MEDIOEVO n. 239 DICEMBRE 2016
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Mens. Anno 20 numero 239 Dicembre 2016 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
NEL PORTO DEI CROCIATI
SOMMARIO
Dicembre 2016 ANTEPRIMA
COSTUME E SOCIETÀ Cartoline
IL PROVERBIO DEL MESE «Andare a Canossa»
Fantasmi di Natale di Claudio Corvino
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MOSTRE Nella mente del poeta 8 Gotiche passioni 12 Un libro è per sempre 14 La devozione scolpita nel legno 18
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LUOGHI MEDIOEVO NASCOSTO Piemonte
Ogni bric ha la sua chiesa di Chiara Parente
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APPUNTAMENTI Sotto il mantello Il Natale bussa alle porte Da san Nicola alla Capra Yule L’Agenda del Mese
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CALEIDOSCOPIO
MUSEI Venere «rinasce»
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LIBRI Lo scaffale
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MUSICA L’importanza del dialogo
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STORIE, UOMINI E SAPORI Un invasore da sempre benvoluto 108
STORIE PROTAGONISTI Michele da Calci
«Io voglio morire per la libertà»
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di Federico Canaccini
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Dossier Acri 1291
LA CADUTA DEGLI STATI CROCIATI
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di Antonio Musarra
ALLA SCOPERTA DI UNA CITTÀ MILLENARIA di Andreas M. Steiner
COSTUME E SOCIETÀ GENTE DI BOTTEGA/9 Il cartolaio che amava l’arte di Barbara Conti ed Emanuela Porta Casucci
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MEDIOEVO Anno XX, n. 239 - dicembre 2016 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it
Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 43, 80 (sinistra), 84, 86 (alto), 86/87 (basso), 87 (centro), 88 (alto) – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 5, 44/45, 46, 52, 55, 56 (basso), 73; Album: pp. 36 (alto), 107; Archivio Alessandro Vasari/Alessandro Vasari: p. 48/49; Leemage: pp. 77, 106; Antonio Quattrone/ Antonio Quattrone, su concessione MiBACT: p. 108 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 8-21; Cortesia dell’autore: pp. 22-23, 85 – Foto Scala, Firenze: pp. 32/33; The Print Collector/Heritage Images: p. 45 – DeA Picture Library: pp. 34, 38, 56 (alto), 76/77; Veneranda Biblioteca Ambrosiana: pp. 35, 76; A. Dagli Orti: p. 36 (basso); G. Cozzi: p. 37; G. Nimatallah: pp. 54/55; G. Dagli Orti: pp. 74/75; C. Sappa: p. 105 – Doc. red.: pp. 39, 42, 50, 66, 68, 92 (disegno), 93 (disegno) – Bridgeman Images: pp. 40/41, 51, 57-61, 70, 80 (destra) – Archivi Alinari, Firenze: p. 72; Dist. RMN/Grand Palais/Image BnF: p. 47; Dist. RMN/Grand Palais (Château de Versailles)/ Franck Raux: p. 63 (e p. 78) – Marka: Duby Tal/ Albatross: pp. 64/65; Zonar/Rostislav Gli: pp. 66/67; Hwo/ImageBroker: p. 67: Vladimir: p. 83 – Granger, NYC: p. 69 – Duby Tal/Albatross: pp. 86 (basso), 88/89, 89 – Andreas M. Steiner: pp. 86/87 (alto), 87 (alto), 91, 92 (basso), 93 (foto), 96 – Marco Cipriani: pp. 94-95 – Cortesia Asti Turismo: pp. 98-100, 101 (basso), 102104, 106 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 71, 80/81, 90/91, 97, 101. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.
Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Tel. 02 0069.6352
Editore: MyWay Media S.r.l.
Collaboratori della redazione:
Presidente: Federico Curti
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Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa
Impaginazione: Alessia Pozzato Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Barbara Conti è storica dell’arte medievale. Claudio Corvino è antropologo. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Mila Lavorini è giornalista. Antonio Musarra è Ahmanson Fellow presso Villa I Tatti (Harvard University). Chiara Parente è giornalista. Emanuela Porta Casucci è dottore di ricerca in storia medievale. Stefania Romani è giornalista. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.
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Nel prossimo numero protagonisti
San Pietro martire
medioevo nascosto
I misteri di Acquapendente
saper vedere
La collegiata di Sant’Orso ad Aosta
dossier
L’Ordine dei Domenicani
IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini
«Andare a Canossa»
L’
espressione scelta per questo mese sarebbe stata coniata nel 1872 dal cancelliere tedesco Ottone di Bismarck: «Noi non andremo a Canossa, né con il corpo né con lo spirito», affermò, dichiarando cosí inaccettabile qualsiasi ingerenza – in particolare ecclesiastica – sulle decisioni del II Reich. «Andare a Canossa», infatti, significa umiliarsi e ammettere di aver sbagliato, cosí come fece l’imperatore Enrico IV nel 1077 dinnanzi a papa Gregorio VII. L’episodio si inserisce nel contesto della cosiddetta «Lotta per le investiture», il conflitto esploso sul volgere dell’XI secolo tra l’imperatore tedesco e Ildebrando di Sovana (ovvero Gregorio VII) per le nomine dei vescovi. Dopo aver domato una rivolta dei Sassoni, tra cui anche alcuni potenti ecclesiastici, Enrico chiese a Gregorio la facoltà di deporre i vescovi ribelli. Il papa non approvò l’idea e pregò invece Enrico di cooperare nella riforma dei costumi che egli stava promuovendo in Europa, vietando addirittura agli ecclesiastici i poteri laici. L’imperatore si vide cosí privato della classe dirigente ecclesiastica, potente e al contempo sostanzialmente affidabile, giacché, a fine mandato, l’imperatore avrebbe potuto nominare un nuovo vescovo di fede provata. Non era cosí per i principi laici, i quali, grazie alla Constitutio de Feudis, avevano ottenuto l’ereditarietà del feudo. Fu cosí che Enrico convocò un sinodo a Worms e, nel 1076, dichiarò Gregorio VII indegno della tiara. Il papa reagí con un provvedimento che spiazzò l’imperatore: Gregorio, infatti, scomunicò Enrico, che si vide abbandonare da molti vescovi timorosi dell’energico Ildebrando, mentre i Sassoni si ribellarono di nuovo e perfino i principi tedeschi lo sospesero dal potere. Il sovrano tentò allora abilmente di ottenere il perdono dal papa, cercando cosí di giungere a una riconciliazione con lui, e di conseguenza con i suoi feudatari, laici ed ecclesiastici. Nel gennaio del 1077, accompagnato dalla suocera, Adelaide di Susa, Enrico partí alla volta dei territori della cugina, la marchesa Matilde, presso cui il papa soggiornava. Giunto ai piedi del castello di Canossa, nel territorio di Reggio Emilia, Enrico, secondo la tradizione, dovette attendere tre giorni, dal 25 al 27 gennaio, prima d’essere ricevuto dal papa. Sotto una bufera di neve l’imperatore scomunicato attese dinnanzi al portone in ginocchio, con indosso un sacco da penitente, col capo cosparso di cenere e a piedi Enrico IV a Canossa, 1077, olio su tela di Eduard Schwoiser. 1862. Monaco, Stiftung Maximilianeum. L’artista ha immaginato l’imperatore, vestito solo di un saio, fuori dal castello di Canossa; dopo tre giorni di attesa, papa Gregorio VII infine lo ricevette e cancellò la scomunica comminata nei suoi confronti.
scalzi. Per intercessione della cugina e del padrino, l’abate Ugo di Cluny, il papa lo accolse nel castello, lo perdonò e ritirò la scomunica, reintegrandolo nella cristianità e restituendogli il titolo di imperatore. Tuttavia, poco dopo la lotta si riaccese, protraendosi sino al 1122, quando, con il Concordato di Worms, venne sancito che le nomine ecclesiastiche erano di esclusiva competenza pontificia.
ANTE PRIMA
Nella mente del poeta MOSTRE • Ferrara celebra i
cinquecento anni dell’Orlando furioso con una rassegna che ricostruisce l’universo culturale in cui Ludovico Ariosto elaborò il suo capolavoro
I
l 22 aprile del 1516, nell’officina tipografica Mazzocchi, a Ferrara, si concludeva la stampa dell’Orlando furioso. Composto di 40 canti, il poema con il quale Ludovico Ariosto ambiva a cantare «le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese» di un mondo lontano, ebbe da subito un ampio successo, raccogliendo l’ammirazione di molti contemporanei. A cinquecento anni dalla sua pubblicazione, Palazzo dei
Diamanti celebra questo capolavoro della letteratura, proponendo un suggestivo dialogo fra dipinti, sculture, arazzi, libri, manoscritti miniati, strumenti musicali, armi e oggetti preziosi. Che cosa vedeva dunque il poeta, chiudendo gli occhi, quando si accingeva a raccontare una battaglia, un duello di cavalieri o il compimento di un prodigioso incantesimo? Quali libri e quali
opere d’arte furono le muse del suo immaginario? A partire dai temi salienti del poema, i curatori e il comitato scientifico dell’esposizione hanno individuato le fonti iconografiche, note ad Ariosto o coerenti con la tradizione figurativa a lui familiare, che ne hanno ispirato la narrazione.
Un predecessore illustre Posto al centro del percorso espositivo, l’Orlando furioso è il perno di un itinerario ordinato in sezioni tematiche che alternano le fonti dell’immaginario ariostesco al contesto in cui è nato il poema. L’Orlando furioso di Ariosto inizia dove finisce l’impresa letteraria del suo predecessore, l’Orlando innamorato, o, meglio, l’Inamoramento de Orlando di Matteo Maria In alto l’editio princeps dell’Orlando furioso, uscita in data 22 aprile 1516, a Ferrara, per i tipi dell’editore Giovanni Mazzocchi. Londra, The British Library. Nella pagina accanto, in alto San Giorgio e il drago, tempera su tavola di Paolo Uccello. 1440 circa. Parigi, Musée Jacquemart-André, Institut de France. A sinistra La battaglia di Roncisvalle, arazzo in lana e seta. Produzione fiamminga (Tournai), 1475-1500. Londra, Victoria and Albert Museum.
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dicembre
MEDIOEVO
Boiardo, romanzo cavalleresco pubblicato a Ferrara trent’anni prima. Le gesta dei paladini di Carlo Magno, protagoniste di una tradizione letteraria di lunga data, si trasferiscono nelle pagine di Ariosto, che con ironia e sensibilità moderne metterà in crisi le certezze di un mondo cavalleresco ormai irrimediabilmente distante. Questo passaggio di testimone è rappresentato in mostra dal piú antico esemplare sopravvissuto del capolavoro di Boiardo.
La battaglia e la giostra A condurre nel vivo del racconto è il tema della battaglia, reale e letteraria. Dovendo raccontare guerre e combattimenti svoltisi nell’VIII secolo, Ariosto poté dare libero corso alla propria immaginazione, attingendo dall’universo visivo
A destra miniatura raffigurante, al centro, re Artú che gioca a scacchi con Faramon, mentre Bliobéris di Gaunes riceve un messaggio del re, da un’edizione del Guiron le Courtois. 1375. Parigi, Bibliothèque nationale de France. rappresentato da opere e oggetti che costituivano i veicoli privilegiati per la diffusione delle immagini: arazzi, libri e manoscritti miniati. L’epico combattimento di Roncisvalle del 778, uno degli episodi piú celebri dell’epopea della Chanson de Roland, fonte dei successivi poemi cavallereschi fino al Furioso, è per esempio evocato dall’olifante in avorio, che la leggenda vuole sia il corno fatto risuonare da Orlando tra i Pirenei, e da un monumentale arazzo, del tutto simile a quelli che impreziosivano le dimore estensi, che congela, in una scena di grande Qui sotto olifante in avorio detto «Corno di Orlando». XI sec. Tolosa, Musée Paul-Dupuy.
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ANTE PRIMA DOVE E QUANDO
«Orlando furioso 500 anni. Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi» Ferrara, Palazzo dei Diamanti fino all’8 gennaio 2017 Orario tutti i giorni, 9,00-19,00 Info tel. 0532 244949; e-mail: diamanti@ comune.fe.it; www.palazzodiamanti.it Catalogo Fondazione Ferrara Arte Editore A sinistra San Giorgio, olio su tavola di Cosmè Tura. 1460-65. Venezia, Fondazione Cini, Galleria di Palazzo Cini.
impatto visivo, il cruento scontro tra il paladino e i Saraceni. Ma come poteva un letterato del Cinquecento immaginare un guerriero dell’VIII secolo? A quali immagini poté ispirarsi verosimilmente Ariosto, ma ancor piú i suoi lettori, per figurarsi l’aspetto dell’intrepido Orlando, del valoroso Rinaldo, di Bradamante, bellissima donna guerriera, o, ancora, di Ruggiero, il Saraceno convertito cui spetta il ruolo di progenitore della stirpe estense? Accanto alla letteratura, spesso illustrata da preziose miniature, la pittura e la scultura offrirono al poeta e ai suoi contemporanei
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un ricco repertorio di immagini di guerrieri ed eroine, antichi e moderni, pagani e religiosi. Opere e oggetti diversi sono perciò chiamati a esemplificare questo immaginario: dall’eroe troiano Ettore, le cui armi sono contese dai paladini del poema, a san Giorgio, che a Ferrara incarnava l’idea stessa del cavaliere.
Un poema in trasformazione Ariosto non smise mai di rielaborare il suo poema, che fece nuovamente stampare a Ferrara con lievi ritocchi nel 1521 e una terza volta, sensibilmente rimaneggiato e accresciuto, nel 1532, pochi mesi prima di morire. Negli anni tra
la prima e la terza redazione, il mondo attorno al suo autore cambiò radicalmente, a cominciare dagli sconvolgimenti culminati nella battaglia di Pavia del 1525, che segnò la sconfitta del re di Francia e l’inizio dell’egemonia politica e culturale di Carlo V sulle corti padane. Ariosto è, inoltre, testimone della nascita dei capolavori realizzati per il signore di Ferrara, come Il baccanale degli Andrii di Tiziano. Caratterizzate da un linguaggio pienamente rinascimentale, capace di dare vita a un insieme narrativo unitario ma dinamico, queste opere sono emblematicamente rappresentative dell’invenzione di una nuova, moderna, classicità. La stessa sintesi fra tradizioni precedenti e lezione del mondo antico ha, in letteratura, un singolare parallelo nella trasformazione linguistica dell’Orlando furioso, che Ariosto porta a compimento nell’edizione del 1532. La capacità di assorbire le tradizioni piú varie e restituirle in un tutto armonioso è la qualità piú profonda del Furioso, che si manifesta proprio attraverso la scrittura: se ne accorse Cervantes che omaggiò la grandezza del poema ariostesco nel Don Chisciotte, libro che congeda il visitatore al termine di questo viaggio. (red.) dicembre
MEDIOEVO
ANTE PRIMA
Gotiche passioni MOSTRE • Cardinale e diplomatico, Guala Bicchieri fu
uno dei protagonisti del Duecento europeo, nonché un grande estimatore dell’arte e dell’artigianato del suo tempo. Un amore testimoniato dalla sua straordinaria collezione
L
a nuova mostra allestita nelle sale di Palazzo Madama, a Torino, ripercorre la vita e gli interessi di Guala Bicchieri, collezionista di arte gotica tra Vercelli, Limoges, Parigi e Londra. Seconda tappa di un progetto nato dalla coproduzione fra il museo torinese e il Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge di Parigi, la rassegna riscopre una figura chiave dello scacchiere diplomatico europeo nel primo Duecento: il religioso, legato papale di Innocenzo III, svolge varie missioni nell’area settentrionale del Vecchio Continente. E dai suoi viaggi riporta smalti, oreficerie, oggetti liturgici, codici, che costituiscono una straordinaria raccolta. «Bicchieri è nato in Piemonte, a
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Vercelli, ma per il tipo di carriera frequenta il Nord Europa: è a Parigi, all’abbazia di Saint-Victor, per gestire il divorzio del re di Francia e per deporre alcuni abati. È documentato nei monasteri di Corbie, Clairvaux e a Limoges», spiega Simonetta Castronovo, curatrice della mostra insieme a Christine Descatoire.
Difensore della Magna Charta Il cardinale soggiorna per due anni nell’Inghilterra di Giovanni Senza Terra e Riccardo Cuor di Leone, intervenendo per fermare la guerra intrapresa dai baroni contro il re, colpevole di non rispettare i rapporti garantiti dalla Magna Charta Libertatum: Guala assume la reggenza del regno dal 1216 al 1218,
In alto medaglione in rame cesellato, inciso, dorato e smalto champlevé con l’immagine di un falconiere a cavallo. Produzione di Limoges, 1200-1210 circa. Parigi, Musée de Cluny. In basso e nella pagina accanto, a sinistra due immagini del cofano di Guala Bicchieri. Produzione di Limoges, 1220-1225 circa. Torino, Palazzo Madama, Museo Civico d’Arte Antica. Si tratta di uno scrigno in rame traforato, sbalzato, cesellato, stampato, inciso e dorato, con smalto champlevé, paste vitree, legno di noce e tela di canapa. incorona Enrico III e riconferma il valore della Charta. Castronovo ricorda che «è il periodo delle grandi cattedrali di Canterbury, York, città nelle quali c’erano cantieri aperti.
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Dida, niet qui odio quisquunt, soluptae? Pe moloressenim estis enduci quia nim sequi doluptu rescius eni optiur, quae
DOVE E QUANDO
«Lo scrigno del Cardinale» Torino, Palazzo Madama fino al 6 febbraio 2017 Orario lu-do, 10,00-18,00; chiuso il martedí Info www.palazzomadamatorino.it In alto particolare del coltello eucaristico di Guala Bicchieri, in ferro, argento con tracce di doratura, paste vitree colorate in cabochon, legno di bosso intagliato. Produzione della Francia Settentrionale o dell’Inghilterra, 1200-1225 circa. Milano, Civiche Raccolte di Arte Applicata. Pur rientrando a Vercelli o a Roma, Bicchieri attraversa i centri dell’arte gotica, ha contatti con re e grandi committenti. E porta con sé oggetti che non sappiamo se siano doni o frutto di committenze». Nelle sale torinesi sono esposte sedici opere, fra le quali spiccano il grande Cofano di Palazzo Madama, usato come baule da viaggio, il cofanetto di Vercelli, una Bibbia tedesca del 1220 e tre medaglioni dal Louvre, che rappresentano animali, figure fantastiche e combattimenti. La curatrice si sofferma anche su un coltello eucaristico, concesso in prestito dal Castello Sforzesco di Milano: «Legato alla liturgia paleocristiana, per il taglio del pane,
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ha una lama con il simbolo della Trinità, mentre sull’impugnatura scorrono le allegorie dei mesi. Le figurette al lavoro sono esili, longilinee, quasi danzanti, come quella di ottobre. E tradiscono una cultura figurativa nordica».
Il primo cantiere gotico d’Italia Castronovo precisa che anche gli altri oggetti rimandano al gusto del Gotico franco-settentrionale, sottolineando come le scelte di Guala ne facciano un personaggio eccezionale. Il cardinale colleziona smalti profani e manufatti da usare nella vita quotidiana, con scene narrative, di caccia e di lavoro. A Vercelli avvia la costruzione
dell’abbazia di S. Andrea, aprendo nel 1219 il primo cantiere gotico italiano, che precede anche Assisi, nel quale sono impegnati scultori e architetti francesi. Le scelte del religioso imprimono una svolta nell’arte vercellese, connotata da una produzione indifferente alle novità giottesche dell’Italia centrale. E i cicli pittorici realizzati in Piemonte alla fine del XIII secolo guardano a questa cultura. A Roma il prelato compie invece scelte diverse, piú ancorate al passato: i perduti affreschi del convento di S. Martino ai Monti, che conosciamo attraverso una copia secentesca, erano infatti piú tradizionali, bizantineggianti. Stefania Romani
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Un libro è per sempre MOSTRE • La Biblioteca Medicea Laurenziana
propone una selezione di pregiati manoscritti. Un’occasione da non mancare, che dà anche modo di ammirare una delle piú pregevoli architetture del Rinascimento fiorentino
U
no dei piú straordinari contenitori nella storia dell’architettura occidentale introduce alla mostra dedicata alle miniature nei manoscritti laurenziani di Santa Croce, allestita nelle sale attigue alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze. Commissionata da papa Clemente VII de’ Medici per
ospitare la preziosa raccolta di manoscritti collezionata dai suoi avi, la Biblioteca venne progettata da Michelangelo, il quale ne diresse i lavori tra il 1523 e il 1534, ma fu ultimata nel 1571 da Giorgio Vasari e Bartolomeo Ammannati, incaricati dal granduca Cosimo I di proseguire l’opera secondo i disegni originali del maestro fiorentino.
Quasi una colata lavica Varcata la soglia dell’edificio, si viene sorpresi da un linguaggio poetico e intenso, che si allontana dalle serene proporzioni strutturali e cromatiche brunelleschiane, catapultandoci in un ambiente che sembra voler rovesciare i dettami costruttivi, invertendone la funzione. In mezzo a questo subbuglio visivo, la scalinata
In alto pagina di una Biblia Sacra (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio, Giosuè, Giudici, Ruth). Bologna, 1250-1260 circa. Iniziale I (In) «ad antenna», con le storie della Genesi illustrate entro medaglioni polilobi sovrapposti e, in basso, la Crocifissione. A sinistra pagina di una Biblia Sacra. Toscana occidentale, secondo quarto del XII sec. Il corpo dell’iniziale decorata Q (Quoniam), delimitato da nastri in foglia d’oro, è ornato da tralci antichizzanti che emergono «a risparmio» dal fondo azzurro. del vestibolo irrompe nello spazio come una colata di lava che non può essere contenuta, fatta da turbolenti forme ovali ed elaborate volute, a creare un manufatto scultoreo piuttosto che un elemento architettonico. Sorprendente è il contrasto con la sala di lettura, nella
DOVE E QUANDO
«Ad usum fratris… Miniature nei manoscritti laurenziani di Santa Croce (secc. XI–XIII)» Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana fino al 5 gennaio 2017 Orario lu-ve, 9,30-13,30; chiuso sabato, domenica e festivi Info tel. 055 2937911; e-mail: b-mela.mostre@beniculturali.it; www.bmlonline.it
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A destra pagina del Commentarium in quattuor libros sententiarum, del francescano Riccardo da Mediavilla, ritratto nell’iniziale O (Omnia). Bologna, terzo quarto del XIII sec. In basso pagina dall’In evangelium Ioannis tractatus di Agostino. Toscana, metà del XII sec.
tribunale dell’Inquisizione che aveva sede presso il convento fino dalla metà del Duecento: possiamo qui ricordare il Decretum Gratiani, miniato a Bologna intorno al 1140 dal monaco camaldolese Graziano, che compilò questa prima fondamentale raccolta di norme – che riuniva le decisioni dei concili ecumenici in materia giuridica, poi aggiornata con numerose appendici – e una copia delle Decretales di papa Gregorio IX, con le tavole delle consanguineità e delle affinità, illustrazioni molto comuni in manoscritti del genere volte a regolare controversie di tipo giuridico, quali legittimità di matrimoni tra consanguinei o contese legate a questioni ereditarie.
Storie di vita quotidiana La mostra, che presenta una selezione di 53 manoscritti, tratta dai 734 codici qui pervenuti nel 1766 per decreto del granduca Pietro Leopoldo, dalla biblioteca del monastero francescano di Santa Croce, è articolata in sezioni che seguono la disposizione dei volumi nella sede originaria a partire dal Quattrocento.
Una Bibbia monumentale
quale regna l’ordine sancito anche dai banchi lignei che avevano la duplice funzione di leggio e custodia dei codici, liberamente consultabili. All’originario nucleo mediceo fece seguito il costante accrescimento, guidato da principi individuabili nell’originalità dei testi, nella loro qualità filologica e nel pregio estetico dei Miscellanea di scritti medici e farmaceutici del IX secolo, fino a raggiungere il cospicuo numero di 11 000 pezzi.
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Il percorso si apre con alcuni testi biblici miniati, tra cui la monumentale Bibbia in 17 volumi donata da Enrico de’ Cerchi nel 1285 – che si distingue per eleganza e preziosità nelle figurazioni, e per l’intensa espressività dei personaggi – e il De Moralia di Gregorio Magno, con decorazioni miniate solo all’inizio del testo, e prosegue con commenti alle Sacre Scritture dei Padri della Chiesa, passionari e vite dei Santi. Di notevole importanza è poi il corpus di esemplari di libri, attraverso cui si ripercorre la storia del diritto canonico tra il XII e il XIII secolo, testimoniando anche l’attività del
È dedicata invece alla vita quotidiana dei frati la parte conclusiva della rassegna che propone, tra l’altro, opere di filosofia e grammatica latina, libri di vite dei santi, che fornivano ai frati gli exempla su cui impostare la predicazione, racconti agiografici, come quelli di Jacopo da Varazze, e, infine, un testo del IX secolo, il Liber de laudibus Sanctae Crucis di Rabano Mauro, abate di Fulda e arcivescovo di Magonza. L’opera si segnala per i 28 carmi figurati, ovvero immagini derivanti dalla particolare disposizione delle lettere, collocate in modo tale da risultare come figure e dare vita al contempo a un vero e proprio testo nel testo in quanto dall’intreccio delle lettere potevano poi scaturire altre parole. Abbigliamento essenziale e libri necessari alla formazione spirituale e alla preghiera erano i soli oggetti consentiti ai Francescani per il mantenimento del voto di povertà. E la frase Ad Usum Fratris, seguita dal nome del monaco, era scritta all’inizio di ogni volume da lui utilizzato «a vita» per lo studio e poi messo a disposizione della biblioteca alla sua morte. Mila Lavorini
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ANTE PRIMA
Sotto il mantello APPUNTAMENTI • Si può eccezionalmente
ammirare a Milano uno dei capolavori di Piero della Francesca: la Madonna della Misericordia
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ino al prossimo 8 gennaio, Milano accoglie la Madonna della Misericordia di Piero della Francesca, concessa in prestito dal Museo Civico di Sansepolcro, città natale del maestro toscano. Il magnifico dipinto costituisce lo scomparto centrale del polittico realizzato da Piero per la Confraternita della Misericordia di Sansepolcro tra il 1445 e il 1472. Una recente e
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impegnativa campagna di restauro ha restituito all’opera il suo assetto originario, prima che venisse smembrata nel XVII secolo. La Madonna della Misericordia è ritratta nella classica rappresentazione della Vergine Maria che apre il mantello per dare riparo ai fedeli, secondo la tradizione medievale della «protezione del mantello», ed è al contempo emblematica della
DOVE E QUANDO
«Esposizione straordinaria della Madonna della Misericordia di Piero della Francesca» Milano, Palazzo Marino, Sala Alessi fino all’8 gennaio 2017 (dal 6 dicembre) Orario tutti i giorni, 9,30-20,00 (giovedí apertura serale fino alle 22,30); chiusure anticipate: 7 dicembre, 9,30-12,00; 24 e 31 dicembre, 9,30-18,00 festività: 8 e 25 dicembre, 1° e 6 gennaio, 9,30-20,00 Info www.comune.milano.it dicembre
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modernità della ricerca artistica che, per lo studio della prospettiva e della Divina proporzione, fa di Piero della Francesca un «gigante» del Rinascimento italiano.
Un confronto imperdibile Durante il periodo dell’esposizione della Madonna della Misericordia, Milanesi e turisti possono inoltre ammirare, a poche centinaia di metri da Palazzo Marino, un altro capolavoro di Piero della Francesca: la Pala di Montefeltro (o
di Brera), esposta nella Pinacoteca di Brera. Si tratta delle due testimonianze fondamentali ed estreme della rivoluzionaria e modernissima ricerca artistica del maestro, fondata sulla costruzione geometrica e prospettica dello spazio. Il percorso ideale legato a Piero della Francesca prosegue fino al Museo Poldi Pezzoli, in via Manzoni, che conserva una delle quattro tavole dello splendido Polittico Agostiniano realizzato dall’artista a Sansepolcro tra
In alto la Pala Montefeltro (o Pala di Brera) di Piero della Francesca, raffigurante la Madonna con il Bambino tra angeli e santi e Federico di Montefeltro. 1472 circa. Milano, Pinacoteca di Brera. A sinistra Madonna della Misericordia, scomparto centrale del polittico omonimo (foto nella pagina accanto), dipinto da Piero della Francesca. 1445-1455 circa. Sansepolcro, Museo Civico. il 1454 e il 1469: quella che raffigura San Nicola da Tolentino. La presenza della Madonna della Misericordia a Milano avvia un’importante collaborazione fra il capoluogo lombardo e la città toscana, che si sviluppa proprio a partire da un patrimonio artistico condiviso, all’insegna di Piero della Francesca. Un collegamento non solo ideale, poiché dopo il rientro della Madonna della Misericordia, la collaborazione proseguirà con la «visita» a Sansepolcro di un illustre artista milanese, Caravaggio: il Ragazzo morso da un ramarro, infatti, grazie alla disponibilità della Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi, sarà dal 7 febbraio esposto nella cittadina toscana in occasione della mostra «Nel segno di Roberto Longhi». (red.)
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La devozione scolpita nel legno
MOSTRE • Forte dello spettacolare allestimento di Mario
Botta, l’esposizione alla Pinacoteca Züst di Rancate offre una significativa selezione dell’arte sacra ticinese
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culture, busti, reliquiari e tabernacoli – realizzati tra il Medioevo e il Settecento – sono protagonisti della allestita alla Pinacoteca Züst di Rancate (Mendrisio, Svizzera). Le cinquanta opere provenienti da chiese, musei, abbazie del Canton Ticino, e in piú di un caso restaurate per l’occasione, sono presentate secondo un criterio cronologico. Al piano terra il percorso di visita si apre con la sezione medievale, nella quale figurano pezzi scolpiti tra la fine del XII secolo e la metà del Quattrocento, in cui si alternano tradizione lombarda e iconografie di area tedesca. Nella sala, con pareti e pavimenti neri, Vergini
A sinistra Madonna col Bambino. Scultore della Germania meridionale, secondo quarto del XIV sec. Olivone, Museo Cà da Rivöi. A destra Madonna col Bambino, dalla chiesa dei Ss. Carlo e Bernardo a Dalpe. Scultore tedesco, fine del XIV-inizi del XV sec.
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DOVE E QUANDO
«Legni preziosi» Pinacoteca cantonale Giovanni Züst, Rancate (Mendrisio, Canton Ticino, Svizzera) fino al 22 gennaio 2017 Orario ma-ve, 9,0012,00 e 14,00-18,00; sa-do, 10,00-12,00 e 14,00-18,00; lu chiuso Info tel. +41 (0)91 8164791; www.ti.ch/zuest Catalogo Silvana Editoriale In questa pagina e nella pagina accanto, in alto alcune immagini dell’allestimento realizzato da Mario Botta per la mostra in corso alla Pinacoteca Giovanni Züst di Rancate (Canton Ticino).
e Crocifissioni traggono risalto grazie alle basi firmate da Mario Botta, che per gli allestimenti ha utilizzato i colori classici degli apparati liturgici, dall’azzurro al rosso. L’esemplare piú antico è la Madonna in trono col Bambino da Arogno. Come spiega Federica Siddi, che nel catalogo della mostra ha curato la parte relativa al
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Medioevo, «in terra ticinese, la prima testimonianza della produzione in legno intagliato e dipinto si caratterizza per l’accennato senso del volume, nella conformazione dei corpi, e la schematica scansione dei panneggi. Un’altra Madonna da Ascona è attribuita a un autore piemontese, che si rifà a un’immagine mariana comune a diverse sculture provenienti da un’area compresa fra la Liguria, Milano e Venezia; è un’area nella quale il lago Maggiore ha un importante ruolo di tramite per gli scambi artistici. Alcune statue, di cultura figurativa tedesca, hanno un’iconografia diversa, radicata nel Nord: la Madonna in trono ha un aspetto regale, mentre il Bimbo è stante, in posizione rigidamente frontale». Ai piani superiori si susseguono il Rinascimento, con opere legate al ducato di Milano, e la plastica tedesca al tempo della Riforma. Tocca quindi al Seicento, con le nuove prescrizioni liturgiche di Carlo Borromeo e le influenze da Liguria e Romagna, e al Settecento, con opere che denotano uno spiccato realismo. S. R.
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ANTE PRIMA
Venere «rinasce» MUSEI • Il progetto Nuovi Uffizi taglia un nuovo
traguardo, inaugurando le sale che ospitano, fra gli altri, i capolavori di Sandro Botticelli. Opere magnifiche, valorizzate da un allestimento elegante e funzionale
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opo la «Lucrezia» di Filippo Lippi (la Madonna con Bambino e angeli che è stata da alcuni studiosi considerata un ritratto di Lucrezia Buti, che fu compagna dell’artista, n.d.r.), anche le «dee» del suo allievo, Sandro Botticelli, sono tornate alla loro sede originaria, strutturalmente rinnovata, nell’ambito del progetto dei Nuovi Uffizi. Appositamente distanziate dalle altre opere esposte, in modo da consentire ai visitatori di sostarvi davanti con agio, l’Allegoria della Primavera e la Nascita di Venere sono adesso sistemate in due vani contigui, visivamente comunicanti, ma suddivisi tramite due «quinte» a tutta altezza staccate dalle pareti
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longitudinali che, nascondendo gli elementi di supporto, permettono una visione neutra delle pitture scevre da sostegni visibili. La controsoffittatura, per la quale è stata approntata una struttura reticolare spaziale di acciaio particolarmente leggera, alloggia le installazioni tecniche, lasciando liberi i muri e incrementando cosí la superficie espositiva. A far compagnia a Flora, c’è un nuovo «ospite» di notevoli dimensioni rappresentante l’Annunciazione: si tratta di un affresco di circa 6 m di larghezza, eseguito da Botticelli nel 1481 per l’ospedale di S. Martino della Scala,
DOVE E QUANDO
Gallerie degli Uffizi Firenze, piazzale degli Uffizi 6 Orario ma-do, 8,15-18,50; chiusura: tutti i lunedí, 1° gennaio, 1° maggio, 25 dicembre Info tel. 055 23885; www.uffizi.it Prenotazioni Firenze Musei, tel. 055 294883 dicembre
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A destra uno scorcio della Sala 15: da sinistra, Francesco Botticini, Tobiolo e i tre arcangeli (1467 circa); Ghirlandaio, Madonna con Bambino, San Giusto, San Zanobi, Michele arcangelo, Raffaele arcangelo, (1484 circa). estremamente curato nei dettagli, come la decorazione a girali nei pilastri, o la resa materica dei tessuti delle vesti e dell’arredamento.
Opere giovanili Nella seconda sezione della sala sono state disposte in sequenza, intorno alla Nascita di Venere, altre opere di carettere profano del giovane Botticelli, come il Ritratto d’uomo con medaglia di Cosimo il Vecchio de’ Medici
(1475 circa), il cui sfondo è dato da un paesaggio essenziale e da un cielo chiaro. Meno note, ma eccezionali testimonianze della cultura umanistica in epoca laurenziana, sono l’enigmatica Pallade e il Centauro, probabili allegorie della ragione e dell’istinto, per la cui scena non esistono precedenti iconografici, e la tarda Calunnia di Apelle, risalente al 1495. Piccola, ma ricca in dettagli per una minuta e attenta
di una aggiornata museografia, a conclusione di un lungo intervento, volto al miglioramento delle condizioni climatiche interne oltre che all’adeguamento degli impianti di illuminazione diretta e indiretta, con l’adozione di sorgenti luminose a LED ad elevata resa cromatica e, negli ambienti provvisti di lucernari a tetto, di un avanzato sistema di controllo e gestione dei meccanismi di oscuramento della luce naturale.
Un trittico che fece scuola
Qui sopra la sala 9, che ospita dipinti di Antonio e Piero del Pollaiolo. Nella pagina accanto il nuovo allestimento della Nascita di Venere, tempera su tela di Sandro Botticelli (al secolo Alessandro Filipepi). 1484-1485. L’artista avrebbe preso a modello della dea un’antica statua delle collezioni medicee (una Venere anadiomene).
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osservazione, l’opera comunica un’emozione profonda, trasmessa attraverso contrasti cromatici, drappeggi e atteggiamenti delle figure tratteggiate. L’allestimento delle sale dalla 8 alla 15, che ospitano altre grandi firme come Masaccio, Paolo Uccello e Pollaiolo, è l’espressione formale
E la scelta di diradare l’ordinamento ha determinato lo slittamento nell’ultima stanza, la 15, di alcuni dipinti di Botticelli, come l’Incoronazione della Vergine eseguita per la cappella degli Orafi in S. Marco a Firenze; protagonista della sala, però, è l’Adorazione dei pastori e santi, trittico eseguito a Bruges da Hugo van der Goes, per Tommaso Portinari, agente dei Medici nelle Fiandre per quindici anni, a partire dal 1455. Capolavoro della pittura fiamminga, la pala d’altare dal 1483 troneggiò nella chiesa dedicata a sant’Egidio dell’Ospedale di S. Maria Nuova e fu determinante per l’evoluzione stilistica di molti pittori fiorentini dell’ultimo quarto del XV secolo, tra cui Domenico Ghirlandaio, qui presente con una Sacra Conversazione proveniente dalla chiesa di S. Giusto. M. L.
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ANTE PRIMA
Il Natale bussa alla porta
APPUNTAMENTI • Le vie
della città di Weinfelden, nel Cantone svizzero di Turgovia, tornano a brillare della luce di centinaia di barbabietole intagliate, evocando una cerimonia dalle origini antichissime
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ell’ultimo giovedí prima di Natale, la cittadina svizzera di Weinfelden è animata dalla processione della Bochselnacht. Dopo il tramonto, bambini e ragazzi vanno in corteo lungo le vie del centro reggendo una barbabietola svuotata, intagliata e illuminata con una candela. Ognuno personalizza la propria rapa con ornamenti a forma di stelle, figure antropomorfe, animalesche, geometriche e perfino teschi. La processione a lume di candele termina in piazza del Municipio, dove i ragazzi intonano il canto popolare Freut euch des Lebens, weil noch das Lämpchen glüht («Goditi la vita, perché anche la lampada si accende»). Gli studenti si ritrovano poi nelle scuole, per ristorarsi con i bretzel, un tipico pane alsaziano
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fatto a mo’ di ciambella. In seguito le piú belle barbabietole intagliate vengono premiate e gli allievi piú grandi presentano uno spettacolo teatrale. Calato il sipario, le famiglie si recano nei ristoranti del paese, dove consumano un pasto a base di salsicce e Böllewegge, un pane alle cipolle preparato appositamente per questa giornata.
A ciascuno la sua notte La Bochselnacht si celebra anche in alcuni villaggi vicini, adagiati sui pendii del monte Ottenberg, ciascuno dei quali ha però sviluppato una propria formula. Origini e significato del rito si perdono nella notte dei tempi; tra gli abitanti di Weinfelden e dintorni circolano diverse leggende in proposito. Il termine «bochseln» significa bussare, fare rumore, schiamazzare. Anticamente, il rumore serviva alle popolazioni celtiche e germaniche per scacciare gli spiriti maligni e i demoni durante i riti invernali. Nei secoli successivi il significato originale della Bochselnacht si è confuso, mescolandosi con altre ritualità. Il documento piú antico che fa riferimento a questa tradizione risale al 1420 ed è conservato a Basilea. Nel Medioevo, in vari Comuni svizzeri e della Germania centrale e meridionale, l’ultimo giovedí prima di Natale i bambini giravano nei paesi per bussare alle porte delle case, ricevendo frutta e insaccati dopo aver intonato canzoni dell’Avvento. Oggi la Bochselnacht ha perso parte dei suoi significati originali, ma conserva un importante ruolo di socializzazione. Adagiata sul fiume Thur, Weinfelden conta circa 10 000 abitanti ed è capitale del Cantone di Turgovia. Il suo nome apparve per la prima volta in un documento del 838. Ogni inverno la città ospita la riunione del Gran Consiglio del Cantone di Turgovia. Tiziano Zaccaria
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Da san Nicola alla Capra Yule Q
ual è l’animale delle tradizioni natalizie? Se nel mondo cristiano vengono in mente le renne di Babbo Natale, nei Paesi scandinavi si pensa invece alla Capra Yule, che da oltre un millennio rappresenta il simbolo di molte celebrazioni invernali. La sua origine deriva dal mito pagano di Tanngnjóstr e Tanngrisnir, le due magiche capre che trainavano il carro di Thor attraverso i cieli. Secondo la leggenda, un giorno la divinità si cibò delle loro carni assieme a ospiti e compagni di viaggio, lasciando integre la pelle e le ossa. Il mattino seguente, con l’aiuto del suo magico martello, Thor fece risorgere da quei resti Tanngnjóstr e Tanngrisnir. Al di là della mitologia, durante il Medioevo in Scandinavia le famiglie conservavano l’ultimo covone di fieno fino a Natale, utilizzandolo per realizzare una Capra Yule ornata con nastri rossi. Ancora oggi molti negozi vendono caprette di paglia, considerate simboli di protezione, pace e forza. Nel corso dei secoli la funzione di questa figura si è modificata, finendo per recapitare i regali natalizi ai bambini, con un uomo della famiglia travestito da Yule. È quindi evidente la relazione con Babbo Natale, che in Scandinavia è rappresentato da san Nicola. Molti Svedesi hanno anche l’abitudine di mettere sotto l’albero una piccola capra di paglia.
I «guardiani» del fantoccio In tempi moderni questa tradizione si è trasformata in un vero e proprio simbolo per la cittadina svedese di Gävle, celebre per la sua Capra di Natale, un enorme fantoccio di paglia alto una dozzina di metri, che viene eretto annualmente nel primo giorno dell’Avvento, quest’anno il 27 novembre. La grande opera di fieno dovrebbe essere bruciata nella notte di san Silvestro, per celebrare l’anno nuovo, ma molto spesso i vandali riescono a darle fuoco nei giorni precedenti, rovinando la festa. Fin dal 1966 un gruppo di volontari la erige a Slottstorget, nel centro storico, e tutto il mese di dicembre trascorre nel timore che alcuni devastatori possano incendiarla durante la notte. Questa sfida per salvaguardare la Capra di Natale è diventata una sorta di tradizione nella tradizione. Si è perfino stabilito che se il fantoccio viene vandalizzato entro il 13 dicembre, lo si ricostruisce; altrimenti... «amen». Gävle è situata vicino al Mar Baltico, nei pressi della foce del fiume Dalälven. Ha circa 70 000 abitanti e rappresenta la capitale della contea di Gävleborg. È il piú antico centro della storica regione svedese del Norrland, la «Terra del Nord». Ricevette il suo statuto cittadino nel 1446 da Cristoforo di Baviera, re dell’unione di Danimarca, Norvegia e Svezia. T. Z.
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AGENDA DEL MESE
Mostre MOSCA RAFFAELLO. LA POESIA DEL VOLTO. OPERE DALLE GALLERIE DEGLI UFFIZI E DA ALTRE COLLEZIONI ITALIANE Museo Puškin fino all’11 dicembre
La mostra presenta per la prima volta al pubblico russo alcune tra le piú significative opere di Raffaello. Il percorso espositivo è focalizzato sulla cosiddetta poesia del volto e, attraverso una selezione di capolavori della ritrattistica provenienti da collezioni italiane, illustra l’incarnarsi degli ideali di perfezione artistica maturati dall’Urbinate. Caratteristica essenziale del progetto è l’interdisciplinarità, segnata dal confronto diretto tra l’opera di Raffaello e quella di autorevoli rappresentanti della poesia e della letteratura, sia italiana che russa. Autori quali Vasari, Castiglione, Aretino, Bembo, Dostoevskij e Puškin accompagnano le opere dell’artista nel percorso della mostra con descrizioni, testimonianze e richiami. La mostra vanta opere iconiche, come la Madonna del Granduca, proveniente dalla Galleria Palatina e tanto amata dal granduca Ferdinando III di Lorena – che la portava con sé anche in viaggio – da prenderne il nome; l’Autoritratto, dalla Galleria degli Uffizi; la Testa di Angelo, realizzato da un Raffaello diciassettenne e conservata presso la Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia; La Muta, proveniente dalla Galleria Nazionale delle Marche di Urbino, città Natale del Maestro, dove sono evidenti i riferimenti alla Monna Lisa di Leonardo. info www.arts-museum.ru
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a cura di Stefano Mammini
PRIVERNO (LATINA) IL TRITTICO DELLA BOTTEGA DEGLI EMBRIACHI. DEPOSITI IN MOSTRA #5 Abbazia di Fossanova fino al 12 dicembre
L’esposizione è il quinto capitolo di Depositi in mostra, un progetto che persegue obiettivi molteplici: valorizzare beni da tempo sottratti al pubblico, reimmettendoli nei circuiti della fruizione e della ricerca; porre al centro musei, aree archeologiche e luoghi della cultura del Polo che si trovano fuori dall’interesse della collettività e del turismo; rendere forte e concreto il patto di sinergia e reciproca collaborazione con le differenti realtà operanti sul territorio nel campo della conservazione e gestione dei beni culturali. La mostra presenta un trittico in osso, un perfetto esempio di oggetto destinato alla devozione privata, largamente diffuso sia in ambito ecclesiastico che civile in epoca tardo-medievale e prodotto da un laboratorio tra i piú raffinati per questa tipologia di opere, la bottega degli Embriachi. Il soggetto
scelto, la Madonna con il Bambino tra i santi Pietro e Paolo, lascia supporre che il destinatario del trittico fosse di ambiente romano. info tel. 0773 939061; http:// polomusealelazio.beniculturali.it MILANO LEONARDO SCULTORE. HORSE AND RIDER Institut Francais fino al 23 dicembre
Leonardo da Vinci torna a Milano con una straordinaria opera scultorea, proposta per la prima volta al pubblico italiano: si tratta di Horse and Rider, un bronzo realizzato dal modello in cera di Leonardo, che raffigura il Governatore francese di Milano Charles d’Amboise ritratto a cavallo, effettuato dal maestro fra il 1508 e il 1511, dopo che aveva già eseguito una sontuosa villa a Milano per lo stesso d’Amboise, grande amico ed estimatore dell’artista fiorentino. Horse and Rider è l’unico modello di monumento equestre giunto fino a noi. L’opera, attribuita nel 1985 da Carlo Pedretti, il piú autorevole studioso
leonardesco al mondo, porta incisa la firma del genio vinciano: una L maiuscola e una V rovesciata, sigla ideata da Leonardo, presente in uno dei suoi Codici. Insieme al bronzo viene esposta la Testicciola di terra, scultura che raffigura il giovane Salaí, allievo e compagno di Leonardo, nei panni di un giovanissimo Giudeo o volto di Cristo fanciullo, anch’essa firmata dal maestro. info http://institutfrancais-milano.com
FIRENZE AD USUM FRATRIS… MINIATURE NEI MANOSCRITTI LAURENZIANI DI SANTA CROCE (SECC. XI–XIII) Biblioteca Medicea Laurenziana fino al 5 gennaio 2017
L’esposizione presenta una selezione tratta dai 734 codici della biblioteca del Convento francescano di Santa Croce,
pervenuta in Biblioteca Laurenziana nel 1766 per decreto del granduca Pietro Leopoldo. Vengono presentati 53 manoscritti fra i piú antichi, dicembre
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miniati fra l’XI e il XIII secolo nell’Italia centro-settentrionale. Il percorso espositivo si articola in sezioni che riflettono la disposizione dei libri nella biblioteca francescana almeno a partire dal Quattrocento. Si apre quindi con una ampia selezione di testi biblici miniati che include la monumentale Bibbia in 17 volumi donata da Enrico de’ Cerchi nel 1285, e prosegue con commenti alle Sacre Scritture dei Padri della Chiesa, ma anche preziosi esemplari di libri di diritto, che riflettono l’attività del tribunale dell’Inquisizione che aveva sede presso il Convento fino dalla metà del Duecento, passionari e vite dei Santi. info tel. 055 2937911; e-mail: b-mela.mostre@beniculturali.it; www.bmlonline.it FERRARA ORLANDO FURIOSO 500 ANNI. COSA VEDEVA ARIOSTO QUANDO CHIUDEVA GLI OCCHI Palazzo dei Diamanti fino all’8 gennaio 2017
Il 22 aprile 1516, in un’officina tipografica ferrarese, terminava la stampa dell’Orlando furioso, opera simbolo del Rinascimento italiano. Per celebrare il quinto centenario dell’evento, Palazzo dei Diamanti ospita una mostra d’arte che fa dialogare fra loro dipinti, sculture, arazzi, libri, manoscritti miniati, strumenti musicali, ceramiche invetriate, armi e rari manufatti. A orchestrare questo incanto visivo è un’idea semplice: restituire l’universo di immagini che popolavano la mente di Ludovico Ariosto mentre componeva il Furioso. Cosa vedeva, dunque, il poeta, chiudendo gli occhi, quando si accingeva a raccontare una battaglia, un duello di cavalieri o il compimento di un prodigioso incantesimo? Quali
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opere d’arte furono le muse del suo immaginario visivo? Un lungo lavoro è stato orientato a individuare i temi salienti del poema e a rintracciare, puntualmente, le fonti iconografiche che ne hanno ispirato la narrazione. I visitatori vengono cosí condotti in un appassionante viaggio nell’universo ariostesco, tra immagini di battaglie e tornei, cavalieri e amori, desideri e magie. A guidarli sono i capolavori dei maggiori artisti del tempo, da Paolo Uccello ad Andrea Mantegna, da Leonardo da Vinci a Raffaello, da Michelangelo a Tiziano a Dosso Dossi: creazioni straordinarie che fanno rivivere il fantastico mondo dell’Orlando furioso e dei suoi paladini, offrendo al contempo un suggestivo spaccato dell’Italia delle corti in cui il libro fu concepito. info tel. 0532 244949; e-mail: diamanti@comune.fe.it; www. palazzodiamanti.it MANTOVA ALBRECHT DÜRER: INCISIONI E INFLUSSI Complesso museale di Palazzo Ducale, Castello di San Giorgio fino all’8 gennaio 2017
Restaurate e adeguate agli standard museali internazionali dopo il sisma del 2012, le sale del pianterreno del Castello di San Giorgio riaprono al pubblico ospitando una mostra dedicata ad Albrecht Dürer (1471-1528) e ai suoi rapporti con l’arte italiana, con un’attenzione particolare per le incisioni di Andrea Mantegna. «Quanto freddo avrò dopo tutto questo sole?» si chiese l’artista tedesco nel 1507 tornando in Germania dopo un viaggio in Italia. Era stato a Venezia due volte, nel 1494 e
nel 1506 e, sebbene non ci siano testimonianze documentate di ulteriori soggiorni nella nostra penisola, appare evidente, nelle tavole dei Trionfi commissionate dall’imperatore Massimiliano I, che Dürer conosceva la serie di incisioni Il trionfo di Cesare di Mantegna. Cosí come è possibile immaginare che le numerose rappresentazioni dell’anatomia dei cavalli che realizzò dopo il secondo soggiorno italiano si ispirino ai grandi monumenti equestri di Venezia e Padova o agli studi di Leonardo per una scultura equestre a Milano. info tel. 0376 224832; e-mail: pal-mn@beniculturali.it; www.mantovaducale.beniculturali.it
essenze preziose, oppure dolente e piangente abbracciata al legno della croce, infine lieta di recare l’annuncio della Resurrezione agli apostoli, la figura della Maddalena ha destato l’interesse dei maggiori artisti dal Medioevo al Neoclassicismo e questa mostra intende presentarne gli episodi piú significativi. info tel. 071 9747198 o 06 68193064; e-mail: museoanticotesoro@gmail.com; e-mail: info@artifexarte.it: www.artifexarte.it
LORETO
Cinquant’anni fa, nella notte fra il 3 e il 4 novembre 1966, l’acqua dell’Arno invase il centro storico di Firenze, per
LA MADDALENA, TRA PECCATO E PENITENZA Museo-Antico Tesoro della Santa Casa di Loreto fino all’8 gennaio 2017
FIRENZE L’ALLUVIONE E GLI UFFIZI: UN RACCONTO PER IMMAGINI Gallerie degli Uffizi fino all’8 gennaio 2017
La rassegna è uno degli appuntamenti di maggior rilievo fra quelli dedicati al Giubileo della Misericordia, soprattutto dopo l’annuncio di papa Francesco dell’istituzione, proprio nell’anno giubilare, della festa della Maddalena. Prostrata ai piedi del Signore nell’atto di ungergli i piedi con
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AGENDA DEL MESE ritirarsi ventiquattro ore piú tardi, lasciando fango e devastazione. Per ricordare quel che l’evento rappresentò per le Gallerie degli Uffizi è stata realizzata questa mostra fotografica, basata sulle istantanee scattate dagli operatori all’epoca in servizio presso il museo. Una carrellata d’immagini che trasmettono energia e amore per il patrimonio, quanto professionale e istintiva capacità di cura per le sue sventure. Le fotografie, su pellicola 6 x 6 in bianco e nero, provengono dall’Archivio delle Gallerie degli Uffizi. I negativi furono sviluppati in condizioni di emergenza nel laboratorio alluvionato, circostanza che emerge dalle loro imperfezioni. info www.uffizi.it
causa di guerre e lotte intestine, questo vero e proprio melting pot ispirò realizzazioni di grande bellezza e fascino. info http://metmuseum.org FIRENZE LA RIVINCITA DEL COLORE SULLA LINEA. DISEGNI VENETI DALL’ASHMOLEAN MUSEUM E DAGLI UFFIZI Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe fino al 15 gennaio 2017
L’esposizione intende dimostrare come il concetto di disegno espresso dagli artisti veneti tra la fine Quattrocento e gli inizi del Settecento non sia affatto inferiore all’idea che
NEW YORK GERUSALEMME 1000-1400: UN PARADISO PER OGNI POPOLO The Metropolitan Museum of Art fino all’8 gennaio 2017
Intorno al fatidico anno Mille, Gerusalemme esercitò un richiamo irresistibile e si trasformò in un luogo simbolico per genti che professavano credi diversi. Questo straordinario fenomeno diede vita a uno dei momenti piú luminosi nella storia della Città Santa ed è il filo conduttore della rassegna allestita al Metropolitan. Lo scopo è appunto quello di documentare come Gerusalemme, sacra alle tre grandi religioni abramitiche (ebraismo, cristianesimo e Islam), sia divenuta uno dei piú importanti poli artistici dell’epoca. In quei secoli, infatti, la città accolse una quantità di culture, religioni e lingue come mai se n’erano viste prima e, nonostante i molti momenti difficili vissuti a
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di esso svilupparono i toscani, ma anzi ne rappresenti una via alternativa e altrettanto valida. La contrapposizione tra Colore dei veneziani e Disegno dei toscani si affermò teoricamente nel Cinquecento, soprattutto per opera di Giorgio Vasari. Nella Vita di Tiziano, egli scrive che molti pittori «vineziani», come Giorgione, Palma, Pordenone e altri ancora «che non videro Roma né altre opere di tutta perfezione», dovettero nascondere «sotto la vaghezza de’ colori lo stento del non saper disegnare». La mostra è
allora un’occasione per comprendere a pieno le ragioni del pregiudizio vasariano sul disegno veneto, inserendole nello sfaccettato impianto ideologico delle Vite. info www.uffizi.it
RANCATE (MENDRISIO, SVIZZERA)
LOVANIO (BELGIO)
Forte dell’allestimento firmato da Mario Botta, l’esposizione riunisce una cinquantina di opere di qualità altissima e di suggestione altrettanto notevole. Provenienti, con poche eccezioni, da musei, chiese, monasteri del territorio ticinese, questi autentici capolavori giungono in mostra dopo essere stati oggetto di una revisione e talvolta di restauri. Sono Madonne, Cristi, Compianti, busti, polittici scolpiti e persino un Presepe, naturalmente ligneo, testimonianze assolute di una tradizione artistica che raggiunse spesso vertici europei. In particolare, nella prima sezione si concentrano rari esempi di scultura lignea medievale, dal XII secolo al tardo-gotico. info tel. +41 (0)91 8164791; www.ti.ch/zuest
ALLA RICERCA DI UTOPIA M-Museum fino al 17 gennaio 2017
Utopia, opera emblematica di Tommaso Moro (1478-1535), il piú influente testo mai edito nei Paesi Bassi, venne stampata a Lovanio nel 1516 dall’editore Dirk Martens. La città celebra la ricorrenza, riunendo nell’M–Museum un’ottantina di opere d’arte che mettono in luce l’influenza del libro all’epoca e la sua attualità. A Lovanio sono giunti capolavori di maestri fiamminghi, come Quentin Metsys e Jan Gossaert, e, internazionali, quali Albrecht Dürer e Hans Holbein, tra cui, per la prima volta in mostra nelle Fiandre, il celebre ritratto di Erasmo da Rotterdam di Quentin Metsys, eccezionalmente concesso in prestito dalla Regina Elisabetta II. La mostra è l’evento di punta di un piú vasto programma culturale cittadino «The Future is More» che si propone, proprio come fece allora l’opera di Moro, di allargare gli orizzonti culturali dei visitatori raccontando il sogno di un mondo ideale e temi piú che mai attuali come la diversità, la dignità umana, la tolleranza e l’uguaglianza. info www.utopialeuven.be
LEGNI PREZIOSI. SCULTURE, BUSTI, RELIQUIARI E TABERNACOLI DAL MEDIOEVO AL SETTECENTO Pinacoteca cantonale Giovanni Züst fino al 22 gennaio 2017
BONN IL RENO. LA BIOGRAFIA DI UN FIUME EUROPEO Bundeskunsthalle fino al 22 gennaio 2017
Il Reno è ancora oggi una delle piú trafficate vie d’acqua del mondo, nel segno di una tradizione millenaria che ha visto transitare sul fiume non soltanto carbone, metalli, materiali da costruzione e persone, ma anche beni di lusso, armi, idee, racconti e miti. Il suo corso è punteggiato da città, monasteri e cattedrali, frutto di vicende succedutesi per oltre duemila anni, che l’esposizione ripercorre e dicembre
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documenta: dall’età romana alla fioritura del gotico, dall’avvento del romanticismo renano alla nascita della Repubblica e poi dell’Unione Europea. Tutti eventi di cui le sponde del Reno sono state teatro e che compongono la «biografia» annunciata nel titolo della rassegna. info www.bundeskunsthalle.de PERUGIA FRANCESCO E LA CROCE DIPINTA Galleria Nazionale dell’Umbria fino al 29 gennaio 2017
Nella Sala Podiani della Galleria Nazionale dell’Umbria si vuole documentare lo sviluppo della croce dipinta, a partire dagli anni Settanta del Duecento fino al primo ventennio del secolo successivo, in cui il motivo iconografico si legò sempre piú frequentemente alla figura di san Francesco d’Assisi, spesso rappresentato ai piedi della
croce stessa, in adorazione del Cristo. La mostra presenta 9 capolavori, tutti di provenienza umbra, e segue il rapido sviluppo dell’iconografia della croce in Occidente a partire dal XIII secolo attraverso l’evoluzione del Christus Patiens (Cristo morto, col capo reclinato sulla spalla e gli occhi chiusi) dal modello di Giunta Pisano – riletto e affinato da Cimabue – a quello giottesco. Non manca una tardiva, sebbene iconograficamente e artisticamente assai significativa, interpretazione dell’antico archetipo del Christus Triumphans (Cristo vivo, con gli occhi aperti a significare il trionfo sulla morte), realizzato in ambito spoletino dal Maestro di Cesi. info www.artiumbria. beniculturali.it CREMONA JANELLO TORRIANI, GENIO DEL RINASCIMENTO Museo del Violino fino al 29 gennaio 2017
Il nome di Janello Torriani è quasi sconosciuto, anche se in vita era spesso affiancato a quello di Archimede. Seppe affascinare i due piú potenti sovrani del suo tempo, Carlo V e suo figlio Filippo II, che lo vollero al loro fianco, considerandolo un genio come per noi oggi è Leonardo da Vinci. A differenza del quale, Torriani non sapeva dipingere, era uomo rozzo e tutt’altro che nobile, eppure, con le sue grosse mani da fabbro, creò meraviglie che tutta l’Europa ambiva: meccanismi sofisticatissimi, gestiti da combinazioni meccaniche elaborate che a noi oggi
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sono garantite dalla tecnologia piú avanzata. Dalla sua mente e dalle sue mani uscivano orologi perfetti, nelle loro decine di funzioni, e bellissimi. Automi meravigliosi, che suscitavano ammirazione e stupore. Raggiunse una fama tale da partecipare alla riforma gregoriana del calendario: nessuno come lui, infatti, conosceva la perfezione del tempo. info www.mostratorriani.it SENIGALLIA MARIA MATER MISERICORDIAE Palazzo del Duca fino al 29 gennaio 2017
La rassegna, il cui percorso espositivo attraversa, dal Medioevo al Settecento, l’immagine della Vergine, si apre in un momento delicato
per le Marche, ferite dagli eventi sismici recenti e odierni, e proprio per questo vuole essere un messaggio di speranza. Particolarmente emblematica appare la presenza della Madonna della Misericordia di Girolamo di Giovanni, eseguita nel 1463, e scelta per rappresentare la mostra. Questo capolavoro, le cui affinità formali evocano il nome di Piero della Francesca, è conservata a Camerino, città che ha subíto considerevoli danni al proprio patrimonio storico-artistico. Sono esposte, inoltre, opere dei maggiori artisti italiani, prima fra tutte La Vergine delle Rocce di Leonardo, nonché dipinti di di Perugino, Rubens, Carlo Crivelli, Lorenzo Monaco. info www.senigalliaturismo.it
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AGENDA DEL MESE BASSANO DEL GRAPPA IL MAGNIFICO GUERRIERO. BASSANO A BASSANO Civici Musei fino al 31 gennaio 2017
Il Magnifico Guerriero di Jacopo Bassano si offre all’ammirazione del pubblico grazie al comodato gratuito accordato dal suo possessore ai Civici Musei bassanesi. Il dipinto ritrae un affascinante nobiluomo dalla fulva, curatissima barba. Non un giovane ma un uomo maturo, certo aduso al comando, ma, soprattutto, a una vita raffinata lontano dai campi di battaglia. Indossa una preziosa corazza alla moda dell’epoca, che lo costringe, ma che non riesce a ingabbiarne la grazia e la flessibilità. Le lunghe dita, curate e perfette, non sembrano le piú adatte a menar fendenti, cosí come il suo spadino di ferro e oro sembra piú da parata che da battaglia. Secondo Vittoria Romani dell’Università di Padova, studiosa alla quale va il merito di avere ricondotto a Jacopo Bassano questo autentico capolavoro già attributo a Veronese e a Pordenone, il ritratto è databile agli anni immediatamente seguenti il 1550, ovvero al momento piú altamente manierista del maestro. info tel. 0424 519.901-904; e-mail: info@museibassano.it; www.museibassano.it TORINO LO SCRIGNO DEL CARDINALE Palazzo Madama, fino al 6 febbraio 2017
A novecento anni dalla riconferma della Magna Charta, siglata a Bristol l’11 novembre 1216 su iniziativa del cardinale Guala Bicchieri, Palazzo Madama celebra il prelato vercellese, appassionato collezionista di
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arte gotica all’inizio del 1200. Il percorso espositivo illustra le principali opere giunte sino a noi della sua preziosa raccolta. Innanzitutto, gli smalti di Limoges, fra i quali spiccano il Cofano di Palazzo Madama utilizzato dal presule come baule da viaggio per gli arredi liturgici, le oreficerie e i documenti che portava con sé durante gli spostamenti; un piccolo e prezioso cofanetto proveniente dal Museo Leone di Vercelli; e tre dei dodici medaglioni conservati al Musée du Louvre provenienti da un cofano di Guala Bicchieri e raffiguranti animali, creature fantastiche e scene di combattimento. info www.palazzomadamatorino.it PARIGI L’ETÀ DEI MEROVINGI Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge fino al 13 febbraio 2017
Forte di oltre centocinquanta opere – fra sculture, manoscritti miniati, oreficerie, monete, tessuti e documenti d’archivio – la mostra ripercorre gli eventi che maggiormente segnarono i trecento anni che intercorrono tra la battaglia dei Campi Catalaunici (451) e la fine del regno dei sovrani merovingi, ingloriosamente ribattezzati
«fannulloni» (751). Fu un’epoca in cui videro la luce numerosi reami, fra cui quelli franchi, che in parte si rifacevano all’impero romano e che però subirono le influenze determinanti delle culture dell’area germanica. Parallelamente, la diffusione del cristianesimo fece emergere nuove credenze, come il culto delle reliquie, pur senza cancellare del tutto le tradizioni pagane, che furono in parte «cristianizzate». Andò cosí definendosi un universo nuovo e originale, di cui la produzione artistica merovingia è specchio eloquente. info www.musee-moyenage.fr
WASHINGTON L’ARTE DEL CORANO: TESORI DAL MUSEO DI ARTI TURCHE E ISLAMICHE Smithsonian’s Freer Gallery of Art and Arthur M. Sackler Gallery fino al 20 febbraio 2017
Grazie ai prestiti concessi dal Museo di Arti turche e islamiche, le gallerie della Smithsonian Institution hanno potuto riunire oltre 60 preziose edizioni manoscritte del Corano, realizzate in laboratori
ROMA CAPOLAVORI DELL’ANTICA PORCELLANA CINESE DAL MUSEO DI SHANGHAI. X-XIX SECOLO D.C Museo Nazionale di Palazzo Venezia fino al 13 febbraio 2017
Le sale quattrocentesche di Palazzo Venezia espongono, per la prima volta in Italia, le ceramiche cinesi della collezione del Museo di Shanghai, una delle istituzioni museali piú importanti della Cina. La mostra è l’occasione per ammirare una settantina di preziose porcellane, riferibili a diverse epoche: dalla grande varietà e prosperità delle pregiate ceramiche prodotte durante le dinastie Song e Yuan (960-1368), passando per quelle della dinastia Ming (1368-1644) delle fornaci di Jingdezhen che produssero in particolare per la corte imperiale, fino ad arrivare alle piú recenti di epoca Qing (1644-1911), che rappresentano il momento del massimo splendore e della piena maturità. info www. capolavoriporcellanacinese.it
della regione araba, della Turchia, dell’Iran e dell’Afghanistan. Celebrati per le loro magnifiche calligrafie, questi volumi abbracciano un orizzonte cronologico di piú di mille anni – si va da un esemplare prodotto a Damasco nell’VIII a un Corano trascritto nel XVII secolo a Istanbul – e rappresentano un corpus di testimonianze essenziali per conoscere e apprezzare l’antica arte libraria. La mostra permette anche di osservare il processo che fece delle rivelazioni di Maometto un patrimonio non piú tramandato oralmente, ma affidato alla parola scritta, corredata da miniature e confezionata in preziose rilegature. info www.asia.si.edu dicembre
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FRATTA POLESINE (ROVIGO) STORIA DEL PROFUMO, PROFUMO DELLA STORIA Museo Archeologico Nazionale fino al 26 febbraio 2017
Il profumo è stato ed è, strumento di seduzione, medium per subliminali messaggi, fragranza in grado di avvicinare alla divinità, ma anche modo per occultare l’odore di corpi mai lavati e di ambienti dove l’igiene non aveva casa. Di tutto questo si dà conto dipanando storie diversissime, che abbracciano oltre quattromila anni di profumi, anche attraverso i loro contenitori: da quelli prodotti nelle regioni del Mediterraneo orientale e risalenti al XX secolo a.C., ai preziosissimi in vetro o ceramica, dell’età greca e romana. E poi ancora libri,
delle proprie gesta l’Austrasia, regione dell’antica Francia ora protagonista della mostra di Saint-Dizier. Il progetto espositivo porta all’attenzione del pubblico il caso di un’identità che prese forma da una significativa diversità culturale e, nel segno di questa scelta, invita a scoprire, soprattutto grazie ai reperti archeologici, la singolarità e la ricchezza che caratterizzarono la vita quotidiana e l’organizzazione del regno merovingio. Fra gli altri, sono stati riuniti per l’occasione i materiali di corredo della tomba del piccolo principe di Colonia, l’anello del vescovo Arnolfo di Metz e i gioielli della signora di Grez-Doiceau. info www.austrasie-expo.fr
Mura), dalla forma quadrangolare della pala di gusto rinascimentale, che abbandona quella del trittico a scomparti, e dall’utilizzo del medesimo cartone preparatorio. info www.sistemamuseo.it
nella prima, vengono messi a punto i riferimenti cronologici essenziali, corredati da alcuni manufatti particolarmente rappresentativi del periodo; nella seconda, si passa invece ai materiali scaturiti dagli scavi condotti dall’INRAP. info www.cite-sciences.fr
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Appuntamenti
CHE C’È DI NUOVO NEL MEDIOEVO? Cité des sciences et de l’industrie fino al 6 agosto 2017
MONTEFALCO (PERUGIA) ANTONIAZZO ROMANO E MONTEFALCO Complesso museale di S. Francesco fino al 7 maggio 2017 (dal 10 dicembre)
antichi formulari e farmacopee, poster e oggetti Liberty, ai quali fanno da supporto didattico anche strumenti multimediali ed esperienze sensoriali. info tel. 0425 668523 SAINT-DIZIER (FRANCIA) AUSTRASIA, IL REGNO MEROVINGIO DIMENTICATO Espace Camille Claudel fino al 26 marzo 2017
La dinastia merovingia visse il suo apogeo fra il VI e l’VIII secolo, avendo come teatro
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Il progetto espositivo mette a confronto per la prima volta due opere di Antoniazzo, Romano (nome con il quale è noto il pittore romano Antonio di Benedetto Aquili, morto dopo il 1508), simili ma diverse: una custodita a Montefalco (San Vincenzo da Saragozza, Santa Illuminata, San Nicola da Tolentino), l’altra nella Pinacoteca della basilica di S. Paolo Fuori le Mura (Madonna col Bambino, tra i Santi Paolo, Benedetta, Giustina e Pietro), che permettono di comprendere meglio il percorso artistico e la versatilità di questo grande maestro. Le due tavole sono accomunate dalla provenienza romana delle chiese d’origine (rispettivamente, S. Maria del Popolo e S. Paolo fuori le
In Francia, la pratica dell’archeologia preventiva è gestita dall’INRAP (Institut national de recherches archéologiques preventives), che, non a caso, è fra gli ideatori di questo nuovo progetto espositivo e grazie alle cui ricerche è stato possibile riunire i materiali presentati. Si tratta di un repertorio in molti casi inedito, che permette di inserire nel racconto dei mille anni del Medioevo molte novità importanti, accomunate da un dato ormai inconfutabile: quei dieci secoli furono ricchi di storia, ma anche di innovazioni e invenzioni e nessuno piú, ormai, si lascerebbe andare a definirli «bui». La descrizione di questa età di Mezzo (almeno in parte) inaspettata si sviluppa in due grandi sezioni:
MILANO ESPOSIZIONE STRAORDINARIA DELLA MADONNA DELLA MISERICORDIA DI PIERO DELLA FRANCESCA Palazzo Marino, Sala Alessi fino all’8 gennaio (dal 6 dicembre)
Anche quest’anno il Comune di Milano rinnova il tradizionale appuntamento natalizio con la grande arte a Palazzo Marino: fino all’8 gennaio 2017, in Sala Alessi si potrà ammirare uno dei massimi capolavori del Rinascimento, la Madonna della Misericordia di Piero della Francesca, pala centrale dell’omonimo polittico conservato al Museo Civico di Sansepolcro, città natale del Maestro toscano. info www.comune.milano.it
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protagonisti michele da calci
«Io voglio morire per la libertà» di Federico Canaccini
Giunto a Firenze nel 1389 per diffondere i suoi ideali basati sulla convinzione che Cristo e gli Apostoli non avessero disposto di beni personali, fra’ Michele da Calci fu arrestato, sottoposto a processo e condannato al rogo. Ma quali erano le ragioni di tanto accanimento? La risposta va ricercata nel conflitto che opponeva la Chiesa ai movimenti che facevano della povertà la propria stella polare
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a vicenda religiosa e umana di fra’ Michele da Calci – condannato a Firenze come eretico e scismatico nel 1389 – si può definire e comprendere solo se posta in relazione con ciò che in quegli anni veniva considerato ortodosso: fra’ Michele, infatti, diviene eretico solo quando è condannato come tale dalla posizione ufficiale della Chiesa. La sua breve vita terrena e la sua condanna si inseriscono nel dissidio seguito alla bolla di Niccolò III (Exiit qui seminat), con la quale, nel 1279, il pontefice aveva affermato che né Gesú, in quanto uomo, né gli Apostoli avevano avuto beni di proprietà, personalmente o in comune, ma avevano disposto dei beni loro necessari per semplice usus facti. Nel 1322 il Capitolo generale dei
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Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Inferiore. Allegoria della povertà, affresco realizzato da un autore anonimo detto Maestro delle Vele, poiché dipinse questa e altre tre composizioni allegoriche nelle vele della crociera soprastante l’altare maggiore. Secondo decennio del XIV sec.
Minori, radunatosi a Perugia, rese ufficiali alcune di queste posizioni pauperistiche che, l’anno seguente, Giovanni XXII condannò esplicitamente come eretiche con la bolla Cum inter nonnullos. Il nuovo pronunciamento diede vita a ulteriori polemiche e aspre discussioni tanto nelle file degli Ordini Mendicanti, quanto presso la Curia, infiammando anche il nuovo dissidio tra il papato e l’impero nel conflitto con Ludovico il Bavaro e trovando eco dicembre
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protagonisti michele da calci e spazio nelle pagine di qualche grande intellettuale e di alcuni autorevoli frati piú che su forze reali. Da allora in poi, in pratica, sarebbe stato eterodosso dichiarare che Cristo e i Dodici non avevano avuto proprietà individuali o comuni. Sono stati ben studiati i conflitti interni all’Ordine francescano, causati dalle congiunture tra dottrine pauperistiche e gioachimismo che, dalla fine del Duecento, attraversarono i decenni seguenti sino a giungere con rinnovato vigore alla fine del XIV secolo. La dottrina sulla povertà, infatti, andò via via mutando, comportandosi – in modo non sempre lineare – come un domino: dall’idea di seguire il modello di vita di Gesú, si teorizzò l’emulazione della povertà sua e dei Dodici, indicando un modello di vita che, nel corso dei decenni, apparve sempre piú pericoloso al clero secolare, giacché la pratica di vita austera indicata dai fratres – che negava il possesso di beni materiali – creò motivo di discussione filosofica con effetti e ricadute sulla vita quotidiana.
I fraticelli
Tra il XIII e il XIV secolo, dunque, in seno all’Ordine dei Frati Minori, si svilupparono orientamenti spirituali che divennero sinonimo di dissidenza e di eresia. Tutte queste forme eterogenee di vita religiosa pauperistica furono riunite in due macrogruppi, rispondenti ai nomi di «fraticelli de paupere vita» e «fraticelli de opinione», ma, ciononostante, le esigenze dei numerosi movimenti erano molto piú variegate di quanto questa macro partizione, definitasi meglio nel corso del XV secolo, non lasci intendere. Il fenomeno del fraticellismo deve gran parte del proprio divenire al pluralismo di elementi di natura diversa che lo animarono a partire dal 1317 con le decretali con cui Giovanni XXII condannò e perseguitò i «Fraticelli seu Fratres de
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paupere vita aut Bizochi sive Beghini vel aliis nominibus nuncupantur» i quali, già dal Concilio di Lione del 1274, erano entrati in contrasto con la dirigenza dell’Ordine. La lotta sul tema della povertà ebbe diverse ramificazioni e si giocò su due livelli e in due momenti: il primo livello riguardò infatti il confronto interno all’Ordine, tra Spirituali e Conventuali; il secondo spaziava fuori dall’Ordine francescano, coinvolgendo i Beghini provenzali, seguaci degli Spirituali, e quanti furono etichettati come Francescani dissidenti, i cosiddet-
ti Fraticelli e Michelisti. Per quanto riguarda la tempistica, si possono distinguere una prima fase, che dura dal 1274 al secondo decennio del Trecento, e una seconda, che si può far iniziare nel 1317 e che coinvolse, in un modo o nell’altro, l’intero Ordine sino al 1476. L’azione pontificia si indirizzò dapprima contro i leader spirituali (Ubertino da Casale e Angelo Clareno) in comunione di intenti con il Maestro Generale, Michele da Cesena. Successivamente, però, anch’egli entrò in contrasto con Giovanni XXII quando dicembre
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appunto, nel 1321, fu riaperto il dibattito sulla povertà di Cristo e il pontefice finí per abolire la finzione giuridica per cui i fratres non possedevano nulla né come singoli, né come conventi, né come Ordo, bensí era la Santa Sede a detenere la proprietà di tutti i loro beni che poi venivano gestiti per mezzo di procuratori. Il conflitto si allargò inserendosi in quello, ben piú antico, tra papa e imperatore, giacché Michele da Cesena riparò presso la corte di Ludovico il Bavaro assieme a Guglielmo da Ockham e Bonagrazia da Bergamo, Marsilio da Padova e Giovanni di Jandun, incorrendo nella deposizione dalla carica e poi nella scomunica. Di contro, il 18 aprile 1328, si giunse in Roma alla sentenza imperiale di deposizione di Giovanni XXII, vir sanguinum, mysticus antichristus, tramite un documento composito nel quale convivevano insieme idee di Marsilio da Padova e del francescanesimo spirituale.
Nella Marca anconetana
Giovanni Berti (nome secolare di fra’ Michele da Calci) e la sua vicenda si inseriscono nel prosieguo di questi dibattiti, giacché verso la fine del XIV secolo, a Firenze e in Toscana si registrò una recrudescenza del movimento dei Fraticelli, un termine che raccoglieva indistintamente la dissidenza francescana. Nato nel paesino di Calci, nel comitato di Pisa, attorno alla metà del Trecento, una volta divenuto frate minore, Giovanni assunse il nome di Michele e risiedette nella Marca anconetana, dove si uní a un gruppo di Francescani sostenitori della dottrina pauperistica; assieme a loro, Michele svose azione di proselitismo, diffondendo tali teorie anche in Toscana. La Toscana e Firenze della seconda metà del Trecen-
to sono un panorama in continua trasformazione economica e sociale. L’attenzione per gli indigenti e la povertà va mutando in relazione agli eventi e la produzione letteraria francescana può essere uno spunto ulteriore di riflessione. Se fino ai primi del XIV secolo l’attenzione all’indigenza appare ancora nello Speculum Perfectionis (opera di autore anonimo sulla vita di san Francesco, ultimata nel 1318, n.d.r.), successivamente il modo di percepire e registrare il problema da parte francescana non è piú univoco. Già dal 1260, la Legenda Maior cita i poveri con una frequenza minore di quanto non facessero le fonti precedenti e in maniera assai piú vaga e generica. Nel momento in cui a Firenze l’Arte della Lana abbisogna di una manodopera sempre piú numerosa – creando cosí una massa di operai sotto
pagati e le cui condizioni andarono vieppiú peggiorando – gli ambienti ufficiali dell’Ordine francescano tendono a distogliere l’attenzione dall’indigenza vissuta, allontanandola, praticamente, con la distruzione delle Vite anteriori, a vantaggio della Legenda Maior di Bonaventura, eletta unica versione ufficiale della vita dell’Assisiate. Tale disinteresse riguardava tanto i Conventuali che gli Spirituali, i quali non paiono associare i poveri a loro contemporanei, al messaggio di Francesco.
Nella pagina accanto La consegna della Regola francescana, olio e foglia d’oro su tavola di Colantonio. 1445 circa. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte. A destra ritratto di papa Giovanni XXII, olio su tela di Giuseppe Franchi. 1613. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.
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protagonisti michele da calci il nome della rosa
Nel monastero dei delitti La vicenda di fra’ Michele da Calci si inserisce nel contesto scelto da Umberto Eco, semiologo, filosofo e scrittore recentemente scomparso, per ambientare il suo primo romanzo. Il Nome della Rosa, Premio Strega nel 1981, è stato tradotto in oltre 40 lingue, ha venduto 50 milioni di copie ed è divenuto un film, con Sean Connery nei panni del protagonista, il frate-investigatore Guglielmo da Baskerville, nel quale compaiono anche Ubertino da Casale e Michele da Cesena. Nel 1327, in un monastero benedettino del Nord Italia, ha luogo una serie di misteriosi delitti, proprio mentre si tiene un convegno sul tema della povertà di Cristo: il protagonista è stato inviato dall’imperatore a sostenere le tesi pauperistiche, confrontandosi con i delegati del papa avignonese.
Sean Connery e un giovane Christian Slater, in una inquadratura del film Il Nome della Rosa, tratto dal romanzo omonimo di Umberto Eco.
Nella Firenze provata dalla peste, i poveri erano guardati con sospetto e disprezzo
Capolettera miniato raffigurante la pesatura della lana, dalla Mariegola dell’Arte della Lana. XIV sec. Venezia. Museo Correr.
Anche leggendo i cronisti delle vicende fiorentine posteriori al 1350, si coglie una maggiore indifferenza alla povertà. Dal 1370 la situazione economica fiorentina, per gli strati meno abbienti, è assai peggiorata e l’indigenza non è certo scomparsa con il sollevamento dei Ciompi (rivolta popolare scatenata dai salariati delle diverse Arti e in particolare dell’Arte della lana, detti appunto Ciompi, che, sottoposti a forte pressione economica e sociale e privi di diritti politici, si ribellarono e presero il controllo della città, n.d.r.). Inoltre, all’indomani della peste – come spesso accade nei momenti di crisi – si è diffuso il luogo comune che in realtà il popolo minuto viva nell’agiatezza e, dopo il tumulto, si descrive la categoria degli indigenti come gente di bassa mano, ribaldi, malagente, ladri e traditori.
Uno scontro feroce
L’idea del povero che richiede attenzione, amore e benevolenza non è dunque piú applicata né dagli ecclesiastici, né dai laici: all’inizio del secolo, quando viene affrontato nei Sermones, il tema è associato alla povertà di Cristo e degli Apostoli, ma
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lontano dalla realtà dei veri poveri fiorentini. Questo confronto serrato sfociò, tra la fine del Trecento e il pieno Quattrocento, in uno scontro feroce tra il papato e molti religiosi. Nell’Italia centro-settentrionale tali movimenti furono duramente repressi, e molti religiosi finirono sul rogo quali eretici e scismatici per le loro accuse contro la carnalità della Chiesa gerarchica. In questa realtà, undici anni dopo il Tumulto dei Ciompi, giunge fra’ Michele, il quale, a sua volta, viene definito negli atti processuali, oltre che eretico, «homo male condictionis et pessime conversationis vite». Fra’ Michele era arrivato nella città del giglio per la cura animarum di un gruppo di fedeli all’inizio del 1389, il 26 gennaio, stando all’Anonimo autore della Storia di fra’ Michele da Calci, trattenendosi fino alla Pasqua con il progetto di partire «il dí dopo la Pasqua, cioè il lunedí mattina, il dí 19 aprile 1389». Il frate fu arrestato assieme a un confratello nei giorni successivi alla Pasqua, poco prima di ripartire per la Marca. L’ordine venne con buona probabilità dal vescovo di Firenze, il padovano Bartolomeo Oleario (1320 circa-1396; vedi box a p. 39).
di Firenze si trova una rubrica contro gli aderenti alla dottrina che Michele aveva professato, quella della povertà, e che era ritenuto un credo eretico «che dal demonio era stato introdotto nella città ortodossa di Firenze». La documentazione per ricostruire la vicenda di fra’ Michele è di duplice natura: gli atti processuali, conservati all’Archivio di Stato e Firenze, Palazzo dell’Arte della Lana. Rilievo raffigurante l’Agnus Dei, emblema della corporazione.
La replica
Introdotto dal demonio
Proprio a Firenze, e proprio negli anni Ottanta del XIV secolo, la documentazione superstite attesta una nuova presa del fraticellismo sul laicato cittadino. È stata evidenziata una serie di proposte di provvedimenti contro i fraticelli già dal luglio del 1381, poi culminati nella Provvisione del dicembre del 1382, nella quale si paventa la diffusione dell’eresia tra «seculares, simplices et ignorantes». Ma il problema rimase in Firenze ben vivo, se ancora nel 1415 nello Statuto
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ma se ebbe qualcosa, fu solo per il semplice uso; accusa alla quale si legano varie implicazioni, tra cui quella legata al diritto di vendere, donare o comprare alcunché. Il secondo capo d’accusa è il fatto che papa Giovanni XXII sarebbe da considerare eretico, per le sue decretali in merito alla povertà di Cristo. A tale accusa seguono, a cascata, i mancati riconoscimenti dei suoi successori che avrebbero potuto cancellare tali posizioni e anche dei cardinali a lui compiacenti. Il testo, datato 29 aprile, segnala che la notizia della sua pratica eretica giunse al Capitano del Popolo per voce di «cactolicis honestis et fide digne personis», che riportarono che egli era eretico e aveva avuto rapporti «cum Fraticellis dela povera vita», in un luogo chiamato «la grocta de orti yoffensi», dove si radunavano «dicti fraticelli sysmatici».
una cronaca di anonimo, meglio nota come Storia di fra’ Michele Minorita. Cominciamo con l’osservare la prima fonte. Si possono in fondo ridurre a due le colpe di «Iohannem vocatum Micchaelem Berti de Calce de comitatus Pisarum», benché l’elenco dei suoi capi d’accusa sia molto piú lungo. La prima imputazione è che, secondo fra’ Michele, Cristo non possedette nulla personalmente,
Michele replica alle accuse e, stando alla reportatio, conferma alcuni dati (l’eresia di papa Giovanni, la povertà totale di Cristo), ma ne nega altri: rifiuta che gli venga accreditato di aver mai detto che «Thomasso de Aquino no essere sancto perchè fu canonizato da papa Johanni xxii heretico et perchè molti oppenioni del dicto Tomasso forono dala Chiesia reprovate», ma, cosa ancor piú importante, non accetta di essere definito «fraticello», né, tanto meno, «hereticum et che esso e suoi sequaci, cioè li Frati Menori che osservano la regola de sancto Francesco, sonno veri et fedeli cactholici, et li altri frati et sacerdoti sonno heretici et sismatici». A leggere invece le parole dell’accusa, Michele, dopo aver già contaminato i cittadini di Firenze con le sue prediche, si mantenne fermo nelle proprie posizioni eretiche.
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protagonisti michele da calci Il confronto con la seconda fonte mostra invece il punto di vista di un probabile confratello di fra’ Michele, che con lui condivideva gli ideali pauperistici e che ne rese testimonianza con un raro scritto di tipo agiografico, esemplato sulla passio Christi, trasformando l’eretico in un martire. Tutto il racconto, infatti, mira a intervenire sulla memoria
dei compagni di Michele, per trasformare il ricordo di quella che fu una sconfitta, nell’affermazione di un modello di martirio e di santità. Nel capitolo XII si legge che i notai «non aveano scritto quasi nulla della confessione che aveano fatta, se non a loro modo». L’incipit è la traduzione degli atti processuali: «Frate Michele, uomo di mala condizione e fama, cosí con mol-
te parole ingiuriose della sua persona», quasi a prova e testimonianza della inconsistenza di tutto il processo. Fra’ Michele avrebbe risposto: «Eretico non sono né posso essere: peccatore sí, ma cattolico». E avrebbe apostrofato il notaio dicendo: «Perché hai scritto quello che noi non abbiamo detto, e hai scritto la falsità? Ma tu n’arai a rendere ragione dinanzi da Dio».
Miniatura raffigurante la lavorazione della lana, dalla Historia Ordinis Humiliatorum. XV sec. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.
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Dopo una breve serie di informazioni per collocare la vicenda nello spazio e nel tempo, la narrazione assume toni mimetici, ricalcando nel lessico e nella scansione degli eventi la passione di Cristo. Come Gesú fu tradito da Giuda, Michele è tradito da «figliole di Giuda», «due pinzochere e tre donne vedove», che abbandonano Michele e un compagno a «molti berrovieri e mascalzoni, intra’ quali ebbero a dire i frati corbi (identificabili con i Francescani della Regola meno severa, o con i Domenicani) che ve n’erano da 16 di loro, armati». La scena ricalca chiaramente quella del Giardino degli Ulivi. Giunto dinnanzi al vescovo (il principe de’ Farisei), frate Michele viene da questi interrogato come «uomo peccatore e che tenea la legge di Iesu Cristo e non seminava altra dottrina che di Cristo e della sua Chiesa».
Come Cristo al Calvario
Gli spostamenti di Michele, condotto dalla prigione dinnanzi al vescovo, e poi nel cammino verso il luogo del supplizio, ripercorrono, anche nel ritmo e nei gesti, la Passione di Gesú, ora da Anna, ora da Caifa, ora da Pilato e infine nella via per il Calvario. Il modello di imitatio Christi, perseguito da fra’ Michele in vita, nel seguirne la povertà, culmina nell’affrontare la morte, senza rinnegare Cristo, né Francesco. «Non v’avvedete voi che negate quello di che avete fatto professione» disse l’inquisito ai suoi accusatori, uno dei quali – come il centurione ai piedi della croce – esclamava, preannunciandone la santità: «E’ pare uno valente giovane. E alquanti: Non pare che favelli per bocca d’uomo, ma di Dio». La modalità si ripete nell’ultimo colloquio in cella, quando due frati corbi e un secolare uscirono dal colloquio rispettivamente scandalizzati e il secondo «molto bene edificato, dicendo: Io non veggo che dichino quelle cose che si dicono di loro, anzi non favella se non per la santa Scrittura». Nella sua breve prigionia, fra’ Michele ricordò come suoi interces-
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Bartolomeo Oleario
Il grande accusatore Anche il vescovo che ordinò l’arresto di fra’ Michele era francescano: si trattava di Bartolomeo Oleario (o Uliari, o dall’Olio), dottore in filosofia e in diritto canonico. L’Oleario aveva predicato precedentemente in molte città della Marca Trevigiana, della Toscana e della Marca anconetana, conoscendo dunque bene le realtà locali. Nel 1380, alla morte del presule anconetano, Giovanni Tedeschi, fu nominato suo successore da papa Urbano VI. A causa dei problemi con gli scismatici, riparò in Toscana dove, grazie alle sue prediche (1385), si guadagnò le simpatie dei Fiorentini. Quando il cardinale Angelo Acciaioli lasciò Firenze, la popolazione acclamò nuovo vescovo l’Oleario, il quale, su conferma pontificia, accolse di buon grado la nomina, insediandosi il 9 dicembre 1385 e tenendo la sede di Ancona «in commendam». È dunque ipotizzabile che Oleario conoscesse il movimento e le idee dei frati che giunsero in Firenze dalla Marca, avendo predicato in quelle zone. Nel 1389, papa Bonifacio IX decise di nominarlo cardinale e nunzio apostolico a Napoli, dove era rifugiato lo scismatico antipapa Clemente VII, ponendo sul soglio fiorentino un personaggio locale, Onofrio Visdomini. In alto particolare di un capolettera miniato raffigurante un vescovo santo, da un libro corale di produzione lombarda. Inizi del XVI sec. Londra, British Library.
sori Bartolomeo Greco, Bartolomeo da Bugiano e Antonio da Aqua Canina, Francescani già martirizzati a motivo della povertà. È interessante il richiamo a queste figure minori, accanto ai Padri del Vecchio e del Nuovo Testamento, giacché essi diventano per Michele il riferimento da seguire per difendere ciò che in realtà «non sono errori, ma cattoliche veritadi». In un punto Michele non replica agli inquisitori, ed è quello in cui la religione incontra la politica: di fronte all’accusa di sovvertire il popolo, infatti, preferisce tacere.
Tra il clero e i rettori secolari, doveva essere diffusa la preoccupazione di un’intesa tra i fraticelli e le masse popolari. La loro nuova presa sugli strati piú bassi della popolazione poteva sfociare in una generale sfiducia nei confronti della gerarchia ecclesiastica e anche nella validità dei sacramenti da loro amministrati. In questo Michele fornisce una risposta che tutela, piú che la gerarchia, il popolo cristiano: «Cotesto è falso, anzi dico che da indi a poi perderono la iurisdizione, ma non il sacramento, e rimasono vescovi; e i preti che fanno sono preti, avenga
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che scomunicati; e’ l corpo di Cristo che fanno è corpo di Cristo». Ciò sarebbe stato fatto per «riguardo verso i fedeli (…) incapaci di sostenere l’angoscia di una cristianità senza gerarchia e di una vita senza il conforto dei sacramenti». Dichiarato eretico e scismatico per le sue credenze, Michele subí dunque la cerimonia della svestizione e della degradazione e fu poi consegnato al braccio secolare che lo condannò a morte, cogliendo l’occasione per rinsaldare cosí i rapporti con il vescovo Oleari e con Urbano VI, dopo l’interdetto fulminato contro Firenze, mostratasi disponibile verso il papa avignonese Clemente VII.
Il rogo dell’eretico, tempera e oro su tavola del Sassetta (al secolo Stefano Giovanni di Consolo). 1423-1426 circa. Melbourne, National Gallery of Victoria.
Papi e paperi
La narrazione del viaggio dal palazzo del Capitano sino al luogo del supplizio, oltre la Porta della Giustizia, segue il frate «scalzo, con una gonnelluccia in dosso, parte de’ bottoni isfibiati (…) col passo larghetto, e col capo chinato, dicendo ufficio, che veramente parea uno de’ martiri». Il tragitto è costellato di incontri e dialoghi, dando vita a una mimesis teatrale delle tappe della via Crucis. Uscendo dal palazzo del Capitano, Michele professa la sua fede «in Dio, nella vergine Maria e nella santa Chiesa». Dinnanzi alla cattedrale, rimprovera ai Fiorentini la loro soggezione ai papi scismatici, giocando con le parole e trasformando cosí i papi in paperi: è l’unica apertura – peraltro sarcastica – per un inserimento del martirio di Michele nel contesto delle tensioni politico-ecclesiastiche indotte dallo scisma. Nel cuore economico e politico di Firenze – da Calimala a piazza dei Priori – il frate esorta la folla ad abbandonare i peccati di usura, di gioco, di fornicazione, rimarcando piú volte la difesa della verità e la sua identità quale seguace di san Francesco e di Cristo, specie dinnanzi alla chiesa di Santa Croce, tenuta dai Minori «de’ quali alquanti si ristrignevano nelle spalle, alquanti
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si ponevano la cappa al viso». Richiamandosi al racconto evangelico, non mancano il momento in cui Cristo, nella versione di san Marco, è abbandonato dai suoi, il rinnegamento di Pietro evocato nel corso del racconto agiografico, e anche l’incontro con le donne. Né manca la coincidenza sulla data: il giorno del martirio di Michele è di venerdí, prima di Calendimaggio, quasi la Parasceve (il giorno in cui gli Ebrei preparavano quanto era necessario per celebrare la festività
del sabato, ma anche il Venerdí della Settimana Santa, n.d.r.). Ai Fiorentini che lo invitano all’abiura per salvarsi la vita, richiamando le beffe rivolte a Cristo («Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso», Lc, 23.37) Michele oppone sempre la sua volontà di testimonianza fino al martirio. Il momento del rogo ricalca quello della morte di Cristo: «Poi tenne un atto come se starnutisse, dicendo la sezaia parola: “In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum”». Persino il momento deldicembre
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la sepoltura è esemplato su quello evangelico, ma, anziché Giuseppe di Arimatea, compaiono alcuni che «chiesero di grazia al cavaliere di sepellire il corpo. E’ l cavaliere, tratta carte della morte sua, diede loro la licenzia, e andossene colla famiglia. E questi giovani tolsero il corpo mettendolo in uno telo di lenzuolo, e portarolo e sepelirolo in una fossa di lungi alquanto dal capanuccio». In realtà, eseguita la sentenza, il cavaliere del podestà o del capitano del Popolo che aveva diretto in groppa al cavallo la funzione,
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ordinò di redigerne atto notarile con la testimonianza dei nunzi e il cadavere fu interrato sul luogo stesso del patibolo.
Santificare il martire
Ma tutto il racconto è steso con l’evidente obiettivo di santificare il martire Michele, frate temuto dai chierici e dai secolari per la sua forza e per la sua integrità d’animo, e invece sostenuto dai suoi seguaci e probabilmente da un buon numero di cittadini. La tradizione
del testo, pervenuto tramite un opuscolo cartaceo, forse autografo, conferma questo disegno. Sul verso, infatti, è vergata una nota di altra mano con la richiesta da parte di alcuni seguaci, probabilmente non fiorentini, di un’altra copia del fascicolo, da usare per la diffusione del culto di Michele, non fraticello, ma frate minore, non eretico, ma cattolico: «E tra le molte cose che gli erano dette chi di qua e chi di là, rispondea: Io voglio morire per la verità».
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Il cartolaio che amava l’arte
di Barbara Conti ed Emanuela Porta Casucci
Salvestro di Zanobi Mariani aveva ereditato dal padre una bottega ben avviata. A pochi anni dall’invenzione della stampa, egli fu capace di aumentare considerevolmente il volume degli affari legati alla produzione e alla vendita della carta, cosí come allo smercio di libri e manoscritti. Ne è prova il suo testamento, nel quale, oltre all’elenco di materie prime e opere finite, figurano beni che denotano una sicura agiatezza
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el 1496, quattro anni dopo l’invenzione della stampa, i registri del Magistrato dei Pupilli di Firenze ci regalano l’inventario di una libreria dell’epoca, la bottega del cartolaio Salvestro di Zanobi Mariani, deceduto senza testamento l’11 marzo dello stesso anno, i cui eredi vengono presi in carico dagli Ufficiali il successivo 10 maggio, secondo il documento conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze (Fondo Pupilli avanti il Principato, filza n. 181, cc 31r-35v e 42r43v). La ricognizione del patrimonio familiare e commerciale del marito è affidata alle indicazioni della vedova Nannina, che, nominata curatrice dei 5 figli senza alcun riconoscimento economico in quanto loro madre – e fa per amore di Dio – ricorre nelle successive rendicontazioni periodiche fino all’aprile del 1500, poi sostituita da persona di fiducia degli Ufficiali. La famiglia possiede una grande abitazione a due piani e una casa da signore con casa da lavoratore annessa nel Castellare di Tignano, una frazione del Comune di Barberino Valdelsa, antico castello fortificato, e numerosi appezzamenti affittati e lavorati da altri, con case concesse in locazione, in Valdelsa e in Val di Pesa. L’abitazione, con bottega sottostante, era dotata di
cantina e piano terreno con botti e altro, di un loggiato, di una camera, di uno scrittoio e di una sala al terreno; al primo piano si trovavano un’altra sala, un androne con una camera nuova in fondo e una vecchia e con un’altra camera dotata di anticamera, una cameretta riservata agli eredi e una dispensa o cameretta del pane.
Una famiglia molto devota
Si tratta di un edificio grande e articolato, che ci dà l’idea del benessere di Salvestro, confermato dall’elenco di suppellettili: una ricca posateria d’argento, oggetti da toletta di vetro tinto di Venegia, vasi di cristallo e molte casse di abbigliamento nelle camere. Sorprendente è l’alto numero di opere d’arte – molto superiore rispetto a quello registrato in analoghi documenti relativi a famiglie di fascia media – alcune delle quali con cornici dorate. Sono tutte raffigurazioni a soggetto sacro, destinate alla devozione privata della famiglia – dipinti o sculture della Madonna, di Gesú e di Dio Padre – a volte appese sopra le porte delle camere a protezione degli
Nella pagina accanto miniatura raffigurante un rilegatore di libri, dall’Hausbuch der Landauerschen Zwölfbrüderstiftung. 1511. Norimberga, Stadtbibliothek. A destra un esemplare di libro antico, rilegato con la tipica copertina in legno rivestita in cuoio con rinforzi metallici sugli angoli.
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Cartolai nella Firenze del XV secolo
Tutti intorno alla chiesa Nella Firenze del Quattrocento, le botteghe di cartolai-librai erano concentrate attorno alla chiesa di S. Stefano alla Badia Fiorentina, nel quartiere di S. Giovanni. Un inventario di proprietà di case e botteghe, fra il 1439 e il 1447 (ASF, Conventi Soppressi, 78, cc. 8r-11r, pubblicato da Alessandro Guidotti nel 1982), le elenca fra via del Palagio del Podestà in via del Proconsolo, sull’angolo e davanti al Palazzo Podestarile e a piazza Sant’Apollinare, inframezzate da studi di notai e laboratori di artigiani. Sono 10, piccole e grandi, anche soppalcate, a uso di cartolaio, ricavate all’esterno della chiesa, delle cappelle o al pianterreno della sacrestia e del dormitorio dei frati. Gli affittuari pagano dai 5 ai 15 fiorini l’anno, piú la tradizionale oca offerta al proprietario per la festa di Ognissanti, secondo un uso consolidato fra le parti e quasi sempre riportato nei contratti di affitto o una certa quantità di libbre di cera al convento per contratti, in media, di 5 anni. Una bottega con terreno et palchi et atre officine a uso di detta arte, è affittata al notaio di fiducia della Badia e sembrerebbe includere una legatoria. Un miniatore lavora in mezzo ai cartolai mentre si fa menzione di un unico cartolaio et legatore, che occupa due botteghe.
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abitanti – come il mez[z]o tondo dov’è dipinta Nostra Donna sopra l’uscio dela chamera in su l’androne o il mezzo tondo d’asse dipinto di Padre sopra l’uscio dell’altra chamera – altre volte inserite in altarini a sportelli nelle stanze piú private dell’abitazione per i momenti di preghiera, come nel caso dei due tabernacoli chon Nostra Donna di rilievo, di giesso. Materiali come il gesso, il piú citato nell’inventario, erano diffusi all’epoca nella realizzazione di opere destinate a privati: grazie all’alta qualità di esecuzione, si facevano apprezzare sul mercato tanto quanto i piú nobili marmo e bronzo. Non sorprende che fra gli oggetti d’arte vi sia un tondo da parto chon tarsie al’anticha, tavola a volte dipinta su entrambi i lati – in questo caso decorata con tarsie in legno –, usata a mo’ di vassoio per portare le vivande alla puerpera subito dopo il parto e poi appesa al muro, che si incontra quasi sempre nelle abitazioni dell’epoca.
Un’attività sviluppata su piú fronti
L’attività di cartolaio condotta da Salvestro attraverso la bottega si muove su vari fronti: acquisto di materia prima grazie alle relazioni con la Val d’Elsa, attivo centro cartario nel XV secolo (vedi box a p. 46); fornitura a copisti e stampatori per la produzione di testi, anche su commissione; invio dei volumi alla rilegatura, stoccaggio nel locale sotto casa e consegna ai committenti o vendita sul mercato libero. Un’impresa già curata dal padre Zanobi, al cui nome risalgono 11 libri di conti e un pacco di registri di debitori dicembre
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A sinistra la veduta di Firenze nota come Pianta della catena (l’appellativo le deriva dalla catena chiusa da un lucchetto che la incornicia, non visibile nella foto), realizzata da Francesco di Lorenzo Rosselli.
1471-1482. Berlino, Kupferstichkabinett Preussicher Kulturbesitz. Il riquadro indica la zona in cui sorgeva la chiesa di S. Stefano alla Badia Fiorentina, nella quale si concentravano le botteghe dei cartolai.
A destra La bottega del rilegatore, illustrazione ottocentesca basata su una xilografia seicentesca di Jost Amman, da Le Moyen Age et la Renaissance. Parigi, 1849.
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gente di bottega/9 la produzione cartaria
La filigrana per identificare l’origine Nell’XI secolo, per le terre lungo il corso del fiume Elsa, affluente dell’Arno sulla sponda meridionale, la documentazione rileva piccoli edifici rurali e mulini, «casalini» o «capanne» con appezzamenti, e il piccolo borgo rurale di Santa Caterina di proprietà dell’abbazia di S. Maria in Firenze. Dal XII secolo, in quella zona iniziarono a operare mulini e gualchiere per il trattamento dei panni e furono avviati lavori consistenti di canalizzazione degli affluenti dell’Elsa. Nei secoli successivi, i colligiani cominciarono ad affiancare agli antichi mulini per macinare granaglie impianti per l’industria metallurgica, il trattamento dei panni e la lavorazione della carta. Nel corso del Duecento si formarono a Colle vere e proprie «colonie» con specializzazioni nei vari settori manifatturieri. Dalle Marche arrivarono le prime maestranze che adattarono alcune «cadute» d’acqua alla lavorazione della carta. Nel corso del Trecento le gualchiere si estesero anche verso Casole e già negli statuti di gabella di Colle del 1307 si menziona la commercializzazione della carta bombacina, ovvero fatta con gli stracci di bambagia, cioè cotone. In un inventario del 1331, compare la chiara e creditori conservati nell’abitazione di Salvestro e che compare anche nel giornale tenuto da una delle piú attive stamperie fiorentine dell’epoca, quella di San Iacopo a Ripoli, rinvenuto e pubblicato nel XVIII secolo (vedi box a p. 48). Nella bottega di Salvestro rimangono piú di 300 libri rilegati e non, manoscritti e a stampa, di carattere religioso e morale, filosofico, medico, giuridico e didattico, nonché, in misura minore, anche alcune opere letterarie. Tale consistente patrimonio aveva già attirato l’attenzione dello studioso Christian Bec negli anni Sessanta del Novecento, che lo riportò in un articolo: per ogni volume i magistrati dei Pupilli descrivono brevemente materiali, formato e rilegatura. Circa 70 libri sono manoscritti, perlopiú su carta. Solo una decina quelli realizzati in pergamena, soprattutto libri di preghiere che, destinati a un uso frequente, necessitavano di un materiale piú resistente anche a fronte di un costo piú elevato. I volumi a stampa sono circa 138, di vario argomento.
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indicazione di un casalino o loggia con gualchiere adatte a gualcare il pesto di carta bombacina fuori della Porta Senese di Colle. Dopo la crisi demografica della Peste Nera (1348), che colpí soprattutto gli impianti idraulici legati alla lana e alla metallurgia, la produzione cartiera subí un incremento e differenziò i prodotti: utilizzando processi di sfibratura degli stracci piú o meno grossolani, si otteneva carta raffinata per scrivere oppure piú grezza da imballaggio. Ogni prodotto era contraddistinto da filigrane per renderlo immediatamente riconoscibile su un mercato internazionale in continua espansione, dalla Spagna alla Francia meridionale, dalla Campania alla Sicilia: la charta di Cholle è commercializzata dai fiorentini e si incontra negli inventari di botteghe del primo Quattrocento. Altre zone produttive si svilupparono in Toscana nello stesso periodo, in aree particolarmente ricche di risorse idriche per la forza motrice e i bacini di macerazione: intorno al fiume Pescia in Valdinievole e nella Lucchesia, coinvolgendo prima Bagni di Lucca e poi Villa Basilica dove, alla metà del Cinquecento, venne fondata la prima vera industria cartaria. Per i restanti libri non vengono date indicazioni precise, forse perché di poco pregio, con stampa e carta di bassa qualità. Talvolta, lo scrivano dei Pupilli annota anche il formato dei libri: 1/4 e 1/8 sono numeri che vanno letti in quarto e in ottavo, e indicano il numero di piegature del foglio di partenza con cui si ottenevano i fascicoli: per esempio, si definisce in folio un libro fatto con fogli piegati solo una volta; con un’altra piega a metà l’in folio diventa in quarto, e cosí via, piegando sempre ancora a metà, si ottengono i formati detti in ottavo e in sedicesimo. Non è facile dare misure in centimetri per tali libri, perché le misure di un foglio intero dipendevano dalla cartiera che lo produceva, e non erano affatto standard. Nell’inventario di Salvestro i formati di gran lunga piú utilizzati sono l’in quarto e l’in ottaIn alto Il cartaio, xilografia di Jost Amman (poi colorata), realizzata per l’opera Eygentliche Beschreibung aller Stände auff Erden. Francoforte sul Meno, 1568. dicembre
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Miniatura raffigurante il cancelliere di Francia Guillaume Jouvenel des Ursins che visita il laboratorio di un miniatore (probabilmente al suo servizio), da un’edizione del Mare historiarum di Giovanni Colonna. 1447-1455. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
vo, usati soprattutto per i libri religiosi e per quelli di grammatica ma anche per i classici, perché rendevano i volumi maneggevoli e facili da trasportare. Il formato in folio era usato soprattutto per la letteratura latina manoscritta, ma anche per quella contemporanea a stampa, come Dante e Petrarca.
Legno, cuoio e tessuto rosso
Quasi tutti i libri della bottega di Salvestro sono choverti d’asse, cioè rilegati e ricoperti con assicelle di legno, rivestite di cuoio o tessuto rosso o paghonazzo, pochissime volte verde o bianco: 54 di essi sono choperti mezzi, ovvero legati con due materiali diversi per
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il dorso e il piatto, una soluzione che li rendeva piú economici. Meno di 10 sono gli esemplari legati in pergamena, mentre piú di 80 libri sono definiti sciolti, ossia non sono rilegati in alcun modo, cosí da poter essere personalizzati da chi li acquistava, come nel caso, per esempio, del Passionario in pen[n]a e charta buona, di fogli reali, in asse, è del prete di Fib[b]iana, è a fare buona la legghattura e altro. Simile servizio poteva essere eseguito anche per le illustrazioni, che venivano realizzate per ultime, dopo che il testo era stato scritto: bastava lasciare i fogli separati dalla coperta, come nel caso di una choverta biancha a foglio, entrovi piú quinterni di charta buona, ischrit[t]i a pen[n]a.
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gente di bottega/9 Stamperie fiorentine
I libri come forma di pagamento Le prime opere scelte per essere stampate furono quelle che già in partenza avevano un pubblico sufficientemente ampio, e che potevano quindi essere smerciate in tempi brevi e in un alto numero di esemplari, ripagando i costi di edizione: la Bibbia, breviari, salteri, i Vangeli e testi degli insegnamenti universitari di diritto, filosofia, medicina, o delle scuole di grammatica. Il mercato fiorentino e toscano del XV secolo non faceva eccezione: se anche in città era presente un pubblico colto, formato da ricchi commercianti e umanisti, le vendite di libri nell’ultimo decennio furono trainate soprattutto dalle opere e prediche di Savonarola, accompagnate da tutti gli scritti di polemica, riflessione e controversia composti sia dai suoi nemici che dai suoi seguaci. Fra i piú attivi stampatori di fra’ Girolamo e di testi di meditazione spirituale, vi fu Bartolomeo di Francesco di Neri, detto Bartolomeo de’ Libri, che operò nella seconda metà del XV secolo. Gli studiosi ipotizzano che le edizioni da lui curate si aggirino sui 200 titoli, sebbene se ne conoscano solo sette sottoscritte. Numeri altrettanto alti vennero stampati, dal 1476 al 1485, nel convento di S. Iacopo di Ripoli, nella centrale via della Scala a Firenze – ancora oggi esistente, seppure trasformato in caserma –, i cui registri, trovati e pubblicati nel 1781, descrivono l’attività manuale di scrittura e miniatura praticata dalle monache domenicane, i costi della carta e degli inchiostri utilizzati, gli acquisti di piombo e stagno per la fusione dei caratteri da stampa. La carta piú usata dalla stamperia fiorentina di Ripoli arrivava da Colle Val d’Elsa, pagata 2 lire e
6 soldi la risma; quella di Prato 2 lire e 10 soldi, mentre la Fabriano era prezzata da 3 a 5 lire; la carta bolognese costava da 3 a 6 lire e 8 soldi la risma, secondo la qualità. Per avere un termine di paragone, nel diario è registrato l’acquisto di un paio di galline per 14 soldi. Questa officina, famosa fra i contemporanei per l’edizione di un libro di salmi per ragazzi denominato Salteruzzo, ha pubblicato opere religiose, di filosofia, di letteratura e di autori classici. Dai registri sappiamo che nel 1477 le Regole Guerine – di cui Salvestro nel 1496 ha in bottega sei copie – sono state vendute a 5 soldi il paio e che una Grammatica di Elio Donato a uso dei fanciulli – come le 11 copie di cui Salvestro dispone – costava da 3 a 8 soldi, a seconda che fosse corredata o meno di miniature. I frati di San Iacopo a Ripoli usavano a volte i libri come forma di pagamento: per esempio, il medico Dino di Francesco, chiamato nel 1478 ad assistere il priore, fu ricompensato con un fiorino largo d’ oro e una Leggenda di Santa Caterina da Siena, un Quinto Curzio omnis moralia cura, un volume dell’ Arte del ben morire e un Libro di Compagnia. Anche in caso di prestazioni da parte di artigiani si ricorre a integrare i pagamenti con libri: per esempio Iacopo, legnaiolo in piazza Madonna, de’ dare soldi quaranta, sono parte d’una vite a chioc[c]iola ci à aconciare per uno stret[t]oio da stampar lettere qui in casa, del quale lavoro siamo d’acordo n’abbia avere De’ miracoli di Nostra Donna el quale ebbe detto dí [13 di febbraio 1483] (…) lire quattro et soldi uno, sono per resto di detto lavoro, et piú ebbe uno Ufficiuolo di morti.
Piú della metà dei libri della bottega di Salvestro sono di argomento religioso, testi guida alla spiritualità e libri di preghiere che scandivano il ritmo della vita e dei lavori di campagna: numerosi volumetti con preghiere, salmi e laudi – i popolari libri d’Ore e breviari –, come i 50 libriciuoli scioltti da 1/8 foglio, di Laude di Nostra Donna (…) i 12 libretti de l’Ore in forma e sciolti, di ¼ foglio (…) i 12 breviari sia in charta pechora che in banbagina, ovvero in pergamena o in carta. Al medesimo pubblico popolare si rivolgeva anche il Lezionario, formato da
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brani di sacre scritture da leggere in particolari periodi dell’anno; il De Procesionibus, che spiegava il significato e l’ordine dei riti; il Martirologio, con notizie relative ai martiri cristiani, e il De bene moriendi, con i precetti cristiani medievali per una morte serena, oltre ai testi che accompagnavano ai sacramenti come il libro da batezare in charta buona e penna. Epistole e Vangeli sono presenti in 5 copie, una anche in francese – tutte manoscritte su carta – di vario formato, alcune rilegate, altre sciolte. Compaiono una dicembre
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sola Bibbia, in edizione commentata, e un Fioretto di Bibbia, cioè una volgarizzazione in cui erano riportati anche dati relativi alla storia profana. Alcuni volumi sono dedicati ai testi dei sermoni di sant’Agostino e, fra questi, 4 sono in stampa, di ¼ foglio, coperti mezzi – quindi non troppo di lusso –, mentre una copia commentata, per divulgare i pensieri del santo, è invece a penna, nello stesso formato. Un volume riporta i sermoni di Iacopo da Varazze – predicatore domenicano e vescovo di Genova – due quelli di
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La stamperia di Bernardo Cennini, olio su tela di Tito Lessi. 1906. Roma, Galleria Nazionale di Arte Moderna.
san Girolamo e uno quelli di fra’ Cherico da Firenze, fervente seguace savonaroliano: non molti, rispetto al successo del loro ispiratore, Girolamo Savonarola, che era molto richiesto dal pubblico e cui le stamperie toscane dalla metà del XV secolo dedicavano edizioni mensili o addirittura quindicinali. Dopo i libri religiosi un gruppo importante nella
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gente di bottega/9 i caratteri da stampa
Un designer ante litteram I caratteri mobili usati nella stampa si ispiravano inizialmente alle lettere usate dagli amanuensi: per esempio, il gotico per le edizioni tedesche o il tondo umanistico. Ben presto, però, furono variati e disegnati da abili incisori: a cavallo fra il XV e il XVI secolo, il bolognese Francesco Griffi fu uno dei piú innovativi e collaborò a lungo con lo stampatore veneziano Aldo Manuzio, inventando caratteri di grande eleganza. La sua fama è legata soprattutto all’invenzione del corsivo, ispirato alla scrittura usata dalla cancelleria papale e dagli umanisti, sperimentato prima nel 1500 in sole due righe delle Epistole di Caterina da Siena e poi in un’edizione delle Bucoliche di Virgilio del 1501, primo libro al mondo stampato interamente con tale carattere. Fu molto gradito dal pubblico, ma anche dall’editore Manuzio, il quale, grazie alla sua compattezza, riuscí a stampare volumi in un formato ridotto rispetto a quelli precedenti, traendone notevoli vantaggi economici e commerciali. Questo lo spinse a chiedere al governo veneziano il monopolio per l’utilizzo del corsivo e di tutti i caratteri disegnati dal Griffi, senza però riconoscere alcuna ricompensa all’inventore. Forse in seguito a tale vicenda, nei primi anni del XVI secolo Griffi decise di trasferirsi: prima si spostò a Fano, al servizio di Gershon Soncino – stampatore di origine turca che operò in molte città italiane – poi a Fossombrone, da Ottaviano Petrucci, e quindi a Firenze, da Filippo Giunti. Rientrò infine a Bologna, dove intraprese l’attività di stampatore in proprio, pubblicando nel 1516-17 sei edizioni di classici italiani e latini in volumi di piccolo formato, fra cui Petrarca, Bembo, Boccaccio, Cicerone e Valerio Massimo (oggi nella Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna). Per essi utilizzò un nuovo stile di corsivo, diverso dal precedente. Griffi morí sul patibolo, giustiziato per l’omicidio del genero che aveva ucciso con una spranga di ferro (ma la leggenda narra che fosse un punzone incompiuto).
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bottega di Salvestro è quello degli scrittori classici, che conta una sessantina di volumi, alcuni scritti a mano altri stampati, un certo numero anche incisi, ossia con il frontespizio disegnato con cartigli o motivi vari. Di Cicerone sono presenti piú opere: Lettere ad Attico, Filippiche, Topica, De oratore, De officiis; di Ovidio, il cartolaio ha le Metamorfosi, le Favole e le Epistole; di Seneca, ci sono un volume con le Tragedie e uno con tutte le opere; seguono Cassiodoro, Giovenale, Orazio, Apuleio, Sallustio, Terenzio. A parte un libro di Aristotele, sono assenti autori greci. Non mancano il De cosmographia di Pomponio Mela, geografo latino morto nel I secolo d.C., che scrisse un’opera geografica rapida e concisa, adatta al grande pubblico; sono presenti 30 volumi di libri sciolti, in stanpa, di fogli bolognesi che trat[t]ono De bello iudaicho, opera dello storico romano di origine ebrea Flavio Giuseppe, che racconta le battaglie di Israele nei due secoli prima di Cristo; e alcune opere di Macrobio, studioso romano di astronomia. Come accennato, le opere letterarie contemporanee sono ridotte a pochi titoli, una campionatura di preferenze letterarie influenzate forse dall’ambiente umanistico di Firenze e dalla forte religiosità rilanciata dai Piagnoni savonaroliani: III Danti in forma e in banbagia, senza chome[n]to, leghati in asse, a foglio; uno Chanzoniere e Sonetti del Pettrarcha, a cui si aggiungono una copia commentata dei Sonetti e una del De viris illustribus; e 3 Driadeo d’amore di Luca Pulci, fratello del piú noto Luigi, sugli amori, le rivalità e i sogni di ninfe e fauni in un immaginario mondo primordiale.
La mitologia secondo Boccaccio
Di Giovanni Boccaccio, vi è solo una copia, in un’edizione manoscritta, dell’opera elegiaca Genealogia Deorum Gentilium, pubblicata nel 1365: un trattato di quindici tomi, in versi, sulla mitologia classico-latina, con finalità esemplare e dimostrativa. Fu molto diffuso nella cultura umanistica, incentrata sul primato della poesia nella letteratura e sull’importanza degli autori della Grecia ellenistica per la cultura latina. Dal titolo riportato dallo scrivano, che lo descrive come tra[tta]to degli dei paghani, in pen[n]a, di ¼ foglio, choperto di chuoio, sembrerebbe trattarsi di un volgarizzamento dell’opera, di cui finora non si aveva notizia. Eppure la letteratura romantica e popolare esisteva, come denota la ricchezza di esemplari del Decameron diffusa in Italia e in Europa, copiati da insigni amanuensi e da molte donne per se stessi, e per la dicembre
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Nella pagina accanto il frontespizio di un’edizione delle Epistole deuotissime di santa Caterina da Siena, stampata a Venezia da Aldo Manuzio. 1500. Venezia, Biblioteca Marciana. A destra particolare di un dipinto di Sofonisba Anguissola nel quale viene sfogliato un libro di preghiere. 1551 circa. Southampton, Southampton City Art Gallery.
Densitometro e libri di preghiera
Le orazioni del mattino: una lotta contro il sonno... Servendosi di un densitometro, Kathryn Rudy, docente presso l’università scozzese di St Andrews, ha recentemente determinato la quantità di sporco contenuto nelle pagine dei manoscritti medievali, in modo da capire quali fossero le piú lette. Questa nuova tecnica apre un’inconsueta finestra sulle abitudini e i rituali privati dei lettori: utilizzata su libri di preghiere medievali, per esempio, riesce a rilevare quali fossero le orazioni piú ripetute, dandoci notizie anche sulle priorità e gli stati emotivi dei loro proprietari. Rudy ha infatti dimostrato che la gente apriva soprattutto le pagine con le preghiere contro le malattie: in particolare, in molti volumi una delle piú diffusione e il successo delle copie a stampa, pubblicate dal 1477 in poi e corredate da xilografie molto amate dal pubblico, tanto da meritare tirature separate dal testo. Molti sono invece i titoli che Salvestro offre al pubblico degli studenti, con una selezione di autori perfettamente integrata ai canoni formativi ufficiali: 10 copie a stampa della grammatica di Elio Donato; la Vita dei filosofi di Laerzio, una delle fonti principali sulla storia della filosofia greca; le 4-6 copie di Reghole Ghuerine e Reghole Schapentine, ossia grammatiche di greco e lati-
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sporche è quella che riporta una popolare orazione a san Sebastiano, martirizzato con ferite di freccia che potevano essere assimilate alle piaghe della peste, la malattia che piú terrorizzava l’umanità in quel periodo. Per allontanarla, la gente ripeteva quindi molto spesso la preghiera, sfregando le dita sulla pagina, lasciando cosí la traccia rilevata dalla macchina. Curiosa risulta l’analisi delle pagine relative alle orazioni del primo mattino: la ricerca ha evidenziato che la carta piú sporca è quella delle prime pagine e Kathryn Rudy ne ha dedotto che la maggior parte dei lettori si addormentava dopo poco tempo. no scritte rispettivamente da Guarino da Verona e dal suo allievo Niccolò Perotto nei primi anni Settanta del XV secolo. Un testo introduttivo alla dottrina religiosa, l’[E]lucidario in charta pechora e penna – opera catechistica strutturata con domande di un allievo al proprio maestro – era probabilmente utilizzato per lezioni scolastiche, cosí come all’università erano destinate le 3 copie della Summa Horlandini, trattato di diritto di uno dei piú celebri giuristi medievali, il bolognese Rolandino de’ Passageri, fondamentale per la formazione di notai
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gente di bottega/9 costo e mercato dei libri
L’inquadramento professionale I cartularii, produttori di libri di commercio di grande formato e di piccoli carnet da viaggio per i mercanti, formavano un’arte a sé ai primi del Trecento, passando poi nei decenni successivi all’Arte dei Medici e Speziali. La distinzione fra cartai, librari e cartolai inizia nella seconda metà del secolo, per il diffondersi del commercio dei manoscritti, e ai cartolai si proibisce di eradere registri di imbreviature notarili e documenti pubblici per recuperarli al commercio dei copisti. Verso la fine del secolo venne accentuandosi la differenza fra cartolai e venditori di libri, per il diffondersi del commercio dei manoscritti. I legatori di libri erano uniti ai pergamenai e, dal 1320, uniti ai cartolai nell’Arte dei Medici e Speziali: erano raccolti presso le chiese della Badia Fiorentina e di S. Apollinare fino dagli inizi del XIII secolo. Nel secolo precedente l’epoca del nostro cartolaio, prima dell’avvento della stampa, i materiali necessari ad amanuensi e copisti per la produzione dei libri venivano venduti dagli speziali e dai merciai i quali, però, commerciavano anche i libri finiti, come testimonia la Rubrica VIII dello Statuto dell’Arte dei Medici, Speziali e Merciai di Firenze del 1349, intitolata Dell’arte delli ispeziali e libri di medicina et dicretali et di ramanzi, che elenca il regime di tassazione diretta cui erano sottoposti i prodotti di spezieria. Fanciullo che legge Cicerone, particolare di un frammento di affresco di Vincenzo Foppa. 1465. Londra, Wallace Collection.
e giudici già in epoca comunale; e i 7 esemplari della Logica, in penna e carta bambagina scritta dall’umanista Paolo da Venezia, una delle figure di spicco della logica medievale, edita a stampa a Padova dal 1472 e che ebbe in seguito altre 15 edizioni; i 2 trattati di medicina, di cui uno è opera di Iacopo da Ferrara, medico destinato ad affermarsi negli anni successivi alla morte di Salvestro; e il De agricultura dell’autore latino Marco Porcio Catone, detto il Censore, composto probabilmente attorno al 160 a.C., prima opera in prosa della storia della letteratura latina pervenuta integralmente, stampata per la prima volta a Venezia nel 1472. Nell’elenco, infine, figurano soltanto due titoli in lingua straniera, il già citato Vangelo in francese e un testo morale, ovvero uno libro di Chongnizionne in anghulisi. Brandelli di storia viva si intravedono nel grande deposito di libri. Sono riconoscibili due dei committenti che hanno ordini in giacenza presso la bottega, a cui sono destinati due pacchi: uno di pagine staccate
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Fra questi troviamo Libri di medicine dell’uno soldi 15; Libri di legge dell’uno soldi 18; Libri di chiesa, ecietto ch’a chierici, l’uno soldi 9; libri di noteria dell’uno soldi 6; libri di gramaticha dell’uno soldi 2; libri ramanci a’ cittadini nonnulla; libri nuovi di bambagia, la soma lire 3 e soldi 12, el cento soldi 16, la libra danari 2. Libri vecchi di bambagia iscripti la soma lire 1 soldo 4, el cento s. 5 e danari 4, la libbra 2/3 di un danaro. Per la copiatura: Charte di pechora, la soma lire 4 e soldi 10, el cento soldi 20, la libbra denari 2½. Charte di banbagia la soma lire 3, el cento soldi 13 e danari 4, la libbra danari 1 e 3/5 di danaro. Il minio la soma lire 1 e soldi 10, el cento soldi 6 danari 8, la libbra 4/5 di un danaro. di ¼ foglio, ispichati, di Salmo ordinato per Fra’ Girolamo [Savonarola] e uno di libri, in forma – ovvero stampati –, scioltti, mandati a Francescho d’Araghona, figlio minore del re di Napoli e capitano delle truppe reali che, fra il 1485 e il 1487, avevano schiacciato la rivolta dei baroni meridionali contro le riforme fiscali del re Ferdinando I d’Aragona, grazie anche all’appoggio militare fornito da Lorenzo de’ Medici.
Da leggere Christian Bec, Une libraire florentine de la fin du XV siècle, in Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance, 31, 2, Librairie Droz, Ginevra 1969; pp. 321-332 Emilia Nesi, Il diario della stamperia di Ripoli, Seeber Firenze 1903 Centro Italiano di Studi sul Basso Medioevo-Accademia Tudertina, Scriptoria e biblioteche nel Basso Medioevo (secoli XII-XV), Atti del LI Convegno storico internazionale Todi, 12-15 ottobre 2014, Fondazione Centro Italiano di Studi sul Alto Medioevo, Spoleto 2015
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Fantasmi di Natale
di Claudio Corvino
Tra i simboli e le usanze che accompagnano la festa della nascita di Gesú, alcune hanno un significato misterioso, di matrice non cristiana. Compongono un ricco e variegato apparato «pagano», del quale fanno parte cartoline augurali e carte da regalo, la cui origine risale in gran parte al… Medioevo
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ell’inverno preindustriale, quando il sole cominciava a declinare e le ore di luce diminuivano, tra gli abitanti dell’emisfero Nord del globo si facevano strada sensazioni inquietanti, ansie o angosce che, a volte, si trasformavano in paura, quando non in terrore. In questo periodo, il freddo, il buio, la penuria delle derrate alimentari e l’incertezza del futuro raccolto facevano del mondo un luogo meno sicuro. Il passaggio da una stagione all’altra – come quello dal vecchio al nuovo anno – creava una sorta di interregno in cui si credeva che tutto potesse accadere: gli animali parlavano, i morti dilagavano sulla terra sotto forma di fantasmi e gli schiavi potevano comandare sui loA sinistra San Nicola procura la dote alle figlie del nobiluomo povero, pannello facente parte delle Storie di san Nicola dipinte da Ambrogio Lorenzetti. 1327-1332. Firenze, Galleria degli Uffizi. Nella scena si vede l’anziano padre che, per via dell’indigenza, intendeva avviare alla prostituzione le ragazze: interviene allora il santo, che, da una finestrella, getta loro tre preziosi astucci dorati.
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Cartolina natalizia olandese degli inizi del Novecento raffigurante san Nicola che porta doni ai bambini.
costume e società cartoline ro padroni, come ben raccontavano la festa medievale dell’Episcopellus o dell’Abbas nihilensis, l’Abate del Nulla che però comandava su tutti, almeno per un giorno.
Come in un carosello
Le epoche di ansia – noi contemporanei lo sappiamo bene – creano mostri e fantasmi «reali», che possiamo immaginare e a cui dare forma: per questo l’iconografia e l’immaginario occidentale dell’inverno sono cosí ricchi di figure spaventose e mostruose. E, a ben guardare, nel periodo invernale, ci danzano intorno, come in un carosello, mostri, fantasmi, folletti e antiche credenze provenienti direttamente dal Medioevo, sotto forma di leggende, gesti, riti, ma, soprattutto, immagini. I canali di diffusione di questo mondo immaginario sono oggi la televisione, internet, ma anche i piú classici cartelloni pubblicitari, gli incartamenti dei pacchetti natalizi
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In alto cartolina inglese con i bambini che trasportano a casa il tradizionale ceppo natalizio. Fine del XIX sec. In basso cartolina natalizia raffigurante alcuni bambini che fabbricano e addobbano un pupazzo di neve. 1901.
e le nostalgiche cartoline (ormai inviate quasi esclusivamente con la posta elettronica). Pur essendo diffusissima, la carta da regalo non ha una lunga storia: sino alla fine dell’Ottocento, infatti, i doni natalizi non venivano obbligatoriamente incartati, ma appesi direttamente all’albero, sistemati ai suoi piedi o disposti a formare una piramide su di un tavolo. Talvolta, come in Scandinavia, venivano letteralmente lanciati in casa da una persona anonima che bussava alla porta: da qui il nome Julklapp in svedese (Jul, Natale e klappa, nel senso di battere). È almeno dall’epoca medievale, dal miracolo di san Nicola conosciuto come «Tre figlie» (le tre ragazze alle quali il santo offre un sacchetto di monete ciascuna per dar loro una dote), che si ritiene che il vero donatore non debba mai svelarsi. La carta da regalo cominciò a essere utilizzata soprattutto per due ragioni: per aumentare la curiosità e la suspense nei bambini e per personalizzare il dono in un’epoca in cui il prodotto/regalo diventava sempre piú commerciale e di massa, nonostante la promessa di unicità. Su questa carta, come sulle cartoline natalizie, ricorrono dicembre
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A sinistra il dispettoso personaggio di Jack Frost, la personificazione dell’inverno, raffigurato in una cartolina natalizia di epoca vittoriana.
diversi temi iconografici che sembrano avere tratti comuni o comuni origini: dai mostri che vengono dall’altro mondo alle bande giovanili armate di palle di neve o strumenti musicali, dai dolciumi al cibo in genere, dai ragazzini a cavallo di pipistrelli alle streghe che cavalcano scope alla rovescia. A ben vedere, ogni elemento che dà forma a queste immagini sembra avere un’origine medievale che si è cristallizzata nel tempo, che è stata «recuperata» negli ultimi due secoli, dopo un lungo periodo di oblio. I soggetti piú diffusi su carte da regalo o cartoline sono quelli vegetali, in particolare gli alberelli piú o meno stilizzati che rinviano a quelli
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di Natale. Che si tratti di una reminiscenza celtica, druidica o luterana, non incuriosisce troppo.
Tronchi e tronchetti
Piú interessanti risultano invece le immagini di tronchi d’albero (come anche di dolci e gelati a forma di «tronchetto») oppure di pupazzi di neve antropomorfi, con naso e arti realizzati con ramoscelli o altri elementi vegetali. Figure che, talvolta, prendono vita, magari levandosi il cappello o salutando i bambini che li osservano. Il tronco sembra essere un residuo del Ceppo di Natale che si usava – e in alcuni casi si usa – bruciare nei Dodici giorni (i giorni «magici»
Qui sopra particolare di una cartolina augurale che riprende il tema della «vecchia», raffigurante un’anziana signora che attizza il fuoco. A sinistra cromolitografia raffigurante due ragazze che lanciano palle di neve a un vecchio curvo e vestito di stracci che si sta allontanando, a simboleggiare l’anno trascorso scacciato dal nuovo che sta arrivando. XIX sec.
da Natale alla Befana) del periodo natalizio e dal quale, vedremo, provengono scintille divinatorie. L’usanza di ardere il ceppo natalizio, quando non era collegata alla pia credenza che servisse ad asciugare le fasce del piccolo Gesú, veniva giustificata con un’altra tradizione,
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costume e società cartoline che voleva invece che i morti, tornati sulla terra, potessero scaldarsi alla sua fiamma. Tali pratiche vengono già testimoniate ai tempi di sant’Agostino (354-430) e Rabano Mauro (784-856), vescovo di Magonza. Inoltre sant’Oddone di Cluny (X secolo) racconta di un certo Vasso che lasciava acceso tutta la notte un focus caragiorum, dal quale si traevano anche previsioni per il futuro. A volte il ceppo poteva anche animarsi, come si vede in alcune cartoline e come si evince dal fatto che ancor oggi, almeno a Siena, resiste il modo di dire «il ceppo m’ha portatho robba», nel senso che è il ceppo stesso che porta i regali natalizi. A Castagneto Carducci, inoltre, i bambini appendono le calze al camino «perké ci kahi ‘l ceppo».
Bambini irrequieti
Un’altra immagine che ricorre nelle cartoline natalizie è quella dei bambini: dai putti alle scatenate bande di fanciulli che litigano a cuscinate o lanciandosi palle di neve. Che il periodo di Natale sia dedicato ai piú piccoli è ben noto. La nascita del bambino divino, la strage di Erode (28 dicembre), la notte dell’Epifania: tutto in questo tempo sembra parlare di loro. Ma l’iconografia che ritrae bambini rivela anche altri significati, mitici e rituali: innanzitutto, una lunga tradizione di studi li associa ai morti che salgono sulla terra dal mondo sotterraneo. Inoltre, il loro baccano allontana i demoni, mentre le loro naturali effervescenze adolescenziali, le loro battaglie piú o meno giocose, incrementano magicamente la vitalità del mondo: sono scaramucce rituali che ritroviamo in ogni momento di passaggio dell’anno astronomico. La loro nascosta e beneaugurante morale è che la vittoria sarà sempre del gruppo che rappresenta il bene, la luce, la fertilità, a discapito dell’altro. Dal momento che questi bambini sono spesso legati ai mondi dell’aldilà, possono
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ben essere disegnati a cavalcioni di animali legati al buio, alla notte e al diavolo, come i pipistrelli. A fare da contraltare ai bambini, sono le figure del vecchio, o della vecchia. Il primo riferimento che viene in mente è al vecchio che passa facendo spazio al nuovo, ma forse modelli iconografici piú antichi perdurano, a cominciare da quello classico di Kronos, il Tempo, dio dell’agricoltura e poi diventato il romano Saturno (da sata, i seminativi). Nel Medioevo questa antica divinità assunse le sembianze di un vecchio e decrepito distruttore che si appoggia a stampelle ma è armato di falce, divora i propri figli e posa il piede sulla clessidra. L’immagine del vecchio o della vecchia erano diffuse anche tra le culture popolari: tra queste, ancora oggi, in alcune zone d’Italia, si usa chiamare «vecchie» le scintille dei ceppi natalizi. La star di questo universo è ovviamente la Befana, il cui nome è un’evidente corruzione del termine Epiphàneia, «manifestazione», ma esiste un nutrito corteo di figure femminili che possiamo distinguere nell’attuale iconografia, anche commerciale, dai tratti a volte «paganeggianti». Sono tutte figlie e eredi di figure molto note nella mitologia medievale: l’Europa centrale conosceva Frau Holda, descritta da Burcardo di Worms nell’XI secolo come colei che vola a cavallo di «alcune bestie» in compagnia dei demoni e, stando a un tardo processo di stregoneria del 1630, bella come una fata se vista di fronte, ma con una schiena ruvida come la corteccia di un albero.
Quando Berta filava...
Simile a lei era Perchta o Bertha, la sorprendentemente longeva protagonista del modo di dire «quando la Berta filava», i cui nomi derivano dal giorno in cui la si ricordava: la «luminosa notte», nell’antico tedesco giperhata naht, in cui apparve la stella cometa che guidava i Magi.
Tali credenze si confondono e si fondono con quelle di altre figure, generose e malefiche, conosciute come bonae mulieres o bonae dominae. Guglielmo d’Alvernia, vescovo di Parigi morto nel 1249, raccontava nel suo De universo di queste «buone donne» che visitavano le case e, trovandovi da mangiare e da bere, elargivano «abbondanza e sazietà». Figure che si riassumono e ritroviadicembre
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Sulle due pagine, da sinistra particolari di cartoline natalizie: una riunione di elfi nella foresta; una raffigurazione del Krampus; Babbo Natale porta i doni a cavallo di un caprone.
rinviano ad altre usanze, anche medievali se Saxo Grammaticus (1150 circa-1220 circa) già riteneva che le loro scintille avessero anche l’indubbio vantaggio di allontanare i demoni. Inoltre quei fuochi accesi, nelle case e all’aperto, sono da ricollegarsi a quella diffusa tecnica chiamata piromanzia, attraverso la quale si poteva conoscere il futuro seguendo il comportamento delle fiamme, o delle scintille. Sulle antiche cartoline, ma anche sulla moderna carta da regalo,
In basso biglietto natalizio raffigurante elfi caratterizzati secondo la tradizione, con barbe bianche e vesti dai lembi appuntiti.
mo ancora in quelle inquietanti vecchine che a volte portano una gerla sul dorso, altre una conocchia per filare tra le mani, altre ancora volano a cavallo di una scopa.
Fuochi e scintille
Altre icone ricorrenti sono il fuoco o le fiamme. Certamente perché il Natale nel nostro emisfero cade d’inverno, ma forse quei fuochi
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costume e società cartoline si incontrano spesso personaggi che sembrano una fusione tra i nani che si usa mettere nei giardini delle villette, gli spiriti dei boschi e altrettanti piccoli Santa Claus. Sono elfi, folletti e la folta schiera di aiutanti di san Nicola, il donatore per eccellenza. Pelosi, cornuti e dal viso sporco di fuliggine, hanno un sacco o una gerla sulle spalle per portar via i bambini «cattivi» e una frusta, dagli scopi poco cortesi. A guardar bene è la stessa gerla che utilizzano san Nicola, Santa Claus e gli altri portatori di doni nell’iconografia antica (o almeno in quella che precede il Santa Claus della Coca-Cola). Queste figure semiferine sono conosciute anche come Rupprich, Klaubauf oppure Zember (Sem-
per in Baviera) nel Tirolo, e Bartel in Stiria o Ruklas nel Meclemburgo. Se il Klaubauf indossa una maschera cornuta, anche altri accompagnatori di Nicola si camuffano da animali, come il bue (Schwarte Ochs, bue nero) o il cervo.
Guai a chi si maschera!
Fin dal IV secolo si ritrovano documenti ufficiali che condannano coloro che si travestono, soprattutto quelli che – scrive Cesario di Arles nel VI secolo – si mascherano da cervi, i «cervulum facientes», o da buoi, cavalli e da altri animali. Alcune tra queste figure sono state nei secoli assimilate al diavolo, come i Krampus – e i vari Teufel, Düvel, Mann-Düvel (diavolo o uomo-diavo-
Nella pagina accanto cartolina natalizia di epoca vittoriana ispirata al tema della giovane ragazza in età da marito, che può essere inteso come una derivazione delle tradizioni legate a san Nicola. In basso particolare di una cartolina augurale allusiva al carattere di socialità delle festività natalizie, raffigurante una signora elegante e sorridente.
lo) delle regioni renane –, sorta di mostri cornuti con una lunga coda e catene o una forca tra le mani. Sull’origine del Krampus, l’abate Laroche, verso la fine dell’Ottocento, riportava una simpatica leggenda a sfondo storico: «Nell’anno 1112 Rupprecht, abate di un monastero di Benedettini a Colonia, aveva cominciato la messa di mezzanotte, quando molti abitanti dei dintorni si assembrarono nel cimitero accanto alla chiesa, intonando dei canti profani, lasciandosi andare alla danza e causando gravi disordini. Invano l’abate fece delle rimostranze, lanciò delle minacce: la danza durò giorno e notte, per un anno intero, senza tregua né riposo. Alla fine, l’arcivescovo di Colonia scomunicò gli autori del disordine. Siccome molti danzatori e danzatrici avevano provato dei crampi alle gambe, a causa dell’esercizio troppo prolungato, si diede, a Colonia e a Vienne il nome di Crampus a Rupprecht». Al di là della leggenda, piú probabile è la derivazione del loro nome dal krampe, l’uncino con il quale queste terribili figure si presuppone agguantino i bambini per portarli via.
Un Nicola infernale
Se a volte esiste una confusione tra san Nicola e i suoi aiutanti, in altre circostanze il santo stesso assume tratti ai limiti dell’umano: è «lo sporco» nella regione di Lucerna in Svizzera o lo Schumtzbartel, «barba sporca», nei paraggi del lago di Costanza, ma può anche essere il vecchio per eccellenza, «il rugoso» nelle province renane, e
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quindi appartenere alla già citata iconografia semiferina. Se i Dodici giorni o il Tempo di Natale costituiscono il Tempus terribile durante il quale le porte dell’aldilà rimangono aperte e le anime dilagano sulla terra con una furia tale da farle definire cacce o masnade selvagge, guidate dal misterioso Hellequin di cui parlano i testi medievali, lo stesso Nicola può a lui sostituirsi, guidando l’altrettanto mitica e pericolosa Klaus-jagen o Klos-jagen. La desantificazione di Nicola, a volte, sembra essere veramente estrema: se nel 1420, un documento proveniente da Basilea paragona l’episcopus puerorum, il prediletto dal santo, al diavolo, conosciamo alcuni luoghi d’Europa dove si esegue un «rito di espulsione di san Nicola», come fosse un vero e proprio «demone dell’inverno». Il buon vescovo, d’altronde, nelle sue camaleontiche variazioni, può assumere i tratti del cattivo Knecht Ruprecht o essere considerato egli stesso il malvagio quando si accompagna a Kris Kringle, Gesú Bambino. Una figura curiosa che accompagna talvolta il santo nei cortei austriaci, è la Niklafrau, una giovane donna sorridente e gentile, vestita di bianco (come santa Lucia in Val Camonica e in Svezia) che s’informa dei lavori manuali eseguiti dalle ragazze e le esorta a essere brave e diligenti.
Zitelle e matrimoni
Una figura ricorrente tra le cartoline natalizie, tanto dolce e gentile quanto incomprensibile, è quella di una signorina benvestita e sorridente. Popolarmente si chiamerebbe «ragazza da marito» o «zitella»,
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termine etimologicamente imparentato a «bambina» e nelle culture popolari collegato anche alle «zite», le scintille prodotte dal ceppo del camino, che possono anche chiamarsi «zide maridade» quando continuano ad ardere per molto tempo. La giovane nubile ed elegante è legata a questo periodo, ma soprattutto a san Nicola, che nel Medioevo ebbe il patronato sulle ragazze da marito. Ancor oggi, per
questa sua «specializzazione», le ragazze lorenesi che vogliono maritarsi vanno, la sera della vigilia della sua festa, nel santuario di Saint-Nicholas-de-Port a camminare sulla «buona pietra». Si tratta di una pietra ovale di marmo rosa che, se toccata in quel giorno, assicurerebbe un matrimonio entro l’anno. San Nicola «donava»
anche bambini nella Valle d’Aspe nei Bassi Pirenei, dove una sporgenza naturale veniva chiamata «roccia di San Nicola» e su di essa le donne andavano a strofinare il ventre nella speranza di ricevere l’agognato figlio.
L’importanza della prole
Questo suo aspetto «matrimoniale» sembra essere il logico sviluppo della tendenza del santo a donare: in una società agropastorale, dove i figli sono un fattore indispensabile, se non altro come forzalavoro, il primo dono di un legame matrimoniale è l’avere una prole: infatti san Nicola, come si cantava nel XV secolo in un inno a lui dedicato, fecundavit hic steriles. Quando si tratta della sfera «erotica», trascendere diventa scontato. Cosí nelle isole sulla costa dei Paesi Bassi, un canto dei marinai chiamato Le ragazze di Sinterklaas parla di ragazze dai facili costumi, mentre espressioni come «andare da San Nicola» e «stare con San Nicola» alludono ad attività sessuali. Anche i marinai di Amsterdam sono arrivati a bollare come «ragazze di san Nicola» le prostitute, memori forse dell’infamia a cui erano destinate le ragazze del miracolo delle Tre figlie. Quelle donne languide che apparivano sulle cartoline natalizie d’altri tempi, spesso con il collo di pelliccia e circondate dall’apotropaico agrifoglio, sembravano voler ricordare a tutti che il Natale non è solo una festa sacra, ma anche un momento ad alto tasso di socialità. Una festa in cui gli uomini e le donne si riuniscono anche per scopi piú umani e profani.
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di Antonio Musarra
ACRI 1291
La caduta degli Stati crociati Il 18 maggio del 1291, a seguito di un assedio rovinoso, Acri, l’opulenta capitale del regno di Gerusalemme, viene presa da un giovane ma ambizioso sultano mamelucco. La sua conquista segna la fine, dopo quasi due secoli, della presenza crociata in Terra Santa Guglielmo di Beaujeu difende la città di Acri (particolare), dipinto di Dominique-Louis Papety. 1845 (vedi l’immagine intera a p. 78).
Dossier
Q «Q
uanto sia stato il mio dolore e la tristezza del mio cuore nella presa di Acri, chiunque di voi facilmente lo può capire da sé stesso: avete sperimentato cose simili. Infatti, fino alle profonde parti d’Oriente, fino a Baldacco [Baghdad] – lí ero allora –, vennero non solo le notizie, ma anche le spoglie dei cristiani. Mentre libri e paramenti erano venduti, bambini e donne erano condotti intorno per la città pubblicamente, a ignominia dei cristiani e per essere venduti a prezzo piú caro, monache e vergini dedite a Dio erano mandate in regalo a re e baroni saraceni; io, dolente e triste, cercavo sollecito qualcuno dei miei fratelli, per vedere se potevo riscattarne qualcuno o recar loro qualche servigio, e mi meravigliavo moltissimo poiché trovavo paramenti, tuniche, libri e breviari, ma non trovavo i fratelli». È il domenicano Riccoldo di Monte di Croce, che al momento dell’assalto finale alla Acri crociata si trovava a Baghdad, a esprimere tutto il proprio sgomento per quanto accaduto. Dopo quasi due secoli, Outremer – vale a dire quel particolare complesso di formazioni statuali sorte sul litorale siro-palestinese a seguito della cosiddetta «prima crociata» – cessava d’esistere. La sua, a ogni modo, era stata una morte annunciata.
San Giovanni d’Acri, Israele. Veduta aerea del centro della città, ripreso dal versante settentrionale.
Il cuore «sacrale»
Nel corso del Duecento, gli Stati latini di Terra Santa erano andati progressivamente perdendo gran parte del proprio splendore d’un tempo. Le guerre di Salah al-Din – il Saladino della tradizione occidentale – avevano insanguinato gli ultimi decenni del secolo precedente e ridotto il regno di Gerusalemme – il cuore «sacrale» di Outremer – a una sottile striscia di terra schiacciata sulla costa, compresa grosso modo fra Tiro e Giaffa. Nulla a che vedere con i confini precedenti, mantenuti sino alla disastrosa battaglia di Hattin del 1187 (vedi «Medioevo» n. 162, luglio 2010), che compren-
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Dossier acri al tempo dei crociati
Una città popolosa e ben munita
Qual era l’aspetto della Acri crociata? Chi vi arrivava dal mare notava innanzitutto la fortezza templare, stagliata all’orizzonte. Dopodiché, lo sguardo s’innalzava a monte, sino a scorgere la chiesa intitolata a sant’Andrea, a cui i pellegrini rivolgevano le prime preghiere di ringraziamento per essere giunti sani e salvi a destinazione. La baia antistante era protetta, a levante, da un lungo frangiflutti, che congiungeva la terraferma a un isolotto sul quale sorgeva la cosiddetta Torre delle Mosche. Il frangiflutti meridionale, piuttosto irregolare, delimitava, invece, l’area del porto interno, chiusa da una catena che dalla sua estremità raggiungeva una torre situata sulla costa. Le navi piú grandi rimanevano all’àncora fuori dal porto. Le galee e le imbarcazioni minori attraccavano, invece, nel porto interno. Qui sorgeva il quartiere della Catena, sede della dogana ma anche luogo di mercato, dalla cui porta ferrea – cosí chiamata perché rinforzata con lastre di ferro – ci si immetteva nel cuore della vita cittadina. Il quartiere della Catena confinava a ovest con quello dei Pisani, che vi si erano insediati negli anni Sessanta del XII secolo, e a nord-ovest con quello dei Genovesi, probabilmente il piú antico, risalendo a una concessione del 1104. Anche il quartiere veneziano vantava una lunga storia, risalendo ai primi decenni del XII secolo, ma si affacciava sul porto esterno, confinando con l’arsenale cittadino. A contraddistinguere questi quartieri era, comunque, la presenza massiccia di mura protettive, torri e porte d’accesso fortificate, che, assieme alla doppia cinta muraria, conferiva al tutto un’immagine marziale; accresciuta, peraltro, dal profilo degli insediamenti degli Ordini militari, in particolare di Ospitalieri e Templari: vere e proprie cittadelle separate dal restante tessuto cittadino. Nei primi decenni del Duecento, Acri conobbe un forte incremento demografico. Verso la fine del secolo arrivò a contare circa 40 000 abitanti, variamente distribuiti tra il nucleo antico e il nuovo sobborgo di Montmusard. Quest’ultimo, a ogni modo, mantenne, sino alla fine del secolo, un carattere semi-rurale; e ciò, a differenza della città vecchia, che conosceva pochi spazi vuoti: uno di questi – forse il piú ampio – era il giardino del monastero di S. Romano, situato nell’angolo nord-orientale delle prime mura. Nel 1291, proprio qui furono collocate alcune imponenti macchine da lancio pisane adibite alla difesa della città.
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Le poderose mura della città di Acri all’ora del tramonto.
devano una parte del Libano meridionale, allargandosi a levante sino a oltrepassare il Giordano. Il Paese soffriva da tempo di parecchi mali cronici, dovuti essenzialmente alla mancanza d’unità interna e all’esistenza di numerose spinte autonomistiche. Rivalità diffuse – tra gli Ordini monasticocavallereschi, tra i cittadini dei Comuni marittimi, inurbati nelle principali località costiere, tra gli stessi baroni oltremarini – ne avevano accresciuto la vulnerabilità. Una situazione inasprita dalla debolezza della monarchia, la quale, per tutto il secolo, aveva avuto un ruolo controverso. Spesso in capo al gentil sesso, e, dunque, a chi fosse stato in grado d’impalmare la regina di turno; ancor piú spesso a sovrani minorenni, bisognosi di reggenza (e vi fu anche il caso d’un reggente che, per la minore età, ebbe bisogno a sua volta d’un reggente), nel corso del secolo, la corona gerosolimitana fu variamente acquisita, contestata, rimpallata, impugnata e perfino venduta, aggravando, di fatto, lo stato di bisogno del regno. Da quando Gerusalemme era caduta, il centro politico, amministrativo e religioso della regione era stato trasferito ad Acri: un microcosmo angusto e vociante, dove
Nella pagina accanto mappa di Acri al momento della conquista elaborata sulla base di un’immagine del genovese Pietro Vesconte contenuta nel Liber secretori fidelium crucis di Marin Sanudo il Vecchio. 1320 circa. Londra, British Library. A destra San Giovanni d’Acri. La cosiddetta Sala dei Cavalieri nella cittadella degli Ospitalieri.
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Dossier
era facile calpestarsi i piedi l’uno con l’altro. Adagiata sul bordo settentrionale del golfo di Haifa, sul limitare d’un’ampia e fertile piana, la città era assurta gradualmente a snodo importante nell’ambito delle vie di traffico che congiungevano le rotte mediterranee alle piste carovaniere di terraferma – e, dunque, alle cosiddette «vie della seta» –, esercitando, inoltre, un importante ruolo di mediazione tra i mercati costantinopolitani e pontici e l’Egitto. Non a caso, ospitava operatori commerciali di varia provenienza, molti dei quali, come i Genovesi, i Veneziani, i Pisani, gli Anconetani o i Marsigliesi, potevano giovarsi della presenza organizzata d’un buon numero di propri concittadini, inurbati da tempo nel Levante. Si trattava, senza dubbio, d’un mercato vivace. Zucchero, spezie, resine, manufatti in vetro e metallo, gioiel-
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li e schiavi venivano scambiati con carichi di grano, vino e frutta secca, tessuti occidentali – assai richiesti dalla raffinata aristocrazia d’Outremer –, ma anche ferro e legname, destinati prevalentemente all’esportazione in Egitto: merci che il papato vedeva con sospetto, a causa del loro possibile utilizzo bellico, e che pertanto furono ripetutamente oggetto di pubblici deveta. La presenza d’interessi convergenti, a ogni modo, era motivo continuo di frizioni, in particolare tra le litigiose comunità italiane, le quali, dopo una serie di scaramucce feroci che costellarono buona parte della prima metà del Duecento, giunsero presto allo scontro frontale. Nel 1258, al termine della cosiddetta «guerra di San Saba», Pisani e Veneziani, sostenuti dai Templari e da gran parte della nobiltà del regno, riuscirono a caccia-
re i Genovesi dal proprio quartiere, dando avvio a un quarantennio di lotte furibonde, condotte prevalentemente sul mare, che contribuirono a modificare fortemente i rapporti di forza nel Mediterraneo.
Geopolitica medievale
Ma qual era il ruolo di Acri nel variegato contesto geopolitico orientale? Una secolare deformazione prospettica ci ha da tempo abituato a guardare alla capitale del regno di Gerusalemme – ma, si potrebbe dire, all’intero Outremer – a partire da un’ottica prettamente occidentale. In realtà, gli Stati crociati rappresentavano soltanto un tassello del complesso mondo vicino-orientale, che vedeva come protagoniste potenze di ben altro peso: l’Egitto, strappato agli Ayyubidi nel 1250 dalla casta militare mamelucca; i Mongoli dell’Ilkhanato di Persia, dicembre
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Nella pagina accanto la città di Acri indicata nella mappa della Terra Santa disegnata da Matthew Paris (Matteo di Parigi) per i Chronica Maiora. 1250 circa. Cambridge, Corpus Christi College. A destra particolare di una miniatura raffigurante le vicissitudini di un mercante spagnolo partito alla volta di Acri, una raccolta delle Cantigas de Santa Maria composte dal re Alfonso X, detto il Saggio. XIII sec. El Escorial (Madrid), Biblioteca di S. Lorenzo.
Pellegrini in Terra Santa
Un surrogato di Gerusalemme? Le naves dei mercanti occidentali erano abbastanza ampie da accogliere a bordo un certo numero di viaggiatori, crociati e pellegrini, sovente stipati assieme alle mercanzie sui ponti delle imbarcazioni. All’epoca degli scontri che avevano interessato gli ultimi decenni del XII secolo, il pellegrinaggio in Terra Santa aveva subito qualche contraccolpo, senza conoscere, tuttavia, alcun arresto. Nel corso del Duecento, anzi, aveva conosciuto una ripresa, favorita dagli stessi padroni musulmani dei
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Luoghi Santi, che ricavavano ampi introiti grazie alla riscossione dei diritti d’ingresso. Tuttavia, tale pratica andò incontro a mutamenti sensibili. La stessa Acri divenne ben presto un importante centro religioso. I Pardouns de Acre, un testo risalente alla fine degli anni Cinquanta del Duecento, elencano ben 39 chiese presso le quali lucrare indulgenze: un numero tale da indurre qualche studioso a chiedersi se i vertici della città non aspirassero sostanzialmente a farne una sorta di surrogato di Gerusalemme.
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Dossier i mamelucchi
Una dinastia di schiavi combattenti In origine, il termine mamluk significava semplicemente «schiavo». Ma, alla metà del XIII secolo, aveva ormai assunto una nuova connotazione, indicando lo schiavo militare affrancato, il quale, solitamente, manteneva un forte legame col proprio antico padrone, a cui forniva un servizio scevro da interessi di sorta e, per questo, ritenuto piú affidabile. Si trattava d’una pratica antica, risalente quantomeno al periodo omayyade (VII-VIII secolo), che ebbe un futuro importante sotto gli Ottomani con la formazione del corpo dei giannizzeri. Gli schiavi destinati al servizio militare erano scelti poco piú che bambini, in modo da conferire loro una solida educazione e un forte spirito di corpo. I piú ricercati avevano la carnagione chiara – Abissini e Indiani, dalla pelle scura, servivano generalmente come eunuchi –; meglio se di bell’aspetto, sinonimo di benessere e di forza fisica. I Turchi e i
Cumani erano molto apprezzati, vista la loro destrezza nel combattimento a cavallo; tuttavia, non venivano disdegnati Slavi, Russi, Circassi, Georgiani, Greci e perfino Mongoli. Non si trattava, a ogni modo, di musulmani, giacché l’Islam vietava di trarre in schiavitú i credenti. Il ricorso a simili milizie, tuttavia, permetteva d’aggirare il divieto di combattere contro i propri correligionari.
Un principe siede fra due angeli, mentre ai suoi fianchi vi sono i suoi cortigiani, alcuni musicisti e, piú in basso, un acrobata. La scena orna il frontespizio di un’edizione delle Maqamat di al-Hariri realizzata al Cairo e considerata fra gli esempi migliori della miniatura mamelucca. 1334. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.
assestatisi tra Maragheh e Tabriz, nell’odierno Iran nord-occidentale. Ben presto, gli interessi di entrambi andarono convogliandosi verso la costa siro-palestinese. Perché? Per i Mamelucchi, il territorio siro-palestinese fungeva essenzialmente da «Stato-cuscinetto», funzionale ad attutire l’avanzata dei popoli delle steppe; per gli Ilkhanidi, invece, oltre a costituire un potenziale bacino di raccolta di tributi, non rappresentava altro che un comodo corridoio attraverso il quale raggiungere il Nilo e le sue
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ricchezze: un’impresa ventilata, con tutta probabilità, già dal fondatore della dinastia, Hülegü, fratello del gran Qa’an Möngke, e mai realizzata. Tutto ciò lascia intendere come, nella seconda metà del Duecento, Outremer si trovasse sempre piú al
centro d’un particolarissimo Great Game, partecipato da attori diversi, interessati per un motivo o per l’altro a mantenerne il controllo. Ancora oggi, gli scontri tra Mongoli e Mamelucchi che interessarono gli ultimi decenni del Duecento dicembre
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PRINCIPALI OPERAZIONI MILITARI
Tigri
Spedizioni franche Spedizioni mamelucche Spedizioni mongole Battaglie
Edessa
Mara Sis
Ambasceria franca A alla al corte dei Mongoli
Adana
Tarso Mersin
Antiochia 1265
CIPRO
1271 Limassol
o 127 1
Mar Mediterraneo
SELGIUCHIDE
Hama Margat 1285 Crac des Chevaliers 1271
Tripoli 1289 Beirut Be
71 Mag g i o 1 2
Akrotiri
Saone
Tortosa Tort
Famagosta
SULTANATO
SSidone Dicembre 1271 Tiro T
b re 1 271
Seleucia
Latakia 1287
L’assetto geopolitico dei territori del Vicino Oriente all’epoca dell’assedio di Acri, con l’indicazione delle campagne militari che precedettero la presa della città.
1271 Aleppo
N o ve m
Alanya
Alessandretta
Damasco
gn
Acri Acri
Giu
1291
Cesarea 1265
Ascalona
Qaqun 1271 Gerusalemme Betlemme
Gaza Damietta
Alessandria
Kerak
CALIFFATO FATIMIDA (DINASITA AYYUBIDE DOPO IL 1171)
GLI STATI CROCIATI ALLA VIGILIA DELLA CADUTA
Cairo
lfo
Go di z
Sue
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Golfo di A qaba
Aqaba
Cilicia Principato di Antiochia Contea di Tripoli Regno di Gerusalemme
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Dossier conservano in gran parte il carattere dell’epica. I fatti sono noti, e qui li riepiloghiamo in maniera succinta. Verso la fine del 1259, Hülegü penetrò nella Siria settentrionale, al comando d’un esercito mongolo rimpolpato da elementi turchi, armeni e georgiani. Aleppo cadde immediatamente. Avuta notizia della morte del gran Qa’an, tornò, però, sui propri passi, lasciando nella regione un ampio contingente sotto il comando d’un cristiano nestoriano di nome Kitbugha. Questi si volse immediatamente
contro Damasco, conquistata nella primavera dell’anno successivo. La caduta della capitale siriana, formalmente inquadrata nel dominio mamelucco, benché in mano a una dinastia ayyubide, destò ampia preoccupazione. Il sultano Qutuz si mise immediatamente in marcia, inviando in avanscoperta un agguerrito contingente al comando d’un certo Baybars alBunduqdari, che ebbe buon gioco nell’attirare i Mongoli nei pressi di ‘Ayn Jalut – «le sorgenti di Golia» –, a sud-est di Acri: un luogo
dotato di lievi pendenze, qualche bosco, un’ampia pianura e molta acqua, dove il sultano era in attesa col resto degli effettivi. Il 3 settembre 1260, i due eserciti – entrambi valutati tra i 10 000 e i 12 000 uomini – giunsero allo scontro. Per diverso tempo, le due parti parvero equivalersi. E non poteva essere altrimenti: la tecnica di combattimento, basata essenzialmente sull’utilizzo di arcieri a cavallo, era la stessa, giacché la maggior parte dei combattenti proveniva dalle steppe euro-asiatiche. Dopo molte
La caduta di Safed
Un fiume di sangue Dotato di due cinte difensive e d’un sistema di fossati scavati nella roccia, il castello di Safed, in Galilea, possedeva torri altissime, alcune delle quali sfioravano probabilmente i 50 m d’altezza. Baybars ne attaccò ripetutamente le mura, senza ottenere grossi risultati. Dopo una ventina di giorni, tuttavia, vedendosi senza via d’uscita, gli assediati – oltre 2000 persone,
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secondo il Minore Fidenzio da Padova, che poté conferire col maestro templare, Thomas Bérard – decisero di chiedere al sultano un lasciapassare in cambio della resa. Tuttavia, non appena i malcapitati uscirono dalla fortezza, il 22 luglio 1266, Baybars li fece arrestare. A quanto pare, 500 di loro – tra cui due (o quattro) Frati Minori, previamente scorticati e fustigati sulle carni nude –, furono decapitati sulla cima d’una collina per aver rifiutato d’abiurare la fede cristiana. Il loro sangue – racconta Fidenzio – scendeva a valle come un fiume.
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In alto il leone passante, emblema adottato dal sultano Baybars I dopo il 1270, effigiato su un bassorilievo decorativo. Egitto. Nella pagina accanto Safed in una incisione ottocentesca. 1837.
ore, a ogni modo, Qutuz ebbe la meglio. Kitbugha, fatto prigioniero, fu portato davanti al sultano e decapitato sul posto. Il resto dell’armata mongola fu disperso. Si trattò della prima, grande vittoria mamelucca, che guadagnò ai nuovi dominatori dell’Egitto la fama di forti guerrieri, campioni dell’Islam e del jihad.
Nel segno del leone
Le cronache assegnano la vittoria di ‘Ayn Jalut al coraggio e all’intraprendenza di Baybars, il quale, di lí a poco, sfruttando le divisioni inter-
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ne alla giovane potenza mamelucca, riuscí a farsi eleggere sultano. Scuro di pelle, dagli occhi azzurri, sfregiati da una macchia bianca – ciò che ne aveva diminuito il prezzo al momento dell’acquisto nel mercato degli schiavi di Aleppo –, dalla corporatura robusta ma dalla statura modesta, Baybars incuteva timore e rispetto nei propri interlocutori. Una volta salito al potere, si dedicò immediatamente al rafforzamento dell’esercito. Fece in modo, inoltre, che il suo nome fosse recitato nel sermone del Venerdí e or-
dinò il conio di nuove monete che ne riportassero l’effigie: un leone, con cui sarebbe passato alla storia. Per far fronte alla minaccia mongola, egli doveva potersi muovere liberamente tra i propri domini siro-egiziani. Gli Stati crociati rappresentavano un problema, e, tra di essi, soprattutto il principato di Antiochia, da qualche tempo tributario dei Mongoli. Approfittando dell’assenza d’un sovrano residente – la corona gerosolimitana era allora in mano al giovanissimo Corradino di Svevia –, Baybars iniziò,
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Dossier il crac des chevaliers
Come una città Situata a metà strada tra Aleppo e Damasco, a difesa del passo di Homs, dal quale si aveva un facile accesso alla valle della Beqaa, il Crac des Chevaliers costituisce uno dei principali esempi d’architettura militare crociata. Gli Ospitalieri vi si erano insediati nel 1142. Nel corso dei decenni, la struttura era stata cinta da tre mura concentriche e da un fossato e rinforzata da torrioni circolari. Possedeva molti ambienti, parte dei quali adibiti alla preghiera. Sale e magazzini, dotati di frantoi, torchi, forni e cucine, permettevano d’ospitare fino a 2000 persone per lunghi periodi. Il rifornimento idrico era garantito da una cisterna lunga una settantina di metri e da altre cisterne minori, collegate da un acquedotto interno. La sua resa, nella primavera del 1271, privò la contea di Tripoli della sua difesa principale.
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dunque, a giocare con gli Ifranj – i «Franchi», i Latini d’Outremer – come il gatto con il topo, privandoli di alcuni capisaldi marittimi e delle piú importanti fortezze dell’interno, al fine di stringere Acri in una morsa. Dopo aver conquistato Arsuf e Cesarea, nel 1266 egli sferrò, infatti, un portentoso attacco contro la roccaforte templare di Safed, la cui conquista avrebbe permesso alle sue truppe d’accedere agevolmente al litorale acritano (vedi box a p. 72). Quindi, lanciò un proprio contingente, al comando del signore di Hama e d’un giovane condottiero mamelucco di nome Qalawun, contro il regno di Cilicia, anch’esso tributario dei Mongoli, devastando Mamistra, Adana, Tarso, Laiazzo e la capitale, Sis. Nel marzo del 1268, si volse, poi, contro Antiochia, abbandonata in fretta e furia dal suo legittimo sovrano, Boemondo VI. La sua caduta, il 20 maggio, fu accompagnata da una strage: i morti
furono circa 17 000; i prigionieri, diverse migliaia; il bottino fu tale da permettere al sultano d’edificare una nuova moschea al Cairo. Dopo centosettant’anni, dunque, il principato antiocheno cessava d’esistere. Del suo territorio, soltanto la contea di Tripoli rimaneva in piedi, ma nessuno poteva dire per quanto. I Franchi tentarono una risposta, ancorché debole e inappropriata. Verso la fine dell’anno, il reggente, Ugo di Antiochia-Lusignano, inviò in Galilea una vasta forza, composta da Templari, Ospitalieri, Teutonici e da alcuni uomini del reggimento francese di stanza ad Acri dai tempi della crociata di Luigi IX, forse con l’obiettivo di riprendere Safed. L’esercito cosí composto, tuttavia, subí una sonora sconfitta, convincendo ulteriormente il sultano della necessità di proseguire nella propria opera distruttiva. Nel 1271, la sua furia si abbatté sul Crac des Chevaliers, e cioè sul piú
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importante e imponente fortilizio franco, in mano ai cavalieri Ospitalieri, che rappresentava la principale difesa della contea di Tripoli. Il suo assedio, iniziato tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, rallentato dalle forti piogge primaverili, durò oltre un mese. Ben presto, gli assediati chiesero una resa, prontamente accordata. La chiesa ospitaliera fu tramutata in moschea; un’iscrizione, impreziosita da due leoni ruggenti, fu apposta a bella vista sulla torre di sud-ovest della cinta esterna. Per Baybars si trattò d’una grande conquista. Essa, tuttavia, fu anche l’ultima. Negli anni successivi, egli si dedicò al rafforzamento dei propri confini e all’eliminazione di alcune minacce interne. Morí nel luglio del 1277, a Damasco, dopo aver bevuto del qumiz, una bevanda alcolica a base di latte fermentato di giumenta, forse avvelenato da qualcuno interno alla sua cerchia. La morte di Baybars fu seguita
da un periodo di torbidi, dai quali emerse l’emiro delle truppe siriane, Qalawun, un turco cumano (appartenente cioè alla popolazione turca dei Qipchaq che, emigrata dall’Asia Centrale, aveva occupato i territori a nord del Caspio e del Mar Nero, n.d.r.), il cui nome non voleva dire altro che «oca».
Forte e di bell’aspetto
Al pari di Baybars, questi lasciò un segno tra i contemporanei. La sua costituzione fisica e il suo carattere suscitavano ammirazione: le spalle larghe, gli occhi «stretti» (probabilmente «a mandorla») e la pelle, giudicata «piú luminosa dei fiori», gli conferivano un aspetto imponente e gradevole al contempo. Era stato acquistato per un prezzo notevole: 1000 dananir aurei, della qual cosa si sarebbe sempre vantato, adottando il soprannome di al-Alfi, «mille monete»; e ciò forse per sottolineare la differenza con il prezzo d’acquisto
di Baybars: soltanto 40 dananir. Salito al potere nel 1279, il nuovo sultano si trovò immediatamente alle prese con i Mongoli, i quali, peraltro, iniziavano proprio allora ad abbozzare una strategia di collegamento col mondo occidentale che avrebbe accompagnato gli ultimi anni di vita d’Outremer. Il 29 ottobre del 1281, nei pressi di Homs, i Mamelucchi sbaragliarono un forte contingente mongolo, dimostrando nuovamente la propria superiorità. Ai Franchi non restava che scendere a patti. Il 3 giugno del 1283, Qalawun strinse una tregua di dieci anni, dieci mesi, dieci giorni e dieci ore – un sistema studiato per armonizzare il calendario lunare, seguito nel mondo musulmano, con quello solare – con le autorità di Acri, Sidone e Chastel Pelerin. L’accordo, tuttavia, escludeva diverse località, tra cui Tiro, Beirut, Tripoli e Margat, nei confronti delle quali Qalawun si trovò ad avere
Aleppo, Homs. Una panoramica del Crac des Chevaliers, la fortezza musulmana, entrata in possesso degli Ospitalieri, che costituiva la principale difesa della contea di Tripoli. XII-XIII sec. La foto è stata scattata prima dello scoppio della guerra civile che dal 2011 sta dilaniando la Siria. Purtroppo, si ignorano quali siano le condizioni attuali dal complesso.
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Dossier mano libera. E la sua fu una mano pesante: Margat cadde, infatti, nel 1285, seguita da Meraclea e, due anni dopo, da Latakia. Nel 1289, invece, fu la volta di Tripoli, assediata duramente per quarantasette giorni, il cui crollo destò finalmente i timori dell’intero Occidente, mostratosi sino ad allora piuttosto noncurante nei confronti della situazione.
L’ultima crociata
Il nuovo papa, Niccolò IV – il Minore Girolamo d’Ascoli –, eletto nel febbraio del 1288, dovette affrontare una situazione nient’affatto facile. La guerra del Vespro, che si trascinava ormai da circa sei anni, aveva drenato risorse considerevoli, parte delle quali destinate originariamente alla Terra Santa. Per tamponare la situazione, egli ordinò di predicare la crociata lungo l’Adriatico centrosettentrionale; una mossa volta a ottenere l’adesione popolare, e probabilmente anche quella di Venezia, benché i rapporti commerciali tra quest’ultima e Alessandria d’Egitto fossero ben noti. Il governo ducale, a ogni modo, accondiscese, fornendo una ventina di navi, anche se a spese del papato, che imbarcarono tra i 1500 e i 3500 crucesignati, la maggior parte dei quali proveniente, secondo un cronista bolognese, dall’Italia centro-settentrionale: «de Lombardia, de Romagna, della Marcha
Qui sopra ritratto di papa Niccolò IV, olio su tela attribuito a Giuseppe Franchi. 1600-1624. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.
Le fonti
Una cronaca «in presa diretta» Tra le fonti che trattano della caduta di Acri, è di grande importanza la testimonianza del Templare di Tiro (che, in realtà, non era un Templare, ma il segretario del maestro del Tempio Guillaume de Beaujeu; comunque un uomo ben addentro ai fatti d’Outremer). La sua Cronaca fornisce – si può dire, in presa diretta – un resoconto degli ultimi decenni di vita degli Stati crociati, oltre a un’accurata descrizione dell’assedio, raffrontabile per molti versi all’Excidium Aconis, opera d’un anonimo, basata verosimilmente su una testimonianza oculare, e alle numerose cronache arabe, alcune delle quali, come quelle di Baybars al-Mansuri e Abu al-Fida’, redatte da persone presenti sul campo di battaglia.
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d’Anchona e della Marcha Trivisana e de Toscana e de Bologna e de tuta Italia». Il 5 gennaio del 1290, a ogni modo, il papa emanò un bando generale di crociata, rivolgendosi, altresí, ai sovrani di Francia e Inghilterra, sospinto probabilmente dalla presenza presso la Curia d’una legazione dell’ilkhan Argun, inteso a portare a compimento la piú volte auspicata alleanza contro il comune nemico mamelucco. Inutile dire che la risposta agli appelli papali non corrispose alle aspettative. Filippo IV di Francia si dichiarò pronto a partire, ma non prima del 1293, seguito da un riluttante Edoardo I d’Inghilterra, nonostante l’ardore crociato che lo aveva caratterizzato in età giovanile. Il progetto d’una crociata generale, tuttavia, era destinato a cadere nel vuoto. dicembre
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A sinistra Étampes (Francia), Palazzo di Giustizia (già Reale). Particolare di un affresco che, secondo l’interpretazione piú diffusa, ritrae il re Filippo di Francia,
Alleanze pericolose
Meglio collaborare che combattere A spingere il nuovo sovrano d’Aragona, Alfonso III, a ricercare un alleato impensabile per l’Occidente fu verosimilmente il desiderio di trovare un valido aiuto nella contesa in corso tra Angioini e Aragonesi, divenuta ormai di portata mediterranea. Tra il maggio 1290 e il febbraio 1291, egli strinse un’alleanza difensiva col sultano egiziano inaugurando una lunga collaborazione tra le parti. Allo stesso modo, anche Genova scelse di percorrere la via piú semplice per proseguire nei propri traffici, concludendo, nel 1290, un trattato simile con i Mamelucchi, dal cui testo, giuntoci sia nella sua versione latina, sia in quella araba, si può evincere che tali rapporti si giocassero soprattutto nell’ambito del commercio di schiavi. Stando cosí le cose, non stupisce che gli appelli per una nuova crociata cadessero sostanzialmente nel vuoto.
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detto il Bello. XIII sec. In basso ritratto di re Alfonso III d’Aragona, detto il Liberale, tempera su tavola di Jaume Mateu. 1427. Barcellona, Museu Nacional d’Art de Catalunya.
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al-ashraf khalil
Un uomo d’azione, coraggioso e senza scrupoli Non molto è noto del conquistatore di Acri, se non ch’egli possedeva un temperamento sanguigno e un’ambizione smisurata. Non a caso, alcuni commentatori lo accusarono di avere assassinato il fratello maggiore in modo da succedere al padre, Qalawun. A quanto pare, questi avrebbe voluto mantenere il potere sino alla nomina d’un altro figlio, anche se è indubbio che al-Ashraf sia stato scelto da Qalawun per proseguire la campagna contro Acri. La morte di quest’ultimo, a ogni modo, accelerò gli eventi. Il giovane sultano, allora ventisettenne, riuscí a destreggiarsi abilmente nei meandri della politica cairota attraverso una serie di confische, imprigionamenti ed esecuzioni capitali, cosí da avere ben presto carta bianca per portare a termine i progetti paterni; ciò che gli avrebbe assicurato fama e potere in tutto il Paese. Al-Ashraf morí assassinato nel 1293. Nella pagina accanto Guillaume de Beaujeu difende la città di Acri, olio su tela di Dominique-Louis Papety. 1845. Versailles, Musée National des Châteaux de Versailles et du Trianon.
La flotta veneziana salpò dalla Laguna al principio del 1290. L’uomo di Niccolò era il patriarca di Gerusalemme, Nicola di Hanapes, che rivestiva al contempo il ruolo di vescovo di Acri e di legato transmarino. Questi, tuttavia, non riuscí a evitare che alcuni crucesignati compissero azioni sconsiderate: tra l’aprile e l’agosto successivo si verificarono, infatti, una serie d’incidenti che fornirono a Qalawun il pretesto per procedere all’assedio. Secondo la Cronaca del Templare di Tiro, redatta da un anonimo che visse quegli eventi in prima persona, «mentre questa gente si trovava ad Acri, la tregua che il re aveva fatto con il sultano reggeva bene tra le due parti, e i poveri contadini saraceni venivano a Acri e portavano a vendere i loro beni, come erano abituati a fare. Cosí accadde un giorno, a opera del nemico d’inferno, […] che questi crociati, che erano venuti per fare del bene e per la loro anima in soccorso della città di Acri, contribuirono alla sua distruzione, perché fecero un giorno un’incursione nella regione di Acri e pas-
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sarono a fil di spada tutti i poveri contadini che portavano a vendere a Acri i loro beni e frumento e altre cose, che erano saraceni dei casali del circondario di Acri, e uccisero anche molti siriani che avevano la barba ed erano della religione di Grecia, che per le loro barbe li uccisero scambiandoli per saraceni, la qual cosa fu pessima, e fu il motivo per cui Acri fu presa dai Saraceni, come sentirete».
Morte improvvisa
La tregua in vigore dal 1283, dunque, risultava violata. Dopo aver chiesto soddisfazione ai Franchi, Qalawun diede inizio ai preparativi per la campagna, inviando alcuni emiri a presidiare la rete viaria che circondava Acri, ordinando d’accumulare provviste lungo il tragitto e facendo approntare numerose macchine d’assedio. Verso la fine di ottobre del 1290, lasciò, dunque, la cittadella del Cairo, probabilmente per raggiungere Damasco, con l’intenzione di passarvi l’inverno in attesa che si completassero gli armamenti. Proprio allora, tuttavia, un evento inaspettato giunse a scombinare i piani. Colpito probabilmente da dissenteria, il sultano spirò il 9 o il 10 novembre successivo. L’evento fu salutato felicemente ad Acri, suscitando false illusioni:
il nuovo sultano, il secondogenito di Qalawun, al-Ashraf Khalil (vedi box in questa pagina), decise, infatti, di proseguirne l’opera, rispedendo a mani vuote una delegazione acritana recante un accorato appello alla pace. La campagna venne rimandata alla primavera successiva. Partito dal Cairo al principio di marzo, al-Ashraf giunse in vista di Acri il 5 aprile del 1291, un giovedí, accampandosi nei pressi del Tall al-Fukhkhar, di fronte alle mura orientali (là dove, nel 1799, anche Napoleone avrebbe stabilito il proprio quartier generale). Il vociare degli uomini, il rumore degli zoccoli, il muggito dei buoi, il rombo dei tamburi, il frastuono delle armature e delle macchine d’assedio: tutto ciò dovette impressionare gli assediati, accalcati sulle mura con l’animo pesante. Non a caso, qualcuno pensò bene di fuggire via mare.
La tattica del sultano
Al-Ashraf tentò immediatamente d’individuare i punti deboli del sistema difensivo. Un attacco nei pressi del mare sarebbe stato vanificato dalle imbarcazioni cristiane, alcune delle quali adattate per accogliere pesanti catapulte; d’altro canto, provare a penetrare dalla parte del quartiere di Montmusard avrebbe posto i propri uomini di fronte alla necessità di superare il fossato delle antiche mura, che separava il sobborgo dalla città vecchia. Egli posizionò, dunque, le sue truppe migliori e le sue macchine d’assedio piú imponenti nel settore centro-orientale, preoccupandosi, tuttavia, di circondare l’intero circuito murario. Dal canto loro, i Franchi suddivisero le proprie forze in quattro parti: il muro che circondava Montmusard era difeso dai Templari, guidati dai Guillaume de Beaujeu, coadiuvati dai cavalieri di San Lazzaro e, probabilmente, da una parte dei crucesignati italiani; le fortificazioni orientali del sobborgo, che aveva-
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Dossier no il proprio fulcro nella Porta di Sant’Antonio, furono assegnate agli Ospitalieri, al comando di Jean de Villiers, sostenuti dai cavalieri dell’Ordine di San Tommaso e dai Veneziani; il settore compreso tra l’incrocio delle mura settentrionali di Montmusard con quelle della città vecchia era difeso, invece, dai cavalieri teutonici, al comando del loro nuovo maestro, Konrad von Feuchtwangen (pare che il precedente avesse abbandonato la Terra Santa in fretta e furia), affiancati, alla loro destra, dalle truppe reali, guidate da Amalrico di Tiro, fratello
Sulle due pagine veduta a volo d’uccello della città di Acri con la disposizione e i movimenti delle forze in campo durante l’assedio. In basso ricostruzione di una catapulta di fattura turca.
ars bellica
Le macchine d’assedio Al-Ashraf disponeva di quattro enormi catapulte, collocate in altrettanti punti strategici, e di oltre 70 manganelle (catapulte di fattura piú semplice) di varia grandezza. Secondo il cronista al-Yunini, 15 di esse potevano lanciare proiettili del peso di 45 kg, se non piú. L’esercito mamelucco faceva anche uso delle micidiali qara-bugha, descritte dal Templare come «piccole macchine da guerra turche, con cui si tira a mano, e tiravano spesso e facevano piú danni agli uomini delle grandi macchine». Anche i Franchi disponevano di macchine d’assedio, montate sia nei pochi spazi aperti all’interno delle prime mura – quelle pisane si trovavano nell’angolo nord-orientale, presso il giardino del monastero di S. Romano –, sia su alcune imbarcazioni ancorate nel porto o collocate lungo il litorale, di fronte agli accampamenti nemici.
L’assedio di Acri
Le forze in campo È difficile stimare il numero degli effettivi impegnati nell’assedio di Acri. Secondo il Templare di Tiro, il sultano poteva disporre di circa 70 000 cavalieri e di oltre 150 000 fanti, compresi alcuni reparti aggiuntivi provenienti dalla Nubia, da poco sottomessa (non senza gravi sforzi), e su diversi contingenti siriani: cifre probabilmente esagerate, ma comunque indicative di quello che doveva apparire come un esercito enorme; tanto piú se paragonate ai circa 12-14 000 difensori di Acri, tra i quali potevano contarsi non piú di 700-800 cavalieri, per la maggior parte membri degli Ordini militari. Si trattava, senza dubbio, del piú grande esercito mai messo in campo dalla potenza mamelucca, superiore alle armate di Baybars e di Qalawun, al quale i Franchi risposero come poterono, accumulando vettovaglie, armi e munizioni, equipaggiandosi con macchine da guerra e procedendo ad alcuni lavori d’emergenza. A destra miniatura raffigurante un cavaliere mamelucco, dal Nihayat al-su’l, un trattato di cavalleria e arte della guerra. Siria o Egitto, 1371. Londra, British Library.
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Movimenti dei Mamelucchi Posizioni dei Mamelucchi Accampamento Localizzazione presunta delle principali batterie di artiglieria dei Mamelucchi Movimenti dei Crociati Posizioni dei Crociati Localizzazione presunta delle batterie di artiglieria dei Crociati
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LEGENDA 1. Arrivo dall’Egitto del sultano al-Ashraf e del grosso delle armate mamelucche (5 aprile). 2. Quartier generale di al-Ashraf. 3-4. I Mamelucchi di Siria prendono posizione (5 aprile) e si schierano davanti alle fortificazioni orientali e settentrionali di Montmusard. 5-6. I Mamelucchi d’Egitto prendono posizione (5 aprile) e si schierano dalla baia di Acri fino alla congiunzione con le fortificazioni di Montmusard. 7. Il contingente di Baybars si posiziona davanti all’angolo formato dall’incontro fra le mura settentrionali e orientali di Acri. 8. Le truppe del governatore ayyubide di Hama, al-Malik al-Muzaffar, si schierano alla destra dell’armata mamelucca. 9. Quartier generale di al-Muzaffar. 10. Posizione dei Templari lungo i bastioni settentrionali di Montmusard. 11. Posizione degli Ospitalieri sui bastioni orientali di Montmusard e, forse, lungo una parte delle mura settentrionali di Acri.
21. La manganella detta Furiosa, 12. Probabile schieramento dei Teutonici, puntata contro i Templari. accanto alle truppe di Enrico II (forse alla 22. Un’altra grande manganella, sua sinistra). puntata contro gli Ospitalieri. 13. Le truppe del governatore di Cipro e 23. Macchina semovente piazzata davanti del regno di Gerusalemme, sotto la guida di alla Torre Maledetta, probabilmente per Amalrico (fratello di Enrico II), si schierano a proteggere l’operato dei genieri. difesa del punto piú vulnerabile del sistema difensivo: l’angolo in cui sorge la Torre del Re 24. Grandi navi mercantili si posero alla fonda all’esterno della baia, affidando a e probabilmente il barbacane di Ugo II. imbarcazioni piú piccole il trasbordo delle 14. Crociati francesi agli ordini di Jean derrate e degli uomini. de Grailly. 25. Varie navi crociate attaccarono le 15. Crociati inglesi agli ordini di Ottone truppe di Hama sul fianco destro delle linee di Grandson. mamelucche: una di esse era dotata di una 16. Truppe veneziane o milizie comunali manganella, mentre le altre imbarcavano (che forse comprendono i crociati giunti arcieri e truppe che sbarcarono e dall’Italia settentrionale nel 1290). attaccarono il 13 o il 14 aprile; i 17. Truppe pisane o milizie comunali. legni furono poi dispersi da 18. Milizia urbana di Acri. una tempesta. 19. In un primo tempo, i difensori non chiusero le porte, per compiere sortite con le quali ostacolare la costruzione delle batterie mamelucche (dal 5 al 10 o 11 aprile). 3 20. La manganella detta Vittoriosa, 5 Torre puntata contro i Pisani. Maledetta 7 Torre del Re e Barbacane 23 4 II di Ugo Torre degli Inglesi
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Porta di S. Antonio
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Castello reale
Fortezza degli Ospitalieri
Torre delle Mosche Torre del Molo occidentale
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Castello dei Templari
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Dossier di Enrico II di Antiochia-Lusignano, re di Cipro e di Gerusalemme; infine, il settore sud-orientale era difeso dal reggimento francese e da alcune truppe inglesi, al comando di due savoiardi: Jean de Grailly e Ottone di Grandson, affiancati dai Pisani, stanziati nella zona di San Romano.
L’assedio
Per i primi sette/otto giorni, nel corso dei quali – secondo alcuni testimoni oculari – le porte della città rimasero aperte, si verificarono diverse scaramucce. Si trattava, soprattutto, di studiare l’avversario, di comprenderne le forze e i punti deboli e d’intralciare, per quanto possibile, la costruzione delle macchine d’assedio. Tra l’11 e il 12 aprile ebbe inizio una fitta sassaiola, diretta contro le principali guardie cittadine; al contempo, le squadre di genieri e scavatori mamelucchi iniziarono ad aprire alcune gallerie, con lo scopo di raggiungere le mura e le torri. Si trattava d’una tecnica relativamente nuova per gli eserciti occidentali, che si rivelò decisiva per il successo dell’assedio: genieri e scavatori realizzavano una camera sotterranea al di sotto della fortificazione che s’intendeva far crollare, riempendola di legna, rami secchi e pece, a cui veniva dato fuoco; il calore intaccava le fondamenta, e, se il lavoro era stato eseguito a regola d’arte, il crollo sopraggiungeva in breve tempo. Una città fortificata come Acri avrebbe potuto sopportare a lungo tali operazioni. Ma le forze erano impari. In effetti, ai Franchi non restava che sperare in un aiuto esterno. Da tempo si vociferava dell’arrivo di re Enrico II con adeguati rinforzi. Il sovrano sbarcò effettivamente ad Acri il 4 maggio, accolto da fuochi, luminarie e campane a festa. La città era in cattivo stato: diverse torri e fortificazioni erano state minate; i lanci delle manganelle mamelucche si facevano sempre piú pressanti. Quattro giorni dopo, il
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barbacane di re Ugo, posto a difesa della Torre del Re – una grande torre circolare finanziata dal sovrano cipriota – crollò su sé stesso. La situazione, insomma, si faceva sempre piú critica. Il continuo lancio di frecce, pietrame, oggetti acuminati, travi di legno infuocate, vasi ricolmi di escrementi costringeva gli assediati a riparare i danni e a spegnere gli incendi di continuo. Il 16 maggio, le forze siriane lanciarono un portentoso attacco contro la Porta di Sant’Antonio, nell’angolo nord-orientale della città, costringendo le truppe cipriote a ritirarsi. Qui si concentrò la resistenza di Templari e Ospitalieri, accorsi in velocità da Montmusard, che riuscirono a respingere gli assalitori sin fuori dalle mura, occupando nuovamente il varco. La ritirata, tuttavia, dovette impressionare alquanto al-Ashraf, il quale chiamò l’esercito a raccolta.
La caduta
Venerdí 18 maggio, il sultano ordinò un assalto su vasta scala su tutto il percorso delle mura. Cosí narra il Templare: «Un tamburo risuonò molto forte e al suono di quel tamburo, che faceva un rumore orribile e molto intenso, i Saraceni assalirono la città di Acri da tutte le parti […]. Venivano tutti a piedi, ed erano innumerevoli, e davanti venivano quelli che portavano grandi scudi alti, e dopo venivano quelli che tiravano il fuoco greco (una miscela incendiaria composta da pece, salnitro, zolfo, nafta e calce viva, n.d.r.), e dopo c’erano quelli che tiravano giavellotti e frecce piumate cosí fittamente che sembrava che cadesse pioggia dal cielo». I Mamelucchi s’insinuarono tra la prima e la seconda cerchia di mura, distanziate tra loro da un fossato largo circa 10 m, colmato velocemente con carcasse di animali, cadaveri e pietre. Poco dopo, la Torre Maledetta crollò su se stessa, permettendo agli assalitori di sciamare all’interno. La lotta si fece furibonda. Il maestro degli Ospitalieri, colpito da una lancia tra le spalle, fu trascinato verso
il molo e posto in salvo sulla prima imbarcazione disponibile. Il maestro templare, invece, trafitto da un dardo sotto l’ascella, spirò dopo qualche ora, facendo piombare i Franchi nello sconforto. Poco dopo, anche le truppe inglesi e francesi decisero di ritirarsi, sí che il tutto terminò in una fuga angosciata verso il porto. Tra coloro che si accalcavano sulle imbarcazioni v’era anche il patriarca, Nicola di Hanapes, il quale, tuttavia, cadde in mare e annegò.
Un giorno orribile
Chiosa il Templare: «Sappiate che questo giorno fu orribile a vedersi, poiché nobildonne e borghesi e ragazze che si erano nascoste e altra gente minuta andavano scappando per le strade, i bambini in braccio, ed erano piangenti e sperdute, e fuggivano sulla riva del mare per proteggersi dalla morte. E quando i Saraceni li incontravano, uno prendeva la madre e l’altro il bambino, e li portavano da un posto all’altro, e li separavano, e c’erano volte che un saraceno litigava con l’altro per la donna, cosí che lei veniva uccisa da loro, e alcune [volte] accadeva che la donna era portata via e il bambino che allattava era gettato per terra, che i cavalli lo calpestavano, e cosí morivano, e c’erano donne che erano incinte ed erano cosí strette nella folla che morivano soffocate, e la creatura che avevano in corpo pure, e ce n’erano di quelle che il marito o il figlio era malato tranquillamente a casa o ferito, che lo lasciavano solo e se ne scappavano, e i Saraceni li uccidevano tutti». Le imbarcazioni piú grandi, collocate fuori dal porto, a distanza di sicurezza, issavano bandiera veneziana. Erano presenti, inoltre, alcuni legni templari, ma di questi soltanto la famosa Falco, la grande navis del brindisino Roger de Flor – fratello del Tempio e futuro comandante della compagnia degli Almogaveri – pare essersi impegnata per mettere in salvo piú persone possibili. Diverse fonti ricordano, però, come i patroni delle imbarcazioni esigessero il pagamento d’un diritto d’imbarco; circostanza quanto mai dicembre
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Acri. Uno scorcio delle possenti mura difensive del versante costiero.
La fortezza templare
«Magnifica a vedere» Il Templare di Tiro descrive con accuratezza la fortezza templare di Acri, che doveva essergli piuttosto familiare: «Ed era sul mare in un gran posto, come un castello; infatti, avevano all’ingresso una torre alta e forte, il cui muro era spesso, massiccio ventotto piedi. E su ogni angolo della torre c’era una torretta e sopra ogni torretta c’era un leone passante, grande come un asino, dorato, ed erano costati, i quattro leoni e l’oro e il lavoro, mille e cinquecento bisanti saracenali, ed era una cosa magnifica a vedere. E l’altro angolo [era] in direzione della via dei Pisani e aveva un’altra torre, e accanto a quella torre sulla via di Sant’Anna c’era un bellissimo palazzo che era del maestro, e là avanti, sulla casa delle monache di Sant’Anna, c’era un’altra torre alta, dove si trovavano le campane, e una bellissima grande chiesa, e c’era un’altra torre sul mare, molto antica, che aveva fatto fare Saladino cento anni fa, dove il Tempio teneva il suo tesoro, ed era cosí in riva al mare che le onde vi battevano contro».
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odiosa, vista la situazione disperata. Si può ben capire, dunque, l’accoglienza positiva ricevuta da due imbarcazioni genovesi, probabilmente presenti nella zona per ragioni di commercio, le quali – a detta del Templare – si sarebbero comportate «molto bene, come tutti sanno, perché raccolsero gente dal mare e la imbarcarono sulle navi e su altre barche». Chi non trovò posto sulle imbarcazioni, dovette prepararsi al peggio. Circa 10 000 persone – dando credito alle fonti – si rifugiarono nella fortezza templare, situata all’estremità meridionale della città, dotata di mura solide e d’un buon numero di torri, nonché protetta da un lato dal mare, la quale fu ben presto cinta d’assedio. Dopo dieci giorni, il 28 maggio, anche gli ultimi difensori di Acri si arresero. Era la fine. I superstiti, tra cui un gruppo di frati Minori, di Clarisse e di Domenicani, furono tutti massacrati. Le perdite furono ingenti, anche se non se ne conosce il numero (i contemporanei lo valutano variamente – e fantasiosamente – tra le 10 000 e le 100 000 unità). La città fu razziata e rasa al suolo. Ori e marmi furono utilizzati come ricompensa per gli emiri piú valenti o recati in Egitto assieme all’esercito. Un portale d’una chiesa acritana fu trasportato al Cairo e installato nella madrasa di al-Malik al-Nasir, fratellastro di al-Ashraf, dov’è possibile ammirarlo ancora oggi. Le restanti enclave cristiane della costa – Tiro, Sidone, Beirut, Haifa – caddero una dietro l’altra; la rocca di Athlit fu abbandonata il 30 luglio, seguita da Tortosa, il 3 agosto. Fu la fine della dominazione latina in Terra Santa.
In guisa d’epilogo
La notizia della caduta di Acri suscitò grande scalpore. Tuttavia, nessuna azione di rilievo fu intrapresa per riconquistare quanto perduto. Niccolò IV si appellò a tutti i credenti affinché si mobilitassero per una nuova crociata, chiedendo che gli
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Prossimamente Al tema di questo Dossier, Antonio Musarra ha dedicato il volume Acri 1291. La caduta degli stati crociati, di prossima pubblicazione per i tipi de il Mulino di Bologna. Nella pagina accanto Egitto, Il Cairo. La madrasa (scuola coranica) e il mausoleo di al-Malik al-Nasir Muhammad ibn Qalawun. 1296-1303. Nella costruzione fu reimpiegato il portale di una chiesa di Acri, prelevato dopo la conquista.
fossero inviati memoranda utili per preparare al meglio la spedizione. Un grande dibattito si aprí sulle responsabilità dell’accaduto. Le lotte fratricide, la ricerca del profitto, la vicinanza ai Saraceni – con cui s’intrattenevano floridi rapporti commerciali – furono indicati tra i motivi principali della caduta. In realtà, Outremer era stato vittima delle sue divisioni interne: gli ultimi re di Cipro e Gerusalemme non erano stati in grado di ricompattare le sue molte anime, tanto meno di mediare tra le numerose forze in campo. Ciò aveva favorito l’appetito mamelucco. La morte del papa, sopraggiunta il 4 aprile del 1292 – alla quale fece seguito una lunga vacanza papale –, tarpò ogni serio tentativo d’organizzare una crociata generale. Il suo successore, Celestino V, rimasto in carica per una manciata di mesi, drenò buona parte dei fondi a essa destinati per favorire le mire di Carlo II d’Angiò sulla Sicilia. Bonifacio VIII, dal canto suo – «avendo guerra presso Laterano / e non con Saracin né con Giudei» –, pensò bene di deviare l’attenzione generale promuovendo, nel 1300, il primo grande Giubileo della storia; promettendo, cioè, le stesse indulgenze di Terra Santa a chi si fosse recato in pellegrinaggio a Roma. Soltanto i Mongoli continuarono a mostrare interesse per il corridoio siro-palestinese, calando sul Paese
ripetutamente, tra il 1299 e il 1303, senza però ottenere alcunché; e ciò, nonostante in Occidente circolassero notizie – piuttosto immaginifiche – riguardanti addirittura una loro riconquista di Gerusalemme. L’unico sforzo di rilievo fu l’occupazione, da parte d’una flotta ciprioto-templare-ospitaliera, dell’isoletta di Ruad, situata in faccia a Tortosa, che, tuttavia, capitolò nel 1303. La Terra Santa fu abbandonata al proprio destino. Gerusalemme non venne mai piú riconquistata. V
Per saperne di più Jacopo Mordenti, Templari in Terra Santa. L’Oltremare del Templare di Tiro, Encyclomedia Publishers, Milano 2011 Cronaca del Templare di Tiro (1243-1314). La caduta degli Stati Crociati nel racconto di un testimone oculare, a cura di Laura Minervini, Liguori Editore, Napoli 2000 Riccoldo di Monte di Croce, Libro della peregrinazione. Epistole alla Chiesa trionfante, a cura di Davide Cappi, Marietti, Genova-Milano 2005
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Dossier
ACCO
di Andreas M. Steiner
Alla scoperta di una città millenaria Nel XIII secolo, la nuova capitale del regno crociato di Gerusalemme divenne, sul piano culturale ed economico, una delle città piú importanti del Mediterraneo. Coronando cosí una storia che tra i suoi protagonisti annovera personaggi come il faraone Seti I, Cambise, Giulio Cesare, l’apostolo Paolo, san Francesco e... Napoleone
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cri, Acco in ebraico e Akka in arabo, è una città della Galilea (nel distretto settentrionale di Israele), affacciata sulla costa orientale del Mediterraneo. In Italia è nota soprattutto con il suo nome crociato di «San Giovanni d’Acri». Sorge su una piccola sporgenza di terra che chiude a nord la vasta baia di Haifa, terza città dello Stato ebraico e suo principale approdo portuale. Oggi Acri si presenta come una cittadina tipicamente «orientale», dove l’odore del mare si mescola alla fragranza delle spezie esposte nel colorato suq e al profumo della frittura di falafel, il tipico piatto consumato da adulti e ragazzini all’uscita di scuola, nonché dai turisti in cerca di una sosta culinaria veloce. Il porto dei pescatori, l’intrico dei vicoli, i caravanserragli di epoca ottomana, il mercato coperto e le verdi cupole delle moschee affiancate al pinnacolo rosso della chiesa di S. Francesco compongono il quadro di una meta turistica vivace e al contempo tranquilla, da visitare agevolmente a piedi (il centro storico di Acri è, perlopiú, chiuso al traffico). E niente sembra evocare la storia di guerre, conquiste e distruzioni di cui questo antichissimo luogo è stato piú volte protagonista nel corso della sua storia plurimillenaria; se non fosse per le poderose fortificazioni
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Nella pagina accanto e sulle due pagine, in basso alcune vedute del porto di Acri/Acco (San Giovanni d’Acri), città che si affaccia sulla costa mediterranea di Israele.
che proteggono la città vecchia verso terra (qui addirittura con una doppia cinta muraria interrotta da un fossato) e ne racchiudono la punta marina. Di dimensioni quasi sproporzionate, le mura risalgono all’ultimo «padrone» di Acri, il bosniaco Pascià Ahmed al-Jazzar (1720/30-1804), entrato nella storia con quel suo soprannome poco lusinghiero – ma altamente significativo – di «macellaio» o «sgozzatore» (in arabo «jazzar», appunto). Sono queste le mura – in parte erette sul preesistente tracciato delle fortificazioni crociate e oggi percorribili per ampi tratti – che, nel 1799, permisero ad al-Jazzar di resistere alle truppe di Napoleone, respinte dopo un assedio durato quasi tre mesi.
Visita alla città vecchia
Allo schiavo cristiano, venduto come tale al mercato di Istanbul e convertitosi all’Islam, si devono anche i principali edifici che rappresentano il vanto dell’odierna Acri: la grande moschea al centro della città e il Khan al-Umdan, la «locanda delle colonne», il piú bello dei quattro caravanserragli della città e oggi magnificamente restaurato. Le arcate del khan, costruito sul luogo di un preesistente monastero domenicano, sono sorrette da colonne di
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Qui sotto, da sinistra rampa d’accesso al muro orientale, un banco del suq nella città vecchia, la piazza antistante la moschea di al-Jazzar (nella foto al centro).
granito e porfido provenienti da edifici bizantini della vicina Caesarea (il celebre porto fatto costruire da Erode il Grande, distante una sessantina di km a sud di Acri). Nei pressi dell’ingresso settentrionale del caravanserraglio si erge la torre dell’orologio, risalente ai primi del Novecento: insieme a campanili e minareti rappresenta uno dei simboli distintivi della città vecchia di Acri. La moschea di al-Jazzar, invece, è un esempio significativo del cosiddetto «barocco turco», con un minareto alto e sottile e un ampio cortile interno, racchiuso su tre lati da porticati composti da piccole celle coperte. Oggi la cupola dell’edificio, similmente a quella delle numerose altre moschee della città, è dipinta di un verde intenso. Le colonne del portico, di marmo italico, furono prelevate anch’esse dalle rovine di Caesarea e portate ad Acri su ordine dello stesso al-Jazzar. In un piccolo monumento funerario presso l’ingresso si trova la sua tomba e quella del suo successore, Pascià Soliman, insieme a un reliquiario contenente… tre peli della barba del Profeta Maometto. Dalla moschea di al-Jazzar, il visitatore può addentrarsi nel bellissimo Suq al Abiad, il «mercato bianco», una galleria ad arcate lunga 100 m, costruita nella metà
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Dossier del Settecento, ai cui lati sono allineate le botteghe dei commercianti. Dal Suq al-Abiad il percorso di visita prosegue in direzione sud, verso il porto, attraversando il Khan e-Shuarda («la locanda dei mercanti»), passando vicino al monastero e alla chiesa di S. Francesco e al Khan al-Faranj, «la locanda dei Franchi», se non il piú spettacolare, comunque il piú antico caravanserraglio di Acri: venne costruito, infatti, dall’emiro druso Fakhr ed-Din intorno al 1600 per ospitarvi i mercanti venuti dall’Europa. Al monastero di S. Francesco, invece, è legata la memoria dell’origine stessa della
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presenza francescana in Terra Santa. Francesco d’Assisi avrebbe visitato Acco nel 1220 (forse dopo il suo leggendario incontro con il sultano al-Kamil in Egitto, avvenuto durante la quinta crociata), fondandovi il primo monastero francescano nella terra di Gesú. Dalla «locanda dei Franchi» si prosegue, lasciando sulla propria sinistra l’elegante moschea di Sinan Basha, verso il già menzionato Khan al-Umdan, circondato da tre piccoli slarghi, intitolati alle repubbliche marinare di Pisa, Amalfi e Venezia. Poco oltre inizia il percorso delle mura marittime, lungo le quali si giunge
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alla chiesa di S. Giovanni e alla punta estrema della città vecchia, segnata dal faro sul bastione di Sanjak. Da qui si domina una vista magnifica sull’orizzonte di Ponente e sulla skyline della moderna Haifa, che chiude l’omonimo golfo a meridione. Difficile immaginare che questo luogo, con i suoi caffè e ristoranti dall’atmosfera serena, sia stato protagonista, nei millenni, di una storia antichissima e travagliata, segnata da guerre acerrime e conquiste leggendarie… L’importanza dell’approdo di Acri è testimoniata sin dall’età faraonica: la città cananea di Acco figura nei
testi di esecrazione del XIX secolo a.C. e nella lista delle città conquistate da Tutmosi III (XV secolo a.C.). Il faraone Seti I occupò la città nel corso della sua campagna contro gli Ittiti agli inizi del XIII secolo a.C. Secondo il racconto biblico (Giosuè, 19,30 e Giudici, 1, 31) Acco venne assegnata alla tribú israelitica capeggiata da Aser, il quale, però, «non scacciò gli abitanti di Acco». Successivamente, re Salomone cedette venti città della Galilea (tra cui verosimilmente anche Acco) al re di Tiro (1 Re, 9, 11-13). Verso la fine dell’VIII secolo a.C., Acco si allea con le città della Fenicia, Tiro
La città vecchia di Acri vista da occidente, con il faro in primo piano e, al centro, la moschea di al-Jazzar, la cui cupola è, oggi, dipinta di verde. Nella foto piccola della pagina accanto il Khan al-Umdan, o «caravanserraglio delle colonne». Nella foto piccola in alto veduta aerea di Acri ripresa da oriente, con, in primo piano, le imponenti fortificazioni di età ottomana.
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Il giardino incantato (ingresso alla fortezza) Fortezza degli Ospitalieri Burj el Hazna (Torre del Tesoro) Cittadella
Suq al-Abiad (Mercato bianco)
Hammam Al Basha
Moschea al-Zetuna
Chiesa di S. Giorgio
Maniero Bahji
Sinagoga Ramhal
Moschea el-Mualek
Chiesa di S. Andrea Burj el Kashla
Khan al-Umdan Ingresso/uscita al tunnel dei Templari
Quartiere pisano
Fondamenta della Fortezza dei Templari
Khan al-Shuna (Locanda del granaio)
Faro Chiesa di S. Giovanni
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Porto di Acri
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Burj el Commander (Torre del Comandante)
Kapo Burj (Porta della Torre)
Moschea di al-Jazzar Khan e-Shuarda (Locanda dei mercanti)
In alto la piazzetta antistante il faro di Acri. Qui sotto il tramonto sul Mediterraneo, visto dal lungomare di Acri. In primo piano, i resti sommersi del castello dei Templari.
e Sidone, contro il dominio dell’assiro Salmanassar. È necessario sottolineare che gli scavi archeologici hanno localizzato le piú antiche fasi dell’abitato di Acco non tanto nell’area dell’odierna città vecchia, quanto invece su una collina (denominata Tel Acco, dove «tel» indica un’altura artificiale, creatasi nei secoli per le continue sovrapposizioni insediative) posta 1 km circa a est delle mura: una collina antichissima che, ironia della storia, oggi viene denominata anche «Collina di Napoleone»,
Burj al-Sultan (Torre del Sultano) Monastero di S. Francesco Khan al-Faranj (Locanda dei Franchi) Moschea Sinan Basha
A sinistra pianta di San Giovanni d’Acri con i principali monumenti citati nel testo. A destra la moschea di al-Zetuna, al centro della città vecchia.
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poiché, proprio qui, nel 1799 il «piccolo caporale» aveva riunito le sue truppe in vista del rovinoso assedio. Altri illustri condottieri si impadroniranno di Acco nel corso dei secoli: nel 532 a.C., il persiano Cambise vi insedia la sua flotta da usare contro il nemico egiziano, inaugurando un periodo di prosperità; duecento anni piú tardi, dopo avere distrutto Tiro durante il celebre assedio del 332 a.C., Alessandro Magno ne fa il piú importante approdo sulla costa del Levante. I successori del Macedone – Tolomei e Seleucidi – si alternano nel dominio di Acco, che in età ellenistica, sotto il nome di Tolemaide, si evolve a importante crocevia commerciale tra l’Oriente e i nuovi mercati mediterranei. Con l’avvento di Roma, Acco/Tolemaide cade sotto la sovranità del proconsole di Siria. Giulio Cesare visita la città nel 47 a.C. e, nel 39 a.C., Erode il Grande parte da Tolemaide per la conquista dei territori concessigli (segue a p. 95)
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Dossier
Il Refettorio
In alto le strutture della cittadella crociata nella cittĂ vecchia di Acri. A destra il cortile centrale della cittadella, circondato da archi di sostegno del piano superiore.
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Il Cortile Centrale
Qui sopra una delle tre possenti colonne di pietra (di 3 m di diametro) che sorreggono il soffitto a volte del Refettorio. dicembre
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Nella cittadella dei Crociati Il quartier generale dei Cavalieri di San Giovanni si trovava nella zona settentrionale della cittĂ vecchia di Acri (vedi pianta nella pagina accanto). La pianta in questa pagina riporta gli ambienti della cittĂ della vasta cittadella crociata, oggi completamente restaurata e visitabile dal pubblico. La Sala dei Pilastri
Sala dei Cavalieri
Latrine
Ingresso
Sala dei Pilastri
Prigione
Cortile centrale
Galleria sotterranea
Via Orientale
Refettorio Sala Bella
Via Meridionale La Sala Bella Cripta Galleria sotterranea Percorso lungo Percorso per disabili Ascensore disabili Galleria sotterranea Entrata/uscita della galleria sotterranea
Il Refettorio
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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
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da Roma. Sotto Nerone, la città diventa colonia romana con il nome di Colonia Claudia Ptolemais (67 d.C.) e, nello stesso anno, Vespasiano vi insedia il suo quartier generale, da cui in seguito muove per reprimere la rivolta giudaica in Galilea. Il cristianesimo si diffonde già molto presto tra gli abitanti di Tolemaide e l’apostolo Paolo vi soggiorna brevemente durante il suo terzo viaggio (Atti, 21,7). La città ospitò anche numerosi rabbini, nonostante la repressione subita dalla popolazione ebraica durante la dominazione romana.
Ritorno alle origini
Un tratto del Tunnel dei Templari e, in alto, la sala calda dell’Hammam al-Basha, il bagno turco fatto costruire da al-Jazzar Pasha alla fine del Settecento.
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Nel 636 gli Arabi conquistano la città e ne fanno il principale porto della dinastia omayyade di Damasco. Acco torna a essere chiamata con il suo originario nome semitico. Nel 1099, l’esercito della prima crociata diretto verso Gerusalemme oltrepassa la città, ma, nel 1104, re Baldovino I, forte del sostegno di 70 galere genovesi, conquista Acco che, in seguito, diverrà il principale porto del regno franco in Terra Santa. Per quasi due secoli, Acco fiorí – seppure con fortune alterne – sotto il dominio dei cavalieri latini: il suo porto continuò a essere abitato dai mercanti arabi che accoglievano le carovane provenienti da Damasco, mentre le repubbliche marinare vi insediarono le prime rappresentanze commerciali: Genova in testa, seguita da Venezia, Pisa, Amalfi, Ancona e Marsiglia.
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Dal Tunnel dei Templari al bagno turco Tra le principali attrazioni di Acco sotterranea figurano il Tunnel dei Templari (nell’immagine a sinistra), una galleria lunga 350 m, che attraversa la città in direzione est-ovest, collegando la fortezza templare (oggi scomparsa) al porto, e l’Hammam el-Basha, il «bagno turco» all’interno del quale è allestito il Museo della città (immagine in alto). L’edificio, in uso ancora fino al 1947, fu realizzato dal pascià al-Jazzar nel 1780, sul modello dei bagni pubblici di Istanbul. Negli ambienti del bagno (gli spogliatoi e il calidarium), sculture, pannelli e installazioni multimediali rievocano i fasti dell’età ottomana di Acco.
Dossier Montfort I Teutonici in Terra Santa
Nel 1110, i Fatimidi tentarono di riconquistarla, ma furono ricacciati dalla flotta normanna. In seguito, anche la popolazione ebraica crebbe: nel 1165, quando il grande filosofo ispano-giudaico Maimonide visitò Acco, nella città si contavano ben 200 famiglie ebraiche; nel 1260 la città fu dotata di un collegio talmudico, fondato da Ebrei giunti dalla Francia e dall’Inghilterra. La sconfitta dei crociati nella celebre battaglia dei Corni di Hattin, del 1187, e la conquista, nello stesso anno, di Gerusalemme da parte di Saladino, fu un evento epocale anche per Acco. Caduta in mano musulmana, venne però riconquistata nel 1191 – nel corso della terza crociata – dai Latini capeggiati da Riccardo Cuor di Leone e da Filippo Augusto di Francia. Perduta Gerusalem-
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A meno di un’ora di macchina da Acri in direzione nord, su uno sperone montuoso a 10 km dalla costa, si conservano i ruderi della fortezza crociata di Montfort. Fu costruita nel XII secolo da Joscelin de Courtney, che inizialmente la denominò Castellum Novum Regis e successivamente Montfort. Nel 1229 il castello fu acquistato dall’Ordine Teutonico, che vi eseguí impegnativi lavori di ampliamento e lo ribattezzò Starkenberg. Dalla fortezza i Teutonici controllavano il territorio dei circa 50 villaggi circostanti, amministrando la produzione agricola e la pastorizia al fine di rifornire Acri. L’Ordine fu costretto ad abbandonare la fortezza nel 1271, insidiato dalle truppe del sultano mamelucco Baybars. La resa avvenne, senza che si procedesse alla battaglia, dopo un assedio durato 15 giorni. Montfort non venne mai piú abitata e cadde in rovina. Il sito è raggiungibile attraverso uno spettacolare percorso di trekking di 30 minuti circa. me, Acco divenne la nuova capitale del regno crociato, pronta a iniziare un periodo di straordinaria fioritura, interrottosi drammaticamente (e definitivamente) soltanto con la conquista mamelucca del 1291 (vedi alle pp. 63-85): per tutto il XIII secolo, la città sul Mediterraneo rappresentò il principale snodo commerciale tra l’Asia e l’Europa, fungendo da base operativa permanente per Le rovine della fortezza di Montfort (XII/XIII sec.), nella Galilea occidentale.
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Come è ben riconoscibile dalla cartina pubblicata a pagina 90, il quartier generale dei Cavalieri di San Giovanni occupa un’ampia parte del centro della città vecchia: al vasto complesso (che ora appare come «sotterraneo») si accede da un bellissimo giardino ornato da alte piante di Fico Beniamino: un dedalo di passaggi a volta, gallerie sotterranee e ampie sale sorrette da colonne confrontano il visitatore con maestrie architettoniche inaspettate, facendogli compiere, nell’arco di pochi passi, un salto a ritroso nel tempo. Il percorso raggiunge la Sala dei Pilastri, un vastissimo ambiente (1500 mq circa) ricoperto da volte a crociera sorrette da 15 colonne squadrate, e da
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Visitare Acri
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Iscritta dal 2001 LIBANO nell’elenco del Nahariyya SIRIA Acri Patrimonio Mondiale Mare (Acco) dell’UNESCO, Acri, è Tiberiade Mediterraneo Haifa raggiungibile in auto da Nazareth Tel Aviv, da cui dista circa 120 km. Un collegamento Netanya Nablus autobus parte dall’aeroporto Tel Aviv-Giaffa Ben Gurion ogni ora e Gerico Ramla raggiunge la stazione Gerusalemme ferroviaria della città dopo 1 ora e 30 minuti circa. Gaza Mar Acri si presta, inoltre, Morto Be’er come base di partenza Shevà Q per visitare il Nord di Israele: Haifa, la Galilea, il O( -\ Lago di Tiberiade e le alture Negev ,_, del Golan. Tra gli hotel, sono 0 da segnalare l’Hotel Palm Beach Rimonim – sul litorale, \: EGITTO all’esterno della città vecchia (www.rimonimhotels.com) – e il raffinato Efendi Hotel Elat (www.efendi-hotel.com), al centro della città vecchia e gestito da Uri Jeremias, il ' ' ritorio occ)1pat da sraele nel 1967. celebre chef dell’omonimo @ TTerrit_o io:oré upat d a sraele nel 1967 con aree @ e. , --, auton ristorante situato nei pressi © pal _ Tdrritorio occup, o d,? lsraele , 1 f no a palesfi nese dal 1993. soho autorità au del faro (www.2eat.co.il/ eng/uriburi/). Info: www.goisrael.it NIA
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Nella città sotterranea
lí raggiunge le altre sale utilizzate per finalità diverse: la Sala dei Cavalieri, la Prigione, il grande Refettorio (composto da otto volte a crociera e alto 10 m, sostenuto da tre imponenti colonne di 3 m di diametro), la cosiddetta Sala Bella (di incerta destinazione), e numerosi altri ambienti, strade urbane, torri e passaggi sotterranei che collegavano la cittadella crociata con la cinta muraria e il porto. Infine, vale la pena menzionare il cosiddetto Tunnel dei Templari, una galleria sotterranea scoperta casualmente nel 1994. Passando sotto il quartiere dei mercanti italiani, collegava la fortezza dei Templari – in origine situata all’estremità occidentale della città e oggi scomparsa – al porto: lunga circa 350 m, è aperta al pubblico e oggi interamente percorribile. È verosimile che il passaggio servisse ai cavalieri per raggiungere, in caso di assedio, le navi ormeggiate sul lato opposto della città. E non è da escludere che proprio attraverso questo percorso gli ultimi cavalieri tentarono di mettersi in salvo durante il disastroso assedio del 1291. V
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le potenze mercantili italiane che nella città – la cui popolazione superava ormai i 40 000 abitanti – avevano, ognuna, il proprio quartiere di residenza: genovese, pisano, veneziano… Acco ospitava la piú grande e importante colonia italiana di ogni altro porto del Levante. Da Gerusalemme si trasferirono ad Acco anche gli Ordini religioso-militari, quello dei Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni e quello dei Templari. E proprio ad Acco, nel 1198, alcuni commercianti provenienti da Brema e Lubecca fondarono una nuova congregazione cavalleresca, l’Ordine Teutonico. Ciascun Ordine aveva il proprio quartier generale all’interno della città: i Templari all’estremità meridionale (in prossimità dell’attuale faro), i Teutonici nella parte orientale, gli Ospitalieri al centro stesso dell’abitato. Furono questi ultimi, però, a rappresentare il vero potere nella nuova capitale crociata: i Cavalieri di San Giovanni assunsero il controllo della città e le diedero un nuovo nome, San Giovanni d’Acri. Proprio grazie a un bizzarro caso della storia, oggi, dopo ben otto secoli, le testimonianze monumentali del dominio degli Ospitalieri sono apparse, letteralmente, sotto gli occhi degli archeologi. Ma raccontiamo l’antefatto: quando, alla metà del Settecento, il pascià alJazzar assume il dominio di Acco, vi costruisce al centro la sua cittadella, proprio sui resti, ancora imponenti, del quartiere dei Cavalieri di San Giovanni. Temendo però, che i vasti ambienti a volta, pur sorretti da possenti colonne, non siano in grado di sorreggere il peso, al-Jazzar li fa interrare, riempiendo le sale con tonnellate di detriti edili. Facendo – certo involontariamente – in modo che le strutture non venissero intaccate e rimanessero intatte per secoli, fino ai giorni nostri. Negli ultimi vent’anni, gli archeologi della Israel Antiquities Authority (la soprintendenza alle antichità di Israele) si sono dedicati alla riscoperta di questo eccezionale patrimonio monumentale nascosto sotto la città settecentesca: con uno scavo sotterraneo, eseguito tramite l’impianto di un vero e proprio laboratorio di ricerca e di restauro e senza intaccare il sovrastante tessuto urbano.
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Ogni bric ha la sua chiesa di Chiara Parente
Nella Provincia di Asti si conserva un patrimonio architettonico solo all’apparenza minore: qui si concentrano, infatti, alcuni degli esempi piú fulgidi del romanico piemontese. Testimonianze che sono anche una chiave di lettura preziosa per la storia della regione nei secoli del Medioevo e che si offrono all’ammirazione dei visitatori dall’alto delle colline – i bric del dialetto locale – sulle quali furono edificate 98
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Vezzolano (Albugnano, Asti). L’abbazia di S. Maria, il cui atto di fondazione risale al 27 febbraio 1095. È considerata una delle espressioni piú pregevoli dell’arte romanica del Piemonte.
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ra l’XI e il XII secolo, nell’odierno Piemonte furono costruite ex novo – nella maggior parte dei casi – oppure rimaneggiate oltre 1300 chiese. E un analogo impegno venne profuso per organizzare in qualche modo la difesa degli insediamenti, che si stavano assestando attorno ai luoghi di culto in pianura, sulle colline e nelle valli alpine. Alcuni di questi manufatti religiosi d’epoca romanica sono oggi disseminati nel Basso Monferrato, entro i confini della Provincia di Asti. La peculiarità del paesaggio, costituito da un vasto altopiano con colli piatti e ondulati, ha determinato il posizionamento di un buon numero di chiesette sul cocuzzolo di un bric (collina nel dialetto locale). L’itinerario che proponiamo in queste pagine si snoda lungo il Percorso del Romanico nell’Astigiano, alla riscoperta di un gruppo di pievi che, omogenee per l’eccellente qualità architettonica e l’elevata raffinatezza di gusto, sono considerate tra le piú affascinanti
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medioevo nascosto piemonte Le pievi
Luoghi di culto e di vita sociale La pieve era in origine la sola chiesa del territorio. Gli uomini e le donne a essa sottoposti vi confluivano per assistere alla celebrazione eucaristica, battezzare i figli e seppellire i morti. Al suo ministro, l’arciprete o pievano, i fedeli corrispondevano la decima parte dei loro prodotti, da suddividere in quattro quote: per il vescovo, per la chiesa, per il mantenimento del sacerdote e l’ultima per i poveri. Tuttavia, la pieve non era soltanto un riferimento ecclesiastico-amministrativo, bensí un luogo fisico, una chiesa con lo spiazzo antistante nel quale gli abitanti della zona si incontravano e scambiavano prodotti. Quando si registrò il primo incremento demografico, nelle campagne si svilupparono nuovi villaggi, sparsi nel territorio della pieve. Ciascuno di essi fu dotato di oratorii o tituli, edifici sacri
A sinistra la chiesa dei Ss. Nazario e Celso a Castel Mairano (Montechiaro d’Asti). XII sec. Nella pagina accanto, in in basso un paesaggio tipico del basso Monferrato.
geometrie delle strutture murarie dei fabbricati, caratterizzate dalla puntuale trasposizione materica dei gioiosi colori dell’ambiente circostante. Non solo. Il profondo legame che unisce l’uomo alla natura, insito nella tradizione agreste, sembra legare i luoghi alle architetture sacre. Che composte dagli stessi materiali sui quali si ergono – una scelta allora quasi obbligata dall’accentuata difficoltà dei trasporti – appaiono quasi naturali propaggini del terreno.
Chiese di villaggio
della regione. Sopravvissute allo spopolamento e al trascorrere del tempo, queste chiesette risultano le costruzioni piú longeve della zona e costituiscono la fonte piú certa per ricostruire il variegato mosaico dell’insediamento e della società medievale nel Monferrato. Raggiungere alcuni dei luoghi di culto, significa talvolta camminare su viottoli campestri, che fiancheggiano terreni curati con meticolosa attenzione e campi delineati da geometrici filari di vigne, ancora felicemente sostenuti da rustici pali in legno. Quest’arcaica sapienza contadina si riscontra anche nelle misurate
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Gli edifici monferrini che possiamo oggi vedere hanno conosciuto almeno due fasi. La prima, in cui rappresentavano la chiesa del villaggio, compresa fra il momento della costruzione e quello dello spopolamento del vicus. La seconda, segnata dalla diserzione, o comunque dalla riduzione dell’abitato (vedi box in alto, sulle due pagine). Quasi paradossalmente, proprio la trasformazione dell’insediamento ha permesso la sopravvivenza degli edifici in forme romaniche. Solo il loro «abbandono», perciò, ha consentito la conservazione di stili, disposizioni, dimensioni non piú attuali per l’epoca. Maestranze comuni, analogo livello tecnologico e identico uso dei materiali – salvo varianti «personali» – attestano un orientamento che nel XII secolo accomuna allo stabilizzarsi della signoria locale i detentori e fruitori delle chiese di villaggio. dicembre
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innalzati per iniziativa degli abitanti o, piú frequentemente, dei detentori, laici o ecclesiastici, dei patrimoni fondiari piú vasti. L’inquadramento religioso si fece capillare e gerarchico: la diocesi era articolata in pievi, la pieve in tituli o oratorii. Il sacerdote che officiava nel titulus dipendeva dal pievano, il pievano dal vescovo. Fra Due e Trecento, però, il ridotto numero degli abitanti, in seguito alle epidemie, e il permanere di un clima di violenza bellica e privata contribuirono allo spopolamento dei villaggi piú antichi, rimasti attorno alla propria chiesa, senza la difesa di solide mura di cinta. I contadini si rifugiarono nei castelli o attorno a essi, abbandonando i luoghi d’origine, forse gradualmente, ma per tempi sempre piú lunghi, fino allo spopolamento completo. Si tratta in genere di spostamenti a piccolo raggio, il piú delle volte definitivi. Col tempo le loro case, invase dalla vegetazione, caddero a pezzi, fino a sparire. Soltanto l’edificio sacro, attorno al quale gli abitanti continuarono a seppellire i propri morti, sopravvisse fra i ruderi come chiesa cimiteriale. L’attestazione piú antica riguarda la pieve di Pisenzana. Isolata in cima al Bric del Cimitero (244 m), nel Comune di Montechiaro d’Asti, è dedicata a santa Maria Assunta e risale al principio del X secolo. Decaduta d’importanza, in seguito al trasferimento degli abitanti di Pisenzana e dei centri limitrofi di Mairano e Maresco nella villanova di Montechiaro, fondata nel 1200, rimase parrocchiale fino al 1662, anno in cui il vescovo Roero la
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ridusse a cappella campestre. Della costruzione originaria rimangono l’impianto absidale e qualche blocco lapideo, inserito nelle murature. Il resto della sinopia, forse databile al XV secolo, testimonia che l’edificio religioso nel Quattrocento era ancora in funzione.
Alle dipendenze dell’abbazia
A due chilometri dall’abitato di Montechiaro, in località Castel Mairano, si trova pure la bellissima chiesa dei Ss. Nazario e Celso. Raggiungibile a piedi, percorrendo una stradicciola di campagna, si erge solitaria alle pendici del Bric San Nazario (271 m), sulla dorsale che separa la valle Versa dalla val Fameria. Come il villaggio di Pisenzana, anche quello di Mairano subí lo spopolamento a favore del paese di Montechiaro. Innalzata nel
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medioevo nascosto piemonte territorio della pieve di Pisenzana, la chiesa dipendeva però dall’abbazia benedettina della Torre Rossa di Asti, a sua volta soggetta fin dall’ultimo quarto dell’XI secolo al monastero di S. Benigno di Fruttuaria. Malgrado le apparenze, la costruzione di Castel Mairano non è quella originaria; è possibile che nel corso dei diversi rimaneggiamenti la lunghezza dell’aula sia stata ridotta. Non ci è giunta intatta neppure la suggestiva facciata a capanna, realizzata in pietra e mattoni disposti a fasce alterne. Il portale dell’architrave, infatti, è mutilo, come indicano le tracce di frattura sui blocchi rimasti. Leggermente aggettante rispetto al piano di facciata, esso è delimitato da una cornice finemente ornata. L’archivolto, oltrepassato e falcato, è a doppia ghiera, con riseghe a spalla retta. Nella parte piú interna è scolpito un cordone a nastri intrecciati. Nella parte esterna compaiono due fasce: una abbellita da un motivo a cornucopie; l’altra, ingentilita da un intarsio policromo a «denti di lupo» in pietra e cotto, è racchiusa da un filare di laterizi tangente la cornice orizzontale superiore. Addossato allo spigolo nord-ovest della fabbrica, il campanile forma, con il fronte dell’edificio, una piazzuola, che lo ripara dai venti freddi del Nord. A quattro ordini fuori terra, ha fasce alterne in arenaria e mattoni e un basamento modanato. Ogni prospetto è delimitato da paraste angolari, che si innalzano dal primo piano. All’interno, i numerosi rilievi a stucco, le volte del semicatino, l’arco trionfale impostato su semicolonne e l’aula con volta a botte a sesto ribassato appartengono alla ristrutturazione ottocentesca.
Tra piante d’alto fusto
Pochi chilometri separano Montechiaro d’Asti da Castell’Alfero, ove si trova la chiesa di S. Maria (ora della Neve). Vi si arriva facilmente a piedi, in bicicletta o a cavallo. Volendo è possibile andarci anche in automobile: provenendo dalla statale 457 per Asti e procedendo poi per Castell’Alfero, si deve imboccare la prima strada sulla destra, che s’inoltra lungo la valle del Rio. Attorniata da un boschetto di piante ad alto fusto e dotata di una comoda area attrezzata, s’innalza sola sulla sommità di un colle (235 m) e dista circa 2 km dal paese. In origine era la chiesa del villaggio di Viale. Con l’edificazione di Castell’Alfero, voluta negli ultimi decenni del XII secolo dal Comune di Asti per il controllo della Valversa, i vecchi abitati di Viale, Cassano e Lissano decaddero, fino a scomparire. La chiesa di S. Maria continuò a restare soggetta alla giurisdizione dei canonici di Asti, ma divenne campestre. Nel 1494 vi abitava un eremita e, nel Cinquecento, conservava ancora il cimitero, in cui talvolta si seppellivano i defunti delle cascine circostanti. Per il delicato gusto cromatico della muratura, le pregevoli sculture che adornano le monofore e i capitelli, e per l’unicità del campanile cilindrico, il tempietto si
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Qui accanto Montiglio, chiesa di S. Lorenzo. Uno scorcio dei capitelli romanici riccamente decorati. XII sec. Nella pagina accanto, in alto Castell’Alfero, chiesa di S. Maria della Neve. Una veduta della parte absidale con il campanile. XII sec. Nella pagina accanto, in basso Montiglio, chiesa di S. Lorenzo. Una veduta delle decorazioni esterne. XII sec.
segnala tra i manufatti romanici piú significativi dell’Astigiano. L’edificio ha subito diversi interventi, che ne hanno parzialmente alterato le caratteristiche primitive, ma il campanile e soprattutto l’abside, hanno mantenuto l’impronta romanica originaria. La torre campanaria risulta l’unica a sezione circolare testimoniata attualmente nella zona. Innestata mediante pennacchi al suo sporgente contrafforte del lato sud, è scandita in specchiature da due esili semicolonne di pietra, di cui rimangono frammenti di muratura a fasce successive di arenaria e laterizi. Nel contrafforte absidale sud e nella campitura centrale dell’abside, la particolare tessitura muraria «a scacchi», costituita da blocchetti di arenaria e mattoni quadrati, rimanda ai moduli stilistici del campanile di S. Nazario a Montechiaro d’Asti. Per visitare la chiesa di S. Lorenzo a Montiglio si seguono le indicazioni, che portano al cimitero. Situata a circa 600 m dall’abitato, sul costone ovest della valle Versa (260 m), la costruzione si erge al di fuori dell’area cimiteriale. Una piccola salita, fiancheggiata da un viale alberato, conduce all’ingresso. Menzionato per la prima volta in un elenco di pievi vercellesi, risalente al X secolo, il luogo di culto fu separato dalla diocesi di Vercelli intorno al 1474 e sottomesso alla diocesi di Casale, allora istituita. Dell’antichissima pieve non rimangono dicembre
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tracce visibili, l’architettura che si osserva adesso risale ai secoli XI-XII. L’impianto originario doveva essere a pianta basilicale, con tre navate e tre absidi. Le colonne, i capitelli e gli archi della nave centrale con il sovrastante cleristorio appartengono all’edificio romanico. Merita una sosta anche l’abbazia di S. Maria di Vezzolano, una frazione del Comune di Albugnano. Inserita nell’itinerario culturale Transromanica dal Consiglio d’Europa, è ritenuto uno dei principali monumenti ro-
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manici del Piemonte. Il suo atto di fondazione risale al 27 febbraio 1095. La chiesa orientata, ossia con l’abside maggiore (la sola autentica) rivolta a est, in origine aveva un impianto basilicale a tre navate, modificato nel XIII secolo, quando la navatella destra è stata trasformata nel lato nord del chiostro. Quest’ultimo, tra i meglio conservati della regione, ha capitelli scolpiti e un importante ciclo di affreschi trecentesco, con la notevole rappresentazione del Contrasto dei tre vivi e dei tre morti.
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Sulle due pagine altre immagini di S. Maria di Vezzolano. Da sinistra, la facciata dell’abbazia; la decorazione in maiolica del pontile (XIII sec.); l’affresco
raffigurante, dall’alto: Cristo fra i simboli degli evangelisti, l’Adorazione dei Magi con un devoto presentato da un angelo, il Contrasto dei tre vivi e dei tre morti (XIV sec.).
Architetture «astrali»
Il cielo in una pianta La bellissima facciata a salienti, in cotto con fasce orizzontali in arenaria, mostra nella parte centrale un ricco apparato scultoreo. Sebbene rimaneggiato, il partito decorativo non si allontana dai canoni della tradizione romana della Piana del Po. Ciò si evince nell’uso di tre file di logge ornate e nei dettagli delle cornici a denti di sega, dei bacini in ceramica, della vivace bicromia nella tessitura muraria.
Una novità assoluta
Assolutamente innovativo è invece l’inserimento della decorazione plastica di derivazione transalpina, ma improntata all’arte di Benedetto Antelami, unita a ricordi romano-borgognoni. Ne è un valido esempio l’Annunciazione, scolpita tra gli stipiti della finestra centrale dell’abside maggiore, con il preciso rinvio iconografico a quella conservata nella Sacra di San Michele alle Chiuse. L’interno della chiesa presenta precoci forme gotiche: la navata centrale appare suddivisa da un pontile o jubè. Nella rara struttura architettonica, impostata su colonnine, si estende un bassorilievo policromo a due registri sovrapposti in cui sono raffigurati i Patriarchi e le Storie della Vergine. Inserito in un contesto di vibrante
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Nel Medioevo l’edificazione di una chiesa seguiva disposizioni ben precise, connesse sia all’orientamento dell’asse ingresso-abside, che al periodo in cui il rito di fondazione doveva essere celebrato. Il matematico e astronomo medievale Guido Bonatti da Forlí (nato intorno al 1223 e morto prima del 1300), nel Decem continens tractatus astronomiae, ne spiega le scrupolose regole rituali. Innanzitutto, l’architetto, sfruttando le proprie cognizioni di astronomia, ricavava con osservazioni, calcoli e costruzioni geometriche la direzione di collocazione piú opportuna, per soddisfare il sistema di simbologie richieste dai committenti. I metodi astronomici servivano a concretizzare il simbolismo cristiano in modo significativo e comprensibile e a stabilire un collegamento tra il luogo sacro sulla Terra e il Divino in Cielo. Esempi di proporzioni legate alla simbologia e all’astronomia, si riscontrano anche nella chiesa di S. Maria a Vezzolano. Le osservazioni astronomiche svolte hanno infatti permesso di stabilire che la chiesa è orientata verso il punto in cui sorge la Luna, in particolare verso il «lunistizio estremo superiore», ossia il punto piú settentrionale dell’orizzonte locale. Nella fabbrica, la direzione dell’asse della navata principale concorda con il punto di levata della Luna all’orizzonte dicembre
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ricerca di colore, in cui la bicromia del paramento murario appare arricchita dai visi colorati delle statue, questo straordinario apparato decorativo, riferibile alla terza decade del Duecento, pur recando la data 1189, rende la chiesa una tra le testimonianze piú gioiose e allegre del patrimonio architettonico medievale.
Senza alcuna inibizione
Ultima tappa è la chiesa di S. Secondo, a Cortazzone, abbarbicata sulla collina di Mongiglietto (231 m). Risalente alla prima metà del XII secolo, presenta una facciata a salienti, sormontata da un bel campaniletto a vela, delimitata agli estremi da paraste angolari e ingentilita da un bel portale. Quest’ultimo, leggermente aggettante rispetto al piano di facciata, è definito superiormente da una cornice orizzontale, decorata con un motivo a conchiglie. Nel prospetto sud della chiesa, l’apparato scultoreo è ricco e particolare. Libero da ogni regola o simmetria, orna la lunetta e la ghiera degli archetti pensili, tutte le mensoline, le lesene del cleristorio e le cornici. Talvolta i motivi scolpiti sono interrotti o diradati e poi ripresi. Raffigurano disegni geometrici e vegetali, figure zoomorfe, soprattutto volatili, realizzate
naturale locale, quando, ogni 18,61 anni solari tropici, esso raggiunge la massima posizione settentrionale. L’orientamento verso la Luna, e non quello consueto con il Sole, è perfettamente coerente con la dedicazione del luogo di culto alla Vergine Maria. Vezzolano è una fondazione agostiniana e la Luna, assunta come simbolo mariano della Chiesa, in parallelo con il Sole simbolo di Cristo, è stata teorizzata dai Padri della Chiesa e in particolare da sant’Agostino. Al tempo della fondazione dell’edificio religioso le metodologie di orientamento disponibili erano contenute nel De Geometria di Gerberto d’Aurillac, nel De Architectura di Vitruvio e nel De limitibus costituendi di Igino il Gromatico. Le necessarie conoscenze astronomiche erano perlopiú bagaglio culturale degli esponenti del clero secolare e monastico. Per progettare S. Maria, può essere stato tracciato un cerchio generatore che, circoscrivendo il cosiddetto poligono di Dio – il decagono regolare che permette la realizzazione di una pianta con precise proporzioni tra raggio generatore e larghezza della chiesa e consente di attuare orientazioni astronomiche –, è servito da base per lo schema planimetrico. Un altro esempio suggestivo di applicazione delle proporzioni e della simbologia medievale è costituito dalla monofora centrale dell’abside. Per realizzarla, è stato usato molto probabilmente l’astrolabio. Questo strumento permetteva di risolvere in modo semplice e accurato per l’epoca un buon numero di
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problemi di astronomia sferica, tra i quali quelli inerenti al calcolo e alla progettazione della posizione e dell’altezza delle monofore, in modo da creare suggestivi giochi di luce all’interno delle navate. In questo caso, partendo dal cerchio, simbolo del Cielo, e dal quadrato, simbolo della Terra, con una serie progressiva e univoca di riduzioni concentriche del diametro, sono stati ricavati il perimetro esterno della monofora nell’abside, il limite interno della strombatura decorata e l’apertura netta della finestra. Inoltre, la simbologia geometrica riscontrata nella monofora è coerente con il tema scultoreo raffigurato: l’Annunciazione, il primo atto della Salvezza grazie all’unione di Dio con l’Umanità attraverso Cristo. È stato anche osservato che la bifora di facciata è posta in modo tale da intercettare i raggi al tramonto due volte l’anno, cosí da proiettarsi sull’abside, illuminando esattamente le due figure dell’Annunciazione, collocate ai lati della monofora centrale, favorendo condizioni di illuminazione molto intense. È ipotizzabile che un simile effetto fosse stato espressamente voluto, quindi progettato e realizzato.
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Dove e quando Per informazioni sulle modalità di visita degli edifici religiosi segnalati nell’articolo, si può consultare il sito web www.astiturismo.it In questa pagina immagini della chiesa di S. Secondo a Cortazzone. XII sec. Da sinistra, in senso orario: l’esterno del complesso religioso; un capitello decorato con un motivo zoomorfo, raffigurante le sirene; il settore della facciata in cui compare, a rilievo, l’amplesso tra un uomo e una donna.
sui capitelli e sui blocchi della muratura stessa, secondo una fantasia fertile e disinibita, che giunge a rappresentare persino l’amplesso di un uomo e una donna fra gli archetti e la cornice della terza campitura del cleristorio.
Un’interpretazione dibattuta
L’interno, a tre navate e tre absidi semicircolari, è diviso in cinque campate da pilastri e colonne in successione, arricchiti da capitelli scolpiti, su cui si impostano archi longitudinali a tutto sesto con ghiera in conci alternati di pietra e laterizio. Nel semicatino dell’abside centrale, la cui imposta è sottolineata da una cornice a damier, è rappresentato l’Eterno in trono benedicente tra San Gerolamo e San Secondo. L’affresco ha la singolare fortuna di essere stato citato in un documento del 1390, in cui un notaio di Carmagnola stipula la pacificazione tra gente rifugiatasi qui dall’Alessandrino e dall’Astigiano orientale per scampare all’epidemia di peste. È difficile datare l’immagine che vediamo adesso, poiché o quella esistente nel 1390 è stata successivamente «ripresa» oppure nella prima metà del Quattrocento un pittore di taglio arcaistico ha ridipinto l’abside. L’iconografia del santo a sinistra dell’Eterno è stata interpretata in vari modi. Alcuni studiosi sostengono sia san Brunone, stando al documento trecentesco riferito però a un precedente dipinto. Invece altri pensano sia
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san Siro, protettore della diocesi di Pavia, ipotizzando una dipendenza della chiesa dalla Mensa episcopale pavese, per analogia con la subordinazione politica pavese del feudo di Cortazzone. Piú probabilmente, secondo la tradizione iconografica, essendo affiancata da un piccolo leone, la figura ritrae san Gerolamo. F
Da leggere Liliana Pittarello (a cura di), Le chiese romaniche delle campagne astigiane. Un repertorio per la loro conoscenza, conservazione, tutela, Amministrazione Provinciale di Asti/ Ministero per i Beni culturali e Ambientali/Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte, Torino 1998 Giovanni Romano (a cura di), Piemonte Romanico, Fondazione CRT, Torino 1994 dicembre
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Storie, uomini e sapori
Un invasore da sempre benvoluto
I
nostri polli (Gallus gallus domesticus o Gallus sinae) hanno origine nel subcontinente indiano, dove una specie molto affine vive ancora oggi allo stato selvatico; gli esemplari attuali sono il risultato di antichi incroci con altre specie originarie della Cina e dell’Asia sud-orientale. Le prime notizie sull’allevamento dei polli provengono dalla Mesopotamia e risalgono al periodo della conquista persiana. L’introduzione del pollame in Grecia ebbe probabilmente luogo nel V secolo a.C., in seguito ai contatti tra Persiani e Greci nel corso delle loro guerre. Ne è prova evidente il fatto che Aristofane, ancora nel III secolo a. C., chiama il pollo «uccello di Persia». Varrone e Columella dimostrano nelle loro opere un notevole
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interesse per gli avicoli e Catone, nel De agri cultura, descriveva il modo di ingrassare galline e polli a scopo alimentare. Altre fonti informano che nel II secolo a.C. si allevavano sia razze ornamentali che da combattimento. All’epoca di Plauto, il pollo era una presenza costante nelle case e, nella sua celebre commedia Aulularia, compare in scena il gallo del vecchio avaro Euclione, pronto per essere spennato e messo in pentola.
Il piatto forte di Léntulo I Romani apprezzavano soprattutto il pollo lesso condito con salsa piccante, anziché quello arrosto, anche se al banchetto imbandito da Léntulo, il piatto forte, come ci precisa Macrobio, era rappresentato proprio dall’arrosto di pollo. Apicio
stesso dedica ben diciassette ricette alla preparazione e alla cottura dei polli, insistendo sul pollo tagliato a quarti e cotto in tegame con olio allungato con vino rosso speziato, servito ricoperto da crema di latte. Nel X secolo, in Sicilia, gli Arabi ingrassavano i polli nei cortili con pastoni a base di frumento e semi di canapa; li cuocevano in salsa piccante, ne sminuzzavano la carne nel riso o ne facevano polpette con farina di semola. Tuttora il cuscus maghrebino contiene immancabilmente, tra i suoi vari ingredienti, la carne di pollo. A quel periodo e a quella cultura si fa risalire l’invenzione del «biancomangiare», realizzato con mandorle tritate, carne bianca di pollo o cappone, latte, mollica di pane e miele. La ricetta originale dicembre
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Nella pagina accanto Natura morta con pollo, limone, pane argenteria e lampada a olio, olio su tela di Osias Beert il Vecchio. XVII sec. Sebastopoli, Mikhail Kroshitsky Art Museum. A destra miniatura raffigurante l’estrazione del fegato dai polli, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. è ancora oggi appannaggio della grande pasticceria turca ed è nota come «tavuk göksü tatlisi».
Lardo, strutto e... argilla Per tutto il Medioevo il pollame costituí la portata quasi d’obbligo nei pranzi dei patrizi e la principale – benché sporadica – fonte di proteine animali delle tavole contadine che potevano permettersi un’aia o un pollaio. In genere si preferivano polli e galletti fritti nel lardo o cotti nello strutto ma in epoca longobarda galline e faraone si cuocevano avvolti nell’argilla con tanto di penne; a cottura ultimata si rompeva l’involucro, nel quale le penne restavano imprigionate. Nel Liber de coquina, redatto a Napoli alla corte di Carlo II d’Angiò alla fine del XIII secolo, compare una ricetta d’ispirazione araba, ma ancora attualissima in cui il galletto si accompagna alle mandorle e alle melagrane. Di non minore gradevolezza è la ricetta del pollo alle arance amare che Mastro Martino da Como ci regala nel suo quattrocentesco Libro de Arte Coquinaria, al quale piú tardi «attinse» generosamente Bartolomeo Scappi. Grande estimatore di pranzi a base di polli, capponi e galline fu alla fine del Quattrocento Federico il Saggio, Principe Elettore di Germania, che prediligeva soprattutto il pollo in salsa bianca con contorno di asparagi e piselli o con accompagnamento di uvette, pinoli, prugne. Nel Cinquecento, uno dei piatti preferiti da Caterina
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de’ Medici fu il cibreo, un umido a base di carciofi uova, cipolle, salvia, fegatini, creste, bargigli e cuori di pollo con l’eventuale aggiunta di granelli (testicoli) di gallo.
Preferenze di sangue reale La regina di Francia dal sangue fiorentino amava a tal punto questo intingolo da farne addirittura una pericolosa indigestione. Suo marito, il re Enrico II, era particolarmente ghiotto di gallina faraona farcita di marroni, e i ricettari dell’epoca – sia nobiliari che borghesi – insistono particolarmente sui polli farciti e ripieni. Re Enrico IV (1553-1610) mostrava un grande apprezzamento per il poule-au-pot, il pollo in casseruola di terracotta e Luigi XIV, il Re Sole (1638-1715), aveva tra le sue preferenze culinarie il galletto in paté e cotto al forno sotto uno strato di besciamella, il pollo farcito
col cavolo del Périgord, la fricassea di pollo dell’Anjou e il pollo con funghi al vino di Charentes. Verso la metà del Settecento, quando il pomodoro entrò nelle cucine europee, nacque uno dei pilastri della gastronomia transalpina: il poulet à la provençale, celebrato da buongustai come l’economista Mirabeau (1715-1789) e lo scrittore Alfonso Daudet (1840-1897). Onnipresenti nei banchetti nobiliari italiani fino a tutto il Seicento, il pollo, il cappone e la gallina persero nel secolo successivo il loro carattere elitario per divenire cibo comune sulle tavole borghesi e rimanere tale fino all’ultimo dopoguerra, quando l’allevamento in batteria riversò sul mercato animali che raggiungevano in 45 giorni le dimensioni di un pollo ruspante di 10 mesi. Sergio G. Grasso
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Lo scaffale Marco Di Branco Breve storia di Bisanzio Carocci editore, Roma, 212 pp., ill b/n
16,00 euro ISBN 978-88-430-8197-4 www.carocci.it
Autore ben noto ai lettori di «Medioevo», Marco Di Branco scrive nell’Introduzione di aver voluto trarre dal millennio bizantino una serie di «nuclei tematici», con la speranza di stimolare la «curiosità nei confronti di Bisanzio».
Il volume, quindi, per quanto breve, non intende offrire una storia lineare della lunga parabola della città sul Bosforo e del suo impero, ma accendere i riflettori su alcuni episodi di particolare rilevanza. Dopo aver chiarito alcuni elementi di carattere metodologico e ripercorso brevemente la storia degli studi bizantini, l’autore affida a Costantino,
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l’imperatore «cristiano», il compito di inaugurare la rassegna offerta dal volume. E già qui, come in tutti i capitoli successivi, si può apprezzare il merito maggiore di Di Branco, che, pur avendo confezionato un manuale agile e conciso, ha saputo selezionare di volta in volta gli aspetti piú significativi delle varie vicende, mettendo chi legge nelle condizioni di inquadrare compiutamente le pur complesse questioni trattate. Particolarmente apprezzabile risulta anche la capacità di offrire letture innovative di molti episodi, superando i non pochi stereotipi che hanno spesso caratterizzato le storie di Bisanzio fin qui scritte. Altro filo rosso del volume è l’attenzione per i risvolti ideologici e sociali degli eventi che si produssero in quei mille anni: del resto, i conflitti scoppiati all’indomani delle invasioni barbariche o gli episodi che segnarono la quarta crociata fino al saccheggio di Costantinopoli del 1204 non potrebbero essere certamente letti come una semplice successione di fatti,
ma si inquadrarono in contesti assai piú articolati, nei quali si confrontarono e si opposero non soltanto uomini in arme, ma, soprattutto, culture, visioni del mondo, religioni e assetti politici. Come si può intuire, la materia è dunque vasta e anche per questo molto ricca è la bibliografia suggerita al lettore per approfondire i temi sviluppati. Stefano Mammini Chiara Mercuri Francesco d’Assisi La storia negata
Editori Laterza, Bari-Roma, 216 pp.
16,00 euro ISBN 978-88-581-2581-6 www.laterza.it
Al di là delle connotazioni religiose, la vita e l’opera di Francesco d’Assisi furono uno degli eventi che maggiormente segnarono il Medioevo e il cui formidabile portato, a distanza di oltre sette secoli, continua a costituire una presenza viva e concreta. Un destino almeno in parte intuito dai contemporanei e, soprattutto, dalla Chiesa, che fin da subito manifestò la ferma volontà di poter controllare il francescanesimo e i suoi esiti. Un quadro che non sorprende e
nel quale si inserisce la vicenda scelta da Chiara Mercuri per questo nuovo libro. La studiosa ha voluto infatti analizzare gli eventi che si produssero nel momento in cui si ritenne opportuno codificare la memoria del santo, cosí da fornirne un profilo univoco e ufficiale. La ricostruzione prende le mosse dalle ricerche svolte alla fine dell’Ottocento dal pastore calvinista Paul Sabatier, convinto che ad Assisi si dovette essere conservata una copia della vita di Francesco compilata da frate Leone, uno dei suoi compagni, e fatta scomparire dalla circolazione all’indomani della redazione della Leggenda Maggiore da
parte di Bonaventura da Bagnoregio. Sabatier finí col trovare, a Parigi e non ad Assisi, un documento che riportava in forma almeno in parte fedele all’originale il testo di Leone e da questa scoperta, che ebbe connotati degni di una spy story, prende le mosse la trattazione di Mercuri. Grazie alla prosa scorrevole e ben ritmata, il volume si legge con grande piacere e ha il pregio di illustrare con chiarezza una vicenda dai risvolti articolati e complessi. L’esperienza francescana, la sua predicazione e il successo dell’Ordine da lui fondato ebbero infatti effetti che non si limitarono alla proposta di un modo dicembre
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nuovo di vivere la propria condizione di cristiani. E non fu perciò un caso che, per esempio, anche in seno alla compagine dei suoi seguaci si fossero aperte fratture anche profonde o che, all’indomani della sua morte, avesse avuto inizio una sorta di competizione, tesa a imporre, appunto, un’immagine di Francesco di cui i diversi contendenti rivendicavano l’autenticità. Vicende che a piú riprese hanno tratti decisamente attuali e che l’autrice narra in maniera avvincente. S. M. Amedeo Feniello Napoli 1343 Le origini medievali di un sistema criminale
Mondadori, Milano, 273 pp.
22,00 euro ISBN 9788804658627 www.librimondadori.it
Un episodio di criminalità organizzata di cui si è trovato a essere testimone ha indotto Amedeo Feniello a ripercorrere la storia di Napoli, alla ricerca delle radici del male oscuro, fatto di violenza e di morte, che continua ad affliggere il capoluogo campano. Accostando il fatto odierno a una vicenda del 1343 (l’assalto, guidato
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dai potenti locali, a una galea carica di grano durante un periodo di carestia), lo storico individua nella realtà sociale da sempre egemonizzata dai clan familiari piuttosto che dallo Stato, il germe dei problemi della Napoli contemporanea. Gelose della propria autonomia, pronte a farsi carico delle difficoltà della popolazione per attrarla nella propria orbita e, al tempo stesso, anello di congiunzione tra i Napoletani e le dinastie regnanti, le consorterie locali furono sempre, nel corso dei secoli, le vere dominatrici
della città e del suo territorio, adottando la violenza come unico mezzo di risoluzione dei conflitti. Altro aspetto fondamentale fu la capacità di queste famiglie di trasformarsi in ceto dirigente, inserendosi nei gangli delle istituzioni, in un groviglio inestricabile tra interessi privati e pratiche di governo. La devastante carestia che nel 1343 colpí l’intera Europa diede ai clan familiari napoletani l’occasione di rafforzarsi attraverso molteplici collegamenti e mediante l’elaborazione di cerimonie pseudoreligiose, dallo spiccato valore
simbolico. Si trattava di un processo già in atto da circa due secoli (da quando la nobiltà locale aveva assunto il ruolo di caposaldo della resistenza contro i Normanni), e scatenato dalla politica economica della monarchia, che, anziché garantire il rifornimento annonario dei centri urbani che governava, si era costantemente dimostrata favorevole a concessioni eccessive per l’esportazione dei cereali ai mercanti del Centro-Nord: scelte che aggravavano ulteriormente la situazione nei periodi di carestia. Tale atteggiamento aveva reso il governo centrale inviso alla popolazione, favorendo al tempo stesso il sodalizio dei ceti piú umili con le famiglie dell’aristocrazia locale, di cui i primi divennero un’imponente massa di manovra. Si era andata cosí costituendo una struttura parcellizzata per aree di competenza controllate da clan che sovrintendevano ogni aspetto della vita cittadina, con un’articolazione in cui il rapporto tra dimensione topografica e controllo
sociale era fortissimo. Questa situazione, originatasi a partire dal XII secolo, ha percorso fino ai nostri giorni la storia della città, che l’autore analizza, per l’epoca medievale, in modo documentatissimo e con straordinaria padronanza. Maria Paola Zanoboni Marco Firrao La Storia della Querina nelle tavole del maestro Franco Fortunato
Il Mare Libreria Internazionale, Roma, 64 pp., ill. col.
70,00 euro ISBN 978-88-85833-25-8 www.ilmare.com
Il 25 aprile del 1431, Pietro Querini, nobile veneziano, nonché armatore e navigatore, salpò da Creta a bordo della nave Gemma Querina, diretta ad Anversa. Dopo avere costeggiato l’Africa del Nord e risalito la costa occidentale della Penisola Iberica, fece tappa a Muros, in Galizia, da dove, il 28 ottobre riprese il mare per raggiungere la meta prevista. È questo il prologo alla straordinaria vicenda di cui Querini e il suo equipaggio furono protagonisti e al quale è dedicato questo bel volume di Marco Firrao, illustrato dalle
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Lo scaffale tavole del maestro Franco Fortunato. Dopo pochi giorni di navigazione, infatti, la Querina fu sorpresa da una tempesta violentissima, che la portò fuori rotta e la danneggiò irreparabilmente, fino a che, il 17 dicembre, Querini e il suo equipaggio non l’abbandonarono, cercando di mettersi in salvo a bordo di due scialuppe. Della piú piccola si perdono presto
pesce essiccato: è lo stoccafisso, che, grazie a Querini, è destinato, di lí a qualche tempo, a trasformarsi in una delle pietanze tipiche della cucina veneta. Una storia singolare, raccontata con brio da Firrao – che si è basato sul diario scritto dallo stesso navigatore veneziano e su quelli dei suoi compagni Nicolò de Michiele e Cristofalo Fioravante – e ritmata dalle magnifiche illustrazioni di Fortunato. S. M.
DALL’ESTERO
le tracce, mentre la piú grande, quando tutto sembra ormai perduto, il 4 gennaio del 1432 giunge in vista di un’isola, poco piú di uno scoglio. I sopravvissuti non lo sanno, ma hanno raggiunto l’arcipelago norvegese delle Lofoten e, pochi giorni piú tardi, ricevono la visita di un gruppo di abitanti dell’isola vicina, che chiamano Rustene (oggi Røst): l’incontro segna la salvezza degli Italiani, che vengono rifocillati e accuditi. E, tra i cibi che vengono loro offerti, c’è un grande
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Isabelle Bardiès-Fronty, Charlotte Denoël e Inès Villela-Petit (a cura di) Les temps mérovingiens Trois siècles d’art et de culture (451-751) Éditions de la Réunion des musées nationaux-Grand Palais, Parigi, 288 pp., ill. col.
39,00 euro ISBN 978-2-7118-6328-0 www.rmngp.fr
Realizzato in occasione della mostra allestita al Musée de ClunyMusée national du Moyen Age di Parigi, il volume affianca al catalogo dei materiali selezionati per l’esposizione un apparato di saggi che permettono di
inquadrare la vicenda merovingia in tutti i suoi aspetti piú salienti. Come si può vedere, nei tre secoli che videro succedersi i re ai quali la storia ha riservato il poco lusinghiero epiteto di «fannulloni», si ebbero, in realtà, manifestazioni culturali di indiscusso spessore e dunque il libro e il progetto espositivo suonano come una sorta di risarcimento. Del resto, basta sfogliare le pagine del catalogo che ospitano le riproduzioni fotografiche dei reperti e delle opere riuniti nella mostra per convincersi che, mai come in questo caso, è bene andare oltre lo stereotipo. S. M.
PER I PIÚ PICCOLI Lodovica Cima, Anna Forlati Il segreto di seta
Carthusia Edizioni, Milano, 20 pp., ill.
12,90 euro ISBN 978-8869450235 www.carthusiaedizioni.it
Patrocinato dalla Fondazione Cologni e dal Museo della seta di Como, il volumetto, unico nel suo genere e riccamente illustrato, svela al pubblico dei piú piccoli i segreti dell’arte serica, le tappe della sua evoluzione storica, la tipologia dei tessuti ottenuti da questo particolare filato. La prima sezione illustra, attraverso una piacevolissima favola ambientata in un’epoca lontana, la vita e l’attività di un piccolo tessitore e di una piccola tessitrice, il manufatto da loro realizzato, la fantasia personale che poteva portare alla realizzazione di prodotti nuovi e raffinati. La seconda sezione contiene invece un approfondimento storico sullo sviluppo dell’arte della seta, sulle origini naturali del filato e le fasi di vita del baco, sulle tecniche di lavorazione e la tipologia dei tessuti, molti dei quali si possono ammirare, insieme ad antichi telai e strumenti di lavoro, al Museo della seta di Como. Vale la pena di segnalare che, con la medesima struttura e gli stessi intenti, l’Editore Carthusia ha
pubblicato altri due volumetti, riguardanti il Duomo di Milano (Roberto Piumini, Gianni De Conno, I ragazzi e le pietre) e
il suo museo (Sabina Colloredo, Gek Tessaro, Guarda in su), nei quali, sempre attraverso una favola e un excursus storico, vengono narrate la storia della cattedrale milanese, la vita nel cantiere e nelle cave di Candoglia, le tecniche di costruzione, trasporto e lavorazione del marmo, e di realizzazione delle vetrate. Si tratta, insomma, di un approccio originale, destinato all’infanzia, ma che può risultare istruttivo e coinvolgente anche per gli adulti. M. P. Z. dicembre
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L’importanza del dialogo MUSICA • Avvalendosi di una folta e
selezionata schiera di musicisti, Jordi Savall ripercorre la vicenda del filosofo e teologo Raimondo Lullo, attraverso le composizioni in voga al tempo in cui egli visse e operò
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opo essersi cimentato con Erasmo da Rotterdam, Giovanna d’Arco, i Borgia, Cristoforo Colombo e Francesco Saverio, Jordi Savall – alla guida della Capella Reial de Catalunya, dell’Hespèrion XXI e di altri musicisti di varia provenienza – torna al genere della «biografia» musicale, con un cofanetto dedicato al grande filosofo e teologo catalano Raimondo Lullo (1232-1316). Lullo è stato un personaggio di straordinaria attualità, che, con la sua Ars compendiosa inveniendi veritatem seu ars magna et maior, cercò di riportare il dialogo tra cristiani, musulmani ed Ebrei. Un deciso passo in avanti rispetto all’imposizione forzata di una religione che scatenò violente lotte intestine proprio nella Penisola Iberica, dove le comunità delle tre grandi religioni monoteiste, tra alti e bassi, avevano sempre convissuto, sino alla definitiva affermazione del cristianesimo sotto il regno di Alfonso d’Aragona e Isabella di Castiglia.
Un ambiente composito e stimolante La regia musicale di Jordi Savall ripercorre le tappe principali della vita del teologo, narrate attraverso una serie di letture – in catalano – tratte da cronache dell’epoca, seguite da commenti musicali volti a illustrare il panorama musicale del Trecento catalano, e iberico in generale, in cui composizioni arabe e sefardite animarono un ambiente multiculturale di straordinaria ricchezza. Se, a tratti, le letture possono distogliere l’attenzione dalle musiche – la traduzione italiana dei testi è comunque presente nel libro che accompagna i CD –, gli ascolti sono grandiosi e attentamente selezionati. L’antologia presenta – e non poteva essere altrimenti – brani dalle Cantigas de Santa Maria di Alfonso el Sabio, intercalati a partiture del repertorio gregoriano, passando per la grande lezione trobadorica (Berenguer de Palou, Teobaldo I di Navarra, Guiraut de Borneill, Raimbaus
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Ramon Llull. Temps de conquestes, de diàleg i desconhort S. Bel, J. Boixaderas (voci recitanti); W. Bouhassoun, L. Elmaleh, M. Rahal, H. Güngör, Y. Tokcan. D. Psonis, H. Sarikouyoumdjian M.C. Kiehr, P. Bertin, D. Sagastume, V. Sordo, Ll. Vilamajó, F. Zanasi, D. Carnovich; La Capella Reial de Catalunya, Hespèrion XXI; Jordi Savall Alia Vox (AVSA9917), 2 CD + libro www.alia-vox.com de Vaqueiras) e per composizioni anonime di matrice occidentale (liturgica e profana) e araba. Tra gli ascolti riferibili alla ricca tradizione dell’al-Andalus troviamo composizioni strumentali e vocali, anche di tradizione ottomana, che affascinano per il modo in cui le voci vengono accompagnate dagli strumenti (oud, ney, kanun, duduk, ecc.), assai diverso rispetto alla visione piú contrappuntistica del coevo repertorio occidentale. Passando da un canto trobadorico a una danza strumentale andalusa, da un conductus liturgico a una estampita, toccando stili compositivi che vanno dalla monodia al piú elaborato contrappunto trecentesco, l’ascolto di queste musiche sorprende per la ricchezza culturale, nonché musicale, dell’epoca in cui Raimondo Lullo ebbe a vivere. Con la consueta maestria e la collaborazione di grandi esperti di musica andalusa, Jordi Savall regala grandi emozioni, nella convinzione dell’importanza del dialogo interculturale: lo stesso di cui, settecento anni fa, Raimondo Lullo si fece portavoce. Franco Bruni
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