Medioevo n. 228, Gennaio 2016

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

www.medioevo.it

I COLORI RIVELATI La straordinaria scoperta degli affreschi di Ceri

L’ITALIA COMUNALE

Quando a Perugia il popolo trionfò sull’aristocrazia

GLI UOMINI DEL POTERE

Ambrogio, vescovo di Milano

DOSSIER FIRENZE

TUTTI I CAPOLAVORI NEL NUOVO MUSEO DELL’OPERA DEL DUOMO

€ 5,90

www.medioevo.it

Mens. Anno 20 numero 228 Gennaio 2016 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 228 GENNAIO 2016 LEADER/1-AMBROGIO ITALIA DEI COMUNI/3 PASTORIZIA RISO CERI DOSSIER IL MUSEO DELL’OPERA DEL DUOMO

IL NU P O DE RO VA S L MVE ERI ES RBIOE E

EDIO VO M E



SOMMARIO

Gennaio 2016 ANTEPRIMA IL PROVERBIO DEL MESE «Per un punto Martin perse la cappa»

CIVILTÀ COMUNALE/3 Cavalleria e popolo di Furio Cappelli

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APPUNTAMENTI Tutti devoti di Agata Una disfida in maschera L’Agenda del Mese

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MEDIOEVO NASCOSTO Ceri

di Mimmo Frassineti

42 STORIE

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CALEIDOSCOPIO

STORIE 28

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LUOGHI I colori del potere

MOSTRE Arezzo saluta Andrea È l’anno di Hieronymus!

di Renata Salvarani

IL RISO Bianco d’Oriente

di Chiara Parente

RESTAURI La chiesa piú bella del mondo 8 I martiri scalpellini 11

ESSERE LEADER NEL MEDIOEVO/1 Ambrogio, il vescovo

COSTUME E SOCIETÀ

Pastorizia e transumanza

Casseforti a quattro zampe di Flavio Russo

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54

Dossier

L’OPERA DELLE MERAVIGLIE di Mila Lavorini

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ARALDICA Il rosso e l’azzurro

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UN ANTROPOLOGO NEL MEDIOEVO Di tuoni, dadi e gatti alle finestre...

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LIBRI Lo scaffale

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MUSICA Amore e devozione

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MEDIOEVO Anno XX, n. 228 - gennaio 2016 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it

Illustrazioni e immagini: Cortesia Museo dell’Opera del Duomo, Firenze: Antonio Quattrone: copertina e pp. 67, 68/69, 70, 72-85, 87-89 – Doc. red.: pp. 5, 16, 52, 59, 60 – Cortesia Ufficio stampa: pp. 8-13 – Rik Klein Gotink per il Bosch Research and Conservation Project: p. 14 – Cortesia degli autori: pp. 17, 57, 58 (sinistra)– Bridgeman Images: pp. 28/29, 65, 109 – DeA Picture Library: pp. 61, 62 (basso); Veneranda Biblioteca Ambrosiana: p. 30; G. Dagli Orti: pp. 31, 40/41, 54/55; G. Cigolini: pp. 32, 35; A. dagli Orti: pp. 46, 49, 50; G. Sosio: p. 55 (alto); R. Carnovalini: p. 56 (basso); M. Carrieri: p. 64 – Archivi Alinari, Firenze: p. 69 (basso); Archiv Gerstenberg/Ullstein Bild: p. 33 – Francesco Corni: per gentile concessione delle Civiche Raccolte Archeologiche di Milano e della Soprintendenza Archeologia della Lombardia: ricostruzioni grafiche alle pp. 34/35, 36-37 – Marka: Zoonar/Martin Jung: p. 38 (alto); Tibor Bognár: p. 39; Marco Scataglini: p. 42 – Shutterstock: pp. 38 (basso), 47, 48, 50/51 – Mondadori Portfolio: pp. 43, 44, 53; Electa/Antonio Quattrone: p. 45; Album: p. 56 (alto); The Art Archive: pp. 63, 86; Leemage: pp. 71, 108, 110 – Foto Scala, Firenze: p. 51 – Mimmo Frassineti: pp. 90-103 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 58, 62, 70, 92. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione. Editore: MyWay Media S.r.l.

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Coordinatore editoriale: Alessandra Villa

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Impaginazione: Alessia Pozzato Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Claudio Corvino è antropologo. Mimmo Frassineti è scrittore e fotografo. Mila Lavorini è giornalista. Niccolò Orsini De Marzo è araldista. Chiara Parente è giornalista. Stefania Romani è giornalista. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Renata Salvarani è ricercatore di storia del cristianesimo e delle chiese presso l’Università degli Studi Europea di Roma. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

Abbonamenti Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com

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In copertina Decollazione del Battista, particolare della formella dell’altare d’argento realizzato per il Battistero di S. Giovanni. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.

Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1 Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo

Nel prossimo numero storie

saper vedere

I troll, un’invenzione medievale

L’abbazia di San Pietro in Valle

costume e società

dossier

Il lavoro nei monasteri femminili

Arrigo VII: dalla contea all’impero


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

«Per un punto Martin perse la cappa» Miniatura raffigurante alcuni monaci dell’abbazia di Cluny mentre consumano il proprio pasto nel refettorio, da Le Miroir Historial di Vincenzo de Beauvais. XV sec. Chantilly, Musée Condé.

I

l proverbio scelto per il mese di gennaio invita a non trascurare una minuzia, perché il farlo può avere conseguenze disastrose. Si tratta di un motto ancora oggi molto noto, che nasce dalla storia di Martino, ecclesiastico presso l’abbazia di Asello, una fondazione religiosa di cui rimane soltanto il nome, che, come vedremo sembra cesellato proprio in funzione di quel che stiamo per raccontare: asellus, infatti, significa «asinello». La tragicomica vicenda ha come protagonisti lo sfortunato Martino e un segno di interpunzione, il punto fermo, nato proprio nel Medioevo, a indicare una pausa lunga. Ricordiamo che, nella precedente epoca romana, la punteggiatura tuttora in uso non era stata ancora inventata: fu introdotta in età carolingia e si trasformò rapidamente in un elemento indispensabile per la comprensione del testo scritto. Vediamo allora perché un banale punto fece perdere a Martino la cappa di abate. La vicenda si sarebbe svolta agli inizi del XVI secolo. Non sappiamo se Martino fosse già priore ad Asello, in attesa di ricoprire il ruolo di abate (che non conseguí a causa del «punto»), o fosse già in carica come tale e la leggerezza commessa ne avesse causato la rimozione. Sappiamo però che, vuoi per abbellire la propria abbazia e forse anche per aumentarne la frequentazione, Martino avrebbe pensato bene di fare apporre vicino al portale della chiesa abbaziale una grande insegna, con una frase di benvenuto per i visitatori. Il motto, in latino, recitava: «Porta, patens esto. Nulli claudatur honesto», ovvero «Porta, rimani aperta. Per nessun uomo onesto sia chiusa».

Purtroppo, però, il pittore – o lo scultore – al quale Martino affidò il compito non doveva essere un buon lettore, sebbene agli inizi del Cinquecento la pratica della lettura fosse ormai diffusa. L’artista, dunque, avrebbe giustapposto il punto, ottenendo la frase: «Porta patens esto nulli. Claudatur honesto», cioè «Porta non rimanere aperta per nessuno. E stia chiusa per l’uomo onesto», che le attribuiva un senso opposto a quello voluto da Martino. Dell’equivoco sarebbe giunta voce sino a Roma e, forse a seguito di un intervento personale del papa, Martino non avrebbe mai conseguito (o ne sarebbe stato sollevato) la carica di abate, riconoscibile appunto da un mantello particolare, la «cappa». Tratto da un episodio probabilmente confezionato ad arte, il proverbio gioca anche con le parole e la sua traduzione francese ci mostra come, anziché la cappa d’abate, Martino avesse perso un asino. O meglio, in origine doveva verosimilmente trattarsi della succitata abbazia di Asello, ma tale nome si trasformò da proprio a comune, passando cosí da Asello ad asinello e dando vita a una storia ancor piú improbabile. Recita infatti la versione diffusa presso i nostri cugini transalpini: «Pour un point Martin perdit son àne», cioè, «Per un punto Martino perse il suo somarello». Qualcuno avrebbe in questo caso rubato il somaro al frate Martino, il quale, volendolo recuperare, chiese aiuto alle guardie. Non sapendolo descrivere, a causa della sua proverbiale distrazione, per questo motivo, cioè per questo «punto», Martino non sarebbe piú riuscito ad avere indietro la propria bestiola...


ANTE PRIMA

La chiesa piú bella del mondo RESTAURI • La cappella

milanese di S. Aquilino è stata dotata di un nuovo allestimento, che illustra il monumento in ogni suo dettaglio. Un intervento che dà valore a uno dei monumenti piú insigni del Medioevo ambrosiano

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icino a Porta Ticinese, nell’area in cui l’antica arteria proveniente da Pavia entra a Milano, sorge la basilica paleocristiana di S. Lorenzo Maggiore, eretta in prossimità del porto fluviale e dell’anfiteatro. Fra i tre corpi di fabbrica addossati al nucleo originario, assieme a quelli intitolati a sant’Ippolito e a san Sisto, figura la cappella dedicata a sant’Aquilino: come molte strutture altomedievali che alludono al giorno della Resurrezione, l’ottavo, il sacello ha pianta ottagonale e conta nicchie scavate nelle pareti, sopra le quali corre una galleria dipinta. Il luogo di culto è ora valorizzato da un nuovo allestimento, frutto di un iter di studi che ha introdotto diverse novità. «L’intervento di musealizzazione della cappella tende a ricostruire lo splendore di cui parlano le fonti medievali», racconta Elisabetta Neri, curatrice del percorso espositivo appena inaugurato assieme a Silvia Lusuardi Siena. La studiosa allude a Benzo, vescovo d’Alba, il quale, nell’XI secolo, scrisse che «non esiste

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In alto Milano. La cappella di S. Aquilino. Eretta intorno al 410, fa parte del complesso monumentale della basilica di S. Lorenzo Maggiore. L’immagine lascia intuire la pianta ottagonale della struttura, scelta come evocazione del giorno della Resurrezione, che era appunto l’ottavo. A destra uno scorcio delle pitture che ornano la galleria superiore, che si sviluppa sopra le nicchie della cappella. in tutto il mondo una chiesa piú bella», e ad altri autori, come il cronista Galvano Fiamma, che, nel Trecento, di S. Aquilino ricorda le decorazioni in porfido, i marmi e i mosaici.

La restituzione del contesto Una volta entrato in S. Lorenzo, all’ingresso della cappella il visitatore trova un’introduzione all’architettura e all’apparato decorativo paleocristiano: il percorso didattico mira a restituire il contesto da cui provengono gli elementi archeologici, rinvenuti nelle campagne di scavo degli anni Trenta, dando anche un’idea dell’insieme gennaio

MEDIOEVO


di cui facevano parte i mosaici e le pitture tuttora in sede. Attraverso i testi e le foto dei pannelli, le vetrine che custodiscono i reperti, la ricostruzione di una parte del tetto, il fruitore viene invitato a soffermarsi su particolari che potrebbero altrimenti sfuggirgli.

La Gerusalemme Celeste Nell’atrio dell’ottagono, alcune porzioni musive rimandano alla Gerusalemme Celeste, con figure stanti, a grandezza naturale, divise da colonne in oro tempestate di gemme, su fondo blu. I pannelli propongono una ricomposizione del maestoso ciclo originario, distribuito in due registri sovrapposti: in alto sfilava una teoria di Apostoli, nella parte sottostante figuravano i Patriarchi delle tribú di Israele. In questo ambiente, spiega ancora Elisabetta Neri, «è stata collocata la ricostruzione di una parte del

MEDIOEVO

gennaio

In alto l’interno della cappella dedicata ad Aquilino, prete tedesco che, rifugiatosi a Milano per non essere eletto arcivescovo, sarebbe stato assassinato da eretici.

In basso il mosaico raffigurante Cristo tra gli Apostoli. Il Salvatore, in trono, alza la destra al cielo e regge un rotolo di scritture con la sinistra, affiancato dai Dodici.

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ANTE PRIMA Il mosaico che aveva come tema centrale la raffigurazione del Cristo-Sole. L’opera è solo parzialmente conservata, ma è possibile ricostruirne le caratteristiche sulla base dell’arriccio con la sinopia (nella parte centrale) e del disegno dell’intera decorazione eseguito nel Seicento da Rudolph Symonds.

tetto, costituito da una volta alleggerita con anfore, che sono importanti in quanto databili e di provenienza milanese, cosí come le tegole che le sovrastavano. Le vetrine custodiscono invece rivestimenti marmorei e capitelli di lesena reimpiegati, che un disegno ricostruttivo inserisce in un insieme, che abbiamo paragonato a quello di S. Vitale di Ravenna». Reperti che sembrano quindi confermare lo splendore descritto dalle fonti dell’età di Mezzo.

Marmi di spoglio Il portale della cappella, eretta attorno al 410, riutilizza marmi di Luni provenienti da un tempio: gli stipiti sono decorati con amorini e animali, mentre sull’architrave si alternano bighe con divinità e coppie di animali. Nel sacello è esposto un sarcofago «che la tradizione medievale attribuisce a Galla Placidia, in realtà sepolta a Costantinopoli; si tratta di un manufatto del III secolo, riutilizzato e cristianizzato nel VI secolo», precisa Neri. Il vano ospita inoltre

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due porzioni musive, collocate in altrettante nicchie: in quella occidentale si snoda la scena di Cristo tra gli Apostoli, mentre quella orientale conserva frammenti legati alla rappresentazione del Cristo-Sole. Nel primo mosaico, Cristo imberbe, in trono, alza la mano destra al cielo e regge un rotolo di scritture con la sinistra, affiancato dai Dodici, raffigurati appena piú in basso. La presenza delle lettere apocalittiche alfa e omega e Gesú giovane alludono all’eternità della salvezza promessa. Il secondo mosaico riprende invece l’ascensione di una figura su una quadriga, con uno sfondo pastorale. Della parte musiva sono rimasti quattro frammenti, disposti attorno all’arriccio con la sinopia, molto interessante perché mostra il modo di procedere degli artisti. Secondo le curatrici dell’allestimento, l’episodio ha un parallelo nel Cristo-Sole del mausoleo dei Valeri, il piú grande e lussuoso sepolcro della Necropoli Vaticana. La decorazione dell’intera cupola è nota grazie a un disegno seicentesco, realizzato da Rudolph Symonds, «un visitatore che ha

schizzato una teoria di figure stanti, attorno a una fascia con clipei e un medaglione centrale con un volto», racconta Elisabetta Neri, che con Silvia Lusuardi Siena avvicina lo schema ricostruttivo all’apparato del battistero neoniano di Ravenna.

Dal matroneo (virtuale) alle fondazioni Alla ricchezza delle scene musive di Milano si aggiungevano le pitture della galleria superiore, ancora ben conservate ma non accessibili al pubblico: i motivi nelle volte imitano soffitti a cassettoni e lungo le pareti ripropongono pannelli con tondi, quadrati e rombi sovrapposti. La nuova postazione multimediale, con la colonna sonora di musica sacra, fa entrare virtualmente nelle gallerie del matroneo, di cui si scoprono dettagli e colori. La visita prevede anche una tappa alle fondazioni, che poggiano su blocchi provenienti dall’anfiteatro, perché la zona acquitrinosa rendeva necessarie fondamenta stabili. Info: www.sanlorenzomaggiore.com Stefania Romani gennaio

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I martiri scalpellini RESTAURI • La chiesa di Orsanmichele ritrova la magnifica composizione realizzata

da Nanni di Banco su commissione dell’Arte dei Maestri di Pietra e Legname. Testimonianza eloquente di uno dei migliori talenti del Quattrocento fiorentino

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a Firenze del XIII secolo vide un gran proliferare delle Corporazioni, istituzioni atte a proteggere i diritti e gli interessi dei propri membri che pagavano una quota di iscrizione piuttosto elevata, cosí da scartare piccoli imprenditori o modesti artigiani. Organizzate in modo efficiente e razionale, controllavano la qualità dei prodotti e dei servizi, tramite un sistema gestionale in cui gli impiegati non avevano alcun potere decisionale. Non sorprende che, alla fine del 1200, le sette Arti Maggiori – formate da banchieri, professionisti e mercanti – avessero anche assunto il controllo del governo cittadino, instaurando un regime che durò quasi cento anni. Bottegai e abili artigiani rappresentavano invece le Arti Minori, tra le quali spiccava il sindacato dei Maestri di Pietra e Legname che aveva al suo attivo il maggior numero di associati, tutti impegnati nel settore edilizio: muratori, cavatori di pietra, fabbricanti di mattoni, falegnami, carpentieri, trasportatori di materiali, capomastri, ma anche architetti e scalpellini che avevano in Nanni di Banco uno degli esponenti di spicco. Figlio d’arte, lo scultore fece probabilmente il suo tirocinio proprio presso il padre, Antonio, che già si era distinto artisticamente, lavorando alla decorazione del Duomo fiorentino, allora in costruzione, e che già aveva avuto importanti incarichi politici.

Un talentuoso innovatore Insieme a Donatello e Ghiberti, a Nanni si deve l’introduzione di uno stile realistico ed espressivo, ben visibile nel suo capolavoro, noto come I Quattro Santi Coronati, scelti come patroni proprio dalla sua corporazione, eseguiti per la chiesa di Orsanmichele, nella seconda decade del 1400. Il gruppo è stato oggetto di un intervento di restauro che ha accertato l’esistenza di una originaria decorazione con foglia d’oro in alcune parti, come capigliature e bordi delle vesti.

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Firenze, Orsanmichele. I Quattro Santi Coronati, gruppo scultoreo realizzato da Nanni di Banco nel secondo decennio del XV sec. Raffigura i martiri cristiani Caustorio, Claudio, Sinforiano e Nicostrato, che pagarono con la vita la decisione di non mettere le proprie doti di scalpellini al servizio di un simulacro pagano. Le sculture poggiano su una piattaforma dalla cornice sagomata e arcuata nella parte centrale per offrire piú spazio agli astanti che riempiono la nicchia, marcata dall’uso di marmi scuri che definiscono l’impaginazione strutturale, mentre nella predella marmorea originale, inquadrata dagli emblemi dell’Arte sugli spigoli, il racconto dei santi al lavoro è espressione della doppia identità dei quattro uomini che qui appaiono molto occupati.

Una cena per sdebitarsi Le cronache vasariane ci riportano l’imbarazzo di Nanni quando si accorse che le sue figure non riuscivano a entrare nello stretto spazio del tabernacolo e dovette perciò chiedere consiglio al piú esperto Donatello, che si offrí di aiutarlo in cambio di una cena offerta ai garzoni della sua bottega. I santi si identificano con i martiri cristiani Caustorio, Claudio, Sinforiano e Nicostrato, che, dotati dall’eccezionale capacità di lavorare il durissimo porfido senza spezzare gli attrezzi, si rifiutarono di erigere il simulacro del dio pagano Esculapio, e furono perciò condannati a morte e scorticati vivi. Avvolti in ampie toghe, dai curati drappeggi, tre personaggi ascoltano pacatamente l’oratore che parla, mentre quello che gli è vicino pone amichevolmente la mano sinistra sulla sua spalla, stabilendo cosí una relazione spaziale e una profonda interazione psicologica a sottolineare la forza morale nei volti austeri che sembrano ispirarsi ai tipi della ritrattistica imperiale antonina del II secolo d.C. Mila Lavorini

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ANTE PRIMA

Arezzo saluta Andrea MOSTRE • A quarant’anni dalla scoperta che permise di identificarlo come artista

autonomo, Andrea di Nerio è al centro di una rassegna che ne documenta l’attività e conferma l’importanza del suo contributo allo sviluppo della scuola aretina

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razie al prestito concesso dal suo proprietario attuale, l’antiquario Giovanni Sarti, la Madonna con Bambino attribuita al pittore aretino Andrea di Nerio (documentato ad Arezzo dal 1331 e deceduto prima del 1387) torna temporaneamente nella città natale dell’artista. Il dipinto, realizzato tra gli anni Trenta e Quaranta del Trecento, raffigura la Vergine in piedi

A destra Arezzo, pieve di S. Maria. I Santi Francesco e Domenico, affresco attribuito ad Andrea di Nerio. Quarto decennio del XIV sec. In basso Annunciazione, tempera su tavola fondo oro di Andrea di Nerio, 1348-50 circa. Arezzo, Museo Diocesano d’Arte Sacra (MUDAS).

a mezzo busto, con il Bambino in braccio, stagliata su fondo oro, con decorazioni a racemi fogliari incise a mano libera. Foglia d’argento è stata utilizzata, invece, nel motivo decorativo geometrico della cornice – rinvenuto in occasione dell’ultimo restauro –, combinato alla forma della tavola, tipicamente aretina, dalla cuspide poco slanciata che si distende, ai lati della base, in due brevi segmenti piani. La parte cuspidale della cornice non è

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A destra Madonna con Bambino, tempera su tavola fondo oro attribuita ad Andrea di Nerio. Quarto-quinto decennio del XIV sec. Londra/Parigi, Galerie Giovanni Sarti. In basso San Michele Arcangelo, tempera su tavola fondo oro attribuita ad Andrea di Nerio. Quarto-quinto decennio del XIV sec. Firenze, Collezione Lisa De Carlo.

DOVE E QUANDO originale e anche il listello inferiore ha patito danneggiamenti. L’opera, già sul mercato internazionale, fu presentata agli studi per la prima volta da Luciano Bellosi (1965) con riferimento all’attività giovanile di Spinello Aretino (attivo tra la fine del XIV e il primo decennio del XV secolo) degli anni Settanta del Trecento, nella sua terra d’origine. Ferdinando Bologna (1969) propose in seguito di leggervi piuttosto un «antefatto di piú antica cultura», precedente quindi a Spinello, ponendo le basi definitive per il riconoscimento di quella generazione di pittori aretini – fino ad allora noti solo come nomi tratti dai documenti –, ai quali Spinello fu debitore della sua formazione essenziale. Nel 1974, quando Anna Maria Maetzke scoprí la firma

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nascosta «Andrea f [ecit]» sulla tavola raffigurante l’Annunciazione del Museo Diocesano di Arte Sacra di Arezzo, al tempo in restauro, l’intero gruppo di opere ebbe finalmente il riconoscimento ad Andrea di Nerio.

Nuova luce sulla scuola aretina Da allora il tema della pittura aretina prespinelliana è diventato uno dei soggetti piú frequentati e discussi della storia dell’arte, con estensioni del catalogo di Andrea spesso tuttora oggetto di dibattito serrato e opinioni diverse. La mostra offre non soltanto la ricostruzione della memoria storica di Andrea di Nerio, oggi riconosciuto come il maestro di Spinello Aretino, ma anche di quello che fu il suo contesto culturale per ripercorrere il linguaggio artistico proprio della scuola aretina del

«Andrea di Nerio. La Madonna Sarti ad Arezzo» Arezzo, Casa Museo Ivan Bruschi fino al 31 gennaio Orario tutti i giorni, 10,00-13,00 e 14,00-18,00; chiuso il lunedí Info tel. 0575 354126; e-mail: casamuseobruschi@gmail.com Trecento, in rapporto alla lezione giottesca e alle vicine scuole fiorentina e senese. Attraverso un percorso che, lungo i siti museali della città, mette l’Opera in relazione a quelle attribuite alla sua mano come l’Annunciazione firmata del Museo Diocesano, e gli affreschi conservati nella pieve di S. Maria, in Duomo e al Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna di Arezzo. (red.)

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ANTE PRIMA

È l’anno di Hieronymus! MOSTRE • L’opera

visionaria di una delle figure piú complesse e intriganti dell’arte medievale europea è protagonista della rassegna che, nella sua città natale, ‘s-Hertogenbosch, sarà il culmine delle celebrazioni indette nel quinto centenario della morte

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n occasione del cinquecentenario della morte, la città di Hieronymus Bosch si appresta a ospitare l’evento clou delle celebrazioni in programma. Nato Hieronymus van Aken e ribattezzato Bosch proprio dal nome della località in cui era nato, ‘s-Hertogenbosch, l’artista è riconosciuto come la personalità piú complessa e singolare della pittura fiamminga. Con sottigliezze da miniatore e capacità pittorica ricca di sensibilità coloristica, dipinge quadri gremiti di figure grottesche e allucinanti, spesso mostruose, di uomini e di animali, nei quali sono rappresentati in modo simbolico antichi proverbi, episodi biblici o evangelici, testi mistici medievali, credenze astrologiche o alchimistiche. Una tematica comunque che non può certo essere interpretata in chiave di pura fantasia o di puro divertimento, ma che ha forse la sua radice nell’aspirazione a contribuire al rinnovamento dei costumi religiosi e a combattere la corruzione.

Un’occasione da non perdere Le opere concesse in prestito alla mostra provengono dalle piú importanti raccolte del mondo, tra cui il Museo del Prado (Madrid), il Museo Boijmans Van Beuningen (Rotterdam), il complesso delle Gallerie dell’AccademiaPalazzo Grimani (Venezia) e il Metropolitan Museum (New York). Tra le opere in prestito vanno menzionate l’Estrazione della pietra della follia e le Tentazioni di Sant’Antonio (Museo del Prado), la Nave dei folli (Museo del Louvre, Parigi), la Morte di un avaro (National Gallery of Art, Washington) e il Trittico degli eremiti

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Carro di fieno, trittico, olio su tavola di Hieronymus Bosch. 1515 circa. Madrid, Museo Nacional del Prado. (Gallerie dell’Accademia). L’eccezionale selezione offre un’occasione unica per uno studio approfondito del rivoluzionario e fantastico linguaggio simbolico di Hieronymus Bosch. L’esposizione è l’esito di un lavoro preparatorio avviato già nel 2007. Ad avere contribuito in modo determinante è stato il Bosch Research and Conservation Project (BRCP), un ambizioso progetto di ricerca storico-artistica condotto a livello internazionale su ampia scala e istituito insieme alla fondazione Stichting Jheronimus Bosch 500 e alla Radboud Universiteit di Nimega. Negli ultimi sei anni un team di esperti internazionali riuniti nel BRCP ha svolto, per la prima volta, un’intensa e sistematica attività di ricerca e di documentazione a livello mondiale su tutte le opere del maestro e, in seguito a tale ricerca e in vista dell’esposizione a ‘s-Hertogenbosch, sono stati restaurati numerosi dipinti. (red.) DOVE E QUANDO

«Jheronimus Bosch. Visioni di un genio» ‘s-Hertogenbosch (Paesi Bassi), Noordbrabants Museum fino all’8 maggio (dal 13 febbraio) Orario tutti i giorni, 9,00-19,00 Info www.hnbm.nl gennaio

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Tutti devoti di Agata

APPUNTAMENTI • Catania celebra la santa patrona

con tre giorni di festa, liturgie e processioni

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ant’Agata, nota come patrona di Catania, visse nel capoluogo siciliano nel III secolo. Apparteneva a una famiglia patrizia, ma fin da giovanissima si consacrò alla religione cristiana, rifiutandosi di sposare il governatore romano Quinziano. Incollerito dal diniego, il proconsole romano la perseguitò quale cristiana e la fece martirizzare fino alla morte, avvenuta il 5 febbraio 251. Gran parte della popolazione catanese nutrí subito grande devozione per Agata; il culto si diffuse anche fuori dalla Sicilia e presto il papa la elevò alla gloria degli altari. Durante le crociate, nel 1040, le sue spoglie furono trafugate e portate a

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Costantinopoli dal generale bizantino Giorgio Maniace. I resti vennero riportati a Catania il 17 agosto 1126 da due soldati, Gilberto e Goselino.

Un terremoto devastante Da allora Catania dedica a sant’Agata una grande festa, ogni 5 febbraio. Inizialmente le celebrazioni erano perlopiú liturgiche e si svolgevano nella cattedrale. Il 4 febbraio 1169 un terremoto trasformò la festa in tragedia: il sisma rase al suolo la cattedrale, causando la morte di oltre 80 monaci e piú di 1000 fedeli. Nel Quattrocento, ai riti religiosi si affiancò una festa piú popolare, e, dal 1712, le celebrazioni vennero

distribuite su due giornate, il 4 e 5 febbraio: la città si era espansa e la processione tra i quartieri non poteva piú compiersi in un solo giorno. Oggi i festeggiamenti si svolgono dal 3 al 5 febbraio. La giornata del 3 si apre con la processione per l’offerta della cera. Il corteo religioso parte dalla chiesa di S. Agata alla Fornace, in piazza Stesicoro, ovvero la fornace dove sarebbe stata martirizzata la santa, concludendosi in serata in piazza Duomo con uno spettacolo di fuochi pirotecnici. Il 4 febbraio inizia con la messa dell’Aurora, alle 6,00, quando in cattedrale le alte autorità comunali aprono la camera blindata che durante l’anno custodisce il mezzobusto reliquiario e lo scrigno della santa, portati sull’altare maggiore fra centinaia di fazzoletti bianchi sventolati dai fedeli. Al termine della messa, prende il via gennaio

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Nella pagina accanto il reliquiario che custodisce parte del cranio, del torace e alcuni organi di sant’Agata e che viene portato in processione durante la festa. la processione per il lunghissimo giro esterno della città, che dura quasi per ventiquattro ore, fino al rientro in cattedrale all’alba del giorno 5, fra i fuochi pirotecnici. Sempre presso la basilica, ha quindi luogo la messa del Pontificale. Nel pomeriggio il busto reliquiario di sant’Agata viene nuovamente affidato ai devoti per un’ultima processione, che si conclude con il rientro in cattedrale nella mattinata del 6 febbraio.

A ciascuno il suo cero Nei tre giorni di festa, le strade del centro storico di Catania sono ravvivate da illuminazioni artistiche. In particolare in via di Sangiuliano si realizza un pannello largo tutta la strada, che raffigura ogni anno una scena diversa della vita della santa. Le processioni sono accompagnate da dodici cannalori o cerei, una tradizione risalente almeno al XV secolo: si tratta di grandi costruzioni in legno, riccamente scolpite e dorate, generalmente realizzate in stile barocco siciliano, che contengono un grosso cero. Portate a spalla da gruppi costituiti da 4 a 12 uomini, rappresentano le corporazioni cittadine delle arti e dei mestieri: Cereo di Sant’Aita, dei rinoti, degli ortofloricoltori, dei pescivendoli, dei fruttivendoli, dei macellai, dei pastari, dei venditori di formaggio, dei bettolieri, dei panificatori, del Circolo sant’Agata, del Villaggio Sant’Agata. Durante le processioni, il busto e lo scrigno con le reliquie della santa vengono trasportati su una vara del Cinquecento, trainata da devoti vestiti con un saio di cotone bianco detto «saccu», un copricapo di velluto nero, dei guanti e un fazzoletto bianco agitato al grido «Tutti devoti tutti, cittadini viva sant’Aita». Tiziano Zaccaria

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Una disfida in maschera I

n Austria, come in tutto l’arco alpino, il ciclo delle stagioni è da sempre caratterizzato da celebrazioni di cui sono protagoniste le maschere. Oggi, fra le rappresentazioni piú note, vi è il Carnevale Schemenlaufen (letteralmente «maschera che corre»), ospitato ogni quattro anni nella cittadina tirolese di Imst e quest’anno in programma il 31 gennaio. Questo corteo carnevalesco simboleggia la lotta fra l’inverno e la primavera per il dominio sulla natura e ha lo scopo di spaventare gli spiriti maligni, assicurando un abbondante raccolto per l’anno che verrà. Solo gli uomini partecipano alla sfilata, interpretando anche le figure femminili. Le maschere maschili sono riconoscibili dalla barba, quelle di donna hanno il volto dipinto di rosa. Intagliate nel legno, le maschere, nella maggior parte dei casi, hanno un aspetto inquietante, reso ancor piú impressionante in quelle maligne dal pelo sul volto, fatto con setole di maiale o piume. Ogni anno, nella data stabilita, alcune centinaia di uomini si ritrovano fin dalle prime ore del mattino nella chiesa parrocchiale di Imst per la distribuzione dei ruoli. Le maschere salgono quindi nel centro storico, per dare vita alla sfilata. I festeggiamenti si protraggono fino alla sera, quando tutte le maschere e il pubblico si ritrovano nella piazza centrale.

Baffi ricurvi e cappello ovale Il cuore del corteo è rappresentato dai Roller e dagli Scheller, che trasudano fascino e dignità, delicata femminilità e dura mascolinità. Gli Scheller, incarnazione dell’inverno, si distinguono per i lineamenti facciali, ornati da un paio di grandi baffi ricurvi. Indossano calzoni di pelle nera e sono avvolti in una tovaglia tradizionale, solitamente bianca e rossa, ostentando un grande cappello ovale appuntito, ornato con fiori di seta e altri elementi decorativi. Nella mano destra portano un’asta decorata e intorno alla vita hanno alcuni grossi campanelli, da quattro a otto, pesanti fino a 35 kg, che fanno risuonare danzando con movimenti ritmici. I Roller invece simboleggiano la primavera. Sono figure piú delicate, hanno caratteristiche facciali morbide, le labbra segnate da un sorriso tranquillo, un ampio copricapo con graziosi e brillanti colori rosso, rosa, blu o verde chiaro. Intorno ai fianchi indossano un’imbracatura con una dozzina di campanellini sferici. Altre maschere caratteristiche sono i Laggescheller e i Laggeroller. Nel dialetto locale l’espressione «lagg» significa debole, stanco: si tratta di figure vecchie e lente, con costumi simili a Scheller e Roller, con l’aggiunta di elementi vegetali come fagioli, pannocchie, spighe e paglia. Non mancano le streghe, che vagano per il paese danzando con le loro scope ed emettendo urla infernali. T. Z.

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ANTE PRIMA

Almanacco della cucina medievale Ricette per un anno

A sinistra miniatura raffigurante due donne che puliscono polli, da un’edizione del Tacuinum sanitatis. XIV sec. Nella pagina accanto miniatura raffigurante un banchetto, da un’edizione manoscritta dei Facta et dicta memorabilia di Valerio Massimo nella traduzione di Simon de Hesdin e Nicolas de Gonesse. XV sec.

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secoli del Medioevo hanno contribuito a disegnare la società e la cultura delle regioni italiane, elaborando usi e costumi che si sono radicati profondamente e, ancora oggi, fanno parte delle nostre tradizioni. Tra queste, un ruolo di primissimo piano spetta alla cucina, che nell’età di Mezzo si rinnova, grazie agli apporti vitali delle genti che, da Nord a Sud, si insediano nella Penisola. Basti pensare all’arrivo in Sicilia delle comunità islamiche, tra il IX e il X secolo: gli esuli del Maghreb introdussero la pasta, il riso, gli agrumi, lo zucchero, le mandorle, i torroni, i carciofi, le melanzane, lo zafferano... Gli «Arabi» applicarono in Sicilia le loro tecniche d’irrigazione, dettero forma definitiva alle tonnare, fecero

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conoscere nuove spezie e attuarono una vera e propria rivoluzione in pasticceria, grazie alle creme, alle fritture dolci, agli impasti spugnosi, ai marzapane e alle glasse. Queste e altre storie sono dunque il filo conduttore del nuovo Dossier di «Medioevo», articolato secondo le varie gastronomie regionali e sviluppato, in parallelo, come un almanacco, poiché le fonti ci consentono ancora oggi di riproporre o rivisitare le ricette della tavola medievale e perché gli aneddoti e le biografie talvolta svelano l’aspetto curioso che lega personaggi storici alla tavola. Un percorso che dura un anno e che proponiamo ai nostri lettori di seguire e, all’occasione, sperimentare a tavola con rievocazioni «golose», infarcite di «storici» condimenti…

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IL NUOVO DOSSIER DI MEDIOEVO

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AGENDA DEL MESE

Mostre MILANO GIOTTO, L’ITALIA U Palazzo Reale fino al 10 gennaio

La mostra presenta 13 opere, a formare una sequenza di capolavori mai riuniti tutti insieme. L’esordio è affidato alle opere giovanili: il frammento della Maestà

della Vergine da Borgo San Lorenzo e la Madonna da San Giorgio alla Costa, documentano il momento in cui l’artista era attivo tra Firenze e Assisi. Poi il nucleo dalla Badia fiorentina, con il polittico dell’altare maggiore, attorno al quale saranno ricomposti alcuni frammenti della decorazione affrescata che circondava lo stesso altare. La tavola con Dio Padre in trono proviene dalla Cappella degli Scrovegni e documenta la fase padovana del maestro. Segue poi il gruppo che inizia dal polittico bifronte destinato alla cattedrale

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a cura di Stefano Mammini

fiorentina di S. Reparata e che ha il suo punto d’arrivo nel polittico Stefaneschi, dipinto per l’altare maggiore della basilica di S. Pietro. Il percorso si chiude con i dipinti della fase finale della carriera del maestro: il polittico di Bologna, e il polittico Baroncelli, che nell’occasione viene

ricongiunto con la sua cuspide, raffigurante il Padre Eterno, conservata nel museo di San Diego in California. info www. mostragiottoitalia.it ROMA RAFFAELLO, PARMIGIANINO, BAROCCI U Musei Capitolini fino al 10 gennaio

La mostra evidenzia gli stimoli che, partendo da Raffaello, determinarono gli orientamenti artistici di Francesco Mazzola detto il Parmigianino e Federico Barocci, ricordati nelle testimonianze cinque-seicentesche come eredi

dell’Urbinate. Guardando a Raffaello con gli occhi del Parmigianino e di Barocci, l’esposizione affronta dunque il tema del confronto e quello dell’eredità tra artisti vissuti in epoche e luoghi diversi. Raffaello, Parmigianino e Barocci si espressero nella loro produzione grafica sperimentalmente e con forza innovativa. Per raccontare questo confronto a distanza, la mostra romana propone disegni dei tre artisti, insieme ad alcune stampe, provenienti dal Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi e dalle più importanti raccolte museali d’Europa, e non solo. Una selezione assai mirata di dipinti (per esempio, l’Annunciazione di Barocci alla Pinacoteca dei Musei Vaticani) richiama i nodi tematici principali offerti dalla grafica, mostrando inoltre lo sguardo dei protagonisti del dialogo ideale tra artisti ricostruito in mostra (Autoritratto giovanile di Raffaello e Autoritratto di mezza età di Barocci, entrambi alla Galleria degli Uffizi). info tel. 060608; www.museicapitolini.org MILANO D’APRÈS MICHELANGELO. LA FORTUNA DEI DISEGNI PER GLI AMICI NELLE ARTI DEL CINQUECENTO U Castello Sforzesco, Antico Ospedale Spagnolo fino al 10 gennaio

Disegni, alcuni originali

del grande genio del Cinquecento, dipinti, incisioni, preziosi oggetti d’arte svelano un aspetto piú intimo di Michelangelo, riguardante la sfera della sua vita privata e delle sue amicizie: un piccolo nucleo di opere, per le quali è stata coniata la definizione di «fogli d’omaggio». Tra gli anni Venti e Quaranta del Cinquecento, mentre attende alle committenze medicee (Sagrestia Nuova in S. Lorenzo a Firenze) e a quelle pontificie (il Giudizio Universale della Sistina), il maestro intreccia importanti relazioni di amicizia con esponenti della nobiltà romana, siglate anche attraverso il dono di elaboratissime composizioni grafiche a

matita. La mostra documenta dunque l’apparente contrasto tra l’originaria destinazione privata di tali disegni e la straordinaria, immediata fortuna che essi incontrarono presso gli artisti e i collezionisti del tempo. info tel. 02 88463660 oppure 88467778; www.milanocastello.it SIENA BRANDANO. UN ROMITO SENESE DEL ‘500 FRA STORIA E LEGGENDA U Accademia dei Rozzi dal 18 al 23 gennaio

Bartolomeo Carosi, detto Brandano, è stato uno dei tanti «irregolari» che, fra Medioevo e Rinascimento, hanno girato le campagne e le città. La mostra ripercorre le fasi della fortuna bibliografica di questo predicatore, gennaio

MEDIOEVO


esponendo manoscritti ed edizioni a stampa. info tel. e fax 0577 271466; e-mail: info@accademmiadeirozzi.it PARIGI CAVALIERI E BOMBARDE. DA AZINCOURT A MARIGNANO, 1415-1515 U Musée de l’Armée fino al 24 gennaio

Nel pieno della guerra dei Cent’anni, la battaglia di Azincourt segnò la fine degli eserciti di stampo feudale e, un secolo piú tardi, le truppe di Francesco I ebbero un ruolo determinante nella vittoria conseguita a Marignano sui picchieri elvetici. Tra i due eventi l’arte della guerra conosce alcuni dei suoi sviluppi piú significativi, ai quali il museo sorto nel complesso parigino degli Invalides dedica ora una grande mostra. Il percorso espositivo si avvale innanzitutto dei materiali appartenenti alle collezioni permanenti della raccolta ed è stato articolato in tre sezioni tematiche: gli arcaismi tattici e novità tecnologiche; il tempo delle riforme e degli esperimenti; le guerre

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d’Italia e i successi dell’artiglieria francese. Un’occasione per rivivere gli scontri campali che hanno segnato la storia del Medioevo e del Rinascimento, anche grazie all’«incontro», con i loro protagonisti, come, per esempio, Giovanna d’Arco. info www.musee-armee.fr/ ExpoChevaliers Bombardes/ VENEZIA DANIELE BARBARO (1514-70). LETTERATURA, SCIENZA E ARTI NELLA VENEZIA DEL RINASCIMENTO U Biblioteca Nazionale Marciana, Sale monumentali fino al 31 gennaio

La mostra illustra i risultati della ricerca, condotta attraverso il coinvolgimento di un nutrito gruppo di studiosi. (https://arts. st-andrews.ac.uk/ danielebarbaro). Tema del progetto è l’attività di Daniele come scrittore, vista anche e soprattutto in relazione all’aspetto materiale dei diversi manoscritti superstiti e degli esemplari a stampa delle sue opere, nel contesto del Rinascimento europeo.

In una Venezia ormai aperta all’entroterra, Daniele, esponente autorevole dell’illustre famiglia Barbaro, fu uno dei maggiori intellettuali del tempo; egli si occupò di filosofia, matematica, astronomia, ottica, storia, musica e architettura, in contatto con i maggiori esperti e artisti, e con le Accademie del tempo. info http://marciana. venezia.sbn.it AMSTERDAM ROMA. IL SOGNO DELL’IMPERATORE COSTANTINO U De Nieuwe Kerk fino al 7 febbraio

Introdotta da una spettacolare replica dell’arco trionfale innalzato in onore dell’imperatore «cristiano», la rassegna che la Nieuwe Kerk dedica a Costantino non soltanto ripercorre la vicenda biografica e politica del trionfatore di Ponte Milvio, ma si sofferma sugli esiti del suo principato. Quella promossa attraverso l’editto che riconosceva la libertà di

culto per i cristiani fu, infatti, un’autentica rivoluzione, destinata a influenzare in maniera significativa la storia religiosa e culturale del mondo intero. info www.nieuwekerk.nl LONDRA EGITTO: LA FEDE DOPO I FARAONI U British Museum fino al 7 febbraio

La rassegna abbraccia un orizzonte cronologico vastissimo, pari a circa dodici secoli: il percorso documenta infatti le vicende di cui l’Egitto fu teatro fra l’avvento del cristianesimo e l’islamizzazione, riservando un’attenzione particolare alle sorti delle comunità ebraiche che vi si erano insediate. Una storia che il Paese del Nilo permette di raccontare in maniera straordinariamente dettagliata soprattutto grazie alla ricchezza delle testimonianze restituite dagli scavi archeologici. L’esordio è affidato ad alcuni importanti esemplari manoscritti della Bibbia ebraica, del Nuovo Testamento cristiano e del Corano, messi a confronto con edizioni moderne dei medesimi testi. Da qui prende le mosse un viaggio affascinante, che si chiude, non meno significativamente, con i testi rinvenuti nella sinagoga di Ben Ezra, al Cairo, databili tra l’XI e

il XIII secolo. info www. britishmuseum.org BERLINO IL RINASCIMENTO DI BOTTICELLI U Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie fino al 24 gennaio

Celebrato oggi come uno dei massimi pittori di ogni tempo, Sandro Botticelli (1445-1510), in realtà, venne presto dimenticato e la sua riscoperta si deve in larga parta alla fortuna di cui godette presso i preraffaelliti. Da allora, in compenso, la sua fama non si è piú

attenuata, fino a farne quasi un’icona della cultura pop. È questo uno dei presupposti della rassegna allestita a Berlino, che documenta proprio la discontinua popolarità dell’opera del maestro fiorentino, attraverso una selezione ricca e

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AGENDA DEL MESE significativa, che, oltre a comprendere piú di cinquanta opere dello stesso Botticelli, spazia nel tempo, fino a includere lavori firmati da artisti quali Edgar Degas, Edward Burne-Jones, Dante Gabriel Rossetti, René Magritte, Andy Warhol, Cindy Sherman e Bill Viola. A riprova di come la sua influenza abbia ispirato e continui a ispirare l’arte moderna e contemporanea, in una misura forse superiore a quella degli altri maestri della pittura antica. info www.botticellirenaissance.de

furono realizzati dai maestri arazzieri fiamminghi Jan Rost e Nicolas Karcher. info tel. 055 2768325 LONDRA VISIONI DEL PARADISO. LA PALA D’ALTARE DEL PALMIERI DI BOTTICINI U The National Gallery fino al 14 febbraio

La mostra segna il culmine di tre anni di ricerca sull’imponente

è esposta insieme a dipinti, sculture, disegni, stampe, manoscritti e una medaglia di bronzo. La mostra chiarisce il dibattito su vari aspetti della pala, inclusa la sua falsa attribuzione a Sandro Botticelli, la sua controversa iconografia, considerata eretica da alcuni teologi, e la sua posizione originale. Viene inoltre presentata

(206 A.C.-907 D.C.) U Palazzo Venezia fino al 28 febbraio

Grazie ai capolavori del Museo Provinciale dello Henan, l’esposizione racconta il passaggio dalla dinastia Han – periodo in cui l’odierna Cina prende forma – all’Età dell’Oro dei Tang (581-907). Tra i manufatti giunti a Roma, vi sono una veste funeraria

FIRENZE IL PRINCIPE DEI SOGNI. GIUSEPPE NEGLI ARAZZI MEDICEI DI PONTORMO E BRONZINO U Palazzo Vecchio, Sala dei Duecento fino al 15 febbraio

Commissionati da Cosimo I de’ Medici per la Sala de’ Dugento di Palazzo Vecchio, i venti arazzi cinquecenteschi con la storia di Giuseppe sono una testimonianza eccelsa dell’artigianato e dell’arte del Rinascimento. I disegni preparatori furono affidati ai maggiori artisti del tempo, primo fra tutti Pontormo. Ma le prove predisposte da quest’ultimo non piacquero a Cosimo I, che decise di rivolgersi ad Agnolo Bronzino, a cui si deve parte dell’impianto narrativo della serie. Tessuti alla metà del XVI secolo nella manifattura granducale,

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pala d’altare di Francesco Botticini L’Assunzione della Vergine (228,6 x 377,2 cm), inquadrando l’opera nel contesto delle tradizioni dell’Umanesimo civile e del mecenatismo religioso nella Firenze del Rinascimento. Vengono esplorati la vita, gli scritti e i ruoli politici del committente del dipinto, Matteo Palmieri (1406-1475), e il suo rapporto con i Medici, i signori di Firenze. Completata intorno al 1477 per la cappella funeraria di Palmieri nella chiesa di S. Pier Maggiore a Firenze, la pala d’altare

la prima ricostruzione digitale dell’antica chiesa di S. Pier Maggiore, distrutta alla fine del XVIII secolo. Inserendo nuovamente il dipinto di Botticini nella sua architettura e contesto spirituale originali, è possibile ottenere nuove conoscenze sulle dimensioni, sull’insolito formato orizzontale e sull’iconografia della pala. info www. nationalgallery.org.uk

composta da 2000 listelli di giada intessuti con fili d’oro, e poi lacche, terrecotte invetriate, vasi, oggetti in oro, argento e giadeite, a illustrare lo straordinario clima di prosperità e di apertura culturale di questo periodo. info tel. 06 6780131; www. tesoridellacinaimperiale.it MILANO

ROMA

ALDO MANUZIO IN AMBROSIANA U Pinacoteca Ambrosiana fino al 28 febbraio

TESORI DELLA CINA IMPERIALE. L’ETÀ DELLA RINASCITA FRA GLI HAN E I TANG

Arricchito da strumenti tipografici d’epoca provenienti dalla collezione dell’editore

Enrico Tallone, il percorso espositivo copre l’intera attività di Manuzio, dall’Erotemata del Lascaris, stampata il 28 febbraio 1495, al De rerum natura di Lucrezio, pubblicata nel gennaio del 1515. Fra gli incunaboli non mancano i capolavori, tra cui il De Aetna dell’amico Pietro Bembo (1495), e, tra le cinquecentine, si segnala il Virgilio del 1501, la prima edizione in ottavo e in carattere corsivo, la cui dimensione permise la grande circolazione del libro nell’Europa del Cinquecento, facilitando la rinascita della cultura classica. Non vanno infine dimenticati i Moralia di Plutarco del 1509, un ponderoso volume di 1068 pagine contenente novantadue trattati, di cui l’Ambrosiana possiede anche l’archetipo manoscritto duecentesco usato da Aldo Manuzio per la stampa. La rassegna, inoltre, dà conto dello stretto rapporto gennaio

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intercorso tra Aldo ed Erasmo da Rotterdam; il filosofo olandese, che visse ospite per oltre un anno in casa Manuzio, apprezzava la cura delle edizioni aldine, ma, soprattutto, riteneva di fondamentale importanza che i suoi lavori fossero stampati proprio da Manuzio, per garantire al suo pensiero la maggior diffusione possibile in Europa. info tel. 02 806921; www.ambrosiana.it GENOVA LUCIANO BORZONE. PITTORE VIVACISSIMO NELLA GENOVA DI PRIMO SEICENTO U Palazzo Nicolosio Lomellino di Strada Nuova fino al 28 febbraio

Per la prima volta vengono esposti 20 tra i dipinti piú significativi del pittore e incisore genovese Luciano Borzone (1590-1645). La mostra si snoda lungo un percorso che si apre con l’evocazione del contesto locale e delle fonti figurative che agirono, fin da subito, sulla sensibilità del giovane artista, per proseguire poi nella presentazione di come Borzone operò sia sul versante sacro, sia su quello profano. Le opere, perlopiú provenienti da collezioni private, si fanno viva testimonianza dell’umanizzazione del sacro con cui il pittore, profondo conoscitore dell’animo umano, ha dato prova di saper costruire le sue figure, e

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gennaio

della sua fantasiosa vena profana. info tel. 010 0983860 (orario d’ufficio) e 393 8246228 (prefestivi e festivi); e-mail: lomellino@studiobc.it; www.palazzolomellino.org BOLOGNA TRA LA VITA E LA MORTE. DUE CONFRATERNITE BOLOGNESI TRA MEDIOEVO E ETÀ MODERNA U Museo Civico Medievale fino al 28 marzo

Protagoniste dell’esposizione sono le Confraternite bolognesi di S. Maria della Vita e di S. Maria della Morte, un tempo ubicate una di fronte all’altra. Infatti, se quella della Vita aveva sede all’interno della chiesa omonima, in via Clavature, quella della Morte si estendeva tra via Marchesana e il portico che ne conserva il nome, correndo lungo via dell’Archiginnasio e costeggiando il lato di S. Petronio. La mostra è l’occasione per ricostruire l’attività delle due confraternite soprattutto attraverso una ricca selezione di documenti figurativi (dipinti, miniature, sculture, ceramiche, oreficerie), con una particolare attenzione alle numerose miniature contenute entro i volumi degli Statuti di entrambe le Compagnie, a partire dal Duecento, fino a tutto il Seicento. info tel. 051 2193930 oppure 051 2193916; www.museibologna.it

COLLEFERRO (ROMA) IL «TESORO» DEI CONTI U Museo Archeologico del Territorio Toleriense fino al 31 marzo

Realizzata nell’ambito delle manifestazioni per gli 80 anni dalla nascita del Comune di Colleferro e per l’VIII centenario della morte di Innocenzo III, la mostra espone i risultati degli scavi nel castello di Piombinara e, in particolare, i materiali provenienti dalla necropoli

individuata intorno e all’interno della chiesa castellana, probabilmente dedicata a S. Nicola. Si tratta (per ora) di 113 sepolture che hanno restituito arredi-corredo databili perlopiú al XIII-XV secolo, ma con presenze, almeno in due sepolture, coeve al primo impianto della chiesa, di monili altomedievali (VII secolo). info tel 06 9781169; e-mail: museo@comune. colleferro.rm.it FIRENZE UN PALAZZO E LA CITTÀ U Museo Salvatore Ferragamo fino al 3 aprile

Forte di opere e documenti provenienti da musei e collezioni private, la mostra ripercorre le complesse vicende storiche di Palazzo Spini Feroni. Le origini dell’edificio risalgono al 1289, dopo che un’alluvione aveva distrutto le case degli Spini, ricca e potente famiglia proprietaria di una delle prime società bancarie d’Europa. Committente dell’edificio fu Ruggeri, detto Geri, la persona

piú illustre del casato, banchiere di papa Bonifacio VIII. L’allestimento è dominato da due grandi forzieri che contengono le opere d’arte e i documenti: spiccano, tra gli altri, un dipinto seicentesco che raffigura l’albero genealogico degli Spini; una pergamena del 1277 che dimostra l’acquisto degli Spini di un terreno e di una casa nei pressi del ponte Santa Trinita; la storia della famiglia nel Quattrocento scritta da un discendente di Geri, Doffo. Due modelli in scala, realizzati dal Dipartimento di

Architettura dell’Università di Firenze, riproducono l’area cittadina in cui fu costruito il palazzo, e la sua architettura, come appare nella veduta quattrocentesca. info tel. 055 3562846; e-mail: museoferragamo@ ferragamo.com; www.ferragamo.com VENEZIA «SPLENDORI» DEL RINASCIMENTO A VENEZIA. ANDREA SCHIAVONE TRA PARMIGIANINO, TINTORETTO E TIZIANO U Museo Correr fino al 10 aprile

Pittore dal pennello veloce come una freccia, Andrea Meldola, detto Schiavone (1510 circa-1563), propose un linguaggio pittorico nuovo e spregiudicato, tanto che, già pochi anni dopo l’arrivo a Venezia (avvenuto forse intorno al 1535), divise l’opinione pubblica e la critica: chi come l‘Aretino lo stimava e gli era amico, chi come il Pino non nascondeva il suo disprezzo. Un artista «fuori dal coro», dunque, affascinante e moderno, sul quale si fa finalmente il punto dopo decenni di studi e ricerche. Per la prima volta sono riuniti oltre 80 lavori di Schiavone, dipinti, disegni, incisioni: oltre ad alcuni inediti, si possono vedere insieme i capisaldi della sua opera pittorica e, con essi, importanti dipinti di confronto dei

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AGENDA DEL MESE maggiori artisti del tempo, punto di riferimento per il Dalmata e con i quali egli ebbe contatti o rapporti di «dare» e «avere». info call center, tel. 848 082 000; e-mail: info@fmcvenezia.it; www.correr.visitmuve.it NONANTOLA (MO) MATILDE, SPLENDENTE FIACCOLA U Museo Benedettino e Diocesano di Arte Sacra fino all’11 aprile

L’abbazia romanica di Nonantola ricorda Matilde di Canossa proponendo un percorso attraverso antiche pergamene che indaga i rapporti tra il potente e ricco monastero e la famiglia della contessa. Del periodo dei Canossa, e

di Matilde in particolare, l’Archivio Storico Abbaziale conserva infatti una ventina di pergamene. Ne emerge un periodo travagliato ma di contatti frequenti, fatto di liti per proprietà contese, donazioni di terre, commutazioni di beni. Accanto alle pergamene vi è spazio per due celebri codici medievali della sua epoca: la Relatio dell’Archivio Capitolare della cattedrale modenese e il magnifico Evangelistario di Matilde di Canossa (XI secolo), realizzato dai Benedettini nonantolani nel loro scriptorium. info tel. 059 549025; e-mail: museo@abbazianonantola.net; www.abbazia-nonantola.net

APPUNTAMENTI • Medioevo in libreria, XIV Edizione: «Medioevo al femminile» U Milano – Civico Museo Archeologico di Milano, Sala Conferenze

fino al 9 aprile 2016 info tel. 02 45329840; e-mail: info@ italiamedievale.org; www.italiamedievale.org; http://medioevoinlibreria.blogspot.it

L

a nuova edizione della rassegna «Medioevo in Libreria» è dedicata al tema del «Medioevo al femminile». La formula, ormai consolidata, prevede visite guidate al mattino, proiezioni video e conferenze al pomeriggio. Le visite offrono l’occasione di scoprire le meraviglie medievali di Milano, sviluppando un percorso volto a svelare il rapporto che i Milanesi hanno avuto con la loro città e i suoi dintorni, selezionando e trattando singolarmente edifici e chiese. Ogni visita guidata ha durata compresa tra i 45 minuti e le 2 ore e gli incontri pomeridiani hanno luogo, con inizio alle 15,30 e la proiezione del filmato Viaggio nel Medioevo, presso la Sala Conferenze del Civico Museo Archeologico di Milano. Qui di seguito, l’elenco dei prossimi appuntamenti: ✓ 16 gennaio. Ore 11,00: visita guidata alla basilica di S. Stefano Maggiore e alla chiesa di S. Bernardino alle Ossa, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Elena Percivaldi, medievista e saggista: La donna longobarda tra storia, mito e leggenda. ✓ 13 febbraio. Ore 11,00: visita guidata alla Certosa di Garegnano, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Martina Bertoletti, Università degli Studi di Milano: A legibus soluta: i reali margini d’azione nella gestione femminile del patrimonio familiare. ✓ 12 marzo. Ore 11,00: visita guidata all’Abbazia di Chiaravalle, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Beatrice Del Bo, Università degli Studi di Milano: A partire da Griselda: donne medievali nella letteratura e nella storia. ✓ 9 aprile. Ore 11,00: visita guidata al Castello Sforzesco, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Nadia Covini, Università degli Studi di Milano: Donne e potere alla corte degli Sforza. BASSANO DEL GRAPPA IL MAGNIFICO GUERRIERO. BASSANO A BASSANO U Civici Musei fino al 31 gennaio 2017 (dal 19 gennaio)

Il Magnifico Guerriero di Jacopo Bassano si offre all’ammirazione del pubblico grazie al comodato gratuito accordato dal suo possessore ai Civici Musei bassanesi. Il dipinto ritrae un affascinate nobiluomo

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dalla fulva, curatissima barba. Non un giovane ma un uomo maturo, certo aduso al comando, ma, soprattutto, a una vita raffinata lontano dai campi di battaglia. Indossa una preziosa corazza alla moda dell’epoca, che lo costringe, ma che non riesce a ingabbiarne la grazia e la flessibilità. Le lunghe dita, curate e perfette, non sembrano le piú adatte a menar fendenti, cosí come il

suo spadino di ferro e oro sembra piú da parata che da battaglia. Secondo Vittoria Romani dell’Università di Padova, che ha avuto il merito di ricondurre a Jacopo Bassano questo autentico capolavoro già attributo a Veronese e a Pordenone, il ritratto è databile agli anni immediatamente seguenti il 1550. info tel. 0424 519.901904; e-mail: info@museibassano.it; www.museibassano.it gennaio

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essere leader nel medioevo/1

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Ambrogio, il vescovo

di Renata Salvarani

Quali erano, nel Medioevo, i tratti tipici del «capo»? La risposta, come si può facilmente intuire, non potrebbe essere univoca ed è proprio dalle molte declinazioni del ruolo di guida – politica, militare, spirituale, ma anche filosofica o artistica – che nasce questa nuova serie. Per il cui esordio abbiamo scelto una delle figure piú carismatiche, non soltanto dei primi secoli dell’età di Mezzo, ma dell’intera storia europea Sant’Ambrogio impedisce all’imperatore Teodosio di entrare in chiesa (altrimenti interpretato come San Romualdo appare a Ottone III), tempera su tavola del Beato Angelico (al secolo Guido di Pietro, 1400 circa-1455). 1420-1455. Anversa, Museo Reale di Belle Arti.

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In alto ritratto di santa Caterina da Siena, disegno di autore ignoto. XVII sec. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

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Nella pagina accanto medaglione in marmo con il ritratto di Ludovico Sforza, detto il Moro. XV sec. Lione, Musée des Beaux-Arts.

poca di sperimentazioni e innovazioni, crogiolo di tradizioni giuridiche, teatro di scontri sanguinosi e mediazioni sofferte, il Medioevo si è incarnato in figure di leader capaci di condurre il loro mondo attraverso mutamenti profondi, prospettando visioni del futuro con le quali possiamo tuttora confrontarci. Che cosa hanno rappresentato per i contemporanei? Per uno di loro che ha avuto successo, quanti, invece, hanno finito per soccombere e scomparire nell’oblio? Quali modelli culturali e quali comportamenti si sono confrontati nelle loro vite? Dalla tarda antichità in poi, le società europee hanno dovuto elaborare nuovi modelli di gestione delle relazioni politiche e sociali. Questa ricerca, il cui esito ha determinato la sopravvivenza o la scomparsa di popoli, l’affermazione di dinastie, la fine di interi sistemi di potere, si è incentrata sui «comandanti». Guerrieri, sovrani, predicatori, mistici o mistiche che fossero, la loro stessa emersione avviene al di fuori di un cursus honorum prestabilito e mette in evidenza la molteplicità di situazioni possibili che le loro scelte individuali hanno contribuito a definire. Personaggi talmente diversi gli uni dagli altri da rendere pressoché impossibile una definizione di leadership. Emerge, piuttosto, una pluralità, spesso contraddittoria, di modelli e di comportamenti, alcuni dei quali risultarono vincenti proprio perché furono dirompenti e difficili da prevedere e, allo stesso modo, si rivelano oggi ostici da interpretare. Simili elementi di rottura e di innovazione corrispondono al travaglio di un’intera società in cerca della propria identità e di un ordine da dare al proprio vivere quotidiano. Il termine stesso deriva dal germanico lead, condurre, guidare, e rinvia all’apporto che le culture nordiche hanno dato a questa costruzione. Il rapporto paritario di lealtà fra uomini liberi, la centralità della guerra, il valore dimostrato sul campo, la strutturazione gerarchica del potere all’interno di larghi gruppi familiari sono entrati nel patrimonio dei valori sociali dell’Europa. L’instaurarsi dei rapporti di vassallaggio e la loro codificazione sul piano giuridico hanno permeato un’epoca. Tuttavia, l’esercizio della leadership e la creazione di nuovi modelli di comando non si è esaurita all’interno di questo schema. Nella creazione di nuove istituzioni e nei processi complessi che l’hanno accompagnata si sono integrati elementi giuridici latini, romani e bizantini; la dimensione religiosa ha assunto un ruolo spesso determinante nell’orientare scelte e comportamenti. Autorità e guide si sono poste al di sopra di chi le riconosceva come tali in virtú di un carisma, di doti percepite come eccezionali, talvolta provvidenziali. Come si è gennaio

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esplicato il loro carisma? Sulla base di quale sensibilità e di quali aspettative? A noi risulta difficile comprendere come centinaia, forse migliaia di persone abbiano potuto seguire a piedi, senza rifornimenti né armi, uno straccione come Pietro l’Eremita, dalla Francia e dall’Italia, per finire trucidati prima ancora di arrivare a Gerusalemme, o spiegare come il ritorno della curia papale da Avignone a Roma sia stato influenzato da Caterina da Siena, un’analfabeta che non usciva quasi mai dalle sue stanze. Proprio per questo l’analisi delle leadership è una delle frontiere piú interessanti della piú recente e piú evoluta storiografia, che coniuga le metodologie che le sono proprie con motivi di indagine della sociologia e della psicologia. Diventa, infatti, studio dell’innovazione e delle riforme vissute dall’Europa nei secoli centrali del Medioevo, focus delle dinamiche di gruppo, ricostruzione dei meccanismi dell’arte di indurre il consenso ed esercitare un’influenza di persuasione, valutazione dei processi che, a partire da un singolo, portano alla creazione di una struttura istituzionale durevole. Si configura anche come storia delle idee e delle mentalità: un capo riesce a guidare un gruppo verso il raggiungimento di un obiettivo in base a una visione di sé e del mondo, contribuendo cosí a creare il patrimonio ideale e identitario di un popolo. Con altrettanta forza emergono gli aspetti psicologici: quali persone sono piú capaci nell’esercizio della leadership? Quali atti e comportamenti sono caratteristici? Sono interessate direttamente le dinamiche di gruppo. Se la leadership è relazione di potere, ci si chiede in che modo si siano storicamente costituiti i rapporti di comando e di riconoscimento di un’autorità e come i gruppi abbiano creato i loro duces. Cosí, anche le dinamiche di genere si incrociano e si manifestano nell’avvento delle leadership e nelle stratificazioni culturali in cui esse diventano modelli di comportamento, declinandosi anche al femminile: Eleonora di Aquitania, Margareth di Beverly, Matilde di Canossa, piú

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che eccezioni sono persone che, piú di altre, hanno messo in evidenza comportamenti, scelte e implicazioni di modalità di relazioni comuni a un intero contesto sociale. Cosí, le vicende individuali di Alboino e Carlo Magno, guerrieri e re, quelle di Ildegarda di Bingen, mistica visionaria capace di difendere con fermezza la sua comunità di monache, quelle dei grandi protagonisti della Riforma Romana Gregoriana, asceti impegnati a smontare un sistema di potere mettono in evidenza come la capacità di avere un seguito nasca dalla forza di una visione che va oltre il presente, ma dipende poi dalla gestione di singole situazioni, di contrasti e opposizioni che, una volta superati, portano a realizzare quell’ideale in una società. Gerolamo Savonarola si presenta come esempio di leadership religiosa emerso in una società urbana scossa da rivolgimenti sociali e da sperimentazioni istituzionali: il leader demolitore prospetta una salvezza individuale e comune attraverso il rifiuto degli schemi contemporanei che vengono sostituiti da paradigmi innovativi presentati, invece, come autentici, originari, legati alla purezza e all’essenza del modello di Cristo. Gian Galeazzo Visconti, Ludovico il Moro e altri «signori» italiani esercitano il loro potere politico in un preciso contesto sociale dinamico, a partire dall’appartenenza a una famiglia strutturata come lignaggio e da un territorio che va delimitandosi in base all’esercizio di poteri signorili. La biografia di Erasmo da Narni, il Gattamelata, permette di rilevare la peculiarità del comando dei capitani di ventura: coraggio, abilità fisica, doti diplomatiche, capacità di cogliere la «fortuna» e di affrontare i rovesci della sorte, in un mondo incerto e precario, che talvolta poteva consentire margini per emergere a individui molto reattivi e adattabili. Prende forma, insomma, un quadro quanto mai sfaccettato della società medievale e delle sue forze di cambiamento, che si delinea storicamente intorno a exempla di comportamento, codificati e proposti alle nuove generazioni, spesso con un successo che arriva a tessere la trama del patrimonio ideale dell’Europa, fino ai giorni nostri. 31


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l volto allungato, scavato, la barba e i baffi, un’espressione malinconica, orecchie pronunciate e l’occhio destro piú basso dell’altro. Ambrogio è rappresentato cosí, piccolo di statura, fra i santi Gervasio e Protasio nel mosaico absidale del sacello (o cappella) di S. Vittore in Ciel d’Oro, probabilmente sulla base di un ritratto realizzato in vita. L’indagine effettuata nel 1871 sui suoi resti, conservati sotto l’altare d’oro della basilica a lui intitolata, ha confermato la leggera deformazione della cavità orbitale destra e il fatto che era alto poco piú 1,60 m. Per sua stessa ammissione, non era per niente robusto e cadeva spesso malato. Leggeva mentalmente, al contrario di quanto si faceva all’epoca, forse per risparmiare la voce o il respiro. Eppure tutta la sua vita fu ricca di una forza straordinaria che ne fece un leader, sia nella predicazione del Vangelo, sia rispetto alla società del suo tempo. Tre episodi, in particolare, lo dimostrano bene. L’anno 384 vide confrontarsi e scontrarsi Quinto Aurelio Simmaco, da una parte, e Ambrogio dall’altra, sulla ricollocazione dell’altare della Vittoria nell’aula del Senato e sull’abolizione delle leggi antipagane emanate da poco piú di due anni. Il primo, in realtà, rappresentava la gran parte del ceto senatorio e le resistenze anticristiane ben presenti

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DA TREVIRI A MILANO 333-334 Ambrogio nasce a Treviri, in una famiglia il cui padre era (o 339-340) un funzionario imperiale di origine romana. 365 Insieme al fratello Satiro, Ambrogio si trasferisce a Sirmio, per esercitarvi l’avvocatura. 370 Si reca a Milano per assumere il governo di Liguria e Emilia. 374 Nell’autunno viene eletto vescovo; poco dopo, il 30 novembre dello stesso anno, riceve il battesimo; il 7 dicembre l’ordinazione episcopale. 381 Il concilio di Costantinopoli riconferma il credo stabilito a Nicea e la proclamazione della divinità dello Spirito Santo; un concilio viene riunito ad Aquileia da Ambrogio per la condanna di vescovi filoariani. 382 Papa Damaso convoca un concilio a Roma al quale partecipa anche Ambrogio. 384 Il vescovo milanese si oppone fermamente alla richiesta di Simmaco e di altri aristocratici pagani di ricollocare l’altare della Vittoria nell’aula del Senato a Roma. 385-386 Scontro con Valentiniano e la corte dell’imperatrice Giustina che vorrebbero concedere una chiesa milanese ai filoariani. 386 I resti dei martiri Protasio e Gervasio vengono rinvenuti a Milano e solennemente traslati. In basso rilievo raffigurante Ambrogio (primo a sinistra) che caccia gli ariani da Milano, dalla decorazione di Porta Romana. XII sec. Milano, Castello Sforzesco.

nelle società urbane. Il vescovo di Milano ingaggiò con lui una controversia dialettica e retorica e, infine, riuscí a imporre una nuova visione del rapporto fra cristianesimo, impero ed eredità romana. Superando una malposta contrapposizione fra le due realtà, arrivò a legittimare i valori morali della

classicità, recepiti dal cristianesimo, senza accettarne i simboli, né, tantomeno, le espressioni religiose. Mise in evidenza la superiorità etica della verginità consacrata evangelica, intesa come dono gratuito di sé, rispetto ai gruppi sacerdotali pagani che rinnovavano continuamente richieste di finanziamenti pubblici.

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387 Dopo un lungo catecumenato, Agostino riceve il battesimo da Ambrogio nella notte di Pasqua. 390 Per punire una sommossa, Teodosio si rende responsabile di un massacro a Tessalonica. Ambrogio evidenzia la gravità della colpa dell’imperatore e lo induce a sottoporsi a penitenza pubblica. Lo riammetterà alla comunione ecclesiale e sacramentale nella veglia di Natale dello stesso anno. 392 Ambrogio presiede un concilio a Capua sulla dottrina antimariana. Nell’agosto dello stesso anno celebra le esequie dell’imperatore Valentiniano II a Milano. 393 Convoca a Milano un concilio per la difesa della consacrazione monastica e verginale; nella primavera dello stesso anno a Bologna è presente al rinvenimento dei resti dei martiri Vitale e Agricola. 395 Pronuncia l’omelia funebre per Teodosio che delinea l’etica della leadership e il modello del sovrano cristiano. Nello stesso anno vengono rinvenuti i resti dei santi milanesi Nazario e Celso. 397 Dopo una lunga malattia, muore il 4 aprile, assistito dai vescovi Bassiano di Lodi e Onorato di Vercelli. Rifiutò una proposta di mediazione che, in nome della tolleranza, avrebbe affiancato i segni dei culti romani a quelli cristiani, perché rischiava di tradursi in un relativismo inaccettabile. Sostenendo la positività della tradizione e senza mai venir meno al lealismo verso i sovrani, ottenne infine da Valentiniano II e da Teodosio che le norme antipagane fossero mantenute e che l’ara non venisse ripristinata.

Lo scontro con gli ariani

Un altro momento importante è legato alla presenza a Milano del vescovo ariano Aussenzio (discepolo di Ulfila, evangelizzatore dei Goti). Con la sua predicazione, questi suscitava larghi consensi e godeva dei favori della corte di Giustina e Valentiniano II. Tanto che una legge non solo concedeva libertà di culto ai seguaci della dottrina omea (il Figlio è solo simile al Padre), ma comminava l’esilio e la pena di morte a chi si fosse opposto a questo diritto, considerato colpevole di lesa maestà nei confronti dei sovrani.

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Milano, sacello di S. Vittore in Ciel d’Oro. Particolare del mosaico della cupola con il ritratto di Ambrogio. V-VI sec.

Lo scontro con Ambrogio raggiunse l’acme quando, nel 386, la corte gli intimò di concedere per le officiature dei filo-ariani la basilica Porziana (edificio di difficile identificazione collocato fuori le mura). Il netto rifiuto del vescovo lo espose a un contraddittorio con giudizio pubblico, al quale lui si sottrasse sulla base di argomentazioni di diritto che delineavano una distinzione fra l’ambito statale e quello della Chiesa. Scrisse allo stesso Valentiniano: «Quando hai sentito, clementissimo imperatore, che in una causa di fede i laici abbiano giudicato il vescovo?». Rivolgendosi poi ad Aussenzio, precisò ulteriormente come la questione dovesse essere vista come un’applicazione del principio evangelico «Date a Cesare quello che è di Cesare a Dio quello che è di Dio» e non come un’insubordinazione nei confronti del sovrano: «Che c’è di piú onorifico che affermare che l’imperatore

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è figlio della Chiesa? L’imperatore infatti è dentro la Chiesa, non sopra la Chiesa». Ambrogio, quindi, sosteneva la propria autonomia di decisione nella sfera religiosa rispetto al potere civile, in una prospettiva del tutto nuova per la cultura romana e per lo stesso cristianesimo di epoca costantiniana. Nel frattempo, la guardia imperiale circondò la chiesa, mentre, all’interno, i fedeli vegliavano. Nella Domenica delle Palme, Ambrogio predicò ai catecumeni nel

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battistero (quello di S. Giovanni ad Fontes o quello di S. Stefano), mentre funzionari imperiali ponevano il velabro nella basilica Porziana, segno che l’augusto vi si sarebbe recato per la Pasqua, riservando cosí di fatto l’edificio agli ariani.

I soldati in basilica

Le pressioni e le minacce della corte sul vescovo continuavano: alcuni soldati vennero inviati a presidiare la basilica e Ambrogio minacciò di

scomunicarli se avessero proseguito l’occupazione. Furono loro a far pesare lo sviluppo degli eventi a favore di Ambrogio e dei cattolici: li si vide arrivare alla spicciolata là dove lui stava officiando e pregando con i fedeli, mentre alcuni loro emissari fecero sapere all’imperatore che avrebbero continuato a difendere la sua incolumità dal popolo inferocito, ma non avrebbero proseguito il presidio, né partecipato a una celebrazione ariana. gennaio

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A destra sant’Ambrogio in un rilievo scolpito da un maestro campionese. XIV sec. Milano, Castello Sforzesco. Si noti il flagello che il vescovo impugna nella mano destra. A sinistra disegno ricostruttivo della città di Milano, cosí come doveva presentarsi nel IV sec.

Agiografia ambrosiana

Un esempio di vita venerato, imitato e tradotto in immagini Il culto per Ambrogio fu molto precoce: i suoi resti mortali vennero presto onorati e per la sua memoria liturgica si scelse il giorno della sua consacrazione, il 7 dicembre, in corrispondenza di uno dei maggiori mercati cittadini sviluppati nel Medioevo. Non solo: divenne uno dei piú importanti e riconoscibili modelli di leadership episcopale. Lo stesso Gregorio VII, quando dovette scomunicare Enrico IV e poi riammetterlo nella comunione ecclesiale dopo la penitenza pubblica a Canossa nel 1077, si rifece al

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suo esempio e alle sue scelte nei confronti dell’imperatore Teodosio. I suoi gesti, codificati e giustificati nelle lettere e spiegati nelle omelie, costituirono patrimonio magisteriale della Chiesa nei secoli successivi, insieme al suo esempio di vita. Il rigore morale, l’ascesi, la forza nell’indurre cambiamenti di comportamento e conversioni profonde vennero riflessi anche nell’iconografia. Le raffigurazioni piú antiche lo presentano in semplici abiti aristocratici; in seguito furono aggiunti

gli attributi episcopali: il pallio (striscia di stoffa simile a una stola), il pastorale, la mitria e poi il guanto. Il flagello (o disciplina), simbolo che lo connotò poi nella percezione popolare, si diffuse nel Basso Medioevo. È attestato per la prima volta su un bassorilievo dell’XI secolo, nell’atrio della basilica di S. Ambrogio. Un secolo piú tardi la stessa iconografia compare nei rilievi che ornarono la Porta Romana dopo la ricostruzione di Milano successiva alle devastazioni di Federico Barbarossa.

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essere leader nel medioevo/1 Infine, il Giovedí Santo, dopo che le veglie erano continuate ininterrottamente intorno al vescovo, arrivò la notizia che Giustina, Valentiniano e tutta la corte avevano capitolato, rinunciando al sequestro della basilica Porziana e all’arresto dei cattolici. Che cosa aveva determinato la decisione? Senz’altro la coesione del populus fidelium e il suo attaccamento al pastore, ma anche l’intervento di Magno Massimo, allora usurpatore dell’impero, che lamentò l’attacco rivolto ai cattolici da Valentiniano e Giustina, non senza ricorrere a velate minacce. Il motivo del successo finale fu la forza della leadership di Ambrogio, il quale, intorno alla preghiera e alla liturgia, seppe muovere una «regia» complessiva degli eventi, andando a definire sul piano ecclesiologico ruoli, spazi, rapporti di potere e compiti delle diverse componenti dell’ecclesia Dei.

Penitenza pubblica

Ancora, in un’altra occasione, nella festa del Natale del 390 arrivò a lasciare fuori dalla cattedrale, sottoponendolo a penitenza pubblica, l’imperatore Teodosio, macchiatosi del massacro per rappresaglia di molti cittadini di Tessalonica, dopo una rivolta popolare. Un simile delitto non poteva passare sotto silenzio: il sovrano, essendo cristiano, non avrebbe potuto essere esonerato dalla penitenza, se non al prezzo di uno scandalo generale, tanto piú che a Milano era riunito un sinodo dei vescovi della Gallia. Ambrogio evitò di incontrarlo e gli mandò, invece, una lettera. Quel testo è un capolavoro di discrezione e di sensibilità pastorale. L’obiettivo delle sue parole non si collocava, infatti, sul piano politico, né tantomeno su quello dell’opportunità del momento: era la salvezza dell’anima del sovrano e di quelle degli altri fedeli, in una prospettiva di conversione che guardava al di là dei singoli peccati, sia pur gravissimi. Cosí, dopo avergli

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urbanistica

Milano al tempo del grande vescovo Ben consapevole dell’importanza della sua città rispetto all’impero e all’ecumene, il vescovo Ambrogio volle darle una forte impronta cristiana anche sul piano urbanistico. Non si dedicò solo all’edificazione della cattedrale e del battistero di S. Giovanni ad Fontes, ma legò la sua committenza ad alcuni edifici chiave, connotandoli marcatamente con la simbologia evangelica che si andava codificando nella seconda metà del IV secolo a Milano come a Roma, Gerusalemme, Antiochia e Costantinopoli. In un’operazione complessiva di sacralizzazione dello spazio cittadino, contribuí a diffondere lo schema architettonico a pianta cruciforme e collocò agli estremi di un’ipotetica croce le basiliche di S. Nazaro (basilica Apostolorum o Romana), S. Ambrogio (basilica Martyrum), S. Simpliciano (basilica Virginum) e la basilica di S. Dionigi (distrutta nel XVIII secolo). Per la prima procurò da Roma o da Antiochia alcune reliquie di Pietro e Paolo, probabilmente reliquie per contatto (palliola o brandea). La fece erigere nei pressi della via porticata davanti a Porta Romana, un tracciato dall’alto valore simbolico che conduceva chi arrivava da Roma al palazzo imperiale, già maestoso e riccamente monumentalizzato. L’edificio cristiano vi sovrapponeva altri significati e ne faceva la strada che conduceva ai resti dei due apostoli. Si trovava quasi

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Disegno ricostruttivo della basilica di S. Simpliciano, sorta come basilica Virginum. Nella pagina accanto la posizione della basilica Martyrum e del sacello di S. Vittore in Ciel d’Oro riportata sulla pianta del quartiere attuale. In basso disegno ricostruttivo della basilica Martyrum di età paleocristiana e del sacello di S. Vittore in Ciel d’Oro.

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al centro della via, cui era collegata probabilmente da un atrio o da uno spazio aperto, in corrispondenza di una vasta necropoli pagana e cristiana. Aveva uno schema unico (del tutto originale rispetto alle basiliche martiriali romane), con una grande aula rettangolare e due transetti sporgenti dotati di absidiole. Nel rettangolo, all’incrocio fra aula longitudinale e transetto, erano collocate le reliquie degli apostoli, quelle di Nazaro erano nell’abside principale. La costruzione di S. Simpliciano iniziò forse pochi anni prima della morte di Ambrogio e fu proseguita dal suo successore, al quale venne poi intitolata. Le strutture portate in luce nel secolo scorso sotto l’edificio romanico e i rifacimenti successivi ne fanno la piú grande e meglio conservata chiesa paleocristiana di Milano. L’aula longitudinale (le cui pareti sono conservate fino a un’altezza di 22 m) ha caratteristiche simili a quelle dell’aula palatina costantiniana di Treviri. Il vescovo Vigilio di Trento inviò per questo edificio reliquie dei martiri della Val di Non, Sisinio, Martirio e Alessandro, che furono collocate sotto l’altare. La basilica ambrosiana fu destinata a ospitare le reliquie dei santi Gervasio e Protasio. Ambrogio la fece erigere nell’area in cui già esisteva un sacello dedicato a San Vittore (S. Vittore in Ciel d’Oro), in cui era sepolto il fratello Satiro, morto nel 375 (o nel 379). Aveva impianto basilicale a tre navate, ma la sua struttura è difficilmente ricostruibile su base archeologica. Dagli scavi del XIX secolo risultò che la basilica romanica che vediamo oggi insiste su quella paleocristiana e sappiamo che la navata centrale era separata dalle due laterali da tredici colonne per lato e che l’abside era affiancata da colonne. Fra gli arredi liturgici del IV secolo restano le colonne di porfido del ciborio, il lussuoso sarcofago con decorazioni «a porte di città», collocato sotto il pulpito romanico, e il portone in legno, utilizzato anche nel rifacimento dell’XI secolo e cosí ambito dai pellegrini che tutti volevano portarne a casa un pezzetto come reliquia, tanto che si dovette proteggerlo per garantirne la sopravvivenza.

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essere leader nel medioevo/1 ricordato l’entità del crimine commesso, gli chiese espressamente un gesto pubblico di umiliazione e gli disse che non l’avrebbe ammesso all’Eucarestia, né l’avrebbe lasciato entrare in chiesa. «Io non ho verso di te alcun motivo per esserti ostile, ma ne ho per temere; non oso offrire il sacrificio se tu vorrai assistervi – scrisse –. Se credi, ascolta i miei suggerimenti; se, ripeto, credi, riconosci la verità di quanto dico; se non credi, perdona la mia condotta, con la quale sto dalla parte di Dio».

La fede vince sulla forza

La forza di Ambrogio era, dunque, la sola fede. Di fronte all’imperatore è davvero inerme. Non si tratta qui di espressioni retoriche di umiltà: la sproporzione nel rapporto fra i due sul piano politico e militare è piú che evidente, ma il vescovo riuscí infine a imporre il percorso di espiazione. Lui stesso, nel trattato De penitentia, concluso qualche mese prima, aveva chiarito sul piano teologico la possibilità di ottenere il perdono dei peccati durante tutta la vita (in polemica con i rigoristi, secondo i quali, invece, solo il battesimo rimetteva le colpe e i salvati non potevano piú cadere). Aveva ribadito che la penitenza doveva essere pubblica, una richiesta di misericordia rivolta a Dio e a tutto il A sinistra l’ingresso della basilica di S. Ambrogio. La prima fondazione dell’edificio risale all’epoca dello stesso Ambrogio, cioè alla seconda metà del IV sec. L’assetto attuale è invece frutto della ricostruzione integrale promossa nel XII sec. e dei successivi rimaneggiamenti.

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A sinistra Milano, basilica di S. Ambrogio. Una delle facce della parte superiore del ciborio, ornata da un rilievo in stucco policromo raffigurante una Traditio legis et clavium (letteralmente «consegna della legge e delle chiavi») con Cristo in trono che affida le chiavi a san Pietro e il codice a san Paolo. Età ottoniana, X-XI sec. Nella pagina accanto, in alto Milano, basilica di S. Ambrogio. L’ambone, realizzato nel 1140 circa, sotto il quale è collocato il sarcofago detto «di Stilicone», databile al IV sec.

popolo dei fedeli. Consisteva in un periodo di esclusione dalla Comunione sacramentale, di preghiera, mortificazione ed elemosine. I penitenti dovevano vestire abiti che li rendessero riconoscibili, astenersi da attività pubbliche, assistere alle funzioni religiose in uno spazio loro riservato nell’area delle chiese. Non sappiamo esattamente quali furono i gesti compiuti da Teodosio né come si svolsero la celebrazione penitenziale e la successiva riammissione, ma certo si accusò pubblicamente delle colpe e chiese perdono con pianti e lamenti. Lo stesso Ambrogio ricordò nel suo discorso funebre: «Lui, l’imperatore,

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non si vergognò di quello di cui si vergognano i privati cittadini, di fare cioè una pubblica penitenza». E sant’Agostino annotò: «Colpito dalla disciplina ecclesiastica, Teodosio fece penitenza con tale impegno che il popolo in preghiera per lui ebbe piú dolore nel vedere umiliata la maestà imperiale che timore nel saperla sdegnata per la loro colpa».

Un carisma eccezionale

Nella durezza di questi momenti, forse piú che nei testi teologici e nelle omelie, emerge la capacità di Ambrogio di orientare i comportamenti e di creare sequela. Eppure la sua forza si presenta radicata in una spiritualità ben precisa, la

stessa prospettata come modello ai suoi fedeli. Politico prestato alla religione, figlio brillante del ceto funzionariale romano, scelse come fulcro pastorale la donazione totale, elemento di rottura nella società del tempo. Pose con nettezza l’esigenza di una rigenerazione spirituale, che basò sulla capacità di donare. Per questo, appena acclamato vescovo, alienò le sue ricchezze: assegnò alla Chiesa e ai poveri tutto l’oro e l’argento che possedeva, donò anche i poderi, riservando un usufrutto per la sorella. Non si trattava di una semplice elemosina – che sancisce sempre la superiorità di chi dà e la sua discrezionalità –, né di un pauperismo che ha scarsa considerazione per i beni mondani: era piuttosto una donazione oggettiva e strutturale che metteva i beni materiali a disposizione di tutti. La povertà per Ambrogio non era, infatti, uno strumento per dominare asceticamente i desideri della carne, bensí una condizione per molti aspetti simile a quella della verginità consacrata: era oblazione totale. In un’epoca in cui si avvertiva il bisogno di una consistente ridistribuzione della ricchezza, la scelta di povertà diventava anche strumento di grande utilità sociale. Quando molti cittadini romani furono catturati dai Visigoti dopo la battaglia di Adrianopoli (378), non esitò a fondere e vendere preziosi arredi sacri per riscattarli. A chi lo rimproverava replicava: «È stato mol-

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essere leader nel medioevo/1 Ambrogio e Agostino

Tra ammirazione e diffidenza Quando, trentenne, l’africano Agostino arrivò a Milano come professore di retorica, si recò dal romano e aristocratico vescovo Ambrogio, ormai cinquantenne, per una visita di protocollo. Fu colpito dalla bonarietà cordiale dei suoi toni, ma non andò oltre il piano della cortesia e non instaurò con lui un rapporto diretto. È lo stesso Agostino ad ammetterlo, nelle Confessioni, la sofferta autobiografia spirituale marcata dalla conversione e dal battesimo, ricevuto infine proprio dalle mani di Ambrogio, con ogni probabilità in S. Giovanni ad Fontes. Sappiamo che Agostino seguí le omelie e le ricche catechesi del vescovo, affascinato dalla sua oratoria. La madre Monica, arrivata anche lei nella città imperiale, era una delle sue seguaci piú assidue. Lo incontrò una seconda volta nel suo studio, ma Ambrogio non degnò di attenzione gli interrogativi teologici e i rovelli esistenziali del pensatore africano, impegnato a ricevere persone e a risolvere questioni di governo della Chiesa. Fu il prete Simpliciano a seguirlo da vicino, discutendo con lui posizioni, ragionamenti, scritture. Ambrogio stabilí con Agostino una relazione basata sulla pastorale, all’interno di una comunità, nella cui vita di fede il giovane finí per essere coinvolto. Che cosa determinò lo sviluppo di questo rapporto cosí lontano dai toni dell’amicizia e della confidenza? Certamente le differenze psicologiche e di condizione fra i due, ma, molto probabilmente, anche una scelta precisa del vescovo di Milano che, proprio mantenendo le distanze, seppe guidare Agostino nel superare le dinamiche di relazione dell’aristocrazia romana e

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Predica di sant’Ambrogio alla presenza di sant’Agostino e santa Monica, scomparto della predella della pala di Sant’Ambrogio dipinta dal Bergognone (al secolo Ambrogio da Fossano) per la Certosa di Pavia. 1488-1494. Torino, Galleria Sabauda.

dei circoli colti, facendogli scoprire che il cristianesimo non è una filosofia, né può essere vissuto intellettualisticamente. L’insieme di conoscenze, faccia faccia con i poveri e gli analfabeti, le irritazioni e gli sbigottimenti che dovette affrontare nella Milano cristiana gli fecero scoprire la bellezza dell’incontro con

l’Altro che si manifesta negli altri in carne e ossa che vivono il nostro stesso tempo e le nostre angosce. Lo ammise lo stesso filosofo, non solo nelle Confessioni, ma nei testi teologici e nelle numerosissime omelie (ne tenne in media circa duecento ogni anno), lo strumento con cui, a sua volta, si affermò come episcopus e come leader cristiano. gennaio

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non solo nella comunità cristiana, ma nell’intera società. È significativo, a tal proposito, il modo in cui propose la consacrazione verginale come scelta di dedizione totale: rappresentava anche un’emancipazione della donna e una sua valorizzazione nella Chiesa. «Solo la verginità può dare la libertà», sosteneva. Esperienze individuali o comunitarie di verginità consacrata nella città rendevano possibile una capacità di determinazione della propria vita che la legislazione matrimoniale antica non consentiva e costituivano esempi che vennero ben presto seguiti. Verginità e povertà erano due aspetti della spiritualità verso la quale Ambrogio indirizzava le classi alte, che, invece, temendo tempi cupi, preferivano investire in proprietà rurali e risparmio, isolandosi ed evitando di mettere in circolazione le proprie risorse.

Trasformare la società

to meglio conservare al Signore le anime che non l’oro. Colui che inviò gli apostoli senza oro, senza oro convocò anche la Chiesa. Se la Chiesa ha dell’oro non è per custodirlo ma per donarlo, per recare soccorso nella necessità, altrimenti il Signore mi potrebbe dire: come hai potuto sopportare che tanti poveri morissero di fame?». I gesti e le parole che esprimevano la sua leadership introdussero elementi di profonda innovazione

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Affermava il valore della donazione civica, valore pubblico dell’etica cristiana. Non fomentava una ascesi di fuga in previsione della fine, ma nutriva la fiducia che alle virtú etiche e religiose fosse ancora possibile vivificare dall’interno la società. Iniziò cosí un’opera di formazione del popolo, rivolgendo a un pubblico quanto mai variegato i suoi sermoni, rigorosi e retoricamente strutturati nella loro semplicità concettuale. Catechesi orale ed edilizia sacra divennero strumenti di comunicazione per i poveri e gli analfabeti: le costruzioni e gli oggetti d’arte legati alla sua committenza (vedi box alle pp. 36-37)vanno ricondotti a una prospettiva unitaria di trasformazione della società tardo-antica . Sulla stessa base si fondano gli interventi rivolti agli imperatori e alla corte, in un sistema di relazioni di cui Ambrogio e la sua stessa famiglia erano parte. Nel suo ruolo di arcivescovo di una delle città capitali piú vivaci e politicamente

determinanti, dovette inventare dal nulla una dottrina e una prassi dei rapporti fra Stato e Chiesa, non ancora definiti dopo la cristianizzazione dell’impero.

Oltre Costantino

Ambrogio seppe andare oltre la visione politica di Costantino, muovendosi in direzione opposta rispetto a quella tracciata da lui e da papa Silvestro: non è lo Stato che assorbe in sé le funzioni della Chiesa col suo essere cristiano, ma è la Chiesa che valuta il dirsi cristiano dello Stato, giudicandone i gesti e le scelte alla luce di una legge morale trascendente. Si affermava cosí la superiorità morale della Chiesa, con un avanzamento rispetto al cesaropapismo implicito nei presupposti costantiniani. Al contempo, il vescovo ha piegato il potere e ha fatto entrare i principi del cristianesimo nel vissuto della sua società, ma non è arrivato mai a delegittimare il potere civile. Piuttosto, lo includeva all’interno della Chiesa, cosí come lo stesso imperatore, che doveva sottostare all’orientamento morale delle autorità ecclesiastiche, in una visione alta, teologica e non politica, dei rapporti fra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio. Una tale visione, esplicitata in atti tanto netti e contrastati, era sostenuta da centinaia e centinaia di riflessioni, presentate con chiarezza sia nei testi teologico-pastorali, sia nelle omelie. Proprio nella continuità viva della predicazione Ambrogio ha delineato le caratteristiche della leadership cristiana, in una fusione fra mistica ed etica, non basata sui doveri, ma sulla virtú, né modellata su una legge astratta, ma sul modello di vita di Cristo, che vuole e sa proporre all’uomo quei comandi che corrispondono alla sua natura e alle sue capacità. F

NEL PROSSIMO NUMERO ● Alboino, l’eroe fondatore

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civiltà comunale/3 di Furio Cappelli

Cavalleria e popolo Prima di darsi alla povertà e alla predicazione, Francesco d’Assisi covava sogni di gloria cavalleresca. E la sua vicenda può ben illustrare la dinamica dei rapporti che si instaurarono tra l’aristocrazia e la borghesia mercantile

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uando ancora non si era messo al servizio del Signore, Francesco d’Assisi ebbe una visione in sogno. In quel periodo, siamo nel 1205, era preso dai preparativi della sua prima avventura cavalleresca. Dopo aver fantasticato per anni sulle gesta di re Artú e di Carlo Magno, poteva conseguire la gloria sul campo di battaglia, per poi ottenere l’investitura dalle mani di un conte. Stava infatti per recarsi in Puglia, al fianco di un nobile cavaliere di Assisi, per militare contro il tedesco Marquardo di Annweiler nelle fila del conte francese Gualtieri III di Brienne (1165 circa-1205). Reduce dalla terza crociata e genero di Tancredi, defunto re di Sicilia, il valoroso Gualtieri si era messo al servizio di papa Innocenzo III (1198-1216), con la speranza di instaurare un solido dominio signorile nelle terre del Sud. Ebbene, la visione sembra confermare le aspettative del giovane Francesco. Il figlio del ricco mercante (oltreché, forse, usuraio) Pietro di Bernardone si ritrova negli ampi spazi di un palazzo, adorno in ogni stanza di armi e di scudi splendenti

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lungo le pareti. La dimora è abitata da una splendida nobildonna, che Francesco identifica con la sua futura sposa. Al suo risveglio, è pronto a mettersi in cammino, ma la sorte gli riserverà la gloria laddove le sue fantasie di giovane appassionato dell’epica cavalleresca non poterono mai spingersi. Non sarebbe divenuto un «gran principe», ma un vassallo di quel Signore al cui cospetto chiunque era un umile sottoposto...

Una memoria prodigiosa

La fascinazione della cavalleria e della simbologia cavalleresca in Francesco – capace persino di recitare a memoria brani di lirica dei trovatori provenzali, nella loro lingua d’oc – dimostra come l’ambizioso rampollo di una ricca famiglia borghese del Duecento, in una città in crescita e piena di fermenti come Assisi, potesse essere guidato dagli stessi modelli di riferimento del ceto nobiliare. L’aristocrazia cittadina, ben identificabile nella categoria dei cavalieri (milites), aveva creato le premesse per la nascita e per lo sviluppo del Comune, prendendo corpo

In alto Assisi. La Torre del Popolo (47 m), ultimata nel 1305, affianca il Palazzo del Capitano del Popolo (1270 circa-1282). Accanto alla torre, si riconosce la chiesa di S. Maria sopra Minerva, già tempio romano, che conobbe vari riusi, tra cui quello di prima sede del Comune (1212). A destra Assisi, basilica di S. Francesco, chiesa superiore. L’omaggio dell’uomo semplice, affresco di Giotto facente parte del ciclo delle Storie di San Francesco. 1296-1300. La scena è ambientata nella stessa Assisi, della quale sono ben riconoscibili la Torre del Popolo e il tempio di Minerva. gennaio

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civiltà comunale/3 da un insieme sempre piú ampio e variegato di protagonisti. Il nucleo originario dei governi cittadini, che avevano sostanzialmente un’organizzazione privata di tipo associativo, era costituito in varia misura da vassalli vescovili, nobili inurbati e figure di spicco del mondo professionale. Col tempo, trovarono sempre piú spazio famiglie non blasonate, ma che avevano assunto forza e attendibilità grazie alla carriera dei capostipiti in ambito militare, giuridico o notarile, e persino nel settore imprenditoriale.

Piccolo glossario comunale POPULARES A partire dalla fine del XII secolo, il popolo, non piú inteso a definire l’intera cittadinanza, si configura come un gruppo che ne rappresenta una determinata fascia. I populares sono in particolare tutti quei professionisti riuniti in organizzazioni di categoria (corporazioni) e tutti quei fanti (pedites) che si raggruppano in associazioni di quartiere per le esigenze militari della città.

Una soluzione inefficace

L’organizzazione traeva la sua forza dal patto di reciproco riconoscimento che legava i rappresentanti del Comune (i consoli prima, il podestà poi) e il popolo, ossia l’insieme dei cittadini. All’epoca di Francesco tale sistema era entrato in crisi, poiché gruppi sempre piú ampi di pedites, appartenenti soprattutto alle fasce alte del ceto artigianale e mercantile, non si sentivano piú adeguatamente rappresentati dai dirigenti del Comune. Il magistrato forestiero unico (il podestà) non si era rivelato una soluzione definitiva per sciogliere le tensioni sempre piú diffuse, complici l’instabilità del quadro politico generale e la faziosità dei milites. Nasce cosí una nuova realtà associativa che proprio dal popolo prende nome e che, con le proprie magistrature (in particolare il capitano del popolo) e con le proprie normative, si prefigge di riportare il Comune a quegli ideali di pace e giustizia che, sin dall’epoca consolare, erano alla base del patto tra i cittadini e i loro rappresentanti. Proprio l’esempio di Francesco chiarisce come la dialettica spesso tumultuosa tra i milites e i populares non nascondesse una lotta o comunque una rivalità di classe, con i nobili e i borghesi schierati in campi contrapposti. In entrambi i fronti i due gruppi sociali erano rappresen(segue a p. 53)

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IUVENES Le compagnie di giovani altolocati in cerca di una posizione di prestigio erano una realtà diffusa. Si dedicavano volentieri alla bella vita e si nutrivano spesso di suggestioni della letteratura epica, poiché il mestiere delle armi costituiva lo sbocco ideale per molti di loro. Parallelamente a questi raggruppamenti spontanei, potevano nascere associazioni di cavalieri giuridicamente definite, come la compagnia della Tavola Ritonda, attestata a Pisa intorno al 1237.

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Sulle due pagine particolari dell’Allegoria del Buon Governo e degli Effetti del Buon Governo in campagna, affreschi facenti parte del ciclo realizzato da Ambrogio Lorenzetti nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena. 1337-1339. Da sinistra, in senso orario un gruppo di cittadini, un cavaliere e un giovane impegnato nella caccia con il falcone.

MILITES Il gruppo dirigente del Comune è individuato da tutti coloro che sono in grado di permettersi un destriero e l’equipaggiamento necessario per combattere a cavallo. All’inizio, sono in massima parte vassalli del vescovo, giudici e nobili detentori di terre, ma vengono sempre piú coinvolti anche personaggi legati ad attività mercantili e bancarie, specie nelle città piú dinamiche dal punto di vista commerciale.

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Perugia, cittĂ del

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grifo e del

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leone A sinistra Veduta di Perugia (particolare), Gaspar van Wittel. Inizi del XVIII sec. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria. In basso la Fontana Maggiore, con, alle spalle, il Palazzo dei Priori, sulla cui facciata sono visibili le copie delle sculture in bronzo raffiguranti un leone e un grifo, animali-simbolo di Perugia.

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Nell’aprile 1234 il popolo perugino consegue una vittoria epocale sull’aristocrazia cittadina. Viene infatti emanato un provvedimento che prevede l’equa riscossione delle tasse, in base alle proprietà dei contribuenti, da registrare rigorosamente in appositi catasti. A danno di coloro che detenevano case e terreni in abbondanza, veniva cosí fatto valere il principio che il contributo alle spese di interesse pubblico doveva essere proporzionato alle disponibilità economiche dei singoli cittadini, senza possibilità di esenzioni e di trattamenti di favore. La norma riportava in auge uno dei princípi del diritto romano e non fu un caso se l’epigrafe chiamata a celebrare questa vittoria del popolo fosse stata incisa su lastre di marmo già utilizzate in alcuni antichi monumenti della città. La Pietra

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della Giustizia, eloquente documento della piena affermazione del Comune perugino, fu apposta proprio nel cuore di Perugia, alla base dell’antico campanile dodecagonale del duomo. Una copia dell’epigrafe (l’originale è conservato nel prospiciente Palazzo dei Priori) si osserva tuttora all’esterno delle strutture superstiti della torre, oggi inglobate nel fianco sinistro della chiesa. A quell’epoca la piazza pubblica si limitava all’area oggi individuata dalla Fontana Maggiore (è l’attuale piazza IV Novembre; vedi «Medioevo» n. 218, marzo 2015; anche on line su medioevo. it). Lí prospettava la facciata romanica del duomo, di fianco alla torre, che aveva assunto un ruolo di riferimento civico ben oltre le sue funzioni strettamente religiose. Come in molte città italiane, infatti, la torre del duomo di Perugia identificava la città nel suo punto

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A destra la chiesa di S. Ercolano, costruita tra il 1297 e il 1326 a ridosso delle mura etrusche.

sommitale anche da una visione distanziata, e le sue campane, all’occorrenza, potevano suonare per le adunate pubbliche o in caso di pericolo. La sacralità civica di questo spazio emerge bene dalla norma promulgata nel 1299, che afferma la nullità degli atti pubblici non emanati nella Piazza Grande. Su un altro lato si osserva tuttora il Palazzo arcivescovile, che congloba le strutture destinate a ospitare in una prima fase storica (fino a quasi tutto il Duecento) le magistrature civiche, che si trovavano cosí a «coabitare» nello stesso spazio detenuto dal vescovo e dai canonici del duomo. Proprio in quel complesso, per giunta, aveva risieduto in piú occasioni il papa con la sua corte al seguito. La «convivenza» tra l’episcopato e il Comune poteva conoscere momenti di rivalità e di tensione, ma la condivisione di uno stesso complesso edilizio rappresenta bene una contiguità di intenti tra potere religioso e civile. D’altronde, l’orientamento politico filopapale di Perugia, mantenuto anche nei momenti piú difficili della lotta tra il pontefice e l’imperatore, favoriva l’autonomia e l’intraprendenza della componente popolare, visto che gli interessi del ceto artigianale e mercantile erano meglio rappresentati da un Comune «guelfo», mentre i Comuni «ghibellini» tendevano a essere guidati dall’aristocrazia di vecchio stampo, con forti leve di potere signorile sul territorio. Perugia, dal canto suo, intende da subito giocare un ruolo preminente sul contado e riacquisire le sue antiche prerogative di città illustre e predominante, proprio in evidente contrasto con gli interessi signorili, oltreché in lizza con altre città (Assisi, per esempio) per allargare i propri confini. La realizzazione di questi intenti sul piano urbanistico è sorprendente. Si compie, infatti, un lungo percorso di iniziative coordinate di ampio respiro, che mirano a riconfigurare il polo cittadino sul

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piano simbolico e funzionale, in ogni sua componente, coinvolgendo lo spazio destinato alle attività mercantili cosí come la sede delle magistrature civiche, nonché lo stesso duomo di S. Lorenzo. La città si amplia, le sue attività economiche si diversificano, si specializzano e si moltiplicano, e maturano quindi tutti i fattori che determinano la generale riconfigurazione del cuore della città. Si è giustamente parlato di un «piano regolatore» per rendere l’idea di come queste iniziative non fossero slegate e per evidenziare che tali e tanti cantieri

Nella pagina accanto affresco con la sepoltura di sant’Ercolano, dalle storie del santo dipinte da Benedetto Bonfigli per la Cappella dei Priori (oggi compresa nella Galleria Nazionale dell’Umbria). 1461-1480 circa.

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richiedessero grandi capacità progettuali e organizzative. D’altronde, compare persino un protagonista di spicco che lega il proprio nome alla maggior parte di queste imprese: il benedettino fra’ Bevignate. Le competenze legate alla gestione e all’organizzazione dei cantieri ne fanno un grande impresario di fiducia del Comune, un «ingegnere» antesignano su cui Perugia confida molto. La città lo ricorda con un entusiasmo e un’ammirazione che sfociano nell’affetto filiale: l’epigrafe celebrativa che campeggia sulla Fontana Maggiore (1278) pone il suo nome in testa all’elenco degli artefici, prima quindi degli stessi scultori Nicola e Giovanni Pisano, raccomandando che all’ingegnoso monaco vengano riservati gli stessi onori che in una famiglia sono dovuti a un padre. Il sovrintendente ai lavori della fontana, là dove zampilla l’acqua del Monte Paciano – lí convogliata dopo un’impresa lunga e difficoltosa – può essere annoverato alla stregua di un «padre della patria».

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In alto, a sinistra L’assedio di Totila, affresco di Benedetto Bonfigli facente parte delle Storie di Sant’Ercolano. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria. 1461-1480 circa. La composizione si ispira ai fatti del 548, quando la città fu presa dai Goti, dopo un lungo assedio. In alto, sulle due pagine un suggestivo scorcio del centro storico di Perugia.

Lungo le strade «regali» che si irraggiano attraverso le cinque principali porte della cinta etrusca, si sviluppano nuovi borghi. Il processo di ampliamento si avvia nel XII secolo e trova il suo apice nei primi decenni del XIV secolo, prima che si abbatta la sciagura della Grande peste (1348). Proprio negli anni Trenta del Trecento viene ultimata la nuova cerchia muraria, che ingloba la città nella sua interezza, con uno sviluppo lineare di 6 km, pari a oltre il doppio dell’estensione antica (2,9 km). Intorno al 1285 la popolazione ammonta a 27 000 abitanti, quando Bologna ne ha 50 000 e Milano 100 000. Di pari passo all’aumento demografico e alla crescita economica della città, la piazza Grande si amplia e si rinnova. Tra il 1292 e il 1296 si realizza il primo nucleo dell’imponente Palazzo del Popolo (oggi dei Priori), la nuova sede delle magistrature civiche. Il nome attuale dell’edificio individua in particolare il collegio dei 10 rappresentanti

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delle corporazioni cittadine (Priori delle Arti), istituito nel 1303. Essi coabitavano con il podestà e con il capitano del popolo e ne sopravanzavano l’autorità, essendo di fatto, per un lungo periodo, i rappresentanti della città e i principali detentori del potere esecutivo. La parte originaria dell’edificio coincide con il vasto invaso della sala dei Notari, l’aula consiliare cosí chiamata perché ospitò sin dal 1592 il collegio omonimo. A essa corrisponde la parte della facciata su piazza in cui si apre il portale affiancato dalle effigi bronzee degli animali-simbolo della città, il leone e il grifo, di gusto anticheggiante. Trasferite all’interno del palazzo, le due opere sono oggi sostituite in situ da copie. Provengono dalla smembrata fontana monumentale che Arnolfo di Cambio allestí ai piedi della Piazza Grande (1281). Già realizzati nel 1274 per interessamento del Comune in onore del patrono sant’Ercolano, il leone e il grifo vegliavano in origine sul sepolcro del santo all’interno della cattedrale, per poi

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affiancarne la statua durante la processione che si teneva nel giorno della festa. Sia nel leone che nel grifo, si notano, infatti, gli alloggiamenti per i travetti di legno che ne permettevano il trasporto. Occorrevano trentadue persone per tenere innalzato il catafalco lungo il percorso, con la statua nel mezzo e le due fiere ai lati. Nell’occasione, entrambe le effigi erano ricoperte di tessuti pregiati, che poi venivano venduti a prezzo assai elevato, alla stregua di sante reliquie, visto che erano stati a contatto con i sacri custodi della statua e del sepolcro del patrono. In circostanze del genere, è davvero

Qui sopra Madonna della Misericordia, gonfalone dipinto da Benedetto Bonfigli. 1464. Originariamente custodito nella cappella Oddi della chiesa di S. Francesco al Prato, si trova oggi nell’oratorio di S. Bernardino.

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arduo stabilire il confine tra ambito religioso e ambito civile, tra sacro e profano: si tratta di una situazione tipica della «religiosità civica» che rappresenta uno dei punti di forza dei Comuni italiani. Oltre a esprimere forza e inviolabilità, i due bronzi avevano un valore araldico come simboli cittadini. Il leone, in particolare, rimandava all’autorità papale ed era simbolo della parte guelfa; il grifo, divenuto in seguito unico animale-simbolo di Perugia, ebbe a quanto pare fortuna come emblema immortale della città primigenia. Il Palazzo dei Priori conobbe poi una lunga vicenda di ampliamenti, fino al Quattrocento, quando si realizzò l’ala piú recente, scavalcando la via dei Priori con l’ausilio dell’Arco omonimo. Lo sviluppo del complesso segnava anche l’ampliamento progressivo della piazza, che venne cosí a estendersi lungo l’attuale corso Vannucci. Trovavano sede le potenti corporazioni del Cambio (ossia dei cambiavalute), dei Mercanti e dei Notai, e le attività commerciali

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e bancarie potevano usufruire dei locali di pianterreno messi a disposizione dallo stesso Palazzo dei Priori. La necessità di reperire ulteriori spazi spinse a realizzare un cospicuo terrazzamento al di sopra di un ripido pendio, di fianco alla cinta etrusca: avviato nel 1247, il Sopramuro permise la creazione dell’attuale piazza Matteotti, parallela al corso Vannucci. Nel contempo, sorgevano i conventi degli ordini mendicanti e le stesse chiese parrocchiali assumevano una nuova veste, grazie anche al ruolo strategico delle associazioni di quartiere che le elevava a simboli e punti di ritrovo. Ben presto gli statuti contengono precise norme che disciplinano l’edilizia privata, mirando in particolare a evitare che le piazze e le strade principali vengano imbruttite da ballatoi, casupole e tettoie lignee. Non mancano norme sulla prostituzione, che può essere esercitata esclusivamente nel bordello pubblico in via «di Malcucina», a pochi passi dal Palazzo dei Priori.

In basso Palazzo dei Priori. Gli originali delle statue in bronzo del leone e del grifone. Originariamente destinate a vegliare sulla tomba di sant’Ercolano, furono poi collocate (1281) sulla fontana realizzata da Arnolfo di Cambio (poi smembrata).

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Assisi, basilica di S. Francesco, chiesa superiore. Il sogno delle armi, affresco di Giotto facente parte del ciclo delle Storie di San Francesco. 1296-1300. La scena evoca la visione che l’Assisiate avrebbe avuto in una notte del 1205, quando gli apparve un grande palazzo, adorno in ogni stanza di armi e di scudi splendenti lungo le pareti.

tati, sia pure in diversa entità: ricchi mercanti potevano accedere alla cerchia dei milites, mentre cavalieri di alto rango, per ragioni di opportunismo o per semplice rivalità, potevano d’altronde decidere di schierarsi con i populares.

Sogni giovanili

Francesco apparteneva al populus, ma sognava di essere investito cavaliere da un conte. Nella sua compagnia di iuvenes, che raggruppava giovani ambiziosi di diversa appartenenza sociale, lui stesso giocava a recitare la parte del signore di gentile aspetto, con i suoi modi eleganti e il vestiario ricercato. Pezze di gran lusso (che il padre importava dalla Francia) guarnivano tessuti di uso comune, esprimendo perfettamente la sua duplice condizione di aiutante di bottega e di aspirante alle glorie mondane. Finí in prigione

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dopo la sconfitta di Ponte San Giovanni (1203), quando aveva militato nell’esercito assisiate contro le truppe messe in campo da Perugia. La potente città nemica poteva contare sull’appoggio dei nobili fuoriusciti che erano stati estromessi con la forza dai populares di Assisi, durante le lotte con cui il nuovo ordinamento si stava affermando. Indotti in errore dal suo gentile aspetto, i carcerieri misero Francesco in mezzo ai cavalieri. Tra questi, un nobile pieno di orgoglio non sopportava che quel giovane di ceto inferiore prendesse confidenza con lui. La letizia di Francesco doveva essere doppiamente fastidiosa per il cavaliere assisiate: doveva subire la vicinanza di uno di quei «plebei» arricchiti per i quali aveva combattuto, quando in realtà si sentiva ben piú affine ai milites del campo avverso. F

Da leggere U Chiara Frugoni, Vita di un uomo:

Francesco d’Assisi, Einaudi, Torino 2001 U Alberto Grohmann, La città medievale, Laterza, Roma-Bari 2003 U Jean-Claude Maire Vigueur, Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e società nell’Italia comunale, Il Mulino, Bologna 2004 U Alma Poloni, Potere al popolo. Conflitti sociali e lotte politiche nell’Italia comunale del Duecento, Bruno Mondadori, Milano 2010 U Jean-Claude Maire Vigueur, Enrico Faini, Il sistema politico dei comuni italiani (secoli XII-XIV), Bruno Mondadori, Milano 2010

NEL PROSSIMO NUMERO ● L’avvento della signoria

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storie pastorizia e transumanza

Casseforti a quattro zampe

di Flavio Russo

Forse fu proprio la conformazione naturale del territorio italiano – in particolare quello delle regioni centro-meridionali – a favorire la pratica della pastorizia. Un’attività attestata fin dalla preistoria e che nei secoli successivi, e soprattutto nel Medioevo, ebbe uno sviluppo formidabile, trasformandosi in una risorsa economica irrinunciabile, favorita dall’organizzazione capillare di ogni sua fase

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in dalla preistoria, le regioni centro-meridionali della Penisola fecero registrare la diffusione capillare dell’economia pastorale. Il territorio, del resto, rispondeva perfettamente alle sue esigenze. Le greggi, infatti, per potersi moltiplicare, necessitavano di ampi pascoli: ottimi risultavano quelli degli altipiani abruzzesi e molisani, ma soltanto d’estate; cosí come quelli delle pianure costiere pugliesi, ma solo nella stagione invernale. Circostanze che indussero l’uomo a sviluppare la pratica della migrazione periodica che va sotto il nome di «transumanza». Grazie allo spostamento stagionale, il reddito assicurato dagli animali allevati cominciò a lievitare in maniera esponenziale, poiché divenne possibile foraggiare un numero di pecore altrimenti incompatibile con i soli pascoli montani o litoranei. Intorno alle tranquille masse ovine prosperarono numerose attività manifatturiere, da quella casearia a quella tessile, solo per citare le principali. L’ingegnoso dispositivo presupponeva, però, l’assoluta stabilità

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politica di entrambi i poli, poiché sarebbe stato impensabile praticare la transumanza in scenari di belligeranza, di brigantaggio diffuso o, meno che mai, al di fuori di un unico Stato. Sotto il profilo storico ciò dovette verificarsi pienamente in età sannita, interrompendosi nel corso delle guerre con Roma. Assoggettato l’intero Meridione fu la stessa Urbe a ripristinare la pastorizia transumante, continuando a sfruttare i tratturi già in uso in epoca preistorica.

Nella pagina accanto, in alto Saepinum (Sepino, in località Altilia, Campobasso). La faccia interna di Porta Boiano, che si apre a una delle estremità del decumano massimo, il cui tracciato ricalca quello del tratturo Pescasseroli-Candela. Sulle due pagine particolare di una delle mappe disegnate dagli agrimensori Antonio e Michele Nunzio per l’Atlante delle locazioni della Dogana delle pecore di Foggia. 1686-1697.

La città sul tratturo

Tra le testimonianze della riorganizzazione romana spicca la cittadina di Saepinum, alle falde orientali del massiccio del Matese: impiantata all’incrocio tra il grande tratturo Pescasseroli-Candela – che coincide con il suo decumano massimo – e uno minore tra il Matese e l’Adriatico, prosperò in funzione della periodica migrazione. Delle sue porte urbiche, quella detta «di Boiano» conserva ancora la lapide con la prescrizione «De grege ovarico», destinata a frustrare eventuali, e presumibilmente non rari, abusi da parte gennaio

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storie pastorizia e transumanza dei gabellieri ai danni dei pastori in transito, ribadendo perciò che nulla era dovuto per il passaggio. Dopo il crollo dell’impero, solo con l’aggregarsi del regno di Napoli, intorno all’XI secolo, si poté riattivare la pratica della transumanza. Le prime iniziative normanne in materia, promulgate da Guglielmo il Malo, risalgono al 1155 e tendevano, con larghi privilegi, a incentivare i pastori dell’Appennino, ristabilendo cosí il collegamento tra le aree montane abruzzesi e quelle costiere pugliesi, ritenuto il piú adatto allo scopo. Grazie, forse, agli immediati riscontri positivi fu imposto ben presto un particolare sistema di contribuzione fiscale sulle greggi, che si trasformò, di lí a poco, nel principale introito della corona.

Magistrati ad hoc

In alto Ritratto del monarca Alfonso V, re d’Aragona, olio su tavola di Juan de Juanes. 1500. Saragozza, Museo.

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In basso un gregge di pecore nei pressi di Mattinata, località del Gargano compresa nella rete dei percorsi della transumanza.

Federico II di Svevia sviluppò ulteriormente l’attività, che definí «Mena delle Pecore in Puglia», subordinandola a una distinta magistratura, chiaro indizio della crescente importanza economica e industriale della pastorizia transumante. Sotto la successiva dinastia angioina, però, l’intero comparto, trascurato e svilito, forní un apporto finanziario notevolmente inferiore. Nel frattempo, in Spagna, ferveva la Reconquista cristiana, che trovò il necessario sostegno economico

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proprio nel contemporaneo sviluppo della transumanza. Al XIII secolo risale la regolamentazione della procedura, ribattezzata «Mesta», con la promulgazione di dettagliate norme amministrative e con l’oculata scelta di pecore provenienti da una tribú berbera del deserto del Marocco, i Banu-Marin, da cui la razza Merinos, sinonimo da allora di lana pregiata. E non è dunque un caso che, nell’estate del 1442, Alfonso d’Aragona, dopo aver conquistato il regno di Napoli, si sia dedicato con grande impegno alla riorganizzazione della transumanza. I suoi primi provvedimenti al riguardo portano la data del 1443, ma la promulgazione dello statuto di fondazione della Dogana delle pecore di Foggia, nome dato alla nuova realtà istituzionale, si ebbe solo quattro anni dopo. I risultati economici di tali disposizioni si confermarono subito significativi. Già nel biennio 1444-45, le entrate della Dogana ammontarono a 38 500 ducati, piú del doppio delle

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annate precedenti, mentre le pecore divennero 425 000. Alfonso, al pari di tutti i monarchi, sentí l’esigenza di un proprio esercito – preferibilmente stabile e nazionale – forte di almeno 1000 uomini d’arme, regolarmente pagati in pace o in guerra: stanziò perciò per il suo mantenimento 100 000 ducati l’anno, a partire dall’entrata in servizio degli organici. La cifra per l’epoca appariva ingentissima e i documenti d’archivio non ci consentono di appurare in che modo fosse stata coperta, ma sappiamo che, già dal 1448, la Dogana delle Pecore di Foggia fu in grado di assicurare 93 000 ducati, da 930 000 capi in transito, che divennero l’anno dopo 103 000 ducati, da 1 milione di pecore.

A difesa dei pastori

Confinando, come disse poi Ferdinando II di Borbone (1810-1859), «per tre lati con l’acqua salata e per uno con l’acqua santa», gli sforzi per la difesa del regno si concentrarono

La mappa della locazione di Casalnovo, tratta anch’essa dall’Atlante di Antonio e Michele Nunzio. 1686-1697.

soprattutto lungo i 2000 chilometri del suo perimetro marittimo. Tuttavia, conscio dell’importanza economica della Dogana, re Alfonso si preoccupò di destinare parte delle forze di terra alla protezione dell’intero comparto. Innanzitutto, garantí ai pastori la sicurezza lungo l’intero itinerario della transumanza, dai monti al mare, reprimendo energicamente ogni forma di banditismo e prevaricazione feudale. Attraverso la stipula di dettagliati contratti di affitto obbligati, acquisí poi tutti i terreni del Tavoliere, formando un’area di circa 4000 kmq, che frazionata in 23 lotti principali – detti locazioni – e 20 secondari – detti dei poveri –, fu destinata al soggiorno invernale delle greggi. Al pari dei proprietari terrieri, anche quelli armentizi dovettero sottostare ad accordi vincolanti, impegnando-

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storie pastorizia e transumanza Ogni anno, alla fine dell’estate, le greggi scendevano dall’Appennino verso i pascoli del Tavoliere

Lesina 1 Procina Lesina Arignano Lago di Lesina Casalvecchio San Andrea 2 Casalnuovo 5 Castelnuovo Candelaro Procina 3 Castiglione San Tressanti 23 4 Severo Pontalbanito Montagna di Cave Monte Sant’Angelo Lucera Orta Ordona Feudo 7 10 Corleto Foggia Vallecannella 6 Salsola Manfredonia San Giuliano Salpi 9 Trinità 8 Canosa 11 Orta Camarda Tressanti Andria 13 12 Guardiola

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16 17

Confini della dogana

18 Cerignola Trinità 15 19 Canosa 20 22

ICO

14

IAT

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23

R AD RE MA

A destra mappa delle 23 locazioni, cioè dei lotti principali, in cui fu diviso il territorio del Tavoliere, adibito al pascolo delle greggi. Qui accanto busto di Gonzalo Fernández de Cordova, detto il Gran Capitano, bronzo di Ricardo Bellver. 1875. Cordova, Museo di Belle Arti.

LOCAZIONI

Minervino

Tratturi

si alla migrazione stagionale e a svernare sul Tavoliere. In pratica, ogni pastore, pagando la gabella per ciascuna pecora del gregge, acquisiva il diritto all’assegnazione di un appezzamento da parte dei funzionari reali della Dogana, in base al numero degli animali che conduceva. Si trattava, in definitiva, di una sorta di doppio contratto di affitto, uno negativo per l’acquisizione dei terreni dai relativi proprietari e uno positivo per la concessione degli stessi ai proprietari armentizi, e non di una odiosa gabella. Tra l’ammontare complessivo dei due canoni esisteva naturalmente una differenza rilevante, che costituiva l’aliquota primaria del gettito della Dogana, al di là di quella puramente fiscale. Da allora e per oltre quattro secoli, allo scadere dell’estate, milioni di pecore lasciavano i pascoli appenninici e scendevano in Puglia, per ripercorrere a primavera inol-

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Mappa di Foggia, considerata come locazione di Castiglione nell’ambito dell’organizzazione della Dogana delle pecore, dall’Atlante di Antonio e Michele Nunzio. 1686-1697.

trata l’itinerario inverso, dopo aver assolto ai precisi obblighi fiscali con la Dogana. Affinché nessuno fosse insolvente, era fatto obbligo di tosare le pecore prima della partenza e di portare la lana nei magazzini della Dogana a Foggia: qui veniva valutata per peso e qualità e, trattenuto il debito, si poteva ottenere il documento che disponeva l’apertura dei posti di blocco, autorizzando il ritorno ai paesi di residenza.

Monopolio regio

La crescente complessità dell’istituzione e il suo progressivo articolarsi determinarono la suddivisione dei ruoli. Sorse cosí un’apposita commissione, che divenne un’appendice della Dogana stessa, destinata alla gestione delle molteplici incombenze non fiscali. Sotto la sua autorità ricaddero pertanto sia l’amministrazione della giustizia civile e criminale, in quella sorta di universo pastorale, sia l’ammasso e la commercializzazione della lana, che, di fatto, divenne un monopolio regio. A dimostrazione dell’ottima gestione della Dogana, la pastorizia transumante fece registrare un decollo formidabile: alla fine del XV secolo attraversarono Foggia ben 2 milioni di pecore per non parlare delle mandrie di bovini, dei cavalli e dei cani pastori! L’incremento costante e la percezione degli ingentissimi e sicuri proventi fiscali valicarono rapidamente i confini del regno, suscitando pericolose tentazioni. A seguito della calata di Carlo VIII nel 1494, uno strascico di combattimenti si protrasse ancora nel 1497 presso Foggia, dove i Francesi si erano appositamente diretti cercando di accaparrarsi il gettito annuale della Dogana. La «tosa» delle pecore

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cominciava dunque ad avere una sua valenza strategica e il dato fu da quel momento tenuto nel debito conto. Il trattato di Granada del 1500, infatti, che sancí la spartizione del regno di Napoli tra Francesi e Spagnoli, prevedeva l’aritmetica bipartizione della Dogana.

La Dogana contesa

Tuttavia, poiché entrambi i contraenti sembravano ambire maggiormente a quel che avevano perso e non a quanto avevano acquisito, la Dogana, alla ripresa delle ostilità, tornò a essere oggetto del contendere e solo la vittoria ottenuta da Gonzalo Fernández di Cordova, detto il Gran Capitano, il 1° maggio del 1503, risolse la disputa a favore degli Asburgo. Non per questo i Francesi rinunciarono del tutto alle loro mire e, nel 1528, tentarono nuovamente di occupare la città di Foggia. Il ripristino della legalità, o almeno la fine della belligeranza, conseguente alla creazione del viceregno di Napoli, portò a una enne-

sima riorganizzazione della Dogana delle pecore. In virtú delle normative introdotte, i capi di bestiame in transito raggiunsero la cifra convenzionale di oltre 4 milioni, con proventi pari a quasi 500 000 ducati all’anno. In pratica, si attestarono sui 2,5 milioni di unità, costituendo la piú sicura e regolare risorsa economica del Regno, spesso utilizzata per rimediare a disastri militari spagnoli, in terra e in mare. Fu cosí nel 1537, quando durante l’attacco turco a Corfú, vantando le truppe imperiali un soldo arretrato pari a 30 000 scudi, la crisi venne risolta ricorrendo a parte di quel gettito. E qualcosa di simile accadde nel 1589-90: all’indomani della disfatta patita dall’Invincibile Armata, dai ricavi della Dogana furono prelevati oltre 76 000 ducati per costruire 28 nuove galere. Scenari che si ripeterono nel 1602, nel 1621, nel 1673 e ancora nel 1701, quando 120 000 ducati servirono per il soldo delle truppe spagnole di stanza a Milano. F

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costume e società riso

Bianco d’Oriente

di Chiara Parente

In India e varie regioni del Sud-Est asiatico, il riso si diffuse già in età preistorica, mentre in Occidente giunse ben piú tardi e fu utilizzato inizialmente come prodotto medicamentoso. Poi, all’indomani dell’anno Mille, si ebbe la svolta: grazie agli Arabi, i suoi chicchi vennero guardati con altri occhi e in tutto il continente europeo si trasformanrono in una presenza irrinunciabile sulle tavole di contadini e signori

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e nel continente asiatico le prime tracce di coltivazione del riso (Oryza sativa) risalgono ad almeno 5000 anni fa, la sua diffusione in Occidente fu assai piú tarda. In particolare, a introdurlo nell’area mediterranea – dal VII secolo in poi –, furono gli Arabi, che prima lo importarono in Egitto e di lí in Sudan, in tutto il Maghreb, fino al Senegal e nel secolo successivo all’Andalusia. Tuttavia, ancora nell’XI secolo, il riso rappresentava una novità per gli stessi Arabi. In un trattato sull’agricoltura (il Kitab al-filaha), l’agronomo Abû al-Khayr lo descrive nel capitolo riservato ai legumi (e non insieme all’orzo e al frumento), definendolo «una specie di grano provvisto di glume e col seme bianchissimo».

Nella pagina accanto miniatura raffigurante un venditore di riso, dall’Historia plantarum di Giovannino de’ Grassi. XIV sec. Roma, Biblioteca Casanatense. In basso statuetta lignea antropomorfa di un bulul, divinità del riso venerata dagli Ifugao dell’isola di Luzon (Filippine). XV sec. Parigi, Musée du Quai Branly.

Coltivazione in acqua

Nell’Andalusia moresca il ciclo di coltura era simile a quello praticato nella Pianura Padana nel secolo scorso. La semina avveniva tra febbraio e marzo in vivai adacquati (irrigati) ogni otto giorni, eliminando con cura le erbe invasive. Da marzo a maggio, e comunque quando apparivano sufficientemente sviluppate, le pianticelle venivano estirpate e trapiantate in risaia, alla distanza di una ventina di centimetri l’una dall’altra. Per tutta l’estate si continuava a dare l’acqua due volte la settimana, interrompendo l’irrigazione nel mese di agosto. In genere il riso era pronto per la mietitura a settembre e veniva trebbiato chiudendolo in sacchi e battendolo con bastoni ferrati.

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costume e società riso A destra la diffusione del riso nel mondo. Le prime tracce di coltivazione sono attestate in Asia. In basso capolettera miniato raffigurante la pulitura del riso, da un’edizione manoscritta del Trattato di medicina di Ildebrando da Firenze. XIV sec. Lisbona, Biblioteca Nazionale.

Dopo il 1492 XV secolo

Tropico del Cancro

2000 a.C. Equatore XI secolo

XVI secolo Tropico del Capricorno XVII secolo

Nei documenti di viaggio e nei registri contabili delle galere partite e arrivate nel porto di Pisa tra il 1472 e il 1475, il riso compare quasi sempre in piccole quantità. Considerato una merce pregiata, non si acquistava al pari degli altri cereali dai biadaioli, ma era venduto «a caro prezzo, come pepe, zucchero e altre cose oltremarine nelle botteghe di speziali e droghieri». Il passaggio del nuovo cereale dalla medicina alla cucina fu piuttosto rapido, favorito da un particolare complesso di circostanze, prima fra tutte l’alto prezzo. Ne sono un esempio i rari acquisti di riso fatti dai frati del monastero di Santa Trinita di Firenze. Riservati alle occasioni in cui l’abate cenava con ospiti di riguar-

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100 a.C. 300 a.C.

do, erano sempre accompagnati da un’oncia di zucchero per preparare la minestra di riso. Le coltivazioni risicole si diffusero nel Nord d’Italia probabilmente grazie agli Arabi di Sicilia, agli Aragonesi di Napoli e ai mercanti veneziani, che avevano rapporti con l’Estremo Oriente.

Un’entità territoriale omogenea

Attualmente, le zone a maggior concentrazione si estendono nel Novarese, nel Vercellese e nel Pavese, e costituiscono un’entità territoriale che, formatasi nei secoli, deve la propria omogeneità al fitto reticolo di acque, creato in parte dalla natura e in gran parte dalle opere idrauliche dell’uomo. Ma a quale periodo storico possiamo attribuire la prima comparsa di piantagioni di riso nella Pianura Padana? Sgombrato il campo dalle ipotesi sulla presenza del cereale nel Veronese e nel Bolognese nel Duecento e nel Trecento o addirittura dal XII secolo, come effetto delle crociate, si scopre che, alla fine del Quattrocento, coltivazioni sperimentali di riso erano già presenti nelle pianure irrigue della bassa Lombardia. Purtroppo non è possibile quantificarne l’estensione, né tanto meno fornire dati sulle produzioni. Inoltre, sulla sua rapida diffusione le fonti appaiono in piú di un’occasione contraddittorie. Ben documentata è la lettera, scritta nel 1475 e inviata dalla residenza ducale situata nella località di Villanova, con cui il duca di Milano Galeazzo Maria Sforza (1444-1476) comunica l’avvenuto ordine di inviare dodici sacchi di riso da semente «dai suoi parchi» al duca di Ferrara Ercole I d’Este. Tale congennaio

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cessione attesta da un lato i primordi della risicoltura a Ferrara e dall’altro lo stato avanzato della stessa nel Milanese. Nella missiva, inoltre, Galeazzo Maria, fratello e predecessore di Ludovico il Moro, fa riferimento a colture sperimentali nei «suoi parchi», un’espressione dalla quale traspare che, in quel periodo, il riso era stato introdotto nei parchi ducali e non nelle tenute private, o almeno che la coltivazione del cereale non era ancora cosí generalizzata, come invece appare sul finire del Quattrocento dall’analisi di parecchi contratti agrari.

La città fantasma

La raccolta (in alto) e le successive fasi di lavorazione del riso nei disegni su rotolo attribuiti a Cheng Qi, artista attivo nella seconda metà del XIII sec. Washington, Freer Gallery of Art.

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Gli storici hanno anche cercato di stabilire l’esatta collocazione geografica della residenza ducale di Villanova. Il toponimo Villanova, però, diffusissimo in tutta l’Italia settentrionale, oltre che banale, non aiuta di certo. Con il passare dei secoli, poi, è possibile che questa denominazione sia rimasta sempre la stessa, anche se il centro abitato, la villa, ha perso la caratteristica di nova, è invecchiata e a volte addirittura scomparsa, entrando nel novero delle località perdute. Sicuramente non si tratta di Villanova D’Ardenghi, come invece indicava il cinegiornale di Pavia e dintorni

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costume e societĂ riso

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i salviati, banchieri e mercanti

Import-export mediterraneo Ben pochi articoli commerciali si sottrassero agli interessi dei Salviati, una delle maggiori famiglie di banchieri e mercanti fiorentini del XV secolo. Nel corso del Quattrocento si contavano banchi Salviati a Firenze, Pisa, Bruges, Londra, Lione e Costantinopoli, oltre a botteghe della lana a Firenze. L’immensa mole di partite contabili, contenuta nei libri mastri delle loro aziende italiane ed estere, suscita continuo stupore per la varietà delle merci, che transitavano per i fondaci del Mediterraneo e del Nord Europa. La tipologia dei prodotti scelti come oggetto dell’import-export derivava da una precisa strategia economica, strutturata su tre livelli. Il primo era inerente al commercio di importanti quantità di merci, che da sole garantivano un ottimo giro d’affari. Il secondo riguardava il settore dell’artigianato e la rivendita locale, che dava loro proventi di una certa consistenza. Il terzo, ben piú ridotto degli altri due, era calibrato sulla base di una domanda occasionale. Rientra in quest’ultima categoria l’arrivo a Pisa di tre quantitativi di riso da Valencia, in un arco di tempo circoscritto agli anni 1473-1475. La prima registrazione riguarda 30 costali di riso, venduti dal banco per conto di Francesco di Bartolomeo Del Vigna, dimorante a Valencia e uno dei maggiori corrispondenti dei Salviati per la Nella pagina accanto In risaia, olio su tela di Angelo Morbelli. 1901. Collezione

privata. In Italia, la raccolta del cereale avveniva solitamente nel mese di settembre.

del 1972, poiché il piccolo abitato del Pavese, fin da prima del 1475, era qualificato anche con il genitivo della famiglia a cui era appartenuto, e comunque non è mai stato residenza né dei domini Mediolani, né successivamente ducale. E neppure i Romani avevano coltivato proprio lí il riso, come è stato da alcuni ipotizzato. Villanova può forse riferirsi a una località ben piú lontana, magari nel Milanese o nella Brianza.

I primi contratti

La vera diffusione del riso nella bassa Lombardia, soprattutto nel Pavese, si registra alla metà degli anni Novanta del Quattrocento. In altre zone, forse, anche pochissimi anni prima, ma non si può risalire neppure alla fine degli anni Ottanta dello stesso secolo. I primi contratti di masserizio che menzionano «la monda de li risi» come una prassi ormai abituale furono stipulati agli inizi del Cinquecento e riguardano il vicariato di Set-

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La pianta di riso (Oryza sativa) in una incisione ottocentesca. Londra, Natural History Museum.

Penisola Iberica. Nel febbraio del 1472 i Salviati vendettero sulla piazza pisana 29 dei 30 costali di riso, pari a 6030 libbre nette, ad Agnolo e Giovanni di Iacopo di Agnolo e chonpagni, speziali in Pisa. Nello stesso mese furono vendute 25 libbre a Filippo Valori, che pagò in contanti, e altre 170 libbre ad Antonio di ser Carlo e fratelli speziali di Pisa. La seconda registrazione relativa al riso di Valencia risale all’aprile del 1475, quando il Del Vigna inviò dalla Penisola Iberica una partita di riso, di seguito venduto in due quote: la prima di 7400 libbre per 80 ducati e la seconda quota, pari a 9288 libbre da pagarsi entro un mese. timo e una zona nei pressi di Villareggio, a non molta distanza dalla Certosa di Pavia. In precedenza, nelle carte delle filze notarili pavesi erano citati cereali di ogni tipo, anche quelli ora in disuso, ma mai il riso. Non solo. Un contratto novennale riguarda gli anni 1504-1505. L’atto giuridico precedente doveva risalire al 1495, ma non ve n’è traccia. Forse il riso vi era già citato, questo è possibile, o forse venne introdotto proprio durante il novennio 1495-1504, ed ebbe tempo di affermarsi fino a essere compreso nei patti del successivo masserizio. Certo è che nel 1505 Ludovico il Moro, con una grida, citava già coloro che, trasportando il riso a Milano, frodavano i dazi. F

Da leggere U Ezio Barbieri, Antonio Carlomagno, Danilo Fraticelli,

Davide Maffi, Riso Acerbo e Riso Amaro, PI-ME Editrice, Pavia 2014 U Enrico Carnevale Schianca, La cucina medievale. Lessico, storia, preparazioni. Leo S. Olschki Editore, Firenze 2011

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di Mila Lavorini

L’Opera delle meraviglie È stato inaugurato a Firenze, lo scorso ottobre, il Nuovo Museo dell’Opera del Duomo: 25 sale che, su piú di 5000 metri quadrati, espongono numerosi capolavori dei grandi maestri della statuaria gotica e rinascimentale

Salvo diversa indicazione, tutte le immagini che corredano questo Dossier si riferiscono a opere e allestimenti del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze. Maria Maddalena penitente (particolare), statua realizzata da Donatello in legno di pioppo bianco, dipinta e integrata con stoppa e gesso per alcuni particolari e rifiniture. 1455 circa.


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aboratorio propulsore di arti e scienze nel Quattrocento e Cinquecento, Firenze si era imposta come potenza finanziaria e mercantile nel Medioevo, quando, all’epoca dell’autonomia comunale, si era consolidata la stretta connessione tra i diversi rapporti di potere, le attività bancarie e commerciali e la vita delle istituzioni. Intorno al 1300, la città sull’Arno era una metropoli abitata da quasi 100 000 persone, all’apice della fioritura economica, ma politicamente travagliata da forti tensioni interne, a cui si erano aggiunte devastanti calamità naturali che ne avevano sconvolto l’organizzazione interna. Eppure, fu anche il momento

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delle grandiose costruzioni civili e religiose e della nascita di un nuovo linguaggio figurativo e letterario, di cui si fecero portatori Tino da Camaino, Giotto, Dante, Petrarca e Boccaccio, imponendosi nel panorama artistico costellato dalle committenze dei ricchi mercanti, protagonisti di quell’industria estremamente redditizia che era legata alla lavorazione e all’esportazione dei panni di lana.

Capitale dell’economia

Una realtà urbana dinamica e in continua evoluzione culturale e politica si impose nel panorama europeo, contribuendo a trasformare la Toscana in uno dei due poli eco-

nomici del continente, insieme alle Fiandre, ma primeggiando sugli altri Comuni, tanto da battere moneta propria, con il conio, nel 1252, del primo fiorino che, ben presto, si affermò come valuta base per gli scambi commerciali. Era quindi un’atmosfera effervescente quella che si respirava quando, l’8 settembre 1296, sotto la direzione di Arnolfo di Cambio, si pose la prima pietra per la costruzione del nuovo Duomo, dedicato a santa Maria del Fiore, in sostituzione di quello protocristiano, intitolato a santa Reparata, troppo piccolo e inadeguato a rappresentare l’eccezionale ricchezza di Firenze. Quest’ultimo venne demolito comgennaio

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pletamente nel 1375, con grande dolore della gente comune, che l’aveva amato e venerato fino all’ultimo, come testimonia un affresco che ne decorava la parete semicircolare dell’abside destra, eseguito da un seguace di Giotto, verso la metà del Trecento. Desiderio di ostentazione e forte senso di appartenenza alla comunità religiosa risultarono fondamentali nel concepimento di un progetto che vide succedersi piú di una generazione prima di essere concluso, centoquarant’anni piú tardi. Gli ostacoli di natura organiz-

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Sulle due pagine una veduta della sala della Maddalena di Donatello. A sinistra l’Agnus Dei, emblema dell’Arte della Lana, terracotta invetriata della bottega di Andrea Della Robbia. Ultimo quarto del XV sec. L’Arte della Lana fu sovrintendente esclusivo dell’Opera del Duomo dal 1331 al 1770.

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zativa e finanziaria furono fronteggiati e risolti grazie ai vari organismi pubblici e privati che sovvenzionarono il piano edilizio, in piena collaborazione con l’Opera del Duomo, nata come istituzione comunale con dignità di magistratura, responsabile dei compiti maggiori e delle fasi piú delicate del processo costruttivo, come la scelta degli artisti.

Nel segno dell’agnello

Oltre a corrispondere regolarmente quote fisse sulle entrate fiscali, la Repubblica fiorentina decise di assegnare all’ente, in forma permanente, l’usufrutto dei boschi del Casentino, territorio montano dell’alta valle dell’Arno, che costituiva una cospicua fonte di introiti. Inizialmente, le potenti Arti Maggiori furono le cooperanti piú attive, finché, nel 1331, il Patronato fu assegnato in esclusiva all’Arte della Lana, il cui simbolo, l’Agnus Dei, venne acquisito anche dall’Opera. Quest’ultima, nel corso dei secoli, ha mantenuto potere decisionale, continuando la sua missione di conservazione e valorizzazione dell’intero complesso religioso, attualmente formato, oltre che da S. Maria del Fiore, anche dal Battistero, dal campanile di Giotto, dalla cupola brunelleschiana e dalla cripta di S. Reparata. Nel 1432, il Brunelleschi fu in-

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caricato di edificare il nuovo «contenitore» dell’Opera, prospiciente l’abside, che avrebbe dovuto essere polifunzionale, idoneo ad alloggiare gli uffici dell’istituto, ma anche tutte le opere d’arte che, per motivi diversi, venivano ritirate dalla Cattedrale, ormai quasi ultimata. Inoltre si richiese anche un cortile con portico, nel quale scalpellini e scultori potessero stazionare per lavorare, come Michelangelo che, proprio in questo luogo, scolpí il David. Cominciò cosí a prendere corpo la collezione da cui, nel 1891, scaturí il primo nucleo museale che, in

In alto Madonna dagli occhi di vetro tra Santa Reparata e San Zanobi (particolare), opera in marmo e paste vitree di Arnolfo di Cambio e collaboratori. 1300-1310. Nella pagina accanto Ritratto di Francesco I de’ Medici, olio su tela di Pieter Paul Rubens. 1622 circa. Parigi, Museo del Louvre. Il ritratto fa parte del Ciclo di Maria de’ Medici, commissionato nel 1621 al pittore fiammingo per decorare le sale del Palais du Luxembourg a Parigi.

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Francesco I de’ Medici (1541-1587)

Signore illuminato e passionale Eletto capo di governo nel 1564, mentre il padre Cosimo I era ancora vivo, Francesco I de’ Medici gli succedette dieci anni dopo con il titolo di granduca, appellativo concesso prima dal papa e poi confermato dall’imperatore Massimiliano II. Ottenne il riconoscimento dell’ereditarietà dei suoi possedimenti in Toscana e decise di patrocinare il progetto di sviluppo del porto di Livorno di Bernardo Buontalenti, oltre a rafforzare la flotta e ad aprire nuove postazioni commerciali nel Mediterraneo orientale. Studioso di chimica e balistica, nonché appassionato di alchimia, Francesco si mostrò grande amante delle arti, nel solco di quel mecenatismo che fu un tratto distintivo della maggior parte dei membri di casa Medici. Il suo regno, però, fu segnato anche da omicidi e scandali uno dei quali lo vide protagonista. Il nome del principe è infatti connesso a quello di Bianca Cappello, nobildonna fuggita da Venezia con il fidanzato, che l’aveva poi abbandonata, una volta giunti a Firenze. Era cosí iniziata una relazione appassionata tra la bellissima veneziana e Francesco. A niente valsero i rimbrotti dei familiari e dello stesso imperatore, né il matrimonio con Giovanna d’Austria, o la pubblica censura. Quando la moglie morí, dopo aver dato alla luce tre figli, i due amanti si sposarono e, poco tempo dopo, furono trovati senza vita, in una delle ville medicee. La tragica fine della coppia avvenne nel 1587, poche settimane dopo l’ordinanza emessa da Francesco, su consiglio di Bernardo Buontalenti, di demolire la facciata arnolfiana del Duomo per far posto al nuovo progetto, da scegliere mediante concorso. L’architetto di corte, che sperava di poter essere l’autore della nuova facciata, non si curò di conservare ciò che stava smantellando, cosicché molti elementi decorativi andarono perduti o addirittura trasformati e utilizzati per altri scopi. Poiché Arnolfo di Cambio aveva eseguito solo parzialmente la decorazione, fino alla prima metà del Quattrocento, il suo disegno era stato portato avanti, ma, verso la fine del secolo, aveva cominciato a farsi strada l’idea di farne una completamente nuova. Un desiderio rimasto sulla carta, grazie al buon senso dei governanti che aveva prevalso, fino a quel momento, preferendo aspettare tempi migliori. La scomparsa improvvisa di Francesco e le successive vicende politiche impedirono, poi, la proclamazione del vincitore della gara indetta per trovare l’elaborato adatto a ricoprire la facciata che fu dotata di un inedito «abito» soltanto nella seconda metà del XIX secolo.

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Dossier A destra Porta del Paradiso, realizzata da Lorenzo Ghiberti per l’ingresso orientale del Battistero di S. Giovanni. Bronzo dorato, 1425-1452. L’originale risultò molto danneggiato dall’esondazione dell’Arno del 1966 e fu quindi sostituito con una copia per procedere al suo restauro, eseguito dall’Opificio delle Pietre Dure. Nella pagina accanto, in alto particolare della Porta del Paradiso in cui compare l’autoritratto di Lorenzo Ghiberti. Nella pagina accanto, in basso la formella della Porta del Paradiso con Storie di Salomone e della Regina di Saba dopo il restauro.

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principio, constava di soli due ambienti, poi aumentati a diciotto durante gli anni, ma sempre insufficienti e troppo angusti per accogliere le centinaia di manufatti, alcuni di dimensioni colossali, concepiti per essere ammirati da lontano e realizzati proprio per decorare l’interno e l’esterno degli edifici sacri, sotto l’egida della Fabbriceria. Sfarzosa rappresentanza e intima spiritualità si sono ora unite in un raffinato connubio tra arte e fede, dando vita al nuovo Museo dell’Opera del Duomo che si presenta con un biglietto da visita di tutto rispetto: 6000 mq di spazio espositivo, suddiviso in 25 sale, alcune delle quali lunghe da 20 a quasi 40 m e con

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soffitti alti da 6 a 18 m, dislocate su tre piani, ospitanti 750 capolavori, realizzati da 516 artisti, incluse le grandi firme dell’arte gotica e rinascimentale.

La rinascita del teatro

Alla fine del secolo scorso, l’istituto religioso fece un passo fondamentale, acquistando l’ampio edificio attiguo all’originario punto museale, già sede del settecentesco Teatro degli Intrepidi, poi dismesso e usato come garage. Il nuovo museo è ora collegato a questa struttura con un percorso unitario, nel pieno rispetto delle caratteristiche strutturali di ogni porzione di fabbricato. Aree di interconnessione tra le varie parti hanno contribuito a migliorare la regolarità dei volumi, ridefinendo

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Dossier donatello

Un grande innovatore «Donato era benigno, cortese, umile (...), fu scultor raro e statuario maraviglioso (...) né mai stimò danari, tenendo quegli in una sporta con una fune al palco appicati, onde ogni suo lavorante et amico pigliava il suo bisogno, senza dirgli nulla». Cosí Giogio Vasari, nelle Vite, ci presenta Donato di Niccolò di Betto Bardi, noto come Donatello (1383 o 1386-1466), massimo esponente della scultura rinascimentale e spregiudicato interprete dell’antico, che prende come modello. Pur recuperando i canoni classici, lo scultore pone attenzione alla realtà e alle infinite sfaccettature psicologiche dell’umanità tormentata, allontanandosi dalla tradizione ortodossa e consegnandoci una visione dell’arte e del mondo davvero originale. Abile nel trattare tutti i materiali, dal marmo al bronzo, dalla pietra serena al legno e alla terracotta, Donatello evidenzia la centralità dell’uomo e del suo animo, visto nella sua vitalità, ma anche nella sua solitudine e disperazione: ricerca e sperimentazione si possono rintracciare come una coerente costante in tutta la sua produzione, fino alle ultime creazioni, in un crescendo di drammatica espressività. E come la sua lunga e prolifica carriera procedeva, aumentava parallelamente la determinazione di riprodurre accuratamente quell’ampio ventaglio di emozioni come sofferenza, angoscia o gioia, che scandiscono l’esistenza degli esseri viventi. Il volto della Maria Maddalena penitente di Donatello. 1455 circa. Nella pagina accanto la sala nella quale è esposta la Pietà Bandini di Michelangelo (vedi anche alle pp. 76-77).

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la distribuzione spaziale, anche grazie a gallerie e ulteriori rampe di scale. Durante i lavori per la realizzazione dell’elaborata struttura sono venuti alla luce resti di attività artigianali, come scarti di lavorazione del marmo o del ferro, riconducibili al cantiere cattedralizio del 1400, oltre a una copertura emisferica di circa 3 m di diametro, realizzata a «spina di pesce», la stessa tecnica usata da Filippo Brunelleschi per la sua cupola. L’allestimento, spettacolare ma al tempo stesso razionale, permette ai visitatori di scegliere tra un itinerario lungo e uno breve, a seconda del tempo a disposizione, senza incidere sulla qualità della visita del MOD, la cui raccolta può

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vantare la maggiore concentrazione di scultura monumentale fiorentina esistente al mondo.

Il sogno del granduca

Grazie alla «fusione» tra vecchi e nuovi spazi, è stato risolto lo spinoso problema museologico relativo all’esposizione del centinaio di manufatti provenienti dalla incompiuta facciata arnolfiana del Duomo, smantellata nel 1587, per effetto del regio decreto emanato dal granduca Francesco de’ Medici, che sognava di farne una «moderna»; uno spettacolo compassionevole, come ci riportano le cronache, durante il quale non si esitò a ridurre in pezzi colonne e porfidi. Proprio la ricostruzione di un modello a grandezza naturale in

resina marmorea del fronte trecentesco, con le quaranta statue collocate nelle posizioni indicate dal disegno ad acquerello di Bernardino Poccetti, realizzato poco prima della rimozione, si pone come punto focale della innovativa installazione. Occupa una delle pareti lunghe della Prima Sala, dalla superficie di 500 mq, nella quale hanno trovato posto anche i sessanta elementi di rivestimento esterno con decorazioni scolpite e musive che facevano parte dell’apparato ornamentale. Le opere di particolare prestigio che, in tale sistemazione, sarebbero risultate troppo lontane, sono esposte invece in basso, a portata di «occhio». Mentre le nicchie in alto accolgono calchi che ricreano

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Dossier

Il volto di Nicodemo, particolare della Pietà Bandini di Michelangelo. 1547-1555. Al fariseo convertito che assistette alla sepoltura di Cristo, il maestro attribuí le proprie fattezze.

l’effetto designato in fase di progettazione da Arnolfo di Cambio, architetto di grande sensibilità, che seppe calibrare antico e moderno, introducendo senso del volume e ritmo alle sue composizioni, con unità e equilibrio. E la sua marmorea Madonna in trono col Bambino, fiancheggiata da santa Reparata e san Zanobi – che decorava il timpano della porta centrale della basilica – ben sintetizza ieraticità e solida plasticità, raggiungendo l’apice del realismo nelle brillanti pupille di Maria, realizzate con pasta vitrea e, per questo, nota come la «Vergine dagli occhi di vetro». Il maggiore classicismo che mostra, invece, la Madonna della Natività che ornava il portale sinistro, la pone in rapporto con la statua di Bonifacio VIII, papa protagonista di uno dei periodi piú turbolenti del Medioevo e assertore della supremazia della Chiesa e del potere spirituale sopra quello temporale. Definito «servo dei servi» da Dante Alighieri, il pontefice fu inserito tra i simoniaci

Opere di Michelangelo

I tormenti di un genio Nel 1498, il cardinale Jean Bilhères de Lagraulas commissiona a un Michelangelo poco piú che ventenne, ma già famoso, una Pietà per la sua tomba in S. Petronilla a Roma, con un contratto che prevede il pagamento di 450 ducati: seppur ispirato dal nordico Vesperbild (immagine del vespro), un tipo di scultura devozionale nata in Germania nel 1300, il maestro ne travalica il puro riferimento, adottando una soluzione legata alla sua personale interpretazione del tema, in cui si può leggere «tutto il valore e il potere dell’arte», come ricorda Vasari. Armonia, grazia, bellezza, sofferenza, tragico abbandono si ritrovano in questa creazione marmorea, che consolidò la grandezza di

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nella Divina Commedia. A completare il ciclo dedicato alla titolare della chiesa, troviamo una copia della Dormitio Virginis, il cui originale si trova a Berlino.

La stanchezza del santo

La Pietà Bandini, alla quale Michelangelo lavorò fino al 1555, per poi interromperne bruscamente la realizzazione, per ragioni tecniche e personali.

Il rivestimento di marmi policromi, bianco, verde e rosa, e di mosaici cosmateschi faceva da sfondo anche alle nicchie dimore di santi, angeli e dei quattro Evangelisti, risalenti alla prima metà del XV secolo, tra cui risalta il San Giovanni donatelliano, rappresentato con la fronte corrugata e in un momento di profonda stanchezza, come le braccia abbandonate e inerti suggeriscono. Il rifacimento teatrale di un paesaggio cittadino ci dà il benvenuto per accompagnarci in un emozionante cammino «indoor», punteggiato dalla produzione artistica qui trasferita dalle originali postazioni del complesso sacro, per motivi conservativi, come conseguenza di un irreversibile processo iniziato molto tempo fa, e per il quale sono stati

Michelangelo, il quale, indignato per lo scetticismo di alcuni visitatori in relazione alla paternità del capolavoro esposto al pubblico, vi incise la sua firma. L’iconografia della Madonna seduta che sostiene, sulle proprie gambe, il corpo esanime e irrigidito di Gesú, morto la sera del Venerdí Santo, fu ripreso dal maestro fiorentino negli anni finali della sua carriera artistica e della sua vita. Aveva infatti superato i settant’anni, quando iniziò a scolpire la Pietà Bandini, in un periodo di grande sconforto dovuto alla scomparsa di Vittoria Colonna, con la quale aveva stretto una sincera amicizia e scambiava testi poetici e teorie filosofico-religiose. Riflettendo con insistenza sulla morte, pensa a una Pietà «diversa» e contamina il soggetto con quelli della Deposizione della Croce e della Sepoltura di Cristo. Nella ricerca dei moti piú intimi e profondi dell’anima, seguí a ruota quella nota come Palestrina (oggi alla Galleria dell’Accademia), ancora motivo di accesi dibattiti riguardo

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al suo vero autore, visto il minor pathos espresso dalle figure. L’opera finale, invece, è una delle piú palpitanti e commoventi, poiché Michelangelo assestò l’ultimo colpo di scalpello nel febbraio del 1564, data della sua morte. Ritrovata nel suo studio e inventariata come «statua principiata per un Cristo et un’altra figura di sopra, attaccate insieme, sbozzate e non finite», la scultura fu acquistata nel 1744 dai marchesi Rondanini, da cui il nome, e collocata nel palazzo romano di via del Corso. Dal cortile del palazzo, dove giaceva dimenticata, tra stracci e rifiuti, alla fine arrivò alla collezione del Castello Sforzesco di Milano.

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Dossier Sulle due pagine, da sinistra le statue di profeti realizzate da Donatello e originariamente destinate al campanile di Giotto: Abacuc (noto anche come lo Zuccone e che forse

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ritrae un avversario della famiglia dei Medici, Giovanni Chiericini), il Profeta imberbe (che la tradizione identifica con Filippo Brunelleschi) e Geremia. 1415-1436.


determinanti i restauri effettuati negli ultimi decenni. In stretta connessione visiva e iconografica, di fronte alla replica della facciata medievale è posizionata la Porta del Paradiso e, alla sua destra, la Porta Nord del Battistero, entrambe di Lorenzo Ghiberti, mentre il lato sinistro sarà occupato dalla Porta Sud, eseguita da Andrea Pisano, al termine del restauro. I tre capolavori bronzei sono sormontati dai monumentali gruppi statuari che nel Cinquecento furono realizzati appositamente a questo scopo. Per completare questa riunione virtuale, troviamo anche i due grandi sarcofagi romani, risalenti al II secolo d.C., che per tutto il Medioevo e il Rinascimento si incontravano all’esterno del Battistero. A questa scenografia che evoca la magnificenza della piazza esterna, seguono tre ambienti piú piccoli, scrigni di «eccellenze» scultoree e orafe, in un dialogo artistico permeato di profonda religiosità che inizia con la ottagonale Cappella delle reliquie, dimora di reliquiari in oro, perle, smalti e pietre preziose, tra cui quello che conserva due falangi di un dito di san Giovanni Battista, patrono del capoluogo toscano.

Un ritratto «verista»

Attiguo è il locale in cui pale d’altare devozionali salvatesi dalla «pulizia» iniziata in età rinascimentale in S. Maria del Fiore, in conformità al nascente concetto di unitarietà e armonia, fanno da cornice alla Maria Maddalena penitente di Donatello, che occupa il centro della sala. Straordinario capolavoro di naturalismo eseguito per il Battistero intorno al 1455, l’esile figura appare «consumata» dai digiuni e dall’astinenza; ha il volto scavato, gli occhi infossati nelle orbite, i muscoli, i tendini e le vene a fior di pelle, i lunghi capelli ispidi. Le mani non sono giunte in preghie-

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ra, ma appena discoste, la bocca è semiaperta, in stupefatta espressione per il miracolo con cui Gesú l’ha liberata da «sette demoni» . Dovendo trattare il tema pietoso della elevazione mistica attraverso la mortificazione della carne, suscettibile di drammatici contrasti, l’anziano maestro scelse il pioppo bianco in funzione degli effetti di luce che immaginava per la sua scultura. Poi la dipinse e la integrò con stoppa per la capigliatura e con gesso per alcune rifiniture, arrivando al completo superamento del classicismo che aveva contraddistinto l’età giovanile. Nonostante il legno non permetta sfumature delicate, l’immagine vibra di emozionante compassione.

Capolavoro incompiuto

A poca distanza, è stata creata una sorta di santuario in pietra serena che custodisce la Pietà di Michelangelo, suo probabile monumento funebre iniziato nel 1547, pochi anni dopo la morte dell’amica Vittoria Colonna e concluso nel 1555, quando lo scultore decise di distruggerla, sia per motivi di carattere tecnico, sia per ragioni di natura psicologica. Il blocco di marmo, infatti, era estremamente duro e pieno di impurità, tanto che faceva scintille a ogni colpo di scalpello, come si legge nelle cronache. Michelangelo stava inoltre attraversando uno dei suoi frequenti momenti di depressione e di tormento e, a opera quasi ultimata, fuori di sé, la prese a martellate, danneggiandola in vari punti. Bloccato dal fedele servitore Antonio, il maestro decise di cedere l’opera all’amico e banchiere romano Francesco Bandini, che ne affiderà il restauro, mai completato, a Tiberio Calcagni.

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Dossier

L’attuale corretta angolazione del gruppo marmoreo evidenzia la mancanza della gamba sinistra di Cristo, che è sorretto da tre figure: alla sua destra la Maddalena, che occupa il posto assegnato dall’iconografia tradizionale alla Madonna; al centro, in alto, Nicodemo, il fariseo convertito che assisté alla sua sepoltura e a cui Michelangelo ha prestato il proprio volto; a sinistra, la Vergine. Il corpo di Gesú scivola verso il basso in un modo che l’artista ha enfatizzato attraverso la

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torsione del busto e l’andamento spezzato della gamba.

Ritmo discendente

Il braccio destro, piegato all’indietro, tocca la spalla della Maddalena, mentre il sinistro, cadendo inerte, prosegue la verticale di Nicodemo. Si riconosce un ritmo discendente che appare integrato ed equilibrato da un movimento circolare, quasi rotatorio da sinistra a destra, dato dall’unione delle linee formate dal tronco di Gesú e dagli

arti delle due donne. Illuminata da una luce filtrata dall’alto, la Pietà poggia ora su un basamento in pietra serena, collocato su un elevatore a scomparsa, in grado di alzarsi, in caso di inondazioni. Collocata nella villa romana del Bandini, la Pietà fu invano richiesta da Giorgio Vasari per la tomba di Michelangelo nella basilica fiorentina di Santa Croce. Solo nel 1674 il granduca Cosimo III riuscí a riportarla a Firenze dove rimase relegata per decenni nei sotterranei delgennaio

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La galleria dei modelli documenta le iniziative succedutesi nel tempo per «modernizzare» la Cattedrale fiorentina Sulle due pagine la galleria nella quale sono esposti vari modelli lignei. A destra modello ligneo della cupola e delle parti absidali di S. Maria del Fiore. La costruzione della cupola corona la fabbrica del Duomo, fondato nel 1296 su disegno di Arnolfo di Cambio. Sembra che lo stesso Arnolfo avesse già progettato una cupola, ma quella che oggi ammiriamo è frutto del progetto di Filippo Brunelleschi, Lorenzo Ghiberti e Battista d’Antonio, che ottennero l’incarico nel 1420, dopo aver vinto il concorso bandito dall’Opera di S. Maria del Fiore.

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Dossier

la chiesa di S. Lorenzo, finché, nel 1722, venne trasferita in Duomo e, dal 1981, nel museo episcopale. Qui si conclude la rassegna delle testimonianze piú eccelse della collezione, ma anche l’area superiore custodisce capolavori sorprendenti.

In alto particolare di uno dei pannelli realizzati da Luca della Robbia per una delle cantorie (palchi riservati ai coristi addetti ai canti liturgici) del Duomo. XV sec. L’artista scelse di sviluppare il tema desunto dal Salmo 150, attribuito

a David, ritraendo gruppi di fanciulli che cantano, suonano e danzano. In basso la cantoria decorata da Donatello, che raffigurò una danza, come espressione di gioia spirituale, riferibile al Salmo 148 (o 149). 1433-1439.

Fra dottrina e scienza

Al primo piano, nella galleria lunga 36 m, in asse con la sottostante, troviamo le 16 sculture marmoree a grandezza naturale di Andrea Pisano, Donatello, Nanni di Banco e collaboratori, commissionate tra il 1330 e il 1430, insieme a cinquantacinque formelle, tra cui alcune di Luca della Robbia, realizzate per il trecentesco campanile di Giotto. La lettura di questo complesso programma iconografico evidenzia una stretta relazione tra il sistema della dottrina scolastica con il sapere medievale, illustrando il cammino dell’umanità verso la perfezione spirituale. Lungo il lato prospicien-

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Cantorie di Luca della Robbia e Donatello

Gli splendidi palchi dei coristi Noto soprattutto per aver perfezionato la tecnica della terracotta invetriata, Luca della Robbia (1399 o 1400-1482) dette l’avvio a una produzione che riscosse un grandissimo successo, soprattutto nelle aree rurali, per la commistione tra pittura e scultura, per la straordinaria resistenza agli agenti atmosferici e per i costi contenuti. Lo troviamo, trentenne, appena immatricolato all’Arte dei Maestri di Pietra e Legname e alla sua prima esperienza professionale documentata, nella committenza per una delle due cantorie per il Duomo. Il giovane artista decide di sviluppare in dieci pannelli il tema desunto dal Salmo 150, attribuito a David, su una superficie completamente bianca, suddivisa in sei riquadri spartiti da lesene corinzie. Per inscenare il testo biblico, l’artista rappresenta diversi gruppi di fanciulli che cantano, suonano e danzano, con

A destra testa in bronzo realizzata da Donatello per una delle cantorie del Duomo e ispirata a modelli classici. 1433-1439.

accuratezza compositiva e cura nei dettagli, analizzando atteggiamenti e stati d’animo. Le sculture, a forte rilievo, spiccano sul fondo liscio, ma l’insieme genera un effetto di grazia, compostezza e armonica gestualità, dove luci e ombre si equilibrano. Totalmente diversa è la composizione di Donatello che dovette affrontare una situazione difficile, poiché la sua cantoria era posizionata su una parete semibuia. Per valorizzare al massimo la poca luce a disposizione, attraverso

effetti suggestivi, si ispirò alla ricchezza decorativa della facciata di Arnolfo e progettò una struttura in marmi policromi, ravvivati da uno sfondo oro a mosaico colorato. Qui i rilievi del fregio, continui, ci illustrano una danza frenetica, come espressione di gioia spirituale, riferibile al Salmo 148 (o 149), ripresa dai temi dionisiaci nei fronti dei sarcofagi romani; è come un girotondo continuo, dove le figure in primo piano vanno prevalentemente verso sinistra, quelle in secondo piano a destra. I putti, raffigurati nelle posizioni piú varie, in accordo con la teoria della varietas di Leon Battista Alberti, sembrano lanciati in una corsa che nemmeno la partitura architettonica frena, ma anzi la esalta, in un gioco dinamico dal piccante sapore pagano. Per quasi due secoli e mezzo i due palchi per i coristi addetti ai canti liturgici rimasero al loro posto, finché nel 1688 il Gran Principe Ferdinando, figlio del Granduca Cosimo III de’ Medici, si sposò con Violante Beatrice di Baviera, con nozze fastosissime, celebrate in Duomo, la cui facciata fu rivestita di mattoni e abbellita da una architettura posticcia, dipinta sull’intonaco. Gli interventi coinvolsero anche gli interni e le cantorie che, giudicate oramai superate nello stile, vennero rimosse e depositate nei magazzini dell’Opa, trasformandosi nell’elemento intorno al quale si sarebbe sviluppata la prima idea del Museo.

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Dossier altare d’argento del battistero

Un capolavoro a piú mani Nel 1366 l’Arte di Calimala, una delle piú potenti e ricche corporazioni fiorentine che si occupava di commerciare lana e tessuti, commissionò un altare d’argento come dossale centrale per il Battistero di Firenze, dedicato a san Giovanni Battista. L’elegante struttura architettonica a forma di parallelepipedo è costituita da una base in legno, modanata e dorata, su cui poggiano piccoli pilastri a base poligonale decorati con nicchie che ospitano figure di santi, modularità che si ripete anche nel fregio superiore, dove trovano posto anche Profeti e Sibille. Al centro, tra gli otto pannelli, è posta un’edicola proveniente dalla bottega di Lorenzo Ghiberti, con la statua di San Giovanni Battista, opera di Michelozzo di Bartolomeo, eccellente mediatore stilistico e divulgatore del linguaggio rinascimentale, i cui dettami di classicità e sobrietà sono ben riconoscibili anche nella cornice lignea superiore che corona il prezioso insieme, ultimata nel 1483. Per realizzare le dodici formelle (otto frontali e quattro laterali) con gli episodi della vita del santo protettore della città, si utilizzarono oltre 400 chilogrammi d’argento lavorato con la tecnica dello sbalzo e circa 1050 placchette smaltate policrome, insieme a raffinate dorature. Inizialmente, i maestri orafi incaricati furono Betto di Geri e Leonardo di ser Giovanni, ma, in seguito, altri artisti, tra cui il poliedrico Verrocchio, autore della Decollazione del Battista, contribuirono a portare a termine la monumentale opera (31 x 150 x 88 cm), eccezionale sintesi delle principali tendenze dell’oreficeria e della scultura nel periodo di transizione tra tardo gotico e Rinascimento. Alla fine del XIV secolo, il dossale fu addossato a un altare mobile, situato al centro del Battistero, su cui due volte l’anno si esponeva ai fedeli anche il Tesoro dello stesso tempio, in occasione dei festeggiamenti del santo patrono (24 giugno) e per ricordare il battesimo di Cristo (13 gennaio). Nel 1447, infine, fu trasformato in altare autonomo. A destra la formella dell’altare raffigurante la Decollazione del Battista, opera di Andrea del Verrocchio.

Qui sopra l’altare d’argento del Battistero di S. Giovanni, al quale, nell’arco di oltre un secolo, lavorarono Betto di Geri, Leonardo di ser Giovanni, Tommaso di Lorenzo Ghiberti, Matteo di Giovanni, Michelozzo di Bartolomeo, Bernardo Cennini, Antonio di Salvi, Francesco di Giovanni, Antonio del Pollaiolo e Andrea del Verrocchio.

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te la Sala dell’Antica facciata, una serie di aperture lasciano vedere la «piazza» sottostante.

La sfilata dei Profeti

Sfilano Sibille e Re, in compagnia di Patriarchi e Profeti, tra cui quelli eseguiti da Donatello, alti oltre 190 cm, a completamento della decora-

zione campanaria, raffiguranti: il Profeta imberbe, il Profeta barbuto (o pensieroso), e il Profeta Geremia. Il Profeta imberbe si ispira al modello classico dell’oratore, ma è caratterizzato da penetrante naturalismo e intensa espressività. Energia e pacatezza sottolineano quello che, secondo la tradizione, raffigura l’effigie di Figennaio

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lippo Brunelleschi. Una maggiore imponenza è invece individuabile nel Profeta barbuto, il cui inconsueto gesto della mano destra sprofondata nella barba, che sostiene la testa del personaggio, inclinata in avanti, evoca uno stato d’animo grave e riflessivo. Inquieto espressionismo e penetrazione psicologica sono ri-

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scontrabili anche nel volto di Geremia che, seppure ispirato alla ritrattistica romana, è scevro da qualsiasi idealizzazione.

Travaglio interiore

Quello che abbiamo di fronte è un uomo vero, con gli occhi vigili, ma stanchi, la fronte sporgente, la bar-

ba incolta, il cui corpo, sottolineato dal panneggio mosso e spezzato del mantello, evidenzia un travaglio interiore. Bruttezza o povertà non interferiscono con la grandezza morale, secondo Donatello, autore anche del Profeta Abacuc, noto popolarmente come Lo Zuccone (per via della testa calva). Contraddistinto

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Dossier da una magrezza ascetica, avvolto in una lunga tunica che cade dalla spalla sinistra, con pieghe profonde come l’angoscia che gli brucia l’anima, la figura ritrae, probabilmente, un avversario della famiglia dei Medici, un tal Giovanni Chiericini, morto nel 1416. Una galleria attigua, piú breve, ospita un corpus di oggetti connessi alla costruzione della Cupola della lanterna: modelli lignei, materiali costruttivi e attrezzi d’epoca, insieme a strumenti e a frammenti dei ponteggi usati dagli operai, oltre alla maschera funebre dello stesso Brunelleschi e il ritratto cinquecentesco nella nicchia commemorativa realizzata nelle stanze da lui usate negli anni in cui diresse l’innalzamento della sua opera maestra (portata a termine nel 1436).

Formella raffigurante Il battesimo dei seguaci, facente parte della serie realizzata da Andrea Pisano per la Porta Sud del Battistero di S. Giovanni tra il 1330 e il 1336.

La «modernizzazione»

Al secondo livello, un ulteriore corridoio della stessa lunghezza di quello che sovrasta, accoglie opere del tardo Cinquecento e del primo Seicento relative agli sforzi dei regnanti medicei di «modernizzare» la Cattedrale: grandi modelli li-

Andrea Pisano

Il talento del figlio di un notaio Con la morte di Arnolfo di Cambio, nella prima decade del 1300, scompare il protagonista principale sulla scena della scultura fiorentina. Fu il figlio di un notaio di Pontedera, Andrea Pisano (notizie fra il 1330 e il 1348), a riportare le arti plastiche a un alto livello, come testimonia la prima porta bronzea realizzata per il Battistero, il cui modello risale al 1330. Inizialmente sistemata nel lato orientale, di fronte alla Cattedrale, fu poi spostata nella

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parte meridionale, per far posto al portale del Ghiberti. Ciascuno dei quattordici doppi riquadri contiene venti episodi della vita di san Giovanni Battista, accanto a otto figure allegoriche, le Virtú, in compagnia di tradizionali teste leonine, a protezione simbolica del luogo di culto. Esperto orafo, Andrea presenta le immagini e gli elementi narrativi con una forma chiara, naturale e scevra da ogni «distrazione» ornamentale,

in un’eleganza che rievoca il classicheggiante stile gotico francese che già aveva influenzato Giotto. Le affinità con l’arte giottesca sono riscontrabili anche nelle formelle che occupano l’intero perimetro del primo ordine del campanile di S. Maria del Fiore, dove le figure, seppur meno aggettanti rispetto a quelle nei pannelli della Porta Sud, risultano possenti e realistiche e dove è leggibile un attento studio del movimento. gennaio

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il concorso del 1401

Una scelta davvero difficile Convenzionalmente considerato l’anno di nascita del Rinascimento in campo artistico, il 1401 vide lo svolgersi di un evento fondamentale per la storia dell’arte: il concorso, indetto dai consoli dell’Arte di Calimala, per la Porta Nord del Battistero, nonostante il difficile momento politico che Firenze stava attraversando. Uno degli edifici urbani piú prestigiosi, il Battistero segnava l’identità sociale e religiosa della città, orgogliosa di mostrare unità civica e orgoglio nel progetto di abbellimento dello stesso. Ai partecipanti della gara si richiedeva di presentare un pannello raffigurante uno dei piú vibranti episodi dell’Antico Testamento, il Sacrificio di Isacco, proprio nel momento in cui Abramo sta per pugnalare il figlio, su ordine divino, ma un angelo lo ferma prima che commetta l’omicidio. Dalla nutrita cerchia di candidati che si misero in gioco, al momento del giudizio della commissione incaricata di scegliere il vincitore, emersero i nomi di Ghiberti e Brunelleschi. Le formelle eseguite dai due fiorentini esprimevano due visioni dell’arte lontane l’una dall’altra, che dettero filo da torcere ai giudici; mentre Ghiberti, artista di mediazione, rimane ancora vincolato agli stilemi tardo-gotici, realizzando una raffinata scena pervasa di immobile eleganza, il suo

collega e rivale Brunelleschi crea un «teatro», nel quale i protagonisti agiscono attivamente con una carica emotiva che sorprende per la sua forza. Non era, però, ancora arrivato il momento per comprendere e apprezzare questo innovativo modo rappresentativo. E, dopo tante incertezze, il personaggio piú adatto a svolgere il delicato compito di scolpire la seconda porta del Battistero sembrò essere Ghiberti, anche per la maggiore conoscenza tecnica in suo possesso, che permetteva un risparmio di materia prima. Veduta d’insieme della Porta Nord del Battistero, opera di Lorenzo Ghiberti, e, a sinistra, la formella raffigurante l’Annunciazione. 1403-1424.

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Dossier

Opificio delle Pietre Dure

Dalla creazione al restauro La fondazione di quello che venne poi chiamato «Opificio delle Pietre dure» si deve al granduca Ferdinando I, nel 1588, ma già suo padre, Cosimo I, e il fratello Francesco avevano ospitato in Palazzo Vecchio un atelier per la lavorazione delle pietre pregiate, inventando l’idea di creare mosaici da pietre dure, a imitazione dei lavori classici in tarsie marmoree. Un’arte raffinata, nota come «mosaico fiorentino», notevole per la sua resistenza e che ci ha lasciato pezzi di squisita raffinatezza, usati per decorare tavoli e armadietti o come doni preziosi. La fine del granducato di Toscana, nel 1859, coincise con l’inizio di una crisi irreversibile per l’Opificio, che perse la secolare committenza costituita dalla corte granducale e dall’entourage aristocratico, e fu costretto a cercare nuovi sbocchi, trasformandosi in uno dei piú prestigiosi istituti di restauro a livello mondiale. Proprio dai laboratori dell’OPD, sono uscite le decine di capolavori restaurati e ora esposti permanentemente all’interno del Museo dell’Opera del Duomo.

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Qui sopra la sala del coro bandinelliano nella quale sono conservati elementi della nuova recinzione marmorea del presbiterio o «coro» del Duomo commissionata da Cosimo I de’ Medici a Baccio Bandinelli nel 1547 e ultimata nel 1572. Al centro, un modello in scala 1:25 suggerisce l’originale ricchezza della struttura bandinelliana, semplificata nell’Ottocento.

gnei ideati da Bernardo Buontalenti, Giovan Antonio Dosio, Gherardo Silvani e altri per la nuova facciata in sostituzione di quella abbattuta, nonché statue effimere e dipinti realizzati per le nozze del granduca Ferdinando I con la principessa Cristina di Lorena nel 1589. Anche qui le aperture verso la sala rendono onnipresente l’imponenza della vecchia facciata, e un filmato aiuta i visitatori a visualizzare la funzione della Cattedrale come tempio dinastico. Da qui, si può accedere alla terrazza panoramica.

Luce e penombra

A questo punto il percorso riconduce agli ambienti «storici», al primo piano, dove un allestimento completamente nuovo evoca l’interno del Duomo, con una seconda selezione di tavole a fondo d’oro medievali e rinascimentali, e con le cantorie di Luca della Robbia e Donatello, che erano destinate a sormontare, rispettivamente la gennaio

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La sala del tesoro, che ospita, tra gli altri, l’altare d’argento realizzato per il Battistero e la croce monumentale della stessa materia, voluta come reliquiario del frammento della Croce che Carlo Magno avrebbe donato a Firenze.

croce in argento e parato di san giovanni

Tesori nati dal desiderio di primeggiare Nel 1457, i membri di Calimala, in costante competizione con la rivale Arte della Lana, affidarono la committenza di una gigantesca Croce in argento sbalzato, cesellato e smaltato, alta quasi 2 m, a una squadra di artisti fiorentini, tra cui Antonio del Pollaiolo (1431 circa-1498). Per la sua esecuzione ci vollero 50 chilogrammi d’argento e 3036 fiorini d’oro. Nata come reliquiario per custodire un frammento della Croce di Cristo che, secondo la leggenda, era stato donato alla città da Carlo Magno, perse ben presto la sua funzione originaria e vide l’aggiunta di un Crocifisso e di due statuette laterali. La bottega dei fratelli Pollaiolo (ad affiancare Antonio operò Piero, 1441 circa-1496) si distinse come una delle piú attive ed eclettiche dell’età rinascimentale, con una produzione incentrata sull’esaltazione del dinamismo, del movimento e della forza dell’azione. Nel modellato vi fu una ricerca dei contorni, quasi esasperati, in un linearismo che definiva i volumi con forme talvolta spezzate, lontano da espressioni di natura psicologica o introspettiva. Precursore nella pratica della dissezione anatomica, Antonio è anche autore del prezioso arredo liturgico noto come «parato di San Giovanni», che consta di 27 pannelli, ricamati con fili d’oro intessuti orizzontalmente e seta di differenti colori, raffiguranti storie del Battista. L’impegno fu estenuante, tanto che occorsero ben ventidue anni per il suo completamento: dal 1466 al 1487.

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porta di accesso alla Sagrestia delle Messe o Sacrestia Nuova, illuminata da una discreta luce, e quella dei Canonici, dal lato opposto, in penombra (vedi box alle pp. 82-83). In una sezione addizionale, sono esposti 25 rilievi provenienti dal coro cinquecentesco realizzato da Baccio Bandinelli, e l’altare d’argento ideato per il Battistero (vedi box alle pp. 84-85), insieme al monumentale crocifisso d’argento di Antonio Pollaiolo che disegnò anche 27 pannelli ricamati per il sontuoso parato usato nella festa liturgica di san Giovanni Battista (vedi box alla pagina accanto). Un’ultima sfilata di sale documenta le fasi pluridecennali che portarono, negli anni Ottanta del XIX secolo, alla realizzazione della facciata neogotica che, tuttora, adorna la Cattedrale di Firenze: disegni, dipinti, statue marmoree, gessi e modelli ricreano il variegato panorama d’impulsi architettonici e decorativi del periodo risorgimentale. V

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medioevo nascosto ceri

I colori del

potere

I restauri appena conclusi nel santuario della Madonna di Ceri, un borgo laziale nei pressi di Cerveteri, hanno rivelato un vero tesoro: i magnifici affreschi, realizzati tra l’XI e il XII secolo ma rimasti a lungo nascosti, furono riscoperti negli anni Ottanta del secolo scorso. Illustrano scene tratte dall’Antico Testamento e documentano un periodo cruciale della storia della Chiesa…

I

n Italia il turismo si muove quasi esclusivamente verso i monumenti piú celebri e le grandi città d’arte, trascurando tesori meno noti o piú decentrati, che potrebbero fare la fortuna dei luoghi che li ospitano. Non fa eccezione il Lazio che, anzi, è un esempio emblematico di tale squilibrio, con Roma che funge da polo di attrazione capace di oscurare ogni altra meta, soprattutto per chi dedichi solo pochi giorni al proprio soggiorno in Italia. Roma, in realtà, oscura anche se stessa, se si considera che il flusso dei visitatori si indirizza perlopiú al Colosseo, ai Fori, ai Musei Capitolini, alla fontana di Trevi, a Trinità dei Monti, mentre molte meraviglie restano pressoché ignorate.

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Ceri (frazione di Cerveteri, Roma) santuario della Madonna. La rappresentazione del Peccato originale compresa nel ciclo affrescato che orna la parete destra della chiesa, riscoperto negli anni Ottanta e recentemente restaurato. Le pitture sono databili tra la fine dell’XI e gli inizi del XII sec.

testo e fotografie di Mimmo Frassineti



medioevo nascosto ceri Oriolo Romano Lago di Bracciano

Castel Giuliano E80 E80

Cerveteri C Cer Ce e erv

pare alle scorrerie saracene, che indusse gli abitanti di Caere Vetus (da cui la moderna denominazione della cittadina) a fondare una nuova Ceri su un alto sperone di roccia piú all’interno. Il sito conobbe comunque una frequentazione anche piú antica, in epoca etrusca e romana.

Magliano Romano

Cesano

Ceri

Isola Farnese

A90

Aranova Roma E80 E80

Fregene

Nella pagina accanto una veduta dell’interno della chiesa, con, in primo piano, il pregiato pavimento cosmatesco. In basso il borgo di Ceri, che si formò quando gli abitanti di Caere Vetus (Cerveteri) scelsero il sito come rifugio dalle scorrerie dei Saraceni. Sono state tuttavia accertate tracce di frequentazione già in epoca etrusca e romana.

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A90

Proprio nel Lazio, l’Italia dei tesori nascosti si è arricchita di un’ulteriore preziosa gemma, grazie alla conclusione del restauro degli affreschi medievali del santuario della Madonna di Ceri, una frazione di Cerveteri, dalla quale dista circa 5 km in linea d’aria. Il borgo deve la sua origine alla necessità di scam-

Felice, il papa martire

Confinata in quegli spazi ridotti, Ceri rimase un agglomerato di poche case, raccolto intorno alla chiesa di S. Felice, custode delle reliquie di Felice II, il papa martirizzato sotto l’imperatore Costanzo. All’epoca in cui gli affreschi vennero dipinti, a cavallo tra l’XI e il XII secolo, vi abitavano una trentina di famiglie, gente povera, di campagna. La chiesa di S. Felice fu intitolata all’Immacolata Concezione dopo la proclamazione del dogma da parte di Pio IX nel 1854. Nel 1986 Diego Bona, vescovo della diocesi, elevò la chiesa a santuario mariano diocesano. Oggi il santuario della Madonna di Ceri, della Diocesi Subur-

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I Cosmati

Di padre in figlio Con il nome di Cosmati si indicano vari marmorari romani che operarono come decoratori e architetti nel XII e XIII secolo, denominati convenzionalmente dal nome Cosma, che ricorre con frequenza nelle loro famiglie. Dei nuclei familiari di Cosmati a oggi noti, il piú antico è quello con capostipite Paolo (1110 circa). Padre di Giovanni, Pietro, Angelo e Sasso, firmò con loro il ciborio di S. Lorenzo fuori le Mura, datato 1148. Un altro nucleo faceva capo a Ranuccio (XII secolo) con i

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figli Nicola e Pietro, i nipoti Giovanni e Guittone, attivi a Roma, Ponzano Romano e Tarquinia. La famiglia piú importante è senz’altro quella a cui appartennero Lorenzo (XII secolo), il figlio Jacopo, il nipote Cosma. Caratteristica dei Cosmati è l’ornamentazione a base di tasselli policromi di marmo e pietre dure e di tessere di paste vitree e d’oro a formare minuti disegni geometrici (dischi, girali, fasce, riquadri), applicata a strutture e a suppellettili dell’architettura religiosa

(campanili, chiostri, altari, amboni, transenne, cibori). L’origine di questo sistema decorativo, che introdusse valori pittorici nell’architettura romana e laziale del tempo, è da ricercarsi nel gusto per la policromia di ispirazione bizantina e musulmana, mediato attraverso centri culturali dell’Italia meridionale, mentre la tecnica e il gusto propri dell’ornato cosmatesco sembrano piuttosto rifarsi alla tradizione classica. (red.)

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LA CREAZIONE DI ADAMO Il primo uomo è appoggiato a una collinetta, dalla quale sgorgano i fiumi del Paradiso. Dio, assiso sulla sfera del cosmo, fa il gesto d’infondergli la vita. Al centro, i due alberi carichi di frutti rappresentano il giardino dell’Eden.

LA CREAZIONE DEL MONDO Domina la scena un Dio giovanissimo; ai lati, si vedono il Sole e la Luna e le personificazioni del giorno (un uomo nudo con una torcia) e della notte (una donna che regge una fiaccola spenta); in basso, la colomba dello Spirito Santo.

In alto, sulle due pagine veduta d’insieme della parete destra della navata, sulla quale si conservano gli affreschi riscoperti negli anni Ottanta e poi restaurati.

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bicaria di Porto-Santa Rufina, è uno di quelli in cui si celebra il Giubileo della Misericordia. Dell’edificio antico rimangono l’abside semicircolare e parte del pavimento cosmatesco (vedi box a p. 93). Una metà dei rari e bellissimi affreschi, quella sul lato sinistro della navata centrale, fu distrutta nel 1504, quando Ceri venne bombardata da Cesare Borgia (nelle case del borgo fanno bella mostra di sé le palle di pietra dispensate dai cannoni del duca Valentino). Crollò l’intera parete sinistra, mentre la destra scampò alla distruzione. In occasione della ricostruzione della chiesa in forme rinascimentali, intorno alla metà del Cinquecento, la parete mancante venne gennaio

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riedificata, dotandola di tre cappelle a volta, una delle quali ospita la Madonna della Misericordia, una tavola lignea della fine del Quattrocento assai venerata. Per compensare l’asimmetria venutasi a creare con la parete destra, si decise di innalzare un muro di conci, simile nell’aspetto a quello della parete di fronte, dello spessore di 50 cm, che si sovrappose agli affreschi medievali: chiusi dietro la parete, delle pitture si perse la memoria.

La riscoperta

La scoperta degli affreschi fu casuale. Nei primi anni Ottanta del Novecento, il parroco della chiesa notò alcune sconnessioni venutesi a creare fra i conci e si temette che

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fossero state causate da problemi di staticità. All’epoca si riteneva che il muro risultante dalla sovrapposizione tra quello antico e affrescato e l’opera cinquecentesca fosse un corpo unico. Una volta appurata la presenza degli affreschi, si presentò il problema di come evitare di danneggiarli nel rimuovere i conci. Fortunatamente, i due muri, benché a contatto, non erano legati dalla calce. In proposito, non ha dubbi il restauratore Rossano Pizzinelli, responsabile dell’intervento: «Proprio al muro di conci si deve il salvataggio delle pitture. In realtà, non si tratta propriamente di affreschi, ma di quella che noi restauratori chiamiamo “pittura a calce”. È una tecnica eseguita sull’intonaco

quasi asciutto, simile all’affresco e insolubile una volta essiccata, ma non è un affresco vero e proprio. La parete di tufo che l’ha coperta è risultata assai meno dannosa di una scialbatura (imbiancatura), perché quest’ultima, in un dipinto a secco, come nel nostro caso, sarebbe stata assai difficile da asportare. Tuttavia, l’operazione piú complessa è consistita proprio nel rimuovere i conci senza danneggiare le pitture. È stato infatti necessario effettuare un consolidamento quasi alla cieca, poiché occorreva operare sulla superficie dipinta dietro al concio prima di asportarlo». «Accanto a un eccellente restauro degli affreschi, si è curato anche l’aspetto architettonico», sottolinea l’architetto Agostino Bureca, nuovo titolare della Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per le province di Roma, Frosinone, Latina, Rieti e Viterbo, che poi aggiunge: «Nel Cinquecento il soffitto a capriate fu sostituito da una volta a botte, la cui realizzazione ha determinato una leggera sopraelevazione della chiesa. La scoperta degli affreschi ha imposto la rimozione della volta, il cui segno rimane però leggibile sul muro di fondo. Sulla parete si possono inoltre vedere le macchie dei fori nei quali erano alloggiate le prime capriate. Dal punto di vista architettonico, la storia della Chiesa si può leggere anche cosí».

Una famiglia di artisti

La storica dell’arte Patrizia Ferretti ha diretto i lavori e spiega: «Le pitture risalgono agli anni della riforma gregoriana, tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo, con una datazione che oscilla tra il 1070 e il 1120. Furono verosimilmente eseguiti dalla stessa famiglia di artisti che illustrò le scene della vita di san Clemente e di sant’Alessio nella basilica inferiore di S. Clemente a Roma. Forse da una generazione immediatamente successiva, con piccoli cambiamenti nella decora-

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LA CREAZIONE DI EVA La prima donna è rappresentata mentre esce dal fianco di Adamo dormiente e protende le braccia verso il Creatore. LA CACCIATA DAL PARADISO Macchiatisi del Peccato originale, Adamo ed Eva vengono cacciati dal Paradiso ed escono da una porta difesa da alte torri; i progenitori sono rappresentati con fattezze assai singolari: appaiono come due corpi che fuoriescono da un unico bacino, cinto da una pelle animale, con un solo paio di gambe. Alle loro spalle sta un cherubino, mentre Adamo già brandisce un attrezzo simile a una scure, in vista del duro lavoro che lo aspetta.

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zione e nella resa delle figure, ma le affinità prevalgono e la resa pittorica è quasi identica. Anche le lettere dei tituli (titoli), bianche su fondo rosso, si somigliano. Titoli che a Ceri sono scritti in latino, precisamente in esametri, con l’inserto di lettere greche come l’omega (per esempio in Ghiorgòs, san Giorgio, o Nikolaos, san Nicola), che si trova anche in S. Clemente. Simili sono anche le architetture, con un accenno di profondità, mentre le figure, che a Ceri sembrano quasi danzare, nella chiesa romana sono piú statiche». Disposte su quattro fasce, le pitture illustrano episodi dell’Antico Testamento ed è del tutto probabile che quelle perdute sulla parete sinistra rappresentassero storie del Nuovo. Sorprende la qualità dei dipinti, con particolari di raffinata eleganza, come per esempio le figure di Adamo ed Eva nella scena del Peccato originale. Ma perché affreschi cosí importanti, certo opera dei maggiori artisti presenti a Roma e in area laziale, si trovano in un borgo di poche anime, sperduto nella campagna, non collegato (non lo è nemmeno oggi) ad alcuna arteria importante, almeno per quanto ne sappiamo? Chi può averne stabilito i contenuti – quasi un manifesto della riforma gregoriana – e quale autorità religiosa li commissionò, dettando il complesso programma iconografico e mettendo evidentemente a disposizione rilevanti risorse economiche, come dimostrano anche i materiali impiegati, fra i quali il lapislazzuli? Il pavimento cosmatesco del santuario della Madonna è anch’esso molto ricco e avvalora l’ipotesi di una committenza di grande prestigio: coevo alle pitture, è stato infatti realizzato con pregiati marmi di spoglio. Le iscrizioni che accompagnano i vari episodi arricchiscono la solennità dell’apparato decorativo. Se pitture e mosaici istruivano il popolo nelle verità della fede,

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non lo aiutava invece l’apparato epigrafico, tantomeno se in latino – come in questo caso –, fitto di abbreviazioni e segni diacritici. I tituli conferivano autorevolezza alla rappresentazione, sottintendendo che essa traeva ispirazione dalle scritture. Ma c’è da chiedersi a chi fossero destinati. Chi andava a Ceri a contemplare quei dipinti di qualità tanto alta, illustrati da esametri latini di elegante fattura?

Storie come moniti

Gli affreschi si leggono, come viene naturale, partendo dal registro superiore, da sinistra a destra. Il primo riquadro rappresenta la creazione del mondo. Al centro, un Dio giovanissimo solleva la destra nel gesto dell’adlocutio (allocuzione), mentre lascia cadere dalla sinistra quella che sembra una manciata di diamanti, le stelle del cielo. Ai lati stanno il Sole e la Luna, e due mandorle contenenti le personificazioni del giorno (un uomo ignudo con una torcia) e della notte (una donna che regge una fiaccola spenta). In basso, la colomba dello Spirito Santo e, in-

Una delle estremità laterali del ciclo affrescato, che si articola in quattro fasce, aventi come soggetti episodi dell’Antico Testamento.

fine, le acque, in cui nuotano vivaci creature marine. Il Creatore ha le sembianze di Cristo, imberbe, quasi ancora un ragazzo, a rappresentare l’idea che il Vecchio Testamento è già una promessa del Nuovo. L’iscrizione, in caratteri bianchi su fondo rosso, dice: «[p]RIMVM CONSTAT OPVS D[omi]NI C[o]ELV[m] MARE TELLVS», «La prima opera del Signore consiste nel cielo, nel mare e nella terra». Assistiamo quindi alla creazione di Adamo, appoggiato a una collinetta dalla quale si originano i quattro fiumi del Paradiso: Fison, Gihon, Tigri ed Eufrate. Dio, assiso sulla sfera del cosmo, fa il gesto d’infondergli la vita. Al centro due alberi carichi di frutti rappresentano il giardino dell’Eden. Nella stessa ambientazione viene creata la donna, che esce dal fianco di Adamo dormiente e protende le braccia verso il Creatore.

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CAINO UCCIDE ABELE Dopo l’offerta di un dono a Dio (a sinistra), scoppia il diverbio tra i due fratelli, che culmina con l’assassinio di Abele da parte di Caino.

IL SACRIFICIO DI ISACCO La mano di Dio ferma Abramo che sta per colpire il figlio, che giace nudo, con gli occhi bendati, su un altare dove arde un fuoco.

«DORMITANTE VIRO D[eu]S EVA[m] PLASMAT AB IPSO» spiega l’iscrizione: «Dallo stesso uomo addormentato Dio plasma Eva». Ridurre in esametri le Sacre Scritture non è una libertà che gli artisti si potessero arrogare: quei versi devono essere stati dettati da una figura di grado elevato nella gerarchia o, forse, appartenere a un componimento liturgico di uso riconosciuto.

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Il riquadro successivo mostra il Peccato originale. Nell’elegante composizione, le figure sembrano accennare un passo di danza, a dispetto della gravità del tema.

Il frutto proibito

La scena sintetizza le varie fasi dell’evento: la tentazione del serpente che parla all’orecchio di Eva, la donna che porge ad Adamo il

frutto proibito, la copertura delle nudità con foglie di fico, conseguente all’acquisita nozione del bene e del male. Cacciati dal Paradiso, attraverso una porta difesa da alte torri, i Progenitori sono disegnati in modo singolare: due corpi che fuoriescono da un unico bacino, cinto da una pelle animale, con un solo paio di gambe. Alle loro spalle si vede un cherubigennaio

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L’ARCA DI NOÈ Sulla coperta della massiccia imbarcazione sono schierati: Noè (al centro, con l’aureola), i figli Sem, Cam e Iafet (alla sua destra), la moglie dello stesso Noè e quelle dei figli, a capo coperto. L’arca appare già assediata dalle acque. Una tettoia accoglie uccelli dal ricco piumaggio. Piú in basso si affacciano gli animali, mentre altri li raggiungono in bilico su sottili passerelle. Nell’acqua nuotano pesci e calamari, simili a quelli rappresentati nell’affresco della creazione.

no, mentre Adamo già brandisce un attrezzo simile a una lunga scure, in vista del duro lavoro che lo aspetta. La vicenda della prima famiglia umana si conclude con l’assassinio di Abele. Un’unica scena mostra l’offerta a Dio da parte dei due fratelli, il gradimento del Creatore per il dono di Abele, il delitto, la maledizione di Dio. Il successivo riquadro rappresenta l’arca di Noè. «Entrò

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nell’arca Noè con i figli Sem, Cam e Iafet, la moglie di Noè, le tre mogli dei suoi tre figli» (Genesi, 7).

La famiglia in coperta

Questi personaggi sono schierati sulla coperta della massiccia imbarcazione: al centro Noè, con l’aureola; alla sua destra, i tre figli; a sinistra, le mogli a capo coperto. L’arca appare già assediata dalle ac-

que. Una tettoia accoglie uccelli dal ricco piumaggio e, piú in basso, si affacciano gli animali, mentre altri li raggiungono in bilico su sottili passerelle. Nell’acqua nuotano pesci e calamari, simili a quelli già visti nell’affresco della creazione. La figura di Noè richiama quella del Cristo Pantocratore, forse prefigurando il Redentore alla guida della Chiesa, simboleggiata dall’arca.

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Il registro superiore si chiude con il sacrificio di Isacco, ambientato in un paesaggio montuoso. La mano di Dio si sporge dalle sfere celesti e ferma Abramo in procinto di colpire il figlio, che giace nudo, con gli occhi bendati, su un altare ardente. Un candido ariete, a sinistra, osserva la scena: sarà lui a prendere il posto di Isacco nel sacrificio. Il registro mediano dedica due riquadri a Giacobbe, due a Giuseppe e quattro a Mosè. Nel primo Giacobbe, identificato dalla scritta Iacop, estorce la benedizione al pa-

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dre cieco, Isacco (Ysaac), fingendosi il primogenito Esaú (Esav), con un inganno ordito dalla madre Rebecca. Sullo sfondo un edificio tripartito, dall’aspetto sontuoso.

Le traversie di Giuseppe

L’episodio successivo, Il sogno di Giacobbe, è assai lacunoso a causa del distacco dell’intonaco. Il terzo riquadro è invece ricco di particolari: mostra Giuseppe estratto dai fratelli dalla cisterna in cui l’avevano gettato per liberarsene e venduto per venti sicli d’argento a una carova-

na di Ismaeliti, montati su bizzarri cammelli, sprovvisti di gobba; la storia prosegue in Egitto, dove Giuseppe – comprato da Putifar, un ufficiale del faraone, e divenuto il suo uomo di fiducia – resiste alla moglie di costui, raffigurata mentre pone in atto il tentativo di seduzione. La seconda parte del registro mediano è interamente dedicata a Mosè: la rivelazione di Dio sul monte Sinai con il miracolo del roveto ardente che non si consuma (ma questa parte d’intonaco è caduta) e la trasformazione del bastone in gennaio

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GIUSEPPE VENDUTO AGLI ISMAELITI Giuseppe viene estratto dai fratelli dalla cisterna in cui l’avevano gettato per liberarsene e venduto per venti sicli d’argento a una carovana di Ismaeliti, che cavalcano bizzarri cammelli, sprovvisti di gobba. ISACCO BENEDICE GIACOBBE Giacobbe, identificato dalla scritta Iacop, estorce la benedizione al padre cieco Isacco (Ysaac) fingendosi il primogenito Esaú (Esav), con un inganno ordito dalla madre Rebecca. Sullo sfondo, si vede un edificio tripartito, dall’aspetto sontuoso.

un serpente che, afferrato da Mosè, torna a essere un bastone. Il prodigio si replica davanti al faraone, quando Mosè trasforma il suo bastone in un serpente che divora i due rettili messi in campo dai maghi egiziani. Una vasta lacuna nell’intonaco non impedisce di leggere la scena seguente, che mostra le piaghe che Mosè infligge all’Egitto, perché il faraone non lascia andare il suo popolo: una violenta grandinata che distrugge i raccolti e l’invasione delle rane, una delle quali salta sulla faccia del faraone,

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che si ritrae con un gesto di ribrezzo. Nell’ultimo riquadro vediamo il faraone sommerso con tutto il suo esercito (…PHARAO DIMERSUS CV[m] MILITE MULTO) dalle acque del Mar Rosso. I flutti lo avvolgono sul suo carro trainato da due cavalli, spezzano le insegne dei suoi cavalieri, uno dei quali si trova un pesce infilzato nella lancia.

L’uccisione del drago

Si concludono cosí le storie dell’Antico Testamento. Altri due registri decorano la base dei pilastri, ciascuno con quattro episodi intervallati dagli spazi delle arcate. Nel primo, san Giorgio, con il mantello al vento, uccide un drago dal manto rosso a pallini bianchi, mentre il suo cavallo calpesta la mostruosa creatura. Una scritta, S[anctus] GEORGIUS, lo indica in quella che potrebbe essere la sua prima rappresentazione in Italia.

Cinque figure ieratiche, in posizione frontale, occupano il riquadro successivo. San Nicola, che veste una tunica grigia, una casula (sopravveste) rossa e un pallio (striscia di stoffa, simile a una stola) bianco. Con la mano destra benedice, mentre con la sinistra regge un libro. L’iscrizione, S[anctus] NYKOLAU[s] risulta identica a quella della basilica inferiore di S. Clemente, con la K e l’omega. Accanto a lui, san Giovanni Evangelista regge con ambo le mani un cartiglio che allude al Vangelo. Al centro, san Giovanni Battista, rozzamente vestito, tiene in braccio un candido agnello, simbolo di Cristo. San Martino di Tours, il soldato romano che divise con un povero il suo mantello, è presentato come vescovo, con casula e pallio. Ultimo a destra è san Leonardo di Noblac, eremita a Limoges e patrono dei carcerati. La scena seguente rappresentava

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il martirio di sant’Andrea apostolo, ma la zona centrale della pittura manca del tutto. Nell’ultimo riquadro, un altro drago, simile a quello del San Giorgio, ma dotato anche di ali, è affrontato da papa Silvestro, il quale gli lega le fauci, sigillandole definitivamente con il segno della croce e impedendogli cosí di sterminare la popolazione col suo alito mortifero. Il pontefice, con l’aureola e la tonsura monastica, indossa una tunica grigia, una casula rossa e un pallio bianco. Due giovani monaci gli fanno luce con fiaccole accese nella grotta in cui il drago ha il suo covo, mentre altri due personaggi esprimono costernazione: sono i maghi Porfirio e Torquato, evidentemente fautori del mostro. Le scene dipinte sullo zoccolo della parete, alla base delle arcate, sono soltanto tre perché la prima, quella sotto il San Giorgio, è cancel-

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SAN GIORGIO E IL DRAGO Il santo martire, con il mantello al vento, uccide un drago rosso a pallini bianchi, mentre il suo cavallo calpesta la mostruosa creatura. L’episodio fu introdotto nelle agiografie di san Giorgio a partire dal XII sec. e quella di Ceri potrebbe esserne la prima rappresentazione a oggi attestata in Italia. LA CUCINA Nello zoccolo della parete si conservano varie scene, fra cui quella in cui si vede una cucina in piena attività, dove un uomo e due donne sono intenti a preparare gli alimenti.

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I CINQUE SANTI Sulla base del secondo pilastro della parete, compaiono cinque figure di santi; da sinistra, sono: Nicola, che con la mano destra benedice e con la sinistra regge un libro; Giovanni Evangelista, con un cartiglio che allude al Vangelo; Giovanni Battista, che tiene in braccio un agnello, simbolo di Cristo; Martino di Tours, il soldato romano che divise il suo mantello con un povero; Leonardo di Noblac, eremita a Limoges e patrono dei carcerati.

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lata. Troviamo, sorprendentemente, una cucina in piena attività, in cui un uomo e due donne si danno da fare nella preparazione degli alimenti. Salsicce e prosciutti appesi in alto e un maialino infilzato nello spiedo stuzzicano l’appetito, ed è appunto questo lo scopo: nel senso, però, di mettere in guardia dai peccati di gola ed evocare la contrapposizione tra il cibo terreno e il cibo celeste. Lo confermano alcuni diavoli in atto di torturare ferocemente un dannato, e una chimera, il mitico mostro che non ci aspetteremmo di trovare in una chiesa, a rappresentare la dimensione infernale.

Pitture «politiche»

Nell’insieme, gli affreschi del santuario di Ceri appaiono dettati da ambienti della Curia favorevoli alla riforma gregoriana, che miravano a rafforzare il potere del papato nei confronti dell’imperatore. Ciò spiega anche la presenza di santi cristiani in un contesto veterotestamentario. I sostenitori della riforma gregoriana ritenevano che le vicende dell’Antico Testamento non fossero profezie che si sarebbero avverate dopo la venuta di Cristo, nell’ambito di un unico progetto di Dio, la salvezza dell’umanità. A rendere preziosi i dipinti c’è anche un’altra ragione: sono ispirati, quasi una copia, alle storie della Bibbia affrescate nell’antica S. Pietro – la grande basilica paleocristiana distrutta per fare posto all’attuale –, come risulta dal confronto con i disegni cinquecenteschi di Domenico Tasselli, che eseguí il rilievo delle pitture prima che la chiesa venisse abbattuta. Ma le sorprese non finiscono qui: grazie a una caduta d’intonaco, nella veste di san Giovanni Evangelista si è scoperto che, sotto i dipinti, ce ne sono degli altri, che pure occupavano l’intera parete. «Abbiamo eseguito un esame dei pigmenti, per vedere quanto queste pitture sottostanti fossero precedenti – racconta Patrizia Ferretti –, scoprendo che c’è

pochissima differenza temporale, al massimo 80 o 100 anni. Lo spessore dei conci ha coperto anche ai lati, alle due estremità del muro, dipinti che decoravano la controfacciata e la parete absidale, salvandone una porzione larga 50 cm. Sulla controfacciata si leggono i resti di un affresco con il Giudizio Universale, diviso in quattro diversi registri. In quello superiore, vediamo tre angeli, e, in quello immediatamente sottostante, due figure maschili provviste di aureola. Quindi l’illustrazione di tre opere di misericordia: vestire gli ignudi, assistere i malati, visitare i carcerati. Infine, le sante vergini martiri». «Dalla parte absidale, togliendo la parete di tufo, abbiamo trovato alcuni lacerti della pittura precedente, nella quale si distinguono una colonna e un capitello. Doveva esserci un motivo ben valido per riaffrescare tutta la chiesa ad appena ottant’anni dalla realizzazione del primo ciclo. Era il periodo della lotta delle investiture e risulta che il santuario di Ceri fu concesso alla Santa Sede dall’imperatore. Ciò giustificherebbe le nuove pitture, che affermano ovunque il potere temporale della Chiesa – vedi, per esempio, l’episodio di san Silvestro e il drago –, coprendo quelle precedenti probabilmente d’ispirazione imperiale». F

Dove e quando Santuario Madonna di Ceri (Parrocchia Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria) Ceri (Cerveteri, Roma), piazza Immacolata, 38 Orario tutti i giorni, 9,00-19,00 (fino alle 20,00 in periodo estivo); le visite non si possono effettuare durante le celebrazioni Info tel. e fax 06 99207028; e-mail: info@santuarioceri.it; www.santuarioceri.it

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Il rosso e l’azzurro ARALDICA • Contraddicendo quella che veniva considerata

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una delle «regole auree» dell’araldica, la casata dei conti di Lomello e i suoi numerosi rami scelsero un’accoppiata inconsueta e che, per contro, ne certifica le relazioni

no dei postulati dell’araldica – che può comunque avere eccezioni significative – è che, in quanto agli smalti degli stemmi, mai si dovrebbe accostare o sovrapporre colore a colore e metallo a metallo: l’origine di tale prassi risiede nella funzione pratica ricoperta dalle armi – denominazione non casuale –, che trovano la propria origine nei vessilli e negli 4 scudi militari, appunto, e dalla conseguente necessità della massima visibilità a distanza e riconoscibilità sul campo, nella confusione della mischia. Molti autori ebbero ragione di lamentare la decadenza dal punto di vista grafico dalla semplice araldica delle origini (un noto brocardo araldico ricorda che «chi

piú ha, meno ha», per significare che gli stemmi piú semplici sono spesso i piú antichi e illustri), che pervenne in qualche caso a far somigliare a «cartoni animati» piú che a stemmi gentilizi le nuove creazioni. Un’eccezione degna di nota – non sospetta per la cronologia e lo status delle casate coinvolte –, è quella che vede la persistenza di un’arma gentilizia che palesemente contraddice il succitato «teorema» nel vasto consortile dei conti palatini di Lomello (Pavia).

Dignità palatina

Si tratta della discendenza della seconda stirpe comitale rurale che, dalla metà del X secolo, si denominò dal castrum di Lomello, 5 ricoprendo la dignità palatina 4. Stemma dei capitanei di Bascapè, e affiancando a quello originario antica pieve nelle campagne fra Milano anche l’importante officio comitale e Pavia, ove un capo imperiale ristretto è cittadino pavese, da cui del resto il letteralmente cucito al campo superiore, comitato lomellino era in precedenza rimpicciolendolo. stato scorporato, verosimilmente a 5. Stemma dei capitanei di Bascapèbeneficio di una stirpe sostenitrice di de Basgapedibus, ove il capo imperiale Berengario I. presenta proporzioni consuete, e sembra Mentre i detentori originari di tale abbassare il troncato lomellino che circoscrizione di recente creazione, conserva le giuste proporzioni. di legge franca, spostarono il centro

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Salvo diversa indicazione, le immagini sono tratte dallo Stemmario Trivulziano (ed. Carlo Maspoli, Milano 2000). 1. Stemma dei conti di Langosco, il ramo forse piú illustre dei Lomello e avversario a Pavia dei Beccaria. 2. Conti di Gambarana, della stirpe dei conti palatini di Lomello. 3. Stemma De comitibus de Meda, ossia dei conti di Mede in Lomellina, ramo dei conti palatini di Lomello.

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6. Stemma parlante dei Moneta milanesi, officiali di zecca che il Sitoni di Scozia considera ramo dai capitanei di Porta Romana, e che l’araldica apparenterebbe ai Bascapè. gennaio

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dei propri interessi in area veronese assumendo l’officio comitale cittadino a Verona con Milone – poi assurto a marchese e all’origine dei conti di San Bonifacio avversari dei Gandolfingi/di Palazzo –, fu un giudice pavese di ascendenze longobarde e vassallo dell’abbazia di Nonantola, Cuniberto, a portare in seguito il titolo di conte di Lomello, almeno dal 996.

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Fedeli all’impero La famiglia era legata, sin da principio e ancora al tempo della lotta fra i Comuni lombardi e il Barbarossa, sia pur in maniera ondivaga, all’impero: un fratello del nostro, Pietro, vescovo di Como dal 983 (sebbene in seguito destituito per essersi schierato al fianco del marchese Arduino d’Ivrea), mantenne fino alla morte la carica di arcicancelliere originariamente ricoperta per Ottone III. L’imperatore 11. Stemma di una famiglia denominata Imperiali certo per le simpatie politiche e pur senza capo imperiale, forse in rapporto coi Moneta milanesi o coi conti presso il cui palatium pavese era la zecca. 12. Stemma parlante di una famiglia De Gallo, che la cromia del campo potrebbe metter in rapporto con i Lomello, o perlomeno coi Bascapè, di cui condividono evidentemente le simpatie filoimperiali. 13. Stemma di una famiglia Di Vali, che potrebbe esser brisura dell’arme dei Lomello o dei Bascapè.

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sassone conferí a Ottone, figlio di Cuniberto qui fuit comes – probabilmente per arginare la finitima potenza obertenga –, anche la dignità comitale cittadina su Pavia e quella palatina originariamente collegata all’antica sede del Regnum, quest’ultima poi patrimonializzata nonostante la perdita del controllo della città. Qui, un altro figlio del primo conte, Aginolfo, fondava il monastero di S. Bartolomeo, secondo l’uso delle maggiori stirpi di fondare Eigenklostern, ossia monasteri «di famiglia»: non solo per motivi di prestigio e come sepolcreto gentilizio (oltre che – eventualmente – di pietà religiosa), ma per secludere e mettere cosí al riparo dai rovesci della fortuna e dalle confische una parte del patrimonio allodiale.

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7. Stemma monogrammatico di una famiglia Calcagni, forse in rapporto coi Bascapè o coi Lomello. 8. Stemma dei De Dergano, località presso Milano, che potrebbe essere brisura dello stemma lomellino. 9. Stemma monogrammatico dei De Bruzijscapis, che sembrerebbero brisare lo stemma comitale lomellino. 10. Stemma dei Da 10 Carexana, che prendono nome da Caresana nel Vercellese, ed il cui campo suggerirebbe un nesso coi conti lomellini. Grazie a questo stratagemma, infatti, tale dotazione patrimoniale restava in fin dei conti nell’effettiva disponibilità della stirpe fondatrice: che si riservava di norma l’alta protezione sulla fondazione e la nomina degli abati, e la riotteneva abitualmente sotto forma di feudi detti appunto «di ripresa» ovvero di livelli, per sé o per beneficiare (letteralmente!) i propri fideles.

Fu vera strage? Tuttavia, come per altre stirpi comitali cittadine in seguito estromesse e ridottesi nei castelli dell’agro da cui si denominarono pur dinastizzando il titolo dell’originaria funzione pubblica, il rapporto con la città in riva al Ticino fu presto burrascoso: se è lecito dubitare della leggendaria strage dei conti

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3. Stemma per inchiesta e parlante dei De Rondenis di Tortona, area in cui i conti lomellini detenevano possessi. 4. Stemma De Longis, forse in rapporto, come potrebbero suggerire gli smalti, coi Lomello o i Bascapè; un’antica famiglia Longhi dal titolo comitale di non chiara origine fiorí nel Bresciano. perpetrata dai Pavesi allorché i primi si recarono in città per la Pasqua – alla quale un solo maschio sarebbe sfuggito –, narrata dal cronista Galvano Fiamma, è pur vero che Pavia avrebbe raso al suolo il castello lomellino fra il 1140 e il 1146. Un ramo dei conti lomellini, discendente da quel Ruffino che nel 1174 si spartisce vasti e anche lontani possessi con lo zio Goffredo (stipite del ramo denominato dal castello di Sparvaria) e che si denominò dal possesso di Langosco, ebbe modo di entrare presto nel governo cittadino e divenire famiglia egemone della fazione dei Fallabrini, opposta a quella dei Marcabotti capitanata dai Beccaria, a cui contesero la signoria sulla città.

Il declino suggerisce l’omissione Altri rami che, almeno in origine, appoggiarono il titolo comitale sui castelli che detenevano, si limitarono a vivacchiare e alcuni senz’altro

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1. Stemma di Bonizi de Cremona, il cui campo richiamo lo stemma dei conti lomellini e i cui Ghepardi nascenti dalla partizione quello di simil campo dei Caresana. 2. Stemma di una famiglia Da Dexio, il cui campo lascerebbe ipotizzare un qualche nesso coi conti di Lomello.

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decaddero, dimenticando – o forse omettendo per decenza... – di fregiarsi del ricordo dell’originaria funzione pubblica: ormai priva di contenuto effettivo e quindi pretenziosa e ridicola. Alcuni rami, tuttavia, mantennero un certo prestigio, conservando il titolo palatino ed entrando probabilmente nella vassallità episcopale precocemente (l’araldica suggerisce che sia questo il caso dei capitanei de 5. Stemma di una famiglia Da Castello, forse in rapporto coi domini del castello di S. Angelo presso Pallanza, destinatari di diplomi imperiali e decorati di un titolo comitale d’incerta origine. 6. Stemma dei Della Torre milanesi, caratterizzato dalla consueta bicromia per inchiesta comune ai conti lomellini, che si vorrebbero discesi da un Martino decorato da un titolo comitale di ignota origine.

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Basilica Petri/Bascapè), nel circuito podestarile, e in seguito gravitando nell’inner circle della corte milanese. Mutati gli smalti in un accostamento piú ortodosso – ma non il nobile troncato originario –, potrebbero effettivamente esser rampollati dal nobile ceppo dei conti palatini di Lomello anche quei Lomellini che a Genova costituirono albergo, accogliendovi altre casate che ne assunsero il gentilizio, salvo in seguito accostarlo all’originario o abbandonarlo per quest’ultimo. Ancora nel 1302, a Milano, Arrigo VII confermava antichi privilegi e ne concedeva di nuovi al consortile comitale lomellino, suddiviso nei rami che prendevano nome dai succitati castelli di Sparvaria e Langosco come dai luoghi di Gambarana, Mede, Nicorvo e Ceretto: oltre alle prerogative della palatinia maior già detenute – presiedere placiti, nominare giudici e notai, legittimare bastardi, concedere stemmi – e al grado di protospatarii ereditari dell’impero in Lombardia, l’imperatore concesse loro il privilegio delle sabbie aurifere padane fra l’Agogna e il Tanaro.

L’avvento dei capitaneati Tuttavia, le istituzioni comunali, pronte a evolvere dal regime podestarile che era succeduto a quello consolare fondato col patto giurato fra i cives, affiancandolo e poi esautorandolo, in capitaneati del popolo spesso alla base di piú o

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meno effimere esperienze signorili, avevano ormai generalmente estromesso dalle leve del potere cittadino le dinastie degli antichi officiali pubblici, e messo in pericolo anche i loro castelli comitatini, spesso ceduti ai Comuni o distrutti, come già in precedenza quello che dava nome al nostro consortile. Il conseguente venir meno degli addentellati patrimoniali connessi in origine alla funzione comitale e il progressivo frazionamento dei possedimenti familiari a causa della fortuna, paradossalmente, biologica, della prolifica consorteria, permisero la sopravvivenza sociale con uno status adeguato solo di una minima parte dei conti di Lomello: la cui discendenza si perse in gran parte nelle nebbie dei luoghi di origine, come della storia.

7. Variante dello stemma dei capitanei di Villanterio-Villani milanesi, con in cuore uno scudetto dall’insolito accostamento cromatico rosso-azzurro. 8. Stemma di una famiglia De Ligurno, forse in rapporto con l’attuale Livorno Ferraris nel Vercellese. 9. Stemma per inchiesta e parlante dei Tagliabue di Montorfano. 10. Stemma di una famiglia Da Montevegia, forse ramo ghibellino (per il capo) dei Donatti di Piazza Brembana.

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11. Variante guelfa (per la bordura gigliata) del semplice stemma per inchiesta dei Donati di Piazza Brembana. 12. Stemma dei Lomellini, che parrebbe brisura di quello dei conti palatini omonimi, dallo Stemmario Genovese Orsini De Marzo. XVII sec.

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Un possibile indizio L’inconsueto dato araldico per inchiesta (cioè degno di approfondimento, appunto...) che vede accostato il rosso all’azzurro, ove noto, può però fornirci, forse, un indizio della possibile discendenza da tale antica stirpe, anche ove si sia nei secoli persa ogni memoria dell’originario titolo, nonché della nobiltà avita: discendenza che solo approfondite indagini genealogiche potrebbero evocare. Come scriveva nella seconda metà del Duecento il rimatore e fanton (uomo d’arme) Pietro da Bascapè, «No è cosa in sto mundo, tal è lla mia credença, / ki se

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12 possa fenir, se no la se comença»: proprio l’araldica può talvolta fornire una traccia da cui avviare la ricostruzione genealogica di rami decaduti o dispersi di antiche stirpi signorili. Dal punto di vista strettamente araldico, tuttavia, occorre rilevare una certa ambiguità, tra gli smalti, del colore azzurro (come del nero): che sembra talvolta rivestire un valore in un certo qual modo anfibio – allo stesso modo del posteriore

11 campo di cielo, di cui l’azzurro araldico si può certamente considerare «antenato» prima della deriva grafica posteriore –, e in special modo in associazione col rosso, come per esempio, fra le famiglie lombarde il cui stemma è raffigurato nel quattrocentesco Stemmario Trivulziano a cui attingiamo, nel caso dei Tagliabue da Montorfano e dei Donati da Piazza Brembana. Da qualche anno si organizza in giugno a Lomello una rievocazione storica delle nozze tra la principessa bavara Teodolinda, vedova del re longobardo Autari, e Agilulfo, duca di Torino, nozze già magicamente evocate dagli affreschi degli Zavattari nel Duomo di Monza (vedi «Medioevo» n. 224, settembre 2015), dove ella morí nel 627 e riposa: sarebbe bello che il borgo da cui presero nome si ricordasse dei propri antichi conti, e ne rispolverasse il semplice e nobile troncato al posto dell’attuale stemma. Niccolò Orsini De Marzo

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UN ANTROPOLOGO NEL

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Di tuoni, dadi e gatti alle finestre... G

ennaio, tempo di oroscopi e di pronostici, di presagi e di illusioni. Mai come in questi giorni si sta attenti a ogni gesto, perché «ciò che si fa a Capodanno lo si fa tutto l’anno». Cosí l’atmosfera si riempie di segni che sembrano nascondere messaggi in codice capaci di svelare il futuro o, come lo specchio della regina cattiva di Biancaneve, a dirci quale sia esattamente il nostro posto nel mondo («Chi è la piú bella del reame?»). Perché questo, in fondo, è lo scopo della divinazione: liberarsi dalle incertezze e dalle ansie di un futuro ignoto. A cavallo del solstizio, tra la fine di dicembre e gennaio, l’alea di incertezza sembrava raggiungere il suo culmine tra gli uomini del Medioevo: si aveva la sensazione che le notti fossero eterne, le riserve alimentari scarse, del raccolto dei campi non v’era ancora alcuna traccia e il gelo assediava implacabilmente le case. Le angosce, la paura, l’incertezza avvicinavano certamente a Dio,

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In alto miniatura raffigurante il gioco dei dadi, da un’edizione manoscritta delle opere sull’etica di Aristotele tradotte da Nicola d’Oresme. 1455. Digione, Bibliothèque municipale. Nella pagina accanto miniatura raffigurante un banchetto, scena associata al mese di gennaio ne Les Très riches Heures du Duc de Berry, Libro d’ore illustrato dai celebri fratelli Limbourg. 1413 circa. Chantilly, Musée Condé. ma anche a piú domestici sistemi per sapere quel che il futuro avrebbe riservato, se la vita era in sintonia con il resto del mondo o se scorreva in linea con le forze cosmiche o divine. Il modo piú semplice per scoprirlo, quello piú utilizzato, ma anche piú condannato, era il gioco d’azzardo: vincere o perdere significava avere o meno dalla propria parte il destino. Soprattutto ai dadi, o zara (dall’arabo al-zahr, «il dado», azzardo), gioco considerato proibitissimo per tutto gennaio

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CALEIDO SCOPIO l’anno, tranne che «dalla detta vigilia [di Natale] per fino alle kalende de jennaro…», come recita uno Statuto di Civitella D’Agliano (Viterbo) per il 1444. Perché in questo periodo di ansia e di rinnovamento sembrava forse comprensibile e tollerabile tentare la sorte. La divinazione con i dadi era una pratica diffusa e non particolarmente difficile, come testimoniano alcuni manuali tardo-medievali: se un lancio produce tre 6, «entro quest’anno sarai accontentato. Sta’ sempre saldo e non ti crucciare, quel che desideri non può mancare». Cosí anche otterrà ciò che desidera, ma fra molte avversità, colui che farà due 6 e un 2, mentre dovrà lasciar perdere i suoi progetti di fronte a un 6 e due 4. I dadi a volte diventavano un gioco di società, con tanto di tabellone e segnalini, precursore del Gioco dell’oca o del moderno Monopoli.

Seduti sulla pelle di un toro Un tiro di dadi poteva rispondere alle segrete domande delle ragazze, come si intuisce da una risposta di una versione tardo-medievale del gioco: «L’amore che porti al giovane che hai scelto è vano. È gentile con te, ma gli piace un’altra. Tu lo ami e lui non ti ama, per quanto finga di amarti». Oltre i dadi, tutto poteva trasformarsi in presagio: il rumore di un tarlo che rosicchia il camino, la direzione del fumo che ne esce, un ronzio delle orecchie e tanto altro: «Ti sei seduto sul tetto di casa tracciando con la spada un cerchio attorno alla tua persona, per scrutare e indovinare il futuro del nuovo anno, oppure ti sei messo a sedere a un bivio, su una pelle di toro, per indovinare il tuo futuro?» – riportava il Penitenziale di Burcardo di Worms (950-1025) –, o ancora: «La notte di Capodanno, ti sei fatto cuocere del pane che se ben lievitato ti avrebbe predetto fortuna per tutto l’anno?». Ma il cielo poteva riservare anche altri segni. I tuoni hanno sempre «toccato» gli uomini molto da vicino: il loro brontolio ha una frequenza cosí bassa da trasformarsi in una sensazione quasi tattile. Gli Etruschi ne fecero un’arte divinatoria, chiamata brontoscopia (dal greco bronté, tuono, e -scopia, derivato di skopeo, osservo), che divenne popolare nel Medioevo: se si ascolta un tuono a gennaio si preannunciano venti forti e guerre, ma in compenso gli alberi daranno molti frutti, mentre se lo si udrà a febbraio, allora molte persone ricche moriranno. Un tuono proveniente da est avrebbe preannunciato, inoltre, un grande spargimento di sangue durante l’anno. Nel XIV secolo si disegnavano veri e propri almanacchi

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Dado a faccette multiple. Produzione francese, XV sec. Parigi, Musée national du Moyen Âge di Parigi. Per via dell’azzardo che esso implicava, il gioco dei dadi veniva biasimato e proibito, ma, al tempo stesso, gli si attribuivano proprietà divinatorie. o «mappe» che spiegavano il significato dei tuoni mese per mese. Ma l’arte della divinazione popolare non richiede sempre l’osservazione di cose complicate o lontane. Anche gli animali nelle stalle, i corvi o i gufi che gracchiano appollaiati su un ramo possono dire tanto. Persino i gattini che gironzolano per la casa. Nel Trattato del medico ebreo Isacco Giudeo (850 circa932 o 941) si legge che un miagolio significa, a seconda del segno zodiacale (in ordine, dall’Ariete ai Pesci), che: «Avrai male ai piedi, visione piacevole, gioia nel dolore, notizia gradevole, troverai del denaro, morte di un amico, conflitto, ti nasconderai grazie alla protezione degli uomini, realizzazione nella provvidenza, denaro, raffreddamento, paura del fuoco»; mentre se il felino dovesse limitarsi a guardare fuori dalla finestra, vorrebbe dire: «Ascesa, grande fatica, gioia fugace, crescita, malattia della servitú, grasso e grosso banchetto, falsa testimonianza nel corso di un processo, realizzazione e conflitti, confessione di un peccato, ti divertirai, perderai qualcosa».

«Proiezioni» ante litteram Per il filosofo campano Agostino Nifo (1469 circa-1538), lo stesso animale alla finestra significava «ammettere qualcosa, comperare uno schiavo, apprendere cattive notizie, fine di una lotta, falsa testimonianza, malattia, paura dei ladri, gioia e allegria, né bene né male, fretta, incontro con un religioso o guarigione impossibile di un ammalato, buone notizie o pericolo evitato» (De auguriis). Disquisizione di filosofi e medici a parte, anche tra le classi popolari erano di moda le divinazione gattesche. Dagli Évangiles des quenouilles del tardo Quattrocento sappiamo che: «Quando si vede un gatto che prende il sole alla finestra e si lecca il sedere, portando la zampa al di sopra dell’orecchio, state certi che pioverà durante la giornata». Una brillante e razionalistica spiegazione di queste credenze feline fu proposta dal dotto filosofo Nicola d’Oresme (1322-1382), il quale, in un passo del suo De causis mirabilium, ritenne che gli uomini «interpretano» gli eventi casuali in funzione dei loro desideri o delle paure: se vedono un gatto che entra in una stanza, gli uomini timorosi pensano subito al diavolo, quelli devoti a un angelo. Oggi le chiameremmo proiezioni. Claudio Corvino gennaio

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Lo scaffale Denise Bezzina Artigiani a Genova nei secoli XII-XIII Firenze, Firenze University Press, 266 pp.

19,90 euro (disponibile anche

in versione elettronica) ISBN 978-88-6655-776-0 www.fupress.com

Si è sempre ritenuto che in epoca medievale Genova fosse esclusivamente la città del commercio e che la produzione e i ceti a essa collegati rivestissero un peso limitato. Basandosi sulla documentazione tratta dai cartolari notarili dei secoli XII-XIII, Denise Bezzina dimostra che la realtà era ben diversa. Non solo le attività legate all’artigianato avevano un’importanza analoga a quella rivestita dal commercio, ma i protagonisti della produzione potevano vantare caratteristiche del tutto peculiari che ne potenziavano il ruolo, fino ad avvicinarlo talvolta a quello dei mercanti. In primo luogo, infatti, erano per la maggior parte artigiani autonomi (provvisti quindi dei capitali per l’acquisto della materia prima e degli strumenti di lavoro), e

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scarsa incidenza aveva nella città il lavoro salariato. In secondo luogo avevano accesso diretto al mercato (anche nel commercio a lungo raggio), senza l’intermediazione del mercante. Questa caratteristica di eccezionale importanza si concretizzava, da

un lato, mediante i contratti di «commenda» (affidando cioè le merci a un socio che le vendeva oltremare, o una somma di denaro per farla fruttare col commercio marittimo) con cui gli artigiani genovesi vendevano i propri prodotti o investivano i propri capitali; d’altro canto, attraverso l’acquisto di imbarcazioni, o di quote di imbarcazioni, sulle quali trasportavano prodotti propri e altrui,

collaborando talvolta anche a operazioni corsare contro i nemici della Repubblica. In questo modo si creava una rete commerciale gestita dal ceto medio-basso con i proventi derivanti dall’artigianato, che correva in parallelo a quella gestita dai grandi operatori e che godeva del beneplacito delle istituzioni che non intervenivano per limitarla. La mobilità, sia a livello territoriale che sociale costituisce il filo conduttore del volume, che, partendo dall’identificazione della posizione delle famiglie artigiane nella società cittadina, ne esamina i rapporti di lavoro (artigiani, apprendisti, salariati, lavoro femminile) per poi prenderne in considerazione le strategie di investimento e di autofinanziamento, la mobilità geografica e l’espansione nel Mediterraneo, la famiglia, il patrimonio e le relazioni sociali, per terminare col rapporto tra gli artigiani e le istituzioni, la loro partecipazione alla vita politica e alle attività militari. Maria Paola Zanoboni

Erberto Petoia Storia del presepe Personaggi, miti, simboli Editori Riuniti university press, Roma, 409 pp., ill. b/n

29,90 euro ISBN 978-88-6473-134-6 www. editoririunitiuniversitypress.it

La tradizione assegna la paternità del presepio a san Francesco, il quale

organizzò la messa in scena della Natività a Greccio (un borgo del Reatino), nel 1223. In realtà, come si apprende fin dalle prime pagine di questo saggio, la storia di questa rappresentazione è assai piú antica e articolata e affonda le sue radici già nei primi secoli dell’era cristiana. Altrettanto immediata è la percezione di quanto il tema del presepio (vocabolo che deriva dal latino praesepium o praesepe, cioè greppia o mangiatoia),

sia stato elaborato in molteplici declinazioni, pur nel rispetto, naturalmente, degli elementi essenziali. Non sorprende, dunque, l’ampiezza del campo di indagine con il quale si è cimentato Erberto Petoia che, in poco meno di 400 pagine, analizza a fondo l’argomento, ripercorrendone innanzitutto la lunga vicenda e poi soffermandosi sui personaggi che ne sono solitamente protagonisti. Al di là degli aspetti folclorici – che sono solitamente quelli a cui piú spesso si pensa –, si scoprono cosí le molte implicazioni di carattere simbolico, nonché, per esempio, le frequenti citazioni contenute nelle fonti o l’importanza assegnata alle speculazioni di carattere filosofico e dottrinale da filosofi e dottori della Chiesa. Un patrimonio di idee ed elaborazioni formali che proprio nei secoli del Medioevo conobbe uno dei momenti di maggiore arricchimento e che, al di là del «primato» di san Francesco, costituisce il riferimento principale delle rappresentazioni tuttora allestite in Italia e non solo. Stefano Mammini gennaio

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Amore e devozione MUSICA • Una raccolta che si segnala per il riuscito

accostamento fra rigore filologico e convincenti rivisitazioni offre un saggio dei rapporti che legarono le tradizioni maturate sulle due sponde della Manica

L’

antologia I Have Set My Hert So Hy. Love & Devotion in Medieval England offre una testimonianza emblematica di quanto la cultura musicale inglese, tra il XIV e il XV secolo, sia stata profondamente influenzata da quella francese. Come già stava accadendo in Francia e in Italia, anche in Inghilterra si svilupparono molteplici stili musicali e poetici e, nel caso specifico, si cominciò ad attribuire una crescente importanza all’utilizzo dei testi in lingua inglese (a discapito dell’imperante francese). Nell’antologia, brani su testo francese, spesso eseguiti in versione strumentale, si alternano a songs su testi inglesi, con temi cari alla poetica musicale trecentesca, come la celebrazione dell’amore e/o le lamentele dell’amante non corrisposto. Accanto alle tematiche

amorose, si inseriscono carols devozionali dedicate a Maria e in particolare alla natività (I Syng of a Mayden, Nowel: owt of your slepe aryse e Hayl Mary ful of grace), mentre ad Adamo è dedicato Adam Lay Ibowndyn, o il Corpus Christi Carol, brano in cui la figura del cavaliere ferito è utilizzata come simbolo del martirio di Cristo.

Musiche ritrovate in biblioteca Recuperando fonti provenienti principalmente da Oxford (Bodleian Library, MS Douce 381) e Cambridge (University Library Add. MS 5943), William Lyons, alla guida del gruppo The Dufay Collective & Voice, ha svolto in alcuni casi un’interessante opera di ricostruzione, riproponendo l’ambiente musicale che allietava l’ambiente di corte dell’epoca attraverso l’utilizzo di voci accompagnate da ribeca (strumento ad arco, derivato dal rebab arabo, usato da trovatori e menestrelli), flauto, viella, arpa e liuto. Un universo sonoro nel quale l’elemento aulico denota spesso la presenza di stilemi popolareggianti; d’altronde, l’ispirazione tratta dalla musica popolare – variamente Miniatura raffigurante un personaggio incoronato, attorniato da sei musicisti che suonano liuto, cornamusa, triangolo, corno, viola e percussioni. XVI sec. Collezione privata.

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I Have Set My Hert So Hy The Dufay Collective & Voice Avie (AV2286), 1 CD 12,49 GBP www.avie-records.com rivisitata e corretta – è stata una delle costanti della storia della musica occidentale. Adeguata alla tipologia dei brani si rivela la scelta di affidarne l’esecuzione a tre voci femminili che incantano con la loro delicata bellezza. Calzanti risultano anche le scelte compositive, laddove William Lyons riveste testi lirici di cui sono andate perdute le musiche con nuove melodie che riprendono, senza soluzione di continuità, gli elementi stilistici degli altri brani: splendido, a tal proposito, il brano di apertura Blowe, Northerne Wynd, nel quale il maestro crea una versione melodica per voci e strumenti con alternanza di assolo, passaggi polifonici a tre voci e passaggi strumentali di grande suggestione. Una interpretazione convincente, accurata, in cui eleganza interpretativa, competenza filologica e talento creativo concorrono a un risultato di grande pregio artistico. Franco Bruni

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