Medioevo n. 225, Ottobre 2015

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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LUCCA

SAPER VEDERE

SAN FRANCESCO A MONTEFALCO

18 OTTOBRE 1081

La battaglia di Durazzo

MEDIOEVO NASCOSTO Alla scoperta di Cattaro

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BATTAGLIA DI DURAZZO IL VOLTO SANTO DI LUCCA MONTEFALCO CATTARO DOSSIER PELLEGRINI A MONTEFIASCONE

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Mens. Anno 19 numero 225 Ottobre 2015 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 225 OTTOBRE 2015

EDIO VO M E



SOMMARIO

Ottobre 2015 ANTEPRIMA ALMANACCO DEL MESE

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ARCHEOLOGIA Una chiesa tutta nuova

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RESTAURI Commensali a confronto Vescovi, castellane e artisti itineranti

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ITINERARI Fra Bacco e san Giorgio

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APPUNTAMENTI Nella città di Dagoberto Il trionfo di Enrico V L’Agenda del Mese

15 16 20

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52 LUCCA Volto Santo Quel mistero venuto dal mare

STORIE

di Alessandro Bedini

GRANDI BATTAGLIE

LUOGHI

Vittoria di coppia

SAPER VEDERE

Durazzo

di Francesco Colotta

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CALEIDOSCOPIO 42

Storie di San Francesco

I dodici prodigi di Montefalco di Chiara Mercuri

52

MEDIOEVO NASCOSTO

28

Cattaro

Trifone si è fermato qui

di Gianluca Baronchelli

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ARALDICA Visconti all’ombra della torre pendente

104

LIBRI Lo scaffale

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MUSICA Satira a suon di musica

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Dossier

92 MONTEFIASCONE, NELLA TUSCIA DEI PELLEGRINI di Giancarlo Breccola e Luca Pesante

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della Tuscia. Luca Pesante è archeologo medievista. Stefania Romani è giornalista. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

MEDIOEVO Anno XIX, n. 225 - ottobre 2015 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Tel. 02 0069.6352 Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Alessia Pozzato Hanno collaborato a questo numero: Gianluca Baronchelli è fotografo e giornalista. Alessandro Bedini è giornalista e scrittore. Giancarlo Breccola è storico della provincia del Patrimonio di San Pietro in Tuscia. Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Niccolò Orsini De Marzo è araldista. Elisabetta De Minicis è professore di archeologia e topografia medievale all’Università della Tuscia. Mila Lavorini è giornalista. Chiara Mercuri è dottore di ricerca in storia medievale. Chiara Parente è giornalista. Giancarlo Pastura è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze dei Beni Culturali dell’Università

Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: p. 84; Electa/Sergio Anelli: copertina (e p. 59); Electa/Arnaldo Vescovo: p. 18; AKG Images: pp. 19, 35, 82, 88/89; Archivio Antonio Quattrone/Antonio Quattrone: p. 58; Album: p. 61 – Cortesia Università della Tuscia: pp. 6-7 – Cortesia dell’autore: pp. 8-12, 15, 104-108 – Cortesia Comune di Vernasca: pp. 13-14 – Cortesia Eastleigh Borough Council: pp. 16 (alto), 17 – Royal Shakespeare Company: p. 16 (basso) – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais (Château de Versailles)/ Gérard Blot: p. 28 – Bridgeman Images: pp. 29, 30/31, 74; Archives Charmet: pp. 36/37; Christie’s Images: p. 72 – Doc. red.: pp. 30, 32, 33, 49-51, 56, 57 (basso), 69 – Getty Images: Ullstein Bild: p. 31 – Corbis Images: Federico Scoppa/Demotix: pp. 42/43; Atlantide Phototravel: pp. 46/47 – Biblioteca Apostolica Vaticana: pp. 44-45 – Foto Scala, Firenze: pp. 46, 52/53, 60/61, 62, 65, 66; per concessione del Complesso Museale di S. Francesco a Montefalco: p. 57 (alto) – Marka: Fine Art Images: pp. 48, 63; Fotosearch RM: pp. 54/55; Marco Scataglini: pp. 82/83; Fotosearch LBRF: pp. 84/85 – DeA Picture Library: G. Dagli Orti: pp. 56/57; A. Dagli Orti: p. 64; G. Nimatallah: p. 86 – Foto © Musei Vaticani, Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, tutti i diritti riservati: p. 67 – Foto Ottica Breccola: pp. 70/71, 75, 76-81, 91 – Gianluca Baronchelli: pp. 92-103 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 33, 35, 55, 73, 74, 94. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione. Editore: MyWay Media S.r.l. Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti

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In copertina Montefalco, chiesa di S. Francesco. L’incontro tra san Francesco e san Domenico, particolare del ciclo affrescato da Benozzo Gozzoli con episodi della vita dell’Assisiate. 1450-1452.

Nel prossimo numero scoperte

saper vedere

La prima bolla giubilare

Il Palazzo Ducale di Urbino

storie

dossier

Il marchese del Monferrato

Gli Armeni


Almanacco del mese

a cura di Federico Canaccini

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1 ottobre 1061

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2 ottobre 1187

Sale al soglio pontificio Alessandro II, primo papa eletto senza intromissioni imperiali Saladino conquista Gerusalemme strappandola ai crociati, che l’avevano occupata per ben 88 anni

3 ottobre 1226

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Muore Francesco di Assisi

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4 ottobre 5 ottobre 1143

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6 ottobre 1499

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Il Trattato di Zamora sancisce l’indipendenza del regno di Portogallo Occupazione di Milano da parte di Luigi XII di Francia nel corso delle guerre d’Italia

7 ottobre 8 ottobre 451 U

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Si inaugura il Primo Concilio di Calcedonia, nel corso del quale si discute la dottrina monofisita U

9 ottobre 1238

Giacomo I d’Aragona entra trionfalmente a Valencia, dopo la capitolazione dei musulmani, il 28 settembre U

10 ottobre 732

Presso Poitiers Carlo Martello sconfigge i Mori. Per la prima volta si trova citata la parola «Europei» U

11 ottobre 1303

Muore papa Bonifacio VIII, al secolo Benedetto Caetani U

12 ottobre 1492

Il marinaio Rodrigo de Triana, dalla Pinta, avvista per la prima volta il Nuovo Mondo U

13 ottobre 1307

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14 ottobre 1066

Filippo il Bello fa arrestare tutti i Templari presenti in Francia, con l’accusa di idolatria Ad Hastings, il normanno Guglielmo, detto il Bastardo, sconfigge Aroldo II, divenendo cosí il primo re d’Inghilterra U

15 ottobre

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16 ottobre 1351

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17 ottobre 18 ottobre 1081

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19 ottobre 1469

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20 ottobre 1435

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21 ottobre U 22 ottobre 23 ottobre 1520

Nasce Gian Galeazzo Visconti, futuro primo duca di Milano U

Le truppe di Roberto il Guiscardo sconfiggono quelle dell’impero bizantino presso Durazzo Si uniscono in matrimonio Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona Nasce lo scultore e ceramista Andrea della Robbia U

Carlo V è incoronato imperatore nella Cappella Palatina di Aquisgrana U

24 ottobre 996

Muore Ugo, re di Francia, capostipite dei Capetingi, che resteranno sul trono sino alla Rivoluzione Francese, comprendendo i rami cadetti dei Valois e dei Borbone U

25 ottobre 1415

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26 ottobre 1277

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27 ottobre 1505

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28 ottobre 29 ottobre 1268

Enrico V annienta l’esercito francese ad Azincourt Mastino della Scala viene assassinato a Verona da famiglie rivali Muore a Mosca Ivan III, detto il Grande per aver unificato gran parte della Russia U

In piazza del Mercato, a Napoli, viene decapitato Corradino di Svevia U U

30 ottobre

31 ottobre 1517

Martin Lutero affigge le sue 95 tesi protestanti sul portale della chiesa di Wittemberg


ANTE PRIMA

Una chiesa tutta nuova

ARCHEOLOGIA • Nel Viterbese, un recente intervento

di scavo fa luce su un sito quasi del tutto sconosciuto, caratterizzato dalla presenza di un grande edificio di culto e di una miriade di vasche scavate nella roccia

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ul pianoro di San Valentino, nel territorio di Soriano nel Cimino (Viterbo), aperto sulla vallata che da Montefiascone arriva sino al Tevere, si apre, nascosta in una fitta vegetazione, un’area archeologica finora ignota, contraddistinta da un eccezionale impianto «industriale» di pestarole (vasche a uno o piú invasi collegati tra loro, ricavate nel tufo e nel peperino affiorante), che conduce a un edificio sacro, oggetto di un intervento di scavo che qui presentiamo in esclusiva. Proprio la fitta copertura boschiva e, forse, la vicinanza del castello di Roccaltia e altre testimonianze archeologiche, hanno tenuto a lungo nell’ombra il sito, che certo in età medievale dovette rivestire un

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ruolo significativo nella gestione di questa porzione di territorio. L’unica documentazione storica riferibile all’edificio di culto è un atto del 1468, quindi molto tardo rispetto alle strutture archeologiche riportate alla luce, con il quale Innocenzo VIII In alto San Valentino (Soriano nel Cimino, Viterbo). Alcune delle pestarole individuate nel sito: si tratta di vasche scavate nella roccia vulcanica, spesso tra loro collegate, adibite ad attività produttive che si cercherà di precisare grazie alle ricerche future. A destra una foto zenitale dell’area occupata dalla chiesa, citata per la prima volta in un atto del 1468, ma la cui fondazione è certamente piú antica, come provato dalle caratteristiche costruttive. ottobre

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assegna la chiesa di S. Valentino ai Domenicani di Viterbo. La campagna di scavo, avviata in seguito a ricognizioni e prospezioni geofisiche, dopo l’asportazione degli stati di crollo che coprivano l’intera superficie, ha delimitato una chiesa a navata unica con abside, che si sviluppa per 20 x 8 m circa. Considerata la notevole ampiezza dell’area, si è deciso di approfondire l’indagine solo su una metà di questa, scegliendo il settore verso l’abisde. È stato individuato quello che doveva essere il piano di pavimentazione, non piú conservato, utilizzato fin dalle origini come luogo di sepoltura, testimoniato da una tomba ancora in situ. Si tratta di una sepoltura «terragna» singola, priva di corredo ma certamente in giacitura primaria, attualmente in fase di studio; questa deposizione interna alla chiesa si ricollega a una necropoli assai ampia, ben visibile intorno all’edificio stesso e delimitata da un muro-recinto all’interno del quale si conservano numerosi sarcofagi monolitici.

di S. Pietro in Tuscania. Malgrado il pessimo stato di conservazione, nel nostro edificio si notano però piccole differenze, sia nella lavorazione dei conci, sia nella messa in opera di alcune porzioni – come l’abside e i muri perimetrali –, che indicano l’impiego di maestranze diverse. Ciò si evidenzia nelle riprese costruttive che si notano in alcune settori, che confermano il lungo utilizzo della chiesa, come documentato dalla fonte tardo-quattrocentesca.

Varie maestranze all’opera L’approfondimento dell’esplorazione ha inoltre permesso di far emergere una porzione dei muri perimetrali sufficiente a poterne indagare la tecnica costruttiva e l’organizzazione del cantiere. In primo luogo, l’osservazione delle murature ha ulteriormente confermato quanto già suggerito dalla planimetria della chiesa in merito alla sua datazione: l’ampiezza dell’edificio, unitamente alle caratteristiche formali delle tecniche costruttive – che rispecchiano misure ampiamente utilizzate in età romanica nel territorio viterbese – permettono di ipotizzare una prima cronologia al XII secolo. In particolare, i moduli utilizzati nel taglio delle pietre, che non superano i 27 cm di altezza, possono confrontarsi con le tecniche costruttive adottate in alcune chiese romaniche come, per esempio, quella

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La sepoltura localizzata all’interno della chiesa, in corso di scavo. La prima pulizia dell’area immediatamente vicina all’edificio ha restituito tracce di ambienti relativi a diverse fasi di vita del sito. Ne sono testimonianza le numerose pestarole: singole, con canali di scolo, collegate una all’altra, di varie forme, probabilmente in alcuni casi protette da una struttura in pali lignei infissi intorno e coperte da una tettoia; tali vasche erano destinate a un uso non ancora ben determinato, ma certamente riferibile a lavori stagionali o occasionali legati alla produzione

agricolo-contadina connessa all’uso di liquidi, probabilmente vino o acqua, e forse anche olio. Senza poi escludere altre attività, come la depurazione delle argille, la concia delle pelli, la battitura della canapa e il trattamento del lino, lo spegnimento della calce e altro ancora. I materiali ritrovati, in fase di studio, sembrano coprire l’intero arco cronologico che va dalla metà del XII secolo all’epoca moderna.

Le prospettive della ricerca Si prevede la continuazione delle indagini nella prossima primaveraestate, accompagnate da ricognizioni di superficie, che permetteranno di meglio cogliere la funzione della chiesa certamente legata alle fasi di popolamento della zona. A questo proposito sarebbe interessante approfondire il rapporto con il vicino castrum di Roccaltia e, in particolare, ottenere dati cronologici piú precisi sulle attività produttive dell’area, testimoniate dalle pestarole. Lo scavo della chiesa di S. Valentino è stato condotto, dallo scorso 13 giugno, dal dipartimento di Scienze dei Beni Culturali dell’Università della Tuscia e dal Comune di Soriano nel Cimino, con il supporto dell’Associazione Terzo Millennio, in accordo con la Soprintendenza Archeologia del Lazio e dell’Etruria Meridionale (funzionario responsabile, Laura D’Erme), sotto la direzione di Elisabetta De Minicis e con il coordinamento di Giancarlo Pastura. Elisabetta De Minicis, Giancarlo Pastura

Errata corrige nell’articolo Nelle valli dei «barba» (vedi «Medioevo» n. 223, agosto 2015), le valli Pellice, Angrogna e Chisone-Germanasca sono state «spostate» nella Provincia di Cuneo: l’area, invece, è compresa nella Provincia di Torino. Dell’errore ci scusiamo con i nostri lettori.

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ANTE PRIMA

Commensali a confronto RESTAURI • Le pitture che ornano la Sala del Cenacolo dell’abbazia di Passignano

hanno ritrovato l’originario splendore, restituendo all’antico Refettorio le atmosfere che vi si dovevano respirare quand’era occupato dai monaci vallombrosani

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n bosco di abeti, pini e castagni circonda l’abbazia di S. Michele Arcangelo, situata a 1000 m di altitudine, in località Passignano, distante una cinquantina di chilometri da Firenze, città natale di quel Giovanni Gualberto a cui si deve la nascita dell’insediamento monastico. Proprio il nobile fiorentino, infatti, fondò nel 1030 l’ordine dei Vallombrosani, cambiando radicalmente il suo stile di vita, dopo il miracolo del Crocifisso – ora conservato nella chiesa di S. Miniato –, che si inchinò di fronte a lui, in segno di approvazione per aver perdonato l’assassino di suo fratello. La comunità di Passignano fu tra le prime ad accogliere la riforma monastica attuata dall’aristocratico che qui morí nel 1073, divenendo cosí una delle sedi piú attive della lotta contro la simonia.

Da convento a castello Piú volte distrutto e ricostruito, il complesso si presenta racchiuso all’interno della cinta muraria quattrocentesca a pianta quadrata con torri angolari, seppur con

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evidenti integrazioni neogotiche risalenti alla fine del XIX secolo, quando l’edificio venne acquistato dai conti Dzieduszycki, che lo trasformarono in castello.

In alto Passignano (Firenze), abbazia di S. Michele Arcangelo. La Sala del Cenacolo. In basso una veduta del complesso conventuale, trasformato in castello sul finire del XIX sec.

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La lunetta dipinta da Bernardo di Stefano Rosselli raffigurante La Cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre: a restauro ultimato (in alto) e prima dell’intervento. L’area conventuale artisticamente piú rimarchevole è la Sala del Cenacolo, che viene adesso riaperta al pubblico, a conclusione di un lungo ciclo di lavori. Realizzato fra il 1440 e il 1485, nel periodo di massimo splendore del monastero, sotto la direzione degli abati Francesco Altoviti e Isidoro del Sera, il Refettorio venne impreziosito dalla mano di Domenico del Ghirlandaio, il quale, a partire dal 1476, vi dipinse l’Ultima Cena. La composizione occupò l’area sottostante due lunette con episodi raffiguranti La cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre e Caino che uccide Abele di Bernardo di Stefano Rosselli (1450-1526).

Artista raffinato e veloce Domenico Bigordi, detto il Ghirlandaio (1449-1494), fu tra gli esponenti piú illustri del Rinascimento, divenendo il ritrattista ufficiale dell’alta società fiorentina, grazie al suo stile preciso, piacevole e veloce. Capo di una nutrita ed efficiente bottega, in cui mosse i primi passi anche l’adolescente Michelangelo, il pittore

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fiorentino progetta, per la badia di S. Michele, una grande scena, ispirata all’omonimo soggetto dipinto poco tempo prima da Andrea del Castagno nel refettorio di S. Apollonia a Firenze. Similitudini si riscontrano nel taglio prospettico, nonostante la diversa soluzione spaziale dovuta alla mancanza di una parete libera e nella disposizione lungo il tavolo dei commensali, che appaiono calmi e pensosi, invece che concitati, circondati da dettagliati brani di natura morta, come raffinata espressione dell’arte fiamminga, ben nota all’artista toscano. Al centro si trovano due protagonisti del dramma: Cristo, con aria solenne, guarda il tavolo e alza la mano destra per benedire, mentre Giovanni si

appoggia al suo petto; di fronte c’è Giuda, che, con lo sguardo rivolto verso il basso e i capelli disordinati, pare esprimere una mesta solitudine. D’altro canto, negli altri apostoli si evidenzia una gestualità forzata, anche se tesa a evidenziare le loro caratteristiche individuali. Ognuno di loro è ancora isolato e allineato in maniera paratattica con scarsa interazione tra l’uno e l’altro, come nei cenacoli trecenteschi, in uno schema geometrico che quasi irrigidisce la rappresentazione. L’atmosfera è, però, piú intima e dolce, grazie ai colori dalle tonalità calde e ai riflessi che la luce crea sulle varie superfici, frutto della fluida ed elegante pennellata del Ghirlandaio. Mila Lavorini

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ANTE PRIMA

Vescovi, castellane e artisti itineranti

RESTAURI • La valorizzazione del patrimonio architettonico e artistico del Trentino

fa registrare nuovi e importanti interventi, che coinvolgono, fra gli altri, alcuni tra i piú suggestivi castelli medievali della Val di Sole e della Val di Non

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l Trentino vanta un patrimonio straordinario, fatto di oltre 200 castelli, che la Provincia Autonoma di Trento sta valorizzando, attraverso una rete pensata per far conoscere gli angoli meno noti dell’area montana, aumentandone l’attrattività. Oltre alle fortezze altomedievali, nate come arroccamenti difensivi, punteggiano l’intera zona anche le architetture successive, legate all’incastellamento e costruite non solo secondo un criterio di difesa, ma come segno di prestigio sul territorio.

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A destra Ossana. Il castello di San Michele. In basso un particolare del presepio allestito nel castello, nel quale figurano soldati italiani e austriaci della prima guerra mondiale che si aiutano nella notte della Vigilia.

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in cui i soldati degli schieramenti opposti nella prima guerra mondiale si aiutano a vicenda nella notte della Vigilia (info: www.valdisole.net).

Un amore contrastato Nella stessa valle domina anche il maniero di Caldes, fondato nel 1230, come testimonia un documento in cui viene accordato il permesso per la costruzione di una «casa murata». Rientrata nel 2014 nella sfera di tutela del Castello del Buonconsiglio, la struttura è visitabile, nonostante il cantiere di restauro sia ancora in funzione. Dominato dalla torre a cinque piani, il forte è posto su un’altura, secondo una prassi consolidata in tutta la vallata. Nel 1464 passa ai Thun e viene ampliato, secondo i nuovi criteri residenziali, che vogliono gli ambienti piú comodi e arricchiti da decorazioni. Il complesso acquisisce cosí un’impronta tardo-gotica, con soffitti voltati, affreschi e rivestimenti lignei. Un gioiello è la Stanza di Olinda, completamente affrescata, nella quale la castellana Fra i complessi medievali freschi di restauro o riapertura, ne figurano tre, con caratteristiche diverse fra loro, ma ugualmente affascinanti.

Il presepio dei soldati In Val di Sole, vicino a Malè, svetta il castello di San Michele a Ossana, una roccaforte chiusa fino all’anno scorso, di cui si ha la prima notizia certa nel 1191. Il mastio, alto 25 m, è diviso in due parti: la prima stanza, con copertura a volta, ha un camino che serviva per riscaldare le guardie fino alla Grande Guerra. Per un certo periodo il vescovo di Trento ha fissato la sua residenza proprio a Ossana, in un punto strategico fra il Trentino e l’Alto Bresciano. Dal dosso su cui sorge questo rudere maestoso si gode di una vista da cartolina su tutta la vallata. E da non perdere è il presepio, allestito per tutto l’anno, con la rappresentazione di scene

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In alto il castello di Caldes, che deve il suo aspetto attuale agli interventi promossi dalla famiglia Thun, entratane in possesso alla metà del XV sec. A sinistra l’interno della chiesetta della Beata Vergine Maria, che affianca il castello di Caldes.

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ANTE PRIMA In questa pagina due scorci della corte di Castel Valer, in Val di Non.

sarebbe stata segregata dal padre, morendo d’amore per il suo menestrello, che la famiglia le impediva di frequentare. La vicenda, in realtà, alluderebbe a quanto vissuto da Marianna Thun, fuggita con un amante non all’altezza della sua estrazione, quindi catturata dai fratelli e imprigionata (info: www.valdisole.net).

Nel nome di san Valerio Infine, in Val di Non, vicino a Tassullo, apre qualche volta per le visite Castel Valer, residenza privata, che forse deve il nome alla cappella intitolata a san Valerio Saragozza, un luogo di culto precedente il maniero. Il primo documento legato alla dimora risale al 1297, ma l’analisi dendrocronologica di alcuni elementi lignei rimonta intorno al 1180, cosí come gli elementi lapidei, con spigoli bugnati in granito tipici del tardo XII secolo. L’architettura si snoda intorno alla torre a pianta ottagonale, alta 40 m, preceduta da un ponticello e circondata da una doppia cerchia di edifici a cui si aggiunge un’ulteriore muratura esterna. Al «castello di sotto», il piú antico, si sovrappone quello «di sopra» del Seicento, oggi abitato dal conte Ulrico Spaur. Da vedere, la cappella privata affrescata da Giovanni e Battista Baschenis, artisti itineranti che provenivano dall’area bergamasca, che qui non si sono firmati. La rappresentazione di questa Biblia pauperum, con san Valerio in trono affiancato dai santi Fabiano e Sebastiano, riconduce tuttavia ai due pittori, sia per il parallelo con i dipinti murali di Rumo, realizzati dai due nella stessa valle, sia per alcuni tratti che fanno pensare a una sorta di marchio di fabbrica, come la cromia vivace, l’adesione a un gusto tardo-gotico, e l’uso di stampini nella decorazione degli alberi, nella stesura dei fiori e delle vesti piú ricche (info: www.visitvaldinon.it) Stefania Romani

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ITINERARI • L’età di Mezzo ha

dotato Vigoleno di architetture civili e religiose fra le piú insigni dell’Emilia-Romagna. Tra queste, spicca il poderoso castello

Fra Bacco e san Giorgio N

el cuore dell’Appennino emiliano, al confine tra le province di Parma e Piacenza, Vigoleno (frazione del Comune di Vernasca) è forse meno famosa di altre località del Piacentino, ma vale la visita. A pochi chilometri da Salsomaggiore Terme e da Castell’Arquato quest’incantevole paesino medievale, adagiato tra i verdi colli che separano le valli dei torrenti Ongina e Stirone, è infatti uno dei borghi piú belli d’Italia, insignito della «Bandiera Arancione» del Touring Club Italiano.

Un passito per intenditori Conosciuto da enologi e appassionati per la limitata produzione del Vin Santo di Vigoleno D.O.C. – un raro e delicato passito, ottenuto dalla spremitura di uve bianche Santa Maria e Melara –, Vigoleno (dalla forma latina Vicus Lyaeo, cioè luogo consacrato a Bacco per l’eccellenza dei vini), è cinto da mura possenti,

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percorse da un camminamento di ronda con merlatura ghibellina. Attestato nei documenti a partire dal 1132, il primitivo nucleo abitato ha molto probabilmente un’origine piú antica. Infatti, la dedica della pieve a san Giorgio, santo cavaliere venerato dai Longobardi, suggerisce

Qui sopra il castello di Vigoleno, la cui esistenza è attestata almeno a partire dal XII sec. L’aspetto attuale, invece, è l’esito dei numerosi rimaneggiamenti succedutisi nel tempo e, in particolare, di quelli promossi fra XIV e XV sec. In alto un tratto del camminamento di ronda lungo le mura del castello.

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ANTE PRIMA Quando gli orsi davano spettacolo A Vigoleno, nell’antica casa Tanzi, è possibile visitare il Museo degli Orsanti. L’esposizione, ideata dalla pittrice-burattinaia Maria Teresa Alpi, raccoglie testimonianze sulla vita degli Orsanti (= da orso), artisti musicanti e ammaestratori, che tra il Settecento e l’Ottocento si sono esibiti con i loro animali, soprattutto orsi, nelle vie e nelle piazze di Parigi, Londra e Praga. Non è un’invenzione narrativa: gli Orsanti sono realmente esistiti. Erano perlopiú montanari, che provenienti dalle valli appenniniche incassate tra l’Emilia-Romagna, la Liguria e la Toscana, hanno imparato ad addestrare i plantigradi, per farli ballare nei loro spettacoli. A raccontare la migrazione girovaga di questi uomini coraggiosi e intraprendenti, sono oggi grandi orsi di cartapesta, strumenti musicali, costumi di scena, stampe, dipinti, documenti e oggetti legati alla vita quotidiana d’un tempo. la presenza di un piccolo presidio di soldati sin dall’VIII-IX secolo. Anche del castello, citato per la prima volta nel XII secolo, quando la popolazione chiese protezione al Comune di Piacenza, non si conosce l’esatta data di fondazione. È comunque possibile che un avamposto fortificato, con funzione difensiva, sia del territorio orientale piacentino confinante con il Parmense, che delle strade appenniniche dirette a Bardi e a Borgotaro, fosse stato edificato già nel X secolo. Adesso come un tempo al borgo murato, fatto di case in pietra e ripide stradine lastricate, si accede solo dal lato ovest, in corrispondenza del poderoso mastio quadrangolare, varcando l’ingresso del rivellino, in passato munito di ponte levatoio. Superato il portone d’accesso, si entra in piazza della Fontana; In alto la pieve di S. Giorgio. XII sec. Qui sotto ancora una veduta del castello.

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di fronte, cattura l’attenzione il seicentesco oratorio della Madonna delle Grazie, che, commissionato dai nobili Scotti, è stato costruito sui resti di un ospedale per i fedeli in viaggio lungo la strada romea.

Nel nome del santo cavaliere Passeggiare per le silenziose viuzze dell’abitato, godendo passo a passo di improvvisi e bellissimi scorci panoramici sulla Val Stirone, sulla Pianura Padana e sui contrafforti appenninici, può rivelarsi una gradevole sorpresa. Da piazza della Fontana, andando verso est, si può raggiungere la pieve di S. Giorgio. Questa chiesetta risale al XII secolo e rappresenta una delle

piú significative testimonianze dell’architettura romanica nel Piacentino. La facciata, massiccia e austera, è impreziosita da una pregevole lunetta, su cui è scolpita l’immagine di san Giorgio. L’interno è scandito in tre navate da colonne con capitelli ornati da immagini vegetali e figure zoomorfe. L’abside conserva un affresco quattrocentesco, che ritrae san Giorgio nell’atto di uccidere il drago. Il santo è vestito da crociato e rappresenta l’uomo di fede contrapposto al demonio. Non distante dalla pieve si trova il castello, che, tra il Duecento e il Trecento, entrò in possesso degli Scotti. La potente famiglia guelfa piacentina, che aveva costruito la sua fortuna economica con attività mercantili e bancarie, fece del maniero il centro nevralgico del proprio potere politico. In particolare, Alberto Scoto, uno dei maggiori esponenti della parte guelfa, fortificò il castello

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nel 1306, dopo che il genero, Pietro Mancassola, riuscí a sottrarlo alla consorteria nemica. In quegli anni al governo del Comune di Piacenza c’erano i ghibellini, i quali, per riavere Vigoleno ricorsero all’aiuto di milizie parmigiane. Impadronitisi della rocca, i ghibellini la distrussero nuovamente. Fu lo stesso Comune di Piacenza a ricostruirla e a mantenerne il controllo fino al 1370 circa. Distrutta per la seconda volta, l’architettura difensiva fu ricostruita tra la fine del Trecento e il Quattrocento. L’aspetto attuale è in massima parte dovuto al rifacimento tre-quattrocentesco, finanziato dal feudatario Francesco Scotti. Impostata su pianta irregolare, la rocca è composta da diversi corpi di fabbrica e dispone di due torri rotonde rivolte a meridione, poste all’altezza di un ampio cortile, con un porticato che corre sui quattro lati. Un panoramico cammino di ronda, interrotto da una torre a sopralzo chiamata «guaita de sopra», la unisce al mastio d’ingresso. Sia le mura che le torri hanno strutture integralmente in sasso e sono coronate da beccatelli in pietra sovrapposti a sbalzo. Gli stessi beccatelli risultano uniti nella parte superiore da archetti in laterizio, su cui è impostata la linea di merli a coda di rondine.

Influssi toscani

gentilizi e mobili pregiati. Conquistato dai Pallavicino, dai Visconti e dai Farnese, il maniero appartenne alla famiglia Scotti quasi ininterrottamente dalla fine del Trecento agli inizi del Novecento. Negli anni Venti e Trenta del XX secolo fu proprietà della principessa Maria Ruspoli-Gramont, che

vi ospitò, tra gli altri, Gabriele D’Annunzio, Riccardo Bacchelli, il pianista Arthur Rubinstein e i pittori Max Ernst e Alexandre Jacovleff. A quest’ultimo si deve la decorazione del suggestivo teatrino: ha soltanto 12 posti a sedere ed è ritenuto uno dei piú piccoli teatri privati d’Europa. Chiara Parente

Nella città di Dagoberto S

ituata nel land tedesco del Baden-Württemberg, sulle sponde del lago di Costanza, Meersburg vanta origini medievali. Sorta nel VII secolo, oggi è divisa in «città bassa» e «città alta», Unterstadt e Oberstadt. Secondo un diploma risalente al 988, il castello che sovrasta il paese venne costruito intorno al 630 dal re merovingio Dagoberto I. La struttura medievale è ancora oggi il simbolo di questo centro, compreso nella rotta turistica della «via dei Fachwerk», caratterizzata da edifici in legno a vista. Meersburg è nota anche per il Castello Nuovo, Neues Schloss, edificato nel XVIII secolo come dimora del vescovo di Costanza. Attorno a questi edifici, fra viottoli, piazzette e terrazze che regalano suggestive vedute panoramiche sul lago di Costanza, si svolge, in autunno, il Mercato Medievale (quest’anno in programma da venerdí 9 a domenica 11 ottobre). Fra artisti, musicisti, danzatori, giullari e mangiafuoco, numerosi artigiani e commercianti danno vita a una fiera di antiche arti e mestieri. Varie sono le attività praticate al suo interno: banchi di tessuti, filati e lane, lavorazione del cuoio e delle pelli, botteghe del calzolaio, banchi dell’usbergario con cotte di maglia, botteghe dell’armaiolo. Non mancano rievocazioni della vita quotidiana e le taverne che propongono specialità gastronomiche tipiche dell’epoca. T. Z.

Alcune particolarità costruttive del fortilizio si allontanano dalla tradizionale architettura militare lombarda coeva, allora diffusa in quest’area, e risentono invece di influssi toscani, forse importati da maestranze specializzate provenienti dalla Lunigiana. Se all’esterno il castello ha mantenuto l’immagine quattrocentesca, all’interno, nel corso dei secoli, gli ambienti sono stati restaurati e riadattati alle esigenze di comoda residenza signorile, con vasti saloni dai soffitti in legno adorni di camini, stemmi

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ANTE PRIMA APPUNTAMENTI • Gli Inglesi

colsero ad Azincourt una vittoria decisiva. E ne celebrano degnamente il 600° anniversario

Il trionfo di Enrico V N

ell’ambito della guerra dei Cent’anni, il 25 ottobre 1415, l’esercito del regno di Francia si scontrò con le forze del Regno d’Inghilterra presso Azincourt, località francese nella regione del Nord-Passo di Calais. Per i Francesi, nettamente superiori nel numero di militari in campo, la battaglia si trasformò in una clamorosa ecatombe, tanto che, ancora oggi, viene considerata una delle pagine piú nere della loro storia. L’Inghilterra, invece, celebre il 600° anniversario della vittoria con un ricco cartellone di eventi. Vale la pena di ricordare brevemente come si svolsero i fatti. L’esercito di Enrico V, dopo aver invaso la Piccardia e aver iniziato la propria marcia verso Calais, si trovò di fronte l’armata francese di Carlo VI, nella pianura tra Azincourt e Tramecourt. All’alba del 25 ottobre 1415, le truppe si schierarono. I Francesi si disposero su tre file, con la fanteria al centro, sostenuta da arcieri e

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balestrieri, e ai lati formazioni di cavalleria pesante. Dal canto suo, Enrico V capitanò in prima persona tre formazioni di armigeri inglesi rafforzati da arcieri, componendo una linea d’attacco leggermente concava. Alle undici del mattino l’esercito inglese iniziò la propria marcia verso i Francesi e, giunto a 200 m dalle forze nemiche, piantò lunghi pali di legno nel terreno fangoso, un’idea ingegnosa che risultò una strategia decisiva.

Una poco onorevole defezione La cavalleria francese provò a controbattere, ma venne fermata dalle condizioni del terreno, da una pioggia di frecce e, giunta all’improvvisata palizzata, fu facile vittima degli Inglesi. Sulla spinta di questo primo successo, Enrico V ordinò ai suoi una carica, prendendo in breve tempo il sopravvento. A completare l’opera fu l’ingloriosa diserzione di massa della terza linea

Qui sopra Alex Hassell, protagonista dell’allestimento del dramma Enrico V curato da Gregory Doran per la Royal Shakespeare Company. In alto i resti del Porchester Castle. ottobre

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A sinistra Sothampton. Una casa di epoca medievale compresa nel tour organizzato nella città per ricordare i luoghi legati alla battaglia di Azincourt. In basso la ricostruzione di un campo militare presso il Porchester Castle.

francese, che dopo aver assistito alla tragica fine delle prime due linee, si disperse nella boscaglia. Alle quattro del pomeriggio lo scontro era già finito, con la disfatta dei Francesi, che persero circa 15 000 uomini, compreso il comandante Charles D’Albret. Dopo questo trionfo militare, Enrico V fu riconosciuto quale erede al trono di Francia.

Nel segno di Shakespeare Quest’anno, dunque, in Inghilterra si susseguono vari appuntamenti rievocativi, a partire dalla mostra «Il nerbo della guerra: armi e armature dell’Età di Azincourt», proposta dalla Wallace Collection di Londra fino al prossimo 1° dicembre. Fino al 30 dicembre, a Stratfordupon-Avon e Londra, la Royal Shakespeare Company porta in scena l’Enrico V. Dal 21 al 31 ottobre il dramma shakespeariano verrà proposto anche al Teatro Upstage di York, dallo York Shakespeare Project, in una produzione tutta al femminile. Il 19 ottobre, a Southampton, è in programma un tour a Portchester Castle, dove Enrico V preparò la sua campagna militare contro i Francesi e da dove salpò nel 1415. Il 20 ottobre nella Cattedrale di Canterbury, nei pressi di Londra, si svolgerà una relazione dello storico Richard Baker su Azincourt. Dal 23 ottobre al 31 gennaio 2016, alla Torre di Londra una mostra racconterà la preparazione alla battaglia con armi e armature, arte e manoscritti. Fra gli oggetti iconici in esposizione, ci saranno un ritratto di Enrico V dalla National Gallery di Londra e

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un manoscritto proveniente da Azincourt di proprietà della Bodleian Library. Non mancheranno le rievocazioni. Al Castello di Caldicot, il 24 ottobre, è in programma un torneo medievale con cavalieri, gare di tiro con l’arco, danze e musiche. A Titchfield, il 25 ottobre, verranno inaugurati due giardini alle due estremità del Great Barn, dedicati ai soldati inglesi e francesi che presero parte alla battaglia. I giardini saranno piantati con fiori tradizionali racchiusi tra siepi di bosso, rendendo un doveroso e duraturo omaggio ai caduti nello scontro del 1415. Il 25 ottobre, nella chiesa di S. Pietro a Wapley, vicino Yate, si svolgerà una rievocazione con cavalieri, arcieri, musica e spettacoli; la chiesa ospita

la tomba di Sir John Codrington, portabandiera di Enrico V ad Azincourt.

Analisi di un funerale L’Abbazia di Westminster, a Londra, il 28 ottobre ospiterà un convegno sui funerali di Enrico V, con l’obiettivo di svelare il significato di alcuni elementi (uno scudo, una sella, una spada e un timone) presenti alle esequie del re, celebrate presso la stessa Abbazia il 7 novembre 1422. Commovente, infine, l’appuntamento Road to Glory, previsto il 30 e 31 ottobre a Hedge End. Nel 1415, un gruppo di giovani abitanti di questo villaggio, alcuni poco piú che adolescenti, si arruolò e salpò verso la Francia. Ognuno di loro andava in guerra per un motivo diverso, ma nessuno aveva alcuna esperienza di combattimento. L’avevano preso come poco piú di un gioco, fino a quando si ritrovarono faccia a faccia, in mezzo al fango, con l’esercito piú potente d’Europa... L’elenco delle iniziative è disponibile sul sito www.agincourt600.com Tiziano Zaccaria

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ANTE PRIMA

L’ITALIA DEI «SACRI RESTI» Viaggio alla scoperta delle reliquie

Roma, basilica di Santa Croce in Gerusalemme. Teca con reliquiari ottocenteschi in oro, argento e pietre preziose fra cui un reliquiario con frammenti della Vera Croce realizzato su disegno di Giuseppe, Valadier nel 1803. Nella pagina accanto capolettera miniato nel quale è raffigurata Elena, madre di Costantino, da un breviario dell’abbazia di Chertsey (Surrey, Inghilterra). Primo quarto del XIV sec. Oxford, Bodleian Library.

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IL NUOVO DOSSIER DI MEDIOEVO A Roma, ma non solo, fin dai primi secoli del Medioevo affluí una quantità impressionante di reliquie, alimentando una devozione che, da allora, non si è mai affievolita. Ma quali storie si celano dietro il recupero e la traslazione di tanti frammenti «miracolosi»?

L’

Italia è un Paese di devozioni, ma soprattutto di reliquie. Nel suo territorio si snodano antichi itinerari della fede, le cui tappe sono segnate da corpi di santi, da immagini miracolose, indumenti, frammenti della Croce, chiodi e pietre, spesso custoditi in luoghi nascosti all’interno delle chiese. Questa «rete segreta» della venerazione percorre l’intera Penisola, dalle Alpi alla Sicilia, ed evoca il sentimento piú profondo che animava tanti cristiani nell’età di Mezzo, disposti ad affrontare viaggi interminabili pur di avere un contatto ravvicinato con le spoglie dei grandi martiri, confidando nella loro intercessione. Il nuovo Dossier di «Medioevo» compie un viaggio attraverso i luoghi delle reliquie in Italia, dalle

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piú celebri a quelle sconosciute, rappresentando un’opera unica: dal Sacro Morso alla Madonna di San Luca, dal Santo Chiodo alla Corona Ferrea, dalla Sindone ai resti dei Magi, dalla lingua di Antonio da Padova alla Sacra Cintola di Maria, dal Santo Volto al Corporale di Bolsena, dal sangue di San Gennaro all’impronta di Michele Arcangelo, dai resti di San Nicola alle reliquie che affollano le chiese giubilari romane e tante altre ancora. Sono culti che convivono, talvolta, con forme di superstizione, ma che hanno profondamente inciso nella storia del nostro Paese. Del resto, spogliato delle sue tantissime reliquie, il Medioevo italiano sarebbe non solo poco autentico ma anche meno comprensibile…

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AGENDA DEL MESE

Mostre FIRENZE L’ARTE DI FRANCESCO. CAPOLAVORI D’ARTE E TERRE D’ASIA DAL XIII AL XV SECOLO U Galleria dell’Accademia fino all’11 ottobre

Qual era l’idea del mondo di san Francesco? A quali spazi guardavano i suoi primi seguaci? In quali direzioni si sono sviluppate le loro azioni di evangelizzazione? Da questi interrogativi nasce la mostra alla Galleria dell’Accademia. Da una parte, si susseguono mappe, codici che riportano relazioni di viaggio, attestazioni dei contatti dei latini con i Mongoli mantenuti in chiave antislamica (nel 1246 Khan Güyük scrisse a papa Innocenzo IV una lettera conservata nell’Archivio Segreto Vaticano). Dall’altra, un gruppo straordinario di reperti fa intuire la rete delle presenze cristiane che i Francescani incontrarono al loro arrivo all’interno del continente. info tel. 055 294883; e-mail: firenzemusei@ operalaboratori.com; www.unannoadarte.it TORINO TIME TABLE. A TAVOLA NEI SECOLI U Palazzo Madama fino al 18 ottobre

Il tema dell’EXPO 2015,

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a cura di Stefano Mammini

«Nutrire il pianeta», offre lo spunto per una mostra che parte dal tema della tavola imbandita per evocare spaccati di vita quotidiana nel corso dei secoli. Fulcro del percorso espositivo sono dunque sei grandi tavole allestite con suppellettili in ceramica, vetro e metallo delle varie epoche (Basso Medioevo, Rinascimento, Seicento, Settecento, Ottocento e Novecento). In particolare, sulla tavola signorile del tardo

Medioevo si mescolano manufatti di varia provenienza che testimoniano un’ampia circolazione di oggetti e tendenze di gusto. Il vasellame in ceramica invetriata, decorata con motivi graffiti e dipinti di verde e giallo, accomuna senza distinzione geografica la mensa ordinaria di tutti i Paesi. Sul tavolino di servizio sono invece esposti oggetti che evocano la quotidianità della vita cortese internazionale – pettini d’avorio per la

toletta, cofanetti eburnei e di cuoio – scandita nello scorrere dei giorni da un raro calendario perpetuo, miniato su pergamena e custodito in un astuccio di cuoio. info tel. 011 4433501; www.palazzomadama torino.it

ultimi decenni del Duecento. info www.albrechtsburgmeissen.de SAN GIMIGNANO FILIPPINO LIPPI L’ANNUNCIAZIONE DI SAN GIMIGNANO U Pinacoteca fino al 2 novembre

MEISSEN PROST! 1000 ANNI DI BIRRA IN SASSONIA U Albrechtsburg fino al 1° novembre

Nel 1015, Meissen, assediata dalle truppe polacche, sfuggí alla devastazione perché le donne, in mancanza di acqua, soffocarono le fiamme con la birra. L’episodio è considerato il riferimento cronologico al quale far risalire una tradizione particolarmente radicata in Sassonia, alla quale si è voluto rendere omaggio con la mostra allestita nelle sale dell’Albrechtsburg, il piú antico castello tedesco. L’esposizione affianca esperienze sensoriali, apparati multimediali, degustazioni e assaggi a una ricca selezione di materiali e documenti. Né mancano gli approfondimenti sulla produzione, sui segreti legati alle varianti della ricetta originale, sugli strumenti impiegati e ai prodotti usati, come l’orzo e il luppolo, introdotto proprio nel Medioevo, forse negli

La Pinacoteca di San Gimignano rende omaggio al pittore fiorentino Filippino Lippi (1457circa1504) con una mostra ispirata dall’Annunciazione, opera realizzata dall’artista in due tondi distinti, raffiguranti l’Angelo Annunziante e l’Annunziata, cosí come gli era stato richiesto dai Priori e Capitani di Parte Guelfa, che gliela commissionarono nel 1482 per il Palazzo Comunale della città «delle torri». Assieme ai due tondi di Filippino, ripresentati vicini come dovevano essere originariamente al loro ingresso nella collezione della Pinacoteca, sono esposti anche disegni di mano del pittore,

nonché i documenti relativi alla commissione dell’Annunciazione, un materiale storico custodito da oltre cinque secoli nell’archivio Storico Comunale di San Gimignano che ci fa capire lo spirito civico e la volontà che animava i Priori e i Capitani di Parte Guelfa – appartenenti a importanti famiglie di sangimignanesi – di abbellire la sede del governo cittadino, in modo analogo a quanto le medesime istituzioni fiorentine stavano facendo per Palazzo Vecchio. info e prenotazioni tel. 0577 286300; www.sangimignanomusei.it; e-mail: prenotazioni@ sangimignanomusei.it

FIRENZE LA FORZA DEL MITO. I PROGETTI PER LA FACCIATA DELLA BASILICA DI SAN LORENZO A FIRENZE, DA MICHELANGELO AL CONCORSO DEL 1900 U Casa Buonarroti

La basilica fiorentina di S. Lorenzo è tra le chiese simbolo della città, non solo perché per trecento anni ha avuto il ruolo di cattedrale, prima di cederlo a S. Reparata, ma anche perché è stato il luogo di sepoltura dei Medici. Una tradizione proseguita, salvo alcune eccezioni, fino ai granduchi e all’estinzione della casata. Nel dicembre ottobre

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del 1515, a quasi un quarto di secolo dalla fine della sua costruzione, papa Leone X de’ Medici bandí un concorso per realizzare la facciata mancante: stando al racconto di Giorgio Vasari, vi parteciparono i piú eminenti artisti del

tempo, compresi Raffaello e Michelangelo (che poi ottenne l’incarico). Da quella gara è nata la mostra in Casa Buonarroti. info tel. 055 241752; e-mail: fond@ casabuonarroti.it; www.casabuonarroti.it

PAVIA 1525-2015. PAVIA, LA BATTAGLIA, IL FUTURO. NIENTE FU COME PRIMA U Castello Visconteo fino al 15 novembre

A 490 anni dalla battaglia di Pavia, la città ricorda il cruciale scontro tra le armate francesi e quelle

spagnole con una mostra allestita al Castello Visconteo, in un’ala appena restaurata e per la prima volta aperta al pubblico. L’esposizione presenta uno dei celebri arazzi fiamminghi dedicati alla battaglia proveniente dal Museo di Capodimonte, e ripropone virtualmente gli altri sei pezzi della serie, consentendo al visitatore – grazie a installazioni multimediali e tecnologie innovative – di osservare e indagare ogni singola scena, scoprire i protagonisti e

le loro storie, rivivere l’atmosfera del combattimento. info tel. 0382 399770; www.labattagliadipavia.it TORINO LINO, LANA, SETA, ORO. OTTO SECOLI DI RICAMI U Palazzo Madama-Museo Civico d’Arte Antica, Sala atelier fino al 16 novembre

Il termine «ricamo» deriva dall’arabo raqm: «segno», e «disegnare ad ago» è una pratica antichissima nel bacino del Mediterraneo e in Oriente e, dal Medioevo, diffusa in tutta Europa. Si usano tutti i filati di origine vegetale o

MOSTRE • Luca di Paolo e il Rinascimento nelle Marche U Matelica – Museo Piersanti

fino al 1° novembre info tel. 0737 84445; https://www.facebook.com/Museopiersanti

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er la prima volta a Matelica un’esposizione dedicata a Luca di Paolo, uno dei massimi protagonisti del Rinascimento dell’Appennino, tra Umbria e Marche, riscoperto di recente: nel dicembre del 2001 Alberto Bufali trovò gli atti di commissione e poi di pagamento per una pala d’altare con la Crocifissione destinata alla chiesa della Confraternita della Santa Croce a Matelica. Oggi conservato al Museo Piersanti, quel dipinto veniva considerato opera tipica e fondamentale di Francesco di Gentile da Fabriano, un altro pittore a cui la critica aveva affidato l’intero catalogo di Luca. La scoperta diede finalmente un volto artistico a un personaggio noto solo per via documentaria ma di cui non si conosceva alcuna opera certa. Luca di Paolo non era solo un pittore, ma un vero e proprio legato della Signoria di Matelica, gli Ottoni, il cui palazzo quattrocentesco domina tuttora la piazza principale della città. A questa sua attività diplomatica affiancava anche quella di pittore. Dall’inizio degli anni Sessanta del Quattrocento, fino alla morte, avvenuta entro i primi giorni del 1491, Luca svolge un percorso

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stilistico personale e quasi isolato nel panorama della regione, ma senz’altro di qualità. Le sue prime opere sono incentrate ancora sul ricordo della ricchezza e della eleganza di Gentile da Fabriano, mediate forse attraverso l’insegnamento di un altro pittore locale, il Maestro di Staffolo, che potrebbe essere stato il maestro di Luca. Quel mondo è però sempre sostenuto da un’espressività graffiante, quasi grottesca e da un utilizzo dei materiali preziosi davvero straordinario. L’oro e l’argento sono usati a profusione nelle sue opere per la creazione di opere dall’impatto davvero sorprendente. L’incontro con Niccolò di Liberatore, presente a San Severino Marche nel 1468 e il lungo rapporto documentato con Lorenzo d’Alessandro permettono a Luca di dialogare con i maggiori artisti marchigiani del suo tempo e di far evolvere il suo linguaggio verso una maggiore adesione a uno stile prospettico e maturo. L’arrivo di Crivelli in zona, attivo a lungo per Camerino, coinvolge anche Luca di Paolo, il quale, nelle opere piú tarde, si concentra sulla polimatericità delle superfici, ricche di incisioni sui metalli e pastiglie a rilievo.

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AGENDA DEL MESE animale naturali o tinti, arricchiti da materiali preziosi, quali oro, argento, perle, coralli, o conterie in vetro, paillettes metalliche, in plastica o di gelatina. Palazzo Madama espone oltre sessanta manufatti della propria collezione, con una scelta che spazia dai ricami sacri medievali ad abiti degli anni Venti. Tra questi, possiamo ricordare: un cappuccio di piviale databile tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo; un quaderno manoscritto di disegni per ricami a inchiostro e tempera, dedicato alla «mirabile matrona Marina Barbo» nel 1538; un frammento di stolone di piviale, opera spagnola del 1590-1600, con allegri teschi infiocchettati, che ricorda il piviale raffigurato da El Greco in El entierro del conde de Orgaz, del 1586; ancora, un ricamo in lana svizzero tedesco realizzato intorno al 1580, che unisce la raffigurazione della parabola delle vergini sagge e delle vergini stolte alla raffigurazione degli Evangelisti e delle stagioni. info: tel. 011 4433501; www. palazzomadamatorino.it CHANTILLY IL SECOLO DI FRANCESCO I. DA RE SOLDATO A MECENATE DELLE ARTI U Domaine de Chantilly, Salle du Jeu de Paume fino al 1° dicembre

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Vittorioso a Marignano nel 1515, ma poi sconfitto a Pavia dieci anni piú tardi, Francesco I di Valois riuscí comunque a mantenere la corona di re di Francia. Ma come poté riuscire nell’impresa? Facendosi promotore delle arti e delle lettere: è questo l’assunto da cui prende le mosse la ricca rassegna allestita a Chantilly che, riunendo circa 200 opere e oggetti d’arte, ripercorre la vicenda biografica del sovrano e documenta la temperie culturale che segnò gli anni del suo regno. Figura esemplare di principe rinascimentale, Francesco I si circondò di eruditi e sapienti, chiamando a sé anche i migliori artisti del tempo. Si adoperò piú di ogni altro suo predecessore al fine di arricchire le raccolte

reali, incoraggiò la diffusione dei libri e contribuí alla codificazione della lingua francese. Al suo fianco operarono alcuni fra i massimi protagonisti del Rinascimento transalpino, quali Henri Estienne, Ambroise Paré, nonché maestri del calibro di Leonardo da Vinci e Primaticcio, e poi letterati e scrittori come Guillaume Budé, Clément Marot ed Étienne Dolet. info www. domainedechantilly.com MILANO GIOTTO, L’ITALIA U Palazzo Reale fino al 10 gennaio 2016

La mostra presenta 13 opere, a formare una sequenza di capolavori mai riuniti tutti insieme. L’esordio è affidato alle opere giovanili: il frammento della Maestà della Vergine da

Borgo San Lorenzo e la Madonna da San Giorgio alla Costa, documentano il momento in cui l’artista era attivo tra Firenze e Assisi. Poi il nucleo dalla Badia fiorentina, con il polittico dell’Altar Maggiore, attorno al quale saranno ricomposti alcuni frammenti della decorazione affrescata che circondava lo stesso altare. La tavola con Dio Padre in trono proviene dalla Cappella degli Scrovegni e documenta la fase padovana del maestro. Segue poi il gruppo che inizia dal polittico bifronte destinato alla cattedrale fiorentina di S. Reparata e che ha il suo punto d’arrivo nel polittico Stefaneschi, dipinto per l’altar maggiore della basilica di S. Pietro. Il percorso si chiude con i dipinti della fase finale della carriera del maestro: il polittico di Bologna, e il polittico Baroncelli, che nell’occasione viene ricongiunto con la sua cuspide, raffigurante il Padre Eterno, conservata nel museo di San Diego in California. info www. mostragiottoitalia.it ROMA RAFFAELLO, PARMIGIANINO, BAROCCI U Musei Capitolini fino al 10 gennaio 2016

La mostra evidenzia gli stimoli che, partendo da Raffaello, determinarono gli orientamenti artistici,

anche alternativi, di Francesco Mazzola detto il Parmigianino e Federico Barocci, ricordati nelle testimonianze cinque-seicentesche come eredi dell’Urbinate. Guardando a Raffaello con gli occhi del Parmigianino e di Barocci, l’esposizione affronta dunque il tema del confronto e quello dell’eredità tra artisti vissuti in epoche e luoghi diversi. Raffaello, Parmigianino e Barocci si espressero nella loro produzione grafica sperimentalmente e con forza innovativa. Per raccontare questo

confronto a distanza, la mostra romana propone disegni dei tre artisti, insieme ad alcune stampe, provenienti dal Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi e dalle più importanti raccolte museali d’Europa, e non solo. Una selezione assai ottobre

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mirata di dipinti (per esempio, l’Annunciazione di Barocci alla Pinacoteca dei Musei Vaticani) richiama i nodi tematici principali offerti dalla grafica, mostrando inoltre lo sguardo dei protagonisti del dialogo ideale tra artisti ricostruito in mostra (Autoritratto giovanile di Raffaello e Autoritratto di mezza età di Barocci, entrambi alla Galleria degli Uffizi). info tel. 060608; www.museicapitolini.org

FIRENZE IL PRINCIPE DEI SOGNI. GIUSEPPE NEGLI ARAZZI MEDICEI DI PONTORMO E BRONZINO U Palazzo Vecchio, Sala dei Duecento fino al 15 febbraio 2016

Commissionati da Cosimo I de’ Medici per la Sala de’ Dugento di Palazzo Vecchio, i venti arazzi cinquecenteschi con la storia di Giuseppe sono una testimonianza eccelsa dell’artigianato e dell’arte del

AMSTERDAM ROMA. IL SOGNO DELL’IMPERATORE COSTANTINO U De Nieuwe Kerk fino al 7 febbraio 2016 (dal 3 ottobre)

Introdotta da una spettacolare replica dell’arco trionfale innalzato in onore dell’imperatore «cristiano» e forte di prestiti eccezionali, la rassegna che la Nieuwe Kerk dedica a Costantino non soltanto ripercorre la vicenda biografica e politica del trionfatore di Ponte Milvio, ma si sofferma sugli esiti del suo principato. Quella promossa attraverso l’editto che riconosceva la libertà di culto per i cristiani fu, infatti, un’autentica rivoluzione, destinata a influenzare in maniera significativa la storia religiosa e culturale del mondo intero, ben oltre il tempo in cui si produsse. info www.nieuwekerk.nl

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Rinascimento. I disegni preparatori furono affidati ai maggiori artisti del tempo, primo fra tutti Pontormo. Ma le prove predisposte da quest’ultimo non piacquero a Cosimo I, che decise di rivolgersi ad Agnolo Bronzino, a cui si deve parte dell’impianto narrativo della serie. Tessuti alla metà del XVI secolo nella manifattura granducale, furono realizzati dai maestri arazzieri fiamminghi Jan Rost e Nicolas Karcher. info tel. 055 2768325 ROMA TESORI DELLA CINA IMPERIALE. L’ETÀ DELLA RINASCITA

FRA GLI HAN E I TANG (206 A.C.-907 D.C.) U Palazzo Venezia fino al 28 febbraio 2016

L’esposizione presenta capolavori concessi in prestito dal Museo Provinciale dello Henan per raccontare il passaggio dalla dinastia Han – periodo in cui l’odierna Cina comincia a prendere forma – all’Età dell’Oro della dinastia Tang (581 d.C.-907 d.C.). Tra i manufatti giunti nelle sale del Refettorio Quattrocentesco di Palazzo Venezia vi sono una veste funeraria composta da 2000 listelli di giada intessuti con fili d’oro, e poi lacche, terrecotte invetriate, vasi, oggetti d’oro, d’argento e di giadeite, a illustrare lo straordinario clima di prosperità e di apertura culturale di questo periodo. info tel. 06 6780131; www. tesoridellacinaimperiale.it FIRENZE UN PALAZZO E LA CITTÀ U Museo Salvatore Ferragamo fino al 3 aprile 2016

Forte di opere d’arte e documenti provenienti da musei e collezioni private, la mostra racconta le complesse vicende storiche di Palazzo Spini Feroni e dei suoi abitanti. Le origini dell’edificio risalgono al 1289, dopo che un’alluvione aveva distrutto le case degli Spini, ricca e potente famiglia proprietaria di una delle prime società bancarie d’Europa. Committente dell’edificio fu Ruggeri, detto Geri, la persona piú illustre del casato, banchiere di papa Bonifacio VIII. L’allestimento è dominato da due grandi forzieri che contengono le opere d’arte e i documenti: spiccano, tra gli altri, un dipinto seicentesco che raffigura l’albero genealogico degli Spini; una pergamena del 1277 che dimostra l’acquisto degli Spini di un terreno e di una casa nei pressi del ponte Santa Trinita; la storia della famiglia nel Quattrocento scritta da un

discendente di Geri, Doffo. Due modelli in scala, realizzati per l’occasione dal Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze, riproducono l’area cittadina in cui fu costruito il palazzo, e la sua architettura, come appare nella veduta quattrocentesca. info tel. 055 3562846; e-mail: museoferragamo@ ferragamo.com; www.ferragamo.com SOVANA ETRUSCHI IN EUROPA 3D U Palazzo Pretorio esposizione permanente

Completamente multimediale, la mostra si avvale della tecnologia anaglifica (occhiali bicolore, forniti all’ingresso) per consentire di fare esperienze 3D dei principali siti archeologici etruschi, fedelmente ricostruiti. Grandi monitor e schermi raccontano il mondo degli Etruschi con filmati spettacolari, animazioni e immagini in 2D e 3D. I modelli delle tombe (32 in tutto) sono stati visualizzati ad altissima definizione, per consentire una formidabile esperienza «immersiva», con visione a 360°. Dalle postazioni Virtual Tour, con visione su grande schermo, si può passeggiare, proprio come se si stessero visitando Cerveteri, Tarquinia, Chiusi o Vulci. info www.historiaweb.it

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AGENDA DEL MESE

Appuntamenti ITALIA INVITO A PALAZZO. ARTE E STORIA NELLE BANCHE XIV EDIZIONE U Sedi varie sabato 3 ottobre

Come è ormai consuetudine, la manifestazione promossa dall’Abi mette in mostra, per un’intera giornata, opere d’arte e capolavori conservati nelle

sedi storiche delle banche. Per la prima volta in collaborazione con l’Acri, Invito a Palazzo si arricchisce quest’anno del coinvolgimento delle Fondazioni di origine bancaria. All’edizione 2015 partecipano 101 palazzi di 47 banche e 20 Fondazioni in 55 città italiane. I palazzi saranno aperti al pubblico, gratuitamente, dalle 10,00 alle 19,00, con visite guidate in italiano e inglese. L’elenco completo dei palazzi che partecipano all’iniziativa è disponibile sul sito http://palazzi.abi.it. info tel. 06 6767400; e-mail: invitoapalazzo@abi. it; https://www.facebook. com/InvitoAPalazzo; Twitter https://twitter. com/PALAZZI_ABI.

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SIENA DIVINA BELLEZZA. SCOPERTURA DEL PAVIMENTO DEL DUOMO fino al 27 ottobre

La Cattedrale di Siena conserva il Pavimento a commesso marmoreo, un capolavoro unico,

complesso programma iconografico realizzato attraverso i secoli, dal Trecento fino all’Ottocento. I cartoni preparatori per le cinquantasei tarsie furono disegnati da importanti artisti, fra cui il Sassetta, Domenico di Bartolo, Matteo di Giovanni, Domenico Beccafumi e Pinturicchio. info www. operaduomo.siena.it

mezz’ora in base agli orari di apertura della Cattedrale. Ogni visitatore riceverà in omaggio la Roof Map, uno strumento utile per l’effettuazione della visita, che si trasforma poi in un gadget da conservare. info www. operaduomo.siena.it SAN GIMIGNANO

non solo per la tecnica utilizzata e la sua organicità, ma anche per il messaggio delle figurazioni, un invito costante alla ricerca della Sapienza. Abitualmente, il prezioso tappeto di marmo è protetto dal calpestio dei fedeli, ma ogni anno, per alcuni mesi, viene «scoperto» a beneficio dei visitatori. L’opera è il risultato di un

SIENA LA PORTA DEL CIELO U Duomo fino al 31 ottobre

L’Opera della Metropolitana torna a promuovere l’apertura straordinaria della «Porta del Cielo», con nuove modalità. La visita ai Sottotetti del Duomo, della durata di 30 minuti, e alla Cattedrale, con la Libreria Piccolomini, si può effettuare ogni

L’ORTO DI SANTA FINA U Giardino della Spezieria di S. Fina, ex Conservatorio di S. Chiara fino al 31 Ottobre

Lo Spedale di Santa Fina, il piú importante ente assistenziale di San Gimignano, fu dotato, almeno dal Cinquecento, di una propria Spezieria, che acquistava o produceva i medicamenti, sia a uso interno che per la vendita esterna. L’allestimento attuale presenta l’assetto

originale della farmacia, con la «cucina», in cui si preparavano i medicinali – conservati in vasi di ceramica o vetro –, e la «bottega», preposta alla vendita. Architetti, archeologi, esperti di botanica e giardinieri, si sono confrontati per evocare, negli spazi verdi del giardino, l’antica Spezieria. Nelle fioriere create per l’occasione sono stati messi a dimora piante e fiori verosimilmente impiegati a scopi gastronomici e terapeutici. La visita a questa sezione del Museo è dunque una vera e propria esperienza sensoriale, che permette di immergersi in un’atmosfera fatta di aromi e profumi. info tel. 0577 286300; www.sangimignanomusei.it ottobre

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grandi battaglie durazzo

18 ottobre 1081

di Francesco Colotta

Vittoria di coppia Tra gli esiti della rivalità fra Normanni e Bizantini si colloca la battaglia combattuta a Durazzo nel 1081. Uno scontro che, secondo le cronache, sarebbe stato risolto dall’intervento prodigioso di una principessa longobarda...

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S

ul finire dell’XI secolo, dopo la conquista del Meridione d’Italia, i Normanni volsero le proprie mire verso i Balcani, controllati dagli acerrimi nemici Bizantini. Negli intenti del duca Roberto il Guiscardo, però, acquisire il dominio su quelle terre costituiva solo la tappa di avvicinamento a un obiettivo piú ambizioso: la discesa a sud e l’assalto alla capitale dell’impero d’Oriente, Costantinopoli. Forte dell’appoggio della Chiesa di Roma, che aveva da poco sancito il Grande Scisma con Bisanzio, nel 1074 il Guiscardo sbarcò sulle coste della Dalmazia e si diresse quindi verso Durazzo, località dalla quale iniziava il tracciato dell’antica via Egnatia (arteria costruita dai Romani nel II secolo a.C. per collegare le coste dell’odierna Albania con l’Egeo settentrionale e in seguito anche con il Bosforo), che conduceva diretta a Bisanzio. Porto di notevole importanza strategica, Durazzo era una storica roccaforte imperiale e aveva vissuto un periodo di grande sviluppo politico-economico a partire dal IX secolo, con la sua elezione a thema (circoscrizione autonoma). Nell’ottobre del 1081, i Normanni l’assediarono, costringendo i Bizantini a scendere di nuovo in guerra. Come ha sottolineato lo storico Georg Ostrogorskij (1902-1976), questa volta non ci si batteva soltanto per il controllo di una regione cruciale, ma per «l’esistenza stessa dell’impero».

Gli anni del declino

Tra le fila normanne il piano di conquista dei Balcani era maturato da tempo e coincideva, non a caso, con un periodo di indebolimento politicomilitare dei nemici: l’autorità imperiale bizantina aveva subito un forte ridimensionamento in territori chiave, dall’Italia all’Asia, dalla penisola balcanica all’Anatolia, e viveva nel contempo una fase di grave crisi interna, caratterizzata da una impasse del potere centrale e da difficoltà finanziarie aggravate dalla svalutazione della moneta. Sul declino aveva pesato l’accresciuta influenza dell’aristocrazia fondiaria, che aveva progressivamente intaccato le basi del virtuoso sistema A sinistra Pallade Atena, olio su tela di Rembrandt e allievi. 1657 circa. Lisbona, Fondazione Calouste Gulbenkian. Alla dea greca della guerra fu paragonata Sichelgaita, la moglie di Roberto il Guiscardo, che con lui prese parte alla battaglia di Durazzo. Nella pagina accanto ritratto di Roberto il Guiscardo, olio su tela di Merry-Joseph Blondel. 1843. Versailles, châteaux de Versailles et de Trianon.

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grandi battaglie durazzo Riletture

Fu una precrociata? Una delle fonti coeve sulla battaglia di Durazzo, le Gesta Roberti Wiscardi di Guglielmo di Puglia, riferisce un particolare significativo: nel momento in cui sembrava sul punto di soccombere, Roberto il Guiscardo si affidò alla protezione di un vessillo ricevuto dalle mani di papa Gregorio VII. In base a questa testimonianza, la spedizione normanna nei Balcani poteva configurarsi come una «guerra santa», una sorta di «precrociata». Secondo quanto sostenuto nel 1933 dallo storico tedesco Carl Erdmann nel saggio Kaiserliche und päpstliche Fahnen im hohen Mittelalter (Bandiere imperiali e papali nell’Alto Medioevo), l’insegna sacra affidata al Guiscardo, il vexillum Sancti Petri (che vincolava il ricevente in un rapporto di vassallaggio nei riguardi della Chiesa), era di fatto interpretabile come il conferimento di un significato religioso all’impresa militare. La tesi – ripresa dal bizantinista belga Henri Grégoire, che definí la battaglia di Durazzo come una «crociata dimenticata», e dallo storico italiano Salvatore Impellizzeri – si fondava anche sulla lettera enciclica che papa Gregorio VII aveva inviato nel luglio 1080 ai vescovi dell’Italia meridionale: nell’epistola, il pontefice lanciava l’idea di una missione in Oriente per ristabilire sul trono di Bisanzio Michele VII, con a capo il «gloriosissimo» Roberto il Guiscardo. La Chiesa di Roma, preoccupata in primo luogo dall’espansione dell’Islam, guardava con sospetto al nuovo imperatore Niceforo III Botaniate, salito al trono con l’aiuto dei Turchi selgiuchidi. Soprattutto per questo motivo, pertanto, Gregorio avrebbe avallato e benedetto il piano di conquista di Bisanzio da parte del nobile normanno. In cuor suo, però, il pontefice sperava anche di sanare lo Scisma con i cristiani d’Oriente e il Guiscardo, se si fosse insediato a Costantinopoli, poteva agevolare l’operazione. Un’altra testimonianza sul contenuto religioso della spedizione normanna è quella di Orderico Vitale, monaco inglese del XII secolo, il quale cita una presunta confessione resa dal Guiscardo anni dopo la battaglia di Durazzo: dichiarandosi paladino della Chiesa di Roma, il condottiero si rammaricava di non essere riuscito a convertire al cattolicesimo «un popolo imbelle, asservito ai piaceri e alla lussuria». Tuttavia, per quanto suggestiva, l’ipotesi della «precrociata» non sembra rispecchiare il concetto canonico di «guerra santa». Come ha rilevato il bizantinista Mario Gallina, nella campagna del Guiscardo manca una proiezione verso la Terra Santa, come del resto il riferimento all’idea di indulgenza: «Nulla di quel vocabolario distintivo che contraddistingue l’immaginario dei Luoghi Santi e della Croce sembra animare i racconti di tale spedizione».

Riproduzione di una miniatura raffigurante l’imperatore bizantino Alessio I Comneno, dal Codex Vaticanus, la piú antica edizione manoscritta della Bibbia, databile tra il 325 e il 350 e conservata presso la Biblioteca Apostolica Vaticana.

statale e messo in discussione le tradizionali gerarchie di governo. A loro volta, i nuovi potenti della grande nobiltà terriera risultavano divisi in due fazioni – il «partito» civile, concentrato soprattutto nella capitale, e quello militare, forte nella provincia – e la loro rivalità contribuí a destabilizzare i già precari equilibri politici dell’impero. Minacciati anche a Oriente dall’avanzata dei Turchi selgiuchidi, i Bizantini temevano la ripresa del conflitto con i Normanni e, per scongiurarla, ricorsero inizial-

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In alto miniatura raffigurante l’imperatore Niceforo III Botaniate fra san Giovanni Crisostomo e san Michele, da un’edizione delle Homiliae dello stesso Crisostomo. 1074-1081. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto l’imperatore bizantino Michele VII Ducas, in un solido aureo battuto a suo nome dalla zecca di Costantinopoli. 1071-1078. Washington, Dumbarton Oaks Byzantine Coin Collection.

mente alla diplomazia: l’imperatore Michele VII propose a Roberto il Guiscardo un matrimonio dinastico tra il principe ereditario di Bisanzio, Costantino Ducas, e la figlia del duca normanno, Olimpia (poi ribattezzata Elena dai Romei). Con le nozze della sua terzogenita, il Guiscardo sarebbe entrato a far parte della famiglia imperiale e ne avrebbe, pertanto, condiviso il destino. L’accordo, però, ebbe breve durata e fu vanificato dal colpo di Stato che scosse Costantinopoli nel 1078: Nice-

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foro III Botaniate salí al trono e con uno dei suoi primi provvedimenti annullò il patto matrimoniale siglato dal predecessore con il Guiscardo. Il condottiero normanno tornò allora a progettare un’azione bellica per attuare i suoi piani, spinto anche dal desiderio di vendetta per l’umiliazione subita dalla figlia. Anche papa Gregorio VII, che aveva benedetto il matrimonio nella speranza di un riavvicinamento tra i cristiani orientali e l’Occidente, scese in guerra contro Niceforo e lo scomunicò.

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grandi battaglie durazzo

una storia plurisecolare

Da colonia greca a culla dell’identità nazionale albanese Fondata nel 626 a.C. da coloni corinzio-corciresi con il nome di Epidamno, l’odierna Durazzo fu fin dai primordi un centro di commercio molto attivo, frequentato dai mercanti delle tribú illiriche dell’interno della regione. Conquistata dai Romani nel 229 a.C, venne ribattezzata Dyrrachium e, nel tempo, assunse anche un significativo prestigio politico, divenendo il capoluogo della provincia di Epyrus nova. All’inizio del Medioevo la città venne inglobata nei territori dell’impero d’Oriente e conobbe anche un notevole sviluppo architettonico: nel V secolo Durazzo era difesa da una possente cinta muraria e un po’ ovunque sorgevano monumenti pubblici.

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Capoluogo di un thema bizantino, venne poi occupata dai Bulgari intorno all’anno 1000 e dopo poco riconquistata da Bisanzio. Con il declino dell’impero d’Oriente, la città subí numerose dominazioni: oltre alla brevissima parentesi normanna (1081-1084), appartenne agli Angioini di Napoli (1271-1336), al regno di Serbia (1336-1392), a Venezia (1392-1501), per poi essere conquistata dai Turchi che la governarono fino al 1912. Alle soglie del primo conflitto mondiale fu nominata capitale del neonato Principato di Albania, Stato monarchico indipendente che non ebbe, tuttavia, una lunga vita.

In alto Durazzo. Resti di una torre facente parte della cinta muraria, fatta costruire dall’imperatore bizantino Anastasio I (431-518), originario della stessa Durazzo. All’epoca in cui era controllata dall’impero d’Oriente, la città conobbe una notevole fioritura.

Diverse dominazioni si succedettero durante la Grande Guerra, mentre nel 1939 fu occupata dalle truppe italiane. Nel 1943 passò in mano tedesca e solo alla fine del secondo conflitto mondiale riuscí a ritagliarsi una piena autonomia. Durazzo ha rivestito un ruolo fondamentale nel processo di formazione dell’unità nazionale e linguistica dell’Albania. ottobre

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Ducato di Napoli

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Portò con sé un falso Michele VII – alcune fonti riferiscono si trattasse di un monaco greco molto somigliante all’ex basileus –, nella speranza di ricevere l’appoggio dei sostenitori del sovrano deposto. Le cronache narrano anche di altri stratagemmi messi a punto dal normanno per rendere piú agevole la sua marcia di avvicinamento a Costantinopoli: in particolare, l’attivazione di una rete di contatti segreti con diversi ambienti bizantini dell’opposizione al nuovo corso dell’impero. Nel frattempo, a Bisanzio era salito al trono Alessio I Comneno, un nobile dotato di talento diplomatico, il quale si trovò a dover gestire una situazione di emer-

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Prima dello scoppio delle ostilità, Roberto il Guiscardo fece un tentativo diplomatico, inviando a Costantinopoli un ambasciatore con una precisa richiesta: la restituzione del trono a Michele VII e, di riflesso, il ripristino del patto matrimoniale tra la figlia e Costantino Ducas. Vedendosi rifiutata l’istanza, si preparò a partire con il suo esercito alla volta dei Balcani... accompagnato da un personaggio misterioso.

di rca Ma rona Ve

Marca di Tosca

A destra l’assetto geopolitico della penisola italiana e dell’Illiria all’epoca in cui si combatté la battaglia di Durazzo. La scelta di Roberto il Guiscardo di muovere contro i possedimenti bizantini dell’area balcanica venne dettata anche dalla consapevolezza delle difficoltà interne che Bisanzio stava attraversando.

Siracusa

Qui sotto Arapaj (Durazzo). Particolare del mosaico pavimentale della basilica paleocristiana di S. Michele. VI sec.

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grandi battaglie durazzo genza militare: i Turchi selgiuchidi avevano occupato quasi l’intera Anatolia; mentre nei Balcani, oltre all’imminente incursione normanna, si dovevano fronteggiare gli attacchi dei Peceneghi (una popolazione nomade proveniente dalle steppe asiatiche), le sortite dei Polovzi (una tribú mongola) e le rivendicazioni indipendentiste del regno di Croazia e dei principati serbi.

A destra un altro ritratto immaginario di Roberto I, duca di Puglia, realizzato nel 1860 dall’incisore Alphonse Boilly su disegno del pittore Claude Jacquand. Il soprannome di Guiscardo (cioè l’Astuto) gli venne dato per la sua abilità politica e militare.

piú stretti consiglieri. Dopo avere appreso dai suoi informatori che Roberto il Guiscardo stava ancora tentando di assediare Durazzo, pensò di irrompere alle sue spalle La flotta raggiunge Durazzo da sud, sfruttando il fattore sorpresa. I Normanni giunsero sulle coste di Durazzo tra il giugno Anche il Guiscardo, tuttavia, aveva i suoi informae il luglio del 1081, con una flotta di 150 navi, colme tori che gli riferirono dell’ormai imminente attacco bidi circa 30 000 effettivi; schiere poi rinfoltite da truppe zantino ed ebbe perciò il tempo di ritirarsi verso provenienti dalla vicina repubblica marinara di Ragusa, l’interno. Venuto a conoscenza delle improvvianch’essa nemica storica di Bisanzio. Alessio concentrò se manovre dell’avversario, l’imperatore non le difese in terra balcanica, convinto che Roberto il Gui- recedette dal proposito di attaccare e collocò scardo fosse il piú insidioso tra i nemici. I Turchi, i Serbi, i suoi 20 000 armati su tre divisioni, ponendosi a cai Croati e i Peceneghi, infatti, miravano a sottomettere po del contingente centrale, mentre affidò il comando alcuni territori, ma non ambivano a intromettersi negli delle ali sinistra e destra rispettivamente ai generali affari interni dell’impero. Gregorio Pacuriano e Niceforo Melisseno. I Normanni Vista la consistenza dell’armata nemica, Alessio si schierarono in modo analogo, con Roberto al centro, fu costretto a cercare alleanze e inviò in gran fretta a fronteggiare il basileus, fiancheggiato a destra dal fiun’ambasceria al doge di Venezia, glio Boemondo e a sinistra dal conte Domenico Selvo, al quale propose Su entrambi i fronti, di Giovinazzo. vantaggiosi accordi commerciali in Lo scontro avvenne il 18 ottobre le scelte tattiche cambio di un aiuto militare. Il doge, 1081. Molte delle informazioni sulla che vedeva nel Guiscardo un possibattaglia sono contenute nell’Alessiafurono dettate bile rivale sulle rotte dell’Adriatico, de – biografia apologetica di Alessio I accettò e dispose l’invio di una flotta dalle notizie riportate scritta dalla figlia Anna Comnena nel a Durazzo. I Veneziani, raggiunto il 1148 –, ma ulteriori dettagli si ricadagli informatori porto della città, ebbero rapidamente vano da altre cronache composte in la meglio sui Normanni, grazie alla quei secoli, come gli Annales Barenses, maggiore esperienza nel combattimento navale, per il le Gesta Roberti Wiscardi di Guglielmo di Puglia e gli Anquale si avvalevano anche del micidiale «fuoco greco» nales Lupi Protospatharii. (una miscela incendiaria a base di pece, salnitro, zolfo, Nella prima fase, l’esercito bizantino prese il sopravnafta e calce viva, n.d.r.). vento: dal centro alcuni arcieri cominciarono a bersaAllo stesso modo, sulla terraferma, gli assedianti gliare i nemici con colpi precisi, nascondendosi subito vennero sopraffatti, in questo caso dalla guarnigione dopo aver scoccato le frecce dietro un reparto di Valocale guidata dal generale bizantino Giorgio Paleolo- riaghi (guardie scelte di origine scandinava al servizio go. Anche l’espediente di presentare lo pseudo ex im- dell’imperatore bizantino). Investiti dai dardi, i Norperatore Michele era risultato fallimentare: secondo le manni cercarono di neutralizzare gli infallibili tiratori, cronache, gli abitanti di Durazzo non apprezzarono la ma la barriera variaga respinse le loro sortite. Quando messinscena e coprirono l’impostore «di infiniti insulti». sembrava ormai profilarsi una nuova affermazione biIl Guiscardo vedeva dunque profilarsi una rapida disfat- zantina, si materializzò sul campo un evento impreveta. Ma non si arrese. dibile, dai contorni leggendari. A Costantinopoli, Alessio, galvanizzato dall’affermazione su terra e mare, ruppe gli indugi e, ponendosi egli L’esempio della «seconda Atena» Con un manipolo di cavalieri, la moglie longobarda di stesso al comando di un contingente di truppe di svariata provenienza (accanto ai suoi fedelissimi militavano Roberto il Guiscardo, Sichelgaita, si gettò nella mischia mercenari bulgari, turchi, russi, armeni, tedeschi, serbi e riuscí a galvanizzare le proprie truppe che erano sul e anche inglesi), partí alla volta di Durazzo per inflig- punto di essere annientate. Le incitò a resistere, dando gere il colpo di grazia all’avversario. Giunse nei pressi per prima l’esempio, con un’offensiva portata nel centro della città nell’ottobre del 1081 e, accampatosi lungo dello schieramento nemico, proprio contro il granitico il fiume Charzane, si apprestò ad assalire subito i Nor- reparto variago. L’eroina – descritta nell’Alessiade come manni, ignorando gli inviti alla prudenza di alcuni suoi «un’altra Pallade» e una «seconda Atena» – non si fermò

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DURAZZO, 18 OTTOBRE 1081 Campo del Guiscardo Truppe normanne Truppe bizantine Er

zen

Paludi

Laguna

Ponte ntee

Mar Adriatico

Cittadella

Durazzo

Baia di Durazzo

Carica de Variaghi dei S. Michele Ritirata dei Variaghi, che si rifugiano nella chiesa di S. Michele

In alto schema dei principali movimenti delle truppe che si fronteggiarono a Durazzo. Si stima che lo scontro abbia visto impegnati 20 000 uomini per i Bizantini e 30 000 per i Normanni, ai quali va aggiunta una flotta composta da 150 navi. Nonostante la vittoria, il Guiscardo riuscí a impadronirsi della città albanese solo nel febbraio dell’anno successivo, grazie al tradimento di un soldato veneziano che militava con i Bizantini.

nemmeno dopo esser stata colpita alla spalla sinistra da una freccia. Secondo il cronista Guglielmo di Puglia «Dio la salvò perché non volle che fosse oggetto di scherno una signora sí nobile e venerabile».

Un errore fatale

Il contributo di Sichelgaita fu senza dubbio determinante, perché impedí la rotta delle sue truppe, ma non si tradusse in un immediato rovesciamento degli equilibri sul campo. Le sorti dello scontro si ribaltarono solo quando i soldati di Alessio commisero l’errore di lanciarsi all’inseguimento di quanti si erano dati alla fuga: in particolar modo lo fecero i Variaghi, fino a quel momento arroccati sempre a protezione del reparto centrale dello schieramento, assaltando la cavalleria leggera nemica. Un reparto di lancieri e balestrieri normanni approfittò dell’imprudenza delle truppe d’élite di Bisanzio e le sorprese, costringendole a rifugiarsi in una chiesa, che fu poi data alle fiamme. Oltre a quella dei Variaghi, l’esercito bizantino dovette registrare anche la defezione del contingente dei Serbi della Zeta e di quello turco.

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grandi battaglie durazzo Sichelgaita

Una guerriera con la passione della medicina L’eroina della battaglia di Durazzo del 1081 era una donna dalla personalità poliedrica, che si distinse soprattutto per l’animo guerriero. Le cronache la descrivono anche come una persona colta, pragmatica, raffinata e scaltra, che ebbe un ruolo non trascurabile, per esempio, nella celebrazione del concilio di Melfi I del 1059 e nella stesura dell’omonimo trattato. Secondo il monaco Amato di Montecassino, autore della Historia Normannorum (XI secolo), era anche «bella e saggia», mentre il primate Romualdo di Salerno ne magnificò le doti di onestà e purezza. Di origine longobarda, Sichelgaita era figlia del principe di Salerno Guaimario IV. Nata a Salerno nel 1036, crebbe in un ambiente colto e cosmopolita e si dedicò agli studi, in particolar modo alla medicina. Si sposò ventenne con il duca normanno Roberto il Guiscardo e, sebbene le nozze le fossero state imposte, rimase sempre accanto al marito, seguendolo in molte missioni militari. Nell’Alessiade, Anna Comnena ipotizza che proprio Sichelgaita avesse spinto il duca normanno a tentare l’attacco a Costantinopoli, muovendo dai Balcani. Nel 1081 a Durazzo, nello scontro con i Bizantini di Alessio I, cercò di trascinare l’esercito normanno alla controffensiva. Affiancò il consorte anche nel fatale assedio di Cefalonia del 1085, dove Roberto trovò la morte. L’interesse per la medicina e l’erboristeria la portarono a frequentare la celebre Scuola medica salernitana. Secondo il cronista Orderico Vitale fu accusata del tentato avvelenamento di Boemondo, figlio che Roberto il Guiscardo aveva concepito con la prima moglie. Ma Sichelgaita – in base a questa discussa testimonianza –, scampò alla condanna a morte somministrando al giovane l’antidoto al veleno. L’eroina di Durazzo morí nel 1090, dopo aver favorito l’ascesa politica del figlio Ruggero.

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Riproduzione litografica di una miniatura raffigurante la Scuola medica salernitana cosí come appare in una edizione quattrocentesca del Canone di Avicenna (l’originale è conservato a Bologna, presso la Biblioteca Universitaria). Vuole la tradizione che Sichelgaita avesse frequentato la celebre istituzione.

Il Guiscardo, lungimirante, aveva tenuto la cavalleria pesante al riparo e nel momento decisivo dello scontro la lanciò contro il nucleo centrale dell’armata di Alessio, ormai priva della copertura variaga. Molti fanti bizantini preferirono ritirarsi piuttosto che venir massacrati dai cavalieri normanni. Il basileus, con i suoi fedelissimi, invece, resistette piú a lungo, ma una volta ferito gravemente, decise anch’egli di ripiegare.

Un rientro precipitoso

Cosí, nell’ottobre del 1081, si consumò la sconfitta di Bisanzio – secondo lo storico Jonathan Harris non meno grave di quella patita a Manzikert nel 1071 contro i Turchi – e venne celebrato il trionfo di Roberto il Guiscardo. Il vincitore, tuttavia, conquistò definitivamente Durazzo solo nel febbraio dell’anno successivo, grazie al tradimento tra le file bizantine di un soldato di Venezia che vigilava sulla maior turris. E proprio quando si accingeva a puntare verso Costantinopoli dovette tornare precipitosamente in Italia, poiché la discesa dell’imperatore germanico Enrico IV e le rivolte popolari – sobillate con molta probabilità dalla diplomazia bizantina – stavano minacciando il dominio normanno nel Meridione. La marcia di avvicinamento verso Costantinopoli venne, quindi, proseguita dal figlio del Guiscardo, Boemondo, che occupò l’intera Albania, la Macedonia e gran parte della Tessaglia, fino a giungere a Larissa. Ma in quell’avamposto greco, l’avanzata si fermò. F

Da leggere U Georg Ostrogorskij, Storia dell’impero bizantino,

Einaudi, Milano 2005 U Salvatore Impellizzeri (a cura di), La precrociata

di Roberto il Guiscardo. Pagine dell’Alessiade, Dedalo, Bari 1965 U Anna Comnena, Alessiade, Paolo Andrea Molina, Milano 1849 U Guglielmo di Puglia, Le gesta di Roberto il Guiscardo, Francesco Ciolfi, Cassino 2003 U Cosimo Damiano Fonseca (a cura di), Roberto il Guiscardo tra Europa, Oriente e Mezzogiorno, Congedo Editore, Galatina 1990 U Giosué Musca (a cura di), Il Mezzogiorno normanno-svevo e le Crociate, Dedalo, Bari 2002 U Antonello Biagini, Storia dell’Albania. Dalle origini ai giorni nostri, Bompiani, Milano 1999

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storie lucca

Quel mistero venuto dal mare di Alessandro Bedini


Giunto dalla Terra Santa a bordo di una nave senza nocchiero, il crocifisso ligneo noto come Volto Santo fu, fin da subito, oggetto di grandissima venerazione, richiamando a Lucca folle di fedeli e di pellegrini. Ma a chi si deve quest’opera straordinaria e dai caratteri insoliti? E quanto c’è di vero nelle numerose cronache che danno conto della sua miracolosa scoperta e del successivo trasporto in Occidente? Lucca, cattedrale di S. Martino. Il crocifisso ligneo noto come Volto Santo. La datazione dell’opera è stata ed è tuttora piuttosto dibattuta: è comunque probabile che oscilli fra l’XI e il XII sec.

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in dall’Alto Medioevo, Lucca è stata un’importante tappa di pellegrinaggio sulla via Romea o, secondo una denominazione piú recente, Francigena. Ad attrarre migliaia di pellegrini provenienti da tutta Europa fu la venerazione per il Volto Santo conservato nella cattedrale di S. Martino e precisamente, dal 1484, nella cappella progettata e costruita da Matteo Civitali, il quale scelse il prezioso marmo di Carrara per quest’opera cosí importante. Il Volto Santo è una scultura lignea, in legno di noce, che rappresenta il Cristo crocifisso e misura 2,45 m di altezza e 2,75 di larghezza. Una dimensione assai superiore a quella di un uomo normale ed è questa una delle sue numerose particolarità.

Il trionfo sulla morte

L’espressione del Cristo è serena, il viso è incorniciato da barba e baffi, i capelli lunghi, con la divisa e di colore scuro, come il resto della scultura. Gli occhi seguono chi guarda, da qualunque angolazione si ponga, a esprimere l’universalità dello sguardo divino. Non c’è sofferenza sul volto dell’Uomo della Croce, non c’è la corona di spine, i piedi non sono incrociati e trafitti dai chiodi, la

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Sulle due pagine immagini tratte dal manoscritto Le saint Voult de Luques (Pal. lat. 1988). XV sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. La realizzazione della statua e il suo caricamento su una nave che, secondo la tradizione leggendaria, avrebbe preso il mare senza nocchiero.

scultura vuole rappresentare il Cristo triumphans, ovvero colui che ha sconfitto la morte. Di colore scuro è anche la tunica manicata o colobium, tipica veste sacerdotale, che ricopre il corpo della statua lignea fino alle caviglie, al posto del perizoma, indumento utilizzato in molte rappresentazioni sia scultoree che iconografiche di provenienza occidentale. Secondo alcuni studiosi, ciò si deve al fumo delle candele che in origine ardevano intorno al venerato Crocifisso. In ogni caso, sembra che il vestito fosse in origine di colore rosso, a simboleggiare il martirio. Ma come sarebbe giunto a Lucca il celebre simulacro? E quando?

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Inoltre, per quale motivo viene denominato «Volto Santo», mentre è l’intero corpo a essere rappresentato nella scultura? Cominciamo dalle risposte offerte dalla leggenda.

Il sogno di Gualfredo

Vissuto intorno all’XI secolo e probabilmente originario della Britannia, il diacono Leobino (o Leboino), la cui cronaca è contenuta in vari codici del XII e XIV secolo, narra che un vescovo subalpino, forse il piemontese Gualfredo, recatosi in pellegrinaggio a Gerusalemme, avrebbe ricevuto in sogno da un angelo la rivelazione secondo cui nella città palestinese di Ramla (a una cinquantina di chilometri da

Gerusalemme), si sarebbe trovato il «santissimo volto di Gesú» scolpito da Nicodemo. Questi era un fariseo, discepolo del Maestro, come ricordato nel Vangelo di Giovanni, il quale, secondo la tradizione, insieme a Giuseppe d’Arimatea, aveva deposto il Cristo dalla Croce per tumularlo in un sepolcro nuovo, secondo l’uso giudaico. Nicodemo desiderava ardentemente raffigurare il Salvatore morto sulla Croce, cosí come lo ricordava. Procuratosi il legno, iniziò dunque la sua opera. Ma, quando giunse a scolpire il volto del Signore, si addormentò e, al suo risveglio, trovò che la statua di legno era stata completata. Sempre secondo Leobino, l’opera ottobre

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si doveva a una mano angelica. Si tratterebbe dunque di un’immagine acheropita, cioè non fatta da mano umana (dal greco acheiropoietos, derivante dall’unione tra la alfa con funzione privativa, cheir, mano, e poiein, fare, n.d.r.). Da qui la denominazione di Volto Santo, a sottolineare l’autenticità della rappresentazione delle vere sembianze del Cristo.

la con il sangue di Cristo. Ne nacque una disputa tra Lucchesi e Lunensi su chi avesse diritto di prendere possesso del Crocifisso e si decise allora di caricarlo su un carro trainato da due giumente per stabilire quale via avrebbero preso. Il carro si diresse verso Lucca. A Luni sarebbe

Sangue sacro

Nicodemo, inoltre, al momento della deposizione dalla Croce, aveva raccolto una parte del sangue rappreso che era sgorgato dalle ferite di Gesú e lo aveva conservato, per poi porlo nella statua lignea, in un opercolo da lui stesso ricavato. Sempre secondo la tradizione leggendaria, sentendosi vicino alla morte, Nicodemo lasciò in eredità il Crocifisso all’amico Isacar, devoto cristiano e questi ai suoi figli e ai figli dei figli. Finché, dopo circa sette secoli, giunse nelle mani di Seleuco, un pio cristiano che risiedeva a Ramla, identificata come la biblica Arimatea. A lui si presentò il vescovo Gualfredo e gli chiese di cedergli la preziosa scultura: seppur a malincuore, Seleuco acconsentí e il presule trasportò il prezioso Crocifisso fino al porto di Giaffa, dove venne posto su una nave senza nocchiero. Dopo una lunga navigazione, l’imbarcazione giunse in prossimità del porto di Luni, sulla costa tirrenica. Aiutati anche da esperti marinai genovesi, i Lunensi tentarono di abbordare la nave, ma invano. Solo quando si avvicinarono il vescovo di Lucca Giovanni, anch’egli avvertito in sogno del prodigio, e quello di Luni, la nave finalmente giunse nel porto e venne scoperta l’ampol-

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rimasto il santo sangue, ancora oggi conservato nel duomo di Sarzana. Correva l’anno 742, epoca del secondo regno di Carlomanno e Pipino il Breve, come precisa Leobino. La preziosa scultura fu custodita nella basilica di S. Frediano a Lucca e solo in seguito, si presume tra il 1060 e il 1070, fu traslata nel duomo di S. Martino, terminato proprio in quel periodo per volere del vescovo Anselmo da Baggio (il futuro papa Alessandro II).

Date discordanti

Per quanto suggestiva, la leggenda leobiniana non regge all’analisi storica. Molti studiosi si sono cimentati con le questioni relative al celebre Crocifisso conservato a Lucca. Innanzitutto, le date non tornano affatto. L’anno 742 non è il secondo del regno di Carlomanno e di Pipino: Leobino confonde Carlomanno con Carlomagno e Pipino padre con Pipino figlio di Carlomagno. Inoltre, il vescovo Giovanni, menzionato nella

In alto la nave che trasporta il Volto Santo approda nel porto di Luni. A destra il crocifisso ligneo è collocato nella cattedrale lucchese, dove può ricevere l’omaggio dei fedeli e dei pellegrini.

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storie lucca A sinistra Lucca, chiesa di S. Frediano. Affresco di Amico Aspertini raffigurante il trasporto del Volto Santo da Luni. 1508-1509. Sulle due pagine Lucca, cattedrale di S. Martino. Il tempietto a pianta centrale che ospita il Volto Santo, innalzato da Matteo Civitali nel 1484, nella navata sinistra della chiesa.

relatio del diacono, guidò la diocesi di Lucca dal 780 al 797, secondo alcuni fino all’800 e non cinquantacinque anni prima, quando il Volto Santo sarebbe arrivato nella città toscana. Chiara Frugoni è convinta che il racconto di Leobino risalga, in realtà, alla metà del XII secolo e che si tratti di un «copia e incolla», come diremmo oggi, di frammenti cronachistici precedenti. «Si tratta di un racconto formato da pezzi estranei l’uno all’altro – precisa la studiosa – uniti in maniera superficiale da Leobino al cui nome è fatto carico di rendersi garante della continuità della storia». I frammenti a cui fa riferimento la storica pisana riguardano i racconti delle traslazioni di san Frediano e san Regolo, che presentano analogie sovrapponibili a quelle del Volto

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Santo (e che Leobino senz’altro conosceva), nonché a quella di un altro celebre crocifisso, quello di Beirut. Quest’ultimo sarebbe stato scolpito da Nicodemo e riempito di reliquie provenienti direttamente dal corpo di Gesú. Sarebbe poi stato trasportato in Siria, prima che l’imperatore Tito saccheggiasse Gerusalemme, e da lí a Giaffa, per essere posto su un’imbarcazione. Quasi inutile sottolineare la similitudine con il testo leobiniano. Il racconto ebbe un’ampia diffusione in tutto l’Occidente, grazie alla traduzione in latino di Atanasio, bibliotecario di Santa Romana Chiesa sotto i pontefici Adriano II e Giovanni VIII. Leobino conosceva senz’altro anche questo testo e cosí, sempre secondo la convincente ricostruzione di Chiara Frugoni, avrebbe avuto origine la cronaca ottobre

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Un’immagine miracolosa

Calzari e mannaie Al Volto Santo sono attribuiti vari miracoli. Del primo, riportato da Leobino, è protagonista un giullare proveniente dalla Francia. Essendo diretto a Gerusalemme, l’uomo decise di far tappa a Lucca per rendere omaggio al santo Crocifisso. Poiché era molto povero, non poteva donare niente di prezioso e decise di regalare al Volto Santo la sua musica, aiutandosi con

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del diacono. Secondo la studiosa, siamo di fronte a due oggetti diversi: un’immagine del Cristo, ovvero l’icona di Beirut, e la statua lignea contenente le reliquie, che è essa stessa una reliquia. Leobino fonderebbe questi due tronconi leggendari riferendoli a un solo reperto. L’ipotesi che sia esistita un’immagine acheropita precedente il Volto Santo cosí come noi lo conosciamo, è sostenuta anche da illustri storici dell’arte, come Géza de Francovich, per il quale vi sarebbero stati un prototipo siriaco risalente al VIIVIII secolo, andato distrutto o perduto, e una copia databile alla seconda metà del XII secolo. Anche il compianto Romano Silva è convinto «che il nuovo crocifisso è nato sotto l’influsso di un’immagine autentica del vero volto di Cristo e bene si colloca nel quadro ideologico pregregoriano». Per Silva la datazione del Volto Santo si collocherebbe nella seconda metà dell’XI secolo.

Il culto

Senza addentrarci ulteriormente nei meandri dell’indagine storiografica e iconografica riguardanti il Volto Santo e la sua autenticità, sta di fatto che il culto della celeberrima scultura è ampiamente documentato almeno fino dal X secolo, prima ancora, quindi, della diffu-

il volto santo in rete

Storie, luoghi e documenti a portata di mouse Le ricerche sul Volto Santo vantano ormai una lunga tradizione e un gruppo di studiosi ha quindi pensato di raccogliere le fonti, cartacee e manoscritte, e metterle a disposizione di un pubblico piú ampio, non solo per spirito divulgativo, ma anche per stimolare nuove indagini riguardo un soggetto affascinante come questo, che spazia dalla storia dei rapporti tra Oriente e Occidente, al tema del pellegrinaggio, a quello delle crociate, oltre che alla storia dell’arte. È nato cosí un sito web che raccoglie l’archivio digitale del Volto Santo: www.archiviovoltosanto.org Frutto della collaborazione tra il SISMEL (Società Internazionale per lo Studio del Medioevo Latino), l’Istituto Storico Italiano per il Medioevo, l’Università di Tours e l’Archivio Diocesano di Lucca, il sito può essere consultato con un semplice PC, ma anche con uno smartphone. Vi si trovano testi in pdf, facilmente scaricabili, un archivio iconografico e una bibliografia vastissima, sia relativa ai manoscritti che ai contributi cartacei: articoli, saggi, libri. Finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, il progetto, fa capo all’Associazione Mons Gaudii, presieduta da un’imprenditrice locale che intende investire nella cultura. «Lo scopo – precisa Ilaria Sabbatini, ideatrice del sito e dottore di ricerca in storia medievale – è quello di mettere a disposizione di chi sia interessato una serie di documenti che possano incentivare anche la storia del pellegrinaggio, visto che Lucca è uno snodo cruciale tra il Nord e il Sud d’Europa, trovandosi sulla via Francigena. Inoltre il Volto Santo rischia di diventare un tema di storia locale o poco piú, mentre invece l’argomento ha e deve avere un respiro internazionale». Nella pagina accanto Volto Santo di Lucca, dipinto su tavola di Piero di Cosimo (pseudonimo di Piero di Lorenzo di Chimenti). 1500-1510. Budapest, Szépmüvészeti Múzeum (Museo di Belle Arti). Piú di uno studioso ha ipotizzato che il Crocifisso lucchese si ispiri a una piú antica immagine acheropita (cioè non fatta da mano umana) e sia la rielaborazione di un prototipo siriaco risalente al VII-VIII sec.

A destra l’uomo della Croce del Volto Santo non porta la corona di spine e non mostra segni di sofferenza, poiché la scultura vuole mostrarlo come Cristo triumphans, capace di sconfiggere la morte.

il liuto. Improvvisamente gli cadde in grembo il calzare d’argento che si trovava nel piede destro della scultura. Attonito, il giullare riportò il prezioso calzare ai piedi della Croce, ma da allora la scarpa non potè piú adattarsi al piede del Crocifisso. Celebre è poi il «miracolo della mannaia». Tale Giovanni di Lorenzo, proveniente dalla Piccardia, diretto a Lucca

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in pellegrinaggio, passando per Pietralunga, vicino Perugia, fu accusato di aver ucciso un uomo e condannato a morte. Il malcapitato rivolse le sue preghiere al Volto Santo, affinché lo salvasse da quell’ingiustizia. Quando il boia tentò di tagliargli il collo con la mannaia, la lama si ritorse, lasciando incolume Giovanni. La mannaia è ancora oggi conservata nel duomo di Lucca.

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Il Cristo lucchese indossa un colobium, la tunica con il quale si vestivano i sacerdoti nel periodo medievale.

sione della cronaca attribuita a Leobino. Oltre che nella stessa Lucca, dove i fedeli veneravano il celebre simulacro, il culto del Volto Santo si era diffuso nel Nord Europa e in Francia. Guglielmo II detto il Rosso, (1056-1100), re d’Inghilterra e duca di Normandia, giurava sul «volt de Lucha»; Svatopluk, duca di Boemia, morto nel 1109, inviava doni al Volto Santo: nel 1107, papa Pasquale II confermava al vescovo di Lucca le oblazioni per il simulacro che già avvenivano da molto tempo. Pontefici e sovrani rendevano omaggio all’ormai famoso Crocifisso: fu pellegrino a Lucca Benedetto IX, nel 1038, accompagnato da Bonifacio di

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Canossa, padre di Matilde; e anche Urbano II passò per la città toscana nel 1094 e si fermò in adorazione davanti al Volto Santo.

Imperatori in preghiera

Nel Volto Santo di Lucca, Pietro Lazzarini sostiene che, nell’896, re Arnolfo di Germania si sarebbe trattenuto a Lucca durante il Natale e avrebbe pregato di fronte al Volto Santo. Altrettanto avrebbero fatto gli imperatori Ottone I (962) e Ottone III (996). Fin dal XIII secolo, sulle monete cittadine compariva il Volto Santo, mentre nel contado lucchese, e non soltanto, si diffondevano immagini e memorie manoscritte

della scultura divenuta il simbolo stesso della città. Nel 1372 il Consiglio Generale deliberò di donare all’imperatore un pallio di seta con l’immagine del Volto Santo. Lo sviluppo del pellegrinaggio verso i luoghi che conservavano memoria di quanto riportato nelle sacre scritture e la posizione di Lucca sulla Francigena – via di pellegrinaggio per eccellenza – contribuirono a incrementare il culto del Volto Santo conservato nella cattedrale lucchese. Pellegrini provenienti da tutta Europa, persino dalla lontana Islanda, si fermavano per rendere omaggio al vero volto di Cristo. Del resto, come ha osservato Claudio ottobre

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La vestizione

Oro e gemme a profusione Fin dal XII secolo, il Volto Santo dovette essere riccamente ornato. Nella sua cronaca, Boncompagno da Signa parla di una corona argentea arricchita da gemme, di vesti dorate, calzari in argento e di una raffinata fascia di stoffa che cingeva il bacino della scultura. Nel XVII secolo, all’indomani del concilio di Trento e del fasto che ne conseguí, ma probabilmente anche a causa del logoramento dei paramenti piú antichi, il Volto Santo venne arricchito e quasi completamente rivestito. I preziosi paramenti vengono posti sulla scultura solo due volte all’anno: il 3 maggio e il 13 e 14 settembre. Nel 1611 vengono forgiati i calzari in argento decorati da una fascetta dorata. Sontuosa la nuova corona in oro, completata nel 1655, opera di Ambrogio Giannoni da Massa, al quale fu commissionato anche il prezioso collare. L’incoronazione solenne avvenne il 12 settembre del 1655 alla presenza di migliaia di fedeli. Nel 1660 un gioiello di rara bellezza, un verziere di smalti, vero capolavoro di oreficeria andò a impreziosire ulteriormente il Volto Santo. Leonardi dell’Università di Firenze, «Questo pellegrinaggio assume un altissimo significato mistico, perché esprime il desiderio del popolo cristiano di entrare – mediante lo sguardo – nel divino, il desiderio di avere l’occhio puro e semplice del bambino per poter vedere sino in fondo, in quel volto umano, anche il volto di Dio». A tale proposito, è necessario chiarire che il simulacro conservato nella cattedrale di S. Martino non è un unicum, come si è a lungo creduto. Si tratta del tassello di un mosaico assai ampio, e opere simili, infatti, sono attestate in varie località europee. In particolare, la Majestat

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Il Volto Santo viene «vestito» due volte l’anno: il 3 maggio (festa dell’invenzione della Santa Croce) e il 13 e 14 settembre (solennità dell’esaltazione).

Da leggere U La Santa Croce di Lucca. Il Volto

Santo, storia, tradizioni, immagini, Atti del convegno (Villa Bottini, Lucca, 1-3 marzo 2001), Editori dell’Acero, Empoli (FI) 2003

di Caldes de Montbui a Barcellona e quella di Battlò sono anch’esse crocefissi lignei che risalirebbero al XII secolo. Altrettanto può dirsi per la Croce di Imervard, conservata nel duomo di Braunschweig in Germania, la cui somiglianza con il Volto Santo ha perfino suggerito l’ipotesi che ci si potesse trovare di fronte a

U Pietro Lazzarini, Il Volto Santo di

Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca 1982 U AA.VV., Il Volto Santo. Storia e culto, Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca 1982

un archetipo. Un discorso a parte merita il Crocifisso di Sansepolcro: dopo accurate analisi riguardanti la sua datazione al IX secolo, Anna Maria Maetzke, storica dell’arte ed ex soprintendente di Arezzo, ipotizzò che potesse essere stato il prototipo siriaco della scultura oggi conservata a Lucca. F

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I dodici prodigi di Montefalco di Chiara Mercuri

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saper vedere montefalco Un capolavoro nascosto decora l’abside di una chiesa del borgo medievale umbro: sono le Storie di San Francesco, opera prima di Benozzo Gozzoli, artista ritenuto da alcuni un mero «illustratore», da altri un esponente massimo dell’arte ideale

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a chiesa di S. Francesco a Montefalco (Perugia), oggi trasformata in museo, ospita un gioiello dell’arte medievale: le Storie di San Francesco di Benozzo Gozzoli, artista che affascina per le alterne fortune della sua fama. La sua opera, infatti, è stata giudicata da alcuni oleografica e ritardataria, da altri esaltata come una delle massime espressioni dell’arte ideale. Giorgio Vasari (il pittore, architetto e scrittore d’arte a cui si devono, lo ricordiamo, le celebri Vite de’ piú eccellenti architetti, scultori e pittori, pubblicate per la prima volta nel 1550, n.d.r.), fu il primo a esprimere su Benozzo un giudizio poco lusinghiero, destinato a pesare nei secoli (e ad attribuirgli il cognome con cui tuttora lo conosciamo, poiché l’artista, in realtà, era noto semplicemente come Benozzo da Lese).

Giudizi impietosi

Montefalco (Perugia), chiesa di S. Francesco. Un particolare delle Storie di San Francesco, affrescate da Benozzo Gozzoli nell’abside della chiesa. Il ciclo fu realizzato dall’artista tra il 1450 e il 1452. Si tratta del secondo riquadro, nel quale compaiono il sogno di Francesco, interpretato come un invito alla crociata, e il celebre episodio in cui il santo dona il suo mantello a un povero cavaliere.

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Egli leggeva nel suo linguaggio diafano e goticheggiante, quasi sospeso tra fiaba e realtà, una chiusura verso le novità del Rinascimento, che considerava imprescindibili. Con un certo sforzo, Vasari riconosceva, che «in tanta moltitudine di opere gli vennero pure delle buone», ma non di meno collocava la sua esperienza pittorica in quel mondo di provincia che era per lui l’espressione di un «ritardo culturale». Un giudizio condiviso dal grande storico e critico d’arte Roberto Longhi (1890-1970), che tornò a definire Benozzo come «un illustratore gradevole ma non vero artista (…) condizionato dal vivere in provincia». Tra i fautori di Benozzo vi furono invece i romantici, i quali, nel loro vagheggiamento del Medioevo, lo elessero ad artista di riferimento. La sua opera, infatti, offriva un’immagine idealizzata del Medioevo che ben si prestava a incarnare l’epoca che, a loro giudizio, fu per eccellenza espressione dell’incanto e della fede. I preraffaeliti, in particolare, trovarono nel mondo fiabesco del pittore toscano il loro prototipo iconografico e non mancarono, infatti, di saccheggiare dai suoi affreschi la luminosità dei colori e la preziosità dei dettagli. Quando il pittore, nato a Scandicci nel 1420, arrivò a Montefalco, non era ancora un artista di fama, come il suo stimato maestro, Beato Angelico, a fianco del

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saper vedere montefalco Dove e quando Complesso museale di S. Francesco Montefalco (Perugia), via Ringhiera Umbra 6 Orario set-ott: tutti i giorni, 10,3018,00; nov-dic: me-do, 10,3013,00 e 14,30-17,00; chiuso lu, ma e 25 dicembre; gen-mar: me-do, 10,30-13,00 e 14,3017,00; chiuso lu, ma; apr-mag: tutti i giorni, 10,30-18,00; giu-ago: tutti i giorni, 10,30-19,00 Info tel. 0742 379598; fax: 0742 379598; e-mail: montefalco@sistemamuseo.it; www.comunemontefalco.it

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Sulle due pagine Montefalco. Uno scorcio del borgo, con, al centro, l’abside della chiesa di S. Francesco, il cui interno è decorato con il ciclo di affreschi delle Storie di San Francesco.

quale aveva fino ad allora lavorato. Si era mosso perlopiú tra piccole città di provincia dell’Italia centrale senza conoscere il successo di altri suoi contemporanei. A Montefalco si presentò la sua prima grande occasione, quella di realizzare un intero ciclo, a lui affidato in toto. Il compito era arduo: doveva descrivere per immagini la storia di san Francesco, già realizzata in maniera ritenuta insuperabile a pochi chilometri di distanza, ad Assisi. Qui, il confronto con il ciclo di Giotto si sarebbe potuto rivelare soverchiante, ma l’investimento di Jacopo di Mattiolo, il committente, si rivelò ben ponderato. Sull’altura della collina di Montefalco, sospesa nell’aere della valle umbra, Benozzo poté esprimere al meglio i temi cari alle sue corde: i cieli serotini, gli arboscelli verde oliva, i prati erbosi, i dolci declivi. La luce intima e incantata, i colori variegati e luminosi trovano nelle storie umbre di san Francesco la loro definizione naturale. Se le sue prospettive architettoniche appaiono ancora incerte e poco interiorizzate, i suoi paesaggi assumono forme perfette, nitide, cristalline. Piú delle fughe prospettiche urbane, Benozzo ama l’immobilità dei paesaggi rurali, che parlano un linguaggio arcaicizzante, di cui è in grado di cogliere, con dovizia di particolari, ogni fronda, ogni sfumatura, ogni curvatura del rilievo collinare.

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Il ciclo conobbe un’eco immediata, grazie anche alla presenza, nella cittadina, delle spoglie di un’altra santa francescana, Chiara da Montefalco, che attirava un numero sempre maggiore di pellegrini. Nel giro di pochi anni gli affreschi montefalchesi del pittore toscano vengono riconosciuti secondi solo a quelli di Giotto. La fama del capolavoro realizzato a Montefalco valicò cosí i confini della valle umbra e si propagò al di là dei monti martani, verso le terre toscane dove giunse alle orecchie di estimatori esigenti, i Medici, i quali decisero di affidargli un incarico davvero impegnativo: la decorazione della propria cappella privata a Firenze. Forse su suggerimento del suo committente, Benozzo usò come traccia il De Conformitate Vitae Beati Francisci ad vitam Domini Jesu (la Conformità di vita del beato Francesco alla vita del Signore Gesú) del francescano Bartolomeo da Pisa. Si tratta di un testo scritto nel XIV secolo, per celebrare, appunto, la conformità tra Francesco e Gesú, dimostrata, in primo luogo, dal miracolo delle stimmate, concesse solo al santo d’Assisi. Bartolomeo non descrive la vita di Francesco seguendo l’ordine cronologico, come fanno i primi biografi francescani, ma raggruppa gli eventi sotto una stessa «virtú» (perché sono le virtú a essere centrali e non la cronologia). E anche Benozzo si sforza di rappresentare

la conformità tra Francesco e Cristo, privilegiando l’ordine morale seguito dal cronista francescano. A differenza del ciclo giottesco, infatti, qui il ritmo narrativo non è scandito: piú episodi vengono raffigurati in un solo riquadro, tramite l’espediente delle strutture architettoniche che dividono momenti diversi della narrazione, quasi a sottolineare che lo spazio e il tempo non sono determinati all’interno di un racconto volutamente tematico. Ogni riquadro è poi commentato da una didascalia in latino, che deve renderne esplicito il significato. Le storie si sviluppano interamente nel ristretto spazio dell’abside, ragione ulteriore per sfruttare al massimo ogni singolo riquadro, inserendovi piú di una scena. Il ciclo si legge da sinistra verso destra e dal basso verso l’alto, in 12 riquadri (8 riquadri e 4 lunette), disposti su tre registri, a conclusione dei quali, sulla volta, troviamo san Francesco assiso nella gloria del cielo tra cinque santi francescani: Luigi IX, Rosa da Viterbo, Bernardino da Siena, Caterina da Bologna e Antonio da Padova. A differenza di Assisi, qui si assiste alla rarefazione dei miracoli al fine di sottolinearne l’unico, il grande, il miracolo dei miracoli, rappresentato nell’intradosso: le stimmate, espressione perfetta, come già accennato, della conformità di Francesco a Cristo. (segue a p. 58)

MARCHE

Città di Castello Pietralunga

Tevere

Arezzo

Montone

Gubbio

TOSCANA

Fabriano Tolentino

Lago Trasimeno

Perugia Assisi Deruta

Spello Foligno

Montefalco Todi Orvieto Lago di Bolsena

Amelia

Acquasparta Spoleto

Terni

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Cascata delle Marmore

Narni Rieti

Viterbo Lago di Vico

ra

Ne

Campello sul Clitunno

Norcia Cascia

ABRUZZO

Orte

Nocera Umbra

LAZIO

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saper vedere montefalco Il monumento in sintesi

Un mito riletto in chiave cortese 3 Perché è importante La chiesa di S. Francesco a Montefalco, ora parte dell’omonimo Complesso museale, fu costruita tra il 1335 e il 1338 dai frati Minori e corrisponde al primo insediamento dei Francescani dentro le mura della città. 3 La cappella nella storia Il portale è d’epoca cinquecentesca e la facciata venne rifatta nella prima metà dell’Ottocento. Officiata dai frati fino al 1863, divenne, da allora, proprietà del Comune di Montefalco, che, nel 1895, la trasformò in sede del Museo Civico cittadino. La chiesa si articolava in origine in una navata unica, come in uso presso gli ordini mendicanti, per i quali tale scelta architettonica era il simbolo di un programma di povertà e semplicità. La navata termina in un’abside pentagonale, affiancata da due cappelle a pianta rettangolare. Nel Quattrocento furono aggiunte alla navata sei cappelle, che dovevano creare l’illusione di una navata laterale. 3 La cappella nell’arte La cappella a sinistra dell’abside è stata affrescata dal folignate Giovanni di Corraduccio nel XV secolo. La prima cappella, di S. Girolamo, è opera di Benozzo Gozzoli, mentre la seconda di Jacopo di Vinciolo. La terza, detta del Crocifisso, ospita il grande crocefisso che un tempo si trovava sull’altare maggiore, attribuito al Maestro del Crocefisso di Montefalco (XIII-XIV secolo), celebre collaboratore di Giotto nel cantiere di Assisi. Le ultime cappelle sono state affrescate da Giovanni di Corraduccio e da suoi collaboratori della scuola folignate. Di notevole interesse è la porta intagliata della sacrestia, realizzata nel Seicento. Come abbiamo visto, l’abside, è stata interamente affrescata da Benozzo Gozzoli tra il 1450 e il 1452 con le Storie di San Francesco, ed è il vero capolavoro del sito. Sopra il coro, in una fascia orizzontale trovano posto venti medaglioni con ritratti di francescani illustri. Nei tre centrali, appena sotto la bifora, possiamo invece riconoscere, da sinistra verso destra: Petrarca che tiene il Canzoniere tra le mani, Dante con la Divina Commedia e Giotto intento a dipingere una Madonna con Bambino. La controfacciata venne affrescata dal Perugino, nel 1503, con un’Annunciazione, un Eterno in gloria tra Angeli e una Natività. In quest’ultima scena, la capanna presenta un complesso impianto prospettico, che la rende particolarmente interessante, cosí come il paesaggio che si apre tutt’intorno, caratteristico della fase matura dell’artista.

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Qui sopra le scene della parete sinistra dell’abside. Il ciclo si articola in tre registri, ciascuno dei quali si compone di quattro riquadri. Ogni episodio è commentato da una didascalia in latino.

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A destra e a sinistra una veduta generale dell’abside affrescata con le Storie di San Francesco e un particolare della volta, nella quale figurano san Francesco assiso nella gloria del cielo tra cinque santi francescani: Luigi IX, Rosa da Viterbo, Bernardino da Siena, Caterina da Bologna e Antonio da Padova.

2 francesco in gloria luigi ix

rosa da viterbo

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bernardino da siena

caterina da siena

presepe di greccio

conversione del sultano

francesco riceve le stimmate

sogno di innocenzo iii

cacciata dei diavoli da arezzo

predica agli uccelli e benedizione di montefalco

francesco con il conte di celano

nascita di francesco e profezia del mendicante

sogno del palazzo turrito

rinuncia ai beni paterni

incontro tra san francesco e san domenico

terziari

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antonio da padova

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terziari

petrarca, dante e giotto

terziari

morte e assunzione in cielo di francesco

terziari

3 Qui sopra la parete destra dell’abside. Benozzo si basò sul De Conformitate Vitae Beati Francisci ad vitam Domini Jesu di Bartolomeo da Pisa.

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saper vedere montefalco

UNA CRONACA IN DODICI QUADRI PRIMO RIQUADRO NASCITA DI FRANCESCO E PROFEZIA DEL MENDICANTE «Qualiter beatus Franciscus fuit denuntiatus a Xristo in forma peregrini quod debebat nasci sicut ipse in stabulo qualiter quidam fatuus prosternebat beati francisci vestimentum in via» («In che modo Cristo in abiti da pellegrino annunciò la nascita del beato Francesco, come la sua, in una stalla e di come stese il suo mantello lungo la via al passaggio del Beato Francesco»). La prima scena introduce il tema di «Franciscus Alter

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Christus» («Francesco altro Cristo»), attraverso la rappresentazione della nascita del santo tra il bue e l’asinello. Sulla destra, compaiono due episodi, uno precedente e l’altro successivo all’evento. Un pellegrino – che la didascalia denuncia essere Cristo travestito da mendicante – annuncia alla madre di Francesco la sua nascita. Lungo la strada, invece, un mendicante, in ginocchio, distende il suo mantello al passaggio di Francesco divenuto ormai adulto. Anche qui la «conformità» di Francesco a Cristo è operata mediante l’evocazione implicita del passo evangelico riguardante l’entrata di Cristo a Gerusalemme. ottobre

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RINUNCIA AI BENI PATERNI La scena si svolge nella piazza di Assisi, davanti al vescovo che, attonito, si preoccupa di coprire le nudità del Poverello. Al centro, il padre di Francesco mostra nel volto un’espressione drammatica e dolente. NASCITA DI FRANCESCO E PROFEZIA DEL MENDICANTE La scena che apre il ciclo affrescato da Benozzo Gozzoli introduce il tema di «Franciscus Alter Christus» («Francesco altro Cristo»), attraverso la rappresentazione della nascita del santo tra il bue e l’asinello.

SECONDO RIQUADRO SOGNO DEL PALAZZO TURRITO «Qualiter beatus Franciscus dedit vestimentum suum cuidam pauperi militi nocte vero sequenti ostendit sibi Xristus magnum palatium armis militaribus cum crucibus insignitium» («In che modo il beato Francesco donò il proprio mantello a un povero cavaliere e di come durante la notte seguente Cristo gli mostrò un grande palazzo da cui sventolano stendardi rossocrociati»). È qui rappresentato il sogno di Francesco, narrato sia nella Vita secunda di Tommaso da Celano che nella Legen-

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da Maior di Bonaventura da Bagnoregio. Il santo vede in sogno uno splendido palazzo, dal quale sventolano gonfaloni bianchi con croce rossa: domanda allora a chi appartengano tali stendardi e una voce celeste gli risponde che appartengono a lui e ai suoi discepoli. La visione viene interpretata dal santo nel senso di un invito alla crociata, mentre piú avanti – dicono le fonti – comprenderà che si tratta della chiamata di Cristo. A sinistra del palazzo, il celebre episodio in cui Francesco dona il proprio mantello a un povero cavaliere. Il ciclo procedeva probabilmente là dove oggi si trova la finestra centrale dell’abside. Forse nella perduta vetrata, forse in un muro poi aperto dalla finestra. In ogni caso l’iscrizione, ancora presente, fa intendere che vi fosse rappresentata un’ulteriore scena: «Qualiter beatus Franciscus in ecclesia sancti Damiani audivit cricifixum terdicentem sibi Francisce vade repara domum meam et quia iam cadit versa quantitatem pecunie in quandam fenestram» («In che modo il beato Francesco, presso la chiesa di san Damiano, udí il crocefisso dirgli per tre volte di riparare la sua chiesa in rovina e di come gettò il danaro dalla finestra della chiesa»). La didascalia si riferisce al celebre episodio legato alla conversione del santo. Ancora turbato dal rientro in Assisi, dopo la prigionia perugina, Francesco inizia a frequentare la fatiscente chiesa di S. Damiano, posta fuori le mura cittadine. Qui, il Crocifisso di legno (oggi conservato nella basilica di S. Chiara) gli dice di riparare

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SOGNO DI INNOCENZO III E APPROVAZIONE DELLA REGOLA Il papa ha la visione dell’Assisiate che sorregge il palazzo del Laterano, all’epoca ancora sede pontificia: il sogno avrebbe spinto il suo successore, Onorio III, ad approvare la regola di Francesco, come si vede a destra.

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INCONTRO TRA SAN FRANCESCO E SAN DOMENICO L’episodio è tratto dalla Legenda aurea, in cui si narra di come Cristo, volendo punire il dilagare dei vizi dell’uomo, decida di scagliargli contro tre lance: lussuria, avidità e orgoglio. Maria lo ferma, mostrandogli l’incontro tra Francesco e Domenico, fondatori degli ordini mendicanti, dalla cui azione scaturirà il risanamento della società.

la chiesa. L’invito è metaforico, in quanto si riferisce alla Chiesa come istituzione, ma Francesco lo interpreta alla lettera: vende alcune stoffe della bottega paterna e porta il ricavato al prete di S. Damiano, affinché paghi le spese di ristrutturazione. Quando il sacerdote, per paura di ritorsioni da parte del padre di Francesco, rifiuta l’offerta, il Poverello getta il denaro dalla finestra della chiesa. TERZO RIQUADRO RINUNCIA AI BENI PATERNI «Qualiter beatus Franciscus coram episcopo Asisii renuntiavit patri hereditatem paternam et omnia vestimenta et femoralia patri reiecit» («In che modo il beato Francesco, davanti al vescovo di Assisi, rinunciò all’eredità paterna spogliandosi di ogni indumento»). L’episodio illustrato è la famosa restituzione dei propri beni al padre. La scena si svolge nella piazza di Assisi, davanti al vescovo attonito, preoccupato di coprire le

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CACCIATA DEI DIAVOLI DA AREZZO Francesco ordina a fra’ Silvestro di compiere un esorcismo che ponga fine alle violente discordie tra i cittadini. L’identificazione di Arezzo – oltre a essere dichiarata nella didascalia – è resa esplicita dalla rappresentazione degli edifici urbani duecenteschi. PREDICA AGLI UCCELLI E BENEDIZIONE DI MONTEFALCO Il settimo riquadro fonde due episodi: quello, celeberrimo della predica agli uccelli, e la benedizione alla città di Montefalco. Quest’ultima, non presente nelle fonti, appare un omaggio reso all’orgoglio cittadino dei committenti, come pure l’inserzione di personaggi reali, riconoscibili all’epoca della rappresentazione.

nudità del Poverello. Al centro, il padre di Francesco ha un’espressione drammatica e dolente e nel suo gesto, appena accennato, si legge il proposito di voler fermare il figlio. Benozzo coglie tutta l’amarezza della sorte toccata a Pietro di Bernardone, il ricco mercante di Assisi, che sognava di compiere, tramite Francesco, la propria ascesa sociale verso i ranghi della nobiltà. In luogo di farsi cavaliere, secondo la volontà paterna, il giovane scende tutti i gradini della scala sociale, scegliendo di vivere nei sobborghi della città, con i piú reietti. QUARTO RIQUADRO INCONTRO TRA SAN FRANCESCO E SAN DOMENICO «Quando beata virgo ostendit Xristo beatum Franciscum et beatum Dominicum pro reparatione mundi» («Quando la Vergine Beata mostrò a Cristo il beato Francesco e il beato Domenico che avrebbero “riparato” il mondo»).

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L’incontro è descritto nella vita di san Domenico tratta dalla Legenda aurea. Vi si narra di come Cristo, volendo punire il dilagare dei vizi dell’uomo nel mondo, decida di scagliargli contro tre lance: lussuria, avidità e orgoglio. Maria lo ferma, mostrandogli l’incontro tra Francesco e Domenico, fondatori degli ordini mendicanti, dalla cui azione scaturirà il risanamento della società. Fa da sfondo la città di Roma, evocata attraverso la basilica vaticana e la presenza dell’obelisco. A sorpresa però, essa si erge in mezzo a uno splendido paesaggio naturale: la vallata umbra vista da Spoleto. Benozzo, che come abbiamo detto è soprattutto un grande paesaggista, ritaglia, anche in questa scena romana, uno scorcio da dedicare alle verdi colline umbre, che, forse, rispetto alle architetture urbane, gli appaiono piú indicate per riflettere la spiritualità dei due uomini, nei quali è riposta ogni speranza di rinnovamento della Chiesa. ottobre

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QUINTO RIQUADRO SOGNO DI INNOCENZO III E APPROVAZIONE DELLA REGOLA «Quando beatus Franciscus fuit visus sustentare ecclesiam et quando habuit confirmationem regulae a papa Honorio» («Come Francesco fu visto sostenere la Chiesa crollante e come ottenne l’approvazione alla sua regola da papa Onorio»). Nel Sogno di Innocenzo III (narrato già dal primo biografo del santo, Tommaso da Celano), il papa, che compare sullo sfondo, ha la visione di Francesco che sorregge il palazzo del Laterano, all’epoca ancora sede papale e quindi simbolo della Chiesa universale. Secondo il biografo, tale apparizione avrebbe indotto il successore di Innocenzo, Onorio III, ad approvare la regola di Francesco, come si vede nella scena che occupa la parte destra del riquadro.

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SESTO RIQUADRO CACCIATA DEI DIAVOLI DA AREZZO «Quando beatus Franciscus expulit demones de civitate aretii divina potentia et pacificavit totum populum» («Come il beato Francesco, per divina virtú, espulse i demoni dalla città di Arezzo e pacificò la cittadinanza»). In questa scena è rappresentato l’esorcismo che Francesco ordina di compiere a fra’ Silvestro per far cessare le violente discordie tra i cittadini. L’episodio, descritto da Tommaso da Celano nella Vita Secunda, è ripreso dalle fonti successive. L’identificazione con la città di Arezzo – oltre a essere dichiarata nella didascalia – è resa esplicita dalla rappresentazione degli edifici urbani duecenteschi. Fuori città, non manca di riaffiorare il paesaggio: uno sfondo di aiuole e cespugli verdeggianti sovrastati da nuvole purpuree, mentre sopra la città un nugolo di diavoli si sospingono l’un l’altro,

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saper vedere montefalco la cappella di s. girolamo

Due campioni di sobrietà

A Benozzo Gozzoli si devono anche gli affreschi della cappella di S. Girolamo, posta nella navata meridionale della chiesa di S. Francesco (foto qui sopra). Della decorazione originale si conservano oggi soltanto le volte, la parete dell’altare e l’arco d’entrata. La struttura subí massicci stravolgimenti nel Seicento, quando la parete orientale fu distrutta e le cappelle furono unite. Malgrado i danneggiamenti, si presenta di notevole interesse, in quanto è uno dei rari cicli bassomedievali ancora conservati, dedicati a san Girolamo. Il committente, anche in questo caso il francescano Jacopo di Mattiolo, intendeva celebrarvi il patrono della confraternita perugina a cui era

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affiliato, intitolata a Girolamo. Gli umanisti esaltarono l’intelligenza e la dedizione agli studi del celebre padre della Chiesa, mentre i Francescani vollero esaltarne lo spirito di povertà e rinuncia al mondo. Gli episodi rappresentati a Montefalco da Benozzo, pongono, infatti, in parallelo la vita di san Girolamo con quella di san Francesco. In linea con le storie rappresentate nella chiesa e con l’identità francescana del committente, Benozzo crea una corrispondenza tra i diversi episodi della vita dei due santi: il rifiuto dei piaceri terreni di Girolamo e la rinuncia ai beni paterni di Francesco; il soccorso al leone ferito da parte di Girolamo e l’addomesticamento del lupo di Gubbio da parte di Francesco;

la penitenza nel deserto di Girolamo e il deserto della Verna di Francesco. Al centro della parete troviamo il polittico della Madonna col bambino, che crea l’illusione di essere sovrapposto a un altro affresco: la Crocifissione. Quest’ultima riecheggia l’affresco di Cimabue nella basilica superiore di Assisi, dove i serafini che ricevevano l’acqua e il sangue dalle ferite di Cristo appaiono però in un volo concitato e disperato, mentre qui sono inginocchiati, immobili, tra le nuvole. Tra i fedeli spiccano quattro fondatori di ordini: Domenico, Francesco, Romualdo e Silvestro, secondo un tema, quello dell’esaltazione degli ordini religiosi, già sviluppato a S. Marco in Firenze, dove Benozzo lavorò al fianco del maestro, Frate Angelico. ottobre

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infastiditi dalla presenza di Francesco inginocchiato in preghiera.

SETTIMO RIQUADRO PREDICA AGLI UCCELLI E BENEDIZIONE DI MONTEFALCO «Quando beatus franciscus predicavit auibus apud meuaneum demum benedixit montem falconem et populum» («Come il beato Francesco predicò agli uccelli e benedisse il popolo di Montefalco»). Domina la scena il monte Subasio, con la sua caratteristica forma a catino, schiacciata sulla sommità. In basso, a sinistra, la predica agli uccelli, qui rappresentati in tredici diverse specie, com’è nello stile di Benozzo, sempre attento a cogliere ogni dettaglio naturalistico. In questo riquadro si trovano fusi insieme due episodi: la predica agli uccelli, riportata da tutti gli antichi biografi, e la benedizione alla città di Montefalco. Quest’ultima, non presente nelle fonti, appare come un omaggio reso all’orgoglio cittadino dei committenti,

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cosí come l’inserzione di personaggi reali, riconoscibili all’epoca della rappresentazione. I due laici riccamente vestiti erano presumibilmente due membri della famiglia Calvi, che, nel XV secolo, si distinsero per varie donazioni alla chiesa di S: Francesco. A loro si unisce il committente in ginocchio col saio francescano, fra Jacopo di Mattiolo. La città di Montefalco è ritratta con fedeltà, attraverso le torri merlate e l’imponente campanile di S. Francesco. In lontananza, ai piedi del monte, un borgo: Assisi o forse Spello. Il lirismo paesaggistico tocca in questa scena, come nella precedente (le piú riuscite di tutto il ciclo), il suo apice. Il cielo turchino, inframmezzato da nubi rosate filiformi, fa da contraltare alla macchia grigio-pastello dei monti, da cui scompaiono i consueti verdi brillanti della vegetazione per lasciar spazio a tonalità piú terrose, in cui si amalgamano gli abiti bruno-rossi dei personaggi, quasi impastati nel paesaggio stesso.

FRANCESCO CON IL CONTE DI CELANO L’ottavo riquadro è animato da una sequenza di tre scene: in primo piano, Francesco predice al nobile di Celano la morte prossima ventura; sulla destra, ne ascolta la confessione; sul fondo a sinistra, il conte muore improvvisamente.

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saper vedere montefalco MORTE E ASSUNZIONE IN CIELO DI FRANCESCO L’ultimo riquadro propone la celebrazione delle esequie del santo, disteso sul letto di morte, mentre le sue piaghe vengono mostrate ed esaminate dai convenuti. In secondo piano, i fedeli intonano canti per l’estremo saluto. In alto, due angeli portano l’anima di Francesco in Cielo.

quella centrale occupata dal finestrone). Qui Benozzo riproduce un solo avvenimento per ogni riquadro, con una significativa eccezione: l’episodio della stimmatizzazione di Francesco, che occupa due lunette, a sottolineare l’eccezionalità del miracolo.

OTTAVO RIQUADRO FRANCESCO CON IL CONTE DI CELANO «Quando beatus Franciscus fuit invitatus ad prandium a comite de Celano et tunc beatus Franciscus predixit suam mortem» («Quando il beato Francesco fu invitato a pranzo dal conte di Celano e gli predisse l’imminente morte»). Viene qui rappresentata la morte del cavaliere di Celano. In questo episodio il paesaggio scompare: lo sfondo è costituito da una tipica casa rinascimentale, dal soffitto a cassettoni, dalle finestre vetrate, e dal pavimento piastrellato. Vi si rappresentano tre scene: in primo piano, Francesco predice al nobile di Celano la morte prossima ventura, prescrivendogli di confessarsi; sulla destra, il santo ascolta la confessione del nobiluomo; sul fondo a sinistra, il nobiluomo muore improvvisamente. Il ciclo prosegue sul terzo registro, dove le scene sono inserite nelle cinque lunette delle pareti (compresa

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NONO RIQUADRO PRESEPE DI GRECCIO «Quando beatus Franciscus fecit representationem nativitatis et apparuit sibi Christus in brachis» («Quando il beato Francesco rappresentò la Natività e gli apparve Cristo tra le braccia»). L’episodio della prima rappresentazione del presepe a Greccio (in provincia di Rieti) è riportato già nella Vita Prima di Tommaso da Celano. Il pittore doveva qui ritrarre una povera chiesa francescana (quella annessa al convento di Greccio), invece stupisce per aver rappresentato un edificio che svetta in altezza, che colpisce per l’eleganza dei pilastri scanalati in stile rinascimentale, in evidente contrasto stilistico con le numerose finestre gotiche ad arco acuto. A rendere l’atmosfera della Natività incantata e fiabesca concorre il cielo stellato affrescato nella volta. Esso fa da cornice a tutte le lunette, ma qui diviene il coronamento naturale della scena: la nascita di Gesú sotto un cielo notturno. I fedeli guardano stupefatti e ammirati Francesco che stringe tra le braccia la statua di Gesú Bambino che ha preso vita, trasformandosi in un pargolo in carne e ossa. Di fronte al prodigio, essi appaiono come bloccati, sospesi nell’incanto generale. La solennità dei personaggi e la preziosità dello sfondo fanno risaltare il tenero gesto di Francesco, che bacia il bambinello animato. DECIMO RIQUADRO CONVERSIONE DEL SULTANO MELEK-EL-KAMEL «Quando Soldanus misit unam puellam ad tentandum beatum Franciscum et ipse intravit in ignem et omnes estupuerunt» («Quando il sultano mandò una fanciulla per tentare il beato Francesco ed egli entrò nel fuoco e tutti si stupirono»). ottobre

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La Pala della Madonna della Cintola

Un grande ritorno Oltre alla possibilità di ammirare le Storie di San Francesco, la visita della chiesa di S. Francesco offre, fino al prossimo 30 dicembre, l’opportunità di vedere un altro capolavoro di Benozzo Gozzoli: si tratta della Pala della Madonna della Cintola, che, grazie al prestito accordato dai Musei Vaticani, si ricongiunge agli affreschi. Restaurata per l’occasione, l’opera fu dipinta da Benozzo intorno al 1450 ed era destinata all’altare maggiore della chiesa di S. Fortunato riformata dagli Osservanti. Custodito nella Pinacoteca Vaticana, il dipinto fu donato a Pio IX dalla comunità di Montefalco nel 1848, in

La Pala della Madonna della Cintola, cosí come si presenta dopo il restauro. Benozzo Gozzoli dipinse l’opera nel 1450, per l’altare maggiore della chiesa di S. Fortunato.

occasione della concessione al borgo umbro del titolo di città. Per l’esposizione nella chiesa di S. Francesco, è stato sistemato su un basamento per simularne l’originaria collocazione sull’altare; la pala, inoltre, è visibile

Ancora una volta vengono qui fusi due diversi passi della Vita di Francesco: la prova del fuoco davanti al sultano egiziano Melek-el-Kamel, riportato dalle biografie ufficiali, e il miracolo della fanciulla tentatrice riportato nei Fioretti (poi ripreso da Bartolomeo da Pisa). Secondo un topos agiografico che ricorre con frequenza nelle vite dei martiri, uno dei mezzi di pressione usati dall’autorità romana sui cristiani era quello di inviare fanciulle seducenti nei luoghi di detenzione, al fine di piegarne la resistenza e la fede. Qui Francesco vince la tentazione della carne, camminando sul fuoco, dal quale esce illeso per grazia divina. Anche in questa scena Benozzo dà ampio spazio al meraviglioso, a iniziare dalla ricchezza dei marmi e dei broccati azzurrini, ricamati in oro, che rivestono la pensilina del trono. Il paesaggio si erge oltre il muro di cinta con querce frondose e cipressi svettanti, a cui si aggiungono, a suggerire l’Oriente, palme verdeggianti, stagliate su nubi turchine, illuminate da bagliori lunari da Mille e una notte. UNDICESIMO RIQUADRO FRANCESCO RICEVE LE STIMMATE ALLA VERNA «Quando beatus Franciscus in monte Alverne recepit stigmata Jhesu Xristi» («Quando il beato Francesco ricevette sul monte della Verna le stimmate di Gesú Cristo»). La stimmatizzazione, presso il monte della Verna (rilievo montuoso dell’Appennino tosco-emiliano, nel Casentino, n.d.r.), ha luogo sullo sfondo di un paesaggio

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nella sua interezza, cosí come è stata fruita e utilizzata per secoli, riuscendo ad apprezzare ogni particolare anche dell’originale struttura lignea. Info e prenotazioni Sistema Museo, tel. 199 151 123.

terroso e desertico, il quale sembra evocare il ritiro dei primi santi anacoreti nel deserto della Tebaide. Solo la presenza di qualche larice ci riporta al paesaggio appenninico della Verna, dove si situa anche un edificio che doveva essere fedele alla struttura dell’epoca. La scena è collegata all’affresco dipinto nella parete di destra, dal cui Crocifisso partono i raggi che colpiscono Francesco inginocchiato con le mani sollevate a ricevere le piaghe. Secondo le biografie, Francesco avrebbe ricevuto tali segni sul monte della Verna, il 14 di settembre, ovvero nel giorno dell’esaltazione della Vera Croce. DODICESIMO RIQUADRO MORTE E ASSUNZIONE DI FRANCESCO IN CIELO «Quando beatus Franciscus migravit ex hac vita ad Dominum» («Quando Francesco migrò da questa vita al Signore»). Nell’ultimo episodio sono celebrate le esequie del Santo, raffigurato disteso sul letto di morte mentre le sue piaghe sono mostrate ed esaminate dai convenuti. In secondo piano, i fedeli intonano canti per l’estremo saluto. In alto, si vedono due angeli che trasportano l’anima di Francesco in Cielo. F

Da leggere U Diane Cole Ahl, Benozzo

Gozzoli, Silvana Editore, Milano 1997

U Marion Opitz, Benozzo

Gozzoli, Könemann, Milano 2000

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di Giancarlo Breccola e Luca Pesante

Montefiascone (Viterbo), chiesa di S. Flaviano. Affresco di scuola giottesca raffigurante il santo titolare del tempio, affiancato dalle sante Caterina e Lucia.

Montefiascone

Nella Tuscia dei pellegrini Ai grandi itinerari devozionali sono legate vicende storiche che vanno ben oltre l’aspetto religioso: spesso, infatti, il flusso incessante dei viaggiatori rappresentò il fattore determinante per la fioritura stessa di abitati grandi e piccoli. Accadde cosí che la cittadina di Montefiascone, nei pressi del lago di Bolsena, divenne una delle tappe piú importanti sul tracciato della via Francigena


Dossier

P

er l’uomo del Medioevo il viaggio ha sempre origine da un impulso di trasgressione (letteralmente andare oltre) e di conoscenza: una dura prova, che offre la possibilità di riscattarsi da una condizione esistenziale di frustrazione, incapacità morale, identità perduta. Nei secoli dopo il Mille almeno tre sono le circostanze che determinano la forte intensificazione dei viaggi: lo sviluppo dell’economia di mercato, le crociate, e i pellegrinaggi in occasione dei giubilei. In quest’ultimo caso – già dal 1300 – si compie una delle piú grandiose manifestazioni di massa della cristianità medievale, che fu pertanto anche evento politico ed economico. Con essa si celebrava innanzitutto il trionfo di Roma e del papato, ma si offriva in tal modo anche la risposta a una forte istanza del popolo cristiano che dal XII secolo – dalla comparsa di un nuovo luogo dell’aldilà chiamato Purgatorio – aveva iniziato a fare i conti con la propria vita ultraterrena. E grazie alla concessione di un’indulgenza la Chiesa poteva abbreviare la durata dei tormenti «purgatori» che ciascun peccatore avrebbe sofferto post mortem: un privilegio, questo, che accrebbe ancor piú il potere del papa e della Chiesa stessa. Dopo secoli, il centro dell’Europa cristiana torna a essere Roma, e lí è necessario andare per toccare i piú importanti simboli della fede, fonte dell’unica salvezza del corpo e dell’anima.

di Mezzo non si è piú in grado di mantenere la rete stradale antica che collegava città in molti casi scomparse. E dunque, come nel diritto consuetudinario poi confluito nei principali codici legislativi, passo dopo passo uno stretto sentiero, inizialmente percorso da pochi uomini, diviene, in breve tempo, un percorso battuto da gruppi in marcia per raggiungere un santuario, un villaggio o un luogo di mercato. Nuovi insediamenti sorgono lungo le direttrici, ma sarebbe errato immaginare le strade medievali come elementi materiali fissi nel paesaggio: esse cambiano, si trasformano, si spostano a seconda delle condizioni del terreno, dell’ubicazione di una fonte d’acqua o della presenza o meno di gruppi di persone che potrebbero mettere a rischio l’incolumità dei viandanti.

Il piú delle volte una strada è perciò tracciata sulla carta in base alle stazioni di posta o dei centri abitati attraversati.

A pochi giorni dall’Urbe

Montefiascone, al pari di altri centri della Tuscia situati lungo una delle piú importanti strade consolari – la Cassia –, ha subito nel tempo l’influenza dell’antico tracciato, che con il suo potenziale economico e culturale ha segnato lo sviluppo politico e sociale di un vasto territorio. La centralità di Roma, piú volte perduta e poi riconquistata nel corso del Medioevo ne ha determinato in parte la sorte, fino a divenire il punto di incontro delle piú importanti strade romee (dirette all’Urbe) provenienti da nord: la Francigena e la Teutonica (o Alemanna). Per secoli, pellegrini medievali

Impatto ambientale

Ma lungo quali strade e percorsi ci si muoveva? Occorre chiarire un paio di punti fondamentali: ogni opera umana del Medioevo si modella sul paesaggio e se in epoca romana le nuove strade incidevano il territorio – tagliando colline, superando avvallamenti, attraversando fiumi con soluzioni architettoniche imponenti –, nell’età

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e poi giovani aristocratici europei – inviati in Italia ad affinare quella sensibilità culturale che soltanto il Grand Tour delle meraviglie del nostro Paese poteva garantire –, prima di giungere a Roma e poi Napoli camminarono e sostarono nei centri di Acquapendente, Bolsena, Montefiascone e Viterbo, in molti casi annotando nei loro taccuini le impressioni ricevute. Tutto ebbe inizio nel 264 a.C., quando – con la distruzione di Velzna (Orvieto) e il saccheggio del Fanum Voltumnæ (il grande santuario federale etrusco) – Roma

completò la conquista dell’Etruria meridionale. I nuovi padroni di quelle terre si impegnarono nella loro pianificazione urbanistica e nel riassetto della rete viaria.

Acqua a volontà

La via Cassia aveva il compito di collegare il piú velocemente possibile l’Urbe con l’Italia centro-settentrionale, in modo da assicurare il pieno controllo del territorio attraverso il rapido spostamento delle truppe. E cosí avvenne nel tratto di Montefiascone, ove i Romani, nel ridefinire il percorso del-

la strada, preferirono la comodità del terreno ai piedi del ripido colle ai vecchi tracciati etruschi che salivano sulla vetta. Non a caso, la consolare toccava due importanti sorgenti d’acqua, elemento di costante importanza per i viaggiatori: le fonti del Castagno e di San Flaviano. Appare quindi comprensibile come, proprio nei pressi della seconda – piú comoda e abbondante della prima – fosse sorta quella statio (stazione di posta) anonima, distante 9 miglia dalla città di Volsinis (Bolsena), segnalata nella Tabula

La Rocca dei Papi di Montefiascone (vedi box alle pp. 84-85) in una suggestiva veduta notturna. L’edificio è oggi sede del Museo dell’architettura di Antonio da Sangallo il Giovane, che svolge la funzione di centro studi e documentazione sul celebre architetto toscano.

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Due pagine miniate (a sinistra) e la rilegatura in pelle (in basso) di una edizione dell’opera Mirabilia Romae, Historia et Descriptio urbis Romae, una guida ai luoghi di pellegrinaggio dell’Urbe scritta dallo Pseudo Egidio Romano. 1485-1489. Collezione privata.

Peutingeriana (copia medievale di un itinerario figurato dell’impero romano, databile al III-IV secolo d.C., che prende nome da Konrad Peutinger, antiquario, editore e consigliere dell’imperatore Massimiliano I d’Asburgo, il quale la pubblicò parzialmente nel XVI secolo, n.d.r.), subito dopo le terme di Aquas Passaris (Bagnaccio-Bulicame).

Posta celere

La creazione di punti di sosta sulle consolari rispondeva non tanto alle esigenze dei singoli viaggiatori, quanto a quelle degli addetti al cursus publicus, i «postini» statali. Cambiando piú volte cavallo, i corrieri arrivavano a percorrere 70-80 chilometri al giorno, una distanza considerata la tratta tipo per un cavaliere imperiale, mentre a piedi, con bestie da soma, si potevano percorrere al massimo 2030 chilometri. Non rientravano nella norma episodi insoliti, come quello riguardante Tiberio (42 a.C.-37 d.C.), il quale partito da Pavia per accorrere

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Nella pagina accanto gli itinerari per Roma dal Nord Europa secondo gli Annales Stadenses, redatti dal cronista tedesco e frate minore Alberto di Stade.

in Germania sul luogo della morte di Druso, coprí il percorso di 200 miglia (300 km circa) in 24 ore. Come in ogni punto di sosta ben organizzato, in una statio era possibile trovare veterinari, cuochi, cocchieri, carpentieri, mozzi di stalla;

e, non di rado, nei suoi pressi sorgevano tabernae che offrivano ai viandanti cibo, bevande e possibilità di pernottamento. Simili strutture e gli annessi servizi favorirono la nascita del borgo di San Flaviano e la sua crescita nel Medioevo. ottobre

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La denominazione di ruga o via Francigena, documentata a partire dal IX secolo, venne in seguito utilizzata sempre piú frequentemente e la si ritrova soprattutto in numerose fonti documentarie del XII secolo. In una di queste, la Vita Mathildis di Donizone (monaco benedettino nel monastero di Canossa, vissuto tra i secoli XI e XII), la via è chiaramente indicata col suo nome a proposito della discesa di Enrico IV (1050-1116) in Italia: «Francigenam stratam tenuit rex pace peracta; / Transivit certe tunc incipiente decembre / Montem Bardonis Tuscane fluxit in horis» («Fatto il patto, il re si avviò per la strada Francigena / e passando per il monte Bordone nei primi giorni di dicembre, / si portò con i suoi sulle coste della Toscana»). Soprattutto nell’Italia settentrionale, dove il suo tracciato si ramificava per la varietà dei valichi alpini, la via non di rado mutava il suo nome in Romea. La duplice denominazione restò in uso per

Stade

Roda

La discesa di Enrico IV

MARE DEL NORD

o Ren

Il nome della via Cassia cambiò con il passare dei secoli, in molti casi a seconda dei popoli che la utilizzarono per muoversi: Longobardi, Bizantini, Franchi, Carolingi. Le strade medievali, come molti altri aspetti della cultura post-classica, prendevano il nome dai caratteri ambientali delle zone attraversate, dalla pericolosità di determinati tratti e dall’origine o dalla meta finale del percorso. Il segmento di Cassia che attraversava il territorio di Montefiascone entrò quindi a far parte di quella direttrice viaria – o meglio di quella successione di strade che localmente assumevano denominazioni diverse, ma che si caratterizzava comunque per il suo orizzonte internazionale e per la sua capacità di mettere in comunicazione le città del regno italico col mondo d’oltralpe – che già dai secoli centrali del Medioevo era indicata con l’appellativo di strada Francigena, o Francesca.

Pustertal-Pusteria

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A Città della Pieve

tutto il Medioevo, attribuita al suo intero percorso: essendo uno dei capi dell’itinerario rappresentato, appunto, da Roma, la città santa dell’Occidente, ovvero l’altera Jerusalem verso cui si muoveva un flusso ininterrotto di pellegrini. Le fonti scritte, a partire dal X secolo sempre piú ricche di notazioni sull’itinerario, attraverso la successione delle mansioni e luoghi di sosta, riflettono un’organizzazione ben strutturata dell’asse di collegamento dell’Italia peninsulare con il Centro e Nord Europa. Già nell’VIII secolo, il percorso della strada si trova indicato a grandi linee nell’Itinerarium Sancti Willibaldi

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La prudenza non è mai troppa Ha scritto il poeta siciliano Franco Sacchetti (1335-1400): «La prima cosa che fa lo pellegrino quando si parte, si veste di schiavina, appiccasi la scarsella e mettevi ago e refe e moneta d’ariento e d’oro». La schiavina era una tunica di tessuto ruvido in grado di resistere a mesi e mesi d’uso ininterrotto, corta al ginocchio, trattenuta in vita da una cintura. Sopra la schiavina, a proteggere il corpo, c’era un lungo mantello detto pellegrina o sanrocchino. Un cappello di feltro rotondo a tesa larga con un

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A sinistra la convergenza della Francigena (in bruno) e della Teutonica (in bianco) in corrispondenza di Montefiascone. In basso Padova, Palazzo della Ragione. La figura di un pellegrino in uno degli affreschi realizzati tra il 1425 e il 1440 da Niccolò Miretto e Stefano da Ferrara.


(723-726), nel quale, descrivendo il viaggio del santo a Roma, si legge. «Inde Romam tendentes, Lucam, Tuscie urbem devenere».

Il viaggio di Sigerico

Nel X secolo le tappe della via per Roma sono menzionate con precisione nella memoria lasciataci dall’arcivescovo di Canterbury, Sigerico (950 circa-994), in occasione del viaggio di ritorno alla sua sede episcopale, avvenuto nell’estate dell’anno 990, dopo aver ricevuto dalle mani di papa Giovanni XV il pallium arcivescovile. Il resoconto testimonia come, sul finire del X secolo, la via Francigena avesse consolidato il suo tracciato. Nel documento compare, tra le settantanove submansiones de Roma usque ad mare (da Roma fino allo stretto della Manica), una località chiamata Sancte Flaviane (San Flaviano). Il borgo segnalato prima era Sancte Valentine (presso Viterbo, nei dintorni del ponte Camillario), quello dopo Sancte Cristina (Bolsena). Possiamo quindi notare come l’itinerario di Sigerico, da Roma sino a Bolsena, ricalchi sostanzialmente il percorso dell’antica consolare Cassia; le prime submansiones, infatti, coincidono con i luoghi di sosta indicati dagli itinerari d’età imperiale: la già ricordata Tabula Peutingeriana e l’Itinerarium Antonini Imperatoris (compilato forse al tempo di Caracalla, nel III secolo d.C.). Nel 1151 l’abate islandese Nikulas di Munkathvera, partito dalla sua isola per giungere a Roma e proseguire poi verso la Terra Santa, toc-

ca lungo l’itinerario Hanganda borg (Acquapendente), a 12 miglia Kristino borg (Bolsena) e piú avanti, a 8 miglia, Flas borg (Montefiascone). Quest’ultimo toponimo, interpretato come Fla[vian]s borg (borgo San Flaviano), costituirebbe l’ultima testimonianza dell’omonimo borgo di San Flaviano prima della distruzione avvenuta nel 1187 a opera dei guelfi di Viterbo. Meno ambigua risulta una successiva memoria del 1191, relativa al viaggio, da Roma verso la Francia, di re Filippo II Augusto (1165-1123), di ritorno dalla terza crociata. A distanza di quattro anni dalla devastazione del borgo di San Flaviano, possiamo riscontrare come il sovrano francese, prima di giungere al lago di Bolsena, transitasse per Sutre civitatem episcopalem (Sutri), deinde per Biterve (Viterbo), deinde per Munt-Flascun (Montefiascone). Sul

sottogola, detto petaso, era il solo riparo dalla pioggia e dal sole. Gli unici oggetti di viaggio erano il bordone – il bastone ricurvo a cui poteva essere appesa la borraccia fatta con una zucca – e la bisaccia o scarsella, piccola borsa di pelle posta a tracolla o legata in vita, nella quale custodire i pochi denari che alcuni portavano con sé. In un clima generale di costante pericolo di morte, il pellegrino si metteva in viaggio sapendo che difficilmente sarebbe riuscito a tornare nella terra di origine e perciò, prima di partire, quei pochi che disponevano di beni materiali facevano testamento.

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Un tratto del basolato originario della via Cassia, che con le sue 219 miglia (324 km) collegava Roma con Firenze passando per Arezzo.

tracciato della Francigena troviamo cosí il toponimo Munt-Flascun, a indicare con certezza il nuovo centro abitato in luogo del vico Flaviano. La devastazione dell’antico borgo, pur consolidando il già avvenuto incastellamento di Montefiascone, non modificò, almeno inizialmente, la viabilità del territorio, che rimase collegata all’insostituibile cardine della chiesa di S. Flaviano.

Un dialogo rivelatore

E questo perdurò anche quando, verso la fine del Duecento, la romea Francigena, che per molti secoli aveva convogliato la quasi totalità del transito per Roma, iniziò a perdere la sua prerogativa di percorso esclusivo, a favore di altri itinerari transappenninici, che avevano come riferimento Bologna e Forlí. Sui percorsi romipeti (diretti a Roma) alternativi si possiedono diverse fonti documentarie bassomedievali. Tra le piú interessanti vi sono gli Annales Stadenses (metà del XIII secolo), grazie ai quali, dal dialogo di due monaci dell’abbazia premostratense di Stade presso Amburgo,

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Dossier Tirri e Firri (cioè Dieter e Fritz), litterati curiales et curiosi, si viene a sapere come all’antico tracciato toscano si preferisse quello che, raccordandosi a Firenze, seguiva la direttrice Arezzo, Castiglion Fiorentino, Città della Pieve, Orvieto e che, proseguendo sull’itinerario della odierna statale umbro-casentinese, si riallacciava alla Francigena proprio all’altezza di Montefiascone. L’ubicazione della basilica di S. Flaviano, posta sul punto di convergenza delle piú importanti strade romee settentrionali, si rivelò determinante per la sopravvivenza della chiesa, che, pur trovandosi di fatto emarginata dai nuovi spazi del potere civile – anche grazie al transito dei sempre numerosi pellegrini e viandanti –, riuscí a mantenere il primato religioso sul territorio fino all’erezione della nuova diocesi di Montefiascone, voluta da Urbano V nel 1369, che decretò la preminenza della cattedrale di S. Margherita. Nei primi decenni del XV secolo la comunità, ormai definitivamente Montefiascone. L’ingresso del giardino del palazzo vescovile alla Rocca. Sullo sfondo, la cattedrale di S. Margherita.

insediata sulla sommità del colle, avvertí la necessità di far transitare i viandanti all’interno delle mura urbane perché, altrimenti, «la provvista fatta da parte dei pellegrini verso Roma – narrano le cronache dell’epoca – gioverebbe poco alla detta città ed anche da parte di coloro che ritornano di lí ai loro paesi». Si decise pertanto di costruire due muri di sbarramento nei punti che favorivano l’aggiramento del nucleo urbano: «Stabiliamo (...) che la detta strada dei pellegrini passi per il mezzo della città e attraverso la porta del Borgo Maggiore e la porta di Borgariglia verso S. Nicola verso Viterbo (...) e sopra si faccia un muro solido per la retta delle dette vie, lungo 25 braccia e alto due braccia o piú (...) Ugualmente stabiliamo e ordiniamo che in capo del detto muro sia eretta una colonna di pietra o di legno (...) con una croce e una mano aperta indichi la via retta e nella quale siano scritte a grosse lettere queste parole: ITER AD ROMAM».

Qui sotto e nella pagina accanto due vedute panoramiche di Montefiascone, che sorge su un’altura naturalmente predisposta al controllo del territorio.

Fenomeni universali

Alla base della decisione di prendere bordone e scarsella e d’incamminarsi per il mondo c’erano la devozione, la necessità di espiare delle colpe, l’obbligo di sciogliere un voto, la speranza di guarire da una malattia, oltre alla continua curiosità di scoprire luoghi che popolavano l’immaginario di ciascuno. Si tratta, del resto, di fenomeni universali, presenti in tutte le culture e in ogni epoca, con gli stessi caratteri fondamentali: una via da percorrere, uno sforzo per raggiungere la meta, un rito da compiere al termine del viaggio, una festa. Il viaggio verso le tombe degli Apostoli faceva di ciascun individuo l’homo viator per antonomasia. Lungo la via molti simboli e architetture si ispiravano al sepolcro piú importante della cristianità, il Santo Sepolcro di Gerusalemme, riproponendone talvolta anche il nome, come nella cripta del Santo Sepolcro di Acquapendente, poco piú a nord di Bolse-

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Le testimonianze archeologiche

Una straordinaria continuità di vita L’altura sulla quale si sviluppa la Montefiascone attuale è un vero e proprio osservatorio naturale, dal chiaro potenziale strategico. Non deve perciò sorprendere che la sua occupazione abbia avuto inizio in epoca protostorica – nell’età del Bronzo Finale – e si sia protratta, in forma sostanzialmente ininterrotta, sino ai nostri giorni. Per quanto riguarda il periodo etrusco, saggi effettuati sotto i portici del palazzo della Rocca, oltre a una considerevole quantità di materiali ceramici, hanno portato alla luce un tratto murario, realizzato in opera quadrata costituita da grossi conci di tufo, attribuibile a una fortificazione, verosimilmente risalente al VI secolo a.C. La presenza di uno stanziamento etrusco sull’altura di Montefiascone, con funzione di avamposto meridionale nel territorio sotto il controllo volsiniese, era già stata ipotizzata piú di un secolo e mezzo fa da George Dennis (1814-1898), il quale, dopo aver corretto le stravaganti identificazioni della località con Falerii, Volsinii, Trossulum e Oinarea, si sbilanciò a sua volta individuandovi la sede del leggendario Fanum Voltumnae, il santuario federale del popolo etrusco.

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Dossier

la chiesa di s. flaviano

Un ottagono per il martire Della primitiva chiesa di S. Flaviano si ha menzione in un privilegio di papa Leone IV, redatto intorno all’anno 850, nel quale, oltre alla prima citazione conosciuta del toponimo Montefiascone, si trovano notizie piú dettagliate sullo stesso borgo. Nel documento, la chiesa di S. Maria, ove riposa il corpo del beato Flaviano, appare come una delle tante sparse nel distretto plebano e, anche se dotata di un suo borgo e casale, dipendente dalla vicina pieve di valle di S. Pietro, esistente nei pressi del lago di Bolsena. Nei primi decenni dell’XI secolo, l’antico tempio di S. Maria venne completamente riedificato e dedicato al martire Flaviano. La caratteristica pianta a ottagono deformato, che caratterizzava l’interno della nuova chiesa romanica, era condivisa da un’altra

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costruzione, anch’essa situata sul tracciato della Francigena e ormai scomparsa: il tempio di S. Donato ad Arezzo. Il rapporto tra questi edifici è rilevabile per la comune presenza del fonte battesimale, posto al centro della costruzione, e dalle tre absidi radiali – conformi quindi al modello ben documentato di strutture con peribolo e cappelle raggiate presente sulla strada dei pellegrinaggi – che definivano tre lati dell’ottagono. Comune a S. Flaviano e a S. Donato risulta anche l’elevazione a due piani. La componente centralizzata del piano inferiore della nuova chiesa di S. Flaviano, dovuta anche alla volontà di evidenziare architettonicamente la nuova dignità di ecclesia baptismalis, denotava la funzione originaria dei due ambienti: di battistero e martyrium quello inferiore; di basilica e cattedrale quello superiore. ottobre

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na. Anche il modello della basilica di S. Pietro fu fonte di ispirazione per alcuni edifici posti lungo le vie di pellegrinaggio: una sorta di anticipazione della visione ultima che si poteva avere giungendo alla fine del viaggio.

Ospedali e luoghi di cura

La cura del corpo rientrava nei servizi offerti nelle stazioni poste lungo il cammino. Al termine xenodochium,

mutuato dalla tarda antichità, si affiancò sempre piú frequentemente quello di hospitale o di hospitium; e cosí, mentre in un primo momento xenodochium (luogo di accoglienza, dal greco xenos, straniero, e da un tema affine a dekhomai, accogliere, n.d.r.) sembrava indicare il ricovero per i forestieri e hospitale quello per i poveri, i due vocaboli divennero presto equivalenti finché, verso il

X-XI secolo, la parola di derivazione latina soppiantò pienamente quella d’origine greca. La duplice funzione di alloggio per pellegrini da un lato, e di ricovero per poveri e malati dall’altro, rende comunque difficile determinare il ruolo degli ospizi e degli xenodochia nell’ambito specifico del pellegrinaggio; nell’ospedale medievale, infatti, si accoglievano anche i malati, una condizione pressoché continua nella vita dei gruppi sociali meno abbienti. Nel tratto senese della via Francigena, tra Monteriggioni e San Quirico d’Orcia (50 km circa), ne sono documentati una quarantina, sia pure in tempi diversi, ai quali si devono aggiungere gli oltre trenta compresi entro le mura di Siena. Ma ovunque, lungo il tracciato proliferavano, accanto ai piú famosi e confortevoli complessi ospedalieri delle città, piccoli nosocomi gestiti da privati. Amministrati da canonici, laici, confraternite, ordini monastico-cavallereschi, essi accoglievano i viandanti per periodi brevi, solitamente per una o due notti, offrendo un pasto – pane, verdura, un po’ di vino, raramente carne – un luogo al coperto e un giaciglio da dover dividere spesso con altri compagni di viaggio.

Ricovero d’urgenza

La facciata (nella pagina accanto) e una veduta dell’interno della chiesa di S. Flaviano. L’esistenza del luogo di culto è attestata fin dal IX sec., quando era intitolato a Maria; intorno al Mille, l’edificio venne interamente ricostruito e fu intitolato al martire Flaviano, assumendo le forme che tuttora lo connotano.

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Per avere notizie piú precise sulle strutture d’assistenza ai pellegrini nel territorio qui indagato, si deve giungere alla metà del XIII secolo, quando emergono indicazioni su alcuni ospedali collocati lungo la strada romea, per esempio quello detto di Rosignolo o, come scrive Niccolò della Tuccia (1400-1474 circa) nelle Cronache di Viterbo e di altre Città, di Montefiascone: il 7 luglio 1244 «Vitale d’Anversa montò a cavallo con grande esercito, e corsero in quel di Viterbo, e pigliò certa preda di pecore, e li Viterbesi li trassero dietro valentemente sino all’ospedale di Montefiascone». L’ospedale di Rosignolo è citato anche nella versione dello stesso

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Dossier La leggenda dell’Est! Est!! Est!!!

Giovanni, vescovo e... sommelier Già dal Cinquecento, periodo in cui, grazie al sempre maggior impiego della stampa, si diffuse anche l’uso delle carte geografiche, tra i luoghi piú noti dell’intero continente vi era Montefiascone, segnato sulla via Cassia nel Viterbese. La località doveva la sua fama a un aneddoto della Storia del Vescovo, meglio conosciuta come Leggenda dell’Est! Est!! Est!!!, nata, come altre fantasie storiche, dalla tendenza a costruire una prospettiva narrativa attorno ad alcuni elementi determinati dal particolare contesto storico e geografico di Montefiascone. La grande notorietà del vino, considerato per secoli il miglior vino moscatello d’Italia; il rilevante transito di viaggiatori assetati di mirabilia e stravaganze; la presenza di una figura giacente, ormai anonima, scolpita su una pietra tombale, costituirono le scaturigini dell’immaginario racconto che tanto nutrimento trasse dall’invenzione popolare e dal piacere di meravigliare. Questa, in sintesi, è la storia: nel 1111 giunse in Italia, al seguito dell’imperatore Enrico V, il vescovo tedesco Giovanni Deuc (o Defuk) di Augusta. Questo nobile incaricò un servitore di nome Martino di precederlo sul percorso e di segnalargli con la parola «Est» (cioè «c’è del buon vino») le località meritevoli. Martino segnalò con due «Est» il buon vino di Montepulciano e con tre quello eccezionale di Montefiascone. Qui giunto, Deuc vi si fermò e, tra una bevuta e l’altra, visse fino al 1113, anno in cui morí a causa di una colossale sbornia. Nel testamento lasciò il suo cospicuo patrimonio, circa 13 000 scudi, alla comunità, a condizione che ogni anno venisse versata sulla sua tomba in S. Flaviano, una botticella di vino. La tradizione sopravvisse fino alla fine del Seicento.

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Nella pagina accanto la lapide sepolcrale del vescovo tedesco Giovanni Deuc (o Defuk), che riposa nella chiesa di S. Flaviano, dal cui soggiorno a Montefiascone hanno tratto origine le leggende sul vino Est! Est!! Est!!! Sulle due pagine veduta panoramica dalla torre del Pellegrino, con il lago di Bolsena sullo sfondo.

episodio del cronista Lanzillotto Viterbese: «Vitale d’Auersa montò a cauallo con grande exercito, et corse in quella di Viterbo, et pigliò certa preda di pecore; et li Viterbesi trassero drieto uelocemente infino allo Spedale di Rosignolo». Questo ospedale era stato fondato, verso il 1217, dal viterbese Pietro di Rosignolo, il quale, comprato un piccolo appezzamento di terra, vi aveva edificato l’ostello con annessa chiesa intitolata a san Pietro, posto nella contrada delle Cuffie, sull’antica strada che da Viterbo andava a Montefiascone, oggi detta della Commenda. Numerose mansiones leprosorum e domus infectorum, dedicate alla cura dei lebbrosi e puntualmente intitolate a san Lazzaro, sono ricordate in tutte le principali località toccate dal-

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la via Francigena. Una di esse è testimoniata, nel territorio tra Montefiascone e Viterbo, in un documento del 1276, anno in cui un certo prete Giovanni, canonico della chiesa viterbese di S. Lorenzo, prevede, tra le varie disposizioni testamentarie, la donazione di una piccola somma finalizzata all’acquisto di biancheria e di altre comodità per i leprosis de Amalatia in via Montiflasconis. Questo ricovero, essendo posto lungo una via militare di prim’ordine quale era allora la Cassia, porgeasi stupendamente a ricoverare i pellegrini ed i crociati lebbrosi, che tornavano da Terrasanta.

Le terme di Viterbo

Nel 1215 il concilio lateranense aveva disposto che i lebbrosi dovessero indossare abiti speciali: una cappa grigia o nera, un berretto o un cappuccio scarlatti e, possibilmente, segnalare con una battola di legno la loro presenza. I malati, comunque, si riunivano in comunità, generalmente abitando in agglomerati isolati e, quando possibile, vicino a fonti di acque sulfuree. Sembra quindi probabile che il lebbrosario

di Amalatia (forse da ad malatiam) – di cui non si conosce l’ubicazione precisa, ma si sa collocato lungo l’antica strada Cassia – dovesse trovarsi in prossimità di una delle sorgenti di acqua sulfurea della zona termale compresa tra il Bagnaccio e le terme del Bacucco vicino, quindi, al confine con il territorio viterbese. La fortuna di Viterbo nel Medioevo e delle aree di sosta dei dintorni si deve in gran parte alla presenza di numerosi bagni termali: motivo, questo, del trasferimento dell’intera corte pontificia nella città altolaziale fin dall’epoca di Innocenzo III (1160-1216), di solito per lunghi periodi e che a volte eccedevano i mesi estivi nei quali sistematicamente i papi si allontanavano dalla calura e dalla malaria che infestava Roma. Matteo Paris scrive che Gregorio IX (1170-1241) «aveva molti calcoli, era molto vecchio e aveva bisogno di bagni in cui era solito ristorarsi a Viterbo». Non è pertanto un caso che alti prelati, come l’astronomo Campano da Novara († 1296), abbiano investito somme ingenti a Viterbo nella costruzione di importanti dimore.

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Dossier «Motivazioni igienico-sanitarie – ha rilevato lo storico Agostino Paravicini Bagliani – costituiscono la trama di fondo dell’impressionante mobilità curiale duecentesca, anche là dove i piú impellenti problemi politici sembrano fornire al fenomeno spiegazioni apparentemente piú sicure». Per l’abate di Andres, Viterbo è in questo periodo una seconda Roma, proprio in ossequio a quella riflessione giuridica che nel Duecento affermava: «Ubi papa, ibi Roma». E persino nel prezzo degli affitti si trova un riflesso della presenza dell’illustre ospite: la cifra di locazione delle case quadruplicava quando il pontefice giungeva in città.

A destra Acquapendente. La cripta del Santo Sepolcro. Seconda metà del X sec. In basso miniatura raffigurante un lebbroso che agita una battola per annunciare la propria presenza. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Acque salutari

L’uso di sorgenti d’acqua termale per scopi terapeutici si trasforma in un vero e proprio termalismo organizzato tra il XIV e il XV secolo, a volte con l’intervento delle autorità pubbliche o delle élite urbane, che ne valutano il potenziale politico a favore di una città e del suo territorio. Di pari passo, la scienza medica inizia a occuparsi delle proprietà curative delle acque calde, sviluppando una letteratura specializzata sull’argomento che non esisteva nei secoli precedenti. Pertanto il fenomeno del pellegrinaggio diretto a Roma vede in Viterbo una delle tappe fondamentali, proprio in relazione alle straordinarie proprietà curative delle sue acque, capaci di offrire sollievo a una lunga serie di tormenti (scabbia, rogna, lebbra, fuoco di Sant’Antonio, carbonchio, ecc.) che affliggevano i viandanti.

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Verso la fine del 1299 iniziò, lungo ogni via diretta a Roma, un grande transito di pellegrini che si protrasse per tutto il 1300, anno del primo Giubileo. Questo flusso straordinario spinse il rettore del Patrimonio di San Pietro in Tuscia – il vescovo Teodorico, cardinale di Santa Croce in Gerusalemme, insediato nella rocca di Montefiascone – a collocare, come monito diretto ai ottobre

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ni ai danni dei viandanti. Bonifacio VIII (1235-1303) non aveva esitato a ricorrere alla suprema arma della scomunica contro chi avesse fatto violenza ai pellegrini, assalendoli e derubandoli; ciononostante, secondo alcune testimonianze, nel Giubileo del 1350, metà dei romei vennero taglieggiati o uccisi.

Vittime designate

malviventi che attentavano all’incolumità dei pellegrini, una serie di patiboli in bellavista sul poggio di monte Arminio, al confine tra Montefiascone e Viterbo. Da quel momento, perciò, il colle di monte Arminio venne chiamato anche poggio delle Forche (podium Furcarum). L’usanza di esibire strumenti di morte in prossimità della strada, a rincoramento dei passanti e terrore dei molti malandrini

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che infestavano quella boscosa contrada, dovette conservarsi per diversi secoli se, come ricorda Pietro Aretino nel Ragionamento e Dialogo del 1536, «ne la selva di Montefiascone, in su l’alba del dí urtai con la spalla nel petto d’uno impiccato». La decisione del rettore del Patrimonio di esporre le forche sulla via per Roma costituiva un tentativo di arginare le rapine e le vessazio-

Racconta il cronista fiorentino Matteo Villani (1288-1363): «La citate de Roma stava in grannissima travaglia. Rettori non avea. Onne díe se commatteva. Da onne parte se derobava. Dove era luoco, le vergine se detoperavano (...) Li pellegrini, li quali viengo per merito delle loro anime alle sante chiesie, non erano defesi, ma erano scannati e derobati (...) cominciando alcuni ladroni a rubare e a uccidere in terra di Roma, da’ romei medesimi erano morti e presi, atando a soccorrere l’uno l’altro. I paesani faceano guardare i cammini, e spaventavano i ladroni (...) e per questo il popolo era in male stato, la città dentro piena di malfattori, e fuori per tutto si rubava. E’ forestieri e’ romei erano in terra di Roma come le pecore tra’ lupi». Della pesante situazione è indizio – qualche decennio piú tardi – anche l’episodio di un giovane bresciano, il notaio e scrittore Bartolomeo Bayguera (1380 circa-1458 circa), il quale, nell’estate del 1405, partito da Mantova per Roma, dopo diversi giorni di cammino giunse nei pressi del lago di Bolsena. Dopo aver passato una notte all’addiaccio in un borgo diruto, il ragazzo raggiunse, nel giorno successivo, l’urbicula Montefiascone, ove si ristorò con del buon vino, bevuto, secondo le sue abitudini, in modica quantità; vi si fermò soltanto un’ora, perché già vedeva le tante torri di Viterbo (innumeris apparet turríbus urbem). A Viterbo, dove voleva fermarsi soltanto una notte, lo avvertirono che la vicina città di Soriano era nelle mani del profanus Giovannetto da Montemagno, tiranno sempre

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Dossier la rocca dei papi

Un presidio strategico Nel Medioevo, Montefiascone è stata a lungo residenza della corte pontificia e gli attuali resti del palazzo della Rocca testimoniano parzialmente lo splendore dell’originale fortezza papale. Sorto agli albori dell’organizzazione temporale della Chiesa, l’insediamento fortificato ha comunque origini piú antiche, collocabili alla fine del XII secolo, quando Innocenzo III (1160-1216), che l’aveva scelto come sede del rettore del Patrimonio, entrato in Montefiascone dispose importanti

interventi strutturali nell’impianto urbanistico del borgo. In quell’occasione, il papa fece costruire nei pressi del castello una piccola chiesa; poi, per poter realizzare un solido muro di collegamento tra il castello e il castrum, con un’unica porta d’accesso per lo stesso castello e per il borgo, fece demolire le case che si trovavano in quello spazio. Il possesso della posizione strategica del Castrum di Montefiascone, da cui è possibile abbracciare con lo sguardo i monti della Toscana, l’Umbria e il

In alto Siena, Palazzo Pubblico, Sala della Pace. L’immagine di un impiccato nell’Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo, il ciclo di affreschi di Ambrogio Lorenzetti. 1338-1339. A destra un’altra immagine della Rocca dei Papi. Oltre che presidio militare, l’edificio accolse a piú riprese papi, imperatori e personaggi illustri.

pronto alla rapina e alla violenza; nessuno aveva potuto aver ragione di lui, né con l’ingegno né con la forza. Bartolomeo si vide quindi costretto ad aspettare che si radunasse un gruppo di romei per proseguire tutti insieme. La sosta forzata si protrasse per dieci giorni, tempo sufficiente a radunare una turba viatorum – composta da una decina di armati a cavallo e da circa trecento persone, la maggior parte delle quali armate di lance ferrate, archi, balestre e pugnali – con cui affrontare i pericoli del viaggio. La notizia, oltre a ragguagliarci sui pericoli sempre presenti lungo la strada romea, si rivela utile anche ai fini di un approssimativo calcolo della quantità di viandanti che me-

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litorale laziale, si era infatti rivelato presupposto determinante nella difesa del Patrimonium Beati Petri, in quanto, proprio qui, le rivendicazioni temporali della Chiesa si erano scontrate piú volte con quelle imperiali. Federico Barbarossa, nel 1185, vi aveva emanato un diploma

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a favore della città; Ottone IV ed Enrico VI vi avevano insediato un castellano imperiale, facendo della città il capoluogo amministrativo piú meridionale del regno degli Svevi. Nel 1353, vi giunse il cardinale spagnolo Egidio Albornoz (1310-1367), con il compito di riaffermare l’autorità della Chiesa su tutte le terre che si erano ribellate. Il castello della Rocca divenne allora la piú temibile centrale operativa dell’esercito pontificio. Nel 1368 vi soggiornò

Urbano V, reduce da Avignone, e, nel 1369, lo stesso papa elevò Montefiascone al rango di città, dotandola di una propria diocesi. Una moltitudine di pontefici e di celebrità animò nei secoli successivi le austere sale del palazzo; tra di loro, possiamo ricordare san Bernardino da Siena, Pio II, Cesare Borgia, Giulio II, Michelangelo, Leone X, Giuliano da Sangallo, l’imperatore Carlo V, Paolo III. Poi, lentamente, il declino, dovuto all’inutilità di una fortificazione cosí potente in un territorio definitivamente assoggettato all’autorità della Chiesa.

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i primi giubilei

Tutti a Roma! Con l’istituzione del Giubileo, il papa offriva la possibilità di una remissione totale dei peccati, in modo – questa era la speranza – che potesse «crescere la pietà del popolo romano e di tutti i fedeli». Lo stesso Bonifacio VIII, il 17 gennaio del 1300, fece della processione con il velo della Veronica la prima grande manifestazione dell’istituzione giubilare. Per i Romani era indicata la visita delle basiliche prescritte (S. Pietro in Vaticano e S. Paolo fuori le Mura), una volta al giorno, per un periodo di trenta giorni, mentre per i pellegrini venuti da fuori ne sarebbero stati sufficienti quindici. Chi non era riuscito a mettersi in viaggio verso Roma avanzò la richiesta direttamente al pontefice per ricevere un privilegio, ossia la possibilità di ottenere l’indulgenza pur restando lontano dall’Urbe: come fecero per il Giubileo del 1350 anche il re di Cipro, il re di Castiglia – che motivò la richiesta con la necessità di non lasciare indifese le frontiere con il regno islamico di Granada –, Elisabetta d’Ungheria, i membri della famiglia reale d’Inghilterra, e l’intero popolo dell’isola di Maiorca che, pur evitando i pericoli di un lungo viaggio verso Roma, ottenne l’indulgenza dopo aver versato nelle casse della Camera Apostolica 30 000 fiorini, da destinare a opere pie. Secondo il cronista Matteo Villani, a Roma, per il Giubileo sarebbero giunti 1 milione e 200 000 pellegrini, provenienti da quasi tutta Europa: una stima verosimilmente esagerata, tanto piú che la capitale difficilmente avrebbe potuto garantire l’accoglienza a una simile folla di fedeli. Nella sua Cronaca (I, 58), cosí racconta il secondo Giubileo del 1350: «Il dí di Natale, cominciò la santa indulgenzia a tutti coloro che andarono in pellegrinaggio a Roma, faccendo le vicitazioni ordinate per la santa Chiesa alla bassilica di Santo Pietro e di San Giovanni in Laterano e di Santo Roma, basilica di S. Giovanni in Laterano. Affresco che raffigura la promulgazione dell’indulgenza dell’anno centenario 1300 da parte di Bonifacio VIII. L’opera viene attribuita dalla tradizione storiografica a Giotto, senza alcun dato storico-documentario. In origine, la scena faceva parte del ciclo pittorico della Loggia delle Benedizioni, costruita per volere dello stesso Bonifacio VIII.

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Paolo fuori di Roma: al quale perdono uomini e femine d’ogni stato e dignità concorse di Cristiani, maravigliosa e incredibile moltitudine, essendo di poco tempo inanzi stata la generale mortalità, e ancora essendo in diverse parti d’Europa tra’ fedeli cristiani; e con tanta divozione e umiltà seguieno i romeaggio [pellegrinaggio] che con molta pazienza portavano il disagio del tempo, ch’era smisurato freddo, e ghiacci e nevi e aquazzoni, e le vie per tutto disordinate e rotte, e i camini pieni di dí e di notte d’alberghi, e le case sopra i camini non erano sofficienti a tenere i cavalli e li uomini al coperto. Ma i Tedeschi e li Ungheri in gregge, e turme grandissime, la notte stavano al campo stretti insieme per lo freddo, atandosi con gran fuochi. Per li ostellani non si potea rispondere, non che a dare il pane, il vino e la biada, ma di prendere i denari. E molte volte avenne che i romei [pellegrini] volendo seguire il loro camino, lasciavano i denari del loro scotto sopra le mense, seguendo il loro viaggio: e non era chi li togliesse de’ viandanti, infino che dall’ostelliere venia chi li togliesse. Nel camino non si facea riotte né romori ma comportava e aiutava l’uno a l’altro con pazienza e conforto. E cominciando alcuni ladroni a rubare e a uccidere in terra di Roma, da’ romei medesimi erano morti e presi, atando a soccorere l’uno l’altro. I paesani facieno guardare i camini, e spaventavano i ladroni: sí che secondo il fatto, assai furono sicure le strade e’ camini tutto quell’anno. La moltitudine de’ Cristiani ch’andavano a Roma era impossibile a numerare: ma per stima di coloro ch’erano risedenti nella città che il dí di Natale, e di giorni solenni apresso, e nella quaresima sino alla Pasqua della santa Resurressione, al continovo fossono in Roma romei dalle mille migliaia alle dodici centinaia di migliaia».

diamente transitava nel territorio: durante la buona stagione di un anno non giubilare dell’inizio del XV secolo, sembra lecito supporre che ogni giorno vi passassero mediamente 30-40 viaggiatori, appartenenti a categorie diverse. Oltre ai pellegrini, infatti, erano frequentemente in viaggio mercanti, militari, politici, studenti, artisti e malfattori di ogni sorta, con una velocità media di spostamento pari a 25/30 chilometri al giorno.

Nonostante la protezione offerta dai vari santi continuamente invocati dai viandanti, non mancavano lungo il cammino avversità di vario genere e d’imprevedibile natura; eloquente, a questo proposito, si rivela la disavventura occorsa a Francesco Petrarca (1304-1374), in viaggio verso Roma per il Giubileo del 1350, proprio nel tratto di strada tra Bolsena e Montefiascone, da lui stesso narrata in una lettera indirizzata a Giovanni Boccaccio: «Preso

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Le sette Chiese di Roma, incisione di Antonio Lafrery da Speculum Romanae Magnificentiae. 1575. Roma, Istituto Nazionale per la Grafica. La tradizione di percorrere l’itinerario devozionale ed espiatorio che comprendeva la visita alle sette chiese maggiori di Roma si diffuse dalla metà del XIV sec., consolidando un uso, quello del pellegrinaggio ai luoghi santi, che risaliva agli albori dell’era cristiana. All’inizio del Trecento compaiono i primi itinerari che menzionano le indulgenze che potevano ottenersi compiendo il percorso che, partendo dalla basilica di S. Pietro (1), conduceva verso S. Paolo fuori le Mura (2), S. Sebastiano sull’Appia (3), S. Giovanni in Laterano (4), S. Croce in Gerusalemme (5), S. Lorenzo fuori le Mura (6), per concludersi alla basilica di S. Maria Maggiore (7).

commiato da te, come tu sai, mi misi in viaggio per Roma, dove, in quest’anno, da ogni parte del mondo, convergono quasi tutti i cristiani peccatori (...) Non fu davvero poco il male che la maligna sorte mi arrecò e che ormai è tempo di raccontare. Ero da poco partito da Bolsena, città un giorno fra le capitali d’Etruria e oggi modesta e povera terra. Ansioso moveva il passo per rivedere la quinta volta la città santa [quando] il cavallo d’un vecchio abate, che veniva dalla mia sinistra, fu portatore d’una vera sinistra ventura, tirando calci contro il mio cavallo, e invece di quello, colpendo me nel punto dove la tibia si congiunge al poplite, con tale scricchiolio d’ossa infrante, che molti accorsero per vedere ciò che fosse accaduto. Sopraffatto dal dolore, pensai di sostare, ma mi fece paura la povertà del luogo, e, fatta di necessità virtú, come meglio potei, giunsi sulla sera a Viterbo, e di lí, a mala pena, con altri tre giorni di viaggio, venni a Roma (...). Da Roma, il 2 novembre. Nel cupo silenzio della notte».

La delusione di Brigida

Il grande poeta che si recava nel la capitale della cristianità quasi allo scadere dell’anno giubilare, era stato uno dei piú ostinati sostenitori della necessità di un Giubileo cinquantenario, tale da riaffermare a Roma la centralità del potere spirituale e temporale del pontefice – allora residente ad Avignone – e le sue pressioni su Clemente VI furono, in questo senso, determinanti. Nello stesso anno giungeva a Roma, non percorrendo la Francigena, ma risalendo il corso del Tevere da Ostia, dov’era sbarcata, Brigida di Svezia (1303-1373), ispirata da una rivelazione divina: «Va’ a Roma, dove le vie sono lastricate d’oro e gli embrici sono di sangue dei martiri, e da dove è piú breve la via della salvazione: colà attendi finché non avrai parlato col Papa e con l’Imperatore». Non era al suo primo pellegrinaggio: una ventina d’anni prima si era recata in compagnia del marito Ulf, governatore dell’Östergöt-

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Dossier I santi protettori dei pellegrini

La guardia pretoriana e il Cananeo «di terribile aspetto» Per scongiurare i pericoli del percorso e i gravi malanni che insidiavano la salute, gli inermi e vulnerabili pellegrini potevano soltanto confidare nella protezione e nella potenza taumaturgica dei santi e, in particolare, di quelli ufficialmente considerati patroni dei viandanti. Le immagini dei santi Cristoforo, Rocco, Sebastiano e Pellegrino compaiono infatti frequentemente nelle chiese poste sulle direttrici degli itinera. Anche nella basilica di S. Flaviano esisteva un grande san Cristoforo, di cui oggi rimane un malridotto lacerto, probabilmente dipinto per soddisfare le esigenze religiose dei pellegrini. A poca distanza da questo si trova l’immagine del martire Sebastiano, santo che, insieme a Rocco, era considerato uno dei piú efficaci depulsores pestilitatis. Un san Sebastiano e un san Rocco si trovano affrescati anche in una absidiola del santuario di S. Maria delle Grazie, chiesa inserita nell’omonimo ospedale costruito lungo la direttrice romea proveniente da Firenze. Verso la fine del Medioevo si iniziarono poi a celebrare messe specifiche, in onore di san Raffaele e dei re Magi, patroni dei pellegrini. Quando infuriava la peste, era invocato in particolare san land, al santuario di S. Giacomo di Compostela; ma mentre il santuario galiziano non l’aveva delusa, la città di Roma, giungendo dalla diruta basilica di S. Paolo, le era sembrata addirittura avvilente: «Ohimè, maestro Pietro, è questa Roma?». Passato il Giubileo, fallito l’appuntamento col papa e con l’imperatore, la santa veggente partí da Roma per andare in Terra Santa, ove, alla bianca conchiglia di Compostela e alla Veronica di Roma, aggiunse la palma d’oltremare (i tre simboli dei tre maggiori luoghi di pellegrinaggio). Ci vollero altri vent’anni prima che Brigida giungesse a Montefiascone per ricevere la regola del suo ordine dal pontefice Urbano V (1310-1370), in quel tempo insediato nella rocca posta al culmine del colle, e per implorare lo stesso papa a non lasciare l’Italia. Questo secondo Giubileo della storia della Chiesa, nonostante

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Sebastiano, nativo di Narbona e cittadino di Milano, che fu guardia pretoriana di Diocleziano nella prima metà del IV secolo. Durante il suo martirio venne condannato a morte mediante il supplizio delle frecce e sopravvisse miracolosamente ai colpi infertigli dai commilitoni. Curato da santa Irene, si presentò di nuovo al cospetto dell’imperatore, il quale ordinò che fosse ucciso a bastonate. Le ferite causate dalle frecce sono paragonate ai segni (bubboni) della peste, e, al tempo stesso, l’ira divina è paragonata alle frecce scagliate da un arco, che colpisce i peccatori del suo popolo. Diffusissimo anche il culto per san Rocco, francese, nato a Montpellier in una famiglia agiata della grande borghesia mercantile tra il 1345 e il 1350. Secondo la tradizione, una volta morti i genitori e donate ai poveri tutte le sue ricchezze, lasciò la Francia e venne in Italia, dove infuriavano pestilenze e guerre, con lo scopo di curare i pellegrini ammalati. A Piacenza, dove giunse nel luglio 1371, mentre assisteva gli ammalati di peste dell’Ospedale di S. Maria di Betlemme, si ammalò egli stesso. Tormentato da un dolorosissimo bubbone all’inguine, fu allontanato dagli

gli innegabili vantaggi materiali che comportò per le località situate lungo le direttrici romee – fu il Anno del Jubileo, et rimasero in Viterbo assai denari da quelli che andavano a Roma (narra il cronista Lanzillotto Viterbese) –, segnò anche l’accentuarsi di una serie di conflitti proprio all’interno della Provincia del Patrimonio di San Pietro.

Razzie e devastazioni

Per contrastare le bande del capitano di ventura tedesco Werner (Guarnieri) von Urslingen (1308-1354) di passaggio nella Tuscia, Clemente VI sollecitò energici provvedimenti di difesa, confidando nel rettore Giacomo de’ Gabrielli, residente a Montefiascone, in grado di attendere – come affermava lo stesso pontefice – ai piú disperati negozi. Purtroppo la situazione venne aggravata dall’alleanza che il viterbese Giovanni Di Vico, per allontanare il flagello dalle sue terre

e per partecipare al saccheggio delle altre, fece con il mercenario, e grandi furono le devastazioni commesse. Feroce e spietato, il Guarnieri portava scritto sulla corazza «Nemico di Dio, della pietà e della misericordia». Alcuni anni prima, nel 1328, a causa dell’invasione delle truppe dell’imperatore Ludovico IV il Bavaro (1282-1347), sciagure simili a quelle arrecate dal Guarnieri avevano colpito le terre del Patrimonio. In quell’occasione erano stati saccheggiati e danneggiati anche molti degli ospedali che si trovavano sulla via romea tra cui, certamente, quello di Montefiascone. In un breve del 9 marzo 1333, da Avignone, papa Giovanni XXII, prendendo atto del grave episodio, interviene concedendo indulgenze a chiunque avesse collaborato alla costruzione del nuovo ospedale, dedicato alla Madonna delle Grazie, che la comunità di Montefiascone stava allora erigendo. ottobre

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Montefiascone, chiesa di S. Maria delle Grazie. Affresco raffigurante i santi Sebastiano (a sinistra) e Rocco. Fine del XV sec.-inizi del XVI sec.

altri ammalati, stanchi dei suoi lamenti. Trascinatosi fino a Sarmato (a 17 km dalla città), Rocco si riparò in una grotta ad aspettare la morte. Fu salvato da un cane, che, accortosi della sua presenza e della sua sofferenza, gli portò ogni giorno un pezzo di pane, fino alla sua guarigione. Una volta guarito, Rocco non tornò in Francia, ma riprese la sua attività a favore degli appestati per la quale ancora oggi è ricordato. Il santo piú invocato contro la morte improvvisa, altro terrore di ogni uomo medievale, era san Cristoforo: bastava guardare la sua immagine al mattino, appena svegli, per assicurarsi la salvezza nell’intero corso della giornata. Cristoforo era un gigante pagano («cananeo dell’altissima statura di dodici cubiti e di terribile aspetto») che aiutava alcuni viaggiatori a guadare il corso di un fiume. Un giorno trasportò sulle spalle un bambino che diventava sempre piú pesante man mano che il santo procedeva. Cristoforo si appoggiava a un tronco d’albero che rischiava di rompersi e riuscí a raggiungere l’altra sponda e solo allora riconobbe nel piccolo passeggero Gesú Bambino, il quale, come segno della propria divinità, trasformò il tronco d’albero in una palma da frutti. Il nome «Cristoforo», portatore di Cristo, si riferisce infatti a tale episodio. In un certo senso, l’uomo del Medioevo è un pellegrino sempre, in ogni attimo della sua vita. Ma l’attrazione verso quegli elementi materiali della Città di Dio sparsi sulla terra danno ulteriore tensione e movimento allo spirito religioso.

Pellegrini per sempre

Ha sottolineato il grande storico Jacques Le Goff come ogni uomo medievale abbia continuamente cercato di evadere dalla propria vita, e il fenomeno del pellegrinaggio rientra perfettamente in questa evasione. Il cammino è l’unico modo per mettere in moto un reale cambiamento, è l’atto volontario con il quale un uomo abbandona i luoghi a lui consueti, le proprie abitudini e il proprio ambiente affettivo per recarsi in religiosità di spirito fino al santuario che si è liberamente scelto o che gli è stato imposto dalla penitenza. Oggi come allora, pellegrini anti-

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chi e contemporanei sperimentano come alla fine del viaggio la geografia fantastica si confonda con quella reale, ma l’inquietudine originaria è in parte sopita; non solo tensione religiosa, dunque, ma, fatalmente, desiderio di conoscenza che si de-

clina in forme diverse è alla base di ogni cammino, del passato e del presente. Al centro di tutto è Roma, carica di simboli e di significati, non solo religiosi, luogo al tempo stesso immaginario e reale, in cui ogni salvezza sembra possibile. V

Da leggere

Dove e quando

U Paolo Caucci von Saucken (a cura

Informazioni su Montefiascone sono disponibili nella sezione Turismo e Cultura del sito web del Comune: www.comune. montefiascone.vt.it Ricordiamo, inoltre, che la Rocca dei Papi ospita il Museo dell’architettura di Antonio da Sangallo il Giovane, aperto da martedí a domenica (10,00-13,00 e 16,00-19,00) e chiuso il lunedí; info: tel. 0761 832060; e-mail: museosangallo@ comune.montefiascone.vt.itb

di), Il mondo dei pellegrinaggi. Roma, Santiago, Gerusalemme, Jaca Book, Milano 1999 U Paolo Caucci von Saucken (a cura di), Francigena: santi, cavalieri, pellegrini, Serra Club International, Milano 1999 U Giancarlo Breccola, Montefiascone: un paese sulla via dei pellegrini, in La Voce, Montefiascone 2000 U Renato Stopani, La Via Francigena. Storia di una strada medievale, Le Lettere, Firenze 1998

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Trifone si è fermato qui Nell’809, le spoglie del martire, messo a morte nella prima metà del III secolo, viaggiavano alla volta di Venezia. Ma una tempesta obbligò la nave che le trasportava a fare scalo a Cattaro, dove i sacri resti furono condotti a terra, ponendo fine alla traslazione. Il porto montenegrino divenne ben presto uno dei centri piú importanti del culto tributato al santo, dando ulteriore impulso alla fioritura che lo contraddistinse nell’età di Mezzo testo e foto di Gianluca Baronchelli

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Cattaro. Una veduta della Porta Gurdic, ovvero la Porta Sud. La struttura oggi visibile risale in parte al XIII sec. ed è provvista di un ponte levatoio sulla sorgente del fiume Gurdic, da cui prende nome.

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l mare era mosso, il 13 gennaio 809, e la navigazione impossibile. Il comandante della nave salpata da Costantinopoli per Venezia decise di riparare nella baia di Cattaro (Kotor, nell’odierno Montenegro). Ripartí piú leggero e piú ricco, quando il mare si placò: il suo carico piú prezioso, le reliquie del santo martire Trifone, non giunsero mai a destinazione. Furono sbarcate a Cattaro per volere del nobile Andrea Saracenis e di sua moglie Maria, che le acquistarono per la città. Questa è la storia, ma se chiedi a un anziano abitante di raccontartela, mentre ti godi una birra e la piazza delle Armi, questi non mancherà di aggiungere che fu proprio il santo a scatenare il fortunale, perché è qui che voleva restare. Venne costruita una chiesa, in omaggio a san Trifone, agli inizi del IX secolo, e in seguito una cattedrale, consacrata nel 1166. Vuoi per la protezione del santo, o piú prosaicamente per la possente cinta muraria, eretta anch’essa

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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Bocche di Cattaro

a partire dal IX secolo, la città cominciò a prosperare, grazie ai commerci marittimi e, in seguito, terrestri, soprattutto di metalli preziosi provenienti dalle miniere dell’entroterra. Sin dal IX secolo vi era una zecca con diritto di conio; si organizzarono ben presto confraternite e corporazioni, e, nel XIII secolo, Cattaro aveva già una scuola dell’obbligo, mentre è del 1326 la prima menzione di una farmacia. Architetti, orafi, pittori e poeti cattarini cominciarono a essere conosciuti ben oltre i confini della regione. A Kotor, oggi, il Medioevo si respira potente, improvviso, tra un dedalo di vicoli lastricati in marmo bianco e rosso, piazze nascoste e chiese. E non può che partire dalle chiese il nostro giro: se ne contano una trentina, ben sei delle quali edificate tra il XII e il XIV secolo: S. Trifone (1166), S. Luca (1195), S. Maria (1221), S. Paolo (1263), S. Anna (fine XII) e S. Michele, (fine del XIII-inizi del XIV secolo). Templi cattolici e ortodossi, a testimoniare ottobre

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A sinistra San Trifone ammansisce il basilisco, dipinto su tavola di Vittore Carpaccio. 1507. Venezia, Scuola Dalmata di S. Giorgio degli Schiavoni. L’opera rappresenta il miracolo piú noto del santo: secondo la tradizione, la figlia dell’imperatore Gordiano III (238-244) era posseduta dal demonio e soltanto il fanciullo Trifone riuscí a liberarla dallo spirito maligno, dipinto come un basilisco. In basso uno scorcio di Cattaro, vista dal forte di San Giovanni.

una storia – spesso dimenticata – di tolleranza religiosa piú che di divisioni. Emblema di questa convivenza, sopra tutte, è la chiesa di S. Luca: sorse nel 1195, come luogo di culto cattolico, per volere di Mauro Casafranca e della moglie Bona; sopra al portale, una lastra di pietra ne attesta la costruzione durante il regno del re serbo Stefano Nemanja e di suo figlio Vukan. Oggi è riservata al culto ortodosso, ma, dal 1657 al 1812, cattolici e ortodossi vi convissero, alternandosi nelle celebrazioni sui due altari affiancati. Al suo interno, sulla parete sud, è ancora visibile un esteso frammento degli affreschi originari in cui sono raffigurati i santi Silvestro, Barbara e Caterina (inizi del XIII secolo).

Veneranda, protettrice dei macellai

Un vicolo, cinquanta passi appena ci separano dalla cattolica chiesa di S. Anna. Come S. Luca, presenta una navata unica, ma qui la cupola è andata distrutta a causa del terremoto del 1667: sulla facciata si intravede un affresco (XIII secolo) raffigurante san Cristoforo, protettore dei viaggiatori. All’interno sono individuabili tre strati di pitture murali (inizi del XIII, XIV e XV secolo) ed è conservata una splendida, delicatissima raffigurazione a rilievo in pietra di santa Veneranda, protettrice della Confraternita dei Macellai. A due passi dalla Porta del Fiume, a nord della città, all’ingresso delle mura cittadine, si trova S. Maria, edificata nel 1221 sulle fondamenta di una basilica del VI secolo, della quale si conservano ancora i resti del fonte battesimale nella sacrestia. L’edificio, in stile romanico, ha pianta longitudinale, navata unica e cupola ottagonale. La facciata alterna blocchi di pietre bianche e ros-

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medioevo nascosto cattaro nizio del XIV secolo sui resti di un precedente edificio di culto. A navata unica, presenta un’abside semicircolare con affreschi del XV secolo. Oggi ospita il lapidarium della città, e «presta il fianco», letteralmente, a un caffè-bar alla moda.

Rifacimenti e restauri

Il cerchio si chiude con la cattedrale di S. Trifone: girateci attorno, se ne avete il tempo, alle prime luci dell’alba o al crepuscolo, quando l’illuminazione delle fortificazioni che le proteggono le spalle abbraccia l’edificio, le due torri campanarie e la piazza. La chiesa attuale, consacrata nel 1166, mostra i molti rimaneggiamenti operati nel corso del XIV e del XVII secolo. L’edificio originario era una basilica a tre navate con cupola, un atrio e due campanili a quattro piani. Nel corso dei rifacimenti seicenteschi fu eliminata la cupola, e, dopo la grave distruzione causata dal terremoto del 1667, furono innalzati i nuovi campanili in stile barocco – quello di sinistra non fu mai ultimato – e vennero inseriti il grande archivolto sopra il portale e il rosone. L’interno è un piccolo capolavoro di architettura gotico-romanica, in cui colonne corinzie si alternano a possenti pilastri in pietra rosa, a sostenere le coperture a volta. Tra i suoi gioielli, la pala d’oro dell’altare con le effigi di venti santi, mentre san Trifone tiene in mano la città di Cattaro; e, ancora, il ciborio, riccamente ornato a rilievo con scene della vita del santo. L’abside conserva frammenti degli affreschi del XIV secolo, con scene della crocefissione e della deposizione dalla croce.

CHIESA DI S. LUCA

In alto l’interno della chiesa, edificata nel 1195 per volere di Mauro Casafranca e della moglie Bona. Nata come tempio cattolico, è oggi riservata al culto ortodosso; tuttavia, fra il 1657 e il 1812, vi furono officiati i riti di entrambe le dottrine, che si alternavano sui due altari affiancati. A destra la lastra in pietra che attesta la costruzione della chiesa negli anni in cui regnarono il re serbo Stefano Nemanja e suo figlio Vukan.

se, con un rosone centrale e decorazioni ad archetti. Nel presbiterio sono ancora visibili frammenti delle pitture murali della fine del XIII secolo, mentre risalgono al XIV gli affreschi della controfacciata, di scuola greca. Riperdetevi nei vicoli della cittadina… Con una mappa in mano, bastano tre minuti, ma è forse piú divertente arrivarci per caso, come in tutte le altre: eccoci alla chiesa di S. Michele, eretta tra la fine del XIII e l’i-

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Salendo alla cappella del reliquiario, sotto la gradinata è situato il fonte battesimale del IX secolo. È di grande suggestione la vista sulle navate che si può godere dalla trifora (XII secolo) del matroneo. Lungo il percorso espositivo sfilano icone, un crocefisso ligneo del 1288, pale, reliquiari e matricole, come quella della Confraternita dei Macellai di S. Veneranda del 1491. Dietro alla grata della cappella hanno trovato ottobre

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CHIESA DI S. ANNA

Uno scorcio della chiesa cattolica intitolata a sant’Anna, nascosta fra i vicoli del centro storico di Cattaro. Era in origine dotata di una cupola, crollata in seguito al sisma che scosse la città montenegrina nel 1667.

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medioevo nascosto cattaro TORRE DELL’OROLOGIO

Didascalia È uno dei simboli di Cattaro. La sua aliquatur costruzione adi odis fu avviata nel 1602, ma que vero si suppone ent qui che non fosse ancora doloreium terminata conectu nel 1667, all’epoca del rehendebis terremoto, eaturperché in quell’occasione tendamusam la struttura si inclinò sul lato ovest. consent, In seguito, perspiti si cercò di correggere conseque l’anomalia, nis ma dopo il disastroso sisma maximdel eaquis 1979 la Torre si è di nuovo inclinata. earuntia cones apienda.

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pace alcune reliquie di santi tra cui quelle dello stesso Trifone, venerato sia dalla Chiesa cattolica sia da quella ortodossa (vedi box a p. 101).

Ripetuti passaggi di mano

Cattaro medievale, dunque, ma non solo. Vale certamente la pena di ripercorrere velocemente la storia di questa splendida cittadina, dichiarata dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità sin dal 1979. Fu fondata in epoca romana, quando era conosciuta con il nome di Acruvium e faceva parte della provincia della Dalmazia. Al crollo dell’impero romano d’Occidente, nel 476, divenne parte di quello d’Oriente, salvo brevi interruzioni, fino al 1185. Alla metà dell’XI secolo la dominazione bizantina su Cattaro fu sostituita dal regno della dinastia dei Vojislavljevic, principi di Doclea (Duklija) e Zeta. Tornata sotto il governo bizantino nel XII secolo, nel 1185 la città viene annessa alla Rascia (Raška), lo Stato serbo medievale retto

CHIESA DI S. MICHELE

A sinistra l’abside della chiesa, che conserva resti di affreschi databili al XV sec. Il luogo di culto fu innalzato tra la fine del XIII e gli inizi del XIV sec. sui resti di una basilica piú antica. In alto particolare di una delle sculture che fanno parte del lapidarium allestito all’interno del tempio. Raccoglie materiali provenienti da Cattaro e dal suo territorio.

Molte chiese di Cattaro, prima fra tutte quella di S. Luca, offrono una testimonianza straordinaria della pacifica convivenza tra i seguaci della religione cattolica e quelli del culto ortodosso MEDIOEVO

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il tesoro e il museo d’arte sacra

Le traversie di una collezione di gran pregio Risale al 6 aprile del 1431 la decisione del Piccolo e Dove e quando Segreto Consiglio di Cattaro di officiare, tre volte alla Orario estate, 9,00-19,00; settimana, una santa messa sullo scrigno delle reliquie inverno, 9,00-15,00 (capsam reliquiarum). Mezzo secolo prima, nel 1378, gran parte del tesoro era stata trafugata (furtum sacrum) dal condottiero veneziano Vettore Pisani. A Venezia e a Chioggia sono oggi custoditi diversi reliquiari gotici realizzati all’epoca dai maestri orafi cattarini. Il tesoro di S. Trifone non fu risparmiato neppure durante l’occupazione francese del 1813. Per numero e pregio dei pezzi, la collezione – che è oggi custodita tra la cappella delle reliquie e il museo d’arte sacra ospitato nel matroneo e nelle gallerie della cattedrale –, merita una visita attenta. In particolare, cinque nicchie di marmo poste dietro alla grata della cappella ospitano 58 reliquiari a forma di gamba, di braccio e di busto. La collezione è ordinata cronologicamente e copre un arco temporale che, partendo dal III-IV secolo giunge fino al Novecento.

CATTEDRALE DI S. TRIFONE

In alto uno dei preziosi reliquiari in oro e argento che fanno parte del tesoro della cattedrale di Cattaro. Nonostante saccheggi e spoliazioni, la raccolta può tuttora contare su numerosi manufatti, opera di maestri orafi cattarini. A sinistra consacrata nel 1166, la chiesa attuale è frutto dei numerosi rimaneggiamenti succedutisi tra il XIV e il XVII sec. Nel corso degli interventi operati all’indomani del terremoto del 1667, furono innalzati i due campanili in stile barocco – quello di sinistra non fu mai ultimato – e vennero inseriti l’archivolto sopra il portale e il rosone.

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dalla dinastia dei Nemanja. Il dominio serbo durò fino al 1371, anno in cui Cattaro cadde sotto il controllo di Ludovico I, re di Ungheria e Croazia. In seguito, dal 1384 al 1391, la città fu retta dal re di Bosnia Tvrtko; Cattaro fu città-stato indipendente dal 1391 al 1420, quando si pose sotto la protezione della repubblica veneziana, rimanendovi fino alla caduta della Serenissima nel 1797. Al primo periodo del governo austriaco della città, durato dal 1797 al 1805, seguí quello russo dal 1806-07, quindi quello francese dal 1807 al 1813. Una storia di conquiste, dunque, ma anche – soprattutto in epoca medievale – di autonomia e fiera libertà cittadina. Storia che, sommata alla naturale propensione al commercio e alle relazioni marittime, fece di Cattaro, come abbiamo visto, un luogo di incontro e sintesi tra molteplici culture. Il suo aspetto attuale si deve, in gran parte, alla dominazione veneziana. Eppure, a

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medioevo nascosto cattaro Il forte di San Giovanni

1350 gradini per un colpo d’occhio da non perdere Per leggerne l’impronta medievale, Cattaro va osservata dall’alto e dunque vale senz’altro la pena di salire al forte di San Giovanni (Sveti Ivan), percorrendo le mura e il sistema difensivo che fanno della città montenegrina un esempio pressoché unico di fortificazione urbana adriatica. Vi si può accedere dalla Porta Nord o dalla Scala Santa, dietro alla piazza dell’Insalata (Trg od Salate). Vi aspettano 1350 gradini, ma il panorama, gli scorci, il silenzio, i profumi e i colori della macchia mediterranea ripagano ogni sforzo. La costruzione della possente cerchia muraria cittadina iniziò nel IX secolo, e quella del sistema difensivo dei forti

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nel 1420, proseguendo sino al XVIII secolo. Lo sviluppo complessivo è di 4,5 km, con altezza variabile tra i 15 e i 20 m, e profondità compresa fra i 2 e i 15. Lungo tutto il percorso torri, bastioni e postazioni di guardia; la chiesa della Nostra Signora della Salute (1518) offre un momento di pace e riposo a metà della salita, mentre in cima, oltre al forte di San Giovanni, vi sono testimonianze della presenza illirica sul territorio. La valorizzazione del percorso fortificato passa anche attraverso una suggestiva illuminazione notturna, che rende l’intero complesso perfettamente leggibile dalla baia e dal cuore della cittadina.

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In alto cattedrale di S. Trifone. Particolare dell’affresco con scene della crocifissione e della deposizione dalla Croce. XIV sec. Nella pagina accanto un tratto del percorso che, snodandosi lungo le mura, sale al forte di San Giovanni. Il sistema difensivo è l’esito di varie fasi costruttive, succedutesi soprattutto tra il IX e il XIV sec., ma con interventi protrattisi fino al XVIII sec.

guardar bene, la commistione di stili è grandissima: romanico, gotico, barocco si mescolano, si rincorrono e si sovrappongono, a testimoniare l’abilità dei mastri costruttori del tempo, chiamati a salvare quel che si poteva, e a ricostruire quel che era andato perduto dopo ogni terremoto, ogni incendio.

Una posizione incantevole

All’unicità di questo luogo ha dato un contributo determinante la natura: Cattaro è protetta da uno splendido fiordo, stretta tra due sorgenti, dove il massiccio del Lovcen si tuffa nel mare Adriatico. L’imperatore bizantino Costantino Porfirogenito, nel De administrando imperio, scriveva: «Habet vero circum se Urbs illa montes altos, ita ut aestate tantum solem videat, quod tunc in medio Coeli sit, hyeme vero nunquam» («Quella città ha attorno a sé alte montagne, per cui soltanto d’estate vede il sole, e questo quando è allo zenit, mentre d’inverno non lo vede

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mai»). L’imperatore esagerava un po’: il sole, in verità, si dona generoso, soprattutto d’estate, disegnando chiaroscuri sui muri e sui selciati fino al tramonto. E il tramonto è, forse, l’ora migliore per entrare in città attraverso Porta Gurdic, ovvero la Porta Sud. È la piú nascosta, la meno frequentata dai turisti, e anche la piú antica tra le tre porte di accesso alla cittadina: risalente in parte al XIII secolo, è quella che meglio dona la sensazione di tuffarsi nel passato, attraversando il ponte levatoio sulla sorgente del fiume Gurdic. La Porta del Fiume (Porta Nord), nei pressi della chiesa di S. Maria, risale al 1540, e fu costruita per celebrare la vittoria dell’anno precedente sulla marina turca, mentre quella che oggi è la porta principale, Porta del Mare, fu costruita nel 1555. Attraversandola, si viene accolti dai rilievi in pietra (XIV secolo) raffiguranti la Madonna con Bambino e, a fianco, san Trifone e san Bernardo. Subito oltre, si apre piazza delle Armi: oggi come allora il salotto della città, con i suoi palazzi, le botteghe, le taverne. Sotto la Torre dell’Orologio sopravvive la colonna d’infamia, piramide in pietra presso la quale nel Medioevo venivano esposti alla berlina i condannati. Al suo fianco, per ironico e inconsapevole contrasto, comodi divanetti con soffici cuscini bianchi. D’altronde, come ci ricorda la torre dell’orologio, il tempo passa… F

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Visconti all’ombra della torre pendente 1

ARALDICA • Anche

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a Pisa, come già a Genova, molte casate insigni della nobiltà locale trassero la propria denominazione dalle cariche amministrative. «Illustrandola» con blasoni che vedono la diffusa presenza del rosso e dell’argento

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rattando dell’araldica delle famiglie che, piú o meno a buon diritto, vengono ritenute discendenti dai visconti cittadini genovesi, si è accennato (vedi «Medioevo» n. 224, settembre 2015), accanto alla ben nota casata legata a doppio filo all’episcopio milanese, a un’altra schiatta che deve le proprie fortune – oltre che il gentilizio – al medesimo ufficio: i Visconti pisani. Come i «colleghi» genovesi, costoro non traevano le proprie originarie prerogative pubbliche dal vescovo locale – che non aveva ricevuto espressa delega sovrana dei poteri comitali, ma, semmai, se n’era parzialmente appropriato in seguito alla precoce esautorazione dei conti cittadini –, ma dall’autorità marchionale. E, sempre analogamente ai visconti genovesi, quelli pisani seppero

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5. Stemma degli Scacceri, che inverte gli smalti di quello dei conti di Capraia.

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1. Stemmi dei Gherardeschi, rami dei conti di Donoratico e (parlante) di Castagneto, e dei Visconti pisani; il primo alludente forse ai giudicati di Gallura e Torres e alla parentela con re Enzo. 2. I Forcoli Mezziconti non a caso inquartano l’arme dei Gherardeschi conti di Donoratico, essendone ramo meno celebre che appoggiava il titolo comitale al luogo di Forcoli. 3. Stemma dei Visconti di Fucecchio, che ripete il partito-troncato dei Gherardeschi ma con gli smalti viscontili. anche patrimonializzare a proprio vantaggio il contenuto di derivazione pubblicistica della funzione viscontile (cioè il controllo, in primo luogo, sui macelli e i forni e altri diritti annonari), e, ben radicati in città – forti, probabilmente, anche del prestigio che la funzione militare e i successi contro i Saraceni loro concessero –, inserirsi, sin dagli esordi, in posizione di rilievo nel Comune consolare, senza tralasciare di entrare in proficui rapporti vassallatici con il vescovo cittadino.

Il gallo di Gallura Generalmente, gli armoriali pisani (fra cui il seicentesco Stemmario Pisano Orsini De Marzo, già Galletti, edito nel 2011 e che è la fonte di queste note) raffigurano, accanto allo stemma dei Visconti detti maggiori – un nobilissimo di nero, a tre

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4. Stemma dei conti di Capraia, ramo dei conti Alberti, in Sardegna giudici di Arborea e di un terzo del regno cagliaritano. 7. Stemma che sembrerebbe brisura di quello originario dei visconti pisani, o degli Assopardi.

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6. Stemma dei Capronesi, forse in qualche rapporto con quello dei Visconti cittadini possessionati in Sardegna. fasce d’oro –, altro blasone che inverte l’ordine degli smalti, allargando la prima fascia d’oro in un capo vero e proprio: per ospitarvi, suppongo, il gallo di Gallura di dantesca memoria posato sulla torre parlante del giudicato di Torres. Il tutto accostato da un’aquila imperiale, verosimilmente per ricordare l’alleanza matrimoniale mediata con la casa imperiale di Svevia. Ubaldo Visconti, figlio di Lamberto e di Eleonora ereditiera

8. Stemma degli Assopardi.

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del giudicato di Gallura, aveva infatti contratto matrimonio con Adelasia figlia di Mariano giudice di Torres, poi moglie di re Enzo, figlio naturale di Federico II e, appunto, rex Sardiniae: la loro figlia Elena sposò invece Guelfo di Ugolino della Gherardesca, una cui sorella andò invece in sposa a Giovanni, nipote ex fratre del suddetto Lamberto Visconti.

Diritti patrimoniali Tornando alla mensa vescovile pisana, quest’ultima poteva contare su un patrimonio di diritti di carattere eminentemente patrimoniale derivati dalla dissoluzione delle piú risalenti distrettuazioni, e, in primo luogo, dal progressivo sfaldamento della Marca di Tuscia all’indomani della scomparsa di Matilde, cosí come di quella Obertenga, già preceduto, d’altro canto, dalla ruralizzazione e marginalizzazione dei conti de civitate Pixarum al principio dell’XI secolo (sebbene sopravviventi in due stirpi che dinastizzarono il titolo funzionariale collegandolo ai luoghi di Montemassimo e di Porto). Nel 1113, con la scomparsa di Ugo/Ugolino III, a ciò si aggiunse, il venir meno della dinastia cadolingia dei conti di Pistoia e di Fucecchio: accanto ai conti Alberti, che ne avevano, grazie a legami matrimoniali, raccolto in gran parte

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1. Stemma degli Aurifici pisani, che traggono verosimilmente nome dall’attività orafa, la cui araldica è tuttavia affine a quella dei conti di Capraia. 2. Stemma dei Morovelli di Vico (Pisano), che l’araldica potrebbe far presumere in rapporto con i conti Guidi, possessionati nell’area pisana per successione ai conti Cadolingi.

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3. Stemma dei Tieri pisani, che potrebbe pure derivare per brisura dall’arme guidinga. 4. Stemma degli Upezzinghi da Calcinaia, insegna di probabile derivazione pubblica. l’eredità assieme ai Guidi, di tale estinzione si dovettero avvantaggiare anche gli Upezzinghi di Calcinaia, una stirpe feudale presto entrata nei primi ranghi del Comune pisano non diversamente dai conti di Donoratico gherardeschi, e come questi avversari dei suddetti Visconti. Una tradizione vorrebbe gli Upezzinghi affini agli Obertenghi, nonché ai prolifici conti di Lavagna:

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sebbene tale comune origine non sia, a quanto mi consta, dimostrata, è da rimarcare che costoro portarono per arme un classico d’oro, all’aquila di nero che, come sottolineato in piú occasioni, sembrerebbe originariamente riferibile a deleghe di potere pubblico non secondarie. Era forse tale signum loro derivato dalla parziale sostituzione ai Cadolingi in qualche prerogativa ex comitale, di cui furono investiti per vexillum? In quale rapporto erano essi con i Visconti di Fucecchio, probabilmente funzionari della curia di quei conti, la cui araldica ricorda, per gli smalti, non solo il nobilissimo stemma upezzingo, ma anche il fasciato dei visconti cittadini, e per il partito-troncato con l’aquila nascente dalla partizione quello invece dei Gherardeschi, in origine conti di Volterra? Per questi ultimi, però, una ottobre

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siffatta rotella era in cuore a uno scudo di rosso pieno: che era del resto la Blutfahne, antico vessillo dell’impero, ma anche – per la partitanza filoimperiale di Pisa – l’arma antica del Comune stesso (che dal rabescato si disse volgarmente «gramigna»), prima che esso assumesse la caratteristica croce pomettata, poi propriamente detta «di Pisa».

5. Stemma dei Lambardi da Catignano. 6. Stemma dei Lambardi da Marti.

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Un baluardo strategico Altra casata che, inurbatasi, ebbe parte non secondaria nelle vicende pisane fu – accanto beninteso ai suddetti Gherardeschi, sui quali non è possibile qui dilungarsi – un’importante famiglia di loro vassalli, e, in particolare, del ramo che legò il titolo comitale al possesso di Campiglia (Marittima): si tratta infatti di loro visdomini – con cui non disdegnarono tuttavia di imparentarsi – che presero nome dalla vicina Rocca a Palmeto, attuale Rocca San Salvatore, denominandosi Della Rocca tout court dall’importante baluardo ai margini della Contea Aldobrandesca.

7. Stemma dei Lambardi da Calcinaia. fu teatro della grande costruzione politica degli Aldobrandeschi, vero e proprio principato fondato sulle basi delle circoscrizioni comitali di Populonia, Roselle e Sovana e sancito dal titolo palatino.

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8. Stemma parlante dei signori di Rocca a Palmeto, attuale Rocca San Salvatore, vassalli dei Gherardeschi conti di Campiglia (Marittima).

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Come detto, Pisa ebbe un precoce sviluppo comunale, sia dal punto di vista delle istituzioni consolari, che per la rapida ed efficace estensione del proprio comitato cittadino a quella che era pressoché l’intera circoscrizione diocesana: ciò fu dovuto fors’anche a una piú modesta presa dell’incastellamento sul territorio, non precoce, e che si sviluppò in signorie territoriali deboli ed effimere, i cui diritti pubblici, di derivazione marchionale o comitale, ebbero tenue rilievo e finirono presto nell’orbita del vescovo e ancor piú del Comune. Un fenomeno diverso da quello che si può osservare per la Maremma, che

Discendenze longobarde Fra le poche consorterie di domini loci rurali è tuttavia da rimarcare la persistenza di alcune stirpi che continuarono a denominarsi, secondo un uso tipicamente toscano e memore del rilievo ivi tenuto dall’elemento etnico longobardo, appunto, dei lambardi: verosimilmente, questi liberi del Re avevano messo a frutto la tradizionale licenza di sfruttamento degli incolti fiscali per roncare (tagliare, potare, estirpare con la ronca, attrezzo agricolo provvisto di una lama ricurva, n.d.r.) e mettere a coltura quelle terre, in cui alle originarie motte castrali in legno avevano in qualche caso sostituito fortificazioni meno effimere, che solo raramente, tuttavia, si svilupparono in centri di attrazione demica ed ecclesiale e di riorganizzazione territoriale d’impronta signorile. Fra queste prolifiche stirpi – o, meglio, consortili uniti da vincoli

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1. Stemmi dei Gambacorti insignoritisi di Pisa e col capo cittadino, e di Si(gi)smondi, Gualandi e Lanfranchi di dantesca memoria, caratterizzati dagli smalti della Reichsfahne. 2. Stemma di altra famiglia Lambardi.

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probabilmente non solo agnatici ma coordinati da un comune e indiviso possesso castrense – sono rappresentati nel già ricordato stemmario pisano seicentesco quelli da Catignano, da Marti e da Calcinaia, oltre ad altra casata della medesima estrazione priva di indicazione toponomastica: interessante è notare la grande prevalenza nell’araldica pisana piú risalente, come certamente in queste consorterie di ascendenze militari, della bicromía argento/rosso, ossia dei colori della Reichsfahne – del vessillo, cioè, di quel Regnum con cui gli antichi arimanni potevano in origine vantare un rapporto

3. Stemma dei Buzzaccarini de domo Sismondorum, ben rappresentati nel circuito podestarile medievale. 4. Stemma dei Ruschi pisani, ramo della casata signorile comasca capofazione filoimperiale, di documentate ascendenze longobarde.

privilegiato, e di cui non erano certo immemori i discendenti ancora secoli dopo. Altrettanto vale per le tre grandi consorterie cittadine ricordate da Dante dei Gualandi, Sismondi e Lanfranchi già Longubardi de Sancto Cassiano, tradizionalmente filoimperiali fors’anche per quest’ultimo originario legame, che riunivano molteplici stirpi, probabilmente aggregate ab antiquo anche per via cognatica e caratterizzate da ulteriori specificazioni gentilizie: anche fra costoro è la bicromía argento/rosso a farla non a caso da padrone. Niccolò Orsini de Marzo ottobre

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Gian Paolo G. Scharf Arezzo collana «Il medioevo nelle

città italiane», 7, Fondazione

Centro Italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto,

2015, 105 pp., ill.

15,00 euro ISBN 978-88-6809-063-0 www.cisam.org

Questa piccola ma densissima guida è strutturata in tre capitoli, dedicati alla storia della città (profilo urbanistico e territoriale, demografia, quadro politico, società, economia, vita religiosa), alla

documentazione medievale aretina e al paesaggio urbano e alle opere d’arte. Nel delineare l’aspetto attuale della città, rivestirono un’importanza determinante, da un lato l’opera di ricostruzione storica condotta tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, volta all’esaltazione

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del suo periodo piú glorioso, ovvero l’epoca in cui su Arezzo dominava il vescovo Guido Tarlati (prima metà del XIV secolo); d’altro canto, l’opera distruttiva perpetrata dai Fiorentini dopo la conquista della potente rivale (1384), che culminò, nel Cinquecento, con l’abbattimento della cittadella tarlatesca ordinata da Cosimo I de’ Medici. Già nel Duecento, in ogni caso, la città era stata profondamente modificata con lo spostamento del Duomo dal colle del Pionta (ora nella zona periferica) all’attuale posizione sul colle piú alto del centro urbano. Nonostante le ricostruzioni ottocentesce (come la facciata neogotica del Duomo), Arezzo conserva edifici medievali di grande fascino quali la pieve di S. Maria (XII-XIII secolo), prospiciente la piazza Grande, la cui facciata, animata da un infinito gioco di loggiati, e il cui campanile quadrato ritmato da bifore costituiscono un eccellente esempio di romanico aretino. Nel XIII secolo furono realizzate le maggiori opere cittadine: la piazza Grande, il nuovo

Duomo, la chiesa di S. Domenico (dove è conservato un importante Crocifisso di Cimabue) e quella di S. Francesco, affrescata alla metà del XV secolo da Piero della Francesca. Al Trecento risalgono invece le mura tarlatesche, il palazzo comunale e quello della Fraternita dei Laici, nonché le sculture piú importanti del Duomo: il cenotafio di Guido Tarlati e la tomba di papa Gregorio X (morto ad Arezzo). Il volume è corredato da un’ampia bibliografia, dall’indice dei nomi e da un notevole apparato iconografico. Maria Paola Zanoboni Renzo Dionigi Gli affreschi di Antonio da Tradate in San Michele a Palagnedra Nomos Edizioni, Busto Arsizio (VA), 102 pp., ill. col. e b/n

19,90 euro ISBN 978-88-98249-48-0 www.nomosedizioni.it

Vissuto a cavallo fra il XV e il XVI secolo, Antonio da Tradate operò intensamente nel territorio compreso fra la Lombardia e il Ticino e proprio qui, nel villaggio svizzero di Palagnedra, si conserva il ciclo affrescato a cui è

dedicato il volume. La storia moderna dell’opera è relativamente recente: le pitture, infatti, furono eseguite per il coro della primitiva chiesa di S. Michele, la cui esistenza è sicuramente attestata almeno nel 1236. Quattro secoli piú tardi, fra il 1640 e il 1731, il tempio fu ricostruito, ingrandendolo, e il coro adattato a sagrestia, nella quale

furono collocati gli armadi per i paramenti e gli accessori liturgici che, senza troppi riguardi, andarono a coprire gran parte degli affreschi! Si dovette attendere il 1934 e l’arrivo di un nuovo parroco, don Enrico Isolini, perché questa sorta di damnatio memoriae avesse termine e fosse coronata, alla metà degli anni Sessanta, da un ampio intervento di restauro. L’opera di Antonio poté cosí recuperare

la sua integrità e offrirsi all’ammirazione di fedeli e visitatori. L’intera vicenda viene ripercorsa nel volume e fa da introduzione all’analisi iconografica e stilistica dei dipinti, corredata da una ricca e puntuale documentazione fotografica. Come si può dunque leggere nella loro descrizione, le pitture si dispiegano in tre registri, lungo tre pareti dell’ambiente, e sono coronate dalla decorazione della volta, che Antonio riservò a Cristo con gli Evangelisti, a Padri e Dottori della Chiesa e a San Michele Arcangelo, titolare della chiesa. L’intero insieme, seguendo una tradizione affermatasi fin dal primo Medioevo, si configura come una Biblia pauperum, alla quale è funzionale anche il Ciclo dei Mesi che corre lungo la fascia piú bassa del ciclo. Stefano Mammini Stefano De Rosa L’appartenenza del sangue Iconografia e comunicazione nell’araldica medievale tra Francia, Inghilterra e Borgogna Edizioni Settimo Sigillo, Roma, 198 pp., ill col.

20,00 euro ISBN 978-88-6148-163-3 www.libreriaeuropa.it

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particolare sul caso del ducato di Borgogna, a cui è dedicata la terza parte della trattazione. S. M. Sergio Risaliti, Francesco Vossilla Michelangelo La Pietà vaticana

Al di là degli aspetti formali e simbolici, l’araldica può essere una delle chiavi di indagine di fenomeni storici e sociali anche complessi. Ne è una conferma questo saggio di Stefano De Rosa, che sfrutta un vasto repertorio di stemmi per analizzare le consuetudini e le leggi che regolarono il formarsi delle dinastie e alle quali si fece riferimento per stabilire la legittimità delle discendenze. Un tema, dunque, assai articolato, poiché, come si può leggere nel volume, non sempre il solo «essere figlio di» poteva garantire determinati diritti, ma, in piú occasioni, i criteri tennero conto di tradizioni normative specifiche o, anche, della rilettura in chiave istituzionale, di antichi usi cavallereschi. L’ambito analizzato è quello francobritannico, con un approfondimento

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Bompiani, Milano, 126 pp., ill. col. e b/m 15,00 euro

ISBN 978-88-452-7685-9 www.bompiani.eu

Il 27 agosto 1498 Michelangelo s’impegnava a realizzare per il cardinale francese Jean de Bilhères de Lagraulas, già abate di Saint-Denis, «una

Pietà di marmo (...) cioè una Vergine Maria vestita, con Cristo morto in braccio» a grandezza naturale per 450 ducati d’oro. L’esito di quell’incarico è uno dei massimi capolavori dell’arte, ma il volume di Risaliti e Vossilla si concentra soprattutto sulla vicenda che portò alla sua realizzazione e traccia un profilo del committente, che sembra poco credibile immaginare rozzo e incolto, come ebbe a descriverlo il suo nemico giurato, il normanno Jean Masselin. S. M.

DALL’ESTERO Miquel Àngel Capellà Galmés Ars vitraria. Mallorca (1300-1700)

Edicions UIB, Palma, 248 pp., ill.

28,50 euro ISBN: 978-84-8384-299-7 http://edicions.uib.es

Il volume viene a colmare il vuoto bibliografico sull’arte vetraria nella Penisola Iberica, tema affrontato da ogni angolazione possibile (storia, iconografia, arte, archeologia, collezionismo), partendo da una ricca base documentaria. Ne accresce l’interesse il fatto che, malgrado l’importanza del vetro maiorchino, nessun museo al mondo identifichi come tale uno solo dei suoi reperti, anche se la maggior parte dei vetri conservati nei musei della Catalogna sono stati trovati a Maiorca. L’autore parte dall’esame del prodotto, attraverso il collezionismo e il mercato dell’arte (cap. 1), per analizzare quindi il ciclo produttivo del vetro preindustriale (materie prime, combustibile, struttura dei forni) (cap. 2), dedicando poi le parti piú corpose del libro al

vetro maiorchino e barcellonese basso medievale (cap. 3) e dell’età moderna (cap. 4) nei suoi molteplici aspetti sociali, economici, e tipologici: dalla struttura organizzativa delle botteghe, alle famiglie dei vetrai, all’influsso islamico e veneziano, alla circolazione delle maestranze e dei prodotti, alla loro straordinaria varietà (suppellettili da tavola, lampade, contenitori per olio e vino, ampolle per gli speziali, uso liturgico, ornamenti personali). L’ultimo capitolo affronta l’arrivo del cristallo di Boemia, nei primi decenni del Settecento, e il suo influsso

sulla produzione maiorchina. Completa il volume un CD ROM con immagini e documenti che non hanno potuto trovare spazio nel libro. M. P. Z.

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CALEIDO SCOPIO

Satira a suon di musica MUSICA • Nel XIV secolo,

su entrambe le sponde della Manica, si afferma l’Ars Nova, che trova una sua codificazione grazie a Philippe de Vitry. Ne offrono un saggio significativo due ricche raccolte, accomunate dall’esecuzione di partiture ispirate dal Roman de Fauvel

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edicata alle prime forme polifoniche francesi e inglesi, che partendo dall’Ars Antiqua della scuola parigina di Notre-Dame sono andate sviluppandosi nel XIV secolo con la cosiddetta Ars Nova, l’antologia Le Lys et le Lion offre un campionario

Le Lys et le Lion Poliphonies des royaumes de France et d’Angleterre Ensemble Beatus Ad Vitam Records, AV 141115, 1 CD 16,00 euro www.advitam-records.com Miniatura raffigurante le nozze di Fauvel e Vaine Gloire, da un’edizione del Roman de Fauvel. 13161320 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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di forme e generi in auge tra Due e Trecento, mettendo in evidenza divergenze e continuità stilistiche tra i due secoli, nonché tra le due culture musicali proposte.

Le linee guida del nuovo genere Se da un lato la monodia gregoriana continua a rappresentare il punto fermo dell’espressione musicale, in ambito sacro, come in quello profano, è interessante notare come su di essa si siano innestate le numerose forme musicali che trovano nel Trecento arsnovistico la loro massima espressione. ottobre

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A quest’ultimo periodo ci riconduce peraltro la figura del poeta, compositore e teorico della musica francese Philippe de Vitry (1291-1361), ben rappresentato nell’antologia e che, nell’omonimo trattato Ars Nova (1322), indicò le linee guida su cui si sviluppò in seguito tutta la musica europea. Tra i generi proposti nella raccolta e che caratterizzano la stagione duecentesca vi sono il conductus – che ritroviamo sia nel repertorio francese che inglese – mentre il mottetto e la ballata (il primo sviluppatosi particolarmente in area francese) imperversano nel corso del XIV secolo, divenendo le espressioni piú rappresentative dell’Ars Nova. Ne Lys et le Lion si alternano brani paraliturgici – in particolare i conductus, originariamente cantati durante lo spostamento del lezionario verso l’ambone – e brani profani, passando in rassegna sia forme monodiche che a due o tre voci. Un’enfasi particolare è data ad alcuni brani tratti dal Roman de Fauvel, celeberrimo poema satirico francese dell’inizio del XIV secolo, noto particolarmente per la veste musicale che ricevette sia dallo stesso Philippe de Vitry – facendo di questa opera la prima espressione musicale dell’Ars Nova –, sia da altri compositori come Jehan de Lescurel, del quale ascoltiamo la ballata De la grant joie d’amours, uno dei brani piú belli dell’antologia.

Un amalgama perfetto Specialista nel repertorio medievale, l’Ensemble Beatus, diretto dal baritono Jean-Paul Rigaud, è formato da quattro eccellenti voci, che raggiungono un perfetto amalgama sonoro nei brani polifonici, pur mantenendo le singole individualità canore. Pregevoli, d’altronde, anche i numerosi assolo, nei quali la linea di canto si fa portavoce di un’eleganza vocale filologicamente orientata.

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è il grande protagonista di questa raccolta: è infatti grazie a uno degli esemplari manoscritti di quest’opera – il ms. 146 del Fonds français della Biblioteca nazionale di Parigi – che siamo a conoscenza della produzione di Lescurel, tratta interamente dal Roman. Varie sono le scelte interpretative operate dall’Ensemble Syntagma, diretto da Alexandre Danilevski; si passa da trascrizioni strumentali affidate a flauti, liuto e percussioni, a brani vocali accompagnati, nei quali primeggiano le voci di Mami Irisawa, Zsuzsanna Tóth, Akira Tachikawa, e Giovanni Cantarini.

Tutte le declinazioni dell’amore

Songé .i. songe Jehan de Lescurel. Chansons & Dit enté «Gracïeux temps» Ensemble Syntagma FacSimile-Records, FME 1401, 1 CD+libro 20,00 euro www.facsimile-records.com Sempre restando in clima arsnovistico, la registrazione Jehan de Lescurel. Songé .i. songe ci proietta in una dimensione di grande fascino, quale è quella offerta appunto dal compositore Jehan de Lescurel, presente anche nella precedente registrazione. Tanto poco conosciuto – scarsissime sono le notizie biografiche che lo riguardano (sappiamo soltanto che morí nel 1304) – quanto ricco musicalmente parlando, Lescurel ha saputo connotare il suo linguaggio musicale con un senso estetico di raffinata bellezza e una grande sensibilità nel proiettare un peculiare tono melanconico, che traspare con evidenza nelle sue musiche. E, ancora una volta, il Roman de Fauvel

L’amore regna sovrano, rinnovando la lunga tradizione trobadorica e i temi a essa cara, quali l’ammirazione totale per la donna, e il dolore dell’amante non ricambiato, in un alternarsi psicologico di stati d’animo che vanno dalla gioia alla profonda disperazione. Fra tutti, il brano Gracïeux temps, appartenente al genere del «dit» – originariamente concepito come pamphlet morale –, si presenta in una sorta di micro-racconto all’interno del Roman, con passaggi realizzati da due voci dialoganti. I brani musicali del dit sono intercalati anche da una voce narrante che ricrea perfettamente, con opportuna enfasi teatrale, l’atmosfera narrativa di questa composizione. Grande ricercatezza e sensibilità musicale caratterizzano questa esecuzione che offre una lettura garbata e al tempo stesso fortemente emozionale, esaltata da un eccellente lavoro interpretativo. Ad arricchire l’ascolto contribuisce anche la presenza di un libro che raccoglie alcuni saggi di Nigel Wilkins, scritti nel 1966, ma straordinariamente attuali nel commentare e descrivere l’arte di Jehan de Lescurel. Franco Bruni

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