MEDIOEVO n. 231 APRILE 2016
GH 5 AN ET 00 A TEP TO N R DI NI IMA VE DEL NE ZI A
EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE
www.medioevo.it
Mens. Anno 20 numero 231 Aprile 2016 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
DALLE ORIGINI ANTICHE AL GHETTO DI VENEZIA
MISTERO AD ASSISI Francesco e il messaggio nascosto
PROTAGONISTI
Ildegarda, voce di DIo Dio
ITALIA COMUNALE
Tutto il mondo in una piazza
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€ 5,90
MISTERO AD ASSISI L’ITALIA DEI COMUNI/5 ILDEGARDA GENTE DI BOTTEGA/3 SCORPIONE DOSSIER EBREI IN ITALIA
GLI EBREI IN ITALIA
SOMMARIO
Aprile 2016 ANTEPRIMA
CIVILTÀ COMUNALE/5 Tutto in una piazza
IL PROVERBIO DEL MESE «Perdere la trebisonda»
5
SCOPERTE Il sonno del sommo
8
MOSTRE Sposalizi a confronto
10
RESTAURI Qui parlava Dante
16
ITINERARI Omaggio a Carlo, padre della patria APPUNTAMENTI Sulla costa dell’oro bianco... ...e nell’Andalusia dei pellegrini L’Agenda del Mese
di Furio Cappelli
72 COSTUME E SOCIETÀ GENTE DI BOTTEGA/3 Uno speziale di periferia di Barbara Conti ed Emanuela Porta Casucci Lo scorpione
Colpo di coda
18
di Lorenzo Lorenzi
72
22
CALEIDOSCOPIO
23 26
ARALDICA Quando il lignaggio si vede dal piatto
106
LIBRI Lo scaffale
110
54
ESCLUSIVA
ESSERE LEADER NEL MEDIOEVO/4
Intervista
Francesco, uno, nessuno e centomila
32
64
IMMAGINARIO
STORIE
incontro con Chiara Frugoni, a cura di Furio Cappelli
44
Ildegarda di Bingen
Ildegarda, voce di Dio 32
di Renata Salvarani
54
MUSICA Un pioniere ritrovato Canti di fede in chiave popolare
112 113
Dossier
Gli Ebrei in Italia L’ISOLA DELLA RUGIADA DIVINA di Chiara Mercuri
81
MEDIOEVO n. 231 APRILE 2016
GH 5 AN ET 00 A TEP TO N R DI NI IMA VE DEL NE ZIA
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UN PASSATO DA RISCOPRIRE
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DALLE ORIGINI ANTICHE AL GHETTO DI VENEZIA
MISTERO AD ASSISI Francesco e il messaggio nascosto
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MISTERO AD ASSISI L’ITALIA DEI COMUNI/5 ILDEGARDA GENTE DI BOTTEGA/3 SCORPIONE DOSSIER EBREI IN ITALIA
GLI EBREI IN ITALIA
16/03/16 13:57
MEDIOEVO Anno XX, n. 231 - aprile 2016 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it
Illustrazioni e immagini: Bridgeman Images: pp. 54, 74 (alto), 87, 90/91; Leemage: copertina, in primo piano (e p. 99) e p. 84; Archives Charmet: p. 91 (alto) – Doc. red.: pp. 5, 8/9, 63, 66, 75, 77, 89 (basso), 92/93, 97 (basso), 98, 98/99 – Cortesia Ufficio stampa: pp. 10-17 – Archivio fotografico Ente Nazionale Ceco per il Turismo: Libor Sváček: pp. 18, 20 – Cortesia degli autori: pp. 22-23, 106-109 – Mondadori Portfolio: pp. 32-33, 34/35, 36, 38, 40/41, 50, 67, 79; Electa/Sergio Anelli: p. 34 (basso); Archivio Antonio Quattrone/Antonio Quattrone: p. 37; The Art Archive: pp. 55, 60-62; AKG Images: pp. 56-59, 81; Leemage: p. 100 – Oskar Cecere: per gentile concessione di Chiara Frugoni: p. 34 (alto) – DeA Picture Library: pp. 53, 82/83, 101, 104; G. Nimatallah: pp. 38/39, 68, 69 (sinistra e destra), 76, 78/79; S. Vannini: pp. 64/65; A. Dagli Orti: pp. 69 (centro), 70; G. Dagli Orti: pp. 72/73; V. Pirozzi: p. 95 – Da Quale Francesco? Il messaggio nascosto negli affreschi della Basilica superiore ad Assisi, Einaudi, Torino 2015: p. 42 – Shutterstock: pp. 44/45, 48-49, 50/51, 51-52, 97 (alto), 105 – Getty Images: Olaf Protze: pp. 46/47 – Archivi Alinari, Firenze: pp. 70/71, 96 – Foto Scala, Firenze: su concessione MiBACT: p. 74 (basso); Mario Bonotto: pp. 86, 89 (alto) – Da I tal ya’, Isola della rugiada divina (catalogo della mostra) Arnoldo Mondadori Arte, Milano 1990: p. 88 – Cortesia Coopculture: Davide Calimani: p. 102 (alto); Paola Baldari: p. 102 (basso) – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 85. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.
Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Tel. 02 0069.6352 Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it
Editore: MyWay Media S.r.l.
Impaginazione: Alessia Pozzato
Presidente: Federico Curti
Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Barbara Conti è storica dell’arte medievale. Chiara Frugoni è storica del Medioevo. Francesco M. Galassi è ricercatore presso l’Istituto di Medicina dell’Evoluzione dell’Università di Zurigo. Mila Lavorini è giornalista. Lorenzo Lorenzi è storico dell’arte. Chiara Mercuri è dottore di ricerca in storia medievale. Niccolò Orsini De Marzo è araldista. Chiara Parente è giornalista. Emanuela Porta Casucci è dottore di ricerca in storia medievale. Stefania Romani è giornalista. Renata Salvarani è ricercatore di storia del cristianesimo e delle chiese presso l’Università degli Studi Europea di Roma. Tiziano Zaccaria è giornalista.
Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Segreteria marketing e pubblicità: segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 0069.6346
Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Fax: 02 252007333 Posta: Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl - titolare del trattamento - al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere elenco completo ed aggiornato dei responsabili.
In copertina in primo piano, miniatura di scuola italiana raffigurante il Seder, la cena rituale che apre la Pasqua ebraica; sullo sfondo, particolare della pagina di apertura di una Bibbia sefardita realizzata a Toledo nel 1277
Direzione, sede legale e operativa: via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 0069.6369 Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1
Nel prossimo numero storie
Egidio de Albornoz, il cardinale guerriero
protagonisti
Gregorio VII e il tempo della Riforma
saper vedere
Il cenotafio Tarlati nel Duomo di Arezzo
dossier
Arabi e Persiani: due mondi in conflitto
IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini
Perdere la trebisonda
L’
antica Trapezunte, oggi Trabzon (in Turchia), divenne un centro importante per l’impero romano quale principale base navale dell’area: Traiano e Adriano la favorirono e ne svilupparono il porto, che si impose come cerniera tra il Mar Nero e la Persia. Nel Medioevo – e in parte è cosí ancora oggi – il porto di Trebisonda rappresentava uno snodo fondamentale del traffico commerciale fra la costa del Mar Nero e la Persia. L’espressione «Perdere la trebisonda» significa, infatti, «perdere la bussola», «perdere l’orientamento»... insomma, essere in balia della confusione. L’interpretazione di questa curiosa espressione, tuttavia, non è del tutto univoca. Una prima interpretazione deriverebbe dunque dal fatto che Trebisonda costituiva da sempre un punto di riferimento per le imbarcazioni che percorrevano le rotte tra l’Europa e il Medio Oriente. Le coste e il porto, infatti, rappresentavano un riparo dalle tempeste e indicavano la strada ai marinai; quando si nascondevano alla vista, i naviganti potevano facilmente perdere l’orientamento e, in caso di maltempo, naufragare. Nel 257 Trebisonda fu distrutta dai Goti, ma sotto Bisanzio mantenne una posizione di rilievo, al punto che, nell’VIII secolo, divenne capitale del tema (provincia ordinata militarmente) di Chaldia. Ai tempi dell’invasione dei Turchi Selgiuchidi, Trebisonda resistette strenuamente all’assedio sferrato nel 1071. In seguito, alcuni membri della famiglia Gabras, nei primi secoli del Basso Medioevo, tentarono piú volte di rendersi indipendenti da Bisanzio, ma senza successo. Quando poi, nel 1204, i crociati conquistarono l’impero
La conquista di Trebisonda (raffigurata sulla destra) da parte di Maometto III, nel 1461, dipinta sulla fronte di un cassone nuziale attribuito alle botteghe di Apollonio di Giovanni di Tommaso e di Marco del Buono Giamberti, attivi entrambi e Firenze. Dopo il 1461. New York, The Metropolitan Museum of Art. d’Oriente, i nipoti dell’imperatore Andronico Comneno, provarono a impadronirsi dell’Asia Minore, ma senza riuscirvi. Uno dei due, Alessio, acquisí tuttavia il controllo di Trebisonda, dando vita a un impero che durò sino al 1461. Negli anni seguenti i nuovi signori di Trebisonda adottarono un’accorta politica di equilibrio, appoggiandosi ora a Bisanzio, ora ai Selgiuchidi, ora ai Mongoli. Una spiegazione del proverbio potrebbe essere legata agli antichi commerci: per i mercanti che vendevano i propri prodotti ai Turchi per rifornire le legioni interne, «perdere la Trebisonda» poteva voler dire perdere le somme di denaro investite nel viaggio, oppure significare che perdere la rotta poteva esporre a gravi rischi in un mare infestato dai Turchi. Assalita infatti piú volte dagli Ottomani sotto il regno di Giovanni IV, Trebisonda si sottomise ai Turchi nel 1456, tre anni dopo la caduta di Costantinopoli. La presa della città segnò l’inizio della sua decadenza come centro di vita politica, mentre la scoperta della via marittima attraverso l’Oceano Indiano ne segnò quella economica. L’ultima interpretazione si lega dunque alla perdita politica di Trebisonda, che fu l’ultima città a restare indipendente. La sua caduta, nel 1461, determinò il crollo definitivo dell’impero bizantino.
ANTE PRIMA
Il sonno del sommo SCOPERTE • La rilettura in chiave «medica» degli immortali versi
di Dante ha portato a una scoperta inaspettata: poiché con ogni probabilità ne soffriva, il padre della lingua italiana avrebbe infatti descritto per primo la narcolessia. Anticipando cosí di ben seicento anni la prima definizione scientifica di questa patologia
R
inchiudere il genio di Dante Alighieri negli angusti confini di una interpretazione puramente medico-biologica è un errore in cui è bene non incorrere. Troppo raffinata e geometricamente perfetta fu, infatti, l’architettura della sua mente grandiosa, cosí da scoraggiare qualsiasi forma di riduzionismo. Nondimeno, al pari dei comuni mortali, anche i grandi della storia sono soggetti alle crude leggi della biologia e subiscono le ripercussioni psico-fisiche delle malattie di cui soffrono, che, inevitabilmente, sono destinate a influenzarne le vite e le azioni, tanto quelle insignificanti quanto quelle degne di nota e di memoria storica. Per gli scienziati impegnati a indagare l’origine e l’evoluzione delle malattie prima della loro scoperta e della loro chiara descrizione in termini scientifici, il riesame delle antiche fonti storico-letterarie – in particolare biografie o testi ricchi di allusioni autobiografiche – può risultare di importanza capitale, giacché il tempo, che pure è per natura onnivoro, ha risparmiato le opere letterarie dei o sui grandi.
Allusioni continue La produzione di Dante, dalla Divina Commedia alla corrispondenza epistolare, abbonda di riferimenti al sonno, alla necessità repentina di dormire, a episodi di debolezza muscolare, cadute, allucinazioni e sogni dalla natura lucida, sovente
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in seguito a forti emozioni. Cesare Lombroso vide in queste manifestazioni i chiari segni dell’epilessia, una patologia che, a suo dire, avrebbe accomunato tutti i grandi uomini di genio. Tuttavia, come ha ben evidenziato il neurologo Giuseppe Plazzi (Università di Bologna) nel 2013, i sintomi descritti dal poeta rispecchiano molto piú accuratamente il quadro clinico di un’altra patologia neurologica, la narcolessia, comparsa ufficialmente nella letteratura medica soltanto alla fine del XIX secolo.
Dante illustra la Divina Commedia, tavola di Domenico di Michelino. 1465. Firenze, basilica di S. Maria del Fiore. Alle spalle del poeta, la città di Firenze e, sullo sfondo, Inferno, Purgatorio e Paradiso.
Versi come sintomi Se la tesi di Plazzi è corretta, quella di Dante potrebbe essere una delle piú antiche descrizioni di narcolessia, in quanto elaborata circa sei secoli prima che il medico francese Jean-Baptiste-Edouard Gélineau (1828-1906) ne coniasse il termine, nel 1880. A supporto di questa interpretazione viene un recente articolo pubblicato dal gruppo di ricerca dell’Istituto di Medicina Evoluzionistica dell’Università di Zurigo, di cui chi scrive fa parte. Investigando la reazione fisiologica di attacco-fuga nell’antichità – tipica risposta a un pericolo caratterizzata dall’accelerazione della frequenza del battito cardiaco e della respirazione, da un maggior apporto ematico ai muscoli che saranno coinvolti nella eventuale lotta o fuga, dalla dilatazione della
pupilla e via dicendo – ci siamo accorti che una sua empirica conoscenza esisteva sin da molto prima che Charles Darwin (XIX secolo) e Walter Cannon (prima metà del XX) ne fornissero una descrizione scientificamente completa. Nel caso di Dante, i celebri versi «Vedi la bestia per cu’ io mi volsi; / aiutami da lei, famoso saggio, / ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi» (Inferno, I, 88-90) testimoniano una tipica reazione di attacco-fuga, ossia un incremento del battito cardiaco (percepito come aprile
MEDIOEVO
Dida, niet qui odio quisquunt, soluptae? Pe moloressenim estis enduci quia nim sequi doluptu rescius eni optiur, quae
battito del polso accelerato), dinanzi a un pericolo, in questo caso la lupa. A differenza delle altre fiere che gli si oppongono, la lupa è un’immagine del tutto priva di connotati fisici e rappresenta una potentissima immagine simbolica, quasi una visione onirica proveniente dai recessi piú reconditi della psiche del poeta. Questo sembra rifletterne lo stato di forte ansia e, notoriamente, l’ansia è una condizione fortemente associata alla narcolessia. Pur separando la dimensione allegorica del linguaggio poetico
MEDIOEVO
aprile
dalla componente patologica, la nuova evidenza filologico-clinica addotta ci porta a concludere che l’ipotesi della narcolessia vada seriamente presa in considerazione e ulteriormente investigata, poiché quello di Dante potrebbe realmente essere il caso piú antico descritto.
In attesa della prova regina Soltanto lo studio genetico dei resti del Poeta potrebbe fornire una risposta definitiva, arricchendo cosí la comprensione di questa malattia, tuttora oggetto di
studi neuroscientifici. Quasi inutile aggiungere che la prova dell’eventuale narcolessia non diminuirebbe minimamente la grandezza di Dante, né ridurrebbe l’enigma del suo genio letterario a una mera interpretazione clinica e molecolare. Al contrario, conoscere la verità permetterebbe di comprendere meglio la natura umana di un grande della letteratura mondiale, le cui opere e il giudizio dei posteri hanno da tempo consegnato a fama imperitura. Francesco M. Galassi
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ANTE PRIMA
Sposalizi a confronto MOSTRE • Il (temporaneo)
rientro in Italia di uno dei capolavori del Perugino ha reso possibile un accostamento inedito ed emozionante
L’
accostamento tra la pala con lo Sposalizio della Vergine del Perugino e la tela con lo Sposalizio della Vergine di Raffaello, esposto alla Pinacoteca di Brera, compare nella maggior parte dei libri di storia dell’arte, ma, fino a oggi, non era mai stato realizzato «dal vero». L’occasione viene ora fornita dal Primo Dialogo, proposto dalla Pinacoteca milanese, che permette di ammirare lo straordinario confronto tra i due seducenti capolavori, per la prima volta, ed eccezionalmente, posti fianco a fianco. Lo Sposalizio della Vergine dipinto dal Perugino tra il 1500 e il 1504, infatti, non è piú tornato in Italia dal 1797, quando fu requisito alla città di Perugia dai commissionari napoleonici e trasferito in Francia, prima a Parigi, al Musée Napoleon (ora Louvre), e poi a Caen al Musée des Beaux-Arts, dov’è tuttora conservato. Il suo arrivo in Italia, dopo oltre duecento anni, è stato reso possibile grazie all’accordo tra il
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In alto Milano, Pinacoteca di Brera. L’allestimento realizzato per le due versioni dello Sposalizio della Vergine. A destra Sposalizio della Vergine, olio su tavola di Pietro Vannucci, detto il Perugino. 1500-1504. Caen, Musée des Beaux-Arts. Nella pagina accanto Sposalizio della Vergine, olio su tavola di Raffaello Sanzio. 1504. Milano, Pinacoteca di Brera. aprile
MEDIOEVO
museo transalpino e la Pinacoteca di Brera, che ha concesso in cambio la Cena in Emmaus di Caravaggio. Il quadro raffigura l’episodio, narrato nei Vangeli apocrifi, del matrimonio tra la Vergine e san Giuseppe, prescelto da Dio come sposo di Maria, nonostante l’età avanzata.
L’ultima fatica del maestro Il Perugino struttura la composizione facendo riferimento all’affresco della Consegna delle chiavi realizzato per la Cappella Sistina (1481-1482) e alla tavola per la predella della Pala di Fano (1497). Per il colore chiaro e leggero, ottenuto con pigmenti a olio utilizzati a simulazione della tempera e della pittura a fresco, che connota la fase finale dell’attività dell’artista, il dipinto può essere considerato l’ultimo grande capolavoro dell’anziano maestro, allora a capo di una delle botteghe piú prestigiose d’Italia. La notorietà del Perugino (nato Pietro Vannucci) si fondava sul ruolo primario, rivestito nel registro mediano della Cappella Sistina, e sulla messa a punto di un linguaggio pacato e dolcemente monumentale.
Una vicenda complessa Le opere in dialogo visivo a Brera raccontano in modo indiretto anche una vicenda piú complessa, poco nota eppure, assai efficace per analizzare l’intreccio, tipicamente italiano, tra arte, storia e passioni municipali. La grandissima fama del quadro del Perugino derivò fin da subito dall’essere stato commissionato dal consiglio comunale di Perugia per la Confraternita di San Giuseppe e dall’essere destinato alla cappella omonima, nella cattedrale di S. Lorenzo, ove era conservata la preziosa fede nuziale della Vergine (in realtà un anello sigillo maschile del I secolo a.C.). Secondo la tradizione, prima di morire, la Vergine avrebbe consegnato questo cerchietto di calcedonio all’apostolo Giovanni. Nel Medioevo la reliquia giunse a Chiusi, ove fu inizialmente custodita nella chiesa di S. Mustiola e poi in quella di S. Francesco. Nel 1473 l’oggetto sacro fu trafugato e donato alla città di Perugia che, grazie al papa Sisto IV e al definitivo decreto di Innocenzo VIII, riuscí a conservare l’Anulo Pronubo,
MEDIOEVO
aprile
dotato di proprietà soprannaturali e miracolosamente arrivato in città sotto celesti auspici. Ciò contribuisce a spiegare il valore devozionale e «normativo» del dipinto del Perugino, che, ornando l’altare dello sposalizio per eccellenza, anche per questo motivo divenne un modello ineludibile con cui confrontarsi. Agli inizi del XVI secolo, la committenza di opere artistiche a maestri famosi era il modo piú elegante di misurare il successo sociale. Cosí, nel 1501, quando nella vicina Città di Castello il ricco Filippo Albizzini ottenne il patronato della cappella intitolata a san Giuseppe nella chiesa di S. Francesco, s’impegnò a dotarla di ogni ornamento. Il clima ferocemente competitivo tra i committenti, prima ancora che fra gli artisti, spiega perché Filippo Albizzini abbia chiesto a Raffaello di dipingere una pala con lo stesso soggetto commissionato al Perugino solo pochi anni prima, nel 1499, per un altare del Duomo di Perugia, il luogo piú frequentato della città.
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ANTE PRIMA DOVE E QUANDO
«Primo dialogo, Raffaello e Perugino attorno a due Sposalizi della Vergine» Milano, Pinacoteca di Brera, Sala XXIV fino al 27 giugno Orario ma-do, 8,30-19,15; lu chiuso Info tel. 02 72263.264/229; http://pinacotecabrera.org; prenotazioni: tel. 02 92800361; www.pinacotecabrera.net
Sposalizio della Vergine, olio su tela di Jean-Baptiste Wicar. 1825. Perugia, cattedrale di S. Lorenzo.
Giorgio Vasari riferisce che la sua fama richiamò in bottega numerosi artisti, tra i quali anche il giovane e ambizioso Raffaello Sanzio. Nel realizzare il suo Sposalizio della Vergine (1504), il ragazzo prodigio non si limita a ripetere il prototipo del maestro ma, senza staccarsi troppo dal gusto per la composizione armonica e aggraziata del Perugino, mostra nella costruzione urbana un precocissimo talento di architetto. Inoltre, distribuendo i personaggi piú liberamente e con maggiore naturalezza, ottiene un risultato di straordinaria e irraggiungibile perfezione. Un sublime raccordo visivo, organico con l’edificio rialzato nel tempio, che diventa il perno di un immenso spazio circolare armonicamente composto. Lo Sposalizio della Vergine chiude la fase formativa di Raffaello, che poi si trasferisce nella Firenze medicea. Proveniente dalla chiesa di S. Francesco a Città di Castello, il dipinto giunge a Brera nel 1805.
La versione di Wicar Nell’esposizione milanese si può anche ammirare lo Sposalizio della Vergine del francese Jean-Baptiste Wicar, incaricato, tra l’altro, della requisizione delle opere in Italia durante l’età napoleonica. Il quadro, commissionatogli nel 1822 dal conte Filippo degli Oddi, priore perpetuo della Confraternita del Santo Anello, fu completato nel 1825, per sostituire il dipinto di Perugino nell’altare ormai spoglio della cattedrale perugina di S. Lorenzo. I visitatori ammirando l’eccezionale «dialogo» tra il Perugino e Raffaello, che si tiene nella sala XXIV, possono anche osservare il riallestimento delle quattro sale precedenti. Dotate di una nuova illuminazione, nuove tinte alle pareti, un rinnovato sistema di sedute e un nuovo apparato di didascalie, condividono con il pubblico il senso del racconto e dell’ordine della collezione. Chiara Parente
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aprile
MEDIOEVO
ANTE PRIMA
Qui parlava Dante
RESTAURI • Il percorso espositivo della Galleria degli
Uffizi si arricchisce di un nuovo e importante tassello: l’area dell’antica chiesa di S. Piero a Scheraggio, scelta per imbastire un suggestivo dialogo fra arte antica e moderna
N
el centro storico di Firenze, tra il Palazzo e della Signoria e la Galleria degli Uffizi, passa via della Ninna, una «stradina» il cui nome, che evoca dolci filastrocche infantili, si deve a un affresco di Cimabue rappresentante una Madonna nell’atto di far addormentare Gesú Bambino, che gli abitanti iniziarono a chiamare popolarmente «La Vergine della Ninna Nanna». Il dipinto faceva parte dell’apparato decorativo di una chiesa, consacrata nel 1065, i cui resti sono attualmente inglobati proprio nel complesso che ospita la prestigiosa pinacoteca fiorentina. Piccolo gioiello architettonico, l’edificio religioso, intitolato a san Piero a Scheraggio, aveva avuto un ruolo importante
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nella vita politica in età medievale, in quanto prioria di uno dei sestieri in cui si divideva la città prima della riforma voluta dal duca di Atene nel 1343, che ridusse a quattro i distretti amministrativi di Firenze.
Oratori illustri Era questo, infatti, il luogo deputato a ospitare l’elezione di gonfalonieri e priori, quando ancora non esisteva un palazzo comunale e ad accogliere assemblee in occasione delle quali noti personaggi della cultura facevano le loro arringhe. A ricordo di tali funzioni, rimane una targa, visibile sul lato esterno di quella che, in origine era la navata sinistra della chiesetta, che recita: «Avanzi e vestigia / Della chiesa di San Piero a Scheraggio /
Che dava nome a uno dei sesti della città / E fra le cui mura nei consigli del popolo / Sonò la voce di Dante». L’appellativo «Scheraggio» deriva dal canale, oggi interrato, che delimitava a est la cinta muraria, in epoca romana e che prendeva a sua volta il nome dalla funzione di «schiaraggio»: serviva, cioè, come collettore delle acque reflue del quartiere urbano a cui afferiva. Il fossato omonimo era collegato, tramite una fognatura con il fiume Arno, nel quale sfociava. Nel corso dei secoli, la costruzione sacra è stata vittima di varie «amputazioni» che, poco a poco, l’hanno distrutta quasi completamente, a cominciare dal 1298, quando, per fare spazio a Palazzo Vecchio, fu eseguito il aprile
MEDIOEVO
Nella pagina accanto Annunciazione, affresco di Sandro Botticelli, dalla loggia della chiesa dell’ospedale fiorentino di S. Martino alla Scala. Databile al 1481, l’opera è ora collocata in corrispondenza dell’abside della chiesa di S. Piero a Scheraggio, inclusa nel percorso della Galleria degli Uffizi. A destra un particolare dell’allestimento dell’area corrispondente all’antica chiesa: si riconoscono tre delle sei Virtú (1469) dipinte dal Pollaiolo e la Pomona (1941) di Marino Marini.
primo intervento di demolizione, durante il quale scomparve l’opera di Cimabue. Un ulteriore parziale abbattimento avvenne un secolo piú tardi, proprio per allargare via della Ninna, lungo la quale sono visibili tre arcate, con relative colonne e capitello corinzio, uniche vestigia murarie sopravvissute ai due successivi disfacimenti. Risale al 1560 lo scempio maggiore, operato dall’architetto Giorgio Vasari, il quale, per volere di Cosimo I de’ Medici, realizzò su quell’area una delle operazioni urbanistiche piú imponenti nella storia della capitale granducale, progettando il nuovo polo amministrativo, con lo scopo di riunire tredici magistrature precedentemente dislocate in varie
MEDIOEVO
aprile
Dida, niet qui odio quisquunt, soluptae? Pe moloressenim estis enduci quia nim sequi doluptu rescius eni optiur, quae
sedi. Nonostante l’ulteriore perdita di torre campanaria, cimitero e canonica, S. Piero continuò a essere utilizzata per il culto fino al tardo 1700, momento in cui si iniziò la trasformazione in Archivio dei Tribunali, con la distruzione della parte che si era salvata fino ad allora.
Dall’oblio alla valorizzazione Nel secolo scorso, dopo una lunghissima chiusura, il sito fu interessato da una ristrutturazione che riportò alla luce alcuni tesori, tra cui varie stratificazioni appartenenti a un tempio precedente a quello romanico, oltre a frammenti di pitture murali, recentemente restaurate, che ne attestano la ricchezza ornamentale.
Adesso, il primo venerdí di ogni mese, è possibile visitare l’area che corrispondeva alla navata centrale dove, accanto a opere del Novecento, sono stati collocati reperti archeologici costituiti da tre are del I secolo d.C., affreschi staccati di Andrea del Castagno, facenti parti del ciclo di ritratti di personaggi famosi realizzati per la villa Carducci, ubicata alle porte di Firenze, le Virtú del Pollaiolo, la Fortezza di Sandro Botticelli, artista presente anche con il grande affresco staccato dell’Annunciazione, posto in corrispondenza dell’abside, ma proveniente dalla Loggia della chiesa dell’ospedale fiorentino di S. Martino alla Scala. Mila Lavorini
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ANTE PRIMA
Omaggio a Carlo, padre della patria
ITINERARI • Praga celebra il re di Boemia e imperatore del Sacro Romano Impero
che, alla metà del XIV secolo, diede alla città e al suo territorio un volto nuovo e sontuoso. Un’occasione per scoprire architetture insigni e paesaggi fiabeschi
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el settimo centenario della nascita di Carlo IV di Boemia (1316-1378), Praga, sua città natale, dedica al re e imperatore del Sacro Romano Impero mostre, iniziative, approfondimenti, che tendono a ricostruire il profilo di un sovrano illuminato, colto, mosso da una visione unitaria dell’Europa. Per tutto il 2016 la capitale della Repubblica Ceca, anche con itinerari ad hoc, ricorda il «padre della patria» che ha sempre avuto un legame intenso con il Vecchio Continente e in particolare con l’Italia, dove si formò: Carlo IV fece costruire a Praga una cattedrale intitolata a Vito, santo siciliano, e, ispirandosi ai vigneti della Penisola, incentivò la viticoltura, come testimoniano i filari che ancora oggi si snodano nella cerchia muraria che circonda il castello. L’imperatore favorí inoltre gli scambi commerciali e artistici con
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il nostro Paese, tanto che Francesco Petrarca, ricevuto a corte, viene considerato il primo ambasciatore italiano in Boemia. Un frammento della Cronaca di Dalimil, primo documento in lingua ceca, sembra ribadire quei legami. La pergamena trecentesca ripercorre la storia del regno boemo: per l’impaginato, le inquadrature prospettiche, l’uso dei colori, le sue miniature rimandano alla scuola giottesca, mentre il racconto, che sottende una concezione cosmopolita della capitale, sarebbe stato tradotto in latino da uno studente bolognese.
Una data scelta... dalle stelle Il circuito carolino nel centro di Praga muove dalla casa natale di Carlo IV, affacciata sulla piazza della Città Vecchia: nell’elegante struttura gotica, i genitori Elisabetta di Boemia e Giovanni di Lussemburgo,
Praga. Il Ponte Carlo, voluto dal re di Boemia e imperatore Carlo IV e la cui costruzione ebbe inizio nel 1357. vissero a lungo, perché il castello era impraticabile a causa dei danni riportati in un incendio. E qui, fra gli interni che tuttora si possono visitare, quasi di certo il futuro re nacque, il 14 maggio 1316. La tappa successiva è il Ponte Carlo, che attraversa la Moldava, portando alla Città Piccola. L’architettura maestosa è stata fondata in un momento preciso, indicato dagli astrologi, il 9 luglio 1357 alle 5 e 31 minuti, quando la data e l’orario formavano un numero palindromo costituito solo da cifre dispari. In arenaria, con trenta fra statue e gruppi scultorei, secondo la leggenda nasconde nell’antica malta latte e vino. All’interno della Torre del Ponte (segue a p. 20) aprile
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ANTE PRIMA Il Castello di Karlštejn, un’altra opera sorta per volere di Carlo IV, nel 1348. La fortezza venne edificata per accogliere i tesori reali e i gioielli della corona del Sacro Romano Impero e come buen retiro per il sovrano.
un percorso multimediale racconta i segreti astrologici nascosti da quest’opera legata a doppio filo al nome del sovrano. Ma merita attenzione anche l’esterno, perché la porta che dà accesso al ponte dalla Città Vecchia, terminata entro il 1380, è un capolavoro del gotico, con le sculture del casato dei Lussemburgo, quelle dedicate al protettore della cattedrale, san Vito e ai patroni del regno boemo, sant’Adalberto e san Sigismondo. Sono quindi direttamente riconducibili a un disegno
dell’imperatore la fondazione dell’Università e del Monastero benedettino di Emmaus, cominciati nel 1348, anno cruciale in cui Carlo IV avviò anche la costruzione della Città Nuova, attorno all’odierna piazza Carlo.
Un costruttore instancabile Il complesso del castello è stato rinnovato dietro impulso del re: lui ha voluto i cinque luoghi di culto, compresa la cattedrale di S. Vito, in stile gotico, e sempre lui ha fatto erigere le mura che nascondono i
Un anno ricco di appuntamenti Per info su Praga e dintorni: www.czechtourism.com/it, sito dell’Ente nazionale ceco per il turismo. Per il calendario degli eventi, www.otecvlasti.eu. Fra gli appuntamenti principali figurano due mostre: «Carlo IV-700° anniversario della nascita», dal 14 maggio al 25 settembre, a Praga, al Maneggio di Wallenstein; l’esposizione ricostruisce la figura dello stratega e la storia del regno di Boemia, facendo luce su periodi neri legati a pestilenze, cattivi raccolti, crisi economiche; e poi «L’edilizia all’epoca di Carlo IV», dal 12 maggio all’8 gennaio 2017, al Museo Tecnico Nazionale di Praga, che ripropone le campagne avviate dal sovrano in ambito architettonico e urbanistico.
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giardini, i vigneti, le gallerie, e poi le strutture che ospitano le pinacoteche e le collezioni d’arte. Ma il circuito può proseguire anche fuori città. A una trentina di chilometri dalla capitale si incrocia la via dei Lussemburgo, punteggiata di castelli e altre strutture che rimandano alla famiglia di Carlo IV, a cominciare da Karlštejn, un maniero eretto per ospitare il tesoro della corona. Lungo l’arteria medievale che taglia l’intera Boemia sorge Krivoklát, fortezza legata all’infanzia di Carlo, al suo primo matrimonio con Bianca di Valois e alla nascita della sua primogenita Margherita, mentre Strekov, aggrappato a una roccia, svetta sull’Elba e Kašperk si dipana fra le alture della selva boema. Da non mancare è Karlovy Vary, cittadina termale che per secoli è stata meta dell’aristocrazia europea. In Boemia orientale, nella regione di Liberec, Carlo IV fece infine realizzare un bacino artificiale, il lago di Mácha, oggi destinazione di turismo e tempo libero. Stefania Romani aprile
MEDIOEVO
ANTE PRIMA
Sulla costa dell’oro bianco... APPUNTAMENTI • Il
sale ha fatto e continua a fare la ricchezza di Portorose e Pirano, che lo «ringraziano» con la festa che ogni anno anima gli ultimi giorni di aprile
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el week end del 23 e 24 aprile, le cittadine istriane di Portorose e Pirano rievocano le loro storiche tradizioni legate al sale, prodotto in questo lembo di terra da oltre sette secoli. La Festa dei Salinai si perpetua ogni anno in concomitanza con le celebrazioni in onore di san Giorgio, patrono del Comune di Pirano, di cui Portorose è una frazione. Per due giorni, questo tratto di costa slovena ospita numerosi eventi, guidando i turisti alla scoperta di luoghi, sapori e cultura della tradizione salina, che, dalla fine del XIII secolo, ha consentito di ottenere ricchezza sotto il dominio della Serenissima. L’«oro bianco» è tuttora prodotto secondo antiche lavorazioni manuali nelle saline di Sicciole, un’area nei pressi di Portorose. Parzialmente destinata a museo, la zona possiede un ingente patrimonio naturale, soprattutto ornitologico, cosí come le saline di Strugnano, piú a nord. Il sale di questo territorio è noto per la sua purezza, dovuta alla caratteristica del terreno: sul fondo delle saline è presente la «petola», un sedimento che impedisce il
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contatto fra il minerale e il fango. Il prodotto piú pregiato è il Fior di Sale, il primo strato di cristalli che affiora nel processo di evaporazione, ricercato da molti chef. E a Pirano si può trovare anche il cioccolato fondente con il Fior di Sale. Ma non vi è soltanto la produzione per consumo alimentare: nei centri benessere e termali presenti sul territorio comunale, i cristalli salini vengono utilizzati per i massaggi, mentre i fanghi sono impiegati nei trattamenti talassoterapici.
In processione per il patrono Quest’anno la Festa dedicata all’oro bianco prevede, sabato 23, l’apertura di mostre, mercatini e laboratori, a cui si aggiungono proiezioni cinematografiche ed eventi musicali. Domenica 24, si comincia con le celebrazioni del patrono, san Giorgio, che culminano nella processione che da piazza Tartini conduce al Duomo, dove si svolge la Santa Messa. Al termine della funzione, i festeggiamenti proseguono nelle saline di Sicciole per la rievocazione storica vera e propria, che inizia con l’arrivo di una famiglia di
Due figuranti impegnate nella rievocazione storica organizzata a Portorose per la Festa dei Salinai. salinai in costume tradizionale su barche a vela d’epoca. Presso il parco naturale delle saline vengono allestiti mercatini enogastronomici. Il pomeriggio è rallegrato da balli e giochi. Durante i due giorni si possono visitare i siti produttivi e il Museo del Sale. Pirano fu fondata probabilmente nel VII secoli da profughi di Aquileia fuggiti dagli Unni. Dopo il dominio bizantino (sotto l’esarcato di Ravenna), dall’830 al 1040 la cittadina istriana passò dapprima al Regno d’Italia, poi divenne possedimento bavarese, quindi finí sotto la Carinzia. Nei due secoli successivi si avvicinò alla Repubblica di Venezia, fino all’unione politica, suggellata nel 1283. Iniziò cosí il lungo sodalizio con la Serenissima, concluso soltanto con la caduta di quest’ultima, nel 1797. In questo mezzo millennio l’economia piranese fu legata ai commerci e alle saline di Fasano, Strugnano e Sicciole. Tiziano Zaccaria aprile
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...e nell’Andalusia dei pellegrini Due immagini della grande festa che ogni anno celebra la Morenita, una Madonna dalla carnagione scura, che sarebbe apparsa nel 1227 al pastore Juan Alonso Rivas sul Cerro de la Cabeza, promontorio situato nel Parco naturale della Sierra di Andújar.
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n Andalusia è soprannominata la Morenita. È l’immagine di una Madonna dalla carnagione scura, che, secondo la leggenda, sarebbe apparsa all’alba del 12 agosto 1227 al pastore Juan Alonso Rivas sul Cerro de la Cabeza, promontorio situato nel Parco naturale della Sierra di Andújar. Su quel luogo, considerato sacro, tra il 1287 e il 1304, fu costruita una chiesa con santuario dedicato alla Vergine de la Cabeza. Nei secoli l’edificio è stato piú volte rimaneggiato: oggi presenta un nuovo impianto, costruito dopo la quasi totale distruzione subita durante la Guerra Civile spagnola. Nel 2010 la chiesa è stata elevata, con decreto papale, al rango di Basilica Minore. Qui, fin dal XIII secolo, nell’ultimo week end di aprile, si conclude un imponente pellegrinaggio in onore della Vergine che parte dalla vicina Andújar, in provincia di Jaén, nella Comunità Andalusa. Secondo alcuni storici si tratta del secondo pellegrinaggio piú antico nella Penisola Iberica dopo quello di Ujué (risalente al 1043). E vari scrittori di fama, fra cui Cervantes, lo hanno menzionato.
L’offerta dei fiori Le celebrazioni iniziano nella serata del giovedí con la tradizionale offerta dei fiori in piazza di Spagna. Fra alcuni eventi religiosi in programma nel Portico del Pellegrinaggio, il venerdí arrivano in città numerose confraternite provenienti da varie parti del Paese. Il sabato, fin dall’alba, prende il via il pellegrinaggio verso la Basilica e il santuario. Famiglie e confraternite, organizzate con carretti, cavalli e muli, partono in direzione del Cerro de la Cabeza, che si raggiunge attraverso il Camino Viejo, o Cordel de los Molinos, strada
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dichiarata di interesse turistico andaluso. La prima sosta ha luogo a San Gines, dove si trova una cappella dedicata alla Vergine; una seconda tappa è a Lugar Nuevo, un’azienda agricola adagiata sulle rive del fiume Jandula. Nel tardo pomeriggio i fedeli iniziano ad arrivare a destinazione e si accampano presso il santuario, consumando piatti tipici e bivaccando per l’intera notte. La domenica mattina, dopo la Santa Messa celebrata da un altare allestito all’esterno della Basilica, arriva il momento clou: l’uscita della Morenita dalla chiesa per la processione. Purtroppo l’antica figura devozionale di origine medievale è andata persa durante la Guerra Civile. Oggi si venera e si porta in processione una replica dell’originale. La Vergine de la Cabeza è la patrona di Andújar e, da qualche anno, anche della Diocesi di Jaén. T. Z.
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ANTE PRIMA
Borghi dell’Italia medievale: N
el presentare il prossimo Dossier di «Medioevo», ci sembra utile riepilogare, seppur assai brevemente, la storia dei borghi, che sono appunto l’oggetto di questa nuova pubblicazione. Utilizzato per indicare in modo generico un insediamento fortificato, il termine «borgo» può avere, in realtà, un significato differente sulla base delle aree geografiche di riferimento. Di origine germanica, la parola, nelle zone in cui fu piú forte il radicamento del sistema feudale, Veduta di San Gimignano (Siena). Il borgo assunse la denominazione che tuttora conserva intorno al X sec., traendola dal nome di un vescovo modenese del V sec. che, secondo la leggenda, sarebbe apparso miracolosamente sulle mura, salvando la città dalle scorrerie degli Ostrogoti di Totila.
possedeva in sé l’idea di un abitato con funzione difensiva, ma, in Italia, il riuso delle strutture urbane di origine classica e il contemporaneo svilupparsi delle grandi proprietà monastiche e castrensi condusse a una diversa accezione del termine «burgus». Almeno a partire dal X secolo, quando la Penisola – al pari dell’Europa – iniziò a crescere sotto il profilo demografico, produttivo
IL NUOVO DOSSIER DI MEDIOEVO
un tesoro da scoprire ed economico, i piccoli abitati – i borghi, appunto – sorti intorno alle mura di un castello o di una fondazione ecclesiastica si ampliarono. Le città di fondazione romana, invece, mai del tutto abbandonate nonostante le ripetute invasioni, cominciarono a crescere, dotandosi di edifici cultuali e abitativi grazie all’attività dei gruppi di «cives» che vivevano all’interno della cinta muraria. L’aumento costante della popolazione attirò nuovi cittadini, mentre chi non trovò
la possibilità di inurbarsi si insediò al di fuori delle mura; il termine «borgo» designò, cosí, anche questi nuovi agglomerati extramurari e i loro abitanti assunsero la denominazione di «burgenses», spesso contrapposti, anche giuridicamente, ai «cives». Per dare un «volto» a questa vicenda, assai articolata e dinamica, il Dossier di «Medioevo» passa in rassegna alcuni tra i piú suggestivi borghi italiani: un invito, dunque, a scoprire altrettanti tesori di arte e di storia.
AGENDA DEL MESE
a cura di Stefano Mammini
Mostre
immagini dipinte sui pezzi e l’eccellente stato di conservazione suggeriscono che, in realtà, i mazzi non fossero destinati a essere effettivamente impiegati per giocare, ma che fossero stati commissionati come oggetti da collezione. info www.metmuseum.org
VENEZIA «SPLENDORI» DEL RINASCIMENTO A VENEZIA. ANDREA SCHIAVONE TRA PARMIGIANINO, TINTORETTO E TIZIANO Museo Correr fino al 10 aprile
Pittore dal pennello veloce come una freccia, Andrea Meldola, detto Schiavone (1510 circa-1563), propose un linguaggio pittorico nuovo e spregiudicato, tanto che, già pochi anni dopo l’arrivo a Venezia (avvenuto forse intorno al 1535), divise l’opinione pubblica e la critica: chi come l‘Aretino lo stimava e gli era amico, chi come il Pino non nascondeva il suo disprezzo. Un artista «fuori dal coro», dunque, affascinante e moderno, sul quale si fa finalmente il punto dopo decenni di studi e ricerche. Per la prima volta sono riuniti oltre 80 lavori di Schiavone, dipinti, disegni, incisioni: oltre ad alcuni inediti, si possono vedere insieme i capisaldi della sua opera pittorica e, con essi, importanti dipinti di confronto dei maggiori artisti del tempo, punto di riferimento per il Dalmata e con i quali egli ebbe contatti o rapporti di «dare» e «avere». info call center, tel. 848 082 000; e-mail: info@fmcvenezia.it; www.correr.visitmuve.it NONANTOLA (MO) MATILDE, SPLENDENTE FIACCOLA Museo Benedettino e Diocesano di Arte Sacra fino all’11 aprile
L’abbazia romanica di Nonantola ricorda Matilde di Canossa proponendo un percorso fra antiche pergamene che indaga i
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rapporti tra il potente e ricco monastero e la famiglia della contessa. Dell’età dei Canossa, e di Matilde in particolare, l’Archivio Storico Abbaziale conserva infatti una ventina di pergamene. Ne emerge un periodo travagliato ma di contatti frequenti, fatto di liti per proprietà, donazioni di terre, commutazioni di beni. Accanto alle pergamene vi è spazio per due celebri codici medievali della sua epoca: la Relatio dell’Archivio Capitolare della cattedrale modenese e il magnifico Evangelistario di Matilde di Canossa (XI secolo), realizzato dai Benedettini nonantolani nel loro scriptorium. info tel. 059 549025; e-mail: museo@abbazia-nonantola.net; www.abbazia-nonantola.net NEW YORK IL MONDO IN GIOCO: CARTE DI LUSSO, 1430–1540 The Metropolitan Museum of Art, The Cloisters fino al 17 aprile
I giochi di carte ebbero origine in Cina, da dove poi si diffusero in India e nel Medio Oriente e, per quanto riguarda l’Europa, le prime attestazioni risalgono alla fine del Trecento. La mostra riunisce gli unici tre mazzi di carte da gioco di produzione tardomedievale a oggi noti: quello di Stoccarda (1430 circa), l’Ambraser Hofjagdspiel («Mazzo della caccia della corte di Ambras», 1440 circa)
e le carte Cloisters (14701480 circa). Quest’ultimo, realizzato in un atelier dei Paesi Bassi meridionali, è peraltro il solo a essere completo: comprende tutte le 52 carte, che, per la prima volta (ed eccezionalmente), vengono esposte contemporaneamente: la deperibilità del supporto cartaceo, infatti, ne impone normalmente la rotazione. L’elevata qualità delle
MONTEFALCO (PERUGIA) ESPOSIZIONE STRAORDINARIA DELLA MADONNA DELLA CINTOLA Complesso museale di San Francesco fino al 30 aprile
Sulla scia del successo fatto registrare nei primi sei mesi di esposizione, è stata decisa la proroga del progetto che ha riportato a Montefalco, dopo 167 anni, uno dei capolavori di Benozzo Gozzoli: la pala aprile
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della Madonna della Cintola. Grazie al prestito accordato dai Musei Vaticani, l’opera ha potuto ricongiungersi con le Storie di San Francesco affrescate dallo stesso Benozzo nella chiesa di S. Francesco (vedi «Medioevo» n. 225, ottobre 2015). Restaurata per l’occasione, la Madonna della Cintola venne dipinta dall’artista intorno al 1450 ed era destinata all’altare maggiore della chiesa di S. Fortunato riformata dagli Osservanti. Custodito nella Pinacoteca Vaticana, il dipinto fu donato a Pio IX dalla comunità di Montefalco nel 1848, in occasione della concessione al borgo umbro del titolo di città. Per l’esposizione in S. Francesco, è stato sistemato su un basamento per simularne l’originaria collocazione; la pala, inoltre, è visibile nella sua interezza, cosí come è stata fruita e utilizzata per secoli, riuscendo ad apprezzarne ogni particolare. info Sistema Museo: tel. 199 151 123 (attivo lu-ve, 9,00-15,00); e-mail: callcenter@sistemamuseo.it Museo di Montefalco: tel. 0742 379598; e-mail: montefalco@ sistemamuseo.it; www. museodimontefalco.it FIRENZE CARLO PORTELLI, PITTORE ECCENTRICO TRA ROSSO FIORENTINO E VASARI Galleria dell’Accademia fino al 30 aprile
Della collezione permanente della Galleria dell’Accademia fa parte una monumentale pala con l’Immacolata Concezione di Carlo Portelli, datata 1566 e originariamente destinata alla chiesa di Ognissanti, che può, a giusto titolo, essere considerata il capolavoro dell’artista, originario di Loro Ciuffenna
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(Arezzo), ma formatosi a Firenze. Intorno a questa tavola, che scandalizzò lo storiografo Raffaello Borghini (1584) per l’esibizione sfacciata e irriverente delle nudità di Eva in primo piano, sono stati raccolti in una mostra tutti i dipinti ascrivibili al Portelli e, grazie a nuovi studi intrapresi per l’occasione, è stato possibile definirne una volta per tutte il ruolo nel panorama della pittura fiorentina dell’età vasariana. info tel. 055 2388609 ‘S-HERTOGENBOSCH (PAESI BASSI) JHERONIMUS BOSCH. VISIONI DI UN GENIO Noordbrabants Museum fino all’8 maggio
In occasione del cinquecentenario della morte, la città di Hieronymus Bosch si appresta a ospitare l’evento clou delle celebrazioni in programma. Nato Hieronymus van Aken e ribattezzato Bosch proprio dal nome della località in cui era nato, ‘s-Hertogenbosch, l’artista è riconosciuto come la personalità piú complessa e singolare della pittura fiamminga. Con sottigliezze da miniatore e capacità pittorica ricca di sensibilità coloristica, dipinge quadri gremiti di figure grottesche e allucinanti, spesso mostruose, di uomini e di animali, nei quali sono rappresentati in modo simbolico antichi proverbi, episodi biblici o evangelici, testi mistici medievali, credenze astrologiche o alchimistiche. Una tematica che non può comunque essere interpretata in chiave di pura fantasia o di mero divertimento, ma che ha forse la sua radice nell’aspirazione a contribuire al rinnovamento dei
costumi religiosi e a combattere la corruzione. info www.hnbm.nl CONEGLIANO (TV) I VIVARINI. LO SPLENDORE DELLA PITTURA TRA GOTICO E RINASCIMENTO Palazzo Sarcinelli fino al 5 giugno
Prima esposizione mai dedicata ai Vivarini, la rassegna presenta un prezioso nucleo di opere fortemente rappresentative del loro percorso artistico e della loro diffusione al di qua e al di là dell’Adriatico. Capolavori che testimoniano altresí i contatti e gli influssi di Antonio, Bartolomeo e Alvise con alcuni dei piú importanti protagonisti della pittura del primo Rinascimento italiano, come
Mantegna, Squarcione, Filippo Lippi, Andrea del Castagno, Paolo Uccello oltre ai pittori veneziani. Si potranno ammirare, riuniti per la prima volta, dipinti eccezionalmente trasferiti dalle loro sedi naturali - come il polittico di Antonio dalla basilica Eufrasiana di Parenzo, prima opera firmata e datata dal capostipite della bottega - e tavole realizzate per committenti pugliesi, come la pala da Capodimonte e quella dalla basilica di S. Nicola di Bari, opere entrambe di Bartolomeo, tra i primissimi e piú originali esempi di pala con Sacra Conversazione a spazio unificato. Prestiti, in generale, che si possono considerare eccezionali per la delicatezza e la qualità delle opere e per il
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AGENDA DEL MESE ASCOLI PICENO
significato che rivestono nell’excursus pittorico dei Vivarini e nel cruciale passaggio dal Gotico al Rinascimento. info tel. 0438 1932123; www.mostravivarini.it, www.civitatrevenezie.it
FRANCESCO NELL’ARTE. DA CIMABUE A CARAVAGGIO Palazzo dei Capitani, Sala della Ragione fino al 30 giugno
ZURIGO CONRAD GESSNER 1516–2016 Museo Nazionale Svizzero fino al 19 giugno
Nel 2016 si celebra il cinquecentenario della nascita Conrad Gessner, uno dei piú importanti naturalisti elvetici, la cui opera piú famosa, l’Historia animalium, consta di quattro volumi e descrive per la prima volta tutti gli animali allora conosciuti. Punto di riferimento essenziale per generazioni di studiosi, fu un primo passo nel lungo percorso che conduce verso la zoologia moderna. Gessner fu una personalità autorevole anche nel campo della botanica, delle scienze della terra, della medicina, della teologia e della linguistica. Nel complesso, pubblicò oltre 70 opere. Nato nel marzo del 1516, Conrad Gessner fu anche medico municipale. Prendendosi cura delle persone deboli e malate che vivevano a Zurigo fu colpito dalla peste, che lo portò alla morte nel 1565. La mostra realizzata dal Museo Nazionale è allestita in collaborazione con la Biblioteca centrale di Zurigo, che conserva parte del lascito di Gessner. info www.gessner500.ch; www.nationalmuseum.ch FORLÍ PIERO DELLA FRANCESCA. INDAGINE SU UN MITO Musei San Domenico fino al 26 giugno
Vede la luce a Forlí un progetto davvero ambizioso: riunire un nucleo adeguato di opere di
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Piero, artista tanto sommo quanto «raro», è stata infatti un’operazione complessa. E non meno impegnativo si è rivelato l’intento di proporre un confronto con i piú grandi maestri del Rinascimento, tra cui Beato Angelico, Paolo Uccello, Andrea del Castagno, Filippo Lippi, Francesco Laurana. L’esposizione, inoltre, documenta l’influsso di Piero sulle generazioni di artisti a lui successiva – Marco Zoppo, Francesco del Cossa, Luca Signorelli, Melozzo da Forlí, Antoniazzo Romano e Bartolomeo della Gatta, ma anche Giovanni Bellini – e si spinge oltre, fino a indagare il mito del genio di Sansepolcro quando esso rinasce, dopo i secoli dell’oblio, nel moderno – nei macchiaioli –, e ad analizzare il fascino che la sua pittura ha esercitato su molti maestri europei: da Johann Anton Ramboux o Charles Loyeux, fino alla fondamentale riscoperta inglese del primo Novecento, legata in particolare a Roger Fry, Duncan Grant e al Gruppo di Bloomsbury. info Call Center: tel. 199 15 11 34 (attivo lu-ve, 9,00-18,00; sa, 9,00-12,00); e-mail: mostrapierodellafrancesca @civita.it; www. mostrapierodellafrancesca.com
Inserita nel piú ampio contesto delle iniziative culturali che coinvolgono Ascoli per tutto il 2016, la mostra ricorda la figura di san Francesco in occasione dell’ottavo centenario della sua venuta nel Piceno. Nelle Marche, le visite da lui effettuate, il grande seguito che ha raccolto e, soprattutto, la precoce istituzione di conventi maschili e femminili legati alla Regola francescana, nonché l’origine ascolana del primo papa francescano (Niccolò IV, 1288-1292) hanno
determinato lo svilupparsi di una intensa iconografia legata alla figura del santo d’Assisi e alle sue vicende. E non è un caso che, proprio nella chiesa di S. Gregorio, nella stessa Ascoli Piceno, si conservi un affresco del XIII secolo nel quale, per la prima volta, viene illustrata la Predica agli uccelli, un tema piú volte rappresentato nei secoli successivi, fino ad assumere la caratteristica di un vero e proprio topos. Grazie ai prestiti concessi dai maggiori musei italiani, la mostra ripercorre l’evoluzione della figura di Francesco nella pittura dal Medioevo alla Controriforma info tel. 0736 298213; e-mail: info@ascolimusei.it; www.ascolimusei.it
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BOLOGNA BOLOGNA 1116. DALLA ROCCA IMPERIALE ALLA CITTÀ DEL COMUNE Museo Civico Medievale fino al 17 luglio
Organizzata nell’ambito delle celebrazioni per il IX centenario della nascita del Comune di Bologna, la mostra illustra alcuni aspetti sociali e artistici della città agli esordi delle sue istituzioni politiche e culturali. Il progetto mira altresí a valorizzare il patrimonio presente in museo e alcuni importanti prestiti per portare all’attenzione dei visitatori significativi manufatti dei secoli XI, XII e XIII, tra cui sculture, armi, oreficerie, documenti, codici miniati e tessuti. Particolare rilievo viene dato alla città delle Quattro Croci e alla Rocca imperiale che i Bolognesi distrussero nel 1115 all’indomani della morte di Matilde di Canossa, signora delle città padane e toscane con vicariato imperiale. La Rocca, di cui il Palazzo Ghisilardi (sede del museo) conserva alcuni notevoli resti murari in seleníte, fu sede dei funzionari matildici, i conti di Bologna, che si opponevano al dinamismo politico ed economico della città ormai da tempo avviata ad affermare l’autonomia comunale. Mentre si consumava anche il conflitto della Lotta per le Investiture, la ribellione dei Bolognesi fu ricomposta nel 1116 dall’imperatore Enrico V, con un diploma che favorí indirettamente l’affermazione del Comune. Il documento, convenzionalente considerato l’origine del Comune di Bologna, è esposto in mostra nell’originale rilegato nel celebre Registro Grosso. info tel. 051 2193930;
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www.museibologna.it; http:// nonocentenario.comune.bologna.it
MILANO RESTITUZIONI 2016 Gallerie d’Italia fino al 17 luglio
Dal 1989, con il progetto Restituzioni, Intesa Sanpaolo sostiene finanziariamente, con cadenza biennale, il restauro di opere d’arte appartenenti a musei pubblici, privati o ecclesiastici, siti archeologici e chiese di tutta Italia. La XVII edizione ha permesso il restauro di 54 nuclei di opere d’arte, per un totale di 145
singoli manufatti – appartenenti ai territori di Abruzzo, Calabria, Campania, Emilia-Romagna, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Toscana e Veneto –, ora presentati a Milano. Le opere coprono un arco temporale che va dall’antichità al primo Novecento, con esempi di realtà lontane, come l’imponente statua egizia naofora di Amenmes e Reshpu (dal Museo Civico Archeologico di Bologna), una rara armatura giapponese dell’Armeria Reale di Torino o tre rilievi lignei del Monte Calvario di Banskà Štiavnica (Repubblica Slovacca). Nell’ambito della pittura figurano, tra gli altri, dipinti di Francesco del Cossa, Vittore Crivelli e un’eccezionale Adorazione del Bambino di Lorenzo Lotto, nonché la Crocifissione tra la Vergine e San Girolamo, la grande pala d’altare del Perugino. info numero verde 800167619; e-mail: info@gallerieditalia.com; www.gallerieditalia.com
CASTROCARO TERME IL ‘900 GUARDA PIERO DELLA FRANCESCA. DISEGNO E COLORE NELL’OPERA DI GRANDI MAESTRI Padiglione delle Feste delle Terme di Castrocaro fino al 17 luglio
Organizzata in parallelo con la mostra forlivese «Piero della Francesca. Indagine su mito», questa esposizione indaga la profonda suggestione esercitata dalla pittura dello stesso Piero sull’arte italiana del Novecento. Un’impronta indelebile, sottile ed intrigante, che ha nutrito le poetiche dei grandi artisti esposti, quali Borra, Carrà, Casorati, Campigli, Crivelli, De Chirico, De Pisis, Funi, Garbari, Guidi, Morandi, Morelli, Rosai, Savinio, Severini e Sironi. Disegni e pitture dei grandi protagonisti della cultura figurativa italiana del XX secolo filtrano l’universo pierfrancescano in una mostra che indaga colore, luce, spazio e geometria, presentando copie, studi, omaggi. info tel. 0545 217595 FIRENZE FECE DI SCOLTURA DI LEGNAME E COLORÍ. LA SCULTURA DEL QUATTROCENTO IN LEGNO DIPINTO A FIRENZE Galleria degli Uffizi fino al 28 agosto
Avvalendosi di una quarantina di opere, la mostra documenta la vicenda della scultura in legno dipinto del Quattrocento fiorentino. In linea col primato artistico della scultura, essa costituí un modello imprescindibile per tutti gli artisti. Infatti, un tema come quello del corpo sofferente sulla croce, espresso con un nuovo naturalismo nei crocifissi di Donatello e
Brunelleschi, fu oggetto di riferimento per l’espressione artistica delle successive generazioni. Il Vasari, poco incline nel tessere le lodi della scultura in legno dipinto, perché a tale materiale non «si dà mai la freschezza del marmo», nell’elenco di sculture lignee elencate nelle ‘Vite’, le classifica per la loro funzione devozionale nella quale sembra esaurirsi ogni apprezzamento. A Firenze, accanto alla qualificata produzione di crocifissi, si intagliarono anche statue della Madonna, di sante e santi eremiti dai corpi tormentati o preservati dal dolore, bustiritratto, statue al centro di polittici misti e statue per l’arredo liturgico. info tel. 055 23885 ROMA SANTA MARIA ANTIQUA. TRA ROMA E BISANZIO Foro Romano, Basilica di S. Maria Antiqua fino all’11 settembre
Dopo oltre trent’anni, riapre al pubblico S. Maria Antiqua, la basilica nel Foro Romano scoperta nel 1900 alle pendici del Palatino. La chiesa conserva sulle sue pareti un patrimonio di pitture unico nel mondo cristiano del primo millennio, databile dal VI al IX secolo, quando fu abbandonata a seguito dei crolli causati dal terremoto dell’847. Resta eccezionale testimonianza nello sviluppo della pittura non solo romana, ma di tutto il mondo greco bizantino contemporaneo: l’iconoclastia, infatti, cancellò gran parte delle immagini sacre di quell’epoca. Chiusa dagli anni Ottanta per un complesso intervento architettonico proseguito con il restauro delle pitture, alla riapertura completa della
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AGENDA DEL MESE
chiesa – aperta in precedenza solo per brevi periodi con visita guidata ai cantieri – si accompagna un’esposizione che è “mostra” del monumento stesso, perché gravita intorno al ruolo che l’edificio, con i suoi dipinti, ha giocato nell’area del Foro Romano post-classico cristianizzato e al rapporto con la Roma altomedievale, là dove si andavano concentrando la vita religiosa e i servizi pubblici di approvvigionamento per cittadini e pellegrini. info tel. 06 699841; prenotazioni: tel. 06 39967700; www.coopculture.it
nobiluomo dalla fulva, curatissima barba. Non un giovane ma un uomo maturo, certo aduso al comando, ma,
soprattutto, a una vita raffinata lontano dai campi di battaglia. Indossa una preziosa corazza alla moda dell’epoca, che lo costringe, ma che non riesce a ingabbiarne la grazia e la flessibilità. Le lunghe dita, curate e perfette, non sembrano le piú adatte a menar fendenti, cosí come il suo spadino di ferro e oro sembra piú da parata che da battaglia. Secondo Vittoria Romani dell’Università di Padova, studiosa alla quale va il merito di avere ricondotto a Jacopo Bassano questo autentico capolavoro già attributo a Veronese e a Pordenone, il ritratto è databile agli anni immediatamente seguenti il 1550, ovvero al momento piú altamente manierista del maestro. info tel. 0424 519.901-904; e-mail: info@museibassano.it; www.museibassano.it
Appuntamenti
FERRARA RESTAURO-MUSEI XXIII EDIZIONE Ferrara Fiere 6-8 aprile
Dal 6 all’8 aprile, Restauro riapre le porte con un nuovo sottotitolo che si fa manifesto di questa XXIII edizione: «Salone dell’Economia, della Conservazione, delle Tecnologie e della Valorizzazione dei Beni Culturali e Ambientali». In concomitanza e all’interno di Restauro prenderà vita Musei, un nuovo Salone rivolto in particolare alle aziende di pertinenza e in dialogo diretto con le realtà museali, pubbliche e private. Cosí da comporre un panorama ancora piú ricco e qualitativamente elevato. info e programma completo e costantemente aggiornato su www.salonedelrestauro.com
MILANO MEDIOEVO IN LIBRERIA XIV. «MEDIOEVO AL FEMMINILE» Civico Museo Archeologico di Milano, Sala Conferenze 9 aprile
Ultimo appuntamento con l’edizione 2016 di «Medioevo in Libreria». Al mattino, visita guidata al Castello Sforzesco,
BASSANO DEL GRAPPA IL MAGNIFICO GUERRIERO. BASSANO A BASSANO Civici Musei fino al 31 gennaio 2017
Il Magnifico Guerriero di Jacopo Bassano si offre all’ammirazione del pubblico grazie al comodato gratuito accordato dal suo possessore ai Civici Musei bassanesi. Il dipinto ritrae un affascinante
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a cura di Mauro Enrico Soldi (ore 11,00); al pomeriggio, conferenza di Nadia Covini (Università degli Studi di Milano) su Donne e potere alla corte degli Sforza (ore 16,00), preceduta dalla proiezione del filmato Viaggio nel Medioevo (ore 15,30). info tel. 02 45329840; e-mail: info@ italiamedievale.org; www. italiamedievale.org; http:// medioevoinlibreria.blogspot.it
APPUNTAMENTI • Tacuinum Sanitatis di Bevagna U Bevagna – Chiesa di S. Maria Laurentia
23 aprile info tel. 347 5543105; e-mail: alfredoproperzi@alice.it; www.gaitasantamaria.com
FERRARA EDITOR ED EDITING NELLA DIVULGAZIONE: DAL TESTO ALL’EDITORIA DIGITALE. CORSO INTENSIVO Università degli Studi 7-22 maggio
Offrire competenze di base per svolgere l’attività di editor in una rivista di divulgazione. A questa professione è orientato il Corso Intensivo organizzato con modalità didattica on line dall’Università di Ferrara. Al termine del corso, tramite una panoramica sulla lavorazione di un articolo – revisione, ricerca iconografica, correzione di bozze, impaginazione – gli studenti saranno in grado di individuare le fasi del processo attraverso le quali un testo diventa una pubblicazione editoriale, e conosceranno sia le norme redazionali e tipografiche piú comuni per la correzione delle bozze, sia le tecniche di base dell’impaginazione. Il corso ha una durata di sedici giorni. Le attività in piattaforma – video lezioni e forum di discussione – si svolgono nell’arco di dodici giorni, sabato e domenica compresi, mentre il workshop full immersion è organizzato nel week end. Tutte le attività on line e presenziali si avvalgono di docenti qualificati, sia provenienti dall’ambito accademico, sia di noti
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acuinum sanitatis, un prontuario medico del XIV secolo è il titolo dell’opera pubblicata a cura della Gaita Santa Maria di Bevagna per i tipi della Fabrizio Fabbri Editore. A lungo ignorato, questo Tacuinum è stato «ritrovato» grazie alla curiosità intellettuale, alla passione per la storia medievale e alla dedizione di Alfredo Properzi, medico condotto bevanate nonché appassionato volontario della Gaita Santa Maria. Un ritrovamento che si è ora trasformato in un cofanetto comprendente la riproduzione anastatica del manoscritto originale, corredata da un secondo volume, a cura di Maurizio Tuliani, che contiene una introduzione al manoscritto, nonché la sua trascrizione e traduzione. Alla presentazione dell’opera, introdotta da Maria Grazia Nico Ottaviani, intervengono Chiara Frugoni, Massimo Montanari e lo stesso Maurizio Tuliani.
professionisti di comprovata esperienza, e sono seguite da un tutor di classe. info tel. 0532 2935.26-28; http://sea.unife.it; e-mail: tutoratosea@unife.it ALVIANO (TERNI) «IMPAZIENTE DELLA QUIETE». BARTOLOMEO D’ALVIANO, LE FORTUNE DI UN CONDOTTIERO NELL’ITALIA DEL RINASCIMENTO (1455-1515) Rocca di Alviano e altre sedi fino al 12 novembre
A cinquecento anni dalla scomparsa, Bartolomeo d’Alviano (1455-1515), uno dei piú insigni condottieri del
Rinascimento, viene ricordato con un ciclo di conferenze che ripercorrono i momenti decisivi della vita di un personaggio che volle essere protagonista di un’epoca di grandi trasformazioni. Questi i prossimi appuntamenti:
Alviano, Rocca, 16 aprile, ore 17,30: Gli Alviano, il Monastero di S. Valentino e la Bibbia Atlantica conservata a Parma (Nadia Togni, Université de Genève); Todi, Palazzo Comunale, 28 maggio, ore 17,30: Bartolomeo d’Alviano, Todi e l’Umbria tra XV e XVI secolo (Filippo Orsini, Archivio storico comunale di Todi). info tel 0744 904421; e-mail: bartolomeo500anni@gmail.com; www.comune.alviano.tr.it
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esclusiva intervista
Francesco
Incontro con Chiara Frugoni, a cura di Furio Cappelli
uno, nessuno e centomila
Il santo di Assisi godette, già presso i contemporanei, di una popolarità straordinaria. Eppure, come ha dimostrato Chiara Frugoni, che da anni ne indaga il profilo, analizzare la sua vicenda biografica attraverso il confronto tra le fonti letterarie e le testimonianze iconografiche può ancora svelare particolari inaspettati
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ultimo volume di Chiara Frugoni, Quale Francesco? Il messaggio nascosto negli affreschi della Basilica superiore ad Assisi, offre un’approfondita lettura interpretativa di tutti gli affreschi della Chiesa Superiore della basilica assisiate. Il perno centrale della ricerca condotta dall’autrice è dato dalla figura stessa di san Francesco, e dai modi in cui è stata elaborata. Affrontando l’argomento, ci si deve infatti confrontare con interpretazioni diverse e spesso contrastanti. Abbiamo dunque incontrato la studiosa, per discutere con lei dei temi sviluppati nel libro.
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Salvo diversa indicazione, le scene riprodotte e descritte in questo articolo fanno parte del ciclo delle Storie francescane, affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi, tra il 1290 e il 1295. In alto particolare della Morte di Francesco raffigurante uno dei dodici frati che vegliano la salma del santo nell’atto di baciare un piede, toccato dalle stimmate. aprile
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FRANCESCO RICEVE LE STIMMATE Il santo viene toccato alle mani, ai piedi e al costato dai raggi di luce emanati dal Serafino-Cristo. In basso, sulla destra, compare un frate accoccolato, assorto nella lettura: è forse identificabile con Leone e potrebbe ricordare la triplice apertura del Vangelo da parte di un compagno di Francesco. Secondo il racconto di Bonaventura da Bagnoregio, prima del miracoloso evento, il sacro testo si aprà per tre volte consecutive, laddove si narra la Passione del Signore.
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esclusiva intervista rofessoressa Frugoni, quale san Francesco le si è dunque P manifestato analizzando il ciclo affrescato di Assisi? Per rispondere a questa domanda devo fare una piccola premessa. Il Francesco delle origini aveva elaborato un progetto destinato a pochi compagni, pensando di condurre una vita poverissima, applicando radicalmente il Vangelo: vivendo a piedi scalzi, senza abitazioni in muratura, senza possedere denaro, procurandosi il cibo giorno dopo giorno, condividendo la precarietà fisica e psicologica dei poveri. Povero come gli altri poveri, questa era l’idea di Francesco, che si prefiggeva anche di vivere del lavoro delle proprie mani, e di farsi carico della società in cui viveva, aiutando gli altri, curando i lebbrosi, predicando soprattutto la pace e il messaggio di amore di Cristo. Questo Francesco è stato in un certo senso travolto dal suo successo e il suo progetto, pensato per poche persone di altissima virtú, si rivelò quindi inapplicabile quando i frati divennero 3000, 5000: sarebbe stato impossibile. Si comprende perché ministri come Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274; Dottore della Chiesa e poi santo, miracolosamente guarito da san Francesco quand’era bambino, n.d.r.) e come quelli che lo avevano preceduto avessero dovuto modificare l’idea originaria del santo. E quindi, proprio perché i Francescani sono diventati migliaia e la Chiesa aveva intuito quale aiuto A sinistra Firenze, Santa Croce, Refettorio. Particolare dell’affresco di Taddeo Gaddi raffigurante l’Albero della Vita. 1335 circa. Nella realizzazione dell’opera, l’artista si sarebbe ispirato alla «teologia geometrica», già conosciuta nel Duecento in ambienti francescani del Nord e illustrata da Bonaventura nelle Collationes in Exaëmeron.
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Sulle due pagine miniatura raffigurante una donna che fila e un’altra intenta a cardare la lana, dal Luttrell Psalter. 13251335. Londra, The British Library. In basso Semur-en-Auxois, collegiata di Notre-Dame. La pettinatura di un tessuto raffigurata in una delle vetrate quattrocentesche della chiesa, che, nella cappella a loro dedicata, illustrano le varie attività dei mercanti di lana e di stoffe.
avrebbero potuto fornirle, sostenendo la sua politica – per esempio nella lotta contro Federico II – intervenne un rapido cambiamento e ci furono anche numerose precisazioni da parte dei pontefici riguardo alla Regola e al Testamento di Francesco, che egli avrebbe voluto venisse seguito in maniera normativa. L’Ordine diventa mendicante (e Francesco aveva proibito di chiedere l’elemosina), si trasforma in un Ordine che studia, che predica, che è di grande aiuto alla Chiesa (e Francesco aveva vietato di chiedere lettere alla Santa Sede). Le pareti della Chiesa Superiore di S. Francesco di Assisi sono rimaste a lungo vuote e bianche: per ragioni politiche, per il bisogno di raccogliere risorse economiche, perché si succedettero papi che ebbero un pontificato troppo breve o che non furono attenti alle immagini, perché presi da altri problemi. Ma credo anche che fosse molto difficile mettere insieme il Francesco delle origini – che era il frate fondatore, e che quindi andava presentato e rispettato nella sua cosí forte personalità – e l’evoluzione dell’Ordine diventato cosí diverso, e che presentava i Francescani molto lontani dagli intendimenti del loro maestro. Quindi, per molto tempo, fu difficile raccordare questi due punti finché non entrò in
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A sinistra Assisi, basilica di S. Francesco. Uno scorcio della navata della Chiesa Superiore, interamente affrescata da cicli che propongono episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento, e, nella fascia inferiore, le Storie francescane.
scena Bonaventura, il quale non soltanto cercò di mettere pace nell’Ordine e nelle notizie su Francesco, facendo distruggere le biografie precedenti e scrivendone una egli stesso, la Legenda maior – che nel 1266 diventa la sola ufficiale ammessa –, ma redigendo anche le Collationes in Exaëmeron (una raccolta di conferenze tenute a Parigi fino alla morte, avvenuta nel 1274). In queste Collationes, Bonaventura si pose proprio il problema di collegare Francesco e i Francescani e, a mio parere, trovò una soluzione, nel senso che recuperò gli scritti di Gioacchino da Fiore – soprattutto, quelli che allora gli venivano attribuiti, pur non essendone l’autore –, nei quali era stata esposta una serie di profezie che culminavano nell’identificare Francesco da Assisi come l’apocalittico Angelo del sesto sigillo che ha in sé il segno del Dio vivente, perché Francesco ha le stimmate. Una delle novità del mio libro consiste non soltanto nell’aver cercato di dimostrare quanto Bonaventura abbia tenuto presente Gioacchino e lo pseudo Gioacchino, ma anche nel convincere i lettori del fatto che gli affreschi di Assisi non si basano solo sulla Legenda maior, come si è sempre detto, ma anche sulle Collationes in Exaëmeron, che finalmente, come già accennato, coniugarono l’aspra proposta di vita del santo e quella dei Francescani del tempo di Bonaventura, i quali appartenevano a un Ordine colto e clericalizzato, bisognoso di conventi stabili e di codici per studiare e dunque ormai lontano dal progetto del fondatore. Gioacchino da Fiore pensava che, mentre si erano già succedute un’età del Padre (Antico Testamento) e una del Figlio (Nuovo Testamento), mancava ancora l’età dello Spirito Santo. Nella visione del monaco cistercense calabrese, quest’ultima si sarebbe compiuta quando una Chiesa completamente purificata non avrebbe avuto piú bisogno di strutture, né dello studio: sarebbe stata una Chiesa estatica, in contemplazione di Dio, e, poco dopo, sarebbe finito il mondo. Si trattava di una visione tutto sommato pacificante, lontana dai terrori dell’inferno. Ma che cosa sostenne Bonaventura? Francesco era stato mandato da Dio come un prototipo per preparare le vie del Signore, esattamente come Giovanni Battista, ma poi l’Ordine serafico – serafico perché Francesco aveva visto il serafino, e da qui l’episodio delle stimmate – sarebbe tornato alla fine dei tempi, nell’età, appunto, dello Spirito Santo. In mezzo stavano i frati del tempo di Bonaventura, che si dovevano preparare a tale perfezione, e proprio per questo studiavano, predicavano e aiutavano non solo se stessi, ma tutti i
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esclusiva intervista PREDICA AGLI UCCELLI La scena ricostruisce uno degli episodi piú noti della vita di san Francesco, cosí narrato da Bonaventura da Bagnoregio nella Legenda maior: «Andando
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il beato Francesco verso Bevagna, predicò a molti uccelli; e quelli esultanti stendevano i colli, protendevano le ali, aprivano i becchi, gli toccavano la tunica».
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fedeli a migliorarsi. Cosí facendo, Bonaventura aveva trovato il modo di rispettare gli intendimenti del fondatore e, nello stesso tempo, di giustificare i cambiamenti all’interno dell’Ordine. Secondo me, nella Chiesa Superiore – che, sottolineo, era la basilica per le grandi cerimonie ufficiali, tanto che nell’abside c’è tuttora il trono papale, e i cui frequentatori erano le piú alte cariche dell’Ordine francescano –, il programma viene sviluppato specificamente per persone molto colte, in grado di capire. E quindi noi vediamo sempre Francesco rappresentato scalzo e con la barba, il Francesco dei boschi che applicava il Vangelo, accanto invece ai Francescani del tempo di Bonaventura, rasati (quindi tutti chierici) e tutti calzati. C’è quindi una continua unione di due tempi. Molti sono anche i dettagli nuovi che ho individuato. Per esempio, mi sono accorta che, nella Predica agli uccelli, le colombe non solo scendono ad ascoltare Francesco, ma risalgono e diventano nuvole a sostenere l’Ascensione di Cristo. Questo è molto importante, perché, secondo alcune profezie di scritti pseudo-gioachimiti, Gioacchino da Fiore avrebbe addirittura previsto che sarebbe giunto un Ordine colombino; a voler essere ancora piú precisi, Gioacchino avrebbe previsto l’arrivo di due ordini: quello francescano, simboleggiato da una colomba per la sua purezza, e quello domenicano, simboleggiato da un corvo (con allusione al colore dell’abito). Le colombe che risalgono al cielo sono dunque i frati, rappresentanti dell’Ordine colombino, e in altri testi le colombe sono le anime che salgono al cielo: queste colombe rappresentano quindi la perfezione dei Francescani che vanno in paradiso. Le colombe della controfacciata, che rappresentano simbolicamente i Francescani, si rispecchiano nell’abside nei frati «reali», dipinti da Cimabue, già nei Cieli, ai piedi del trono su cui siedono Cristo e la Vergine. a scena dell’incontro tra san Francesco e il sultano mette L in gioco il rapporto tra san Francesco e l’Islam. È naturalmente un tema che si riallaccia alla nostra attualità, al problema dei rapporti tra l’Occidente e lo stesso Islam. In che misura gli intendimenti del Poverello, nella scena di Assisi, sono stati reinterpretati? Io trovo che Francesco non abbia avuto soltanto una grandissima fede, ma anche una grandissima intelligenza politica nel portare avanti una sua linea, senza attaccare mai la Chiesa, che predicava la crociata e sosteneva che si dovesse uccidere in nome di Dio. Francesco lo dimostra recandosi dai musulmani. Noi siamo ormai abituati a dire che è andato dal sultano e invece no, Francesco è andato dai musulmani: ha vissuto lí, è tornato e ha scritto nella Regola – e credo che sia la prima e unica volta che succede – come i frati dovessero vivere
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Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Superiore. Particolare dell’affresco raffigurante l’Ascensione di Cristo nel quale si vedono due colombe che si trasformano in nuvole e sostengono il Salvatore nel suo ritorno alla destra del Padre. Secondo Chiara Frugoni, questo dettaglio va letto come logica successione alla Predica agli Uccelli (vedi alla pagina accanto). La paternità del dipinto non è certa: potrebbe essere stato realizzato dai cosiddetti «maestri di cantiere» o da Giotto con aiuti.
tra i musulmani in un periodo di guerra aperta. E quindi ci fa capire come, in fondo, anche oggi si potrebbe avere un altro approccio, perché i problemi che aveva Francesco erano gli stessi della nostra società. Che cosa avevano visto fino a quel momento i musulmani? Il volto violento dei cristiani. E molte delle guerre che oggi si combattono, sono conflitti che noi abbiamo innescato e che noi alimentiamo, fornendo armi, appoggiando persone che non avremmo dovuto sostenere. Francesco, naturalmente, parlava alla luce del Vangelo, ma senza dire: «Vengo lí e predico perché ho la verità». Al contrario, Francesco afferma che i frati, per prima cosa, non devono fare né liti, né dispute; poi, se piace a Dio, ossia se si è creata una situazione di reciproco rispetto, i frati provino a parlare del Padre celeste, altrimenti vivano lí, fra i musulmani, dando il buon esempio. Nella Tavola Bardi – conservata nell’omonima Cappella in Santa Croce, a Firenze, e che si può considerare una biografia figurata, dipinta negli anni 1240-43, quindi prima della normalizzazione di Bonaventura –, abbiamo una rappresentazione rarissima di Francesco
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PROVA DEL FUOCO DAVANTI AL SULTANO (particolare) La scena ricostruisce l’episodio secondo il quale Francesco avrebbe proposto ad al-Malik al-Kamil di accendere un fuoco nel quale il santo stesso e i sacerdoti del sultano sarebbero dovuti entrare: chi si fosse salvato, avrebbe avuto diritto di convertire i perdenti alla sua fede.
che veramente va a parlare ai musulmani, e lo vediamo quindi mentre predica, insieme ai compagni, di fronte a una popolazione musulmana attenta. C’è anche il sultano, ma con lui c’è tutto il popolo che ascolta. Invece, quando arriviamo al ciclo di Assisi, che si fonda essenzialmente sulla Legenda maior di Bonaventura, vediamo un’altra cosa: i musulmani sono scomparsi, e non c’è piú l’idea di proporre un convincimento attraverso il buon esempio in maniera pacifica, ma assistiamo invece a una sfida che deve portare alla sconfitta e all’umiliazione dell’avversario. Esattamente il contrario di quanto prescritto da Francesco nella Regola. Sottolineo che Bonaventura è il solo che, a quarant’anni dalla morte di Francesco, abbia riportato questa versione, e siamo quindi anche autorizzati a dubitare – penso – della sua veridicità, essendo l’unica fonte che la proponga. Secondo la versione di Bonaventura, Francesco era rimasto a lungo in Egitto, dove in quel momento si erano schierati sia l’esercito crociato che quello musulmano, e un giorno, vedendo che non riusciva a convertire con le parole, disse al sultano: «Facciamo cosí: accendiamo un fuoco, poi io, con i tuoi “sacerdoti”, entro in questo fuoco, e chi non è bruciato è il campione della vera fede, e il vincitore obbliga tutti a convertirsi nella
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A destra particolare della Tavola Bardi (San Francesco con storie della vita e miracoli) raffigurante Francesco che predica ai musulmani e al sultano. Dipinto attribuito a Coppo di Marcovaldo, secondo quarto del XIII sec. Firenze, Santa Croce, Cappella Bardi.
religione vincente». Il sultano, però, vide fuggire i suoi consiglieri e i suoi sacerdoti e, comunque, concluse: «Se tu vincessi, io sarei lapidato e quindi non voglio». La proposta venne perciò accantonata. Nell’immagine che compare ad Assisi, vediamo un enorme fuoco che scoppietta, Francesco pronto a buttarsi nelle fiamme, i consiglieri in fuga (e, fra l’altro, per rappresentarli in una maniera ancora piú negativa assumono l’iconografia degli Ebrei, quindi il «peggio del peggio», perché sono musulmani e anche ebrei): il messaggio è che i musulmani sono evidentemente vili, mentre il santo è pronto ad affrontare la prova. Ritorniamo dunque a un’idea opposta a quella sostenuta da Francesco, secondo la quale i seguaci di una religione diversa devono essere annientati fisicamente oppure dal punto di vista spirituale; l’infedele va sconfitto e non può che fuggire. Voglio rimarcare quanto l’immagine dell’affresco sia tendenziosa: secondo Bonaventura, la sfida non ebbe alcuna conseguenza pratica e nessuno accese il fuoco, che nell’affresco di Assisi vediamo invece divampare con tanto vigore. aprile
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assiamo a un altro aspetto intrigante. Nella Cacciata dei P diavoli da Arezzo, l’esorcista, fra’ Silvestro, compie un gesto particolare, che lei ha rilevato per la prima volta... Nella città toscana, che era in realtà sconvolta dalla guerra civile ma che qui viene rappresentata come preda dei demoni (un problema politico viene quindi spostato su un registro religioso), Francesco, per umiltà, non compie l’esorcismo, ma lo fa compiere al sacerdote Silvestro. Quest’ultimo, affinché si capisca che è un sacerdote, alza il saio e fa vedere che sotto ha una tunica bianca di lana pura, come quella che dovevano indossare i frati sacerdoti dopo il capitolo di Narbona del 1260; un particolare che ricorre anche in altre scene del ciclo dove sono presenti frati sacerdoti, come, per esempio, nella Morte del cavaliere da Celano. Sollevando il saio, però, Silvestro compie anche un gesto che poi diventa costitutivo di un gran numero di rappresentazioni della Prova del fuoco davanti al sultano, un gesto inteso come esorcismo rivolto alle fiamme, che non avrebbero fatto male a Francesco (la storia è un po’ complicata e, per maggiori
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dettagli, suggerisco di leggere il brano in cui ne parlo nel mio libro, a p. 289). Avevo domandato al padre cappuccino Servus Gieben (1924-2014; autorevole esperto in materia di iconografia francescana, n.d.r.) se il gesto di Silvestro potesse significare qualcosa, e lui mi suggerí la storia di frate Rufino, tentato dal diavolo in tutti i modi, che addirittura si camuffava come Cristo crocifisso. Rufino non sapeva piú cosa fare per liberarsi e allora Francesco stesso gli avrebbe detto: «Guarda, quando ti compare questo diavolo, tu alzati il saio – e qui si esprime in maniera molto rude – e digli: “Io ti caco in bocca”». Effettivamente il gesto di Silvestro ricorda proprio questo episodio. Tra parentesi, e la cosa mi ha lasciato tra il divertito e l’atterrito, ho letto che un grande esorcista del Vaticano, padre Gabriele Amorth, ha dichiarato in un’intervista che, quando ha a che fare con diavoli particolarmente agguerriti e che non vogliono lasciare la presa sull’indemoniato nel quale sono entrati, ricorre alla frase di Francesco: «Vattene, altrimenti ti caco in bocca». Ha sempre successo.
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esclusiva intervista CACCIATA DEI DIAVOLI DA AREZZO Sulla sinistra, inginocchiato, Francesco prega, dando prova della sua umiltà. Davanti a lui sta Silvestro, il quale, per esplicitare il suo ruolo, solleva il saio, cosí da mostrare la sottostante tunica bianca di lana pura, che il capitolo di Narbona del 1260 aveva imposto ai frati sacerdoti. Il gesto potrebbe però alludere anche al compimento dell’esorcismo da parte dello stesso Silvestro.
I l suo lavoro mostra chiaramente come sia importante capire, decodificare, mettere in prospettiva un’opera d’arte... Di fronte a un’opera d’arte cinese il mio apprezzamento è minimo: posso godere di alcune cose, ma molte altre mi sfuggono. Per esempio, so che la scrittura cinese «parla», è un complemento importantissimo dell’opera, per il modo in cui il pennello dell’artista disegna le lettere, e chiaramente questo valore è a me sconosciuto. Quindi io penso che se mi pongo di fronte a un’opera d’arte e non ho gli strumenti per capirla, mi trovo nella condizione del mio osservare un’opera d’arte cinese. Per esempio, nel Medioevo ci troviamo di fronte a molte convenzioni. Per molti secoli manca la prospettiva, ma non per un’incapacità tecnica, bensí perché si credeva che l’arte avesse una finalità didattica e per questo l’osservatore dovesse essere aiutato a capire: quindi si pensava che un edificio, se fosse stato rappresentato in prospettiva, non avrebbe potuto mostrare alcune parti; meglio portarle in primo piano e farle vedere. Un edificio viene allora rappresentato come se fosse una scatola di biscotti aperta e quindi, se vedo la navata principale di una chiesa, vedrò anche, riportate in primo piano, la facciata e l’abside; e può accadere che il campanile, pur trovandosi dietro, venga messo davanti. Una folla non veniva rappresentata come una fila di teste tutte visibili in primo piano, e poi, dietro, le loro sommità; le figure venivano disposte come su una ideale gradinata, proprio come erano una volta le foto di gruppo a scuola, in modo che tutti i volti fossero visibili. Ovviamente nel Medioevo si dava mentalmente una «manata» a tutti questi volti, in modo da riabbassarli, e si capiva che era rappresentata una folla. Di fronte a un’opera d’arte occorre dunque munirsi di strumenti che consentano di decodificarla e comprenderla. Soltanto allora l’immagine parla. Occorre quindi abituarsi anche a queste convenzioni e non rifiutarle come estranee. Noi siamo ormai abituati a comprendere le emozioni altrui scrutando la mimica facciale; nel Medioevo, invece, almeno fino al Duecento, i volti rimangono immobili e le emozioni sono affidate ai gesti delle mani, delle braccia oppure delle gambe.
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ome lei ha ribadito anche nel suo ultimo lavoro, un ruolo C trainante nella realizzazione delle imprese artistiche medievali è determinato da una committenza colta e dalle sue esigenze; eppure è ancora diffusa la convinzione che i cicli figurativi del Medioevo fossero destinati in prima battuta agli illetterati... L’idea delle immagini come Biblia pauperum («la Bibbia dei poveri») è da sfatare. Le immagini da sole non parlano affatto, perché sfido chiunque a porsi di fronte alla tavola che ritrae un santo con storie e miracoli della sua vita, e a capire cosa facciano i personaggi se già non lo si sa. Questo concetto si basa su frasi tramandate al di fuori del loro contesto, perché quando papa Gregorio Magno discute delle immagini, allude a una situazione molto precisa. Si sta rivolgendo a un vescovo iconoclasta che vuole distruggere tutte le immagini e allora, parlando dei Franchi e delle persone ancora barbare – che non sanno niente, che non sanno leggere –, Gregorio afferma che l’unico modo per cercare di educarle consiste nel conservare le immagini, dopodiché si lancia invece in una lunghissima dimostrazione dell’importanza delle immagini per un uomo istruito, per raggiungere la meditazione e l’estasi. Secondo Gregorio Magno, le immagini hanno un grandissimo potere evocativo e le raccomanda a persone colte, in grado di raggiungere altissimi livelli di ascesi proprio contemplando le immagini. Insomma, questa storia della «Bibbia dei poveri» non ha alcun senso, viene continuamente ripetuta, ma andrebbe accantonata. I n una realtà come quella di oggi, sempre in continuo mutamento, quale funzione può avere la conoscenza delle innumerevoli opere d’arte che costellano il nostro Paese? Nel corso delle mie lezioni, ho sempre sostenuto che senza il passato non si può vivere, e l’esempio per me piú ovvio è quello degli USA, dove gli Americani – che alle loro spalle non hanno un passato che risalga a piú di qualche secolo, né condividono quello delle popolazioni native –, costruiscono edifici universitari e chiese in stile pseudogotico, evidentemente perché sentono l’esigenza di avere una qualche radice che ricordi i loro luoghi d’origine, dal momento che la consapevolezza di avere un passato è, in fondo, ciò che distingue gli uomini dagli insetti. Le formiche o le api fabbricano meravigliosi formicai o alveari, ma non hanno alcun ricordo, né alcuna prospettiva per il futuro. Vivono senza capire nulla del mondo intorno, se non attraverso le informazioni che il DNA ha dato loro, per cui possono costruire opere che noi ammiriamo, ma sempre identiche. L’uomo, invece, ha bisogno del passato per capire il mondo presente in cui vive. Già solo osservandone il paesaggio urbano,
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esclusiva intervista L’esorcismo di frate Rufino, miniatura dallo Specchio dell’Ordine dei Minori (o Franceschina) di Jacopo Oddi. Ultimo quarto del XV sec. Assisi, S. Maria degli Angeli, Biblioteca della Porziuncola. Si noti, anche qui, il protagonista che solleva il saio.
possiamo capire quando una città è stata costruita, perché in quel modo e come noi, per esempio, ne siamo condizionati. Solo se riusciamo a capire ciò che vediamo possiamo conservare quello che ci hanno lasciato i nostri antenati, e dunque anche amarlo, tutelarlo, trasmetterlo; possiamo essere in grado anche di migliorare e di aprirci a nuove soluzioni. Non avere niente del proprio passato è come essere un insetto che vive nel mondo, ma di cui ignora assolutamente tutto. S aper vedere un’opera d’arte aiuta l’osservatore, non soltanto perché consente di leggerla meglio, ma anche perché, attraverso una fruizione consapevole, ci si diverte di piú, si entra in una visione piú coinvolgente. Altrimenti, ci si deve accontentare di un vuoto accumulo di sensazioni... Proprio questo, a mio avviso, è il pericolo che corriamo con il mondo digitale. Molti turisti stranieri, ma anche italiani, fotografano incessantemente, senza osservare, senza apprezzare, senza capire, pensando che poi, tornati a casa, guarderanno i loro scatti, magari li faranno vedere in riunioni familiari in cui tutti si annoiano: perché quelle foto non hanno alcun senso per chi le esibisce e per chi è costretto a guardarle. Ed è un’abitudine che, secondo me, favorisce la pigrizia mentale e la passività, perché si fotografa credendo di essersi
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impossessati di quello che si è venuti a vedere, e non si capisce niente di quello che si sta guardando. Io abito a Pisa, e quando vedo i turisti che, arrivati nella piazza dei Miracoli, fanno il solito gesto per cui in fotografia sembra che sostengano la Torre, mi chiedo se davvero valesse la pena di affrontare un viaggio lungo e magari dispendioso solo per questo. Non si accorgono della meraviglia che hanno di fronte. Né del fatto che il Duomo include moltissimi pezzi antichi e non sono in grado di emozionarsi, o, per esempio, di apprezzare le meraviglie che si trovano all’interno (il pulpito di Nicola Pisano nel Battistero o quello di Giovanni nel Duomo), oppure di scoprire i problemi anche matematici che i nostri antenati sono riusciti a superare per costruire questi stupendi monumenti. Pensiamo, sempre nel caso di Pisa, alle difficoltà nel trasportare le colonne – molte provengono da monumenti antichi e sono arrivati anche da lontano – alla difficoltà di sollevarle. Non a caso, l’architetto Buscheto, in una lapide, si vanta di essere riuscito a inventare macchinari grazie ai quali, addirittura, sarebbero state sufficienti dieci fanciulle per innalzare questa foresta di colonne. Ecco, penso che occorra tempo per capire; solo cosí si riesce anche ad ammirare e a godere. Mentre per chi ha uno sguardo veloce e consuma quel che sta vedendo, il mondo si fa subito piccolo e, tutto sommato, non sarà possibile ricavare gioie, né emozioni. F
Da leggere U Oltre che nel volume citato (Quale
Francesco? Il messaggio nascosto negli affreschi della Basilica superiore ad Assisi, Einaudi, Torino 2015), Chiara Frugoni ha approfondito gli argomenti toccati nell’intervista in questi lavori: U Una lontana città, sentimenti e immagini nel Medioevo, Einaudi, Torino 1983 (per le regole prospettiche); U L’autocoscienza dell’artista nelle epigrafi del Duomo di Pisa in L’Europa dei secoli XI e XII fra novità e tradizione: sviluppi di una cultura... Atti della decima Settimana Internazionale di studio della Mendola 1986, Vita e Pensiero, Milano 1989; pp. 277-304; U La grammatica dei gesti, qualche riflessione in Comunicare e significare nell’Alto Medioevo. Atti della LII settimana di Spoleto, CISAM, Spoleto 2005; vol. II, pp. 895-936 (per il significato delle immagini secondo Gregorio Magno); U La voce delle immagini. Pillole iconografiche dal Medioevo, Einaudi, Torino 2010 (per il significato dei gesti); U Francesco e le terre dei non cristiani, Edizioni Biblioteca Francescana, Milano 2012 (per il rapporto di Francesco con i musulmani e il significato del gesto dell’esorcismo) aprile
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Tutto in una piazza di Furio Cappelli
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Talora sorte nel luogo degli antichi fori dell’età romana, le piazze costituiscono il cuore delle città comunali. Adornate da architetture insigni, si presentano come veri e propri «manifesti programmatici» delle autorità civili e religiose
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a piazza rappresenta, per definizione, il cuore pulsante di una realtà cittadina. Nei centri medievali, in particolare, la piazza principale (o il gruppo delle piazze principali) costituisce il fulcro e il momento di massima rappresentanza dell’identità storica. La piazza di rilievo, infatti, è collocata al centro dell’impianto urbano o, comunque, alla confluenza tra arterie assai frequentate. Lí prospetta almeno uno dei palazzi dell’autorità cittadina. La cattedrale, con l’annessa residenza vescovile (l’episcopio), può condividere lo spazio pubblico con una o piú residenze civiche, oppure affacciarsi su uno spazio a sé stante.
Cosí marcata dalla presenza di un edificio autorevole, la piazza può essere lo scenario di manifestazioni di interesse comunitario, dall’assemblea pubblica dei cittadini sino ai riti e ai giochi celebrati in occasione delle feste patronali. Se lo spazio pubblico è destinato a tali eventi, l’altra grande funzione della piazza medievale, quella commerciale, si tiene in una o piú aree diverse, poiché un solo spazio risulta spesso insufficiente. Vi sono piazze dedicate al «rito» del mercato settimanale, ma anche piazze (o vie) dedicate ad attività specifiche, che hanno sedi fisse, con laboratori e botteghe alloggiati al pianterreno delle case. aprile
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Veduta aerea del centro storico di Volterra. Al centro, si riconosce la piazza dei Priori (un tempo chiamata Prato), sulla quale si affacciano il Palazzo dei Priori (a sinistra) e il Palazzo Pretorio, con la Torre del Porcellino.
Il sistema di vita e di cultura espresso dalla conformazione della città nasce e si sviluppa coerentemente con l’ideale di pacifica convivenza e di piena condivisione che è alla base della civiltà comunale. Quelle piazze e quelle strade erano spesso luogo di conflittualità, soprattutto per via delle lotte di potere a piú riprese innescate dalle fazioni cittadine. Tuttavia, la violenza degli scontri e la logica crudele della messa al bando, con il sempre piú crescente fenomeno del fuoriuscitismo, non offuscavano mai il senso di appartenenza dei cittadini. Neanche nei momenti piú difficili venivano meno gli ideali di pace e
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di concordia, perché gli stessi monumenti che davano forza e ragion d’essere all’ambiente urbano li ribadivano con energia.
Amore a prova d’esilio
I fuoriusciti potevano provare animosità se non disprezzo nei riguardi dei loro nemici, ma ciò non escludeva il mantenersi di un rapporto pressoché simbiotico con la città in cui si era nati e in cui si era vissuto a lungo. Proverbiale, a tale riguardo, è l’amore dell’esule Dante per la sua Firenze, cosí come memorabili sono i sentimenti che legano alcuni personaggi della Commedia alla loro città di provenienza.
Nel Purgatorio, per esempio, Pia de’ Tolomei asserisce: «Siena mi fe’» (V, 134). Come ha sottolineato lo storico inglese Daniel Waley, in quel modo la donna non vuole soltanto ricordare con enfasi il suo luogo natio, ma afferma di dovere i suoi caratteri e la sua stessa personalità all’ambiente cittadino che l’ha plasmata (l’espressione «mi fece», peraltro, accompagna molte firme di artisti medievali). In altri termini, se Siena fosse conformata in un altro modo, se si trovasse in un’altra dimensione ambientale, se vi si respirasse un’altra aria, Pia de’ Tolomei non sarebbe la stessa persona. Se riprendiamo il filo della nostra narrazione, osserviamo che, per molto tempo, neanche l’avvento dei poteri signorili mise in discussione le logiche e gli equilibri dell’ambiente urbano. Le diverse sedi del potere cittadino rimasero ben salde nei luoghi tradizionali in una realtà precocemente signorile come Verona. D’altro canto, nel cuore della città, presso la piazza del mercato (la piazza delle Erbe) su cui prospettava l’antica sede del Comune (il Broletto), la creazione di uno spazio destinato alle arche monumentali dei signori rappresentava un evento eccezionale, tale da segnare una svolta sempre piú profonda negli equilibri e nell’autorappresentazione della società cittadina. In questo modo, infatti, lo spazio comunitario privilegiava la memoria dei singoli reggitori. Ogni monumento funerario che veniva ad aggiungersi, pur rafforzando il senso della dominazione signorile, non offuscava, ma anzi rafforzava la coesione cittadina, grazie al ruolo stesso dei signori come garanti della pace e della concordia.
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civiltà comunale/5 Piccolo glossario comunale PIAZZA Già in antico il termine latino platea veniva adottato per una componente del contesto urbano, una piazza o una strada ampia. L’utilizzo medievale per designare uno spazio pubblico pavimentato, circondato del tutto o quasi da edifici in muratura, è documentato a partire dal XIII secolo.
Modena. Veduta della piazza Grande, sulla piazza si affacciano, a sinistra, il Duomo e, a destra, il Palazzo Comunale.
Vero è, d’altra parte, che si era innescato un processo di inesorabile rafforzamento del potere scaligero, che finí con il costituire una presenza, un’entità «distaccata» rispetto al cuore comunitario dell’antica città. Proprio nelle arche si può vedere come l’atteggiamento cortese del sorridente Cangrande I (1311-1329) evolva verso tutta un’altra direzione nel ritratto plumbeo di Mastino II (1329-1351). Protagonista mordace di una fase storica piuttosto contrastata, il secondo si mostra infatti rinserrato nella propria armatura, impassibile, senza alcuna empatia con l’osservatore.
Come una dinastia regale
Di pari passo, la famiglia relegò progressivamente in secondo piano la residenza avita nel cuore della città per rappresentarsi degnamente nel palazzo fortificato di Castelvecchio (1355), sul circuito delle mura urbane. Si crea cosí un polo di potere
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familiare che controlla la città da una posizione periferica, per tutelarsi da ogni possibile tumulto. Quando la signoria evolve verso tali forme di «autodifesa», si è evidentemente maturata una situazione di contrasto o di difficile convivenza tra le esigenze di mantenimento
delle prerogative familiari e il perpetuarsi delle consuetudini della vita comunitaria. Quella degli Scaligeri è ormai una famiglia regnante, che vive nella propria lussuosa corte. Tornando indietro nel tempo, all’epoca dell’avvento dei Comuni, la costruzione di spicco che garantisce forza e visibilità all’intera cittadinanza è la cattedrale. In quella fase storica non esiste palazzo civico o nobiliare che possa gareggiare con la principale chiesa cittadina, sia per dimensioni che per cura di ogni aspetto costruttivo e decorativo.
Signori del Mediterraneo
Ben documentata ed eloquente è la storia del Duomo di Pisa (10641118), testimoniata in prima battuta dalle numerose e dettagliate epigrafi incastonate nella sua facciata. Emerge, innanzitutto, il nesso potente tra l’attività commerciale oltreché predatoria dei Pisani su un ampio settore del Mediterraneo, a
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danno degli stessi presídi musulmani che si trovano disseminati un po’ ovunque, nelle isole Baleari, in Sicilia e sulle coste africane, senza pensare al ruolo «contenitivo» dei Pisani a difesa della Sardegna e della Corsica. Attraverso la sua chiesa, dunque, la città toscana – già prezioso avamposto marittimo dell’antico marchesato della Tuscia – esprime mirabilmente un ruolo propulsivo e affermativo nell’interesse dell’intera cristianità, contribuendo con il suo esempio allo stesso formarsi dell’idea della crociata. La nuova, trionfale costruzione rifulge di marmi antichi, e con la sua struttura a cinque navate chiama in causa i grandi prototipi della Roma paleocristiana; viene realizzata sul luogo della costruzione precedente, in prossimità delle mura. In tal modo si concretizza l’idea di un complesso monumentale, comprensivo di un battistero, che (segue a p. 53)
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Dalla Toscana
In alto Volterra. La facciata del Palazzo dei Priori, la cui costruzione venne ultimata nel 1254. Nella pagina accanto, in alto Massa Marittima. Una veduta della piazza principale, dominata dal Palazzo comunale, dalla caratteristica architettura fortificata, completato nel 1344.
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Molte illustri città toscane si affiancano a Firenze e a Siena nelle scelte urbanistiche e architettoniche, ciascuna esprimendo un proprio carattere inconfondibile, e talvolta agendo in netto anticipo rispetto ai due capoluoghi piú celebri. La presenza di due edifici ben distinti rimarca spesso l’autonomia e l’intraprendenza della magistratura popolare. A Pistoia, le due residenze comunali si fronteggiano nella stessa piazza del Duomo. Il Palazzo Pretorio mostra il carattere fortificato tipico dei palazzi civici toscani, mentre il Palazzo degli Anziani (oggi del Comune), con il suo aspetto elegante e il suo portico di pianterreno, ingentilisce il modello
all’Umbria
piú «rude» diffuso in regione, accogliendo l’idea di base del broletto padano: un palazzo con fronte porticata e con il piano nobiliare aperto da finestre ampie e rifinite. A Volterra il Prato (cosí era definito in origine lo spazio della piazza dei Priori) si distingue, invece, dalla retrostante piazza del Duomo. Anche qui c’è una contrapposizione tra le due residenze civiche. Al blocco compatto del Palazzo del Podestà (oggi dei Priori), il piú antico palazzo civico della Toscana (concluso nel 1254), risponde l’ampia quinta del Palazzo del Capitano del Popolo (oggi Pretorio), che è il risultato di una lunga vicenda di accorpamenti di residenze nobiliari
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pregresse, secondo un modo di procedere ricorrente nella genesi dei palazzi delle magistrature comunali in Toscana, come nel ricordato Palazzo degli Anziani della stessa Pisa. Un robusto portico di pianterreno conferisce slancio e leggerezza all’insieme. Nel caso di Massa Marittima, invece, entrambi i palazzi si trovano nella stessa piazza su cui campeggia la cattedrale di S. Cerbone. Risultato finale di una vicenda di accorpamenti e di fasi costruttive distinte, il Palazzo comunale trova la sua definizione complessiva nel 1344, presentandosi sotto l’aspetto di una struttura fortificata, rinserrata tra due torri e coronata da una merlatura (che è un’aggiunta arbitraria del XIX secolo). Proprio di fianco alla cattedrale, il Palazzo del Podestà (oggi Pretorio), forse in corso d’opera nel 1231, si mostra con un’impaginazione piú rigorosa e omogenea. Vi ritroviamo alcuni aspetti tipici dei palazzi civici toscani, come la grande profusione di stemmi o il severo paramento in pietra (travertino, in questo caso), punteggiato in modo ritmico dalle buche pontaie: gli spazi in cui la muratura si interrompe potevano essere utilizzati per alloggiare i travetti mobili delle impalcature di legno, in caso di lavori di restauro oppure in caso di feste o cerimonie, per poter allestire palchi comunicanti con le finestre, o per guarnire la facciata con drappi e festoni. Sembra che la facciata stessa presentasse in alto una merlatura ghibellina (a coda di rondine) e che la scalinata avesse in origine un’elegante conformazione semicircolare, in modo da stabilire un efficace dialogo con la solenne gradinata del duomo. Passando al versante umbro, un caso assai particolare è costituito da Assisi, caratterizzata dalla dialettica pressoché unica che lí si stabilisce tra la città murata (la città vera è propria, imperniata sulla piazza del comune e sul vicino duomo di S. Rufino) e la città-santuario, vale a dire il grande complesso della basilica e del Sacro convento di S. Francesco. Il polo extramuraneo del Poverello, cosí come,
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Qui sopra Volterra. Le eleganti finestre a bifora che punteggiano la facciata del Palazzo Pretorio (in origine Palazzo del Podestà), innalzato sulla piazza principale, dirimpetto al Palazzo dei Priori.
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civiltà comunale/5 A sinistra Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Superiore. La Torre del Popolo, fra il Palazzo comunale e il tempio di Minerva, cosí come appare nell’Omaggio di un uomo semplice, scena appartenente al ciclo delle Storie francescane di Giotto. 1290-1295. In basso Assisi. L’aspetto odierno delle architetture riprodotte nell’affresco giottesco.
tale che le sue finestre sembrano incastonate in una lamina di materia preziosa). Lo stesso tempio, pertinente al Foro della città antica, è ben noto oggi come chiesa con la sua dedica quattrocentesca a S. Maria sopra Minerva, che fa da pendant all’omonima chiesa romana. Ma quel tempio rientra ancor piú nella storia del Comune assisiate, poiché lí esso trovò la prima sede. Infatti, dopo un primo periodo in cui era stato adibito a chiesa, l’antico edificio divenne un mercato coperto. In seguito, i monaci di S. Benedetto al Subasio che ne detenevano la giurisdizione, lo concessero ai consoli di Assisi (1212). E lí risiedette il comune finché, alla fine del Duecento, non venne realizzato l’apposito palazzo proprio di fianco al pronao (il portico) dell’edificio templare. Sul lato opposto della piazza, nel secolo successivo, si aggiunse poi il Palazzo dei Priori.
in altra misura, il polo intramuraneo della basilica di S. Chiara, sono corredati da piazze comodamente accessibili, in funzione dei folti gruppi di pellegrini che da secoli vengono a omaggiare le tombe dei due illustri assisiati. Il Comune era coinvolto in prima battuta negli interventi di creazione, manutenzione e potenziamento di questi spazi e dei relativi servizi di accoglienza. L’istituzione comunale, d’altronde, è chiaramente omaggiata nel ciclo francescano della Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco, dal momento che il primo riquadro delle Storie (ultimo tuttavia in ordine di esecuzione) ritrae proprio il palazzo comunale con la torre civica di fianco al tempio di Minerva: è il fondale dell’Omaggio di un uomo semplice. Al pittore non interessava la resa puntuale, fotografica degli edifici che siamo abituati a pretendere da una narrazione di eventi contemporanei. Le strutture vengono cosí reinventate, come se fossero «microarchitetture» di grande eleganza e di effetto tattile: suppellettili (il tempio sembra quasi un tabernacolo) oppure oggetti di oreficeria (il palazzo è di una raffinatezza
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In alto Bevagna (Perugia). Una veduta di piazza Silvestri con, al centro, il Palazzo omonimo, e, a destra, la chiesa di S. Silvestro. A destra il portale istoriato della chiesa bevanate di S. Michele Arcangelo.
Nello scenario raccolto e al tempo stesso vigoroso di Bevagna, la piazza si qualifica come una somma di effetti e di valori che compongono, nell’arco di ottant’anni circa, una sintesi superba. Le costruzioni si dispongono su un perimetro irregolare privilegiando i principali punti di vista, cosí da creare una quinta teatrale inconfondibile lungo la direttrice del corso principale, sull’asse dell’antica via Flaminia. Su uno dei varchi si colloca il convento dei Domenicani, mentre il Palazzo dei Consoli si confronta con due chiese di alto pregio. Proprio di fianco alla residenza si profila S. Silvestro e, sul lato opposto, campeggia la collegiata di S. Michele Arcangelo, con uno scenografico portale istoriato. Alcune preziose memorie epigrafiche ci tramandano il nome del maestro Binello, artefice di S. Silvestro (1195) e di seguito coimpresario della collegiata in collaborazione con il
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Gubbio. Veduta del Palazzo dei Consoli (a sinistra) e del Palazzo Pretorio, prospicienti la piazza Grande, spazio che venne appositamente concepito come un terrazzo sopraelevato in funzione dei due edifici pubblici.
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maestro Rodolfo. Il palazzo comunale (1270) è sfornito di simili attestazioni, ma può essere agevolmente attribuito al maestro Prode. Questi, infatti, ha realizzato il palazzo in tutto simile che si osserva, ampiamente rimaneggiato, nella vicina città di Spello. Sopra a un robusto portico ad archi ogivali, si sviluppa un doppio ordine di bifore che sfilano in perfetta simmetria. Impressionante è il largo impiego di risorse e di progetti coordinati nella rinascita di Perugia promossa dal Comune popolare (vedi «Medioevo» n. 228, gennaio 2016), ma si può parlare di un ambizioso piano regolatore anche nel caso di Gubbio, sia pure in epoca piú tarda. Qui, infatti, a partire dal 1332, non solo si pone mano a due nuove residenze civiche in sequenza immediata, ma esse si inseriscono
in un contesto espressamente realizzato, sulla base di un progetto approvato nel 1321. Per creare la piazza su cui i due edifici prospettano, detta Grande, si costruisce un ampio terrazzo sopraelevato. Sia la piazza che il Palazzo dei Consoli, completato nel 1349, sono sostenuti da un poderoso sistema di archi di sostruzione che marca il paesaggio urbano, asserendo il ruolo rinnovatore e preponderante del popolo. Perfettamente studiata risulta la relazione visiva con la piazza del Duomo (che era anche l’antica piazza del Comune, ultimata nel 1203), collocata piú in alto. Il Palazzo del Podestà (oggi Pretorio) viene intrapreso appena si conclude l’altra residenza civica, ma, nel 1350, i lavori vengono bruscamente interrotti, proprio in coincidenza con l’affermazione in città del potere signorile dei Gabrielli.
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Da leggere U Enrico Guidoni, Piazza, in Enciclopedia dell’Arte
Medievale, Fondazione Treccani, Roma 1998, anche on line su treccani.it U Alberto Grohmann, La città medievale, Laterza, Roma-Bari 2003 U François Menant, L’Italia dei comuni (1100-1350), Viella, Roma 2011 U Franco Franceschi, Ilaria Taddei, Le città italiane nel Medioevo. XII-XIV secolo, Il Mulino, Bologna 2012
si staglia in uno spazio a sé stante (ben piú tardi chiamato Campo dei Miracoli) esclusivamente destinato alle cerimonie religiose. Il legame con il vivo del tessuto urbano è stabilito dalla torre campanaria, che funge anche da osservatorio privilegiato sulla chiesa e sull’intero paesaggio urbano. La simbiosi tra la città e il complesso episcopale si compie quindi in modo lampante sin dalla posa della prima pietra, ed è evidente come l’impresa coinvolga tutti i cittadini sin dal primo momento.
Un «lodo» per le torri
Come abbiamo ricordato, Pisa vanta la piú antica testimonianza del consolato nella storia comunale (1081-85), ma è una chiesa, dunque, a rappresentarla in tutta la sua gamma di componenti e di ambizioni. D’altronde, lo stesso vescovo svolse un ruolo prezioso di garante della pace cittadina in un momento di contrasti piuttosto tumultuosi, quando supervisionò la stesura di un accordo super partes per regolamentare l’altezza delle torri gentilizie (il «lodo delle torri», 1088-1092). Il Comune trova una sua prima sede per le assemblee nella chiesa di S. Sisto in Cortevecchia, costruita nel cuore della città per celebrare la vittoria riportata sui Saraceni nel 1087. Il Palazzo del Podestà sorse poi non lontano da lí, nella piazzetta di Sant’Ambrogio al Castelletto, dopodiché gli uffici si trasferirono nel nuovo Palazzo degli Anziani
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Miniature tratte dalla Relatio de innovatione ecclesia Santi Geminiani: raffigurano Matilde di Canossa che incontra il vescovo di Modena (in alto) e che quindi assiste alla ricognizione del corpo di san Geminiano. XII sec. Modena, Museo del Duomo.
(oggi sede della Scuola Normale Superiore, in piazza dei Cavalieri). Si creò cosí una netta separazione tra gli spazi della rappresentanza civica e la realtà celebrativa del Duomo. Una delle preziose miniature duecentesche che illustrano una relatio sulla ricostruzione del Duomo di Modena ribadisce l’importanza della cattedrale nello scenario urbano sin dalla prima fase dei comuni. Infatti, quando il vescovo si appresta a traslare le reliquie del patrono san Geminiano dalla vecchia chiesa a quella in corso di costruzione (1106), le due principali componenti della società cittadina sono vivacemente rappresentate, a sottolineare il coinvolgimento dei Modenesi in un’impresa che andava ben al di là della sfera prettamente religiosa. In basso, infatti,
tra i custodes monumenti (gli addetti alla protezione del sepolcro, rigorosamente armati) vediamo al centro sei milites, protetti dall’elmo, e, ai lati, due gruppi di sei pedites, con la sola cotta di maglia. È la stessa bipartizione tra cavalleria e popolo che si evidenzia nella lunetta di S. Zeno a Verona, con il medesimo criterio di ripartizione numerica: a un cavaliere (piú importante) corrispondono due fanti. Nel caso di Modena, le magistrature civiche eleggono la loro sede nella piazza che si sviluppa lungo la parete meridionale del Duomo, ossia nel punto baricentrico dell’impianto urbano, in parallelo all’asse dell’antica via Emilia. F
NEL PROSSIMO NUMERO ● Artigianato e mercatura
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Ildegarda voce di Dio
di Renata Salvarani
Avviata dalla famiglia allo sposalizio con Cristo, la celebre mistica tedesca visse come un’umile monaca. Eppure, ben presto, si impose come una delle figure piú carismatiche del suo tempo. Quali erano, dunque, le «armi» di una donna vista da molti come una santa e al tempo stesso capace di incutere rispetto e timore? Ritratto di Ildegarda di Bingen, particolare di un’illustrazione del Codice lucchese 1942 (per l’immagine intera, vedi a p. 62).
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vvolta nell’abito nero delle Benedettine e da un manto color porpora, il capo coperto, una donna siede su un alto scranno; aperto davanti a lei, su un leggio, un codice. Volta una pagina, mentre tiene alzato uno stilo, levando lo sguardo verso una grande mano che svolge un rotolo. Cosí è raffigurata Ildegarda di Bingen in una delle pagine del Codice lucchese 1942 (foto nella pagina accanto), che contiene il Liber divinarum operum, uno dei suoi testi teologici piú diffusi (vedi box alle pp. 62-63). Un’opera che, insieme a centinaia di lettere, ha contribuito a renderla una delle donne piú conosciute dell’Europa medievale, una vera e propria guida a cui non esitarono a rivolgersi sovrani, papi, vescovi, abati e un numero imprecisato di contadini e popolani, pellegrini, ammalati, penitenti, in gran parte donne.
Un esempio ancora attuale
Come ha potuto una monaca debole di salute e che a malapena sapeva scrivere in latino avere un seguito larghissimo in tutta Europa? E che, pur restando fra le mura di un chiostro, riuscí a imporsi come leader rispetto alla società del suo tempo e farsi esempio anche per le generazioni successive, fino ai giorni nostri? La sua vicenda biografica è solo apparentemente paradossale. Essa dimostra che spazi liberi di conoscenza e di auctoritas non erano preclusi alle donne. Anzi, il loro apporto alla mistica e alla teologia poteva essere dirompente e creativo. Ma quali erano questi margini in una società considerata prevalentemente maschile? A quali condizioni è stato possibile utilizzarli per aprire prospettive innovative di trasmissione del sapere e di azione nel mondo? Le sue opere, nelle biblioteche e negli scriptoria monastici, furono copiate per secoli, vennero riconosciute
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Illustrazione ispirata da una delle visioni di Ildegarda di Bingen, nella quale, dentro un enorme circolo di fuoco, aria e acque che avvolge la terra, compare il ciclo delle stagioni,
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dall’edizione del Liber divinorum operum nota come Codice lucchese 1942. XIII sec. Lucca, Biblioteca Statale. Nell’angolo in basso, a sinistra, è raffigurata la stessa Ildegarda.
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essere leader nel medioevo/4 GLI ANNI DI ILDEGARDA 1098 Ildegarda nasce a Bermersheim vor der Höhe da una famiglia aristocratica. 1106 Entra nel monastero di Disibodenberg, offerta dai genitori. 1112-1115 Prende i voti. 1136 Comincia a manifestare le sue visioni e a metterle per iscritto. 1147 Papa Eugenio III legge alcuni suoi testi nel sinodo dei vescovi a Treviri. 1141-1150 Scrive lo Scivias. 1150 Lascia Disibodenberg e fonda il monastero femminile di Rupertsberg, presso Bingen. 1159-1164 Scrive il Liber vitae meritorum. 1165 Fonda il monastero di Eibingen. 1159-1170 Compie quattro viaggi pastorali attraverso la Germania. 1164-1170 Scrive il Liber divinorum operum. 1179 Muore a Bingen am Rhein. 1324 Viene beatificata. 2012 Viene santificata e proclamata dottore della Chiesa.
come aperture verso orizzonti sapienziali nuovi e profondi. Intorno a lei si creò una rete di personalità che le scrivevano per chiedere consigli, indirizzi di vita, illuminazioni su situazioni irrisolvibili e azioni politiche. A loro poteva dare ciò che conosceva e ciò che vedeva in profondità, per questo attirava gli altri a sé, come un magnete, fermo e nascosto dentro le mura di un monastero, ma tanto forte da far muovere chi stava all’esterno. L’origine della sua leadership particolarissima sta nella sua stessa condizione di vita, nell’educazione che Il monastero di Rupertsberg, cosí come si presentava ai primi del XVII sec., poco prima della distruzione, avvenuta nel 1632, durante la Guerra dei Trent’anni.
l’ha plasmata e nella determinazione con cui ha voluto fare dono di sé nella sua lunga esistenza. Sappiamo che i suoi genitori la diedero, quando aveva otto anni, lei che era l’ultima di dieci bambini, al monastero di Disibodenberg, nel quale viveva, seguendo la Regola di san Benedetto, una comunità maschile affiancata, in edifici separati, da un gruppo di monache (vedi box alle pp. 58-59). Venne affidata a Jutta di Sponheim, una giovane aristocratica che lí si era ritirata e viveva da reclusa. In un rapporto intimo e personale di filiazione, fatto di silenzi, di gesti quotidiani e di ore scandite dalla preghiera, le insegnò a leggere e a imparare a memoria i testi delle scritture.
Leggere l’interiorità
Fra spazi angusti e chiostri da cui si apriva uno scorcio di cielo e si sentivano le salmodie dei monaci nel coro, le trasmise il potere di leggere l’interiorità. Soprattutto, riuscí a suscitare e far sviluppare la sua capacità di percepire i segni del mondo sensibile: la luce e le variazioni delle ombre, i suoni piú deboli, il caldo e il freddo, i profumi delle piante dei chiostri, le variazioni piú impercettibili nel corpo e nell’ambiente intorno. Le parole della Salvezza risuonavano in quell’interiorità che da loro si alimentava, nella crescita di una personalità fondata sull’apertura mistica all’essenza delle cose minime, in una prospettiva metafisica e teologica. Le capacità di
Rilievo ligneo policromo originariamente appartenente all’altare di Ildegarda nella Rochuskapelle di Bingen, che mostra la santa, bambina, accompagnata dai familiari nel monastero di Disibodenberg. Opera di Jakob Busch, 1898. Bingen, Historisches Museum.
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essere leader nel medioevo/4 monasteri doppi
Una coabitazione problematica Nell’Europa medievale non erano rari i monasteri che affiancavano, in spazi separati, due comunità distinte, una maschile e una femminile. La loro origine risale ai primi secoli del cristianesimo, quando era frequente la scelta di componenti della stessa famiglia, di entrambi i sessi, di condurre vita ritirata. Le stesse regole monastiche furono dapprima pensate per gli uomini e solo in un secondo tempo si arrivò a una codificazione di comportamenti nata espressamente in ambito femminile. I monasteri doppi sono stati, in molti casi, una soluzione adottata in situazioni
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intermedie o in contesti in cui una conduzione femminile di una comunità autonoma non era considerata possibile. Tale coabitazione separata è però sempre stata considerata problematica e, perlopiú, privava le monache di qualsiasi libertà di decisione, sia in merito alla gestione, sia all’articolazione della preghiera e della vita spirituale: già il Concilio di Nicea del 787 ne aveva sconsigliato la formazione. Nel 1136, quindi, il secondo Concilio Lateranense scoraggiò palesemente nuove fondazioni e favorí la separazione di quelli esistenti.
La scelta di Ildegarda di creare un suo cenobio indipendente, all’esterno dello spazio e della tutela di Disibodenberg, rientra in un piú ampio processo di sviluppo del monachesimo femminile, impegnato intorno a grandi figure a riconoscere la propria specificità e il proprio ruolo insostituibile all’interno della societas cristiana. Dopo la seconda metà del XII secolo, i monasteri doppi si fecero sempre piú rari, pur non mancando nuove fondazioni anche nel tardo Medioevo. In Italia, il piú noto è il monastero del Paradiso, presso Firenze, che rientra nell’ambito legato a Brigida di Svezia.
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percezione e immaginazione della piccola Ildegarda dovettero svilupparsi articolandosi in forme di creatività ed espressione creativa nel pensiero, in una comunione del tutto particolare con la realtà. Consapevole di questa sua dimensione e dell’autenticità di ciò che «vedeva con l’anima», negli anni – dopo avere pronunciato i voti tra il 1112 e il 1115 davanti al vescovo Ottone di Bamberga –, assimilò le vastissime conoscenze dell’enciclopedismo medievale, studiò i testi di Dionigi l’Areopagita, dei Padri della Chiesa, e di Agostino in particolare. Sapeva bene quanto sarebbe stato difficile comunicare il suo sapere, era consapevole anche che la ricchezza travolgente della sua esperienza mistica sarebbe rimasta chiusa nel suo intimo essere. Eppure sentiva l’imperativo di raccontare, l’emergere di una missione riservata a lei e solamente a lei. La sua leadership emerse già in questo primo scontro fra il sé – quel mondo interiore che le si era rivelato e che si apriva in modo cosí unico alle realtà teologiche – e il mondo degli uomini, i loro linguaggi, i loro rapporti di forza, le loro costruzioni culturali sedimentate in vincoli sociali.
Nuovi linguaggi simbolici
In alto i resti del monastero di Disibodenberg, sorto alla confluenza dei fiumi Nahe e Glan, nella regione del Reno. Ildegarda fu affidata alla locale comunità benedettina nel 1106, quando aveva appena otto anni. A sinistra plastico ricostruttivo del monastero di Disibodenberg.
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Soltanto dopo il 1136, quando aveva quasi quarant’anni, decise di palesare i contenuti delle sue visioni, annunciandole come verità di valore generale e cercando di renderle comunicabili. La affiancò Volmar, un monaco molto piú giovane, che le fece da segretario per molti anni. Iniziò a mettere per iscritto quello che vedeva, realizzando una sorta di traduzione, che comunicava l’esperienza mistica, rendendola comprensibile e trasmissibile. Al contempo si introduceva, cosí, un cambiamento nelle modalità della conoscenza, si stravolgevano i codici della comunicazione, si aprivano spazi a linguaggi simbolici nuovi, che inglobavano al loro interno il patrimonio immaginifico delle Scritture, esplicitandone relazioni, sfumature, novità prima inespresse. Sulla pagina scritta, alla parola uní la grafica: le descrizioni furono affiancate a miniature, coloratissime e complesse, grandi schemi filosofici e teologici costruiti per immagini e simboli, in una sintassi che, da individuale, divenne gradualmente patrimonio comune della cultura monastica e delle élite cristiane europee. Tutto rinviava all’unità del cosmo, unità dell’essere umano, unità della conoscenza e della creatività, in un rapporto diretto e continuo con Dio, che, nella creazione e nel percorso della Salvezza, attraverso Gesú Cristo, accoglie l’umanità nella sua eternità. Nulla si poneva in contrasto con la Rivelazione, né con gli insegnamenti della Chiesa: un papa, Eugenio III, lesse alcuni dei testi di Ildegarda durante un sinodo, riunito a Treviri nel 1147. Eppure la voce della badessa renana riuscí a farsi ascoltare solo attraverso vicende tribolate: fu capace di aggiungere il proprio timbro unico alla polifonia della
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essere leader nel medioevo/4 Ildegarda e Bernardo
Un rapporto speciale Tra il 1146 e il 1147, in una lettera appassionata e drammatica, Ildegarda confidò a Bernardo di Chiaravalle la sua capacità di leggere la realtà per visioni e gliela affidava, rimettendo a lui la decisione se manifestare o meno ciò che le veniva rivelato. Raccontò di una di queste manifestazioni interiori, che riguardava lui stesso, al quale chiedeva di guidarla nel manifestare l’inesprimibile di cui era depositaria: «Ti vidi come un uomo che guarda nel sole e non ha paura, ma è ben audace». «Io misera, e piú che mai misera perché sono una donna, dalla mia infanzia vidi grandi meraviglie che la mia lingua non poté esprimere, se non per quanto mi ha insegnato lo Spirito di Dio, come credo – affermava. Conosco infatti l’intelligenza interiore di ciò che è esposto nel Salterio, nel Vangelo e negli altri testi delle scritture che mi viene mostrata da questa visione, che intacca il mio petto e la mia anima come una fiamma ardente, insegnandomi a comprendere in profondità. Tuttavia non mi fa vedere lettere in lingua teutonica, che non conosco bene, ma soltanto so leggere in modo semplice. E proprio su questo rispondimi, su ciò che poi ti sembrerà opportuno, poiché sono priva di qualsiasi insegnamento che ha a che fare con la materia esterna, ma sono dotta
dentro la mia anima. Per questo parlo quasi sempre dubitando». Gli disse poi che si sarebbe sentita sicura solo con la sua guida; aveva manifestato le sue capacità solo a un monaco, il quale aveva scrutato la sua anima in una conversazione che aveva esaminato la sua vita. Lui l’aveva confermata nella certezza che le cose che vedeva erano grandiose e temibili (magna et timenda). Non aveva parlato con nessun altro, «poiché fra gli uomini ci sono molte divisioni e scismi», che
teologia e della mistica medievale per contrasto, grazie allo scontro con monaci, abati, vescovi. Nonostante l’esemplarità della sua vita fosse stata riconosciuta in modo unanime già dai contemporanei, fu beatificata solo nel 1324 e soltanto nel 2012 papa Benedetto XVI le ha riconosciuto la dignità di dottore della Chiesa, insieme con la canonizzazione. Quando ancora non sapeva come esercitare il pro-
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Miniatura raffigurante Ildegarda che, aiutata da Volmar, redige le sue opere (immagine intera alla pagina accanto).
lei evidentemente temeva. La risposta di Bernardo è estremamente concisa, ma aperta all’incoraggiamento e al riconoscimento del carisma di Ildegarda. La esorta all’umiltà e aggiunge: «Per il resto, dove c’è erudizione interiore e l’elezione a insegnare su tutte le cose, noi che cosa possiamo insegnare o ammonire?».
prio carisma al di fuori degli spazi claustrali, chiese e ottenne di incontrare Bernardo di Chiaravalle, che in quegli anni, forte dell’appoggio del papa, stava ingaggiando una lotta aperta contro le eresie e i movimenti ereticali (vedi box in questa pagina). Ildegarda non smise di vivere a Disibodenberg. Continuò anche a sottostare all’autorità dell’abate, Kuno, dal quale ottenne il permesso di scrivere. La sua prima opera strutturata, lo Sciaprile
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vias (Conosci le vie), mirabilmente arricchita da miniature composte sotto la sua direzione, dovette essere sottoposta a una commissione nominata da papa Eugenio III, per istigazione dell’arcivescovo Enrico di Magonza, che aveva avanzato pesanti riserve. Proprio la lotta dialettica, insieme con l’approvazione pontificia finale, fecero sí che la sua fama crescesse ben oltre la Renania, cosí come il numero di persone che a lei si rivolgevano e la raggiungevano per parlarle. Forte di queste manifestazioni, che confermavano come le sue parole e i suoi scritti rispondessero a esigenze autentiche dell’umanità dolente e dubbiosa del suo tempo, trovò modo di esprimere la forza della sua guida fondando una sua comunità, soltanto femminile, a Rupertsberg. La scelta, anch’essa esplicitata in una visione, non fu facile, tantomeno lo fu la sua realizzazione. Vi si oppose con forza l’abate di Disibodenberg; non l’agevolò l’arcivescovo di Magonza, che pure, infine, nel 1152, consacrò la nuova chiesa abbaziale. La seguí solo un gruppo di monache, che condivisero le fatiche e le ristrettezze di una nuova costruzione, e trovò protezione nella rete femminile dell’aristocrazia locale. Continuò a riconoscere il ruolo di un prevosto, che presiedesse le liturgie, amministrasse i sacramenti e si occupasse della cura delle anime delle consorelle, ma, dopo lunghe contrapposizioni, ottenne di sceglierlo personalmente fra i monaci del cenobio da cui si era staccata.
La cerchia dei fedelissimi
La nuova clausura divenne presto un centro di studio, ma anche di cura delle malattie e di assistenza per chi aveva bisogno sia di aiuto materiale, sia di consigli, preghiere, benedizioni. In un’epoca di violenze, soprusi e caos, a Ildegarda e alla sua comunità si chiedevano la guarigione, la riconciliazione, parole di chiarezza e di verità, capaci di riportare il Vangelo della Salvezza dentro una realtà di vita che ai piú appariva incomprensibile, ostile, irrimediabilmente lontana da Dio. Creò una cerchia di persone fedeli (familiarissimi), dentro e fuori il monastero, a partire dalla rete familiare aristocratica a cui apparteneva e a cui fece sempre riferimento, aggiungendo lei stessa prestigio ai suoi numerosi parenti. Ebbe diversi segretari e aiutanti, a partire dal già ricordato Volmar, che volle come prevosto della sua abbazia, e da Richardis di Stade, la giovane novizia a cui fu piú legata, che le diede un grande dolore quando lasciò la comunità. Si aggiunsero Ludwig, abate di Sankt Eucharius, suo nipote Wescelin, Goffredo di Disibodenberg, il fratello di lui Ugone di Tholey. Il loro compito principale era la scrittura in latino di quanto Ildegarda vedeva e comprendeva, di cui non avrebbero dovuto modificare nulla, in quanto non si trattava di creazioni soggettive, bensí di un’opera dello Spirito Santo, che le affidava parole divine. Tanto che, alla fine del
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Un’altra illustrazione dal Codice lucchese 1942. XIII sec. Lucca, Biblioteca Statale. Un angelo ha la meglio sul demonio (in alto) e Ildegarda intenta alla redazione delle sue opere, con l’aiuto del monaco Volmar.
Libro delle opere divine, lei stessa mette in guardia chiunque dall’aggiungere o modificare alcunché: con una vera e propria minatio, afferma che una tale azione non sarebbe stata perdonata né in questa vita, né nell’aldilà. Le visioni (che sosteneva di ricevere senza mai perdere i sensi), infatti, non erano un prodotto della conoscenza umana, ma piuttosto, una forma di rivelazione che non apparteneva nemmeno a lei stessa, ma che Ildegarda
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essere leader nel medioevo/4 le opere teologiche
Pensieri e parole Le visioni di Ildegarda rivivono la storia della Salvezza con un linguaggio intrecciato di simboli e immagini. Nella sua opera piú nota, lo Scivias (Conosci le vie), riassume in trentacinque visioni gli eventi principali di quel percorso, dalla creazione del mondo alla fine dei tempi. Con i tratti della sensibilità femminile, nella sezione centrale sviluppa il tema del matrimonio mistico tra Dio e l’umanità realizzato nell’Incarnazione. Altri due scritti riportano le sue visioni mistiche: il Liber vitae meritorum (Libro dei meriti della
A sinistra illustrazione raffigurante l’uomo al centro delle influenze cosmiche dell’universo, tratta anch’essa dal Codice Lucchese 1942. XIII sec. Lucca, Biblioteca Statale. Ancora una volta, nell’angolo in basso, è ritratta Ildegarda di Bingen.
spiegare pubblicamente le scritture, con una vera predicazione. Sempre in base alla superiorità della coscienza individuale rispetto a qualsiasi vincolo gerarchico e in base al legame imperituro fra Dio e ogni singolo essere umano, arrivò ad asserire il suo diritto di far seppellire in terra consacrata, dentro il suo monastero, il corpo di un nobile scomunicato, che si era pentito in fin di vita. avrebbe dovuto trasmettere fedelmente, spossessandosi del proprio io. Nella sua irriducibile unicità, il magistero di Ildegarda fa parte di un piú generale orientamento della sensibilità del suo tempo: l’emergere della coscienza individuale come ambito libero e inviolabile. Tale dimensione è costitutiva dell’antropologia cristiana ed è evidente nei Padri della Chiesa, e in alcuni testi di Agostino in particolare. Tuttavia si rileva come acquisizione generale delle élite religiose e intellettuali proprio dopo il Mille. Nel nome dell’intimità inalienabile della coscienza, la monaca di Disibodenberg può rivendicare l’unicità del dono di leggere dentro le cose che ha ricevuto direttamente da Dio, può decidere di rivelarlo solo in segreto a un sacerdote, poi può scegliersi come garante Bernardo di Chiaravalle, uno dei teologi piú raffinati dell’epoca. Sulla base di un imperativo interiore, che nessuno ha il diritto di sondare fino in fondo, inizia la sua personale «crociata» pubblica per affermare ciò in cui crede o, meglio, per ciò che Dio vuole per lei, per la Chiesa e per l’umanità intera. Ancora, pretende e ottiene di
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La testimonianza del Barbarossa
Le centinaia di lettere giunte fino a noi sono solo una parte delle tracce del suo immane sforzo teso a offrire agli altri la sua dimensione mistica. Chi si rivolgeva a lei non le chiedeva solo pareri e consigli, ma profezie. Federico Barbarossa scrisse che ciò che Ildegarda aveva predetto in sua presenza era «ora davanti ai nostri occhi»; Giovanni di Salisbury attesta che papa Eugenio III voleva consultarla perché ciò che lei aveva previsto sul suo pontificato si era sempre realizzato. E chi è un leader, se non colui che prefigura il futuro e indica la strada da seguire? Infatti, quando risponde, Ildegarda gioca piú ruoli: è la voce di Dio che ammonisce con severità l’umanità e la Chiesa, imponendo a pontefici e vescovi di combattere le ingiustizie e la corruzione; è un’intermediaria con il Trascendente, che riconduce su una strada di autenticità e penitenza chi ha commesso massacri e rapine; è una mediatrice saggia e conciliante, che ricompone controversie scoppiate nei monasteri; è una curatrice di mali spirituali e corporali. Sempre si rifà alla sorgente divina della saaprile
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Pagina miniata da un’edizione dello Scivias compresa nei Codices Salemitani. Fine del XII-primo ventennio del XIII sec. Heidelberg, Universitätsbibliothek.
vita) e il Liber divinorum operum (Libro delle opere divine). Nel primo viene descritta un’unica e poderosa visione di Dio che vivifica il cosmo con la sua forza e la sua luce. Ildegarda sottolinea la profonda relazione tra l’uomo e Dio. Lo scritto è incentrato sulla relazione tra virtú e vizi, per cui l’essere umano deve affrontare quotidianamente la sfida dei vizi, che lo allontanano nel cammino verso Dio e le virtú, che lo favoriscono. L’invito è ad allontanarsi dal male per entrare in una vita «tutta di gioia». Nella seconda opera, da molti considerata il suo capolavoro,
descrive ancora la creazione nel suo rapporto con Dio e la centralità dell’uomo. Di grande valore sono le 308 questioni sottoposte alla badessa di Bingen dai monaci di Villers, le cui risposte formano il trattato Solutiones triginta octo questionum, secondo la forma delle quaestiones, propria del pensiero teologico sviluppato negli studia delle città. Le domande vertono sull’ordine e sull’essenza della Creazione, sul rapporto che lega Dio agli uomini, sui concetti di corpo, anima, uomo e angelo.
pienza e ai testi delle Scritture. Sempre, infine, esorta i suoi interlocutori a convertirsi e a mutare i loro comportamenti, rinviandoli alla medesima origine e fine: il compimento della Rivelazione e della Salvezza cristiana, alla fine dei tempi. In due occasioni non esitò a condannare e minacciare di castighi divini Federico Barbarossa, colpevole di avere appoggiato un antipapa, spezzando l’unità e l’armonia dell’umanità, sottoposta a una sola auctoritas superiore, quella del successore di Pietro.
Una forza nata dalle privazioni
In che cosa consisteva l’autorevolezza di Ildegarda? Certamente i legami familiari e sociali, le protezioni che si era assicurata nel tempo, i ruoli ecclesiastici ricoperti dai monaci che le erano stati piú vicini e da alcuni giovani parenti contribuirono a farne una delle donne piú potenti del suo tempo. La sua forza, però, non era questa. Le veniva riconosciuto che aveva sempre vissuto con una tale esiguità di mezzi, in una semplicità cosí estrema che difficilmente qualcuno avrebbe potuto toglierle qualcosa: avendo la capacità di privarsi di tutto, non temeva minacce, né limitazioni economiche imposte alla sua comunità. Le stesse battaglie teologiche e giuridiche che avevano segnato la sua vita, l’avevano rafforzata agli occhi dei piú, forse anche ai suoi. Tuttavia, l’incisività della sua leadership emerge tutta sul piano della conoscenza, nella capacità di leggere dentro l’essenza del creato, di comprendere la posizione dell’essere umano nella sua relazione con l’Infinito, con il mondo, con i simili, con il corpo. A questo cercavano
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di attingere i suoi contemporanei, per questo la seguivano e guardavano a lei come a un modello, un punto fermo a cui aggrapparsi per non essere travolti dalle vicende di una società dilaniata da contrapposizioni e cambiamenti. La sua capacità di farsi guida si manifestò platealmente tra il 1159 e il 1170, quando, nonostante le malattie e la debolezza fisica, affrontò quattro lunghi viaggi, durante i quali predicò pubblicamente a Colonia, Treviri, Liegi, Magonza, Metz e Würzburg. Sembra che non portasse il velo e che abbia spiegato le scritture nelle cattedrali. Goffredo di Disibodenberg, nella Vita sanctae Hildegardae, parla di lei durante questi sermoni come di una persona ispirata, che agiva non a titolo personale, ma obbediva a un comando, rendendosi «rigida come un legno», spossessandosi quasi della sua femminilità e presentandosi, agli occhi dei piú, quasi come un uomo speciale, lei che nelle lettere e nel prologo allo Scivias si riferiva a se stessa come homo, espressione dell’essere umano nella sua totalità. In questo modo, grazie a tale eccezionalità, riuscí probabilmente a superare il divieto di predicazione imposto alle donne e a esercitare il suo carisma profetico. Ildegarda sostenne sempre la necessità della fedeltà al papa, dell’unità della Chiesa e della lotta agli errori dottrinali che alimentavano le eresie, in particolare quella dei catari renani, che, in nome di una purezza che contrapponevano alla corruzione del clero, puntavano ad affermare un sistema gerarchico alternativo a quello romano cattolico. F
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gente di bottega/3
Uno speziale di periferia
di Barbara Conti ed Emanuela Porta Casucci
Issogne (Aosta), Castello. La bottega dello speziale, raffigurata nel ciclo affrescato dedicato alle attivitĂ artigiane attribuito al pittore Colin, a volte citato come Magister Collinus. Fine del XV sec.
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ra il 22 aprile e il 10 maggio 1427 gli Ufficiali dei Pupilli di Firenze sono chiamati ad assumere la tutela di tre minori coinvolti nella successione di uno speziale fiorentino, Niccolò di Giovanni Nelli, abitante nella parrocchia di S. Frediano, nel Quartiere di Santo Spirito (o Oltrarno), sulla sponda sinistra dell’Arno. Ammalatosi e deceduto fra gli inizi e la fine del mese di aprile, l’uomo lascia un notevole patrimonio di case fra città e campagna: l’abitazione – dotata di sale arredate con cassoni dipinti, salotti con lo stemma familiare, molte camere per la famiglia e la servitú, una cucina assai attrezzata, con la propria bottega al pian terreno per exercitium spezierie et partim di stoviglie – e due proprietà nelle campagne vicine, con una villa padronale e case da lavoratore, campi coltivati, canalizzazioni, forno e una grande tinaia.
Un padre previdente
L’inventario dei beni presenti nella spezieria del fiorentino Niccolò di Giovanni Nelli è una testimonianza preziosa delle attività svolte da questo genere di imprese. Veri e propri empori, capaci di fornire prodotti destinati a una gamma vastissima di attività: dalla cosmesi alle... onoranze funebri! MEDIOEVO
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I minori sono due fanciulle, Caterina ed Elisabetta, e il figlio naturale Giovanni, fra i 14 e i 18 anni, rimasti con la madre, e ai quali si pone il problema dell’esercizio familiare da sistemare: un carico di cui il defunto si era preoccupato nel testamento, affidando appunto i propri beni e i propri cari al Magistrato dei Pupilli. Rapidamente inventariati i beni in campagna, gli Ufficiali si dedicano al complesso ambiente cittadino e, dopo aver passato in rassegna gli arredi e il corredo dell’abitazione, rivolgono la loro attenzione alla spezieria sottostante, situata in mezzo agli esercizi commerciali di un beccaio e un pizzicagnolo, presumibilmente nel tratto di borgo San Frediano piú vicino al Ponte alla Carraia, dove, dal XIV secolo, si erano sviluppati abitazioni e negozi. All’esterno, presso l’ingresso della bottega, com’era d’uso all’epoca, si estendeva sulla strada una mostra per l’esposizione delle merci – un’antenata della moderna vetri-
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gente di bottega/3 La famiglia Nelli
Passione per la cultura Già dal 1350 ci sono notizie di un Francesco Nelli nei registri delle matricole dell’Arte dei Medici e Speziali, dove risulta eletto console: sebbene l’iscrizione non prevedesse l’effettivo svolgimento della professione, ma fosse un mezzo per accedere alle cariche nelle istituzioni cittadine, ci si iscriveva prevalentemente all’arte esercitata, anche se, appoggiandosi all’attività di qualche altro membro della propria famiglia, si poteva optare per quella ritenuta politicamente piú utile. Alla metà del XIV secolo, un altro Nelli, ser Francesco, notaio, fu amico e corrispondente di Giovanni Boccaccio e del letterato poeta incoronato Zanobi da Stradai. Forse lo speziale Niccolò di Giovanni Nelli, deceduto nel 1427 e titolare di una tomba di famiglia nella chiesa di S. Maria del Carmine dove già erano sepolti il padre e la madre, era figlio del notaio che, nel 1360, fu fra i testimoni alla stipula di una pace privata per rompere una faida fra potenti famiglie in contrasto. Che Niccolò appartenesse a un milieu colto lo dimostra anche la presenza nella camera coniugale di un libro di Cento Novelle in bambagina di lettera corsiva, contornato d’assi. Si tratta di una copia manoscritta del Novellino, una raccolta di 85 novelle antiche risalente alla fine del Duecento, qui trascritta in scrittura mercantesca su fogli di carta di fibra tessile. Sono narrazioni toscane di autore/i ignoto, ispirate ai miti classici e alla tradizione provenzale, scritte in latino, che sarebbero state volgarizzate per la prima edizione a stampa nota, uscita a Bologna nel 1527, con il titolo Le Cento Novelle Antiche. Stando alla titolazione riportata dagli Ufficiali, l’inventario dello speziale, invece, retrodaterebbe di almeno un secolo la diffusione della raccolta in volgare. La frequentazione dell’ambiente colto di Oltrarno è indicata anche dalla scelta dello na –, costituita da un muricciolo o da panche allineate lungo la facciata: quella antistante la spezieria di Niccolò Nelli era piuttosto ampia, fornita di una stanga di braccia 12 (6 m circa) da porre le cose fuori, ombreggiata da 1 vela vecchia da porre fuori, con la seduta coperta da 1 tappeto di braccia 2 ½ da tenere fuori in su la pancha della bottegha. Una presentazione di tutto rispetto per una bottega che appare
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Frontespizio di un’edizione a stampa del Novellino o Libro di novelle, et di bel parlar gentile, realizzata a Firenze nel 1572, dalla Stamperia dei Giunti.
speziale di scegliere come apprendista di bottega un giovane della famiglia Strada. Si tratta dello stesso Nuccio di Luca da Strada della parrocchia di San Frediano che, nel 1427, fu accanto al proprio maestro ammalato in qualità di testimone testamentario, insieme al medico mastro Leonardo di mastro Agnolo, probabile detentore della medicheria interna alla bottega dello speziale.
dall’inventario molto ampia e caratterizzata da piú attività: oltre ai consueti compiti legati alla preparazione e vendita di medicamenti officinali, spezie e prodotti dolciari, sapone e profumi, vi si fabbricavano anche candele e torcieri per i riti funebri, si vendevano stoviglie da mensa e materiali per l’edilizia e vi si effettuavano le visite di un medico esterno. Un’impresa piuttosto articolata, anche se non una spezieria di
prima scelta: le sostanze base della farmacopea registrate in bottega sono poco piú di 116 sulle oltre 700 riconosciute dall’Arte dei Medici e Speziali fiorentina, e di queste 88 sono Semplici (55 di origine vegetale, 10 animale e 23 minerale), mentre 28 sono invece Composti, oltre a un numero imprecisato di prodotti pronti come impiastri, elettuari, sciroppi e pillole di varia natura e miscelazione. aprile
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La bottega, dunque, offre una scelta ristretta rispetto a quanto disponibile presso analoghe rivendite del centro storico. Ciò è forse dovuto alla posizione in una zona di periferia, fortemente caratterizzata dalla presenza di operai del ciclo della produzione laniera, della tintura di stoffe e della conciatura di pellami, nonché da un diffuso lavoro domiciliare di filatura e tessitura. La spezieria di San Frediano era altresí facilmente raggiungibile lungo la via Pisana dalle vicine località fuori le mura, dove una comunità popolosa viveva di agricoltura e allevamento: una rivendita fornita di prodotti di primo soccorso per incidenti di lavoro, medicine per animali, materiale edile, mangimi e sementa da orto, suppellettili e vasellame ordinario costituiva perciò una risorsa preziosa.
Mobili e scaffali
(recipienti in terracotta invetriata usati per contenere il vino), oltre a strumenti per tagliare e alle stadere controllate, che loro stessi utilizzano per pesare meticolosamente tutte le sostanze di bottega, riportandone nell’inventario quantità e valutazione.
Scorte ridotte di minerali e cosmetici
L’elenco presenta 9 ripartizioni, forse corrispondenti ad altrettante scansie nella bottega, da cui si evince che lo speziale Nelli disponeva in prevalenza di Semplici, perlopiú destinati, come già accennato, a preparazioni digestive, diuretiche e lassative, con una scorta ridotta di minerali e ancor meno prodotti cosmetici. Le 120 libbre (40 kg circa; 1 libbra= 330 gr) di semi non ancora trattati – cioè né pestati, né amalgamati con altri elementi – costituivano la maggiore riserva di materia prima,
se si escludono le 665 libbre di acqua di piú ragioni (oltre 220 l). Fra le materie in quantità significative gli Ufficiali riscontrano 232 libbre (76 kg) di cedri al miele e 110 (36 kg) di cedro tritato e sciolto nel miele, 224 libbre (74 kg) di miele allungato al cinnamomo e 112 (36 kg) di miele sfuso in vasetti di terracotta, 128 (42 l) di acqua di rose, 90 libbre (29 kg) di scorza d’arancia fra a pezzi e tritatta nel miele allungato, 165 libbre (54 kg) di rape, in parte al miele e in parte triturate con zucca e scorza d’arancia. La bottega disponeva invece di quantità assai ridotte di alcune sostanze molto costose dal punto di vista daziario, forse troppo raffinate per la clientela locale, mentre la profumeria si limita a preparazioni su basi di lavanda e giaggiolo, e la cosmesi a terracotta e biacca per il trucco del viso, sostanze dentifricie e saponi pronti.
L’inventario di bottega introduce al primo locale interno della spezieria, arredato con mobili in noce per la conservazione delle materie prime e con banchi per la vendita. Gli Ufficiali dei Pupilli descrivono 1 armario di noce in bottegha di 45 chassette, 1 descho in bottegha di noce e 1 palchetto con assi intorno di braccia 10 dinanzi, 1 armarietto di noce in sul detto descho con cinque chassette da spezie e 1 chassetta da danari, 1 descho di noce da scrivere ivi al descho per contare danari e 1 palchetto di sotto al detto descho. Alle pareti sono sistemate scaffalature regholate, dipinte e non dipinte, di braccia 132 in circa – quasi 8 m lineari di superficie –, sulle quali trovavano sistemazione i vasi destinati a contenere materie prime e prodotti: accompagnati da uno speziale in qualità di consulente, gli Ufficiali li fanno svuotare del loro contenuto e contano 24 bocce, 65 fiaschi, 210 albarelli, 51 orcioli, una trentina di ampolle e altrettanti barili, scatole, bossoli, vasi e mezzine Formella di Andrea Pisano raffigurante la Medicina. 1334-1336. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.
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gente di bottega/3 norme e prescrizioni
Un’attività rigorosamente regolata Le sostanze ammesse dall’Arte dei Medici e Speziali si dividevano in Semplici e Composti: 411 i primi, prevalentemente di origine vegetale, e 309 i composti che, alla fine del XV secolo, furono ufficializzati in un Ricettario fiorentino, pubblicato in 3 tomi a Firenze, che costituí il primo tentativo di regolamentazione e controllo nella produzione di ricette farmaceutiche. Divenne obbligatorio per le spezierie averne una copia in bottega e seguirne scrupolosamente le prescrizioni: il 3° tomo, Compendium aromatarii era completamente dedicato ai laboratori farmaceutici e disponeva le regole di utilizzo e conservazione delle materie prime terapeutiche e la dislocazione degli ambienti di produzione e stoccaggio, specie nelle spezierie. Particolare attenzione fu posta ai tempi di conservazione: di ogni spezia, droga o erba, fresca o seccata, si indicavano la durata conservativa e le modalità di corretta conservazione. Lo zafferano, per esempio, poteva essere conservato in sacchetti di pelle sigillati in locali a clima temperato per non piú di 10 anni, ma la conservabilità media delle sostanze andava dai 2 ai 5 anni. Tra i Semplici erano annoverati anche l’acqua e le acque trattate (il Nelli ne possiede d’argento, da occhi, di gromma con effetto collante, di Persia, di fegatella, di grana o cocciniglia rossa per la tintura delle stoffe color porpora e di rosa), la cera, il miele (che il Nelli possiede cotto Fra le merci costose troviamo 10 libbre (3 kg) di noce moscata (di uso alimentare e medico, daziata a poco meno di 2 soldi a libbra), 4 libbre (1,3 kg) d’incenso solido, 2 libbre (650 gr) di zafferano nostrale (daziato a 4 soldi a libbra), mentre altre sono presenti in quantità minima; mezza oncia (15 gr) di storace armeno (si tratta del liquido ottenuto dal Liquidambar orientalis, pianta che cresce spontanea nell’Asia Minore; veniva usato, per esempio, per la cura della scabbia e di altre malattie della pelle) e altrettanta di zafferano confezionato in cartocci, mezza di sangue di drago pesto e contraffatto, 1 oncia di foglie di garofano e altrettanto di foglie di noce moscata (daziati entrambi per 2 soldi a libbra). Il piú
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e crudo, al cennamo, al cedro, nostrale, alla rosa e alla violetta utilizzati come base per disciogliervi pietre preziose pestate), l’aceto semplice di vino e aromatizzato al cedro e lo zucchero (a una, due, tre cotture di cui anche il tipo siciliano, rosso, rosato, alla viola, tritame a due cotture e schiumato), tutti definiti sughi usuali insieme alle sostanze semplici obbligatorie: assenzio (non rilevato), oppio e liquerizia ritenute indispensabili come i collanti piú diffusi, colloidi come la gromma e la colla di pesce.
costoso prodotto reperito è 1 oncia di balsamo al giglio, daziato quasi 1 lira a oncia.
Un emporio ben fornito
La spezieria di Niccolò, dunque, opera soprattutto come emporio per i clienti che volevano acquistare sostanze per insaporire i piatti o curare piccoli malanni: zafferano, cumino, coriandolo, semi per tisane e infusi digestivi e rilassanti – finocchio, camomilla – o per cataplasmi antireumatici o sfiammanti come quelli di lino; pillole di vario tipo; acque e resine profumate, quali incenso e mirra; prodotti da usare a fini cosmetici, quali l’aloe, il sandalo e l’acqua di rose. Fra alimentazione e farmacopea non esisteva una distinzione netta e la maggior parte
In alto miniatura raffigurante lo speziale venditore di canfora, da un’edizione del Tacuinum sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.
dei preparati di farmacia erano destinati a essere assunti per via orale. Sul banco stazionavano 2 ricietari di carta di pechora con assi per la consultazione dello speziale prima di affrontare le preparazioni o le richieste dei clienti, mentre i 22 sacchetti con erbe di piú ragioni erano già pronte per una migliore efficienza del servizio. La seggiola da medicho colla spalliera veniva usata per le visite effettuate da un medico esterno. La seconda stanza nella bottega, detta cucina, è l’aromatario vero e proprio, vale a dire il laboratorio aprile
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in cui si sminuzzavano, maceravano e cuocevano le preparazioni. Vi si trovano mortai e pestelli per polverizzare erbe essiccate o radici che poi, mescolate con grasso come quelli di pollo e di orso reperiti in bottega, diventavano pomate; racchiuse in un’ostia erano pillole da ingerire; con l’aggiunta di sciroppi si trasformavano in impasti densi, chiamati elettuari.
Campane per distillare
L’attrezzatura del laboratorio comprendeva coltelli, 2 ceppi quadri di braccia uno ½ da tagliare erbe, 5 vasi di terra rossi da conserva, stacci da spezie co’ fondi e coperchi, 16 pentole per cuocere e concentrare i medicamenti e numerose campane di piombo di varie dimensioni per i processi di distillazione: poste sopra l’apposita caldaia, permettevano di condensare olii essenziali e principi attivi, raccogliendoli da un beccuccio sul fondo mentre fuoriuscivano.
Alcuni attrezzi sparsi servivano per la lavorazione di candele e torce – dette torchi – sia per l’illuminazione domestica che per cerimonie religiose, processioni e funerali. I lucignoli, in cotone – come prescritto dagli statuti dell’Arte –, venivano tagliati su 2 ceppi da tagliare lucignoli da candele: appesi a bacchette di metallo – i 118 chanuci da candela e i 2 legnetti con piuoli per torchi inventariati dagli Ufficiali – e tuffati in un tino di cera liquefatta, raccoglievano la materia ingrossando poco a poco. Ma vi si poteva anche semplicemente pressare intorno col pugno
la cera rammollita. Subito prima che le candele si raffreddassero del tutto, per renderle cilindriche, si rotolavano su lunghe tavole di legno molto liscio, leggermente bagnate in modo che la cera non aderisse, come i 10 pianatoi di noce di braccia 3 ½ e della piana d’abete e 1 asse suvi in bottega da pianare torchietti di braccia 6 o circha presenti nella bottega dello speziale fiorentino. Il fondo delle candele veniva infine livellato con una lama calda, mentre con un coltello si dava forma alla testa. I cascami della lavorazione, cosí come i mozziconi usati, cera arsiccia di chandele e moccoli, si riusavano dopo averli scaldati e pressati nuovamente in pani di cera vecchia di tritame. Per i torchi, Nelli usava gli stampi inventariati come 2 doccie di legnio da doppieri – sinonimo di torchi –, che andavano unti internamente per non lasciare attaccare la cera, ottenendo cosí due mezzi cilindri che, una volta raffreddati, accoppiava a caldo con il saldatoio da saldare torchi. Gli Statuti vin-
Sulle mensole di una spezieria Recipienti in ceramica del tipo di quelli presenti nella bottega dello speziale Nelli. Da sinistra, in senso orario: vaso da farmacia (manifattura di Montelupo Fiorentino, XVII sec.), orciolo da farmacia (manifattura di Montelupo Fiorentino, 1613); albarello decorato a occhio di pavone (manifattura di Cafaggiolo, XVI sec.)
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gente di bottega/3
Onoranze funebri
L’esposizione del caro estinto Prima di recare la salma in chiesa per la cerimonia religiosa che precedeva la sepoltura, le famiglie medio-alte erano solite tenere il proprio defunto esposto nei locali di casa. Agli speziali era richiesto di provvedere a rendere adeguata la condizione dell’ambiente prescelto rifornendolo di tutto il necessario, a partire dalla bara. Alla metà del XIV secolo la spesa per un funerale assommava a circa 30 fiorini, parte dei quali andava però anche ai sarti, chiamati a confezionare cappe da lutto e gonnelle per i parenti. Gli speziali traevano un certo lucro dalla cera occorrente, utilizzata non tanto nelle esequie, ma per assolvere ai numerosi lasciti pii in forma di candele devozionali accese in perpetuo davanti alle immagini sacre implorate dai defunti e consegnate annualmente ai religiosi destinatari in pacchi di almeno 2 libbre (pari a mezzo chilogrammo circa).
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In alto una cerimonia funebre illustrata in una miniatura dal Breviario Grimani. XV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. Sulle due pagine Figline Valdarno. La farmacia dell’Ospedale Serristori, in una foto scattata tra gli anni Venti e Trenta del Novecento. Istituita agli inizi del XVI sec., conserva numerosi recipienti originali.
colavano la cereria all’apposizione di un proprio marchio depositato e, nel caso dello speziale Nelli, le forme da cera erano lavorate a fiori e leoni. Tutta l’attrezzatura per fabbricare candele, insieme alla presenza in bottega di numerosi drappi di vario colore per le bare, fa intuire che la spezieria curava anche la fornitura di servizi funerari, secondo un uso consueto per gli speziali dell’epoca (vedi box in questa pagina). Un’ulteriore attività praticata da Niccolò era la vendita di sostanze coloranti per i pittori e per i tintori di stoffe: al momento dell’inventario è fornito solo di indaco violetto per la produzione del blu, di cocciniglia per il color porpora e di metalli per la produzione del giallo. Una parte consistente della spezieria, forse una corte retrostante il laboratorio, era adibita a magazziaprile
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no di stoviglie da mensa e laterizi in terracotta: fra le molte voci, si contano 18 paia di teghie da migliacci chol manicho e sanza per la cottura di un tipico dolce fiorentino a base di farina di castagne, pinoli, uva passa e rosmarino, comunemente chiamato anche castagnaccio; 180 mezzi quarti tra azzurro spianato e domaschino, contenitori per liquidi da 125 cl, alcuni dipinti in tinta unita altri con decorazioni ispirate alle ceramiche islamiche – arabeschi alla maniera di Damasco – eseguite con un pigmento blu ottenuto dall’idrossido di cobalto, forse provenienti dalla vicina manifattura di Montelupo, a una ventina di chilometri da Firenze, che, nel XV secolo, riforniva conventi e ospedali cittadini, nonché molte rivendite; 56 mezzi quarti di pentole invetriate, 16 chatini di 1/4 l’uno da Sancta Maria Impruneta, lo-
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calità nei colli del Chianti, ancora oggi famosa per le terrecotte dalla particolare sfumatura di rosso.
Per la cucina e la tavola
Risultano presenti nella bottega alcune chonchucce da Prato, provenienti dalle fornaci di Figline in Val di Bisenzio, attive fin dall’Alto Medioevo, con una produzione di catini e ciotole forgiate a stampo, limitata nei modelli ma molto richiesta, con decorazioni semplici – si potrebbe dire fatte in serie – destinati alle cucine per lavare, salare e macinare; 550 bicchieri pistolesi, prodotti popolari di Pistoia, molto diffusi anche a Firenze. La spezieria è fornita anche di una novantina di fiaschi in vetro per la tavola, ancora oggi in uso, sia vestiti che gnudi, cioè con o senza il tradizionale rivestimento di erba palustre che garantisce isolamento
termico al liquido contenuto e forma la base di appoggio. Ancor piú numerose sono le terrecotte di uso edilizio fabbricate, oltre che a Impruneta, anche a Campi, nella piana fra Firenze e Prato: l’inventario riporta 1600 tegoli, 140 embrici, quasi 1600 doccioni di varie dimensioni e un migliaio di raccordi, definiti braccia di doccie, 60 comignoli, 94 channelline sottile da aquai: il magazzino poteva dunque soddisfare richieste anche ingenti di materiali da vendita, sia al minuto che all’ingrosso, conservati nella chasa dove stanno le panche da morti, in una via adiacente, dove evidentemente Nelli teneva anche l’equipaggiamento per le cerimonie funebri. Il valore finale della bottega viene valutato in circa 650 fiorini per l’ammontare di 1 tonnellata e 315 kg di sostanze e prodotti presenti nella spezieria, nel laboratorio e nei magazzini adiacenti. L’attività viene data in affitto per 5 anni al canone annuo di 40 fiorini al garzone di bottega Nuccio di Luca da Strada di San Frediano, grazie anche alle affettuose parole dello speziale defunto, il quale, dal proprio testamento, pregherà i tutori e i curatori della successione di tenere conto della fedeltà del proprio discepolo e della cura che egli ebbe della sua bottegha e che essi compiaccino di destinare piut[t]osto al detto Nuccio che ad altra qualunque persona della bottegha e traffico della bottegha. F
Da leggere U Raffaele Ciasca, L’Arte dei
Medici e Speziali nella storia e nel commercio fiorentino. Dal sec. XII al XV, Olschki, Firenze 1977 (I ed. 1927); anche on line: https://archive.org/details/ statutidellarted00arteuoft U Regola sanitaria salernitana, traduzione del Regimen sanitatis salernitanum a cura di Bianca Romagnoli Gigliotti, Napoleone Editore, Roma 1972
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Colpo di coda
di Lorenzo Lorenzi
Lento, eppure letale, infido e perciò vizioso, simbolo della maldicenza, ma anche del trasporto passionale: sono solo alcune delle associazioni di cui è stato protagonista, fin dall’antichità, lo scorpione. Creatura che ricorre con notevole frequenza nell’iconografia del Medioevo, epoca durante la quale se ne moltiplicano le allegorie o, spesso, si sceglie di farne il proprio emblema, disegnandolo su scudi e stendardi
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l significato funesto dello scorpione e nel suo legame con l’uomo rappresenta un aspetto fra i piú controversi del simbolismo occidentale antico e moderno. Al giorno d’oggi si vedono in lui la forma di una costellazione e il richiamo alla cultura astrologica, rivelatrice di un futuro: da qui la sua riduzione ad amuleto, orpello o monile. A fronte di questa svilente settorialità interpretativa, appare doveroso il recupero della sua essenza potente; riannodare fili della sua origine significa indagare l’enigma di questa complessa imago horribilis in tutte le sue sfaccettature. Nel Libro di Ezechiele (2-6), si afferma come i nemici del profeta e della parola divina venissero chiamati scorpioni, antagonisti della verità: l’animale è attributo di colui che sfida con la parola il verbo divino, che discute il dogma e che mina la legge dei Profeti. Nella cultura neotestamentaria, la cavalletta, il basilisco, la locusta, lo scorpione,
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Le Puy-en-Velay (Alta Loira, Francia), cattedrale di Notre-Dame, Biblioteca capitolare. Particolare di un’allegoria delle arti liberali affrescata da un autore ignoto alla fine del XV sec. La prima a sinistra, la Logica (affiancata da Aristotele), regge uno scorpione nella mano sinistra e una lucertola nella destra; seguono la Retorica (con al fianco Cicerone) e la Musica (a destra della quale sta Tubal-Cain, fabbro di tradizione biblica).
il rettile, lo scarabeo cosituiscono poi il repertorio satanico in virtú del quale gli animali citati hanno la medesima caratura simbolica (in relazione al Giudizio Universale e alla punizione dei dannati), tanto da essere interscambiabili. Nel Medioevo lo scorpione assurge invece a simbolo dell’eretico, di colui che ha la lingua velenosa, che insinua dubbi e maldicenze, poiché, come la puntura dell’insetto, avvelena la comunità con dispute e apostasie. Alla fine del II secolo d.C., l’apologista cristiano Tertulliano (155 aprile
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immaginario scorpione circa-222 circa), nello Scorpiace, e sulla scia di Ezechiele, associa la sua pericolosità alle sette degli gnostici e dei valentiniani, veicoli del male dialogico nell’anima dei fedeli: da qui la sedimentazione del binomio veleno-parola, verbo divino e disputa speciosa, un concetto destinato ad avere largo seguito nell’iconografia dei secoli XII-XV.
Simbolo dell’eresia
L’ecclesiastico e archeologo Xavier Barbier de Montault (1830-1901) affermò come l’eresia medievale fosse stata sovente visualizzata nelle sembianze di una donna procace, che versa dal corno dell’abbondanza rettili e scorpioni oppure tiene fra le mani un rametto d’albero e uno scorpione; e già nel 1480 il Grant Kalendrier des Bergiers aveva sottolineato come la dialettica speciosa sia pari a un nugolo di pericolosi scorpioni, con la parte apicale della coda a forma di testa di rettile. In un un affresco della cattedrale di Le Puy-en-Velay, nell’Alta Loira, una donna regge nella mano In basso Sant’Ambrogio di Torino, Sacra di S. Michele. Particolare di uno dei rilievi del Portale dello Zodiaco, opera di Nicholaus (scultore e architetto attivo nella prima metà del XII sec.), in cui si riconosce lo Scorpione (primo da destra).
Astrologia
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Nella pagina accanto Chartres, Cattedrale. L’immagine dello scorpione scolpita su uno degli estradossi del portale occidentale. XII sec.
destra una lucertola e nella sinistra uno scorpione: la prima esprime la seduzione del verbo, il secondo la fortezza e l’invulnerabilità del procedimento razionale, del sillogismo e del sofismo. L’associazione dell’animale al femminino richiama l’episodio del peccato originale e la natura di Eva, sinuosa nelle forme e seduttiva con la parola, un’ambiguità che trova nell’ermafrodito scorpionico (essere femminile dalla coda di scorpione) e nella «manticora» (citata da Plinio il Vecchio) – un mostro fantastico costituito da testa umana, corpo di leone e coda di scorpione – particolari maschere di Eva anche in relazione ai vizi della tirannia, della superbia e dell’invidia. Il portale della facciata dell’abbazia benedettina di S. Fede nei pressi di Chivasso (metà del XII secolo), presenta un complesso decorativo a bassorilievo che richiama uno Zodiaco simbolico e
Passione ed erotismo Lo Scorpione è l’ottavo segno zodiacale, governato da Plutone e da Marte. Poiché appartiene alla dimensione dell’acqua e dei fondali marini, i nati tra il 23 ottobre e il 22 novembre (periodo di transito del Sole) presentano un lato introspettivo e un fascino crepuscolare; la loro capacità relazionale risulta spesso caratterizzata da azioni poco logiche, frutto di impulsi estemporanei o di intuizioni singolari. Sul versante sentimentale, consolidata è la tradizione che li vuole estremamente passionali e dominatori; non a caso l’animale è simbolicamente responsabile della vitalità uro-genitale.
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I colori a lui associati sono il rosso rubino e il blu oceano, il primo simboleggia una forte propensione per il furore erotico, il secondo per quello psichico. Si oppone al segno del Toro, che incarna la primavera, le cui caratteristiche sono pazienza e lealtà in amicizia come in amore. In alto L’«uomo anatomico» o «zodiacale», illustrazione allegorica realizzata per il Très Riches Heures du Duc de Berry dai fratelli miniatori Limbourg. 1412-1416 circa. Chantilly, Musée Condé. Lo scorpione è associato all’apparato genitale.
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Nella pagina accanto Elisabetta Gonzaga, olio su tavola di Raffaello. 1504-1505. Firenze, Galleria degli Uffizi. A destra Clusone (Bergamo), Oratorio dei Disciplini. Particolare del Trionfo della Morte affrescato da Giacomo Borlone de Buschis nel 1485. Sul bordo del sepolcro si distingue uno scorpione.
fantastico, in cui lo scorpione è raffigurato nelle fattezze di un grifone, custode e guardiano della fede cristiana, in controtendenza con l’assunto tradizionale. Se ammansito, il grifone scorpionico può essere usato come servo di Cristo che combatte i nemici del bene; similmente, nell’Historia plantarum, Dioscoride (medico greco attivo nel I secolo d.C.) riferisce come l’insetto crudo, tritato (eventualmente anche arrostito), possa essere applicato dove egli punge, scongiurando l’effetto provocato dal suo stesso veleno. Nella chiesa della Sacra di S. Michele, spicca la decorazione scultorea del portale dello Zodiaco (XII secolo) opera di Nicholaus, che riproduce una cosmogonia astrologica dei dodici segni relazionati alle costellazioni. Gli insegnamenti ermetici trasfigurano questo portale alla stregua di porta dell’Ade, oltrepassata dal Sole nel tempo del «verno». L’impianto è tratto da un codice miniato, in possesso un tempo del monastero stesso, scritto dal greco Arato (315-245 a.C.), dal quale si evince che il segno della Bilancia fu inserito per ultimo nel
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sistema astrologico (III secolo a.C.): infatti, nella decorazione suddetta, Scorpione e Bilancia occupano il medesimo spazio.
Una soluzione singolare
Poiché alcuni segni sono rappresentati in maniera inconsueta (per esempio il Cancro rovesciato diventa la testa di vescovo e il capricorno contrassegnato da ali grifoniche), si può ipotizzare un parallelismo con i vizi e le virtú umane, essendo la Bilancia, espressione dell’ordine, collocata fra la Vergine e lo Scorpione (il disequilibrio). Proprio l’integrazione della Bilancia nello Scorpione risulta singolare, soprattutto se rovesciamo l’immagine, che, come accaduto per il Cancro, è somigliante alla testa di vescovo e probabilmente rimanda a Gerberto di Aurillac (poi papa Silvestro II), accusato di praticare la magia. Le immagini che corredano il libro d’ore Les Très Riches Heures du Duc de Berry (1412-16 e metà del secolo) rappresentano la perfezione raggiunta dallo stile del gotico internazionale nel campo della miniatura. L’immagine dell’uomo zodiacale è
la trasposizione visiva della teoria della melothesia, la disciplina medica che sostiene i legami intercorrenti fra i segni dello Zodiaco e il corpo umano. Qui lo scorpione è apposto in corrispondenza dell’apparato genitale ed è responsabile del giusto funzionamento degli organi riproduttivi come del piacere sessuale, essendo governato astrologicamente da Marte e Plutone. In questo paradigma beneaugurante possiamo collocare il singolare ritratto di Elisabetta Gonzaga di Raffaello agli Uffizi (1504-1505): la duchessa di Urbino è ingioiellata in fronte da un monile a forma di scorpione in funzione di talismano. Con tutta probabilità, assolveva al desiderio di maternità, in quel caso impossibile, dal momento che il consorte, il duca Guidobaldo I da Montefeltro, era impotente, senza però escludere un secondario ma esplicito richiamo alla stirpe. Dal 1521, infatti, Luigi Rodomonte Gonzaga, cugino di secondo grado di Elisabetta, aveva adottato l’animale, per le sue proprietà curative dopo l’essiccatura. Piú d’un’opera del Quattrocen-
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A sinistra Andata al Calvario, particolare di una delle scene dell’Armadio degli Argenti, tempera su tavola del Beato Angelico. 1450-1453. Firenze, Museo Nazionale di San Marco. Gli scorpioni fanno qui bella mostra di sé sugli abiti dei soldati, a sottolinearne la colpa morale e la condanna per infamia ed empietà deicida.
to italiano propone la connotazione negativa dello scorpione in relazione alla religione ebraica. È il caso, per esempio, dell’affresco della Crocifissione di Bernardo Luini in S. Maria degli Angeli, a Lugano, o dell’omonima scena nella tavoletta di Giovanni Boccati alla Galleria Nazionale delle Marche di Urbino; in quest’ultima, alcuni soldati ai piedi della croce sorreggono scudi e stendardi che rappresentano scorpioni e che affollano anche la gualdrappa del cavallo posto in primo piano; inoltre, la predominanza del colore giallo esprime il vizio dell’infamia e della pazzia. Funesti scorpioni si impongono in alcune opere di Beato Angelico (per esempio la tavoletta dell’Armadio degli Argenti) e di Francesco
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In alto Crocifissione, tempera su tavola di Giovanni Boccati. 1440-1460. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche.
Fiorentino (quali la scena della Resurrezione, parte della predella della pala di Madonna con bambino e santi del 1494) in S. Agostino a San Gimignano; questi ornano le vesti e le armature dei soldati in maniera vistosa, sottolineandone la colpa morale e la condanna per infamia ed empietà deicida. F
Da leggere U Giuseppe Capriotti, Lo scorpione sul petto, iconografia
antiebraica fra XV e XVI alla periferia dello stato pontificio, Gangemi Editore, Roma 2014 U Jean Chevalier, Alain Gheerbant, Dizionario dei simboli, BUR, Rizzoli, Milano 1999 U Tertulliano, Scorpiace, a cura di Giovanna Azzali Bernardelli, Biblioteca patristica, Edizioni Dehoniane, Bologna 1990
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di Chiara Mercuri
L’Isola della rugiada divina GLI EBREI IN ITALIA
La presenza ebraica in Italia ha radici antichissime, risalenti a prima dell’era cristiana. E, per l’età di Mezzo, sono numerose le testimonianze che ne attestano la vitalità culturale ed economica. Tanto da poter affermare che, a confronto con quanto accadde in Paesi come la Spagna e la Germania, la storia degli Ebrei nella nostra Penisola appare segnata da una maggiore benevolenza nei loro riguardi. Ma da cosa nasce la specificità di questo «caso» italiano? Torino, Sinagoga. Armadio sacro (Aron ha kodesh) che contiene il rotolo della Legge (Torah). Epoca barocca.
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C C’
è stato un tempo in cui «Italia», anzi I Tal Ya, significava, in ebraico, «terra della rugiada divina». Nel XIV secolo, quando su gran parte d’Europa spiravano venti di violenza e persecuzione, l’Italia era ancora considerata un luogo accogliente, nel quale famiglie in fuga dalla Spagna e dalla Germania potevano condurre un’esistenza – seppur separata e precaria – tutto sommato tranquilla. Anche nei momenti piú drammatici, quando si vide minacciata dal fanatismo di sobillatori di varia natura, la vita delle comunità ebraiche dell’Italia medievale non era paragonabile a quella che si conduceva in altre regioni europee. D’altra parte, la presenza ebraica nella Penisola aveva origini antichissime: risaliva addirittura a prima che i Romani, in fase di espansione nel Mediterraneo, conquistassero la Giudea. Ben prima di Augusto e del sorgere dell’impero, gruppi di mercanti e artigiani di fede ebraica avevano preso a insediarsi nei maggiori centri urbani della Penisola e, secondo il costume tollerante e inclusivo della repubblica, cosí com’era stato fatto con altre comunità di immigrati – Siriaci, Egiziani, Greci e altri ancora –, anche alle comunità ebraiche fu consentito di professare la propria religione, nonché di possedere e gestire propri luoghi di culto e istituzioni. Nella città di Roma, dove si stabilí una consistente comunità ebraica, sinagoghe e catacombe rimasero in uso per secoli. Per le autorità romane, l’importante era che gli Ebrei non creassero problemi e non divenissero fonte di disordine; cosa che invece avvenne quando l’impero, nel corso del I secolo d.C., procedette all’occupazione dell’intera Giudea. Qui le rivolte degli Ebrei contro gli occupanti romani erano all’ordiVia Capocciuto, nel ghetto, acquerello di Ettore Roesler Franz. 1880 circa. Roma, Museo di Roma.
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Dossier
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Nella pagina accanto particolare di una miniatura raffigurante un mercante ebreo. Scuola italiana, XV sec. Parma, Biblioteca Palatina.
1597 espulsione di 1000 Ebrei Milano
Centri intellettuali ebraici nel Medioevo
Mantova 1612
Cremona
Comunità ebraiche presenti al tempo dell'impero romano e ancora esistenti nell'anno Mille
Venezia 1515
Soncino
Torino
LA PRESENZA EBRAICA IN ITALIA TRA MEDIOEVO E RINASCIMENTO (1000-1600)
1310 circa la conferenza degli Ebrei d’Italia si riunisce per discutere in che modo aiutare gli Ebrei di Germania a difendersi dalle persecuzioni
Centri d'affari ebraici
Pola
Ferrara 1624
Parma
Altre importanti comunità ebraiche
Genova
Ghetti creati sotto l'influenza del papato e data della loro creazione
Ravenna 1550 espulsione degli Ebrei
Lucca Firenze 1571 Pisa Livorno
Area sulla quale vigeva la legislazione pontificia che limitava i diritti degli Ebrei
Fano na Ancona
MARE ADRIATICO
Foligno R
Roma 1555
MAR TIRRENO
E
G
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Gaeta
1000 un Ebreo è incaricato della riscossione delle imposte e dirige la Zecca
SARDEGNA
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D
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N
A
O Trani L Lavello Bari Capua I Napoli Venosa Salerno Matera Oria Amalfi Taranto
Otranto
Messina Palermo
1391 e 1474 date dei massacri compiuti al tempo della dominazione aragonese; la successiva espulsione, nel 1492, causa la scomparsa di una comunità prosperosa, formata da 40 000 Ebrei
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Brindisi
MAR IONIO
SICILIA
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1541 gli Ebrei vengono espulsi dai territori del regno di Napoli: alcuni si stabiliscono nell’Italia del Nord; altri nei territori dell’impero ottomano
887 per la prima volta nella storia delle comunità ebraiche d’Europa, viene fatto obbligo agli Ebrei di indossare un «marchio di infamia»; la decisione viene presa da Ibrahim, governatore musulmano della Sicilia
ne del giorno, finché non si conclusero con la sanguinosa conquista di Gerusalemme del 70 d.C., culminata nella distruzione del Tempio. Un evento catastrofico per gli Ebrei, che segnò l’inizio della grande diaspora dalla patria d’origine. Oltre a ciò, le comunità dell’Oc-
1268 le persecuzioni determinano la scomparsa totale della comunità ebraica; le sinagoghe vengono trasformate in chiese
cidente furono costrette a fronteggiare il diffondersi, in particolare all’interno della società romana, di una piccola setta, seguace di Cristo, guidata da due uomini di enorme carisma: Pietro e Paolo. Per causa loro, l’atteggiamento delle autorità romane mutò radicalmente e se in
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un primo tempo la reazione colpí solo i cristiani, ben presto provvedimenti restrittivi o repressivi furono estesi agli Ebrei. Nel corso del IV secolo, la cristianizzazione dello Stato romano non mutò di molto la condizione degli Ebrei. Tuttavia, la nuova reli-
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Dossier A sinistra miniature tratte da una Bibbia ebraica portata in Italia da Ebrei espulsi dalla Spagna nel 1492. Arte iberica, XV sec. Imola, Biblioteca Comunale.
gione aveva avuto origine in seno all’ebraismo e si era formata proprio in opposizione a esso, e quindi non mostrava nei suoi confronti l’atteggiamento indifferente, e di fatto tollerante, assunto dal mondo pagano. Occorre però dire che, già nel V secolo, i Padri della Chiesa, Agostino d’Ippona su tutti, stabilirono una linea di contrasto al credo ebraico, ma – di fronte ad alcuni accessi d’intolleranza – anche di comprensione e moderazione. E tale fu, per secoli, l’approccio ufficiale della Chiesa di Roma; un’impostazione formalizzata da una serie di interventi di papa Gregorio Magno (590-608), il quale condannò ogni violenza o tentativo di conversione forzata.
Una realtà sfaccettata
Nello scarno panorama delle fonti storiche sui primi secoli del Medioevo, poche sono le notizie sulle comunità ebraiche italiane. Esse furono probabilmente costrette a vivere una condizione d’isolamento, trasformandosi in collettivi chiusi, che potevano però seguire proprie regole e costumi. La molteplice realtà politica della Penisola, divisa in potentati germanici, bizantini e locali, presentava un’estrema multiformità giuridica, oltre che etnica. Almeno in una prima fase, gli Ebrei incontrarono un atteggiamento oppressivo al tempo della dominazione bizantina, in particolare con Giustiniano, sotto il quale furono emanate leggi discriminatorie e intolleranti. Nel corso delle guerre greco-gotiche (535-553), infatti, alcune comunità si schierarono – talvolta prendendo le armi, come a Napoli – a fianco degli Ostrogoti. In generale, gli Ebrei godettero di un atteggiamento di maggiore tolleranza da parte di Goti e Longo-
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Pagina miniata compresa nel manoscritto commissionato da Moses ben Yekuthiel Hakohen nel 1479 e probabilmente realizzato
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da un laboratorio di Ferrara. L’opera è oggi nota come Rothschild Miscellany. Gerusalemme, The Israel Museum.
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Dossier bardi, piuttosto che presso i Bizantini; questi ultimi, infatti, seguivano la tradizione – risalente al tardo impero romano – dell’assoluta identità tra sfera politica e sfera religiosa. Va comunque sottolineato che i Bizantini adottarono politiche repressive molto piú aspre nei confronti delle eresie cristiane. Le comunità ebraiche in Italia continuarono quindi a esistere, nell’Alto Medioevo, anche nell’Ita-
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lia bizantina; secondo alcune ipotesi storiografiche, della loro vitalità sarebbe prova il fatto che proprio alcune famiglie provenienti dall’Italia si stabilirono – nel corso del IX secolo – nell’area renana, tra Francia e Germania, dando origine alla grande famiglia degli Ebrei ashkenaziti (da Ashkanaz, nome con il quale, nel giudaismo medievale, si identificava appunto la Germania; vedi «Medioevo» n. 196, maggio 2013).
Nella Penisola, le comunità italiane prosperarono soprattutto in Italia meridionale, sotto la dominazione araba e poi normanna; particolarmente numerosi erano gli Ebrei di Sicilia, prima che, tra la fine In basso l’armadio sacro (Aron ha kodesh) originariamente appartenente alla Sinagoga di Urbino. 1500 circa (ridipinto nel 1622-23). New York, The Jewish Museum.
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A destra un’altra immagine della Bibbia ebraica portata in Italia da Ebrei espulsi dalla Spagna nel 1492 e oggi conservata presso la Biblioteca Comunale di Imola.
A sinistra la doppia pagina di apertura di una Bibbia sefardita realizzata a Toledo nel 1277. Parma, Biblioteca Palatina. Vi sono rappresentati l’Arca dell’Alleanza e tutti gli altri oggetti liturgici che facevano parte dell’arredo del Tempio, tra cui la menorah (il candelabro a sette braccia).
del XV e l’inizio del XVI secolo, venissero attuate le espulsioni decretate dai re spagnoli. Secondo alcune ricostruzioni, fino a quel momento la comunità ebraica di Palermo contava ben 5000 persone. Tuttavia, il nucleo piú importante, sotto molti punti di vista, rimase sempre quello di Roma. Per quanto le fonti altomedievali tacciano al riguardo, sappiamo che la comunità capitolina continuò a risiedere nell’Urbe senza
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soluzione di continuità e mantenendo, rispetto al papato e ai poteri cittadini, una condizione marginale, ma di tranquilla coesistenza. Sin dal Mille, ma forse fin dalle origini, essa possedette proprie istituzioni comunitarie riconosciute e fu stabilmente insediata, con propri luoghi di culto, nel rione di Trastevere. Un viaggiatore ebreo del XII secolo proveniente dalla Spagna, Beniamino di Tudela, racconta di
una comunità in buoni rapporti con la corte papale, di circa «duecento famiglie che hanno una onorevole posizione e non pagano alcun tributo».
Una minoranza tollerata
Durante l’Alto Medioevo, l’atteggiamento storico della Chiesa influí in modo profondo sulle politiche degli imperatori del Sacro Romano Impero: gli Ebrei rimasero l’unica minoranza tollerata, i soli a poter condur-
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Dossier re una propria vita religiosa all’interno dei confini di un impero che si voleva monoliticamente cristiano, nel quale i pagani venivano massacrati o convertiti a forza e i musulmani combattuti ciclicamente. Con il progressivo dissolversi dell’unità dell’impero e il sorgere degli Stati nazionali, gli Ebrei, sebbene si trovassero spesso in condizioni giuridiche precarie e fossero oggetto di discriminazione, poterono – giovandosi della protezione imperiale e papale – diffondersi sull’intero continente, stabilendosi in numerose città e aprendo attività commerciali e artigianali. Grazie ai solidi rapporti familiari, alla conoscenza delle lingue, alla consuetudine con viaggi e culture differenti, riuscivano quasi sempre a intrecciare scambi commerciali e legami finanziari; oltre a ciò, essi conservavano sempre – per merito delle istituzioni rabbiniche e degli ordinamenti religiosi comunitari – un livello medio di alfabetizzazione assai piú elevato dei loro concittadini cristiani.
Poiché erano loro vietate molte attività professionali e imposte limitazioni nel possesso della terra e degli immobili, gli Ebrei svilupparono al massimo ciò che veniva loro consentito: numerosi erano i medici, gli intellettuali, gli artigiani e i commercianti. Vi erano nondimeno diversi prestatori di denaro, attività verso la quale erano stati sospinti in quanto il prestito a interesse era stato, in alcune fasi del Medioevo, interdetto ai cristiani. Nonostante tale pratica, col tempo, fosse stata concessa agli stessi cristiani – come dimostra l’esempio dei banchieri italiani in Francia –, in molti Paesi del Nord Europa l’accusa di usura fu imputata ai soli Ebrei.
Le prime persecuzioni
Qui del resto, non appena venne meno – con la fine delle istituzioni medievali – la paternalistica, ma efficace, protezione dei poteri feudali, il sentimento antigiudaico si saldò con le piú violente pulsioni popolari. Odiati, invidiati, percepiti come
stranieri, tacciati di furberia e cinismo, gli Ebrei non furono piú solo discriminati: in vaste regioni della Germania e della Francia settentrionale, ebbero inizio le persecuzioni. L’Italia rimase impermeabile a tutto ciò, almeno per quei secoli. Nel Trecento infatti, mentre le persecuzioni nel resto d’Europa raggiungevano l’acme, essa tornò a essere cantata come la «terra della rugiada divina», sebbene i sovrani angioini di Napoli, intorno al 1292, avessero cacciato dal regno gli Ebrei che rifiutavano la conversione, costretti dunque a fuggire nel Nord d’Italia e nella Sicilia aragonese. In quei decenni, la politica di conversione forzata e di espulsione era comune a molti Stati europei. Intorno al 1290, anche l’Inghilterra aveva fatto altrettanto, nonostante la comunità residente sull’isola fosse esigua e la sua presenza attestata solo dal 1066, a partire cioè dalla conquista normanna; la corona inglese fu mossa dalla prospettiva di requisirne i beni, come fece anche Filippo
Miniature tratte da un pamphlet antisemita sull’usura, redatto a Norimberga nel 1484. Berlino, Deutsches Historisches Museum.
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In alto ordinanza emessa l’8 novembre 1223 da Luigi VIII di Francia (1187-1226) con la quale si stabiliva che, per le somme concesse in prestito, gli Ebrei non avevano diritto a pretendere alcun interesse dai debitori. XIII sec. Parigi, Centre Historique des Archives Nationales.
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IV il Bello in Francia, che ne dispose l’espulsione nel 1306. Mentre procedeva alla reconquista della Penisola dalle mani degli Arabi, la Spagna (terra d’origine di una delle due grandi «famiglie» ebraiche, i sefarditi) iniziò a elaborare la dottrina della «limpidezza di sangue» (vedi «Medioevo» n. 189, ottobre 2012), che fu poi usata come base delle politiche discriminatorie adottate nel Quattrocento, fino alla definitiva espulsione di massa – perfino degli stessi Ebrei convertiti – nel 1492.
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Se tale fu la politica seguita dalle nascenti monarchie nazionali – mosse dal desiderio di rinsaldare l’autorità regia e l’unità del Paese – in Germania, dove risiedeva l’altro grande ramo della famiglia ebraica, quello ashkenazita, incombeva invece, almeno dall’XI secolo, uno spettro diverso e ben piú pericoloso, quello dell’odio popolare e borghese. Qui, come nella Francia meridionale (non sottoposta all’autorità di Parigi e dunque ancora abitata da famiglie ebraiche), alla metà del XIV secolo, prese avvio una stagione
di violenze contro gli Ebrei, accusati, insieme a lebbrosi e mendicanti, di aver diffuso la Peste Nera.
Le radici della «diversità» italiana
Proprio in questa fase, l’Italia evidenziò in modo ancor piú netto la distanza da tali dinamiche. Nonostante la Penisola fosse stata anch’essa gravemente colpita dalla pestilenza, non vi si scatenarono episodi di violenza antisemita. Tale diversa condizione delle comunità ebraiche in Italia non è aprile
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Particolare delle storie del Miracolo dell’ostia profanata raffigurante una donna cristiana che cede un’ostia consacrata a un mercante ebreo, predella dipinta da Paolo Uccello per la pala d’altare con la Comunione degli Apostoli poi realizzata da Giusto di Gand (1473-1474). 1467-1468 circa. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche.
atteggiamento discriminatorio, ma, in ultima analisi, paternalistico e protettivo, pur tollerando che tra i predicatori francescani e domenicani si annidassero alcuni autentici campioni dell’antisemitismo. Il fattore principale però, quello che davvero impedí il verificarsi di manifestazioni persecutorie nell’Italia bassomedievale, è dato dall’importanza che le comunità ebraiche avevano assunto nella vita economica e culturale della Penisola. Lo sviluppo dei commerci fu alla base della crescita politica e sociale delle città e il fenomeno caratterizzò in particolare l’Italia centro-settentrionale, trovando la sua espressione piú alta nel movimento comunale. Ebbene, proprio nel XIV secolo, le città mercantili italiane fecero in modo di attrarre e aiutare i prestatori di denaro ebrei ad aprire banchi all’interno delle proprie mura, con autorizzazioni speciali, chiamate «condotte». Si cercò di potenziare proprio quel tipo di pratica – il prestito a interesse – che altrove era considerata come una delle principali fonti di odio verso gli Ebrei.
Una risorsa preziosa
facilmente spiegabile, ma è possibile individuare alcuni fattori che giocarono un ruolo determinante. Il primo è l’antichità della loro presenza nella Penisola. Il secondo è l’assenza, in Italia, di uno Stato nazionale unitario: ciò evitò che vi fossero monarchi o governanti interessati a promuovere – anche in senso etnico – l’idea dell’omogeneità della popolazione. In terzo luogo, non va sottovalutata la vicinanza della Curia pontificia, che vigilò affinché nei confronti degli Ebrei si mantenesse un
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In Italia, del resto, il prestito di denaro – a tassi di interesse del 10/12 per cento – era largamente praticato dai banchieri cristiani, rinomati in tutta Europa per tale prerogativa. I prestatori ebrei erano però specializzati nel prestito minuto, cioè nell’elargire piccole somme – spesso su pegno – alla popolazione meno abbiente; essi applicavano tassi particolarmente bassi, un po’ per calcolo commerciale, un po’ perché le autorità cittadine potevano permettersi di imporre agli Ebrei tassi ribassati, piú favorevoli per i debitori. Nelle congiunture economiche sfavorevoli, insomma, nelle città italiane che traevano la propria sussistenza dal commercio – soprattutto i Comuni dell’Italia centro-settentrionale –, i prestatori ebrei erano visti come una risorsa preziosa: applicavano
tassi migliori di quelli cristiani e prestavano anche alla povera gente. I prestatori s’insediavano ottenendo alloggi per sé e per i propri dipendenti, nonché spazi nei quali poter praticare i riti religiosi; attorno a tali famiglie si stabilivano spesso altri gruppi di lavoratori ebrei, mercanti e artigiani, professionisti legati alle esigenze specifiche delle comunità, come, per esempio, i macellai, che seguivano le peculiari procedure di macellazione ebraiche. Per tale ragione, piccole comunità si insediarono un po’ ovunque e tornarono anche nel Meridione d’Italia, dove l’intolleranza degli Angioini si era presto dissolta. In altre parole, la presenza degli Ebrei era diffusa in tutta la Penisola e la frequentazione con i cristiani quotidiana, cosí da impedire che prendesse piede, come altrove, l’idea di una comunità marginale, avversa ai cristiani. Inoltre, poiché i loro tassi d’interesse – come abbiamo visto – erano piú bassi di quelli dei cristiani, non era facile agitare qui la propaganda sull’usura. Prova ne è il fatto che, nella Divina Commedia, nel VII cerchio, nel quale vengono puniti gli usurai, non si fa alcun riferimento ai prestatori ebrei, mentre a essere condannati al tormento della pioggia infuocata sono i banchieri fiorentini e padovani, appartenenti alle nobili famiglie dei Gianfigliazzi, degli Obriachi e degli Scrovegni.
Espulsioni temporanee
Ciò non impedí, tuttavia, che, per molti aspetti, gli Ebrei fossero tenuti ai margini della società e che si verificassero – anche nei Comuni italiani – espulsioni temporanee. A tale proposito, si può segnalare un episodio significativo: all’interno della comunità ebraica siciliana non esistevano prestatori di denaro; gli Ebrei dell’isola erano commercianti, artigiani, coltivatori e pescatori. Proprio qui, però, anche se in una (segue a p. 97)
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Dossier Immanuel da Roma
Quando il giudeo Manoello si incontrò con il sommo Dante Immanuel da Roma, ovvero ‘Immanu’el ben Šelomoh, noto anche come Manoello Giudeo, fu traduttore, commentatore biblico, poeta e letterato. Rappresenta bene, attraverso la sua produzione letteraria e la sua vicenda biografica, la profondità e la ramificazione dei rapporti che i letterati ebrei stabilirono con il vitale ambiente artistico dell’Italia del Due-Trecento. Immanuel nacque a Roma, presumibilmente intorno agli anni Settanta del XIII secolo. Il padre, rabbino, apparteneva all’importante famiglia degli Zifroní, nome che ne indica la provenienza da Ceprano, cittadina del Lazio meridionale. Anche la madre, Giusta, apparteneva a una famiglia di antiche origini e di grande cultura. In gioventú, Immanuel si dedicò allo studio della medicina, ma compí anche approfondite ricerche sulla Torah, i cui risvolti si vedranno nell’intensa attività di commentatore dei testi biblici e filosofici. Non si sa con precisione quando e soprattutto perché lasciò Roma, ma sappiamo che visse come precettore privato, spostandosi tra diversi centri dell’Italia centrale caratterizzati da una significativa presenza ebraica: Orvieto, Perugia, Gubbio, Fabriano, Camerino, Ancona e, in ultimo, Fermo. Località nelle quali beneficiò dell’aiuto di banchieri ebrei, vivendo come precettore presso le loro famiglie. A Fermo venne accolto – dal suo ultimo patrono – con le seguenti parole: «Sei il primo tra gli abitanti nel regno di intelligenza e di scienza, e sei stato tra i primi esperti della Torah e della Testimonianza». Da Fermo, Immanuel si recò anche a Verona, presso la corte di Cangrande Della Scala, sotto il cui patronato fiorí uno dei piú illustri cenacoli di artisti e letterati dell’epoca.
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Qui Immanuel compose alcune poesie in volgare che appaiono del tutto in consonanza con l’ambiente letterario dell’epoca. Tra esse il testo piú innovativo è senz’altro il Bisbidis, un componimento assimilabile al genere della frottola. Scritto dopo il 1312 e diviso in 53 quartine di senari, il Bisbidis, prende il titolo dalla quartina nella quale sono riportati, in forma onomatopeica, i discorsi delle donne di corte: «Bisbis bisbidis / Bisbis bisbidis / bisbidis bisbidis / l’udrai consigliare». La corte di Cangrande – con le sue tresche amorose, le dispute tra dotti e i sontuosi banchetti («Tatim tatatim / tatim tatatim / tatim tatatim / sentirai strombettare...») – è rappresentata in uno stile nuovo che fa del Bisbidis una delle piú formidabili e moderne manifestazioni di espressionismo linguistico, tale da suscitare, nel Novecento, l’interesse, tra gli altri, del poeta Edoardo Sanguineti, che vi trasse ispirazione per alcuni suoi lavori. Immanuel riuní l’intera sua produzione nell’opera intitolata Mahberot (Composizioni), un originale contributo allo sviluppo della letteratura ebraica postbiblica. Il testo si articola in 28 capitoli, che vedono alternarsi prosa e versi. I vari componimenti vennero redatti in periodi diversi e raccolti, a Fermo, poco prima della morte. L’origine della raccolta viene narrata dallo stesso Immanuel nell’introduzione all’opera: «Mentre i miei giorni declinavano alla sera e dalla maturità ero passato alla vecchiaia, fui come uccello che dal nido fugga; e a Fermo, nella Marca fui, là dove incontrai cortesi uomini di fede, che nel regno di conoscenza e sapienza dimoravano (…) E dopo il banchetto di Purim
accadde (…) e a dimorare in rigoglioso prato ci radunammo; e lí i nostri libri distendemmo e le nostre anime colse il desiderio di dire soltanto poesie e prose fiorite». L’ascendenza letteraria delle Mahberot va rintracciata nelle maqamat, genere tipico della letteratura araba medievale, mutuato nella letteratura ebraica, in cui si alternavano prosa e poesia in stili diversi. I temi dell’opera di Immanuel sono i piú diversi: elementi autobiografici, riflessioni sullo scorrere ineluttabile del tempo e sull’impotenza di fronte a tale forza divina. L’ultima delle Mahberot narra il viaggio dell’autore nei regni dell’Aldilà, dove, guidato da un Alter-Virgilius, egli osserva le pene a cui vengono sottoposti i dannati. Il rapporto di tali pagine con la Commedia dantesca sembra evidente. Del resto, Immanuel soggiornò presso la corte di Cangrande Della Scala negli stessi anni in cui vi dimorò l’Alighieri, il quale, anche a giudicare dall’influenza di carattere letterario, dovette essere suo amico. Tale frequentazione, rifiutata a lungo dalla critica, in quanto non suffragata da notizie al riguardo, è ormai ritenuta quasi certa. Non solo l’intreccio dell’ultima delle Mahberot tradisce un’innegabile vicinanza coll’opera dell’esule fiorentino, ma il fatto che alla morte dell’Alighieri il letterato e amico Bosone di Gubbio, scriva a Immanuel per consolarlo dell’incommensurabile perdita. In risposta, Immanuel esprime cosí il suo dolore: «Io, che trassi le lagrime dal fondo de l’abisso…». L’attività letteraria di Immanuel si alternò sempre con lo studio dei testi sacri, in quanto egli fu fautore di un tipo di scrittura fortemente allegorica. Per Immanuel, aprile
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la letteratura doveva essere costruita secondo i quattro sensi della Scrittura. Il senso storico (o letterale) doveva cioè essere in grado di produrre altri significati proprio come la Bibbia, che veniva interpretata secondo quattro sensi: letterale, allegorico, morale ed escatologico. Lo stesso Dante
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in una lettera al comune patrono, Cangrande Della Scala, aveva chiarito in cosa dovesse consistere attraverso l’esempio biblico dell’uscita d’Israele dall’Egitto. Secondo il senso morale, tale passo indica l’uomo che cerca il modo di uscire dalla condizione di miseria a cui il peccato conduce.
Piazza delle Azimelle, nel ghetto, acquerello di Ettore Roesler Franz. 1881. Roma, Museo di Roma. La comunità ebraica romana è la piú antica fra quelle insediatesi in Italia e ha avuto tra i suoi membri molti personaggi di notevole rilievo, come nel caso di Immanuel da Roma, poeta, letterato e studioso, che fu anche in rapporti con Dante Alighieri.
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fase assai piú tarda – siamo nella seconda metà del Quattrocento –, in riflesso a quanto stava accadendo in Spagna, vi furono eccidi e persecuzioni, in particolare a Noto e a Modica. Eventi che dimostrano come le pulsioni antigiudaiche non avessero alcun nesso con la presenza o meno dei prestatori di denaro. L’accusa di usura era solo una delle armi ideologiche piú efficaci dei fomentatori antigiudaici, e non una risposta reale – per quanto rozza – a un problema avvertito dalla società cristiana.
Ashkenaziti in fuga
L’altro elemento a cui si accennava è l’impatto dell’ebraismo sulla cultura medievale italiana. Occorre considerare che, sebbene gli Ebrei italiani fossero pochi rispetto a quelli tedeschi o spagnoli, essi furono rinfoltiti da movimenti immigratori di una certa consistenza: cosí, nel Trecento, giunsero in Italia Ebrei ashkenaziti in fuga dalle persecuzioni della Germania e della Svizzera. Tali immigrazioni furono bene accolte, come si è visto, soprattutto nell’Italia comunale
In alto Modica (Ragusa). Case del quartiere Cartellone, un tempo abitato dalla comunità ebraica locale, che era una delle piú numerose di tutta la Sicilia. Nella pagina accanto Trapani. Il Palazzo della Giudecca in una foto scattata fra il 1915 e il 1920. L’edificio, sorto nel XVI sec. per volere della famiglia Ciambra, è cosí denominato perché venne innalzato nell’antico ghetto, dopo che gli Ebrei erano stati espulsi dalla città, per effetto
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dell’editto di Ferdinando il Cattolico (1492). La sua architettura rimanda alla tradizione spagnola. A destra l’armadio sacro (Aron ha kodesh) oggi conservato nella chiesa collegiata del Santissimo Salvatore di Agira (Enna). Realizzato in pietra e perciò per molto tempo considerato come un portale, si trovava in origine nella sinagoga di via Santa Croce, trasformata in oratorio dopo l’espulsione degli Ebrei.
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Dossier centro-settentrionale. Un ulteriore movimento immigratorio – sefardita, dalla Spagna soprattutto e dalla Sicilia – si ebbe verso la fine del Quattrocento. In ogni caso, le comunità ebraiche in Italia mantennero sempre un buon livello di scambio con le altre aree d’insediamento. Per tale ragione l’ebraismo italiano fu influenzato sia dal mondo ashkenazita che da quello sefardita: due «famiglie» che, al di là del comune credo, erano invece molto distanti – e spesso in contrasto – per usi, sensibilità e interessi culturali. Tale varietà di approcci, se da una parte divenne fonte di problematiche diverse, ebbe però il vantaggio di produrre un ambiente culturalmente diversificato e ampio, permettendo a una comunità – esigua dal punto di vista numerico – di generare un forte impatto sulla cultura italiana, soprattutto tra Basso Medioevo e primo Rinascimento. L’ebraismo italiano fu, infatti, il tramite attraverso il quale pervenne al mondo latino l’imponente complesso di elaborazione che la civiltà araba aveva tratto dall’analisi dei testi greci; attraverso studiosi spagnoli e siciliani, Aristotele – ma, piú in generale, tutto il sapere matematico e scientifico antico riscoperto – fu travasato dal mondo arabo ed ebraico al mondo latino, il quale aveva vissuto – durante l’Alto Medioevo – una lunga fase di regressione in questo campo.
Lo studio della Cabala
Allo stesso tempo, proprio in opposizione allo sviluppo di tali studi scientifici, sia tra i sefarditi che tra gli ashkenaziti, prese avvio – o, meglio, si potenziò, dal momento che era sempre esistita – una reazione mistica e antiscientifica, orientata alla salvaguardia di una stretta ortodossia religiosa. Nel mondo ebraico tale componente si espresse sotto forme diverse, anche con il nuovo impulso allo studio della
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l’arte ebraica in italia
Mastri costruttori e virtuosi della pergamena A sinistra Roma. La casa medievale nel rione di Trastevere che si presume fosse stata adibita a sinagoga. Nella pagina accanto miniatura raffigurante il Seder, la cena rituale che apre la festività di Pesach (la Pasqua ebraica) e che prevede l’astinenza da ogni cibo lievitato. Scuola italiana, XV sec. Parma, Biblioteca Palatina. In basso Trani. La Scolanova.
Le limitazioni religiose circa il divieto di raffigurare la divinità e quelle politiche e sociali, che nel Medioevo impedivano la costruzione di sinagoghe dotate di apparati monumentali o facciate vistose, hanno influito sulla produzione architettonica e artistica. Gli inizi dell’età moderna, caratterizzata dai ghetti e delle espulsioni, cancellarono gran parte delle tracce della cultura artistica ebraica medievale; la pressione delle autorità civili cristiane spingeva a realizzare strutture religiose modeste, talvolta quasi temporanee, che spesso – dal Cinquecento in poi – andarono distrutte. Oggi, in Italia, non esistono infatti sinagoghe costruite prima del XVI secolo che siano riuscite a conservare con continuità la loro funzione originaria. Le piú antiche furono riutilizzate e spesso trasformate in chiese. In una casa risalente ai primi del Mille e che tuttora sopravvive nel rione romano di Trastevere, si ritiene di poter riconoscere una delle sinagoghe usate dalla comunità cittadina in età medievale. La sua fondazione viene da alcuni attribuita a Nathan ben Jehiel (1035–1106), famoso studioso del Talmud, appartenente alla famiglia
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romana degli Anav. L’edificio medievale conserva colonne con archi, tra i quali sono ancora presenti simboli ebraici. Un edificio monumentale della fine del XIII secolo presente a Sermoneta, cittadina del Lazio meridionale, ebbe probabilmente la stessa funzione. Nel Meridione d’Italia, dove la popolazione ebraica venne definitivamente espulsa alla metà del XVI secolo, alcune sinagoghe furono riconvertite in chiese cristiane: è il caso, per esempio, della chiesa di S. Caterina Spinacorona a Napoli, e della basilica di Santa Croce a Cagliari. A Trani, in Puglia, sopravvivono due delle quattro sinagoghe che servivano la vasta comunità residente in città: si tratta della trecentesca Scolanova (poi trasformata in chiesa e ora tornata alla sua funzione originaria), che segnala nel nome la radice ebraica, e della chiesa di S. Anna, in origine «Sinagoga Grande», realizzata nel 1247 con volta a cupola a forma esagonale. In Sicilia, dove la comunità era molto numerosa, le sinagoghe avevano aspetto simile a quello delle moschee e, in qualche caso,
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si trattava proprio di luoghi di culto islamici riconsacrati al culto ebraico. A Castroreale, in provincia di Messina, la moschea cittadina fu trasformata in sinagoga (ci resta oggi solo un arco moresco), mentre a Palermo fu l’imperatore stesso, Federico II, a trasformare la moschea in Sinagoga, la Meschita. Anche dal punto di vista artistico, il giudaismo italiano ben riflette la molteplicità delle sue anime (autoctone, sefardite e ashkenazite) nella varietà stilistica e tipologica delle sue notevoli decorazioni. Di particolare rilievo sono i manoscritti religiosi realizzati su committenza a Roma tra il 1280 e il 1330. Le tipologie risultano estremamente raffinate, caratterizzate da motivi antichizzanti, ispirati alle rovine romane, con colonne, capitelli e foglie di acanto, oppure da figure tratte dai bestiari medievali, ricchi di creature mostruose, accentuate dal contrasto di colori squillanti. Lo scriptorium ebraico piú importante fu quello della famiglia romana degli Anav, che realizzò una serie di testi religiosi divenuti celebri, tra cui la Bibbia del vescovo Bedell e il Pentateuco di Parma; quest’ultimo, scritto e miniato da Daniel bar Yoab prima del 1366, presenta una suggestiva pianta del santuario. A Bologna, invece, dalla seconda metà del Trecento, fu attiva una scuola specializzata nella miniatura di testi legislativi giudaici. Di particolare efficacia risultano le rappresentazioni dei soggetti scelti, che comprendono ladri, giudici e persone accusate delle colpe piú svariate, quale la profanazione del sabato. La produzione dei libri miniati in Italia raggiunse la sua massima fioritura, nel corso XVI secolo, a Ferrara, Mantova, Firenze e Napoli.
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Dossier Cabala, ovvero all’approccio mistico nei confronti dei testi sacri. Questo dualismo generatosi nell’alveo del mondo ebraico – la compresenza di avanzati interessi e studi sia nel campo mistico e misterico, che in quello scientifico e matematico – ebbe l’effetto di suscitare, in momenti differenti, il fortissimo interesse di gruppi diversi di intellettuali italiani. Uno sviluppo che accompagnò la nascita del movimento umanistico, destinato di lí a poco a cambiare il panorama culturale, artistico e politico europeo. Sebbene tra gli Ebrei italiani, già dalla fine del X secolo vi fossero stati grandi studiosi, come il pugliese Shabbetai Donnolo «da Oria» (912-982 circa; nell’Alto Medioevo,
la cittadina del Brindisino ospitò una delle piú prestigiose comunità ebraiche dell’Italia meridionale), e poeti, come il romano Shabbethai ben Moses (attivo nel XII secolo), dalla metà del XII secolo – in particolare a Roma – aveva preso piede una corposa tradizione di studi sul Talmud. Va ricordata una vera e propria dinastia di commentatori, e cioè l’antichissima famiglia romana degli Anav – talvolta nota anche con il cognome «Dei Mansi» –, tra cui va annoverata anche l’eminente figura di una donna, Paola. Tale tradizione di studi rimase caratteristica delle comunità romana e italiana in generale, mentre, con il Basso Medioevo, fiorí un reciproco interesse tra la cultura italiana e A sinistra papa Paolo IV (al secolo Gian Pietro Carafa) in una incisione ottocentesca. Salito al soglio pontificio nel 1555, si dedicò quasi solamente alla riforma della Chiesa e alla lotta contro il protestantesimo con particolare durezza, dando nuovo impulso all’Inquisizione. Nella pagina accanto Il ghetto, olio su tela di Michele Cammarano. 1868. Collezione privata.
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quella ebraica nata nella Penisola; all’imperatore Federico II, appassionato amante del mondo arabo ed ebraico, si deve, almeno in parte, la massiccia opera di traduzione di opere scientifiche e filosofiche greche e arabe, promossa proprio grazie a traduttori ebrei. La diffusione dei lavori filosofici di impostazione aristotelica, tra cui quelli del filosofo ebreo spagnolo Mosé Maimonide, ebbe un enorme impatto sulla cultura dell’Italia dell’epoca, giungendo a influenzare le elaborazioni di Tommaso d’Aquino, che divennero la base della svolta aristotelica della Chiesa e la pietra angolare su cui si fondò la rinascita degli studi universitari nella Penisola.
Medici e poeti
Sulla stessa scia, si fecero grandi passi in avanti nella medicina, che divenne una delle branche di maggiore impegno per gli scienziati ebrei; non a caso, gran parte dei medici pontifici provennero per lungo tempo dalle fila dell’ebraismo romano. Vi furono anche figure di confine particolarmente interessanti: studiosi ebrei dei testi sacri che erano allo stesso tempo appassionati letterati e poeti assai liberi, come Immanuel da Roma (vedi box alle pp. 94-95). La nascita dell’Umanesimo vide anche crescere l’interesse verso le civiltà del passato, tra cui quella ebraica. Molti gentili si orientarono verso lo studio della lingua e della cultura ebraica, non solo per approfondire gli studi biblici. Gli umanisti italiani traevano frutto dalla feconda convivenza tra interessi scientifici e fascinazione – non sempre improntata a criteri di razionalità –, verso l’antico; l’eclettismo culturale e il naturalismo erano grandi motori della nuova epoca e su di essi il mondo cabalistico esercitava un’attrazione potentissima. Numerosi uomini di cultura cristiani, tra cui Pico della Mirando(segue a p. 104) aprile
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Venezia, gli Ebrei e l’Europa Una mostra di prossima apertura a Palazzo Ducale di Venezia racconta la storia del Ghetto in occasione del cinquecentenario della sua istituzione Il 29 marzo del 1518 la Serenissima decretò la concentrazione in laguna di circa 700 Ebrei di origine tedesca e italiana, in un’area isolata della città, già sede di una fonderia. Una zona malsana, prossima alle carceri e al convento di S. Girolamo, i cui religiosi avevano l’incarico di seppellire i giustiziati. Nacque cosí il primo ghetto della storia. L’etimologia del nome dato al quartiere, destinato a divenire un triste simbolo di segregazione, continua a dividere gli studiosi: secondo alcuni deriverebbe dal tedesco «gitter» (inferriata), per altri dall’ebraico «get» (divorzio) o, ancora, dal tedesco «gasse» (vicolo). Tuttavia, l’ipotesi piú accreditata fa discendere la parola ghetto dal verbo «getàr», cioè fondere, per la vicinanza, nell’area del
sestiere (quartiere) di Cannaregio, di una fonderia. Quando l’isola del Ghetto Novo venne destinata agli Ebrei, essa era già in parte abitata; gli inquilini furono costretti ad abbandonare le case per far posto ai nuovi venuti e le pigioni furono aumentate di un terzo. Si munirono di cancelli i ponti sul rio di San Girolamo e sul rio del Ghetto, chiusi
Saperi, conoscenze, abitudini La mostra «Venezia, gli Ebrei e l’Europa. 1516-2016)», organizzata in occasione del cinquecentenario dell’istituzione del Ghetto di Venezia, intende descrivere i processi che sono alla base della realizzazione e della nascita del primo «recinto» destinato agli Ebrei creato al mondo, ma, nel contempo, allargare lo sguardo alle relazioni stabilite con il contesto degli altri quartieri ebraici (e non solo) italiani ed europei. Obiettivo dell’iniziativa è quello di mettere in luce la ricchezza dei rapporti tra Ebrei e Venezia, tra Ebrei e società civile nei diversi periodi della lunga storia della loro permanenza in laguna, in area veneta e in area europea e mediterranea. Dipinti, disegni, libri,documenti, ricostruzioni multimediali permetteranno di dar conto di una vicenda di lungo periodo e di relazioni e di scambi culturali. Si propone, infatti, di divulgare tra i molti visitatori che frequentano la città lagunare una maggiore consapevolezza delle diversità culturali esistenti in Europa e della commistione di saperi, conoscenze, abitudini che ne costituiscono il principale patrimonio. Curata da Donatella Calabi, l’esposizione è realizzata in collaborazione con MUVE (Fondazione Musei Civici di Venezia) e con il contributo di Berg Foundation, Delmas Foundation e Fondazione di Venezia.
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Dove e quando «Venezia, gli Ebrei e l’Europa. 1516-2016» Venezia, Palazzo Ducale, Appartamenti del Doge 19 giugno-13 novembre 2016 Catalogo Marsilio aprile
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Nella pagina accanto in alto, veduta aerea del Campo del Ghetto Nuovo e, in basso, l’entrata al Ghetto. A destra particolare della celebre veduta di Venezia (1500) di Jacopo de’ Barbari (1450-1516), con al centro il sestiere di Cannaregio e l’area del futuro Ghetto Nuovo. Venezia, Museo Correr.
di notte e controllati da guardiani pagati dagli stessi Ebrei. Altri guardiani pattugliavano i canali in barca. I primi tempi della residenza coatta definirono con chiarezza lo status della cosiddetta nazione todesca, che, posta sotto il controllo dei magistrati, fu obbligata a gestire i banchi di pegno del ghetto e a pagare un gravoso tributo annuo. La strazzería, il commercio dell’usato, era l’unico mestiere alternativo concesso, se si eccettuano la professione della medicina e il lavoro di pochi fortunati nelle stamperie di libri ebraici. Nel 1541 si decretò la reclusione, nell’area attigua al Ghetto Vecchio, di Ebrei levantini, un gruppo eterogeneo e benestante, composto da mercanti dell’impero ottomano e da altri scampati alla cacciata dalla
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Penisola iberica del 1492. Si ampliò il ghetto, che inglobò orti e poche case. I mercanti portavano con sé abitudini orientali, pregavano «alla turchesca» e indossavano turbanti; le loro donne esibivano vesti fastose e costosi gioielli, in contrasto con le modeste abitudini degli Ebrei tedeschi. Nel 1589, con l’arrivo della cosiddetta nazione ponentina (Ebrei sefarditi e marrani), il ghetto assume la configurazione definitiva, con i banchi di pegno e i negozi di strazzería nel grande campo, le sinagoghe e le case torri e i palazzetti piú eleganti dei levantini. Ogni nazione edificò la propria sinagoga e, malgrado i pesanti condizionamenti fiscali ed economici, la comunità assunse un ruolo sempre piú importante per la Serenissima: il
ghetto era un centro commerciale utile non solo agli Ebrei residenti o stranieri, ma anche agli stessi cristiani che tutte le mattine, all’apertura dei cancelli, si riversavano nelle sue calli. Nella seconda metà del Cinquecento si era formato anche un nucleo di Ebrei «italiani», provenienti dall’Italia centro-meridionale e, soprattutto, da Roma, che costruirono una loro sinagoga, la Scola Italiana, nel campo del Ghetto Novo. Si costituirono cosí, nel Ghetto, varie piccole comunità che presero il nome di Università o Nazione, distinte e autonome una dall’altra: ciascuna aveva ordinamenti diversi e viveva di vita propria, poiché ogni gruppo aveva portato con sé i propri usi e costumi e le proprie tradizioni anche in campo religioso. (red.)
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Dossier Maschere da ebrei, incisione di Francesco Bertelli realizzata per Il carnevale italiano
mascherato. Oue si veggono in Figura Varie Inuentione de Capritii. Venezia, 1642.
la e il cardinale Egidio da Viterbo, nella seconda metà del Quattrocento – quando cioè la situazione per gli Ebrei stava rapidamente peggiorando – svilupparono profondi rapporti di amicizia con studiosi ebrei, facendosi promotori dello studio della letteratura ebraica, che divenne cosí parte fondante della cultura rinascimentale. L’innesto – sia economico che culturale – dell’ebraismo nel piú generale orizzonte italiano fu tuttavia presto brutalmente reciso. L’atteggiamento della Chiesa, tra alti e bassi, aveva iniziato a mutare sin dai primi anni del XIII secolo. Per reagire alle critiche contro la rilassatezza della Chiesa mosse da pauperistici – spesso in odore di eresia – essa si fece sempre meno tollerante. Come era già accaduto, vagheggiare il ritorno della Chiesa alla purezza primigenia condusse a scenari catastrofici.
Prediche infuocate
Mentre l’intreccio tra cultura cristiana ed ebraismo italiano si stava facendo sempre piú stretto, a partire dal Trecento, Francescani e Domenicani iniziarono – anche per sottrarre seguaci ai movimenti pauperistici – a pronunciare prediche infuocate contro gli arricchiti, i non cristiani e la cultura laica e licenziosa. Con il passare dei decenni, la predicazione assunse toni sempre piú popolari, generando veri e propri campioni dell’antisemitismo cattolico, come, per esempio, Bernardino da Feltre. Per accendere gli animi si ricorse all’armamentario ideologico già in uso nel resto d’Europa: gli Ebrei erano deicidi, usurai, bestemmiatori del Cristo e della Madonna. La veemenza della loro oratoria non mancò di irritare gli stessi pontefici, i quali, a partire da Martino V, fecero emanare editti contro i predicatori ostili agli Ebrei. Tuttavia, alla fine, le predica-
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Venezia. Il campo del Ghetto Nuovo. Nel 1516, la comunità ebraica fu costretta a occupare quest’area della città, poiché, trattandosi di una piccola insula collegata da due soli ponti, era una zona facilmente controllabile.
zioni riuscirono a mandare a segno diversi strali: il principale consistette nel promuovere lo sviluppo dei Monti di Pietà, che dal 1462 vennero aperti in tutte le città italiane e funzionavano come banchi di pegno. Ciò restrinse l’attività dei prestatori di denaro ebrei, li rese di fatto inutili e favorí quindi la loro successiva espulsione dalle città. Intanto, tra la fine del XV secolo e la metà del XVI, nel Sud d’Italia, le comunità ebraiche, sottoposte all’autorità spagnola, furono cacciate per sempre. A ciò si aggiunsero presto gli effetti indiretti della Riforma luterana: anche in questo caso la Chiesa cattolica, scossa dalle accuse dei protestanti, cercò di rifondarsi, inseguendo la moralizzazione e la conversione totale – e forzata – dell’intera società: non doveva esistere alcuna commistione tra cristiani e non cristiani, né fisica, né, tantomeno, culturale.
Nascono i ghetti
Cosí, dalla metà del Cinquecento, alcuni pontefici – tra cui il feroce Paolo IV (1555-1559) – disposero, in un crescendo di politiche discri-
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minatorie, la creazione di specifici quartieri – i ghetti –, nei quali gli Ebrei vennero obbligati a vivere (ricorre quest’anno il cinquecentenario del Ghetto di Venezia, istituito il 29 marzo 1516 con un decreto della Repubblica veneziana, n.d.r.). Furono loro imposte anche tasse sempre maggiori e sempre piú pesanti furono le limitazioni nell’esercizio delle professioni e nel possesso dei beni e dei diritti civili. Si deve pur dire che, se la Chiesa della Controriforma istituí i ghetti, quella luterana perseguí l’espulsione degli Ebrei e la loro oppressione in modo ancor piú risoluto. Dalla metà del XVI secolo gli Ebrei della Penisola – nelle regioni centrali e settentrionali, visto che al Sud erano stati cancellati – furono costretti a vivere in poche città, all’interno di quartieri sovraffollati, serrati da cancelli che venivano chiusi al tramonto. Dediti ormai a pochi e infimi mestieri, riuscirono a superare due secoli e mezzo di oppressione – e di subdoli tentativi di conversione – solo grazie alle solide istituzioni comunitarie e all’atavico attaccamento alla religione de-
gli antenati. Restarono comunque sempre nettamente piú alfabetizzati dei loro dirimpettai cristiani, e mantennero – come germogli da tramandare – la sapienza commerciale e il senso del giusto valore da dare alla cultura e alla competenza; fattori che avevano non poco contribuito a rendere l’Italia, per gli irripetibili secoli del Rinascimento, il centro del mondo. V
Da leggere U Riccardo Calimani, Storia degli
ebrei italiani. Dalle origini al XV secolo, Mondadori, Milano 2013 U Giacomo Todeschini, Come Giuda. La gente comune e i giochi dell’economia all’inizio dell’età moderna, Il Mulino, Bologna 2011 U Giacomo Todeschini, Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal Medioevo all’età moderna, Il Mulino, Bologna 2007 U Anna Foa, Ebrei in Europa. Dalla Peste Nera all’emancipazione. XIV-XIX secolo, Laterza, Roma-Bari 2004
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Quando il lignaggio si vede dal piatto ARALDICA • Lo studio, non soltanto tipologico
e funzionale, delle maioliche arcaiche di una ricca collezione privata offre interessanti indizi sulla circolazione e la committenza dei manufatti
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ercando di comprendere l’origine dell’iconografia araldica piú antica, in particolar modo nel caso di quella veneziana, ho avanzato l’ipotesi – nel pubblicare il cinquecentesco Stemmario Veneziano nel 2007 – che la foggia dei primi mobili del blasone, animali come vegetali, e soprattutto chimerici, trovi nel Vicino e Medio Oriente i propri archetipi. Se l’epopea crociata favorí la circolazione di
tale iconografia – Venezia e tutte le città marinare italiane furono snodi obbligati di tali scambi –, a veicolare quegli archetipi figurativi furono i manufatti, piú o meno pregiati, che potevano essere sia merce di scambio ambita, che bottino dei conquistatori europei: tessuti, lavori in metallo, smalti, oreficerie, cofanetti in avorio, codici miniati, ma anche, e non secondariamente, maioliche. Nel castello di Gallico, presso
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Salvo diversa indicazione, gli oggetti illustrati appartengono alla collezione Salini, conservata nel castello di Gallico (presso Asciano, Siena).
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1. Stemma dei Tolomei murato nella corte di un castello già di loro proprietà. XIV sec. 2. Boccale in maiolica arcaica con leone passante, probabile allusione all’araldica dei committenti. Siena, prima metà del XIV sec. 3. Ciotola in maiolica arcaica con stella a otto raggi. Siena, seconda metà del XIV sec. 4. Boccale a palla in maiolica arcaica con vepre. Siena, metà del XIII sec.
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6. Piatto sul quale si riconosce lo stemma dei Cybo genovesi, famiglia di papa Innocenzo VIII. Scuola viterbese, prima metà del XV sec. 7. Frammento di tessuto in lino e lana copto raffigurante Giona che esce dalla bocca della balena. III-V sec. Parigi, Museo del Louvre.
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5. Boccale in maiolica arcaica con l’immagine di un drago dal cui corpo occhieggia un volto umano. Siena, prima metà del XIV sec. 8. Boccale con stemma riconducibile alla ramificatissima stirpe dei de filiis Ursi-Orsini. Acquapendente, prima metà del XIV sec. Asciano, un tempo grancia fortificata dei Tolomei senesi (derivato dal francese grange, il termine grancia indicava in origine un’organizzazione economica di beni e persone esistente nel Medioevo presso le abbazie benedettine, n.d.r.), il noto imprenditore Simonpietro Salini ha raccolto una imponente collezione di opere d’arte e di arti applicate di interesse prevalentemente senese, il cui catalogo è stato pubblicato – solo in edizione privata – in quattro volumi. Il quarto, in particolare, scheda le maioliche medievali e rinascimentali, suddivise in due nuclei principali: quelle senesi, di cui si è occupato Giovanni Maccherini con Alessandra Pepi, e quelle latamente laziali, schedate da Mario Romagnoli.
Prototipi orientali Questa selezionata messe iconografica mi permette di
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7 esemplificare quanto sopra enunciato, mostrando la foggia araldica dell’iconografia della maiolica arcaica, che, come alcuni suoi sviluppi tecnici, denuncia evidenti origini mediorientali, mesopotamiche e persiane. Possiamo cosí ammirare tre differenti versioni – a quattro, sei e otto raggi – di quello che è
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un simbolo solare e di ciclicità variamente declinato in tutte le tradizioni di ascendenza indoeuropea, ma non solo: se pensiamo che in esso può trovare ascendenti simbolici anche la stessa Croce di Cristo, i cui bracci altro non significano che l’incontro e la conciliazione nell’Uno creatore della manifestazione spazio-temporale che ne emana. Né è un arbusto qualunque quello di sette rami terminanti in foglie lanceolate: si tratta, infatti, di un vepre, che trova nell’Albero del Mondo indoeuropeo un nobile antenato, e nella Menorah giudaica una degna discendenza. Esso non va confuso con il giglio, fiore mariano oltre che fiorentino, che decora
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9. Ciotola con stemma dei Colonna. Scuola umbro-laziale, seconda metà del XIV sec.
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CALEIDO SCOPIO un paio di pezzi, uno dei quali dal lustro orientaleggiante tipico delle lavorazioni di Manises, in Spagna. Alla tradizione biblica credo sia poi da riferirsi il curioso drago dal cui corpo occhieggia un volto umano: quello di Giona, invero, che, anticipando la morte e resurrezione del Cristo, trascorse tre giorni nel ventre della balena. Verosimilmente, è lui l’«antenato» del cosiddetto «saraceno» che emerge con le braccia in croce dalle fauci del biscione visconteo, non a caso originariamente d’azzurro: tale iconografia, unica nell’araldica se non per derivazione viscontea, deriva infatti a mio parere dalla cosiddetta pistrice, ovvero dalla raffigurazione della balena che rigetta Giona dopo i tre giorni di occultamento nel suo ventre, di ascendenze mediorientali. La tradizione, riferita poeticamente anche dal Tasso, di un’origine dell’arme viscontea dalla Terra Santa, adombrerebbe in realtà la fonte della sua iconografia. Per averne la certezza, basta uno sguardo a un tessuto copto conservato al Louvre e riprodotto da Federico Zeri in Dietro l’immagine. Conversazioni sull’arte di leggere l’arte (a cura di Ludovica Ripa di Meana, Longanesi, Milano 1987).
1. Stemma di Stricca di Giovanni Salimbeni da Siena, podestà e capitano del popolo a Bologna, dallo Stemmario Bolognese Orsini De Marzo (XVIII sec.). 2. Boccale in maiolica arcaica con lo stemma dei Tolomei. Siena, prima metà del XIV sec.
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Il grande studioso ripeteva spesso che la storia dell’arte è un gioco in cui vince chi ha piú carte, alludendo alle fotografie: altrettanto si potrebbe dire per l’araldica, un campo in cui molte frettolose attribuzioni derivano non solo da carenze di metodo, ma anche di adeguati repertori.
Famiglie prolifiche Mario Romagnoli ha correttamente attribuito il pezzo che reca lo stemma Cybo: abbassato sotto un capo di Genova, città di loro provenienza. Di
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Roma, però, Arano Cybo fu senatore nel 1455: suo figlio Gian Battista (1432-92) assurse al soglio pontificio col nome di Innocenzo VIII. Dei figli del pontefice, Teodorina sposò il genovese Gherardo Usodimare, discendente al pari della sposa dalla prolifica consorteria dei visconti cittadini di Genova (la cui progenie assunse il cognome materno), mentre Franceschetto, conte di Anguillara, sposò una figlia di Lorenzo de’ Medici: al loro ambito familiare si può
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3. Boccale panata con stemma dei Piccolomini. Produzione dell’area di Civita Castellana, ultimo quarto del XV sec. 4. Boccale in maiolica arcaica sul quale, nonostante la non perfetta leggibilità, è possibile riconoscere lo stemma Benvoglienti. Siena, XV sec. aprile
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5 quindi verosimilmente riferire la committenza del pezzo laziale con la loro arme. La tipicità dello stemma suggerisce di attribuire a uno dei molti rami dei prolifici Orsini romani il pezzo provvisto in catalogo di tale indicazione, ma occorre rilevare che non è ancora natante nella fascia ristretta abbassata sotto il tipico capo con la rosa l’anguilla araldica, che ricordava la contea di Anguillara: venduta proprio dal suddetto Franceschetto Cybo a Gentile Virginio Orsini solo nel 1492, anno della morte del potente suocero e del padre pontefice.
Nemici giurati Poiché la maiolica arcaica si giova solo dei pochi colori di origine metallica allora ottenibili, in assenza di ulteriori dati non si può escludere che il pezzo possa attribuirsi al ramo degli Orsini che abbandonò il gentilizio per denominarsi Tibaldeschi dallo stipite del ramo, Tebaldo Orsini: essi, infatti, brisavano l’originaria arme orsina solo negli smalti. Restando nell’ambito del baronaggio romano, non mancano
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un paio di pezzi che portano l’arme degli storici avversari dei suddetti, ossia dei Colonna. Passando a Siena, vera area tematica della Collezione Salini, sicura è l’identificazione degli stemmi Tolomei e Piccolomini, ambo caratterizzati dai crescenti; interessante è quanto sottolinea invece Giovanni Maccherini circa la politica di immagine perseguita, oltre che dai Piccolomini, anche dai Tolomei: che, a differenza degli emuli soccombenti Salimbeni, lasciarono abbondante materiale araldico, quasi a voler marcare il proprio territorio in ogni senso. Dei Salimbeni, invece, un tempo anch’essi grandi banchieri e signori di castella, non resta quasi traccia araldica. Grazie a un altro pezzo di collezione privata in cui il blasone è meglio 5. Piatto in maiolica rinascimentale policroma alle armi Ghini, recante sul fondo il monogramma del ceramista. Siena, fine del XV sec. 6. Maiolica rinascimentale policroma raffigurante lo stemma Bichi, opera del medesimo ceramista. Colonia, Museo delle Arti Applicate. 7. Piatto in maiolica arcaica con l’immagine di una dama che scocca una freccia. Siena, fine del XIV-inizi del XV sec.
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conservato, Maccherini identifica due manufatti di medesima committenza Benvoglienti; non desta invece dubbi, ma ammirazione, per lo splendore e la conservazione, un esemplare già rinascimentale che accampa lo stemma Ghini di Siena, opera dello stesso artefice (la cui sigla dovrebbe esser scioglibile come P[er]) al quale si deve un analogo piatto da parata conservato a Colonia, all’arme Bichi. Un ceramista che Mario Luccarelli ha identificato con Pietro Mazzaburroni, in rapporto con quest’ultima famiglia pel pavimento della loro cappella in S. Agostino a Siena.
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Un effimero signore senese Il galero cardinalizio permette infine a Maccherini di riferire a un intervallo di tempo ristretto un magnifico broccone con le armi della casata di Pandolfo Petrucci (1452-1512), effimero signore di Siena: lo studioso ne circoscrive correttamente la commissione all’intervallo temporale compreso fra il conferimento della porpora sia ad Alfonso (1511) che a Raffaello (1517) Petrucci e la loro scomparsa (il primo morí nel 1517, il secondo nel 1522). Il manufatto non fornisce ulteriori indizi per individuare chi dei due sia stato l’effettivo committente, ma, sulla scorta di considerazioni stilistiche, Maccherini opta appunto per l’intervallo 1511-1517. Una soluzione senz’altro condivisibile: come la dama che nell’affascinante ciotola tardo-trecentesca senese è in procinto di scoccare la propria freccia verso un bersaglio a noi ormai ignoto, se non possiamo far centro, tuttavia la nostra freccia gli si è alquanto avvicinata! Niccolò Orsini De Marzo
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Lo scaffale Gherardo Ortalli La pittura infamante Secoli XIII-XVI
La storia. Temi, 48, Viella, Roma, 184 pp., 16 tavv. col.
23,00 euro ISBN 978-88-6728-020-9 www.viella.it
«La imagine sua sia depenta, a perpetua memoria de la cosa, in palazzo de lu dicto comune a vituperio soi et in de le porte de la ciptà de Ascoli sia depinto»: tratta da uno statuto ascolano del 1377, questa disposizione è un esempio tipico dell’applicazione di una normativa che vede nella diffamazione del reo – in genere chi era accusato di tradimento o di operato contro gli interessi del Comune – una delle espressioni piú appariscenti del sistema penale tardo-medievale. Attraverso la cosiddetta «pittura infamante», infatti, gli organi istituzionali esprimono in modo assai efficace il proprio giudizio. D’altronde è ben comprensibile quanto potente fosse, in una società sostanzialmente analfabeta, il potere comunicativo dell’immagine, soprattutto quando per le pitture «infamanti»
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si sceglievano i luoghi del potere – facciate di palazzi, porte cittadine, ecc. – esposti e visibili da tutta la cittadinanza. A questo singolare aspetto della storia della pittura, Gherardo Ortalli ha dedicato anni di studo e il suo volume (pubblicato per la prima volta nel 1979 e poi riedito in lingua francese nel 1994), è oggi riproposto in una seconda edizione,
assai aggiornata, anche alla luce di nuovi ritrovamenti. Questa espressione pittorica, che trova nella figura dell’impiccato la sua estrinsecazione piú tipica, ebbe conseguenze sociali nel contesto storico di molti Comuni italiani, anche se le testimonianze esistenti ne circoscrivono la pratica, nelle sue
prime manifestazioni, principalmente in area tosco-emiliana, dal 1261, quando a Parma la pittura viene inserita tra le pene previste dagli statuti. Alla fase nascente, ne segue una – nel pieno del Trecento – in cui tale pratica e lo stesso linguaggio pittorico giungono a maturità, con una particolare diffusione nei regimi d’orientamento guelfo, arrivando a interessare anche le realtà comunali lombarde, piemontesi, venete, marchigiane e umbre. Accanto a questo allargamento della pratica, si evidenzia il progressivo irrigidimento e schematismo espressivo. Interessante è anche il ricorso, accanto all’elemento pittorico, di didascalie, che spesso raccontano in forma poetica i malaffari dei condannati. Il libro prosegue esaminando anche la pittura infamante del XV secolo e dei primi decenni del successivo, quando tale pratica subisce una drastica contrazione, venendo confinata a casi del tutto eccezionali. Franco Bruni
Angelica Aurora Montanari ll fiero pasto Antropofagie medievali Il Mulino, Bologna, 256 pp., 26 ill. col.
22,00 euro ISBN 978-88-15-25858-8 www.mulino.it
Il tabú del cannibalismo ha sempre suscitato orrore, insieme a una sorta di morbosa fascinazione. Il volume ripercorre, in otto capitoli e in maniera sistematica, il tema dell’antropofagia attraverso gli itinerari oscuri e variegati del Medioevo europeo, riportando con dovizia di testimonianze le vicende di uomini che ingerirono i propri simili. In questo ambito rientrano anche le trattazioni dedicate alle accuse che colpirono le prime comunità cristiane (il bere e mangiare il corpo di Cristo) e quindi le imputazioni – con relative uccisioni di massa – mosse a manichei, valdesi e poi agli Ebrei di uccidere e cibarsi di bimbi cristiani. Senza trascurare gli ambigui episodi, quasi giustificati nella loro eccezionalità sovrumana, di re cristiani e di crociati che si nutrirono di «saraceni». Il capitolo conclusivo è dedicato
agli «altri», ovvero a creature mostruose e popolazioni belluine e fantastiche stanziate nel mondo sconosciuto, oltre i confini orientali, descritte da Marco Polo e da intrepidi missionari in terre lontane. La cruenta materia del volume è analizzata con grande accuratezza e trattata con una prosa piacevolmente letteraria e nel contempo rigorosamente scientifica, documentata nelle note e nella ricca bibliografia di riferimento. L’uso abile ed elegante del raccontare accompagna il lettore alla scoperta di un argomento poco conosciuto, ma di forte impatto emozionale, corredando il tutto con un apparato iconografico sorprendente, che, con la grazia delle miniature, raffigura molteplici e spaventevoli «fieri pasti». Francesca Ceci aprile
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Un pioniere ritrovato MUSICA • Il compositore fiammingo
Loyset Compère è uscito dal ghetto dell’aurea mediocritas nel quale è stato a lungo confinato. E ora, grazie all’0rlando Consort, si può avere un saggio eloquente della sua inventiva
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ra gli autori che, tra Quattro e Cinquecento, hanno dominato la stagione del contrappunto franco-fiammingo, Loyset Compère ha particolarmente beneficiato delle scoperte musicologiche piú recenti. Nuove datazioni riguardanti le figure dei piú noti Josquin Desprèz e Alexander Agricola hanno permesso, infatti, di ricollocarne sotto una nuova ottica la produzione. Inizialmente relegato tra le figure minori, Loyset, alla luce delle nuove scoperte, ha visto ribaltarsi il giudizio della critica, che ha riconosciuto nella sua arte compositiva quella di un pioniere dello stile imitativo, decisivo per lo sviluppo del contrappunto fiammingo. La parabola artistica di Compère si inserisce perfettamente nella tendenza dell’epoca, che portò molti suoi connazionali alla ricerca di ingaggi presso le prestigiose cappelle musicali di corte, in particolare quelle italiane. Al 1474 risale appunto l’assunzione presso la corte milanese di Galeazzo Maria Sforza, seguita negli anni Ottanta dall’ingaggio presso la corte reale di Francia.
Composizioni scritte a Milano Soffermandosi sull’attività di Compère nell’ultimo ventennio del XV secolo – il compositore muore nel 1518 a Saint-Quentin, in Francia – l’antologia Loyset Compère offre una mirabile esecuzione di musiche profane e sacre, magnificamente interpretate dall’Orlando Consort. Il gruppo inglese, composto da Matthew Venner (controtenore), Mark Dobell e Angus Smith (tenori) e Donald Greig (basso) – specialisti nel repertorio del Tre e Quattrocento –, apre l’antologia con un Magnificat, composto nel primo degli otto toni ecclesiastici e la cui datazione risale – come la maggior parte delle partiture sacre – proprio al periodo milanese. Già da questo ascolto, si apprezza la maestria di Compère nel destreggiarsi con il linguaggio imitativo,
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Loyset Compère The Orlando Consort Hyperion (CDA68069), 1 CD www.hyperion-records.co.uk maneggiato con totale maturità stilistica, dimostrando una sottigliezza compositiva di grande livello. Legate alla corte di Giovanni II di Borbone sono invece tre chanson a tre voci – Vous me faites mourir, Ne doibt en prendre quant on donne e Dictes moy toutes voz pensées –, caratterizzate da preziosi melismi e nelle quali regna sovrano il tema amoroso. Nella sequenza dei brani proposti si ha anche modo di apprezzare i mutamenti stilistici che caratterizzano il percorso artistico di Compère. Nell’ascolto di altre due chanson a quattro voci – Ung franc archier e Une plaisante fillette –, lo stile imitativo piú florido, benché sempre presente, lascia spazio a momenti omofonici, anticipando in qualche modo la grande stagione rinascimentale.
Una fitta rete di corrispondenze Giocata intorno a rimandi musicali è, invece, Au travail suis sans espoir de confort, chanson nella quale ricorrono citazioni tratte da brani di Ockeghem, Dufay e von Ghizeghem, indizi che rivelano la fitta rete di corrispondenze e richiami a cui i protagonisti della vita musicale dell’epoca erano ben avvezzi. Di dubbia paternità è il mottetto O bone Jesu, un brano di grande bellezza, che alcune fonti attribuiscono ad Antonio Ribera ovvero a Juan de Anchieta o a Francisco Peñalosa, compositori del primo Rinascimento spagnolo. Una sola, ma eloquente fonte, i Motetti de la Corona, pubblicati dal Petrucci nel 1519, lo attribuiscono a Compère. Con questo mottetto, caratterizzato dalla declamazione omofonica, si conclude l’antologia, in cui l’Orlando Consort sfoggia un grande equilibrio tra le voci e un raffinatissimo fraseggio, che dà vita a un denso impasto sonoro, particolarmente apprezzabile nel repertorio polifonico quattro-cinquecentesco. Franco Bruni aprile
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Canti di fede in chiave popolare
MUSICA • Un ricco cofanetto propone l’ascolto
dei 47 componimenti del Laudario di Cortona giunti sino a noi nella loro forma integrale
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rutto dei grandi mutamenti storico-sociali che scandirono il passaggio dal feudalesimo all’epoca comunale, il fenomeno della produzione laudistica legata alle confraternite dei laudesi costituitesi in ambito umbro-toscano già dal XII secolo, rappresenta un capitolo straordinario nella storia della musica devozionale. Nate dall’organizzazione capillare di gruppi sociali legati al culto di un determinato santo, queste confraternite furono dedite principalmente ad attività assistenziali, a cui faceva da contraltare la diffusa pratica paraliturgica, che trovò la sua massima espressione nelle
testo e notazione, su un totale di 66 tramandate nel codice. Appartenuto alla confraternita di S. Maria della Laude della chiesa di S. Francesco a Cortona, il Codice 91, tra l’altro, è la fonte laudistica piú antica pervenutaci e la sua «unicità» consiste nel fatto di essere anche il primo testimone di un repertorio in lingua vernacolare. Concepito come manuale di riferimento, questo laudario mostra nell’organizzazione il tono popolaresco del metro ottonario utilizzato; l’accento popolare viene peraltro esaltato nelle melodie in cui vengono riutilizzate le numerose varianti della coeva forma della ballata, genere diffusissimo in ambito profano nel corso del Trecento.
Laudario di Cortona No. 91 Paraliturgical vocal music from the Middle Ages Armoniosoincanto, Franco Radicchia, Anonima Frottolisti Brilliant Classics (94872), 4 CD www.brilliantclassics.com manifestazioni processionali e nei canti che le accompagnavano.
Dalla città dell’Accademia Protagonista della produzione trecentesca italiana è il cosiddetto Laudario di Cortona (Codice 91), conservato presso la Biblioteca del Comune e dell’Accademia Etrusca della città toscana, di cui offre l’ascolto questo cofanetto Brilliant Classics: 47 laude pervenuteci con
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Un ricco paesaggio sonoro
interna il suo carattere pragmatico, con brani suddivisi in varie tematiche, tra cui ricorrono quelle mariane, agiografiche e, in generale, quelle legate a singoli momenti celebrati dell’anno liturgico. Nella loro schiettezza sillabico-musicale, lontana dal virtuosismo melismatico del repertorio monodico liturgico, i testi e le melodie colpiscono per la loro immediatezza e si caratterizzano, soprattutto, per
Ricco è l’apparato strumentale utilizzato in questa performance, che include tutti gli strumenti tramandati dall’iconografia dell’epoca – vielle, organetto, arpa, flauti e percussioni varie – e che evocano uno straordinario paesaggio sonoro pieno di inventiva, di soluzioni timbrico-musicali e vocali sempre diverse e trascinanti. Merita un elogio Franco Radicchia, il quale, oltre a dirigere l’ensemble Armoniosoincanto, si avvale, per questa esecuzione, della pregevole collaborazione del gruppo Anonima Frottolisti, offrendo una lettura capace di cogliere appieno lo spirito autentico di questo repertorio. F. B.
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