnaja, la piú profonda del mondo, nella Repubblica di Saha. L’aspetto del giacimento evoca la successione dei gironi infernali descritti da Dante nell Commedia.
Inferi. Cosí al canto XXXIV dell’Inferno, alle terzine 78-84: lo duca, con fatica e con angoscia, volse la testa ov’elli avea le zanche, e aggrappossi al pel com’om che sale, sí che ‘n inferno i’ credea tornar anche. «Attienti ben, ché per cotali scale», disse ‘l maestro, ansando com’uom lasso, «conviensi dipartir da tanto male.»
Le luci telluriche
Dante non perde occasione di illustrare le teorie scientifiche per lui piú recenti, spesso basandosi su esperienze personali. Spiccano
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Dossier tra di esse le cosiddette «luci telluriche»; un fenomeno promosso a precursore dei peggiori sismi, del quale cosí si può leggere nelle terzine 130-135 del III canto dell’Inferno: Finito questo, la buia campagna tremò sí forte, che de lo spavento la mente di sudore ancor mi bagna. La terra lagrimosa diede vento, che balenò una luce vermiglia la qual mi vinse ciascun sentimento;
Nell’intenzione di Dante il fenomeno dovrebbe essere peculiare dell’antinferno, luogo in cui patiscono gli ignavi, ma dalla descrizione, invece, risulta evidente come si tratti di una manifestazione complementare dei sismi di notevole magnitudo. Stando alle teorie aristoteliche, e alle loro rievocazioni successive come quella di Ristoro d’Arezzo, in Composizione del Mondo VII, 4, 6, i terremoti erano causati dal pneuma, letteralmente soffio, attualizzabile in aria compressa prodotta dal calore endogeno della Terra, esito a sua volta del fuoco interno, spettacolarmente testimoniato dalle eruzioni vulcaniche. Tale teoria viene esposta cosí nel Purgatorio XXI, 57:
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Trema forse piú giú poco o assai; ma per vento che ‘n terra si nasconda, non so come, qua sú non tremò mai. In sintesi, quell’aria che normalmente esalava dal suolo, quando non riusciva a sfogare all’aperto, magari attraverso i pozzi – in latino putei non caso a tale scopo costruiti in gran numero a Pozzuoli, terra sismica per eccellenza da cui il toponimo di Puteoli –, si accumulava in immense caverne sotterranee, finché la sua pressione non schiantava la resistenza delle rocce. Da quell’immediato collasso scaturivano gli scuotimenti piú violenti, preceduti non di rado da sinistre luminescenze. Il bagliore rossastro, tuttavia, non è una trovata artistica per accentuare l’orrore del luogo, ma un fenomeno piú volte osservato da attendibili testimoni di età classica. Di tale manifestazione, infatti, si trova menzione in Plinio il Vecchio, che cosí la descrisse riferendosi al terremoto di Modena dell’89 a.C.: «sotto i consoli Marzio e Sesto Giulio, durante un terremoto nella zona modenese (…) alla piena luce del giorno (…) guizzavano al cielo fiamme e fumo» (Naturalis Historia, II, 36, 95). Piú tardi il filosofo Immanuel Kant menzionò i bagliori che precedevano i terremoti, associandoli ai fenomeni magnetici rivelati dagli aghi delle bussole. Attualmente a quelle luminescenze misteriose sono state dedicate un gran numero di pubblicazioni in accreditate riviste scientifiche, tra le quali spicca la ricerca comparsa sul prestigioso trimestrale Seismological Research Letters nel novembre 1988, che ha imposto per quei bagliori la definizione di «luci telluriche». Quale che ne sia la causa, le luci telluriche si manifestano come globi luminosi a volte fluttuanti, a volte statici, o come bagliori inspiegabili di notevole intensità, appena prima o durante i sismi di maggiore magnitudo, a partire, cioè, dal 5° grado della scala Richter. Cosí nel 1783, quando migliaia di persone avrebbero visto, la sera del 4 febbraio, sia nella Sicilia settentrionale che nella Calabria meridionale, bagliori del genere, la cui luminosità eguagliava quella del sole: il giorno dopo un sisma di ecceziona-
A sinistra l’incontro fra Dante e Caronte, il traghettatore di anime, narrato nel III canto dell’Inferno. L’episodio è qui illustrato nella versione immaginata dal pittore fiammingo Giovanni Stradano (Jan van der Straet), che realizzò una serie di disegni illustrativi della Divina Commedia (1587-1588), oggi conservati nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze.
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le violenza rase al suolo Reggio Calabria e diversi altri paesi circostanti, devastando anche Messina. Pure a L’Aquila, poco prima del recente sisma, se ne è osservata la comparsa sotto forma di luminescenza tremolante sospesa a una decina di centimetri sopra il basolato di via Crispi, al centro della città.
Grandi frane e ruina montium
Nel repertorio infernale non mancano le gigantesche frane, ben esemplificate da alcune di epoca preistorica, come quella denominata degli Slavini (o Lavini) di Marco, un’immensa cascata di macigni precipitati dal monte Zugna nel Trentino, risalente al Giurassico. Dante quasi certamente vide quella brulla distesa di rocce frantumate che si estendeva per un paio di chilometri tra Serravalle e Lizzana, sulla sinistra dell’Adige, e ne rimase impressionato al punto di descriverla nelle terzine 1-10 del XII canto dell’Inferno in questi termini: Qual è quella ruina che nel fianco di qua da Trento l’Adice percosse, o per tremoto o per sostegno manco, che da cima del monte, onde si mosse, al piano è sí la roccia discoscesa,
ch’alcuna via darebbe a chi sú fosse: cotal di quel burrato era la scesa Tra le ipotesi circa la sua formazione, Dante ne menziona due: un sisma eccezionale o un vasto cedimento strutturale della parete rocciosa, provocato dal venir meno degli strati sottostanti. Questa seconda è per noi di gran lunga piú interessante, poiché coincidente con i crolli prodotti dalle esplosioni idriche carsiche, spunto, a loro volta, dell’impressionante tecnica mineraria descritta da Plinio il Vecchio, il quale la definí ruina montium, ribattezzata attualmente mina idraulica. Come nel fenomeno naturale, anche in quello artificiale la causa scatenante era l’acqua che, per effetto della pressione, determinava lo svellimento di un intero strato di pietra, con il conseguente cedimento della roccia sovrastante privata del suo sostegno, come acutamente intuisce Dante. La tecnica è stata fino a pochi anni fa ritenuta una mera fantasia e solo di recente con la ricognizione geologica delle enormi devastazioni prodotte sull’altipiano di Las Medulas, in Spagna, dal suo reiterato impiego, il giudizio è mutato, facendo addirittura includere il sito tra i Patrimoni dell’Umanità.
In basso, in questa pagina veduta dell’altipiano di Las Medulas (Spagna), eroso dalle mine idrauliche romane, piú note come ruina montium (letteralmente «distruzione delle montagne»), un sistema di coltivazione mineraria ad abbattimento progressivo d’intere e cospicue fette di colline mediante la forza dell’acqua, tramandato da Plinio il Vecchio e citato nel XII canto dell’Inferno.
La formazione dei cicloni
I fenomeni naturali piú appariscenti possono essere considerati come una profonda alterazione delle condizioni normali e pertanto, non a caso, nell’Inferno dantesco, ambito perturbato per antonomasia, occupano un ruolo significativo. Non si può escludere che tanto interesse derivi anche dall’esigenza di spiegarli in maniera corretta, eliminando interpretazioni errate o superstizioni. Nel IX canto dell’Inferno, nelle terzine 67-72, viene descritto il violento formarsi di un ciclone, la cui origine è giustamente ascritta al diverso riscaldamento delle masse d’aria, che essendo tuttavia diatermane, aumentano la loro temperatura per la diversa insolazione dei terreni sottostanti. Cosí i versi: non altrimenti fatto che d’un vento impetüoso per li avversi ardori, che fier la selva e sanz’ alcun rattento
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li rami schianta, abbatte e porta fori; dinanzi polveroso va superbo, e fa fuggir le fiere e li pastori. Che il fenomeno descritto da Dante sia un ciclone e non una semplice tempesta lo conferma la capacità distruttiva del suo vento che, abbattendosi sui boschi, schianta i rami degli alberi e li trascina all’esterno insieme a un gran polverone, alla vista del quale, intuendone i rischi, fuggono sia le belve che i pastori con le rispettive greggi.
La Croce del Sud
Nel I canto del Purgatorio, alle terzine 22-27, Dante fa riferimento a quattro stelle viste, a suo parere, soltanto dai primi abitanti della Terra. La spiegazione piú seguita è che le stelle siano una immagine allegorica delle quattro virtú cardinali, prudenza, giustizia, fortezza e temperanza: praticate subito dopo la creazione umana, furono presto dimenticate o non piú seguite. Secondo altre interpretazioni, però, sarebbero la Croce del Sud: in tal caso, la definizione di primi uomini
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non sarebbe di tipo cronologico, ma geografico, e alluderebbe agli abitanti siti piú a sud della Terra. Viene allora spontaneo chiedersi come Dante fosse venuto a conoscenza di quella piccolissima costellazione, invisibile sopra il 27° di latitudine nord, cioè alle nostre latitudini. Le ipotesi non mancano e insistono da una parte su incerti riferimenti classici,
Qui sopra la piccola costellazione della Croce del Sud, alle cui stelle Dante alluderebbe nel I canto del Purgatorio.
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A destra miniatura che raffigura Dante intento a purificarsi prima di entrare in Paradiso. XIV sec. Venezia, Biblioteca Marciana. Nella pagina accanto, in alto la spettacolare immagine della formazione di un ciclone sopra il Monte Argentario. La statua in primo piano, sulla destra, è quella della Madonna collocata nel porto dell’isola del Giglio per commemorare le vittime del naufragio della Costa Concordia. In basso un suggestivo arcobaleno nel cielo di Firenze.
dall’altra su piú attendibili resoconti di navigatori spintisi fino alle Canarie o, soprattutto, lungo il mar Rosso, all’epoca ancora raggiungibile attraverso un canale naturale che partiva da Alessandria, premessa di quello di Suez. Sul suo imbocco ancora svettava il mitico faro, crollato – altra singolare coincidenza – nel 1303, cioè l’anno prima dell’inizio della stesura della Commedia, per un violento sisma, e cancellato definitivamente da un secondo analogo terremoto vent’anni dopo. Di certo le quattro stelle iniziano a essere menzionate da Petrus Plancius nel 1598 e poi ancora da Jodocus Hondius nel 1600. Cosí i versi: I’ mi volsi a man destra, e puosi mente a l’altro polo, e vidi quattro stelle non viste mai fuor ch’a la prima gente. Goder pareva ‘l ciel di lor fiammelle: oh settentrional vedovo sito, poi che privato se’ di mirar quelle!
L’arcobaleno
Nel canto XXV del Purgatorio, la terzina 9193 descrive sinteticamente il fenomeno dell’arcobaleno, attribuendolo alla rifrazione della luce solare nell’aria impregnata d’acqua. La corretta spiegazione scientifica del fenomeno fu probabilmente elaborata dall’arabo Qutb al-Din al-Shirazi (12361311), o dal suo allievo Kamal al-din al-Farisi (1260-1320). Ancora una volta, le date precedono di pochissimi anni la composizione del poema, confermando la costante
attenzione di Dante verso le piú recenti teorie del mondo scientifico. Questa la terzina: E come l’aere, quand’ è ben pïorno, per l’altrui raggio che ‘n sé si reflette, di diversi color diventa addorno
Il ciclo dell’acqua
Dante allude a piú riprese al ciclo dell’acqua, forse anche per la sua valenza simbolica, che tanto ricordava quella spirituale delle anime nel Purgatorio: e, infatti, nel canto V, la terzina 109-111 lo sintetizza. Punto di partenza è la condensazione del vapore in sospensione nell’aria provocata dall’abbassamento della temperatura, premessa della sua precipitazione sotto forma di pioggia: Ben sai come ne l’aere si raccoglie quell’ umido vapor che in acqua riede, tosto che sale dove ‘l freddo il coglie. Torna sull’argomento nel canto XXVIII, alla terzina 121-123, descrivendo il percorso terrestre seguito dalla pioggia attraverso il passaggio nella fase solida del ghiaccio invernale, fino al suo sgorgare in una sorgente che si trasforma in fiume, dapprima veloce e poi sempre piú lento verso la foce, per il diminuire della pendenza del suo corso (fenomeno che in geomorfologia si definisce «penepiano»): «L’acqua che vedi non surge di vena che ristori vapor che gel converta, come fiume ch’acquista e perde lena;»
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Relatività Può apparire inverosimile, ma alcune terzine del canto XXXI dell’Inferno, nel descrivere le impressioni provate di fronte alla torre della Garisenda, sembrano anticipare la teoria formulata da Albert Einstein nel 1905!
NOZIONI DI FISICA
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el canto XXXI dell’Inferno, alle terzine 136-141, Dante, sia pure in maniera implicita e inconsapevole, fa un rifermento che potrebbe inserirsi tra le premesse della teoria della Relatività Speciale, ovvero la diversa deduzione di un moto in base alla posizione dell’osservatore. Dunque, trovandosi ai piedi della torre della Garisenda – fatta costruire in Bologna dall’omonima famiglia nel XII secolo –, scorge le nuvole retrostanti che si muovono, spinte dal vento. Rendendosi il nostro occhio solidale con ciò che sta piú lontano, la sensazione che ne deriva è l’apparente spostarsi dell’oggetto piú vicino. A Dante sembra perciò che sia la torre ad abbattersi su di lui, dando cosí la prima dimostrazione della relatività del moto. Questi i versi dell’episodio: Qual pare a riguardar la Carisenda sotto ‘l chinato, quando un nuvol vada sovr’essa sí, chedella incontro penda: tal parve Antëo a me che stava a bada di vederlo chinare, e fu tal ora ch’i’ avrei voluto ir per altra strada. La teoria della Relatività Speciale (1905), elaborata da Albert Einstein, scaturisce dalla constatazione che la velocità della luce è finita, determinabile, ma non superabile, poiché è l’ultima possibile nell’universo. Ne conseguí l’irreversibile abbandono dell’idea di una sua propagazione istantanea, e di ogni ulteriore incremento della sua velocità, come sofisticati strumenti scientifici hanno poi confermato. Per Dante il trasferirsi della luce da un punto all’altro avviene, però, senza alcun ritardo, una conclusione che si rivela errata in base alle conoscenze attuali, ma che va senz’altro posta tra i primi tentativi di stabilire una velocità di propagazione
della luce. Nel Paradiso, al canto XXIX, nelle terzine 25-27, si legge al riguardo: E come in vetro, in ambra o in cristallo raggio resplende sí, che dal venire a l’esser tutto non è intervallo,
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L’essere poi quella della luce l’ultima velocità possibile porta a far divenire il tempo una variabile, una entità che si dilata, si restringe o persino s’inverte tra due eventi distinti, a seconda della velocità dell’osservatore. Tale concetto, sia pure in maniera embrionale, viene accennato nel Purgatorio, al canto XVI, 25-27, quando Marco Lombardo fa notare a Dante che per i defunti, a differenza dei viventi, non vi è piú distinzione tra presente e passato, tra ciò che è accaduto e ciò che deve accadere, dal momento che esiste soltanto un eterno essere, per cui gli è precluso distinguere il tempo in anni, mesi e giorni. Or tu chi se’ che ‘l nostro fummo fendi, e di noi parli pur come se tue partissi ancor lo tempo per calendi?
La propagazione della luce
Lo spunto per approfondire il tema della propagazione della luce è offerto a Dante dalle macchie che sembrano butterare la superficie della Luna, suggerendo, nel II canto del Paradiso, alle terzine 99-107, un singolare esperimento. Posti tre specchi equidistanti da una sorgente luminosa collocata dietro all’osservatore – in modo che due abbiano la stessa distanza da lui, mentre il terzo, al centro fra loro, sia piú distante – li si inclini in modo da far convergere la luce riflessa sullo stesso osservatore: si può allora constatare che, pur riflettendo il piú lontano una minore quantità di luce, non per questo ne decurta la brillantezza. In altri termini, la natura della luce non ammette alterazione
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qualitativa, ma solo quantitativa, per cui le macchie che si vedono sulla Luna non possono attribuirsi, come Dante mostra di credere, alla sua diversa densità superficiale. Pur essendo corretti la premessa e l’esperimento, se ne trasferiamo il risultato dall’ambito della fisica alla metafisica, esso scade a pura credenza. L’unica e basilare novità prospettata dal Poeta è nell’adozione del metodo sperimentale per giungere a una certezza: Tre specchi prenderai; e i due rimovi da te d’un modo, e l’altro, piú rimosso, tr’ambo li primi li occhi tuoi ritrovi. Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso ti stea un lume che i tre specchi accenda e torni a te da tutti ripercosso. Ben che nel quanto tanto non si stenda la vista piú lontana, lí vedrai come convien ch’igualmente risplenda.
Le due velocità di rotazione
Sempre interessato dalle diversità della velocità in relazione alla precipua collocazione, Dante osserva che in un solido che gira, come per esempio la ruota di un carro, pur essendo il tempo impiegato per un intero giro identico sul mozzo o sul cerchione (ovvero identica la loro velocità angolare), non cosí avviene per le rispettive velocità periferiche, che crescono all’allontanarsi dal centro. Cosí, nel canto VIII del Purgatorio, alla terzina 85-87:
Nella pagina accanto Bologna. Le torri della Garisenda (a sinistra) e degli Asinelli. Dante cita piú volte la prima delle due, e, in particolare, se ne serve per spiegare la relatività del moto. In basso miniatura che illustra l’esperimento dei tre specchi, dall’edizione manoscritta della Divina Commedia realizzata in Toscana per il re di Napoli Alfonso d’Aragona, detto il Magnanimo. Metà del XV sec. Londra, British Library.
Li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo, pur là dove le stelle son piú tarde, sí come rota piú presso a lo stelo.
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Dossier Specchi al piombo
Tra le invenzioni di cui Dante mostra di conoscere abbastanza dettagliatamente i procedimenti tecnologici di realizzazione, spicca la costruzione degli specchi, ottenuti non piú tirando a lucido una lastra di metallo, ma depositando un sottile strato di piombo su di una lastra di vetro dalle facce perfet-
di notevole fedeltà riflettente, ma di notevolissimo costo. Lo specchio a cui si riferisce Dante, per l’implicita buona riflessione, va identificato con uno degli archetipi fiorentini, che, ulteriormente perfezionati, furono poi prodotti a Murano. Questa la descrizione di quel nuovo tipo di specchio, nel canto XXIII dell’Inferno, alla terzina 25-27: E quei: «S’i’ fossi di piombato vetro, l’imagine di fuor tua non trarrei piú tosto a me, che quella dentro ‘mpetro.
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tamente piane e parallele fra loro, un procedimento definitivamente messo a punto a Murano nel 1369. Lo specchio al piombo, infatti, era noto sin dal tempo dei Romani e si otteneva versando piombo fuso in una bolla mentre veniva ancora soffiata, depositandosi sulla sua calotta. Tagliandola adeguatamente, si otteneva un piccolo specchio, leggermente bombato, con un discreto potere riflettente. Nel XIV secolo a Firenze si iniziarono a produrre specchi applicando a freddo su lastre di vetro piane, lamine di piombo, metallo in breve sostituito dallo stagno. Ma la vera novità in materia si ebbe, quando divennero disponibili lastre di vetro dalle superfici perfettamente piane e parallele, di discreta nitidezza, rendendo cosí possibile, sul finire del Trecento, la fabbricazione di specchi
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Nel canto XV del Purgatorio, alle terzine 16-24, viene descritta la geometria della riflessione: se un raggio di luce impatta sulla superficie tranquilla dell’acqua o di uno specchio piano, secondo un particolare angolo – oggi definito raggio incidente –, rimbalza dalla parte opposta, e viene perciò definito raggio riflesso. I due angoli rispetto alla perpendicolare al punto del piano sul quale avviene l’impatto sono uguali. La superficie dell’acqua, in assenza di perturbazioni, è perfettamente orizzontale, per cui la sua perpendicolare è data dalla traiettoria di una pietra che vi cade dall’alto, o, piú semplicemente, indicata dal filo che la trattiene, piú noto come filo a piombo. L’enunciazione è esatta, e quel fenomeno, definito abitualmente riflessione, trovò applicazione anche nelle antiche fortificazioni, molto prima dell’avvento delle armi da fuoco, quando, lasciando cadere palle di pietra sopra una scarpatura inclinata a 45°, le si faceva rimbalzare orizzontalmente, ottenendone un’antesignana macchina da lancio.
A sinistra miniatura raffigurante una donna che si specchia, da un’edizione del De casibus illustrium virorum di Giovanni Boccaccio. 1472. University of Glasgow Library. In basso l’immagine del Monte Cervino riflessa perfettamente da uno specchio d’acqua immobile.
Come quando da l’acqua o da lo specchio salta lo raggio a l’opposita parte, salendo su per lo modo parecchio a quel che scende, e tanto si diparte dal cader de la pietra in igual tratta, sí come mostra esperïenza e arte; cosí mi parve da luce rifratta quivi dinanzi a me esser percosso; per che a fuggir la mia vista fu ratta.
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Torri semaforiche In giovane età, il poeta fu anche un valente soldato ed è probabilmente il ricordo di quella esperienza a ispirargli alcune digressioni sui sistemi di telecomunicazione
dispositivi militari
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ante, in giovinezza, aveva combattuto a Campaldino l’11 giugno del 1289, inquadrato tra i «feditori», una sorta di cavalleria leggera d’élite, che aveva l’onore, e l’onere, di combattere in prima fila e della quale facevano parte molti giovani della nobiltà toscana. In seguito, ebbe altre occasioni per apprendere, sempre praticamente, le nozioni fondamentali dell’arte militare, per cui, quando nel suo poema discetta in materia, lo fa con indubbia competenza. Sapeva, pertanto, che negli investimenti ossidionali, come nelle operazioni campali, l’impiego delle segnalazioni acustiche e piú ancora ottiche era fondamentale, e spesso dirimente, e, di conseguenza, ne conosceva anche i codici di trasmissione. È quindi probabile che, per darne contezza ai lettori, abbia inserito nel paesaggio infernale alcune torri semaforiche, adibite appunto alla trasmissione dei segnali, simili a quelle che già da decenni sorvegliavano le coste della Penisola, in particolare del suo Meridione. Del resto, catene di torri del genere furono utilizzate per inviare messaggi, col fuoco di notte e col fumo di giorno, sin dall’età classica. Plinio il Vecchio non solo le menziona, ma, loro tramite, stabilisce per primo che, per effetto della variazione dell’ora locale, i segnali inoltrati lungo un parallelo in una direzione ovest-est giungevano prima di quelli trasmessi in direzione estovest. Molti secoli piú tardi quel sistema venne nuovamente adottato durante la guerra dei Vespri
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a partire dal 1280. Volendo descrivere tale antesignano telegrafo ottico, che anticipò quello dell’abate Chappe, attivato durante la Rivoluzione Francese, Dante colloca improbabili torri semaforiche nell’Inferno, come recitano le terzine 1-9 del suo VIII canto: Io dico, seguitando, ch’assai prima che noi fossimo al piè de l’alta torre, li occhi nostri n’andar suso a la cima per due fiammette che i vedemmo porre, e un’altra da lungi render cenno, tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre. E io mi volsi al mar di tutto ‘l senno; dissi: «Questo che dice? e che risponde quell’ altro foco? e chi son quei che ‘l fenno? Ricorrendo al consueto artificio della richiesta di spiegazione a Virgilio, Dante domanda cosa vogliano comunicarsi due torri contigue le cui variabili fiammelle si scorgono sulle loro sommità. In questo caso, tuttavia, la risposta, per quel che ci riguarda, è già nella domanda: volendo conoscere il senso della trasmissione in corso tra la prima torre che chiede e la seconda che risponde, Dante rivela l’esistenza di un preciso codice segnaletico, all’epoca già ben noto agli abitanti dei paeAssonometria ricostruttiva sezionata della torre Assiola (Praiano, Salerno), facente parte del sistema di torri costiere correntemente utilizzate nel Medioevo come presidi per la sorveglianza, ma anche per la trasmissione di messaggi e comunicazioni.
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si rivieraschi e, per contro, del tutto ignoto a quelli dell’entroterra. Va osservato che, dopo l’adozione di catene parziali di torri costiere adibite alle segnalazioni di allarme in caso di avvistamenti di navi nemiche e corsare, si realizzò – a partire dal 1563 – la chiusura dell’intero perimetro litoraneo del regno di Napoli, circa 2000 km, con una teoria continua di torri fra loro otticamente collegate, per frustrare le incursioni e gli agguati dei corsari barbareschi. Spesso furono collocate a
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ridosso delle piú antiche, essendo la loro posizione pressoché obbligata. Pochi anni dopo anche lo Stato Pontificio ne fece erigere lungo le sue coste tirreniche di similari, seguito poi dal regno di Sicilia, da quello di Sardegna, dallo Stato dei Reali Presidi di Toscana, dal granducato di Toscana e persino dalla repubblica di Genova, per cui, alla fine del Cinquecento, quasi l’intero perimetro costiero della Penisola era sorvegliato da oltre un migliaio di torri, tutte fra loro comunicanti.
In alto, sulle due pagine miniatura raffigurante Dante e Virgilio di fronte a una torre semaforica cosí come descritta nel canto VIII dell’Inferno. XIV sec. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale.
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mento di notevoli dimensioni, o su sfere di vetro (un sistema peraltro già adottato dai medici militari per cauterizzare le ferite). Il fuoco, una volta ottenuto, poteva essere trasportato da un punto all’altro dell’abitazione, per accendere le lampade o i bracieri, mediante stecchini di legno impregnati di zolfo, in pratica rudimentali zolfanelli, dei quali fa piú volte menzione Marziale (Epigrammi lib XII, 57). All’epoca di Dante, però, entrambe le modalità, se non dimenticate, non erano piú disponibili, per cui si tornò, se non proprio ai metodi che dobbiamo immaginare vigenti nell’età della pietra – basati sul far scaturire le scintille dalla percussione di due pietre silicee –, a qualcosa di molto simile. In pratica, servendosi di una sorta di maniglia di ferro, si batteva una delle suddette pietre, piú note come focaie, che, a ogni percussione, emetteva grosse scintille; queste ultime, fatte cadere su fibre molto asciutte, dette esche, perlopiú tratte da funghi disseccati, prendevano facilmente fuoco. Una lettura distratta delle terzine 34-42 del canto XIV dell’Inferno sembrerebbe, con il termine «focile», far riferimento all’acciarino a pietra focaia, variante meccanica di quanto accennato, utilizzato negli archibugi prima e nei fucili poi. Tuttavia, poiché quelle armi non erano state ancora inventate, e la stessa polvere pirica sembrerebbe, all’epoca, un’invenzione recente, né gli uni, né l’altra possono in alcun modo costituire il riferimento tecnologico delle terzine. Il termine focile, derivato dal latino focus, va perciò ricondotto all’acciarino anzidetto e alla sua A destra ricostruzione grafica di un acciarino automatico a ruota e pietra focaia per archibugi e pistole.
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Accensione del fuoco con esca e acciarino
La dissoluzione dell’impero romano provocò, anche in ambito tecnologico, un vistoso regresso e un gran numero di ausili tecnici, da tempo utilizzati nelle civili abitazioni, scomparvero del tutto. Fu il caso dei sistemi di accensione del fuoco, che, stando ancora una volta a Plinio il Vecchio, si basavano spesso su lenti d’ingrandi-
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utilizzazione, che dotò i primi archibugi a pietra focaia solo un secolo piú tardi. Quali Alessandro in quelle parti calde d’Indïa vide sopra ‘l süo stuolo fiamme cadere infino a terra salde, per ch’ei provide a scalpitar lo suolo con le sue schiere, acciò che lo vapore mei si stingueva mentre ch’era solo: tale scendeva l’etternale ardore; onde la rena s’accendea, com’ esca sotto focile, a doppiar lo dolore.
Il mimetismo
Stando ad alcuni storici romani, sembrerebbe che, intorno al III secolo, gli equipaggi delle navi da guerra, indossassero mantelli blu per affinità con le onde. Ma, forse, piú verosimilmente, per tentare di sfuggire ai dardi nemici scagliati dalle altre navi: non potendosi proteggere in altro modo si cercava cioé di confondersi con il colore del mare. In tal caso, si sarebbe trattato dell’esordio in ambito militare del criterio informatore del mimetismo, che vantava già un singolare precedente. Durante l’assedio di Gerusalemme, Flavio Giuseppe ricorda che gli artiglieri romani dipinsero di nero le palle
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delle baliste per renderle meno visibili agli assediati, i quali non potendo piú avvistarle in tempo utile per defilarsi, subirono un forte incremento delle perdite. Sia pure in maniera implicita o casuale, l’idea, quindi, esisteva, pur non trattandosi della sua applicazione sistematica, che avvenne, e sempre in ambito militare, a ridosso della prima guerra mondiale. Nel III canto del Paradiso, alle terzine 1217, Dante mostra di conoscere perfettamente la logica sottesa al camuffamento, affermando che, attraverso acque molto limpide, si percepisce l’immagine riflessa del volto cosí poco sbiadita da rendere invisibile una perla bianca posta sulla fronte altrettanto bianca. In pratica, attenuandosi la luminosità, un’immagine dello stesso colore dello sfondo, diviene indistinguibile all’occhio umano, principio base del mimetismo nelle livree animali come nelle uniformi
Dante incontra Piccarda Donati, incisione a colori da un originale di Gustave Doré. 1885. Collezione privata. L’episodio è narrato nel III canto del Paradiso, lo stesso in cui il poeta si sofferma sul mimetismo.
Quali per vetri trasparenti e tersi, o ver per acque nitide e tranquille, non sí profonde che i fondi sien persi, tornan d’i nostri visi le postille debili sí, che perla in bianca fronte non vien men forte a le nostre pupille;
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Cantieristica navale
grandi costruzioni
È probabile che l’uso di pece e bitume desse un tocco «infernale» all’Arsenale di Venezia... Ma, al di là delle suggestioni, l’attività febbrile dei suoi addetti è descritta fedelmente nel poema
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nche se giuntato a regola d’arte, il fasciame degli scafi disposto sulle spesse corbe (gli elementi trasversali che fanno parte dell’ossatura, n.d.r.), a causa dell’inevitabile ritiro e dilatazione del legname esposto all’acqua e al sole, lasciava filtrare l’acqua in quantità crescente con l’invecchiarsi delle navi. La soluzione escogitata, sin dalla piú remota antichità, consisteva nell’inserire tra le connessure stoppa intrisa di bitume e, non di rado, nello spalmare l’intero scafo con lo stesso bitume, liquefatto in apposite grandi caldaie. I calafati effettuavano l’operazione sugli scafi di nuova costruzione e periodicamente sui vecchi, essendo tale intervento indispensabile per garantirne l’impermeabilizzazione. Il caratteristico odore
del bitume in ebollizione era perciò tipico di tutti i cantieri navali e degli arsenali, primo fra tutti quello di Venezia (vedi «Medioevo» n. 156, gennaio 2010; anche on line su medioevo.it). In quest’ultimo, di gran lunga il maggiore per dimensioni e complessità, per secoli si costruirono in serie gli scafi delle galere grosse e sottili, rispettivamente per il commercio e per la guerra, per cui vi affluivano enormi quantità di legname, provenienti dai boschi limitrofi e dalla Slavonia. Ma in quell’ampio recinto si fabbricavano anche corde di varia dimensione, catene e accessori di ferro, nonché cannoni e munizioni. Un mondo quindi saturo di attività e brulicante di maestranze, che l’incessante guerra con i Turchi contribuiva a mante-
L’insegna dell’Arte dei Marangoni, che riuniva gli addetti alla costruzione delle galee varate nell’Arsenale veneziano. Olio su tavola. XVIII sec. Venezia, Museo Correr.
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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
In alto la pagina di un’edizione della Commedia che comprende il brano del XV canto dell’Inferno in cui Dante descrive le dighe erette in Olanda. Prima metà del XIV sec. Chantilly, Musée Condé. Nella fascia in basso è raffigurato l’incontro tra il poeta e i Sodomiti. A sinistra particolare di una pianta prospettica di Venezia raffigurante l’Arsenale. XVII sec. Venezia, Museo Correr.
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nere in perenne stato di super produzione. Anche Dante, che quasi certamente visitò l’arsenale veneziano, fu impressionato dal lavoro dei calafati e dalle loro caldaie di pece ribollente, al punto da descriverlo dettagliatamente nel XXI canto dell’Inferno, alle terzine 7-19: Quale ne l’arzanà de’ Viniziani bolle l’inverno la tenace pece a rimpalmare i legni lor non sani, ché navicar non ponno — in quella vece chi fa suo legno novo e chi ristoppa le coste a quel che piú vïaggi fece; chi ribatte da proda e chi da poppa; altri fa remi e altri volge sarte; chi terzeruolo e artimon rintoppa — : tal, non per foco ma per divin’ arte, bollia là giuso una pegola spessa, che ‘nviscava la ripa d’ogne parte
Le dighe olandesi
Se, dal punto di vista geografico, la visita all’arsenale di Venezia non presentava ec-
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cessive difficoltà per chi abitava in Toscana, oltre alla ritrosia della sospettosa Repubblica, non cosí può immaginarsi per le dighe erette dagli Olandesi lungo la costa del Mare del Nord, per proteggersi dalla sua furia (soprattutto nei mesi invernali) e strappargli terreni coltivabili Difficilmente Dante vide di persona quelle colossali opere idrauliche, ma ne dovette in qualche modo venire a conoscenza, per cui le descrive con corretta competenza, paragonandole, perciò, a quelle che i Padovani da tempo innalzavano lungo il Brenta, argini necessari a preservare le loro città e i loro castelli dalle violente piene del fiume. Cosí nel canto XV dell’Inferno, alle terzine 4-9: Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, temendo ‘l fiotto che ‘nver’ lor s’avventa, fanno lo schermo perché ‘l mar si fuggia; e quali Padoan lungo la Brenta, per difender lor ville e lor castelli, anzi che Carentana il caldo senta:
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La forza degli elementi Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda. ticale, impedendo cosí di stabilire la priorità
Sin da epoche remote, l’uomo ha cercato di alleviare la fatica del proprio lavoro, imbrigliando l’energia dell’acqua e del vento: sono nati cosí i mulini, che anche nel Medioevo furono «alleati» essenziali di contadini e artigiani
invenzioni varie
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ell’invenzione del mulino azionato da una ruota idraulica si ebbe esatta contezza soltanto dopo che il poeta Antipatro da Tessalonica, e piú ancora il suo coetaneo Vitruvio ne diedero, poeticamente e tecnicamente, descrizioni inconfutabili. L’archeologia, dal canto suo, ne ha trovato numerosi resti che, confermando gli scritti dei due autori, ne collocano la diffusione a partire dal I secolo a.C. Notizie piú incerte, tuttavia, li vogliono di gran lunga piú antichi, mossi sempre da ruote idrauliche, ma ad asse ver-
inventiva tra loro e il mulino a vento afgano, anch’esso ad asse verticale. Oltre a quelli fatti girare dalla corrente dei torrenti o dei fiumi, esistettero mulini che funzionavano grazie all’escursione di marea. Nel canto XXIII dell’Inferno, alle terzine 46-49, Dante, parlando dei mulini, osserva che la velocità dell’acqua che li alimentava aumentava con il suo avvicinarsi alle loro ruote – un effetto dovuto all’accelerazione di gravità – precisando che si riferisce ai mulini
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veneziane del 2 aprile la menzione di lenti d’ingrandimento e di occhiali, fornendoci una prima testimonianza della distinzione fra le due tipologie. Negli anni immediatamente seguenti se ne trova ulteriore riscontro con la definizione di rodoli de vero per ogli per lezer, ovvero di dischetti di vetro per gli occhi per leggere. Nel 1305, dettaglio per noi piú importante, nella chiesa di S. Maria Novella in Firenze il domenicano Giordano da Pisa notificò che erano trascorsi appena vent’anni da quando fu inventata l’arte di far vedere bene, opera meritoria piú di ogni altra. Nello stesso anno Dante si trovava ormai in esilio, sebbene sia lecito presumere che continuasse a mantenere ancora stretti legami con Firenze, sapendo perciò quanto di piú importante avveniva in città, predica e occhiali compresi. Nel canto XXXIII dell’Inferno, alle terzine 99-101, si può leggere la sua menzione degli occhiali, che chiama ancora visiere: In alto ricostruzione virtuale di mulino eolico afgano ad asse verticale. Nella pagina accanto Padova, Palazzo della Ragione. Un mulino ad acqua affrescato nel ciclo attribuito a Niccolò Miretto e Stefano da Ferrara. 1425-1440. A destra Treviso, Seminario Vescovile. Il cardinale Hughes de Saint-Cher allo scrittorio, con un paio di occhiali. Particolare dei Quaranta personaggi illustri dell’Ordine Domenicano, di Tommaso da Modena. 1532.
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terragni, ovvero funzionanti con acqua dolce, distinguendoli cosí da quelli a marea, che dalla metà dell’XI secolo si diffusero in Europa, trovando vasta adozione anche nella laguna veneta, col nome di «acquimoli». La loro modalità di funzionamento non differiva da quelli tradizionali, se non per l’alimentazione. L’acqua, infatti, era quella del mare che, imprigionata in apposite vasche durante l’alta marea, veniva fatta defluire nella bassa, cosí da far girare le ruote idrauliche e sfruttando in tal modo il dislivello creato dalla sua periodica variazione. Questi i versi:
ché le lagrime prime fanno groppo, e sí come visiere di cristallo, rïempion sotto ‘l ciglio tutto il coppo.
Non corse mai sí tosto acqua per doccia a volger ruota di molin terragno, quand’ ella piú verso le pale approccia,
Occhiali
Gli anni della stesura della Divina Commedia coincidono con quelli in cui molteplici indicazioni sembrano fare riferimento a una protesi di vetro, visiera di cristallo, che consentiva di migliorare la vista degli anziani. Stando alle fonti disponibili, infatti, se non l’invenzione almeno l’esordio degli occhiali da vista si colloca agli inizi del 1300, quando si può leggere in un capitolare delle arti
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Dossier Svegliarino monastico
Nel X canto del Paradiso, alle terzine 139-144, Dante paragona le anime che vede volteggiare dinanzi a lui alla maggiore ruota dello svegliarino monastico, definita anche «ruota caterina», che, per la sua forma, ricordava lo strumento di tortura al quale, agli inizi del IV secolo, fu vanamente sottoposta la giovane Caterina d’Alessandria. Con i suoi denti a sega posti perpendicolarmente al piano della ruota stessa, il meccanismo spinge da una parte la paletta della verga dello scappa-
mento con regolatore a foliot, e, dall’altro, tira quella diametralmente opposta, generando con il doppio urto il ben noto tic-tac. Lo strumento, che si rese necessario per potere assolvere con precisione alle funzioni notturne, fu inventato e costruito tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, praticamente un secolo prima della Divina Commedia, primo esempio di dispositivo meccanico automatico per il computo del tempo. Indi, come orologio che ne chiami
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A sinistra, qui sotto ricostruzione virtuale di uno svegliarino monastico con scappamento a foliot. In basso particolare degli ingranaggi dell’orologio che in origine fu inserito nella torre campanaria nord della cattedrale di Salisbury. Il meccanismo viene datato al 1386 e sarebbe perciò il piú antico esemplare del genere a oggi noto.
ne l’ora che la sposa di Dio surge a mattinar lo sposo perché l’ami, che l’una parte e l’altra tira e urge, tin tin sonando con sí dolce nota, che ‘l ben disposto spirto d’amor turge;
Orologi meccanici
Nel canto XXIV del Paradiso Dante torna a parlare degli orologi, alludendo a quelli da campanile, che distingue dai semplici svegliarini monastici, sia per essere di gran lunga piú grandi, sia per funzionare con continuità in modo d’indicare le ore dall’alto dei campanili nei quali, a partire dai primi anni del XIV secolo, venivano montati. A differenza dei precedenti, realizzati in ottone come gli astrolabi, la loro struttura era di ferro battuto, di discreta robustezza, poiché doveva sostenere i rilevanti pesi che, scendendo nel corpo del campanile ne garantivano la forza motrice per intervalli di vari giorni. Anche in questi congegni il moto veniva regolato da uno scappamento del tipo a foliot e trasmesso alle sfere attraverso un treno di ingranaggi che, visti nel loro insieme, sembravano fermo l’ultimo e velocissimo il primo. E come cerchi in tempra d’orïuoli si giran sí, che ‘l primo a chi pon mente quïeto pare, e l’ultimo che voli;
A destra tavola raffigurante amorini che sperimentano vari strumenti, tra cui alcune bussole, da un’edizione della Nova demonstratio immobilitatis terrae petita ex virtute magnetica, opera del padre gesuita Jacobo Grandamico (Jacques Grandami) pubblicata per la prima volta nel 1645.
A sinistra ricostruzione artistica della bussola di Pietro Peregrino (eseguita dall’autore del Dossier), a cui se ne attribuisce la prima descrizione, nel 1269. Dante cita il congegno nel canto XII del Paradiso. Amalfi, Museo della Bussola e del Ducato Marinaro.
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La bussola magnetica
Un altro rivoluzionario strumento scientifico, basilare per la navigazione in mare aperto, comparve sul finire del XIII secolo: la bussola magnetica, già descritta per la prima volta da un certo Pietro Peregrino nel 1269. Di certo il perfezionamento che la rese idonea all’impiego navale fu ottenuto soltanto agli inizi del Trecento e Dante ancora una volta mostra di essere perfettamente aggiornato sulle ultime invenzioni e scoperte scientifiche, descrivendo la bussola magnetica nel Paradiso, canto XII, terzina 29-31, in questi termini: del cor de l’una de le luci nove si mosse voce, che l’ago a la stella parer mi fece in volgermi al suo dove;
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Con quella piazza un po’ cosí... di Federico Canaccini
Anticipando altri importanti centri italiani, Arezzo, già nel Duecento, si dota di un assetto urbanistico «moderno», nel quale si può individuare un piano regolatore allo stato embrionale. Un’organizzazione degli spazi che ha il suo fulcro nella grande platea communis e che riflette l’evolversi delle vicende politiche di cui la città toscana fu teatro, all’insegna dei ripetuti conflitti tra potere civile e potere religioso
Uno scorcio della piazza Grande, l’antica platea communis aretina. Da sinistra, si riconoscono: il palazzo Cofani-Brizzolari, derivante dalla fusione della duecentesca Torre Faggiolana con l’adiacente edificio trecentesco, la casa-torre dei Cofani; l’abside della pieve di S. Maria; il palazzo del Tribunale; il palazzo della Fraternita dei Laici.
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criveva cosí, nella seconda metà del Trecento, ser Bartolomeo di ser Gorello nella sua Cronica in terza rima dei fatti d’Arezzo. Nel panorama delle città toscane, in effetti, Arezzo dovette scontrarsi con alcuni tra i piú potenti Comuni dell’Italia centrale: con Firenze, ma anche con Siena e Perugia. Se con queste ultime il confronto fu minore, con la città del giglio lo scontro si rivelò spesso feroce: la posta in palio erano le valli del Valdarno e della Val di Chiana, percorse da strade importanti e da traffici, e ricche di risorse ambientali e umane. In un primo momento, l’essere al centro dell’Appennino favorí Arezzo, ma in seguito la città fu di fatto tagliata fuori dalle rotte commerciali e culturali
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«Ei Fiorentini che sempre me fenno ingiuria per recarmi al lor contado»
che invece attraversavano centri come Firenze, sua rivale principale e dalla quale venne infatti travolta. Importante già in epoca etrusca, Arezzo entrò poi nell’orbita romana, e divenne municipium nel I secolo a.C. Della città romana sono ancora visibili parti delle mura in grandi blocchi di pietra, alcune strutture dell’anfiteatro e l’inquadramento viario dell’antico centro, corrispondente all’attuale via di Pellicceria (cardo), e via di Colcitrone (decumanus). La forma e l’altimetria del colle su cui sorge hanno determinato la fisionomia di Arezzo nel corso dei secoli seguenti. Come spesso accade nelle città medievali, il nucleo piú antico si trova sulla sommità del colle, la zona naturalmente piú
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luoghi arezzo Il circuito delle mura cittadine fu piú volte ampliato, fino a racchiudere un’area che si estendeva per oltre 100 ettari di superficie protetta, difesa da un primo circuito murario di circa 160 m di lunghezza che è stato datato all’epoca della dominazione longobarda. Questo primo insediamento – delimitato da via di Colcitrone e via de’ Pescioni a est, dal Borgunto e dall’attuale piazza Grande a sud, dalla valle che separa il colle di San Pietro da quello di San Donato – subí un primo ampliamento con la rinascita della città, attorno al fatidico anno Mille. I primi secoli del nuovo millennio furono segnati dal confronto, non privo di asprezze, tra un consolidato potere episcopale e un nascente Comune. Questa dialettica politica contribuí non poco alla definizione della futura città aretina.
S. Pier Maggiore «contro» S. Donato
Soffermandoci, per ora, sull’aspetto morfologico, notiamo come l’ampliamento dell’antico nucleo assecondi dunque l’aspetto altimetrico del colle. La prima area verso cui si espanse la Arretium fu quella a ovest, coincidente con un’altra punta del colle: il Poggio San Pietro. Sulla base della documentazione esistente, possiamo affermare che il borgo sul colle, alcuni anni dopo la distruzione operata da Enrico V nel 1110, era ormai compreso entro un nuovo circuito murario. La chiesa di S. Pier Maggiore, detta iuxta civitatem nel 1107, risulta infatti indicata in civitate aretina nel 1136. La scelta di edificare la chiesa principale all’interno delle mura creò una situazione di conflitto con il polo episcopale, che era invece edificato sulla memoria del martire Donato, sul colle di Pionta, a oltre un chilometro dalle nuove mura. Successivamente, la città si sviluppò verso valle, assumendo una forma a ventaglio il cui interno è interse-
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Cartina di Arezzo, con l’indicazione dei piú importanti monumenti civili e religiosi della città.
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luoghi arezzo La facciata romanica della pieve di S. Maria. La fondazione della chiesa risale ai primi decenni del XII sec., ma la costruzione si protrasse fino agli inizi del Trecento. A destra un rilievo inserito nella facciata probabilmente raffigurante due uomini in lotta.
le date da ricordare VI sec. a.C. Prime testimonianze archeologiche della antica lucumonia etrusca di Arretium. III sec. a.C. Massimo splendore della città che si allea con Roma contro i Galli Senoni. II sec a.C. Costruzione delle mura perimetrali. I sec. a.C. Arretium diviene colonia e poi municipium (costruzione delle nuove mura, erezione dell’Anfiteatro, delle Terme e del Teatro). Alto Fuori le mura sorge il Duomo di Pionta, Medioevo che viene fortificato e presso cui risiede il vescovo. X-XI secolo Dal disfacimento dell’ordinamento pubblico emerge progressivamente la figura del vescovo e conte che già alla fine del secolo XI inizia a fregiarsi del titolo di comes (1095). In questi stessi anni si sviluppa il sistema consolare (prima attestazione nel 1098). 1130 circa Il presule abbandona il Pionta per trasferirsi nel palazzo presso la pieve di S. Maria. 1194 circa Lo sviluppo urbano induce alla costruzione di un nuovo circuito murario (51 ettari). XIII secolo Sorgono attorno al nuovo asse viario, il Borgo Maestro, numerosi edifici pubblici tra cui la nuova e grandiosa pieve di S. Maria e numerose case torri.
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Sotto la guida del vescovo Ubertini (1220?-1289) la città ha un notevole sviluppo. 1277 Inizia il cantiere della nuova Cattedrale e viene costruito il Ponte a Buriano. 1289 La disfatta di Campaldino segna una brusca battuta d’arresto della vita aretina. XIV secolo, Col vescovo Guido Tarlati (1312 primi vescovo, 1321 signore a vita) viene decenni eretto il castello della Torre Rossa (1318), vengono ampliate le mura (che arrivano a comprendere un’area urbana di 107 ettari), si procede alla ristrutturazione del palazzo del Comune (1320) e viene ampliato il territorio comitale e diocesano. 1327 Alla morte del vescovo Tarlati la guida passa a suo fratello Pier Saccone, con il quale inizia un rapido processo di decadenza. 1337 La città viene ceduta una prima volta a Firenze. Viene eretto il Palazzo del Popolo. 1376-1384 Arezzo viene ripetutamente messa a sacco. 1384 Arezzo viene ceduta a Firenze dal condottiero francese Enguerrand de Coucy per 40 000 fiorini e si lega definitivamente al destino della città del giglio.
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Qui sopra Arezzo, Palazzo vescovile. Affresco di Pietro Buonamici del 1597 nel quale si vede la cittadella fortificata sul colle Pionta, distrutta da Cosimo I de Medici nel 1561.
cato a raggiera da vie ampie e regolari che si dipartono dalle porte antiche e da alcune nuove, aperte nel circuito murario. Rispetto al nucleo romano e poi altomedievale, dunque, a partire dalla Porta Burgi si delineò un nuovo asse viario, il Borgo Maestro, destinato a divenire il principale. A ovest, invece, in uscita dalla Porta del Foro, in coincidenza con l’antico decumanus, si affermò la direttrice rappresentata dalla Piaggia di Murello. L’ultima via principale infine, l’attuale via Pellicceria-via Fontanella, corrispondeva all’antico cardo.
La precocità dell’assetto urbanistico
Tra il XII e il XIII secolo, dunque, la città crebbe, fuorché a nord, seguendo la linea di livello attorno ai 255 m di altitudine. Nel 1194 venne iniziata la costruzione di una nuova cinta muraria che, se nella parte settentrionale ricalcava il tracciato preesistente, verso sud inglobò nuovi punti cardine, come la pieve di S. Maria e la grande platea communis, a cui fu data sistemazione già nel 1200, un’epoca senz’altro precoce nel panorama urbanistico toscano. La nuova struttura difensiva inglobava poi i borghi formatisi nel corso del XII secolo, racchiudendo un’area di circa 55 ettari. Nel 1196 la porzione di mura a mezzogiorno, l’area piú vulnerabile, era già stata completata: essa era delimitata dal torrente Castro, ulteriore difesa della città, all’altezza delle attuali via Garibaldi e via S. Agostino, che ricalcano l’antico circuito murario.
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luoghi arezzo La Porta San Lorentino, che trae nome dalla vicina chiesa intitolata ai santi Lorentino e Pergentino, e oggi si apre nella cinta muraria di epoca medicea.
provenienti dal contado, che ritroviamo citati nel 1284, quando «venerunt comitatini ad habitandum Arretium» dovettero popolare l’area oltre il Castro, dando vita a nuove borgora a valle, naturalmente extramurarie. Perciò, per proteggere la città, al circuito murario precedente fu aggiunto un sistema di fossati, valli e palizzate che le fonti ci dicono essere ancora operante nel 1289, anno in cui Arezzo subí l’assedio dei guelfi vittoriosi a Campaldino (vedi «Medioevo» n. 147, giugno 2013; anche on line su medioevo.it). Se il periodo immediatamente successivo a questa disfatta, definito in un documento del Capitolo aretino tempore tribulationis, non dovette essere particolarmente propizio per il varo di grandi lavori pubblici, la situazione cambiò negli anni venti del Trecento. Allora infatti, a distanza di un secolo dalla fase delle imponenti iniziative che avevano rinnovato il volto di Arezzo (ultima delle quali, ma solo in ordine di tempo, l’apertura del cantiere del Duomo nel 1277), iniziò una nuova epoca di dinamismo costruttivo, legata alla carismatica figura di Guido Tarlati, le cui imprese urbanistiche si intrecciarono strettamente alla sua affermazione politica. La crescita di Arezzo non si arrestò nei decenni successivi, come testimonia l’istituzione di uno Studium, presso il quale, nel 1215, insegnò anche il famoso magister Roffredo Epifanio da Benevento, e la prima metà del Duecento fu costellata di significative iniziative urbanistiche. Nel 1200 vennero completate le mura e la piazza principale. Antico centro economico della città, non a caso detta platea porcorum, da allora in avanti la piazza assolse anche funzioni politiche: quelle di spazio aggregante, emblema dell’affermazione del governo comunale. Dopo soli tre anni, nel 1203, «il vescovado, chiesa e Duomo vecchio, fu levato e fu posto drento a la città». Nel 1232 fu costruito il Palazzo comunale mentre nel 1241 lo Studium, per il quale Roffredo lamentava la mancanza di alloggi e strutture adeguate, fu trasferito negli annessi di S. Pier Piccolo.
Il papa chiede di modificare lo Statuto
L’espansione urbana creò non poche tensioni in un equilibrio che vedeva contrapposti il vescovo e il Comune. La volontà del secondo di popolare la città creando un centro demico ragguardevole, infatti, si scontrava con gli interessi della diocesi, al punto che, nel 1234, papa Gregorio IX scrisse al vescovo di Sarsina chiedendogli di invitare il podestà aretino a espungere dallo Statuto un capitolo con cui si incoraggiavano i coloni a immigrare in città, concedendo loro alcuni iura ritenuti dannosi per il vescovo e la Chiesa. Questi uomini
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I grandi cantieri del vescovo Guido
Consacrato vescovo nel 1312 da papa Clemente V, Guido cominciò la sua attività di urbanista avviando – e non fu certo una scelta casuale – una grande opera di architettura militare: la Torre Rossa, inaugurata nel 1318. I lavori della nuova fortificazione, posta sul punto piú alto della città, iniziarono ragionevolmente qualche tempo prima, benché gli Annales Arretinorum lascino intendere che tutto avvenne nel 1318: «elevata et alzata est turris Comunis de mattonibus». Il secondo cantiere fu quello del circuito murario: cominciato con buona probabilità nel 1319 nell’area di Colcitrone, venne completato intorno al 1321, non casualmente lo stesso anno dell’elezione di Guido a signore di Arezzo. La nuova cinta andò a inglobare i borghi sorti a valle («acresceva la cità a Sancto Spirito») e numerosi insediamenti religiosi, raggiungendo un perimetro di circa 5000 m, nel quale si aprivano almeno dieci porte. Nel 1320 venne avviata la ristrutturazione del vecchio Palatium comunis e, nel 1322, fu edificato, «in civitate», il palazzo per Federico da Montefeltro. Nel 1330, poi, «furono fatti i fossi intorno a la città di Arezzo», restaurato l’importante Ponte a Buriano e sistemate le campane della pieve di S. Maria, di cui vennero anche «facte de novo scalae». Infine, nel 1333, fu edificato il Palazzo dei Priori e, ancora nel 1337, «elevata est turris palatii Populi», coronata alla senese con archetti tondi su beccamarzo
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Una testimonianza preziosa La cacciata dei diavoli da Arezzo, decima scena del ciclo delle Storie di San Francesco affrescato da Giotto. 1297-1300. Assisi, basilica di S. Francesco, chiesa superiore. Nel dipinto, oltre alla vivace rappresentazione della città, si riconosce, sulla
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sinistra, la chiesa intitolata al martire Donato, che sorse sul colle del Pionta e funzionò come Duomo fino al 1203, quando «il vescovado, chiesa e Duomo vecchio, fu levato e fu posto drento a la città». Il tempio fu poi demolito nel 1561.
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luoghi arezzo Guglielmo degli Ubertini
Nella pagina accanto la torre Faggiolana, che si affaccia sulla piazza Grande della città ed è una delle case-torri tuttora esistenti all’interno dell’area urbana. A sinistra riproduzione in scala di Guglielmo degli Ubertini, riconoscibile dalla tiara. Particolare del plastico della battaglia di Campaldino esposto nel museo dedicato allo scontro e allestito nel castello dei conti Guidi di Poppi (Arezzo).
Il riposo agitato del vescovo soldato L’11 giugno 1289, moriva, presso Campaldino Guglielmo degli Ubertini, vescovo di Arezzo. L’anziano presule era stato eletto e resse la cattedra aretina per ben 41 anni. La sua elezione cadde in un momento particolarmente difficile della storia cittadina ed è sintomatico il fatto che, per i primi cinque anni del suo mandato, gli atti da lui promulgati non siano redatti ad Arezzo ma a Bibbiena o a Gressa, fortilizi casentinesi di proprietà episcopale. Sanate le antiche discordie tra il Capitolo della Pieve e quello della Cattedrale e all’indomani di una tregua tra le fazioni della città, Guglielmo poté finalmente essere consacrato in Arezzo. L’Ubertini, la cui morte a Campaldino lo fa apparire una sorta di «eroe ghibellino», negli anni in cui la fazione filoimperiale trionfava in Toscana, sotto l’egida di re Manfredi, si comportò invece da strenuo antighibellino. Appena eletto tassò il clero e le chiese della diocesi per arruolare schiere di balestrieri e arcieri alla testa delle quali partí contro Manfredi, alla volta
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della Puglia. Nei giorni di Montaperti, invece, intavola trattative segrete con la ghibellina Siena, rivale di Firenze, dalla quale anche Guglielmo sta prendendo le distanze. Si devono poi a lui le nuove Costituzioni date alla Canonica della Cattedrale e miranti a un processo di riforma che rendesse piú ligio il clero aretino. Il presule, che nel 1265 tornò nell’opposto schieramento, distinguendosi a Siena come leader guelfo, nel 1267 fece attaccare l’eremo di Camaldoli, con cui aveva piú di un contenzioso, dai propri armati. Fu necessario l’intervento di papa Gregorio X per chiudere la questione in modo pacifico, privando cioè l’Ubertini di qualsiasi giurisdizione su terreni e beni appartenenti all’ordine camaldolese. Negli ultimi anni di vita, Guglielmo proseguí nel barcamenarsi tra le fazioni, in una difficile e scomoda posizione di potere. Allettato da un cospicuo vitalizio annuo (Dino Compagni parla di 5000 fiorini), offertogli da un messo fiorentino, l’ormai settantenne vescovo avrebbe ceduto al Comune rivale
terre e castelli legati al patrimonio episcopale aretino. Quando il trattato venne scoperto Guglielmo non ebbe vie di uscita e legò il suo destino a quello della propria città. Riconosciuto dalla tonsura cadde tra i colpi dei guelfi. Venne quindi sepolto, secondo consuetudine, a Campaldino, presso la chiesa dei Frati Minori di Certomondo. E, nei decenni successivi, un suo nipote stanziò, fondi per far edificare un monumento funebre, precisando la località di Campaldino, ma tale volontà non fu mai ottemperata. Con una scelta – a mio modo di vedere – discutibile, le spoglie del prelato sono state recentemente trasportate nel Duomo di Arezzo, creando l’ennesima (benché piccola) alterazione nelle vicende umane: i suoi diocesani e i suoi parenti avrebbero infatti voluto far riposare Guglielmo, anziché nel luogo in cui aveva officiato, là dove aveva coraggiosamente trovato la morte. Chissà che da queste due righe di chiarimento, non tragga un po’ di sollievo! marzo
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telli, come si distingue nella tavola con San Rocco di Bartolomeo della Gatta, caso raro nell’architettura aretina. Tuttavia, nello stesso 1337, dieci anni dopo la morte di Guido, il fratello, Pier Saccone, concesse per dieci anni la signoria su Arezzo ai Fiorentini, certificando l’inizio di una profonda crisi, che sfociò nella signoria di Carlo di Durazzo e decretando anche la fine della seconda grande stagione urbanistica della città bassomedievale. Per comprendere il cambiamento di clima rispetto ai decenni precedenti, basti pensare all’abbandono del Palazzo del Popolo, danneggiato tra il 1380 e il 1384 e mai piú restaurato fino al suo abbattimento, avvenuto nel 1539; oppure all’inizio dei lavori del Palazzo della Fraternita dei Laici, presto interrotti per le tumultuose vicende politiche di quegli anni. Non è infine del tutto ovvio che lo sviluppo urbano insistesse, tra il XIII e il XIV secolo, sui due assi viari oramai consolidati (Borgo Maestro e via San Lorentino). Entrambe le strade fungevano sí da cerniera con le strade che collegavano Arezzo ai mercati della Val di Chiana e del Valdarno, ma se da un lato questa situazione rifletteva forse il dinamismo dell’economia locale, dall’altro potrebbe essere interpretata anche come il segno della crescente dipendenza politico-economica di Arezzo da Firenze. A essa, nel corso del XIV secolo, gli Aretini tentarono vanamente di opporsi, finendo però per innescare un processo autolesivo, culminato nella definitiva sottomissione del 1384. Se Pier Saccone rappresenta la figura che formalizzò la prima cessione a Firenze, egli è anche colui che condusse Arezzo in un mondo politico nuovo, destinato ad assumere forme meglio definite nel secolo seguente.
Fede e potere
Le scelte relative agli assetti e agli usi degli spazi urbani erano motivate anche dalla dialettica tra le diverse forze sociali in lotta tra loro. Come già accennato, il confronto fu in primo luogo tra il vescovo, nel caso aretino particolarmente potente, il Comune e le componenti signorili, urbane e rurali, laiche e religiose. La preminenza dei vescovi aretini aveva radici lontane ed era, almeno in parte, anche il risultato dell’iniziativa degli imperatori, a partire da quelli carolingi. Ma gli obiettivi del potere laico e di quello ecclesiastico non erano del tutto coincidenti. Al progetto imperiale, teso a potenziare la figura del vescovo in ambito urbano, faceva riscontro nel territorio il dinamismo del presule, che puntava a svincolarsi dalle ingerenze dei sovrani. Questa dialettica si tradusse, sul piano urbanistico, nella scelta dei vescovi aretini di riorganizzare la città e la diocesi nei primi decenni dell’XI secolo. Cosí, come altre città italiane, Arezzo ebbe due poli cattedrali, uno urbano e uno extraurbano: il primo presso la chiesa di S. Maria, che divenne sede del vescovo,
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il secondo presso il lontano colle del Pionta, simbolo stesso dell’autonomia dell’episcopio. Nel corso dei decenni successivi, però, non fu solo il vescovo ad accrescere il proprio potere, giacché anche il neonato Comune aretino prese coscienza della propria forza. Quest’ultimo si trovò a doversi misurare con potenze altre che, fino a quel momento, avevano dominato ampie aree di quello che poi divenne il comitato aretino. La lotta per la conquista del contado coincise con lo scontro con istituzioni ecclesiastiche molto potenti, quali i monaci di Santa Fiora, di Capolona, di Prataglia e di Camaldoli. Con la forza dei loro patrimoni fondiari e dei diritti signorili, infatti, essi impedirono per molti decenni al Comune di assumere il totale controllo del territorio, pregiudicando anche uno sviluppo lineare della città in senso comunale. La guerra comitatus fu dunque intrapresa in primo luogo contro questi ordini, piú che contro il vescovo, che nel corso dell’XI secolo era divenuto il vero cardine del sistema politico anche grazie alla dignità comitale conferitagli da Enrico II. Ciononostante, tra il 1130 e il 1136, lo stesso presule e i canonici furono costretti
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luoghi arezzo È quindi nel corso del Duecento che, sotto il profilo urbanistico, si osservano le maggiori trasformazioni legate al confronto tra l’istituzione vescovile e quella comunale. Il XIII può essere definito il secolo di Guglielmino Ubertini, visto che il suo lungo episcopato (1248-89) coincise con una fase particolarmente saliente dello sviluppo urbano e architettonico di Arezzo, che portò a un globale riordinamento e riassetto della città. Se il Palazzo del Comune, oggi scomparso e attribuito dal Vasari a un tale Buono, era stato precocemente edificato nel 1232 presso la piazza principale – al capo di via Pellicceria – con caratteristiche innovative come le gotiche finestre trilobate rappresentate nella formella tarlatesca El fare delle mura, altri grandiosi edifici, in una sorta di «contrapposizione urbanistico-politica», dovevano sorgere in quel torno di decenni che costituirono l’aetas aurea della civiltà comunale e anche uno dei momenti salienti della storia aretina.
Un forte segnale politico
Dopo i rivolgimenti seguiti alla duplice vittoria guelfo-angioina degli anni 1266-1268, Arezzo visse anni convulsi, che videro il Popolo ottenere un significativo riconoscimento politico da parte dei Magnati e dell’autorità episcopale. Tale affermazione politica trovò una corrispondenza nel grandioso cantiere del Palazzo del Popolo, iniziato nel 1270 e conclusosi nel 1278. D’altra parte, non era certo un caso che anche Guglielmino e il Capitolo avessero deciso di intraprendere l’inizio dei lavori della nuova Cattedrale, posta sul poggio San Pietro, proprio nel 1277, come mirabile espressione visiva del potere spirituale e civile esercitato dal Vescovo e dunque inequivocabile risposta alla pieve, che era divenuta la chiesa dell’autorità civica. Un forte segnale politico Guglielmino lo aveva del resto già dato, con l’erezione di un nuovo Palazzo vescovile (1256), che fu posto dinanzi alla chiesa cattedrale intra moenia, S. Pier Maggiore. Il Palazzo del Popolo, invece, di cui sono ancora visibili alcuni resti, sorgeva in Saxonia, sempre nella parte alta della città. La concentrazione in questa zona dei palazzi del potere può essere spiegata solo parzialmente, a quest’altezza cronologica, con la sua maggiore difendia trasferirsi dalla cittadella ormai fortificata del Pionta in città, e precisamente nel palazzo presso la pieve di S. Maria, già proprietà della canonica. Tra la metà e la fine del XII secolo, poi, nonostante alcuni momenti di difficoltà dovuti al ripetersi delle carestie, il Comune riuscí a intraprendere spedizioni armate contro gli insediamenti fortificati di Agnano, Anghiari e Montedoglio, costringendo nel 1182 anche i Camaldolesi a risiedere entro le mura. Infine, dopo la distruzione del monastero delle SS. Fiora e Lucilla, operata dal Comune tra il 1193 e il 1196, vennero forzatamente inurbati i Benedettini.
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A sinistra le volte a crociera della navata centrale del Duomo, affrescate da Guillaume de Marcillat (1470-1529) e, piú tardi, da Salvi Castellucci (1608-1672).
bilità. Piuttosto, il fatto di essere localizzati nella parte antica della città, conferiva a questi edifici un’aura di piú alta auctoritas e li identificava come il centro direttivo del Comune. Il confronto tra i vari poteri che animavano il composito ceto dirigente aretino trovava conferma nella volontà di prevalere in una «tenzone architettonica», del resto ancora attuale. Contigue a quest’area, lungo il Borgo Maestro, crebbero anche le case-torri delle famiglie signorili. In relazione a quest’asse, ormai impostosi come il principale a detrimento dell’antico cardo, sorse il maggior numero di dimore fortificate, alcune delle quali, come quella dei Lappoli in piazza Grande, sono giunte fino a noi, benché restaurate in modo spesso discutibile. Si tratta di edifici realizzati in stile severo, con bozze in pietra serena bigia, alcune con bugne al pianterreno, che conferivano al
centro della città un aspetto militare e ferrigno. Per trovare l’uso del laterizio, rarissimo nel corso del Duecento, si dovette attendere l’epoca del Tarlati, come attestano la eloquente Torre Rossa o il Palazzo Palliani.
Il trasferimento della cattedrale
Per quanto attiene invece all’edilizia sacra dobbiamo tornare alla data del 1203, quando Innocenzo III ordinò il trasferimento della cattedrale dal Pionta presso la chiesa di S. Pier Maggiore «pro pace civitatis et ecclesie Aretine ac utilitate communi»; uno spostamento che sanciva la vittoria del Comune sul vescovo, le cui conseguenze in campo edilizio furono molteplici. Dopo la distruzione del potente monastero fortificato delle SS. Fiora e Lucilla, cosí, i Benedettini erano stati temporaneamente sistemati presso gli edifici di S. Pier Maggiore; ma, a seIl Duomo, intitolato ai santi Donato e Pietro. Il cantiere del grandioso edificio fu avviato nel 1277, ma la costruzione si protrasse fino ai primi anni del XVI sec.
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Basilica di S. Francesco, Cappella Maggiore. Particolare della Battaglia di ponte Milvio, uno degli episodi illustrati da Piero della Francesca nel ciclo delle Storie della Vera Croce. Gli affreschi, realizzati tra il 1452 e il 1466, si basano sulla Legenda Aurea, una raccolta di vite di santi composta dal domenicano Iacopo da Varazze alla metà del XIII sec. Il dettaglio qui illustrato mostra un gruppo di cavalieri appartenenti alle truppe dell’imperatore Costantino.
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guito della decisione di papa Innocenzo, furono costretti a spostarsi presso il monastero di S. Pier Piccolo, ceduto dai Camaldolesi, a loro volta ricompensati con la chiesa extraurbana dei SS. Lorentino e Pergentino, situata sull’importante asse della via Fiorentina. Con il trasferimento della sede vescovile in città, la grande pieve di S. Maria, a cui era già stata riconosciuta la dignità battesimale, divenne la chiesa del Comune e del popolo, in contrapposizione alla nuova cattedrale e fu oggetto di una ristrutturazione sia architettonica che stilistica. Ma non fu soltanto la pieve a sperimentare un adattamento alla nuova corrente gotica che si affermò ad Arezzo come nel resto della Toscana: vennero infatti restaurate e «aggiornate» anche le chiese di S. Giustino, di S. Andrea (1204), dei SS. Vito e Modesto (1237), di S. Lorenzo (1246?) e di S. Agnese, nonché la chiesa parrocchiale di S. Nicolò e quella camaldolese di S. Michele (1262-72). Un ruolo di spicco, soprattutto nel trapasso dal romanico al gotico, lo svolsero senza dubbio gli edifici legati agli Ordini Mendicanti, che si insediarono nell’Aretino piuttosto precocemente.
A contatto con il popolo
Già nel 1236, ad appena due anni dalla canonizzazione di Domenico di Guzman, i Predicatori erano presenti in città, dove da qualche decennio si era sviluppata un’intensa attività culturale, alla quale essi diedero un contributo importante, iniziando presto a insegnare in alcune delle sedi dello Studium di Arezzo. Attorno al 1242 vi fondarono un oratorio, la cui prossimità con i palazzi delle famiglie signorili dei Tarlati e degli Ubertini favorí senza dubbio l’Ordine, che, nel 1275, poté dare inizio ai lavori del nuovo edificio conventuale. Dall’aspetto severo, caro alle famiglie nobili che lo patrocinarono, sorse in un’area urbana da poco inclusa nel nuovo circuito murario, in linea con la volontà dei frati di operare il piú possibile a contatto con il popolo cristiano. L’Ordine dei Minori invece, almeno nella sua fase iniziale, privilegiò la creazione di piccoli stanziamenti extraurbani, spesso temporanei, situati in luoghi appartati, come aveva insegnato Francesco d’Assisi. Il primo insediamento stabile, comunque suburbano, può essere considerato quello eretto sul Poggio del Sole nel 1232, per volere di Gregorio X, ancora incompiuto nel 1248 e già abbandonato nel 1318 in seguito all’edificazione di un nuovo complesso urbano: l’attuale chiesa di S. Francesco (1290). I Francescani completarono poi il loro processo di inurbamento andando a occupare il quartiere di Porta Burgi, l’unica zona non ancora «colonizzata» dagli Ordini, visto che i Domenicani avevano occupato l’area di Porta del Foro, i Serviti si erano installati a Porta Crucifera (dopo il 1253) e gli Agostiniani a Porta S. Andrea (1257).
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luoghi arezzo Se, alla lunga, gli sviluppi geopolitici relegarono Arezzo in una posizione gregaria nell’Italia centrale, sotto il profilo artistico-architettonico la città giocò un ruolo importante sia come recettore che come volano di modelli dell’area umbro-toscana. Cosí, il precoce modello della platea communis aretina fece scuola presso quei centri, come Siena e Perugia, con i quali piú forti erano gli scambi reciproci.
Dal romanico al gotico
Tra il Duecento e il Trecento, inoltre, con l’affermazione del gotico in Toscana e nell’Italia comunale, anche il volto di Arezzo mutò profondamente. Le forme severe del romanico si ingentilirono ed elementi gotici comparvero nel Duomo, nel Palazzo del Popolo, nella pieve e anche nei palazzi di famiglia, come mostra il caso di quello degli Altucci che, a differenza della murate case-torri del
pieno Duecento, presentava ampi portali al pianterreno e graziose finestre trilobate al primo piano. Un altro aspetto merita poi di essere segnalato: anche ad Arezzo l’estetica urbana cominciò a funzionare come mezzo di comunicazione politica. Accanto alle diverse manifestazioni dello spirito civico, infatti, emerse il tema del decoro urbano, da intendere non solo come un progetto di interventi destinati a migliorare le condizioni di vita della città, ma anche come un vero e proprio programma politico. Negli anni dell’episcopato di Guglielmino Ubertini la città e il suo contado erano già stati interessati da una sorta di tentativo di «piano regolatore». Oltre all’apertura dei cantieri urbani relativi ai grandi palazzi pubblici e del potere, nel 1269 «fu fatta la Fonte Vinitiana fora de la cità», un’importante struttura per l’approvvigionamento idrico edificata presso la Porta di Colcitrone; nel 1277 venne realizzato il Ponte a Buriano,
Sulle due pagine formelle facenti parte della decorazione del monumento funebre del vescovo e signore di Arezzo Guido Tarlati. L’opera fu commissionata dopo la morte di quest’ultimo, avvenuta nel 1327, agli scultori senesi Agostino di Giovanni e Agnolo di Ventura, che la realizzarono
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forse su disegno di Giotto e la ultimarono nel 1330. I rilievi mostrano episodi della vita del presule: la nomina a vescovo (in questa pagina) e l’avviamento del cantiere per l’ampliamento del circuito murario cittadino che finí con il comprendere un’area di oltre 100 ettari.
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che «costò un gran denaio» e grazie al quale l’Aretino era finalmente ben collegato con il territorio al di là dell’Arno. L’anno seguente fu creato il Lacus noster, un bacino idrico artificiale presso Broglio, e vennero completate le Vie recte, operazione che non credo vada interpretata come raddrizzamento delle vie urbiche, ma come realizzazione delle grandi arterie di comunicazione che uscivano dalla città e attraversano, ora in modo rettilineo, il planum Aretii, recentemente liberato dalle acque stagnanti e paludose. Dalla città, dunque, si dipartivano strade che erano il simbolo di un centro urbano proiettato sul contado, quasi a sottolineare un’ideale prosecuzione del controllo politico della città sul territorio.
L’influenza del dominus
Quanto osservato per il XIII secolo trova maggiore conferma nell’epoca tarlatesca. L’Arezzo dei Tarlati e il suo contado divennero, infatti, teatro di interventi urbanistici tramite i quali furono veicolati e comunicati valori e contenuti di natura essenzialmente politica. Se il centro di questo dominatus veniva ora abbellito, l’influenza del suo dominus non poteva non farsi sentire anche nei luoghi extra moenia sui quali aveva giurisdizione. Sansepolcro, per esempio, conquistata nel 1318, divenne subito oggetto di lavori febbrili: si lastricarono le vie con
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mattonelle in cotto e fu realizzata la strada che collegava Anghiari al ponte sul Tevere. La città fu ingrandita, fortificata, abbellita, dotata non solo di strutture funzionali, ma anche di elementi che la rendessero admirabilis. A chi la osservava da lontano, Arezzo mostrava, sulla sommità del colle, la sua corona, cesellata con gli edifici del potere: il Duomo, la Torre Rossa, il Palazzo del Comune, il Palazzo del Popolo. Cosí le mura e le porte, edificate con l’aiuto della «parte ghibellina di Milano che gli mandò quattrocento muratori e denari», come ricorda il Vasari, vennero adornate di stemmi e statue «parlanti». Dalla formella già citata del monumento di Guido Tarlati, si nota come, oltre lo stemma del vescovo-signore e quello del Comune, campeggi al centro un’aquila che artiglia un leone: è la pietra che parla e annuncia al forestiero la condotta politica della città. L’aquila, simbolo ghibellino, atterra il leone, simbolo della guelfa Firenze. Ciò che Guido fece scolpire sopra tutte le porte della sua città murata, però, non si avverò nei decenni che seguirono. Il «leone» fiorentino, infatti, travolse Arezzo che, lacerata da dissidi interni, fu assoggettata dalla rivale e inglobata in un nuovo sistema di relazioni politiche: una stagione in cui maturarono anche i presupposti per la realizzazione di nuove trasformazioni urbane. F
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Sulla Rota giusta
itinerari • Dodici Comuni
del Portogallo si sono consorziati in un progetto di valorizzazione del loro ricco patrimonio monumentale, offrendo un viaggio alla scoperta del romanico in terra lusitana are sistema: facile a dirsi, non sempre a farsi. Ci sono riuscite con successo, superando lo scetticismo iniziale di chi non vedeva l’utilità di un consorzio, le municipalità portoghesi riunitesi nel progetto battezzato Rota do Românico (Strada del romanico). Nato nel 1988 per iniziativa dei Comuni della Associação de Municípios do Vale do Sousa (Castelo de Paiva, Felgueiras, Lousada, Paços de Ferreira, Paredes e Penafiel), ai quali, nel 2010, si sono aggiunte le municipalità di Amarante, Baião, Celorico de Basto, Cinfães, Marco de Canaveses
e Resende, il progetto vuole far conoscere e valorizzare il patrimonio storico-artistico del territorio, con un’offerta che, ai beni culturali, affianca le risorse paesaggistiche e ambientali, nonché tradizioni enogastronomiche di tutto rispetto.
Braga
Barcelos
Porto
Vila Real
Águeda
Tre percorsi per tre valli Siamo dunque nel Nord del Portogallo – la base operativa piú importante della Rota, Amarante, si trova una sessantina di chilometri a est di Porto, a cui è collegata da una comoda autostrada, la A4, e da regolari servizi di corriera – e, in
Mogadouro
Viseu
ATLANTICO
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Guarda Coimbra
Leiria Abrantes Portalegre
Santarém LISBONA
Estremoz Évora
A destra cartina del Portogallo con l’area, evidenziata in arancione, in cui si snodano i percorsi della Rota do Românico.
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Moura Sines
Beja Odemira
Lagos Sagres
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Golfo di Cadice
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A destra la saletta per proiezioni nel Centro informativo della Rota do Românico allestito ad Amarante. Nella pagina accanto, in alto veduta di Amarante, bagnata dalle acque del Tâmega. Sulla sinistra si riconoscono il ponte sul fiume, la cui costruzione viene attribuita a san Gonzalo, e la cattedrale, intitolata allo stesso santo. Nella pagina accanto, in basso, a sinistra uno dei segnali che indicano il percorso della Rota. particolare, il progetto si articola in tre percorsi principali, che seguono altrettante valli fluviali: quelle del Douro (Duero in italiano), del Tâmega e del Sousa. A oggi, sono 58 i monumenti toccati dalle diverse direttrici che formano la rete della Rota do Românico: si tratta perlopiú di chiese, alcune delle quali annesse a monasteri, ma non mancano torri, castelli, nonché alcuni ponti, che conservano l’impianto originario dell’età di Mezzo. Come si intuisce dalla denominazione stessa del progetto, a fare da comune denominatore è l’appartenenza all’età medievale e, in particolare, alla stagione del romanico, che approda in terra lusitana sul finire dell’XI secolo, per effetto della diffusione nella penisola iberica della riforma cluniacense e della liturgia della Chiesa romana. Un fenomeno che si inscrive nel piú
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Le nuove forme del costruire vengono declinate soprattutto in chiave religiosa e assecondano l’organizzazione delle diocesi e delle parrocchie, nonché quella degli ordini monastici, che tra il XII e il XIII secolo si dotano di nuovi conventi o scelgono di ristrutturare quelli esistenti. In Portogallo, il fenomeno si concentra soprattutto nell’area nord-occidentale del Paese e non è dunque un caso che qui sia nato il progetto della Rota do Românico.
Introduzione alla visita
vasto movimento dalla Reconquista, grazie alla quale si procede a una riorganizzazione del territorio, che permette l’insediamento di ordini religiosi – come appunto quello di Cluny – e militari.
La presa di Coimbra Una tappa importante, nel 1064, è la conquista di Coimbra, che Ferdinando I, re di Castiglia e León, strappa ai Mori, dando una nuova stabilità e sicurezza alle regioni settentrionali del Portogallo. E, infatti, non a caso, all’evento fanno seguito una notevole crescita demografica e il sorgere di nuovi centri abitati. Circa un secolo piú tardi, l’ascesa al trono del re Alfonso I, nel 1139, si inserisce appieno nella nuova e consolidata realtà e cade nel momento in cui la sperimentazione dell’architettura romanica è nel pieno della sua fioritura.
Come già accennato, la città di Amarante è una delle basi di partenza dei vari percorsi e offre un centro informativo allestito al 59 dell’avenida General Silveira: ricavato in un edificio d’epoca, il centro dispone, al secondo piano, di una saletta per proiezioni dove si possono vedere documentari introduttivi alle località della Rota e presso la quale il personale della struttura è a disposizione per ulteriori indicazioni; al pianterreno sono invece allestite vetrine che illustrano i prodotti tipici piú famosi delle località comprese nel percorso, e disponibili anche all’acquisto. La stessa Amarante, bagnata dal Tâmega, merita senz’altro una visita, soprattutto per la chiesa cattedrale, intitolata al beato locale Gonzalo. A lui, che visse tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, la tradizione popolare attribuisce il poderoso ponte che porta alla chiesa stessa e sul quale, in età moderna, è stata affissa una lapide che ricorda l’eroica resistenza della città portoghese alle truppe napoleoniche. Adiacente alla cattedrale, è l’edificio che ospitava in origine una comunità di frati domenicani e che, dopo le non poche traversie susseguitesi all’indomani dello scioglimento degli ordini religiosi nella prima metà dell’Ottocento, è oggi adibito a sede del Museo Municipale Amadeo de Souza-Cardoso.
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Qui sopra Paços de Ferreira, la chiesa del monastero di S. Pietro, il cui ingresso è preceduto da un nartece. Si tratta di una raccolta d’arte moderna e contemporanea – comprendente un ricco nucleo di opere dello stesso Souza-Cardoso, che era originario di Amarante –, che vale la visita, anche per apprezzare le soluzioni architettoniche adottate nella ristrutturazione dei locali dell’ex monastero.
Massima accessibilità Sarebbe a questo punto impossibile dare conto, in poche pagine, di tutti i siti monumentali compresi nella Rota do Românico: quella che segue è quindi una selezione di alcune delle mete di maggior interesse. Dal punto di vista pratico, merita d’essere sottolineata la cura riposta nella segnaletica: chiara e capillare,
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essa permette di raggiungere agevolmente le diverse mete, anche quando collegate da strade minori. Poco piú di 20 km a est di Amarante, spostandosi nel territorio del Comune di Paços de Ferreira, si può visitare la chiesa del monastero di S. Pietro. È uno dei monumenti piú interessanti tra quelli toccati dalla Rota do Românico, soprattutto per la soluzione architettonica scelta nella parte frontale dell’edificio: caso unico, nel romanico portoghese, la chiesa è infatti preceduta da un nartece, circondato da mura, dotato di un campanile a vela e che, in corrispondenza dell’ingresso assume la forma di un epistilio (elemento architravato) a capanna. La citazione del sito nel testamento stilato nel 959 da Mumadona Dias, nobildonna di origine gallega che resse la contea del Portogallo, permette di collocare la prima fondazione del monastero di S. Pietro nel X secolo, mentre i marzo
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In alto la torre di Vilar, la cui costruzione, alla metà del XIII sec., viene attribuita al nobile Gil Martins de Ribavizela. A sinistra un particolare della ricca decorazione scolpita del portale della chiesa di S. Pietro a Paços de Ferreira. lavori per la costruzione della chiesa ebbero inizio nel 1182. Il complesso appartenne all’ordine dei Chierici Regolari nella seconda metà del Duecento, mentre piú tardi, nel XV secolo, fu acquisito dal vescovo di Porto, che ne incamerò anche varie proprietà adiacenti.
Una torre per Gil Martins Nel territorio di Lousada si può ammirare la massiccia torre di Vilar, inserita in un’area attrezzata che ne porta il nome. Costruita tra la seconda metà del XIII e gli inizi del XIV secolo, la struttura fu il simbolo del potere signorile locale. In alcuni documenti amministrativi del 1258
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si legge che Santa Maria de Vilar era una honra (territorio) appartenente al nobile Gil Martins de Ribavizela, che visse al tempo del re Alfonso III e ne fu il ciambellano tra il 1253 e il 1264. A lui viene attribuita la costruzione della torre, che ha pianta rettangolare e raggiunge i 14 m di altezza. Si articola in cinque piani ed è stata edificata con blocchi di granito, molti dei quali conservano incise le sigle dei tagliatori di pietra. L’importante intervento di risanamento che, tra il 2005 e il 2006, ne ha recuperato le fattezze originarie, ha anche permesso di adibire il monumento a Centro informativo della Rota. Chiude questa breve carrellata il magnifico monastero del Salvatore a Paço de Sousa, una frazione di Penafiel. L’edificio sorse nel X secolo, per iniziativa della comunità di Benedettini che qui aveva scelto di insediarsi. Una delle prime menzioni
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In alto una delle teste di animale che sormontano l’ingresso della chiesa del monastero del Salvatore a Paço de Sousa. A sinistra un pannello che indica l’appartenenza della chiesa alla Rota do Românico. A destra la facciata della chiesa del Salvatore di Paço de Sousa, che, nonostante i ripetuti rimaneggiamenti, conserva elementi riconducibili alla fase romanica dell’edificio.
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A sinistra la tomba di Egas Moniz, tutore del re Alfonso I Henriques. I rilievi illustrano gli episodi salienti della vita del nobiluomo, considerato uno dei padri dell’identità nazionale portoghese. In basso Penafiel. Il memoriale di Ermida, che sarebbe stato eretto, alla metà del XIII sec., in corrispondenza di una delle tappe del corteo funebre della principessa Mafalda, figlia del re Sancho I. del complesso monastico si legge nel testamento dettato nel 994 dall’abate Randulfo, fuggito da un convento del Portogallo meridionale al tempo delle incursioni dell’omayyade Almanzor e rifugiatosi appunto a Paço de Sousa. La chiesa che oggi possiamo ammirare ha sibito vari rimaneggiamenti, ma conserva numerosi elementi riferibili all’epoca romanica. Spicca, in particolare, l’elaborato portale, incorniciato da una fuga di colonnine sormontate da capitelli istoriati e coronato da una sequenza di archetti a ogiva anch’essi riccamente scolpiti. Secondo la tradizione, il monastero sarebbe satto fondato dal nobile Egas Moniz, discendente della famiglia dei Ribadouro, originaria della Guascogna, e considerato una delle personalità di spicco nella formazione dell’identità nazionale portoghese. All’interno della chiesa, sebbene in una collocazione diversa da quella originaria, si conserva il monumento funerario di Egas, i
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cui rilievi ne raccontano le vicende biografiche piú importanti. In particolare, il nobiluomo, scelto come tutore di Alfonso I Henriques, si distinse per avere convinto Alfonso VII Raimundez, re di León, a togliere l’assedio a Guimarães (1127), la cui guarnigione stava per soccombere, assicurandogli la fedeltà del futuro sovrano.
Davanti al re con la corda al collo Un anno piú tardi, il re portoghese ignorò la promessa ed Egas Moniz, accompagnato dalla famiglia, si recò a Toledo, dal sovrano spagnolo, con una corda intorno al collo, offrendo la propria vita come risarcimento della parola mancata. Il nobile gesto gli valse il perdono reale ed è appunto fra quelli raffigurati nei rilievi della tomba. Per organizzare un viaggio alla scoperta della Rota do Românico e dei suoi monumenti, si può senz’altro partire dal sito web ufficiale del progetto
– www.rotadoromanico.com –, che mette a disposizione (in inglese, portoghese, spagnolo e francese) informazioni molto dettagliate, sia sulle caratteristiche dei 58 siti toccati dal percorso, sia sulla logistica e sulle strutture ricettive della zona. Stefano Mammini
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Lo scaffale Anna Carocci «Non si odono altri canti» Leonardo Giustinian nella Venezia del Quattrocento. Con l’edizione delle canzonette secondo il ms. Marciano It. IX 486 Viella, Roma, 276 pp.
32,00 euro ISBN 978-88-6728-321-7 www.viella.it
Umanista, esponente del patriziato veneziano alle piú alte cariche della Serenissima, uomo di commercio, nonché celebrato poeta di versi per musica, Leonardo Giustinian (1388-1446) è un’interessante quanto singolare personalità. Il suo operato è contraddistinto da una curiosa produzione letteraria dedicata in particolare alla canzonetta, all’origine di un genere che da lui prese il nome di «giustiniana»: una commistione di toni popolari e aulici, di lingua veneziana e lingua toscana, che fanno da sottofondo
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alle numerose tresche di amori irrisolti, tormentati, gioiti, ed espressione di un ricco quanto vivace cosmo popolaresco. Nel delineare il quadro biografico di questo personaggio, incarnazione perfetta degli ideali dell’oligarchia veneziana, l’autrice si sofferma in particolar modo sul suo profilo di poeta «popolare», che, attraverso le canzonette, ma anche gli strambotti e le laudi, ha saputo conquistare una fama equiparabile, se non superiore, al suo prestigio politico: i suoi poemi furono oggetto di molte trascrizioni – testimoniate dai numerosi manoscritti – e, addirittura, di 14 stampe – perlopiú incunaboli –, che danno la cifra dell’enorme successo a cui la sua produzione andò incontro anche dopo la morte, per poi eclissarsi a partire del terzo decennio del XVI secolo. Completa il volume la presentazione di uno dei testimoni principali della produzione di canzonette di Giustinian: il manoscritto Marciano It. IX 486, di cui viene proposta l’edizione moderna dei testi,
per quanto un lavoro sistematico di comparazione filologica, come nota l’autrice, sia a tutt’oggi estremamente complesso a causa della presenza di innumerevoli fonti manoscritte e a stampa, spesso molto divergenti tra loro. Franco Bruni Daniele Rapino (a cura di) Il Paradiso degli Alberti Storia e recupero del monastero della Vergine Maria e di Santa Brigida
Edizioni Polistampa, Firenze, 64 pp., ill. col.
10,00 euro ISBN 978-88-596-1378-7 www.leonardolibri.com
Il volume dà conto della felice conclusione della lunga vicenda, legata al recupero e al restauro dell’ex complesso monastico di S. Brigida, situato alle porte di Firenze. In particolare, viene descritto l’intervento compiuto sul ciclo di affreschi realizzati per volere del committente dell’edificio, Antonio di Niccolò degli Alberti, che, nel 1392, aveva ottenuto l’autorizzazione di papa Bonifacio IX alla fondazione del convento. Le pitture ornano le pareti
della cappella di Santa Maria e Zanobi a Fabroro e, alla luce degli studi piú recenti, sembrano potersi attribuire a Niccolò Gerini, aiutato nell’impresa da piú collaboratori. Tema del ciclo sono le Storie della Passione di Cristo, che, nonostante le lacune, hanno ritrovato l’originaria vivacità riappropriandosi del posto che meritano nel panorama artistico fiorentino (e italiano) definitosi tra la fine del XIV e i primi anni del XV secolo. Stefano Mammini Benedetta Gentile, Francesco Bianchini I misteri dell’Abbazia La verità sul tesoro di Montecassino Le Lettere, Firenze, 192 pp., ill. b/n
14,00 euro ISBN 978-88-6087-706-2 www.lelettere.it
Il 15 febbraio 1944 i bombardamenti delle forze alleate (erroneamente convinte che il monastero fosse stato trasformato in un caposaldo tedesco) rasero al
suolo l’abbazia di Montecassino. L’evento fu preceduto da una vicenda che, nel tempo, ha assunto contorni degni di un romanzo giallo: si tratta del salvataggio delle opere d’arte custodite nel sito e di quelle che lí erano state depositate, poiché il luogo era considerato piú sicuro delle rispettive sedi di appartenenza. Nell’autunno del 1943 questi tesori furono trasferiti dall’abbazia
e, per anni, è stata avallata la versione secondo cui a volere l’intervento fu un ufficiale austriaco della divisione Hermann Göring. Adesso, sulla base di un documento inedito scoperto all’Imperial War Museum di Londra, Gentile e Bianchini hanno ricostruito l’esatto svolgersi dei fatti. Che qui, naturalmente, non anticipiamo… S. M. marzo
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Accoppiata vincente musica • Da tempo specializzata nel recupero
dell’arte trobadorica, l’etichetta Tròba Vox presenta due nuove antologie di estremo interesse
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ue voci, quelle di Carole Matras e di Manolo González, che si accompagnano alla lira, all’arpa e all’organetto portativo, sono gli ingredienti di un viaggio straordinario, Symphonia Celestia (TRO36, 1 CD, www.art-troubadours. com). Un percorso che, dall’Alto Medioevo della monodia liturgica, arriva a toccare il XII secolo. Un itinerario a cui il Duo Seraphîm dà una connotazione particolare, con brani in cui vengono esaltati la Trinità, la Vergine, la donna amata, in un’atmosfera trasognata e di grande raffinatezza. Ma ciò che colpisce maggiormente è l’approccio moderno a questo repertorio, in cui la monodia, sia essa d’origine liturgica o profana, si arricchisce attraverso inserzioni polifoniche che le due voci adottano, con grande discrezione, a esaltare le splendide linee melodiche. A questo si aggiungono diversi stili di canto che rivelano, ancora una volta, lo straordinario bagaglio dei due musicisti: interessante, per esempio, risulta l’uso, a tratti, del vibrato, una forma di abbellimento vocale per l’epoca, che ritorna nei preziosi melismi arabeggianti dell’Alleluja mozarabico, ma che viene anche utilizzato in altri brani, come per esempio il Te Laudamus Domine di tradizione ambrosiana. L’antologia si apre con il responsorio Duo Seraphim, per poi passare in rassegna monodie come il Sic mea fata, la sequenza di Abelardo Mittit ad Virginem, l’inno Haec femina laudabilis e molte altre. Alle monodie anonime, si aggiungono un Kyrie di Ildegarda
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di Bingen (1098-1179), la grande mistica e scienziata che ha lasciato anche un’importante testimonianza musicale della sua arte. E non poteva mancare una canso di un grande rappresentante dell’arte trobadorica, Marcabruno, che in Pax in nomine Domini, si lancia in discorso propagandistico a favore della riconquista dei territori spagnoli occupati dagli infedeli. La lira e l’arpa costituiscono un sottofondo sonoro efficace nell’accompagnamento delle due voci soliste, che, a tratti, dialogano ovvero si sdoppiano in un gioco di riflessi che crea effetti d’eco o semplici bordoni a sostegno delle sinuosità della linea melodica. Un’operazione artistica riuscita, dunque, quella promossa dalla Tròba Vox, etichetta da sempre dedita alla musica trobadorica.
Nel segno delle donne Con un taglio tutto al femminile, anche la seconda proposta della Tròba Vox, Voix de femmes troubadours (TR035, 1 CD, www. art-troubadours.com) ci riconduce all’epoca che vide risplendere l’arte trobadorica (XII-XIV secolo), con inserzioni di musiche di tradizione sefardita (XIII-XV secolo) e brani di Ildegarda di Bingen. Sono dunque tutte compositrici quelle a cui il trio formato da Sandra HurtadoRòs (voce, harmonium indiano), Carole Matras (voce, arpa), Céline Mistral (voce, cetra), dà voce, con l’ausilio vocale/strumentale di André Rochard (oud, guiterne), Manolo Gonzales (organo
portativo) e Frédéric Montels (flauto, nyckelharpa). Ancora una volta, l’approccio a questo repertorio trobadorico, sefardita e devozionale si discosta da una filologia strettamente intesa, come, d’altronde, anche la vocalità si fa portavoce di esperienze musicali diverse. A essere esaltata è piuttosto la dimensione poetico-testuale, che suggerisce le scelte interpretative piú consone al contesto lirico, portando l’interprete a spingersi oltre le melodie tramandateci. Un percorso, quello di Gérard Zuchetto, direttore e ideatore dei progetti artistici della Tròba Vox, che con gli anni è maturato, ampliando il proprio modo di vedere e vivere il repertorio trobadorico e non solo, proponendolo con una sensibilità modernamente filologica. Franco Bruni marzo
MEDIOEVO
Balli e indulgenze musica • L’esperienza devozionale che fedeli e pellegrini
compivano presso la basilica aquilana di S. Maria di Collemaggio favorí l’elaborazione di un ricco repertorio musicale, rivisitato con successo dall’ensemble Micrologus
U
n gruppo di angeli musicanti sullo sfondo di un cielo stellato, particolare dell’affresco trecentesco del catino absidale di S. Silvestro a l’Aquila: non poteva esserci copertina migliore per l’antologia Devote passioni. Laude e soni nelle feste religiose aquilane (Secc. XV-XVI) (CDM 0027.14.2, 1 CD, www.micrologus. it). Una scelta significativa, sia per la contiguità geografica con il repertorio proposto, sia per la sua valenza simbolica di espressione artistica sopravvissuta al terremoto del 2009. D’altronde, non sarebbe errato parlare di espressioni musicali superstiti: tali sono, infatti, quelle proposte in questo affascinante itinerario laudistico, di forte impronta popolare, le cui modalità di trasmissione non hanno favorito la diffusione «lineare» del repertorio soprattutto a causa della sua prevalente dimensione orale. Sviluppatisi nel Medioevo grazie all’attività delle confraternite laiche, questi brani evidenziano
una interessante fusione di elementi profani che si intrecciano indissolubilmente con una devozionalità popolare dalla forte carica emozionale che neanche i dettami tridentini riuscirono a regolamentare.
Il papa della perdonanza La silloge raccoglie composizioni devozionali relative alla pratica laudistica e, in particolare, alla tradizione musicale aquilana legata all’indulgenza plenaria (la cosiddetta perdonanza) che Celestino V concesse nel 1294 ai pellegrini in visita alla basilica di S. Maria di Collemaggio (dove lo stesso pontefice fu sepolto). Una tradizione che conobbe una grande popolarità e che andò ampliandosi nel 1434 con l’istituzionalizzazione da parte del consiglio cittadino di un «ballo purificatorio» pro salute animarum nei quattro giorni che precedevano l’anniversario dell’elezione di Celestino V (29 agosto), con La facciata della basilica aquilana di S. Maria di Collemaggio, fondata nella seconda metà del XIII sec., ma oggi esito di vicende costruttive succedutesi nei secoli seguenti.
MEDIOEVO
marzo
l’ingaggio di maestri di danza per accompagnare solennemente la celebrazione della ricorrenza. Non è un caso che proprio al genere del saltarello e della ballata – in auge nel Trecento arsnovistico – ci rimandino molti degli ascolti proposti dal gruppo Micrologus, che, grazie anche alla consulenza musicologica di Francesco Zinei, si cimenta in queste musiche con una giusta dose di spirito improvvisativo, a rimarcare la dimensione orale di un repertorio che testimonia l’intensa attività anche in campo lirico-drammatico delle confraternite abruzzesi legate alla figura di papa Celestino V.
Partecipazione gioiosa Si tratta di musiche in cui la contaminazione tra sacro e profano rappresenta uno degli elementi distintivi: testi devozionali legati a ritmi di danza, ovvero brani dove il canto polifonico evidenzia un trattamento improvvisativo della seconda voce. L’ensemble Micrologus ricrea quel senso di gioiosa partecipazione popolare che dovette caratterizzare queste occasioni particolarmente sentite dal popolo aquilano. Bravissimi come sempre Patrizia Bovi, fondatrice del gruppo, Goffredo degli Esposti e Gabriele Russo, che coniugano la grande competenza a un felice approccio interpretativo, restituendo appieno la straordinaria vitalità del repertorio confraternale aquilano. F. B.
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