Medioevo n. 238, Novembre 2016

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MEDIOEVO n. 238 NOVEMBRE 2016

EDIO VO M E



SOMMARIO

Novembre 2016 ANTEPRIMA IL PROVERBIO DEL MESE «Fare l’avvocato del Diavolo»

CIVILTÀ COMUNALE/10 Le due Italie 5

di Furio Cappelli

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RESTAURI Un tesoro scritto sulla porpora 8 Misteri di un capolavoro 12 Teodoro torna a primavera 14 ITINERARI La promessa di Folco

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APPUNTAMENTI La Magia si rinnova L’Agenda del Mese

24 28

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64 COSTUME E SOCIETÀ GENTE DI BOTTEGA/8 Il maniscalco

STORIE

Colto, elegante e... ben armato

PROTAGONISTI

di Barbara Conti ed Emanuela Porta Casucci

Qui comincia l’Inghilterra

LUOGHI

Edgardo il Pacifico di Federico Canaccini

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36

64

MEDIOEVO NASCOSTO Monteleone Sabino

Nella tana del drago

PERSONAGGI Armando Sapori

Vivere la storia

di Maria Paola Zanoboni

di Furio Cappelli 56

56

Dossier

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CALEIDOSCOPIO STORIE, UOMINI E SAPORI Tra cucina e farmacia 106 UN ANTROPOLOGO NEL MEDIOEVO Il pianto degli eroi

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LIBRI Lo scaffale

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MUSICA Lingue e tradizioni d’Adriatico 111 L’amore secondo Jehan, poeta misterioso 112

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MEDIOEVO n. 238 NOVEMBRE 2016

MEDIOEVO

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20/10/16 13:23

MEDIOEVO Anno XX, n. 238 - novembre 2016 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it

Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina (e pp. 36/37) e pp. 50, 52-55, 56/57, 59, 60, 62, 65, 68 (alto), 75, 84/85, 89, 92-93, 95 – Mondadori Portfolio: p. 5; AGE: pp. 43, 68 (centro); Luciano Pedicini: p. 48; Bruno Balestrini: p. 51; The Art Archive: p. 66; AKG Images: p. 72, 76/77, 82 (alto); Leemage: pp. 96-97; Archivio Magliani/ Mauro Magliani & Barbara Piovan: p. 109 – Cortesia Ufficio stampa: pp. 8-11, 14-15 – Cortesia Ufficio stampa: Ottaviano Caruso: pp. 12-13 – Doc. red.: pp. 16, 22, 38-40, 46-47, 58/59, 69, 71, 73, 78, 80/81 (basso), 81, 82 (basso), 83, 86-88, 90-91, 94, 98 (basso), 105 – Cortesia Diocesi di Tortona: Saverio Lomartire: pp. 17-19 – Cortesia Alexala, Agenzia di Accoglienza e Promozione Turistica Locale della provincia di Alessandria: Giorgia Navarria: p. 20 – Ufficio stampa WeihnachtsZauber Gendarmenmarkt: p. 24 – Bridgeman Images: pp. 41, 42, 64/65, 67, 108 – Getty Images: Dennis Barnes: pp. 44/45; Ullstein Bild: pp. 80/81 (alto) – DeA Picture Library: p. 70; N. Grifoni: p. 61 – Stefano Suozzo: pp. 96-97, 98/99, 99-104 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 49, 79, 81, 85, 89, 98. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione. Editore: MyWay Media S.r.l.

Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Tel. 02 0069.6352 Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Alessia Pozzato Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Barbara Conti è storica dell’arte medievale. Claudio Corvino è antropologo. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Aart Heering è giornalista. Mila Lavorini è giornalista. Chiara Parente è giornalista. Emanuela Porta Casucci è dottore di ricerca in storia medievale. Stefania Romani è giornalista. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

Presidente: Federico Curti

Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Fax: 02 252007333 Posta: Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl - titolare del trattamento - al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere elencocompleto ed aggiornato dei responsabili.

Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Segreteria marketing e pubblicità: segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 0069.6346

In copertina vetrata dell’abbazia di Bath (Somerset) raffigurante l’incoronazione di Edgardo il Pacifico a re d’Inghilterra. XIX sec.

Direzione, sede legale e operativa: via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 0069.6369 Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1 Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com

Nel prossimo numero protagonisti

medioevo nascosto

Michele da Calci, un eretico martire per la libertà

San Caprasio e le pievi della Lunigiana

immaginario

dossier

Il cinghiale. La fortuna di un animale guerriero

Acri 1291: la caduta degli Stati crociati


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

Fare l’avvocato del Diavolo

S

i dice «fare o essere l’avvocato del Diavolo» quando, in una discussione, qualcuno sostiene idee in palese contrasto con quelle degli altri, allo scopo di dimostrarne l’incoerenza oppure per provarne la piena attendibilità, nonostante le opposizioni mostrate. L’espressione trae la sua origine dal linguaggio tecnico religioso, in particolare quello legato al processo di canonizzazione. Prima di emettere un giudizio solenne, definitivo e infallibile sulla santità di un uomo già dichiarato «beato», veniva istituito un vero e proprio processo, nel quale si fronteggiavano un «avvocato di Dio» – che doveva produrre prove tali da motivare la venerazione da parte di tutta la Chiesa – e un «avvocato del Diavolo», formalmente il «promotore della fede», che invece tentava di confutare in ogni modo le affermazioni del suo avversario, per far sí che la decisione fosse priva di dubbi, certa e perentoria. Il piú antico processo di canonizzazione fu celebrato in un sinodo tenutosi in Laterano il 31 gennaio del 993 e riguardò il vescovo di Augusta Udalrico (890-973), come ci informa lo stesso papa Giovanni XV nella enciclica Cum conventus esset, indirizzata ai vescovi e agli abati della Gallia e della Germania pochi giorni appresso. Ma la figura del «promotor Fidei» venne istituita solo nel 1587, da papa Sisto V, nel contesto della Controriforma promossa dal Concilio di Trento (1545-1563), con la collaborazione di vescovi e teologi, di Ordini religiosi sia antichi che nuovi, fondati da figure dal carisma straordinario, come Ignazio di Loyola. La figura dell’avvocato del Diavolo è stata abolita nel 1983, da papa Giovanni Paolo II, con la costituzione apostolica Divinus perfectionis magister, che ha riordinato il processo di canonizzazione, coinvolgendo molto di piú i vescovi locali nel promuovere e indagare sulle cause di canonizzazione e lasciando al promotor fidei il compito di redigere, insieme ai teologi, le conclusioni della positio, cioè la relazione finale stilata dal relatore della causa. C’è anche un’altra tradizione che riporta come vi fosse l’uso di «citare in giudizio il Diavolo», per chiedergli giustizia sui danni di cui veniva ritenuto reAssisi, basilica di S. Francesco, Chiesa superiore. Particolare della Canonizzazione di san Francesco, una delle ventotto scene del ciclo di affreschi delle Storie di san Francesco, attribuito a Giotto. 1300.

sponsabile. San Tommaso d’Aquino, per esempio, afferma che il Diavolo ha il potere di controllare gli agenti atmosferici e dunque a Satana venivano accreditate siccità e inondazioni. In questi veri e propri processi, l’indifendibile Satana avrebbe avuto anche un difensore d’ufficio, che sarebbe stato appunto… «l’avvocato del Diavolo».


ANTE PRIMA

Un tesoro scritto sulla porpora

RESTAURI • Al termine di un lungo e impegnativo

intervento, il prezioso Codex Purpureus Rossanensis torna a farsi ammirare nel Museo di Rossano

A

un anno dal suo inserimento fra i beni che l’UNESCO considera Patrimonio dell’Umanità, il Codex Purpureus Rossanensis è tornato nel Museo Diocesano di Rossano, a conclusione di un lungo e impegnativo intervento di restauro condotto a Roma, nei laboratori dell’IRCPAL (Istituto Centrale per il Restauro e la Conservazione del Patrimonio Archivistico e Librario). Il restauro e le operazioni di conservazione del Rossanensis sono stati preceduti da una serie di indagini e analisi volte a indicare l’effettivo stato di conservazione del manoscritto. Il lavoro degli studiosi ha fornito, altresí,

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significative risposte sulla storia e sull’esecuzione del volume, oltre a dettare importanti indicazioni generali sulla fattura e la lettura dei codici di analoga provenienza e periodo storico. Nei tre anni di studio e indagini, si è giunti a una «rilettura» importante del codice stesso. Il Codex Purpureus Rossanensis è uno straordinario In questa pagina due immagini del Codex Purpureus Rossanensis dopo il restauro. VI sec. Rossano, Museo Diocesano e del Codex. L’opera, di produzione bizantina, venne manoscritta e miniata su una pergamena color porpora.

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MEDIOEVO


A destra particolare della miniatura raffigurante la scelta tra Gesú e Barabba: Pilato viene raffigurato al centro, seduto nel tribunale; sui due lati, una folla di uomini gesticola e dietro alle loro teste è presente una curva ascendente di colore blu; a destra, una figura in uniforme è occupata a scrivere su una tavoletta di cera.

manoscritto, al quale la colorazione porpora delle carte membranacee (pergamene) conferisce un’estrema sacralità. Si tratta di un oggetto prezioso, manifestazione di potere, opulenza e prestigio del possessore e della committenza e non poteva che appartenere a una classe socio-economica assai elevata.

Un’opera di valore inestimabile Opera bizantina del VI secolo in pergamena color porpora manoscritta e miniata, il Codex Rossanensis è particolarmente importante sia dal punto di vista

MEDIOEVO

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Qui sopra miniatura raffigurante la Comunione degli Apostoli: sei apostoli si muovono in modo sequenziale, per ricevere il pane da Cristo; i due piú vicini al Salvatore vengono raffigurati, uno chino a ricevere il pane, l’altro con le braccia alzate in segno di ringraziamento. religioso, sia dal punto di vista della manifattura, tali da rendere il substrato scrittorio simile a pochissimi altri esemplari finora esistenti. L’opera consiste di 188 fogli di pergamena, che misurano 31 x 26 cm, numerati recto verso e scritti in caratteri in oro e argento.

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ANTE PRIMA

In alto particolare di una delle pagine miniate. In basso miniatura raffigurante il processo di Cristo e il suicidio di Giuda: nella metà superiore, Gesú è a sinistra, in piedi, al cospetto di Pilato, seduto al centro; nella metà inferiore, Giuda restituisce i trenta denari ai sacerdoti, che li rifiutano, e lo si vede poi appeso a un albero.

Molte pagine sono impreziosite da miniature che illustrano alcune fasi della vita di Gesú. Il prezioso manoscritto fu portato alla conoscenza scientifica alla fine dell’Ottocento dagli studiosi di Lipsia Oscar von Gebhardt e Adolf Harnak. Esiste una documentazione fotografica dei primi del Novecento (conservata presso l’ICCD, Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione), realizzata dallo storico Arthur Haseloff, che documenta su lastra fotografica di vetro le pagine e, in particolare, le miniature, evidenziandone lo stato di conservazione; nel 1907 lo storico dell’arte Antonio Muñoz ne curò una serie di cromolitografie e, negli anni Venti del secolo scorso, il Codex venne

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MEDIOEVO


In alto miniatura raffigurante la Parabola del buon Samaritano: Cristo si piega e stende le braccia per aiutare un uomo nudo e ferito, disteso a terra. A sinistra miniatura raffigurante Cristo fiancheggiato da due ufficiali e Barabba, tenuto per il collo con una fune da un carceriere, vestito di rosso. restaurato da Nestore Leoni, che consolidò e stirò le pergamene, utilizzando gelatina a caldo. Dal 1952, l’opera è conservata presso il Museo Diocesano di Rossano Calabro (Cosenza).

Novità e conferme Il Codex Purpureus Rossanensis, contiene 13 miniature sulla vita di Cristo, una miniatura dei quattro Evangelisti, parte della Lettera di Eusebio a Carpiano, racchiusa in una decorazione aurea, la miniatura di Marco evangelista con la Sofia ed è scritto a caratteri onciali in oro e argento e, occasionalmente, con inchiostri neri. Il recente intervento ha permesso una significativa ed esauriente lettura: sono stati definiti l’intera tavolozza e il composto

MEDIOEVO

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utilizzato per la colorazione purpurea delle pergamene. Inoltre, i risultati delle indagini hanno dimostrato che nell’intero codice è stata usata la stessa tavolozza pittorica e l’assenza di ogni tipo di preparazione delle miniature ne ha confermato l’origine bizantina. Per la sua consistenza, pur se mancante di molte pagine, il Rossanensis è il piú prezioso fra i codici onciali (scritti in caratteri greci maiuscoli) dell’antichità. Ma soprattutto è l’unico codice rilegato, i codici analoghi sono ormai solo fogli sciolti. Esso contiene l’intero Vangelo di Matteo, parte del Vangelo di Marco, mentre sono interamente perduti i Vangeli di Luca e Giovanni. Il restauro del Codex Purpureus Rossanensis è stato condotto sotto la guida della direttrice dell’ICRCPAL, Maria Letizia Sebastiani, e dell’ex direttrice dell’Istituto, Maria Cristina Misiti. Il mansocritto è stato affidato alla Responsabile del Laboratorio di Restauro, Lucilla Nuccetelli, e alla restauratrice Maria Luisa Riccardi, che si è occupata del restauro conservativo. Fondamentali sono stati inoltre i contributi di Marina Bicchieri Lorena Botti, Daniele Ruggiero, Maria Teresa Tanasi, Anna Di Majo, Francesca Pascalicchio, M. Carla Sclocchi, Piero Colaizzi e Paola Valenti. Durante il periodo di permanenza a Roma del Codex, si sono aggiunti, inoltre, significativi contributi da parte di illustri studiosi e storici. (red.) DOVE E QUANDO

Museo Diocesano e del Codex Rossano (CS), via Arcivescovado 5 Orario tutti i giorni, 9,30-12,30 e 15,00-18,00; festivi, 10,00-12,00 e 16,00-18,00; chiuso il lunedí Info tel. e fax 0983 525263 oppure tel. 340.4759406; e-mail: info@museocodexrossano.it; www.museocodexrossano.it

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ANTE PRIMA

Misteri di un capolavoro N

el 1855, il poeta inglese Robert Browning (1812-1889) compone un monologo dedicato a Filippo Lippi, artista quattrocentesco che, all’età di 15 anni, dopo sei di noviziato, prende i voti, entrando nell’Ordine dei Frati Carmelitani di Firenze, sua città natale. Nel poema, il monaco ammette la sua mancanza di vocazione, ma spiega come la vita monastica gli avesse dato l’opportunità di osservare la natura umana e la sua fisiognomica, cosí importante nelle rappresentazioni pittoriche. Amante del divertimento notturno ed estremamente sensibile al fascino femminile, Filippo si innamorò, ormai cinquantenne, di una giovane e bella monaca, che divenne la sua compagna, dopo essere stati entrambi liberati

RESTAURI • L’Annunciazione

dipinta da Filippo Lippi ha ritrovato la vivacità originaria dei suoi colori. Ma restano insoluti alcuni degli interrogativi che il magnifico dipinto ha finora sollevato

dal vincolo religioso, grazie all’intercessione del potente Cosimo il Vecchio, il quale soleva dire che «l’eccellenze degli ingegni rari sono forme celesti e non asini vetturini», riferendosi all’arte del pittore fiorentino.

Alla corte dei Medici Divenuto uno dei primi artisti ufficiali a lavorare per casa Medici, Lippi venne a contatto con Masaccio e Beato Angelico, facendosi notare per l’abilità nella descrizione di gesti ed espressioni e rivelando maggior interesse nelle relazioni umane, piuttosto che per le forme

di percezione piú astratte. Nel corso della sua produzione, definizione plastica delle figure e semplicità nella composizione si modificarono verso un modo piú lineare e calligrafico, risolvendosi in un naturalismo empirico, con schemi riferibili alla cultura fiamminga. E tra gli esempi piú interessanti di questa piú matura consapevolezza, vi è l’Annunciazione, datata 1440 e nota come Tavola Martelli, recentemente restaurata (grazie all’Associazione no profit Friends of Florence) e tornata nella chiesa di S. Lorenzo. Il complesso intervento ha

Firenze, basilica di S. Lorenzo. Un particolare della predella della Tavola Martelli, raffigurante le Storie di san Niccolò, prima (a destra) e dopo il restauro. 1440.

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MEDIOEVO


Firenze, basilica di S. Lorenzo. L’Annunciazione (o Tavola Martelli) di Filippo Lippi, prima (in alto) e dopo il restauro. 1440. parzialmente chiarito alcuni aspetti riguardanti la tecnica esecutiva, ma iconografia e committenza del dipinto sono temi ancora dibattuti a cui sarà dedicato un convegno di studi nel 2017. Rimane tuttora sconosciuto il motivo per cui la pala, la cui scena è concepita secondo una prospettiva unitaria, sia in realtà divisa al centro, composta da due scomparti disgiunti, preparati in bottega separatamente, e soggetti nel tempo a diversa conservazione: tratte presumibilmente dallo stesso tronco di pioppo, le due tavole sono formate a loro volta da due assi, connesse con chiodi e farfalle antiche. Pare invece certa la teoria che si tratti dell’unico dipinto quattrocentesco all’interno dell’edificio, recante la cornice originale, seppur ritoccata nell’Ottocento, di cui fa parte anche la predella con le Storie di san Niccolò, soggetto che si lega al santo eponimo del probabile committente il quale, alla sua morte, lasciò l’obbligo di compimento della cappella ai figli, ricchissimi mercanti legati ai Medici, tra cui

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spicca Roberto Martelli, amico di Lorenzo il Magnifico e committente di Donatello. Tuttavia, intorno a quest’opera non sussiste alcuna certezza di ordine documentario, salvo che essa è testimoniata nella collocazione attuale da tutte le fonti piú antiche, sino a Vasari. L’iconografia si riferisce a testi patristici nei quali gli angeli sono testimoni dell’Incarnazione, mentre la gestualità della Vergine, sorpresa e turbata dall’annuncio dell’arcangelo Gabriele, crea un sottile contrasto con i lineamenti purissimi dei volti.

Trasparenza e intensità cromatica Abile nel padroneggiare la tradizionale tecnica pittorica a base di tempera d’uovo, ottenendo notevoli effetti di trasparenza e intensità cromatica, Lippi dà risalto alla luminosità tramite il bilanciamento dei colori, mentre le quinte teatrali degradanti dal primo piano allo sfondo valorizzano l’impianto dell’Annunciazione, che, insieme alla Pala di San Marco del Beato Angelico, rappresenta il primo

esempio di prospettiva centrale con un unico punto di fuga. È probabile che Filippo si sia ispirato al tabernacolo dello stesso soggetto che Donatello aveva realizzato poco prima, per la cappella della famiglia Cavalcanti in S. Croce. Qui, il frate propone un insieme di originali soluzioni, equilibrate e inserite in una rigorosa prospettiva, con l’hortus conclusus sullo sfondo, abbellito dalla fonte, dove il pergolato di tralci di vite e le aiuole di rose si aprono dietro l’elegante loggiato, proscenio all’azione principale; le dettagliate architetture, il cielo striato da nubi sottili e l’ampolla trasparente di limpida acqua virginale in primissimo piano contribuiscono a regalarci una delle piú alte espressioni dell’arte rinascimentale. Grazie al restauro, si è recuperata la leggibilità di alcuni dettagli, come le aureole o le tre sfere dorate nella scena centrale dell’Elemosina nella predella, alla cui esecuzione hanno probabilmente partecipato anche Giovanni di Francesco e il Pesellino. Mila Lavorini

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ANTE PRIMA

Teodoro torna a primavera RESTAURI • Il Tòdaro, la statua che ritrae san

Teodoro, primo protettore di Venezia, è stato temporaneamente rimosso dalla sua sede, per sanare le ferite causate dall’esposizione agli agenti atmosferici

È

in corso il restauro di un’opera simbolo della Serenissima, la statua del «Tòdaro», che, dalla prima metà del Trecento, ha svettato per secoli su una colonna in piazzetta San Marco, accanto al celebre Leone Marciano in bronzo, nell’area rivolta verso il molo. Nel 1940, per scongiurare eventuali danni legati al conflitto mondiale, l’opera venne trasferita nell’abbazia di Praglia, vicino a Padova, per tornare in Laguna otto anni piú tardi. L’originale fu allora sistemato sotto il portico del cortiletto dei Senatori, all’interno di Palazzo Ducale, mentre sopra la colonna ne venne collocata una replica. La scultura è dedicata a san Teodoro, il primo protettore di Venezia, rappresentato nell’istante in cui uccide un drago: il santo bizantino, che la storiografia medievale dipinge come guerriero valoroso, incarna la grandezza della città e la sua

In questa pagina una veduta d’insieme e il particolare del busto del Tòdaro, la statua che raffigura san Teodoro, primo protettore della città di Venezia.

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In alto immagini della parte superiore del Tòdaro, ricavata dalla statua di una figura loricata realizzata al tempo dell’imperatore Adriano (117-138 d.C.). A destra la testa del drago ucciso dal santo. vocazione a fondere, sintetizzandole, culture e civiltà lontane. L’effigie stessa è frutto dell’accorpamento di parti diverse per materiali, età e luoghi d’origine.

Quasi un patchwork La testa in marmo bianco, che proviene da cave della Turchia occidentale, è riconducibile all’epoca costantiniana; il busto sembra appartenere a una figura loricata scolpita durante l’impero di Adriano, mentre braccia, gambe e drago sono lavorati nel marmo del Mar di Marmara, stretto fra i mari

MEDIOEVO

novembre

al rilievo, con documentazione del degrado, sono seguite le analisi chimico-fisiche sui diversi tipi di marmo, e quelle magnetometriche, volte a rilevare la presenza di perni, non visibili a occhio».

Problemi risolvibili

Nero ed Egeo. Lo scudo, infine, è in pietra d’Istria e le altre armi, dell’età di Mezzo, sono in metallo. Il Tòdaro conta ulteriori elementi metallici, introdotti, con funzione strutturale, nella parte inferiore e in quella posteriore, in occasione di un restauro avvenuto nel 1969: proprio grazie alle parti bronzee, il manufatto non presenta problemi statici, come spiega Mario Massimo Cherido, amministratore unico di Lares Lavori di Restauro Srl, che segue l’intervento, reso possibile dalla collaborazione fra Comune di Venezia, Fondazione Musei Civici di Venezia e Fondaco, con il finanziamento di Rigoni di Asiago. «Il recupero del complesso scultoreo – racconta Cherido –, che dovrebbe concludersi nella tarda primavera del 2017, muove da indagini preliminari:

«È stato quindi il turno di prove soniche, per determinare l’esistenza di lesioni o fessurazioni nel materiale. Dal punto di vista conservativo sono stati individuati alcuni problemi, comunque risolvibili. Il Tòdaro ha sofferto molto, in modo particolare nelle parti piú esposte, come il braccio con la mano che regge la lancia. Nei marmi la decoesione cristallina, cioè il distacco di granuli, è dovuta al fatto che l’opera, collocata sulla colonna a una notevole altezza, è stata a lungo esposta agli attacchi di venti, nebbie saline, inquinamento, alghe. Inoltre c’erano stuccature debordanti, applicate in passato, in epoche diverse». Il lavoro di pulitura e consolidamento viene portato avanti sotto gli occhi del pubblico, poiché i ponteggi del cantiere sono allestiti in un ambiente, riscaldato in inverno, racchiuso da lastre trasparenti. Il processo si concluderà con un trattamento protettivo, da applicare sui differenti materiali. Stefania Romani

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ANTE PRIMA

La promessa di Folco ITINERARI • L’abbazia di

S. Maria di Rivalta Scrivia, nel territorio di Tortona, è una delle principali fondazioni cistercensi del Piemonte. Che, fra il X e il XII secolo, prosperò grazie alla messa a coltura delle terre che controllava

N

el percorrere l’Autostrada Milano-Genova, tra Tortona e Novi Ligure, si nota un’antica architettura religiosa di notevoli dimensioni, ora addossata al guardrail e circondata da campi coltivati. È l’abbazia cistercense di S. Maria, edificata nel XII secolo lungo un tratto della Via Francigena e ritenuta una delle costruzioni monastiche piú imponenti dell’area alessandrina. Nel Medioevo, il monastero, eretto al di fuori dei centri abitati, si trovava in mezzo alla natura, fra i boschi e gli acquitrini della Frascheta, com’era denominata la regione paludosa nell’Oltrescrivia. La sua nascita è dovuta a una piccola comunità, composta sia da laici che da religiosi, già formatasi nel 1151 attorno a una preesistente chiesetta dedicata a san Giovanni. In pochi anni, grazie al fervente contributo di Ascherio, un aristocratico laico che, abbracciata la vita monastica, venne nominato abbas nel 1155, i frati crebbero di numero. Inoltre, nel decennio 1155-1165 l’abate, approfittando della crisi politico-sociale provocata a Tortona dalle vicende legate alla lotta del Comune contro l’imperatore Federico I, s’impegnò attivamente

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In alto la facciata della chiesa abbaziale di S. Maria (Rivalta Scrivia, Tortona). La costruzione dell’edificio venne avviata nel 1180. A destra la torre campanaria. Nella pagina accanto l’interno della chiesa, che presenta una pianta a croce latina, suddivisa in tre navate.

novembre

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nel rafforzare la base fondiaria del luogo di culto. Le origini del complesso conventuale risalgono al 16 gennaio 1180, quando Folco, abate del monastero cistercense di Lucedio, nel Vercellese, promise a Oberto, vescovo di Tortona, di trasformare la chiesa di Rivalta in abbazia del suo ordine e di rispettare i diritti della Chiesa tortonese.

Una formazione «spontanea» Rivalta, quindi, non è un monastero di origine feudale, voluto dal potere politico, soprattutto in propria funzione, ma una formazione, definita da alcuni studiosi «spontanea», nata per impulso religioso e sociale, in armonia con l’episcopato locale e sotto la sua tutela. Non si tratta di un caso isolato: nella zona dell’odierna provincia di Alessandria, immediatamente prima della fondazione del capoluogo e contemporaneamente a essa, si assiste a una fervente attività

monastica per opera, in massima parte, di cenobi cistercensi, impegnati nella valorizzazione terriera, nella rivitalizzazione del tessuto viario, nella fondazione di grange e di nuclei demici (vedi box qui sotto). Tuttavia, la prospettiva topografica del monastero rivaltese risulta assai diversa da quella degli

altri enti religiosi: dall’interno della diocesi di Tortona, l’abbazia divenne un centro d’irradiazione soprattutto nella diocesi stessa, in ogni direzione. La costruzione della chiesa si colloca tra il gennaio 1180 e il febbraio 1183. Nel 1180, nel 1187 e nel 1217, rispettivamente papa Alessandro

Da monaci a imprenditori agricoli Tra il X e il XII secolo, la fondazione di nuove abbazie negli spazi incolti segna un momento decisivo nella storia del contado. Essa è parte di un vasto programma di valorizzazione delle terre abbandonate e svolge un ruolo di controllo e difesa dei maggiori tracciati viari. In quel periodo, gli Ordini religiosi di derivazione benedettina sono i soli a conoscere mezzi e tecniche, tali da poter attuare le trasformazioni agricole nelle zone paludose o interessate da notevoli ostacoli naturali. Grazie all’alta redditività dovuta al paziente lavoro non remunerato di religiosi contadini, ai lasciti e alle eredità di privati, all’impiego delle migliori intelligenze di quel tempo e di un numero imponente di lavoranti, le abbazie si qualificano come

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imprese di trasformazione fondiaria. Ai tanti conversi, esonerati dalla lettura e dalla meditazione, spetta il merito di aver bonificato e lavorato i vasti possedimenti del monastero, impiantando «grange» (dal francese grange, granaio), aziende agricole, poste a distanza superiore a un giorno di cammino dall’abbazia, create per estendere i suoli messi a coltura, razionalizzarne lo sfruttamento e ampliarne la rete idrica. I terreni posseduti dal monastero di Rivalta producevano in grande quantità: frumento, segale, orzo, lino, legumi, biada e fieno. Notevole sviluppo ebbe anche il settore silvo-pastorale, incentivato sui boschi dell’Appennino ligure e sui pascoli della Frascheta. L’allevamento riguardava soprattutto pecore, capre, giumente, cavalli, buoi, asini, anche per conto terzi.

Nel 1284, per esempio, 120 pecore furono consegnate in soccida (contratto diretto a costituire un’impresa agricola di natura associativa) da un monastero femminile di Genova ai confratelli di Rivalta. L’espansione del cenobio rivaltese venne frenata sul crinale dell’Appennino ligure dai Cistercensi di S. Andrea di Sestri e, a ovest, dal monastero cistercense di Tiglieto. Già nel 1190 il Capitolo generale di Cîteaux si occupava di una lite tra S. Andrea e Rivalta inerente a grange confinanti e simili contrasti si trascinarono per tutto il Duecento. Non a caso, negli stessi anni, i rapporti tra Genova e Tortona furono piuttosto tesi, in particolare per definire le rispettive aree di influenza territoriale. Nel 1202 si giunse cosí a una convenzione, utilizzando il corso dello Scrivia come confine.

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ANTE PRIMA III e gli imperatori Enrico VI e Federico II di Svevia accolsero l’abbazia e i suoi possessi sotto la propria protezione. Inoltre, concessero all’ente religioso privilegi giuridici e patrimoniali, per esempio l’esenzione dal pedaggio in Gavi e Alessandria, il diritto di fare legna e di pascolare bestiame nelle terre regie del Tortonese, dell’Alessandrino, di Casale Sant’Evasio (Casale Monferrato), di Frassineto, della curtis di Gavi. All’inizio del XIII secolo, i possessi

conduzione diretta delle grange. Nei primi anni del Quattrocento il monastero, compreso nel ducato di Milano, subí i contraccolpi delle convulse vicende politico-militari verificatesi alla morte del duca Gian Galeazzo Visconti. Considerato una piazzaforte avanzata ai confini occidentali del ducato milanese, nella prima metà del XV secolo il cenobio fu circondato da un massiccio muro di cinta e presidiato, secondo le necessità militari, da truppe ducali. Il 23 dicembre 1478,

demolizione di una porzione del monastero e della chiesa, addossata al grandioso «edificio da nobile», che l’Airoli fece costruire. Adesso la chiesa di S. Maria, caratterizzata da moduli strutturali e decorativi che si ispirano all’architettura borgognona, uniti a stilemi tipici della tradizione costruttiva lombarda, viene considerata come un precoce esempio di quello «stile di transizione», che attribuirebbe al Piemonte meridionale una priorità di rinnovamento rispetto alla Lombardia, dove, ancora nel Duecento, gli elementi d’Oltralpe venivano plasmati secondo un gusto locale, assai meno condizionante nel Basso Piemonte.

Fedele alla Regola

patrimoniali di S. Maria erano dislocati su percorsi di valli fluviali e passi montani, lungo lo Scrivia, fra Tanaro e Po, in val Lemme, in alta val Borbera, in tutta l’area di Marcarolo, attraversata da una Via del Sale.

Le prime difficoltà Il lento declino del monastero cominciò alla fine del Duecento. Acquisti di fondi sono ancora documentati nei primi anni del Trecento, ma, con il passare dei decenni, i documenti che concedono terreni in enfiteusi o in affitto rivelano le difficoltà organizzative dell’ente e la scarsità di religiosi e conversi in grado di accollarsi la

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con provvedimento di papa Sisto IV, fu definitivamente trasformato in commenda. Unito nel 1538 da papa Paolo III Farnese alla Congregazione cassinese di S. Giustina, venne incorporato nel monastero di S. Nicolò del Boschetto di Genova. La presa di possesso dei Benedettini risale al 1539. Il 30 gennaio 1546 il capitolo di S. Nicolò vendette i terreni, gli edifici e i diritti inerenti ai beni dei monaci di Rivalta ad Adamo Centurione, patrizio di Genova, il quale, pochi anni piú tardi, li liquidò ad Antonio Carcassola. Nel 1653 l’acquisto della tenuta di Rivalta da parte del genovese Agostino Airoli portò alla

La zona absidale, composta da un presbiterio a terminazione rettilinea, fiancheggiato da cappelle laterali rettangolari con volte a botte archiacuta, fu innalzata nel primo ventennio del Duecento. Ancora riferibile ai dettami prescritti nella Regola di san Bernardo, rispecchia un linguaggio architettonico legato al tardo-romanico borgognone (con riferimenti all’abbazia cistercense di Fontenay). In seguito, nel lato destro del transetto si eresse l’ala riservata ai frati, che comprendeva la sacrestia, l’aula capitolare, il parlatorio e la sala dei monaci. In una seconda fase fu portata a termine la costruzione del transetto e delle navi. La loro architettura risente piú marcatamente del gusto gotico cistercense, con archi a sesto acuto e volte ogivali costolonate. Inoltre, le navate appaiono scandite dall’alternanza di pilastri forti, con differente sezione, e di pilastri deboli, a forma cilindrica, costruiti in pietra e mattone. L’edificio cultuale, sobrio e severo nei suoi lineamenti esterni, si presume completato entro il 1260, nonostante le diverse vicende del cantiere, testimoniate anche dall’estrema varietà dei pilastri: novembre

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cruciformi, circolari e ottagonali. Molto probabilmente, l’ala dei conversi, parallela a quella dei monaci sul lato opposto del chiostro e collegata al tempio con un accesso posto nella prima campata, era già ultimata alla fine del XII secolo. In questa parte della fabbrica si sviluppavano il cellarium (dispensa), il dormitorio, il refettorio e altri locali di servizio. L’unico vano rimasto è il cellarium; una sala divisa da cinque serie di campate e coperta da volte in mattone ad anelli concentrici, forse seicentesche. Attorno al nucleo originario furono costruiti anche i laboratori dei conversi, gli edifici dell’economato e gli ambienti per la ricezione dei «forestieri» e l’assistenza di poveri e ammalati. Un poderoso muro di cinta circondava e delimitava gli spazi monastici. Oggi, di tutti questi fabbricati, sopravvive solo la sala capitolare. Affacciata su un chiostro cinquecentesco tamponato, è scandita in nove campate, coperte da volte a crociera archiacute, munite di ogive poggianti su quattro snelle colonne lapidee.

Un estremo rigore formale Inizialmente la chiesa, seguendo la rigida Regola monastica cistercense, che proibiva la presenza di pitture o sculture, tali da limitare l’attenzione e la concentrazione dei fedeli, non accolse nessun dipinto. I capitelli in pietra, le mensole d’imposta e le cornici appaiono definiti da un estremo rigore formale, mentre la scelta decorativa privilegia motivi vegetali e geometrici stilizzati. Adesso, invece, una notevole quantità di affreschi orna le pareti e i pilastri, creando un curioso contrasto con la scarna e spoglia sequenza di muri e strutture originarie. Nel Quattrocento le rigide regole cistercensi si erano ormai affievolite e la devozione popolare dimostra di aver lasciato una notevole traccia nell’arte locale. Le raffigurazioni riguardano soprattutto santi ai quali

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Sulle due pagine affreschi di Franceschino Boxilio. XV sec.; da sinistra, in senso orario: Vergine con il Bambino e un monaco certosino; un particolare della volta dell’abside; Crocifissione.

la gente di campagna o del suburbio ha dedicato forme di devozione particolari: la Vergine, San Rocco, Sant’Antonio abate, San Cristoforo, San Sebastiano, Santa Barbara. Dipinti tra la seconda metà del XV secolo e il primo decennio del successivo, i personaggi, posti direttamente nel luogo di preghiera destinato ai fedeli, hanno un’evidente intenzione votiva. Inoltre, la loro collocazione dà origine a una sorta di sacra rappresentazione su piani prospettici

liberi e disposti in profondità, trasmettendo all’ambiente una sensazione di ironica letizia, dovuto all’insopprimibile gusto per il colore, la figura e la favola. A realizzare queste opere sono stati per la maggior parte frescanti anonimi, che condividevano una stessa corrente d’influenza lombarda, rispecchiandone le varianti in una cultura periferica. I linguaggi artistici che si possono notare nella decorazione pittorica

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ANTE PRIMA La parentela sbagliata La maggior parte degli affreschi presenti a Rivalta è opera di frescanti anonimi. Invece è certa la presenza del pittore Franceschino Boxilio, che firma due opere: l’imponente San Cristoforo, nel quarto pilastro destro, e le due scene con la Vergine, il Bambino e un monaco certosino, con la sovrastante figura del Cristo Redentore. Esponente della scuola pittorica quattrocentesca locale, Franceschino appartiene a una famiglia di artisti attivi nel Piemonte sud-orientale tra il XV e il XVI secolo. La loro bottega, seppur ancora fortemente legata alla tradizione devozionale e popolare del Quattrocento, risulta già aggiornata su formule stilistiche di studiata raffinatezza. A Franceschino viene sovente associato Manfredino Boxilio. A lungo considerati fratelli, Manfredino e Franceschino sono in realtà padre e figlio e devono la loro modesta notorietà a un documento, o meglio al fraintendimento di un documento, che li nomina in relazione alla decorazione della Sala della Balla nel Castello Sforzesco. Si tratta di una lettera inviata da Bartolomeo Calco, segretario del ducato milanese, al Podestà di Treviglio, perché inviti gli artisti Zenale e Butinone a recarsi a Milano per decorare la Sala della Balla. Tale missiva fu spedita anche ai Referendari di Como, Pavia, Cremona, Tortona, Novara, Lodi e Monza. A ciascuno si chiedeva di intervenire su uno o piú pittori attivi in quella città. Cosí a Tortona si cercano «Manfrino et el fratello». I nomi citati non formano l’élite della pittura lombarda della fine del secolo, se si eccettuano Butinone e Zenale, ma, quel che piú conta, non sappiamo quanti e quali pittori siano stati poi effettivamente coinvolti nella decorazione della Sala della Balla. sono due. Uno, piú antico, in cui si evince la lezione dei modelli tardo gotici, vitale in ambiente milanese fin oltre il settimo decennio del Quattrocento, favorito dalle stesse committenze sforzesche. Un altro, successivo, in cui si osserva un avvicinamento a moduli che al dato decorativo sostituiscono l’attenzione al reale, alla semplificata e razionale definizione dello spazio, al plasticismo delle forme, ottenuto attraverso il colore e la luce, rapportati alla nuova visione rinascimentale. Gli esempi lombardi prima tardo gotici (gli Zavattari, Michelino da Besozzo, Bonifacio Bembo), poi d’età rinascimentale (Foppa, Butinone, Bergognone) sono acquisiti, assimilati e mediati dai pittori in modi espressivi di stile e di forma differenti, con risultati qualitativamente diversi in dipendenza dall’abilità di ciascuno nel rielaborare in una visione piú personale la cultura referente.

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Le scene della parete di fondo del presbiterio e alcune figure di santi nel primo pilastro ottagonale sinistro (1460 circa) sono considerate tra le immagini piú antiche. Connotate dall’allungamento delle figure, dalla ricchezza nella partitura decorativa dei troni, dalla rigida posizione frontale dei personaggi, testimoniano come lontano dai centri maggiori si seguivano schemi arcaici, in cui il racconto e l’immagine votiva si rappresentavano con semplicità.

Caratteri ricorrenti Il secondo gruppo di opere appartiene al primo decennio del Cinquecento e comprende alcune immagini nel primo pilastro ottagonale sinistro. Le pitture palesano un’uniformità nel ripetersi della forma ovale del volto, che pare allungarsi nella parte superiore del cranio, delle identiche aureole schiacciate, delle

La scala di accesso al dormitorio dei monaci nel transetto di destra della chiesa di S. Maria. palpebre fortemente evidenziate. Il repertorio iconografico annovera piú di trentadue santi, effigiati singolarmente, oppure accostati l’uno all’altro in modo casuale, perché facili da assommare, soprattutto sui pilastri. Ciascuno è di volta in volta caratterizzato dagli attributi distintivi, che la tradizione artistica gli aveva assegnato, cosí da essere riconosciuto con facilità dai fedeli. Le ripetute rappresentazioni di san Bernardo di Chiaravalle, riformatore dell’Ordine cistercense, e di san Benedetto, fondatore del monachesimo occidentale, ricordano ai devoti l’origine storica e religiosa dell’edificio. Chiara Parente DOVE E QUANDO

Abbazia di S. Maria (Rivalta Scrivia) Tortona, viale Di Rivalta 1 Info Comitato Amici dell’Abbazia di Rivalta Scrivia: cell. 329 9172442 novembre

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ANTE PRIMA

Cristo e il potere: un rapporto complesso

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

L’

Opera del Duomo di Orvieto, in collaborazione con la Società Internazionale per lo Studio del Medioevo Latino (SISMEL), organizza, dal 10 al 12 novembre 2016, il convegno Cristo e il potere, dal Medioevo all’età moderna. Teologia, antropologia e politica. Si tratta di un incontro di studio che segue – a due anni di distanza – il congresso internazionale Il «Corpus Domini». Teologia, antropologia e politica, tenutosi in occasione della celebrazione del 750° anniversario della Bolla Transiturus. Di quest’ultimo sono apparsi già gli Atti nella prestigiosa collana mediEVI pubblicata dal SISMEL con il contributo dell’ente orvietano che sovrintendente alla conservazione e alla valorizzazione della Cattedrale. Il volume è stato curato da Laura Andreani e Agostino Paravicini Bagliani. Il prossimo convegno si terrà in Orvieto negli spazi del Museo «Emilio Greco» (piazza del Duomo) e vedrà la partecipazione di studiosi provenienti da diversi Paesi a testimonianza della rilevanza del tema intorno al quale si discuterà. Infatti – come hanno osservato i promotori dell’iniziativa – la regalità di Cristo costituisce «uno spazio culturale in cui i poteri religiosi e politici si articolano e confliggono, in un intreccio di simboli e di forze». Sarà interessante seguire come l’elaborazione ideologica del tema sia stata di continuo rimessa in discussione alla

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In alto miniatura raffigurante Cristo in maestà, dal Lezionario di Spira, Codex Bruchsal. 1220 circa. Karlsruhe, Badische Landesbibliothek. A sinistra una veduta del Duomo di Orvieto. La prima pietra dell’edificio venne posata nel 1290, ma il completamento dei lavori si ebbe solo dopo la metà del Cinquecento. luce dell’affermazione di nuovi personaggi sulla scena politica e della formazione di nuovi assetti sociali e istituzionali. Altrettanto interessante risulterà ascoltare le analisi su come la tematica sia stata declinata, in maniera diversa, nell’Occidente e nell’Oriente cristiani, e di come sia stata presentata nelle cattedrali e nelle chiese europee. Per informazioni piú dettagliate si consulti il sito internet dell’Opera del Duomo di Orvieto (www.opsm.it). Giuseppe M. Della Fina novembre

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ANTE PRIMA APPUNTAMENTI • A Berlino si

riaccendono le luci dei mercatini di Natale. Una tradizione gioiosa e coloratissima, che affonda le sue radici nelle fiere che si allestivano in età medievale

La Magia si rinnova D

al 21 novembre al 1° gennaio 2017 tornano i mercatini di Natale di Berlino, una tradizione risalente al Medioevo, periodo in cui l’attuale capitale tedesca prese forma, affermandosi poi nel XV secolo come il centro piú importante della Marca di Brandeburgo. Molti mercatini si svolgono ancora nella «vecchia Berlino», corrispondente al centro dell’odierno quartiere Mitte. Oggi la capitale tedesca propone ai cittadini e ai numerosi turisti oltre cinquanta mercatini natalizi, uno in ogni angolo e ognuno diverso dagli altri. Il piú famoso è il WeihnachtZauber (Magia di Natale), allestito in Gendarmenmarkt, una delle piazze piú belle della città, con oltre cento stand che vendono oggetti provenienti da tutto il mondo (bambole, ceramiche, maglieria), nonché cibi della tradizione natalizia tedesca.

Per i giovani e per i piú piccoli È invece dedicato ai giovani il Weihnachtsmarkt City, allestito in Sophienstrasse, dove una quarantina di espositori propongono oggetti d’arte e artigianato, articoli in vetro e specialità dolciarie. In un’atmosfera d’altri tempi, le 130 casette di legno illuminate e decorate del Weihnachtsmarkt in Opernpalais propongono monili, vetri e ceramiche artistiche del Brandeburgo e dei Monti Metalliferi, oltre a piatti tipici

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In alto Berlino. La piazza Gendarmenmarkt gioiosamente «occupata» dagli stand del WeihnachtZauber (Magia di Natale). Qui sopra un artigiano del legno al lavoro in uno stand. come le frittelle di patate con puré di mele. Il piú adatto alle famiglie è il Mercatino di Alexanderplatz, che si sviluppa in mezzo a una pista di ghiaccio, un grande presepe, un albero di Natale e un paese delle fiabe con giostre per i bambini. Tiziano Zaccaria novembre

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AGENDA DEL MESE

Mostre VENEZIA VENEZIA, GLI EBREI E L’EUROPA. 1516-2016 Palazzo Ducale, Appartamenti del Doge fino al 13 novembre

Organizzata per il cinquecentenario dell’istituzione del Ghetto di Venezia, la mostra descrive i processi che sono alla base della realizzazione e della nascita del primo «recinto» destinato agli Ebrei creato al mondo, ma, nel contempo, allarga lo sguardo alle relazioni stabilite con il contesto degli altri quartieri ebraici (e non solo) italiani ed europei. L’iniziativa intende mettere in luce la ricchezza dei rapporti tra Ebrei e Venezia, tra Ebrei e

società civile nei diversi periodi della loro permanenza in laguna, in area veneta e in area europea e mediterranea. Dipinti, disegni, libri, documenti, ricostruzioni multimediali concorrono a raccontare una lunga storia di relazioni e di scambi culturali. Con l’obiettivo di divulgare una maggiore consapevolezza delle diversità culturali esistenti in Europa. info tel. 041 2715911; e-mail: info@fmcvenezia.it; http://palazzoducale.visitmuve.it

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a cura di Stefano Mammini

CASTEL DEL MONTE MATEMATICA E BELLEZZA. FIBONACCI E IL NUMERO AUREO fino al 15 novembre

Nell’immaginario collettivo, l’arte e la matematica sembrano viaggiare su strade parallele, ma sono in realtà strettamente connesse tra loro. Dal loro connubio nasce questa mostra, che trova in Castel del Monte la sua collocazione ideale, considerando come nell’idea costruttiva di Federico II la proporzione numerica si sia manifestata al suo livello piú elevato. La rassegna presenta le riproduzioni di capolavori di Botticelli, Giorgione, Giotto, Leonardo da Vinci e una planimetria di Castel del Monte e del suo portale, poste in relazione con opere di artisti contemporanei quali Alberto

Biasi, Gregorio Botta, Bruno Ceccobelli, Giorgio de Chirico, Piero Guccione, Giacomo Manzú, Piero Pizzi Cannella e Oliviero Rainaldi. info tel. 0883 569997; www. casteldelmonte.beniculturali.it ROMA LA SPINA. DALL’AGRO VATICANO A VIA DELLA CONCILIAZIONE Musei Capitolini fino al 20 novembre

Nell’anno in cui gli occhi sono puntati su San Pietro e i piedi di tanti pellegrini attraversano

via della Conciliazione, l’esposizione propone un viaggio a ritroso nel tempo nei luoghi che conducono alla basilica di S. Pietro, raccontandone le profonde trasformazioni dall’antichità fino al Giubileo del 1950, anno in cui ne venne completato l’arredo urbano. La mostra rievoca luoghi che non esistono piú, ma che sono stati a lungo custodi della memoria degli avvenimenti storici che hanno portato alla strutturazione di Roma quale è oggi, capitale dello Stato e, allo stesso tempo, centro simbolico della cristianità. Il filo conduttore della rassegna è la Spina nel doppio significato di toponimo derivante dalla forma allungata dell’isolato rinascimentale, oggi scomparso, e di «corpo estraneo» che, con le demolizioni, di fatto è stato estratto dal tessuto connettivo della città. La demolizione della Spina dei Borghi e l’apertura di via della Conciliazione materializzarono la fine del dissidio tra Stato e Chiesa grazie ai Patti Lateranensi: il pesante intervento è, infatti, giustificato dalla volontà di modificare la visuale del Vaticano anche

sotto il profilo simbolico. info tel. 060608 (attivo tutti i giorni, 9,00-21,00); www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it PERUGIA I TESORI DELLA FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI PERUGIA E IL CARAVAGGISMO NELLE COLLEZIONI DI PERUGIA Palazzo Lippi Alessandri fino al 20 novembre

L’esposizione marca i vent’anni di collezionismo della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e ne propone le opere d’arte acquisite. Si tratta di oltre 50 dipinti, rappresentativi non solo delle esperienze artistiche che si affermano in Umbria dal Trecento al Settecento, ma anche di altri aspetti della cultura figurativa italiana dal Rinascimento al Barocco. Nelle stesse date e negli stessi spazi è inoltre allestita la rassegna dedicata al caravaggismo nelle collezioni di Perugia. Una doppia occasione, quindi, per ammirare le opere piú importanti della collezione della Fondazione Cassa di Risparmio. info: tel. 075. 5724563; e-mail: info@fondazionecariperugiaarte.it; www.fondazionecariperugiaarte.it novembre

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della storia della grancontessa. È la prima volta che la collezione viene esposta nel monastero fondato dai Canossa e caro a Matilde che qui volle essere sepolta. Il percorso espositivo è allestito nel Refettorio Monastico di San Benedetto Po, sito cluniacense europeo per eccellenza, e offre al visitatore un viaggio nel tempo attraverso un’ampia serie di immagini iconografiche riportate su Canossa, papa Gregorio VII e i suoi successori oltre all’imperatore tedesco Enrico IV, il grande antagonista dell’incontro epocale di Canossa. info Ufficio IAT-Informazione e Accoglienza Turistica: tel. 0376 623036; iat@oltrepomantovano.eu CUNEO ARTIERI FANTASTICI. CAPOLAVORI D’ARTEDESIGN Complesso monumentale di San Francesco fino al 27 novembre

Realizzata nell’ambito del progetto «Il cuNeo Gotico», la mostra presenta rari e fantasiosi «artefatti», accomunati dal legame con lo spirito neogotico che pervade il Cuneese. A curare la mostra

SAN BENEDETTO PO (MANTOVA) MEMORIAE MATHILDIS Ex Refettorio Monastico fino al 27 novembre

Il mito di Matilde di Canossa, signora del Medioevo, viene riletto attraverso la preziosa e unica collezione di Giuliano Grasselli, precursore e cultore

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stampe, incisioni, libri antichi inediti, quadri e oli. Testimonianze preziose che raffigurano Matilde dai mille volti e che si sono succedute nei secoli nell’immaginario collettivo storico e letterario, dedicando spazio anche ai grandi personaggi storici con cui si relazionò la signora di

è il Seminario di Arti Applicate/MIAAO di Torino e vi partecipano la Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte di Milano, nonché, per la prima volta in Italia, i Compagnons du Tour de France, una delle tre organizzazioni del Compagnonnage, dichiarata nel 2010 Patrimonio Culturale immateriale dell’UNESCO e rappresentante di un’illustre tradizione di «artigianato esoterico». La sezione «Quattro fantastici» dedica ampio spazio a illustrazioni, fumetti e graphic novel, mentre la zona denominata «Sette cappelle per sette sorelle», propone installazioni situate appunto nelle sette cappelle della chiesa di S. Francesco, il cui numero rimanda alle eccellenze delle arti applicate nelle «sette sorelle» – Alba, Bra, Fossano, Mondoví, Saluzzo, Savigliano e Cuneo – le principali città del Cuneese. info www.ilcuneogotico.it ZURIGO L’EUROPA NEL RINASCIMENTO. METAMORFOSI 1400-1600 Museo Nazionale fino al 27 novembre

Il Rinascimento ha segnato alcune delle trasformazioni piú importanti nella storia dell’umanità, quali l’invenzione della stampa a caratteri mobili, la scoperta dell’America, nuove conoscenze mediche o il passaggio al realismo in pittura. Ma nulla di tutto ciò avrebbe potuto essere concepito e realizzato senza un intenso interscambio. Il Rinascimento è stato una cultura del dialogo, dello scambio di idee, delle metamorfosi e del transfer culturale su ampie distanze di spazio e di tempo. Da questi presupposti nasce la nuova

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AGENDA DEL MESE

mostra allestita al Museo Nazionale di Zurigo, che invita a scoprire le tracce di questo transfer. Opere d’arte, strumenti e oggetti di uso quotidiano si rivelano fonti storiche di grande valore, attraverso cui è possibile osservare la diffusione di stili, motivi e idee in tutta Europa. Nuove tecniche favorirono l’acquisizione del sapere anche al di fuori delle cerchie ristrette degli studiosi, aumentando cosí il livello di istruzione generale. Ma, allo stesso tempo, quest’epoca contraddistinta da grandi innovazioni e sviluppi avveniristici segnò anche la riscoperta del mondo classico. Idee e teorie antiche furono riprese e rielaborate secondo criteri moderni. In altre parole, restituite a nuova vita. info www.nationalmuseum.ch MOSCA RAFFAELLO. LA POESIA DEL VOLTO. OPERE DALLE GALLERIE DEGLI UFFIZI E DA ALTRE COLLEZIONI ITALIANE Museo Puškin fino all’11 dicembre

La mostra presenta per la prima volta al pubblico russo alcune tra le piú significative opere di Raffaello. Il percorso espositivo è focalizzato sulla

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cosiddetta poesia del volto e, attraverso una selezione di capolavori della ritrattistica provenienti da collezioni italiane, illustra l’incarnarsi degli ideali di perfezione artistica maturati dall’Urbinate. Caratteristica essenziale del progetto è l’interdisciplinarità, segnata dal confronto diretto tra l’opera di Raffaello e quella di autorevoli rappresentanti della poesia e della letteratura, sia italiana che russa. Autori quali Vasari, Castiglione, Aretino, Bembo, Dostoevskij e Puškin accompagnano le opere dell’artista nel percorso della mostra con descrizioni, testimonianze e richiami. La mostra vanta opere iconiche, come la Madonna del Granduca, proveniente dalla Galleria Palatina e tanto amata dal granduca Ferdinando III di Lorena – che la portava con sé anche in viaggio – da prenderne il nome; l’Autoritratto, dalla

Galleria degli Uffizi; la Testa di Angelo, realizzato da un Raffaello diciassettenne e conservata presso la Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia; La Muta, proveniente dalla Galleria Nazionale delle Marche di Urbino, città Natale del Maestro, dove sono evidenti i riferimenti alla Monna Lisa di Leonardo. info www.arts-museum.ru

PRIVERNO (LATINA) IL TRITTICO DELLA BOTTEGA DEGLI EMBRIACHI. DEPOSITI IN MOSTRA #5 Abbazia di Fossanova fino al 12 dicembre

L’esposizione è il quinto capitolo di Depositi in mostra, un progetto che persegue obiettivi molteplici e concatenati. Il primo: valorizzare beni da tempo sottratti al pubblico, reimmettendoli cosí nei circuiti della fruizione e della ricerca. Il secondo: porre al centro musei, aree archeologiche e luoghi della cultura del Polo che si trovano fuori dall’interesse della collettività e del turismo. Il terzo obiettivo coinvolge il piano strategico: si tratta di rendere forte e concreto il patto di sinergia e reciproca collaborazione con le differenti realtà operanti sul territorio nel campo della conservazione e gestione dei beni culturali. La mostra presenta un trittico in osso, un perfetto esempio di oggetto destinato alla devozione privata, largamente diffuso sia in ambito ecclesiastico che civile in epoca tardo-medievale e prodotto da un laboratorio tra i piú raffinati per questa tipologia di opere, la bottega novembre

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degli Embriachi. Il soggetto prescelto, la Madonna con il Bambino tra i santi Pietro e Paolo, lascia supporre che il destinatario del trittico fosse di ambiente romano. info tel. 0773 939061; http:// polomusealelazio.beniculturali.it MILANO LEONARDO SCULTORE. HORSE AND RIDER Institut Francais fino al 23 dicembre (dal 25 novembre)

Leonardo da Vinci torna a Milano con una straordinaria opera scultorea, proposta per la prima volta al pubblico italiano: si tratta di Horse and Rider, un bronzo realizzato dal modello in cera di Leonardo, che raffigura il Governatore francese di Milano Charles d’Amboise ritratto a cavallo, effettuato dal maestro fra il 1508 e il 1511, dopo che aveva già eseguito una sontuosa villa a Milano per lo stesso d’Amboise, grande amico ed estimatore dell’artista fiorentino. Horse and Rider è l’unico modello di monumento equestre giunto fino a noi. L’opera, attribuita nel 1985 da Carlo Pedretti, il piú autorevole studioso

leonardesco al mondo, porta incisa la firma del genio vinciano: una L maiuscola e una V rovesciata, sigla ideata da Leonardo, presente in uno dei suoi Codici. Insieme al bronzo viene esposta la Testicciola di terra, scultura che raffigura il giovane Salaí, allievo e compagno di Leonardo, nei panni di un giovanissimo Giudeo o volto di Cristo fanciullo, anch’essa firmata di proprio pugno dal maestro. info http://institutfrancais-milano. com

FIRENZE AD USUM FRATRIS… MINIATURE NEI MANOSCRITTI LAURENZIANI DI SANTA CROCE (SECC. XI–XIII) Biblioteca Medicea Laurenziana fino al 5 gennaio 2017

L’esposizione presenta una selezione tratta dai 734 codici della biblioteca del Convento francescano di Santa Croce, pervenuta in Biblioteca Laurenziana nel 1766 per decreto del granduca Pietro Leopoldo. Vengono presentati 53 manoscritti fra i piú antichi, miniati fra l’XI e il XIII secolo nell’Italia centro-settentrionale. Il percorso espositivo si articola in sezioni che riflettono la disposizione

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dei libri nella biblioteca francescana almeno a partire dal Quattrocento. Si apre quindi con una ampia selezione di testi biblici miniati che include la monumentale Bibbia in 17 volumi donata da Enrico de’ Cerchi nel 1285, e prosegue con commenti alle Sacre Scritture dei Padri della Chiesa, ma anche preziosi esemplari di libri di diritto, che riflettono l’attività del tribunale dell’Inquisizione che aveva sede presso il Convento fino dalla metà del Duecento, passionari e vite dei Santi. info tel. 055 2937911; e-mail: b-mela.mostre@beniculturali.it; www.bmlonline.it FERRARA ORLANDO FURIOSO 500 ANNI. COSA VEDEVA ARIOSTO QUANDO CHIUDEVA GLI OCCHI Palazzo dei Diamanti fino all’8 gennaio 2017

Il 22 aprile 1516, in un’officina tipografica ferrarese, terminava la stampa dell’Orlando furioso, opera simbolo del Rinascimento italiano. Per celebrare il quinto centenario dell’evento, Palazzo dei Diamanti ospita una mostra d’arte che fa dialogare fra loro dipinti, sculture, arazzi, libri, manoscritti miniati, strumenti musicali, ceramiche invetriate, armi e rari manufatti. A orchestrare questo incanto visivo è un’idea semplice: restituire l’universo di immagini che popolavano la mente di Ludovico Ariosto mentre componeva il Furioso. Cosa vedeva, dunque, il poeta, chiudendo gli occhi, quando si accingeva a raccontare una battaglia, un duello di cavalieri o il compimento di un prodigioso incantesimo? Quali opere d’arte furono le muse del suo immaginario visivo?

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AGENDA DEL MESE Un lungo lavoro è stato orientato a individuare i temi salienti del poema e a rintracciare, puntualmente, le fonti iconografiche che ne hanno ispirato la narrazione. I visitatori vengono cosí condotti in un appassionante viaggio nell’universo ariostesco, tra immagini di battaglie e tornei, cavalieri e amori, desideri e magie. A guidarli sono i capolavori dei maggiori artisti del tempo, da Paolo Uccello ad Andrea Mantegna, da Leonardo da Vinci a Raffaello, da Michelangelo a Tiziano a Dosso Dossi: creazioni straordinarie che fanno rivivere il fantastico mondo dell’Orlando furioso e dei suoi paladini, offrendo al contempo un suggestivo spaccato dell’Italia delle corti in cui il libro fu concepito. info tel. 0532 244949; e-mail: diamanti@comune.fe.it; www. palazzodiamanti.it MANTOVA ALBRECHT DÜRER: INCISIONI E INFLUSSI Complesso museale di Palazzo Ducale, Castello di San Giorgio fino all’8 gennaio 2017

Restaurate e adeguate agli standard museali internazionali dopo il sisma del 2012, le sale del pianterreno del Castello di San Giorgio riaprono al pubblico ospitando una mostra dedicata ad Albrecht Dürer (1471-1528) e ai suoi rapporti con l’arte italiana, con un’attenzione particolare per le incisioni di Andrea Mantegna. «Quanto freddo avrò dopo tutto questo sole?» si chiese l’artista tedesco nel 1507 tornando in Germania dopo un viaggio in Italia. Era stato a Venezia due volte, nel 1494 e nel 1506 e, sebbene non ci siano testimonianze

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della festa della Maddalena. Prostrata ai piedi del Signore nell’atto di ungergli i piedi con essenze preziose, oppure dolente e piangente abbracciata al legno della croce, infine lieta di recare l’annuncio della Resurrezione agli apostoli, la figura della Maddalena ha destato l’interesse dei maggiori artisti dal Medioevo al Neoclassicismo e questa mostra intende presentarne gli episodi piú significativi. info tel. 071 9747198 o 06 68193064; e-mail: museoanticotesoro@gmail.com; e-mail: info@artifexarte.it: www.artifexarte.it NEW YORK GERUSALEMME 1000-1400: UN PARADISO PER OGNI POPOLO The Metropolitan Museum of Art fino all’8 gennaio 2017

documentate di ulteriori soggiorni nella nostra penisola, appare evidente, nelle tavole dei Trionfi commissionate dall’imperatore Massimiliano I, che Dürer conosceva la serie di incisioni Il trionfo di Cesare di Mantegna. Cosí come è possibile immaginare che le numerose rappresentazioni dell’anatomia dei cavalli che realizzò dopo il secondo soggiorno italiano si ispirino ai grandi monumenti equestri di Venezia e Padova o agli studi di Leonardo per una scultura equestre a Milano. info tel. 0376 224832; e-mail: pal-mn@beniculturali.it; www.mantovaducale.beniculturali.it

La rassegna è uno degli appuntamenti di maggior rilievo fra quelli dedicati al Giubileo della Misericordia, soprattutto dopo l’annuncio di papa Francesco dell’istituzione, proprio nell’anno giubilare,

Intorno al fatidico anno Mille, Gerusalemme esercitò un richiamo pressoché irresistibile e si trasformò in un luogo simbolico per genti che professavano credi diversi, dall’Islanda all’India. Questo straordinario fenomeno diede vita a uno dei momenti piú luminosi nella storia della Città

LORETO LA MADDALENA, TRA PECCATO E PENITENZA Museo-Antico Tesoro della Santa Casa di Loreto fino all’8 gennaio 2017

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Santa ed è stato scelto come filo conduttore della rassegna allestita al Metropolitan. Lo scopo è appunto quello di documentare come Gerusalemme, sacra alle tre grandi religioni abramitiche (ebraismo, cristianesimo e Islam), sia diventata uno dei piú importanti poli artistici dell’epoca. In quei secoli, infatti, la città accolse una quantità di culture, religioni e lingue come mai se n’erano viste prima e, nonostante i molti momenti difficili vissuti a causa di guerre internazionali e lotte intestine, questo vero e proprio melting pot ispirò realizzazioni di grande bellezza e fascino. info http://metmuseum.org LOVANIO (BELGIO) ALLA RICERCA DI UTOPIA M-Museum fino al 17 gennaio 2017

del libro all’epoca e la sua attualità. A Lovanio sono giunti capolavori di maestri fiamminghi, come Quentin Metsys e Jan Gossaert, e, internazionali, quali Albrecht Dürer e Hans Holbein, tra cui, per la prima volta in mostra nelle Fiandre, il celebre ritratto di Erasmo da Rotterdam di Quentin Metsys, eccezionalmente concesso in prestito dalla Regina Elisabetta II. La mostra è l’evento di punta di un piú vasto programma culturale cittadino «The Future is More» che si propone, proprio come fece allora l’opera di Moro, di allargare gli orizzonti culturali dei visitatori raccontando il sogno di un mondo ideale e temi piú che mai attuali come la diversità, la dignità umana, la tolleranza e l’uguaglianza. info www.utopialeuven.be RANCATE (MENDRISIO, SVIZZERA) LEGNI PREZIOSI. SCULTURE, BUSTI, RELIQUIARI E TABERNACOLI DAL MEDIOEVO AL SETTECENTO Pinacoteca cantonale Giovanni Züst fino al 22 gennaio 2017

Utopia, opera emblematica di Tommaso Moro (1478-1535), il piú influente testo mai edito nei Paesi Bassi, venne stampata a Lovanio nel 1516 dall’editore Dirk Martens. La città celebra la ricorrenza, riunendo nell’M–Museum un’ottantina di opere d’arte che mettono in luce l’influenza

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Forte dell’allestimento firmato da Mario Botta, l’esposizione riunisce una cinquantina di opere (alcune delle quali inedite) di qualità altissima e di suggestione altrettanto notevole. Provenienti, con poche eccezioni, da musei, chiese, monasteri del territorio ticinese, questi autentici capolavori giungono in mostra dopo essere stati oggetto di una revisione e talvolta di restauri eseguiti grazie all’importante collaborazione dell’Ufficio dei beni culturali del Cantone Ticino. Sono Madonne, Cristi, Compianti, busti, polittici scolpiti e persino un Presepe, naturalmente ligneo, testimonianze assolute di una tradizione artistica che raggiunse spesso vertici europei. In particolare, nella prima sezione si concentrano rari esempi di scultura lignea medievale, dal XII secolo al tardo-gotico. info tel. +41 (0)91 8164791; www.ti.ch/zuest CREMONA JANELLO TORRIANI, GENIO DEL RINASCIMENTO Museo del Violino fino al 29 gennaio 2017

Il nome di Janello Torriani è quasi sconosciuto, anche se in vita era spesso affiancato a quello di Archimede. Seppe affascinare i due piú potenti sovrani del suo tempo, Carlo V e suo figlio Filippo II, che lo vollero al loro fianco, considerandolo un genio come per noi oggi è Leonardo da Vinci. A differenza del quale, Torriani non sapeva dipingere, era uomo rozzo e tutt’altro che nobile, eppure, con le sue grosse mani da fabbro, creò meraviglie che tutta l’Europa ambiva: meccanismi sofisticatissimi, gestiti da combinazioni meccaniche

elaborate che a noi oggi sono garantite dalla tecnologia piú avanzata. Dalla sua mente e dalle sue mani uscivano orologi perfetti, nelle loro decine di funzioni, e bellissimi. Meravigliosi automi che suscitavano ammirazione e stupore. Raggiunse una fama tale da partecipare alla riforma gregoriana del calendario: nessuno come lui, infatti, conosceva la perfezione del tempo. info www.mostratorriani.it BASSANO DEL GRAPPA IL MAGNIFICO GUERRIERO. BASSANO A BASSANO Civici Musei fino al 31 gennaio 2017

Il Magnifico Guerriero di Jacopo Bassano si offre all’ammirazione del pubblico grazie al comodato gratuito accordato dal suo possessore ai Civici Musei bassanesi. Il dipinto ritrae un affascinante nobiluomo dalla fulva, curatissima barba. Non un giovane ma un uomo maturo, certo aduso al comando, ma, soprattutto, a una vita raffinata lontano dai campi di battaglia. Indossa una preziosa corazza alla moda dell’epoca, che lo costringe, ma che non riesce a ingabbiarne la grazia e la flessibilità. Le lunghe dita, curate e perfette, non sembrano le piú adatte a

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AGENDA DEL MESE menar fendenti, cosí come il suo spadino di ferro e oro sembra piú da parata che da battaglia. Secondo Vittoria Romani dell’Università di Padova, studiosa alla quale va il merito di avere ricondotto a Jacopo Bassano questo autentico capolavoro già attributo a Veronese e a Pordenone, il ritratto è databile agli anni immediatamente seguenti il 1550, ovvero al momento piú altamente manierista del maestro. info tel. 0424 519.901-904; e-mail: info@museibassano.it; www.museibassano.it PARIGI L’ETÀ DEI MEROVINGI Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge fino al 13 febbraio 2017

Forte di oltre centocinquanta opere – fra sculture, manoscritti miniati, oreficerie, monete, tessuti e documenti d’archivio – la mostra ripercorre gli eventi che maggiormente segnarono i trecento anni che intercorrono tra la battaglia dei Campi Catalaunici (451) e la fine del regno dei sovrani merovingi, ingloriosamente ribattezzati «fannulloni» (751). Fu un’epoca in cui videro la luce numerosi reami, fra cui quelli franchi, che in parte si rifacevano all’impero romano e che però subirono le influenze determinanti delle culture dell’area germanica. Parallelamente, la diffusione del cristianesimo fece emergere nuove credenze, come il culto delle reliquie, pur senza cancellare del tutto le tradizioni pagane, che furono in parte «cristianizzate». Andò cosí definendosi un universo nuovo e originale, di cui la produzione artistica merovingia è specchio eloquente. info www.musee-moyenage.fr

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SAINT-DIZIER (FRANCIA)

ormai, si lascerebbe andare a definirli «bui». La descrizione di questa età di Mezzo (almeno in parte) inaspettata si sviluppa in due grandi sezioni: nella prima, vengono messi a punto i riferimenti cronologici essenziali, corredati da alcuni manufatti particolarmente rappresentativi del periodo; nella seconda, si passa invece ai materiali scaturiti dagli scavi condotti dall’INRAP. info www.cite-sciences.fr

AUSTRASIA, IL REGNO MEROVINGIO DIMENTICATO Espace Camille Claudel fino al 26 marzo 2017

La dinastia merovingia visse il suo apogeo fra il VI e l’VIII secolo, avendo come teatro delle proprie gesta l’Austrasia, regione dell’antica Francia ora protagonista della mostra di Saint-Dizier. Il progetto espositivo porta all’attenzione del pubblico il caso di un’identità che prese forma da una significativa diversità culturale e, nel segno di questa scelta, invita a scoprire, soprattutto grazie ai reperti archeologici, la singolarità e la ricchezza che caratterizzarono la vita quotidiana e l’organizzazione del regno merovingio. Fra gli altri, sono stati riuniti per l’occasione i materiali di corredo della tomba del piccolo principe di Colonia, l’anello del vescovo Arnolfo di Metz e i gioielli della signora di Grez-Doiceau. info www.austrasie-expo.fr PARIGI CHE C’È DI NUOVO NEL MEDIOEVO? Cité des sciences et de l’industrie fino al 6 agosto 2017

Appuntamenti In Francia, la pratica dell’archeologia preventiva è gestita dall’INRAP (Institut national de recherches archéologiques preventives), che, non a caso, è fra gli ideatori di questo nuovo progetto espositivo e grazie alle cui ricerche è stato possibile riunire i materiali presentati. Si tratta di un repertorio in molti casi inedito, che permette di inserire nel racconto dei mille anni del Medioevo molte novità importanti, accomunate da un dato ormai inconfutabile: quei dieci secoli furono ricchi di storia, ma anche di innovazioni e invenzioni e nessuno piú,

ALVIANO (TERNI) «IMPAZIENTE DELLA QUIETE». BARTOLOMEO D’ALVIANO, LE FORTUNE DI UN CONDOTTIERO NELL’ITALIA DEL RINASCIMENTO (1455-1515) Rocca di Alviano fino al 12 novembre

A cinquecento anni dalla morte, Bartolomeo d’Alviano (1455-1515), insigne condottiero del Rinascimento, viene ricordato con un ciclo di conferenze sui momenti decisivi della sua vita. Ecco il programma dell’ultimo appuntamento previsto: Rocca di Alviano, 12 novembre, ore 17,30: Bartolomeo d’Alviano e gli ambienti culturali del primo Cinquecento (Elena Valeri, «Sapienza» Università di Roma). info tel 0744 904421; e-mail: bartolomeo500anni@gmail.com; www.comune.alviano.tr.it novembre

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protagonisti edgardo il pacifico

Qui comincia l’Inghilterra di Federico Canaccini

Ricostruire la vicenda di Edgardo il Pacifico, salito al trono nel 959, ma solennemente incoronato solo nel 973, non è facile. Eppure la sua ascesa segnò una svolta decisiva per l’isola britannica, che con lui assunse per la prima volta i contorni di una nazione

L’

inizio della storia inglese e della sua identità nazionale si fa solitamente coincidere con la vittoria riportata nel 1066, a Hastings, dal normanno Guglielmo il Conquistatore, che, sconfiggendo re Aroldo, riuscí a dar vita a uno dei regni piú importanti dell’Europa medievale. In realtà, nei decenni che precedettero la conquista normanna, una figura di enorme rilievo iniziò quel processo di unificazione territoriale, di sottomissione a un’unica corona e di identificazione del popolo britannico nella sua unica figura di re. Per quanto breve, il regno di Edgar, o Edgardo, detto «il Pacifico» (959-975), è tra i piú significativi dell’Inghilterra del cosiddetto «Secolo di Ferro» e forse anche tra i piú importanti del periodo che precede l’insediamento normanno. Di converso non sono davvero molte le informazioni e le fonti in nostro possesso che ci permettano di far luce e comprendere le dinamiche del suo tempo e del suo governo. Figlio di re Edmondo (939-946) e pronipote del piú celebre re Alfredo (871-899) – che liberò l’Inghil-

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terra dal controllo vichingo – Edgardo divenne sovrano di Mercia e Northumbria ancora ragazzo nel 957, co-reggendo l’isola insieme al fratello Eadwig, per poi essere incoronato re di tutta l’Inghilterra anglosassone appena quindicenne, due anni piú tardi.

Una convivenza difficile

Negli anni che precedono la sua ascesa al trono come rex Anglorum, a Edgardo era stata infatti affidata l’area a nord del Tamigi, mentre il fratello Eadwig controllava il Wessex e il Kent. La convivenza tra i due fratelli non dovette essere semplice, poiché entrambi puntavano al predominio sull’isola. La questione fu presto risolta anche dalla morte prematura di Eadwig, il quale ne uscí comunque politicamente sconfitto. Dalle fonti successive si intuisce infatti che Edgardo ebbe l’appoggio della Chiesa, che invece era stata fortemente osteggiata dal fratello: Edgardo non mancò di ricompensare i vescovi – primo fra

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

L’incoronazione del sovrano Edgardo d’Inghilterra, raffigurata nella vetrata dell’abbazia di Bath. Somerset. XIX sec. novembre

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protagonisti edgardo il pacifico I RE D’INGHILTERRA NELL’ALTO MEDIOEVO In basso rovescio di un penny in argento battuto durante il regno di Edgardo. 959-975. La legenda riporta il nome e il titolo del sovrano, EADGAR REX, uno dei cui meriti fu il varo di una riforma del sistema monetario che rimase in vigore per molti decenni.

Nella pagina accanto miniatura raffigurante re Edgardo, ritratto tra la Vergine e san Pietro, che conferma la conversione dell’abbazia di New Minster (Winchester) a monastero benedettino, dal New Minster Charter. 966. Londra, British Library.

Ealhmund († 785?) Re del Kent Egberto († 839) = Redburga Re del Wessex Etelvulfo († 858) = Osburga Re del Wessex

Etelbaldo († 860) Re del Wessex

Alfredo «il Grande» († 899) = Ealhswith († 905) Re del Wessex Re d’Inghilterra

Etelfleda († 918) Signora della Mercia

Elfrida († 929)

Etelgiva († 929) Badessa di Shaftesbury

Ecgwynn = Edoardo «il Vecchio» († 924) = Edgiva (Eadgifu) († 968) Re del Wessex Re d’Inghilterra Atelstano († 940) Re d’Inghilterra

Edredo († 955) Re d’Inghilterra

Edmondo I detto «il Vecchio o il Giusto o il Magnifico» († 946) = Elgiva Re d’Inghilterra Edwing detto «l’Onesto» († 959) Re d’Inghilterra, poi re di Wessex e Kent Etelfelda = Edgardo I detto «il Pacifico» († 975) = Elfrida († 1000) Re delle terre a nord del Tamigi, poi re d’Inghilterra Edoardo II «il Martire» († 979) Re d’Inghilterra

Edmondo († 970)

Ælgifu († 996) = Etelredo II detto «lo Sconsigliato» Re d’Inghilterra Atelstano († 1014)

Edredo

Egberto

Edmondo II detto «Fianco di Ferro († 1016) = Ealdgyth Re del Wessex

tutti san Dunstano –, che lo aiutarono nella sua ascesa, perorando la causa ecclesiastica. Le scarse fonti esistenti i sono perciò viziate dalla vittoria di Edgardo: la propaganda diretta da Dunstano, infatti, fece di lui un santo e, giocoforza, di Eadwig un reietto; una sorte analoga toccò ai nobili, schieratisi ora con l’uno ora con l’altro.

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Come già detto, pochi sono i documenti in nostro possesso (circa 120, redatti tra il 950 e il 955) e per comprendere le dinamiche del potere non è inutile comparare i suoi diplomi (i documenti, emanati da un sovrano, che conferiscono privilegi e diritti, n.d.r.) con quelli del figlio Etelredo, tentando di cogliere una continuità politica con ciò che dovette essere tracciato dal padre. Per personaggi avvolti dal buio documentario, come Edgardo, ci si de-

ve dunque concentrare nell’analisi attenta dei titoli utilizzati, seguendone la declinazione che lo vede ora rex, ora rex Anglorum, ora rex totius Britanniae. Non molto si ricava dalla lista dei testes (testimoni) dei diplomi: in pratica si hanno decine di personaggi dei quali viene indicato soltanto il nome ed è perciò difficile farsi un’idea anche dell’entourage del giovane sovrano inglese. Scarse sono anche le informazioni sulla sua famiglia: sappiamo novembre

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protagonisti edgardo il pacifico che Edgardo ebbe tre mogli, che gli diedero almeno quattro figli. Dalla prima, Elfrida, impalmata probabilmente nel 964, ebbe Edmondo (morto intorno al 970) ed Etelredo, che sarebbe succeduto al trono alla morte del fratellastro Edoardo. Quest’ultimo era figlio di Etelfleda e morí assassinato appena successe al padre sul trono d’Inghilterra, nel 975. Infine Edgardo avrebbe avuto una figlia anche da Vulfrida, che l’agiografo benedettino Gozzellino da San Bertino descrive come una nobildonna, portata via con la forza dal convento di Wilton, dove probabilmente era badessa. Dopo il rapimento, il sovrano l’avrebbe condotta nella sua dimora di Kemsing, non lontano da Sevenoaks, nel Kent, dove diede alla luce la figlia Editta. La leggenda del «buon sovrano» vuole che, su suggerimento di Dunstano, Edgardo si fosse pentito dell’atto compiuto, rinunciando a indossare la corona per ben sette anni. Non appena Vilfrida poté sfuggire a Edgardo, tornò a Illustrazione raffigurante re Edgardo il Pacifico, seduto fra san Dunstano e san Æthelvold, in un’edizione della Regularis Concordia, consuetudinario risalente al 970, uno dei documenti piú importanti della riforma benedettina inglese. 1050 circa. Londra, British Library.

Alle origini di un nome

Re di Albione o di Britannia? Dal VI secolo a.C. sino al IV d.C., l’isola inglese, veniva chiamata, già dai Greci, Albiona: un mito voleva infatti che un gigante, figlio di Nettuno, detto Albione, avesse addirittura sfidato Ercole. Alcuni storici antichi, quali Nicola Perrotus o Giraldo di Cambrai riportavano tali notizie come vere, asserendo che «Albion, hodie Anglia, sic dicta ab Albione gigante qui ibi regnavit» («Albione, oggi Anglia, è detta cosí dal gigante Albione che qui regnò»)! Esisteva una certa connessione tra Edgardo e questo mito: l’allusione all’antico padrone dell’isola, sia nelle fonti che nelle leggende, nascondeva probabilmente

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la sua ambizione a un dominio insulare. Se la propaganda avesse convinto il popolo che il legame con Albione aveva un fondamento, la sua elezione a re di Albione, e quindi a rex totius Angliae, sarebbe stata ancor piú legittimata. Un poema anglonormanno del XIV secolo, I grandi giganti, narra che un gruppo di coloni greci – di stirpe reale – guidati dalla regina Albina, si stabilí in Britannia, isola ancora disabitata e che Albina battezzò utilizzando il proprio nome. Pur appartenendo alla stirpe dei Giganti, ella viene descritta solamente come piú alta del normale e presentata come una regina umana, novembre

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Mappa della Gran Bretagna realizzata dal monaco e cronista Matteo Paris, dalla Abbreviatio chronicorum Angliae. 1250-1259. Londra, British Library.

Wilton, portando con sé Editta, che si fece monaca, giovanissima, divenendo ben presto santa. I pochi documenti disponibili possono tuttavia prestarsi a nuove chiavi di lettura. E ci si può allora domandare se re Edgardo considerasse i Vichinghi come stranieri ostili, da tener lontani, o piuttosto come abili mercenari, da inquadrare in posizioni strategiche dell’Inghilterra. Le relazioni stabilite con i Vichinghi insediatisi nel Danelaw, quando era sovrano di Mercia e Northumbria, farebbero propendere per la seconda ipotesi.

Un grande riformatore

Edgardo seppe fruire di tutte le possibilità che una corona regia poteva offrire in quei decenni in Inghilterra: riconosciuto quale dominus sotto giuramento da tutti i nobili laici del regno, estese il proprio dominio su molti signori non anglosassoni dell’isola, e venne riconosciuto dai re celti di Strathclyde, di Scozia e del Galles settentrionale. In qualità di capo dell’esercito e avendo il controllo personale su molti dei fortilizi (i cosiddet-

discendente di un re greco, ma non come una creatura mitologica: l’opera voleva cosí giustificare la presenza delle divinità tra gli uomini. Il mito di Albina è stato anche rinvenuto in alcuni successivi manoscritti del Romanzo di Bruto di Robert Wace (XII secolo): il nome di Albione venne infine soppiantato, dal IV secolo d.C., da quello di Britannia. Le informazioni sui sovrani leggendari della Britannia derivano però principalmente dalla Historia Regum Britanniae, composta da Goffredo di Monmouth attorno al 1136. Goffredo ha costruito una storia molto romanzata, basata sulle opere dei

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primi storici medievali quali Gildas, Nennio e Beda, sulle genealogie gallesi, sulle vite dei santi e, molto, sulla propria immaginazione. Alcuni di questi sovrani hanno un fondamento storico, ma le narrazioni di Goffredo sono del tutto fantasiose. Il suo racconto inizia con l’esilio di tal principe troiano Bruto, da cui fa derivare il nome di Britannia secondo la Historia Brittonum. Bruto sarebbe disceso niente meno che da Enea, il leggendario fondatore di Roma, dando modo cosí ai Britannici di collegarsi con il mito fondativo dell’Urbe a cui, nel Medioevo, praticamente quasi tutti i regni facevano riferimento.

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protagonisti edgardo il pacifico san dunstano

Monaco, abate e... fabbro ferraio La santità di Dunstano era stata preannunciata da un miracolo. Nella chiesa di S. Maria, il giorno della Candelora, si sarebbero spente miracolosamente tutte le candele, fuorché quella accesa da Cynethryth, sua futura madre: il destino di Dunstano sarebbe stato quello di illuminare per sempre l’Inghilterra. Fattosi monaco molto giovane, avrebbe respinto le tentazioni del diavolo, afferrandogli il naso con le sue pinze da fabbro, uno dei tanti mestieri in cui il giovane si distingueva. La sua vita è legata a A sinistra miniatura raffigurante san Dunstano, che trascrive la Regola benedettina. 1170 circa. Londra, British Library.

ti burhs) eretti da Alfredo il Grande, e da lui numericamente moltiplicati, combatté gli Scozzesi e invase l’Irlanda, impose tributi ai Gallesi, estese la decima su gran parte dell’Inghilterra e potenziò la flotta, paventando nuove incursioni danesi. Della politica vincente di Alfredo egli riprese anche alcune riforme di tipo giuridico e amministrativo, stabilendo che crimini comuni, come il furto o l’incendio doloso, ricadessero sotto la giurisdizione regia. A lui si deve la ripartizione in contee (shires), con ulteriori speciali ripartizioni giudiziarie locali (hundreds). Infine, nel 973, varò un’importante riforma monetaria, che introdusse un sistema rimasto in uso in Inghilterra per diversi decenni. Nella pagina accanto illustrazione ottocentesca raffigurante il sovrano Edgardo il Pacifico che attraversa il fiume Dee a bordo di un’imbarcazione condotta da otto principi tributari.

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molti sovrani inglesi, i quali, ammirandone le capacità, lo vollero spesso a corte, suscitando l’invidia dei nobili che in piú di un caso avrebbero attentato alla sua vita. Divenuto abate di Glastonbury, iniziò ad adoperarsi per rinnovare il monachesimo benedettino inglese. In seguito all’assassinio di re Edmondo – padre di Edgardo –, salí al trono prima il conciliante fratello Edredo, e poi, alla sua morte, il figlio maggiore Eadwig (955). Dunstano preferí allora lasciare l’isola, accusando di immoralità il giovane sovrano. L’abate però rientrò due anni dopo quando, a seguito di una rivolta, Eadwig fu affiancato dal fratello, Edgardo. Da allora in avanti, Dunstano e il clero inglese ingaggiarono una lotta contro Eadwig, appoggiando Edgardo, sino a ottenere la vittoria di quest’ultimo. Nel 960 si recò a Roma per ricevere dal papa il pallio e, tornato in patria, collaborò come primo ministro al regno di Edgardo fino alla sua morte. A seguito delle lotte tra i figli e i figliastri di Edgardo, Dunstano preferí abbandonare la politica per tornare a Canterbury, dove insegnò nella scuola cattedrale. Il 19 maggio 988, cosí Edgardo, che era divenuto re d’Inghilterra già nel 959, fu incoronato non prima del 973, a Bath, solo due anni prima della sua morte, con una cerimonia intesa non come inizio, ma come culmine del suo regno, anche per invitare molti rappresentanti delle varie casate e iniziare cosí un’intensa azione diplomatica. La festa, ideata da Dun-

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come gli era stato annunciato in una visione tre giorni prima, morí e da subito gli Inglesi lo acclamarono santo. Nel 1029 era già stato canonizzato e il giorno della sua morte veniva solennemente festeggiato. Dunstano divenne il beniamino ecclesiastico del popolo inglese, assieme a quello laico di Edgardo. La figura del santo è associata anche ad aneddoti divertenti che lo vedono combattere contro il demonio. Oltre ad avergli afferrato il naso con le tenaglie – divenute poi il simbolo del santo – avrebbe anche ferrato i piedi del diavolo che gli chiedeva di ferrargli il cavallo (vedi anche, in questo numero, l’articolo alle pp. 64-73). Dunstano avrebbe rimosso i ferri al demonio solo dietro la promessa che non avrebbe mai visitato e indotto in tentazione coloro che esponevano in casa… un ferro di cavallo! Charles Dickens lo celebrò nel suo Canto di Natale e cosí viene ricordato in un canto popolare: «San Dunstano, come dice la storia, / Una volta il diavolo per il naso prese / Con molle rosse infuocate che gli fecero fare un ruggito tale / Da essere sentito a tre miglia o piú».

stano – che la celebrò con un poema inserito nella Cronaca Anglosassone –, costituisce la base dell’attuale cerimonia di incoronazione inglese.

Otto re su una barca

Dunstano aveva compreso che il rito era un passo importante e perciò, secondo l’uso ormai dilagante nell’Europa post carolingia, sot-

topose Edgardo all’unzione: poco tempo dopo, tutti i re dell’Inghilterra sarebbero venuti alla corte di Edgardo, a Chester, per stringere alleanze e legami diplomatici. Scrive Dunstano: «Sei sovrani della Britannia, compresi quelli di Scozia e Strathclyde, hanno impegnato la loro fede, divenendo signori del re sul mare e sulla terra». La cronaca riporta che successivamen-

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protagonisti edgardo il pacifico

Chester. L’Old Dee Bridge, il ponte piú antico della città.

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te si sarebbero aggiunti altri due sovrani e che, in otto – un numero che rappresenta simbolicamente la perfezione – remarono sulla barca di Edgardo, lungo il fiume Dee. Anche la presenza dell’acqua è un elemento da non sottovalutare. Ricordiamo per un istante le parole di sant’Ambrogio: «Era giusto che l’aula del Battistero avesse otto lati, perché ai popoli venne concessa la vera salvezza quando, all’alba dell’ottavo giorno, Cristo risorse dalla morte». Il numero otto, maggiore di sette, rappresenta la mediazione tra il Cielo e la Terra, ma anche l’eternità dopo la vita terrena e per questo si ritrova nell’ottagono di Aquisgrana, a S. Vitale a Ravenna, nel Santo Sepolcro. Il racconto della navigazione congiunta è probabilmente di fantasia, ma sta a

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simboleggiare l’unione di intenti e, al contempo, la sottomissione a Edgardo, proprietario della barca. Due Panegirici, tratti dalla Cronaca Anglosassone, riguardano altrettanti momenti fondamentali degli ultimi anni di vita di re Edgardo: L’incoronazione e La morte. Se messi a confronto, i testi mostrano una interessante correlazione con la riforma benedettina in corso in Inghilterra e attestano una tradizione ben radicata di poesia religiosa nell’isola britannica del X secolo. Il frontespizio di un celebre manoscritto (il Cotton MS Vespasian A.VIII della British Library) mostra poi re Edgardo santificato direttamente da Cristo e, con lui, finalmente il popolo tutto, che il sovrano, solo ora, si trovava a rappresen-

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tare. L’unione e l’identificazione tra il re e il popolo inglese aveva avuto inizio ed Edgardo mediava tra il Cielo e la Terra, era il timoniere della barca sul fiume Dee.

I rapporti con la Chiesa

Un aspetto fondamentale della politica di re Edgardo fu infine quello legato alla Chiesa. Il sovrano, infatti, appoggiò con fervore la riforma ecclesiastica voluta da Dunstano, arcivescovo di Canterbury (960), coadiuvato dal vescovo di Worcester, Oswald, e da quello di Winchester, Æthelwold da Abingdon. Né mancò di controllare le nomine della Chiesa insulare, prodigandosi nella riforma monastica, affidandone a suoi familiari il patronato e ad altrettanti ufficiali regi ruoli finan-

ziari di tale processo, creando cosí un’interessante dinamica di reciproci interessi. Anche per questo, ma non solo, ricevette il titolo di «Pacifico» e fu venerato come santo dalla Chiesa: l’Inghilterra non aveva conosciuto da decenni un periodo cosí lungo di pace e di prosperità. L’8 luglio del 975, data in cui viene ricordato dal calendario delle festività religiose, Edgardo moriva a Winchester e il suo corpo veniva trasportato e sepolto a Glastonbury. Il suo potere e la sua capacità di unire il destino dell’Inghilterra a una dinastia furono tali che, dalla sua morte sino al 1066 – con la vittoria di Guglielmo il Conquistatore a Hastings –, nessuna successione regia venne piú contestata.

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Le due Italie A differenza di una battaglia o dell’incoronazione di un sovrano, la «questione meridionale» non ha una data d’inizio. Tuttavia, le sue origini si possono rintracciare nei percorsi seguiti dal Settentrione e dal Meridione della Penisola nei secoli del Medioevo

di Furio Cappelli

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l confine storico fra il Nord e il Sud Italia viene spesso percepito come una barriera frapposta tra due mondi: da una parte, l’ambiente ricco, vivace, libero e competitivo delle città comunali; dall’altra, quello di centri in apparenza strettamente coordinati da un governo centrale rigido e autoritario, per effetto delle secolari vicende del Regno di Sicilia. Il concetto di un’Italia a due velocità o, addirittura, dai due volti, emerge con efficacia dall’espressione «due Italie» coniata negli anni 1829-32 dallo storico tedesco Heinrich Leo (17991878). Grazie, per esempio, alle riflessioni dello statista Giustino Fortunato (1848-1932), tale concetto ha poi trovato immediata fortuna per effetto dei dibattiti sulla situazione del Sud nell’epoca post-unitaria. D’altronde, proprio nel Medioevo è stata piú d’una volta cercata la radice di quella «questione meridionale» sulla quale si è tanto spesso soffermato il dibattito parlamentare sin dai tempi del senatore Pasquale Villari (1827-1917). Lo scollamento tra un Nord ricco ed efficiente e un Sud arretrato risulterebbe già eclatante e indiscutibile nel momento della massima fioritura delle città-stato comunali. A questa vibrante vicenda, lo storico Carlo Cattaneo (1801-1869) contrapponeva infatti «il vasto e infermo Regno sedente fra tre mari».

Una frontiera «sovietica»

Una simile rappresentazione è senza dubbio rafforzata dal confine storico tra lo Stato della Chiesa e il Regno di Sicilia. Grazie soprattutto alla scrupolosa organizzazione della frontiera curata da Carlo I d’Angiò, si stabilí effettivamente una linea di separazione molto netta e di lunghissima tenuta, anche se soggetta a vari adattamenti nel corso del tempo. La durezza di quella barriera, con i suoi sistemi di fortificazioni e di dogane che si mantennero sostanzialmente fino al 1861, era tale che lo storico francese Jean-Marie Martin ha parlato di una concezione «sovietica» del confine durante la dominazione angioina. Tuttavia, al di là di quegli avamposti, che avevano una funzione prettamente difensiva e fiscale, appariva un mondo ricco di relazioni e di contiguità, articolato e mutevole, tutt’altro che chiuso o blindato.

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A destra una delle teste leonine che ornano le terminazioni del trono su cui siede Carlo d’Angiò nell’opera che lo rappresenta e che viene attribuita ad Arnolfo di Cambio, 1275-1277. Roma, Musei Capitolini. Nella pagina accanto statua che ritrae Carlo d’Angiò, re di Sicilia e senatore di Roma. Opera attribuita ad Arnolfo di Cambio, 1275-1277. Roma, Musei Capitolini.

Fin dall’epoca della monarchia normanna, le città del Meridione erano sottoposte alla corona o strettamente controllate da un feudatario, ma proprio lungo la fascia di confine spiccavano svariate città demaniali (di pertinenza regia, ma virtualmente «libere»), che godevano di ampi margini di autonomia e che avevano intrapreso una vivace attività manifatturiera e commerciale. Sul versante adriatico, nell’attuale Abruzzo, sono i casi di L’Aquila e di Sulmona. Esse rientravano all’interno di un sistema di collegamento tra Firenze e Napoli che è noto come «via degli Abruzzi», e che costituiva un asse portante dei traffici della Penisola. D’altro canto, Amalfi, la prima repubblica marinara, fece da apripista nelle relazioni costiere tra l’Italia tirrenica e l’Oriente bizantino, anticipando il ruolo di Pisa e di Genova. E con esse, di fianco a Salerno, ebbe modo di stabilire un’alleanza nel 1087-88, quando si organizzò con successo la conquista della città tunisina di Mahdia.

L’ombra di Federico sulla Toscana

La «barriera» tra il Nord e il Sud era assai permeabile anche sul fronte politico, soprattutto quando il monarca di Sicilia, dapprima nella sua veste di imperatore (Federico II), poi di alleato del pontefice (Carlo I d’Angiò), venne a interagire con le lotte di potere in atto nel cuore della Toscana. Al tempo della dura contrapposizione tra Federico II e le città comunali si poté cosí assistere, a Prato, alla costruzione di un tipico castello svevo in linea con quelle stesse fortificazioni che lo Stupor mundi aveva realizzato nei territori del Regno. Nel 1247

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vi alloggiò Federico di Antiochia, suo figlio illegittimo, nella mansione di vicario imperiale in Toscana. E se in questo caso l’influsso federiciano rientra in un discorso di politica e di egemonia, non si può certo dimenticare il ruolo della scuola poetica siciliana nella nascita dello Stil novo fiorentino, che è alle origini stesse della lingua e della letteratura italiana. D’altro canto, san Francesco d’Assisi, da sempre affascinato dai temi della letteratura cortese d’Oltralpe, entrò in contatto con un poeta che era stato incoronato «Re dei versi» da Federico II in persona: quel compositore e cantore provetto vestí l’abito dei Minori assumendo il nome di Fra’ Pacifico, e proprio a lui il Poverello sognò di affidare il Cantico di Frate Sole, affinché lo recitasse in giro per il mondo, con la sua maestria di poeta di corte.

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civiltà comunale/10 Dopo il tramonto della monarchia sveva, le lotte intestine tra guelfi e ghibellini conobbero un impulso decisivo, e Carlo I d’Angiò, il «nuovo» monarca del Sud, era divenuto il coordinatore e il rappresentante carismatico della fazione filopapale. In questa veste arrivò ad assumere la qualifica di signore di Firenze (1267-1278), e la stessa circostanza di una signoria angioina sulla città toscana si ripropose poi nel 1313, con suo nipote Roberto. Egli rivestí quel ruolo per due mandati, fino al 1322. La città-simbolo del mondo comunale del Centro Italia fu cosí interessata, sia pur temporaneamente, da una dominazione di tipo personale, benché non mettesse in discussione l’ordinamento «repubblicano».

Contemporaneamente, si assisteva alla particolare diffusione in Toscana del culto di san Ludovico di Tolosa (1274-1297), che faceva da supporto proprio all’immagine di rettitudine degli Angiò, come già era accaduto con re Luigi IX il Santo, fratello di Carlo I. Ludovico era nipote dello stesso Carlo, e aveva rinunciato al trono in favore del fratello Roberto, per farsi francescano. La sua santità nobilitava l’intera casata, e la sua appartenenza ai seguaci di san Francesco suggerí agli Angiò di contribuire alla decorazione pittorica della Basilica inferiore di Assisi, grazie all’opera di Simone Martini.

Artisti e letterati alla corte angioina

La corte angioina di Napoli, d’altronde, costituí una realtà culturale che richiamava letterati e artisti di elevatissimo livello. Per assicurarsi l’ingaggio di Arnolfo di Cambio nella realizzazione della Fontana Maggiore (1277), il Comune di Perugia dovette richiedere l’autorizzazione a Carlo I d’Angiò, poiché il re si era garantito i servigi dell’architetto-scultore senese. Lo stesso Arnolfo, d’altronde, aveva eseguito a Roma la statua del monarca di Sicilia, destinata al Campidoglio per magnificare la sua qualifica di senatore dell’Urbe. Da Roma giunse a Napoli Pietro Cavallini, all’epoca di Carlo II (12891309), mentre all’epoca di re Roberto (1309-1343), arrivarono dalla Toscana Giotto in persona e l’illustre scultore Tino di Camaino. E la Napoli angioina fu una tappa importante anche per Boccaccio e Petrarca. L’incoronazione del poeta in Campidoglio (8 aprile 1341), d’altronde, fece seguito a un «esame» che si svolse a Napoli proprio con il patrocinio di re Roberto. Sin dall’epoca della dominazione normanna, è poi inimmaginabile una scissione economica tra le due Italie. La fitta presenza dei mercanti di Genova nelle piazze del Sud, per esempio, è al riguardo assai istruttiva. Anzi, la necessità per i Genovesi di stringere accordi con il re normanno Guglielmo I, nel 1156, fu anteposta alle pur importanti logiche di alleanza con A sinistra San Ludovico di Tolosa incorona il fratello Roberto d’Angiò, tempera e olio su tavola di Simone Martini. 1317 circa. Napoli, Museo di Capodimonte. Nella pagina accanto le attività produttive e le rotte commerciali nell’Italia del Basso Medioevo.

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L’Aquila e le 99 cannelle

Secondo un vecchio mito storiografico, il capoluogo dell’Abruzzo sarebbe stato fondato da Federico II in persona. Il nome della città, d’altra parte, è un omaggio all’aquila imperiale, eletta a blasone della casata sveva degli Hohenstaufen. In realtà, L’Aquila nasce per iniziativa degli abitanti dei contadi di due antiche città decadute, Amiternum e Forcona, che desideravano riunire le proprie forze mettendo mano a una nuova città, liberandosi dal giogo dei feudatari: «Per non essere vassalli cercaro la libertade», recita il poeta-cronista Buccio di Ranallo (1294 circa–1363). Per avere un riconoscimento giuridico del loro progetto senza sottostare alla corona di Sicilia, si erano in prima battuta rivolti a papa Gregorio IX, che rispose favorevolmente con una lettera datata 7 settembre 1229. Nel 1254, quando lo Stupor mundi era già defunto, i fondatori si convinsero a coinvolgere suo figlio, il re di Sicilia Corrado IV, il quale volle che la nuova città sfoggiasse un nome in omaggio alla sua casata. Non fu una richiesta onerosa, poiché si trattava di modificare il nome originario del borgo, Acculum o Acculae. Era situato presso il monastero cistercense di S. Maria ad Fontes de Acquilis, in una zona ricca di sorgenti, e proprio l’acqua aveva ispirato i toponimi originari, sia del borgo che del cenobio. L’area, in corrispondenza dell’attuale Porta Rivera, fu poi impreziosita da una fontana monumentale che è il simbolo piú eloquente della città: la Fontana delle 99 cannelle. Una sua prima versione fu realizzata nel 1272 dal maestro Tancredi da Pentima, proprio negli anni in cui si realizzava la nuova cerchia muraria, al culmine della ricostruzione de L’Aquila avviata da Carlo I d’Angiò, nel 1266, dopo la distruzione compiuta da Manfredi (1259). Le 99 cannelle dell’assetto attuale sono quasi tutte impreziosite da mascheroni di varia foggia e, secondo la tradizione, alludono ai 99 castelli che contribuirono alla costruzione della città. Si tratta, quindi, di una celebrazione monumentale della sua fondazione, perfettamente in linea con un senso di autonomia, di orgoglio e di intraprendenza tipico del capoluogo abruzzese.

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L’Aquila. La Fontana delle 99 cannelle, ciascuna delle quali è impreziosita da un mascherone: secondo la tradizione, il loro numero coinciderebbe con quello dei castelli che contribuirono alla costruzione del capoluogo abruzzese.

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A destra icona raffigurante san Nicola e, nei riquadri che contornano il ritratto, episodi della vita del santo, tempera su tavola. XIII sec. Bari, Pinacoteca Provinciale «Corrado Giaquinto».

l’imperatore bizantino Manuele I Comneno, che si trovava ai ferri corti con il Regno di Sicilia. I rapporti economici tra le due Italie si erano subito configurati in modo asimmetrico, proprio perché gli operatori del Nord vantavano un maggiore potere contrattuale. Si tratta di un caso di «scambio ineguale», nel senso che una delle parti in gioco (il Sud) è «guidata» dalla logica imprenditoriale dei mercanti delle cittàrepubblica del Nord, che finiscono per trarre i maggiori vantaggi sia in campo economico che finanziario.

Sfruttamento «coloniale»

Il Sud ebbe il suo punto di forza nella sovrabbondanza di prodotti agricoli, fortemente richiesti dalle piazze dell’Italia centro-settentrionale. I movimenti delle merci in uscita fecero affluire nelle casse del Regno somme considerevoli di denaro grazie alle imposte e ai dazi. D’altro canto, i mercanti del Nord si assicurarono preziose clientele con i prodotti di lusso richiesti dalla stessa corte regia e dalla nobiltà feudale, con ampi margini di profitto, e gestirono in regime di monopolio le concessioni di credito. Arrivarono a ottenere beni immobili, prerogative e diritti di vario genere (come l’appalto per la riscossione di determinate tasse) come compenso per i finanziamenti erogati. Questo sistema è stato visto nell’ottica di uno sfruttamento di tipo «coloniale», e lo storico inglese David Abulafia vi ha ravvisato la radice degli scompensi economici tra le due Italie. Eppure, come ha evidenziato lo storico Giuseppe Galasso, proprio lo «scambio ineguale» garantiva unità alla Penisola, poiché innescava una dinamica virtuosa di traffici e di investimenti da cui entrambe le parti in gioco traevano vantaggi. Quando il baricentro dei commerci si spostò verso l’Atlantico, e quando le stesse città del Nord si trovarono inserite in un circuito dominato dalle potenze straniere, il sistema

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degli scambi interni della Penisola si scompensò gravemente, e il Sud perse sempre piú il suo ruolo di elemento attrattivo e partecipe. Fu questa la causa della progressiva regressione del Mezzogiorno. La sua «passività» (percepibile come tale solo in contrapposizione al particolare dinamismo dell’Italia comunale) non costituiva di per sé una limitazione o un problema strutturale. Il Regno prese corpo grazie ai Normanni, e l’affermazione del nuovo Stato, con il suo rigido apparato centrale, certo non ampliò gli spazi di iniziativa delle città, ma permise di tenere a bada il ceto nobiliare, che deteneva

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civiltà comunale/10 Sulle due pagine l’altare e la facciata della basilica di S. Nicola, a Bari.

un potere terriero paragonabile a quello dei latifondisti della tarda antichità. Si trattava, d’altronde, di un territorio nel quale le precedenti dominazioni (Bizantini, Longobardi, Arabi) non avevano favorito il nascere di particolari vocazioni di identità urbana, se si eccettuano le capitali degli Stati pre-normanni (Benevento, Capua, Gaeta, Amalfi, Napoli, Salerno). In alcuni casi, come a Gaeta e a Napoli, gli stessi Normanni lasciarono spazi preziosi alla rappresentanza cittadina, rispettando l’elezione di libere magistrature locali affiancate dagli ufficiali della corte. La mentalità comunale, che consiste nel mettere insieme idee e risorse per un progetto condiviso, non ebbe comunque modo e necessità di svilupparsi. Le realtà municipali del Regno si qualificano non a caso come «università». Come nota ancora Galasso, con questo termine non emerge una volontà, ma il semplice dato di fatto «fisiologico» che certi abitanti si trovano insieme in un certo luogo piuttosto che in un altro.

A favore dei «borghesi»

Le città, sia pure importanti, non gravitavano sul territorio e non si preoccuparono di stabilire quel legame con il contado che è parte integrante delle esperienze delle città-repubblica del Nord. Solo Capua e Messina si distinsero per essersi impegnate nell’ampliamento di un’area di giurisdizione, mentre in Abruzzo sopravvisse un concetto del comitatus come distretto di pertinenza della città. Esisteva senz’altro un ceto commerciale e artigianale che fece sentire la propria voce, dando vita a conflitti tra nobili e populares paragonabili a quelli dell’Italia comunale, in occasione dei quali il sovrano assunse il ruolo di paciere, il piú delle volte intervenendo a favore dei «borghesi»: diminuendo le tasse a loro carico o aumentando il numero dei loro rappresentanti nelle assemblee. Sin dalla dominazione normanna, non mancarono le rivolte contro il potere regio, soprattutto nei momenti di transizione e di difficoltà politico-militare. Prima ancora dei Vespri Siciliani (1282), le rivolte che si scatenarono all’epoca di Manfredi portarono alla costituzione

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a Messina di un governo «popolare» di breve vita, che il cronista Niccolò Jamsilla correlò proprio agli esempi illustri della Toscana e della Lombardia (1254-56). L’emulazione delle potenti città del Nord poteva peraltro approdare a un successo epocale in tutt’altro campo, come nel caso di Bari. Quando gli abitanti della città si proposero di mutare i loro destini con una grande impresa, trassero esempio da Venezia, e come la città lagunare si avventurò nel «recupero» del corpo glorioso di san Marco, cosí i Baresi pensarono bene di trafugare dal santuario turco di Mira il corpo di san Nicola (1087). La chiesa celeberrima che custodisce tuttora quelle reliquie riflette bene una «religiosità civica» apparentemente simile a quella ravvisabile nelle città del Nord, anch’esse impegnate nella creazione e nell’abbellimento di cattedrali e di santuari. Ma nel caso del S. Nicola di Bari, la basilica non ha alcun rapporto con le sedi del potere civico e religioso, e non si novembre

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Da leggere Giuseppe Galasso, Due Italie nel Medioevo?, in Mediterranea. Ricerche storiche, anno VIII (2011), n. 22; anche on line su www.storiamediterranea.it Salvatore Tramontana, Il mezzogiorno medievale. Normanni, svevi, angioini, aragonesi nei secoli XI-XV, Carocci, Roma 2000 Alessandro Clementi, L’Aquila, in Federiciana, Fondazione Treccani, Roma 2005; anche on line su www.treccani.it Franco Franceschi, Ilaria Taddei, Le città italiane nel Medioevo, XII-XIV secolo, Il Mulino, Bologna 2012; pp. 247-300

Sulle due pagine Palermo, chiesa della Martorana (S. Maria dell’Ammiraglio). Particolari del mosaico di età normanna: la dedicazione della chiesa alla Vergine da

parte dell’ammiraglio d’Oriente Giorgio d’Antiochia, che si prostra dinnanzi alla Madonna (in alto); l’incoronazione di Ruggero II (avvenuta nel Natale del 1130) da parte del Cristo.

inserisce in una qualsiasi logica di rafforzamento o di rinnovamento dell’assetto urbanistico. Si sostituisce alla vecchia cittadella bizantina, in posizione dominante. Il suo fascino sta proprio nella sua «irruzione» improvvisa, nel cuore del fitto tessuto stradale, stabilendo cosí una «presenza» autorevole e imperiosa.

Luogo di riunione e di riferimento

Si dà anche il caso che una chiesa «minore», la Martorana (S. Maria dell’Ammiraglio) di Palermo, avesse assunto un valore di riferimento e di identità civica come punto culminante delle processioni solenni, fino a divenire luogo di riunione e di riferimento per le rappresentanze cittadine. D’altronde, le sedi pubbliche dei governi municipali sorsero solo a partire dal Trecento, e non poterono mai competere con i palazzi regi e con le fortificazioni, né, tantomeno, con le cattedrali, spesso di enorme impatto e realizzate con il concorso dei re e del-

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la nobiltà feudale. Gli stessi vescovi, che avevano svolto un ruolo importante nell’evoluzione politica delle città del Nord, erano strettamente legati alla corona e non sfoggiarono prerogative o egemonie nella sfera temporale. C’è però il caso di Teramo, ai confini del Regno, in cui proprio il vescovo locale esercitò una signoria sulla città, concedendo al Comune il diritto di essere retto da un podestà gradito allo stesso presule (1207). In generale, comunque, osservando le vicende delle città regnicole di pari passo alla storia politica, in particolare con l’avvento degli Aragonesi in Sicilia (1282), si può evidenziare uno sviluppo istituzionale in un rapporto pressoché dialettico con la monarchia. I sovrani, in sostanza, non erano affatto contrari in linea di principio ai governi municipali, e attraverso un’accorta politica di concessioni, potevano giocare al meglio il loro ruolo, assicurandosi la fedeltà dei cittadini e un efficace funzionamento dello Stato. E se la realtà del Regno di Sicilia viene messa a confronto con la Francia o con la Catalogna – i reami di provenienza degli Angiò e degli Aragonesi –, si può notare un rapporto tra città e potere monarchico con problematiche e con esiti assai paragonabili, fermo restando che il nostro Mezzogiorno conobbe, a differenza di quegli Stati, una forte regressione proprio a partire dalla fine del Medioevo. (10 – fine)

NELLE PUNTATE PRECEDENTI Le puntate precedenti di questa serie sono state pubblicate nei seguenti numeri: ● 226 (nov 2015): Che il carroccio sia con noi! ● 227 (dic 2015): È l’ora del podestà ● 228 (gen 2016): Cavalleria e popolo ● 229 (feb 2016): Nasce la signoria ● 231 (apr 2016): Tutto in una piazza ● 233 (giu 2016): Nella penisola dei mercanti ● 234 (lug 2016): La riscoperta del diritto ● 235 (ago 2016): Case, torri e famiglie ● 237 (ott 2016): Dieci in condotte

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personaggi armando sapori

Vivere la storia di Maria Paola Zanoboni

Per ricostruire le vicende del passato, occorre far «parlare» i loro protagonisti e non limitarsi a soppesare le notizie tramandate dalle fonti: era questo uno dei principi che ispirarono lo storico Armando Sapori. Al quale si deve, fra le altre, una rilettura rivoluzionaria del passaggio dal Medioevo al Rinascimento

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ato a Siena l’11 luglio 1892, Armando Sapori è noto soprattutto per essere lo storico che studiò i libri mastri delle maggiori compagnie fiorentine (i Bardi, i Peruzzi, i Frescobaldi). Tuttavia, la sua attività non si limitò a questo: se l’analisi dei documenti, indispensabile alla storia economica assorbí la prima parte della sua vita (1927-1945), un secondo periodo fu caratterizzato invece dall’elaborazione di considerazioni storiche e metodologiche che scaturirono proprio dalle analisi documentarie. Laureatosi in legge, Sapori fu giornalista del quotidiano locale La vedetta senese, archivista presso l’Archivio di Stato di Firenze dal 1921 al 1932 – anno in cui ottenne la cattedra all’Università di Ferrara –, senatore del Fronte Popolare (1948-1953), rettore della Bocconi di Milano dal 1952 al 1967, nonché artista (rimangono numerosi suoi schizzi e opere in terracotta). Morí il 6 marzo 1976 a Milano.

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Qui sopra lo storico senese Armando Sapori (1892-1976). A destra miniatura raffigurante il molo veneziano di San Marco al momento della partenza per l’Oriente di Marco Polo, con il padre e lo zio. 1400 circa. Oxford, Bodleian Library.



personaggi armando sapori

Per Armando Sapori, la storia non è fatta dai numeri, ma soprattutto dagli uomini, e non dalle loro mummie, ma dagli uomini vivi, che bisogna far parlare col loro linguaggio, per poterne avere risposte. Tra i suoi maestri annoverava primo fra tutti Gaetano Salvemini (1873-1957), del quale apprezzava il distacco dall’indirizzo filosoficoerudito e la capacità di presentare la vita in movimento, poi Gino Luzzatto (1878-1964), il francesce Lucien Febvre (1878-1956), e gli Annalisti (appellativo con il quale vengono designati i fondatori della «Scuola delle Annales», dal nome dell’omonima rivista) in generale, dai quali trasse l’idea di una storia «totale», fatta di vita e di sensibilità, anziché di astrazione, di dati quantitativi e di un susseguirsi di sistemi economici (in polemica con Werner Sombart, 1863-1941). Proprio l’incontro con Lucien Febvre (che di lui diceva: «Non studia la storia, la vive»), nel 1945, diede inizio a quello che si può definire il «secondo periodo» di Sapori. Lo

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storico francese – affermava Sapori stesso – operò una vera e propria cesura nel corso dei suoi studi (fino a quel momento ancorati prevalentemente all’esame del documento).

Riflessi e interferenze

La principale dote del co-fondatore delle Annales era costituita dalla vitalità di cui sapeva animare la storia: avvertiva infatti il confluire in essa di tutte le possibili espressioni della civiltà, da considerare unitariamente per poterle comprendere attraverso un gioco di multiformi e molteplici riflessi e interferenze. Al suo centro, l’uomo non come entità astratta, ma come essere vivente completamente inserito nel contesto sociale, materiale, politico, culturale e religioso che gli apparteneva. Una storia dunque vista dal basso, anziché dall’alto per protagonisti. Due allora i segreti dello storico: il saper «entrare nella testa» e persino «nella pelle» degli uomini, rispettandone la personalità; e il saper imprimere il senso del moto, che si può considerare la virtú car-

dinale dello storico: la staticità appartiene infatti all’imbalsamazione e alla morte, mentre la storia deve essere movimento e vita, e in essa devono confluire tutte le molteplici espressioni della civiltà. Questo fa sí che non si possa considerare fonte soltanto il documento d’archivio, ma che ogni altra testimonianza, di qualsiasi natura, possa essere di ausilio nella ricostruzione del passato, delle sue istituzioni, delle sue idee, dei suoi sentimenti. L’interdisciplinarietà, dunque, va posta alla base della ricostruzione storica. Lo storico, come lo scienziato, non deve chiudersi in una torre d’avorio «se vuole che la sua opera sia feconda di bene», ma deve calarsi completamente nella società legando la propria attività a tutte le altre della sua epoca. Lo storico «è un sacerdote che non sacrifica, con paludamenti e atteggiamenti ieratici, sulle ceneri dei morti. È un uomo vivo, mescolato alla vita, vestito alla buona, godente di questo suo bagno nell’umanità, che celebra il rito della vita perenne novembre

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In alto miniatura raffigurante Goffredo di Buglione che si imbarca per la prima crociata, da una cronaca illustrata dall’olandese Willem Vrelant. 1467. A destra vignetta raffigurante la vendita del grano, da un’edizione dello Specchioumano di Domenico Lenzi, detto il Biadaiolo. Miniatura attribuibile a un artista della scuola di Bernardo Daddi e dei fratelli Lorenzetti. 1325-1350.

e in perenne trasformazione (…). La vita e la scienza non consentono un istante di sosta».

Scienza delle diversità

Alla comprensione dei fenomeni (economici, storici o di qualsiasi altro tipo) non è sufficiente il dato quantitativo – affermava Sapori –, ma è necessaria la valutazione anche degli aspetti qualitativi: la considerazione dei soli dati numerici, infatti, fa sí che la storia non sia piú la «scienza dell’uomo concepito e rivissuto nella sua integrale unità», la «scienza delle diversità e non soltanto delle concordanze e dei sentimenti attraverso i quali procede

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l’innegabile progresso», la «scienza della vita, che per essere sostanziata di mente e di cuore non può prescindere da pensieri e sentimenti (…) i quali precedono, accompagnano, seguono tanto l’azione del singolo, quanto l’accadimento storico nell’accezione piú vasta». Per Sapori, come per Febvre, «la Storia ha per oggetto esclusi-

vamente l’uomo: tutto ciò che con lui ha attinenza sarà studiato, non come materia a sé, ma in quanto legato a lui, caposaldo senza appoggiarsi al quale ogni costruzione mancherebbe di sostegno». Da questo deriva anche il rifiuto di un metodo storico inteso come complesso di norme codificate da rispettare, il rifiuto delle costrizioni

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personaggi armando sapori Firenze. Il Campanile di Giotto della cattedrale di S. Maria del Fiore, una tra le piú importanti opere dell’architettura gotica fiorentina del XIII sec.

questioni che non troverà mai sulla guida scritta (…) E chi interroga continuamente e a fondo sé stesso e la vita, sa troppo bene che non trova un passe-partout per darlo in uso al sindacato degli apprendisti». Non è tanto il numero degli studi a far progredire la storia economica (scienza che, per essere tale deve adottare i procedimenti acquisiti da altre discipline), ma piuttosto il metodo in essi applicato, che deve basarsi prima di tutto sull’esame dei documenti, attraverso una ricerca che Sapori definisce «particolarmente penosa», sia perché la testimonianza del fatto economico è naturalmente destinata a essere distrutta non appena cessino le cause che l’hanno generata; sia per la sua varia collocazione nei fondi piú diversi (tra cui quello notarile, del quale lo storico sottolinea l’importanza), talvolta (come gli archivi familiari), di difficile accesso. Perciò soltanto una collaborazione internazionale per un piano sistematico di ricerca potrà portare (soprattutto per determinati temi come quello relativo alla moneta), a significativi progressi e risultati.

Nulla è definitivo a favore di un lavoro di intelligenza, di sensibilità e di «fantasia» in un continuo divenire, al di fuori di una disciplina formale: «il lavoro dello storico è un lavoro di intelligenza. E all’intelligenza nulla ripugna piú del dogma e di qualsiasi altra costrizione». Di conseguenza, Sapori rifiutava anche l’idea di una «scuola»: meglio un gruppo, ovvero un «esprit», come quello delle Annales,

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ovvero, secondo le parole di Febvre, «un appel à l’intelligence, une perpétuelle insurrection contre tout ce qui brise l’unité de l’esprit humain, contre toutes les cloisons que l’on prétend maintenir entre ses activités diverses». «Se [lo storico] è intelligente – affermava Sapori facendo sue le idee dello studioso francese – non avrà bisogno di alcun vedemecum per interpretare i testi, cogliere le contraddizioni, spiegarle, soprattutto porre

Per Sapori, come per Febvre, l’opera storica non dovrà mai giungere a conclusioni definitive: «È viva quella che a leggere fa pensare, e dà, essa stessa, gli spunti del dissenso, favorendo il progresso che in ogni scienza si fa avanti attraverso il contrasto». Ne conseguono anche il rifiuto del nozionismo e l’impostazione per problemi dell’insegnamento storico. Nel proporre una nuova periodizzazione e un diverso concetto di Rinascimento, rispetto a quello – eminentemente culturale – teorizzato da Jacob Burckhardt (1818novembre

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1897) nel 1860 e ideato da Jules Michelet (1798-1874) nel 1855, Armando Sapori rilevava, sulla scia di Lucien Febvre, come, sia il «Medioevo» (termine coniato da Francesco Cellario alla fine del Seicento), sia il «Rinascimento» fossero soltanto «invenzioni», «sintesi intellettuali», costruzioni artificiali improprie, come impropria è la pretesa di «rompere la continuità del processo storico, scomponendolo in parti che spesso sembrano arbitrarie, per giungere a darne una immagine». Da qui l’esigenza (postulata in embrione, del resto, già dallo stesso Burckhardt), di studiare il fenomeno «in tutti i suoi aspetti, e dai punti di vista piú disparati», considerando cultura non solo le arti e le lettere, ma «tutte le espressioni della vita», comprese quelle politiche ed economiche. Si dovrà allora «parlare non di uno, ma di piú rinascimenti, in quanto almeno il termine a quo del rinascimento economico non coincide, assolutamente, con quello attribuito al rinascimento letterario, artistico, filosofico».

Contro le etichette

Il concetto di Rinascimento nelle sue molteplici sfaccettature e in una visione a 180 gradi – in cui rientrava anche il rinascimento economico (che precede di alcuni secoli quello culturale) – era dunque al centro del pensiero di Sapori. Da qui la polemica con Burckhardt, che invece prendeva in considerazione soltanto i fenomeni letterari e artistici. Dello storico tedesco e dei «rinascimentisti» Sapori criticava la rigidità concettuale, che li portava a incasellare ed etichettare Medioevo e Rinascimento, distinguendo nettamente le due epoche e attribuendo a ciascuna caratteristiche ben precise: religiosità, e spirito di corpo fatto di solidarietà di gruppo e corporativa, al primo; laicità, individualismo, atteggiamento critico, e libertà dello spirito, al secondo. A questi schemi Sapori oppone

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il fatto che i motivi ritenuti tipici dell’età rinascimentale animavano in realtà gli intellettuali già nel XII secolo: l’insofferenza per la verità dogmatica e la necessità della critica per arrivare alla verità di ragione; la proclamazione del diritto di apprendere e del dovere di insegnare secondo coscienza; il senso dell’evoluzione della storia e quello del progresso che muove dal passato; la fiducia nella forza speculativa dell’intelletto, impregnavano fin dal XII secolo lo spirito goliardico che aveva preceduto l’istituzione delle prime università, sostenute da illustri studiosi di quel periodo (tra i quali Abelardo). Secondo la nuova periodizzazione proposta da Sapori, il Rinascimento comincia nel XII secolo con

Un cambiavalute nella sua bottega, particolare della predella del polittico del monastero di S. Matteo, realizzato da Pietro di Miniato per lascito testamentario del mercante Francesco Datini. XV sec. Prato, Museo di Palazzo Pretorio.

la Crociata e la rinascita dei commerci e delle città raggiunge l’apice nella prima metà Trecento, per poi fermarsi in una situazione di stasi nel Quattrocento, e in un deciso declino nel Cinquecento. Il XIII secolo e l’inizio del XIV furono l’epoca d’oro, con progressi in tutti i campi. Per quel che riguarda l’aspetto economico del periodo rinascimentale, rivestirono un’importanza determinante, da un lato la Crociata, che stimolando i commerci diede impulso anche alle

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personaggi armando sapori A proposito di Dante Pur apprezzandone l’opera poetica e la vicenda umana, Armando Sapori definí Dante Alighieri, «uomo economico superato», perché il poeta condannava la sete di guadagni e l’immoralità del lusso dei Fiorentini, contrapponendoli alla semplicità e alla modestia degli anni del Cacciaguida, per cui «a buon diritto i suoi concittadini lo bandirono», contribuendo cosí «a creare e ad affermare, nell’umanità del dolore e dello sdegno, del rancore, il Poeta non solo di Firenze e del Trecento, ma di tutto il mondo e di tutte le età». Sarebbero stati cioè i Fiorentini i principali artefici dello «sfogo» di Dante nella Divina Commedia. manifatture, al credito, alla banca, allo sviluppo delle tecniche contabili; dall’altro le fiere di Champagne, grazie alle quali l’impulso decisivo dato al commercio del denaro si coniugò con la formazione di una sorta di «spirito europeo», prodotto dagli spostamenti incessanti di uomini e merci dalla Scozia a Gerusalemme, che determinò l’incontro tra persone di lingua diversa e di svariate culture.

Lo «spirito capitalistico»

Anche lo «spirito capitalistico» va fatto risalire al periodo della Crociata e attribuito al mercante italiano, anziché al calvinismo e all’etica protestante. Le grandi opportunità offerte in quell’epoca dalla riapertura del Mediterraneo, infatti, oltre a favorire l’incremento degli affari e la mole delle fortune – portando in primo piano la ricchezza mobiliare –, modificarono la mentalità dei mercanti, «fino a renderli piú o meno Orvieto, Duomo, Cappella Nova (detta anche di S. Brizio). Il ritratto di Dante Alighieri realizzato ad affresco da Luca Signorelli. 1499-1502.

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apertamente ribelli allo spirito della Chiesa nel campo dell’economia». Nel Quattrocento, e ancor piú nel Cinquecento, secondo Sapori, l’Italia entrò in una fase di declino, non solo economico, ma anche morale, e anzi proprio quest’ultimo fattore, dovuto al mutamento di mentalità dei mercanti e di tutta la società, sarebbe alla base della decadenza generale della Penisola. Dal punto di vista economico, non si trattò di una decadenza quantitativa, ma qualitativa: durante il Cinquecento, infatti, il volume di scambi trattato dagli uomini d’affari italiani continuò a rimanere macroscopico, nonostante la concorrenza dei mercanti di altre nazionalità (che proprio dagli Italiani avevano appreso i principali rudimenti del mestiere), ma non vi furono in nessun campo (agricolo, manifatturiero, commerciale ecc.) innovazioni significative come quelle che erano state ideate negli ambiti piú disparati nel Duecento e nel primo Trecento.

Nuovi mercanti

Ed era ormai mutato anche quello che Sapori considera l’aspetto principale del Rinascimento economico due-trecentesco: la figura morale dell’uomo d’affari. Il mercante del XIII secolo, che si era distinto per la sua attiva partecipazione alla vita politica, per la genialità delle sue vedute economiche, per la versatilità del suo ingegno che gli consentiva di svolgere qualsiasi funzione, per la sua cultura (mercanti erano, per esempio, Boccaccio e Villani), aveva ceduto il posto, a partire dal Quattrocento, a operatori economici ancora grandi per ricchezza e per l’estensione delle loro operazioni mercantili, ma molto piú piccoli d’animo, come il pratese Francesco Datini. All’aristocrazia altomedievale Sapori riconosceva il merito fondamentale di avere salvato intere masse dalla distruzione, garan-

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Da leggere Tra i contributi di Armando Sapori ne ricordiamo alcuni confluiti nei voll. I e III degli Studi di storia economica, pubblicati da Sansoni: Il Rinascimento economico (vol. I, pp. 619-652); L’operatore economico dal Duecento al Cinquecento (vol. III, pp. 337-552); Esame di coscienza di uno storico (vol. III, pp. 393-421); Medioevo e Rinascimento: proposta di una nuova periodizzazione (vol. III, pp. 423-456); La funzione economica della nobiltà (vol. I, pp. 577-595); Lucien Febvre: uno storico e un uomo (vol. III, pp. 537-564) Lucien Febvre, Profil d’Armando Sapori, in Studi in onore di Armando Sapori, Istituto Editoriale Cisalpino, Milano 1957; pp. XI-XX Nino Valeri, La polemica sul

tendone le condizioni essenziali di sussistenza grazie a un’organizzazione, imperniata intorno alla curtis e al feudo, che, nonostante la sua staticità tanto dal punto di vista economico che da quello sociale, risultò in ogni caso di importanza determinante, consentendo alla società europea di avviarsi progressivamente verso una lenta evoluzione (in cui ebbe parte notevole anche l’opera della Chiesa), e quindi alla rinascita dei secoli XII-XIII. Contrapponeva poi la nobiltà francese e tedesca – che non seppe inurbarsi, né farsi promotrice di miglioramenti agricoli, e non diede importanza al capitale mobile, orientando le rendite soltanto verso il consumo – a quella inglese (i cui rappresentanti si dimostrarono invece eccellenti imprenditori agricoli, in particolare per la produzione della lana), e, soprattutto, a quella italiana. L’aristocrazia della Penisola molto spesso si trasferí nelle città, avviando commerci di ogni tipo e arrivando a confondersi col ceto mercantile. Affrontò poi la questione dei ceti dirigenti, e del

Rinascimento nell’opera di Armando Sapori, in Nuova Rivista Storica, XLVII (1963), fasc.1-2; pp. 167-194 Sandra Di Majo, Rinascimento e declino economico dell’Italia secondo Armando Sapori e Roberto Lopez, in Economia e Storia, XVI (1967), fasc. 3; pp.349-358 Delio Cantimori, Ritratti critici di contemporanei. Armando Sapori, in Belfagor, XVII (1962), fasc. 6, 30 novembre; pp. 686-700 A. De Maddalena, Ricordo di Armando Sapori, in Giornale degli economisti e Annali di Economia, XXXV (1976), n. 9-10; pp. 527-540 Franco Franceschi, Armando Sapori e la storia economica à part entière, in Storia Economica, 17 (2014), fasc. 2; pp. 367-383

progressivo insinuarsi fra loro dei mercanti ed esaminò i casi specifici di Firenze, Venezia e Genova, e del Meridione. In sintesi, affermava Sapori, vi furono in Italia piú gruppi di nobiltà. Quella che, dopo il periodo altomedievale si dimostrò incapace di adeguarsi ai tempi e di incanalarsi nelle nuove correnti della politica e dell’economia, condannandosi cosí alla distruzione: fu un fenomeno tipico dell’Italia meridionale. Un’altra parte, inserendosi pienamente nella vita del suo tempo, si assunse da sola la responsabilità del potere e fu artefice della propria fortuna e di quella dello Stato: l’esempio tipico è Venezia. Un altro gruppo ancora seppe mantenere alte qualità, ma non fu in grado di rinunciare al particolarismo (Genova). Un ultimo gruppo, infine, arrivò a fondersi nella pratica degli affari con l’alta borghesia mercantile, pur combattendola, finché ne fu vinta sul piano politico: Firenze conobbe piú di altre città-stato questo esperimento che generò una nuova aristocrazia. F

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Colto, elegante e... ben armato di Barbara Conti ed Emanuela Porta Casucci

È facile pensare che la ferratura dei cavalli sia un’operazione faticosa, ma, in fin dei conti, piuttosto semplice. Invece, come prova l’inventario dei beni del maniscalco Carlo di Michele d’Antonio, attivo nel Valdarno Inferiore, la mascalcia richiedeva solide competenze, che l’artigiano acquisí anche grazie a un manuale gelosamente custodito

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el Fondo Pupilli avanti il Principato dell’Archivio di Stato di Firenze si contano soltanto un paio di inventari relativi a botteghe di maniscalco del XV secolo e quello intestato agli eredi di Carlo di Michele d’Antonio, residenti nel Valdarno Inferiore (filza n 177, cc 75r-76v), permette, per la sua accurata descrizione, un certo approfondimento sulla mascalcia, l’arte cioè del maniscalco, come si ufficializzò lessicalmente per contrazione da «maniscalcia». Eseguito dal notaio dell’Ufficio dei Pupilli, ser Nicolò di Cristofano Ferrini, in data 19 febbraio 1479, dopo il decesso senza testamento dell’uomo, ne delinea l’abitazione di famiglia e il contiguo ambiente di lavoro a Santa Croce sull’Arno, dal XIV secolo parte del distretto di Firenze, cittadina sede di mercato e scambi commerciali in una zona a forte vocazione agricola. Il Camerlengo dell’Ufficio dei Pupilli apre una pratica a nome degli eredi del maniscalco in data 1° dicembre 1479, al recepimento dell’inventario. In prefazione, l’ufficiale indica che l’intervento si è reso necessario per rinunzia e rimessione della madre dei pupilli, vedova di Carlo, a esercitare la patria potestà sul loro unico figlio di appena sei mesi, che porta lo stesso nome del padre. Dispone che parte degli immobili e masserizie di proprietà

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Sulle due pagine miniatura raffigurante la ferratura di un cavallo, da un’edizione manoscritta del Libro de menescalcia y albeyteria, trattato di veterinaria del XIV sec. Scuola spagnola, 1390 circa. Parigi, Bibliothèque Nationale de France.

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gente di bottega/8 santa croce sull’arno

Sotto la minaccia costante della furia del fiume... Castellare in Val d’Arno Inferiore, sulla riva destra del fiume, nel contado di Pisa, prima del XVII secolo rispondente alla giurisdizione religiosa della diocesi di Lucca e poi a quella di San Miniato al Tedesco, si trova nominato nei documenti dal XIII secolo. Nel 1333, le mura castellane furono in gran parte distrutte dall’inondazione del fiume Arno, descritta da Giovanni Villani nel Libro XI della sua Cronica. La comunità degli abitanti di Santa Croce appare in un rogito del 27 novembre 1224 come proprietaria di pascoli e boschi da pastura dati in concessione al Comune di Firenze per l’affitto annuo di 100 fiorini. Tranne un breve periodo, dal 1261 al 1267, in cui ne prese possesso il conte Guido Novello come vicario del re Manfredi d’Altavilla, la comunità si gestí in maniera indipendente, come sembrano dimostrare le ripetute controversie con le comunità di Fucecchio e Castelfranco di Sotto per il possesso del territorio detto delle Cerbaie, avvenute fra il 1270 e il 1287, con ripetuti ricorsi al giudizio del Potestà e del Capitano del popolo di Lucca. Vi nacque la beata Cristiana, che vi edificò un monastero di monache sotto la Regola di sant’Agostino, di cui nel 1286 fu badessa, situato in alcuni edifici presso le mura del castello donate dalla comunità di Santa Croce. Nel 1315, quando Uguccione della Faggiuola si fece signore di Pisa e poi di Lucca, Santa Croce con alcuni castelli fortificati del Val d’Arno Inferiore dipesi fino allora dai Lucchesi, si pose sotto la custodia dei Fiorentini. Con alterne vicende, che videro anche la conquista da parte di Castruccio Castracani, condottiero dei Lucchesi, e la riconquista da parte fiorentina nel luglio 1327, nel 1330 Santa Croce si sottomise volontariamente al Comune di Firenze come comunità distrettuale del Sesto di Oltrarno poi Quartiere di Santo Spirito, con obbligo di sottostare alla fiscalità imposta dalla Dominante e l’annuo tributo di un grande cero decorato, da recare a Firenze il 24 giugno alla festa del santo protettore Giovanni Battista. Nel 1452 la Signoria di Firenze concesse al Comune di Santa Croce una diminuzione temporanea delle tasse, a condizione che con il disavanzo la comunità ricostruisse le mura del loro castello spesso rovinate dalle inondazioni dell’Arno. restino nelle mani di Monna Veronicha, don[n]a fu di detto Charlo, parte li affida a familiari della vedova, e parte a un altro notaio, ser Giuliano di Pappi Meucci: segno che gli interessi attorno all’attività del maniscalco erano molti e di complessa gestione.

Terre, vigne e una casa a due piani

In alto il borgo di Santa Croce sull’Arno nella mappa della Toscana compresa nel Theatrum Orbis Terrarum di Abraham Ortelius. 1570. Nella pagina accanto miniatura raffigurante il dio

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Vulcano, signore del fuoco e della lavorazione dei metalli in abiti medievali, da un’edizione del Livre des échecs amoureux di Evrart de Conty. 1496-1498. Parigi, Bibliothèque Nationale de France.

Gli appartenevano infatti numerosi terreni e immobili, indice di un medio livello sociale garante di un certo agio. Oltre a 6 appezzamenti di terra lavorata, parzialmente tenuti a vigna, di là d’Arno, l’uomo possedeva un vasto edificio su due piani con solaio, nel quale era sistemato con la famiglia: al piano nobile una sala, un acquaio – lavanderia e cucina – un soppalco con la camera di Charlo nuova. Al piano sottostante era sistemata la bottegha, anche se materiali e attrezzi da lavoro si ritrovano distribuiti un po’ per tutta la casa: sembra trattarsi di uno stanzone dotato di un cortile posteriore e di un campo all’esterno, nel quale, per prima cosa, viene rilevata 1 fornacie murata di matoni, che v’era[no] murati circha a 300 mat[t]oni a scala e con un piccolo stazzo murato a secho e altri matoni in u[n] chortile drieto ch’erano in tutto 1000 mattoni in piú luoghi per lire 8. La diversificazione produttiva di Carlo verso il settore dei laterizi non sorprende, vista la forte espansione d’uso di tale manovembre

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gente di bottega/8 la mascalcia

Dalla pratica alla teoria I cavalli si ferrano solo dal Medioevo, inchiodando allo zoccolo la protezione metallica che va periodicamente sostituita, a causa della continua ricrescita dell’unghia. Soltanto da tale epoca, infatti, gli animali furono costretti a vivere in spazi ristretti, senza poter irrobustire lo zoccolo col continuo movimento. Per ovviare al problema, nacque allora la figura del maniscalco, che si dedicò a forgiare il ferro con incudine e martello, per adattarlo allo zoccolo. Risale alla metà del XIII secolo il primo scritto sull’argomento, pervenutoci attraverso la tradizione manoscritta con vari titoli: Mariscalcia equorum, Liber de curis equorum, Cyrurgia equorum. Opera di Giordano Ruffo di Calabria, maniscalco alla corte di Federico II di Svevia, fu scritto molto probabilmente in latino subito dopo la morte dell’imperatore – tra il 1250 e il 1256 – e può essere considerato come uno dei primi trattati di arte veterinaria dell’Italia medievale, privo di ogni riferimento a pratiche magiche, superstizioni o improvvisazioni. L’opera conobbe un successo immediato, come si può dedurre dalle numerose traduzioni: l’impostazione pratica delle parti dedicate alla tecnica e agli strumenti della mascalcia, che mettevano in guardia sui danni provocati da una cattiva ferratura, ne fa una sorta di enciclopedia della materia, utile per secoli a tutti quelli che si occupavano di cavalli e punto di riferimento per chiunque altro volesse scriverne.

Il Valdarno: terra di ceramiche e laterizi

Una tradizione illustre e ancora oggi fiorente Le già diffuse fornaci del Quattrocento furono prodromiche all’affermarsi, nel Rinascimento, delle cittadine di Montelupo, Fucecchio e Santa Croce sull’Arno, nel Valdarno Inferiore, come centri produttivi di ceramica decorativa e di uso comune, nonché di laterizi, tegole, doccioni e canali per l’edilizia. Vi contribuí la felice dislocazione lungo il fiume Arno e a ridosso delle canalizzazioni nell’area paludosa del

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Padule di Fucecchio, estesa rete di vie d’acqua che incrocia la via Francigena e che si forma nel percorso del fiume da Firenze verso la foce pisana, il Valdarno Inferiore appunto. Montelupo si specializzò in maiolica – terracotta rivestita di smalto bianco a piombo, decorato e ricotto con o senza velature di cristallina –, Fucecchio nella ceramica ingobbiata – rivestita di argilla per livellarne le rugosità

della superficie e applicarvi diverse colorazioni e dare maggiore impermeabilità. Santa Croce raggiunse l’apice produttivo nel XVII secolo e in tutta la zona si verificò una forte immigrazione di manodopera specializzata, genericamente definita nella documentazione come stovigliai, proveniente dalla vicina Val d’Elsa, dal resto del Valdarno, dal Chianti con il noto centro produttivo di Impruneta, e dalla Val di Nievole, in Lucchesia. novembre

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Nella pagina accanto la forgiatura di un ferro di cavallo (in alto) e la ferratura dello zoccolo di un cavallo. Qui sotto boccale con

decorazione a occhio di penna di pavone, da Montelupo. XV sec. Sassari, Museo Archeologico ed Etnografico «G. A. Sanna».

teriale nel Valdarno Inferiore a partire dal XIII secolo. Una fioritura legata forse a ragioni economiche – il mattone aveva, infatti, costi inferiori a quelli della pietra – o alla necessità di manodopera meno specializzata, che portò alla nascita di piú o meno grandi fornaci per la produzione di mattoni, i cui resti, in alcuni casi, sono ancora oggi rintracciabili.

Un giro d’affari consistente

La presenza della fornace annette alle attività del maniscalco anche la lavorazione dei metalli necessari alla forgiatura di chiodi e ferri, un procedimento evidentemente fondamentale, visto lo spazio occupato dalla dettagliata inventariazione di attrezzi e materie prime siderurgiche, con un giro d’affari consistente testimoniato dalla presenza su in sala [di] fer[r]i 300 o piú, tra di chavagli e muli, tutti nuovi; piú ferri d’asini e di buoi, in circha 20; 1000 chiovi da fer[r]are. In bottega si trovano focolari e mantici per attizzare la fiamma, scaldare il metallo da lavorare col martello sulle incudini aiutandosi con le tenaglie, ovvero 2 focholari da chucina; 1 vanghetta da por[r]e in charboni in sulla chucina; 1 paletto da zifare – ovvero rimestare – il fuocho; mantaci buoni di valuta di denari 16; (…) 1 chontrapeso da mantici cho l’ha[r]cione di fero; 1 stangha da tene[re] li manA destra ancora un boccale della manifattura di Montelupo. Secondo quarto del XV sec. Collezione privata.

Piatti e stoviglie avevano un repertorio decorativo ripetititvo: la penna di pavone, la corda francescana, l’uccellino centrale e poi, a richiesta dei committenti, stemmi araldici familiari e simboli religiosi. Nel XVIII secolo, una forte crisi, dovuta anche al sensibile aumento del prezzo della legna – il combustibile naturale e piú diffuso nelle fornaci, perlopiú ricavato dai vicini boschi delle Cerbaie, nei quali la presenza arborea

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diminuí significativamente, in parte per il prevalere della pastura animale, in parte per la raccolta di ghiande e lettiera e in parte per malattie delle piante, incendi ed eventi meteorici –, fece registrare la drastica diminuzione della produzione da fornace in tutta la zona, salvo che a Fucecchio e Montelupo, dove perdura ancora oggi.

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gente di bottega/8 sant’eligio

Il protettore dei fabbri e dei maniscalchi Nato vicino a Limoges intorno al 590, Eligio diventò orafo presso la bottega di un artigiano del suo paese natale. Si dedicò a innumerevoli opere di carità e fu artefice di miracoli, fra cui alcune guarigioni di cavalli. Dopo la morte, nel 660, diventò il patrono di tutti gli artigiani dei metalli ed è spesso ritratto in dipinti e miniature intento a lavori di mascalcia: la leggenda narra che fosse riuscito a ferrare un cavallo a cui era stata tagliata la zampa, rimettendola successivamente a posto senza problemi. Cosí lo raffigura, per esempio, l’anonimo artista della fine del XV secolo che affresca la chiesa della Beata Vergine del Rosario a Bernezzo, in provincia di Cuneo o il miniatore dell’Hippiatria di Lorenzo Rusio, trattato scritto a Roma verso il 1340. Alla leggenda fa riferimento anche il cortonese Luca Signorelli, che lo dipinge nel 1502 con in mano la zampa tagliata e un incastro da maniscalchi sul retro dello Stendardo della Crocifissione, destinato alla chiesa di S. Antonio Abate a Sansepolcro, vicino ad Arezzo. Un’altra leggenda lo vuole invece tentato dal diavolo, che gli si presenta in abiti femminili mentre sta ferrando un cavallo: cosí appare nel dipinto del fiorentino Niccolò di Pietro Gerini, del 1415, conservato al Musée du Petit Palais di Avignone e anche in uno dei riquadri della predella della Pala di San Marco di Botticelli (1488-90). In quasi tutte le rappresentazioni compaiono interessanti particolari relativi agli strumenti della mascalcia e Miniatura raffigurante il miracolo di sant’Eligio, il protettore dei fabbri. XVI sec. Bologna, Biblioteca

Universitaria. La scena illustra la leggenda secondo la quale il santo sarebbe riuscito a ferrare la zampa tagliata di un cavallo.

tici (…) 1 anchudine di valuta di denari 18; 2 mazzi da mazzichare di peso libbre 13, vagliono denari 3 soldi 10; 2 martegli da mano di peso di libbre 8 in circha, vagliono soldi 3 l’uno, danari 1 soldi 4; 5 paia di tanaglie da fuocho. Infine, in detta botegha una chatasta di lengnia da fuocho di some 12 o piú e, sotto mantacci, staia 12 di charbone di schopa. L’elencazione rispecchia la catena operativa del maniscalco: per prima cosa, infatti, il metallo va appiattito, poi gli va data la forma arcuata dell’unghia dell’animale che si intende ferrare, adattandolo alle dimensioni individuali; il ferro va quindi forato, forgiando anche i chiodi che servono per fissarlo allo zoccolo: nell’inventario si trovano 1 chiovaia da rifare chiovi e 2 foratori da forare a freddo. Il ferro si appoggia sullo zoccolo dell’animale a caldo, cosí che, ancora malleabile, combaci perfettamente

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all’ambiente di lavoro, con la fucina accesa, l’incudine e il grande ceppo su cui si batteva il metallo dopo averlo arroventato sul fuoco, i molti mazzuoli, i martelli da ferratura, le curasnette, le pinze e le tenaglie per estrarre i vecchi chiodi, i chiodi e i ferri da cavallo: una delle immagini piú ricche in questo senso è l’affresco del XV secolo attribuito a Pisanello, nella chiesa di S. Caterina dei Servi di Maria a Treviso.

con la parte inferiore e si fissa con i chiodi in punti non sensibili della parete cornea. Nell’attrezzatura di Carlo di Michele si trovano 2 paia di tanaglie da fer[r]are; 2 martelini da fer[r]are, oltre a strumenti per spianare l’unghia degli animali: 2 choltegli da tagliare l’unghia, 2 inchastri da quagliare piè, 1 luna da chaldo e 1 ra[s]ppa da piè, lame per tagliare la ricrescita e lime per lisciarne l’esterno e la parte inferiore dello zoccolo, cosí che la ferratura non comporti successivi problemi al piede e alle giunture dell’animale nell’andatura. Si potrebbe essere portati a pensare che, nel proprio lavoro, Carlo potesse basarsi molto piú sull’esperienza diretta che sulla teoria, essendo pochi i testi sulla mascalcia allora in circolazione: nel Quattrocento, infatti, esistevano solo alcune trattazioni generali su allevanovembre

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Miniatura raffigurante Dunstano in lotta con il diavolo, da un’edizione manoscritta degli Smithfield Decretals (Decretali di Gregorio IX). 1340 circa. Londra, British Library.

Tradizioni popolari

Perché i ferri di cavallo portano fortuna? I ferri di cavallo sono considerati portafortuna in tutto il mondo per via della leggenda di san Dunstano, il monaco benedettino che divenne arcivescovo di Canterbury nel 959. Si narra che fosse riuscito a inchiodare i ferri da cavallo agli zoccoli del diavolo quando questi gli aveva chiesto di ferrare il suo destriero. Il dolore lancinante costrinse il demonio a trattare con Dunstano, che acconsentí a toglierli in cambio della promessa che il

maligno non sarebbe piú entrato in un luogo protetto da un ferro di cavallo inchiodato alla porta. Ma l’origine della superstizione potrebbe essere un’altra: nel Medioevo, i cavalli che perdevano un ferro costringevano il loro cavaliere a fermarsi per farlo rimettere, portando cosí fortuna a un contadino o a un artigiano delle vicinanze, il quale poteva guadagnare qualche moneta, aiutando il malcapitato; trovare il ferro per terra poteva essere

mento, alimentazione, riproduzione, igiene, doma e addestramento dei cavalli, mentre nei secoli successivi ne apparvero di piú specifici, sulla struttura fisica degli equini domestici, sui morsi, sull’arte della pareggiatura dello zoccolo animale e sulla ferratura di quelli impiegati dall’uomo, corredati da studi sull’anatomia, le malattie e i possibili rimedi.

Il trattato nel cestino

La vera sorpresa dell’inventario riguarda, invece, la presenza di un trattato professionale fra le cose che Carlo custodisce in uno dei cinque cassoni della camera sul soppalco, che possiamo pensare egli consultasse ogni volta che gli si poneva un nuovo problema da risolvere. Il testo viene citato in mezzo a libri di preghiere e car-

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un colpo di fortuna anche solo perché il materiale era allora prezioso e poteva essere riutilizzato per forgiare qualcosa di nuovo. Inoltre, la credenza che il metallo abbia il potere di allontanare il malocchio – unita a quella sul ferro di cavallo che fissato alla porta di casa con le punte all’insú difenderebbe dalla peste e altre malattie – ha portato spesso i medici del Medioevo a usarlo come strumento di guarigione.

te relative all’attività della bottega, in uno paneruzziolo [cestino] da cucina dentr’ e’ i sono 8 scritture di piú persone di sua fatti, uno libro di sua ragioni lungho chovertato di charta pechora da debitori e creditori, giornali [libri di conti], 1 libro di Fiore di vertú – un trattato di origine trecentesca di profilo moraleggiante, dedicato alla ricognizione dei vizi e delle virtú con carattere pedagogico – 1 libro de la Pas[s] ione – testo contenente la narrazione della Passione di Gesú Cristo e le storie di martirio dei santi – 1 libricino di Nostra Don[n]a – con episodi della vita della Madonna per uso educativo muliebre –, molte lettere e iscritture che non so chi lle s’ap[p]artiene, 2 charte di chontrat[t]i, e –appunto – 1 libro di maschalcie da chavagli. Tutti i libri devozionali potrebbero appartenere al corredo nuziale di Veronica, la vedova di Carlo, come

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gente di bottega/8 era usanza diffusa nel XV secolo per le giovani donne. Ma il manuale di mascalcia getta una luce tutta nuova e particolare sulla figura professionale di Carlo, facendone un professionista competente e preparato e non un modesto artigiano formatosi in un percorso di semplice apprendistato. Di Carlo ci ritorna, attraverso l’inventario, l’immagine di un uomo a suo modo elegante e curato; fra i beni che la vedova dovrà gestire e, probabilmente, vendere per ricavarne di che nutrire il figlioletto, molti sono i capi di abbigliamento specificamente attribuiti al marito: 2 gamurre nuove e 2 paia di mutande, 1 mantello nuovo nero, foderato di verde, 1 gonnellino di panno mischiato chome nuovo foderato di verde, 1 giornea adivisa da merluzzi da Bolongnia, 2 gamberagli da huomo, 1 berretta azzurra da huomo, insieme

l’arte dei fabbri ferratori

Gli specialisti del metallo Come tutti i lavoratori del metallo battuto, i maniscalchi facevano parte, a Firenze e in Toscana, dell’Arte dei Fabbri, insieme a questi ultimi e con fibbiai, coltellinai, spadai e costruttori di elmi. Il primo Statuto pervenutoci risale al 1344 e vede assemblati nella battitura dei metalli tutti i produttori di attrezzi agricoli, da carpenteria e da macelleria, ma anche di attrezzi di precisione per la pesatura di spezie, di metalli preziosi e di valuta pregiata. E tutta la produzione accessoria ai mezzi di trasporti di merci e persone, e alle motrici, ancora tutte di forza animale, come nel caso dei maniscalchi. L’Arte aveva sede nel chiasso dei Baroncelli, presso piazza

Nella pagina accanto rilievo del tabernacolo dell’Arte dei Fabbri, realizzato dallo scultore Nanni di Banco e raffigurante il miracolo di un cavallo risanato all’interno della bottega di un maniscalco. XV sec. Firenze, chiesa di Orsanmichele.

a calamai di cuoio e di osso, a penne e inchiostro e a un grembiule di chuoio da tenere dinanzi oltre a uno bello paio di stivali di vitello, 1 paio di scharpe nuove. L’inventario del maniscalco, evento piuttosto raro nelle successioni di artigiani, fissa anche una netta scansione fra i beni maritali e quelli della vedova: infatti, quanto le pertiene viene elencato dopo l’inventario della casa e della bottega, quasi a indicare l’avvenuta separazione fra quanto andrà in successione al figlio e quanto, invece, resterà nei beni personali di Veronica. Beni di abbigliamento: una cotta di ciambellotto paghonazzo chon manicha di tane nuove chon una choppia di choltel[l] ini da lato forniti d’ariento, una gamurra nuova, una cuf[f]ia di seta lavorata e una berretta nuova di taffetà rosso, un paio di chalze pagonazze da huomo e da donna, una decina di fazzoletti da mano ricamati a un filo e ispichati, un paio di pianelle di velluto rosso, un cappello fatto a agho da donna e un paio di ghuanti di perpignano fini. Si aggiungono alcuni panni per la casa: una tovaglia da tavola nuova con bordura a figure di falconi e una tovagliola da zane bordata di cotone fine, una tovaglia pesante di panno del peso di libbre Vestito da maresciallo, rappresentazione allegorica di un fabbro, munito di forno, incudine, ferri di cavallo, soffietto e altri strumenti di lavoro, dalla serie Les Costumes Grotesques: Habits des Métiers et Professions, pubblicata a Parigi nel 1695.

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della Signoria, e aveva due protettori, san Zanobi, vescovo fiorentino della prima cristianità e sant’Eligio. Nel palazzo di Orsammichele, ornato dalle statue dei stanti protettori di tutte le arti cittadine, è quest’ultimo che

rappresenta i Fabbri Ferrai, per mano dell’artista Nanni di Banco. Sempre nel novero delle Arti minori, di stampo artigianale e manifatturiero, come anche per l’Arte dei Corazzai e Spadai,

5 e mezzo (piú di 2 kg), un lenzuolo da camera di ricambio nuovo e lavorato. Qualche gioiello: un vezzo di corallo valutato a peso, e qualche oggetto per la casa: 2 caregli da sedervi suso e due non forniti; 1 paio di forbicine da donna.

Pronto a ogni evenienza

Un notevole repertorio di armi è prova della vivace vicenda storica che caratterizzò la lega dei Comuni di Santa Croce, Castelfranco e Fucecchio nel secolo precedente a quello in cui visse il maniscalco e della traccia viva lasciata nella memoria degli abitanti, nonché della necessità di essere sempre pronti a ogni evenienza: 2 spade da fianco belle e buone, una balestra d’acciaio buono, uno scudo da collo, 20 dardi da balestra, un chiaverino da portare in mano sono nella cucina e una lancia lungha da soldati chol ferro in solaio. È probabile che fossero state forgiate da Carlo stesso, ma è impossibile capire se si tratti di un’ulteriore specializzazione nell’attività del maniscalco e se fossero destinate a un uso personale oppure alla vendita. Non dovette esser facile per monna Veronica venire a capo di questa complessa eredità: da un lato la bottega di maniscalco, sicuramente rivendicata da parenti e affini, dall’altro annose vicende di successione gravanti sui beni maritali di campagna le resero difficile resistere a pressioni e angherie dei parenti. I quali non mancano di segnalare agli Ufficiali dei Pupilli che la donna si sa-

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dalla seconda metà del Trecento vide una forte emorragia di iscritti a favore dell’Arte dei Mercanti di Por Santa Maria, nel Quattrocento rivolta soprattutto alla produzione e al commercio della seta.

rebbe appropriata delle raccolte di grano e vino del 1478 e del 1479, anche se il grano raccolto nel 1478 era stato poco e quello dell’anno in corso non le era ancora stato consegnato. Segnale di una forte litigiosità interna alla famiglia, forse alla base della decisione della vedova di rinunciare alla tutela del figlio per proteggerne l’eredità, affidandone la gestione alla magistratura fiorentina. Inoltre, il padre di Veronica le aveva lasciato un terreno gravato da una lite successoria per valutarne l’estensione, in corso da almeno 10 anni: per questa ragione sopra tienelo incholto Charllo, in attesa di una sentenza proprio dagli Ufficiali dei Pupilli. Forse la giovane Veronica era stata, a sua volta, una pupilla?

Da leggere Lia Brunori Cianti, Luca Cianti, La pratica della veterinaria nei codici medievali di mascalcia, Edagricole, Bologna 1993 Sandro Bertelli, La Mascalcia di Giordano Ruffo nei piú antichi manoscritti in volgare conservati a Firenze, in La veterinaria antica e medievale (testi greci, latini, arabi e romanzi), Atti del II Convegno inernazionale (Catania 3-5 ottobre 2007), Athenaion, Lugano 2009; pp. 389-427; anche on line: www.academia.edu/5780202

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di Aart Heering

Fra la metà del VII e la metà dell’VIII secolo, il regno frisone si affermò come un vero e proprio impero commerciale, trasformando in una fonte di ricchezza quel Mare del Nord con il quale aveva imparato a convivere. Carlo Magno pose fine all’indipendenza dei Frisoni, che però lasciarono un’eredità importante: la rinascita dell’economia monetaria

frisoni

La chiesa di S. Michele a Harlingen, una delle piú antiche città della Frisia. Nata come piccolo villaggio, nel Medioevo Harlingen si trasformò in un importante centro commerciale, sviluppandosi intorno ai castelli delle nobili famiglie degli Harliga e degli Harns. Pur avendo acquisito lo status di città, fu dotata di una cinta muraria solo nel XV sec.

Guerrieri e commercianti del Mare del Nord


Dossier

E È

il 5 giugno 754. Il missionario anglosassone Vilfredo, meglio noto con il nome di Bonifacio – che papa Gregorio II gli aveva assegnato nel nominarlo vescovo –, si è accampato presso il fiume Boorne, in Frisia, vicino all’attuale città di Dokkum (Paesi Bassi), con il suo seguito di 52 religiosi e guardie armate. Vent’anni prima, in questo stesso luogo il maggiordomo di palazzo franco, Carlo Martello, aveva sconfitto il re frisone Poppo, spianando la via alla cristianizzazione dei Frisoni. L’anziano sacerdote (Vilfredo era nato nel Wessex intorno al 675), reduce da una lunga attività di evangelizzatore in Germania, non intendeva farsi sfuggire l’occasione di portare altre anime nella Vigna del Signore. Nei mesi precedenti si era messo in viaggio da Magonza verso il Nord, seguendo la rotta del Reno. Aveva battezzato uomini, donne e bambini, costruendo chiese e distruggendo – protetto dalla scorta militare franca – numerosi luoghi sacri pagani. E anche la sera del 4 giugno, decine di contadini si erano presentate a lui, con l’intenzione di tornare il giorno successivo per ricevere il sacramento della cresima.

Alla luce rosa dell’alba...

Ma questa volta, come scrisse alcuni anni piú tardi il prete anglosassone Villibaldo di Magonza nella Vita S. Bonifatii, le cose andarono diversamente: «Nella luce rosa dell’alba non si presentano neofiti amici, ma nemici boia, i quali entrano nel campo con armi scintillanti, con scudi e giavellotti. Le guardie escono dalle loro tende e cercano di proteggere i futuri martiri dal popolo furioso. Ma appena il sant’uomo si accorge dell’avanzare dell’orda che sbraita e minaccia, raccoglie i suoi sacerdoti e Tavola ottocentesca raffigurante san Bonifacio (Vilfredo) mentre predica ai Germani. Per la sua opera di evangelizzazione, il religioso inglese fu detto «Apostolo della Germania».

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Dossier A destra stele votiva con l’immagine a rilievo di Nehalennia, divinità femminile del paganesimo dei Germani continentali. II-III sec. d.C. Middelburg, Zeeuws museum (in prestito dal Rijksmuseum van Oudheden di Leida). Nehalennia è ritratta secondo l’iconografia tipica, con frutta e un cane; talvolta può avere il piede appoggiato sulla prora o sul timone di un naviglio e ciò suggerisce una sua stretta parentela con la dea che Tacito (Germania, II) interpreta come Iside. In basso maschera romana in bronzo da cavaliere. 80-125 d.C. Leida, Rijksmuseum van Oudheden. Simili accessori venivano usati nelle parate, ma anche in battaglia, con l’intento di incutere timore negli avversari.

prende le reliquie dei santi che aveva portato con sé. Lascia la sua tenda e ordina alle guardie di smettere di combattere: “Non fate la guerra, perché la Sacra Scrittura ci ordina non di ripagare il male con il male, ma il male con il bene”.Mentre esorta i suoi seguaci ad accettare la corona del martire, la folla di pagani inferociti si getta con tutte le sue armi su di loro e li taglia a pezzi». Cosí Villibaldo narrò la morte di Bonifacio e poi annotò anche che i pagani, dopo avere saccheggiato il campo e bevuto il vino stivato nelle barche della comitiva, cominciarono ad azzuffarsi per il bottino. Con grande disappunto, non trovarono oro, né argento, ma soltanto libri, che gettarono nei campi; per fortuna, questi vennero poi ritrovati e portati all’abbazia di Fulda (in Ger-

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La Frisia occidentale in età romana. La linea azzurra indica la Fossa Corbulonis, il canale artificiale fatto costruire nel 47 da Gneo Domizio Corbulone, per collegare la Mosa con il vecchio corso del Reno.

mania), città in cui fu sepolto anche Bonifacio. Tra i volumi recuperati, figurerebbe anche la Bibbia con la quale il santo cercò invano di difendersi dai suoi assalitori (la collezione di Fulda contiene in effetti un volume – il Codex Bonifatianus 2 – sul quale sono visibili le tracce lasciate dai fendenti di una spada: non si tratta però di una Bibbia, bensí di una raccolta di scritti antiariani). I balordi, tuttavia, fecero una brutta fine: non appena si sparse la notizia del massacro, un esercito di «guerrieri veloci della vendetta» avanzò verso la «terra degli infedeli», per sbaragliarli. I cristiani si appropriarono dei loro beni, compresi le donne, i bambini e la servitú e ai pagani sopravvissuti non restò che convertirsi, concluse soddisfatto Villibaldo. La sua cronaca dei fatti, sebbene incompleta e di parte, risulta ben circostanziata grazie alle dichiarazioni dei testimoni oculari intervistati. È, inoltre, importante poiché narra un evento epocale, la fine dell’indipendenza millenaria della Frisia.

Un’esistenza misera

Le prime nozioni dettagliate sui Frisoni si devono a Plinio il Vecchio, il quale, nel I secolo d.C., descrisse le condizioni degli abitanti della zona costiera al confine nordoccidentale dell’impero romano. Il grande naturalista ed erudito non fu particolarmente generoso nei loro confronti: nel IV libro della sua Naturalis Historia, parla di un popolo di povera gente, che vive in capanne costruite su piccole colline artificiali in mezzo a un mare che, due volte al giorno, inonda i terreni circostanti. I Frisoni somigliavano a naufraghi, non potevano tenere buoi, né andare a caccia, ma soltanto recuperare i pesci rimasti in sec-

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Dune e spiagge Valkenburg de Woerd

Sabbie Aree interessate dall'oscillazione delle maree Paludi di torba

Matilo Forum Hadriani

Mare aperto Linee di costa attuali

Helinio? Oostvoorne

Insediamenti romani Fossa C Corbulonis Proba Probabile rotta navale

Goedereede Goe Goed Go G Goede oeed ede de

Colijnsplaat Domburg

Aardenburg (Rodanum?)

ca dopo il ritiro delle onde. Bruciavano terra essiccata per riscaldarsi e prendevano l’acqua potabile da buche scavate davanti alle loro case. Plinio conosceva la zona di cui parlava, ma da buon patrizio romano qual era, non aveva molta considerazione per lo stile di vita altrui. Le colline da lui descritte esistevano infatti già da centinaia di anni ed erano abitate da contadini e pescatori che, in realtà, vivevano piú che dignitosamente. Il territorio dei Frisoni antichi, che corrisponde grosso modo alla zona costiera degli attuali Paesi Bassi, è geologicamente molto giovane, trattandosi del delta creato dal fango e dalla sabbia portati dai grandi fiumi Reno, Mosa e IJssel. Nel VI secolo a.C., qui si stabilirono i pri-

mi abitanti, su terreni ormai adatti al pascolo, ma sempre minacciati dall’acqua alta. Per proteggersi dalle maree, essi innalzarono piccole colline, chiamate terpen o wierden, sulle quali furono costruite singole fattorie o piccoli villaggi. L’intera zona è oggi protetta da solide dighe e, nei secoli passati, molti depositi formatisi dopo l’abbandono dei terpen (plurale di terp, «villaggio» in lingua frisone) sono stati scavati per essere utilizzati come fertilizzante (un destino analogo a quello di molte terramare dell’età del Bronzo dell’area padana, in Italia, n.d.r.). Altri sono invece ancora intatti e ben visibili come alture caratteristiche in un paesaggio per il resto piatto e monotono. Sono paragonabili ai tell del Medio

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Oriente, al pari dei quali costituiscono una risorsa archeologica e storica di notevole importanza. In assenza di fonti scritte autoctone, infatti, gran parte della storia dei Frisoni viene raccontata servendosi dei dati offerti dalla ricerca archeologica e dei resoconti di terzi, in particolare autori romani, missionari cristiani e cronisti franchi. Come altri popoli del Nord, anche i Frisoni disponevano di una scrittura runica, accessibile solo a pochi sacerdoti, e della quale, finora, è stata ritrovata soltanto una ventina di iscrizioni, dabili tra il V e il IX secolo, quasi tutte brevi, incomplete e di scarsa rilevanza storica.

Ausiliari e ribelli

I Frisoni fanno la loro comparsa sulla scena della storia europea per la prima volta nel 12 a.C., quando truppe romane, comandate da Druso, creano una serie di basi militari nella foce dei grandi fiumi, con l’intenzione di conquistare, partendo da lí, la Germania del Nord. Sembra che il popolo frisone, piuttosto che affrontare i conquistatori, si fosse adeguato alla loro presenza, pagando tributi e fornendo truppe ausiliarie. A oggi, un gran numero di reperti archeologici di provenienza romana – statue votive, monete d’oro, ceramica di lusso – è stato trovato nei terpen e, viceversa, ceramica di produzione locale è stata rinvenuta nei forti romani, a testimonianza di un fitto interscambio.

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Nello stesso periodo, in piú aree dell’odierna Olanda sono attestate stele votive in stile romano, dedicate a divinità germaniche e celtiche – in particolare a Nehalennia, la dea del mare –, una delle quali porta il nome delle matres frisiavae, tre dee madri frisone. Nella prima metà del I secolo d.C. si svilupparono anche gli scambi commerciali, grazie ai quali i capi tribú frisoni acquistarono dai Romani oggetti di pregio in bronzo e argento, bicchieri di vetro e armamenti con ricche decorazioni. In cambio, i Romani ricevevano prodotti agricoli e schiavi, nonché oggetti provenienti dalla Scandinavia, come pellicce, ambra e avorio di tricheco. Non tutta la Frisia era però controllata da Roma, perché nel 28, come racconta Tacito, i Frisoni si erano ribellati. A scatenare la rivolta era stato un motivo piuttosto banale: il governatore Olennio aveva aumentato la tassa dovuta in forma di pelli, modificando l’unità di misura, che dal piccolo bue locale passò all’enorme uro (si tratta del Bos primigenius, un bovino di notevoli dimensioni, oggi estinto, n.d.r.). Non potendo pagare ed essendo stati puniti con la confisca delle mandrie e il sequestro delle donne, i Frisoni impiccarono gli esattori e marciarono contro i Romani. L’anno successivo riusci-

rono a batterli nella foresta sacra di Baduhenna, dove i guerrieri frisoni avevano trovato rifugio.

Fuori dall’impero

La rivolta fu domata solo nel 47, dal nuovo governatore Gneo Domizio Corbulone, del cui seguito faceva parte anche Plinio il Vecchio. Corbulone istituí un’autorità di controllo sulle terre dei Frisoni, facendole diventare parte della Germania Secunda. Fu comunque una soluzione di breve durata, perché proprio in quegli anni l’imperatore Claudio decise di invadere la Britannia, lasciando il Reno come limes dell’impero, sicché

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In alto uno dei tipici terpen (collinette artificiali sulle quali furono impiantati i villaggi) della Frisia, in una foto del 1934. A destra cartina della Frisia antica, con le aree abitate evidenziate in rosso. Qui accanto fibula in oro dal tumulo scoperto presso Hogebeintum, nella Frisia centrale. VI-VII sec. Leida, Rijksmuseum van Oudheden. In basso fibula in oro e pietre preziose da un tumulo presso Wijnaldum. VII sec. Leeuwarden, Fries Museum.

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In alto tavola seicentesca raffigurante il re frisone Redbad che ritrae il piede dalla vasca dell’acqua santa e rinuncia a farsi battezzare da Wulfram (vedi, nel testo, a p. 92). A destra, sullo sfondo, è illustrata anche la morte di Bonifacio a Dokkum. Qui sopra il segmento della Tabula

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Peutingeriana in cui è illustrata la Frisia. XIII-XIV sec. Vienna, Biblioteca Nazionale. Nella pagina accanto miniatura raffigurante san Willibrord, evangelizzatore dei Frisoni, in abiti arcivescovili, affiancato da due diaconi. XI sec. Parigi, Bibiliothèque nationale de France.

i Frisoni, o almeno la maggior parte di loro, ne furono esclusi. Pochi anni piú tardi, nel 58, i primi Frisoni i cui nomi siano stati tramandati – grazie a Tacito – si fecero protagonisti di una scena degna dei racconti di Asterix. In quell’anno, un gruppo di Frisoni, guidato dai capi Verritus e Malorix, attraversò il Reno per stabilirsi nella zona cuscinetto creata dai Romani. Quando il capo militare romano ordinò loro di sgomberare, Verritus e Malorix si misero in viaggio alla volta di Roma, per chiedere personalmente all’imperatore Nerone il permesso di rimanere nelle terre appena occupate. Accolti con grande ospitalità nell’Urbe, vennero condotti in giro per la città, con l’intento di impressionarli. Giunti nel teatro di Pompeo, domandarono dove fossero seduti i nobili e i senatori e, avendo visto che tra di loro si trovavano vanovembre

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rie persone con vestiti esotici, chiesero chi fossero. Alla risposta che si trattava degli inviati di popolazioni distintesi per il coraggio e per la fedeltà a Roma, i due Frisoni esclamarono che nessuno avrebbe potuto superare la prodezza e l’amicizia dei Germani, andando poi a sedersi in mezzo ai senatori. Una smargiassata che, secondo lo storico romano, incontrò l’entusiasmo del pubblico.

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Purtroppo per i Frisoni, la spedizione romana dei loro capi non ebbe però buon esito. Furono respinti oltre il Reno e, undici anni dopo, nel 69, sostennero la lotta dei Batavi – un popolo stanziato nel CentroSud dell’attuale Olanda – contro il dominio romano. Domata la rivolta, tutto tornò come prima: i Frisoni continuarono i loro traffici con i Romani e a vendere i propri servigi co-

me mercenari, come testimonia una stele votiva della prima metà del III secolo, ritrovata a Househeads, sotto il Vallo d’Adriano. Il monumento è dedicato a Mars Thingsus, ossia a Týr, il dio nordico della guerra, da un cuneus frisiorum, una tipica formazione ausiliare frisona. Tuttavia, essendo ormai definitivamente insediati al di fuori dell’impero, per i cronisti latini novembre

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A destra cartina che raffigura l’estensione massima raggiunta dalla Grande Frisia nell’VIII sec. A sinistra il castello di Wijk, presso Wijk bij Duurstede, città della provincia di Utrecht che sorge nei pressi dell’antica Dorestad.

La Frisia agli inizi dell'VIII secolo

OCEANO

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Tornacum Aquisgrana rono il limes, anche per la Frisia cominciarono i «secoli bui». La zona dei terpen venne pressoché abbandonata, come suggerisce lo scarseggiare dei reperti archeologici. La maggior parte della popolazione sembrò scomparire, forse per la situazione incerta creata dalle ondate migratorie di quell’epoca, ma senza dubbio anche per via dei cambiamenti climatici, che, soprattutto nel IV secolo, causarono un innalzamento del mare dagli esiti funesti per la fragile economia pastorale frisona.

La Grande Frisia

i Frisoni non erano piú degni di menzione. L’ultima citazione da parte di un autore classico risale all’inizio del IV secolo, quando, in un encomio per Costantino Cloro, si racconta di una sua spedizione oltre il Reno nella quale l’imperatore avrebbe battuto anche i Frisoni. Intorno al 260-270, quando i Romani, sotto la pressione dei Franchi e di altre tribú germaniche, lascia-

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Nel corso del V secolo la situazione climatica migliorò, l’aerea paludosa si ripopolò e i terpen tornarono a essere abitati. Gli occupanti continuarono a chiamarsi Frisoni, a differenza di altre regioni d’Europa, nelle quali le migrazioni di massa avevano portato nuovi popoli con nomi diversi. Fino a qualche decennio fa, i moderni Frisoni (tra cui non pochi studiosi) sostenevano quindi di essere eredi di una storia di duemila anni e di discendere da antenati valorosi come Verritus e Malorix. Tuttavia, questa visione romantica dell’identità frisona non ha piú fonda-

mento. Da scavi archeologici e dalle scarse informazioni scritte si è potuto infatti dedurre che, nel IV secolo, almeno una parte della popolazione originaria seguí gli Angli e i Sassoni che invasero la Britannia, dove nel VI secolo, secondo l’autore bizantino Procopio, vivevano non solo Angiloi e Brittones, ma anche Phrissiones. La presenza frisona inoltre è testimoniata da ritrovamenti di ceramica tipica e da alcuni toponimi, come Friston nell’East Anglia. Nello stesso periodo, anche l’attuale Olanda fu invasa da popoli germanici, come gli Angli e gli Juti, che si mescolarono con i pochi indigeni rimasti. I vicini Franchi continuarono a usare la parola latina Fresia (o Fresiae) come termine geografico e di conseguenza, anche i nuovi abitanti furono detti Frisoni. La diffusione di popoli affini nelle zone costiere – Angli, Sassoni, Frisoni e Danesi – generò un’unità culturale, economica e linguistica nota come Civiltà del Mare del Nord, in seno alla quale, nel VI secolo, cominciò a formarsi una nazione frisona. All’inizio, i Frisoni vissero in relativa tranquillità, poiché i vicini piú ingombranti, i Franchi, sotto re

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Dossier Clodoveo I (466-511) e i suoi successori erano interessati soprattutto a conquiste nelle aree meridionali, dove riuscirono a riunire l’antica provincia della Gallia transalpina. Nel Nord, i Frisoni avevano quindi mano libera e la loro zona d’influenza poté gradualmente espandersi, fino a estendersi, verso la metà del VII secolo, dall’Ovest dell’attuale Germania del Nord fino alle Fiandre. Nelle aree interne il loro dominio si estese fino alla città di Dorestad (vicino all’attuale Wijk bij Duurstede), che era allora il principale porto e centro commerciale dell’Europa settentrionale. Questa Magna Frisia (Grande Frisia), com’è comunemente conosciuta, era tutt’altro che unita politicamente. A differenza dei Franchi, i cui re merovingi ave-

vano ereditato gran parte delle istituzioni romane, i Frisoni mantennero la tradizione germanica delle varie tribú. Villibaldo, il biografo di san Bonifacio, descrive la Frisia dell’VIII secolo come un insieme di tante contee, divise da innumerevoli corsi d’acqua. Si trattava, quindi, di una federazione abbastanza frammentata di piccole entità poli-

Fibula in oro e pietre preziose di probabile manifattura borgognona, da Dorestad. 800 circa. Leida, Rijksmuseum van Oudheden.

tiche, capeggiate da capiclan e war lord locali, ma unita da una lingua comune e da un canone giuridico, che, in seguito, sarebbe stato codificato sotto Carlo Magno come la Lex Frisionum (vedi box in queste pagine).

Guerra con i Franchi

I piú importanti signorotti locali furono chiamati «re» e la loro funzione era soprattutto quella di fornire protezione militare contro gli invasori esterni, in particolare contro i Franchi dal Sud e i Danesi dal Nord. Il primo re frisone di cui sia stato tramandato il nome è Finn Folcwada, menzionato in fonti danesi e norvegesi e nel poema epico inglese Beowulf. Di lui si sa soltanto che visse nel VI secolo ed ebbe grande fortuna nelle battaglie contro i Danesi. Dall’inizio del VII secolo sono stati trovati alcuni tremissi, monete auree frisone che reca-

La Lex Frisionum

Ogni delitto ha un prezzo Intorno all’800, dopo l’annessione dei territori di Sassoni, Turingi e Frisoni, Carlo Magno ne fece mettere per iscritto le leggi, fino ad allora tramandate solo oralmente. Della Lex Frisionum non ci è pervenuto alcun manoscritto medievale, ma ne esiste una versione stampata nel 1557 a Basilea. Il documento, benché assai disordinato e a volte contraddittorio – con riferimenti sia cristiani che pagani – offre una visione interessante della composizione politica e sociale dell’antica società frisona. In essa, il territorio frisone è diviso in tre regioni, con regole leggermente diverse, rispecchiando cosí le tre fasi della conquista franca: quella a ovest del fiume Vlie, cioè l’attuale Olanda e Zelanda, dove una zona si chiama tuttora West Friesland; quella centrale, che coincide piú o meno con l’attuale Friesland, ossia la provincia della Frisia; e quella orientale, ora la provincia olandese di Groningen e l’Ost Friesland tedesca. Piú che

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un compendio di delitti e pene detentive o corporee, la Lex consiste in un lungo elenco di atti illeciti come l’omicidio, il furto e l’incendio doloso, seguiti dagli indennizzi da pagare alla vittima, ai suoi parenti o al re. In questo senso, è tipica di una società che non conosceva le prigioni, ma che avevano invece grande familiarità con il denaro. Questa società era divisa in quattro caste: nobili, liberi, servi della gleba e schiavi. L’ammontare della multa per l’uccisione (il wergeld) di un uomo libero era pari alla metà di quella per un nobile, per un servo della gleba la metà di quella per un libero, e per uno schiavo il prezzo di mercato. Era stato fissato un tariffario preciso anche per cavalli, buoi, maiali e altri animali. Chi sopprimeva un cane in grado di uccidere un lupo, doveva pagare al proprietario la somma di 3 solidi (la moneta introdotta con la riforma del 755); se il cane poteva soltanto ferire il lupo, 2 solidi, per un cane pastore, novembre

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no le legende AUDULFUS FRISIA e VICTORIA AUDULFO. Deve trattarsi di un «re Adolfo» che ha vinto una battaglia (contro i Franchi?), ma del quale non si sa nient’altro. Notizie piú precise sono state tramandate sul conto di re Aldgisl, che regnò dal 650-680 circa. Piú di un cronista, tra cui il Venerabile Beda, lo descrive come coinvolto nella lotta interna al regno franco, in quanto alleato della nobiltà dell’Austrasia contro il maggiordomo Ebroino. Inoltre, avrebbe ospitato generosamente Vilfredo, vescovo di York, permettendogli addirittura di predicare in Frisia, anche se Aldgisl stesso non si fece convertire. Il palatium di

A sinistra una sceatta frisona che, com’era tipico di una delle varianti di queste emissioni, reca su una delle facce l’immagine stilizzata di un porcospino. VII sec.

1 solido; e per un cane domestico, «che non faceva altro che girare per casa e per i campi», 1 tremisse. I ladri dovevano restituire il doppio del maltolto, piú una multa al re, e se il ladro era uno schiavo doveva anche subire l’ordalia in acqua bollente. La pena per la violazione di un luogo sacro era la morte, mentre al ladro di oggetti sacri era riservata una sanzione tipica per queste zone a metà tra terra e mare: come sacrificio alla divinità offesa, sarebbe stato legato a un palo in mare durante la bassa marea per poi annegare con l’alzarsi delle onde, dopo avere subito la castrazione e il taglio delle orecchie. Il leggendario carattere riottoso delle società germaniche traspare dalla descrizione meticolosa dei risarcimenti di non meno di novanta tipi di ferite inferte durante risse o liti. Per esempio, per la rottura di un dente, era dovuta una multa di 2 solidi, per un canino 3 e per un molare 4. Per il distacco

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In alto gruzzolo di monete comprendente vari esemplari di tremisse e Madelinus di Dorestad rinvenuto negli scavi nel Duomo di Utrecht. Inizi del V sec.

di una mano ci volevano 45 solidi, per il pollice 13, per l’indice 7 e per tutte le cinque dita 41. Per una ferita al ventre si pagavano 12 solidi e per la perforazione dell’intestino 24. Chi rovinava lo scroto dell’avversario, doveva pagare 15 solidi, mentre l’evirazione era, comprensibilmente, punita con lo stesso prezzo dell’uccisione. Chi gettava un uomo in acque profonde doveva pagare 4 solidi, ma chi invece lo salvava dall’annegamento riceveva una ricompensa di 4 solidi. La Lex Frisionum contiene, infine, anche alcune sanzioni che potrebbero essere definite di tutela delle donne. Per esempio: «Se qualcuno tocca i seni di una donna libera, che non sia la sua, deve pagare [al suo uomo] la somma di due volte 4 solidi e una multa di 2 solidi». Per le carezze non desiderate delle parti intime valeva la stessa tariffa, mentre la sanzione per lo stupro di una schiava era una multa di 12 solidi. Da pagare al padrone però.

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Dossier la lingua

La seconda vita di un idioma antico Visitando la provincia di Friesland (Fryslân in frisone), nel Nord-Est dei Paesi Bassi, e alcuni comuni tedeschi che si affacciano sul Mare del Nord, si nota una segnaletica rigorosamente bilingue: Ljouwert/ Leeuwarden, Hylpen/Hindeloopen, Söl/Sylt. I nomi delle località sono scritti prima in frisone, una lingua germanica parlata oggigiorno da circa mezzo milione di persone. Secondo una ricostruzione linguistica, l’idioma frisone nasce dall’ingvaeone, ossia il «germanico del Mare del Nord», una lingua comune parlata nel primo Medioevo sulle coste di Danimarca, Germania, Olanda e Inghilterra. Perciò tra l’inglese antico e il frisone antico c’erano molte affinità – motivo per cui i primi missionari mandati in Frisia erano inglesi – e le due lingue hanno tuttora tratti comuni. Per esempio: formaggio

Aldgisl si trovava a Dorestad, il centro commerciale che nel passato era stato dominio franco, ma che nel VII secolo divenne frisone. Il successore di Aldgisl, Redbad o Radboud, per tutta la durata del suo lungo regno (680-719) dovette far fronte all’espansionismo dei Franchi, i quali, dopo avere riunito gran parte dell’attuale Francia e superato una lunga serie di lotte interne, avevano indirizzato le proprie mire verso nord ed est. Già verso la fine del VI secolo, in un’ode a Chilperico I, questo re dei Franchi (561-584) venne descritto come il «terrore dei lontani Frisoni». Suo nipote, Dagoberto I (623-639), riuscí a impadronirsi per un breve periodo di Utrecht, l’antico borgo romano di Trajectum. Mezzo secolo piú tar-

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in frisone si dice tsiis, pronunciato come l’inglese cheese, mentre in olandese è kaas e in tedesco Kaese. L’inglese wet (bagnato) in frisone è wiet, in olandese nat e in tedesco nass. I primi documenti scritti in «frisone antico» sono testi giuridici e amministrativi usati dal 1100 in poi (nulla si è conservato dell’opera del leggendario poeta cieco frisone Bernlef, che, intorno all’800, cantò il Vangelo e le res gestae dei re frisoni nella lingua del popolo). Nella zona occidentale della Frisia che nel X secolo era divenuta la contea d’Olanda, il frisone fu soppiantato dal basso franco, dal quale è nato l’attuale olandese. Nella parte orientale invece, nella provincia olandese di Groningen e nell’Ost Friesland tedesco, dalla fine del Medioevo furono i dialetti sassoni ad avere la meglio. Qui l’idioma frisone sopravvive soltanto, e a stento, in alcuni comuni periferici.

di, nel 689, nei pressi di Dorestad, Redbad fu sconfitto dal maggiordomo di palazzo Pipino di Héristal e costretto a cedere tutta la Frisia a sud del Reno, ripristinando di fatto l’antico limes romano.

Una pace effimera

La pace fu suggellata, nel 710, dal matrimonio tra la figlia di Redbad e il figlio di Pipino, Grimoaldo. Pochi anni dopo, però, approfittando dell’instabilità ingenerata dalla Guerra Civile Franca, scoppiata dopo la morte di Pipino nel 714 (quando venne ucciso anche Grimoaldo), Redbad poté riappropriarsi delle terre perdute e organizzò scorrerie fino a Colonia, dove, nel 716, batté il figlio di Pipino, il nuovo maggiordomo di palazzo Carlo Martello.

Gli effetti della vittoria non furono però duraturi, perché, nel 720, Carlo riuscí a riconquistare a sua volta la parte meridionale della Frisia e, nel 734, due anni dopo aver fermato l’avanzata musulmana a Poitiers, diede il colpo finale anche alla Grande Frisia. Nella battaglia del fiume Boorne, il suo esercito, forte di 5000 uomini, sconfisse i 2500 seguaci di re Poppo, il successore di Redbad, che trovò la morte sul campo. Nella Frisia orientale la resistenza continuò ancora fino alla fine dell’VIII secolo, quando Carlo Magno, durante la conquista della Sassonia, pacificò anche quest’ultima regione. I Frisoni entrarono nel nuovo impero, con l’eccezione di alcuni gruppi, che emigrarono verso nord, nell’attuale Nordfriesland novembre

MEDIOEVO


FRISIA SETTENTRIONALE

Nella Frisia centrale, per tutto il Medioevo il frisone fu la lingua ufficiale, grazie a una situazione particolare: la Frisia faceva parte del Sacro Romano Impero, teoricamente come feudo del vescovo di Utrecht, che però non riuscí a imporre la sua autorità. Il tardo Medioevo è quindi considerato l’era della «libertà frisona», che, tuttavia, finí nel 1498, quando l’imperatore Massimiliano I nominò Albrecht di Sassonia podestà della Frisia. Il duca portò con sé funzionari di lingua olandese, che divenne la nuova lingua amministrativa e il frisone sopravvisse come lingua parlata e poco scritta. Il romanticismo e il nazionalismo dell’Ottocento portarono a una nuova consapevolezza del frisone. Fu introdotta un’ortografia standardizzata e nacquero un movimento e una letteratura frisoni. La completa emancipazione del frisone – per la quale negli anni Settanta dello scorso secolo si formò addirittura un movimento separatista – è storia recente. Negli anni Cinquanta il bilinguismo della Frisia venne formalmente riconosciuto. Nel 1980 il frisone divenne materia di studio nelle scuole della Frisia e dal 2014 è formalmente la seconda lingua ufficiale del Regno dei Paesi Bassi. Anche in Germania il «frisone del Nord», ormai parlato da poche migliaia di persone, è ufficialmente riconosciuto e protetto. Nella Frisia olandese, il frisone è oggi piú vivo che mai, parlato da circa 450 000 persone, per 350 000 delle quali Nella pagina accanto una pagina della Freeska Landriucht (Lex Frisionum), il piú antico libro a stampa in lingua frisona. XV sec. Utrecht, Biblioteca Universitaria.

MARE DEL NORD

Leeuwarden

Heligoland

Groningen

FRISIA Amburgo ORIENTALE Oldenburg

FRISIA OCCIDENTALE Amsterdam

Brema

Saterland

Aree Ar A ree linguistiche linguistich i i i del del frisone frison fri

Rotterdam

Bruges

parlato in passato Anversa

parlato attualmente

è la prima lingua. Esistono una letteratura frisona fiorente e una popolarissima tv regionale in lingua frisona. Complessi di musica popolare frisona fanno furore anche fuori dalla Frisia e Frisoni di fama mondiale, come l’attore Rutger Hauer e la top model Doutzen Kroes fanno spot pubblicitari per promuovere l’uso della loro lingua. E gli stessi Frisoni, che hanno fama di essere testardi, ribelli e sciovinisti, non hanno mai smesso di ripetere il loro slogan «Fryslân boppe!»: «La Frisia sopra tutto!». Qui sotto veduta aerea della torre campanaria della chiesa medievale di S. Michele, innalzata su un terp nei pressi di Tsjerkebuorren (la chiesa è stata demolita nel 1905).


Dossier La Frisia al museo

Una storia in 100 oggetti Il Fries Museum, il Museo della Frisia, nella capitale provinciale Leeuwarden, possiede una collezione di 170 000 oggetti che appartengono alla storia frisone. Una parte si trova nell’esposizione permanente che riassume la storia della Frisia, dai tesori della Grande Frisia fino ai Frisoni famosi di tempi piú recenti, come il pittore Lawrence Alma Tadema e la soubrette Mata Hari. Tra le mostre temporanee è in corso «Ferhaal fan Fryslân» («Storia di Frisia»), una mostra di «100 oggetti tipici frisoni». Rimarrà aperta fino al 2019, anno in cui Leeuwarden sarà Città Capitale della Cultura Europea. Per informazioni, si può consultare il sito www.friesmuseum.nl (in olandese, inglese e frisone). (Frisia del Nord) tedesca, che allora faceva parte del regno danese e dove tuttora sopravvive una piccola comunità di lingua frisona.

«Cose luride di febbraio»

Come in altre zone occupate dai Franchi, anche in Frisia la conquista territoriale fu accompagnata da un’intensa campagna missionaria, dal momento che il cristianesimo costituiva uno strumento utile per sciogliere le antiche alleanze dei popoli conquistati e legarli anche spritualmente al nuovo ordine. Fu un processo lento e tortuoso, ostacolato dall’assenza di un forte potere centrale: in Frisia non c’era un unico sovrano da convertire. Gradualmente, tuttavia, il cristianesimo soppiantò la religione pagana, della quale non ci è tramandato molto di piú dei resoconti sprezzanti dei missionari. Sembra comunque che il loro pantheon e i loro riti fossero simili a quelli degli altri popoli germanici del Nord, con déi come Odino e Thor, feste e santuari a loro dedicati, alberi e foreste sacre, sacrifici di animali e (raramente) di uomini, amuleti e idoli, veggenti e profeti che – come si legge in uno scritto per religiosi anglosassoni attivi in Frisia nell’VIII secolo – «leggono il futuro tramite uccelli, cavalli, sterco di mucca e starnuti».

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Il tesoro trovato nel 1866 presso il villaggio frisone di Wieuwerd: dentro un piccolo vaso erano custoditi numerosi manufatti in oro e un disco in terracotta bianca. Gli oggetti furono interrati intorno al 630. Leida, Rijksmuseum van Oudheden.

Curioso – ma del tutto incomprensibile – è infine uno strano riferimento a «cose luride di febbraio». Già nel 630 il re franco Dagoberto I aveva fatto costruire una piccola chiesa a Utrecht, che fu però devastata pochi anni dopo dai Frisoni. Soltanto nel 695, dopo la vittoria di Pipino di Héristal, che riportò Utrecht nella zona d’influenza

Pendente in oro e pietre preziose, da Cornjum. 625 circa. Leeuwarden, Fries Museum. novembre

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franca, nella città si insediò il primo arcivescovo dei Frisoni, Willibrord (658-739). Come molti sacerdoti che operavano in Frisia, era inglese e l’affinità linguistica fece sí che potesse parlare direttamente ai convertendi. Per diversi anni tuttavia, l’arcidiocesi frisona rimase una costruzione virtuale. I pochi missionari che si avventurarono oltre il Reno non riuscirono a convertire capi politici e opinion leader di una certa importanza, condizione essenziale per una conversione di massa.

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Anche il tentativo di battezzare lo stesso Redbad fallí. Secondo la biografia del santo Wulfram, verso la fine del VII secolo questo missionario franco vi era quasi riuscito, ma il re frisone, con un piede già nella vasca dell’acqua santa, si sarebbe ritirato quando capí che nell’aldilà cristiano non avrebbe rivisto i suoi antenati pagani (vedi illustrazione a p. 82). La vittoria di Carlo Martello del 734 aprí finalmente la strada alla conversione, che tuttavia continuò a essere un’impresa rischiosa, come prova la

triste fine di Bonifacio. La cristianizzazione vera cominciò con i suoi successori, l’inglese Willihad e il nobile frisone Liudger (742-809), che Carlo Magno nel 787 nominò «capo della missione frisona». Da allora iniziarono anche i primi pellegrinaggi verso Roma, dove presto nacquero una Schola e una chiesa frisone.

Il boom economico

Fu però la fine della Grande Frisia a lasciarci un’eredità fondamentale, la «reinvenzione del denaro»: è

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Dossier questa la tesi dello storico inglese William Pye, convinto che i Frisoni abbiano dato un contributo decisivo alla ripresa dell’economia di mercato, dopo che il crollo dell’impero aveva ridotto al minimo gli scambi di beni e denaro. La Frisia dei secoli VII-VIII era una delle regioni piú densamente popolate d’Europa. Non era povera, come risulta dai molti tesori trovati nei terpen, ma mancavano alcuni beni di prima necessità come il grano e il vino, importati dall’Alsazia e dalla zona del Reno. In cambio, i Frisoni commerciavano legno, pesce, cuoio e schiavi, ed erano famosi per la produzione di mantelli e di tessuti colorati

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di lana, talmente pregiati che Carlo Magno ne donò alcuni al califfo di Baghdad, Harun al-Rashid (vedi «Medioevo» n. 192, gennaio 2013).

A remi e a vela

Inoltre, i Frisoni comperavano e rivendevano beni di lusso, come gemme inglesi, vetri, seta e ceramica franca. Si spostavano in quello che fonti anglosassoni dell’epoca indicano come un «particolare tipo di barca frisona». Scavi recenti hanno portato alla luce due tipi di imbarcazioni, a remi e a vela, utilizzate dai mercanti frisoni: una barca a chiglia piatta per i fiumi e le acque costiere e il protohulk, uno

scafo ricavato da un tronco di quercia, per attraversare il mare. Nel VII secolo l’attività commerciale dei Frisoni conobbe un vero e proprio boom, grazie a una concomitanza di circostanze. Dopo un lungo periodo d’instabilità, il regno franco aveva raggiunto una maggiore sicurezza e piú potere d’acquisto. Le invasioni di tribú dell’Est nel VI secolo avevano interrotto le antiche rotte commerciali dalla Scandinavia verso Bisanzio, favorendo quindi quelle dal Mare del Nord al Baltico. Nei due secoli che precedettero l’avvento dei Vichinghi, all’incirca fino all’800, i Frisoni detenevano di fatto il monopolio

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del commercio con la Scandinavia. In piú, vivendo in un periodo in cui il trasporto via terra, lungo antiche strade romane dissestate e infestate da predoni, risultava estremamente lento e rischioso, il trasporto via acqua, in cui erano maestri, si rivelava spesso la soluzione piú veloce e sicura. Infine, la Frisia era favorita dalla sua posizione geografica, trovandosi circondata da mare e fiumi e all’incrocio di rotte commerciali. Cronache contemporanee parlano della presenza di mercanti frisoni sulle coste inglesi e di un’intera colonia frisona a York. Sulle coste frisone nacquero colonie portuali come Medemblik e Dom-

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Sulle due pagine la chiesa medievale (XI sec.) del borgo di Wierum (Groningen, Paesi Bassi), a ridosso della diga sul Mare dei Wadden. Nella pagina accanto il Waterpoort (letteralmente, «Porta sull’acqua») di Sneek, costruito nel 1492 insieme alle mura. Nel 1613 fu trasformato in porta monumentale, avendo perso le sue funzioni difensive, e, da allora, è il simbolo della città.

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Ss. Michele e Magno

La chiesa (e la Schola) dei pellegrini frisoni A Roma, sul pendio del Gianicolo, a meno di 100 m da piazza San Pietro e all’inizio di Borgo Santo Spirito, si trova una piccola chiesa romanica con un bel campanile. È intitolata ai santi Michele e Magno ed è nota come Friezenkerk, la chiesa dei Frisoni. Nello stesso luogo fu fondata, subito dopo la cristianizzazione della Frisia, la Schola dei Frisoni, menzionata per la prima volta nel 799 e poi nell’800, quando una sua delegazione presenziò all’incoronazione di Carlo Magno. Come per le altre nationes presenti a Roma, la Schola e la sua chiesa furono il punto di riferimento per i pellegrini frisoni e poi olandesi. Nel 1084, durante il sacco di Roma da parte dei Normanni di Roberto il Guiscardo, la chiesa carolingia fu distrutta. Nel 1141 fu inaugurata quella attuale, dove sono ancora murati alcuni reperti dell’edificio precedente, come la lapide del cavaliere frisone Hebe, morto a Roma nel 899. Nel 1198 Innocenzo III ribadí la dipendenza

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della chiesa dal Capitolo Vaticano e, nel 1446, Eugenio IV la trasferí all’arcivescovo di Perugia. I pellegrini friso-olandesi nel frattempo avevano trovato un nuovo ritrovo presso una coppia olandese che, all’inizio del XV secolo, vicino a piazza Navona, aveva fondato un ospizio, aperto a Olandesi e Tedeschi. Oggi, il complesso di S. Maria dell’Anima è la chiesa nazionale dei Tedeschi di Roma, anche se ospita ancora qualche prete olandese. Nel 1540, la chiesa di Borgo Santo Spirito divenne invece sede dell’Arciconfraternita del Ss. Sacramento di S. Pietro in Vaticano e venne poi ristrutturata piú volte, fino a rendere quasi irriconoscibile l’originale impianto romanico. Soltanto nel 1989 fu ripristinata la destinazione originale, quando la chiesa fu data in uso alla comunità cattolica olandese romana. Da allora ogni domenica la messa è celebrata in olandese, e qualche volta in frisone. Nel 1995 Giovanni Paolo II riconsacrò la chiesa, che nel 2008-11 ha subíto un restauro profondo.

In alto Roma. L’interno della chiesa dei Ss. Michele e Magno. Insieme alla adiacente Schola dei Frisoni, divenne il punto di riferimento per i pellegrini frisoni, e poi anche per quelli olandesi. Nella pagina accanto uno scorcio di Leeuwarden, capoluogo della Frisia.

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burg, mentre Dorestad, ormai sotto controllo frisone, divenne uno dei principali centri commerciali europei. E ovunque intorno al Mare del Nord e nel regno franco i Frisoni lasciarono segni evidenti della loro presenza nella forma di un nuovo tipo di moneta.

Bisogno di denaro fresco

Con l’aumento del commercio crebbe anche il bisogno di denaro, che dopo la fine dell’impero romano in gran parte dell’Europa era quasi scomparso. Una prima testimonianza dell’espansione commerciale frisone sono i tremissi del tipo detto «Dronrijp». Queste monete d’oro coniate in Frisia intorno al 620-630 e copiate da modelli franchi, sono state trovate nella Renania, nello Jutland, nel Kent e in East Anglia. Nei decenni successivi questo tipo di moneta fu sostituito da quello di Dorestad, dove dall’inizio del secolo, durante il dominio franco, il mastro della zecca aveva coniato tremissi con il suo nome: MADELINUS DORESTATI. Oltre alle monete di Dorestad sono state trovate grandi quantità di cosiddetti «pseudoMadelinus», copie spesso rozze e sgrammaticate stampate in numerose varianti in zecche locali. Intorno al 680, però, queste monete non bastavano piú. Per secoli, la quantità di oro a disposizione era rimasta pressoché invariata e in gran parte chiusa nelle casseforti di re e signori. In piú, il tremisse era diventato una moneta inaffidabile, di qualità sempre piú scadente e dal contenuto d’oro sempre piú basso. Mercanti e clienti avevano bisogno di un’altra valuta e i Frisoni la inventarono, introducendo un altro pezzo, ben diverso dai tremissi di antica tradizione romana. Essi introdussero la sceatta, una piccola moneta in argento (diametro 12 mm, peso 1,3 grammi), adatta anche a transazioni di scarso valore. Coniata localmente con simboli pagani, come il dio Odino – con ca-

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pelli a spazzola, baffi cadenti e occhi spalancati –, un porcospino o una scritta runica, fu un successo immediato. Nelle zone costiere frisone ne sono state trovate in grandi quantità, a testimonianza di una fiorente economia del denaro. L’esempio fu seguito da Inglesi e Danesi, i quali a loro volta cominciarono a produrre le piccole monete argentee, e poi anche dai Franchi, dopo la conquista delle Frisia e delle sue zecche. Dopo l’introduzione della sceatta, inizialmente nella sola Frisia si batteva piú moneta d’argento che in tutto il regno franco. Perciò, secondo Pye «sono stati i Frisoni a reinventare il denaro utile e a passare l’idea ai Franchi di Carlo Magno». La valutazione è forse esagerata, visto che la moneta fu coniata anche in altre regioni, ma sta di fatto che le sceatte frisone sono le piú comuni. Solo nelle dune vicino a Domburg, che fino al IX secolo fu un importante porto di partenza per l’Inghilterra, ne sono state trovate piú di mille (di conseguenza, il loro valore numismatico è piuttosto basso). Le monete frisone, ritrovate in Renania, in Aquitania e nel Mediterraneo, testimoniano sia le rotte del commercio frisone, che la popolarità della loro moneta. La sceatta, la cui coniazione si interruppe nel 755, con la riforma monetaria di Pipino il

Breve, ha quindi dato un contributo importante alla ripresa della circolazione dei beni in Europa.

Arrivano i Vichinghi

All’indomani dell’occupazione franca, la situazione non subí mutamenti particolari: Carlo Magno si dimostrò magnanimo, lasciò ai Frisoni il proprio sistema giuridico e li esentò dal servizio militare. Il commercio frisone fiorí ulteriormente e Dorestad divenne la seconda zecca del regno, dopo quella di Parigi. In città come Bergen e Kaupang in Norvegia, nello Jutland, in Slesia e a Worms in Germania, a Sigtuna nel Baltico svedese, nacquero colonie di commercianti e artigiani frisoni. La parola «frisone» diventò piú o meno sinonimo di commerciante e il Mare del Nord era anche chiamato «Mar Frisone». Gradualmente tuttavia, la situazione peggiorò. Nel IX secolo i Vichinghi attaccarono ripetutamente le coste frisone, devastando anche il porto di Dorestad. In Frisia governavano condottieri danesi, come vassalli dei sovrani franchi e le rotte commerciali dell’ormai ex impero franco si spostarono verso sud. E città una volta ricche e gaudenti come Domburg furono abbandonate e inghiottite dal mare. La Grande Frisia divenne solo un ricordo. V

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Nella tana del drago di Furio Cappelli, con un reportage fotografico di Stefano Suozzo

Incantevole borgo del Reatino, Monteleone Sabino acquisí grande popolarità nel Medioevo grazie al culto per la martire Vittoria. Una campionessa della fede a cui è dedicata la sua chiesa piú importante e le cui venerate spoglie furono al centro di un curioso caso di «duplicazione»...

I

mmaginiamo di trovarci in Inghilterra, nel Wessex – ossia nell’antico regno dei Sassoni occidentali –, tra la fine del VII e l’inizio dell’VIII secolo. Qui l’abate di Malmesbury, il futuro sant’Aldelmo (Ealdhelm, in anglosassone), formatosi a Canterbury e presente a Roma durante il papato di Sergio I (687701), realizza due opere in latino dedicate alla verginità: un trattato in prosa e un poema in 3000 esametri, intitolati entrambi De Virginitate. I due componimenti offrono spazio ad altrettante illustri martiri

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della Sabina, le sante vergini Vittoria e Anatolia, che abbracciarono la «vera fede» durante le persecuzioni ordite dall’imperatore Decio (249-251), «quando una sfrenata ferocia a suon di torture prese fuoco crudelmente contro i militi di Cristo». Per nulla preoccupate della sorte che toccava a tanti proseliti del nuovo credo, le due giovani sorelle (o cugine) decisero di disfarsi del loro cospicuo patrimonio e di tutti i loro gioielli a beneficio dei poveri e degli storpi, seguendo alla lettera i precetti del Vangelo. In novembre

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particolare, dettero via tutto ciò che dava lustro alla loro immagine di donne dell’alta società: «gli spilloni fermacapelli e le cavigliere, cosí come le boccettine portaprofumo per le essenze di nardo e i pendenti fatti di lunule tempestate di gemme». A quel punto, qualora le due donne fossero state denunciate, ciò che restava dei loro beni sarebbe stato incamerato dallo Stato. Eugenio e Aurelio, i due patrizi che intendevano sposarle per mettere le mani sul loro patrimonio, corsero ai ripari, nascondendole nelle proprietà di fami-

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Monteleone Sabino (Rieti). La chiesa romanica di S. Vittoria, edificata nel luogo in cui la martire titolare del tempio avrebbe trasformato in oratorio la tana del drago da cui aveva liberato gli abitanti dell’antico borgo di Trebula Mutuesca.

glia, nella speranza che potessero ravvedersi. Vittoria, «il cui nome profetizza in verità la vittoria di Cristo», venne costretta a vivere di stenti, «con abbondanza di fame e mancanza di cibo», nel territorio di Trebula Mutuesca, una città le cui rovine si trovano a 1,5 km dall’odierno

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medioevo nascosto lazio Rieti

E45

Casperia

Monteleone Sabino

Poggio Mazzano Mirteto Fara Sabina Romano Fiano Romano

SS4

E45 SS4

Palombara Sabina

A destra una delle finestre cieche ricavate nella facciata di S. Vittoria, ornata da un archetto a ogiva con motivi decorativi fitomorfi fra due pavoni.

Monterotondo Guidonia SS4

ROMA

Tivoli E45

monteleone sabino

Mutuesca, ricca di sorgenti Il paese di Monteleone Sabino è situato tra le colline che si sviluppano a ridosso dei Monti Sabini, sul versante sinistro del fiume Turano. Quest’ultimo è un affluente del Velino, l’importante corso d’acqua che, costeggiando la via consolare Salaria, bagna Rieti e si addentra poi in territorio umbro, per confluire infine nel Nera, laddove dà vita alle celebri Cascate delle Marmore. La valle del Turano collega invece la conca reatina al territorio abruzzese della Marsica, individuando un percorso pedemontano, lontano da grossi centri abitati. L’insediamento piú importante della zona, in età romana, era il municipium di Trebula Mutuesca. L’origine del nome è ancora avvolta nel mistero. Si è tuttavia ipotizzato che Trebula sia un toponimo di ascendenza osco-umbra, e stia a intendere «insediamento». Mutuesca, appellativo adottato per distinguere questa città da un’altra Trebula, potrebbe a sua volta derivare da un termine sabino assai appropriato per rappresentare la località. Indicherebbe, infatti, un’area particolarmente ricca di sorgenti e di acque affioranti, cosí da formare una palude o un pantano. L’antica città si articolava su tre colline e su una valletta sottostante che si chiama tuttora Pantano. Inoltre, era dotata di un vasto sistema di cunicoli e di cisterne, forse in relazione a un’opera di bonifica. Tra le sue rovine, spicca un anfiteatro del II secolo d.C. A destra Ravenna, S. Apollinare Nuovo. Le martiri Vittoria e Anatolia nel mosaico con il Corteo delle vergini.

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Monteleone Sabino (Rieti), l’insediamento fortificato sorto nell’Alto Medioevo dopo che l’antico centro urbano fu abbandonato (vedi box a p. 98). Durante il suo forzato soggiorno a Trebula, Vittoria notò che, all’improvviso, tutti i cittadini fuggivano, in preda al terrore. Un enorme drago nascosto in una grotta diffondeva miasmi velenosi dalle proprie fauci, causando un profluvio di morti. La giovane promise di salvare i fuggiaschi, a patto che si convertissero al vero Dio e il patrono della cittadinanza (un magistrato urbano) promise allora la conversione di tutti gli abitanti al dio dei cristiani, non appena Vittoria fosse riuscita ad allontanare il drago.

La cacciata del mostro

Cosí, all’alba, «mentre le turbi della popolosa città in frotta accorsero allo spettacolo», la santa vergine si recò alla spelonca del mostro e, in nome di Cristo, gli ingiunse di andarsene subito in qualche posto deserto. «Il drago, sentite quelle parole, apparve e se ne andò via, fuggendo a tutta velocità». La tana della belva, liberata dall’«orrendo serpente», fu trasformata da Vittoria in un oratorio grazie all’opera degli abitanti del luogo, ormai liberi dal

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Qui sopra il portale di S. Vittoria, decorato a girali e sul cui architrave figura l’Agnus dei con la croce (che compare anche nel timpano del sovrastante protiro con colonnine).

pericolo e pronti a esaudire ogni suo desiderio. Quando ella chiese inoltre che alcune giovani fanciulle consacrassero la propria vita al servizio del Signore, settanta vergini furono subito offerte dai genitori, e tutte aderirono agli esempi e ai moniti di Vittoria. Il suo pretendente Eugenio non si diede però per vinto, e, dopo tre anni, si affidò a un flamine (sacerdote) del Campidoglio, affinché la donna si convincesse a offrire incenso «con rito pagano» a un idolo della dea Diana. Vittoria naturalmente si oppose senza remore e venne cosí destinata al martirio, con un colpo di spada. Fu tumulata il 23 dicembre 253. Il carnefice non poté certo dire di aver conseguito «la vittoria su Vittoria», poiché perse una mano, trasformatasi d’incanto in un moncherino rinsecchito, e tutto il suo corpo marcí. Prima ancora che esalasse il suo «putrido spirito», le sue interiora si riempirono di vermi, mentre la pelle si squamò e si polverizzò in modo impressionante.

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In alto rilievo di reimpiego raffigurante un leone e inserito nella facciata di S. Vittoria. Nell’occasione, venne aggiunta la coda. A sinistra statue di leone provenienti dalla necropoli di Trebula Mutuesca e oggi collocate nel giardino antistante S. Vittoria.

all’epoca di Giustiniano (527-565) erano state accolte nel solenne Corteo delle Vergini raffigurato a mosaico nella basilica ravennate di S. Apollinare Nuovo, laddove sono intente a recare omaggio al Signore recando con sé proprio la corona del martirio.

Le tombe dei primi cristiani

Dal canto suo, Anatolia si distinse compiendo un esorcismo sul figlio di un console, posseduto dal demonio al punto tale da dover essere incatenato. Dopo aver guarito miriadi di epilettici, vittime di sortilegi e malati di ogni tipo, fu condannata a subire il morso di un serpente velenoso, senonché l’addestratore del rettile (un soldato romano), oriundo della Marsica, rischiò la morte al posto della santa, poiché il serpente stesso si avventò su di lui, in barba alle sue formule magiche. Messo in salvo da Anatolia, si convertí al cristianesimo e subí anch’egli il martirio. La santa venne trafitta da una spada proprio nel momento in cui le sue preghiere erano giunte al culmine. In questo modo, conclude Aldelmo, «con il trionfo della verginità, la rossa corona del martirio si fa strada in virtú del sangue versato». Vittoria e Anatolia, d’altronde, già

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La spelonca del terribile drago di Trebula, di seguito trasformata da Vittoria nel primo oratorio della comunità cristiana locale, si situa nella catacomba della martire. Intorno alla sua antica sepoltura, come si può tuttora vedere, si addensarono i loculi dei primi cristiani di Trebula, stipati su piú livelli proprio per sfruttare al massimo lo spazio disponibile. Questo sepolcreto ipogeo, cosí simile alle celebri catacombe di Roma, dovette ben presto essere collegato a un santuario, se già nel VII secolo la fama di Vittoria era giunta in Inghilterra. E sul luogo di quell’antica chiesa, di certo identificata con il leggendario oratorio voluto da Vittoria in persona, fu poi costruito l’odierno santuario di Monteleone Sabino. Lo si raggiunge dopo aver percorso un breve tratto di strada, superando il paese. Si attraversa il pianoro del Pantano, finché non si raggiunge un terrazzo artificiale, alle pendici di uno dei tre colli su cui si articolava la città antica, con l’eloquente nome di colle Foro (da forum, tipico spazio pubblico delle città romane). novembre

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In questa pagina la torre campanaria della chiesa di S. Vittoria. La parte superiore, nella quale si aprono slanciate finestre a bifora, fu aggiunta nel XIII sec.

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In alto l’interno della chiesa di S. Vittoria, che si articola in tre navate e termina con un’abside rettangolare. A sinistra l’altare di S. Vittoria, sormontato da un ciborio su colonne di marmo, con cuspide piramidale in legno. A destra lunetta affrescata nell’atrio della chiesa di S. Vittoria: ritrae una Madonna con Bambino tra due santi; sulla sinistra si notano le figure dei donatori. XIV sec.

Solitaria, stretta tra il declivio dell’altura e il ripido terreno sottostante, la chiesa romanica di S. Vittoria si mostra in tutto il suo raccolto candore in fondo a un ampio spiazzo alberato. In mezzo al verde sono disseminati numerosi elementi scultorei e architettonici di età romana. Si nota, in particolare, un gruppo di leoni provenienti da monumenti funebri della necropoli di Trebula. Il fatto che se ne conservino cosí tanti esemplari, ha suggerito che il toponimo del castello fosse stato ispirato proprio dalla presenza di questi «ruggenti» testimoni del passato. Ma è piú facile pensare che sia stato il toponimo a eleggere i leoni antichi a simbolo e a elemento protettivo del luogo. D’altro canto, Monteleone deve semmai il proprio nome ai Brancaleoni de Romania, una famiglia patrizia che aveva ampi possedimenti nel distretto dell’Urbe, soprattutto in Sabina, e che qui, nei secoli XIV-XV, ebbe la propria residenza principale.

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In ogni caso, il rapporto con l’antico costituisce un elemento pregnante nella genesi stessa e nell’immagine della chiesa. Direttamente collegata alla catacomba, essa è una testimonianza tangibile dell’epoca delle persecuzioni, ed è l’unico edificio rimasto intatto nel luogo della città scomparsa, quasi a rimarcare la vittoria dei «militi di Cristo» sul paganesimo.

Dalle libagioni al battesimo

Un altro elemento forte nella caratterizzazione del santuario sabino è la presenza dell’acqua sorgiva. Tracce di antiche canalizzazioni si osservano proprio all’interno della catacomba, nata in prima battuta come cava di sabbia e di ciottoli. E proprio all’interno della chiesa la stessa acqua che percorre i meandri del colle Foro è intercettata da un pozzo profondo, la cui vera si evidenzia nel bel mezzo della navata centrale, vicino all’accesso novembre

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alla catacomba. Non si tratta di un fonte battesimale propriamente inteso. La chiesa, in quanto pieve, era da tempi remoti preposta al rito battesimale, e l’acqua estratta dal pozzo era di sicuro utilizzata a tal fine, ma in origine poteva essere in funzione delle sacre libagioni compiute presso il sepolcro della santa. La studiosa Beatrice Premoli ricorda al riguardo che esistono pozzi di tal genere presso alcune catacombe dell’Urbe. E forse il valore cultuale dell’acqua sorgiva, a cui si attribuivano proprietà miracolose, poteva addirittura riallacciarsi a usanze di età preromana. Proprio a Trebula, infatti, nel IV secolo a.C., sorgeva un cospicuo santuario dedicato a Feronia, una dea italica della terra la cui presenza era in particolar modo evidenziata dalle sorgenti d’acqua. Annoverata da Varrone tra le principali divinità antiche della Sabina, e molto legata anche al contiguo paesaggio agropastorale della Marsica, Feronia aveva a

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Trebula un centro di culto ben posizionato tra i due territori, lungo la direttrice del Turano. E proprio nei pressi della chiesa di S. Vittoria è stato rinvenuto un deposito di terrecotte votive (IV-III secolo a.C., oggi nel locale Museo Civico Archeologico) che raffigurano bimbi in fasce, teste, parti anatomiche per propiziare guarigioni.

Sul modello di Roma

Il culto di santa Vittoria, dunque, si sovrappose alla memoria della divinità italica riqualificando la località di Trebula come centro religioso di spicco. Dapprima ci si limitò ad allestire un piccolo edificio di culto collegato ai sotterranei da un duplice atrio ancora parzialmente leggibile. In epoca imprecisata, l’antico oratorio fu sostituito da una basilica a tre navate con portico frontale, secondo la tradizione delle chiese paleocristiane e altomedievali di Roma. La chiesa di S. Vittoria

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In alto una metopa di epoca romana reimpiegata nella muratura della chiesa di S. Vittoria. Il manufatto doveva appartenere al monumento funerario di un uomo di nome Publius Vassius. In basso il retro della chiesa di S. Vittoria, che sorge su un terrazzamento artificiale alle pendici del colle Foro.

dovette aver acquisito questo assetto già alla fine dell’VIII secolo, e ancora oggi la prima basilica è leggibile nelle sue linee essenziali. Sul lato sinistro della navata centrale, l’acquasantiera poggia direttamente su un rocchio del colonnato preesistente.

Un caposaldo contro i Saraceni

Alla fine del IX secolo, con l’imperversare dei Saraceni in tutta la Sabina, la città di Trebula fu definitivamente abbandonata, e gli stessi edifici pubblici divennero preda e rifugio degli invasori, dato che qui si situò uno dei loro capisaldi, grazie a una posizione strategica facilmente difendibile. Nello stesso periodo, i monaci benedettini di Farfa decisero di abbandonare la loro potente abbazia, suddividendosi in tre gruppi, destinati a Roma, a Rieti e al Piceno. Lasciata in balia degli invasori, Farfa divenne cosí il principale caposaldo saraceno nel cuore della Sabina, nei primi mesi dell’898. Intorno al 910, il prode Tachiprando, nobile cavaliere di Rieti, sbaragliò l’accampamento saraceno di Trebula grazie a un’operazione militare condotta con l’appoggio di truppe romane e umbre. È un evento significativo, poiché prelude alla ben piú celebre impresa condotta alle foci del Garigliano, laddove venne annientata la piú potente base costituita in Italia dai pirati nordafricani (915). Frattanto (non si sa bene se prima o dopo l’impresa di Tachiprando) l’abate farfense Ratfredo mette in salvo (o rapisce) le reliquie di santa Vittoria e le conduce nel Piceno. Il 20 giugno 934, il sacro corpo fu solennemente accolto nel monastero di S. Maria che dominava l’odierno paese di Santa Vittoria in Matenano (Fermo).

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Due secoli piú tardi, negli anni 1153-56, il santuario sabino di S. Vittoria fu al centro dell’attenzione del lungimirante vescovo Dodone di Rieti. Oltre a ricostruire la sua cattedrale, egli si preoccupò infatti di ristrutturare e di abbellire i luoghi santi della sua diocesi. Per giunta, senza temere le probabili reazioni di sdegno (o di scherno) dei monaci farfensi, passò un colpo di spugna sulla memoria della traslazione di Ratfredo, e asserí che santa Vittoria non si era mai mossa dal proprio santuario. Come attestava una perduta lapide, l’unica traslazione degna di fede era quella, di brevissimo tragitto, con cui Dodone in persona aveva condotto il corpo santo dalla catacomba all’altar maggiore, per l’occasione sormontato dal nuovo ciborio. Ci si trovò cosí di fronte all’imbarazzante ubiquità di Vittoria. Casi di questo genere, alimentati dalla concorrenza delle istituzioni religiose, non erano inconcepibili. Per esempio, il corpo di san Benedetto da Norcia era rivendicato come presente nel proprio rispettivo cenobio, nel medesimo momento, sia dai monaci di Monte Cassino che dai confratelli di Fleury (Saint-Benoît-sur-Loire), il che alimentò una lunga vicenda di schermaglie reciproche. La sicumera del vescovo reatino, comunque, non permise al santuario di Monteleone di eclissare il suo potente «doppio» piceno, ormai noto a tutti con la sua avventurosa storia di fondazione, difficilmente contestabile grazie all’autorità indiscussa dei monaci farfensi. Dodone ebbe però buone probabilità di far valere la sua versione presso le popolazioni locali, e riuscí nell’intento di ridare lustro al santuario in una dimensione diocesana.

Una facciata asimmetrica

Il momento culminante della chiesa sabina si colloca nel Duecento, quando, tra l’altro, la svettante torre campanaria si arricchisce di un nuovo piano aperto da alte bifore, divenendo cosí una perfetta reinvenzione, per cosí dire «in scala», della elegante e solida torre del Duomo di Rieti (1252). La facciata della chiesa, rinnovata nel Duecento e ulteriormente rielaborata nel XV secolo, si abbina alla torre nella visione frontale dell’edificio, e costituisce una sintesi deliziosa dei suoi valori storici e stilistici. Asimmetrica, poiché interessa lo spazio di due sole navate, presenta una pittorica tessitura di elementi eterogenei. Per esempio, l’archivolto istoriato del portale era destinato in origine a un altro ingresso, molto probabilmente la porta interna che collega

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Il presunto sarcofago originario di santa Vittoria, che si trova all’ingresso della catacomba a lei intitolata. L’arca è sovrastata da un affresco che ne raffigura il martirio.

l’atrio all’aula della chiesa. In ogni caso, tutti i fregi a girali fioriti, compresi quelli che corrono sull’architrave e sui piedritti, sono dell’epoca di Dodone (1155 circa), e riecheggiano i modi classicheggianti del «suo» portale del Duomo di Rieti. Sulla destra della facciata, spicca un grande bassorilievo di reimpiego con un leone passante: per completare la figura, che dovette presentarsi consunta e frammentaria già nel Medioevo, uno scultore, durante la composizione della parete, realizzò una coda ex novo. La figura ha un chiaro valore apotropaico, e si riallaccia al leone appositamente scolpito che campeggia sul predetto campanile del Duomo di Rieti. Sollevando lo sguardo di lato al rosone, si nota poi la maschera di una gorgone, con la tipica capigliatura fitta che suggerisce un groviglio di serpenti. È stata tratta da un sarcofago romano, laddove costituiva una decorazione sommitale, situata precisamente sulla sezione di uno dei cuscini cilindrici (i pulvini) che si sviluppavano sui lati corti del coperchio. Una volta entrati nell’edificio, si possono quindi cogliere innumerevoli dettagli intriganti (elementi scultorei altomedievali, una cospicua epigrafe romana reimpiegata alla base di un pilastro, una tegola anch’essa romana con il bollo dell’officina usata come leggío…), per scendere infine ai sotterranei, al cui ingresso un elegante sarcofago di riuso è annoverato come l’urna originaria della santa. F

Da leggere Beatrice Premoli, La chiesa di Santa Vittoria a Monteleone Sabino, in Palladio, 22 (1972); pp. 187-204 Antonella Ferri, Monteleone, la chiesa di Santa Vittoria, in Marina Righetti Tosti-Croce (a cura di), La Sabina medievale, Amilcare Pizzi Editore, Cinisello Balsamo 1985; pp. 76-89 Giovanna Alvino, Via Salaria, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2003; pp. 86-94 Vincenzo Fiocchi Nicolai, Nuove ricerche e considerazioni sui santuari martiriali di S. Vittoria e S. Anatolia e sui rapporti con l’abbazia di Farfa, in Rolando Dondarini (a cura di), Farfa abbazia imperiale, Il Segno dei Gabrielli Editori, Negarine di S. Pietro in Cariano 2006; pp. 421-435

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Storie, uomini e sapori

Tra cucina e farmacia P

er gli Etruschi la lepre era una preda ambita e scaltra, meritevole di essere raffigurata su monili in oro, balsamari e affreschi tombali; tra i piú celebri quello che ritrae una realistica lepre in fuga nella scena centrale della tarquinense Tomba della Caccia e della Pesca (VI secolo a.C.) e la lepre appesa nella dispensa, effigiata nel IV secolo a.C. sulla parete sinistra dalla Tomba dei Velii di Orvieto (nota come Golini I). I Romani ne conoscevano due specie: la lepre comune, che Marziale giudicava la miglior preda, e quella alpina, detta anche «cangiante», poiché sbiancava il colore del mantello in inverno. Catturate nell’ager con le reti, le lepri venivano trasportate nei leporaria, vere e proprie riserve di caccia diffuse alla fine dell’epoca repubblicana nelle immediate periferie delle città. Quanto fossero importanti le carni di lepre nella cucina romana lo

testimoniano le quattordici ricette relative alla loro preparazione e cottura lasciateci da Apicio. Non essendo dotate di artigli, né di denti efficaci per combattere, le lepri rispondono al naturale istinto di sopravvivenza grazie a un finissimo udito e a un potente e agile apparato muscolare.

La fuga come arma di difesa Cosí la diffidenza e la fuga sono le uniche «armi» che permettono loro di salvarsi la vita. Nella sua Epistola esplicatoria scritta al chierico nolano don Sabatino Savolino, Giordano Bruno descrive la lepre come figlia del «timore della contemplazione de la morte et anco, per quanto si può, della speranza e confidenza, la quale è contraria al timore». In un’altra missiva al poeta britannico Philip Sidney, Bruno giustifica la «fugace lepre» in quanto preda di «vano timore, codardigia, tremore, diffidenza, disperazione, suspicion falsa et altri

figli e figlie del padre dapocaggine et ignoranza madre». Meno comprensivi con lei furono prima Esopo e Fedro e, piú tardi, La Fontaine, che non hanno esitato a calunniare la timida bestiola facendola diventare paradigma di viltà, confortati in questo dal rètore latino Cornificio, che bollava con l’epiteto di «lepus» il soldato che si dava alla fuga davanti al nemico. Tuttavia, le carni di questo animale sono da millenni tenute nella massima considerazione come alimento e, fino a tutto il XIX secolo, anche come medicamento. Già nel V secolo a.C. il filosofo greco Archelao di Mileto dichiarava: «Nutrirsi di carne lepre per sette giorni consecutivi rende l’uomo molto bello» e piú tardi Plinio il Vecchio avvertiva: «Qualsiasi donna sterile si cibi di carne leprina diventerà feconda». Questa credenza – da cui scaturirono numerose ricette a base di utero e testicoli leprini – si rifaceva alla notevole capacità A sinistra Natura morta con lepri, dipinto di Floris van Schooten. XVII sec. Sebastopoli, Museo d’Arte «M.P. Kroshitsky». Nella pagina accanto miniatura con la caccia alla lepre, dal Livre de la chasse di Gaston Fébus. 1407-1408. Chantilly, Musée Condé.


riproduttiva della lepre, la cui stagione degli amori dura ben sette mesi; una fama di lussuria di cui rimane traccia nel millenario divieto per gli Ebrei di consumarne la carne, stigmatizzata come impura.

Animale equivoco e ambivalente Nel Quattrocento le virtú di questo animale – considerato dalla Chiesa «equivoco e ambivalente», vista la difficoltà a riconoscerne il sesso – erano perlopiú legate alla medicina ippocratica, che riteneva le sue carni capaci di risanare dalla dissenteria una volta bollite prima di essere arrostite. Il cervello di lepre lesso serviva a guarire le ulcere gengivali, mentre il grasso si utilizzava per confezionare pomate e unguenti contro i dolori reumatici e le nevralgie (ancora oggi, nella puszta ungherese, i bovari si curano le ferite con il grasso di lepre). Polvere di ossa leprine sciolte in olio lenivano i geloni e guarivano l’alopecia e i polmoni, passati al mortaio, erano ritenuti un toccasana contro l’asma e l’epilessia; il fiele misto a zucchero guariva gli occhi e un cataplasma di fegato fresco applicato sul ventre poteva risolvere diarree e malattie epatiche. Per contro, si sosteneva che il consumo eccessivo di carni di lepre provocasse l’insonnia, poiché l’animale dorme con gli occhi aperti. Con la caduta dell’impero romano e le invasioni dei popoli alemanni la caccia alla lepre subí un arresto a favore della selvaggina piú grossa. Una certa ripresa dell’interesse venatorio si manifestò tra i nobili italiani intorno al IX secolo, ma, fino al Settecento, la lepre venne cacciata in modo saltuario in Europa, tranne che in Francia, dove la sua carne era apprezzata dai Galli ancor prima della conquista romana e di questa passione è testimone anche un vaso di fattura gallica su cui è effigiato un garzone di cucina nell’atto di spellare una lepre. Quando i Franchi invasero

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la Gallia post-romana adottarono anche le consuetudini alimentari delle popolazioni locali. Nei ricettari trecenteschi si trovano numerosi consigli gastronomici sulla lepre. Vi si afferma che quella di montagna, di taglia media e pelo tendente al grigio, è preferibile a quella di pianura o alla lepre tedesca, dalla testa grossa e dal pelo rossiccio. Si avvertiva anche che una lepre giovane o un leprotto erano riconoscibili da una piccola protuberanza sulle articolazioni delle zampe anteriori. Nel caso fosse finita nel carniere una lepre troppo vecchia, si suggeriva di farla frollare a lungo prima di scorticarla e di pestarla poi con un mazzuolo, evitando di spaccarne le ossa.

Il re va a caccia All’epoca del re di Francia Carlo IX di Valois (1560-1574), la carne di lepre godeva non solo i favori di corte, ma si credeva sempre piú fermamente alle sue virtú terapeutiche: il sangue era ritenuto particolarmente efficace per rinforzare i capelli, il grasso si credeva aiutasse a rimarginare le ferite, e la pelle poteva miracolosamente arrestare

le emorragie. Per deliziare i suoi robusti appetiti, quello stesso sovrano – figlio di Caterina de’ Medici e di Enrico II – aveva fatto costruire un parco per la caccia alla lepre a Saint-Germain-en-Laye (località situata una trentina di chilometri a nord-ovest di Parigi), e si narra che dettasse ai suoi cuochi la ricetta di una lepre cotta in lardo e vino con erbe odorose, spezie, pere, succo d’uva, tartufi, funghi e salsata con fegato, cervello e sangue dell’animale. In Italia, nel VII secolo, i Longobardi impedirono ai contadini la caccia, punendo il bracconaggio con la fustigazione, la tortura, l’accecamento, il taglio delle mani e delle orecchie, fino a giungere nei casi piú gravi, alla pena di morte. Fino alla Rinascenza la piccola selvaggina, riservata a signori e sovrani, non comprendeva la lepre, che fu lasciata libera di riprodursi tranquillamente. Cosí nel Settecento il numero degli esemplari arrivò a minacciare seriamente l’integrità dei raccolti e le cacce organizzate ripresero in grande stile con l’entusiastica partecipazione del popolo. Sergio G. Grasso

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UN ANTROPOLOGO NEL

MEDIOEVO Il pianto degli eroi «P

iangere è una cosa da femminucce» e «l’uomo non deve mai piangere» sono affermazioni che nascondono un modo di pensare il genere maschile che, seppur troppo lentamente, sembra stia – fortunatamente – scomparendo. Eppure, nel Medioevo, le emozioni veicolate dalle lacrime erano accettate e attese, dalle donne ma anche dagli uomini, soprattutto da eroi, paladini e guerrieri. Il «virile» re Hrothgar di Danimarca pianse copiose lacrime di gratitudine quando al principio del VI secolo Beowulf liberò la sua terra da Grendel, mostro gigantesco dalla forza sovrumana; mentre nostalgiche lacrime di rimpianto per un mondo che stava scomparendo hanno bagnato intere opere come La morte di Artú di sir Thomas Malory (1469). Re Artú piange spesso nei suoi romanzi. Certo, si dirà, sono lacrime che appartengono alla letteratura, ma che comunque dicono molto sulla sensibilità del pubblico che leggeva e ascoltava avidamente le storie di quel re che fu, insieme ai suoi cavalieri della Tavola rotonda, una vera e propria leggenda nazionale. Lacrime che non sminuivano di un grammo il suo valore, anzi lo rendevano piú vero e sincero, perché solo da un eroe dal cuore puro ci si aspettavano lacrime.

La disperazione di Rolando e di Carlo Magno Rolando, uno dei cavalieri di Carlo Magno reso immortale dalla Chanson a lui dedicata nella seconda metà dell’XI secolo, piange il suo amico Oliviero, finché «vinto dal pianto e dal dolor, pallido il volto, cade estenuato al suol». Lo stesso Carlo Magno, alla disfatta di Roncisvalle, dinanzi al cadavere di Rolando «disperato la bianca barba con ambo le mani e i capegli si strappa», mentre intorno a lui «cento mila Francesi, mal reggendo a tanto strazio, cadono tramortiti al suolo». Il mondo e la storia hanno conosciuto diversi tipi di lacrime, come quelle legate ai grandi riti collettivi di

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purificazione, alla penitenza e alla preghiera. Nel Libro di Isaia (38, 5), il Signore aiuta Ezechia perché ne ha ascoltato le preghiere e visto le lacrime, e sovente è Egli stesso a chiederne, come in Gioele 2, 12: «Ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti». Piú spesso le lacrime sono legate alla morte, come dice già il termine lutto, da lugere, piangere. In questo momento di dolore profondo l’uomo rimane attonito e senza armi: non resta che piangere, per scaricarsi emotivamente e far defluire quelle energie psichiche che altrimenti rischierebbero di fare corto circuito, di bloccare la vita dell’intero gruppo umano e incrinare quella costruzione che chiamiamo cultura. Ecco allora che quest’ultima «inventa» strategie, istituti culturali atti a lenire il dolore della perdita: le grandi lamentazioni corali, i poderosi riti di lutto che univano gli uomini facendo loro rendere conto che erano ancora vivi e presenti, nonostante lo scandalo logico rappresentato dalla morte. Nel mondo antico i tempi del lutto «stretto» erano estremamente lunghi e precisi: settanta giorni nell’Egitto dei faraoni o trenta per la morte di Aronne, dicono i testi sacri. Giorni consacrati alle lacrime, che segnavano il trapasso e l’allontanamento del morto dal mondo dei vivi, ma che a volte, nella mitologia, potevano avere una funzione opposta: quella di risvegliarli. Nell’Edda in prosa di Snorri Sturluson, Baldr, il figlio novembre

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di Odino, viene ucciso accidentalmente, ma gli è concesso di tornare fra i vivi, a una condizione: potrà lasciare il mondo sotterraneo di Hel quando tutti gli esseri viventi della terra piangeranno per lui. Cosa che faranno tutti, tranne la gigantessa Thökk, che impietosa lo condannerà: «Morto o vivo, il ragazzo del Vecchio non mi interessa. Possa Hel tenere ciò che ha». Il cristianesimo provò a irreggimentare quei possenti e sonori riti di lutto che si svolgevano in tutto il Mediterraneo e lo fece partendo proprio dalle lacrime, che pure Gesú stesso versò di fronte al cadavere di Lazzaro. Sante reliquie salate che i Benedettini di Vendôme in Francia si vantavano di possedere, come racconta il volume Storia vera della santa Lacrima che Gesú Cristo pianse su Lazzaro, del 1672. Questo controllo sul piangere si è trasferito anche nelle culture popolari europee, dove ancora oggi si ritiene non si debbano versare troppe lacrime sul morto, poiché finirebbero per inzupparne le vesti e rallentarne il cammino per l’aldilà.

Il dolore privato di sant’Agostino Le lacrime non furono osteggiate dalla Chiesa di per sé, ma quando accompagnate dai tipici gesti di lutto, come strapparsi i capelli, battersi il petto, schiaffeggiarsi o torcersi le mani. Una vera e propria rivoluzione della teoria delle lacrime si ebbe con sant’Agostino, il quale non ne versò al funerale della madre, ma pianse da solo, offrendo privatamente le sue lacrime a Dio: morta la madre – scrive Agostino nelle sue Confessioni (IX, 12, 33) – «Mi prese il desiderio di piangere davanti ai tuoi occhi su di lei e per lei, su di me e per me; lasciai libere le lacrime che trattenevo di scorrere a loro piacimento, stendendole sotto il mio cuore come un giaciglio su cui trovò riposo». Questa separazione tra lacrime pubbliche e private è forse stato il maggior contributo di Agostino alla cultura medievale delle lacrime, che arrivò a categorizzarle secondo differenti tipologie: lacrime di contrizione, di tristezza, gioia, di grazia, per non citarne che alcune, che secoli dopo salirono a dodici tipi con il cardinale Bellarmino, nel suo De gemitu Columbae, sive de bono lacrymarum (1617). Gregorio Magno definí il piangere una grazia, la gratia lachrymarum, e Isidoro di Siviglia «cibo per le anime». Giovanni di Fecamp, nell’XI secolo, pregava Dio per ottenere «il dono A destra Milano, S. Giorgio al Palazzo, cappella del SS. Sacramento. Compianto del Cristo morto (particolare), affresco di Bernardino Luini. 1516. Nella pagina accanto volto di Maria Maddalena piangente, affresco di Ercole Roberti. 1478-1486. Bologna, Pinacoteca Nazionale.

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delle lacrime». Cosí, quando per la dottrina cristiana il pianto divenne una forma di beatitudine, il non riuscire a versare lacrime fu visto come un cattivo presagio e, piú ancora, come un signum diaboli. E nei processi per stregoneria l’incapacità di versare lacrime divenne il segnale certo dell’appartenenza degli imputati alla perversa setta delle streghe, come scrive accuratamente il Malleus Maleficarum, il famoso manuale degli inquisitori. Claudio Corvino


CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Giuseppe Ligato Fortezze crociate La storia avventurosa dei grandi costruttori medievali, dai Templari ai Cavalieri Teutonici con un saggio introduttivo di Franco Cardini, Edizioni

Terra Santa, Milano, 192 pp., ill. b/n

18,00 euro ISBN 978-88-6240-440-2 www.edizioniterrasanta.it

Introdotto da una lungo saggio di Franco Cardini, il volume di Giusepe Ligato analizza una delle «ricadute» piú significative e concrete dell’epopea crociata, vale a dire la costruzione delle numerose fortezze che

fabbriche. Artefici che si possono rintracciare innanzitutto nei grandi Ordini cavallereschi che furono protagonisti delle «guerre sante» e delle successive attività di difesa delle posizioni acquisite. Il saggio, in ogni caso, non si concentra unicamente sugli aspetti bellici e strategici, ma ricostruisce anche la vita quotidiana delle roccheforti, che erano altrettanti microcosmi, uno dei cui requisiti essenziali era quello di poter garantire, soprattutto in caso di pericolo, l’autosufficienza delle guarnigioni che li occupavano. Stefano Mammini Teodoro Gaza Elogio del cane. Canis laudatio

introduzione, traduzione e note a cura di Lucia Coco, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 32 pp. 5,00 euro

tuttora punteggiano i paesaggi della Terra Santa. Come scrive l’autore stesso, il fine del libro non è quello di offrire una descrizione analitica dei vari edifici – compito che Ligato ritiene piú adatto agli archeologi –, bensí quello di indagare il profilo degli artefici di quelle grandi

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ISBN 978-88-222-6467-1 www.olschki.it

Umanista bizantino nato a Salonicco intorno al 1400, Teodoro Gaza volle scrivere questo che egli stesso definisce un «opuscolo» quando fece dono di una cagnolina a un amico. L’occasione gli parve adeguata per tessere le lodi del «migliore

amico dell’uomo», articolando il suo componimento in vari capitoletti, dedicati alle qualità che generalmente gli vengono riconosciute – versatilità, capacità venatorie, affettuosità, fedeltà… – ai quali fanno da corollario una breve rassegna di alcuni esemplari celebri nell’antichità e il Congedo. La lettura risulta gradevole e, per dirla ancora con le parole di Gaza, è un «gioco» divertente e raffinato. S. M.

DALL’ESTERO Philippe Braunstein Les allemands à Venise (1380-1520)

École française de Rome, Roma, 975 pp., ill. b/n

65,00 euro ISBN 978-2-7283-1125-5 www.publications.efrome.it

L’importante volume, al quale l’autore ha dedicato una parte significativa della sua attività di studioso, costituisce l’elaborazione del

materiale raccolto nell’arco di molti decenni. L’opera esordisce con due capitoli dedicati alla posizione geografica di Venezia rispetto alle terre tedesche e al rapporto dei mercanti teutonici con la città lagunare (cap. 1), alle strade percorse e al costo dei trasporti (cap. 2), per soffermarsi poi a lungo sul Fondaco dei Tedeschi (cap. 3), del quale Braunstein prende in considerazione ogni aspetto: dalla struttura edilizia, all’amministrazione, alla vita all’interno del Fondaco, animata dai continui conflitti tra gli esponenti delle diverse città dell’area germanica; dall’incendio della primitiva struttura alla sua ricostruzione; dal concetto di «tedesco» alla fine del XV secolo alla conoscenza della lingua. Vengono poi esaminate le società commerciali delle città germaniche presenti sulla laguna, fino ai Welser e ai Fugger (cap. 4); le strutture alberghiere e le botteghe di Venezia (cap. 5); le modalità del commercio (cap. 6) nella molteplicità dei loro aspetti (contabilità, apprendimento

della lingua, tecniche commerciali); i prodotti scambiati (cap. 7). L’ottavo capitolo è dedicato ai Fugger e ai Foscari, attivi nel commercio delle spezie e del rame; il nono alla composizione socio-professionale della comunità tedesca (panettieri, calzolai, tessile e abbigliamento, lavorazione dei metalli, scultura, pittura, oreficeria, vetreria, arte della stampa);

il capitolo 10 analizza le forme organizzative della devozione e della solidarietà, mentre l’undicesimo delinea le conclusioni. Le circa 150 pagine finali contengono una ricchissima appendice documentaria e un altrettanto ricco elenco di fonti, un nutritissimo apparato bibliografico, oltre agli indici delle persone, dei luoghi e delle illustrazioni. Maria Paola Zanoboni novembre

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Lingue e tradizioni d’Adriatico MUSICA • Un gruppo vocale femminile e uno

maschile, Dialogos e Kantaduri, si cimentano con successo nella rilettura del repertorio musicale della Dalmazia medievale, in un intrigante confronto fra antichi idiomi

D

almatica. Chants of the Adriatic propone l’incontro con la cultura liturgico-musicale dei Balcani – in particolar modo croata –, che si offre in tutto il suo splendore, rivelando un patrimonio musicale di tradizione scritta, dove l’influenza bizantina si mescola a quella occidentale, alternandosi al repertorio di tradizione orale eseguito nell’antico

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slavone. Pervenutoci in rari manoscritti redatti in alfabeto glagolitico (il piú antico alfabeto slavo, creato dai santi Cirillo e Metodio nella seconda metà del IX secolo, n.d.r.), il repertorio liturgico in slavone, accanto all’utilizzo del latino, costituisce una delle peculiarità della cultura musicale

Dalmatica: Chants of the Adriatic Ensemble Dialogos, Katarina Livljanic, Kantaduri, Joško Caleta (Arcana, A395), 1 CD www.outhere-music.com

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CALEIDO SCOPIO che ritroviamo nella Dalmazia dell’XI secolo, un’ampia area geografia che anticamente si estendeva sulla costa adriatica dalla Croazia sino all’Albania, includendo Bosnia, Erzegovina e Montenegro. Proprio in questo bipolarismo linguistico e culturale, tra tradizione orale e scritta, si sviluppa l’interessante programma del gruppo Dialogos, un quartetto femminile diretto da Katarina Livljanic, a cui è affidato il

repertorio « colto » in latino, e delle sei voci maschili del gruppo Kantaduri, dirette da Joško Caleta, che eseguono il repertorio orale – tuttora praticato – in antico slavo.

Il fascino della polifonia primitiva L’influenza liturgica gregoriana e beneventana caratterizza le esecuzioni del gruppo Dialogos, nella quali, accanto alla monodia, si propongono varie forme di polifonia primitiva, assai suggestive

nella loro arcaicità. Questi straordinari brani ci riconducono all’ambito liturgico e paraliturgico della Natività e della Pasqua, mentre i modelli sono quelli tipici del canto responsoriale e antifonale con modalità che ritroviamo nell’antica liturgia romana. Tutt’altra atmosfera è quella evocata dal gruppo Kantaduri: qui predomina la forte componente popolare, caratterizzata principalmente dall’andamento

L’amore secondo Jehan, poeta misterioso MUSICA • Il Roman de Fauvel, un pamphlet satirico composto agli inizi del

Trecento, ci ha tramandato le composizioni di Jehan de Lescurel, ora brillantemente rivisitate dall’Ensemble Céladon, diretto da Paulin Bündgen

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nsigne cantore e poeta d’amore, il troviere e clerico Jehan de Lescurel, vissuto a Parigi a cavaliere tra il XIII e gli inizi del XIV secolo, è uno di quei personaggi della storia della musica che tanto affascina per la grandissima qualità e raffinatezza delle sue musiche, quanto intriga per la mancanza assoluta, o quasi, di notizie biografiche che lo riguardino, cosí da farne un personaggio mitico, sfuggente.

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Ad alimentarne il fascino restano solo le sue musiche, capaci di colpire la nostra moderna sensibilità musicale, nonostante i sette secoli di scarto temporale. L’intera produzione di Lescurel si concentra su di un’unica fonte,

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polifonico omoritmico, tipico delle tradizioni orali e piú facilmente trasmissibile appunto oralmente. La differenza stilistica tra i due repertori si evidenza in particolar modo anche nel tessuto modale che contraddistingue i canti «latini» provenienti dalle cattedrali di Zagabria, Zara, Trogir, che, rispetto al repertorio «glagolitico», denotano con maggiore evidenza una moderna sensibilità armonica. D’altronde, in un repertorio di tradizione orale,

pur rivelando le sue radici antiche, l’evoluzione stilistica è piú marcata, non essendo «imbrigliata» in una forma scritta che in qualche modo la cristallizza nel tempo.

Un autentico dialogo multiculturale Interamente giocata sul dualismo, questa antologia ha il grande merito di mettere a confronto una serie di elementi culturali e stilistici che riflettono aspetti diversi e coesistenti

Jehan de Lescurel. The Love Songs of Jehan de Lescurel Ensemble Céladon, Paulin Bündgen (Ricercar RIC 366), 1 CD www.outhere-music.com che è una delle piú note opere letterarie medievali francesi del primo Trecento: il Roman de Fauvel, un racconto satirico che si scaglia contro il regime di Filippo il Bello, descrivendo un mondo al contrario, nel quale gli uomini si comportano come animali, e che ebbe una vastissima diffusione. Una delle sue edizioni, il manoscritto 146 del Fonds français della Biblioteca Nazionale di Parigi, si caratterizza per la ricchezza di inserti musicali all’interno della narrazione; si tratta di composizioni firmate da Jacques de Vitry, teorico dell’Ars Nova, e, tra gli altri, anche da Jehan de Lescurel.

Agli esordi dell’Ars Nova Di quest’ultimo sono presenti ben 31 brani, che l’Ensemble Céladon ci propone ora in una splendida interpretazione nel disco The Love Songs of Jehan de Lescurel. Le musiche di Lescurel ci offrono l’occasione di conoscere alcuni dei generi che caratterizzano al meglio la nascente Ars Nova francese, quali i virelais, le ballate e i rondeaux, tutti composti in forma monodica, a eccezione del brano polifonico A vous douce debonnaire (n. 2). Costantemente incentrato sull’amore, l’universo sonoro di Lescurel rivela un tono melanconico che rende ancor piú suggestive le sue musiche volte a celebrare incondizionatamente la donna, in una visione cortese, ereditata dalla grande tradizione provenzale.

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di una medesima area geografica: tradizione colta e tradizione orale, lingua latina e antico slavone, tradizione liturgica romana e tradizione bizantina. Dall’ascolto di queste musiche emerge dunque un vero e proprio dialogo multiculturale: merito della proficua collaborazione dei due ensemble, che in alcuni brani si uniscono per dar vita a momenti musicali di grandissima suggestione. Franco Bruni

Scelta peculiare dell’Ensemble Céladon nel ricreare le raffinate atmosfere musicali di questo compositore è stata quella di arricchire polifonicamente alcuni dei brani, seguendo la prassi improvvisativa tipica dell’epoca, e tenendo ovviamente conto dello stile contrappuntistico del primo Trecento. Molti brani si aprono, infatti, con altrettanti assolo, affidati alle splendide voci femminili dell’Ensemble, in cui alla voce principale si aggiunge una seconda, creando dialoghi polifonici di grande fascino.

Licenze interpretative Varie sono le soluzioni interpretative adottate, come per esempio in Amour, voulés vous acorder, che inizia con un affascinante melodia affidata al soprano solista, a cui, in una sorta di risposta antifonale, si aggiunge all’unisono il secondo soprano per poi concludersi polifonicamente… Licenze interpretative che ben si accompagnano a questi brani che, tra l’altro, si contraddistinguono per la loro concisione e brevità, che nulla tolgono alla loro bellezza. Oltre ai soprani Anne Delafosse e Clara Coutouly, la terza voce è affidata al controtenore, nonché direttore, Paulin Bündgen; voci che si alternano/combinano secondo le tematiche affrontate, affidando al solo soprano i brani in cui la donna è protagonista, senza tralasciare anche alcuni passaggi declamati. Le voci sono accompagnate da viola, arpa, liuto, flauti e varie tipologie di percussioni, che «colorano» con gusto le atmosfere evocate. F. B.

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