Medioevo n. 236, Settembre 2016

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PA M ES ED A IEV GG AL I I

MEDIOEVO n. 236 SETTEMBRE 2016

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SOMMARIO

Settembre 2016 ANTEPRIMA

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IL PROVERBIO DEL MESE «Acqua alle corde!»

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MUSEI Tutto Leonardo in un castello

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MOSTRE Come lei non c’è nessuno

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APPUNTAMENTI Medioevo oggi Prima si gioca e poi si sfila Evviva san Tito! Vendemmia nella «città reale» L’Agenda del Mese

12 16 22 23 26

STORIE

LUOGHI

PROTAGONISTI

SAPER VEDERE

Verrà il giorno...

Ritorno a Santa Croce

Gioacchino da Fiore

STORIE, UOMINI E SAPORI Addosso al cinghiale! 106

Sant’Elpidio a Mare 34

di Alessandro Bedini

di Elena Percivaldi

68

34 CALEIDOSCOPIO CARTOLINE «Rinunci a Satana?»

Dossier

102

L’ETÀ DEL PAESAGGIO di Roberto Roveda

COSTUME E SOCIETÀ MONETE E DEVOZIONE Offerte fior di conio di Alessio Montagano

46

GENTE DI BOTTEGA/7 Il bastiere

Fatiche a regola d’arte

di Barbara Conti ed Emanuela Porta Casucci

58

UN ANTROPOLOGO NEL MEDIOEVO Notti chiassose

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LIBRI Lo scaffale

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MUSICA Alla maniera dei cantastorie

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M AES ED A IEV GG AL I I

MEDIOEVO n. 236 SETTEMBRE 2016

MEDIOEVO UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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MEDIOEVO Anno XX, n. 236 - settembre 2016 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it

Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: copertina e p. 99; Album: pp. 44/45, 98, 108; AGE: pp. 54, 109; AKG Images: pp. 61, 86, 95; The Art Archive: pp. 83, 94/95, 96; Leemage: p. 107 – Doc. red.: pp. 5, 35 (alto), 51 (centro), 56 (basso), 59, 60, 70/71, 72 (alto), 73, 76, 97, 106 – Cortesia Ufficio stampa: pp 8-11 – Cortesia degli autori: pp. 12-13, 16, 22-23, 48 (alto e centro), 50 (alto e centro), 51 (alto), 55, 56 (centro), 57 – Bridgeman Images: pp. 34/35, 40-41, 58/59, 63, 67, 70, 90, 92 – Marka: Danilo Donadoni: pp. 36/37 – Archivi Alinari, Firenze: Archivio SEAT: pp. 38/39, 46/47, 48/49 – DeA Picture Library: pp. 44, 50 (basso), 62, 64 (basso); L. Romano: pp. 42-43; A. Dagli Orti: p. 64 (alto); M. Carrieri: pp. 64/65; A. De Gregorio: pp. 88/89; G. Dagli Orti: pp. 90/91; W. Buss: p. 93; G. Cozzi: p. 100; C. Sappa: p. 101 – Foto Scala, Firenze: White Images: pp. 52-53 – Da Il Villani illustrato, Banca CR Firenze, Firenze 2005: p. 66 – Alberto Monti: pp. 68/69, 72, 74/75, 77-81 – Marisa Colibazzi: p. 75 – Giorgio Albertini: disegni alle pp. 84/85, 87 – Diocesi di Novara, Ufficio Beni Culturali: pp. 102-105 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 89. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione. Editore: MyWay Media S.r.l.

Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it

Presidente: Federico Curti

Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Tel. 02 0069.6352

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Collaboratori della redazione:

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In copertina Tempesta, olio su tela del Giorgione. 1505-1508 circa. Venezia, Gallerie dell’Accademia

Segreteria marketing e pubblicità: segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 0069.6346

Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Alessia Pozzato Hanno collaborato a questo numero: Alessandro Bedini è giornalista e scrittore. Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Barbara Conti è storica dell’arte medievale. Claudio Corvino è antropologo. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Alessio Montagano è membro dell’Accademia Italiana di Numismatica. Chiara Parente è giornalista. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Emanuela Porta Casucci è dottore di ricerca in storia medievale. Stefania Romani è giornalista. Roberto Roveda è storico del Medioevo e giornalista. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

Direzione, sede legale e operativa: via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 0069.6369 Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1 Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com

Nel prossimo numero dante guarneriano

Il codice delle meraviglie

frisoni

Guerrieri e mercanti del Mare del Nord

saper vedere

Mantova, la magnifica regina sul Mincio

dossier

Gubbio, gemma del Medioevo


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

Acqua alle corde!

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l motto del mese, a dire il vero non piú molto utilizzato, è legato all’obelisco di piazza San Pietro e il suo significato sarebbe quello di «accelerare un lavoro, senza porre indugio». Collegata un tempo dal pons Neronis, poi dal ponte Elio, l’area vaticana, prima di divenire sede del vescovo di Roma, era una zona malsana. Nel I secolo d.C., lo storico latino Tacito la definí addirittura «infamibus Vaticani locis». Ai piedi del Vaticanus mons, sorgevano un’area funeraria e un circo, edificato da Caligola e Nerone: al centro della spina, si ergeva un obelisco in granito rosso, che, stando a Plinio il Vecchio, fu portato dalla città egiziana di Eliopoli nel 40 d.C., per volere di Caligola. Privo di geroglifici, il monolite rimase al suo posto anche quando il ricordo delle corse di bighe era ormai lontano. Nel frattempo, però, attorno al sepolcro di Pietro si erano affollate decine di tombe di fedeli. Con l’avvento del cristianesimo e la vittoria di Costantino su Massenzio (312 d.C.), sopra la tomba di Pietro venne edificata una grandiosa basilica, che richiese lo sbancamento del colle Vaticano (333 d.C.). Ma l’obelisco rimaneva sempre lí, ora a sinistra della chiesa costantiniana. Nel 1506, papa Giulio II avviò la costruzione della nuova basilica, quella che tuttora ammiriamo. I lavori durarono piú di un secolo e, tra le varie fasi di sistemazione, nel 1586, Sisto V volle spostare l’obelisco, per collocarlo dinnanzi alla chiesa, in attesa di avere la piazza! L’ardita impresa (era la prima nel suo genere) venne affidata a Domenico Fontana, l’architetto che stava già occupandosi del Palazzo Lateranense. Per sollevare il colossale monolite, del peso di 300 ton-

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Pittura murale raffigurante l’erezione dell’obelisco in piazza San Pietro. L’operazione venne affidata all’architetto Domenico Fontana e si concluse nel settembre del 1586. nellate, furono necessari 4 mesi di lavori e mezzi enormi, tra cui 900 operai, 44 argani e 140 cavalli, come riporta lo stesso Fontana nella sua relazione Della transportatione dell’obelisco Vaticano e delle fabriche di Sisto V. Durante le operazioni, a causa della delicatezza dell’intervento, Sisto V avrebbe proibito di parlare ai numerosi curiosi giunti in piazza, minacciando addirittura la morte e ponendo una forca in bella vista. Il 10 settembre 1586 le corde sollevarono l’obelisco, ma, a causa della enorme sollecitazione, iniziarono a surriscaldarsi, rischiando di spezzarsi e farlo cadere. A quel punto uno spettatore, un marinaio originario di Sanremo, Benedetto Bresca, esperto di cordami, avrebbe gridato a squarciagola «Aiga ae corde!» («Acqua alle corde!»), trasgredendo l’ordine papale e mettendo a rischio la propria testa, ma salvando operazione e obelisco. Fontana accolse il suggerimento del marinaio e fece subito bagnare le enormi corde di canapa, che cosí resistettero sino al termine dei lavori. Il papa avrebbe allora esclamato: «Non si tratta di far grazia, ma di dar ricompensa», proponendo a Bresca di scegliere egli stesso il compenso. Questi chiese allora di poter inviare da Sanremo a Roma, ogni anno, le palme per la Pasqua. La tradizione è stata interrotta soltanto da papa Giovanni Paolo II, il quale preferí addobbare l’altare con le sole piante di olivo, in continuità con il rito delle Ceneri.


ANTE PRIMA

Tutto Leonardo in un castello MUSEI • Vigevano

rende omaggio al genio vinciano e ne ripercorre la multiforme attività affiancando opere celeberrime a rivelazioni inaspettate

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el castello di Vigevano (Pavia) ha aperto i battenti un museo di nuova concezione, Leonardiana, che, attraverso multimediali e facsimili, ripropone l’opera omnia di Leonardo, mettendo in luce alcuni aspetti inediti del suo lavoro. Scopriamo, per esempio, che firmò il primo curriculum della storia, candidandosi a lavorare per Ludovico il Moro con una lettera in dieci punti, e che nel periodo lombardo realizzò studi per macchine sceniche, acconciature, costumi teatrali. L’esposizione si apre con una sala che rimanda all’universo in cui si muove il

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genio vinciano: ci si può calare nell’ambiente di corte che faceva capo a Beatrice d’Este e Ludovico grazie al videoracconto delle giornate a palazzo e a quello delle strutture fatte realizzare nella stessa Vigevano.

Codici da sfogliare virtualmente È quindi la volta dei codici – con immagini e testi riprodotti in dimensioni reali, da sfogliare in versione digitale – e di disegni, taccuini, carte, che raccontano i mille interessi di Leonardo, dall’ingegneria all’espressione dei volti e ai moti dell’animo, passando per l’anatomia

In alto la piazza Ducale di Vigevano, su cui si affaccia il castello che ospita Leonardiana. In basso riproduzione del Manoscritto B. 1487-1490 circa. Parigi, Institut de France. È il piú antico manoscritto leonardiano esistente: comprende studi sulla tecnologia della guerra, sulle chiese a pianta centrale, per la «città ideale» e per la macchina volante. del cavallo. Chiude il percorso la spettacolare sezione dedicata ai 25 dipinti sparsi nei musei di tutto il mondo e raccolti in una pinacoteca virtuale, nella quale tele e tavole sono riprodotte in scala 1:1. Grazie a un allestimento progettato e realizzato secondo criteri moderni, la rassegna permette la piena lettura dell’edificio, che vanta una storia importante. Come spiega Massimo Boccalari, presidente dell’Agenzia di Sviluppo del Territorio, l’apertura di Leonardiana «segna l’inizio di un progetto, ambizioso, per valorizzare il castello, che ha vissuto quattro secoli di buio, fungendo da sede militare fino al 1968. L’obiettivo è quello di riportare al centro della vita cittadina un edificio simbolo, che è sempre stato il cuore di Vigevano. settembre

MEDIOEVO


Riproduzione del disegno di due mortai che sparano palle incendiarie, dal Codice Atlantico. 1485 circa. Milano, Biblioteca Ambrosiana.

DOVE E QUANDO

«Leonardiana» Vigevano, Castello Orario ma-ve, 9,00-13,00 A sinistra un particolare dell’allestimento di Leonardiana.

Mentre dagli anni Ottanta sono stati condotti interventi su scuderie, falconeria, torre, i lavori recenti hanno toccato il cuore del castello». Il restauro nasce da un accordo fra Comune, Regione e Soprintendenza e, spiega ancora Boccalari, «i lavori sono stati avviati fra il 2007 e il 2008, con la messa in sicurezza di coperture ed elementi portanti. Poi hanno riguardato l’interno e in particolare alcune aree del maschio, che sono state rese accessibili, come il piano terra, quello sotterraneo, la sala degli affreschi, l’ambiente sotto la loggia delle dame». Torna cosí in

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primo piano il palazzo che, con la piazza su cui si apre, incarna appieno l’ideale architettonico e urbanistico del Rinascimento.

Strutture simboliche e funzionali Pensato come residenza extraurbana, il maniero si inserisce nel disegno di Ludovico: dare al borgo il volto di una città raccolta attorno a strutture simboliche, ma che possa contare anche su una rete di navigli, mulini e cascine. Il complesso è molto articolato e i suoi 70 000 mq ne fanno una delle architetture fortificate piú vaste d’Europa.

e 15,00-18,00; sa-do, 10,00-20,00; lu chiuso Info tel. 0381 630310; www.leonardiana.it Il nucleo originario risale all’età longobarda, mentre la trasformazione in dimora signorile comincia presto, con i Visconti, per proseguire con gli Sforza. Ultimata alla fine del Quattrocento, la residenza incarna la volontà di manifestare il prestigio proprio di una corte europea. Fra gli ambienti figurano le tre scuderie, con splendidi colonnati, la falconeria e la loggia delle dame. Il maschio corrisponde alla parte piú antica, che fungeva da difesa e magazzino per generi alimentari; riconvertito in palazzo ducale dal 1345, era affrescato in maniera ricca, secondo il gusto lombardo. Tra il maschio e la Rocca Vecchia, il fortilizio addossato alle mura, corre per 167 m la Strada coperta, voluta da Luchino Visconti nel 1347, per consentire ai duchi di entrare e uscire da casa senza essere visti, o di fuggire in caso di attacchi. Stefania Romani

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ANTE PRIMA

Come lei non c’è nessuno

MOSTRE • Casa Buonarroti, a Firenze, ripercorre

la straordinaria vicenda di Matilde di Canossa, la «grancontessa» che segnò un’intera epoca

M

entre ancora si può cogliere l’eco delle celebrazioni per il nono centenario della sua morte, Matilde di Canossa (1046-1115) torna protagonista della mostra allestita a Firenze, in Casa Buonarroti. Gli eventi straordinari della lunga vita di questa donna, che l’esposizione mira a evocare, ne hanno fatto un personaggio che gode tuttora di grande notorietà e perfino emblematico, perché davvero unico per i suoi tempi. Non a caso, fa da sempre parte dell’immaginario collettivo la storica «Umiliazione A destra bozzetto di Gian Lorenzo Bernini per la tomba di Matilde in S. Pietro. 1637 circa. Collezione privata.

Qui accanto la Croce di Frassinoro, in lamina di rame dorata, cristallo di rocca e vetro. Post 1071. Modena, Museo Civico d’Arte.

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di Canossa» (1077), che vide l’imperatore Enrico IV restare in lunga attesa, inginocchiato e a piedi nudi nella neve sotto la residenza della «grancontessa», per implorare il perdono del papa Gregorio VII, alleato di Matilde (vedi «Medioevo» n. 234, luglio 2016). Del clamoroso episodio si serba memoria anche nel bassorilievo alla base della tomba in S. Pietro a Roma, dove le spoglie della contessa riposano dal 1634.

La rilettura berniniana Quasi tutte le opere in mostra sono legate ai tempi della protagonista; tra le eccezioni, si può ammirare lo splendido bozzetto di Gian Lorenzo Bernini per il monumento funebre, che presenta una interessante interpretazione secentesca di un grande personaggio femminile vissuto secoli prima.

DOVE E QUANDO

«Matilda di Canossa. La donna che mutò il corso della storia» Firenze, Museo della Casa Buonarroti fino al 10 ottobre Orario tutti i giorni, 10,00-17,00; chiuso il martedí; su prenotazione, aperture straordinarie fuori orario per gruppi Info tel. 055 241752; e-mail: fond@ casabuonarroti.it; www.casabuonarroti.it settembre

MEDIOEVO


Miniatura raffigurante Matilde di Canossa con Anselmo d’Aosta, arcivescovo di Canterbury, da un’edizione delle Orationes sive Meditationes dello stesso Anselmo. 1106 circa. Admont, Stiftsbibliothek. conti da Canossa, nobile e illustre famiglia del territorio di Reggio sí per virtú propria e antichità, sí per aver fatto parentado col sangue imperiale (…) donde ne nacque la contessa Matilde, donna di rara et singular prudenza et religione». Tale discendenza è senza dubbio una leggenda familiare, alla quale Michelangelo volle sempre prestar fede, convincendo non pochi tra i suoi contemporanei, tra i quali, non a caso, il conte Alessandro di Canossa, che, in una celebre lettera inviata all’artista nell’ottobre 1520, poteva definirlo, fin dall’indirizzo, «parente honorando».

Le «cento chiese»

Significativa è stata la scelta di allestire la rassegna a Firenze: la città fu infatti molto cara a Matilde, che vi abitò dagli otto ai ventidue anni, facendovi tra l’altro costruire, nel 1078, la «cerchia antica» delle mura di dantesca memoria. Per queste sue benemerenze fiorentine continua a essere suggestiva, anche se accettata solo da parte della critica, l’ipotesi che la Matelda della Divina Commedia sia proprio la contessa, cioè un personaggio realmente esistito. Una preziosa copia trecentesca e

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l’edizione ottocentesca illustrata da Gustavo Doré del poema si riferiscono appunto a tale proposta di identificazione.

Una discendenza leggendaria La fama di Matilde dovette contagiare anche Michelangelo: lo dimostra l’incipit della Vita di Michelagnolo Buonarroti scritta da Ascanio Condivi, esposta nella sua edizione originale del 1553: «Michelagnolo Buonarroti, pittore e scultore singulare, ebbe l’origin sua da’

Il nome di Matilde è presente ancora oggi alla memoria nelle città in cui la contessa aveva donato fondi e terreni per la costruzione e il rinnovamento di quelle che sono passate alla storia come le «cento chiese», tra cui Mantova, Pisa, Volterra e Modena, quest’ultima con le famose sculture di Wiligelmo, visibili in mostra attraverso due calchi. A Canossa, Matilde creò inoltre un’officina di artigiani, scribi e miniatori: lo testimoniano alcuni pregevoli esempi, tra cui quattro Croci astili – una delle quali in oro e tempestata di cristalli e gemme – e le Orationes sive meditationes di Anselmo d’Aosta, che contengono il ritratto della contessa scelto come immagine guida della rassegna. Il percorso espositivo propone dunque una biografia femminile irripetibile, ammirando una quarantina di capolavori dell’arte medievale e documenti originali prestati da istituzioni e musei italiani e stranieri, miniature contenute in manoscritti dell’epoca, ma anche opere piú vicine ai nostri tempi. (red.)

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ANTE PRIMA

EDIO VO M E OGGI

S S

e si eccettuano i seminari dedicati alla musica antica, e piú raramente a quella medievale, che si tengono da decenni in varie località, l’istituzione di un corso di durata biennale di musica medievale costituisce una novità assoluta per l’Italia. L’iniziativa, che finalmente premia un repertorio vastissimo ma altrettanto trascurato, è nata all’interno della Civica Scuola di Musica di Milano, fondata nel 1862 e dal 2014 intitolata a Claudio Abbado, e questo biennio di studio costituisce una vera e propria «perla» all’interno del Dipartimento di Musica Antica, creato nel 1979 e parte integrante della Scuola. L’ambito abbracciato dalla musica medievale è il piú ampio e variegato nel panorama della produzione occidentale. Basti pensare che esso copre cronologicamente quasi un millennio, partendo dalle prime manifestazioni del canto monodico liturgico, nelle sue varie declinazioni regionali (romano, mozarabico, ambrosiano, ecc.), passando per le prime forme di polifonia primitiva – in seno alla quale i magistri della

In alto l’Orchestra Barocca della Civica Scuola di Musica «Claudio Abbado» impegnata nelle prove dell’Orfeo di Claudio Monteverdi, eseguito nel Duomo di Milano il 22 ottobre 2015. In basso Claudia Caffagni, co-fondatrice dell’ensemble laReverdie e ora titolare del corso di musica medievale istituito dalla Civica Scuola di Musica di Milano. Scuola parigina di Notre-Dame pongono, a partire dal XII secolo, le basi teoriche del contrappunto –, sino ad arrivare alla grande stagione della musica provenzale e sfociare in quello che è stato il secolo piú prolifico per la nascita di nuovi generi lirico-musicali, il Trecento, che i teorici vollero giustamente denominare come Ars Nova. In questo mare magnum di stili, generi e prassi musicali, l’istituzione del corso costituisce senza dubbio un’impresa piú che coraggiosa nel panorama della didattica musicale italiana ed europea. Ne abbiamo parlato con Claudia Caffagni, una delle fondatrici dell’ensemble laReverdie, che da trent’anni si prodiga con passione a un’intensa attività concertistica, discografica e didattica imperniata sul repertorio medievale e, non da ultimo, promotrice, ideatrice e responsabile del Biennio di Musica Medievale. Accanto alle molte mode musicali che hanno dato un forte impulso alla diffusione di determinati repertori – penso, per esempio, alla Rossini Renaissance oppure al rilancio della produzione sei-settecentesca, che ha raggiunto, oggi, una visibilità e una diffusione impensabili fino a qualche decennio fa –, quali sono le aspettative per una musicista come lei e quale il riscontro da parte del pubblico verso un mondo musicale piuttosto lontano dalla nostra sensibilità moderna ma sicuramente ricco di fascino e di sorprese? Attraverso il lavoro che da trent’anni svolgo all’interno de laReverdie alla continua ricerca

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MEDIOEVO


di nuovi repertori, nuovi progetti e nuove idee, le mie aspettative, e soprattutto le mie speranze, sono quelle di riuscire sempre piú a catalizzare l’attenzione su questo mondo musicale e culturale, affinché venga accolto al pari di qualsiasi altro repertorio. Il riscontro da parte del pubblico, là dove chi organizza concerti di musica medievale si impegna per incuriosirlo a partecipare, è veramente notevole, in Italia ma ancor piú all’estero. Da vari decenni, lei si prodiga come liutista, cantante e docente. Con la creazione di questo biennio dedicato alla musica medievale quali obiettivi si è posta nell’affrontare quella che rappresenta sicuramente una sfida nell’ambito del panorama musicale italiano? Gli obiettivi sono vari. Innanzitutto far toccare con mano, a studenti che spesso provengono da altre esperienze, la complessità di studio, ricerca e tecnica che sta dietro all’esecuzione di questo repertorio, cosí vario da imporre di volta in volta competenze specifiche. Fornire un metodo di approccio e di studio, piú che suggerire soluzioni ai singoli problemi esecutivi che, data la scarsità di informazioni sulla prassi dell’epoca,

non potrebbero essere che ipotesi piú che soluzioni definitive. Infine, dare agli studenti, per quanto possibile, l’opportunità di eseguire il repertorio in performance pubbliche all’interno di festival interessati anche a questo repertorio e al contempo aperti alle proposte di giovani studenti specializzandi… Penso per esempio al Ravenna Festival o a Grandezze & Meraviglie di Modena. Uno degli ostacoli con cui si confrontano gli interpreti di musica antica è costituito dalla prassi esecutiva. Come affronta nella sua vita di concertista questo aspetto spinoso e su quali ausili conta di basarsi nel suo modo di concepire la didattica della musica medievale? Uno degli aspetti fondamentali è l’approccio alle fonti originali. La conoscenza diretta delle varie forme di scrittura e del modo con cui diversi generi musicali

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In questa pagina immagini che documentano momenti di attività della Civica Scuola di Musica di Milano «Claudio Abbado», istituzione che vanta una storia prestigiosa e che, dal 1973, ha sede nella storica Villa Simonetta del capoluogo lombardo. vengono copiati nei manoscritti fornisce un primo punto di partenza imprescindibile per entrare nella mentalità e nel gusto che ha generato un certo repertorio; fondamentale è poi la conoscenza dei trattati teorici e delle fonti letterarie e iconografiche, che offrono uno spaccato straordinario di un’epoca solo apparentemente cosí lontana. Il biennio di musica medievale istituito dalla Civica Scuola di Musica di Milano rappresenta un unicum nel panorama didattico-musicale italiano. Crede che questo possa costituire uno stimolo a un futuro allargamento di «orizzonti» da parte dei conservatori, che solo da poco tempo hanno ampliato gli ambiti di studio al periodo barocco? Penso che si debba fare ancora molta strada. Certamente l’esperienza di Milano è destinata a diventare un progetto pilota, che altre istituzioni potrebbero avere il coraggio di

seguire e imitare. Tutta la mia riconoscenza va ovviamente alla direzione della Scuola, che mi sta assicurando le migliori condizioni per portare avanti questo progetto didattico, impegnandosi fattivamente affinché il biennio riceva il riconoscimento del MIUR. Intervista raccolta da Franco Bruni DOVE E QUANDO

Biennio in musica medievale Civica Scuola di Musica «Claudio Abbado» Milano, Villa Simonetta, via Stilicone 36 Info tel. 02 971524; fax 02 36661431; e-mail: info_musica@scmmi.it; www.fondazionemilano.eu/musica/corso/musicamedioevale

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ANTE PRIMA

In gara per un «cencio» G

razie all’amore di Francesco Sforza, e successivamente di Ludovico il Moro, Vigevano visse nel XIV e nel XV secolo un periodo di grande splendore, tanto da divenire un importante centro di potere, anche per merito della mirabile opera urbanistica di Donato Bramante e di Leonardo da Vinci. Anticamente identificata da alcuni col nome di Vicus Veneris, venne ben presto ribattezzata Vicus Virginis per la profonda venerazione dei Vigevanesi nei confronti della Vergine Maria, a cui dedicarono una quindicina di chiese. Tale sentimento venne sostenuto e incoraggiato da frate Matteo, dell’Ordine dei Domenicani, che alla metà del XIV secolo giunse a Vigevano e vi rimase fino alla morte, sopraggiunta il 5 ottobre 1470. Durante il suo soggiorno presso il convento di S. Pietro Martire compí guarigioni e conversioni miracolose, tanto da conquistare il cuore del popolo vigevanese, che lo venerò presto come «beato», proclamazione ufficializzata dalla Chiesa nel 1482.

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Un prestigio ormai consolidato In suo onore, nel 1981, è nato il Palio delle Contrade, che ancora oggi vede gareggiare dodici contrade, abbinate alle dodici parrocchie cittadine. In trentasei anni, la manifestazione ha assunto, di edizione in edizione, una connotazione storica marcata, tanto da essere riconosciuta come una delle rievocazioni piú importanti della Lombardia. L’evento di quest’anno è in programma da venerdí 7 a domenica 9 ottobre. A dare il via alla manifestazione, nella sera di venerdí 7, sarà la fiaccolata delle contrade da piazza Ducale verso la chiesa di S. Pietro Martire, per deporre un cero ai piedi dell’urna che custodisce le spoglie del Beato Matteo. Sabato 8, dalle 16,00 fino a notte, e domenica 9 ottobre, il centro vigevanese si trasformerà nel magnifico borgo rinascimentale dei tempi d’oro: si potrà assistere allo svolgersi dei giochi per la conquista dell’ambito cencio e passeggiare fra dame, cavalieri, popolani e armigeri. Piú di 500 figuranti comporranno il grande corteo che sfilerà nel pomeriggio di domenica. Nei due giorni della manifestazione, banchetti allestiti dalle contrade offriranno pietanze dell’epoca e rappresentazioni di antichi mestieri, fra spettacoli e animazioni di strada, con sbandieratori, musici, danzatori e giocolieri. Info www.paliodivigevano.it Immagini che illustrano le fasi salienti del Palio delle Contrade di Vigevano (Pavia), da tempo affermatosi come una delle principali rievocazioni storiche della Lombardia.

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Una formula di successo D

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a giovedí 27 a domenica 30 ottobre 2016, Paestum la partecipazione e lo scambio di esperienze. ospita la XIX edizione della Borsa Mediterranea del Numerose le sezioni speciali: ArcheoIncontri, per Turismo Archeologico: l’area adiacente al Tempio di conferenze stampa e presentazioni di progetti culturali Cerere, il Museo Archeologico Nazionale e la Basilica e di sviluppo territoriale; ArcheoLavoro, orientamento Paleocristiana saranno ancora una volta le sedi della post diploma e post laurea con presentazione dell’offerta manifestazione. La BMTA si conferma un evento formativa a cura delle Università presenti nel Salone; originale nel suo genere: sede dell’unico salone espositivo ArcheoStartUp, in cui si presentano nuove imprese al mondo del patrimonio archeologico culturali e progetti innovativi nelle attività e di ArcheoVirtual, l’innovativa mostra archeologiche; Incontri con i Protagonisti, di tecnologie multimediali, interattive nei quali il pubblico interviene con i noti e virtuali; luogo di approfondimento e divulgatori della TV. Errata corrige divulgazione di temi dedicati al turismo È inoltre in programma la consegna del con riferimento al culturale e al patrimonio; occasione di secondo International Archaeological Discovery Dossier L’umanista incontro per addetti ai lavori, operatori Award «Khaled che andò alle al-Asaad», il Premio intitolato turistici e culturali, viaggiatori e al Direttore crociate (vedidel sito di Palmira che ha pagato appassionati; opportunità di business nella con la vita lan.difesa del patrimonio culturale «Medioevo» splendida cornice del Museo Archeologico e220, che,aprile in collaborazione con la rivista 2015) con il Workshop tra la domanda estera «Archeo», viene assegnato alla scoperta desideriamo selezionata dall’ENIT e l’offerta del turismo archeologica Per il 2016 sono in precisare che dell’anno. la culturale e archeologico. gara: la tomba celtica a Lavau (Francia); i 22 medaglia in bronzo Una formula di successo testimoniato dalle relitti sottomarini nell’arcipelago di Fourni riprodotta a p. prestigiose collaborazioni di organismi (Grecia); il monumento sotterraneo nei 93 (in basso) internazionali quali UNESCO, UNWTO e ICCROM, pressi di (al Stonehenge (Inghilterra); la tomba etrusca ritrae Malatesta Novello secolo Domenico oltre che dalle cifre dell’ultima edizione: 10 Malatesta, 000 visitatori, a Città della di Pieve (Italia); 1418-1465) signore Cesena, e le tombe della necropoli di 100 espositori, 60 conferenze e incontri, 300non relatori, 120 Malatesta, Khalet al-Jam’a (Palestina). Sigismondo come indicato in operatori dell’offerta, 100 giornalisti accreditati. Ospiti del salone didascalia. Dell’errore ci scusiamo conespositivo l’autore saranno Istituzioni, Enti, Nel sottolineare sempre piú l’importanza deldell’articolo patrimonio e con iPaesi nostriEsteri, lettori. Regioni, Organizzazioni di Categoria, culturale come fattore di dialogo interculturale, Associazioni Professionali e Culturali, Aziende e Consorzi d’integrazione sociale e di sviluppo economico, ogni anno Turistici e Case Editrici. la Borsa promuove la cooperazione tra i popoli attraverso Info www.borsaturismoarcheologico.it


ANTE PRIMA

Prima si gioca e poi si sfila

APPUNTAMENTI • Per rivivere

l’epoca in cui era amministrata dai consoli, Castelfranco Veneto organizza un corteo storico, gare e... una partita di calcio

I

n pieno Medioevo, dal 1195 al 1339, il castello di Castelfranco Veneto fu governato dal Libero Comune di Treviso, prima di entrare a far parte della Serenissima Repubblica di Venezia. Durante questo periodo, la fortezza e il territorio castellano erano amministrati da due consoli, inviati ogni semestre da Treviso, che giuravano «di fare buona e sicura custodia del castello» davanti al podestà. I due funzionari avevano l’obbligo di segnalare ogni sospetto di tradimento o attacco nemico e non potevano, pena la decadenza dalla nomina, ricevere compensi a qualsiasi titolo che non fosse il loro stipendio. Oltre a essere un avamposto militare esente da imposte per i suoi residenti, il castello di Castelfranco Veneto divenne un incrocio di scambi commerciali, ospitando un importante mercato di granaglie e poi anche di bestiami. Ogni anno la cittadina veneta, tuttora in provincia di Treviso, rivive questo periodo storico nelle prime due settimane di settembre. Nel primo week end, quest’anno dal 2 al 4 settembre, si inizia con il tradizionale torneo del Gioco del Pallone. Questo sport, simile al calcio fiorentino, si praticava nel Medioevo sotto le mura cittadine, inizialmente per distrarre i militari durante gli assedi, poi come momento di confronto fra le borgate cittadine. Oggi si svolge su un campo di 14 x 70 m, con porte «a sacco» larghe quanto l’intero fondo del campo, fra squadre costituite da dieci elementi.

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Una fase del torneo del Castel d’Amore, in cui ogni squadra dei quartieri di Castelfranco Veneto deve raggiungere la propria damigella in cima a una torre e consegnarle un fazzoletto.

Il gioco consiste nel collocare la palla, giocabile liberamente con tutto il corpo, nel sacco avversario. Ogni partita dura 40 minuti e, in caso di parità, si continua a oltranza, finché una squadra segna il Sacco d’Oro.

Quadri di vita trecentesca La rievocazione di Castelfranco propone poi per entrambi i week end (3-4 e 10-11 settembre) una Fiera medievale. All’interno delle mura, bancarelle vendono merci e cibi dell’epoca, mentre figuranti in costume ricreano quadri di vita del Trecento, menestrelli danzano e cantano, artigiani si mettono all’opera nelle piazzette e sotto i portici. Nella seconda domenica di festeggiamenti (11 settembre) va in scena anche il fastoso corteo storico che ricostruisce l’arrivo in città dei due consoli, accolti dalle autorità civili e religiose, e dalle piú importanti famiglie castellane. Oltre seicento figuranti in costumi del XIII e XIV secolo accompagnano

i consoli in corteo attorno alle mura, rappresentando gli aspetti della vita medievale e personaggi della storia cittadina. Ogni quartiere o borgo sfila preceduto dalla propria piccola amministrazione. Dopo il corteo, i festeggiamenti si chiudono nel pomeriggio con il torneo del Castel d’Amore, moderna interpretazione di un antico gioco. I quindici quartieri cittadini (Bella Venezia, Borgo Asolo, Borgo Bassano, San Giorgio-Borgo Padova, Borgo Pieve, Campigo, Quartiere Valsugana, Quartiere Verdi, Salvarosa, Salvatronda, San Floriano, San Marco, Sant’Andrea, Treville, Villarazzo) si cimentano in un percorso «di guerra» per raggiungere la propria damigella, in cima a una torre di legno, alla quale devono consegnare un fazzoletto. Ogni contrada partecipa con una squadra di otto elementi: una dama, un capitano, uno scudiero, quattro soldati e una riserva. Tiziano Zaccaria settembre

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ANTE PRIMA

Gubbio: il grande racconto della Storia

APPUNTAMENTI • Sommario aque volles samendi utecupt atiatias dustem quo

bero vit omnis derum volupta voluptate ma veraectest andentiunt, sum utatemo lectatur, aperempos simodiatur? Ellupta tamendaestem faciti dolupta acese officit, quiam

In alto explab ium nis consedi tatibus audipienimus pro occulliati acient que none coresto comnim am, cus aut evel. In basso explab ium nis consedi tatibus audipienimus pro occulliati acient que none coresto comnim am, cus aut evel is.

L’

unico Festival del Medioevo d’Europa abita a Gubbio, l’affascinante città dell’Umbria che stregò lo scrittore e poeta di origine tedesca Hermann Hesse (1877-1962), vincitore del Premio Nobel per la letteratura nel 1946: «Si crede di sognare o di trovarsi di fronte a uno scenario teatrale. E bisogna continuamente persuadersi che invece tutto è lí, fermo e fissato nella pietra». Un luogo in cui si può tornare «a sentire con i propri sensi il passato come presente, il lontano come vicino, il bello come eterno».

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Una sfida avvincente Dal 4 al 9 ottobre 2016, storici, saggisti, filosofi, scrittori e giornalisti affronteranno una vera e propria sfida: quella di raccontare, in modo chiaro e coinvolgente, i dieci secoli dell’età di Mezzo. Per capire, con Benedetto Croce, che «ogni storia è storia contemporanea». «Europa e Islam» è il titolo scelto per la seconda edizione del Festival del Medioevo, la cui sede principale è

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In alto uno scorcio di Gubbio, che si appresta a ospitare la seconda edizione del Festival del Medioevo. Qui sopra la segnaletica allestita in occasione della rassegna. settembre

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A destra una delle conferenze che hanno animato l’edizione 2015 del Festival del Medioevo. In basso il Palazzo dei Consoli, monumento simbolo di Gubbio, che ne testimonia i fasti medievali.

il Centro Convegni Santo Spirito, una imponente costruzione medievale a pochi passi dal parcheggio della centrale piazza Quaranta Martiri. Attrezzato con una moderna sala conferenze, l’edificio ospiterà gli incontri con gli autori e la prima Fiera del Libro Medievale. Le case editrici piú importanti e quelle specializzate presenteranno al vasto pubblico degli appassionati le loro pubblicazioni sull’età di Mezzo. I visitatori troveranno in vendita gli ultimi titoli, i grandi classici, i saggi, le biografie, le enciclopedie, gli approfondimenti tematici e gli atti dei piú importanti convegni. Tutto quello che c’è da leggere per conoscere meglio dieci secoli di storia dell’Italia e del mondo. Sotto le volte della struttura troveranno posto anche gli stand dedicati alle botteghe medievali e ai mestieri d’arte.

Gli appuntamenti da non mancare

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Le strade e le piazze di Gubbio faranno da sfondo anche a decine di altri eventi collaterali: mostre, film, rievocazioni, spettacoli, concerti, laboratori per bambini e visite guidate. Ne ricordiamo alcuni di quelli principali. Nel Mercato Medievale, curato dai quattro quartieri storici di Gubbio (San Martino, San Giuliano, San Pietro e Sant’Andrea) gli acquisti si faranno con una moneta autonoma: «quattrini» ed «eugubini» che si potranno ritirare al banco di cambio medievale.

Tra i tanti eventi, spicca l’appuntamento con la Puglia imperiale arricchito da due mostre dedicate alle strade e ai castelli di Federico II di Svevia. Attorno alla Tavola rotonda del Web siederanno invece i protagonisti dei siti on line specializzati sul Medioevo, mentre l’esposizione ospitata nelle sale della Biblioteca Sperelliana racconterà ai visitatori L’universo di Tolkien. Un apposito spazio sarà inoltre riservato al Medioevo dei bambini, con letture, laboratori d’arte e la quotidiana prova di disegno Giotto per un giorno. E i medievalismi, nella politica contemporanea, nel cinema e nella musica


ANTE PRIMA

In alto riproduzione artigianale di un dipinto su tavola. In basso, sulle due pagine il Festival del Medioevo è anche l’occasione per rievocare gli usi e i costumi dell’età di Mezzo, per esempio riproponendone le tecniche di combattimento. pop, saranno al centro di appositi approfondimenti. Alcuni tra i piú importanti calligrafi italiani e europei animeranno l’evento quotidiano dedicato ai Miniatori dal mondo, nelle spettacolari sale degli Arconi di via Baldassini. La manifestazione, in collaborazione con il CIANS (Comitato Italiano Associazioni Nazionali Storiche), ospiterà anche una conferenza convocata dagli Stati Generali della Rievocazione Storica, per fare il punto su una recente proposta di legge che riguarda centinaia di associazioni in tutta Italia.

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La vita di sant’Agostino Sul palco del Teatro Ronconi, nelle serate del 5 e 6 ottobre, salirà l’attore Massimo Popolizio, protagonista, insieme a Marianna Masciolini, di Confiteor, uno spettacolo sulla vita di sant’Agostino scritto appositamente per il Festival del Medioevo da Gennaro Colangelo. Due gli appuntamenti curati dall’ensemble Micrologus, il gruppo vocale-strumentale che sovrintende al programma musicale della manifestazione: il concerto Canti di crociate e di blasfemia (8 ottobre) e lo spettacolo Gomorra medievale, scritto dallo storico Amedeo Feniello. Il gruppo rievocativo Mansio Templi Parmensis racconterà

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invece la vita reale e la storia dell’Ordine del Tempio, attraverso la fedele ricostruzione di un accampamento templare. E, nelle giornate di sabato 8 e domenica 9, in piazza Grande, si terranno le esibizioni dei Balestrieri e degli Sbandieratori di Gubbio. Il Festival del Medioevo si avvale della collaborazione di quindici università e di alcuni tra i piú importanti centri studi nazionali e stranieri che si occupano dell’età settembre

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A sinistra ancora un’immagine degli incontri organizzati in occasione della prima edizione del Festival del Medioevo. In basso un artigiano specializzato nella riproduzione delle tecniche di rilegatura in uso in epoca medievale. All’edizione 2016 della rassegna è prevista la partecipazione, tra gli altri, di: Alessandro Barbero, Massimo Campanini, Franco Cardini, Chiara Frugoni, Massimo Montanari, Ian Wood, Amedeo Feniello, Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Riccardo Fedriga, Dario Edoardo Viganò, Liliana Cavani, Pupi Avati, Grado Giovanni Merlo, Nicolangelo d’Acunto, Jacques Dalarun, Massimo Miglio, Giuseppe Laterza, Tommaso di Carpegna Falconieri, Giuseppina Muzzarelli, Jean Claude Maire Viguer, Duccio Balestracci, Francesco Benozzo, Alessandro Vanoli, Cristoforo Gorno, Andreas M. Steiner, Alberto Grohman, Gabriella Piccinni, Francesca Roversi Monaco, Nicoletta Guidobaldi, Umberto Longo, Francesco Paolo Fiore, Marina Montesano, Giacomo Manzoli, Salvatore Sansone, Francesco Federico Mancini, Giuseppe Giannotti, Laura Teza, Antonio Musarra, Giuseppe Losapio, Victor Rivera Magos, Sonia Merli e Giuseppe Ligato.

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La manifestazione gode del patrocinio della Presidenza della Repubblica, del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e dell’ISIME (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo). Il sito del Festival (www.festivaldelmedioevo.it) e la relativa pagina Facebook possono essere consultati per conoscere i dettagli della manifestazione e tutti gli aggiornamenti del programma.

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medievale. La RAI, Radio Televisione Italiana, è media partner dell’evento con i suoi canali tematici RAI Storia e RAI Cultura insieme al mensile «Medioevo» e alcuni tra i piú importanti siti che si occupano dell’età di Mezzo. Nel centro storico sarà possibile frequentare una sala video attrezzata dove, per tutti i giorni della manifestazione, verranno proiettati i film, gli sceneggiati e i documentari storici di Rai Storia e di Rai Teche.


ANTE PRIMA

Evviva san Tito! APPUNTAMENTI •

Sebbene siano state «importate», Casorate Sempione nutre da sempre un sentimento di fortissima devozione per le spoglie del martire trucidato a Roma nel V secolo. E, ogni dieci anni, organizza in suo onore una festa grandiosa

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l diacono romano san Tito fu tra i primi a diffondere il cristianesimo a Roma nel V secolo, durante le invasioni dei Goti. Nel 426 il martire venne pubblicamente trucidato da un tribuno di nome Felice, mentre distribuiva elemosine ai poveri; il suo corpo fu sepolto nel cimitero sotterraneo di Ciriaca in Roma. Molti secoli piú tardi, nel 1676, il frate Giuseppe Cusani, vescovo di Porfiria e assistente al Soglio Pontificio, mandò in dono il corpo di Tito a Camillo Brabanti, parroco del piccolo centro lombardo di Casorate Sempione (Varese).

Immagini del trasporto per le vie di Casorate Sempione dell’urna di cristallo che contiene le spoglie di san Tito.

L’arrivo delle reliquie Per accogliere le reliquie, fu costruito un altare nella chiesa parrocchiale della Beata Vergine Assunta e venne istituita una cappellania per l’organizzazione della messa quotidiana e della festa in onore del santo ogni 16 agosto, giorno dell’arrivo delle sue spoglie in paese. Dal 1926, ogni dieci anni la solennità viene proposta con maggiore sfarzo: si protrae per quasi due settimane, arricchita da eventi

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culturali, sportivi, gastronomici, musicali e di intrattenimento. I cittadini sono da tempo impegnati nei preparativi della prossima edizione, in programma dal 3 al 13 settembre: in vista della festa, si procede infatti alla realizzazione di migliaia di fiori in cartapesta e poi di strutture coreografiche di supporto ai fiori, lampade colorate, altari improvvisati, archi fioriti, cappelle votive e murales.

Cavalieri romani e soldati spagnoli L’aspetto religioso sarà rappresentato soprattutto dalle processioni, in programma nei pomeriggi di domenica 4 e 11 settembre, e nelle serate di giovedí 8 e martedí 13. Nell’occasione, l’urna di cristallo con le spoglie del santo verrà offerta alla venerazione dei fedeli, trasportata su un carro, fra cavalieri dell’impero romano e soldati spagnoli del XVII secolo, a rievocare nello stesso tempo il martirio di Tito e l’arrivo delle sue spoglie. Non mancheranno mostre etnografiche, esposizioni di scultura, pittura e fotografia, spettacoli teatrali e musicali. Infine, nei ristoranti, si potrà gustare il dolce «di san Tito», preparato nei giorni della festa sulla base di un’antica ricetta. La nascita di Casorate Sempione risale a tempi remoti. La zona era frequentata già nell’età del Bronzo e quando, nel 218 d.C., vi giunsero poi i Romani, nella località oggi detta Masnaga esisteva un abitato gallico. L’originario nome romano di Cunrate, trasformatosi nel tempo in Consorate e Casorà, indicherebbe una «fortezza sulla strada percorsa dai carri». A partire dall’XI secolo, Casorate appartenne al Comitato del Seprio, prima di essere infeudata nel 1129 da Guido Visconti nella Pieve di Somma. L’odierno nucleo urbano prese forma nel XIV secolo. Il secondo nome, «Sempione», è stato aggiunto nel 1864, all’indomani dell’Unità d’Italia. Tiziano Zaccaria

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Vendemmia nella «città reale» L

a cittadina medievale di Znojmo è un gioiello architettonico della Moravia meridionale, regione della Repubblica Ceca confinante con l’Austria. Il centro sorge arroccato su un promontorio roccioso, sulla riva del fiume Dyje, nel luogo in cui, nell’VIII secolo, venne costruito un castello che dominava una vasta area della Moravia e della Bassa Austria. Alla metà del X secolo, il maniero fu gravemente danneggiato dagli Ungheresi, ma venne presto ricostruito dal duca Konrad I e da suo figlio Litold. Nell’XI secolo, davanti alla fortezza nacque un primo insediamento suburbano, dominato dalla chiesa di S. Michele e S. Nicola. Nel 1226, re Ottokar I elevò Znojmo a «città reale», la prima di questo genere in Moravia meridionale, fortificandola con mura poderose, in gran parte giunte intatte ai nostri giorni. Il periodo d’oro arrivò nel XIII e XIV secolo, quando il centro vantava due ospedali e l’approvvigionamento idrico attraverso un acquedotto. Nel Trecento, durante il regno di Giovanni di Lussemburgo, la città fu piú volte attaccata senza successo dagli Austriaci.

La consegna della pergamena Ogni anno, in settembre, Znojmo rievoca il suo fulgido passato medievale in occasione della Festa della Vendemmia, quest’anno in programma da venerdí 16 a domenica 18. Il personaggio principale della storica sagra è re Giovanni di Lussemburgo, che qui giunse da trionfatore con la moglie Elisabetta di Boemia e la sua corte reale nel 1327, per consegnare ai consiglieri comunali la pergamena con i diritti della città. La Festa della Vendemmia ha il suo apice nel corteo storico in costumi d’epoca composto da oltre quattrocento figuranti, che attraverserà le strade del centro il venerdí sera e il sabato pomeriggio. Sono previsti anche tornei cavallereschi, duelli d’arme, fuochi d’artificio, spettacoli di teatro di strada e un mercatino di prodotti enogastronomici. Le locande locali, chiamate mazhaus, proporranno piatti tradizionali e degustazioni di vino e mosto d’uva dei produttori locali. La Vendemmia Storica può offrire l’opportunità di esplorare le bellezze di Znojmo, che possiede numerose architetture medievali, a partire dalla rotonda di S. Caterina, nei cui interni si ammirano dipinti romanici di fine XI secolo, con motivi biblici. Da non mancare è anche la chiesa gotica di S. Nicola, costruita nel 1348 dall’imperatore Carlo IV, e la torre gotica del municipio, datata 1446. Il centro storico, ancora oggi circondato dalle mura medievali, è attraversato da un vero e proprio labirinto di stradine tortuose, e offre vedute romantiche e angoli davvero pittoreschi. T. Z.

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AGENDA DEL MESE

Mostre ROMA SANTA MARIA ANTIQUA. TRA ROMA E BISANZIO Foro Romano, Basilica di S. Maria Antiqua fino all’11 settembre

Dopo oltre trent’anni, riapre al pubblico S. Maria Antiqua, la basilica nel Foro Romano scoperta nel 1900 alle pendici del Palatino. La chiesa conserva sulle sue pareti un

a cura di Stefano Mammini

l’edificio, con i suoi dipinti, ha giocato nel Foro Romano postclassico cristianizzato e al rapporto con la Roma altomedievale, là dove si andavano concentrando la vita religiosa e i servizi pubblici di approvvigionamento per cittadini e pellegrini. info tel. 06 699841; prenotazioni: tel. 06 39967700; www.coopculture.it MILANO SECONDO DIALOGO, MANTEGNA E CARRACCI: ATTORNO AL CRISTO MORTO Pinacoteca di Brera fino al 18 settembre

patrimonio di pitture unico nel mondo cristiano del primo millennio, databile dal VI al IX secolo, quando fu abbandonata a seguito dei crolli causati dal terremoto dell’847. Resta eccezionale testimonianza nello sviluppo della pittura non solo romana, ma di tutto il mondo greco bizantino contemporaneo: l’iconoclastia, infatti, cancellò gran parte delle immagini sacre di quell’epoca. Chiusa dagli anni Ottanta per un complesso intervento architettonico proseguito con il restauro delle pitture, alla riapertura completa della chiesa – aperta in precedenza solo per brevi periodi con visita guidata ai cantieri – si accompagna un’esposizione che è «mostra» del monumento stesso, perché gravita intorno al ruolo che

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Per il secondo dei suoi «Dialoghi», la Pinacoteca di Brera mette fianco a fianco, per la prima volta, il Cristo morto di Andrea Mantegna, una delle opere simbolo della Pinacoteca milanese, nonché icona universale del Rinascimento, e il Cristo morto con gli strumenti della Passione, versione dello stesso soggetto dipinta nel 15831585 da Annibale Carracci, proveniente dalla Staatsgalerie di Stoccarda. Un dialogo allargato anche al Compianto sul Cristo morto realizzato da Orazio Borgianni nel 1615 e proveniente dalla Galleria Spada di Roma.

Emblema delle conoscenze prospettiche di Mantegna, dotato di forza espressiva e al tempo stesso compostezza severa, che ne fanno uno dei simboli piú noti dell’arte italiana, il Cristo morto di Mantegna è databile intorno al 1480. L’opera ebbe una notevole fortuna visiva tra Cinquecento e Seicento, documentata da una sequenza prestigiosa di derivazioni: tra queste il dipinto realizzato da Carracci, datato 1583-1585, si caratterizza per il crudo realismo evidenziato dagli strumenti del martirio, in particolare della corona di spine, collocati in primo piano nel capolavoro del Bolognese, a testimonianza della brutalità del supplizio, appena avvenuto. info tel. 02 72263264; http://pinacotecabrera.org; prenotazioni tel. 02 92800361; www.pinacotecabrera.net

gran pregio, che vedono l’incontro di maestri d’Oriente e d’Occidente. Il progetto espositivo si è ispirato al libro Il mio nome è Rosso, di Orhan Pamuk, nel quale lo scrittore turco affronta il tema della convivenza fra culture e popoli, sullo sfondo di un paesaggio artistico condiviso e unanimemente rispettato. Protagonista del giallo, ambientato alla fine del Cinquecento alla corte del sultano, è la figura del cavallo, ritratto dai miniaturisti secondo un’iconografia occidentale, naturalistica, erede della tradizione estetica veneziana. La mostra

MILANO IL MIO NOME È CAVALLO. IMMAGINI TRA ORIENTE E OCCIDENTE Studio Museo Francesco Messina fino al 25 settembre

Lo Studio Museo Francesco Messina celebra l’immagine del cavallo con 20 opere di

restituisce questo ponte fra Est e Ovest, attraverso un viaggio ideale che vede proprio nella figura del cavallo un elemento di congiunzione. Il nobile quadrupede ritorna in un auriga ritratto nel mosaico pavimentale della Villa del Baccano a Roma, ma anche nella splendida testa di cavallo, di cultura sasanide, rinvenuta a Kerman, nell’Iran sud-orientale, e conservata al Louvre, da cui giunge in Italia oggi per la prima volta. Dall’Institut du Monde Arabe di Parigi, partner dell’iniziativa, proviene un cavallino scolpito su un frammento di giara scoperto a Susa, in Iran occidentale, che scalpita su un fregio ornamentale di memoria classica. Importanti sono poi le opere concesse in prestito settembre

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MOSTRE • Orlando furioso 500 anni. Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi Ferrara – Palazzo dei Diamanti

fino all’8 gennaio 2017 (dal 24 settembre) info tel. 0532 244949; e-mail: diamanti@comune.fe.it; www.palazzodiamanti.it

I

l 22 aprile 1516, in un’officina tipografica ferrarese, terminava la stampa dell’Orlando furioso, opera simbolo del Rinascimento italiano. Per celebrare il quinto centenario dell’evento, Palazzo dei Diamanti ospita una mostra d’arte che fa dialogare fra loro dipinti, sculture, arazzi, libri, manoscritti miniati, strumenti musicali, ceramiche invetriate, armi e rari manufatti. A orchestrare questo incanto visivo è un’idea semplice: restituire l’universo di immagini che popolavano la mente di Ludovico Ariosto mentre componeva il Furioso. Cosa vedeva, dunque, il poeta, chiudendo gli occhi, quando si accingeva a raccontare una battaglia, un duello di cavalieri o il compimento di un prodigioso incantesimo? Quali opere d’arte furono le muse del suo immaginario visivo? Un lungo lavoro è stato orientato a individuare i temi salienti del poema e a rintracciare, puntualmente, le fonti iconografiche che ne hanno ispirato la narrazione. I visitatori saranno cosí condotti in un appassionante viaggio nell’universo ariostesco, tra immagini di battaglie e tornei, cavalieri e amori, desideri e magie. A guidarli saranno i capolavori dei piú grandi artisti del periodo, da Paolo Uccello ad Andrea Mantegna, da Leonardo da Vinci a Raffaello, da Michelangelo a Tiziano a Dosso Dossi: creazioni straordinarie che faranno rivivere il fantastico mondo cavalleresco dell’Orlando furioso e dei suoi paladini, offrendo al contempo un suggestivo spaccato dell’Italia delle corti in cui il libro fu concepito. dalle collezioni dei musei civici milanesi. Restaurati per l’occasione, due esemplari del Museo Poldi Pezzoli, fra cui spicca il Baraki, una testiera per cavallo, di provenienza persiana, con un cartiglio che reca l’iscrizione «Il sultano». Il percorso contempla infine un capitolo moderno, punteggiato di dieci bronzetti che lo scultore Francesco Messina (1900-1995) ha dedicato al tema del cavallo, nel recupero delle fonti di ispirazione classiche. info tel. 02 88447965 MATELICA LORENZO DE CARRIS E I PITTORI ECCENTRICI NELLE MARCHE DEL PRIMO CINQUECENTO Museo Piersanti fino al 2 ottobre

Attraverso pitture e sculture che vanno dal 1490 alla metà del Cinquecento, la mostra racconta l’arte nelle Marche

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del Rinascimento maturo e si snoda lungo un percorso cronologico e stilistico che accosta le opere di Lorenzo de Carris a quelle dei suoi contemporanei come Luca Signorelli, Cola dell’Amatrice e Vincenzo Pagani. Lorenzo di Giovanni, che dal 1502 viene chiamato anche il Giuda, era di origine slava e nacque a Matelica tra il 1465 e il 1466. La mostra ne racconta l’intero percorso, avendo raccolto tutte

le opere mobili disponibili tra cui spicca il prestigiosissimo prestito dalla Pinacoteca di Brera di Milano che ha acconsentito alla movimentazione di una pala d’altare che era in origine a Serra San Quirico. Questa aveva la sua predella che decenni fa fu spostata al Senato della Repubblica a Palazzo Madama a Roma; per la prima volta le due opere torneranno insieme per ricomporre il complesso. info tel. 0737 84445; https:/ www.facebook.com/ Museopiersanti

van Oudheden di Leida sono stati inaugurati con l’allestimento di ben quattro esposizioni, una delle quali ripercorre la storia della spada,

LEIDA STORIE AFFILATE Rijksmuseum van Oudheden fino al 2 ottobre

I nuovi spazi per mostre temporanee del Rijksmuseum

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AGENDA DEL MESE sottolineando, in particolare, il ruolo simbolico assegnato all’arma fin dalle epoche piú antiche, che è stato forse ancor piú rilevante di quello giocato nella pratica guerresca. Attingendo alla propria collezione permanente e grazie a importanti prestiti, il museo olandese presenta oltre 200 esemplari di spada, che includono armi cerimoniali e lame da stocco, nonché ferri di particolare valore storico. Fra gli altri, spicca una magnifica spada carolingia proveniente dal sito di Dorestad, la sola del genere a oggi nota nei Paesi Bassi, e che dovette appartenere a un personaggio di rango assai elevato. info www.rmo.nl GENOVA GENOVA NEL MEDIOEVO. UNA CAPITALE DEL MEDITERRANEO AL TEMPO DEGLI EMBRIACI Museo di S. Agostino fino al 9 ottobre

Situato nel cuore piú antico del centro storico di Genova, il complesso museale di

S. Agostino ospita la prima mostra mai dedicata al Medioevo genovese. L’iniziativa rientra in un piú ampio progetto, promosso dal Comune di Genova, per diffondere la conoscenza della storia delle origini della città e del suo ruolo come grande capitale europea e del Mediterraneo. Il sottotitolo della mostra – «Una capitale

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del Mediterraneo al tempo degli Embriaci» – fa diretto riferimento a una delle piú eminenti famiglie che, nei primi secoli dopo l’anno Mille – periodo storico che coincide con l’epopea delle crociate –, contribuirono a sviluppare e consolidare questa nuova fisionomia della città portuale. Protagonisti della rassegna sono circa 200 reperti – tra cui sculture, reliquiari, preziosissimi frammenti di tessuti, ceramiche, manoscritti miniati –, che illustrano un’epoca di grande fioritura e dinamicità politica, commerciale e culturale. Tra i numerosi capolavori esposti, il magnifico «catino» verde, in vetro traslucido, inizialmente ritenuto di smeraldo e identificato dal frate domenicano e arcivescovo di Genova, Iacopo da Varagine (1228-1298), con il Santo Graal. Si tratta, in verità, di un tipico manufatto di produzione fatimide (la dinastia araba che dominò l’Egitto dal 973 al 1171), un genere molto apprezzato nelle corti dei califfi. Il «catino» fu

saccheggiato dai crociati nella città di Cesarea nell’anno 1101, e da lí portato a Genova. info complesso museale di s. agostino: tel. 010 2511263; e-mail: museosagostino@comune. genova.it; www.museidigenova.it; call center coopculture: tel. 010 4490128 (lu-ve, 9,00-13,00 e 14,00-17,00; sa, 9,00-13,00); e-mail: msa@coopculture.it

ILLEGIO, TOLMEZZO (UDINE) OLTRE. IN VIAGGIO CON CERCATORI, FUGGITIVI, PELLEGRINI Casa delle Esposizioni fino al 9 ottobre

Viaggiare è il simbolo dell’insopprimibile desiderio dell’uomo di trovare il senso, di superare se stesso, di vivere pienamente: sensazioni che vengono raccontate visivamente nella mostra di Illegio, attraverso un percorso che comprende oltre quaranta dipinti su tela e su tavola. Fra le opere, provenienti da collezioni pubbliche e private italiane ed europee, possiamo ricordare la tavola del Museo

Borgogna di Vercelli, dipinta da Bernardino de’ Donati agli inizi del Cinquecento, che mette in scena Enea alla corte di Didone e la grandiosa Adorazione dei Magi, concessa in prestito dagli Uffizi, opera di Sandro Botticelli, del 1500 circa, tra le sue ultime opere, mistica, strana e popolatissima, intrisa degli echi delle profezie del Savonarola. Quanto ai pellegrini, ne vediamo su predelle di squisita ricchezza, come quella di Lorenzo Monaco dal Museo di San Marco di Firenze, San Nicola che salva i naviganti, del 1415 circa. info tel. 0433 44445 oppure 0433 2054 JESOLO (VENEZIA) CRUX. IL CROCEFISSO DI JESOLO: CINQUE SECOLI DI ARTE E DEVOZIONE Chiesa di S. Giovanni Battista fino al 16 ottobre

Allestita nella chiesa di S. Giovanni Battista di Jesolo, la mostra ripropone cinque secoli di arte e devozione, che ruotano attorno al prezioso settembre

MEDIOEVO


Crocefisso. La tavola, databile nel XIV secolo e al centro di una vicenda attributiva ancora in divenire, torna nella sua cittadina, dopo anni di ricerche che hanno permesso di identificarla con un’opera collocata nei depositi delle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Il Cristo è stato oggetto di una cessione chiarita di recente, grazie all’impegno di Giuseppe Artesi, il quale studiando documenti custoditi all’Archivio di Stato di Venezia, ha ricostruito il passaggio del Crocefisso da Jesolo alla città lagunare. La rassegna offre l’occasione per ripercorrere le ipotesi relative all’attribuzione, per la

quale sono stati fatti i nomi di Niccolò di Pietro, del Maestro della Madonna del Parto e del colorista veneziano Niccolò Semitecolo. info www.comune.jesolo.ve.it/

oggi sulle arti figurative. Villa d’Este, con il suo celebre giardino e i suoi ambienti affrescati, ne costituisce lo scenario ideale: il cardinale Ippolito II d’Este, infatti, che fece costruire e decorare tra gli anni Sessanta e Settanta del Cinquecento questa villa di delizie, non solo è citato piú volte nel poema, ma aveva avuto modo di frequentare l’Ariosto negli anni della giovinezza trascorsi presso la corte ferrarese. Le opere riunite a Villa d’Este attingono alle piú varie tipologie e tecniche artistiche (dipinti, sculture, arazzi, ceramiche, disegni, incisioni, medaglie, libri illustrati...) e vengono presentate secondo un itinerario cronologico, documentando la fortuna visiva del poema. A integrazione della mostra, Villa d’Este propone un ricco calendario di manifestazioni ed eventi collegati: percorsi nel territorio, concerti, proiezioni cinematografiche, spettacoli teatrali, conferenze, letture ariostesche. info tel. 0774 312070; e-mail: pm-laz.villadeste@beniculturali.it www.villadestetivoli.info; www.ariostovilladeste.it

crocefisso

TIVOLI (ROMA) I VOLI DELL’ARIOSTO. L’ORLANDO FURIOSO E LE ARTI Villa d’Este fino al 30 ottobre

Organizzata in occasione del cinquecentesimo anniversario della prima edizione dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto (1516), la mostra celebra l’impatto esercitato dal poema fino a

MEDIOEVO

settembre

SAN GIMIGNANO BENOZZO GOZZOLI A SAN GIMIGNANO Pinacoteca fino al 1° novembre

Di Benozzo Gozzoli (1420/21-1497), artista tra i piú rappresentativi e prolifici del Quattrocento italiano, la mostra celebra il triennio sangimignanese, uno dei periodi piú intensi e fecondi nella sua lunga attività.

Protagonista del progetto espositivo è la tavola di Benozzo con la Madonna col Bambino e angeli tra i santi Giovanni Battista, Maria Maddalena, Agostino e Marta, che viene ricomposta per la prima volta nella sua interezza grazie ai frammenti di predella oggi divisi tra i musei di Brera, Avignone e Madrid. Il maestro soggiornò nella città delle torri dal 1464 al 1467 e vi realizzò affreschi e pale d’altare, frutto della sua efficiente organizzazione di bottega. Riunite per l’occasione, le opere sono distribuite fra la Pinacoteca e il Museo d’Arte Sacra. Sono stati inoltre predisposti un circuito di visite dei cicli di affreschi nel Duomo, nella chiesa di S. Agostino e nell’abbazia di Monteoliveto e un approfondimento della figura dell’artista presso il BEGO-Museo Benozzo Gozzoli di Castelfiorentino. info www.sangimignanomusei.it

VENEZIA VENEZIA, GLI EBREI E L’EUROPA. 1516-2016 Palazzo Ducale, Appartamenti del Doge fino al 13 novembre

Organizzata per il cinquecentenario dell’istituzione del Ghetto di Venezia, la mostra descrive i processi che sono alla base della realizzazione e della nascita del primo «recinto» destinato agli Ebrei creato al mondo, ma, nel contempo, allarga lo sguardo alle relazioni stabilite con il contesto degli altri quartieri ebraici (e non solo) italiani ed europei. L’iniziativa intende mettere in

luce la ricchezza dei rapporti tra Ebrei e Venezia, tra Ebrei e società civile nei diversi periodi della loro permanenza in laguna, in area veneta e in area europea e mediterranea. Dipinti, disegni, libri, documenti, ricostruzioni multimediali concorrono a raccontare una lunga storia di relazioni e di scambi culturali. Con l’obiettivo di divulgare una maggiore consapevolezza delle diversità culturali esistenti in Europa. info tel. 041 2715911; e-mail: info@fmcvenezia.it; http://palazzoducale.visitmuve.it CASTEL DEL MONTE MATEMATICA E BELLEZZA. FIBONACCI E IL NUMERO AUREO fino al 15 novembre

Nell’immaginario collettivo,

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AGENDA DEL MESE l’arte e la matematica sembrano viaggiare su strade parallele, ma sono in realtà strettamente connesse tra loro. Dal loro connubio nasce questa mostra, che trova in Castel del Monte la sua collocazione ideale, considerando come nell’idea costruttiva di Federico II la proporzione numerica si sia manifestata al suo livello piú elevato. La rassegna presenta le riproduzioni di capolavori di Botticelli, Giorgione, Giotto, Leonardo da Vinci e una planimetria di Castel del Monte e del suo portale, poste in relazione con opere di artisti contemporanei quali Alberto Biasi, Gregorio Botta, Bruno Ceccobelli, Giorgio de Chirico, Piero Guccione, Giacomo Manzú, Piero Pizzi Cannella e Oliviero Rainaldi. info tel. 0883 569997; www. casteldelmonte.beniculturali.it PERUGIA I TESORI DELLA FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI PERUGIA E IL CARAVAGGISMO NELLE COLLEZIONI DI PERUGIA Palazzo Lippi Alessandri fino al 20 novembre

L’esposizione marca i vent’anni di collezionismo della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e ne propone le opere d’arte acquisite. Si tratta di oltre 50 dipinti, rappresentativi non solo delle esperienze artistiche che si affermano in Umbria dal Trecento al Settecento, ma anche di altri aspetti della cultura figurativa italiana dal Rinascimento al Barocco. Nelle stesse date e negli stessi spazi è inoltre allestita la rassegna dedicata al caravaggismo nelle collezioni di Perugia. Una doppia occasione, quindi, per ammirare le opere piú importanti della collezione della Fondazione Cassa di Risparmio.

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Bra, Fossano, Mondoví, Saluzzo, Savigliano e Cuneo – le principali città del Cuneese. info www.ilcuneogotico.it LORETO LA MADDALENA, TRA PECCATO E PENITENZA Museo-Antico Tesoro della Santa Casa di Loreto fino all’8 gennaio 2017 (dal 3 settembre)

La rassegna si propone come uno degli appuntamenti d’arte di maggior rilievo fra quelli dedicati al Giubileo della Misericordia, soprattutto dopo l’annuncio di papa Francesco dell’istituzione, proprio nell’anno giubilare, della festa della Maddalena. Prostrata ai piedi del Signore nell’atto di ungergli i piedi con essenze preziose, oppure dolente e piangente abbracciata al legno della croce, infine lieta di recare l’annuncio della Resurrezione agli apostoli, la

info: tel. 075. 5724563; e-mail: info@fondazionecariperugiaarte.it; www.fondazionecariperugiaarte.it

CUNEO ARTIERI FANTASTICI. CAPOLAVORI D’ARTEDESIGN Complesso monumentale di San Francesco fino al 27 novembre (dal 24 settembre)

Realizzata nell’ambito del progetto «Il cuNeo Gotico», la mostra presenta rari e fantasiosi «artefatti», accomunati dal legame con lo spirito neogotico che pervade il Cuneese. A curare la mostra è il Seminario di Arti Applicate/MIAAO di Torino e vi partecipano la Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte di Milano, nonché, per la prima volta in Italia, i Compagnons du Tour de France, una delle tre organizzazioni del Compagnonnage, dichiarata nel 2010 Patrimonio Culturale

immateriale dell’UNESCO e rappresentante di un’illustre tradizione di «artigianato esoterico». La sezione Quattro fantastici dedica ampio spazio a illustrazioni, fumetti e graphic novel, mentre la zona denominata «Sette cappelle per sette sorelle», propone installazioni situate appunto nelle sette cappelle della chiesa di S. Francesco, il cui numero rimanda alle eccellenze delle arti applicate nelle «sette sorelle» – Alba,

figura della Maddalena ha destato l’interesse dei maggiori artisti dal Medioevo al Neoclassicismo e questa mostra, attraverso una selezione di capolavori che illustrano vari momenti della settembre

MEDIOEVO


sua vita, intende presentarne gli episodi piú significativi. info tel. 071 9747198 o 06 68193064; e-mail: museoanticotesoro@gmail.com; e-mail: info@artifexarte.it: www.artifexarte.it NEW YORK GERUSALEMME 1000-1400: UN PARADISO PER OGNI POPOLO The Metropolitan Museum of Art fino all’8 gennaio 2017 (dal 26 settembre)

Intorno al fatidico anno Mille, Gerusalemme esercitò un richiamo pressoché irresistibile e si trasformò in un luogo simbolico per genti che professavano credi diversi, dall’Islanda all’India. Questo straordinario fenomeno diede vita a uno dei momenti piú

luminosi nella storia della Città Santa ed è stato scelto come filo conduttore della nuova rassegna allestita al Metropolitan Museum of Art. Lo scopo è appunto quello di documentare come Gerusalemme, sacra alle tre grandi religioni abramitiche (ebraismo, cristianesimo e Islam), sia diventata uno dei piú importanti poli artistici dell’epoca. In quei secoli, infatti, la città accolse una quantità di culture, religioni e lingue come mai se n’erano viste prima e, nonostante i molti momenti difficili vissuti a causa di guerre internazionali e lotte intestine, questo vero e proprio melting pot ispirò

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settembre

realizzazioni di grande bellezza e fascino. info http://metmuseum.org CREMONA JANELLO TORRIANI, GENIO DEL RINASCIMENTO Museo del Violino fino al 29 gennaio 2017 (dal 10 settembre)

Il nome di Janello Torriani è quasi sconosciuto, anche se in vita era spesso affiancato a quello di Archimede. Seppe affascinare i due piú potenti sovrani del suo tempo, Carlo V e suo figlio Filippo II, che lo vollero al loro fianco, considerandolo un genio come per noi oggi è Leonardo da Vinci. A differenza del quale, Torriani non sapeva dipingere, era uomo rozzo e tutt’altro che nobile, eppure, con le sue grosse mani da fabbro, creò meraviglie che tutta l’Europa ambiva: meccanismi sofisticatissimi, gestiti da combinazioni meccaniche elaborate che a noi oggi sono garantite dalla tecnologia piú avanzata. Dalla sua mente e dalle sue mani uscivano orologi perfetti, nelle loro decine di funzioni, e bellissimi. Meravigliosi automi che suscitavano ammirazione e stupore. Raggiunse una fama tale da partecipare alla riforma gregoriana del calendario: nessuno come lui, infatti, conosceva la perfezione del tempo. info www.mostratorriani.it BASSANO DEL GRAPPA IL MAGNIFICO GUERRIERO. BASSANO A BASSANO Civici Musei fino al 31 gennaio 2017

Il Magnifico Guerriero di Jacopo Bassano si offre all’ammirazione del pubblico grazie al comodato gratuito accordato dal suo possessore ai Civici Musei bassanesi.

Il dipinto ritrae un affascinante nobiluomo dalla fulva, curatissima barba. Non un giovane ma un uomo maturo, certo aduso al comando, ma, soprattutto, a una vita raffinata lontano dai campi di battaglia. Indossa una preziosa corazza alla moda dell’epoca, che lo costringe, ma che non riesce a ingabbiarne la grazia e la flessibilità. Le lunghe dita, curate e perfette, non sembrano le piú adatte a menar fendenti, cosí come il suo spadino di ferro e oro sembra piú da parata che da battaglia. Secondo Vittoria Romani dell’Università di Padova, studiosa alla quale va il merito di avere ricondotto a Jacopo Bassano questo autentico capolavoro già attributo a Veronese e a Pordenone, il ritratto è databile agli anni immediatamente seguenti il 1550, ovvero al momento piú altamente manierista del maestro. info tel. 0424 519.901-904; e-mail: info@museibassano.it; www.museibassano.it

SAINT-DIZIER (FRANCIA) AUSTRASIA, IL REGNO MEROVINGIO DIMENTICATO Espace Camille Claudel fino al 26 marzo 2017 (dal 16 settembre)

La dinastia merovingia visse il suo apogeo fra il VI e l’VIII secolo, avendo come teatro delle proprie gesta l’Austrasia, regione dell’antica Francia ora protagonista della mostra di Saint-Dizier. Il progetto espositivo porta all’attenzione del pubblico il caso di un’identità che prese forma da una significativa diversità culturale e, nel segno di questa scelta, invita a scoprire, soprattutto grazie ai reperti archeologici, la singolarità e la ricchezza che caratterizzarono la vita quotidiana e l’organizzazione del regno merovingio. Fra gli altri, sono stati riuniti per l’occasione i materiali di corredo della tomba del piccolo principe di Colonia, l’anello del vescovo Arnolfo di Metz e i gioielli della signora di Grez-Doiceau. info www.austrasie-expo.fr

Appuntamenti PRATOLA PELIGNA (L’AQUILA) NOTTE TEMPLARE 2-4 settembre

La cittadina abruzzese ospita una grande rievocazione storica dedicata a uno dei primi e piú noti Ordini religioso-cavallereschi del Medioevo. Tutta Pratola Peligna è coinvolta nell’evento, con negozi e case addobbati a tema templare e medievale, cosí come il centro storico e il Castrum, immersi nell’epoca dell’ambientazione, tra il XII e il XIII secolo. Il programma della rassegna prevede eventi, convegni, rievocazioni e animazione in costume per

grandi e bambini, e, presso la Taverna del Drago sarà inoltre possibile gustare piatti tipici della cucina medievale. info www.nottetemplare.it SARZANA FESTIVAL DELLA MENTE XIII EDIZIONE 2-4 settembre

Attraverso incontri, spettacoli e momenti di approfondimento culturale, la rassegna esplora la nascita e lo sviluppo delle idee e dei processi creativi, toccando anche temi di attualità sociale e scientifica per aiutarci a comprendere la realtà di oggi. Per tre giornate grandi scienziati, scrittori,

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AGENDA DEL MESE artisti, fotografi, architetti, filosofi, psicologi, storici quest’anno condivideranno la loro creatività e il loro sapere, con un linguaggio accessibile a tutti, sul tema dello spazio. info www.festivaldellamente.it

mercanti e cavalieri, popolani e uomini d’arme invaderanno le vie strette e tortuose del villaggio. La Fiera di Fine Estate si propone di trasportare per un giorno i visitatori nei primi anni del XV secolo. Nella cornice di un mercato che si snoda per tutte le vie del Borgo vengono

CAMOGLI FESTIVAL DELLA COMUNICAZIONE III EDIZIONE 8-11 settembre

Torna a Camogli il Festival della Comunicazione: quattro giornate, con oltre un centinaio di appuntamenti tra incontri, laboratori, spettacoli, mostre ed escursioni e piú di 120 ospiti provenienti dal mondo della comunicazione, della letteratura, della scienza, delle imprese, della medicina e della psicologia, dell’arte, dei social network, del diritto, della filosofia. Il macrotema individuato per questa terza edizione da Umberto Eco: il world wide web. Fra gli altri, nella sezione Web e Scrittura, lo storico Alessandro Barbero, presenterà un intervento intitolato «Alle origini della comunicazione aziendale: gli ordini religiosi del Medioevo». info www.festivalcomunicazione.it; facebook: FestivalComunicazione; twitter: FestivalCom; Instagram: www.instagram.com/ festivalcomunicazione; Youtube: www.youtube.com/ FestivalComunicazioneit

monumenti piú ricchi di storia, arte e spiritualità di Roma e ora è possibile ammirarne l’Aula Gotica, magnificamente affrescata. L’Aula era l’ambiente piú prestigioso del palazzo cardinalizio eretto da Stefano Conti: vi si svolgevano banchetti, ricevimenti e vi si amministrava la giustizia. Mirabile esempio di architettura in stile gotico, eccezionale per la città di Roma, il salone colpisce per lo straordinario ciclo pittorico che adorna le sue pareti, attribuito al Terzo Maestro di Anagni e a Giunta Pisano. Rimaste per secoli nascoste sotto strati di tinte successive, le meravigliose decorazioni sono tornate a risplendere grazie a un lungo restauro. L’Aula viene aperta due volte al mese in date prefissate e le visite si possono prenotare telefonicamente o per posta elettronica. info tel: 335 495248; e-mail: archeocontesti@gmail.com; www. aulagoticasantiquattrocoronati.it

ROMA

TORINO

VISITE GUIDATE ALL’AULA GOTICA DEL MONASTERO DEI SS. QUATTRO CORONATI 20-21 settembre

FIERA DI FINE ESTATE Borgo Medievale 18 settembre

È finalmente visibile a studiosi, turisti e a tutti gli appassionati d’arte uno straordinario ciclo di affreschi della metà del Duecento, fondamentale per la storia della pittura italiana delle origini. Il complesso dei Ss. Quattro Coronati è uno dei

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Per il secondo anno consecutivo, il Borgo e la Rocca Medievale di Torino si trasformano in una grande fiera cittadina, sulla scia dei tradizionali mercati che, nei secoli del Basso Medioevo, animavano le città italiane piú importanti. Per tutta la giornata

letteratura, danza o teatro. info tel. 055 294883; www.uffizi.beniculturali.it ALVIANO (TERNI) «IMPAZIENTE DELLA QUIETE». BARTOLOMEO D’ALVIANO, LE FORTUNE DI UN CONDOTTIERO NELL’ITALIA DEL RINASCIMENTO (1455-1515) Rocca di Alviano e altre sedi fino al 12 novembre

A cinquecento anni dalla morte, Bartolomeo d’Alviano (1455-1515), insigne condottiero del Rinascimento, viene ricordato con un ciclo di conferenze sui momenti decisivi della sua vita. Questi i prossimi appuntamenti: proposte ricostruzioni degli eventi piú svariati tra cui un torneo cavalleresco in armatura, concerti di musica, danze, lezioni di maestri d’arme e banchetti. Nel cortile di Avigliana è allestita (come nel 1884, anno di inaugurazione del Borgo) la taverna medievale e si susseguono momenti di vita quotidiana di cittadini, mercanti, soldati e nobili. info tel. 011 4431701; e-mail: borgomedievale@ fondazionetorinomusei.it; www.borgomedievaletorino.it FIRENZE MARTEDÍ SERA AL MUSEO Galleria degli Uffizi fino al 27 settembre

Per tutta l’estate, la Galleria degli Uffizi effettua un’apertura continuata, il martedí, dalle 19,00 alle 22,00 con appuntamenti speciali dal vivo. L’ingresso è a pagamento ed è possibile prenotare la visita, tenendo presente che l’ultimo ingresso prenotabile è fissato alle 20,00. Nell’ambito dei «Martedí sera al museo», ogni settimana si svolgono attività speciali – coordinate con le opere d’arte – di musica,

Rocca di Alviano, 17 settembre, ore 17,30: La cultura del Condottiero: Bartolomeo d’Alviano e gli autori classici (Andrea Del Ben, Università degli Studi di Udine); Rocca di Alviano, 29 ottobre, ore 16,30: La Repubblica di Venezia nelle guerre d’Italia (Walter Panciera, Università degli Studi di Padova); Bartolomeo d’Alviano al servizio di Venezia (Lucio Pezzolo, Università Ca’ Foscari di Venezia); Rocca di Alviano, 12 novembre, ore 17,30: Bartolomeo d’Alviano e gli ambienti culturali del primo Cinquecento (Elena Valeri, «Sapienza» Università di Roma). info tel 0744 904421; e-mail: bartolomeo500anni@gmail.com; www.comune.alviano.tr.it settembre

MEDIOEVO



protagonisti gioacchino da fiore

Verrà il giorno... di Alessandro Bedini

L’immagine del drago a sette teste, inserita in un’edizione del Liber figurarum di Gioacchino da Fiore. 1200-1230. Oxford, Corpus Christi College.

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Vissuto nei decenni finali del XII secolo, Gioacchino da Fiore si impose, già presso i contemporanei, per la sua innovativa visione dell’universo spirituale cristiano. Ricordato come il teorico delle «tre età», esplicitò il suo pensiero in opere di altissima levatura e che ancora oggi ne fanno un personaggio dibattuto e ammirato A destra incisione cinquecentesca che riproduce l’effigie di Gioacchino da Fiore posta sul suo cenotafio.

E «E

lucemi dallato / il calavrese abate Giovacchino / di spirito profetico dotato». Nella Divina Commedia, Dante si riferisce con questi versi (Paradiso, XII, 139-141) a Gioacchino da Fiore e alla già allora famosa dottrina delle tre età che egli aveva elaborato appunto con spirito profetico. La sua è stata una delle personalità piú complesse della cristianità medievale e le sue opere hanno avuto una tale risonanza, talvolta alterata, che Gioacchino sarebbe, dopo Dante Alighieri, l’autore italiano sul quale si è piú scritto, essendo riconosciuto come uno dei piú importanti esponenti della spiritualità medievale. Le notizie sulla sua vita sono piuttosto scarse e rintracciabili nei sintetici accenni contenuti nelle sue stesse opere. Tra le tante, una delle biografie piú attendibili è senz’altro quella di Luca da Cosenza, che fu segretario di Gioacchino durante la sua permanenza presso l’abbazia cistercense di Casamari, nel Frusinate, tra il 1183 e il 1185. Le diverse Vitae che riguardano l’abate calabrese riportano concordemente che egli nacque a Celico, un paesino in provincia di Cosenza, fra il 1130 e il 1135, da Gemma e Mauro e si spense nel 1202 a San Martino in Canale vicino Pietrafitta, sempre nel Cosentino.

Realtà o allegoria?

Sesto di otto fratelli, sembra provenisse da una famiglia agiata e il padre sarebbe stato publicus notarius presso la cancelleria del vescovado di Cosenza. Sulle sue origini permangono tuttavia alcuni dubbi: egli stesso, infatti, si definisce «homo agricola a iuventute mea», il che fa-

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protagonisti gioacchino da fiore I resti del monastero benedettino di Corazzo, nei pressi di Catanzaro, dove Gioacchino risiedette dal 1172, divenendone poi abate nel 1177.

«Io Luca arcivescovo di Cosenza, nell’anno secondo del pontificato di papa Lucio III, quando ero monaco vidi per la prima volta in Casamari un uomo di nome Gioacchino, allora abate di Corazzo, abazia fondata dalla Sambucina, che a sua volta era stata fondata da Casamari. Perciò egli era trattato a Casamari con ogni onore e amore come un nipote; ma ancor piú per il possesso della sapienza e dell’intelligenza che aveva avuto in dono dal Signore. Allora dinanzi al suddetto Papa e alla sua corte, egli cominciò a far conoscere la sua perizia nell’interpretare le Scritture e nel rilevare la concordia fra il Nuovo e l’Antico Testamento. Avutane licenza dal Pontefice, cominciò subito a scrivere». (dalle Memorie di Luca Campano)

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rebbe pensare a un’estrazione contadina. È però molto probabile che l’affermazione abbia in realtà un significato simbolico: quello evangelico del contadino che semina e raccoglie. Oltre a ciò, poiché già i suoi contemporanei gli riconoscevano doti profetiche – un’attribuzione che Gioacchino rifiutava con decisione –, il fatto di avvalorare l’umiltà della sua ascendenza familiare contadina, aveva verosimilmente lo scopo di rafforzare tale rifiuto. Comunque sia, dopo aver completato gli studi a Cosenza, entrò a far parte della curia del Gran Giustiziere di Calabria, per poi passare, grazie ai buoni uffici del padre, alla cancelleria regia di Palermo, dove settembre

MEDIOEVO


la legenda

Santo e profeta La biografia di Luca Campano – arcivescovo di Cosenza dal 1203 al 1204, nonché amico e biografo di Gioacchino –, assieme alla narrazione di un Anonimo agiografo, monaco florense, costituiscono l’antico manoscritto della Legenda. Conservato sino alla fine del XVI secolo nella biblioteca del cenobio di San Giovanni in Fiore, il prezioso testo è purtroppo andato perduto. Si deve a due monaci florensi, i quali tra il 1586 e il 1614 copiarono le due testimonianze della vita e dei miracoli dell’abate, se ancora oggi si possono apprezzare gli aspetti miracolistici legati alla vicenda dell’abate calabrese. Un’ampia parte della Legenda, infatti, giuntaci dall’antico manoscritto florense è costituita da alcune decine di testimonianze che narrano avvenimenti miracolosi. In alcuni passaggi vengono inoltre sottolineate le doti di preveggenza di Gioacchino. Un giorno, si legge nel Mirabile XII della Legenda, l’abate stava camminando con il suo correligionario monaco Raniero. Giunti nei pressi di una vecchia chiesa fatiscente, si sedettero insieme ad altre persone. All’improvviso, Gioacchino si alzò e gridò che tutti si allontanassero dalla parete della chiesa, perché di lí a poco sarebbe crollata. Appena tutti si allontanarono, la parete cedette e nessuno rimase ferito. Allora tutti dichiararono pubblicamente che l’abate era un profeta. vo Testamento, ponendo cosí le basi per la sua ardita esegesi delle Scritture in chiave escatologica. Secondo l’abate calabrese la storia dell’umanità è totalmente racchiusa nel mistero divino e Dio Padre si è manifestato all’uomo proprio attraverso le Scritture. regnava Guglielmo I. La sua permanenza presso la corte normanna fu però di breve durata, anche perché, come riportano fonti attendibili, sorsero presto aspri contrasti con alcuni dignitari. Decise dunque di abbandonare definitivamente la professione notarile e, nel 1167, partí per la Terra Santa, ancora nelle mani dei cristiani. Visitò Costantinopoli, la Tebaide e infine Gerusalemme. La notizia è riportata, sempre in forma sintetica, nel Tractatus super quattuor Evangelia, verosimilmente databile tra il 1200 e il 1202. Secondo la tradizione, proprio nella Città Santa Gioacchino ebbe l’intuizione di studiare e interpretare in parallelo l’Antico e il Nuo-

MEDIOEVO

settembre

La Bibbia come base

È dunque partendo dalla Bibbia che occorre analizzare il corso della storia, scandito da tempi e ritmi ben precisi, attraverso i quali, quindi, si può cercare di comprendere l’esito finale del destino dell’uomo. La costruzione dottrinale gioachimita è perciò in larga misura incentrata sull’Apocalisse, dal greco Apokalypsis, il cui significato etimologico si richiama al concetto di svelamento, rivelazione. Nel rientro dalla Terra Santa, Gioacchino fece tappa in Sicilia dove, alle pendici dell’Etna, vivevano da eremiti alcuni monaci di cultura e lingua greca. Fatto ritorno in Cala-

bria, decise di abbandonare definitivamente la casa paterna e di ritirarsi nell’abbazia cistercense di Sambucina, nei pressi della cittadina di Luzzi, sempre in territorio cosentino, per vivere pienamente la vita evangelica. Tuttavia, la sua non fu una scelta eremitica radicale. Intorno al 1171, lo troviamo infatti nella valle del Crati come predicatore, legittimato in questo ruolo dall’ordinazione sacerdotale del vescovo di Catanzaro. Nel 1172 si spostò presso il monastero benedettino di Corazzo, nei pressi di Catanzaro, e, nel 1177, sebbene fosse piuttosto riluttante, accettò di diventarne abate. In questo periodo Gioacchino compose la Genealogia, un’opera fondamentale, nella quale, attraverso complicati calcoli numerici fondati sull’esegesi biblica, indica la parabola finale della storia come prossima. «Il mistero delle cifre e la precisione del calcolo – sottolinea Gian Luca Potestà, uno dei massimi studiosi del pensiero gioachimita –

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protagonisti gioacchino da fiore

mirano a convincere che gli eventi finali e in particolare la venuta dell’Anticristo sono oramai vicini». In questi anni si adoperò affinchè la comunità monastica di Corazzo fosse affiliata a quella cistercense di Sambucina, ma senza successo, sebbene papa Alessandro III avesse concesso al monastero l’esenzione da diverse tutele vescovili. Comunque Gioacchino mantenne legami molto stretti con i Cister-

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censi: Luca da Cosenza sottolinea infatti come l’abate, dal gennaio del 1183, soggiornasse a Casamari, presso la loro abbazia, dove rimase per un anno e mezzo, accolto affettuosamente dall’abate Gerardo.

Le rivelazioni

Nel corso di questo soggiorno avrebbe avuto due rivelazioni: la prima nel giorno di Pasqua, l’altra nella ricorrenza della Pentecoste. Le rive-

lazioni riguardavano la chiara comprensione dell’Apocalisse di Giovanni e i profondi legami tra l’Antico e il Nuovo Testamento. Proprio durante la sua permanenza a Casamari, Gioacchino poté approfondire la sua ricerca teologica e ampliare le sue conoscenze sulla storia della salvezza. E, secondo la tradizione, nel cenobio cistercense ebbe inizio, quasi contemporaneamente, la compilazione di tre opere settembre

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La canonizzazione

Una lunga attesa Il processo di beatificazione di Gioacchino da Fiore è rimasto senza alcun esito per ben otto secoli ed è stato riaperto solo nel 2001, su iniziativa dell’arcivescovo di Cosenza-Bisignano, monsignor Giuseppe Agostino. Tuttavia, Gioacchino compare come beato nel calendario, nel messale e negli Acta Sanctorum dei Gesuiti bollandisti. È ormai acclarato che, dopo il 1570, data in cui l’Ordine florense confluí nella Congregazione cistercense di Calabria, proprio monaci cistercensi promossero il culto gioachimita, che si festeggiava il 29 maggio. Un primo tentativo di canonizzare l’abate fu fatto all’indomani della sua morte, ma venne bloccato, in quanto il Concilio Lateranense IV del 1215 dichiarò incompatibili con la dottrina cattolica alcune sue affermazioni riguardo al dogma trinitario. Un secondo tentativo fu compiuto nel 1346, presso la corte papale che si trovava allora ad Avignone. Ma, come è stato già ricordato, solo all’approssimarsi dell’ottavo centenario della morte, l’istruttoria su Gioacchino è stata ripresa e sembra certo che almeno la fase diocesana si sia conclusa positivamente San Giovanni in Fiore, Abbazia Florense. Dipinto raffigurante san Giovanni Battista che appare a Gioacchino da Fiore davanti all’Abbazia. 1789.

Un anno prima, nel 1187, Gerusalemme cadeva per mano dell’esercito musulmano guidato dal Saladino e il contraccolpo per tutta la cristianità fu terribile. La perdita della Città Santa, che l’abate aveva visitato anni prima, rappresentò un punto di svolta per la sua elaborazione dottrinale. Gioacchino vide in questa sconfitta epocale l’accelerarsi della venuta dei tempi ultimi. Rilesse dunque in parallelo le profezie contenute nel Libro di Daniele e nell’Apocalisse di Giovanni e le contestualizzò a fronte del pericolo mussulmano e della figura stessa del Saladino che minacciava la Chiesa e l’impero.

Anni di grandi tensioni fondamentali per il percorso intellettuale dell’abate calabrese: la Concordia Novi ac Veteris Testamenti, l’Expositio in Apocalypsim e lo Psalterium decem chordarum. Non possiamo stabilire una puntuale cronologia sulla conclusione dei vari lavori, ma sappiamo, per esempio, che papa Clemente III, in una lettera indirizzata all’abate calabrese nel 1188, lo invitava a proseguire e concludere sia la Concordia che l’Expositio.

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In quel difficile XII secolo, i due poteri universali erano in aperto conflitto. Papa Lucio III intendeva riappropriarsi della sovranità sui territori dell’Italia settentrionale e centrale che l’imperatore Federico I Barbarossa aveva conquistato manu militari. Per ritorsione contro lo Svevo, il papa si rifiutava di incoronare il di lui figlio Enrico, che stava per sposare Costanza d’Altavilla, secondo il progetto federiciano di dare vita a una forte alleanza dell’impero romano-germanico con i Normanni di Sicilia: un piano visto come una

minaccia dal pontefice. Come se non bastasse, nel 1186, il successore di Lucio III, Urbano III, aveva assegnato l’importante seggio arcivescovile di Treviri a Folmaro, esplicitamente sgradito all’imperatore. La tensione stava salendo pericolosamente e la reazione del Barbarossa non si fece attendere. Le truppe imperiali costrinsero il papa e la sua curia ad asserragliarsi a Verona. Nell’occasione, Gioacchino arrivò a paragonare la condizione di prigionia della curia pontificia a quella degli Ebrei di Gerusalemme assediati dai Babilonesi. Nel frattempo, Enrico devastava i territori pontifici tra Toscana e Umbria. Di fronte a questa situazione, che precedeva di poco la caduta di Gerusalemme, l’abate auspicò con energia la fine delle dispute tra papato e impero e l’unità contro il comune nemico. Egli si schierò dalla parte del Papa e scrisse un sermone nel quale ripercorreva la storia dei rapporti tra i due poteri universali alla luce della Bibbia. Elogiò Gregorio Magno, autore dei Dialoghi, appartenente alla generazione di san Benedetto e, prima ancora, Leone I, che seppe resistere a Attila. La sconfitta ai Corni di Hattin (1187), però, mutò decisamente il quadro politico. Urbano III si rese

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Sulle due pagine ancora due tavole del Liber figurarum. 1200-1230. A sinistra l’albero dei due Avventi, che presenta, dal basso verso l’alto, i protagonisti della storia della salvezza, da Adamo a Gesú Cristo. A destra i cerchi trinitari, che sintetizzano la dottrina delle tre età elaborata da Gioacchino da Fiore.

conto come la priorità da perseguire dovesse essere l’unità della cristianità a fronte delle drammatiche notizie che venivano dalla Terra Santa. Per questo decise di avviare trattative con il Barbarossa e il primo segnale di distensione fu l’annullamento della nomina di Folmaro al seggio episcopale di Treviri.

Superare le divisioni

In questo periodo Gioacchino intervenne di nuovo per promuovere la pace e l’unità tra i due poteri universali. Non a caso nel IV libro della Concordia il personaggio principale è Costantino il Grande, ovvero colui che assicurò dignità e libertà alla Chiesa, celebrato come imperatore illuminato e probo. L’abate calabrese si mostrava molto preoccupato per le continue divisioni che attraversavano la cristianità, rendendola cosí piú debole. Da allora in avanti la sua costruzione politico-teologica fu improntata al tentativo di conciliare l’ideale di fedeltà al vicario di Cristo con la funzione provvidenziale di cui è titolare l’impero. Negli stessi frangenti, compose il De prophetia ignota, in cui, valutando la fragilità della tregua stabilitasi tra pa-

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pato e impero, preannunciava un’epoca di tribolazioni per la Chiesa e per l’intera res publica christianorum. Gli eventi che in quello scorcio del XII secolo si andavano succedendo influenzarono in maniera significativa anche le scelte personali del monaco calabrese. Nonostante i richiami provenienti da Corazzo, Gioacchino decise di ritirarsi nell’eremo di Petra Lata sulla

Sila, dove, secondo gli studi piú attendibili, avrebbe portato a termine le sue opere maggiori, fra cui il De vita sancti Benedicti, nella quale coglie l’occasione per ribadire l’originalità della Regola benedettina, fondamento del monachesimo latino e, al tempo stesso, per denunciare l’inadeguatezza di quegli Ordini monastici del suo tempo che, magari in buona fede, da essa si

l’eredità gioachimita

L’attesa di un’età aurea Nel XV secolo, insieme all’ansia di renascentia o renovatio che già si respirava in ambito umanistico, il fascino dell’interpretazione di Gioacchino, che prelude a un’epoca di concordia, di pace e di libertà spirituale, trovò eco sia nelle predicazioni del Savonarola che in quelle di san Bernardino da Siena. In una lettera indirizzata al canonico, matematico e astronomo Paolo di Middelburg, il filosofo Marsilio Ficino parla fiduciosamente di un’età aurea nella prospettiva di una renovatio umanistica. «Sappiamo per esempio che a Roma, nel 1491 – ha scritto lo storico della filosofia Cesare Vasoli (1924-2013) – compariva un mendicante che, dimostrando con tratto gioachimitico, la concordanza tra l’Antico e il Nuovo Testamento, predicava che tutta l’Italia sarebbe stata sconvolta, che il clero avrebbe dovuto dimettere ogni sua ricchezza, e che, dopo il tempo e le tentazioni dell’Anticristo, sarebbe giunto il pastore angelico, il santo riformatore della Chiesa».

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erano allontanati, non riuscendo cosí a porre un argine rispetto alla profonda crisi che la cristianità occidentale stava attraversando.

L’imprimatur papale

Nel frattempo, Corazzo venne finalmente associata all’abbazia cistercense di Fossanova e papa Clemente III concesse a Gioacchino l’imprimatur per il progetto di fondare un nuovo Ordine e di individuare un luogo idoneo ad accogliere la comunità che si era riunita intorno a lui. Quel luogo fu poi San Giovanni in Fiore, sempre sull’altopiano della Sila, dove Gioacchino fondò il monastero dedicato all’evangelista Giovanni, modello della vita contemplativa, che divenne la sede definitiva del suo Ordine. Il progetto vide la luce soprattutto grazie alle donazioni di Tancredi d’Altavilla e poi di Enrico VI, tra il 1191 e il 1194-95. Quest’ultimo si volle proporre come protettore del nuovo Ordine florense in quanto Gioacchino lo aveva esortato, durante l’assedio che egli aveva posto a Napoli nel 1191, a non infierire sulla popolazione, perché avrebbe

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conquistato il regno di Sicilia senza spargimento di sangue, come puntualmente avvenne. Nel 1196, papa Celestino III riconobbe ufficialmente la congregazione florense. Si deve peraltro ricordare che il toponimo di San Giovanni in Fiore deriverebbe dal latino flos, cioè «torrente di montagna», e non, come vuole la leggenda, dal «fiorire» della terza età, secondo la dottrina gioachimita. I Cistercensi non videro di buon occhio la fondazione del nuovo monastero e giunsero ad accusare Gioacchino e i suoi di apostasia. Nel capitolo generale del 1192, i monaci di Cîteaux intimarono all’abate e al suo fedele compagno, Raniero da Ponza, di rientrare a Corazzo entro

un anno, pena la qualifica di fuggitivi, ma le loro minacce vennero ignorate. Nonostante le critiche, a cui si aggiunsero quelle dei vicini monaci greci basiliani, a causa di una disputa sulla proprietà di alcuni terreni, il monastero si ingrandiva e attraeva sempre nuovi seguaci.

Lavoro e contemplazione Le regole dell’Ordine fondato da Gioacchino erano molto rigide, basate sullo stile di vita monastico, sul lavoro, ma, soprattutto, sulla virtú della contemplazione, che avrebbe favorito il fiorire di quell’epoca dello spirito caratteristica della dottrina del fondatore. Si trattò di una vera e propria riforma nel segno dell’es-

Nella pagina accanto l’altare maggiore nella chiesa dell’abbazia florense di San Giovanni in Fiore. Sulle due pagine una veduta dell’abbazia. Il complesso oggi visibile è il frutto della ricostruzione avviata dopo che la prima fondazione di Gioacchino era stata devastata da un incendio.

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senza piú antica del monachesimo latino di origine benedettina. In questo senso la congregazione si discostava decisamente dai Cistercensi, mentre l’ideale di povertà e sobrietà, percepibile anche nell’architettura florense, avvicinerà il nuovo Ordine a quelli mendicanti, francescani e domenicani. Ben presto i Florensi si diffusero anche in Lucania, Campania, Puglia, Lazio e Toscana. Nel 1201, l’arcivescovo di Cosenza, Andrea, donò ai gioachimiti una chiesa vicino a Canale, presso Pietrafitta, dove l’abate intendeva costruire un nuovo monastero, San Martino in Giove, ma durante i lavori morí. Era il 30 marzo del 1202. Nel 1226, il suo corpo venne traslato a San Giovanni in Fiore, dove ancora si trova. Subito dopo la morte, la vox populi indicò Gioacchino come santo e alla sede papale furono inviate missive in cui se ne testimoniavano i miracoli.

Verso una nuova era

Guglielmo di Ockham, cosí come il movimento dei begardi e delle beghine, ma soprattutto gli spirituali francescani, hanno riconosciuto in Gioacchino da Fiore il loro punto di riferimento. L’avvento di una chiesa spirituale, contrapposta alla chiesa carnale, secondo la definizione degli spirituali francescani, come Angelo Clareno, Ubertino da Casale, Pietro di Giovanni Olivi e molti altri, rappresenta il punto d’arrivo della storia umana, destinata a spalancare le porte a una nuova era fondata sulla pace e sulla concordia. Anche il movimento dei flagellanti deve la sua genesi al sistema dottrinale di Gioacchino. Avvicinandosi il tempo in cui la rivoluzione della cristianità vedrà finalmente l’alba di una nuova era, ispirata dallo Spirito Santo, diventa urgente fare penitenza, tramite l’autoflagellazione, per preparare l’avvento dello Spirito. L’esegesi gioachimita non poteva non suscitare reazioni negative da parte di alcuni settori della Chie-

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protagonisti gioacchino da fiore sa. Nel 1215, il Concilio Lateranense IV, voluto da Innocenzo III, condannò le tesi di Gioacchino sul dogma trinitario e vietò la lettura dei suoi testi. Cinque anni dopo, però, nel 1220, papa Onorio III riabilitò l’abate calabrese, dichiarandolo «perfettamente cattolico» e rimosse il divieto che aveva colpito le sue opere.

La dottrina delle tre età

Analizzando il testo biblico, Gioacchino giunge a formulare una filosofia della storia che vede la corrispondenza di tre età con le tre persone della Trinità. La prima è quella del Padre, relativa al Vecchio Testamento, a cui è succeduta l’era del Figlio, nella quale la Chiesa da Lui fondata è elemento centrale, la terza età sarà invece quella dello Spirito, quando il mondo subirà una vera e propria trasfigurazione. I tempi nuovi saranno annunciati dai segni

La terribile bestia, disegno che correda un commento alla profezia di Gioacchino da Fiore. 1370 circa. Novara, Archivio di Stato.

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presenti nell’Apocalisse, le gerarchie ecclesiastiche saranno dunque superate e, dopo gli sconvolgimenti del momento di passaggio, si aprirà un’epoca di pace e di gioia. Secondo Gioacchino sorgerà quindi una nuova Chiesa: l’Ecclesia Spiritualis, da lui stesso vagheggiata. Nuove figure guideranno il genere umano: il papa angelico e l’imperatore dei tempi ultimi, che avranno il compito di riunire il mondo. Tale visione ribalta quella rigorosamente cristocentrica di Agostino. Gioacchino, infatti, pone al centro della storia l’operare incessante della Trinità. Dedicata all’epoca e alla persona

del Padre, la prima opera sul mistero trinitario è la Concordia, composta da cinque libri, i primi quattro dei quali fungono da introduzione alla complessa esegesi biblica, mentre il quinto prende in esame la storia biblica, dai patriarchi alla cattività babilonese. La seconda opera della trilogia, l’Expositio in Apocalypsim, è dedicata al Figlio, consta di otto libri ed è forse la piú conosciuta e quella che ha dato maggior fama all’abate calabrese. Ad avviso del quale l’Apocalisse non sarebbe da intendersi come profezia relativa ai tempi ultimi, bensí come racconto della storia della Chiesa: passata, presente e futura. La trilogia si chiude con il Psalterium decem chordarum, un’opera in tre volumi, come le persone della Trinità, incentrata sulla figura dello Spirito Santo. Il titolo deriva dallo strumento biblico a corde, che ha forma di triangolo, in cui il vertice piú alto rappresenta il Padre mentre gli altri due il Figlio e lo Spirito Santo. Il tratto comune delle settembre

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A sinistra miniatura raffigurante un cavaliere con le insegne della Corona d’Inghilterra che disarciona un Saraceno, da un’edizione del Luttrell Psalter. 1325-1335. Londra, British Library. I due personaggi potrebbero forse alludere a Riccardo Cuor di Leone e al Saladino.

Difformità di vedute

L’Anticristo sarà un pontefice... A dimostrazione di quanto i Cistercensi fossero in disaccordo con le «novità dottrinali» introdotte da Gioacchino, tre cronisti inglesi, appartenenti all’Ordine di Cîteaux, riportano un episodio volto a screditare l’abate calabrese. Questi, nel 1190, avrebbe incontrato Riccardo Cuor di Leone, in procinto di imbarcarsi per la crociata. Gioacchino avrebbe spiegato al re d’Inghilterra il significato di alcuni passi dell’Apocalisse, in particolare quello del drago a sette teste. Avrebbe inoltre assicurato al monarca inglese la vittoria sul Saladino, ma, soprattutto, avrebbe profetizzato l’avvento dell’Anticristo nella persona di un pontefice. opere di Gioacchino da Fiore consiste nella visione escatologica che fa perno sull’interpretazione rigorosa delle Sacre Scritture. Ne fa fede proprio il quinto libro della Concordia, nel quale l’abate commenta i sei giorni della Creazione alla luce della dottrina trinitaria. La storia viene considerata in relazione a quanto viene narrato nell’Antico Testamento sul popolo di Israele, il primo popolo di Dio Padre. Come ha ben evidenziato Gian Luca Potestà, «il primo giorno significa il primo tem-

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po, iniziato da Abramo; il secondo il tempo da Mosè; il terzo quello da Samuele e Davide, il quarto significa il tempo di cui furono protagonisti Elia ed Eliseo; il quinto quello iniziato da Isaia e dal re Ezechia. La creazione dell’uomo nel sesto giorno significa il tempo di Gesú Cristo e della Chiesa». Un’interpretazione analoga vale per il Figlio. Il tempo dello Spirito, invece, sarà caratterizzato da un nuovo ordine monastico, capace di tornare alla primitiva purezza

dell’annuncio evangelico. Al concetto agostiniano della caducità progressiva del mondo, che prepara la seconda venuta del Cristo, Gioacchino contrappone l’idea secondo cui al tempo della decadenza farà seguito un’epoca di pace e di concordia, quella dello Spirito. L’originalità e il fascino delle sue teorie è racchiuso proprio in questa ermeneutica della storia della salvezza del genere umano, illuminato dalla Trinità che agisce contemporaneamente nelle diverse epoche, sebbene in forma diversificata secondo il loro susseguirsi.

Da leggere Gian Luca Potestà, Il tempo dell’Apocalisse. Vita di Gioacchino da Fiore, Laterza, Roma-Bari 2004 Herbert Grundmann, Gioacchino da Fiore. Vita e opere, Viella, Roma 1997 Antonio M. Adorisio, I miracoli dell’abate, Vechierelli-Manziana, Roma 1993

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Offerte di Alessio Montagano

fior di conio A Prato si venera una striscia di stoffa verde che Maria avrebbe usato come cintura e poi affidato a san Tommaso, affinché divenisse oggetto di culto. Si tratta della Sacra Cintola, che, conservata nel Duomo della città toscana, è da oltre sette secoli meta di pellegrinaggio. E, nella cappella dedicata alla reliquia, i fedeli lasciavano spesso come dono le proprie monete, seguendo un costume diffuso in tutti i principali luoghi santi della cristianità

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e sono noti sia i meccanismi socio politici sia i risvolti piú altamente spirituali che si celavano dietro l’ostensione della Sacra Cintola del Duomo di Prato – soprattutto per il periodo quattrocentesco –, un esame sulla natura delle offerte legate al culto del Sacro Cingolo può considerarsi un approccio inedito allo studio della venerazione della reliquia mariana pratese. Oltre alle ostensioni istituzionali – sino alla fine del Trecento solo due (8 settembre e giorno di Pasqua), poi portate a quattro alla fine del secolo, aggiungendo i giorni del Natale e del Primo Maggio –, ve n’erano molte straordinarie. E queste ultime non venivano effettuate soltanto in occasione di eventi devozionali speciali, determinati da fenomeni sociali come guerre o condizioni politiche particolari, oppure da occorrenze straordinarie quali le pestilenze o le carestie, ma che avevano una precisa matrice celebrativa a sfondo politico diplomatico. Il fenomeno ebbe una notevole espansione soprattutto dopo la sottomissione di Prato al dominio fiorentino; in pieno Quattrocento, nella selva degli accordi politici gestiti dalla Repubblica fiorentina e cronologicamente mediati dalle figure o di Cosimo, o di Piero e infine di Lorenzo de’ Medici, maestro della «politica dell’equilibrio» e nel pieno dei conflitti per l’egemonia territoriale sulla Penisola – che vedevano scontrarsi

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Madonna della Cintola, i santi Margherita, Gregorio (?), Agostino, Raffaele con Tobiolo, e una monaca agostiniana (Bartolommea Bovacchiesi?), tempera e oro su tavola di Filippo Lippi (al secolo Filippo di Tommaso) e bottega. 1456-1466 circa. Prato, Museo di Palazzo Pretorio.

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costume e società monete e devozione Fiorino largo di Firenze Questo esemplare, coniato nel 1437, presenta il giglio al dritto e san Giovanni Battista che regge lo stemma dei Canigiani al rovescio. Tale tipologia monetale è frequente nella cassetta delle offerte alla Cappella del Sacro Cingolo. La scelta di passare dal tondello «stretto», in uso fino a tutto il 1421, a quello «largo» fu presa a difesa della moneta stessa, in quanto la tosatura (ossia la limatura che ne asportava in polvere una porzione), fino a quel momento largamente applicata, veniva in questo modo resa piú difficile, al contrario del fiorino delle origini, il cui maggiore spessore consentiva una tosatura verticale assai meno percepibile.

Fanno parte di quest’ultimo tipo di ostensioni, per esempio, quelle effettuate nell’aprile e nel maggio del 1459, in onore di due alti membri della corte di Francesco Sforza, Otto Visconti e Pietro del Verme, richieste espressamente come un omaggio speciale da Cosimo de’ Medici con una lettera agli Otto del Comune di Prato, sullo sfondo delle trattative politiche legate alla guerra di successione al regno di Napoli e alla congiura dei Baroni. Ebbero una matrice politica piú che devozionale molte altre ostensioni richieste dalla Repubblica fiorentina, come quella per Gaspero da Vimercate, anch’egli consigliere di Francesco Sforza, nel luglio del 1462, o quelle in favore di membri della corte estense nel periodo luglio 1491-maggio 1492, legate allo speciale rapporto di collaborazione politica e amicizia tra Lorenzo de’ Medici ed Ercole d’Este. Anche grazie alla reliquia e alla sua eccezionalità, quindi, nella terra di Prato transitarono ufficialmente grandi personalità del panorama politico dell’epoca, ma, sottese a queste, altre visite al Sacro Cingolo lasciarono particolari segni nella chasetta dell’opera fuori della chapella. E lo spoglio delle offerte fatte alla Cappella del-

principalmente il ducato di Milano, il regno di Napoli, la Santa Sede e la Repubblica veneziana –, la visita presso la cappella pratese e la relativa ostensione assunsero un ruolo di prestigio diplomatico non indifferente.

Il re e l’antipapa

Nel XV secolo uno dei primi eventi di tipo «diplomaticodevozionale» fu l’incontro a Prato, nel novembre del 1409, fra il re di Francia Luigi II d’Angiò e l’antipapa Alessandro V, durante il quale il sovrano sperava di ottenere un’alleanza con il prelato per il recupero della giurisdizione su alcuni territori di sua pertinenza: in quell’occasione le ostensioni arrivarono a susseguirsi al ritmo di due al giorno. Il colloquio fra Luigi e l’antipapa, però, avvenne in forma quasi privata e, pur avendo come protagonista dell’ospitalità cittadina Francesco Datini – che per questo vide arricchire il suo stemma del giglio d’oro francese –, non fu, come in altri casi, richiesto e voluto dall’autorità fiorentina.

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La Sacra Cintola

Il prezioso dono di un pellicciaio Per Sacra Cintola (o Sacro Cingolo) si intende la cintura della Madonna, considerata la reliquia piú preziosa di Prato. È una striscia sottile (87 cm) di finissima lana di capra, di color verde broccata in filo d’oro, i cui estremi sono nascosti da una nappa da una parte e da una piegatura sul lato opposto (tenute da un nastrino in taffetà verde smeraldo). La tradizione locale riferisce che san Tommaso, a cui la cintura sarebbe stata affidata dalla stessa Maria, la lasciò a un sacerdote perché fosse venerata in una chiesa da costruire in onore della Madonna. Per timore dei Giudei, però, l’edificio non fu mai edificato e la reliquia venne per secoli tramandata dai discendenti del sacerdote. Intorno al 1140 Michele Dragomari, un devoto pratese di modeste condizioni (la tradizione lo dice pellicciaio), giunse in pellegrinaggio a Gerusalemme, dove si innamorò di una fanciulla, Maria. La sposò in segreto all’insaputa del padre di lei, un sacerdote di rito orientale, e dovette perciò fuggire, dopo aver ricevuto in dono dalla madre di Maria un canestrino

di giunchi marini che conteneva la reliquia. Tornato per nave in Italia, quindi a Prato nel 1141, Michele non fece parola della Cintura e solo in punto di morte (intorno al 1172) la donò a Uberto, proposto della pieve di S. Stefano, svelandogliene l’origine. Le storie narrano poi dei dubbi del proposto e del prodigioso manifestarsi della reliquia, portata infine nella pieve e da allora esposta alla venerazione del popolo. Le ostensioni pubbliche erano regolate dagli Statuti del Comune (al quale spettavano parte delle chiavi necessarie per estrarla dall’altare), e si tenevano per Pasqua e l’8 settembre, Natività della Vergine. Solo piú tardi si aggiunsero le ostensioni per Natale, quindi quella del primo maggio, infine il 15 agosto. Dalla fine del Duecento al 1336, il Comune, con imponenti demolizioni, realizzò la vasta piazza davanti alla chiesa, destinata ad accogliere i pellegrini. Nel 1312 ebbe luogo un tentativo di furto della reliquia, a opera di Giovanni di Landetto detto Musciattino, che fu duramente punito col taglio delle mani e il rogo, sul Bisenzio. Dopo l’evento si decise di dare sistemazione piú sicura alla reliquia e si avviarono i vasti lavori per la realizzazione del transetto gotico della chiesa, conclusi solo intorno al 1365. Tra il 1386 e il 1390, venne realizzata una nuova cappella vicino all’ingresso, atta a sistemarla in via definitiva, ornata nel 1392-95 dallo splendido ciclo di affreschi di Agnolo Gaddi con le Storie di Maria e la Storia della Cintola. Il 4 aprile 1395 la reliquia venne trasferita nel nuovo altare (parte delle chiavi necessarie per estrarla erano conservate, come avviene ancora oggi, dal Comune). In base allo stesso progetto, venne piú tardi completata anche la nuova facciata, e realizzati infine il pulpito esterno di Donatello e Michelozzo, e il terrazzo interno, di Maso di Bartolomeo, destinati unicamente alle ostensioni della Cintola. La Cintola fu conservata inizialmente in uno scrigno di avorio, poi nella splendida capsella di Maso di Bartolomeo. (testo tratto dal sito www.diocesiprato.it) Prato,Duomo, Cappella del Sacro Cingolo. Particolare del ciclo con la Storia della Cintola affrescato da Agnolo Gaddi. 1392-1395. La scene raffigurano Michele Dragomari che, in punto di morte, dona la reliquia del Sacro Cingolo al proposto Uberto I e il trasporto della reliquia nel Duomo pratese.

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costume e società monete e devozione Fiorino largo di Siena È possibile che i «fiorini sanesi» offerti nel 1467 dalla «donna del Marchese di Mantova» siano del tipo qui raffigurato, databile al 1450-1470. Dagli anni Sessanta del XV secolo il termine

«ducato» compare nelle fonti scritte e sostituisce progressivamente quello di fiorino largo, sempre meno utilizzato, introdotto per la prima volta in Toscana nel 1422 dalla zecca fiorentina. Nella legenda della moneta compaiono per esteso i motti «SENA VETVS CIVITAS VIRGINIS», al dritto, e «ALFA ET O[mega] PRINCIPIVM ET FINIS» al rovescio, come è consuetudine nelle emissioni cittadine a partire dalla metà del Trecento, a compendio delle precedenti formule «Sena Vetus» e «Alfa et O[mega]» in uso dalla fine del XII secolo. Il segno di zecca che compare nella legenda del rovescio, rappresentato da un globetto cerchiato sormontato da una croce, è piuttosto diffuso anche nella simbologia legata alla mercatura: in particolare l’aggiunta della

croce latina sembra porre la marca e la sua compagnia sotto la protezione divina. Alcuni di questi simboli rappresentano talvolta anche antichi e reconditi significati legati al magico, all’amuleto e al soprannaturale.

A sinistra la capsella realizzata per la Sacra Cintola da Maso di Bartolomeo. 1446-1448. Prato, Museo dell’Opera del Duomo.

la Sacra Cintola apre un inedito spaccato di vita quotidiana, in cui devozione e monetazione quattrocentesca si intrecciano, consentendo alcune brevi riflessioni.

Rendicontazione separata

Le offerte per la reliquia mariana erano raccolte in una cassetta appesa al graticolato esterno della cappella e avevano una rendicontazione separata rispetto a quelle generiche fatte ad altri altari o alla chiesa in sé. Immaginando di aprire una di queste cassette, in cui le offerte di semplici pellegrini si alternano a quelle di personalità politiche e di nobili discendenti di stirpi europee, il contenuto del «piccolo scrigno» si presenta all’osservatore di oggi come un minuto ma variopinto e scintillante tesoro, in cui monete di diverse sorte testimoniavano la diversa natura dell’offerente e della sua preghiera. La minuta descrizione delle offerte dei registri dell’Opera del Sacro Cingolo, in cui si annotano spesso anche le causali degli oboli, mostra una curiosa varietà di pellegrini e casistiche. Le offerte istituzionali – fatte dalle magistrature cittadine o dalle comunità del

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Fiorino romano Fiorino romano di papa Pio II (Enea Silvio Piccolomini). 1458-1464. Detta anche «ducato papale», questa moneta costituisce verosimilmente la donazione testimoniataci nel 1460 a nome di monna Antonia, sposa romana del pratese Michele Arrighetti, che custodiva con sé dalla propria città d’origine. Il dritto reca lo stemma del papa senese, una croce caricata da cinque crescenti lunari, sormontata dalle chiavi decussate e legate tra loro da un cordone e dalla tiara papale (triregno), simbolo dello Stato pontificio vaticano; al rovescio compare san Pietro stante entro cornice quadribola. Il santo, primo papa della Chiesa cattolica, è rappresentato come di consueto con le chiavi in una mano e il Vangelo dall’altra ed è sormontato dalla legenda «ALMA ROMA S[an] PETRVS».

«Monna Antonia offre un fiorino romano»; «Ricordo come questo dí 15 d’ottobre vene messer arcivescovo di Firenze (…) a vedere la chapela e la saghrestia e poi donò uno grosso».

Una pellegrina illustre

Nell’agosto del 1467, la visita privata di una pellegrina d’eccezione arricchí la cassetta di due fiorini senesi: la moglie di Ludovico Gonzaga, marchese di Mantova, Barbara di Hohenzollern fu omaggiata con un’ostensione personale. Andata sposa al Gonzaga a soli undici anni di età, la marchesa, come molte donne della sua epoca, fu impegnata anche in politica. Il fatto che abbia effettuato un versamento in fiorini senesi non deve stupire: i legami con la città toscana erano forti e la mediazione di Barbara, nel 1459, contribuí a far sí che Pio II, il senese Enea

A destra Prato. Il momento culminante dell’ostensione della Sacra Cintola, dal pulpito eretto a tale scopo da Michelozzo e Donatello (1428-1438) sull’angolo della facciata del Duomo.

contado pratese – erano perlopiú in natura, in denaro o in cera, mentre quelle dei singoli pellegrini venivano appunto depositate nella piccola cassettina in cui, per esempio, nel gennaio del 1450, i cinque soldi e i sei denari della giovane moglie del pratese Nanni di Iacopo di Michele – versati molto probabilmente come buon augurio per il matrimonio appena celebrato –, si affiancano alle tre lire di Cecchino da Mezzana detto Culmolino, graziato da una condanna e che desidera con il suo gesto rendere omaggio alla Vergine che lo ha protetto: «Fu oferto da la donna novella di Nanni di Iachopo di Michele soldi 5 denari 6»; «Ciechino d’Antonio da Mezana chiamato Culmolino per grazia d’una sua chondanagione (…) lire 3 soldi 10». Nella cassetta delle offerte del 1460, i grossi e i fiorini romani si presentavano accanto ai piú comuni oboli in lire e soldi, rispettivamente versati da monna Antonia, la sposa romana del pratese Michele Arrighetti, e dall’arcivescovo di Firenze, Orlando Bonarli, successore di sant’Antonino:

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Silvio Piccolomini – papa umanista, nonché anche il promotore di una delle ultime crociate contro i Turchi –, convocasse proprio a Mantova la Dieta di preparazione per la sua spedizione contro gli infedeli. Come ringraziamento per l’impegno profuso nella circostanza, la marchesa ottenne dal papa la nomina a cardinale di suo figlio Francesco. La descrizione del registro delle offerte pratesi, purtroppo, tace il motivo del suo pellegrinaggio: «La donna del Marchese di Mantova (…) oferse fiorini due sanesi e’ quali si missono nella chassetta dove si mettono gli altri». Fertilità e guarigioni miracolose, infine, potevano essere le motivazioni di altri oboli, come quelli dell’8

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costume e società monete e devozione

settembre 1493, entrambi effettuati da due pellegrini emiliani, a testimonianza di una devozione popolare che non era solo strettamente locale, ma che si estendeva in zone vicine, sebbene non rientrassero nella giurisdizione strettamente toscana; una donna modenese, infatti, donò un fiorino d’oro per aver riacquistato la vista, essendo cieca dalla nascita, mentre il contadino bolognese Iacopo di Bartolomeo non dimentica di ringraziare la Vergine per la fertilità della sua cavalla: «Da una donna di Modena a dí 8 di settembre fiorino uno largo d’oro dette (…) che disse essere settanta anni cinque ciecha che mai aveva veduto lume e rachomandandosi a llei liberò chome publicamente disse»;

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«Da Iachopo di Bartolomeo da Sasso di Belvedere chontado di Bologna a dí 8 di settembre fiorino uno largo d’oro (…) disse lo dava per grazia d’una chavalla che ogni anno gli faceva uno muletto».

In tempo di Giubileo

I pellegrinaggi del periodo bassomedievale provano che l’utilizzo della moneta con finalità propiziatoria era una pratica piuttosto comune. Oltre al caso pratese riportato, ne sono un esempio le offerte dei devoti nelle tombe di santi, in genere deposte come segno di memoria o di richiesta di protezione nella vita terrena. Durante il viaggio, molti pellegrini portavano con sé le monete del settembre

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Sulle due pagine miniature tratte da un’edizione delle Croniche di Giovanni Sercambi XV sec. Lucca, Archivio di Stato. Raffigurano gruppi di pellegrini durante il Giubileo del 1300, mostrandone i comportamenti (a sinistra) e l’arrivo a Roma.

stesso Giubileo, ci testimonia che «quegli altari, i piú frequentati di tutto il mondo (…) in quest’anno centesimo ne resero, quello del Principe trentamila fiorini, quello del Dottore circa ventunomila, non in grandi donativi d’oro, o d’argento, ma in spiccioli di moneta corrente di ciascuna provincia, e ciò benché non tutte le offerte, per le esigenze dei bisogni urgenti e della povertà, venissero versate». I pellegrini venivano a Roma da ogni parte del mondo cristiano e offrivano alle tombe degli apostoli monetine di poco valore, di uso quotidiano, spesso provenienti dalle loro terre. Per la curia romana doveva trattarsi di una fonte di introito sicura, ma nell’animo di chi compiva il pellegrinaggio, e arrivava a destinazione, deporre la propria moneta faceva parte del rito e dava l’opportunità di lasciare un segno di sé a contatto col santo, sull’altare o sulla tomba venerata. Talvolta le immagini religiose impresse sulle mo-

proprio Paese, che cambiavano secondo le necessità; potevano però conservarne qualche esemplare, da offrire una volta giunti a destinazione. Sebbene fossero rappresentate da monete di uso comune e di scarso valore, le donazioni deposte sugli altari, come quelle descritte in occasione del Giubileo del 1300 a Roma, raggiungevano quotidianamente quantità piuttosto considerevoli: la cronaca di Guglielmo di Ventura di Asti ci racconta che in quell’anno «notte e giorno due chierici stavano presso l’altare di San Paolo con in mano rastrelli e raccoglievano denaro senza fine». Considerazioni analoghe si traggono dal cardinale Jacopo Stefaneschi che, parlando delle offerte raccolte in occasione dello

nete portavano alla trasformazione delle seconde in oggetti di culto, per cui venivano considerate al pari di icone sacre. Per esempio, un pellegrino prussiano di nome Giovanni, giunto a Siena in occasione del Giubileo del 1400, al momento di partire per Roma, depositò all’ospedale del Santa Maria della Scala, con l’intenzione di recuperarla piú tardi, la somma di dieci fiorini d’oro di conio diverso e piú uno quattrino pisano dela Vergine Maria. In questo caso è evidente che la moneta veniva conservata insieme alle altre non tanto per essere spesa o tesaurizzata – in quanto il suo valore intrinseco era piuttosto irrisorio rispetto a quelle d’oro –, ma per ciò che rappresentava il sog-

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Nella pagina accanto Siena, Complesso Museale Santa Maria della Scala, Sala del Pellegrinaio. Una balia con un neonato e un bambino, particolare dell’affresco di Domenico di Bartolo che illustra le attività svolte dall’ospedale e regolate dallo statuto trecentesco: l’accoglienza, la cura, l’istruzione e il matrimonio dei piccoli abbandonati. 1441-1442.

getto, ovvero la Madonna, come segno di protezione durante il lungo viaggio. Questo comportamento ci ricorda quello di un altro pellegrino, Pietro Dau della Magna, il quale, nello stesso periodo, depositò una Vergine Maria d’avorio in uno bosolino fornito d’ariento, insieme con una moneta d’oro, e la somma di 31 soldi e 8 denari in pichioni e in bolognini papali. In una circostanza, l’immagine della Vergine Maria, rappresentata ancora una volta su una moneta pisana, diventò addirittura la protagonista di un miracolo, che portò il pezzo a essere poi considerato una reliquia. Il 18 gennaio 1392, un giocatore in Empoli perse tutto al gioco, tranne un grosso pisano con l’immagine della Madonna, e bestemmiò e inveí contro l’immagine, pugnalandola: al che la figura cominciò a sanguinare. La moneta miracolosa fu conservata a Firenze, nella sacrestia della chiesa di Santo Spirito, e quando papa Leone X visitò la chiesa, nel 1516, concesse un’indulgenza di cinquant’anni e cinquanta quarantene a chi l’avesse visitata nella quinta domenica di Quaresima, giorno di esposizione della reliquia. Un caso simile di «moneta-icona» è descritto nel deposito di un pellegrino di Mont-SaintMichel composto da 3 quattrini di cui 2 del Signiore. L’appellativo «del Signore» potrebbe alludere al Volto Santo, impresso sulle monete lucchesi sin dai primi anni del XIII secolo, tanto piú che, nel viaggio di andata verso la Città Eterna, il pellegrino francese, proprio in virtú della sua provenienza, potrebbe aver sostato in quella città situata lungo la via Francigena. Le monete che i pellegrini portavano con sé parlano del loro tragitto, ma è bene ricordare come esse stesse fossero, in realtà, il piú piccolo elemento identificativo del Paese d’origine di ciascuno di essi. Talvolta i comuni quattrini potevano essere usati persino come contrassegno di bambini abbandonati: nel 1452, la piccola Maddalena fu chiamata «Pisana», in quanto portava con sé proprio un esemplare di quella città.

Specie e nomi curiosi

In una moltitudine di specie valutarie, straniere e non, la gente comune, ma soprattutto gli operatori del cambio e della mercatura, dovevano saper classificare, almeno sommariamente, tutte le varietà di monete che passavano per le loro mani, al fine di poterne determinare l’esatto valore economico. Nei registri dei cambia-

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Grosso pisano Grosso pisano con la Vergine in trono al rovescio e l’aquila imperiale al dritto. 1350-1406. Il motivo della Vergine, raffigurata su uno scranno con il Bambino in braccio, è di derivazione bizantina e ascrivibile perciò al clima artistico che stava diffondendosi in Toscana e a Pisa nel corso del Duecento. È possibile individuare quale fonte d’ispirazione la Vergine dipinta nella tavola della «Madonna sotto gli Organi», ancora oggi venerata e custodita nell’altare omonimo della Cattedrale di Pisa ed esposta per invocare, come in passato, la protezione mariana dai pericoli e disastri d’ogni genere che affliggevano la città, quali alluvioni, piene dell’Arno e siccità, malaria, pestilenze e guerre. È probabile che la moneta-reliquia legata all’episodio del giocatore empolese del 1392, conservata nella sacrestia della chiesa fiorentina di Santo Spirito (vedi nel testo, in questa pagina), sia del tipo qui riprodotto.

valute e nei libri di mercatura figurano pertanto numerose liste di monete, in cui vengono riportati i valori e gli appellativi di ciascuna di esse, il contenuto metallico e, a volte una breve descrizione di ciò che recavano al dritto e al rovescio. Esemplare a questo proposito è quanto annota il cambiavalute fiorentino Lippo di Fede del Sega, nel suo Libro dei conti e delle ricordanze, in relazione a una particolare moneta grossa d’argento coniata proprio nella sua città qualche anno prima: «Popolini fatti in Firenze [segue il titolo] 11 onc. ½ [segue una breve descrizione] furono fatti per s. 2 l’uno, entratone per lbr. s. XIIII e d. III di grossi ed ànno da luno lato san Giovanni ritto chon una charta imano e da latra uno giglo». La varietà dei nomi delle monete è pari a quella dell’iconografia su di esse impressa: spesso, proprio quest’ultima caratterizzava i nomi delle emissioni con i suoi disegni, ritratti, stemmi o santi. Gli appellativi, il piú delle volte dettati dalla consuetudine popolare, potevano avere diverse origini e talvolta assumere forme a

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costume e società monete e devozione dir poco curiose: se prendiamo, per esempio, le monete d’uso in Toscana, possiamo identificarle nel nome del sovrano/autorità politica che le fece battere (bargellino dal bargello di Firenze Lando da Gubbio, castruccino dal signore di Lucca Castruccio degli Antelminelli, guelfi o ghibellini dalla fazione in carica in quel momento), nel tipo di immagine sacra rappresentata (del Signore, della Vergine Maria, Sammartino, Santacroce), nel disegno presente su uno dei due lati (fiorino dal fiore di Firenze, testone dal particolare del ritratto di un sovrano, lucchesi barbagianni dalla folta barba del Volto Santo) o in un suo dettaglio (fiorini di stella, guelfi della volpe, volterrani delle stelle), nel paese di provenienza (fiorini sanesi, fiorini papali, bolognini di Lucca, bolognini papali, agontani, cortonesi, volterrani da Chasoli), nel tipo di metallo (bianchi, neri), nel valore (quattrini, sesini), nella dimensione (piccioli, grossetti, grossarelli, grossoni) oppure persino nell’unità di misura relativa a un certo dazio (barile).

Un patrono per ogni città

Per tutto il Medioevo il santo protettore è visto come colui al quale rivolgersi per intercedere con Dio, essenzialmente come conseguenza diretta del V Concilio di Cartagine (401 d.C.), nel quale si introdusse l’usanza rituale di esporre e consacrare le reliquie. Gli altari in cui esse venivano deposte divennero pertanto il centro della devozione religiosa, dando un senso di protezione, di appartenenza e identità, nonché di vitalità economica alle comunità. Nella monetazione

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Grosso lucchese Grosso lucchese detto «Santacroce». 1500-1519). Questo termine, di estrazione popolare, trae origine dall’immagine del Cristo crocifisso impressa nel rovescio della moneta a tutto campo. Il foro a ore 12, visibile proprio sopra la testa del Cristo, ci testimonia il suo utilizzo devozionale a modi ciondolo o amuleto. L’immagine del Santo Volto, ricorrente per secoli nella monetazione lucchese, si ispira alla grande statua-reliquiario che si conserva nel Duomo di Lucca raffigurante il Cristo vivo sulla croce vestito di colobium, comunemente nota come la Santa Croce. Questa preziosa reliquia, considerata un unicum nella storia artistica e religiosa del nostro Paese, in quanto scolpita, almeno nel volto, per diretto intervento divino, ha avuto nel periodo medievale una fama e una tradizione di culto paragonabili solo al richiamo della Terra

In basso Lucca, Duomo. Il crocifisso ligneo noto come Volto Santo e considerato un’immagine acheropita, cioè non fatta da mano umana. XI-XIII sec.

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Santa. In essa si è a lungo identificata Lucca, eleggendola a suo emblema e simbolo, divenendo a tutti gli effetti «la città del Volto Santo».

Grosso di Volterra Grosso di Volterra detto «Volterrano delle stelle». 1291-1301. Citata nelle liste di monete dei trattati di mercatura come «Volterrano delle stelle» per le due stelle poste nei due quarti della croce del rovescio, questa moneta rappresenta una novità nel panorama valutario della fine del XIII secolo. Ispirata al modello iconografico del grosso di Ancona detto «agontano», caratterizzato dalla figura intera del santo benedicente, questa tipologia segna il distacco dalla monetazione comunale legata ai tipi col santo patrono a mezza

toscana, l’utilizzo delle immagini sacre prende piede a partire dai primi decenni del XIII secolo, attraverso la raffigurazione frontale del santo patrono benedicente sui grossi d’argento. Tale innovazione viene introdotta a Lucca, con la rappresentazione del Volto Santo barbuto e coronato; Pisa, con la Madonna nimbata e velata che regge il Bambino in collo; Firenze, con san Giovanni Battista nimbato e benedicente; e infine Arezzo, con san Donato di prospetto, dapprima con la sola mitra vescovile e poi con il nimbo sacro. Siena fa eccezione, in quanto sceglie di rappresentare nelle sue emissioni (dal 1180 circa, con il denaro minuto seguito poi, presumibilmente dal 1211, dal suo multiplo grosso in argento) la croce patente da una parte accompagnata da un simbolo profano dall’altra (ovvero la lettera «S», iniziale del nome della città) in luogo della sacra rappresentazione del patrono. È la prima zecca toscana a introdurre nella propria monetazione un simbolo religioso, tra l’altro non legato ad alcuno specifico santo patrono e ciò suggerisce che essa non si sia ispirata, almeno a livello regionale, ai prodotti di altre officine. Probabilmente, visti gli interessi economici che legavano i mercanti senesi alle fiere della Champagne, si rifece piuttosto a modelli iconografici extraterritoriali già in uso, come quelli rappresentati dai denari di Provins in Francia, che oltretutto rappresentavano la valuta di riferimento a Roma e nella Tuscia laziale già dalla metà del XII secolo.

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figura racchiusa da un cerchio perlinato nel campo del tondello. La legenda che circonda la croce stellata, caratterizzata dal motto «C[ru]X E[st] VITORIA NRA», vuole commemorare il mancato saccheggio della città da parte delle milizie fiorentine del 1254. Secondo la tradizione infatti i fiorentini si impietosirono di fronte al vescovo Ranieri degli Ubertini che si presentò loro incontro vestito dei paramenti sacri, reggendo la croce e seguito dalla popolazione trepidante, in preghiera.

Solo nel 1260 la devozione nei confronti di Maria, a seguito della celebre vittoria riportata sull’esercito fiorentino e di parte guelfa a Montaperti, divenne segno d’identità culturale, col motto, impresso poi nelle monete a partire dal XIV secolo, di «Sena Vetus Civitas Virginis». L’autore ringrazia Francesco Bernocchi, Veronica Vestri e Angelo Petrai di ArtinPo, che, con i contributi e la collaborazione dimostrata, hanno permesso la realizzazione della mostra «Moneta e Devozione» (Prato, Spazio Mostre Valentini, 9 novembre 2013-12 gennaio 2014, e successivamente Lucca, Museo della Zecca, 25 gennaio-12 maggio 2014), dalla quale nasce la stesura del presente articolo.

Da leggere Moneta e Devozione (catalogo della mostra, Prato, 9 novembre 2013-12 gennaio 2014), Libro Co. Italia, San Casciano Val di Pesa 2013; pp. 23-29. Lucia Travaini, Le monete del primo giubileo, in Anno 1300 il primo giubileo. Bonifacio VIII e il suo tempo (catalogo della mostra, Roma, marzo-luglio 2000), Electa, Milano 2000; pp. 121-125. Lucia Travaini, La moneta in viaggio, in Gabriella Piccinni, Lucia Travaini (a cura di), Il libro del Pellegrino (Siena 13821446). Affari, uomini e monete nell’Ospedale di Santa Maria della Scala, Liguori, Napoli 2003; pp. 83 e segg.

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gente di bottega/7

Fatiche a regola d’arte di Barbara Conti ed Emanuela Porta Casucci


Sebbene capiti ancora di vederlo utilizzato, il basto evoca un mondo lontano, in cui gli animali (e non i motori) erano l’ausilio indispensabile per molte attività svolte dall’uomo. Uno strumento concettualmente semplice, ma la cui fabbricazione richiedeva conoscenze e capacità artigianali evolute, come ci lascia intuire l’inventario dei beni di un produttore attivo nel territorio di Pisa

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Maria raccomanda Siena a Papa Callisto III (particolare), olio su tavola di Sano di Pietro. 1456. Siena, Pinacoteca Nazionale.

l Comune di Palaia, nel territorio di Pisa, è la cornice in cui, alla metà del XV secolo, operava il bastiere Antonio di Giovanni Guidaglia, un artigiano la cui esistenza e attività sarebbero rimaste sconosciute se alla sua morte, avvenuta probabilmente nell’estate 1449, sia l’abitazione che le due botteghe di bastiere e di macellaio di sua proprietà non fossero state inventariate dal Magistrato dei Pupilli et Adulti del Comune di Firenze e il documento non fosse oggi consultabile presso l’Archivio di Stato di Firenze (Pupilli Avanti il Principato, filza n. 169, cc. 190v-193v). La descrizione dettagliata delle masserizie e degli strumenti da lavoro in possesso della famiglia serviva per vendere i beni e utilizzare il denaro cosí ricavato per il man-

A destra un basto in legno che viene posto sul dorso delle bestie da soma per caricarle con i beni da trasportare.

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gente di bottega/7 Palaia

Due poteri per un borgo Oggi Comune in provincia di Pisa, nasce come torrione fortificato in Valdera con un borgo sottostante e chiesa plebana intitolata a san Martino; apparteneva già dal X secolo alla diocesi di Lucca, una delle piú antiche e piú vaste della Toscana che rispondeva direttamente al pontefice prima di essere innalzata ad arcivescovato nel XVIII secolo, e affidata a una potente famiglia lucchese. Fino al 1406, il conflitto fra la giurisdizione politica e civile di Pisa e quella religiosa dell’episcopio di Lucca si riverberò sulle vicende storiche di Palaia, con alterne dipendenze dall’una o dall’altra città e continue alternanze fra baluardo guelfo e roccaforte imperiale. Dal 1406, con l’assedio di Pisa da parte di Firenze, i castelli della Valdera e delle colline pisane si sottomisero alla Repubblica fiorentina. Dal 1431 al 1433, durante le guerre fra Visconti e Comune di Firenze, la rocca di Palaia tenimento dei figli minorenni del defunto, Giuliano e Battista, individuando anche un affidatario che li avrebbe seguiti fino alla maggiore età, rendicontando annualmente allo stesso Ufficio. L’inventario del patrimonio di Antonio, redatto l’8 settembre 1449, descrive un casamento vasto e articolato – con piú abituri –, in cui risiedeva con la famiglia nel cuore dell’abitato di Palaia, luogho detto Borgho di Paluaccio, sull’angolo di un vicolo, confinante con altri immobili di sua proprietà, fra cui anche la casa nella quale aveva abitato per proprio conto un figlio adulto del bastiere, Marco, forse deceduto con la moglie e i cui interessi vengono accuratamente difesi davanti al notaio dalla suocera. La donna indica cose dice monna Dingha suocera di Marcho che sono sue trovate in detta casa, fra le quali 1 pettine e 1 specchio e 1 dirizzatoio d’avorio in un forzerino. La casa contava una sala in cui si riuniva la famiglia per svolgere

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fu occupata dai Milanesi, per poi rientrare nel definitivo dominio della città del giglio, pur restando assegnata alla diocesi di Lucca per la cura delle anime. Nel 1622 Gregorio XI innalzò a sede vescovile la prepositura di San Miniato al Tedesco, alla cui autorità sottopose la Valdera e il Valdarno Inferiore, inclusa Palaia, staccandoli dall’episcopio lucchese. Il ruolo della proprietà immobiliare e fondiaria della diocesi di Lucca in questi territori è stato dunque molto forte.

la maggior parte delle attività domestiche diurne, 2 camere e un camerotto da fante – la governante di casa – situati ai piani superiori e altre due stanzette a mezza scala. Un granaio e 2 cantine servivano da deposito per l’attrezzatura casalinga e come dispensa dei prodotti provenienti dai numerosi terreni agricoli di proprietà del bastiere, appena fuori del paese.

Il socio sconosciuto

Di proprietà del defunto era anche la casa vicina in luogho detto al Tellino, con due botteghe che nell’una si fa l’arte de’ bastiere – mestiere che Antonio esercitava in società con uno sconosciuto Pietro di Lorenzo – nell’altra la beccheria chon uno pocho d’orto, dove lavorava il figlio Marco, un edificio tributario annualmente di 2 fiorini verso la stessa pievania, per il diritto di utilizzare il terreno su cui era stato edificato. Qui vengono inventariati i ferri da macellaio rinvenuti in una chas-

In alto una veduta del borgo di Palaia. Nella pagina accanto miniatura raffigurante il trasporto delle olive, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis, traduzione in latino del Taqwim al Sihha (Almanacco della salute), redatto a Baghdad nell’XI sec. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

setta di braccia 1 ½ entrovi: 1 uncino di ferro da porci, 1 acciaiuolo da becchaio, 1 fuso da infilare la charne, 1 succhiellino, 3 choltellini da schortichare e 1 descho choperchiato da fare salsiccia, 1 mannaia da battere salsiccia. I due immobili sono collegati da una chasetta dov’è la chucina, di proprietà per 1/3 del bastiere e per 2/3 del decano della pieve, alla quale si pagano annualmente 4 soldi. Tutte le proprietà in paese sono caratterizzate dall’adiacenza con beni della diocesi di Lucca, a cui l’abitato di Palaia faceva ancora capo per le questioni di culto e di raccolta delle decime, pur essendo nel territorio di Pisa. settembre

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gente di bottega/7 convivenze familiari e relazioni parentali

Che la dote sia ricca, ma non troppo... La debolezza numerica e l’irrilevanza sociale della donna nel tardo Medioevo contrastano con l’immagine idealizzata che di essa ne hanno dato l’arte e la letteratura. Nella suddivisione dei ruoli di genere, lo spazio della donna è relegato all’ambito domestico e nella documentazione fiscale e istituzionale risulta del tutto assente. Emerge invece negli atti notarili privati e nei molti libri di ricordanze familiari, che costituiscono una delle caratteristiche specifiche del ceto dirigente fiorentino. In questi appunti personali, spesso di grandi mercanti, si rincorre la ricostruzione della genealogia familiare, delle alleanze e delle testimonianze di correttezza politica, indispensabili a Firenze per essere ceto dirigente. Le donne vi compaiono come necessario complemento di ascendenze e discendenze sempre patrilineari e raramente gli autori si occupano della consanguineità femminile. La donna transita come una «derrata» sul mercato matrimoniale allacciata alla propria dote, oggetto di lunghe trattative prematrimoniali e postobituarie con le famiglie in cui, di volta in volta, entra per nozze ed esce per vedovanza, a prescindere dalla prole relativa ai vari connubi. Le suocere, le madri, le sorelle, le cognate, le nuore agiscono sullo sfondo di un’operosa economia domestica di cui anche la dote costituisce un sostanzioso contributo o un salasso mortale. E nelle lotte per la restituzione delle doti fra opposti fronti di padri e fratelli, di suoceri e cognati, la donna scompare nuovamente. La relazione fra madre e figlia, oggi centrale, si limita in quell’epoca alla realizzazione dei corredi da portare di volta in volta nelle famiglie d’ingresso. Ricordanze e memorie familiari indicano, però, che tale legame poteva esprimersi, come nella successione del bastiere di Palaia, anche con la rivendicazione di suppellettili domestiche, di vestiario o di ornamenti da parte di una suocera che, per salvaguardare i beni personali della figlia rimasta vedova e non farli assorbire nel patrimonio maritale destinato alla dispersione commerciale, testimoniava in prima persona di prestiti materni o doni nuziali – chissà quanto veritieri – e presenziava all’inventario delle masserizie per riprendere ciò che era stato della figlia. Il corredo della sposa, infatti, copriva da 1/3 alla metà di un’intera dote: nelle classi dirigenti era costituito da abiti e oggetti personali, mentre nelle famiglie artigiane e delle Arti Minori comprendeva lenzuola e biancheria. Una delle suocere piú famose del Quattrocento, Alessandra Macinghi Strozzi, accusò uno dei generi di fare troppi doni alla figlia, avendo ben presente le difficoltà che, in caso di vedovanza, la stessa avrebbe avuto per portarli con sé. I regali maritali, infatti, tendevano a essere recuperati al patrimonio familiare del donatore, utilizzati addirittura come pegni di prestito nelle attività commerciali del gruppo.

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Come fabbricante di basti per asini e muli, Antonio svolgeva un accurato lavoro «sartoriale»: a differenza della sella, il basto deve infatti essere realizzato su misura per ogni animale, in modo che i fianchi ne siano perfettamente fasciati, senza dar luogo a costrizioni o sfregamenti della pelle, cosí da consentire il trasporto di pesi, anche molto gravosi, in modo sufficientemente confortevole.

Legni selezionati

La forma di un basto somiglia a quella di una rigida sella di legno: si compone di due archi – gli arcioni – realizzati in legno di noce o di olmo, il posteriore generalmente piú largo dell’anteriore. I due arcioni sono uniti fra loro da assi di legno della misura giusta per l’animale, e insieme formano una struttura rigida, detta fusto o castello. Per aiutarsi durante le fasi di costruzione di questa parte lignea, che può pesare fino a 10-12 kg, è necessario un sostegno e Antonio si appoggiava su un chavalletto ch’à da ghovernare basti. Per ammortizzare il fastidio della soma ed evitare piaghe cutanee, sotto il castello viene posizionata un’imbottitura morbida, piuttosto spessa – 15-20 cm circa – che, come un cuscino, si appoggia sulla groppa dell’animale. A tale scopo Antonio conservava in

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A destra particolare di una miniatura raffigurante una cerimonia di matrimonio. XII sec. Nella pagina accanto cassone nuziale con serratura e maniglie in bronzo dorato, decorata con borchie. Manifattura fiorentina, XVI sec.

bottega una certa quantità di borra, cascame di tosature e crini, che rendeva soffice battendolo con un bastone. Rivestiva poi l’imbottitura con chanavacci da bastiere, ovvero teli di canapa di cui gli Ufficiali dei Pupilli registrano un avanzo di 4,5 m. Cuscino e arcione anteriore venivano talvolta rivestiti anche sulla superficie superiore: a tale scopo erano destinate le 2 pelli di chavretto, morbide e delicate, e le 6 pelli di

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capre col pelo rinvenute in bottega e nell’attiguo soppalco. Per fare in modo che il basto non si sposti e non cada durante il trasporto si usano cinghie di ritenuta, che vengono passate in apposite feritoie del castello e intorno al petto, sotto la coda e lungo il sottopancia dell’animale, ancora oggi chiamate «riscontri». Il bastiere di Palaia realizzava con vari filati parte di tali funi, lavorandoli direttamente in

bottega a un apposito telaio da fare rischontri e importandone altre tipologie dai centri di lavorazione della canapa, come l’Umbria, da dove provenivano i suoi 11 mazzi di cinghia da Foligno, che sono 24 per mazzo. Numerose altre corde di vario spessore e qualità sono riportate nell’inventario in maniera generica: 66 libbre di funame e 43 libbre di bandolo – spago col filo doppio –, 3 mazzi di pettorali, 43 libbre di chorda biancha, 11 libbre di

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gente di bottega/7 Il basto nell’arte

Il valore simbolico di un oggetto umile

Raffigurazioni di asini che trasportano carichi col basto, sia in campagna che in città, ricorrono nei Libri d’Ore, in cui preghiere e letture sacre erano corredate da ricche miniature raffiguranti le occupazioni dell’uomo nelle varie stagioni. Simili immagini sono presenti anche in alcuni Tacuina Sanitatis, che descrivevano le proprietà mediche di ortaggi, frutta e spezie e i loro effetti sul corpo umano. In tali contesti non stupisce trovare asini col basto presentati nelle loro attività quotidiane, mentre docilmente si prestano ad aiutare l’uomo nel lavoro, né quando si tratta di grandi affreschi, come nell’Allegoria ed Effetti del Buon Governo (dipinto nella prima metà del XIV secolo da Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena), una rappresentazione appunto allegorica del lavoro produttivo nella città di Siena e nella campagna circostante, nella quale compaiono numerosi animali muniti di basto con i loro carichi.

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Piú sorprendente è l’autonomia del basto nelle pitture della Natività, tema sacro in cui esso acquista valore come elemento simbolico, ricordo del viaggio di Maria e Giuseppe con l’asino fino a Betlemme in occasione del censimento. Nel XV secolo il basto appare in primo piano sotto la capannuccia, insieme ai personaggi sacri: il Pinturicchio, nella collegiata di Spello – vicino a Perugia – oppure il Ghirlandaio nella Natività di Santa Trinita a Firenze, solo per fare due esempi, lo raffigurano accostato alla Sacra Famiglia, insieme alla sacca usata per trasportare le provviste e alla botticella con l’acqua. È simbolo della fatica e della sottomissione dell’asino, ma anche emblema della dedizione e dell’umiltà di Giuseppe al disegno divino: come sottolineano Zanobi Strozzi e Filippo di Matteo Torelli nella miniatura dell’Antifonario C nel Museo fiorentino

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Qui accanto Adorazione dei pastori, tempera su tavola di Domenico Ghirlandaio. 1485. Firenze, basilica di Santa Trinita, Cappella Sassetti.

Nella pagina accanto, in alto particolare della parte centrale della Predella di Quarate, tempera su tavola di Paolo Uccello. 1433-1434. Firenze, Museo Diocesano di Santo Stefano al Ponte. Nella pagina accanto, in basso Adorazione dei Magi, particolare della predella del polittico per la chiesa del Carmine di Pisa, tempera su tavola di Masaccio. 1426. Berlino, Staatliche Museen.

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di San Marco dove, alla carta 129, san Giuseppe è appoggiato al basto, in atteggiamento meditativo; ed è ancora lui che, a volte, vi siede sopra, come nella Predella di Quarate, dipinta da Paolo Uccello (oggi al Museo diocesano di Santo Stefano al Ponte a Firenze); o nell’Adorazione dei Pastori di Piero della Francesca (conservata alla National Gallery di Londra), che ci mostra il santo ritratto in modo originale: seduto alle spalle di Maria, con le gambe accavallate, la pianta del piede nudo rivolta verso lo spettatore, intento a conversare con due pastori dietro di lui. Masaccio aggiunge ancora maggiore valore al basto dipinto nell’Adorazione dei Magi per la predella del polittico destinato alla chiesa del Carmine a Pisa (oggi a Berlino), che, sistemato fra il bue e l’asino, visti da dietro, e la Sacra Famiglia, viene trattato come un elemento iconografico importante, trait d’union fra prima e dopo la nascita di Gesú, e come oggetto utile per dare alla composizione una maggiore profondità, grazie alla forma arcuata ripresa di scorcio.

fune grossa, 9 mazzuoli di pettorali, 4 libbre di spagho, 16 cinghie di channello, un tessuto a coste, ques’ultimo, particolarmente resistente. Molte corde si utilizzavano anche per fissare il carico lateralmente al basto, sui fianchi dell’animale da soma, assicurate con nodi speciali in modo che all’arrivo, tirando con un solo gesto, il carico potesse cadere a terra tutto nello stesso istante, senza ulteriore fatica per il portatore. Tale trattamento era riservato alla merce resistente, che non avrebbe risentito della caduta, come, per esempio, rami e tronchi di legno. In altri casi si inserivano i carichi in borse di cuoio o di tessuto oppure in contenitori di legno o vimini intrecciato, da bilanciare sui due lati: è evidente dal documento che il bastiere Antonio li realizzava e li forniva insieme alla struttura, perché in bottega sono presenti 12 basti borzati non forniti nuovi, 28 fusti colla baschiera nuovi, 14 baschiere nuove, 6 basti vecchi sborzerati, 1 saccho grande da borze (…) 1 chofano pieno di borze. Sebbene borza e baschiera siano termini non piú in uso attualmente, vengono utilizzati in alcuni poemi umbri seicenteschi per indicare, rispettivamente, contenitori a fusto e sacche.

Un ricco armamentario

Nella bottegha che è a chomune con Pietro di Lorenzo, Antonio sembra avere posseduto tutti i numerosi strumenti necessari all’intero processo di fabbricazione di un basto, sia per sbozzare il legno e inserirvi i chiodi per costruire il castello, sia per cucire stoffa e pellami per le imbottiture e i rivestimenti: gli Ufficiali dei Pupilli registrano, infatti, asce in quantità, seghe, scalpelli, martelli, tenaglie, punteruoli, forbici, succhielli di varie misure e aghuti, utensili appuntiti che – come suggerisce il nome – servivano per forare le cinghie di cuoio e inserirvi una fibbia, o per bucare pelle e tela e farvi passare il filo della cucitura.

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gente di bottega/7 onomastica

Bastieri di nome e di fatto? L’onomastica tardo-medievale ha rispecchiato a Firenze, forse piú che in altri periodi, il legame fra l’uomo e il proprio ambiente, spesso riproducendo in sede anagrafica il lessico del lavoro o della fede politica. Alcuni nomi sembrano legati al mondo dei trasporti mercantili. Sul finire del XIII secolo, Baschiera Tosinghi, appartenente a un ramo secondario della potente consorteria guelfa dei Della Tosa, privato dai parenti del diritto di accedere alle cariche politiche, si schierò contro Rosso della Tosa, assecondando i Cerchi contro i Donati. La consorteria Tosinghi si spezzò cosí in due campi. L’adesione alla fazione bianca dei Cerchi e l’attiva partecipazione alle lotte contro i Neri valsero a Baschiera, nel 1300, il confino a Sarzana, nonché anni di lotte, agguati e congiure fino alla definitiva cacciata da Firenze nel 1302, insieme a Dante Alighieri. Fu a capo dell’impresa detta «della Lastra», organizzata dai Bianchi nella speranza di rientrare con la forza in Firenze, e fu nel seguito dell’imperatore Enrico VII,

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in armi contro la città del giglio. Morí nel 1323, sempre profugo dalla patria, quantunque liberato dalla condanna a morte. Un irriducibile membro di quella schiatta di mercanti duecenteschi che sui duri viaggi nei paesi ultramontani aveva costruito le fortune proprie e della città. Giacomo, detto Scaglia, dei Tifi fu, invece, un mercante e usuraio fiorentino vissuto fra XIII e XIV secolo, il cui soprannome derivava, probabilmente, dalle carovane che transitavano su e giú per le Alpi. Deceduto nel 1332 a Besançon, in Francia, nel convento di frati Minori di Santo Spirito – dove si era ritirato dopo una vita avventurosa –, cercò disperatamente negli ultimi anni di riguadagnarsi un posto in Paradiso, lasciando 20 lire annue di eterno reddito a due frati del convento per dire messa tutti i giorni per la sua anima. Lasciò al convento di che offrire un pasto ai poveri e ai frati del cenobio quattro volte l’anno; di che vestire di panno pesante in inverno gli indigenti, di che panificare e offrire il pane ai poveri il giorno di ricorrenza della propria morte, sperando

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A destra miniatura raffigurante una scena di usura, da un’edizione de Le livre des bonnes mœurs di Jacques Legrand. 1400-1410. Chantilly, Musée Condé.

che la gratitudine dei destinatari si trasformasse in preghiere attive presso Dio per la salvezza della sua anima. Ma la sua fama di usuraio prevalse e non gli evitò un processo postumo pro usuraria pravitate, un’accusa al limite dell’eresia, che portò la Chiesa a requisire e acquisirne l’ingente patrimonio, senza dare corso alle sue volontà testamentarie. Infine la famiglia fiorentina dei Bastieri o Bastari. Come non pensare che sia una casata discendente da mulattieri e costruttori di basti per animali da trasporto? Nel XIV secolo una famiglia Bastari è attestata nel quartiere di Santa Croce, con membri attivi nella vita politica e amministrativa, i piú noti dei quali sono Giovenco e Filippo, quest’ultimo titolare di cariche pubbliche nella seconda metà del secolo, fiero oppositore delle persecuzioni guelfe contro i sospetti di neoghibellinismo e partecipe al ceto dirigente durante

l’esperienza del governo popolare seguita al Tumulto dei Ciompi del 1378. Parallelamente generici bastari, come costruttori di basti, si rintracciano dal 1352 nei registri di capifamiglia sottoposti a varie tassazioni da parte del Comune di Firenze e per alcuni di essi non sembra facile dirimere la questione: casato o mestiere?

Da leggere Giacinto Carena, Prontuario di vocaboli attenenti a parecchie arti, ad alcuni mestieri, a cose domestiche, e altre di uso comune, Stamperia Reale, Torino 1851 Gabriella Garzella, Palaia e il suo territorio fra antichità e medioevo, Nella pagina accanto vignetta raffigurante uno scontro fra Cerchi e Donati, dall’edizione illustrata della Nuova cronica di Giovanni Villani oggi nota come Manoscritto Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana.

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in Bollettino Storico Pisano, LXVIII, 1999; pp. 201-203. Angelo Torre (a cura di), Per vie di terra: movimenti di uomini e di cose nelle società di antico regime, Franco Angeli, Milano 2008

Non è difficile immaginare come, nel XV secolo, il basto fosse un oggetto indispensabile per spostamenti, commerci e attività lavorative di vario genere, in campagna e in città, tanto che Antonio di Giovanni Guidaglia e il socio sembrano aver ricavato dalla loro professione una posizione sociale di tutto rispetto e

un certo correlato benessere. A confermarlo, fra gli oggetti inventariati, va citata 1 schatola di once 3 di zafferano, il cui possesso, nel XIV-XV secolo, era una sicura prova di ricchezza. Non si hanno ulteriori notizie dei due pupilli e non compare alcuna vedova del bastiere, mentre del figlio Marco gli scrivani parlano al passato, non ascrivendogli né figli, né moglie, che pure è testimoniata dalla sopravvivenza della suocera. Il pensiero corre al triste reiterarsi di ondate epidemiche di peste o di altre malattie infettive che, ancora alla metà del XV secolo, imperversavano nella Toscana, soprattutto nella stagione estiva e che potrebbero essersi accanite contro la famiglia di Antonio.

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saper vedere sant’elpidio a mare

Ritorno a Santa Croce

di Elena Percivaldi

Nel territorio della cittadina marchigiana di Sant’Elpidio a Mare, le dolci colline a ridosso della costa custodiscono un autentico gioiello: è la basilica di Santa Croce al Chienti, che, dopo una vicenda architettonica a dir poco travagliata, è stata salvata dall’oblio e torna a farsi ammirare. Lasciando intuire le fortune che la videro affermarsi come uno dei piú importanti e ricchi insediamenti monastici della regione

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el cuore delle Marche, immersa tra le campagne a pochi chilometri dalla costa adriatica fermana, si erge l’abbazia imperiale di Santa Croce al Chienti, un piccolo gioiello nascosto: per raggiungerla, occorre arrivare alla frazione di Casette d’Ete, nel territorio di Sant’Elpidio a Mare, e poi percorrere una strada di campagna che costeggia il fiume Ete Morto, affluente del Chienti (vedi box a p. 73). Proprio alla confluenza tra i due corsi d’acqua, ecco stagliarsi una basilica dall’ampia facciata romanica e dalle forme imponenti: è ciò che resta dell’enorme complesso benedettino, poi riformato in cistercense, che nel Medioevo ospitava decine di monaci e dominava la valle estendendo la sua influenza fino a Fermo e Macerata, in uno snodo cruciale tra entroterra e Adriatico e presidio, nel IX secolo, contro i Saraceni che flagellavano le coste. Fondata in età carolingia (con tanto di romantica leggenda; vedi box a p. 70) e posta sotto la protezione del vescovo di Fermo, Santa Croce ebbe sempre simpatie imperiali e le pagò nel Duecento, dopo decenni di braccio di ferro con il pontefice, con la scomunica e l’accorpamento alla vicina S. Maria di Chiaravalle di Fiastra (oggi sotto Tolentino). Vide cosí le sue enormi ricchezze dilapidate nel giro di poche generazioni fino a far perdere quasi del tutto la sua memoria. Non è facile ricostruire le origini dell’abbazia. I documenti piú antichi conservati nell’Archivio Segreto di Sant’Elpidio a Mare non sono infatti originali, ma semplici copie o regesti realizzati in epoca successiva: fanno tutti parte di una raccolta, il Summarium – che comprende atti pubblici, diplomi imperiali, donazioni

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da privati e da ecclesiastici –, assemblata nel 1413 dal cancelliere Francesco di Vanni per conto del Comune, che vantava diritti sul complesso monastico. Altre fonti importanti appartengono al fondo relativo all’abbazia di S. Maria di Chiaravalle di Fiastra, oggi dell’Archivio di Stato di Roma: pergamene portate lí dai monaci di Santa Croce dopo che questi vi confluirono a seguito del traumatico accorpamento.

Carlo concede il suo benestare

Sfogliando il registro di Vanni, s’incontra per primo il sunto dell’atto di fondazione, datato 24 giugno 883 a Nonantola, importante abbazia modenese fondata dai Longobardi: vi si legge che il vescovo di Fermo, Teodicio, venuto a conoscenza dell’esistenza di un preesistente insediamento benedettino in zona (probabilmente in una grotta), si era rivolto, tramite un certo Liutvardo, arcicappellano della casa reale, all’imperatore Carlo III il Grosso in persona, allo scopo di ottenere gli aiuti e il permesso necessari per costruirvi un vero e proprio monastero. Il documento contiene la risposta dell’imperatore alla richiesta: con il privilegio dell’883, dunque, Carlo concede allo scopo la selva della curtis di Montigliano (conosciuta come Orreum), un campo confinante e le riscossioni del porto del Chienti. Chiunque reggerà il fuSant’Elpidio a Mare, Fermo. Due immagini della basilica di Santa Croce al Chienti. Fondata nel IX sec., durante il Medioevo la chiesa fu il centro di un importante complesso monastico, di cui è oggi la sola struttura superstite.

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saper vedere sant’elpidio a mare la leggenda di lotario e imelda

Un amore finito in tragedia Nell’immaginario popolare locale, la fondazione dell’abbazia di Santa Croce al Chienti è legata alla romantica e tragica storia d’amore fra Lotario, giovane e aitante cavaliere di Ascoli, e la bellissima Imelda, figlia di un feudatario di nome Eufemio. Quest’ultimo contrasta il loro amore in tutti i modi, non ritenendo il giovane di rango sufficiente a impalmare la figlia, ma i due, grazie a molti stratagemmi, riescono a vedersi ugualmente di nascosto. Scoperta la tresca, Eufemio, per evitare ulteriori rischi, fa allontanare Lotario, che si rifugia sui monti, e rinchiude la figlia in convento. Dopo un anno di infruttuosi tentativi, i due giovani non riescono piú a incontrarsi: incapace di resistere alla separazione dall’amato, Imelda si lascia dunque morire di inedia. Quando la notizia raggiunge Lotario, questi impazzisce di dolore, corre ad Ascoli al castello di Eufemio, lo sfida a duello e lo uccide. Tormentato subito dal rimorso, si

rifugia tra i monti e giunto alla confluenza tra l’Ete e il Chienti, getta la spada e fonda un eremo nel quale si ritira a pregare. Ben presto la fama della sua santità si diffonde e richiama altri uomini, decisi a imitarne l’esempio. I religiosi diventano sempre piú numerosi, attratti anche dalla tomba di Lotario, morto in odore di santità. Il vescovo di Fermo autorizza dunque la trasformazione dell’eremo in convento benedettino: nasce cosí l’abbazia di Santa Croce. Lo scrittore Cesare Catà ha dedicato alla leggenda un testo teatrale, La Santa Croce. Disperazione e redenzione di un Cavaliere (Grafiche Fioroni, Casette d’Ete 2007) rappresentato in contrada San Martino e poi in abbazia. In basso miniatura raffigurante la Giovinezza e l’Amore che si abbracciano, da un’edizione del Roman de la Rose di Guillaume de Loris e Jean de Meung. XIV sec. Parigi, Bibliothèque Sainte-Genevieve.

In alto La Marca Anconitana e Fermana, carta geografica realizzata dall’abate Silvestro Amanzio Moroncelli. Roma, 1711.

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turo monastero, decreta inoltre il sovrano, avrà diritto di possesso perpetuo su queste terre, come se fossero lasciti ereditari e nessuno dei suoi successori potrà arrogare diritti su di esse. Concede infine a Teodicio di aumentarle con donazioni tratte, a suo piacimento, dalle altre «rebus firmanae Ecclesiae», ossia dai beni della curia. Le similitudini con un documento analogo dell’abbazia di Farfa, che reca la stessa data, e la presenza della sottoscrizione dello stesso notaio, Inquirino, fanno

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propendere gli studiosi per l’autenticità del documento. È però probabile che Santa Croce sia stata costruita su una preesistente chiesa fondata in età paleocristiana o longobarda, sorta nel quadro delle numerose fondazioni che i Longobardi operarono dopo la conversione al cristianesimo: tuttavia, le indagini archeologiche avviate nel 2010 non hanno finora restituito tracce di questo ipotetico edificio. (segue a p. 74)

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saper vedere sant’elpidio a mare Visitiamo insieme

Le molte stagioni dell’abbazia La basilica è il solo edificio dell’intero complesso abbaziale di Santa Croce sopravvissuto alle trasformazioni e alle spoliazioni e oggi appare radicalmente diversa da come si presentava prima del restauro del 2010. Gli scavi archeologici condotti nella chiesa hanno evidenziato varie fasi di costruzione, ampliamento, restauro e rimaneggiamento e hanno permesso il ritrovamento di due tombe, una delle quali conteneva lo scheletro di un uomo alto 1,70 m circa: potrebbe perciò trattarsi di un nobile franco, ma l’assenza di corredo non permette una datazione certa. Gli interventi piú radicali sono quelli intrapresi dai vescovi fermani Alessandro Borgia, nel 1749, e Andrea Minnucci, nel 1790: entrambi sono ricordati in altrettante lapidi ancora oggi visibili. Il piú invasivo fu il secondo: l’arcivescovo fece inglobare la navata destra alla stalla e trasformò le navate sinistra e centrale in un magazzino, collegato da una scala alla casa colonica adiacente. Scomparvero probabilmente in quel frangente sia le due torri-campanile, sia il muro di cinta che circondava l’intero complesso, ancora visibili in una carta cinque-seicentesca (oggi conservata nell’Archivio Segreto di Sant’Elpidio a Mare), che rappresenta l’andamento del Chienti e gli edifici che sorgevano lungo il suo corso fino a In alto particolare di un manoscritto nel quale si conserva un disegno raffigurante l’abbazia di Santa Croce. In basso l’esterno della basilica, in cui si nota la differenza di quota tra l’accesso laterale e il piano di calpestio originale, intorno all’abside.

Civitanova Marche. Lo stesso corso del fiume Ete Morto fu deviato e il doppio fossato interrato (se ne trova traccia, forse, in un arco superstite nella parte inferiore di un muro della basilica). Al XVIII secolo risalgono anche due dei tre strati di pavimentazione ancora visibili: l’ultimo è figlio della sistemazione novecentesca. La chiesa è in stile romanico, a tre navate con tre absidi (una grande centrale e due absidiole laterali: di fronte a quella meridionale si notano le tracce dell’antico ossario settecentesco) ed è coperta


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A destra planimetria dell’insediamento monastico che nel Medioevo si era sviluppato intorno alla basilica di Santa Croce.

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da un soffitto a capriate. La direzione ospiti congregazioni facciata è a mattoni ed è molto centonari rimaneggiata rispetto all’originale. È preceduta da un atrio a due ingressi, uno sulla navata settentrionale e l’altro su quella centrale, ed è sormontata da un piccolo campanile a vela settecentesco. Le fiancate sono intervallate da finestre: quella meridionale, che dava sulla stalla, è stata totalmente alterata e come aperture presenta ora finestroni rettangolari; quella settentrionale, viceversa, conserva cinque monofore. All’esterno, si può osservare che il terreno su cui poggia l’attuale fondazione è sopraelevato rispetto all’antico piano di calpestio: essa sorge, infatti, su un edificio piú antico – paleocristiano o di epoca longobarda –, di cui però non resta alcuna traccia. La fase successiva, carolingia, è testimoniata dall’attuale ampia cripta, che, interrata in tempi moderni, è stata ora liberata dai detriti e riaperta; è visitabile e ha restituito alcuni frammenti di capitelli. La muratura esterna conserva invece un elemento di marmo che forse apparteneva a un ciborio di quest’epoca.

lavoratori azienda agricola falegnami scuderia

L’edificio antico sarebbe poi stato ristrutturato e ampliato in età romanica quando fu adornato di capitelli. Uno di essi è decorato a ETE MORTO fogliame: sulla base di confronti (tra gli altri, con uno analogo nell’abbazia di Fiastra) è stato possibile datarlo all’XI secolo. In questo periodo venne probabilmente aggiunta anche la splendida lunetta ora murata sopra l’ingresso della torre civica di Sant’Elpidio a Mare, che risulta assai interessante per la ricca e affascinante simbologia (vedi box a p. 76). A tal proposito, si consiglia senz’altro la visita al centro cittadino, situato in cima al colle da cui si gode una superba vista sui Monti Sibillini: oltre alla torre (detta «gerosolimitana» perché terminata nel Cinquecento dai cavalieri di tale Ordine) il borgo vanta numerose chiese, un importante Museo della Calzatura e la Pinacoteca Civica con il Polittico dell’Incoronazione della Vergine di Vittore Crivelli (1440-1502), capolavoro del Rinascimento fermano. pollai

Dove e quando L’abbazia di Santa Croce al Chienti si trova nelle campagne di Sant’Elpidio a Mare (Fermo). Per raggiungerla, si consiglia di prendere, da Civitanova Marche, la Superstrada della Valle del Chienti in direzione Tolentino, uscire allo svincolo di Montecosaro e proseguire per Fermo; dopo 1,5 km circa, prima

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di Casette d’Ete, sulla sinistra, si trova l’indicazione per Santa Croce: l’abbazia si raggiunge percorrendo 3 km della strada di campagna asfaltata che costeggia il fiume Ete. In alternativa, si può percorrere la Statale 16 Adriatica, sempre da Civitanova Marche: passato il ponte sul Chienti, si prende sulla destra la

Provinciale per Sant’Elpidio a Mare; dopo 2,5 km, all’incrocio di Cascinare, girare a destra e seguire l’indicazione per Santa Croce: l’abbazia è alla fine di una stradina di campagna nell’ultimo tratto non asfaltata. Info tel. 335 8080185; e-mail: info@associazionesantacroce.it; www.associazionesantacroce.it

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saper vedere sant’elpidio a mare

Problemi piú complessi presenta invece il diploma cosiddetto di «consacrazione», conservato in una copia risalente probabilmente al XIII secolo e datato 14 settembre 887: in esso, ancora il vescovo Teodicio – dopo aver ricordato come il monastero fosse sorto grazie alla generosità di Carlo III – elenca le terre, appartenenti alla Chiesa fermana, che lui stesso dona in perpetuo a Santa Croce, a fronte del pagamento di dieci soldi d’oro da depositare ogni anno sull’altare della chiesa di S. Maria nella città di Fermo. A chi farà altre donazioni o sceglierà il monastero come luogo di sepoltura, egli concede quindi l’indulgenza della terza parte dei peccati. Il documento contiene un particolare interessante:

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la consacrazione sarebbe avvenuta alla presenza del sovrano in persona – accompagnato dal suo seguito di cavalieri –, dei 19 vescovi del ducato di Spoleto e di 27 canonici e chierici di Fermo. Ma l’esame storico (non paleografico, perché, come detto, si tratta di una copia posteriore) ha fatto emergere numerose incongruenze.

Circostanze poco plausibili

La piú vistosa è che, a quella data, l’imperatore non poteva trovarsi a Nonantola, poiché, dopo la Pasqua dell’886, era partito da Pavia per recarsi prima alla dieta di Metz e poi a Parigi, al fine di difendere, invano, la città dalla minaccia dei Normanni: non sarebbe piú tornato in Italia e, nel novembre dell’887, venne deposettembre

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In alto la lapide che ricorda i lavori di ristrutturazione fatti eseguire dall’arcivescovo Andrea Minnucci nel 1790. A sinistra una veduta dell’ampia navata centrale, che nel XVIII sec. venne riutilizzata come magazzino.

sarebbe inoltre stata aggiunta come ulteriore garanzia di autorità e prestigio. È stato anche notato come proprio il XIII secolo rappresenti un momento di grande diffusione della tradizione epico-cavalleresca anche nelle Marche, e l’aver sottolineato il legame con i Carolingi nel «falso» documento sarebbe dunque sintomatico di un preciso clima culturale, che trova riscontro anche nella diffusione di una parallela leggenda, ancora viva nel Seicento. Quest’ultima vuole che l’abbazia di Santa Croce sia stata fatta costruire non già da Carlo il Grosso, ma da Carlo Magno, come ex voto per aver bloccato l’invasione saracena lungo il Chienti: a testimonianza di ciò, il medico, naturalista e filosofo Andrea Bacci (1524-1600) cita l’esistenza, ancora ai suoi tempi, di un «palazzo di re Carlo», di cui però non esiste piú traccia.

Quattro diplomi per tre imperatori sto durante la dieta di Magonza. Né risulta plausibile la concessione riguardante l’indulgenza della terza parte dei peccati ai beneficiari del monastero e a chi vi otteneva sepoltura, perché apparve solo a partire dal 1096. La critica è dunque concorde nel sostenere che solo l’atto di fondazione sia autentico, nonostante l’originale sia perduto; quanto alle donazioni di Teodicio, se sicuramente vi furono (e in effetti se ne trova riferimento anche in altri documenti successivi), è molto probabile che la loro entità sia stata manomessa nel Duecento in un periodo in cui, come vedremo, il monastero era in difficoltà e intendeva ribadire e consolidare la sua influenza e il suo potere. La presenza di Carlo III, a ribadire il legame del cenobio con la dinastia regia,

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Negli anni travagliati del regno d’Italia e poi degli Ottoni, la crescente importanza dell’abbazia è confermata da una serie di diplomi, giunti anche in questo caso sotto forma di regesto. Tre di essi risalgono a Lamberto II di Spoleto, gli altri quattro agli imperatori: due a Ottone I, uno a Ottone II e l’ultimo a Ottone III. Si tratta di (ennesime) riconferme dei possedimenti ricevuti in dono in precedenza. Pur dando conto di un fatto in sé banale, il secondo diploma di Ottone I, datato 968, ha una notevole importanza: vi si legge, infatti, che l’abate di Santa Croce, Giovanni, si appellava a Ottone I contro il vescovo di Fermo, Gaidulfo, poiché quest’ultimo accampava diritti sulle curtes di Sant’Ilario e di Santa Resurrezione, possedute dall’abbazia, in nome di una presunta concessione fattagli tempo addietro da Berengario del

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saper vedere sant’elpidio a mare

La lunetta «misteriosa» Poco lontano da Santa Croce, nel centro storico di Sant’Elpidio a Mare, proprio sopra l’ingresso della torre civica (detta anche «gerosolimitana»), si conserva una splendida lunetta romanica che i piú ritengono provenire dall’abbazia. Il rilievo, in arenaria, è databile all’XI secolo e rappresenta il Cristo in Croce che sormonta l’Agnello, una chiara rappresentazione escatologica della fine dei Tempi. L’Agnello porta in bocca un nastro a tre fasce da cui si dirama un fitto fogliame che, intrecciandosi in nodi e volute, contorna tutta la lunetta. L’iconografia richiama passi scritturali, a cominciare dall’Apocalisse, ma risente

fortemente di modelli artistici e culturali barbarici. L’intreccio, per esempio, è collegabile al motivo dell’Albero della Vita (che per i cristiani si identifica con Gesú ma per i pagani, e per i Germani in particolare, era l’albero del cosmo: si veda l’Irminsul sassone o l’Yggdrasill norreno). L’Agnello stesso è rappresentato in maniera curiosa e rammenta abbastanza chiaramente una cavalcatura (stazza, orecchie appuntite, coda lunga). La croce su cui è inchiodato il Cristo, a sua volta ritratto con il volto allungato tipico dell’iconografia longobarda, è assimilabile a una tipica croce astile altomedievale.

Sebbene non se ne abbia prova, è probabile che la lunetta provenga da Santa Croce, perché di certo era stata realizzata per un edificio di grande ricchezza e importanza: la vicina abbazia, come mostrano anche le fasi messe in luce dai recenti scavi archeologici che hanno evidenziato una fase romanica caratterizzata dalla presenza di altre decorazioni lapidee, può essere sicuramente una candidata tanto affascinante quanto plausibile. In alto Sant’Elpidio a Mare. La lunetta in pietra arenaria oggi posta sopra l’ingresso della torre civica, ma verosimilmente proveniente dall’abbazia di Santa Croce al Chienti. XI sec.

Il rilievo che orna la lunetta evoca le Sacre Scritture, ma risente anche di influssi dell’arte barbarica 76

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Friuli. Esaminate le carte, l’imperatore dava però ragione all’abate: di conseguenza, decideva di sottrarre l’abbazia dal controllo della curia fermana ponendola direttamente sotto la propria giurisdizione. Dopo centoquarant’anni di silenzio, l’abbazia ricompare nelle carte in una prospettiva del tutto diversa. Tutti i privilegi emessi nel XII secolo sono ancora una volta conferme o donazioni di beni da parte dei vescovi di Fermo. Perché? Siamo nel pieno della lotta per le investiture e il potere imperiale, dal quale, come si è visto, l’abbazia ora dipendeva, è indebolito dal conflitto con il papato e deve inoltre far fronte alla crisi dei poteri feudali e alla progressiva ascesa delle autonomie comunali. Approfittando della sua difficoltà, i vescovi di Fermo (Liberto, Belignano, Presbitero), tornano dunque a posare gli occhi su Santa Croce, cercando di riportarla nella loro orbita, dal momento che i beni che essa amministrava dovevano essere cospicui. Anche il papa compie un tentativo in tal senso: il 12 settembre 1197, Celestino III emette infatti una bolla con cui dichiara di prendere Santa Croce sotto la sua protezione e conferma le proprietà e le decime raccolte

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L’interno della basilica di Santa Croce in cui si colgono le diverse fasi architettoniche della struttura. In primo piano, una colonna in marmo e, nel riquadro, un capitello con decorazione a foglie, testimonianza della ristrutturazione di epoca romanica.

su un territorio che si estende a tutti i Comuni e alle valli del Chienti e dell’Ete: Montolmo (Corridonia), Sant’Elpidio a Mare, Civitanova, Montecosaro, Montegranaro, Monte San Giusto, Torre di Palme.

Sottomissione plateale

Con l’ascesa al potere di Federico II, fermamente intenzionato a restaurare l’autorità imperiale, l’abbazia torna a essere terreno di contesa a colpi di privilegi, conferme e donazioni, sia da parte dell’imperatore che del papa. La svolta si ha nel 1239, quando Gregorio IX intima al vescovo di Fermo di riformare Santa Croce secondo i dettami della Regola cistercense e, il 26 marzo, viene inviato a tale scopo il monaco Gualtiero dal vicino cenobio di S. Maria di Chiaravalle di Fiastra, fondato da poco meno di un secolo e in forte ascesa. Non era la prima volta che Fiastra veniva coinvolta nelle vicende di Santa

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saper vedere sant’elpidio a mare

Croce: pochi anni prima, nel 1227, il preposto di Santa Croce, Lorenzo da Montolmo, aveva lasciato il suo monastero presentandosi a Fiastra per sottomettersi platealmente all’abate Giovanni e consegnargli il sigillo. Nonostante questo primo tentativo di minarne l’autonomia, Santa Croce continua a gravitare nell’orbita imperiale, come mostra un diploma del 1242 di Federico II che ribadisce alcune concessioni. Nel confuso quadro che si apre alla morte dello Svevo, però, il papato tenta di ristabilire il suo controllo sulle Marche. Molte città tra cui Fermo e Civitanova, reagiscono e, nel 1258, costituiscono una lega in supporto al figlio di Federico II, Manfredi di Svevia, e ottengono l’appoggio del vescovo Gherardo di Fermo.

Dalla parte di Manfredi

Santa Croce, che – si ricorderà – era di obbedienza imperiale, si schiera con Manfredi e i suoi monaci vengono perciò scomunicati. Il provvedimento viene revocato il 10 giugno 1265, ma solo per decretare, poco dopo, l’accorpamento dell’abbazia con Fiastra (12 aprile 1266): il capitolo di Santa Croce, composto dai monaci Rainaldo (preposto), Andrea, Rodaldo da Sant’Elpidio, Pietro da Macerata, Grazia e Filippo da Montolmo, Matteo da Civitanova, accetta, purché l’abate Giovanni mantenga la sua posizione a capo dell’abbazia e possa continuare ad amministrarne i beni. La risposta del monastero di Fiastra, il 23 aprile, è affermativa: sarà

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In alto l’ampio volume composto dalla navata centrale e da quella sinistra della basilica di Santa Croce, che venne riutilizzato come magazzino, collegato con una scala alla casa colonica adiacente. A destra la navata destra della basilica, che nel Settecento fu convertita in stalla.

il nuovo procuratore, il priore Festa da Macerata, a garantire il rispetto degli accordi. Ma la sottomissione definitiva è solo questione di tempo. A seguito della crisi e del conflitto, il numero dei monaci diminuisce drasticamente e si registrano le prime difficoltà economiche, acuite dalla progressiva incapacità di gestire l’immenso patrimonio fondiario accumulato nei secoli dall’abbazia di Santa Croce. Un inventario datato 1275 elenca una quantità impressionante di beni mobili e immobili: oltre agli edifici religiosi e alle relative parti abitative, si enumerano officine per attività agricole e artigianali, locali di stivaggio delle risorse, pollai, porcili, stalle per buoi, vacche e cavalli, persino cinque mulini e una enorme grancia, abitata dai conversi che allevano il bestiame. La grancia era cinta da un doppio fossato, sempre colmo d’acqua, e poteva ospitare 20 coppie di buoi, 25 mucche, 10 giumente, 200 capre e 300 pecore, 5 cavalli, 5 giumenti e 3 asini; al di fuori, le stalle dei maiali erano sufficienti per 60 capi. settembre

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L’abbazia conservava inoltre un vero e proprio tesoro di oggetti sacri, composto da ricchi paramenti liturgici e preziosi reliquiari, uno dei quali era addirittura una croce d’argento con incastonato un frammento di legno della Vera Croce. Completa il quadro l’elenco delle rendite, che comprendevano un patrimonio fondiario esteso fino a Macerata e a Fermo. Sembra quindi chiaro che l’accorpamento a Fiastra sia stato stabilito come misura punitiva ai danni dei monaci di Santa Croce, rei di avere sorretto la parte imperiale e di essere rimasti fedeli al vescovo ghibellino di Fermo. Ma è altrettanto evidente che i cospicui beni del convento costituissero, per Fiastra, un richiamo irresistibile. La misura non viene però accettata senza colpo ferire e, in un clima di tensione crescente, il conflitto esplode violento all’inizio del 1291. Il 2 gennaio l’abate di Fiastra

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Martino si reca, insieme a quello di Castagnola (l’abbazia cistercense di Chiaravalle di Ancona), a far visita a Santa Croce per effettuare alcuni controlli, ma l’ingresso gli viene impedito da parte di alcuni monaci ribelli. Tornato a Fiastra, Martino scrive immediatamente una lettera di fuoco all’abate di Santa Croce, Filippo, intimando a lui e ai suoi monaci di presentarsi entro cinque giorni a Fiastra, pena la scomunica. La richiesta cade nel nulla e parte la scomunica, che però arriva quando Filippo ha già abbandonato il monastero.

La sedizione dei monaci

Martino torna a visitare l’abbazia e questa volta viene accolto benevolmente dai monaci, che si mostrano piú collaborativi, ma gli esiti del sopralluogo sono clamorosi: si scopre che Filippo aveva addirittura organizzato

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saper vedere sant’elpidio a mare Da non perdere

A Santa Croce con «Medioevo» Sabato 10 settembre 2016, a partire dalle 16,00 la Basilica Imperiale di Santa Croce al Chienti di Sant’Elpidio a Mare ospita la presentazione della rivista «Medioevo», nella cornice dell’evento storicorievocativo che commemora la consacrazione della basilica, avvenuta, secondo la controversa tradizione

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documentaria, il 14 settembre 887 alla presenza del vescovo Teodicio e dell’imperatore Carlo III il Grosso. Per l’occasione, sarà allestito un accampamento medievale; il programma prevede inoltre l’esibizione di arcieri e narratori e spettacoli di combattimento a cura della Scuola di Scherma Antica Fortebraccio Veregrense, che

proporranno anche momenti musicali con il loro gruppo di ricostruzione di musica altromedievale «Winileod». Presenteranno la rivista «Medioevo» il suo direttore, Andreas M. Steiner, ed Elena Percivaldi, autrice dell’articolo che qui pubblichiamo. Info tel. 335 8080185; e-mail: info@ associazionesantacroce.it

Due immagini della cripta della chiesa. Completamente interrata in tempi moderni, è stata recentemente liberata dai detriti, operazione che ha permesso il recupero di alcuni frammenti di capitelli.

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una resistenza armata ai funzionari di Fiastra, facendo entrare nel convento alcuni soldati, e che i religiosi che si erano rifiutati di partecipare alla sedizione erano stati cacciati via in malo modo. A questo punto, il 29 gennaio, dopo essersi consultato con i colleghi di Castagnola e di San Severo di Ravenna, Martino dichiara Filippo deposto dalla reggenza dell’abbazia e lo scomunica insieme a un’altra decina di frati e conversi sediziosi. La sentenza è inaudita e pesantissima: molti dei monaci scampati alla scomunica preferiscono abbandonare Santa Croce e trasferirsi definitivamente a Fiastra, gettando il convento in uno stato di prostrazione da cui non si solleverà piú.

Il degrado e poi la rinascita

Nel giro di poco piú di un secolo l’abbazia cade in rovina. Dopo il 1468 le sue proprietà passano al Comune di Sant’Elpidio a Mare. Gli edifici si deteriorano uno dopo l’altro e, nel 1749, quando l’arcivescovo fermano Alessandro Borgia cerca di salvare il salvabile, si può intervenire soltanto sulla basilica: la memoria del restauro è consegnata alla lapide ancora oggi visibile al suo interno. Passa un altro mezzo secolo e, nel 1790, si compie l’affronto definitivo: per volontà del vescovo Andrea Minnucci, ciò che risulta ancora utilizzabile vie-

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ne trasformato prima in granaio e casa colonica e poi in proprietà privata. Nel Novecento il complesso precipita nel degrado, rischiando di scomparire per sempre. È stato salvato da un gruppo di volenterosi studiosi locali, costituitisi nell’Associazione Santa Croce, che ha promosso i restauri grazie ai quali il monumento è stato recuperato. Oggi sede di conferenze, rievocazioni ed eventi, l’abbazia di Santa Croce potrà cosí celebrare, nel 2017, i 1130 anni di vita, forte di un’energia e una linfa del tutto nuove.

Da leggere Michael Verdini, Problemi di insediamento nella valle del Chienti: il caso della basilica imperiale di Santa Croce, Grafiche Fioroni, Casette d’Ete 2014; anche on line: www.associazionesantacroce.it Anna Maria Accardo, I documenti di Santa Croce nelle carte dell’archivio di Sant’Elpidio a Mare, Grafiche Fioroni, Casette d’Ete 2009; anche on line: www. associazionesantacroce.it Emilia Saracco Previdi, Presenza monastica nelle Marche. L’esempio di S.Croce al Chienti tra IX e XIII secolo, in Emma Simi Varanelli (a cura di), Le abbazie delle Marche. Storia e arte, Viella, Roma 1992; pp. 159-187.

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di Roberto Roveda

ETÀ DEL PAESAGGIO L’

La «tutela dell’ambiente» rappresentò uno dei tratti caratteristici della società medievale, spesso impegnata nella ricerca di uno sviluppo sostenibile dell’attività umana in armonia con il territorio. L’età di Mezzo fu, allora, un’epoca di sensibilità ecologiste ante litteram? Recenti ipotesi sembrano confermarlo… Trento, Castello del Buonconsiglio, Torre Aquila. Particolare del Ciclo dei Mesi affrescato dal Maestro Venceslao raffigurante il mese di Luglio o il Leone. XV sec. Appena fuori dalle mura del maniero è ritratta una scena cortese, mentre sullo sfondo contadini con falci e rastrelli svolgono i lavori della campagna.


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he dovessero mangiare o scaldarsi, vestirsi o fabbricare calzature, sia che avessero bisogno di arnesi per il lavoro o di materiali da costruzione, gli uomini dell’età di Mezzo dovettero confrontarsi con l’ambiente che li circondava e con quanto la terra metteva loro a disposizione. E per terra non si intende solo quella coltivata, perché anche boschi, selve, paludi e prati erano ricchi di prodotti, ricavati dalla raccolta di frutti spontanei, bacche, radici, legna, ma anche derivanti dall’esercizio della caccia, della pesca e dell’allevamento allo stato brado. Allo stesso tempo, i paesaggi medievali – lo chiarisce bene Riccardo Rao nel suo recente saggio I paesaggi dell’Italia medievale (vedi l’intervista alle pp. 97-101) – si caratterizzavano per la loro connotazione collettiva: le comunità locali erano infatti le principali protagoniste delle trasformazioni del paesaggio. Pensiamo, per esempio, alla costruzione di nuovi villaggi, alla trasformazione in campi di antiche foreste o alla creazione di regole condivise per la gestione delle risorse ambientali: potremmo dire che i paesaggi medievali furono «partecipati» in maniera attiva dalle popolazioni locali.

Varietà di colture

Inoltre, sempre in termini generali, quelli dell’età di Mezzo furono paesaggi «sostenibili», nella misura in cui i territori locali erano ancora caratterizzati da una notevole varietà di soluzioni colturali, rispetto agli indirizzi di monocoltura industriale intrapresi in molte regioni europee nel corso del Novecento. Tuttavia, occorre anche chiarire che, nei mille anni del Medioevo, il rapporto e l’equilibrio tra l’uomo e l’ambiente variarono considerevolmente, soprattutto in base al crescere e al diminuire della popolazione: ogni volta che quest’ultima calava, diminuiva la necessità di terra coltivata

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LA CURTIS, PERNO DEL PRIMO FEUDALESIMO Disegno ricostruttivo di una curtis, cosĂ­ come possiamo immaginarla agli inizi del X secolo: 1. stalle; 2. abitazioni per contadini liberi, legati al signore da un rapporto di dipendenza; 3. abitazioni per i servi; 4. magazzini; 5. dimora signorile, con torre ancora in costruzione; 6. cappella.

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Dossier Il Medioevo e la flora

E venne il tempo della «civiltà del castagno» Il Medioevo fu l’età del legno, materiale usato per le costruzioni, per le navi (settori in cui si usavano soprattutto querce e abeti), ma anche per la maggior parte degli oggetti (per i quali molto usato era il bosso). Caratteristiche peculiari aveva nel Medioevo la flora italiana

come racconta Riccardo Rao: «Tra le piante tipiche del Medioevo italiano si può senz’altro menzionare il castagno. Questa essenza, già nota al mondo romano, viene sviluppata nella sua variante da frutto soprattutto a partire dal XII secolo. È infatti in questo periodo che la popolazione

italiana, in forte crescita, cerca di potenziare le risorse alimentari estratte dal bosco. La massiccia diffusione, in special modo nelle aree collinari e montane, dà vita a una vera e propria civiltà del castagno: le castagne vengono usate come importanti fonti di alimentazione della dieta contadina; il legno come paleria per i filari delle viti o come legname da costruzione. Possiamo renderci conto in maniera immediata dell’impatto del castagno sui paesaggi italiani sfogliando gli indici di un qualsiasi atlante stradario, da cui si ricavano lungo tutto lo Stivale, dalla Valle d’Aosta fino alla Sicilia, una quarantina di nomi di comuni il cui nome deriva da tale pianta (Castagneto, Castagnole, Miniatura raffigurante l’albero del castagno, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

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Castano, Castenedolo, Castanea ecc.) e che sono per lo piú sorti nel corso del Medioevo. La piantata o alteno è invece una forma di policoltura caratteristica degli ultimi secoli del Medioevo (XIII-XV). I filari di vite non sono appoggiati su pali, ma su tutori vivi, cioè su alberi (per lo piú aceri campestri, ma anche meli e altre piante). In mezzo ai filari viene inoltre coltivato il grano. Si tratta insomma di tre coltivazioni in una. Il vino che ne derivava non era probabilmente di gran qualità. Per altro verso, la piantata non solo dava luogo a paesaggi a elevato tasso di biodiversità, ma risultava anche efficace nello sfruttare al massimo la superficie coltivata, diversificando i prodotti del raccolto».

In alto disegno che esemplifica le relazioni di villaggi contigui. Quelli «in chiaro» fanno parte della stessa curtis, mentre quelli «velati» appartengono ad altre unità aziendali. Oltre alle aree boschive a uso della curtis, si distinguono i campi della parte dominica (in verde) e la parte massaricia (in giallo), data in concessione ai coltivatori.

Qui accanto disegno che illustra l’abbigliamento tipico dei contadini nel Medioevo: una tunica di lana allacciata da una cintura per l’uomo e una lunga tunica con un grembiule sovrapposto per la donna.

e la natura riprendeva il sopravvento. La situazione inversa si verificava quando la popolazione aumentava. Dal punto di vista cronologico, possiamo allora distinguere i paesaggi dell’Alto Medioevo – di cui la curtis (vocabolo del latino medievale usato dagli storici per indicare la corte come organizzazione dell’economia agraria, n.d.r.), il bosco e gli incolti sono grandi protagonisti –, da quelli del Basso Medioevo, quando – so-

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prattutto dopo il XII secolo – l’ambiente viene maggiormente «addomesticato», sia attraverso una deforestazione massiccia, sia con interventi mirati di riqualificazione del bosco, che prevedono la coltivazione e lo sviluppo di specifiche essenze arboree.

Un’economia «naturale»

Dal IV al IX secolo, le città europee – colpite piú di altri luoghi dalle epidemie e dai saccheggi delle popolazioni germaniche – si svuotarono e

molti individui di ogni estrazione sociale si insediarono nelle campagne. Contemporaneamente, il crollo demografico dovuto alle malattie, alle guerre e alle carestie rese meno pressante la necessità di coltivare la terra e si tornò a un’economia piú legata alla caccia e alla raccolta, un’economia «naturale», basata sull’ampio ricorso all’incolto. Le terre coltivate in questa fase erano isole immerse in un vasto paesaggio di superfici ricoperte da selve, foreste e paludi, ambienti sui quali gli uomini basavano la propria sussisten-

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za, praticando la caccia, la raccolta spontanea, la pesca e l’allevamento di animali bradi, in particolare maiali. Inoltre, in un’epoca in cui non si realizzavano piú gli edifici in pietra e mattoni tipici dell’età romana, le foreste mettevano a disposizione anche il legname necessario per le costruzioni (vedi box alle pp. 86-87). A interrompere i paesaggi naturali erano le città, che, seppure ridotte di dimensioni, sopravvivevano soprattutto nelle regioni, come la Penisola italiana, in cui il commercio rimase piú vivo e i centri urbani,

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nonostante il crollo demografico, continuarono a essere attivi.

L’avvento della curtis

Altro elemento fondante dell’ambiente altomedievale erano le già citate curtes, che si diffusero, in particolare nell’impero carolingio, a partire dall’VIII-IX secolo e divennero presto un fattore caratterizzante del paesaggio rurale. A favorire questa caratterizzazione era la struttura stessa di ogni curtis, che era divisa in due parti. La parte dominica, destinata al padrone, aveva come centro

l’abitazione del signore, con le stalle, le cantine e i magazzini. I frutti della terra di questa vera e propria riserva padronale appartenevano al suo proprietario, che la faceva coltivare da servi oppure imponendo giornate di lavoro ai contadini (corvée). Questi ultimi lavoravano abitualmente nell’altra parte dell’azienda: quella massaricia. Quest’ultima era divisa in poderi (i mansi), affidati a servi o affittati a contadini liberi. Con piccoli aggiustamenti e caratteristiche differenti di luogo in luogo, la curtis fu per secoli l’esettembre

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IL TERRITORIO EUROPEO NELL’ALTO MEDIOEVO IL TERRITORIO EUROPEO NELL’ALTO MEDIOEVO Foresta decidua dua

Foresta mediterranea

Foresta di conifere o mista

Steppa

Deserto

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Limite settentrionale coltivazione vite

Limite settentrionale coltivazione olivo

Mare del Nord Do

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Mar Mediterraneo A sinistra Trento, Castello del Buonconsiglio, Torre Aquila. Ancora un particolare del Ciclo dei Mesi, raffigurante il mese di Aprile, con uomini che effettuano l’aratura. XV sec.

lemento distintivo dell’ambiente rurale europeo, anche se non tutto il mondo agricolo era organizzato in questo modo: quasi ovunque sopravvissero anche appezzamenti nelle mani di coltivatori diretti che li gestivano in autonomia, nonostante la costante minaccia dei grandi proprietari laici ed ecclesiastici, che cercavano in ogni modo di appropriarsi di quelle terre libere dal loro controllo. Proprio all’interno del sistema curtense furono introdotte migliorie tecniche che contribuirono a mo-

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dificare il rapporto dell’uomo con l’ambiente naturale. Venne progressivamente introdotta la rotazione triennale delle colture: un terzo del campo veniva lasciato incolto ogni anno, su un altro terzo si seminavano legumi o piante da foraggio, mentre l’ultimo terzo era coltivato a cereali. In tal modo il terreno migliorava il suo rendimento (grazie al periodo di riposo e all’uso di leguminose che ne miglioravano la fertilità), mentre un anno di cattivo raccolto poteva essere almeno in parte compensato da una maggiore varietà di prodotti.

Aratri pesanti e leggeri

Un’altra innovazione importante fu la riscoperta dell’aratro pesante – già noto in epoca romana –, dotato di ruote e versoio in metallo per rivoltare le zolle. Esso si diffuse soprattutto nelle regioni del Nord Europa e nell’Italia settentrionale, dove i terreni erano pesanti e faticosi da lavorare e permise di mettere a coltura terre altrimenti inutilizzate. L’utilizzo di tale aratro in queste aree portò

alla nascita della caratteristica forma allungata dei campi, introdotta per limitare il numero di volte in cui girare il pesante attrezzo, che, usato a partire dal solco centrale, dava ai terreni la caratteristica forma a dorso d’asino. Questi campi aperti favorirono anche la nascita e il mantenimento di una gestione comunitaria della vita agricola e forme di lavoro stagionale, che passavano attraverso l’uso collettivo delle attrezzature, degli animali e delle aree di incolto e di bosco. Nelle zone meridionali del continente europeo, dove si continuarono a utilizzare l’aratro leggero tradizionale e la rotazione biennale, prevalse una divisione delle terre coltivate intorno ai villaggi con siepi e recinzioni, piú adatta a forme di coltura che alle graminacee affiancavano il frutteto, l’olivo e la vite. In queste aree, inoltre, dove piú persistente era l’eredità romana nell’organizzazione delle zone rurali, il bosco era maggiormente limitato alle colline e alle zone di montagna.

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Dossier Nel rapporto tra uomini e paesaggio ebbero un ruolo determinante i movimenti monastici che si diffusero in Europa sin dai primi secoli del Medioevo. Questi Ordini religiosi si ispiravano a un ideale eremitico e di fuga dal mondo proprio dei cosiddetti «Padri del deserto» (monaci e anacoreti orientali) e per questo motivo le vaste selve che ancora ricoprivano l’Europa vennero da loro considerate i luoghi perfetti per isolarsi.

Approcci differenziati

L’insediamento di molti cenobi (i luoghi nei quali i monaci facevano vita comunitaria, anche detti monasteri) in aree scarsamente abitate fu un fattore determinante di popolamento e colonizzazione dell’incolto; a partire poi dal X secolo, i monaci assunsero un ruolo guida in questi processi di antropizzazione delle aree forestali, perché si diffusero Ordini che, pur senza avere una chiara vocazione al popolamento dell’incolto, avevano una idea piú moderata del «deserto» nel quale ritirarsi. Fu il caso della congregazione di Cluny, le cui fondazioni, sparse in tutta Europa, divennero

A destra Trento, Castello del Buonconsiglio, Torre Aquila. Un altro particolare del Ciclo dei Mesi, raffigurante la mietitura e il trasporto del frumento nella descrizione del mese di Agosto. XV sec.

centri dai quali si irradiava l’avanzata degli uomini nell’incolto. Se Ordini come quelli eremitici dell’Appennino italiano (Camaldolesi, Vallombrosani) o i Certosini, nati in Francia alla fine dell’XI secolo, conservarono piú gelosamente il loro «deserto», i Cistercensi divennero famosi come «monaci dissodatori». Il loro rapporto con bonifiche e dissodamenti è quasi leggendario – visitando una qualsiasi delle loro abbazie, sentirete senza dubbio dire che le terre circostanti furono strappate alle selve e alle paludi dalla fatica dei monaci –, ma va in parte ridimensionato, perché essi furono coprotagonisti di modifiche del paesaggio rurale spesso avviate dalle popolazioni locali. L’Ordine di Cîteaux, però, fu un grande innovatore nella gestione dei suoi patrimoni rurali, che vennero organizzati in grange. Queste ultime erano vere e proprie aziende agrarie, orientate all’a-

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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A sinistra capolettera («Q») raffigurante due monaci che spaccano la legna, dal manoscritto Moralia in Iob di Gregorio Magno. XII sec. Digione, Bibliothèque municipale.

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Dossier gricoltura o alle attività pastorali, che consentivano la gestione anche di territori molto distanti dalle abbazie. In alcuni casi le grange furono davvero protagoniste della colonizzazione dell’incolto e di fenomeni diffusi di disboscamento per l’aumento delle aree coltivate tipico dei secoli dopo l’anno Mille.

Nuovi scenari

Tra la fine del X e gli inizi dell’XI secolo, si assistette a una vera e propria inversione di tendenza nelle dinamiche demografiche ed economiche, che ebbe ricadute profonde su tutto il paesaggio dell’Europa medievale. L’aumento della popolazione e la rinascita dei centri urbani, sempre piú bisognosi di derrate agricole per il sostentamento e i commerci, condussero a strappare nuove terre coltivabili al mare, alle paludi, al pascolo, alla foresta. Si tornò inoltre a costruzioni in pietra nell’architettura sacra e civile, nei ponti, nelle fortificazioni e nei castelli, e l’insieme di questi elementi modificò in maniera durevole il paesaggio. In questa fase di crescita economica e demografica furono anche sfruttate le potenzialità dei bacini fluviali, sui quali si moltiplicarono approdi, ponti e canali e vennero tracciate strade e sentieri destinati a costituire le vie di collegamento europee fino alle soglie del XIX secolo; per esempio, oltre la metà dei ponti attestati in età moderna nella campagna inglese furono costruiti tra l’XI e il XIII secolo. Particolare di una miniatura raffigurante una scena di caccia, da un’edizione manoscritta del Tractatus de Herbis attribuito a Dioscoride. XV sec. Modena, Biblioteca Estense.

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Per realizzare infrastrutture che richiedevano grandi sforzi collettivi, si rivelò fondamentale l’iniziativa dell’aristocrazia laica ed ecclesiastica. Le spettacolari conquiste di terreni fertili compiute con la costruzione di dighe, argini, canali e chiuse tra il X e il XII secolo sulle coste e nelle lagune dei Paesi Bassi non sarebbero state possibili senza l’intervento dei conti di Fiandra e delle grandi abbazie cistercensi. Allo stesso modo, dal X secolo, nell’Italia centro-settentrionale – come in molte altre parti d’Europa –, i nobili favorirono, attraverso la concessione di particolari libertà a chi sceglieva di andare a risiedervi, la fondazione di borghi nuovi oppure derivati dal ripopolamento di vecchi insediamenti d’altura, insediamenti che ancora oggi caratterizzano soprattutto il paesaggio della Penisola. Una prima conseguenza di questa espansione fu la messa a coltura di terreni inadatti, che esponevano intere comunità al rischio di carestia per ogni capriccio del clima. Allo stesso tempo, la crescita demografica ed economica iniziata nell’XI secolo dipendeva molto piú che in passato dalle coltivazioni e dallo scambio del surplus agricolo. Ciò condusse alla ristrutturazione del paesaggio rurale, con la riduzione della varietà di specie coltivate dal contadino altomedievale per la propria sussistenza. Il fenomeno si verificò perché la domanda alimentare tese a concentrarsi sui prodotti di base con uno spazio sempre maggiore per i cereali adatti alla panificazione (frumento per i ricchi e i cittadini, segale per i poveri). Il Basso Medioevo fu l’età del grano e il pane divenne protagonista di un’alimentazione che si fece piú monotona per la diminuzione delle proteine animali provenienti dalla caccia e dalla pesca (vedi box a p. 95). Lo sviluppo dei consumi urbani favorí anche la diffusione di colture specializzate, come la vite o il lino, e l’allevamento

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di bovini e ovini per la produzione casearia e laniera. Nelle zone montane intanto si diffondeva il castagno (vedi box alle pp. 86-87).

Un bracconiere celebre

Comunque, per tutto il Medioevo, e soprattutto nei periodi di crisi, gli uomini continuarono a fare affidamento anche sulle risorse dell’incolto: il bosco assicurava legname, frutta, miele (gran parte delle api erano ancora selvatiche) e selvaggina. In generale lo sfruttamento delle silvae, e in particolare della fauna che vi abitava, rimase libero fatto salvo il pagamento di una decima. Tuttavia, la caccia fu la prima risorsa a essere regolamentata. Già nel IX secolo, il vescovo Giona d’Orleans criticava duramente questa prassi, poiché la natura era

stata messa a disposizione di tutti e non solo di nobili e sovrani. Nonostante voci contrarie come la sua, ogniqualvolta il potere sovrano era forte, i diritti venatori del popolo (e spesso anche dell’aristocrazia) venivano drasticamente limitati: era stato cosí nel pieno dell’epoca carolingia e fu cosí anche in Inghilterra dopo la conquista normanna, perché i sovrani si distinsero per la severità e l’efficacia delle azioni contro il bracconaggio. L’assoluto controllo del re in materia di caccia fu limitato solamente nel XIII secolo dalla Magna Charta Libertatum, ma, in realtà, poco cambiò per i contadini. E non In basso Parco Nazionale di Białowieza, Polonia. Un gruppo di esemplari di bisonte europeo (Bison bonasus).

i primi «parchi naturali»

L’ecosistema salvato dalla caccia Nel Medioevo sovrani e nobili cercarono di controllare ampie porzioni di boschi e foreste da destinare alla caccia. Dal Duecento, si affermò cosí il modello del parco signorile, dotato di una recinzione – consistente in fossati e muri –, di una palazzina per il signore e i suoi ospiti e di un corso d’acqua, fondamentale per il mantenimento degli animali. La gestione del parco, infatti, mirava a conservarne le risorse faunistiche per la pratica venatoria. Si trattava di autentiche riserve naturali, non di foreste vere e proprie. Spazi «addomesticati», che hanno però protetto fino ai nostri giorni vaste aree incolte e forestali. La foresta di Białowieza (tra Bielorussia e Polonia), la piú grande area vergine d’Europa in cui vivono gli ultimi bisonti europei, si è conservata perché proprietà personale dei re di Polonia e poi degli zar di Russia.

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Dossier è un caso che Robin Hood, leggendario eroe popolare, fosse anche un provetto bracconiere. Col tempo, proprio la volontà del potere regio di regolamentare la caccia influenzò in maniera determinante, come vedremo piú avanti, vaste aree del territorio europeo.

Acqua e inquinamento

Gli uomini del Medioevo guardarono sempre con attenzione anche ai corsi d’acqua. In epoca tardo-antica i fiumi, sul modello del diritto romano, erano considerati un bene aperto all’uso pubblico e gratuito per tutti. Le norme del diritto recepite anche dalle leggi delle popolazioni germaniche stabilivano che doveva esserne garantita la navigabilità e proibivano tutte le opere che in qualsiasi modo ostruissero i corsi d’acqua, le cui sponde dovevano essere rafforzate da chi deteneva proprietà in loro prossimità. Già in epoca carolingia, molti diritti pubblici sui fiumi e sul loro uso erano passati nelle mani di signori laici ed ecclesiastici, che pretesero il pagamento di tasse e pedaggi, cercando di limitare anche l’uso pubblico delle risorse del fiume (la presa d’acqua per i mulini, ma anche la pesca). Nel Basso Medioevo, l’introduzione della ruota idraulica per azionare macine, frantoi, mantici, magli per la lavorazione del ferro e gualchiere per la follatura dei panni determinò un significativo cambiamento del paesaggio rurale in A destra Trento, Castello del Buonconsiglio, Torre Aquila. Il mese di Ottobre o lo Scorpione nel Ciclo dei Mesi, a cui sono associate la vendemmia e la spremitura delle uve. XV sec. Nella pagina accanto miniatura raffigurante una battuta di caccia all’orso, dal Livre de la chasse. 1407-1408. Parigi, Bibliothèque nationale de France. L’opera, scritta da Gastone III, conte di Foix-Béarn, meglio noto come Gaston Fébus, fu illustrata sotto la direzione del Maestro del duca di Bedford.

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La fauna

Un bestiario piú ricco e «selvaggio» Nel Medioevo gli animali erano presenti nell’ambiente piú di quanto lo siano nell’Europa urbanizzata di oggi. Le maggiori perdite della fauna selvatica riguardano, infatti, piú che le specie, la quantità, soprattutto in confronto con la situazione dell’Alto Medioevo, quando le foreste davano riparo e nutrimento a numerosi predatori – come orsi e lupi – spesso menzionati nei documenti. Non a caso, in questo periodo, Orso e Lupo erano abituali come nomi di persona e ricorrevano, con altri animali, nei bestiari e nell’araldica dell’aristocrazia. Come racconta ancora Riccardo Rao, «In generale, l’estensione delle foreste garantiva la presenza di popolazioni molto consistenti di cervi, caprioli, cinghiali, linci e diffusi erano anche grandi bovini,

come il bisonte europeo, mentre resistevano nelle pianure dell’Europa orientale le ultime popolazioni di uro, un grosso bovino estintosi poi nel XVII secolo. Per quanto riguarda invece la fauna domestica, poco è cambiato, anche se si sono perse, o fortemente ridotte, alcune pratiche, come la transumanza, che dal Basso Medioevo ha caratterizzato i paesaggi italiani, anche determinando la comparsa di specifici insediamenti per l’alloggio dei pastori. Inoltre, rispetto al Medioevo, la fauna è diventata ancor piú “addomesticata”, in seguito al declino di alcune forme di allevamento allo stato brado tipiche dell’Alto Medioevo (cavalli e maiali) molto diffuse nelle foreste di quercia dell’Alto Medioevo».

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Dossier La vagliatura del grano (particolare), olio su tela attribuito alla cerchia di Niccolò dell’Abate. XVI sec. Parigi, Museo del Louvre.

funzione delle nuove esigenze delle città. La diffusione dei mulini ad acqua favorí la nascita di lavorazioni artigianali e manifatture lungo i fiumi, che furono tra le prime cause di «inquinamento» in epoca medievale. Inoltre causò l’abbattimento di molte foreste, portando a un mutamento durevole del paesaggio di molte regioni europee, ben prima della Rivoluzione industriale. Questi interventi non lasciarono indifferenti i contemporanei. In età medievale non esisteva una coscienza ecologica come possiamo intenderla oggi, ma numerose testimonianze mostrano l’attenzione delle autorità almeno per le forme piú evidenti di inquinamento, in particolar modo quello delle acque. Numerose attività e manifatture, come macelli e concerie si svolgevano nei pressi di fiumi e canali; per questo motivo, nel 1366, il Parlamento di Parigi ordinò che tali attività venissero spostate a valle della città, mentre nel 1425 i birrai di Colchester, nell’Essex, si lamentavano di come i conciatori inquinassero l’acqua usata per la produzione della birra. Anche se non in modo del tutto

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consapevole, nel Medioevo esisteva anche l’idea della conservazione delle risorse del territorio. Abbiamo citato le norme del diritto romano sulla tutela del corso dei fiumi, riprese poi nelle compilazioni di leggi di epoca medievale. Già in epoca altomedievale, inoltre, i sovrani tesero a identificare i vari spazi boschivi di pertinenza regia: si diffuse cosí il termine «foresta», che indicava la natura fiscale e demaniale di un territorio «selvaggio», mentre la parola «bosco» ne indicava piuttosto le caratteristiche vegetali.

Il controllo dell’incolto

I sovrani non si limitarono a esercitare un’autorità formale su questi vasti incolti, ma vollero gestirli in modo sempre piú efficace, economicamente e politicamente. Per questo motivo, già in molte fonti dell’VIII secolo, troviamo i nomi di funzionari regi preposti al controllo dei boschi. Allo stesso modo, l’attenzione dei sovrani verso la caccia e la nascita di veri e propri parchi forestali signorili destinati a questo preciso scopo testimoniano la preoccupazione per le risorse faunistiche, costituite soprattutto

da cervi. In questi parchi l’erba e le sterpaglie venivano regolarmente tagliate e la presenza di animali da pascolo era tenuta sotto stretto controllo, cosí da tutelare la selvaggina (vedi box a p. 93). A partire dal XIII secolo, anche i Comuni italiani manifestarono l’interesse alla gestione del territorio circostante, espandendosi nel contado grazie all’acquisto di terre e diritti da signori e da enti ecclesiastici. Un’altra forma di conservazione delle risorse del territorio si riscontra nelle leggi che molte comunità rurali si diedero per la gestione collettiva del bosco e che in diversi casi sopravvivono ancora oggi (vedi l’intervista alle pp. 97-101). La lettura di queste fonti mostra come le collettività contadine premessero per sfruttare al massimo le aree di incolto, cominciando però anche a porsi il problema di evitare che un uso senza regole danneggiasse irrimediabilmente il territorio; si potrebbe dire che queste comunità tentassero di creare un equilibrio tale da permettere di conservare le ricchezze del paesaggio. Una sensibilità ecologista ante litteram che non sempre si è conservata nel tempo.

Da leggere Riccardo Rao, I paesaggi dell’Italia medievale, Carocci Editore, Roma 2015 Vito Fumagalli, L’uomo e l’ambiente nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 2003 Gherardo Ortalli, Lupi, genti, culture. Uomo e ambiente nel Medioevo, Einaudi, Torino 1997 Henri Pirenne, Le città del Medioevo, Laterza, Roma-Bari 2007 settembre

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Intervista a Riccardo Rao

Il paesaggio medievale e l’Italia

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l paesaggio medievale ha influenzato e ancora oggi influenza gli ambienti della nostra Penisola. Ma quali elementi «medievali» sono piú presenti nel paesaggio italiano? Ne parliamo con Riccardo Rao, docente di storia medievale all’Università di Bergamo e autore del volume I paesaggi dell’Italia medievale...

Tra gli elementi caratterizzanti dei paesaggi italiani del Medioevo rispetto al resto dell’Europa si può senz’altro menzionare il ruolo delle città. Le città italiane conservano un ruolo fondamentale, anche dopo la fine del mondo antico e la loro forza economica e sociale si riverbera anche nelle campagne, facendo sí che i paesaggi rurali italiani siano Rappresentazione «a volo d’uccello» della città di Bergamo, successivamente aggiornata alla situazione dell’edificato cittadino della metà del XVII sec., forse per mano di Alvise Cima (1643-1710).

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Dossier In basso miniatura raffigurante una donna che raccoglie le uova dal pollaio, da un’edizione manoscritta del Theatrum Sanitatis. XIV sec. Roma, Biblioteca Casanatense.

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Nella pagina accanto Siena, Palazzo Pubblico. Particolare dell’Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo, affresco di Ambrogio Lorenzetti. 1337-1340.

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comunque condizionati dall’influenza cittadina: basti pensare alla diffusione tre-quattrocentesca dei poderi di proprietà cittadina nelle campagne toscane oppure allo sviluppo di produzioni agricole e silvo-pastorali pensate per i mercati urbani, dalle peschiere laziali, che offrivano le riserve ittiche destinate alla città di Roma, fino alla coltivazione in diverse aree dell’Appennino tosco-marchigiano e lombardo del guado, una pianta usata come colorante dalle manifatture tessili avviate nelle città e in alcuni grossi borghi della Penisola. Delle città del Centro-Nord è spesso ben visibile l’impronta dell’età comunale, con la costruzione di palazzi comunali (un unicum in Europa), cattedrali, mura, fonti e quartieri suburbani. Per fare due esempi fra i tanti possibili, nei bellissimi centri storici di Bergamo e di Massa Marittima (Grosseto) troviamo la traccia viva dell’età comunale tanto nelle costruzioni monumentali nel cuore della città, che riguardano anche servizi pubblici fondamentali per le cittadinanze,

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Cascina ➤ Praticoltura Allevamento ovino e bovino Podere ➤ Policoltura Masseria ➤ Cerealicoltura Allevamento ovino e bovino come le fonti, quanto nella presenza di quartieri suburbani storici, come borgo Pignolo e borgo San Leonardo a Bergamo o Cittanuova a Massa Marittima. Al Sud spicca invece maggiormente il ruolo della monarchia: pensiamo soltanto ai luoghi creati dai sovrani a Palermo, la capitale normanno-sveva (Palazzo dei Normanni, la Zisa, la Cuba, ecc.), e a Napoli, scelta come città di residenza dai re angioini (Castel Nuovo, Belforte, il mausoleo regio di S. Chiara, ecc.). Anche fuori dalle città troviamo le stesse «tracce»? Al di fuori delle città, i borghi nuovi, con il loro impianto urbanistico perlopiú regolare (per esempio

Cittadella, in Veneto, o Porto Torres, in Sardegna), i castelli, che ritroviamo soprattutto nell’aspetto che è stato loro attribuito negli ultimi secoli del Medioevo, e i monasteri – basti citare gli straordinari complessi di S. Vincenzo al Volturno, Farfa, Bobbio o della Sacra di S. Michele in Val di Susa – ci ricordano che lo spazio in cui ci muoviamo conserva ancora l’immagine vivida del Medioevo. In generale, anche se è difficile quantificare a livello nazionale, possiamo senz’altro dire che la maggior parte dei centri esistenti sedi attuali di Comuni nasce nel Medioevo. In quest’epoca si definiscono i villaggi, ma anche, fra Tre e Quattrocento, iniziano a diffondersi le abitazioni sparse nelle

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Dossier campagne, come le cascine al Nord, i poderi del Centro Italia e le masserie del Sud. Viceversa, quali elementi tipicamente medievali sono andati perduti? Le costruzioni in legno, tanto diffuse, sono perlopiú andate perdute. Si sono meglio conservate quelle in pietra, soprattutto bassomedievali, che tuttavia sono state in molti casi sottoposte a rimaneggiamenti (e talora a vere e proprie reinvenzioni) nel corso dei secoli. Le perdite maggiori sono tuttavia

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avvenute nei tempi piú recenti. Cemento e urbanizzazione hanno spesso cancellato tracce fondamentali dei paesaggi medievali, rispetto ai quali mancavano gli strumenti culturali per saperli leggere. Antiche canalizzazioni, muretti a secco, marcite, orti e fossati non sono stati tutelati, se non raramente, dai piani di governo del territorio e sono state le prime vittime della scarsa conoscenza dei paesaggi storici. L’oblio dei paesaggi medievali è giunto persino alla toponomastica: le intitolazioni attribuite alle vie a partire dall’Unità d’Italia, ma ancora oggi,

eliminano senza scrupoli nomi antichi, che raccontano di antichi paesaggi (via dei mulini, contrada degli orti, via del porto antico e cosí via). Ma si è perso ancor di piú sul piano dell’approccio al paesaggio, in termini di partecipazione collettiva: pensiamo innanzitutto agli spazi verdi e incolti, oggi protetti soprattutto da interventi dall’alto, da parte delle amministrazioni locali e statali, che invece, nel Medioevo, erano oggetto di una cura continua da parte delle comunità, che regolavano le operazioni di raccolta della legna e l’accesso del bestiame ai pascoli.

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A destra Lucedio, Vercelli. Veduta delle risaie intorno all’abbazia di Santa Maria di Lucedio. XII sec. Nella pagina accanto un cavallino della Giara di Gesturi (Sardegna).

Altrettanto è andato smarrito in termini di biodiversità: le monocolture industriali hanno messo in crisi paesaggi e pratiche colturali che si fondavano sulla varietà, sulla policoltura e sul lavoro contadino. Vi sono, al di là dei conosciutissimi centri storici, zone d’Italia che maggiormente conservano un’impronta medievale? Per quanto riguarda le campagne, direi che i paesaggi rurali nei quali meglio si è conservato il Medioevo sono quelli in cui è rimasto vivo il rapporto con la società e il ruolo attivo degli abitanti. I beni comuni e gli usi civici conservano questa relazione, spesso ereditata direttamente dal Medioevo. È medievale l’idea stessa di gestione collettiva del bosco, attraverso un sistema di regole codificato. Pensiamo, per esempio, alle partecipanze di Trino (Vercelli) e Nonantola (Modena) o alla regola di Fiemme (Trento), che rivendicano con fierezza le radici medievali della loro istituzione. A Trino, gli ultimi lembi della foresta planiziale vengono gestiti sin dalla fine del Medioevo attraverso l’assegnazione di lotti per la raccolta della legna alle famiglie dei Partecipanti, che si trasmettono ereditariamente tale diritto. A Nonantola, dove pure vige un sistema analogo di distribuzione dei fondi, i beni comuni consistono in terre rese fertili dalle canalizzazioni che si alternano ad aree a bosco. La Magnifica comunità di Fiemme (www.mcfiemme.eu) è un ente vivacissimo, che gestisce in maniera

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efficiente le foreste di abeti e larici, la raccolta dei funghi e le baite dei pastori, distribuendo gli utili ai «vicini», una parte soltanto della popolazione originaria di ben undici Comuni della valle. Ma, al di là di questi casi ben noti, l’Italia è ricchissima, da Sud a Nord, di usi civici dallo straordinario valore ambientale e soprattutto culturale. Purtroppo, gli usi civici rischiano spesso di cadere in disuso e venire abbandonati: per questo è quanto mai necessario rivitalizzarli, cercando strade per una partecipazione attiva da parte delle comunità nella loro gestione.

Paesaggi d’impronta medievale sono anche quelli che recano traccia di allevamento allo stato brado, come quello dei cavalli o dei maiali, che, soprattutto nell’Alto Medioevo, venivano lasciati pascolare liberi nelle vaste foreste di quercia. Queste realtà non sono del tutto scomparse: seppur in forma limitata, branchi di cavalli bradi sono ancora attestati in Sardegna (i famosi cavallini della Giara), nel parco del Pollino e in Maremma. Sta invece rinascendo in diverse zone l’allevamento suino allo stato brado, al fine di ottenere carni di migliori qualità.

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sede di uno dei riti piú importanti della religione cristiana, il battistero di Novara è anche uno scrigno di tesori e misteri...

«Rinunci a Satana?» I

l battistero paleocristiano è l’edificio religioso piú antico di Novara. Innalzato alla fine del IV secolo e racchiuso tra il Duomo, i portici, il cortile sacro e la piazza, sorge nell’area che, in età romana, era occupata da abitazioni e botteghe del Foro. Secondo la tradizione, il monumento può essere attribuito al periodo in cui nacque la comunità cristiana novarese, grazie all’opera di evangelizzazione dei vescovi Gaudenzio, Agabio e Lorenzo.

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Ritenuta una testimonianza preziosa dell’architettura religiosa tipica dell’«area padana» – il territorio nel quale le influenze diffuse dalla Milano tardo-romana hanno valicato le Alpi a Nord e a Occidente –, la costruzione riprende, nello schema icnografico, la consueta tipologia battesimale paleocristiana, simile a quelle dei battisteri di S. Giovanni ad Fontes, a Milano, di Frejus, nella regione Provenza-Alpi-Costa Azzurra, e di Albenga, in Liguria.

La pianta ottagonale, che riflette l’esempio dei ninfei e delle sale termali di età classica, alterna absidiole rettangolari a cappelle semicircolari estroflesse all’esterno.

Cerimonie notturne A Novara il battesimo si celebrava nella notte di Pasqua e di Pentecoste, con l’ammissione dei catecumeni ai riti dell’iniziazione cristiana. Come ricorda in un’omelia il vescovo Lorenzo di Novara (V settembre

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DOVE E QUANDO

Duomo e Battistero Novara, piazzale della Repubblica Info Curia diocesana di NovaraUfficio per i Beni Culturali Ecclesiastici, tel. 0321 661661 Nella pagina accanto l’esterno del battistero paleocristiano di Novara. In alto il settimo squillo con la donna e il drago rosso, affresco attribuito al Maestro dell’Apocalisse di Novara. XI sec. secolo), i neofiti, dopo la rinuncia a Satana compiuta nell’atrio, entravano nell’aula per l’immersione battesimale, subito seguita dalla cresima, che ricevevano in un’absidiola dello stesso edificio. Successivamente venivano accompagnati nella basilica per partecipare alla prima eucarestia. Nella sua elevazione, l’edificio può essere considerato paleocristiano sino all’altezza delle finestre ad arco a tutto sesto della zona centrale, mentre l’innalzamento della cupola risale all’XI secolo. La calotta al di sotto dei coppi, caratteristici della copertura altomedievale, conserva i tegoloni romani, congiunti da

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Nel segno dell’8 Considerato uno dei luoghi piú misteriosi del Piemonte, il battistero di Novara ha un perimetro ottagonale, che misura 10,50 m in larghezza e 21, 50 in altezza. L’impostazione della pianta è stata concepita in modo da iscrivere nell’ottagono una croce, evocata da supporti in muratura che, sporgenti verso l’interno dalle absidi rettangolari e cercandosi, sembrano suggerire un richiamo cruciforme. Risulta alquanto ingegnosa la disposizione delle colonne, con la base alloggiata a perpendicolo nei supporti murari e il capitello che ruota di 20° per raccordarsi alla calotta circolare. Come in altre costruzioni dell’epoca, l’armonia degli elementi architettonici è forse esito dell’applicazione della sezione aurea. Nella costruzione del battistero si può quindi supporre ci sia stata una concezione simbolica, che unisce la croce nel livello inferiore e il circolo, immagine della perfezione celeste, nella zona superiore. Inoltre la croce e il cerchio, Dio e cielo, richiamano la Resurrezione di Cristo, avvenuta l’ottavo giorno. Secondo l’insegnamento dei Padri della Chiesa, che consideravano la domenica come l’ottavo giorno, 7 è sí il numero perfetto, ma l’8, cioè il 7 piú uno, esprime la perfezione assoluta, poiché non è solo il simbolo dell’infinito capovolto e quindi dell’eternità, ma indica anche la nuova creazione. Per sant’Ambrogio, la prima creazione si compí in sette giorni, ma la nuova creazione, che si produce attraverso la rinascita battesimale, si attua in otto. Dio ha creato l’uomo e la donna in sette giorni, ma, avendo peccato, occorre aggiungere un ulteriore giorno, perché l’uomo rinasca. La stessa Resurrezione di Gesú è avvenuta di lunedí, ossia in questo ipotetico «ottavo giorno». Tale concezione spiegherebbe anche il motivo per cui i battisteri hanno spesso forma ottagonale. Non a caso in quello di Novara, a ricordare l’8, concorrono il perimetro ottagonale, il pavimento a marmi bianchi e neri, che rimanda allo stile templare-massonico, e la vasca a otto lati. A decorare un edificio cosí particolare sono poi le scene dell’Apocalisse di Giovanni, un monito al valore dell’esistenza cristiana, di cui il numero 8 costituiva un ulteriore richiamo.

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CALEIDO SCOPIO esagonali e triangolari di colore bianco e grigio-scuro, si conserva qualche frammento nelle absidiole. Nel lato a ovest, che un tempo accoglieva l’altare di S. Giovanni Battista, è stato posizionato un sepolcro cilindrico del II secolo d.C., dedicato dalla liberta Dossa alla padrona Umbrena Polla. Il manufatto, a forma di vasca rotonda, si trova qui da quando, nel Medioevo, fu reimpiegato al centro dell’aula ottagona, sulla piscina primitiva, per facilitare l’immersione battesimale dei bambini. Le pareti, e forse anche le volte, erano in origine decorate con mosaici a soggetto floreale, di cui rimane un frammento superstite d’ispirazione ravennate, con motivi blu su fondo bianco, su di una finestra nella zona rivolta a sud.

Un maestro di talento Il grandioso ciclo a fresco – dipinto da un eccellente e ignoto autore, comunemente indicato come Maestro dell’Apocalisse di Novara, nella parte superiore del loggiato architravato – si riferisce alla committenza del vescovo Pietro III (993-1032), verosimilmente al primo decennio dell’XI secolo. Inedito per concezione, risulta formato da otto grandi scene (4,5 x 2 m circa), con uno sfondo comune. una spessa malta. All’esterno sono ancora visibili tracce dell’intonaco che rivestiva la costruzione. All’interno, il perimetro dello spazio sacro è scandito da colonne in marmo scanalate, arricchite da capitelli corinzi, recuperate da un edificio romano del II-III secolo e reimpiegate nel V secolo. La parte centrale, invece, ospitava l’impianto della vasca ottagonale, usata sino alla fine del Duecento per il rito del battesimo a immersione. Del catino rimangono i gradini della parte inferiore, anche se privi di rivestimento, mentre dell’antica pavimentazione a opus sectile, con formelle marmoree quadrate,

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In alto il Giudizio Universale, opera di pittore novarese della metà del XV sec., forse identificabile con Joannes de Campis. A destra e nella pagina accanto due delle figure di angeli che compaiono nel ciclo affrescato attribuito al Maestro dell’Apocalisse di Novara, che realizzò l’opera su incarico del vescovo Pietro III.

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simboleggia la Chiesa, che, con l’aiuto divino, sarà vittoriosa contro le persecuzioni e le insidie del male. È rappresentata come la Madonna, poiché, per aver dato alla luce Cristo, costituisce l’immagine piú viva della maternità della Chiesa stessa.

L’umanità tormentata

Appare suddiviso in quattro fasce decorative sovrapposte di ugual misura, caratterizzate da un elaborato motivo a nastro continuo, che forma una greca di segmenti rossi, gialli e verdi, interrotti da leggiadre tabelle rettangolari con pesci. Incorniciate in riquadri architettonici, le immagini sono poste al livello superiore di alcune ieratiche figure di profeti biblici, ritratti in piedi. Illuminate dalla luce trionfante, che penetra dai grandi finestroni centinati, raffigurano la storia dei Sette Squilli Angelici, tratta dai capitoli 8-9 e 12 dell’Apocalisse.

La dura lotta contro il male Il Maestro, ispiratosi al racconto interpretativo dell’Apocalisse di Beatus, monaco spagnolo dell’VIII secolo, esprime la tematica di derivazione agostiniana in raffigurazioni di grande potenza pittorica, che, misteriosamente drammatiche, presentano la dura lotta contro il male, i terrificanti castighi divini

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inviati per punire i reprobi, la definitiva vittoria di Cristo e la fine all’attuale assetto del mondo. Il messaggio si rivolge chiaramente alla comunità cristiana, che, sin dal momento del battesimo, richiede una scelta per la civitas Dei. I sette monumentali angeli con le trombe sono avvolti da ampie vesti, agitate dal vento. I loro movimenti appaiono impetuosi. I panneggi svolazzanti degli abiti hanno un colore denso e caldo, ravvivato da sfolgoranti lumeggiature bianche. La settima scena, dedicata al sesto squillo con i quattro angeli della distruzione (Apoc. 9, 13-21), non si vede, poiché è coperta dalla rappresentazione del Giudizio Universale, con Cristo in maestà e gli apostoli che reggono il cartiglio del credo, dipinta da un pittore novarese vissuto nella metà del XV secolo, forse Joannes de Campis. L’ultimo episodio riguarda il settimo squillo con la donna e il drago rosso (Apoc. 12,1-18). La donna

Un’illustrazione dei sette squilli di tromba cosí dettagliata come quella del battistero di Novara è rara in pittura e trova riscontri nella miniatura della Reichenau, in particolare nell’Apocalisse di Bamberga (1002 circa) e nell’Evangeliario di Enrico II (1007-1012). Domina l’orrore metafisico degli immani cataclismi, che, a ogni squillo, scendono a tormentare l’umanità: la pioggia di grandine infuocata, l’oscuramento del sole e della luna, la comparsa di mostri dall’abisso, sono tradotti con un rigore ritmico di straordinaria lucidità. La collocazione di questo grande pittore rimane discussa. L’essenzialità dei moduli narrativi, la strumentazione scenica e la prorompente vitalità dei sontuosi modi stilistici indicano come il Maestro dell’Apocalisse di Novara rappresenti una personalità di primissimo piano. Dotato di una propria autonomia di linguaggio, l’artista apre uno spiraglio sull’arte figurativa preromanica padana, di cui ben poche sono le opere superstiti, e sulle sue relazioni culturali sia con il mondo carolingio, che con l’ambiente ellenistico. Inoltre, l’impostazione grandiosa delle figure, il trattamento dei panneggi e il raro motivo del vortice sull’articolazione dell’ala evidenziano indiscutibili legami tra il ciclo novarese, gli affreschi dell’abside di S. Vincenzo a Galliano (vedi «Medioevo» n. 226, novembre 2015) e gli angeli dipinti sulla controfacciata e nel tondo vitreo (XII secolo) con l’Assunzione della Vergine della cattedrale di Aosta. Chiara Parente

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Storie, uomini e sapori

Addosso al cinghiale! F

ino a una trentina d’anni fa il cinghiale italiano era a rischio di estinzione. La costanza con cui per millenni lo scontroso suide è stato cacciato poggia su tre motivazioni: è una preda impavida che evidenzia le virtú del cacciatore, ha un riconosciuto valore gastronomico ed è responsabile di notevoli danni alle colture. Per far fronte alle pressioni dei cacciatori italiani, dagli anni Cinquanta del secolo scorso, ebbe inizio una scriteriata attività di ripopolamento, attuata con l’immissione di cinghiali provenienti soprattutto dall’Est europeo, piú grandi, piú robusti e soprattutto piú prolifici di quelli italiani. Dai tre o quattro cuccioli per l’unico parto annuale della razza autoctona, si è passati ai 12, 14 esemplari di quelle importate e meticce, alcune delle quali partoriscono due volte l’anno. Colonizzando le zone collinari e montane dismesse dall’agricoltura, le nuove varietà hanno quintuplicato l’area di distribuzione, coprendo l’intera Penisola, dalla Valle d’Aosta alla Calabria, e arrivando anche in Sicilia, dove, fino agli anni Ottanta, il cinghiale era una rarità. Al sovrappopolamento e alla mancanza di competitori diretti, si aggiunge uno spazio vitale insufficiente, a causa dei diboscamenti effettuati per costruire strade, dighe, aeroporti, aree industriali e residenziali. Si spiega cosí la «pseudourbanizzazione» dei cinghiali, che, attratti dai rifiuti, tendono a irrompere anche in zone abitate. Coraggioso, battagliero, spavaldo, disperato combattente quando

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Miniatura raffigurante una scena di caccia al cinghiale, dal mese di Dicembre del Breviario Grimani. XVI sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

si trova circondato dai nemici, il cinghiale è anche difficile e rischioso da stanare. Per queste sue caratteristiche è sempre stato considerato un ambito trofeo di caccia. Lo cacciavano gli Umbri, i Marsi, i Lucani e, soprattutto, gli Etruschi per i quali rappresentava la forza fertile e libera della natura associata alle divinità ctonie e silvane. Nel mondo greco assunse significati oscuri e nefasti, forse ispirati dal carattere ombroso, dalle abitudini notturne e dalla colorazione scura del manto.

Quel segno rivelatore... Lo si ritrova in Omero, nella duplice funzione di preda e di companatico per Achille, Telemaco, Patroclo e Aiace. Lo stesso Ulisse era un abile cacciatore di cinghiali, come dimostra la cicatrice infertagli in gioventú da una zanna, grazie alla

quale la sua nutrice Euriclea lo riconobbe poi al momento del suo ritorno a Itaca. L’abbondanza di cinghiali nella Penisola fece sicuramente la gioia dei «barbari» Germani all’epoca della caduta di Roma. Per cacciarli, usavano la saufeder, una corta e pesante picca con punta metallica provvista di due ali (lug), che servivano a bloccare la furiosa carica dell’animale negli scontri frontali. La usava anche Carlo Magno, che, fino a quattro mesi prima della morte, cacciava ancora nelle Ardenne e che, un anno prima di essere incoronato imperatore, viene elogiato da papa Leone III per l’uccisione di un veemente cinghiale con la saufeder. Nell’Alto Medioevo le battute di caccia divennero semplici ma pur sempre nobili passatempi. Si svolgevano in sella a cavalli provvisti di corazze in cuoio, mentre settembre

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Particolare di una minatura raffigurante l’arrostimento di un cinghiale dal Livre de la chasse di Gaston Fébus 1407-1408. Parigi, Bibliothèque nationale de France. feroci molossi dotati di collari metallici stanavano, inseguivano e mordevano l’animale per stremarlo. Era una caccia abbastanza facile, che in un solo giorno poteva mettere nel carniere anche 50 esemplari, ma che, in qualche caso, poteva risolversi in un tragico epilogo, come accadde al re di Francia Filippo IV «il Bello» (il sovrano dello «schiaffo di Anagni» e della soppressione dei Templari), che, nel 1314, morí cadendo da cavallo durante una battuta al cinghiale nella tenuta di Fontainebleau.

Dura e inadatta agli arrosti La carne di cinghiale ha regalato alla storia della gastronomia molte portate spettacolari. Eppure, come ammonisce anche un trattato di gastronomia del XV secolo, «la carne di cigniale che è dura non è buona in arrosto; si togliano i filetti che stiano una notte avanti in aceto e acqua salata con erbe e spezie calde». Lo stesso trattato avverte che va fatta frollare anche la carne di cinghialetto e suggerisce di «acconciarla una notte alla ghiaccia per cavargli la secchezza». Pur senza giungere alla bravura e alla pazienza del cuoco citato da Ateneo, nel 1475 in un pranzo alla corte di Pesaro per le nozze di Costanzo Sforza, fu servito in tavola un cinghiale intero cotto nella sua pelle; un altro arrostito intero venne portato alla mensa di Giuliano de’ Medici nel 1513 a Roma. Le cacce nobiliari si trasformarono in massacri nel Rinascimento con l’avvento delle armi leggere da fuoco. Una cronaca lucchese del 1526 parla di 200 «cignali» abbattuti in un giorno, animali che finivano solo in minima parte nelle cucine e sulle tavole nobiliari, ma che erano venduti a caro prezzo alle popolazioni locali a cui fino al

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Settecento era vietato cacciare. Solo con l’Illuminismo e la fine degli assolutismi monarchici i contadini poterono integrare la loro dieta con la selvaggina abbattuta liberamente

nelle campagne, ma questa pur ragionevole conquista causò in pochi anni la decimazione del cinghiale in molti Paesi europei, inclusa l’Italia. Sergio G. Grasso

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UN ANTROPOLOGO NEL

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Notti chiassose A

l rientro dalle vacanze, settembre ci accoglie con due eclissi, una solare e l’altra lunare. Se la prima non è però visibile, almeno in Italia, quella lunare lo sarà ed è prevista verso la metà del mese. Di certo non assisteremo a fragorosi battimenti di padelle e di pentole, a spari di petardi, a urla e lanci di frecce verso il cielo, come si usava fare molti secoli fa e come in fondo si fa ancor oggi, almeno in alcune zone del mondo. Già nell’Alto Medioevo, Cesario di Arles e poi Rabano Mauro, tuonarono contro queste rituali chiassate che facevano da sfondo sonoro alle eclissi di luna. Il secondo, poi, racconta un episodio personale, che ci fa ben comprendere in cosa consistesse il rituale che all’epoca chiamavano Vinceluna. Una sera, «tra l’imbrunire e l’inizio della notte», Rabano fu sorpreso da «una cosí spaventosa vociferazione del popolo che la sua irreligione sembrava dover penetrare in cielo». «Quando chiesi loro cosa volevano ottenere con quella

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chiassata, mi risposero che le loro grida dovevano venire in soccorso della luna sofferente che si sforzavano di aiutare durante la sua eclissi». Oltre alle grida, quei facinorosi brandivano armi di ogni tipo e scoccavano frecce e scagliavano torce accese verso il cielo, come se volessero spaventare qualcuno o qualcosa e, inoltre, avevano un loro caratteristico grido di guerra: «Vinceluna!» («Che vinca la luna!»).

Usanze tramandate di padre in figlio Anche nel Penitenziale di Burcardo di Worms, scritto pochi anni dopo il Mille, sono testimoniati rituali simili: «Hai osservato quelle usanze pagane che di padre in figlio sono giunte fino ai nostri giorni con la complicità del demonio? Ossia, hai adorato la luna, il sole, la rotazione degli astri, la luna nuova oppure l’eclisse di luna, quasi tu avessi il potere con le tue grida di ridare a essa il suo splendore? Hai creduto che questi elementi ti potessero aiutare od essere tu settembre

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d’aiuto per essi? Hai atteso la luna nuova per la costruzione di una casa o per contrarre matrimoni? Se lo hai fatto, due anni di penitenza nei giorni stabiliti». La luna è da sempre oggetto di credenze, rituali o di quelle che furono in seguito sbrigativamente rubricate come «superstizioni». Tra gli incantesimi – i mala carmina – famosi in tutto il mondo classico, era particolarmente temuto quello che «incantava» la luna, eclissandola al cielo e costringendola a scendere sulla terra, dove avrebbe bagnato con la sua «rugiada» le erbe magiche adoperate per potenti filtri. Cosí almeno raccontavano Orazio («le cui fatture e formule tessaliche, dal ciel la luna strappano») e Virgilio («Le malíe possono anche far cadere dal cielo la luna»).

Il lupo che voleva ingoiare la luna Le sue eclissi, inoltre, erano considerate malefiche già nell’antico Egitto e nella tradizione ebraica, oltre che in Cina, dove si credeva che venisse nascosta dalla mano sinistra di un genio cattivo o ingoiata da un rospo. Tutto il mondo medievale fu attraversato dal timore che la luna sparisse, magari per l’eternità. Cosí la mitologia germanica raccontava di un lupo celeste, Moongarm, che ogni notte inseguiva la luna tentando di ingoiarla, cosa che riuscirà a fare, come l’altro lupo Fenrir con il sole, all’avvento del Ragnarök, la fine del mondo. Anche tra i Persiani un mostro – in questo caso un dragone – tentava di ingoiare la luna, mentre dalla terra alcuni arcieri glielo impedivano bersagliandolo di frecce. Interessanti risultano le considerazioni di Rabano Mauro di fronte al Vinceluna a cui aveva assistito, «mi misi a ridere e mi stupii che, nella loro semplicità, quei cristiani andassero in aiuto di Dio come se, malato e debole, fosse incapace senza l’aiuto delle nostre voci, di difendere l’astro da lui creato». Uomo di Chiesa e uomo del Medioevo, egli non poteva comprendere i profondi significati magicoreligiosi di quel gridare, di quel rumore. Sonorità che non hanno mai smesso di accompagnare alcuni eventi o passaggi importanti della vita degli uomini sulla terra. Nella seconda metà del secolo scorso, il grande antropologo francese Claude Lèvi-Strauss (1908-2009) scriveva: «Se si chiedesse ex abrupto a un etnologo quali sono le circostanze in cui il rumore disordinato è prescritto dal costume, si può star certi che egli ne citerebbe immediatamente due: la scampanata della tradizione europea, e il baccano al quale buona parte delle cosiddette società primitive (e anche civilizzate) si abbandona o si abbandonava in occasione delle eclissi di sole e di luna» (da Il crudo e il cotto, 1964). Se della scampanata o charivari ci siamo già piú volte occupati (vedi, per esempio, «Medioevo» n. 169, febbraio 2011), quello che ora ci interessa è il dato oggettivo che il rumore – nel Medioevo – aveva finalità «superstiziose» o, meglio dire, magico-religiose.

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Nella pagina accanto incisione tratta da un’edizione dell’Astronomicon di Gaio Gulio Igino (I sec. d.C.), che descrive le fasi dell’eclisse lunare. 1485. Barcellona, Biblioteca Univesitaria. A destra un momento dell’eclissi lunare del 3 marzo 2007. Si trattava, però, di una religione evidentemente piú antica, non condivisa dalle gerarchie ecclesiastiche dell’epoca, ma non per questo meno sentita. In quasi tutti i luoghi in cui sono testimoniate, le chiassate durante le eclissi non sono «primitivismi» che riportano alla mente scimpanzé urlanti e che si battono i pugni sul petto in presenza di un pericolo o di aggressori, ma strategie che la cultura umana ha elaborato per riscattare quei momenti angosciosi derivanti da ogni anomalia, pericolo o deviazione dell’ordine naturale delle cose. Il rumore, apparentemente caotico ma pur sempre frutto di strategie umane, viene impiegato per accompagnare o sanare una situazione di crisi o cambiamento, potenzialmente pericolosa: una «rottura» dell’ordine sociale – il matrimonio – o dell’ordine cosmico – l’eclissi.

Il rumore per scacciare i pericoli Un fenomeno astronomico particolarmente visibile, che lo si chiami «mostro» o dragone, è comunque un episodio di portata cosmica che sembra voler privare gli uomini della luna o del sole, quindi un evento che necessita interventi particolari, siano essi religiosi o magici. Il rumore diviene cosí la strategia di risoluzione di un episodio potenzialmente pericoloso o, come lo definí Lèvi-Strauss, di «un’anomalia nello svolgimento di una catena sintagmatica». D’altronde noi moderni, se anche non ne siamo sempre consapevoli, perlomeno ne conosciamo bene l’utilizzo: quando a Capodanno spariamo i botti o produciamo rumori non comuni, quando «contro» uno schieramento politico avverso battiamo pentole, padelle o altro, quando ai matrimoni facciamo quel lungo corteo di automobili strombazzanti, non stiamo forse sottolineando un’«anomalia», un momento potente di passaggio? Non stiamo allontanando, con queste pratiche acustiche, un potenziale pericolo, una paventata rottura del consueto ordine del mondo? Claudio Corvino

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Silvia Diacciati, Enrico Faini, Lorenzo Tanzini, Sergio Tognetti Come albero fiorito Firenze tra Medioevo e Rinascimento

Mandragora, Firenze, 2016, 260 pp., ill. col.

16,00 euro isbn 978-88-7461-300-7 www.mandragora.it

«Firenze è come albero fiorito che in piazza dei Signori ha tronco e fronde. E Firenze germoglia ed alle

stelle salgon palagi saldi e torri snelle»: con queste parole, particolarmente adatte a fungere da titolo del libro, la città di Dante veniva celebrata nel Gianni Schicchi di Giacomo Puccini (opera basata su un episodio descritto nel XXX Canto dell’Inferno, n.d.r.). Scopo del volume – che lo rende peculiare nella panoramica degli studi tradizionali – è quello di affrontare la storia

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di Firenze (dall’XI alla fine del XV secolo), pur nell’ineccepibilità della documentazione, con un linguaggio colloquiale e continui raffronti col mondo attuale, cosí da risultare godibile anche per i non specialisti. Il taglio tematico apre una serie di squarci sulla vita fiorentina nei suoi molteplici aspetti (economico, politico, culturale, materiale, assistenziale, religioso), permettendo di «entrare in quel mondo creativo e fecondo nella stagione della sua primavera», senza la pretesa di affrontare globalmente la storia della città o la sua vita artistica. Vengono dunque ripercorse sinteticamente le vicende politiche e istituzionali della città dalla prima età comunale (XI secolo) all’espansione territoriale che la portò alla progressiva sottomissione degli altri centri della Toscana (cap. 1), per poi soffermarsi sui meccanismi elettorali e sulle magistrature fiorentine all’epoca di Dante (cap. 2); sul sistema carcerario e sulla giustizia civile e penale (cap. 3); sul sistema fiscale (cap. 4);

sulla demografia e sull’economia (cap. 5); sulla situazione economica delle campagne, sul commercio, sull’organizzazione dei mestieri e sui loro rapporti stabiliti con il potere politico (cap. 6); sulle grandi compagnie mercantili e bancarie fiorentine che si affermarono sui mercati internazionali (cap.7); sull’organizzazione della manifattura laniera e di quella serica (le piú importanti della città), i cui vertici occupavano anche le principali cariche politiche (cap. 8); sulla lotta contro gli altri potentati italiani per l’egemonia della Penisola (cap. 9); sull’espansione urbanistica (cap. 10); sull’associazionismo (cap. 11); sulla famiglia e l’educazione (cap. 12); sulla religione (cap. 13). Colpisce, in particolare, la chiarezza con cui viene affrontato un argomento arduo come il sistema fiscale fiorentino, del quale sono descritti i meccanismi e la complicata evoluzione. Altro tema su cui vale la pena di soffermarsi è quello delle compagnie mercantili e bancarie fiorentine,

di cui vengono ripercorsi la nascita, l’evoluzione, nonché lo stretto connubio tra la loro affermazione nel mondo della finanza internazionale, il ruolo diplomatico assunto spesso dai mercanti-banchieri, e la committenza artistica derivante, da un lato, dalla disponibilità di capitali, dall’altro dalle risorse culturali e dalle conoscenze in merito che quegli stessi uomini d’affari andavano acquisendo nei loro molteplici contatti. Proprio questi mercanti commissionarono ai principali artisti dell’epoca le piú importanti cappelle nelle principali chiese cittadine, e ricordiamo, per esempo, che fu l’Arte della Lana a ingaggiare Giotto per la realizzazione del campanile del Duomo. Dove passavano gli uomini d’affari fiorentini, insomma, prima o poi arrivavano anche gli artisti. Il volume è completato da una vasta bibliografia e da un pregevole corredo di immagini a colori. Maria Paola Zanoboni Fernanda Sorelli (a cura di) «Ego Quirina». Testamenti di

veneziane e forestiere (1200-1261) documenti trascritti da

Laura Zamboni e Laura Levantino, Viella, Roma, pp. XCIV+242

32,00 euro isbn 9788867285181 www.viella.it

Dal IX secolo, fare testamento era consuetudine diffusa a Venezia e nel suo ducato fra tutti i ceti sociali. Si tratta dunque di un tipo di documentazione di primaria importanza da cui emergono i piú svariati e privati aspetti della vita materiale anche degli individui di piú umile estrazione: notizie sulla cultura, la lingua, l’alfabetizzazione, il diritto, le relazioni familiari, gli aspetti economici, la realtà quotidiana. Ancor piú interessanti risultano le ultime volontà femminili, raccolte nel volume per il periodo compreso tra il 1200 e il 1261 (quasi un centinaio), che permettono di far luce su quella parte della popolazione settembre

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale che in genere sfugge alla documentazione scritta. Questi testamenti evidenziano la notevole autonomia e il non trascurabile impegno economico delle donne a tutti i livelli e in ogni settore, in un’epoca in cui la pratica testamentaria era notevolmente aumentata parallelamente e come conseguenza dell’incremento demografico, della crescita economica e dell’affermarsi dei nuovi orientamenti religiosi portati dagli Ordini Mendicanti. Il testamento non rappresentava soltanto un modo per disporre dei propri beni, ma costituiva anche un’occasione per fissare ricordi, manifestare stati d’animo, lasciare un’incisiva traccia di sé. Le donne dettavano le loro ultime volontà perché anziane, malate o in stato di gravidanza, oppure alla vigilia di un viaggio. Appartenevano a tutti i ceti sociali: dalla figlia di Tancredi d’Altavilla alle mogli di un merciaio e di un fabbricante di cinture; lasciavano in genere oggetti modesti, piccole somme di denaro, qualche volta immobili o terreni. Il volume contiene

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una ricchissima introduzione, con notizie sulla fonte, sulle testatrici e sui loro beni, sulle disposizioni di carattere religioso; segue l’edizione dei testamenti corredata dall’indice dei nomi e da una vasta bibliografia. M. P. Z. Maria Serena Mazzi In viaggio nel Medioevo

Il Mulino, Bologna, 334 pp.

24,00 euro isbn 978-88-15-26341-4 www.mulino.it

Sfatando il pregiudizio sulla staticità della società medievale e sottolineando la sopravvalutazione delle esplorazioni geografiche condotte tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, Maria Serena Mazzi mostra come quello dell’età di Mezzo fosse un mondo di uomini in costante movimento. Poteva trattarsi di viaggi di nozze, d’affari, di missioni diplomatiche, di spedizioni armate. I pellegrinaggi in occasione dei Giubilei (il primo nel 1300) muovevano centinaia di migliaia di persone (200 000 nel 1300, 5000 al giorno nel 1350), coinvolgendo le piú varie strutture ricettive a Roma e

lungo il loro itinerario. Pur mancando il concetto di viaggio ozioso, la sete di conoscenza e di novità era ugualmente presente e placata dagli spostamenti per i motivi piú vari: viaggi devozionali, partenze in cerca di una vita migliore, l’esilio per motivi politici, tutti trasferimenti che non mancavano di suscitare nell’umanità di allora – in particolare tra i giovani – la curiosità per mondi piú o meno lontani, paesaggi nuovi, consuetudini diverse. Altrettanto vari erano gli itinerari e le modalità di viaggio: per terra, per mare, per via fluviale, a piedi, a cavallo, sul carro, per nave. E quasi ogni categoria sociale poteva esserne protagonista: dai muratori ai notai, dagli studenti ai medici, ai pellegrini, ai mercanti, agli schiavi... Né gli itinerari erano immuni da pericoli – animali feroci, malviventi, inclemenza atmosferica, malattie – e spesso la vita dei lavoratori itineranti sfociava

nella criminalità, nella prostituzione, nel vagabondaggio. Le condizioni materiali di trasferimento non erano agevoli, né per terra, né per mare. Ci si spostava su imbarcazioni commerciali adibite anche al trasporto dei viaggiatori. Uomini di governo, regnanti e religiosi di alto rango avevano invece proprie navi – talvolta cosí lussuose da equivalere a un confortevole palazzo –, sulle quali la traversata era resa confortevole da suppellettili preziose e cibo prelibato. Altrettanto varie erano le strutture ricettive degli itinerari terrestri: taverne e locande, ospedali e conventi, palazzi per nobili, sovrani, papi. Ciononostante, i viaggi invernali si rivelavano durissimi anche per i personaggi piú in vista e meglio equipaggiati, mentre tempeste, incidenti, malori, imprevisti di ogni tipo, briganti, pirati, potevano rendere un calvario anche gli spostamenti di mercanti, notabili, uomini di governo. E appunto sulle disavventure capitate ad alcuni di loro, descritte in diari, memorie, libri di ricordi, si sofferma

uno dei capitoli piú interessanti del libro: dai disastrosi viaggi di Beatrice d’Este ed Elisabetta Gonzaga per andare a nozze, compiuti in pieno inverno su fiumi semighiacciati, con temperature tali che il vino nei bicchieri gelava, a quelli di mercanti e uomini di governo perseguitati dalla sfortuna: malesseri provocati da cibo avariato, danni alla cavalcatura, tempeste, eccessiva calura estiva, rapine e omicidi. La seconda parte del volume è dedicata alle esplorazioni, che, contrariamente a quanto si pensa, si compirono già a partire dal VI secolo: tra le piú importanti quelle dei Francescani in Cina, Africa e Asia nella seconda metà del Duecento e nel primo Trecento. L’aspetto reale e quello immaginario, la cartografia e le descrizioni di mondi infernali e di esseri mostruosi, l’atteggiamento di fronte alla natura e alle abitudini diverse delle popolazioni di mondi lontani, vengono analizzati attraverso interessantissimi e gustosi resoconti di viaggio. M. P. Z. settembre

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Alla maniera dei cantastorie T

rattandosi di eventi particolarmente drammatici, la Passione di Cristo, come il martirio di un santo, hanno stimolato nel Medioevo lo sviluppo di uno specifico repertorio letterario, al quale si sono gradualmente associate le prime forme di manifestazioni drammaturgiche nonché musicali. Sull’idea di una Passio dedicata alla figura di san Rufino, martire e primo vescovo di Assisi, il disco Passio Sancti Ruphyni Episcopi et Martyris propone l’originale tentativo di ricostruzione di una narrazione paraliturgica attraverso la combinazione di letture e musiche del genere di quelle in voga nel corso del XIV secolo. Originario di Amasia, città del Ponto (Turchia), Rufino e suo figlio Cesidio furono processati e condannati per la loro fede cristiana, ma, salvati in extremis dalla conversione del proconsole romano, fuggirono in Italia per proseguire l’opera di evangelizzazione. Ad Assisi, il proconsole Aspasio, nel 238 d.C., condannò nuovamente Rufino a morte per annegamento nel fiume Chiascio, nei pressi di Assisi. Ritrovate le reliquie del santo, queste furono traslate nel VII secolo nella primitiva chiesa a lui dedicata, trasferite nel 1029 in nuovo edificio e

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MUSICA • Si snoda nel

segno del martire Rufino un riuscito esperimento a metà fra musica e letteratura

infine, nel 1228, portate nell’attuale cattedrale di Assisi.

Un prezioso manoscritto La devozione nata attorno al santo si deve soprattutto all’esistenza di un manoscritto del XIV secolo che include anche la Passio Sancti Ruphyni, il Codice 4 (PassionarioLeggendario), conservato presso l’Archivio Capitolare della Cattedrale di Assisi e che raccoglie 173 agiografie. La presente Passio viene

Passio Sancti Ruphyni Episcopi et Martyris Anonima Frottolisti, 1 CD www.anonimafrottolisti.it

proposta dagli ensemble Anonima Frottolisti e Antica Cappella Musicale di San Rufino attraverso letture – la voce narrante è quella di Simone Marcelli – e musiche che vanno dal XIII al XIV secolo; queste ultime includono brani anonimi da varie aree geografiche: dal repertorio francese dei secoli XII e XIII a brani tratti dal Laudario di Cortona, e, a seguire, partiture tratte da codici conservati a Cividale del Friuli, Assisi, Siena, Londra, Oxford, Parigi. Con un’atmosfera che ricorda quella dei cantastorie, i componenti dell’Anonima Frottolisti catturano l’attenzione dell’ascoltatore con un accostamento di letture e brani musicali che si compenetrano a vicenda, raggiungendo il giusto equilibrio tra i due elementi. Interessante si rivela anche l’ampio uso del campionario strumentale medievale con liuti, viella, dulcimelo, trombe, flauti, bombarda, cennamella, e delle varie percussioni, proposti nelle piú diverse combinazioni con le voci. Un’interpretazione, quella offerta dall’Anonima Frottolisti, ancora una volta attenta e capace nel ricreare dimensioni sonore di altri tempi. Franco Bruni

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