SOIL ME NODIOE ROVO
MEDIOEVO n. 242 MARZO 2017
EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE
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INCHIESTA SUL DIAVOLO REPIT
PITIGLIANO
Mens. Anno 21 numero 242 Marzo 2017 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
ICONOGRAFIA
Quando il Diavolo esisteva davvero
PUGLIA
La Madonna di Ripalta
DOSSIER
Un giorno nell’età di Mezzo. Voci e suoni di un tempo ritrovato
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€ 5,90
PITIGLIANO LA MADONNA DI RIPALTA DOSSIER MEDIOEVO SONORO
MEDIOEVO SCOLPITO NEL TUFO IL
IN EDICOLA IL 1° MARZO 2017
SOMMARIO
Marzo 2017 ANTEPRIMA
60
ANIMALI MEDIEVALI Da stregone a salvatore
5
RESTAURI Piazza, bella piazza...
8
MUSEI Incanto romanico
14
APPUNTAMENTI Quando i castellani scesero al mare... Fuochi di primavera L’Agenda del Mese
20 21 22
COSTUME E SOCIETÀ IMMAGINARIO Diavolo Quando il Diavolo esisteva davvero di Chiara Mercuri
MEDIOEVO NASCOSTO
CALEIDOSCOPIO
La Vergine del fiume
STORIE, UOMINI E SAPORI Il merluzzo e il suo doppio 100
Puglia 32
94
di Angelo Disanto
32
COSTUME E SOCIETÀ Santuari a répit
Sia tregua agli innocenti di Erberto Petoia
46
LUOGHI PITIGLIANO Gerusalemme di Maremma
di Carlo Casi, Enrico Pellegrini e Debora Rossi
Dossier
ALL’ASCOLTO DEL MEDIOEVO di Claudio Corvino
60
73
UN ANTROPOLOGO NEL MEDIOEVO La nemica del Carnevale
104
LIBRI La «fidanzata» di Dio Lo scaffale
108 110
MUSICA Le cantiche del re compositore
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IL MEDIOEVO SCOLPITO NEL TUFO
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MEDIOEVO Anno XXI, n. 242 - marzo 2017 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Alessia Pozzato Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Claudio Corvino è antropologo. Angelo Disanto è storico e antropologo. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Mila Lavorini è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Chiara Mercuri è dottore di ricerca in storia medievale. (†) Enrico Pellegrini è stato direttore archeologo presso la Soprintendenza Archeologia del Lazio e dell’Etruria meridionale. Erberto Petoia è storico delle religioni. Stefania Romani è giornalista. Debora Rossi è archeologa. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.
Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 48/49, 52/53, 60/61, 62 (basso), 64-67, 102/103 – DeA Picture Library: p. 102; A. Dagli Orti: pp. 5 (alto), 56; G. Dagli Orti: pp. 35, 46/47, 88/89; M. Santini: p. 69 (basso); U. Colnago: pp. 96/97 – Mondadori Portfolio: pp. 57, 86/87; AKG Images: pp. 5 (basso), 37-39, 54/55, 76/77, 80, 82, 87, 90/91, 92, 106/107; Leemage: pp. 32/33, 36/37, 40/41, 74, 88, 91; Album: p. 34; Archivio Quattrone/Antonio Quattrone: p. 42; Electa/Remo Bardazzi: pp. 73, 104/105; Rue des Archives/Tallandier: p. 84 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 8-12 – Cortesia Museu Nacional d’Art de Catalunya, Barcellona: pp. 14-16 – Cortesia degli autori: pp. 20-21, 62 (alto), 63 (sinistra), 68, 69 (alto), 70-71 – Basilica di San Petronio, Bologna: pp. 42/43 – Archivi Alinari, Firenze: © Musée du Louvre, Dist. RMN-Grand Palais/Pierre Philibert: p. 48; © BnF, Dist. RMN-Grand Palais/image BnF: p. 50 – Doc. red.: pp. 51, 53, 58, 75, 100/101, 109, 112 – Maurizio Biserni: disegno alle pp. 62/63 – Bridgeman Images: pp. 78-79, 80/81, 82/83, 85, 89 – Cortesia Angelo Disanto: pp. 95; foto Angelo Dileo: pp. 94, 98; foto Belviso: p. 96; foto A. Longo: p. 97 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 63 (basso), 96.
Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione. Editore: MyWay Media S.r.l. Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Concessionaria per la pubblicità extra settore: Lapis Srl Viale Monte Nero, 56 - 20135 Milano tel. 02 56567415 - 02 36741429 e-mail: info@lapisadv.it
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Nel prossimo numero pasqua
costume e società
I misteri dell’Ultima Cena
Il velo della Veronica
subiaco
dossier
Il Sacro Speco di S. Benedetto
Le banche nell’età di Mezzo
ANIMALI MEDIEVALI a cura di Federico Canaccini
Da stregone a salvatore
I
l gatto cominciò a essere considerato un animale da compagnia solo alla fine del Medioevo. Per lungo tempo, infatti, questi felini furono poco amati, nonostante il ruolo di «cacciatori di topi»; e proprio questa peculiarità, all’indomani della Peste del 1348, li riabilitò agli occhi degli Europei che iniziarono ad accoglierli in casa. Fino ad allora i bestiari attribuivano al gatto poteri di negromante e stregone: l’animale, infatti, può prevedere il futuro ma, tacendo le disgrazie, dimostra la sua ipocrisia diabolica. I suoi occhi, brillando nella notte come braci, rivelano la sua inadempienza al precetto di Dio di dormire quando calano le tenebre. Chi sta sveglio, lo fa perché si dedica ad attività magiche o eretiche: non a caso il nome di catus è legato a quello di cataro, scrivevano alcuni ecclesiastici! Il destino del gatto, assieme a quello del caprone, è legato a doppio filo con quello delle streghe e degli stregoni, contro i quali Gregorio IX si scagliò nel 1233, emanando la bolla Vox in Rama audita est, con la quale invitava i sovrani svevi a perseguitare coloro che praticavano riti eretici, dando anche la facoltà di eliminare i rappresentanti del diavolo impersonati proprio dai felini. Non tutti, però, furono cosí severi. Qualche buona parola venne spesa, in particolare, per la gatta, che non è affatto lussuriosa. Le sue stridule grida e le reazioni «graffianti» al maschio che la possiede, chiariscono agli occhi dell’intellettuale medievale la sua virtú. E le moine e i capricci che fa quando va in calore, sono da intendersi finalizzate alla procreazione, piú che dovute alla lussuria. La
In alto particolare dell’Annunciazione di Recanati, olio su tela di Lorenzo Lotto. 1534. Recanati, Museo civico Villa Colloredo Mels. Qui il gatto è rappresentato con la schiena inarcata dallo spavento e in fuga, simbolo della sconfitta del male di fronte all’avvenimento divino. In basso Wesel (Germania), chiesa della Natività di Maria. Particolare di uno stallo del coro, opera di Johannes Gruter. 1493. gatta poi accudisce i suoi piccoli ed è il simbolo di buona madre, benché alcuni autori tramandino la fantasiosa vicenda di cannibalismo in cui essa incorrerebbe dopo una cucciolata troppo abbondante e debilitante: per recuperare le forze, divorerebbe infatti uno dei suoi piccoli! La tradizione popolare europea poi è ricca di riti «antigatto», tramite i quali, in fondo, si allontanava il Male. Ecco dunque l’uso di seppellire un gatto sotto la soglia di casa per renderla piú solida e tenere lontani i topi, o uccidere un gatto dopo la mietitura per avere un raccolto abbondante l’anno dopo, oppure far passare il gregge attraverso il fumo di un gatto in fiamme, per preservarlo dalle malattie. A differenza del cane, inoltre, il gatto è molto piú pulito: pur odiando l’acqua, trascorre gran parte del tempo a pulirsi e sotterra i propri escrementi, anche perché odia i cattivi odori e sta sempre alla larga da luoghi nauseabondi, prediletti invece dal suo rivale. Questa inimicizia aveva un significato particolare nell’araldica medievale: rappresentare insieme un cane e un gatto simboleggiava infatti una pace impossibile.
ANTE PRIMA
Piazza, bella piazza...
RESTAURI • Il complesso monumentale dominato dalla Torre di Pisa è oggetto di
un ampio e articolato piano di restauri. Gli interventi, condotti su piú fronti, ridanno smalto ai tesori artistici distribuiti fra il Camposanto, il Battistero e la Cattedrale
N
ell’ambito dei lavori di restauro che, in una sequela continua, interessano i monumenti affacciati sulla piazza dei Miracoli, a Pisa, rientra il recupero degli affreschi del Camposanto, destinati a essere ricollocati entro i primi mesi del 2018. Il risultato delle operazioni condotte sul ciclo del Trionfo della Morte, attribuito all’artista trecentesco Buonamico Buffalmacco, è stato presentato da Antonio Paolucci, che presiede la Direzione Lavori e spiega: «Sono passati settantadue anni dal settembre del 1944, quando Cesare Brandi arriva a Pisa portando con sé le foto in bianco e nero di una campagna realizzata qualche anno prima. Quelle foto sono la base degli interventi nei quali si sono alternate tre generazioni di
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storici dell’arte: da Carlo Ludovico Ragghianti a Ugo Procacci a Bernard Berenson; di fronte agli affreschi del Camposanto sono passati in tanti».
Le ferite di guerra I dipinti furono danneggiati dai bombardamenti il 27 luglio 1944: «Furono cotti, disgregati, in parte persi – racconta Paolucci –, come nel caso di quelli di Benozzo Gozzoli». E con il loro distacco cominciò una storia di salvataggio, a tratti eroica, nel corso della quale le opere hanno subíto diversi «trasporti», ovvero il trasferimento da un supporto a un altro attraverso lo strappo della pellicola pittorica. Anche i restauri sono stati diversi, ma solo quello condotto dalle Maestranze dell’Opera Primaziale
In alto Pisa. Uno scorcio del Camposanto, realizzato a partire dal 1277 e completato nel secolo successivo. Pisana ha recuperato appieno l’apparato monumentale. Il Camposanto è l’ultima struttura costruita in piazza del Duomo, a partire dal 1277. Di impianto rettangolare, ha una facciata esterna in marmo bianco con 43 arcate cieche e un chiostro interno con archi a sesto acuto; l’ingresso principale, sormontato da un tabernacolo di gusto gotico, è arricchito da statue di Giovanni Pisano e Tino di Camaino. Il Camposanto è decorato con quasi duemila metri quadri di pitture, firmate da artisti di epoche diverse, che cominciano con Francesco marzo
MEDIOEVO
Traini, pisano del primo Trecento, per continuare con Buonamico Buffalmacco, Stefano da Firenze, Spinello Aretino, Taddeo Gaddi, Benozzo Gozzoli e poi i pittori del tardo XVI e dell’inizio XVII secolo.
Un documento fondamentale Il ciclo piú famoso è quello di Buffalmacco, il Trionfo della Morte, che conta quattro episodi: il Trionfo della Morte, il Giudizio Universale, l’Inferno e la Tebaide. Grazie a una tecnica piú «a fresco» rispetto a quella adottata nel resto del Cimitero, queste scene si sono conservate meglio di altre. A tal proposito Paolucci sottolinea: «È un miracolo che questa parete sia arrivata a noi in condizioni di leggibilità, perché è una delle pagine fondamentali dell’arte italiana. Il grande secolo è stato il Trecento, il secolo di Dante, Boccaccio, Giotto. E, per fortuna, il Trionfo della Morte, la “Sistina dei Pisani”, con i beati da una parte e i dannati dall’altra, mantiene il magma pittorico: le pitture staccate hanno ancora la loro pelle, sono perfettamente leggibili, ci parlano come il Dante dell’Inferno e il Boccaccio del Decamerone. La rappresentazione dei volti di In questa pagina particolari dell’affresco raffigurante il Giudizio Universale, facente parte del ciclo del Trionfo della Morte realizzato dal pittore fiorentino Buonamico Buffalmacco a partire dal 1336.
Errata corrige con riferimento al n. 241 di «Medioevo» (febbraio 2017), desideriamo precisare che, nell’articolo Terrae motus, le foto pubblicate alle pp. 49 e 50 sono dell’autore, Furio Cappelli, e che la recensione al volume Le Marche sugli scudi (pp. 107-108) è opera di Luisa Gentile (Archivio di Stato di Torino) e non di Alessandro Savorelli. Del tutto ci scusiamo con gli interessati e con i nostri lettori.
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marzo
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ANTE PRIMA
In questa pagina ancora due particolari del Giudizio Universale. Con una scelta inconsueta, a giudicare sono il Cristo e la Vergine, congiuntamente (foto a sinistra).
uomini e donne, soprattutto nel riquadro dei dannati, esprime tutta la gamma degli umani sentimenti, lo stupore, il terrore, l’ira, lo sgomento, la paura. Questa è la grandezza di Buffalmacco».
Due giudici per i trapassati L’iconografia a cui ricorre il Maestro del Trionfo della Morte è chiara, con dannati e beati divisi dall’Arcangelo Michele, sormontati dalla Vergine e dal Cristo giudice, a loro volta circondati dalla schiera di Apostoli, angeli e simboli della Passione. La scena ha un impianto immediato, frutto di una preparazione meditata, come dimostra la sinopia, con ripensamenti, doppi disegni di alcune parti, dettagli di visi e panneggi chiaroscurati. Le fasi del restauro
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sono state diverse. Alla rimozione delle patine e della caseina, usata nel dopoguerra per fissare i dipinti strappati, hanno fatto seguito la pulitura, il fissaggio e l’integrazione cromatica. Nel recupero hanno giocato un ruolo di primo piano le nuove tecniche, come il ricorso ai
batteri mangiatori, per togliere la caseina, che causava rigonfiamenti e distacco di colore. Inoltre, per scongiurare il formarsi di condense, è stato introdotto un sistema di retroriscaldamento delle superfici pittoriche che, quando si verificano le condizioni adatte all’insorgere della marzo
MEDIOEVO
A destra un altro particolare del Giudizio Universale, con gli Apostoli ai lati della Vergine, e, sopra le loro teste, una schiera di Angeli che recano i simboli della Passione. In basso particolare della vetrata del Battistero che ritrae la Santa Reparata, opera del pisano Guglielmo Botti.
Dida, niet qui odio quisquunt, soluptae? Pe moloressenim estis enduci quia nim sequi doluptu rescius eni optiur, quae
rugiada, ne innalza la temperatura di 2/3 gradi. Commentando gli interventi Antonio Paolucci conclude: ÂŤAbbiamo lavorato come dottori con un paziente, ricorrendo ai migliori restauratori, quali Gianluigi Colalucci e Carlo Giantomassi. Nei primi mesi del 2018 potremo restituire il Camposanto Monumentale completo, chiudendo finalmente i conti con la guerra mondialeÂť.
Una storia in sedici episodi Nel vasto programma di interventi sulla piazza dei Miracoli si inseriscono anche i restauri delle vetrate del Battistero, un ciclo composto da sedici episodi istoriati, che chiudono le finestre del primo ordine: la campagna, promossa dall’Opera della Primaziale Pisana,
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ANTE PRIMA riflettono lo spirito dei tempi, sia nel purismo, che permea tutti i campi dell’arte figurativa, sia nella fede nelle nuove tecnologie, dalla quale scaturisce l’idea che la produzione artigianale possa avere lo stesso livello qualitativo rispetto a quella medievale». Radeglia sottolinea che «la figurazione è caratteristica del momento storico: viene scelta la tipologia con santi a figura intera, secondo uno schema ricorrente: al centro è collocato un santo, in alto un coronamento che riprende l’arte primitiva, in basso lo stemma del committente». In alto Pisa. Il Battistero di S. Giovanni, avviato nel 1152 su progetto di Diotisalvi. A sinistra San Giovanni Battista, vetrata policroma realizzata dal laboratorio di Giovanni Bertini. è affidata al Centro Conservazione e Restauro della Venaria Reale di Torino, sotto la direzione dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro di Roma. Quattro manufatti non piú recuperabili saranno sostituti con opere create da artisti, selezionati sulla base di un concorso internazionale. Giuseppe Bentivoglio, direttore tecnico dell’Opera della Primaziale, spiega che i lavori riguardano «dieci pannelli, con interventi di pulizia e integrazione delle lacune, in presenza di perdite di aderenza e danni legati ad atti vandalici. Due rappresentazioni sono di carta stagnola, perché tamponavano finestre cieche. Tutte le opere, una volta tornate in sede, saranno dotate di controvetrate, a fini protettivi». Il ciclo istoriato di Pisa ha inaugurato una nuova stagione artistica, sia in città che in tutta la regione. Daila Radeglia, direttore del Polo Museale del Piemonte, racconta che «le vetrate sono state realizzate nella metà dell’Ottocento per il battistero, che prima ne era privo: fra il 1841 e il 1865 si collocano la campagna di restauro e la decisione di realizzare le nuove opere, che
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Artisti francesi e italiani A Pisa si può seguire l’evoluzione dell’intero corpus, perché quasi tutte le vetrate sono firmate e datate. Le prime si devono ad artisti francesi, considerati i migliori e scelti per la loro perizia tecnica. A Metz, Charles-Laurent Maréchal, che si ispirava alla pittura fiamminga, ricca di particolari, firma San Leopoldo e Sant’Antonio da Padova, opere percepite come sintesi di Medioevo e Rinascimento. Un’altra coppia viene prodotta a Milano: dal laboratorio di Giovanni Bertini escono San Luigi Gonzaga e San Giovanni Battista, entrambi di impronta mitteleuropea. Questi quattro pezzi sono i piú antichi e furono collocati dietro il fonte battesimale. Fra gli artisti pisani, Guglielmo Botti produce quattro vetrate negli anni Cinquanta. Esordisce come vetraio, poi avrà una carriera prestigiosa nel restauro pittorico, per il quale formula un’importante normativa di conservazione. Per Pisa trova il modo di ottenere l’effetto del chiaroscuro, con una stesura luminescente che dà l’impressione del passaggio della luce. In figure quali San Ranieri, Santo Stefano Protomartire, Santa Reparata, San Bernardino fissa i caratteri della produzione toscana, con margini geometrici, edicole gotiche, sagome arcaizzanti. Stefania Romani marzo
MEDIOEVO
ANTE PRIMA
Incanto romanico MUSEI • Sulla collina barcellonese del Montjuïc ha sede una
delle piú ricche raccolte medievali d’Europa e non solo: è il Museo Nazionale d’Arte della Catalogna, la cui collezione testimonia la fioritura di cui questa regione iberica fu teatro fra il XII e il XIII secolo
P
er secoli terra delle libertà contadine, la Catalogna cominciò a formarsi politicamente intorno al Mille, in seguito alla rivolta dei «nobili castellani», che affermarono il loro predominio sul mondo rurale, dando vita al nome stesso della regione spagnola, Catalonia, attestato per la prima volta nel 1114. La nuova identità culturale e artistica delle contee catalane crebbe rapidamente, favorendo il distacco dalle confinanti aree francesi, la cui influenza fu però determinante per lo sviluppo dell’arte romanica, inizialmente segnata dalla tradizione carolingia e ottoniana e da soluzioni di derivazione italiana. Prima corrente che raggiunse omogeneità e internazionalizzazione, seppur con varianti regionali,
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il romanico fu contraddistinto da un grande fervore costruttivo, che vide proliferare palazzi e fortificazioni, ma, sopratutto, edifici religiosi, il cui spazio interiore aveva nell’altare il suo punto focale, dove era sistemata la figurazione pittorica piú prestigiosa. Un patrimonio eterogeneo, spesso nascosto in chiese sperdute sui monti o in luoghi difficilmente accessibili, che – grazie agli interventi di preservazione attuati durante gli anni Venti del Novecento – è stato salvato e, attualmente, è in larga parte custodito a Barcellona, nel Museo Nazionale d’Arte della Catalogna, che ospita una delle piú importanti collezioni di arte romanica al mondo, soprattutto per l’insieme di pitture murali, molte delle quali provenienti da zone pirenaiche come Taüll, marzo
MEDIOEVO
In alto la Lapidazione di Santo Stefano, pittura che in origine ornava la chiesa di S. Juan, a Boí. 1100 circa. Barcellona, MNAC. A sinistra la Majestat Batlló, un Crocifisso ligneo policromo che si rifà al Volto Santo di Lucca. Metà del XII sec. Barcellona, MNAC. Boí o Urgell e staccate dal loro supporto originale con la tecnica dello strappo. La sede museale, un monumentale palazzo realizzato per l’Esposizione Universale del 1929 e rinnovato a partire dal 1986 dall’architetto Gae Aulenti, è ubicata sulla collina panoramica del Montjuïc. Il progetto di ristrutturazione ha permesso la creazione di spazi adeguati per focalizzare l’attenzione sugli affreschi, in un sofisticato gioco di luci e ombre che ci accompagna attraverso un percorso storico e stilistico, cromaticamente ricco, che si apre con uno dei piú antichi nuclei pittorici, quello di San Juan de Boí, risalente al 1100 circa. Parzialmente intatto, il manufatto rivela un programma iconografico singolare, nel quale risalta una scena di
festa con giullari e saltimbanchi che sorprende in un contesto religioso, ma che allude, presumibilmente, alla consacrazione del tempio, la cui architettura è evocata in una installazione che permette di situare la maggior parte dei frammenti, secondo l’originaria dislocazione. Un magnifico bestiario decora gli intradossi degli archi di separazione delle navate, mentre sul piano agiografico, spicca la Lapidazione di Santo Stefano, che mostra un eccezionale dinamismo narrativo, con forme ben delineate, riconducibile agli stilemi della regione di Poitiers, nella Francia meridionale.
Una presenza imponente Innegabili influssi del Nord Italia sono identificabili nelle pitture dell’abside di S. Clemente di Taüll, capolavoro carico di forza espressiva, purezza di linee e vivacità coloristica, dove l’ignoto autore ha privilegiato una combinazione di elementi di differenti visioni bibliche per presentare la figura del Pantocratore, che appare dal fondo, provocando un movimento centrifugo nel quale
Nella pagina accanto, a sinistra Barcellona. Una delle sale del Museo Nazionale d’Arte della Catalogna (MNAC). A destra pitture raffiguranti gli Apostoli e il Cristo, dalla Seu d’Urgell. Prima metà del XII sec. Barcellona, MNAC.
MEDIOEVO
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ANTE PRIMA Il Cristo Pantocratore che domina il ciclo staccato dall’abside della chiesa di S. Clemente a Taüll. 1123 circa. Barcellona, MNAC. Tetramorfo. Si tratta di documenti preziosi per illustrare un itinerario espositivo che arriva fino alla fase piú tarda, ben rappresentata dai portali delle chiese di Avià e San Vincenzo di Cardona, e che ci riporta visivamente nel passato, grazie alla riproduzione di alcune architetture originali e all’ausilio di prospetti virtuali che corredano ogni singola sezione, dove trovano posto anche smalti e oreficerie come la Pisside della Cerdanya o il Bastone di Mondoñedo, prodotti a Limoges.
Sul modello del Volto Santo
dominano il senso ornamentale dei profili e l’abile uso del colore per dare volume ai corpi. Risale al 1123, come la «sorella» S. María de Taüll, l’esempio piú importante di un interno di chiesa romanica catalana totalmente dipinto giunto fino a noi e la cui decorazione è caratterizzata dalla Vergine in trono con Bambino, insieme a Epifania, Giudizio Universale e altre storie bibliche alle pareti che completano il ciclo. Accanto ai resti della cappella di Sant Quirze de Pedret e della collegiata Sant Pere d’Àger, la galleria espone l’opera decorativa del monastero di S. Maria del Burgal, dove, oltre ai personaggi biblici, si trova la committente, la contessa Llúcia, moglie di Arnaldo I de Pallars Sobirà, ritratta in abiti sontuosi, in atteggiamento di rispetto con un cero acceso tra le mani, tipico delle persone defunte. La rappresentazione sembra quindi avallare l’ipotesi che le pitture fossero terminate dopo la morte dei committenti, tra cui spicca l’abate Oliva, un imprenditore che fece di Ripoll, capitale della comarca omonima, un centro monastico di rilevanza internazionale a livello culturale e sede di ripopolazione, qui presente con resti scultorei in pietra. Una tematica originale, che prende spunto dai repertori bizantini italiani è, invece, quella sviluppata dal cosiddetto Maestro di Pedret in S. Maria d’Àneu, pregevole esempio di sovrapposizioni di motivi relativi sia al Vecchio che al Nuovo Testamento, di cui sono protagonisti i tre arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele, mentre la conca absidale della Seu d’Urgell propone una tipica Teofania con Cristo in mandorla, accompagnato dal
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Non mancano le sculture lignee, tra cui si distingue la Maestà Batlló, risalente alla metà del XII secolo e presumibilmente arrivata dalla contea della Garrotxa, vicino a Gerona. Fondamentale oggetto di devozione, l’immagine del Cristo Triumphans che aveva nel Volto Santo di Lucca il suo maggior riferimento, diventò uno dei temi piú ricorrenti e popolari in Catalogna. Composto da diversi tipi di legno, il Crocifisso si distingue per il carattere solenne della composizione, marcata dalla forte geometrizzazione e dall’aspetto lussuoso della tunica che ricorda i raffinati tessuti bizantini. Sono inoltre da menzionare le tavole della Deposizione di Erill la Vall, provenienti da S. Eulalia e divise tra il MNAC e Museo Episcopale di Vic, che conservano l’intensità comunicativa dei dipinti murali, mentre il rinnovamento operato intorno al 1200, che vide il recupero del senso del modellato nella pietra con la ricerca di contrasti chiaroscurali, è rappresentato nei capitelli di Camarasa o Besalú, con uno schema basato su 2 o 3 file di foglie di acanto e nelle volute sviluppate negli angoli. Di notevole interesse è poi l’ala gotica, che riunisce numerosi lavori di artisti catalani, come Bernat Martorell e Lluís Borrassà, a partire dal tardo XIII secolo, disposti in ordine cronologico e raggruppati per scuola e affinità, tra cui spicca il dipinto murale della Conquista di Maiorca che ornava la casa della famiglia Caldes, a Barcellona. Appartenente al gotico lineare, la preziosa opera narra l’episodio della presa dell’isola da parte di Giacomo il Conquistatore, avvenuta nel 1229, seguendo gli schemi delle cronache medievali, come quella di Bernat Desclot. Mila Lavorini DOVE E QUANDO
Museo Nazionale d’Arte della Catalogna Barcellona Orario dal 1º ottobre ad aprile: ma-sa, 10,00-18,00; 2 maggio al 30 settembre: ma-sa, 10,00-20,00; do e festivi, 10,00-15,00 Info www.museunacional.cat marzo
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ANTE PRIMA
Quando i castellani scesero al mare... APPUNTAMENTI • Castellón de la
Plana, uno dei borghi che un tempo appartennero al regno di Valencia, rievoca il trasferimento concesso ai suoi abitanti, che poterono cosí dedicarsi ai commerci marittimi e prosperare
C
astellón de la Plana, cittadina spagnola appartenente alla Comunità Autonoma Valenzana, celebra l’arrivo della primavera con le Feste della Maddalena: nove giorni attorno alla terza domenica di Quaresima (quest’anno dal 18 al 26 marzo). La ricorrenza commemora le origini della città attuale, trasferitasi dalla collina della Maddalena al sottostante litorale, la Plana, appunto, nel 1252. Ai momenti legati alla tradizione e al fervore religioso, si aggiungono concerti, esposizioni e una fiera dei prodotti locali. Le feste iniziano a mezzogiorno del sabato, vigilia della terza domenica di Quaresima, con i fuochi d’artificio nella Plaza Mayor, seguiti dalla lettura di un proclama che ripercorre la storia di Castellón. Nel pomeriggio e in serata il centro storico viene animato dal corteo delle gaiates, carri allegorici addobbati e illuminati in rappresentanza dei diciannove quartieri cittadini. La sfilata è aperta da un banditore e quattro musicisti a cavallo che suonano l’inno cittadino; la chiudono un carro con la regina delle feste e la banda comunale. Al termine del corteo, un banditore proclama l’avvio dei festeggiamenti davanti alla tribuna delle autorità.
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Un momento della processione organizzata ogni anno a Castellón de la Plana (Spagna), per ricordare il trasferimento dell’abitato dalla collina al mare. Nella mattinata di domenica, da Plaza Mayor parte la «processione delle canne» alla «Ermita de Santa Maria Magdalena», l’eremo posto sul colle dal quale partirono i fondatori della città nel 1252. Il corteo religioso percorre alcune vie cittadine prima di inoltrarsi nelle strade di campagna.
Devozione e gastronomia Dopo la tradizionale sosta in località San Roque de Canet per il pranzo, in serata la processione arriva all’eremo della Maddalena, dove si celebra una messa e si tiene una degustazione di paella. Per tutta la settimana seguente la città si dedica anche alle offerte floreali alla Vergine di Lledó, la patrona cittadina. La domenica successiva le feste si concludono con uno spettacolo di fuochi d’artificio.
Castellón de la Plana deve il suo nome al castello arabo di Fadrel, situato nel vicino Desierto de las Palmas. A otto chilometri dal centro attuale, sulla sommità del colle della Maddalena si trovano ancora resti di mura e torrioni riferibili all’antico centro abitato e al suo castello. L’8 settembre 1251 re Giacomo I d’Aragona concesse agli abitanti di trasferirsi nella piana e ciò avvenne la terza domenica di Quaresima del 1252. Otto anni dopo il re autorizzò anche la costruzione di una strada fra il nuovo borgo e il mare, nel luogo del porto attuale dove iniziarono i primi traffici marittimi. Nel 1284 Pietro III il Grande, figlio di Giacomo I, concesse a Castellón il diploma di città con il diritto di autogovernarsi. Tiziano Zaccaria marzo
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Fuochi di primavera L’
11 e 12 marzo la cittadina di Omihachiman (nella prefettura di Shiga, Giappone) torna a ospitare il tradizionale Sagicho Matsuri, una delle feste piú caratteristiche del Paese del Sol Levante, che affonda le sue radici all’inizio del XVI secolo. Il termine Sagicho si riferisce ai carri allegorici dei tredici quartieri cittadini: si tratta di baldacchini realizzati con pali di legno di pino e canne di bambú intrecciate, decorati con strisce di carta rossa e modelli di animali dello Zodiaco orientale. Gruppi di uomini e donne portano i carri sulle spalle, diretti da un capitano che indossa un abito nero e una fascia bianca. Le squadre sfilano in mezzo alla folla e, quando si incontrano, si sfidano in corse sfrenate lungo le strette
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vie cittadine, fra spinte e scontri violenti, nel tentativo di buttare a terra il carro avversario. A volte gli incidenti coinvolgono anche il pubblico assiepato ai bordi delle strade. Nella serata del secondo giorno di festa, una volta esaurita la sbornia competitiva, i baldacchini vengono dati alle fiamme, un rito
Due immagini della festa del Sagicho Matsuri, che si tiene ogni anno nella cittadina di Omihachiman (Giappone). propiziatorio per l’arrivo della primavera, mentre i cittadini si scatenano in balli tradizionali attorno ai falò. T. Z.
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AGENDA DEL MESE
Mostre FIRENZE GIOVANNI DAL PONTE (1385-1437/38). PROTAGONISTA DELL’UMANESIMO TARDO GOTICO FIORENTINO Galleria dell’Accademia fino al 12 marzo
A Giovanni di Marco – detto anche dal Ponte poiché abitava e aveva bottega nella parrocchia di S. Stefano al Ponte – viene dedicata per la prima volta una mostra monografica, nelle sale della Galleria dell’Accademia, a Firenze. Per l’occasione, sono state riunite circa 50 opere, scelte per omaggiare la carriera di un personaggio che ebbe un ruolo di notevole importanza nel primo vitale Quattrocento. Contraddistinta da
a cura di Stefano Mammini
un allestimento di grande impatto scenografico, l’esposizione documenta il percorso artistico di Giovanni in ogni fase, sia grazie ai prestiti ottenuti dall’Italia, sia grazie ai numerosi lavori giunti da musei stranieri. Articolato in quattro sezioni, l’itinerario prende avvio con la presentazione di opere di artisti attivi nel capoluogo toscano nei primi decenni del XV secolo e fondamentali per la formazione di Giovanni, come Lorenzo Monaco e Ghiberti, oltre al Beato Angelico e a Masaccio. Viene quindi ripercorso il cammino dell’autore, formatosi nella tradizione trecentesca, ma aggiornato alle novità contemporanee, capace di dar vita a un linguaggio personale ed estroso, come evidenziato nel
trittico del Museo di San Donnino a Campi Bisenzio, in origine nella chiesa di S. Andrea a Brozzi del 1410, la piú importante testimonianza degli esordi di Giovanni pervenutaci. Seguono pale commissionate per devozione privata, accanto a scomparti di trittici smembrati, risalenti agli anni Venti, nei quali si può leggere il progressivo avvicinamento all’arte di Masaccio. Attivo anche come frescante e decoratore di carte, il 19 novembre 1437 Giovanni di Marco dettò il suo testamento, da cui si evince una discreta agiatezza economica. Morí poco dopo, lasciando un patrimonio pittorico che lo colloca in una posizione d’onore nel periodo di transizione tra Medioevo e Umanesimo. info www.giovannidalponte.it
ROMA SANTA MARIA ANTIQUA TRA ROMA E BISANZIO Foro Romano fino al 19 marzo
Scoperta nel 1900 alle pendici del Palatino, la basilica di S. Maria Antiqua conserva sulle sue pareti un patrimonio di pitture unico nel mondo cristiano del primo millennio. Al suo interno è allestita un’esposizione che è «mostra» del monumento stesso, poiché gravita intorno al ruolo che l’edificio, con i suoi dipinti, ha giocato nell’area del Foro Romano post-classico cristianizzato e al rapporto con la Roma altomedioevale, là dove si andavano concentrando la vita religiosa e i servizi pubblici di approvvigionamento per cittadini e pellegrini. La fase decorativa conobbe numerosi
MOSTRE • Leonardo e il volo. Il manoscritto Roma - Musei Capitolini
fino al 17 aprile info tel. 060608 (attivo tutti i giorni, 9,00-21,00); www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it
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l Codice sul volo degli uccelli, il manoscritto che raccoglie la summa delle intuizioni elaborate da Leonardo sull’argomento, arriva per la prima volta a Roma, grazie al prestito concesso dalla Biblioteca Reale di Torino, che lo custodisce sin dal 1893. Si tratta di un quaderno, composto da 18 carte e due copertine, in cui il genio toscano scrisse e illustrò i suoi studi sul volo. Basandosi sull’osservazione degli uccelli, Leonardo definí una vera e propria teoria attraverso la quale progettò le sue macchine volanti: l’analisi del volo degli uccelli fu condotta in modo rigorosamente meccanico elaborando
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interventi, di cui testimonia la parete definita «palinsesto», pietra miliare nella storia della pittura medievale. Si tratta di un ampio lacerto in prossimità dell’abside, in cui sono identificabili sei strati di pittura: dal IV-V all’VIII secolo
d.C. Del momento pagano si riconosce un intonaco dipinto, mentre al periodo della fondazione della chiesa risale l’immagine della Maria Regina, una Madonna in trono con il Bambino e adorata da un angelo, sino ad arrivare a un frammento con la testa di un Padre della Chiesa. Particolarmente ben conservato anche il ciclo dedicato al martirio dei santi Quirico e Giulitta, che decora quasi integralmente la cappella di Teodoto, risalente al pontificato di papa Zaccaria (741-752). info tel. 06 39967700; www.coopculture.it SAINT-DIZIER (FRANCIA) AUSTRASIA, IL REGNO MEROVINGIO DIMENTICATO Espace Camille Claudel fino al 26 marzo
La dinastia merovingia visse il suo apogeo fra il VI e l’VIII secolo, avendo come teatro delle proprie gesta l’Austrasia, regione dell’antica Francia ora
culturale e, nel segno di questa scelta, invita a scoprire, soprattutto grazie ai reperti archeologici, la singolarità e la ricchezza che caratterizzarono la vita quotidiana e l’organizzazione del regno merovingio. Fra gli altri, sono stati riuniti per l’occasione il corredo della tomba del piccolo principe di Colonia, l’anello del vescovo Arnolfo di Metz e i gioielli della signora di Grez-Doiceau. info www.austrasie-expo.fr BERLINO
protagonista della mostra di Saint-Dizier. Il progetto espositivo porta all’attenzione del pubblico il caso di un’identità che prese forma da una significativa diversità
L’EREDITÀ DEGLI ANTICHI SOVRANI. CTESIFONTE E LE FONTI PERSIANE DELL’ARTE ISLAMICA Pergamonmuseum fino al 2 aprile
Al pari della religione, anche l’arte islamica affonda le sue radici nelle culture del Vicino
originale del Codice e un’esperienza multimediale e 3D progetti, appunti e disegni sulla fisionomia dei volatili, sulla resistenza dell’aria e sulle correnti. Oltre alle osservazioni sul volo degli uccelli, le sue pagine contengono spiegazioni su come coniare medaglie e preparare i colori. Le pagine scritte sono accompagnate da un insieme di accurati disegni: volatili (il nibbio è l’uccello piú rappresentato), figure geometriche, disegni meccanici e architettonici. A rendere ancora piú prezioso il Codice sette disegni in sanguigna con figure vegetali e umane; in particolare, alla carta 10v, sembra celarsi un autoritratto leonardesco. Il Codice è esposto in un clima box appositamente realizzato che, mantenendo il corretto livello di umidità relativa, consente tuttavia di ammirarlo nella sua completezza. Le apparecchiature multimediali touchscreen permettono di «sfogliarlo» virtualmente, di «navigarlo» in alta risoluzione e di «leggerlo» grazie alla trascrizione in italiano e in inglese. Arricchiscono l’esposizione alcune copie anastatiche del Codice, a partire dalla preziosa edizione francese della fine dell’Ottocento, provenienti anch’esse dalla Biblioteca Reale di Torino.
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AGENDA DEL MESE
Oriente antico ed è da questo presupposto che nasce il progetto espositivo incentrato su Ctesifonte (i cui resti si trovano nell’odierno Iraq, a sud di Baghdad) e che analizza l’eredità persiana recepita dall’Islam. Dominata dalle monumentali volte del palazzo reale – il Taq-i Kisra (Arco di Cosroe) –, la città è l’emblema della grandezza e del declino dell’impero sasanide, che fu capace di rivaleggiare a lungo con Roma e Bisanzio. Nel VII secolo, la conquista araba rivoluzionò gli equilibri di potere e si produsse anche una trasformazione sul piano culturale. Ma, come spiega la mostra, le manifestazioni esistenti non scomparvero e sopravvissero nelle nuove espressioni artistiche. info www.smb.museum MODENA IL SEGNO DI ARIOSTO. AUTOGRAFI E CARTE ARIOSTESCHE NELL’ARCHIVIO DI STATO DI MODENA. Archivio di Stato di Modena fino al 29 aprile
In occasione del 500° anniversario della prima edizione dell’Orlando Furioso, viene esposta una selezione delle 61 lettere autografe
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scritte dall’Ariosto tra il 1509 e il 1525. Le missive, tra cui due inediti, rimandano a distinte fasi biografiche e professionali del poeta: «familiare» del cardinale Ippolito I e di Alfonso I d’Este; ambasciatore dello Stato estense presso i papi Giulio II e Leone X; commissario in Garfagnana. Il carteggio presenta una fondamentale importanza politico-amministrativa e offre preziosi dati storici per lo Stato estense e per l’Europa, dando nel contempo testimonianza di una prosa autenticamente letteraria, intrecciata al grande impegno poetico per la stesura del Furioso. Fanno da corredo agli autografi alcuni testi (come l’unica lettera autografa di Ruzante conservatasi), edizioni antiche del Furioso e documenti iconografici dei secoli XVI-XVII (mappe di Ferrara, Roma, Reggio e Garfagnana, disegni di macchine scenografiche, di giostre di cavalieri, di armi) e
immagini delle filigrane delle carte inviate da Ariosto dai vari luoghi in cui risiedeva. info tel. 059 23 05 49; e-mail: as-mo@beniculturali.it MONTEFALCO (PERUGIA) ANTONIAZZO ROMANO E MONTEFALCO Complesso museale di S. Francesco fino al 7 maggio
Nella Roma della seconda
metà del XV secolo, Antoniazzo Romano (al secolo Antonio di Benedetto degli Aquili) era certamente il pittore piú famoso: guidava una fiorente bottega, che lo affiancava nei cantieri impegnati nella decorazione di chiese e conventi e nella produzione di tavole devozionali e d’altare. Il maestro romano è ora protagonista dell’esposizione allestita nel Complesso museale di San Francesco a Montefalco, che accoglie il trittico della Madonna col Bambino tra i Santi Paolo, Benedetto, Giustina e Pietro, realizzato tra gli anni 1488-1490 e conservato presso la Pinacoteca della Basilica di S. Paolo Fuori le Mura a Roma. Gli ori del
dipinto romano, restaurato nei laboratori dei Musei Vaticani, brillano accanto alla pala San Vincenzo da Saragozza, Santa Illuminata, San Nicola da Tolentino, proveniente dalla chiesa di S. Illuminata di Montefalco e oggi custodita nella Pinacoteca cittadina. Antoniazzo Romano realizzò la pala con i santi Vincenzo, Illuminata e Nicola da Tolentino nel 1430-35 per la cappella di S. Caterina nella chiesa di S. Maria del Popolo a Roma. Giunse a Montefalco nel 1491 e venne posta nella chiesa di S. Illuminata, grazie all’intervento di frate Anselmo da Montefalco, generale dei frati agostiniani. In quell’occasione fu eseguito un adattamento dei santi raffigurati sulla tavola, di cui il marzo
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restauro dà testimonianza: santa Caterina d’Alessandria, titolare della cappella romana, fu trasformata in santa Illuminata, coprendone la ruota del martirio; sant’Antonio da Padova venne spogliato del saio francescano e rivestito di quello agostiniano al fine di trasformarlo in san Nicola da Tolentino. L’unico santo non modificato fu Vincenzo da Saragozza, connotato dal vascello. info www.sistemamuseo.it NEW YORK PICCOLE MERAVIGLIE: MINIATURE GOTICHE IN BOSSO The Met Cloisters fino al 21 maggio
Piccole nelle dimensioni, ma piene di vita, le miniature in legno di bosso – pianta
originaria del Mediterraneo che ha conosciuto uno straordinario successo nella creazione dei giardini - sono state fonte di meraviglia fin da quando ebbe inizio la loro produzione, nell’Olanda del Cinquecento. I miracoli e i drammi della Bibbia vengono rievocati su manufatti riccamente lavorati che spesso misurano non piú di 5 cm. Gli oggetti venivano realizzati per essere utilizzati come
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elementi di rosario o altari in miniatura e una loro selezione viene ora presentata, per la prima volta, nella mostra allestita presso i Cloisters, la sezione staccata del Metropolitan Museum dedicata all’arte e all’architettura del Medioevo. Fra i materiali di maggior pregio, spiccano il rosario realizzato per Enrico VIII d’Inghilterra e per la sua prima moglie, Caterina d’Aragona, e una scultura miniaturistica, in forma di lettera P, ornata con scene della leggenda di san Filippo. info http://www.metmuseum.org SANSEPOLCRO NEL SEGNO DI ROBERTO LONGHI. PIERO DELLA FRANCESCA E CARAVAGGIO Museo Civico fino al 4 giugno
L’inedito accostamento tra Caravaggio e Piero della Francesca potrebbe a prima vista sembrare azzardato. Eppure, le motivazioni emergono se si guardano i due artisti, tra loro cosí lontani e diversi, nel segno di Roberto Longhi (1890-1970): entrambi, infatti, furono studiati e «riscoperti» dallo storico dell’arte già dai suoi anni formativi. Del Caravaggio Longhi fu «scopritore» moderno, lucido studioso e collezionista, tanto da acquisire per la propria «raccolta», intorno al 1928, il Ragazzo morso da un ramarro; e su Piero della Francesca, lo studioso scrisse, nel 1927, una monografia tuttora imprescindibile, anticipata dal lucidissimo saggio del 1914, Piero dei Franceschi e lo sviluppo della pittura veneziana. A ideale apertura della mostra è il meraviglioso Polittico della Misericordia. La tavola di Ercole de’ Roberti Ritratto di giovane, che reca
nel verso un Ritratto di giovane donna – appartenente a una collezione privata – viene esposta a testimonianza della «discendenza, per quanto evoluta e ormai incrociata di veneto», del profilo «nitido» del giovane dai ritratti di Piero, come ebbe a riconoscere Longhi nel volume Officina ferrarese del 1934. Accanto al Caravaggio, alla tavola di Ercole de’ Roberti, e al polittico di Piero della Francesca, sono esposti documenti provenienti dall’archivio, dalla biblioteca e dalla fototeca della Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi. info tel. 199 151 121; www.mostrapieroecaravaggio.it CONEGLIANO BELLINI E I BELLINIANI, DALL’ACCADEMIA DEI CONCORDI DI ROVIGO Palazzo Sarcinelli fino al 18 giugno
La nuova mostra in Palazzo
Sarcinelli prosegue le esplorazioni sulle trasformazioni dei linguaggi della pittura veneziana e veneta negli anni magici tra Quattro e Cinquecento, approdando alla figura imprescindibile di Giovanni Bellini, nel quinto centenario della morte del maestro. Chi sono, quindi, i giovani artisti e collaboratori del grande Giambellino? Come si formarono, quale posto avevano nella produzione della bottega? Che cosa trassero e che cosa a loro volta tramandarono dalla frequentazione e dalla stessa collaborazione con un artistaintellettuale tanto sublime per pensiero e per invenzione, per tecnica e non meno che per precisione formale? L’esposizione prende le mosse proprio da queste domande e trova nella raffinata collezione dell’antica e prestigiosa Accademia dei Concordi di
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AGENDA DEL MESE Rovigo lo spunto per tracciare una sorta di mappa (ipotetica e virtuale, ma supportata da una eletta serie di dipinti) del milieu belliniano. Dai due celebri capolavori di Bellini in mostra – la Madonna col Bambin Gesú e il Cristo portacroce – il percorso espositivo propone importanti confronti, contaminazioni, suggestioni con opere di altri artisti, da Palma il Vecchio a Dosso Dossi fino a Tiziano e Tintoretto, o, addirittura, a maestri tedeschi e fiamminghi (come Mabuse e Mostaert) per sottolineare la centralità di Giovanni Bellini rispetto a uno scenario non solo veneziano e veneto (come ben aveva capito nei suoi passaggi veneziani Albrecht Dürer). In tale trama narrativa ed espositiva si vengono a collocare nomi e personalità molto diverse, tutte accumunate da una piú o meno intensa frequentazione di Giovanni Bellini e del suo atelier: assistenti che hanno lavorato al suo fianco nelle grandi imprese decorative di Palazzo Ducale o nelle sale delle Scuole di San Marco e di San Giovanni Evangelista; aiuti che hanno replicato le piú fortunate tavole destinate alla devozione privata; artisti partiti da cartoni della bottega, che hanno poi continuato la loro ricerca in autonomia di ispirazione e di linguaggio, dichiarando però il loro legame profondo e irrinunciabile con la pittura del maestro. info tel. 0438 1932123; www.mostrabellini.it LA SPEZIA L’ELOGIO DELLA BELLEZZA. 20 CAPOLAVORI, 20 MUSEI, PER I 20 ANNI DEL LIA Museo Lia fino al 25 giugno (dal 24 marzo)
Il 6 giugno del 1995 il notaio
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Leonardo Milone di Roma redige l’atto di donazione unilaterale a favore del Comune della Spezia, con il quale Amedeo Lia assegna alla sua città d’adozione la preziosa e cospicua raccolta d’arte, forte di quasi milleduecento opere tra dipinti, sculture, miniature e oggetti. A poco piú di un anno, il 3 dicembre del 1996, il Museo Civico «Amedeo Lia» ha aperto al pubblico, mettendo a disposizione della comunità, anche scientifica, un patrimonio collezionistico fino ad allora privato e dunque di difficile consultazione. Sono ora trascorsi vent’anni e per l’occasione vengono presentate alla città e al pubblico opere di grande significato provenienti da altre istituzioni museali che in questi due decenni hanno collaborato con il Lia. La disponibilità pubblica della Collezione Lia è stata infatti occasione di numerosi prestiti e collaborazioni, e la
partecipazione di opere del Museo a mostre monografiche e tematiche ha permesso di instaurare e rafforzare, nel tempo, rapporti di scambio e confronto, i cui risultati sono stati felici aggiustamenti critici e, in alcuni casi, anche precisazioni di attribuzione. Venti opere, una per ogni anno trascorso, distribuite lungo il percorso museale, a integrazione, pur provvisoria, della collezione permanente. info tel. 0187 731100 http://museolia.spezianet.it MONTEPULCIANO, SAN QUIRICO D’ORCIA, PIENZA (SIENA) IL BUON SECOLO DELLA PITTURA SENESE. DALLA MANIERA MODERNA AL LUME CARAVAGGESCO Museo Civico Pinacoteca Crociani, Palazzo Chigi Zondadari, Conservatorio S. Carlo Borromeo fino al 30 giugno (dal 18 marzo)
Il progetto espositivo è nato dalla volontà di mettere
finalmente in luce gli interpreti della pittura in terra di Siena tra i primi del Cinquecento e la seconda metà del 1600. Artisti di eccellente e spesso notevolissimo livello, ancora non tutti compiutamente studiati e conosciuti. La mostra è strutturata in tre sezioni, divise cronologicamente in relazione alla presenza di opere d’arte già esistenti in loco. Il Museo Civico Pinacoteca Crociani di Montepulciano ospita la sezione Domenico Beccafumi, l’artista da giovane, che, partendo dal ritrovamento di un’opera documentata dell’attività giovanile dell’artista, la Sant’Agnese Segni, illustra, dapprima, i documenti e le testimonianze che hanno reso possibile la nuova attribuzione e, successivamente, di analizzare le notevoli problematiche inerenti la personalità artistica del giovane Beccafumi. A San Quirico d’Orcia, in Palazzo Chigi Zondadari, viene invece proposto il percorso Dal Sodoma al Riccio: la pittura senese negli ultimi decenni della Repubblica, che si dipana attorno alla Madonna col Bambino e i Santi Leonardo e Sebastiano di Bartolomeo Neroni detto il Riccio, appartenente alla Compagnia del Santissimo Sacramento di San Quirico d’Orcia. La sezione prende quindi in esame il periodo artistico che va dalla tarda attività del Sodoma, di cui sono presenti diverse e importanti opere. Il Conservatorio S. Carlo Borromeo di Pienza, infine, ospita la sezione Francesco Rustici detto il Rustichino, caravaggesco gentile e il naturalismo a Siena. L’allestimento è qui incentrato sulla pala di Francesco Rustici marzo
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presentati. Si tratta di un repertorio in molti casi inedito, che permette di inserire nel racconto dei mille anni del Medioevo molte novità importanti, accomunate da un dato ormai inconfutabile: quei dieci secoli furono ricchi di storia, ma anche di innovazioni e invenzioni e nessuno piú, ormai, si lascerebbe andare a definirli «bui». La descrizione di questa età di Mezzo (almeno in parte) inaspettata si sviluppa in due grandi sezioni: nella prima, vengono messi a punto i riferimenti cronologici essenziali, corredati da alcuni manufatti particolarmente rappresentativi del periodo; nella seconda, si passa invece ai materiali scaturiti dagli scavi condotti dall’INRAP. info www.cite-sciences.fr SIENA LA BELLEZZA FERITA. NORCIA, EARTH HEART ART QUAKE. LA SPERANZA RINASCE
raffigurante la Madonna col Bambino e i Santi Carlo Borromeo, Francesco, Chiara, Caterina e Giovanni Battista e costruisce attorno a quest’opera una interessante esposizione riguardante principalmente l’attività del Rustichino, di cui sono presenti, riuniti insieme per la prima volta, diversi capolavori. info tel. 0578 757341 (Pro Loco di Montepulciano) tel. 0577 899728 (Ufficio Turistico San Quirico d’Orcia); tel. 0578 748359 (Ufficio Turistico di Pienza) e-mail: ilbuonsecolodella
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DAI CAPOLAVORI DELLA CITTÀ DI SAN BENEDETTO Cripta sotto il Duomo e Complesso Museale Santa Maria della Scala fino al 29 ottobre
Il 24 agosto 2016 un forte terremoto colpisce il Centro Italia. Il 26 e 30 ottobre 2016, altre scosse «feriscono» Norcia e il territorio circostante. La basilica di S. Benedetto, la concattedrale di S. Maria Argentea e tutte le chiese della città e dintorni sono distrutte. I monaci, insieme alla popolazione, pregano in ginocchio nella piazza, dinanzi alla statua del santo che ha fondato l’Ordine benedettino. A seguito del sisma, la Protezione Civile, il Corpo Nazionale Vigili del Fuoco, il Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale e la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Umbria, insieme con l’Ufficio Beni Culturali dell’Archidiocesi di
dellapitturasenese@gmail.com https://ilbuonsecolodella pitturasenese.wordpress.com/
PARIGI CHE C’È DI NUOVO NEL MEDIOEVO? Cité des sciences et de l’industrie fino al 6 agosto
In Francia, la pratica dell’archeologia preventiva è gestita dall’INRAP (Institut national de recherches archéologiques preventives), che è fra gli ideatori di questo nuovo progetto espositivo e grazie alle cui ricerche è stato possibile riunire i materiali
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AGENDA DEL MESE Spoleto-Norcia, hanno provveduto alla messa in sicurezza delle opere d’arte del territorio. Alcuni di esse sono ora ospitate dalla città di Siena e protette all’interno delle sue viscere: nella cosiddetta «Cripta» sotto il Duomo, dedicato alla Vergine Maria, e nel percorso del Santa Maria della Scala, luogo principe dell’accoglienza, dai pellegrini agli infermi, dai bambini abbandonati, i gittatelli, fino agli indigenti, senza cibo né tetto. L’allestimento prevede un itinerario attraverso i capolavori prima custoditi all’interno di basiliche, santuari e pievi del territorio. Una serie di video, concessi dal Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, e materiali fotografici di fotoreporter locali permettono inoltre la visione delle fasi di recupero delle opere dopo il terremoto. info e-mail: bellezzaferita@ operalaboratori.com; tel. 0577 286300; www.operaduomo.siena.it; www.santamariadellascala.com
Appuntamenti BASSANO DEL GRAPPA MONACI. DAL TARDOANTICO AI CAROLINGI XIX Ciclo di conferenze
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APPUNTAMENTI • Medioevo in libreria, XV Edizione: «Scienza e innovazione nel Medioevo» Milano – Civico Museo Archeologico, Sala Conferenze
fino all’8 aprile 2016 info tel. 02 45329840; e-mail: info@ italiamedievale.org; www.italiamedievale.org; http://medioevoinlibreria.blogspot.it
L
a XV edizione di «Medioevo in Libreria» – l’ormai consolidata formula, che prevede visite guidate al mattino, proiezioni video e conferenze al pomeriggio – è dedicata al tema «Scienza e innovazione nel Medioevo», con l’intento di smentire i luoghi comuni che mostrano un’età di Mezzo immobile, buia, barbara. Le visite guidate hanno come mete le meraviglie medievali di Milano, sviluppando un percorso volto a riscoprire il rapporto che i Milanesi hanno con il loro passato e le sue testimonianze, selezionando e trattando luoghi ricchi di suggestione, arte e cultura. La durata prevista per ogni visita varia da un massimo di circa due ore a un minimo di 45 minuti circa. Tutti gli incontri pomeridiani hanno luogo, con inizio alle ore 15,30, presso la Sala Conferenze del Civico Museo Archeologico di Milano (ingresso da via Nirone, 7), con la proiezione del filmato Medioevo Movie-Viaggio nel Medioevo, a cui fanno seguito le conferenze. Qui di seguito, l’elenco dei prossimi appuntamenti: ✓ 11 marzo. Ore 11,00: visita guidata alla basilica di S. Maria della Passione, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Riccardo Rao. Università degli Studi di Bergamo: Un mondo nuovo: le innovazioni nell’agricoltura medievale. ✓ 8 aprile. Ore 11,00: visita guidata alla chiesa di S. Maria Bianca, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Francesca Roversi Monaco, Università degli Studi di Bologna: Sperimentazioni del potere nell’Italia padana: il comune come laboratorio politico. del Centro Studi Medievali «Ponzio di Cluny» Istituto Scalabrini fino al 25 marzo
Gli incontri indagano le origini del monachesimo, per comprendere la nascita e le prime fasi di vita di un fenomeno millenario, forte e vitale nei secoli centrali della nostra storia e ben presente oggi grazie a una fitta rete di studi. Questi i prossimi appuntamenti: 11 marzo, ore 17,30 Scrivere nei monasteri: scriptoria e circolazione libraria nell’Europa carolingia (A. Puglia); 25 marzo, ore 17,30 Il monachesimo in epoca carolingia: la riforma di Benedetto d’Aniane (Giancarlo Andenna).
info tel. 0444 1801049; e-mail: info@ponziodicluny.it, segreteria@ponziodicluny.it; www.ponziodicluny.it
MODENA IL SEGNO DI ARIOSTO Liceo classico e linguistico «L.A. Muratori-San Carlo», Aula Magna fino al 29 aprile
In occasione dell’omonima mostra documentaria allestita presso l’Archivio di Stato della stessa Modena, è in programma un ciclo di conferenze e lezioni aperte alle scuole e alla città sulla figura di Ludovico Ariosto. Gli incontri si svolgono dalle marzo
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APPUNTAMENTI • Luce sull’archeologia Roma - Teatro Argentina
fino al 23 aprile info tel. 06 684000.311-314; www.teatrodiroma.net
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l Teatro di Roma presenta la terza edizione del ciclo di incontri «Luce sull’Archeologia» al Teatro Argentina, che avranno come filo conduttore il tema: «Roma oltre Roma». Il percorso vuole offrire una riflessione storica, artistica e spirituale, con la quale cittadini e visitatori potranno continuare un viaggio emozionante nella millenaria storia di Roma, creatrice di un bacino culturale che ha unito tra loro culture diverse. Qui di seguito, l’elenco dei prossimi appuntamenti: ✓ 19 marzo. Ore 11,00: Roma e Atene. Memoria, conoscenza, immaginario (Luciano Canfora, Annalisa Lo Monaco, Elena Korka): due capitali a confronto. L’analisi della contaminazione culturale, lo statuto speciale per la città di Atene, la terribile esperienza della guerra mitridatica e della riconquista di Atene da parte di Silla. Nel II secolo a.C., l’incontro con la Grecia e l’Asia Minore cambiò per sempre l’aspetto della città di Roma, ormai divenuta la vera potenza incontrastata del Mediterraneo. Ma che cosa vuol dire in quegli anni «Roma» agli occhi di un greco? Come immaginarono i Greci la città di Roma prima di conoscerla dal vivo? ✓ 26 marzo. Ore 11,00: Schiavi di Roma (Andrea Giardina, Orietta Rossini): la schiavitú romana aveva due volti. Allo sfruttamento di esseri umani ridotti alla funzione di «strumenti parlanti», che il padrone usava a proprio piacimento, si associava infatti la straordinaria propensione a liberare una parte degli schiavi e a integrarli nel corpo civico. Questa apparente contraddizione, come già capirono gli antichi, era il segreto della potenza romana. La condizione degli schiavi a Roma, in periodo tardo repubblicano e imperiale, viene raccontata attraverso l’analisi di reperti archeologici particolarmente significativi delle loro condizioni di vita. Una serie di oggetti appartenuti a schiavi e raffigurazioni su mosaici, affreschi e rilievi – contemporaneamente in mostra presso il Museo dell’Ara Pacis – saranno il punto di partenza per ricostruire la quotidianità di uomini, donne e bambini, che privati dei loro diritti, si trovarono a operare nelle condizioni di vita piú diverse. ✓ 23 aprile. Ore 11,00: La fine del mondo antico: da Roma a Costantinopoli (Alessandro Barbero, Massimiliano Ghilardi): Costantino è noto come l’imperatore che spostò a Bisanzio la capitale dell’impero romano; dopo di lui, Roma accoglierà sempre piú raramente gli imperatori e finirà per identificarsi piuttosto come capitale della Chiesa cattolica. Ma quali furono i veri motivi di questa decisione epocale? E che rapporto ebbe Costantino con la città di Roma? Con la fondazione e la successiva ascesa di Costantinopoli, la città di Roma conobbe un lento ma inarrestabile declino, solo in parte mitigato da mirate campagne di restauro ad architetture templari e costruzioni di nuovi edifici per il culto cristiano. Saccheggi ripetuti, ben tre solo nel corso del V secolo, e il conflitto greco-gotico segnarono la fine della città antica. 10,00 alle 11,00, con ingresso libero. Ecco il calendario dei prossimi appuntamenti: 11 marzo Ariosto e il fantastico (Elisabetta Menetti); 19 marzo
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Carteggi, diplomazia e archivi di governo: strumenti fondamentali per la stabilità dello Stato estense (Laura Turchi); 25 marzo Carteggi di Commissari e
Governatori estensi: il caso di Ludovico Ariosto (Elio Tavilla); 8 aprile Ariosto e le arti figurative (Sonia Cavicchioli); 29 aprile
Il mondo di Ariosto e Lucrezia Estense de Borgia tra dediche e carteggi (Bruno Capaci). info tel. 059 23 05 49; e-mail: as-mo@beniculturali.it; www.asmo.beniculturali.it
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immaginario diavolo di Chiara Mercuri
Quando il
Diavolo esisteva davvero Perché la figura del Maligno, cosí presente nella tradizione biblica, non è mai stata rappresentata nell’arte cristiana, se non a partire dal IX secolo? E quali sono le ragioni che portarono, proprio nell’età di Mezzo, a una vera e propria diffusione dell’immagine – contrassegnata da toni crudi e realistici – di Satana e del suo regno infernale?
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ra gli aspetti che piú di ogni altro segnano uno iato tra la nostra epoca e i secoli dell’età di Mezzo vi è la pressoché totale scomparsa del concetto di Inferno, inteso come luogo fisico in cui vengono puniti i peccatori. E lo stesso vale per l’idea di «diavolo», quale entità che di quel regno è padrone (se prescindiamo, naturalmente, dall’uso che di entrambi i termini continuiamo a fare su un piano, però, meramente colloquiale). Sono sempre meno, infatti, i sacerdoti che – legittimati da un nutrito numero di teologi – considerano il Male, il Demonio e l’Inferno come manifestazioni della negazione del bene, dell’assenza di Dio, della disperazione che si impossessa di un’esistenza in preda ai rimorsi in seguito a una mala condotta. E anche se i sacerdoti, nel loro percorso di formazione, continuano a ricevere una preparazione di base all’esorcismo, il che presupporrebbe il tacito riconoscimento, da parte della Chiesa, dell’esistenza ontologica di un’entità demoniaca effettivamente operante nel mondo, questa non è espressa in modo chiaro in nessun articolo di fede. Paradossalmente, però, al declino della credenza
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Il diavolo raffigurato in un particolare del Giudizio Universale, tempera su tavola del Beato Angelico. 1432 circa. Firenze, Museo di San Marco.
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immaginario diavolo nell’esistenza di un mondo infernale, l’età contemporanea ha assistito un curioso proliferare di fenomeni che al Principe degli Inferi si richiamano, come le sette sataniche o la musica di personaggi quali Marilyn Manson, o di gruppi come Mayhem, i Darkthrone o i Marduk. Allo stesso modo, anche i non credenti si mostrano molto attratti dalle pratiche esorcistiche, e i libri di padre Amorth – per esempio –, che di quell’esperienza trattano, hanno avuto un enorme successo di pubblico (Gabriele Amorth – 1925-2016 – è stato esorcista della diocesi di Roma, n.d.r.).
Le origini bibliche
Di Lucifero si parla ampiamente nell’Antico Testamento, dove è citato con i nomi di Diavolo, Demone, Nemico, Drago, Tiranno, Spirito della fornicazione, Principe dei demoni ed è rappresentato come l’angelo ribelle precipitato a causa del suo peccato d’invidia, ma la sua presenza nel mondo si precisa nel Nuovo Testamento, nel Vangelo di Giovanni, perché l’evangelista lo definisce «principe di questo mondo» (Gv 12,31; 14,30; 16,11). Con san Paolo il problema del demonio viene demandato all’uomo e cessa di riguardare esclusivamente Dio, in quanto l’uomo è chiamato a lottare «contro i principati, contro le potestà, contro i padroni delle tenebre di questo mondo, contro gli spiriti del male che sono nei cieli» (Ef 6,12). Ne deriva quindi un imperativo preciso per il cristiano: di fronte alla presenza del Maligno nel mondo, egli è chiamato a farsi miles, combattente (come d’altra parte nella letteratura giudaica postbiblica), e – nel caso del cristiano – a dare il suo contributo alla piú generale lotta di Cristo contro le potenze demoniache. Tuttavia, nei primi secoli del cristianesimo, il demonio è ancora un’entità aniconica, non corrisponde cioè a una persona, a un’immagine precisa, quanto piuttosto a un’azione d’influenza negativa esercitata sull’uomo per distrarlo dal bene. La durezza del cuore, la mancanza di misericordia, la fragilità, l’instabilità emotiva, il mancato controllo di sé, l’orgoglio, l’avidità di ricchezze, l’avvilimento, la fiacchezza, la disperazione sono tutti effetti del suo pernicioso ascendente, della capacità del diavolo di persuasione, della sua ostinata strategia di distruzione dell’uomo.
La formazione di un’immagine
Nell’età medievale, invece, il demonio si presenta secondo l’icona a cui, ancora oggi, attingiamo piú di frequente nel nostro immaginario collettivo: egli è antropomorfo, oscuro, sguaiato e ghignante. Parallelamente al precisarsi della sua immagine – che da semplice forza ingannatrice e istigatrice diviene un’entità reale dotata di attributi precisi – si definisce anche la natura del suo regno, l’Inferno. Nel III secolo d.C., il teolo-
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In alto miniatura raffigurante il peccato originale, dal Commento all’Apocalisse di Beato di Libana. X sec. Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial. A destra pannello d’altare in legno raffigurante il Giudizio Universale, opera del Maestro di Soriguerola. XIII sec. Vic, Museo Episcopale. L’arcangelo Michele pesa le anime dei defunti e un demonio cerca di far pendere la bilancia dalla propria parte.
go alessandrino Origene aveva applicato alla nozione di male, d’inferno e di dannazione la dottrina stoica dell’apocatastasi, ovvero di quel processo secondo il quale – per gli stoici – ogni essere che, nascendo, si stacca dal suo principio unitario, il Logos, è destinato poi a farvi ritorno alla fine di un movimento circolare, che ne prevede il reintegro nell’Uno. Sulla base di quella dottrina, Origene concepí l’idea – espressa nel suo De principiis – secondo la quale anche il male, Satana e i dannati, sarebbero stati, alla fine dei tempi, reintegrati in Dio, principio unitario ed eterno. In quest’ottica, la punizione ultraterrena, se doveva essere contemplata, andava considerata come punizione a tempo, che avrebbe avuto fine dopo marzo
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il Giudizio Universale, a seguito del quale tutti gli esseri sarebbero stati salvati. Tale visione – oggi prevalente tra credenti e teologi – non riuscí tuttavia ad allungare la propria luce sull’età medievale, perché condannata nel sinodo costantinopolitano del 543. La sua censura portò anche all’irrigidimento della concezione del male e dei dannati, i quali – non potendo essere salvati – dovevano trovare necessariamente una loro collocazione determinata, separata da quella dei giusti.
Un’invenzione medievale
In età medievale s’iniziò quindi a ragionare su un luogo preposto alla dannazione e combustione eterna – un luogo fisico, e non uno status –, come era quello descritto dalle Scritture: «Ma quanto ai codardi, agli incredu-
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li, agli abominevoli, agli omicidi, ai fornicatori, agli stregoni, agli idolatri e a tutti i bugiardi, la loro parte sarà nello stagno ardente di fuoco e di zolfo, che è la morte seconda» (Apocalisse, 21,8). E proprio l’insistenza, nel Medioevo, su un luogo assegnato ai dannati – i cui antesignani furono trovati nella letteratura latina pagana – diede origine alla concezione di quel regno intermedio dell’oltretomba, il Purgatorio, che invece non aveva precedenti. Quest’ultimo, quindi, fu un’autentica invenzione medievale, come spiegò bene lo storico Jacques Le Goff (19242014) nel saggio La nascita del Purgatorio (pubblicato per la prima volta in Italia nel 1982). L’affermazione di un luogo terzo in cui far convergere le anime dopo la morte corporale si spiega anche con la necessità di reagire a una concezione eccessivamente marzo
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A sinistra La penitenza di san Girolamo, tempera su tavola di Sano di Pietro. 1444. Parigi, Museo del Louvre.
suo recente libro dedicato alla elaborazione dell’immagine del Diavolo e dell’Inferno (vedi box a p. 42) – non venne quasi mai rappresentato nell’arte cristiana fino al IX secolo: da quel momento ebbe inizio una fitta serie di raffigurazioni che divennero anche fonte d’ispirazione per la Commedia di Dante. Che cosa accadde dunque, in questa fase di passaggio tra Alto e Basso Medioevo, da determinare l’apparizione della figura del demonio? Perché la mentalità cambiò in maniera cosí profonda, passando da una percezione marginale del diavolo e dell’Inferno a un’ossessiva visione del Maligno? Laura Pasquini fornisce due possibili piste d’indagine storica: la prima riguarda il consolidarsi, in questo periodo, del monachesimo, la seconda conduce al momento in cui nasce l’eresia catara.
La perfezione come obiettivo
Qui sopra capolettera miniato raffigurante la redenzione dei giusti, da un libro di preghiere di Filippo IV di Francia. 1290-1295. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
dualistica del mondo ultraterreno, diviso tra bene e male, che rischiava di avvicinarsi alle concezioni manichee, avversate e condannate dalla Chiesa sin dall’età tardoantica. Nel XII secolo, tra il regno dei salvati e quello dei dannati, sorse dunque il Purgatorio, per accogliere la categoria dei «sospesi» che ancora potevano sperare nella salvazione eterna. Agli inizi del XIV secolo poi, Dante cristallizzò tale concezione tripartita dell’Aldilà, conferendogli una consacrazione definitiva, destinata a influenzare il pensiero teologico successivo. Il demonio – come ci rivela bene Laura Pasquini nel
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Fin dai primi secoli dell’era cristiana, la vita dei credenti si caratterizza per il desiderio di una perfetta sequela Christi («seguire Cristo»), che nell’età martiriale si esprime in forma eroica, attraverso il sacrificio della vita, a imitazione del sacrificio di Cristo durante la Passione. Con la fine delle persecuzioni, la sequela Christi inizia ad assumere la forma dell’imitazione della lotta condotta da Cristo contro Satana, una lotta intesa come ascesi verso la perfezione. Ascesi deriva dal greco àskesis, che indica l’esercizio, lo sforzo necessario a raggiungere un buon livello di educazione del corpo, per esempio nella prestazione atletica. Nella cultura teologica, tale idea venne trasposta dal campo fisico a quello spirituale, per indicare la tensione necessaria a dominare vizi e passioni, al fine di elevarsi a una condizione di purezza dello spirito. Questo sforzo si sostanziava in pratiche di astinenza, penitenza e austerità, quali i digiuni, le veglie e, in casi estremi, le punizioni corporali auto-inflitte. Il monaco è, per definizione, colui che sta da solo (dal greco mònos, uno), che si ritira in solitudine, nel silenzio, per meglio purificarsi dal peccato. Fu il monaco allora a divenire il depositario per eccellenza delle pratiche ascetiche che, cessata la fase «martiriale», divennero il mezzo migliore per emulare Cristo. A partire dal IV secolo – sul modello di quelle già diffuse in Egitto e Asia Minore per iniziativa di Pacomio e Basilio – varie comunità di monaci presero avvio anche in Europa. Si trattava di asceti, mistici, eremiti, accomunati dal desiderio di una perfezione da ricercarsi nella preghiera e nella solitudine, in continuità con la tradizione penitenziale ebraica.
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immaginario diavolo A sinistra Zillis (Svizzera), basilica di S. Martino. Particolare del soffitto ligneo raffigurante le Tentazioni di Cristo. XII sec. Nella pagina accanto Vézelay (Francia), basilica di S. Maria Maddalena. Particolare di un capitello raffigurante la tentazione di sant’Antonio eremita da parte di due demoni. Prima metà del XI sec.
Nella tradizione cristiana, però, questa scelta avvenne sotto l’influenza del monito paolino a condurre una lotta costante «contro la carne». Uno dei primi a tentare tale esperienza in Occidente fu san Girolamo, il quale, dopo aver trascorso diversi anni della sua vita nel deserto della Calcide, maturò tuttavia la convinzione che la vita cenobitica (in comune con altri monaci) dovesse essere preferita a quella anacoretico-solitaria. In una delle sue epistole, Girolamo dichiara la sconfitta della seconda, affermando con amarezza: «Proprio io che per paura dell’Inferno mi ero condannato a un tale carcere abitato solo da scorpioni e belve feroci, spesso mi sentivo circondato da fanciulle danzanti (...) Cosí domavo la carne ribelle con settimane di digiuno» (Epistola, XII, 7). Nei secoli centrali del Medioevo s’iniziò anche a concepire il ritiro dal mondo in senso mistico, cioè co-
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me distacco spirituale da esso piuttosto che come allontanamento fisico in luoghi solitari e impervi, quali il deserto per i monaci orientali o le montagne boscose per i monaci occidentali.
La solitudine «attira» il Maligno
In ogni caso, fu la solitudine dei monaci – sempre secondo Laura Pasquini – fisica o spirituale che fosse, a divenire il luogo privilegiato dei demoni, la loro naturale dimora, il loro palcoscenico di azione. In altre parole, l’immaginazione del monaco – messa a dura prova dai lunghi digiuni e dalle penitenze – «inventò» il demonio, nella sua essenza di competitore, di quotidiano rivale, di istigatore che si insinua sotto gli usci degli eremi e delle grotte, solo apparentemente inaccessibili, per aggredire il religioso, assumendo spesso la forma illusoria di donna. marzo
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immaginario diavolo L’agitatore della Linguadoca, olio su tela di Jean-Paul Laurens. 1887. Tolosa, Musée des Augustins. Il dipinto evoca la vicenda del monaco francescano Bernard Délicieux (1260-1318), che combatté strenuamente contro l’Inquisizione all’epoca della persecuzione dei catari. Arrestato e sottoposto a processo, il religioso, riconosciuto colpevole di essere nemico dell’Inquisizione stessa, di tradimento e di praticare le arti magiche, venne condannato alla prigione perpetua.
Mosso dal tentativo di fuga dai centri abitati e dal desiderio di ordire nuove trappole, il demonio insegue ostinato i monaci, si fa beffe di loro, intenzionato a vanificarne l’ingenua ritirata. Anzi, di fronte a quello che giudica un tentativo sfrontato di evitarlo, si fa ancora piú abile nello sfruttare la propria capacità di conoscere le fragilità di ciascuno e attacca il monaco laddove, secondo l’età, lo sa piú debole. Al monaco maturo, che dopo molte battaglie riesce ad avere un maggiore dominio di sé, il demonio si presenta come abbattimento spirituale, sconforto, pessimismo, sensazione di sconfitta; mentre al giovane appare nella forma che gli è piú congeniale, come eccitatore di passioni violente e incontenibili: ora è una meretrice astuta e corruttrice, ora una fanciulla ingenua e avvenente, ora, infine, una donna sperduta che apparentemente cerca solo aiuto e protezione. Il monaco deve farsi sempre piú abile nella sua battaglia e restare lucido di fronte a inganni che si fanno sempre piú sottili, aprendo in lui scrupoli di coscienza e incertezze.
L’influenza delle letture
È difficile negare che la solitudine, specie nell’ora meridiana – definita non a caso nella cultura monastica come l’«ora del demonio», quando la carne è piú debole e meno pronta a resistere agli assalti – si prestasse a nutrire molteplici suggestioni. Tuttavia ad agire maggiormente sulla psicologia del monaco dovette essere la lettura delle Sacre Scritture di cui quella solitudine si sostanziava. Se infatti il modello della vita ritirata era Cristo, allora va detto che la solitudine dei monaci non poteva non essere abitata dalla presenza del demonio, che proprio nel deserto, nei quaranta giorni del suo ritiro lo aveva con piú mezzi e in diverse forme attaccato: «Allora Gesú fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo. E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame. Il tentatore allora gli si accostò e gli disse: “Se sei Figlio di Dio, di’ che questi sassi diventino pane”. Ma egli rispose: “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. Allora il diavolo lo condusse con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio e gli disse: “Se sei Figlio di Dio, gettati giú”» (Mt 4,3). Cosí anche nell’iconografia, la lotta del monaco contro Satana e le sue tentazioni divenne una costan-
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te, proprio a imitazione delle tentazioni di Cristo. Se dunque il demonio ha come funzione riconosciuta dalle Scritture quella di tentare l’uomo colpendolo nelle sue debolezze, anche i vizi e i peccati sono indotti e suggeriti dalla sua azione suasoria. marzo
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La seconda pista suggerita da Laura Pasquini connette la nascita dell’iconografia del demonio con lo sviluppo dell’eresia catara. Quest’ultima nasce all’inizio dell’XI secolo e la sua denominazione deriva dal greco cataro, puro, ma nella Francia meridionale fu
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conosciuta come eresia albigese (da Albi, nella Linguadoca), mentre nell’Italia settentrionale con quello di patarina. Tale eresia, che trovò seguito soprattutto tra i ceti bassi della società – in particolare tra i lavoratori della lana –, si rifaceva alle dottrine manichee,
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immaginario diavolo Da leggere
Alla scoperta del Diavolo In Diavoli e Inferni del Medioevo, Laura Pasquini, attraverso l’analisi approfondita dell’iconografia, mostra come il demonio «nasca» nel Medioevo. Il saggio ci guida attraverso una ricca galleria di immagini rappresentanti diavoli spaventosi che squartano, masticano, ingoiano alla rinfusa uomini e donne dopo averli con cura puniti e martoriati in un vero e proprio Inferno dantesco. L’autrice spiega come l’icona del demonio subisca una lunga e lentissima trasformazione attraverso i secoli, plasmandosi passo passo, dettaglio dopo dettaglio. Nell’Alto Medioevo, da un punto di vista iconografico, Satana è ancora un animale, a volte un animale esistente, associato, però, nelle Scritture al male: il serpente, il leone, i vermi, l’onagro. Altre volte è un animale immaginario e inesistente come il drago o il grifone. Esso viene rappresentato schiacciato da Cristo o dall’arcangelo Michele, a indicare la vittoria finale sul male che verrà operata alla fine dei tempi. Dall’animale puramente simbolico si comincia a rappresentare poi il diavolo in forma antropomorfa, attingendo a figure di demoni arcaici come i satiri della mitologia greco-romana o il dio Bes della religione egizia per giungere poi alla sua definitiva rappresentazione in veste umana, anche se corredata da attributi animaleschi quali la coda, le orecchie appuntite e le ali. Via via che si precisa il ritratto di Lucifero, si definisce anche il suo regno, l’Inferno, non piú descritto come un generico mondo del caos, dove alla rinfusa vengono puniti i suoi ospiti, ma come un’ordinata galleria di peccatori, puniti secondo pene sempre piú consonanti al peccato commesso, fino a giungere alla definizione del settenario, gruppo di punizioni corrispondenti ai sette peccati capitali. Nel XII secolo l’iconografia occidentale del Giudizio Universale si amplia e si articola in visioni complesse; nell’arte romanica, i portali e i capitelli, nelle cattedrali gotiche i gargouilles anticipano e sintetizzano all’esterno la presenza di figure mostruose che vengono poi riproposte nel dettaglio, attraverso cicli musivi e di affreschi, all’interno. Il Giudizio Universale viene, beninteso, sempre rappresentano lontano dalla zona sacra del presbiterio, luogo atto a ospitare l’altare e le reliquie, quasi sempre nella distante controfacciata. Proprio queste raffigurazioni conoscono una incredibile diffusione e affermazione nell’immaginario collettivo: dall’Inferno di Coppo di Marcovaldo in S. Giovanni, a Firenze, a quello giottesco della Cappella degli Scrovegni a Padova, e dallo spaventoso Lucifero di S. Petronio a Bologna alla punizione dei dannati nella chiesa di S. Fiorenzo a Bastia di Mondoví. Laura Pasquini, Diavoli e inferni nel Medioevo. Origine e sviluppo delle immagini dal VI al XV secolo, Il Poligrafo, Padova 2015 86 pp., ill. col. e b/n, 28,00 euro, ISBN 978-88-7115-895-2 (www.poligrafo.it)
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In alto, a sinistra Firenze, Battistero di S. Giovanni, cupola. Particolare della decorazione musiva con il Giudizio Universale opera di Coppo di Marcovaldo e aiuti. 1260-1270. Sulle due pagine Bologna, S. Petronio, Cappella Bolognini. Particolare dell’Inferno, affresco attribuito a Giovanni da Modena. 1410.
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cetti tesi a fustigare la carne, quali la povertà, i digiuni, l’assoluta astinenza dai rapporti sessuali, sia per le femmine che per i maschi, e cosí, come conseguenza estrema, la condanna della procreazione stessa all’interno del matrimonio. Nonostante l’accento mortifero, la predicazione dei catari venne accolta con favore presso le masse derelitte; essi negavano al clero qualunque funzione di intermediazione tra Dio e gli uomini – e quindi lo stesso ricorso ai sacramenti – e si presentavano al loro uditorio vestiti di abiti poveri. Ciò li fece percepire vicini ai bisogni della gente e capaci di interpretare la frustrazione e la disperazione di quella fascia della società a cui il benessere e l’esercizio del potere erano preclusi.
Il dualismo dei catari
diffusesi nel III secolo d.C. sia in Oriente che in Occidente. Perseguitate in Europa già nei primi secoli del cristianesimo, sopravvissero in rivoli sotterranei lungo l’intero arco del Medioevo, fino a riemergere con forza nella dottrina catara.
La luce contro le tenebre
Secondo i manichei, la salvezza si raggiungeva attraverso la conoscenza dei due principi operanti nel mondo, la luce e tenebra. Essi cominciarono cosí a contrapporre Dio, signore della luce, puro principio spirituale, a Satana, principe della tenebra, creatore della materia. Tale convinzione era suffragata dal fatto che Gesú nel Vangelo di Giovanni, come abbiamo visto, aveva chiamato Satana «principe del mondo». Secondo il manicheismo, quindi, il creatore del mondo non era Dio, ma Satana, e l’uomo in questa visione appariva come un puro spirito intrappolato però nel carcere del corpo, dal quale poteva liberarsi solo attraverso la morte. I catari consideravano perciò legittimo e auspicabile il lasciarsi morire al fine di raggiungere la liberazione dello spirito dalla materia del mondo, cosí come consigliavano tutta una serie di pre-
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Dal punto di vista teologico, la dottrina catara si presentava come eretica in quanto professava un dualismo non rintracciabile nelle Scritture. Nel Libro della Genesi, infatti, Dio viene designato come creatore di tutto il mondo, Satana compreso; quest’ultimo è solo una delle sue creature, sebbene sia descritto come il piú astuto e strisciante degli animali, come un serpente tentatore, posto, però, sempre sotto il suo dominio. Nell’ortodossia cristiana, dunque, la caduta degli angeli ribelli – con le conseguenti lotte tra bene e male, schiere angeliche e angeli demoniaci – sebbene destinata a concludersi solo alla fine dei tempi, non innescava alcun dualismo ontologico. E Cristo, che nel Vangelo mostrava di avere il potere di scacciare i demoni, trasmetteva poi tale potere – di fatto – agli apostoli e ai suoi successori, i vescovi, che potevano delegarlo ai semplici sacerdoti. Portata avanti sia dal potere religioso che da quello politico, la lotta contro l’eresia catara conobbe pagine di estrema crudeltà, in particolare nel Sud della Francia, dove si era diffusa al punto da fare presa anche tra le fila dell’aristocrazia feudale, conquistando interi villaggi e città e dando vita a una vera e propria Chiesa, ormai concorrente con quella di Roma. La controffensiva del re di Francia e del papa non tardò a prendere forma e sfociò, nel 1209, nella tristemente nota «crociata contro gli Albigesi», conclusasi con il massacro degli eretici provenzali e l’annessione della Francia meridionale al regno capetingio. Anche in Italia, dove molti Albigesi si erano rifugiati, il clima si fece teso e l’imperatore Federico II introdusse nella legislazione
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immaginario diavolo la condanna a morte per tutte le diverse categorie di eretici, catari e patarini. Il fantasma di purezza agitato dai catari irrigidí e cristallizzò le posizioni dei loro nemici, ai quali spesso forní l’occasione di dare avvio a feroci offensive, questa volta in nome della purezza della fede, di cui molti altri gruppi minoritari, come gli Ebrei, fecero le spese. A tutto ciò la nascita dell’eresia catara, ma soprattutto il successo che essa riscosse, diede un indiretto contributo. La minaccia di conversioni di massa – che avrebbero messo in discussione il sostanziale equilibrio raggiunto dall’Europa cristiana dopo la conclusione della grande stagione delle eresie del periodo tardo-antico – fece riaffacciare il pericolo di una scissione interna alla Respublica Christiana.
L’intolleranza per i diversi
La lotta contro l’eresia divenne quindi una lotta a favore dell’unità che, come sempre nella storia, assunse i toni di un’accanita quanto vana ricerca di un pensiero unico e totalizzante. In nome dell’unità di fede, che divenne quindi soprattutto unicità di pensiero, ci si arroccò su posizioni sempre piú aggressive nei confronti di ogni diversità, presto etichettata come caos, disordine morale, impurità. Lo sforzo di definire, difendere e imporre sempre meglio la «purezza» della cristianità, si trasformò in un aberrante processo di demonizzazione del proprio presunto nemico, in particolare di quello «interno». Tale processo di «demonizzazione» va dunque inteso letteralmente: si procedette cioè a descrivere l’avversario come un frequentatore, adoratore, imitatore e complice del demonio. I processi istruiti dalle autorità civili e da quelle religiose ebbero, quindi, l’effetto di giungere a una sempre piú nitida definizione della figura del demonio, delle sue fattezze e delle sue prerogative. Questo perché gli eretici furono accusati di essere guidati dal demonio nell’allontanarsi dall’ortodossia cristiana; del resto, come abbiamo visto, essi professavano l’assoluto dominio del diavolo su questo mondo e per tale ragione, durante gli interrogatori, le domande su presunte – o in qualche caso effettive – pratiche satanico-occultistiche, divennero insistenti e ossessive. La nascita dell’Inquisizione, in età bassomedievale, contribuí non poco a questa dinamica: il sistema inquisitorio introdotto da Innocenzo III nel 1198, fuse in un’unica figura il giudice e l’accusatore con le immaginabili conseguenze aberranti. Persino gli imperatori – come Teodosio – che nel IV secolo avevano perseguitato gli eretici, non avevano mai unificato i due momenti dell’accusa e del giudizio. Durante i processi, inoltre, gli inquisitori si servivano di formulari prestabiliti, attraverso i quali gli imputati venivano guidati a fornire risposte. Un’ampia sezione di tali formulari era dedicata
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a domande inerenti al demonio: se lo si era invocato, se ci si era serviti del suo aiuto per portare a termine azioni malvagie, se per suo suggerimento erano stati profanati crocefissi e oggetti sacri, se ci si era lasciati «accarezzare» da lui, cioé se ci si era uniti carnalmente con lui.
Meglio la condanna del supplizio
Una volta avviati i primi processi, tali pratiche ascoltate nelle aule dei tribunali divennero patrimonio dell’immaginario collettivo, cosí da suggerire agli imputati – anche quando non richieste – quelle risposte che gli inquisitori andavano cercando. Sfiniti in molti casi dalla tortura o non sempre in grado di comprendere le accuse che venivano loro rivolte, molti imputati finivano col confessare crimini non commessi per giungere a una condanna rapida, preferita a un lento e piú crudele supplizio. Accadde cosí che molti dei principali bersagli dell’inquisizione – eretici, donne sole, Ebrei, relapsi (dal latino relapsus, participio passato di relabi, «ricadere», il termine indicava chi ricadeva nell’eresia o nel peccato, abbracciando dottrine considerate eretiche dopo averle abiurate, n.d.r.) o templari – confessassero di aver incontrato piú volte Satana, di aver per suo ordine sputato, calpestato, dileggiato il crocefisso, bestemmiato il nome di Dio e dei santi e offeso la Madonna coll’appellativo blasfemo di «meretrice». Ciò ebbe la conseguenza di conferire al demonio un’importanza sempre maggiore e forní l’occasione a spiriti torvi di poter dare libero sfogo a morbose manie complottiste, sotto il pretesto di combattere quelle aberrazioni di cui essi stessi erano depositari, ai danni di imputati perlopiú inconsapevoli e inermi. Tuttavia, mano a mano che nella trattatistica cristiana e nelle aule dei tribunali si ingigantivano sempre piú l’immagine e l’azione del demonio attraverso un linguaggio iperbolico e ridondante, accentuando la pericolosità, la malvagità, la sottigliezza e turpitudine delle pratiche a cui obbligava i suoi servi – dagli infanticidi alle orge rituali –, lontano dai tribunali quell’icona cosí artefatta iniziò a essere irrisa e derisa. Cosí a fare da contraltare alle formule altisonanti degli atti processuali, fecero capolino nella letteratura dell’epoca motti di spirito e irriverenze, che finirono con il ridicolizzare l’argentea natura del demonio cui predicatori veementi e inquisitori in malafede pomposamente si richiamavano. Tra tutti, resta a fare da manifesto alla reazione contro la propaganda sul Demonio la spassosa terza novella della decima giornata del Decameron di Boccaccio, riassumibile nella nota metafora sessuale di «ricacciare lo diavolo nello inferno», a dimostrare come alla «sacralizzazione» del demonio in età bassomedievale corrispose una sua «desacralizzazione», operata da una parte per nulla minoritaria e ininfluente della società. F marzo
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Sia
di Erberto Petoia
tregua agli innocenti
Se colpiti dalla morte prematura dei propri figli, i padri e le madri del Medioevo temevano piú d’ogni altra cosa che le loro creature, non avendo ricevuto il battesimo, potessero essere per sempre dannate. Per questo, sfidando l’opposizione delle gerarchie ecclesiastiche, si diffuse l’uso di praticare il rituale del répit, la «tregua», che, mescolando fede e superstizione, apriva le porte del cielo anche ai piccoli defunti
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urante il Medioevo, al’interno del trauma della morte, assumono particolare rilievo i rituali legati ai bambini deceduti senza avere ricevuto il battesimo. Rituali che evidenziano una insanabile conflittualità tra arcaiche disposizioni canoniche e incomprensibili severità di una Chiesa fortemente ancorata a preconcetti dogmatici e il dolore della madre che vede il figlio, innocente e senza colpe, destinato alle fiamme eterne o alla condizione – non meno angosciosa e inappagante – di un’esistenza intermedia nel limbo. La dottrina ecclesiastica aveva da sempre posto l’accento sulla differenza del destino tra i bambini deceduti dopo il battesimo e quelli morti senza averlo ricevuto. Tale differenza era stata oggetto di ampia discussione in sede teologica ed era stata percepita dai fedeli in tutto
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il suo intollerabile gravame, prima che le credenze attuali respingessero molta parte delle dottrine ufficiali della Chiesa e ritenessero che il bambino, morto con o senza battesimo, fosse destinato a un futuro ultramondano celeste.
Posizioni intransigenti
Dopo un periodo di incertezza iniziale, la Chiesa formula rigidamente la tesi ideologica dell’indispensabilità del battesimo, che diventa fondamentale nella salvezza dell’individuo e in base alla quale nemmeno i bambini, incolpevoli e innocenti, sfuggono alla teologia della perdizione eterna. Principali assertori, inamovibili e implacabili, furono
Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
Momo (Novara), chiesa della SS. Trinità. Limbo dei bambini, affresco compreso nella biblia pauperum attribuita ai fratelli Sperindio e Francesco Cagnola. 1512. marzo
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costume e società répit Agostino (354-430) e Fulgenzio da Ruspe (468-533), i cui testi divennero fondamentali nella posteriore storia della teologia battesimale e nella riasserzione di una durezza dogmatica nei confronti degli infanti morti senza il sacramento. Agostino torna diffusamente sull’argomento e, partendo dal dato, per lui inconfutabile, secondo il quale i bambini che «contrassero il contagio dell’antica morte secondo il vincolo che casualmente avevano con Adamo all’atto della loro venuta al mondo» non possono essere liberati dal supplizio della morte eterna, sentenziò che «ai bambini non battezzati nessuno osi promettere, fra la dannazione e il regno dei cieli, qualsiasi luogo mediano di quiete e di felicità, posto in una qualsiasi parte». Dello stesso tenore, se non ancora piú inflessibili nei termini, sono le dichiarazioni di Fulgenzio da Ruspe: «Ritieni saldamente e non dubitare in alcun modo che non soltanto gli uomini già forniti di ragione, ma anche i bambini che cominciano ad aver vita nell’utero delle madri (…) o che siano già nati, e che abbandonano questo mondo senza aver ricevuto il battesimo (…) dovranno essere puniti con il supplizio del fuoco eterno».
A destra Saint-Pantaléon (Francia). Sepolture medievali di adulti e di infanti ai piedi dell’abside di S. Pantaleo. In basso frammento di un monumento funebre raffigurante un neonato in fasce. 1577. Parigi, Museo del Louvre.
Pene differenziate
Nel corso dei secoli, in forme diverse, si erano avuti timidi tentativi di dissociarsi dalla tradizione agostiniana e dai suoi seguaci, senza che tuttavia essi incidessero in maniera determinante e convincente. Si dovrà aspettare ancora molto tempo, pur non potendo ancora parlare di una vera e propria teologia del perdono, prima che maturi una riflessione sulla distinzione tra peccato personale e peccato originale, sull’ineguaglianza dei castighi che questi comportano, e che porterà alla nozione di «pene differenziate». Infatti, nel Concilio di Firenze del 1439, riprendendo quanto già
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affermato dal Concilio di Lione nel 1274, si stabilí che «Le anime di quanti muoiono in stato di peccato mortale o anche con il solo peccato originale, scendono all’inferno, dove, tuttavia, saranno puniti con castighi diversi». La differenziazione delle pene indicava come all’interno della Chiesa stessa non fosse piú procrastinabile il problema dell’inconciliabilità tra la malamorte sancita dalla dottrina ufficiale e l’evidente ingiustizia che accompagnava la condanna perpetua di incolpevoli. marzo
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Ciò portò al delinearsi di una nuova geografia dell’aldilà, al cui interno troviamo un luogo particolare destinato alle anime dei bambini morti senza battesimo, il limbus puerorum, che nel XIII secolo viene nettamente definito da Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. Nella formulazione teologica, tale luogo, «non tristo da martiri, ma di tenebre solo», come lo descrive Dante (Purgatorio, VII, 28) – facendo propria la dottrina tomista –, avrebbe costituito la soluzione definitiva
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alle incongruenze emergenti dalla condanna di bambini incolpevoli.
Una soluzione imperfetta Il limbo, infatti, avrebbe assegnato loro una sorte intermedia tra Inferno e beatitudine celeste, in cui essi non erano sottoposti alla damnatio, alla dannazione, ma solo al damnum, ovvero alla privazione della visione beatifica di Dio. In realtà, la teologia del limbo – maturata nei secoli attraverso deboli argomentazioni – rimase soltanto
un enunciato mai veramente percepito e condiviso, e avvertito come poco convincente. In questo contesto, nel quale le condanne ecclesiastiche accrescono le paure di esclusione dalla vita eterna – il cui primo segno tangibile era l’estromissione dalla sepoltura nella terra consacrata del cimitero dei bambini morti senza battesimo – e dove alla sensibilità materna si oppone un’indifferenza dogmatica che non lascia spazio ad alcun lenimento, si arriva, nel
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costume e società répit A sinistra miniatura raffigurante la Morte che si impossessa di un bimbo mostrando alla madre il contratto che le assegna tale facoltà, dal poema didattico Histoire du mors de la Pomme attribuito a Jean Miélot. 1470 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto Ornavasso (Verbano-CusioOssola), santuario della Madonna del Boden. Due immagini delle decorazioni parietali che raffigurano i riti di battesimo officiati su bambini condotti al santuario e temporaneamente «resuscitati». XVI sec.
Medioevo, all’anomala istituzione dei sanctuaires à répit, propriamente «santuari di tregua», nei quali si somministra il battesimo a un cadaverino, apparentemente rianimato con vari espedienti. Una soluzione per certi versi avallata
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dallo stesso Agostino, il quale non esclude il miracolo di un breve ritorno alla vita, affinché possa essere impartito il battesimo salvifico: lui stesso, in uno dei suoi Sermoni, narra di un bambino che risorge miracolosamente, viene battezza-
to e, subito dopo, muore per essere seppellito con letizia dalla madre. La frequentazione dei sanctuaires à répit si inserisce in un periodo di lunga durata, che va dal primo caso testimoniato in Provenza, ad Avignone, nel 1387, fino agli inizi del marzo
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Il caso italiano
Le Alpi si addicono al ritorno in vita Nella Penisola, il fenomeno dei santuari à répit è attestato soprattutto per le regioni alpine, facendo registrare pellegrinaggi dall’Italia con cadaverini spesso in decomposizione verso i santuari dell’alto Vallese, in cui i bambini
venivano tenuti a volto scoperto durante l’elevazione, ritenuta il momento in cui si verificavano i segni della temporanea risurrezione. Nel Friuli, invece, in caso di rischio di morte, si battezzava il bambino nell’alveo materno, e vi sono testimonianze di infanti battezzati anche da morti. Il patriarca di Udine, nel 1663, minacciava di castighi «a proprio arbitrio» gli autori di battesimi a fanciulli morti e un fascicolo dell’Archivio arcivescovile di Udine, intitolato False resurrezioni di bambini usciti già morti da’ ventri materni, ci offre la riproduzione di un ex voto del santuario di Trava, che mostra due bambini morti, distesi sul lettino, e, circondata da nubi, la
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Madonna del Carmine, che regge il Bambino. Alla destra del lettino, ci sono due donne, probabilmente le levatrici che praticavano il battesimo. Il battesimo dei bambini nati morti era diffuso anche nella diocesi di Aquileia e nella Carinzia meridionale – nella valle del Gail – il santuario di Maria Luggau ospitava i piccoli cadaveri dei bambini nati morti, nella certezza che sarebbero risorti. Ma il caso piú emblematico, sintesi di ciò che era il répit, tra aspettative e ritualità quotidiane, è però riportato in un fascicolo inquisitoriale di Vicenza del 1624, nel quale si parla di un episodio avvenuto nella chiesa della Madonna di Terlago, diocesi di Trento. Venuto a sapere di questa
chiesa dove si operavano le resurrezioni dei bambini, un uomo disseppellí il figlio nato-morto e con un altro padre, a cui era toccata la stessa sorte, vi portarono i due cadaverini. Giunti sul luogo, un’ostessa disse loro di lasciare su un muretto i due cadaverini, che sarebbero stati presi in consegna da due donne che li avrebbero battezzati. Queste tirarono i cadaverini fuori dalle cassette e li deposero a terra davanti all’altare «e toccavano a quei corpicini il polso, il naso e la testa, e dicevano che davano segni miracolosi, e che però si potevano battezzare, battendo il polso, e il cervello, e tra di loro dicevano “tastate qui, che batte il polso” (…) Io in mia coscienza non viddi moto di sorta in quelle creature, solamente un poco di sangue della cratura del mio compagno, dove le donne haveano premuto, e lo asciugavano con una pezzetta». Ma ciò bastò alle donne per ordinare che venissero fatti venire i padrini, e «con dell’acqua in un’ampollina battezzarono quelle due creature, e poi un uomo c’havevano veduto lí intorno, disse, che restasse una delle suddette donne a racontare i segni miracolosi perché potesse far la fede del battesimo (…) Dopo battezzati furono sepolti in quel cemeterio alla nostra presenza, havendo un uomo di quel luogo cavato la fossa. Poi quelle donne dimandarono denari».
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costume e società répit XX secolo, quando la pratica è ancora viva in vari Paesi europei, dopo un periodo di massima vitalità, e contemporaneamente di condanna da parte della Chiesa, nei secoli XVI e XVII. Da miracolo occasionale, quale si era caratterizzato nei secoli precedenti, il répit si trasforma in pratica regolare all’interno di santuari specializzati soprattutto negli anni del Concilio di Firenze e poi nell’età post-tridentina. Per esempio, intorno al 1478 si cominciano ad avere notizie di veri e pro-
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pri pellegrinaggi di genitori di bambini morti senza battessimo verso Neuchâtel, dove c’era un santuario specializzato nel miracolo della resurrezione temporanea, e verso altri luoghi di culto dislocati in altre nazioni europee. Famosa è la cappella Oberbüren, presso Berna, dove il vescovo, in una lettera del 1486 alla Curia romana, lamentava la resurrezione di circa duemila casi, ottenuta con falsi miracoli. Tale pratica sembra fosse diffusa soprattutto in Francia, come testi-
Sulle due pagine Luggau, Austria. Il santuario di Maria Luggau, dedicato alla Madonna Addolorata. XVI sec.
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moniano i circa duecento santuari o chiese in cui si praticava il rituale, che sorgevano o sorgono prevalentemente nelle regioni settentrionale e orientale del Paese. Ma altri santuari con la stessa funzione si trovano in Belgio, in Svizzera, in Austria, in Germania, e nelle zone alpine italiane, dove il répit è sopravvissuto fino a tempi molto recenti. Secondo alcune interpretazioni, la dislocazione di tali luoghi principalmente in aree in cui storicamente era stato piú forte il fenomeno della caccia alle streghe,
spiega il fiorire del miracolo a répit con l’ossessione dell’infanticidio da parte delle streghe stesse.
Il tempo sospeso
Nella coscienza dei credenti, il rituale del répit sembra fondarsi su un’esperienza totale di fede che in qualche modo determina una tregua, una sospensione del tempo in cui è possibile una resurrectio temporanea, al fine di somministrare il battesimo, che, quasi sempre, avviene per l’intercessione della Beata Vergine Maria;
a richiederlo sono principalmente i genitori del bambino defunto, da soli o accompagnati da parenti, amici e dagli abitanti del vicinato o del loro villaggio. I bambini sottoposti al rito sono di solito morti prematuramente o durante il parto e, dopo che ne è stato accertato il decesso, spesso da parte delle levatrici, le madri stesse – addolorate per la perdita del loro frutto, ma ancor piú angosciate per il destino dell’anima del loro figlio – insistono e interpellano i mariti perché il corpicino sia portato in uno di
A destra il santuario e monastero di Maria Luggau in un’incisione di Andreas Troost. 1680 circa.
quei santuari, in cui si è già manifestata l’efficacia della potentia della divinità, che ha in qualche modo fama di avere dei rapporti privilegiati con l’infanzia, e quindi quasi sempre la Vergine Maria. Il cadaverino veniva portato al santuario o alla chiesa subito dopo la morte, anche se si verificavano casi in cui per raggiungere tali luoghi – spesso situati su siti montagnosi distanti e isolati, non facilmente accessibili e raggiungibili –, ci volevano da due a quattro giorni a cavallo o con un biroccio, e il viaggio si trasformava in un vero e proprio pellegrinaggio. Ma abbiamo anche testimonianze di
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costume e società répit prescrizioni dottrinali
Un sacramento e le sue varianti Il numero di bambini nati morti o deceduti senza avere ricevuto il sacramento doveva essere molto alto e questo probabilmente aveva spinto le autorità ecclesiastiche – oltre che a premere per un battesimo entro i primi tre giorni o il giorno stesso della nascita – a riconoscere forme di battesimo, o condizioni di nascita, che mettevano la loro anima al riparo dal rischio di trascorrere l’eternità all’Inferno e poi nel limbo. Per esempio, per alcune speculazioni dottrinali e teologiche, il bambino risultava battezzato, cristiano e salvo, se non usciva dal ventre materno, del cui corpo risultava essere parte; al contrario, se metteva fuori la testa o anche un solo piede, restava un «figlio dell’ira», secondo la definizione di san Paolo, (Efesini, 2,3). Soluzioni poco convincenti, esclusivamente pastorali e dottrinali che non impedirono, parallelamente a quello dei santuari à répit, lo sviluppo di altre forme ed espedienti rituali per evitare che l’anima dei bambini morti senza battesimo soffrisse una qualche forma di dannazione o privazione eterna. Con finalità analoghe, veniva somministrato, oltre al già citato battesimo sub grunda, il battesimo in utero, ovvero la pratica di battezzare, temendo la morte del feto, il sacco amniotico a mezzo di particolari cucchiai che, colmi di acqua benedetta, erano immessi nella vagina; un uso, quest’ultimo, che residua nelle attuali prescrizioni teologiche, che recitano: «Se è pericoloso aspettare piú a lungo, si tenti il battesimo sub conditione nello stesso utero». Non mancavano disposizioni che dovevano regolare la scelta delle levatrici, le quali, in situazioni estreme, erano autorizzate a somministrare il sacramento e pertanto dovevano essere istruite «sul modo di amministrare il battesimo», dato che da loro talvolta dipendeva la salvezza eterna dei bambini. Kinderbegräbnis (Funerale per un bambino), olio su tela di Albert Anker. 1863. Aarau, Aargauer Kunsthaus.
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casi in cui venivano portati al répit bambini dissepolti fino a quindici giorni dopo la nascita, a decomposizione già iniziata, probabilmente a causa dell’assenza del padre al momento del parto.
Il primo momento del rituale prevedeva l’esposizione del cadaverino – spesso nudo, per poter vedere meglio il manifestarsi di qualche «segno di vita» – sull’altare, sulla predella, sui gradini del coro della marzo
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chiesa, oppure sopra una pietra collocata sotto o accanto all’immagine miracolosa. Il tempo dell’esposizione era molto variabile e andava da qualche minuto a poche ore, e talora fino anche a due giorni. Ma se il
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segno tardava a manifestarsi, il curato o il rettore della chiesa si vedevano costretti a convincere i genitori a recarsi in qualche altro santuario dove ottenere la grazia che non avevano potuto ricevere presso di lui.
Una volta deposto il cadavere del bambino, si accendevano le candele, si celebravano messe, e i genitori, i familiari, i fedeli, i conoscenti, le levatrice e il clero locale pregavano in attesa del segno tanto desiderato.
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costume e società répit Il miracolo del bambino nato morto, particolare delle Storie di San Bernardino, tempera su tavola della scuola di Pietro Perugino. XV-XVI sec. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria.
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Santi taumaturghi
I miracoli di Claudio e Martino L’idea dei sanctuaires à répit si connette direttamente a una diversa e ben attestata tradizione taumaturgica, che, fin dall’antichità, aveva attribuito ad alcuni santi, durante la loro vita, interventi straordinari nei riguardi dei bambini morti senza battesimo o, piú in generale, anche di adulti morti in questa condizione che venivano brevemente richiamati in vita per ottenere il sacramento. La letteratura agiografica comprende un elenco di santi che, nel tempo, si sono distinti per questo miracolo di resurrezione di bambini nati morti, come per esempio Stefano, Cunegonda, lo stesso Tommaso d’Aquino, Claudio, che avrebbe operato tre resurrezioni tra il 1466 e gli anni seguenti, solo per citarne alcuni. Famoso è l’episodio di san Francesco di Sales, che fece resuscitare il figlio di un ugonotto che aveva promesso di convertirsi al cattolicesimo. Anche san Martino di Tours, come si legge nella sua Vita scritta da Sulpicio, è protagonista di un intervento miracoloso a favore di un uomo morto improvvisamente senza battesimo e che, riportato in vita, subito fu battezzato e visse poi per molti anni ancora. Altro santo esperto in miracoli di questo genere fu Giacomo della Marca (1393-1476), di cui si narra che avesse resuscitato e battezzato il figlio di un barbiere di Benevento; qualche anno dopo la sua intercessione provoca un simile miracolo a Ischia, e anche dopo la sua morte compie molti miracoli di questo genere.
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Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Inferiore, Cappella di S. Martino. Particolare de Il miracolo del fanciullo resuscitato da san Martino di Tours, affresco di Simone Martini. 1315-1317.
Questi «segni di vita» – che avrebbero consentito il battesimo – potevano essere di vario genere, e le testimonianze fanno cenno a un battito del polso, alla trasformazione del colore cadaverico del volto in rosa, allo schiudersi di una palpebra, a gocce di sangue dal naso o dalle orecchie, a uno spruzzo di orina, allo spasmo di un braccio o di una gamba, alla lingua che sporgeva
dalle labbra, a una lacrimazione, e a qualsiasi altro fenomeno o evento che potesse essere interpretato come un riaffiorare della vita. Era sufficiente la testimonianza di uno solo di questi segni da parte di uno dei presenti per poter gridare al miracolo e dunque battezzare il bambino in tutta fretta. Si trattava, infatti, di un «piccolo battesimo», che non rispettava l’integrità del rito, ma si limitava molto spesso a un segno di croce sul piccolo miracolato, pronunciando la formula usuale, a cui si aggiungeva la condizione: «se sei vivo», quasi un modo per rimettersi a Dio, per
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costume e società répit Bardonecchia (Torino). La cappella della Nôtre Dame du Charmaix in una foto d’epoca. La chiesa è attestata nell’uso come santuario à répit.
ternativi, come l’uso, risalente agli antichi Romani, di seppellire sub grunda, in questo caso della chiesa, in modo che il neonato potesse trarre beneficio dall’acqua che gocciolava dall’edificio sacro e ottenere la grazia simile a quella conferita dal battesimo.
Quasi un rito magico
quanto riguardava il destino finale del bambino. Salvo rarissime eccezioni, ma in quel caso si trattava evidentemente di morte apparente, il «ritorno» in vita durava il tempo strettamente necessario a impartire il battessimo, dopodiché il neonato ritornava nello stato di morte, ma questa volta con la grazia divina e in possesso del nuovo status di cristiano conferitogli dal rito. Dopo la somministrazione del sacramento, si poteva intonare il Te Deum di ringraziamento o anche suonare le campane per rendere partecipe la comunità
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dei fedeli dell’avvenuto miracolo, mentre i genitori dimostravano la loro riconoscenza con ex voto, doni al santuario e offerte in denaro. Infine, constatato il ritorno allo stato di morto dell’infante, si procedeva alla sepoltura. Su quest’ultima non si hanno descrizioni precise, ma da studi recenti sembra che avvenisse quasi sempre all’interno o nei pressi del santuario in cui si era verificato il miracolo o, molto piú di rado, nei cimiteri del luogo di origine, previa testimonianza dell’avvenuto battesimo. Se il santuario era troppo lontano, si ricorreva a rituali al-
Alla base del fenomeno dei sanctuaires à répit sta l’ideologia del battesimo, qui inteso come risultato del processo dialettico tra religione egemone e religione subalterna, in cui le posizioni oscillano tra la magificazione del rito e postulati fortemente dogmatici. Infatti, al pari della messa, anche gli altri sacramenti cristiani avevano generato un complesso di credenze che attribuiva a ogni cerimonia un significato materiale, e cosí al battesimo viene assegnato il potere di trasformare il bambino in essere umano, proprio come un rito magico di passaggio che non esigeva l’adesione e la comprensione del suo destinatario. Questo rito permetteva che alla nascita del corpo facesse seguito quella dello spirito, grazie all’efficacia offerta dagli usi magici del sacramento, in grado di «dare l’anima». E se la concezione del peccato originale – di forte connotazione agostiniana e causa della privazione della beatitudine eterna dell’infante morto senza il lavacro battesimale – spiega in massima parte il fenomeno dei santuari del temporaneo ritorno alla vita, non vanno trascurate altre motivazioni altrettanto profonde e radicate, che spingono i genitori a cercare in tutti i modi di somministrare il battesimo ai propri figli defunti. Dietro le angosce e le premure di battezzare il bambino e consentirgli una sepoltura in terra consacrata residuavano paure, cremarzo
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denze, visioni che andavano oltre la maledizione di un’esistenza senza gioia nell’aldilà, e che investivano hic et nunc l’esistenza dei familiari e della comunità tutta.
I defunti che tornano
All’angoscia e al senso di colpa di vedere i loro figli seppelliti senza la presenza del prete, senza il viatico magico del rito funebre e senza la tutela della sepoltura in terra consacrata, si aggiungeva la paura che i bambini potessero tornare a tormentare i genitori perché morti anzitempo e non in grazia di Dio. Infatti, secondo la visione del tempo, coloro che vedevano il percorso della loro vita troncato in maniera non naturale si trattenevano nei luoghi dove avrebbero dovuto vivere per il tempo pari alla vita che gli era stata tolta, diventando cosí – al pari dei defunti che non avevano goduto della sepoltura rituale – una presenza malefica e nociva. E man mano che la dottrina del battesimo, e soprattutto la sua funzione protettiva, acquisiva sempre maggiore importanza presso i fedeli – come gli esorcismi che lo precedevano –, aumentava la minaccia di questi spiriti vendicativi, di queste presenze malefiche, anime in pena destinate a errare senza pace, il cui stato impediva loro di distaccarsi in maniera definitiva dai viventi. Essi erano cosí destinati a far parte di quella schiera di anime in pena che nel Medioevo era conosciuta con il nome di «caccia selvaggia» o «esercito furioso», che vagava sulla terra, ossessionando e aggredendo i viventi. Si trattava di una credenza molto diffusa, come ci dimostra la pratica riportata da Burcardo di Worms (XI secolo) di infliggere un piolo nel cadavere dei pargoli deceduti senza battesimo per evitare che si trasformassero in perduranti presenze malefiche e che tornassero a molestare e tormentare i vivi. Da qui l’esigenza, da parte dei genitori e della co-
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munità tutta, di garantire con ogni mezzo ai bambini morti senza battesimo un’esistenza nell’aldilà pacificata e di impedire loro di andare a ingrossare le file di queste anime inquiete e dannate. Tra le resistenze e i sospetti delle autorità ecclesiastiche, il fenomeno si diffuse rapidamente, investendo ogni strato sociale, con una forte discrepanza tra pratica e dottrina ufficiale. Infatti, se in questi santuari il rituale era normalmente accettato e praticato, a livello di dottrina ufficiale il répit veniva condannato. A tal proposito va ricordato che, tra le varie imputazioni a carico di Giovanna d’Arco nel processo di Rouen, ci fu anche quella di essere stata l’artefice del répit di un neonato per farlo seppellire in terra consacrata. E cosí vengono emanate disposizioni contro la somministrazione del battesimo in queste circostanze, e una delle prime reazioni ufficiali si registra nel sinodo diocesano di Langres del 1452, dove viene condannato il battesimo somministrato da ministri ignoranti e troppo frettolosi, confortati in ciò dalle testimonianze di persone credule o interessate. E ancora, qualche anno dopo, il secondo sinodo di Langres denuncia i preti di scarsa istruzione che coinvolgono in questi abusi donnette inaffidabili, pronte a testimoniare e che «per averne un guadagno pecuniario si immischiano in questi abusi» e praticano tali superstizioni introducendo i nati-morti nelle chiese, sottoponendoli al rito. Per cui si rinnovavano le costituzioni già espresse e si
vietava di battezzare quei bambini deposti per giorni e notti dinanzi alle immagini sacre che, al principio freddi e rigidi come un bastone, diventavano poi morbidi e flessibili a causa del fuoco dei bracieri, dei ceri e delle lampade accese, che contribuivano a conferire il temporaneo colorito roseo delle guance o la fuoriuscita del sangue dal naso.
Una «tenerezza inutile»
Cosí come si vieta espressamente di prendere per segno di vita il lieve movimento della piuma disposta sotto il naso del cadaverino causato dal fiato caldo delle narici. Si ordinava pertanto ai curati di informare frequentemente di tale proibizione i fedeli, e in particolar modo le levatrici, alle quali si vietava espressamente di portare in chiesa i neonati defunti o gli aborti, di vegliarli in attesa di un segno miracoloso della breve resurrezione e di prestare testimonianza sulla cui base il curato avrebbe praticato il battesimo. Tali divieti si sono susseguiti piú volte nel tempo, a testimonianza della diffusione e della persistenza del répit. Per secoli, a dispetto dei teologi – che l’avevano definita una «tenerezza inutile» –, la pratica aveva consentito di sanare la profonda contraddizione tra rigore teologico e affetti materni e di lenire l’angoscia derivante dall’evento luttuoso in sé; una reazione alla teologia ufficiale, in cui espedienti religiosi e i rituali attuati vengono a connotarsi, nella lucida definizione che ne è stata data, come correttivi di un dogma impopolare. F
Da leggere Jean Delumeau, Il peccato e la paura. L’idea di colpa in Occidente dal XIII al XVIII secolo, Il Mulino, Bologna 1987 Alfonso M. di Nola, La nera signora. Antropologia della morte e del lutto, Newton Comtpon, Roma 1995 Fiorella Mattioli Carcano, Santuari à répit. Il rito del «ritorno alla vita» o «doppia morte» nei luoghi santi delle Alpi, Priuli & Verlucca, Scarmagno (TO) 2009 Adriano Prosperi, Dare l’anima. Storia di un infanticidio, Einaudi, Torino 2005
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luoghi pitigliano di Carlo Casi, Enrico Pellegrini e Debora Rossi
Gerusalemme Il borgo toscano di Pitigliano appare al viaggiatore quasi sospeso nel vuoto, arroccato com’è sulla rupe tufacea che domina i torrenti dai quali è naturalmente protetta. E l’atmosfera fiabesca si rafforza girando per le strade della cittadina, che sembra aver fermato le lancette dell’orologio al tempo degli Orsini e dei Medici
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itigliano, borgo della Maremma toscana, in provincia di Grosseto, è un tipico insediamento etrusco d’altura (313 m slm) frequentato sin dall’epoca pre-protostorica. I ritrovamenti archeologici – manufatti litici, ceramici e vasti sepolcreti – ne sono la testimonianza. Si deve all’erudito viaggiatore inglese George Dennis (1814-1898) il merito di averlo identificato, durante i viaggi in Italia compiuti intorno alla metà dell’Ottocento, come «un luogo Etrusco, che, non essendo mai stato visitato dagli archeologi, non è stato riconosciuto ancora come tale. [Ci sono] tombe su ogni
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lato – dalla sommità dell’altura su cui si innalza la città, giú fino alle rive del torrente, e di nuovo su per l’opposto versante del burrone – pendio, rupe e sporgenze, sono crivellati di tombe. Vi sono anche tratti dell’antica strada, tagliati nel tufo, con dei colatoi laterali, e nicchie nelle pareti (...) Quali che possano essere state le loro decorazioni interne o esterne, quasi duemila anni di profanazioni hanno talmente mutato le loro caratteristiche, che tali problemi possono essere risolti ormai solo dall’archeologo» (da Città e Necropoli d’Etruria, pubblicato per la prima volta in Italia nel 2015, per i tipi della Nuova Immagine di Siena). marzo
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in Maremma Una veduta di Pitigliano (Grosseto). Arroccata su uno sperone tufaceo a poco piú di 300 m slm, la cittadina si presenta oggi nelle forme assunte soprattutto fra il XV e il XVI sec., quando era governata dalla casata degli Orsini.
Dopo una fase romana ancora poco nota, in età altomedievale (IX-XI secolo) Pitigliano è annesso dalla potente famiglia degli Aldobrandeschi al feudo di Sovana. Nel XIII secolo il centro viene annoverato tra i possedimenti trasmessi per dote matrimoniale da Anastasia, ultima discendente della stirpe sovanese, a Romano Orsini, nipote di papa Niccolò III. Per tre secoli dimora definitiva dei nuovi conti, fu scenario di travagliate vicende interne alla famiglia e oggetto di interesse sempre piú diretto prima della Repubblica di Siena poi della signoria de’ Medici, che subentrò defi-
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nitivamente alla guida del paese dopo la capitolazione della dinastia ursina (1604). Sotto i Medici, Pitigliano divenne «città di rifugio» di una comunità ebraica destinata ad aumentare con il decreto del 1569, che sancí, in piena Controriforma, la cacciata dei Giudei da tutte le città del vicino Stato Pontificio. Al volgere del XVIII secolo, il centro fu annesso al Granducato di Toscana dagli Asburgo-Lorena. Alla munificenza, in particolare, di Leopoldo II di Lorena si devono significative migliorie urbanistiche e interventi pubblici di risanamento ambientale tra i
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luoghi pitigliano Per le vie di un borgo da scoprire A sinistra il santuario della Madonna delle Grazie. In questa pagina, in basso un’altra veduta di Pitigliano, con, in primo piano, il ponte di San Giovanni Nepomuceno. Nella pagina accanto, in basso a sinistra una veduta aerea, da ovest, di Pitigliano, che evidenzia la sagoma della rupe di tufo su cui l’abitato si è sviluppato nel corso dei secoli.
quali l’edificazione del ponte di San Giovanni Nepomuceno sul torrente Meleta, che ancora oggi dà accesso al paese per chi viene dalla SR74 Maremmana in direzione di Orvieto. Nel 1860 il plebiscito sancí l’adesione del popolo di Pitigliano al Regno d’Italia e l’inizio di un periodo florido anche per la comunità ebraica, che, avendo ormai superato le 400 unità, contribuí a conferire al centro l’epiteto di «Piccola Gerusalemme». Il centro urbano, che si estende sullo sperone tufaceo eroso nei millenni dagli affluenti di sinistra del Fiume Fiora – i torrenti Meleta a sud, Prochio e Lente a nord –, compare all’improvviso agli occhi del visitatore già all’altezza della curva del santuario della Madonna delle Grazie, poco prima del ponte di San Giovanni. Fedele
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1. Piazza Petruccioli 2. Piazza Garibaldi 3. Piazza della Repubblica 4. Palazzo o Fortezza Orsini 5. Piazza san Gregorio VII 6. Vicolo Manin 7. Via di Santa Chiara 8. Via Cavour 9. Via Roma, già via di Mezzo 10. Via Zuccarelli, già via di Sotto 11. Via Vignoli, già via di Sopra 12. Via Generale Orsini
13. Vicolo Volturno 14. Vicolo della Vittoria 15. Vicolo della Battaglia 16. Vicolo del Seminello 17. Vicolo Venezia 18. Sinagoga 19. Vicolo Goito 20. Vicolo Palestro 21. Palazzo comitale, Museo Diocesano di Arte Sacra 22. Teatro 23. Vescovato 24. Fontana monumentale 25. Cattedrale
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luoghi pitigliano alla sua originaria e caratteristica posizione, il paese per secoli non ha avuto una significativa espansione urbanistica al di fuori del nucleo piú antico d’epoca medievale a cui, soprattutto nel corso del XVI secolo, fu data una nuova veste, anche a seguito della realizzazione dell’imponente acquedotto.
Spazi limitati
Il centro storico si presenta ancora ben distinto dalla cosiddetta «Zona Nuova», localizzata a oriente del pianoro, sia per la presenza di notevoli monumenti eretti a strapiombo della balza tufacea sfruttando lo stesso materiale della roccia su cui poggiano, sia per il tipico affastellamento di case, vie e viottoli che confermano la continuità d’uso del limitato spazio abitativo nei seco-
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li. La posizione della rupe, quasi sospesa nel vuoto, ha inoltre reso la cittadina praticamente inespugnabile fino all’avvento delle armi da fuoco, tanto che mura di difesa furono erette solo negli unici due punti vulnerabili: presso la Porta di Sotto, da cui partiva l’antica via per Sovana, e sul lato nord-est, privo di balze a strapiombo, collegato alla collina di San Michele. Quest’ultima zona, Ancora una veduta di Pitigliano, dominata dalla cattedrale dei SS. Pietro e Paolo, il cui campanile, in origine, era una torre adibita a usi civili e militari.
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che rappresenta l’attuale l’ingresso meridionale all’abitato, richiese sin da epoca medievale, un solido sistema di fortificazioni militari a protezione della Cittadella, della Rocca aldobrandesca e del Cassero.
Gli interventi di Antonio da Sangallo
In età rinascimentale, l’intervento ingegneristico di Antonio da Sangallo il Giovane, voluto dal comes Gianfrancesco Orsini nel 1545, apportò un assetto pressoché definitivo all’impianto militare, con la creazione di una imponente cinta bastionata, della quale restano, nonostante le alterazioni apportate fino ai nostri giorni, i due fortilizi a pianta poligonale di San Francesco a nord, ben conservato all’ingresso dell’attuale via di Santa Chiara, e di San Michele che domina, all’entrata sud del paese, l’attuale piazza Petruccioli e la fontana monumentale dedicata al
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granduca Leopoldo II. Tra l’uno e l’altro bastione si incunea il ponte di raccordo con l’antico acquedotto mediceo, sotto il quale seguita oggi la via per Sorano. L’accesso al centro storico avviene attraverso la Porta sormontata da un arco a grosse bugne in travertino rigato, anticamente denominata «del Soccorso». L’ampio terrazzo panoramico che la precede, sospeso sulla vallata del Meleta, ospita ciò che resta dell’emblema araldico ursino che un tempo adornava il bastione sud, gemello di quello ancora in situ visibile sul forte nord. Al lato della terrazza un’ampia scalinata conduce ai vecchi lavatoi, dove si conservano ancora le vasche che, simili ad altre presenti nel centro storico, erano in uso sino a pochi anni fa. Oltre la doppia porta d’accesso si raggiunge piazza Garibaldi, fulcro della Cittadella, chiusa sul lato nord
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dall’attuale Palazzo Comunale costruito nel 1939 sopra il Teatro che Tommaso Salvini, nel 1870, rinnovò dopo avere apportato modifiche a quello, piú antico, edificato dalla prestigiosa Accademia dei Ravvivati in piena epoca post-illuminista. Sulla destra si diparte una doppia scalinata cinquecentesca, che, in origine, conduceva ai bastioni, servendo i relativi ambienti d’uso militare. Una rampa si raccorda, tramite un viadotto del 1861, al ponte che scavalca la via per Sorano e collega la Cittadella alla parte nuova del paese; l’altra conduce alla piazzetta della Cittadella, già sede della polveriera in età moderna, dalla quale sono ben apprezzabili le tre arcate della parte superiore del Cassero del Castello, in buona parte occultato dal grande palazzo eretto nel 1840 nell’area dell’antico fossato medievale da alcune ricche famiglie di Ebrei. Alla Fortezza Orsini e al centro storico del paese si accede percorrendo l’attuale via Cavour che collega piazza Garibaldi a piazza della Repubblica e segue l’andamento dell’acquedotto mediceo; al nucleo originale di quest’ultimo rimontano i due archi piú ampi sostenuti da un poderoso pilastro tufaceo visibile nella sottostante area dei Lavatoi. Le 13 arcate minori a strapiombo sulla rupe sono state aperte in seguito a una ristrutturazione urbanistica della zona nel 1845. L’acquedotto, che si alimentava dalle sorgive del torrente Meleta, termina nella fontana rinascimentale posta sull’estremo lato sinistro di Piazza della Repubblica, denominato «finestrone meridionale». Il Palazzo o Fortezza Orsini, monumento principale di Pitigliano, domina la piazza e si articola in un palinsesto di corpi di fabbrica di origine medievale a ovest del Cassero, fortemente alterato dalle trasformazioni architettoniche di Antonio da Sangallo il Giovane, Baldassarre Peruzzi e Salvatore de Simone su commessa di Niccolò III e Niccolò IV Orsini tra XV e XVI secolo. Una rampa inclinata, seguita da un’ampia scalinata, dà accesso al cortile loggiato interno, corredato di pozzo esagonale, sul quale
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A destra piazza della Repubblica. La fontana monumentale seicentesca detta anche «finestrone meridionale».
si affaccia l’antico Palazzo comitale, oggi sede del Museo Diocesano di Arte Sacra e del Vescovato. Sul lato opposto, un’ala aggiunta nel XVIII secolo alla Fortezza, ospita il Museo Civico Archeologico (vedi box alle pp. 68-69).
Le case medievali
Il borgo medievale di Pitigliano, che si apre sul lato di ponente della piazza, è ordinato lungo un sistema di tre vie maggiori (via di Sopra, via di Sotto e via di Mezzo), pressoché parallele, intersecate da oltre sessanta vicoli minori ortogonali, molti dei quali con affaccio sugli strapiombi laterali della rupe. Serrate lungo il ciglio del pianoro, le case hanno l’aspetto marzo
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A sinistra S. Rocco (già S. Maria Assunta). Rilievo raffigurante un uomo tra due mostri anguiformi, murato all’esterno della chiesa. XII sec. A destra il ciglio della rupe, con un tratto dell’acquedotto mediceo. XVIII sec.
compatto e organico degli insediamenti medievali. Non mancano edifici di un certo pregio architettonico, nei quali gli elementi decorativi di plastica eleganza sono applicati alle facciate delle case o ai portali e le finestre reimpiegano stemmi o contrassegni gentilizi (vicolo Venezia, vicolo del Seminello, vicolo Volturno, vicolo Palestro, vicolo della Battaglia, vicolo della Vittoria, via Vignoli e via Generale Orsini). Il nucleo piú antico e operoso del centro era sicuramente quello che costituisce l’attuale rione di Capisotto, localizzato sull’estremità occidentale del pianoro tufaceo, perimetrato già in epoca etrusca da un tratto di mura urbiche in opera quadrata. Relativamente piú
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luoghi pitigliano Il Museo Civico Archeologico della Civiltà Etrusca
Un territorio e la sua storia Le vicende storiche dei centri etruschi di Pitigliano e di Poggio Buco sono documentate dai materiali esposti nel Museo Civico Archeologico della Civiltà Etrusca, situato nei locali della fortezza Orsini, nella piazza principale di Pitigliano, la cui visita rappresenta il completamento ideale dell’itinerario alla scoperta di questo borgo della Maremma toscana. Il museo è stato aperto al pubblico nel 1995, grazie alla donazione che la signora Adele Vaselli volle fare alla comunità di piú di mille reperti archeologici di età etrusca provenienti dalla necropoli di Poggio Buco. Nel breve volgere di cinque anni, le nuove scoperte, la possibilità di esporre una selezione delle ceramiche
di età etrusca rinvenute nel territorio di Pitigliano conservate a Firenze presso la Soprintendenza Archeologica della Toscana, e il restauro dei materiali di Poggio Buco, hanno però consentito di rinnovare integralmente il contenuto e l’allestimento del museo. Il nuovo percorso espositivo è diviso in due sezioni. La prima comprende i materiali della necropoli di Poggio Buco della collezione Vaselli, la seconda i reperti provenienti da Pitigliano; lungo tutto il percorso espositivo è visibile il magazzino-laboratorio con le ceramiche in corso di restauro. Tra i manufatti riferibili al centro etrusco di Poggio Buco, si segnalano le ceramiche di bucchero dello stile
detto «pesante» e la produzione etrusco-corinzia figurata. Tra i buccheri, meritano un’attenzione particolare i vasi legati al simposio, quali i grandi crateri (vasi per miscelare il vino) e le hydriai (anfore per l’acqua) che imitano i vasi di bronzo. Del tutto diversa appare la ceramica che accompagnava i defunti inumati nelle necropoli di Pitigliano, piú legata alla produzione dei centri gravitanti intorno all’area del lago di Bolsena e a quella dei centri falisci del distretto tiberino. A Pitigliano predomina la ceramica d’impasto con decorazione incisa e graffita o dipinta in bianco su fondo rosso. Tra i reperti piú antichi si segnalano il vaso biconico dipinto con motivi geometrici Nella pagina accanto, in alto un monumentale cratere (vaso in cui si mescolavano acqua e vino) in bucchero nero con testine femminili e figure umane a rilievo, dalla necropoli di Poggio Buco. Metà del VI sec. a.C. Pitigliano, Museo Civico Archeologico della Civiltà Etrusca. A sinistra l’interno della Sinagoga dopo le opere di restauro condotte di recente, che hanno restituito all’edificio l’aspetto originario.
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della seconda metà dell’VIII secolo a.C., usato come contenitore per le ceneri del defunto, i vasi con alto collo e i kantharoi (tazze a due manici) con anse intrecciate del VII secolo a.C. Il museo si è recentemente arricchito di due nuove vetrine. La prima è dedicata ai corredi delle tombe di età ellenistica della necropoli di San Giovanni; la seconda ospita una scelta dei materiali archeologici provenienti dallo scavo che ha messo in evidenza una villa di età romana in località Quattro Strade, nei pressi di Pitigliano.
recenti (XVII secolo) sono le abitazioni sulle quali si impostano quelle attuali di via Vignoli – detta comunemente «Fratta» –, raggiungibile dall’antica via di Sopra e seguita su tutto il versante nord della rupe di tufo sino a discendere ai fiumi Prochio e Lente. Sul lato opposto del paese, quello meridionale, si snoda via Zuccarelli, già via di Sotto, che dà accesso al quartiere ebraico con la Sinagoga della fine del XVI secolo al centro del Ghetto, caratterizzato dai resti delle abitazioni quattrocentesche. Un recente restauro ha restituito al tempio, crollato agli inizi degli anni Sessanta del Novecento, l’antico aspetto e reso nuovamente visitabili gli ambienti sotterranei a esso annessi (bagno rituale, cantina e macelleria kasher, forno per le azzime), nonché i locali dell’archivio, della biblioteca e della Scuola Israelitica, tutti gravemente danneggiati dai bombardamenti aerei del 1944. Nel 1959 fu celebrata l’ultima significativa funzione religiosa dello Yom Kippur: l’area di culto e il restante quartiere della Piccola Gerusalemme costituiscono oggi uno tra i pochi musei italiani a cielo aperto della civiltà ebraica. La principale via d’accesso al borgo è via Roma, anti-
Nel quartiere degli Ebrei A partire dal XVI secolo, Pitigliano accolse una comunità ebraica che, alla metà dell’Ottocento, contava 400 anime. Di quella importante presenza, è testimonianza il quartiere ebraico della cittadina, che, oltre alla Sinagoga, comprendeva tutte le strutture legate ai dettami e agli usi degli Ebrei e delle quali viene qui riprodotta la pianta: VISTA PANORAMICA
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1. ambiente per le abluzioni rituali (mikveh); 2. cantina; 3. mostra di cultura ebraica; 4. macello kasher; 5. forno delle azzime (struttura a cui si riferisce anche la foto qui accanto); 6. tintoria; 7. sala per conferenze.
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luoghi pitigliano ca via di Mezzo. Percorrendola si raggiunge la cattedrale dei SS. Pietro e Paolo, già Collegiata insigne nel 1509, sottoposta nei secoli a numerosi rifacimenti e comunicante con il quartiere ebraico per mezzo del viadotto di vicolo Manin. La robusta torre campanaria, che svetta sulla facciata barocca dell’edificio religioso, era un tempo adibita a uso civile e militare e rappresenta ancora oggi un elemento caratterizzante del profilo urbano di Pitigliano. Al suo interno sono degne di nota due magnifiche tele del pittore mancianese Pietro Aldi (1885) dedicate a Ildebrando da Soana, salito al soglio pontificio nel 1073 col nome di papa Gregorio VII e al quale è intitolata anche la piazza antistante la Chiesa. Nella stessa piazza si conserva il pilastro monumentale in travertino donato alla progenie ursina (1490).
L’uomo mangiato dai mostri
La naturale continuazione di via Roma, anticamente via delle Fabbrerie, è oggi via Generale Orsini, che si ricollega, all’altezza dell’antica Dogana, alla parallela via Vignoli; seguitando per Capisotto, la strada si ricongiunge a via Zuccarelli. Alla confluenza dei due percorsi, si trova la chiesa di S. Rocco (già S. Maria Assunta), dalla singolare pianta trapezoidale, probabilmente la piú antica chiesa di Pitigliano come ricorda un bassorilievo del XII secolo murato sulla facciata esterna del lato di sinistra dell’edificio, che reca la figura a mezzo busto di un uomo tra due mostri anguiformi. All’interno, sulla volta della parete absidale e sui muri laterali, si conservano tracce di affreschi e una serie di nove stemmi dipinti a ricordo delle principali casate storiche succedutesi al governo del paese a partire dai Medici.
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Il Museo all’aperto «Alberto Manzi»
L’intuizione del «maestro» Il ritrovamento di tombe etrusche sormontate da tumuli o decorate con rilievi architettonici scolpiti, l’identificazione di file di tombe rupestri disposte su piú ordini, la scoperta di una consistente occupazione dell’area in età ellenistica (IV-prima metà del III secolo a.C.) e di una serie di ambienti termali pertinenti a un importante edificio di età imperiale (II-III secolo d.C.) hanno permesso di aggiornare le conoscenze e di inserire lo sviluppo storico del territorio di Pitigliano in un piú ampio e vivace quadro storico. In particolare, l’esplorazione delle necropoli del Gradone e di San Giovanni, ha consentito di realizzare il Museo all’aperto «Alberto Manzi». L’idea di affiancare al percorso espositivo del Museo Civico Archeologico della Civiltà Etrusca (vedi box alle pp. 68-69), nel quale sono esposti i corredi delle tombe etrusche dei dintorni, la visita delle stesse tombe che li contenevano si deve a un grande pedagogista, sindaco per breve tempo di Pitigliano e mai dimenticato ideatore della trasmissione televisiva Non è mai troppo tardi: il «maestro» Alberto Manzi (1924-1997). La posizione delle necropoli etrusche del Gradone e di San Giovanni, situate nei pressi di una «via cava», e il contesto ambientale particolarmente suggestivo si sono rivelati particolarmente adatti a realizzare il progetto, che si proponeva di condurre il visitatore a esplorare la « città dei morti» in una situazione simile a quella originaria. Il percorso di visita
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Dove e quando Museo Civico Archeologico della Civiltà Etrusca piazza Fortezza Orsini, 59/C Museo Archeologico all’aperto «Alberto Manzi» via Cava del Gradone, S.P. 127 Orario gli orari e le modalità di accesso ai musei possono variare, anche in funzione della stagione; si consiglia quindi di verificarli attraverso il sito web della struttura oppure prendendo contatto con le sue sedi Info tel. 0564 614067; e-mail: museo@comune.pitigliano.gr.it; www.comune.pitigliano.gr.it CoopZoe tel. 0761 458609; e-mail: coopzoe@libero.it; www.coopzoe.it A sinistra una tomba etrusca della necropoli di San Giovanni, databile alla seconda metà del VI sec. a.C. Nella pagina accanto ricostruzione, a dimensioni quasi reali, di una capanna simile a quelle che dovevano comporre il villaggio della tarda età del Bronzo sorto sulla rupe di Pitigliano nell’XI-X sec. a.C.
dell’area archeologica ha tuttavia inizio dalla «città dei vivi». La fase del villaggio protostorico della tarda età del Bronzo (XI-X secolo a.C.) – attestato archeologicamente sulla rupe tufacea di Pitigliano – è rappresentata da un modello didattico di abitazione del tipo a capanna circolare, realizzato in dimensioni quasi pari al vero. La ricostruzione di una casa ad atrio, abitazione etrusca tipica dell’età arcaica, consente invece, attraverso uno sguardo virtuale, di osservarne i tre ambienti principali: la cucina, la camera nuziale e la sala del banchetto. Una via «cava», ripida e tortuosa come l’orrido di un paesaggio dantesco, conduce alla sottostante «città dei morti» immersa nella penombra del bosco. Da tempo le camere funerarie sono state svuotate dei loro arredi, ma, alla fine di questo primo percorso, è possibile visitare la tomba di Velthur e Larthia e rivivere la sacralità e le emozioni di una cerimonia funebre etrusca: all’interno del monumento funebre sono state infatti ricostruite le deposizioni dei defunti, accompagnate dai rispettivi corredi.
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Al piano terra delle case rustiche del centro storico, in un dedalo di gallerie scavate in epoca imprecisata, si aprono ambienti sotterranei sorprendenti, un tempo adibiti al ricovero degli animali, a ospitare telai per la lavorazione della canapa oppure a frantoi; uno di questi, recentemente musealizzato su vicolo Goito, era a servizio del Ghetto ebraico e censito nel Catasto granducale del 1825. Altri locali sotterranei funzionano ancora oggi come cantine; i piú spettacolari si trovano nel quartiere di Capisotto, presso la Porta di Sovana dove ha inizio la scalinata che scende fino al sentiero detto «Selciata», che, costeggiando la rupe, fa il giro completo dell’abitato e si raccorda con l’area dei Lavatoi e la Piazza Petruccioli o, diversamente, alle «vie cave» (cioè «scavate»: la definizione indica percorsi tagliati nel banco roccioso, soprattutto in epoca etrusca, che raggiungono spesso notevoli profondità, n.d.r.) del versante occidentale. F «Medioevo» ringrazia per la collaborazione Claudia Pietrini, presidente della Cooperativa Zoe, società che gestisce il Sistema Museale di Pitigliano.
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di Claudio Corvino
All’ascolto del Medioevo
Dal brusio sommesso delle preghiere ai rintocchi delle campane, la vita quotidiana delle cittĂ medievali era accompagnata da una moltitudine di suoni e di rumori. Un paesaggio sonoro che possiamo immaginare e ricostruire grazie alle fonti iconografiche e documentarie, a cui si aggiungono le molte e colorite cronache dei grandi eventi, ma anche di gustosi momenti privati...
Giochi di fanciulli (particolare), olio su tavola di Pieter Bruegel il Vecchio. 1560. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Il vociare dei piĂş piccoli era una delle caratteristiche distintive del paesaggio sonoro medievale.
Dossier
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mmaginare di chiudere gli occhi e di ascoltare i suoni e i rumori di una città medievale potrebbe sembrare un’operazione eccentrica, se non impossibile: in fondo solo dalla fine dell’Ottocento siamo in grado di registrare qualcosa e, come scriveva il Dottore della Chiesa e poi santo Isidoro di Siviglia (560 circa-636) nel De Musica, «se l’uomo non trattiene i suoni nella sua memoria, essi spariscono, perché non possono essere scritti». Di questa «fonosfera» medievale abbiamo talvolta qualche labile descrizione: tracce imperfette di un mondo che fu incredibilmente ricco e che ora ci appare come un affresco scrostato su di una parete umida. Certo, il Medioevo cominciò a lasciarci qualche traccia melodica attraverso una timida notazione musicale, ma nulla potrà piú restituirci il suo variegato paesaggio sonoro. Nulla o quasi, visto che da qualche decennio gli studi di antropologia ed etnomusicologia ci hanno aperto le porte – meglio, le orecchie – su questo mondo inesplorato e affascinante.
La storia al galoppo
Ogni epoca ha avuto un suo orizzonte sonoro dalle caratteristiche proprie e dai lentissimi cambiamenti: il galoppo del cavallo ha fatto da sfondo alla storia europea fino alla prima guerra mondiale. Un timbro che, diventando ritmo, è confluito nella chanson de geste e nel romanzo bretone e ha tenuto banco fino alle colonne sonore di film storici, come Excalibur di John Boorman (1981). Eppure ricostruire un paesaggio sonoro perduto è possibile, se non addirittura necessario, almeno per chi voglia comprendere una cultura nel suo insieme di relazioni, tanto materiali quanto intellettuali. Perché una civiltà non è fatta solo di testi e monumenti, di saghe e Libri di Ore, ma anche di suoni e di rumori: siano essi gli zoccoli di un cavallo sul legname che rivestiva la città di
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Firenze, una musica da camera o le grida scomposte urlate sotto la finestra di un coppia di anziani risposatisi in seconde nozze. Chiariti solo alcuni degli aspetti di una simile ricerca, proviamo ora a immergerci in una città medievale – una città-tipo, non una specifica – a occhi chiusi e ascoltiamone i suoni e i rumori, tentando di capire da dove provengano e, soprattutto, cosa abbiano da dirci. Giungere alle mura della nostra città e oltrepassarne la porta d’ingresso è un’esperienza multisensoriale, ma forse, prove-
nendo dalla silente campagna circostante, ciò che colpisce maggiormente è quella sua esplosione sonora, quei rumori che «fanno» tanto città e che «fanno» tanto libertà, perché, ricorda un antico proverbio tedesco, «Stadtluft macht frei» («L’aria di città rende liberi»). Per lo scrittore e filosofo francese Michel de Montaigne (1533-1592), entrare nottetempo in una città come Augusta è ancora un’avventura totalmente sonora. Chiuse le porte al calar della notte, Montaigne si trova di fronte alla «porta segreta» marzo
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Nella pagina accanto pagina miniata di un calendario raffigurante una battaglia a palle di neve per le vie cittadine come allegoria del mese di dicembre, dal Livre d’Heures de la Duchesse de Bourgogne, Adelaide de Savoie, opera del Maestro di Adelaide di Savoia. e del Maestro di Jean Rolin. 1460-1465. Chantilly, Musée Condé. A destra illustrazione medievale che ritrae un messaggero nell’atto di consegnare una lettera. Parigi, Musée de la Poste.
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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
che filtra i viaggiatori, aperta da un guardiano attraverso una lunga catena che «dopo un lungo percorso e molteplici giri», solleva un paletto, anch’esso in ferro. Superato l’ostacolo, con la porta che si chiude rumorosamente alle spalle, il visitatore può ascoltare ora i suoi passi attraversando il ponte di legno coperto poggiato sul fossato che fa da cassa di risonanza. Qui il guardiano avvisa con una campanella il suo collega, il quale subito aziona rumorosamente un congegno che solleva una barriera, sempre di ferro,
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poi, mediante una grande ruota, comanda il ponte levatoio e cosí «d’improvviso ogni cosa si richiude con gran fracasso». Passato il ponte, un’altra porta lo conduce in una sala dove si ritrova chiuso, solo e senza luce.
Vivere all’aperto
In città il rumore regna sovrano: sotto la spinta di una continua espansione, si abbattono e si ricostruiscono case e mura di cinta. Ogni centro abitato aveva «toniche» diverse a seconda che le sue strade fossero rivestite in legno, mattoni,
terra battuta o in pietra, ma tutti erano accomunati dal continuo vociare della gente, degli artigiani, dei venditori, dei banditori… In Italia, complice la mitezza del clima, la vita si svolgeva all’aperto e i sedili di pietra posti davanti all’ingresso delle abitazioni servono soprattutto per sedersi a chiacchierare con il vicinato, come racconta Franco Sacchetti (1330 circa-1400 circa) in una delle sue Trecentonovelle (112): «Ora avendo cenato, e usciti fuori (…) e su una panca appiè della sua casa essendovi molti vicini, com’è d’usanza, ed eranvi de’ ben marzo
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Passione di Cristo, olio su tavola di Hans Memling. 1470. Torino, Galleria Sabauda. Le rappresentazioni dei Misteri connotavano la vite delle città medievali, anche con il loro bagaglio sonoro.
comandamento. Per questo gli ecclesiastici le sanzionano: «Anche tu ti sei comportata come fanno alcune? Mentre si avviano insieme alla chiesa, si raccontano a vicenda stupidaggini, parlano di cose senza valore e non pensano al bene della loro anima?» (Penitenziale di Burcardo di Worms).
Le sette note
satolli, e io scrittore mi trovai fra quelli; vi si cominciò a ragionare». «Ragionamenti», chiacchiere o piú segreti borbottii che si fanno a bassa voce, come i cunti («racconti», nel dialetto napoletano, n.d.r.) e i pettegolezzi, che devono entrare di diritto nel paesaggio sonoro medievale. Brusii e sermones spesso sottovalutati, ma che fanno da collante e da controllo della vita urbana: voci sommesse, calunnie, critiche che – in una società legata all’onore, al decoro e alla morale – valgono piú di ogni bando, legge suntuaria o
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Piú in generale, per tutto il Medioevo ci si interrogò su questo vitio linguae di cui parlava san Pier Damiani già nell’XI secolo e che piú tardi il teologo Alano di Lilla analizzò, sezionandolo in verbosità, menzogna e maldicenza. In un mirabile simbolismo sonoro, le capacità della lingua di lodare Dio e di offenderlo si fondono nell’inno liturgico Ut queant laxis scritto da Paolo Diacono e reso famoso da Guido d’Arezzo, che ne utilizzò la prima strofa per definire i nomi delle note (ut, re, mi, fa, sol, la) dell’esacordo: «Ut queant laxis Resonare fibris Mira gestorum Famuli tuorum Solve polluti Labii reatum Sancte Joannes» («Affinché possano cantare / con voci libere / le meraviglie delle tue gesta / i servi tuoi / cancella il peccato / dal loro labbro impuro, / o San Giovanni»). Pettegolezzi che diventano problema teologico negli exempla del Tractatus del frate e predicatore francese Stefano di Borbone (1190/951261 circa), nel quale si mostrano i danni che una lingua non controllata può provocare. Nel corso del Trecento vennero definite ben quarantacinque categorie di peccati di lingua, ma la distinzione tra confidenza, inciucio, protesta, bestemmia e lode è
anche una questione di timbro e di decibel. Quando un inciucio supera il limite di tolleranza morale, allora supererà anche quello acustico, uscendo dal sommesso sussurrio della camera da letto per diventare strepito o grido di piazza: bande di ragazzi, juvenes, si riuniscono rumorosamente per gridare, in rima o a suon di parolacce (o entrambe) gli eventi «scabrosi» sotto le finestre o dinnanzi alle porte dei «colpevoli», che spesso saranno costretti a cambiare quartiere – quando non la città – per la vergogna. Non dimentichiamo, inoltre, quanta parte abbiano avuto questi particolari «rumores» nel far nascere «voci» di stregoneria, di infanticidi rituali, di eresia, dalle conseguenze mortali. Sembrerà superfluo ricordarlo, ma le capacità «acustiche» dell’uomo medievale erano molto superiori alle nostre, perché tutta la cultura e i saperi venivano trasmessi oralmente. Il tempo stesso veniva scandito dai suoni: dalle campane, innanzitutto, ma anche dai banditori e dalle urla periodiche che accompagnavano le feste popolari. Rumori che filtravano dalle finestre perlopiú senza vetri: quelli che si facevano per allontanare le eclissi o i temporali, ma anche il piú banale passaggio degli animali, i grugniti dei maiali che venivano a cercare cibo tra le abitazioni, l’abbaiare dei cani, il canto del gallo. Fra le mura domestiche, la vita era scandita da rumori piú familiari, per esempio dal pianto e dal riso dei bambini. Secondo il monaco e teologo Guglielmo di Saint-Thierry (10851148), «soltanto l’uomo [la Natura] lo getta nudo sulla nuda terra, perché subito pianga e si lamenti; nessun altro, di tanti animali, ha dato alla luce perché piangesse, e subito». Probabilmente appena nati, stretti come sono in quelle fasce che vediamo nell’iconografia, i bambini hanno ben ragione di piangere ma, come tutti, anche quelli medievali amano giocare: scavi archeologici hanno portato
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Dossier alla luce fischietti duecenteschi a forma di uccello, tegami e brocchette in miniatura molto simili a quelli che si regalano ancora oggi, piccole bambole, cavallucci con i loro cavalieri e minuscoli salvadanai. In inverno i bambini contribuiscono a tenere alta la soglia sonora girando per casa mentre gonfiano le vesciche dei maiali ammazzati il 17 gennaio, sant’Antonio, e poi le svuotano rumorosamente, provocando cosí quei «rumori osceni» che ancora oggi segnano il periodo invernale e carnevalesco. La sera ovviamente c’è il problema di farli addormentare: oltre a decotti e infusi a base di erbe in aqua pluviali, il Lilium medicine di Bernard de Gordon (XIII-XIV secolo) conosce anche vari rumori atti a conciliare il sonno, come il sonitus aquarum, il motus foliorum arborum, oppure il quotidiano suono delle preghiere. Gli scoppi di risate sono un’esclusiva dei bambini ma non degli adulti, ai quali si addicono piuttosto la serietà e il silenzio. Quel che sembra irritare di piú nel riso negli adulti è proprio la sua improvvisa sonorità, o almeno cosí ritiene san Gerolamo (347-420 circa), chiarendo inoltre che quello eccessivo e sonoro, che scuote tutto il corpo, è assolutamente condannabile, seguendo in questo Clemente Alessandrino (150-215 circa), secondo il quale era tipico di prostitute e lenoni.
La strada e i suoi rumori
Per strada, nelle botteghe e nei negozi i rumori variano. La vita comincia presto in città e le attività fervono. La tonica piú viva è quella dei venditori con le loro grida, le piú note delle quali, le Cris de Paris, vennero messe in musica da Clément Janequin nel 1530. La specializzazione lavorativa delle strade altomedievali (come le varie via degli Orefici, via dei Calderai, via dei Funari, via dei Mercanti…) non è un fenomeno generale e comincia comunque a diminuire verso la fine
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Miniatura raffigurante un uomo bastonato e cacciato da una casa, da un’edizione manoscritta delle Favole di Bidpai. Scuola tedesca, 1480 circa. Chantilly, Musée Condé. Ad arricchire il paesaggio sonoro potevano contribuire le urla che certamente avranno accompagnato scene come questa.
A sinistra miniatura che evoca il mese di gennaio con un uomo che spacca la legna, dal Libro d’Ore noto come Golf Book. 1520-1530. Londra, The British Library. I rumori prodotti da simili attività erano una delle «colonne sonore» del Medioevo.
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dell’età di Mezzo, sicché gli artigiani e i venditori devono farsi sentire, devono pubblicizzare la propria merce: da quelli ambulanti, che la portano appesa al collo o su qualche asino, a quelli che girano con rumorosi carri, fino ai piú silenziosi, che recano una sorta di insegna scritta, di carta o in legno, indicante la loro specializzazione. Dentisti e barbieri, musicisti e giocolieri, saltimbanchi, ognuno ha il suo grido. Spazzacamini, maestri di scuola, calderai gitani, muratori, indovini, tutti gridano i loro servigi, tutti decantano le pro-
prie virtú: «La merciaia con lo staccio, va sonando sonagliere, portando intorno le sue gioie, e anelli, e spille; grida: “Asciugamani, chi ne vuole? Comprate queste tovaglie!”», racconta il poeta spagnolo Juan Ruiz, attivo nella prima metà del Trecento. È il mondo che Rutebeuf racconta nella satira il Dit de l’Herberie, il mondo dei ciarlatani, degli incantatori di serpenti – i sanpaolari o sandomenicari – dei Dulcamara che vendono di tutto, dalla pozione per far ricrescere i capelli a quella per rinvigorire le prestazioni sessuali. A innalzare ulteriormente la so-
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Dossier glia sonora provvedono gli araldi comunali, professionisti della voce che pubblicizzano e rendono esecutivi i provvedimenti del Comune: i bandi, gli esili, le sentenze, le condanne. Ci sono anche quelli «privati», che si possono assoldare per strada o in taverna anche solo per recapitare comunicazioni o corrispondenza: magari scabrose lettere d’amore. A Siena, in piazza del Campo, accanto alla «baratteria», alla Bisca pubblica e alla Pescheria, c’è la Nettezza pubblica: chi se ne aggiudicava l’appalto aveva anche il diritto di farsi gridatore autorizzato. Sappiamo che il 9 ottobre 1296 una gara d’appalto è stata «publice preconicçata», annunciata pubblicamente da un banditore comunale per tre giorni in tutta la città. Il vincitore, otteneva inoltre il diritto di «gridare» e vendere somari e cavalli, di elencare le cose smarrite e i giorni di festa istituiti, le balíe, i nomi dei magistrati e dei medici.
Annunci mortuari
Naturalmente a volte può capitare che si smarrisca un animale: «Udite, udite! Chiunque, uomo o donna, di città o di campagna, possa fornire una qualche notizia d’una giumenta grigia con una coda nera e tre gambe e gli occhi fuori dalle orbite e un gran buco in culo, che quella è la bestia, se c’è qualcuno che può dare qualche notizia di questa giumenta, allora ne informi il banditore, che gli sarà riconoscente per la sua fatica». La testimonianza riguarda la Londra dell’epoca di Shakespeare, ma non abbiamo dubbi che anche prima e altrove le cose funzionassero cosí. Persino i decessi sono «gridati» per strada da appositi «gridatori dei morti» a cavallo. Poi ci sono spettacoli, di tutti i tipi: giochi di prestigio, orsi, scimmie o animali ammaestrati, concerti e canzoni, soprattutto in occasione di qualche festa religiosa. I Misteri possono essere straordinariamente lunghi (il Mystère de la Passion
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In alto particolare di una minatura raffigurante musici che suonano in strada, da un Libro d’Ore fiammingo. XVI sec. Cambridge, Fitzwilliam Museum. A sinistra facsimile di una carta da gioco raffigurante il matto, (o un giullare) che suona un flauto e un tamburo. L’originale appartiene al mazzo della Corte di Ambras, realizzato intorno al 1455.
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del francese Arnoul Gréban, scritto alla metà del XV secolo, si compone di ben 34 754 versi) e quindi durare vari giorni; per essere pubblicizzati, molti spettacoli sono inoltre preceduti da scorribande di uomini travestiti da diavoli che perseguitano i cittadini, arrivando persino a taglieggiarli. Il tutto in un baccano infernale, perché – è opinione condivisa – qualunque cosa provenga dall’Inferno deve fare un rumore, appunto, «infernale», come mostrano persino i piccoli diavoli dei manoscritti, spesso alle prese con cornamuse, tamburelli e altri strumenti musicali. Una pallida immagine di questa rumorosa baraonda ci viene restituita da un episodio del Gargantua e Pantagruel di Rabelais (pubblicato tra il 1532 e il 1564), allorquando Villon decide di vendicarsi del cordigliere Batticoda durante la confusione che precede una rappresentazione. I suoi diavoli travestiti, con grossi campanacci da vacche e sonagliere da muli, fanno un fracasso terribile, con gran divertimento
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degli adulti e spavento dei bambini: «Arrivato Batticoda, tutti gli sbucarono davanti sulla strada con grande spavento, schivando fuoco da ogni parte su lui e sulla pulledra, agitando i campani e urlando alla diavola. Oh, ohh, ohh, ohh! Brrrurrrurrrs, rr-rurrs, rrrurrrs! Uh, uh, uh, oh oh, oh, oh! – Frate Stefano, non facciamo bene i diavoli?». E dopo che i diavoli-attori sono andati in giro a pubblicizzare lo spettacolo per giorni, si procede al «grido», cioè alla chiamata del pubblico.
Quel «riso terribile»
Anche i racconti degli ecclesiastici confermano questi «rumori d’inferno», in un gioco di scambi tra cultura dotta e popolare che non si è mai interrotto. Nell’VIII secolo il Venerabile Beda riporta la storia del monaco Drycthelm, il quale, soggiornando presso Satana, ode «un riso terribile, come se la plebaglia si prendesse gioco dei nemici incatenati. Quando il rumore è aumentato e si è avvicinato, vidi una folla di spiriti maligni trascinare verso le profondità delle tenebre cinque anime umane che
urlavano e gemevano, mentre i demoni ridevano ed esultavano». Nelle botteghe invece non c’è il diavolo, ma i rumori abbondano comunque, soprattutto in quella del fabbro – una sorta di Inferno in terra –, caratterizzata dalla concentrazione di rumori di gran lunga piú alta dell’epoca premoderna. E non è un caso se tutti gli strumenti del fabbro ritornino nelle immagini e nella mitologia diabolica. Il teologo Onorio di Ratisbona (1080-1154) parla del diavolo-fabbro ferraio che «dell’afflizione e della tribolazione fa la sua fucina; delle tentazioni i suoi soffietti; dei boia e dei persecutori i suoi martelli e le sue tenaglie; delle lingue dei maldicenti e dei detrattori, le sue lime e le sue seghe». Tutte le apparizioni di esseri sovrannaturali risuonano del clangore dei volgari strumenti del labor, officium servile, negotium, che, in fondo, è figlio del peccato originario. Cosí, in una di queste visioni infernali del XIII secolo: «E in quella moltitudine turbolenta e confusa, cosa mirabile a dirsi, si udiva che c’erano fabbri, minatori,
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Dossier A destra miniatura raffigurante la piazza del mercato, da Le Chevalier errant di Thomas III de Saluces. 1400-1405. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso un altro facsimile di una carta da gioco del mazzo della Corte di Ambras raffigurante un barbiere.
taglialegna, spaccapietre che menavano colpi con scuri e martelli, e anche sarti, pellicciai, tessitori e follatori, e membri delle altre arti meccaniche. I quali, evidentemente, agitati e inquieti, si affaccendavano rumorosamente ciascuno intento al proprio lavoro e, come se fossero ancora nelle loro officine, penavano nella tribolazione e nelle angustie correndo senza sosta qua e là nell’aria». Ma nelle botteghe si può anche pregare, soprattutto al principio
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In alto miniatura raffigurante un fabbricatore di fiaschette al lavoro nella sua bottega, dall’Hausbuch der MendelLandauerschen Zwölfbrüderstiftung. 1426-1549. Norimberga, Stadtbibliothek.
della giornata, sebbene le preghiere possano sconfinare in incantesimi magici: «All’inizio di un qualsiasi lavoro hai forse pronunziato formule magiche, o compiuto riti propiziatori anziché invocare il nome di Dio? Trenta giorni di penitenza a pane ed acqua».
Lavorar cantando
Il lavoro, poi, può essere accompagnato dal canto, come purtroppo scopre Dante in una gustosa novella di Franco Sacchetti: «Passando per porta San Piero, battendo ferro uno fabbro su la ‘ncudine, cantava il Dante come si canta uno cantare, e tramestava i versi suoi, smozzicando e appiccando, che parea a Dante ricever di quello grandissima ingiuria». Senza
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pensarci due volte il Sommo Poeta entrò nella bottega, prese tutti gli attrezzi del fabbro e li gettò per strada. Alle rimostranze dell’uomo, Dante replicò: «Tu canti il libro e non lo di’ com’io lo feci; io non ho altr’arte, e tu me la guasti». Da allora in poi il povero fabbro «se volle cantare, cantò di Tristano e di Lancellotto e lasciò stare il Dante». La fama dell’Alighieri è testimoniata anche da un’altra novella in cui si ritrova ad ascoltare un asinaio che cantava il suo libro e «quando aveva cantato un pezzo, toccava l’asino, e diceva: “Arri”». Al che Dante gli diede una sonora bastonata perché, sosteneva giustamente, «cotesto arri non vi miss’io». Il cantare sul lavoro non è na-
turalmente una particolarità soltanto medievale, ma è almeno dal De istitutione musica di Boezio che se ne teorizzano gli effetti positivi: i canti (i lamenti) funebri alleviano il lutto, mentre i canti militari aumenterebbero il coraggio dei soldati e inoltre, sostiene il già citato Isidoro di Siviglia, aiutano i rematori nei loro sforzi e piú in generale tutti i lavoratori. Alla fine del XIII secolo, il teorico della musica e scrittore francese Jean de Grouchy assegna la medesima funzione alla chanson de geste (definita cantus gestualis nel suo De musica), che permette ai lavoratori non solo di sopportare le loro fatiche «con maggiore ardore» e, piú in generale «la loro esistenza mise-
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Nella pagina accanto miniatura raffigurante il re Dagoberto I che visita il cantiere di Saint-Denis, da un’edizione delle Grandes Chroniques de France. 1471. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A destra miniatura raffigurante la costruzione di una casa, da un’edizione del Livre des Prouffitz Champestres di Pietro de Crescenzi (1230-1320 circa). XV sec. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.
rabile», ma sarebbe utile addirittura ad conservationem totius civitatis. Il motto «Ora et labora» potrebbe anche alludere ai due capisaldi della vita cittadina, oltre a quella monastica. Oggi siamo abituati ad attribuire agli eventi religiosi pace e silenzio, ma nel Medioevo le cose non stavano cosí, poiché era invece la vita a scorrere perlopiú silenziosamente, interrotta da due principali avvenimenti sonori: la guerra e le feste, in massima parte religiose. In piú di una società, compresa quella giudaico-cristiana, la stessa creazione del mondo è un atto sonoro che implica, di volta in volta, la parola, il canto, un soffio o l’uso di strumenti musicali. Nel Libro dell’Esodo, Mosé non ebbe accesso alla visione del Volto di Dio, ma solo alla sua voce. Piú in generale, si può sostenere che ogni mistero religioso viene comunicato attraverso on-
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de sonore perché, come scriveva il raffinato umanista Celio Calcagnini (1479-1541), «i misteri rimangono sempre misteri, finché essi non vengono comunicati ad orecchio umano».
Come un’onda
E non si faccia l’errore di pensare che «onda sonora» sia un concetto moderno: il monaco e teologo cistercense Guillaume de Saint-Thierry (1085 circa-1084) credeva che la voce fosse un colpo subíto dall’aria (ictus aer, scriveva già Seneca, e Isidoro riteneva che «la voce è aria verberata, cioè percossa, dal respiro: da qui anche la parola verbum»), il quale colpo si ripercuoteva sull’aria vicina di volta in volta, come fosse un’onda. Nella sua traduzione del Canone di Avicenna, Gherardo da Cremona (1114-1187) già parla di «unda vocalis». Gli stessi luoghi della fede sono spazi sonori. Parlando delle catte-
drali, si insiste spesso sulla dimensione visuale della loro architettura, sulle altissime volte che permettono alla luce di entrare, mentre si tende a sottovalutarne la dimensione sonora, che, proprio grazie a quelle volte, consente alla voce e al canto di diventare maestosi e cosmici. La pietra con la quale si costruiscono le cattedrali romaniche o gotiche non solo possiede un tempo di riverberazione di lunghezza anomala – sei secondi o piú –, ma riflette suoni a bassa e media frequenza a scapito di quelli alti (al di sopra dei 2000 hertz) a causa del maggiore assorbimento, all’interno di questa gamma, dovuto alle pareti e all’aria. In questo modo i canti dei monaci non sembrano provenire da un punto preciso ma circondare i fedeli, i quali non si trovano «di fronte» a un suono bensí ne sono avvolti.
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Dossier Oltre ai suoni, nelle chiese c’è anche molto rumore e spesso esse non sembrano quei luoghi tranquilli che immaginiamo: nel 1207, papa Innocenzo III è costretto a denunciare a Enrico di Gnesen il fatto che «nelle chiese si svolgano spesso rappresentazioni teatrali, e vi si introducono maschere mostruose di scene profane, ma, durante le tre feste che seguono il Natale, i diaconi, i suddiaconi e i preti prendono loro stessi parte a simile vergogna, dandosi a danze e gesti osceni» e due secoli dopo, a Firenze, nella notte di Natale, alcuni giovani entrano (e non è una novità) nel Duomo cittadino, facendo imbizzarrire e torturando un cavallo e cantando canzoni oscene, oltre a riempire l’acquasantiera d’inchiostro. Per non parlare qui delle confuse e rumorose Feste dei folli o Feste dell’asino.
Scandire il tempo
Tuttavia, la chiesa – meglio il suo campanile – svolge anche il delicatissimo compito di scandire il tempo. Non c’è aspetto della vita, religiosa o profana, che non sia segnato dal rintocco delle campane: dall’alba al tramonto, dal battesimo al funerale, dalle assemblee pubbliche all’incoronazione di un sovrano, fino all’eclissi o ai temporali. La vita civile si adegua al calendario liturgico: le «ore maggiori» (mattutino e lodi, vespri e compieta) indicano l’inizio e la fine della giornata, mentre le «ore minori» (prima, terza, sesta e nona) la suddivisione in altrettanti periodi, piú o meno di uguale durata. In un contesto economico e produttivo legato prevalentemente alla natura, in cui il mercato non ha ancora imposto le sue leggi – l’orologio sarà molto piú adatto a scandire questa tipologia di durata – il tempo viene scandito dalle campane: «Gli uomini del Medioevo – scriveva lo storico Aron Gurevic (1924-2006) – conoscevano il tempo per lo piú non visivamente, ma dal suono». Nella Pavia della prima metà del
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Trecento ogni sera – riporta il Liber de laudibus civitatis Ticinensis – pulsa prima la campana dei bevitori (que dicitur bibitorum), che pone fine alla mescita nelle taverne, e poi quella che proibisce la circolazione urbana, che riprenderà il mattino dopo, quando sette colpi di campana accorderanno il permesso di uscire. Ogni rintocco significa qualcosa: «Cosí i sapientes – scrive Renato Bordone – a cui sono affidati gli incarichi piú importanti del comune sono convocati da un particolare suono della campana (“per certum campane sonum vocantur”), i cento che si occupano degli incarichi meno pesanti sono convocati per un altro suono diverso (“vocantur per alium dissimilem sonum”), dopo di loro, con altro suono ancora, sono chiamati quelli che si occupano di affari ancor meno impegnativi (“post ipsos sunt alii qui tractant negocia minus adhuc ardua”). Infine,
quando deve essere convocato tutto il popolo, “c’è un suono diverso” (“fit alius diversus sonus”), come diversificati sono i rintocchi che annunciano le sentenze, le condanne, l’adunata generale dell’esercito, quella parziale degli equites, l’aggressione nemica e cosí via».
Contro il Maligno
La campana ha, per cosí dire, un duplice effetto, centripeto e centrifugo: da un lato attira a sé la comunità, che si autorappresenta, si riconosce come parrocchia fin dove ne arriva il suono, dall’altra fa allontanare da sé gli spiriti maligni, la grandine, le tempeste e piú in generale ogni male. Da sempre, infatti, le campane hanno un’importante funzione di magia tempestaria (in grado di evocare o modificare eventi atmosferici, n.d.r.), come dimostrano ancora oggi le scritte poste a rilievo sul loro metallo, in genere in basso e all’estermarzo
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A sinistra Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Superiore. La sommità della Torre civica di Assisi, al cui interno si scorge una campana, raffigurata nella prima scena (L’omaggio di un uomo semplice) delle Storie francescane affrescate da Giotto. 1290-1295. A destra Venezia. basilica di S. Marco. Una delle celle campanarie poste sulla facciata.
no, come la seguente: «Laudo Deum verum – plebem voco – congrego clerum – pestem fugo – defunctos ploro – festaque decoro – soli Deo Honor et gloria» («Lodo il vero Dio – chiamo il popolo – raduno i sacerdoti – faccio fuggire la peste – piango i defunti – onoro le feste – onore e gloria all’unico Dio»), oppure quest’altra, piú semplice e diretta: «A peste – fame et bello – libera nos Domine» («Liberaci, o Signore, dalla peste, dalla fame e dalla guerra»). Al pari di un bambino, anche la campana viene battezzata e benedetta, per allontanarne gli spiriti impuri che sono nei metalli strappati alle viscere della terra. Inoltre riceve il crisma e si fanno fumigazioni aromatiche al suo interno e, cosa molto indicativa, i termini che la descrivono alludono alle membra del corpo umano: testa, cervello, fronte, orecchie, bocca, gola, pancia, schiena… Sul finire di ogni giornata, la campana suona l’Angelus, ricordan-
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Dossier do la visita dell’Arcangelo Gabriele a Maria: Angelus ad virginem subintrans in conclave. In quel momento ci si saluta come egli fece: «Ave Maria, gratia plena…». Come ha scritto lo storico olandese Johan Huizinga (1872-1945), le campane «erano nella vita giornaliera come buoni spiriti ammonitori che, con voce ben nota, annunziavano ora il lutto ora la gioia, ora il riposo ora l’agitaParticolare di un acquerello su pergamena raffigurante Carlo Magno, dal Livro do Amerio-Mor. 1509. Lisbona, Arquivo Nacional da Torre do Tombo.
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zione, ora richiamavano a raccolta, ora esortavano. Si chiamavano con un nome popolare: la grossa Giacomina, la campana Roelant; si sapeva il significato dei rintocchi». Le campane servono anche ad altro. Per esempio, a Torino, con la societas juvenum dedicata a san Giovanni Battista: quando uno dei suoi membri è in pericolo ha l’obbligo di intervenire in difesa del socio gridando a squarciagola «foris, foris» per chiamare gli altri e laddove questo non basti «pro vindicta sumenda» il capitano e i rettori della societas devono far suonare
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In alto Alfiere tamburino e pifferaio durante la guerra dei Trent’anni, incisione di Hans Sebald Beham. 1543. Berlino, Deutsches Historisches Museum. A sinistra particolare di un arazzo raffigurante l’esercito portoghese di Alfonso V durante l’occupazione di Arcila (Marocco). XV sec. Pastrana (Spagna), Chiesa Collegiata.
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a distesa la grossa campana di san Dalmazio dando cosí il segnale ai soci di sopraggiungere armati.
Le campane dell’ambasciatore
Ma l’episodio forse piú famoso che coinvolge strumenti sonori è un racconto riportato da Francesco Guicciardini (1483-1540) nella sua Storia d’Italia, laddove parla di Carlo VIII e della sua discesa in Italia del 1494. Qui l’ambasciatore fiorentino Pier Capponi, sdegnato per le eccessive e disonorevoli richieste del re, esclamò: «Poiché si domandano cose sí disoneste, voi sonerete le vostre trombe e noi soneremo le nostre campane». In questa frase, divenuta proverbiale, Capponi ci racconta una parte importante del paesaggio sonoro e simbolico del suo mondo: trombe e campane rinviano a segnali di guerra e, in particolare, ai due tipi di schieramento in gioco, le trombe dell’esercito re-
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Dossier gio contrapposte alla tradizione democratica cittadina rappresentata dalla campana del parlamento. Oltre che dalle trombe, l’ingresso regio all’epoca fu accompagnato da grida all’incrocio tra politica, propaganda e ricerca del consenso. Quando il re entra a Napoli il 22 febbraio, il suo ingresso avvenne «alla domestica», cioè senza trionfo, ma ciò non toglie che lungo il tragitto personaggi come Giovan Cola Origlia, eletto del sedile di Porto, andasse girando come uno «sfrenato e insano» tra la folla gridando: «canaglie, gridate Francia!» e i testi riportano quanto fosse diffuso e imposto tra il popolo il grido «Franza! Franza!». Come già detto, la guerra fu l’altro picco sonoro della società medievale. Un picco che resterà per secoli nell’immaginario e nella mitologia, come dimostrano i superstiti racconti popolari legati all’Esercito dei morti. Già di per sé i soldati sono rumorosi, per via delle loro armi, dei cavalli e delle marce. A titolo di esempio, riportiamo la descrizione di Carlo Magno lasciataci dal monaco e scrittore Notkero Balbulo (Balbuziente; 840 circa-912): «Quest’uomo di ferro, con la testa coperta da un elmo di ferro, le mani guantate di ferro e le spalle di marmo difese da una corazza di ferro. La mano sinistra era armata di una lancia di ferro, ch’egli teneva sollevata in aria, mentre la destra era sempre distesa sulla sua invincibile spada. La parte esterna delle cosce, che gli altri – per avere maggiore facilità nel montare a cavallo – avevano sguarnita, Carlo l’aveva coperta da lamine di ferro. Anche i suoi stivali, come quelli dell’intera sua armata, erano di ferro; sul suo scudo non si vedeva che ferro. Il suo cavallo aveva il colore e la forza del ferro». Si può dire che le urla, il rumore, i tamburi e le trombe, il clangore del ferro siano da sempre le prime forme di attacco che gli eserciti riservano ai nemici: se la parata è uno spettacolo visivo, la battaglia è il suo crudele aspetto sonoro. Già
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gli antichi comandanti greci sostenevano che i soldati dovevano essere spinti al combattimento urlanti e di corsa, perché le grida e il fracasso delle armature confondessero il cuore del nemico. Tacito parlava di un canto di guerra dei Germani detto barditus e dei suoni aspri e spaventosi che essi ottenevano con gli scudi messi davanti alla bocca.
Tamburi africani
Gli Arabi in Castiglia, racconta il Poema del Cid, nel 1085 utilizzarono tamburi africani, all’epoca sconosciuti in Europa. Il loro rumore riempí di terrore i cristiani, ma «il buon Cid Campeador» placò il proprio esercito con la promessa di catturare i tamburi e di farne omaggio alla Chiesa. Ancora durante la crociata hussita (le guerre di religione combattute contro gli eretici hussiti fra il 1419 e il 1436, n.d.r.), la battaglia del 14 agosto 1431 sembra essere stata combattuta in termini acustici: «I crociati (…) si stavano avvicinando. Benché i Boemi distassero ancora quattro miglia si poteva già sentire il frastuono dei loro carri da guerra e il canto Voi tutti, guerrieri di Dio, intonato in coro da tutto l’esercito. L’ardore dei crociati svaporò con incredibile rapidità». Il panorama sonoro della guerra si andò progressivamente «arricchendo», soprattutto a partire dall’apparizione della polvere da
sparo e in seguito del cannone, tra il XIII e il XIV secolo. Vogliamo infine accennare almeno a due altri «paesaggi»: quello rurale e quello notturno, con il suo corollario di rumori che consideriamo spaventosi. Con una forte «escursione sonora» dovuta al silenzio circostante, abbiamo i rumori della caccia: i corni, i cani, le urla dei battitori… Che però conosciamo meglio, sia per la quantità di buoni studi a essa dedicati, sia, forse, perché sono ancora presenti su diverse isole europee, come la caccia al cinghiale o alla volpe. Conosciamo meno, invece, i rumori che si facevano per spaventare gli animali indesiderati, o che viceversa li attiravano. Marco Polo, per esempio, racconta dei Cinesi della provincia di Sichuan che bruciavano enormi canne di bambú ancora verdi, provocando scoppi cosí forti e terrificanti da mettere in fuga leoni, orsi e altre belve. Gli uomini che non vi erano abituati, invece, dovevano tapparsi le orecchie, pena la follia o addirittura la morte. Un buon cacciatore deve essere anche un buon ascoltatore, se non quasi un musicista: utilizza fischietti per attirare le cince, campanelli per le pernici, mentre i pescatori sono certissimi di attirare le murene con il richiamo sibilante del serpente di terra e le balene sono invece attirate dai flauti e dalle trombe. Nel
Nella pagina accanto miniatura del Maestro de l’Echevinage de Rouen raffigurante la caccia con il falcone, da un’edizione del Livre des trois ages de l’homme di Pierre Choisnet. 14821483, Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso olifante in avorio detto «del conte Albrecht». Produzione dell’Italia meridionale (forse Salerno o Amalfi), seconda metà dell’XI sec. Vienna, Kunsthistorisches Museum.
Dossier Miniatura raffigurante le pene dell’Inferno, da un’edizione francese del De Civitate Dei di sant’Agostino, XV sec. Parigi, Bibliothèque Sainte-Geneviève.
commentario al De animalibus di Aristotele, Alberto Magno racconta di una pesca fatta con campanelli messi a tintinnare sott’acqua, il cui suono attira inevitabilmente i pesci, Inoltre un buon cacciatore – come scriveva già Porfirio tra il III e il IV secolo – dall’abbaiare del suo cane «capisce se sta cercando la lepre, se l’ha trovata, se la sta inseguendo, se l’ha presa, e se si è perduto, che si è perduto». Di là della caccia, la campagna
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è associata al silenzio. Un silenzio interrotto da lavori come quello del taglialegna, i cui ritmici colpi d’ascia non danno alcun fastidio, anzi. Proprio quel rumore ritmico e monotono rassicura il contadino di essere di fronte a qualcosa di lecito. Tutt’altra cosa, invece, è il subdolo e silenzioso fruscio della sega, che permette di tagliare legna di frodo, in genere la notte. Il bosco è uno scrigno di suoni e di rumori: si ascolta e si è ascol-
tati molto piú di quanto si veda e si possa essere visti, come conferma il proverbio citato da san Bernardo di Chiaravalle: «I campi hanno occhi e i boschi orecchie». L’altra tonica che inonda perennemente la campagna è il vento, dolce e rilassante quando accarezza le foglie, terribile e impetuoso quando muove enormi masse d’aria: elemento attivo come il fuoco, mette in moto i due elementi «passivi» e marzo
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«inferiori» come l’acqua e la terra. Penetra nelle cavità sotterranee per far «muggire» la terra e agita i flutti marini scaraventando le barche dei pescatori sugli scogli. Invisibile e impalpabile, il vento però appartiene di diritto al paesaggio sonoro, come si evince anche da uno degli Enigmata dell’abate di Malmesbury Aldelmo (639 circa-709): «Nessuno può guardarmi negli occhi o prendermi per mano / riempio tutta la terra dello stridente rumore della mia voce / Con la mia forza che si esprime con incredibile fracasso, posso spezzare le querce». L’altro suono spaventoso della campagna è quello del temporale, anzi del tuono. Anche quest’ultimo deve però essere letto all’interno del sistema culturale medievale, dotto e popolare, che non è assolutamente scontato, né facile da ricostruire. Il tuono è l’espressione acustica di un violento conflitto tra gli elementi che si svolge nello spazio celeste, quindi una vera e propria sonorizzazione del mitico diluvio, che riportò gli uomini alla creazione del mondo, un suono quindi ripreso dalla teologia che lo riplasmerà come immagine della voce divina, memento e minaccia per i peccatori. Sarebbe impossibile qui ricostruire il complesso e dotto dibattito che questo evento atmosferico ha assunto nella Meteorologica medievale, ma possiamo dire che al fianco di questa si sviluppò anche un tipo particolare di divinazione attraverso il suono dei tuoni, la brontologia: a seconda della posizione nel cielo, del mese, della parte del giorno o della settimana in cui scoppia il tuono si può prevedere la fertilità o meno dei campi, il futuro raccolto e persino un regicidio. Il tuono è inoltre legato a un ricco corteo di tradizioni e superstizioni che in parte sopravvivono ancor oggi: oltre a far abortire le pecore, può rovinare le uova, specie quelle del corvo, e la volpe si tura le orecchie per non sentirlo mentre il delfino cola a picco, come colpito da epi-
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lessia. In alcune zone della Francia si racconta anche che l’epilessia, o male di san Giovanni, nacque a causa di un tuono, che rese cieco e gettò a terra il santo. Il solo animale che non teme il tuono è l’aquila, probabilmente per la sua antica frequentazione con Zeus, mentre il dragone attira le folgori, e per questo, ne ha paura. Cosí Tommaso di Cantimpré sostiene, nel suo De natura rerum, che il cacciatore di draghi deve essere un bravo ingegnere nel costruire uno strumento che imita il tuono, una sorta di brontéion, un otre pieno d’aria che si colpisce con una bacchetta di corallo: il drago sentendo questo rumore si terrorizza, perde la sua forza e si lascia catturare. Si intravede in questa contrapposizione tra drago – o serpente – e aquila un’inimicizia piú antica tra una divinità ctonia e un’altra celeste.
Frastuono infernale
Per ultimi, ascoltiamo i rumori spaventosi e terribili che gli uomini attribuiscono alle forze oscure, ai fantasmi, ai mostri. Ancora oggi è impossibile immaginare uno spettro, vederlo in un film o leggerlo in un libro, senza l’ormai noto clangore di ferro che tanta importanza ha nel Medioevo. Tutte le testimonianze che abbiamo a disposizione ci parlano di rumori e fracasso, sia che si riferissero alla «caccia selvaggia», sia all’omologo «esercito furioso»: un «gran frastuono» in Elinando di Froidmont (XII-XIII secolo) o un «suono di corni» in Gervasio da Tilbury (1209-1214), spesso, come in Cesario di Heisterbach (1180-1240), poteva essere «un suono come di un cacciatore che soffiasse nel corno furiosamente» o, per il monaco Zaccaria (XIII secolo), «frastuono e schiamazzi di una moltitudine di gente che avanzava facendo un gran baccano». A distinguere la caccia dei vivi da quella dei morti, aggiunge inoltre Renward Cysat nella sua Collectanea
cronico-historica, è il fatto che le mute di cani che prendono parte alla seconda «hanno solo tre zampe». Che i suoni forti, scomposti e fragorosi siano un tratto del mondo infero lo abbiamo già visto, ma nel Jeu d’Adam della metà del XII secolo, lo si evince ancor piú chiaramente in alcune didascalie, sorta di «note di regia» dell’epoca, nelle quali viene specificato che quando si rappresenti l’Inferno, questo debba essere fumoso e rumoroso, con il pentolame che urti continuamente, in modo tale che sia udito dal pubblico all’esterno. Le voci di questi spettri, poi, sembrano essere particolarmente raccapriccianti: cupe, basse, roche, talvolta bitonali, soprattutto quando c’è di mezzo il diavolo. Queste voces sembrano distinguersi da quelle «normali», «terrene», per qualche cosa, una fondamentale differenza rilevata dal parroco Nicolaus Gryse alla fine del Cinquecento: «Solo che i suoni sono un po’ piú bassi e rauchi di quelli emessi da uomini e cani in carne e ossa». Sarà forse per questo che Santa Claus, anch’egli proveniente da un altro mondo, si annuncia ai bambini con quel cavernoso «OHOH-OH-Ooooooh»?
Da leggere Renato Bordone, Uno stato d’animo. Memoria del tempo e comportamenti urbani nel mondo comunale italiano, Firenze University Press, Firenze 2002 Franco Alberto Gallo (a cura di), Musica e storia tra medio evo e età moderna, Il Mulino, Bologna 1986 Karl Meisen, La leggenda del cacciatore furioso e della caccia selvaggia, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2001 Jean-Rémy, Julien, Musica e pubblicità. Dai gridi medioevali ai jingle radiotelevisivi, Unicopli, Milano 1992
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La Vergine del di Angelo Disanto
fiume
Recuperata in circostanze romanzesche sulle sponde dell’Ofanto, in Puglia, la duecentesca icona mariana nota come Madonna di Ripalta è da secoli oggetto di grande venerazione. E, per gli storici dell’arte, costituisce un documento di non minore interesse, per via delle commistioni stilistiche che caratterizzano l’opera
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icona su tavola di Maria Santissima Madre di Dio, venerata a Cerignola (Foggia) come Madonna di Ripalta (XIII secolo), è l’unico esemplare superstite in Puglia di Madonna con Bambino in trono, insieme alla piú tarda icona della Madonna della Misericordia di Ascoli Satriano. La denominazione di «Madonna di Ripalta» si deve alle circostanze del ritrovamento, nel 1172, sulla sponda sinistra del fiume Ofanto, chiamata appunto Ripa Alta, secondo quanto tramandato dall’erudito cerignolano Giovanni Aniello e come riferisce il canonico Luigi Conte nelle sue Memorie filologiche (1857). Il quadro sarebbe stato ritrovato da «una comitiva di malviventi», che, colpito il Sacro Tavolo con una scure, videro sgorgarne sangue. Atterriti dal miracoloso evento, corsero a dare l’annuncio del prodigio agli abitanti del luogo e alle autorità ecclesiastiche di Cerignola e Canosa, visto che quella zona dipendeva per motivi di territorialità dalla chiesa di S. Sabino in Canosa. Per il possesso del prodigioso quadro scoppiò una contesa tra le due popolazioni, essendo il luogo del ritrovamento a metà strada tra i due centri: Canosa, dal quale si dipartivano e verso il quale confluivano fenomeni politici e religiosi di un territorio, e Cerignola, che in quel periodo stava aggregandosi intorno alla chiesa
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In alto Cerignola (Foggia). La processione che accompagna l’icona della Madonna di Ripalta durante la sua traslazione nel santuario sull’Ofanto (che avviene nel mese di ottobre di ogni anno), in una foto del 1956. Collezione Angelo Disanto. Nella pagina accanto particolare della Madonna di Ripalta, una Madonna con Bambino in trono, tempera su tela su tavola di un anonimo Maestro del XIII secolo. Cerignola, santuario di Maria SS. di Ripalta e basilica cattedrale di S. Pietro Apostolo.
madre, sede di un’Arcipretura nullius dioecesis, il cui Capitolo era suffraganeo della Diocesi di Bari e Canosa. Secondo la leggenda, per dirimere la questione fu deciso di porre l’icona su un carro trainato da buoi, i quali presero la strada verso Cerignola e non verso Canosa. L’evento venne attribuito alla volontà divina, perciò la comunità di Cerignola divenne proprietaria dell’effigie, destinata a segnare la storia della città, diventando il centro della costante e intensa devozione di questo popolo. Su richiesta del clero e del popolo di Cerignola, nel 1859 papa Pio IX dichiarò patrona e protettrice della città la Madonna sotto il titolo di Ripalta. La sacra icona è venerata per sei mesi nel santuario a lei dedicato che si trova a una decina di chilometri da Cerignola, sulla riva sinistra dell’Ofanto, e per altri sei marzo
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medioevo nascosto puglia A sinistra l’icona della Madonna di Ripalta. Cerignola, santuario di Maria SS. di Ripalta e basilica cattedrale di S. Pietro Apostolo. A destra Cerignola. Veduta aerea della basilica cattedrale di S. Pietro Apostolo, o Duomo Tonti (1873-1934), dove l’icona mariana viene custodita e venerata per sei mesi all’anno, da aprile a ottobre. Nella pagina accanto, in basso una cartolina d’epoca ritrae un pellegrinaggio al santuario agli inizi del’Novecento. Collezione Angelo Disanto.
Termoli San Salvo Vieste
Ripaltaa
Campobasso
Parco Nazionale del Gargano San Giovanni Rotondo Manfredonia Lucera L
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mesi in città nel Duomo «Tonti» (denominazione con cui è anche conosciuta la basilica di S. Pietro Apostolo e che deriva da Paolo Tonti, latifondista e filantropo cerignolano, il quale dispose che gran parte delle sue fortune, alla sua morte, fossero impiegate per la costruzione della nuova cattedrale), dove l’8 settembre, ricorrenza liturgica della Natività di Maria, si svolge solennemente la festa patronale.
Tela su legno di ciliegio
L’icona è una tempera dipinta su tela amalgamata su legno, che misura 80 x 173 cm. È costituita da tre assi verticali di legno di ciliegio di diversa ampiezza, incollati fra loro e tenuti insieme nel verso da tre listelli trasversali lignei, che la dividono in due riquadri. Una cornice lignea, decorata con motivi dell’arte greca, delimita il campo pittorico dell’icona, in cui, su fondo oro zecchi-
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medioevo nascosto puglia Religiosità popolare
Ancora una foto d’epoca dell’icona portata in processione attraverso i campi. fino al santuario sull’Ofanto. 1956. Collezione Angelo Disanto.
La Madonna pellegrina L’origine del culto alla Madonna di Ripalta rinvia all’inventio, nel 1172, di un’icona che si tramanda ritrovata sulla ripa alta dell’Ofanto, collocata in una chiesa già dedicata nel 1259 beate Marie Virginis de Ripalte ultra flumen Aufidi. Il legame tra il popolo e la sua patrona nasce dal sangue sgorgato da un taglio sul volto della Vergine. Il popolo vede in quella ferita le proprie, ricavandone un senso di protezione nei confronti di Cerignola. Già nel XVI secolo, l’icona veniva recata in città solo per dieci giorni l’anno e in occasione di eventi calamitosi. Coi
secoli s’intensifica il pendolarismo tra santuario e Cerignola. La devozione, legata ai cicli agrari, rivela la natura dell’identità comunitaria della città. Il pellegrinaggio dell’icona mantiene un equilibrio fra noi e il mondo, che compie il sacrum facere. L’icona torna in città il sabato dopo Pasqua, sacralizzando i campi che attraversa. L’evento piú importante è la festa patronale che si svolge l’8 settembre, tra riti religiosi e civili, in una pubblica memoria sacra. Il secondo lunedí di ottobre l’icona viene riportata dal Duomo Tonti al santuario.
no – simbolo della luce divina –, è racchiusa la solenne figura della Madonna, del tipo Odigítria («Colei che indica la via»), in quanto con la mano sinistra indica Gesú «Via, verità e vita», nella variante Dexiokratousa («Colei che sorregge con la mano destra» il Bambino). La Vergine siede su un trono senza dorsale, decorato a palmette stilizzate e provvisto di un cuscino color vermiglio. In basso, dove erano dipinti i piedi poggiati sul pavimento, rimossi nel 1926, sono rimasti solo alcuni frammenti del pavimento stesso. La Vergine, che indossa una tunica di colore blu, simbolo dell’umanità, con variazioni chiaroscurali dovute ai panneggi, è avvolta nel maphòrion (manto) di colore rosso scuro che simboleggia la divinità di Cristo, profilato in oro e trapunto di
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Lo stretto legame con il mondo agro-pastorale è evidente in rituali di fecondazione e di culti precristiani, come prova un’ara votiva dedicata alla dea Bona, utilizzata nel santuario come acquasantiera. Il rito dell’andirivieni dell’icona ricalca il mito di Persephone, dea greca della vegetazione, accolta in Roma come Proserpina, che trascorreva parte dell’anno sulla terra e parte negli inferi. È forte il nesso con l’appartenenza a una comunità, investita dal fatto sociale religioso nel suo aspetto identitario.
undici stelle in oro. Questo maphòrion le copre il capo, scendendo ad avvolgerne la figura con un gioco di pieghe nettamente segnate. Sul capo, sotto il manto, è posta una cuffia di colore blu come la tunica. La Vergine ha il naso curvo e sottile, la bocca sottile e stretta, gli occhi grandi e le sopracciglia sottili e arcuate. Sulla luminosa guancia di sinistra presenta un pomello rosso.
L’incarnazione del Verbo
Il Bambino, con i suoi tratti maturi e maestosi e la sua fronte spaziosa, riflette la sapienza divina e la compiutezza dell’incarnazione del Verbo. Indossa un chitone regale corto, di color ruggine, lumeggiato d’oro con sottili crisografie che indicano la glorificazione marzo
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della persona, e una larga fascia in vita di color vermiglio. Egli benedice con l’anulare e il pollice della mano destra uniti, atteggiamento tipico della liturgia bizantina. Nella mano sinistra stringe un piccolo rotolo pergamenaceo delle Sacre Scritture. Le gambe, nude e incrociate, rimandano alla futura passione e morte. Nell’aureola crocesignata del Cristo Bambino, a destra della sua testa, si rileva una scritta abrasa. Sia la Madre che il Figlio hanno il capo circondato da grandi nimbi realizzati «a pastiglia» (ossia a mattonelle in rilievo), in stucco in oro zecchino, che scendono fin sulle spalle accentuando la solennità delle figure circonfuse di luce. In alto, a sinistra e a destra, campeggiano i monogrammi greci MHP (MH[TH]P = Madre) e THY (TH[EO]Y = di Dio), a rappresentare la Theotókos («Madre di Dio»). Negli angoli superiori dell’icona spiccano su nuvole, ai lati della Vergine, due Angeli, dipinti probabilmente del XV secolo, con vesti di color verde, che reggono il turibolo per incensare le figure, mentre con l’indice indicano le stesse. Sull’icona si nota, fra il primo e il secondo asse, una lunga fenditura verticale che interessa il volto della Vergine, probabilmente dovuta, secondo Massimo Seroni – collaboratore del restauro effettuato sull’opera nel 1970/71 a Firenze –, a fatti naturali, oppure all’antica applicazione della cornice che bloccava l’espansione e la contrazione del legname. Il taglio, che rinvia alla leggenda del ritrovamento, non è stato mai risanato dagli interventi di restauro. Il verso, dipinto verosimilmente nella seconda metà del XVI secolo su tela applicata alle assi, è diviso in due riquadri. In quello superiore è raffigurato un sole con una croce al centro, contornato da 12 raggi ondulati e inscritto in un cerchio: si tratta dell’emblema dei Caracciolo del ramo «del Sole», feudatari di Cerignola dal 1418 al 1633, e proprietari, dal 1543, del possedimento di Ripalta con la cappella e l’icona. Nel riquadro inferiore della tavola, ricco di simbo-
li e di spunti naturalistici, sono dipinte quattro cornucopie, contenenti ognuna cinque frutti e collegate da due maschere alate. Tali raffigurazioni divennero nuovamente visibili, dopo l’occultamento operato dalle teche in argento realizzate nel 1796 e nel 1893, con il restauro del 1926, quando la teca «giornaliera» del 1893 fu modificata per racchiudere l’icona fra due cristalli. Nella parte superiore del verso due sigilli a fuoco, raffiguranti due chiavi incrociate, e la tiara richiamano lo stemma del Capitolo di Cerignola. Il 30 aprile 1982 la Soprintendenza per i Beni Ambientali Architettonici Artistici e Storici della Puglia ha posto il vincolo tutelativo sull’icona.
Analisi stilistica e cronologia
Varie sono state le interpretazioni critiche dell’immagine. Nel 1923, Tullio Brizi, soprintendente a Trento dell’Arte medievale e moderna, definisce la Madonna di Ripalta «opera bizantina del XIII secolo». D’altra parte, lo studioso statunitense Edward B. Garrison, dopo averla analizzata nel 1951, ne ipotizza la datazione fra il 1280 e il 1290. Giovanni Urbani, già direttore dell’Istituto Centrale del Restauro, l’attribuisce all’ambiente di produzione laziale-campana per la tipologia dell’aureola a graticola. All’area campana rinviano parimenti Michele D’Elia, già direttore anch’egli dell’Istituto Centrale del Restauro, e Paola Santa Maria Mannino. Pina Belli D’Elia, già professore ordinario dell’Università degli Studi di Bari, per le affinità ravvisate tra l’icona della Madonna di Ripalta e la pittura toscana e campana, la collega alla produzione tipica della sponda dalmata. Il già citato Massimo Seroni sostiene che la tecnica esecutiva riscontrata sull’icona potrebbe essere quella del XIII secolo, come pure anteriore. L’aspetto stilistico, a suo avviso, farebbe pensare a un’opera bizantineggiante non posteriore al 1250 circa. Lo studioso ha notato anche analogie con le pitture di S. Angelo in Formis, presso Capua. F
Da leggere Pina Belli D’Elia, Le icone, in Federico II. Immagine e potere, catalogo della Mostra (Bari 1995), Marsilio, Venezia 1995; pp. 429-433 Alfonso Caccese, L’icona della «Madonna di Ripalta» della Cattedrale di Cerignola. Cenni artistici e teologici, in Oriente cristiano, XXXI (1991); pp. 20-36 Luigi Conte, Memorie filologiche sull’antichità della Chiesa di
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Cerignola, Tipografia di Gaetano Cardamone, Napoli 1857 Michele D’Elia, Per la pittura del Duecento in Puglia e Basilicata. Ipotesi e proposte, in Antiche civiltà lucane (Atti del convegno, Oppido Lucano, 5-8 aprile 1970), Congedo Editore, Galatina 1975; pp. 151-168 Angelo Disanto, Ripalta. La Madonna pellegrina, Claudio Grenzi Editore, Foggia 2010
Paola Santa Maria Mannino, La vergine «Kykkiotissa» in due icone laziali del Duecento, in Roma. Anno 1300 (Atti IV settimana di studi di Storia dell’arte medievale dell’Università degli Studi di Roma «La Sapienza», 19-24 maggio 1980), «L’Erma» di Bretschneider, Roma 1983; pp. 487-496 Giuliano Urbani, Recupero di due Madonne del XIII secolo, in Bollettino ICR, n. 7-8, 1951; pp. 25-31
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CALEIDO SCOPIO
Storie, uomini e sapori
Il merluzzo e il suo doppio I
l 25 aprile 1431, il nobiluomo Pietro Querini, commerciante, navigatore e senatore della Repubblica di Venezia salpò dall’isola di Creta con un carico di vino, spezie, legname e cotone alla volta dei lucrosi mercati di Bruges e Anversa. Passato lo stretto di Gibilterra, il 2 giugno presso Cadice «per colpa del pedota ignorante, accostati alla bassa di San Pietro, toccammo una roccia ed il timone uscí dalle cancare con grande pregiudizio». La riparazione richiese quasi un mese di lavoro e quando finalmente la Gemma Querina riprese il mare si trovò a fare i conti col vento di grecale che la fece vagare per un mese e mezzo attorno alle Canarie. Nuovamente col timone fuori uso, Querini riuscí comunque a raggiungere Lisbona, da dove ripartí il 14 settembre sempre con nimichevoli venti. A fine ottobre,
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nonostante una propiziatoria visita alla cattedrale di Santiago de Compostela, appena superato Capo Finisterre, l’imbarcazione cadde in balia di terribili tempeste, che fecero perdere definitivamente il timone e spezzarono gli alberi, riducendola a poco piú di un relitto, che andò alla deriva per diverse settimane.
In balia delle onde Il 17 dicembre una parte dell’equipaggio si imbarcò su una scialuppa e non se ne seppe piú nulla. Gli altri, incluso Querini, affidarono la loro sorte a una lancia piú grande e a suon di remi, lottando tenacemente contro le avversità del Mare del Nord, riuscirono finalmente a toccare terra. Era il 14 gennaio 1432 e i naufraghi avevano appena posto piede sull’isola di Sandøy, poco piú che un grande
scoglio nell’arcipelago norvegese delle Lofoten, cento chilometri oltre il Circolo Polare Artico: dei 68 marinai partiti da Lisbona ne rimanevano solo sedici. Riuscirono a sopravvivere al gelido inverno norvegese cibandosi di molluschi e scaldandosi al fuoco dei pochi sterpi racimolati nei dintorni, finché, l’undicesimo giorno, quei falò furono notati da alcuni pescatori locali che soccorsero i naufraghi, li rifocillarono e li portarono al loro villaggio sulla vicina isola di Røst dove furono ospitati per quasi quattro mesi. In quel periodo Querini ebbe modo di osservare con attenzione usi e costumi di quei pescatori, stilando una dettagliata relazione per il Senato veneziano, oggi conservata nella Biblioteca Apostolica Vaticana: «Per tre mesi all’anno, cioè dal giugno al settembre, non vi tramonta il sole, e nei marzo
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Particolare della Carta Marina di Olao Magno. Pubblicata a Venezia nel 1539. Nel riquadro è evidenziata la didascalia che, riferendosi alla produzione dello stoccafisso nelle isole Lofoten, recita: «HIC FORUM PISCIUM FREQUENTISSIMUM», cioè «Qui si fa sempre mercato di pesci».
mesi opposti è quasi sempre notte. Dal 20 novembre al 20 febbraio la notte è continua, durando ventuna ora, sebbene resti sempre visibile la luna; dal 20 maggio al 20 agosto invece si vede sempre il sole o almeno il suo bagliore (…) gli isolani, un centinaio di pescatori, si dimostrano molto benevoli et servitiali, desiderosi di compiacere piú per amore che per sperar alcun servitio o dono all’incontro (…) vivevano in una dozzina di case rotonde, con aperture circolari in alto, che coprono con pelli di pesce; loro unica risorsa è il pesce che portano a vendere a Bergen». L’attenzione di Querini fu attratta soprattutto dalla tipologia di quel pesce che è «solamente di due specie: l’una, ch’è in maggior anzi incomparabil quantità, sono chiamati stocfisi; l’altra sono pàssare, ma di mirabile grandezza, dico di peso di libre dugento a grosso l’una. I stocfisi seccano al vento e al sole
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senza sale, e perché sono pesci di poca umidità grassa, diventano duri come legno. Quando si vogliono mangiare li battono col roverso della mannara, che gli fa diventar sfilati come nervi, poi compongono butiro e specie per darli sapore: ed è grande e inestimabil mercanzia per quel mare d’Alemagna».
Cibo ideale per gli uomini di mare La relazione è la cronaca puntuale del primo incontro degli Italiani con lo stoccafisso, cioè il merluzzo nordico (Gadus morhua) che i pescatori delle Lofoten evisceravano e lasciavano essiccare stesi a coppie sulle Hesje, lunghissimi grigliati in legno, ricavandone in breve un alimento energetico, leggero da trasportare e di lunga conservazione. I primi a mettere a punto questa tecnica di conservazione furono i Vichinghi, che nel IX secolo usavano
lo stockfish come alimento di base per gli equipaggi nei viaggi per mare. Lo pescavano in grande quantità nei bassi fondali in cui la Corrente del Golfo di Terranova si mescola alle fredde acque del Labrador. Ogni anno, tra gennaio e aprile, il merluzzo artico in migrazione, da sempre trova qui un esuberante pastura di piccoli pesci di cui è particolarmente ghiotto e si affolla in milioni di esemplari per deporvi le uova. Ne dà conto anche Giovanni Caboto, che nel 1497 ci finí in mezzo, cercando una rotta piú settentrionale di quella seguita da Colombo: «Il mare pullulava di pesci simili a quelli che in Islanda vengono essiccati e salati e che vengono chiamati stoccafissi». I Vichinghi e i pescatori delle Lofoten non erano gli unici ad attingere a questi «giacimenti» di proteine. Ne facevano incetta anche
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CALEIDO SCOPIO A sinistra incisione raffigurante la pesca nel Mare del Nord, dal trattato Historia de gentibus septentrionalibus, di Olao Magno. Venezia, 1565. A destra Isole Lofoten (Norvegia). Una delle fasi della trasformazione dei merluzzi in stoccafisso, appesi alle strutture per l’essiccazione, le Hesje. i pescatori baschi, che inseguivano fino ai Grand Banks di Terranova le balene delle cui carni erano voraci consumatori. Le loro navi partivano dal Golfo di Guascogna cariche di sale con cui ricoprivano sia le carni di balena sia merluzzi eviscerati; l’operazione si rendeva necessaria perché in Spagna, il clima piú caldo e umido rispetto a quello norvegese, non permetteva la completa essicazione all’aria delle carni, che sarebbero andate incontro a fenomeni di marcescenza. Il costo elevato del sale, soprattutto a causa dei monopoli statali, gravava sul prezzo finale del baccalà basco e Querini intuí che lo stockfish dalle Lofoten, piú economico, leggero e conservabile del baccalà, prometteva lucrosi guadagni sui mercati mediterranei, soprattutto grazie alle spedizioni terrestri e marittime – inclusa quella di Colombo – che necessitavano di alimenti facilmente trasportabili e non deperibili. Cosí, il 5 maggio 1432, Pietro Querini ripartí da Røst su un battello diretto a Bergen portando con sé 60 stoccafissi seccati che vendette per pagarsi il viaggio di ritorno fino a Venezia, dove giunse il 12 ottobre 1432. La sua relazione di viaggio, e quelle dei compagni Cristoforo
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Fioravanti e Niccolò Michiel, destarono un enorme interesse culturale e commerciale verso quelle «estreme terre di tramontana». La convenienza e la grande adattabilità gastronomica dello stoccafisso norvegese si diffuse presto anche in altre città rivierasche come Genova, Napoli e Messina. Oltre un secolo dopo l’umanista trevigiano Giovan Battista Ramusio riprese la relazione di Pietro Querini e la inserí nel secondo tomo della sua monumentale opera Delle navigationi et viaggi, il primo trattato geografico dell’età moderna.
Penitenze e cibo di magro Nel XVI secolo, assieme alle aringhe affumicate olandesi e al baccalà salato dei Baschi, lo stoccafisso norvegese divenne un vero e proprio «pesce-di-terra», che rendeva possibile e conveniente il consumo ittico anche a chi viveva lontano dal mare. Sicuramente un enorme impulso al suo consumo fu dato, nel Cinquecento, dal Concilio di Trento, con cui la Chiesa impose ai fedeli e a se stessa usi e contegni piú frugali e controllati, nel tentativo di rispondere alle severe reprimende della Riforma luterana. Il 4 dicembre 1563 l’ultima
sessione del Concilio fece entrare lo stoccafisso nella lista delle vivande ammesse nei 150 giorni di penitenza imposti allora ai fedeli: tutti i venerdí, l’intera Quaresima, le quattro Tempora, le vigilie e le Rogazioni. Il nuovo corso della morale cattolica stigmatizzava la cucina grassa del Medioevo imponendo l’astinenza dalle carni e nonostante le aringhe e il merluzzo – seccato o salato – siano indiscutibilmente carni, il loro consumo come «cibo di magro» consentiva ai cattolici di salvare l’anima riempiendo lo stomaco. Artefice di questa preziosa licenza fu soprattutto un padre conciliare, noto marzo
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come Olao Magno, il quale si serví di tutta la sua influenza per convincere i vescovi, i cardinali e lo stesso papa che lo stockfish poteva essere la migliore alternativa alla cucina grassa e succulenta del Medioevo che induceva il povero al peccato di lussuria. E ci riuscí. Per la cronaca, Olao Magno era il nome latinizzato di Olof Månsson, arcivescovo di Uppsala, primate di Svezia, nonché autore, tra l’altro, di una Carta marina et Descriptio septemtrionalium terrarum che, illustrando la geografia del Nord Europa, di buona parte della Groenlandia e della regione baltica, pone davanti alle Lofoten
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grandi fasci di stoccafisso con la didascalia «HIC FORUM PISCIUM FREQUENTISSIMUM» («Qui si fa sempre mercato di pesci»): una innocente sponsorizzazione messa in atto dal sant’uomo per purgare le anime e mandarle in Paradiso facendo lievitare l’economia della sua Svezia e dei Paesi vicini.
Toponimi rivelatori Nel 1620, i Padri Pellegrini in fuga dall’Inghilterra, sbarcarono dalla Mayflower sulle coste del New England che il cartografo ed esploratore portoghese Diego Ribeira indicò nella sua celebre mappa del 1525 come «Tierra de los Baccallaos».
La penisola su cui gli esuli posero piede per la prima volta era stata battezzata nel 1602 da Bartolomeo Gosnold «Cape Cod» (Capo Merluzzo) proprio per la moltitudine di pesce che vi si trovava. Cosí la pesca e la salagione del merluzzo divennero una fiorente attività per molti coloni americani e, già alla metà del Seicento, dal New England e dal Massachusetts salpavano navi cariche di baccalà dirette ai Caraibi, a Capo Verde, alla Canarie dove il pesce veniva scambiato con zucchero, cotone ma soprattutto con schiavi da mettere al lavoro in quelle piantagioni. Sergio G. Grasso
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UN ANTROPOLOGO NEL
MEDIOEVO La nemica del Carnevale Q
uesto mese di marzo è cominciato con il Mercoledí delle Ceneri, giorno che segna l’inizio della Quaresima per i cristiani. Nel Medioevo, la conoscenza e l’avvento di questa data avevano un’importanza che oggi potremmo difficilmente concepire: si trattava di uno dei capisaldi temporali di tutta la cultura dell’epoca, popolare e non, uno dei due corni – l’altro era il Carnevale – attorno ai quali si dipanava la vita giuridica, sociale e festiva delle comunità, soprattutto cittadine. La loro importanza ci viene indirettamente suggerita anche dalla diffusione di quella sorta di tavole perpetue – non belle e non miniate come i piú famosi calendari liturgici realizzati per specifiche comunità religiose oppure quelli presenti negli Officia destinati ai laici di potere – che servivano essenzialmente a scandire le date principali dell’anno. Quest’ultimo, infatti, sembrava ruotare intorno a quegli attesi combattimenti – reali e simbolici – tra Carnevale e Quaresima, dei quali storici e antropologi hanno cercato di chiarire i confini a partire dalla metà del secolo scorso.
Due opposte visioni del mondo Quella tra Carnevale e Quaresima non fu mai solo una battaglia o un ludus piú o meno rituale, ma una vera e propria filosofia di vita, una cesura culturale tra due modi diversi di vivere e concepire il mondo, come vengono raffigurati da Bruegel il Vecchio in quel suo capolavoro dal titolo Lotta tra Carnevale e Quaresima, Lotta tra Carnevale e Quaresima (particolare), olio su tavola di Pieter Bruegel il Vecchio. 1559. Vienna, Kunsthistorisches Museum. A guidare le due «fazioni» sono un uomo assai ben pasciuto, che incede a cavalcioni di un barile, mulinando uno spiedo sul quale sono infilzati pezzi di carne di maiale (a sinistra), e una donna magra e smunta che brandisce, a mo’ di lancia, una pala su cui giacciono due misere aringhe.
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appunto. La brulicante piazza che si vede nel dipinto del pittore olandese racconta di due concezioni della vita opposte, ma complementari: da un lato – sulla sinistra –, compare gente intenta a mangiare e a bere, fare questue e rappresentazioni teatrali, tipiche della potenza vitale del Carnevale, della carne, del sesso; dall’altro – a destra – la scena è caratterizzata da sacrifici e sofferenze, digiuno e preghiera, contraddistinti dalla presenza di una chiesa, mentre dal lato opposto troneggia un’osteria. La prima «truppa» è guidata da un grassone a cavalcioni di un barile di vino, con in mano una lancia-spiedo su cui sono inflizati pezzi di maiale; l’altra da una donna magra come le due aringhe distese sulla pala che anch’ella regge a guisa di lancia. Carnevale è seguito da un corteo
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di «fedeli» che portano formaggi, una griglia e un’anfora da vino utilizzata come membranofono a frizione, simile a un putipú napoletano, mentre madama Quaresima è trainata da un frate e da una monaca.
Quaranta giorni di penitenza Tuttavia, per quanto temuta e sbeffeggiata, la Quaresima era presente come un memento che rinnovava nell’animo lo spettro di una carestia o un’ipoteca sull’inevitabile morte. Ogni anno giungeva inesorabile e, come racconta il suo nome, Quadrigesima, durava quaranta giorni. La sua storia è complessa e nel suo svolgimento si sono aggiunti usi e riti originari dei diversi Paesi cristiani: in Occidente, cominciava dal mercoledí precedente la prima marzo
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L’uomo selvatico o la mascherata di Orsone e Valentino, xilografia di un anonimo incisore olandese su disegno di Pieter Bruegel il Vecchio. 1566. New York, The Metropolitan Museum of Art. L’opera trae spunto dal romanzo cavalleresco Valentino e Orsone, in cui due fratelli, separati alla nascita e cresciuti l’uno come selvaggio nei boschi (Orsone) e l’altro come cavaliere alla corte dell’imperatore Pipino il Gobbo, si riuniscono e affrontano insieme numerose avventure, senza conoscere la loro reciproca vera identità.
domenica di Quaresima, quando a Roma si svolgeva una processione che andava dalle falde del Palatino, dalla basilica di S. Anastasia, a quella di S. Sabina all’Aventino. Dopo il X secolo, prima in Germania e poi a Roma, venne introdotta la pratica di ricevere sul capo le Ceneri, da cui il nome del primo giorno di digiuno. Questo Ondas.lungo Martín periodo Codax,di vuoto gastrico, preghiera e penitenza, viene interrotto – secondo alcuni studiosi a Cantigas de Amigo opera di Innocenzo nel 1216 – dai festeggiamenti, Vivabiancaluna Biffi,III, Pierre Hamon non liturgici e non «ufficiali», della Mezza Quaresima, Arcana (A390), 1 CD giorno caratterizzato dalla sospensione degli interdetti www.outhere-music.com ecclesiastici e dalla possibilità di riprendere e rivivere le tradizioni del Carnevale da poco trascorso, con i suoi eccessi alimentari, ma, soprattutto, con le sue farse
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e mascherate. In questo periodo, personificazioni di Vecchie Befane, brutte e magre come «quaresime», venivano e vengono ancora oggi annegate, bruciate e soprattutto segate in due come per tagliare o buttar via l’inverno, il male e il malessere, quella parte di anno fredda e buia che rappresentano. Fonti medievali e moderne raccontano di queste Vecchie. L’erudito francese Charles Dufresne Du Cange (1610-1688), nel suo Glossarium, parla di persone reali, non fantocci, che appaiono mascherati da Cervulas o Vetulas, «Vecchie», in due differenti periodi: «in quadrigesima» o alle calende di gennaio. In Italia, in Toscana, questa segaligna figura di Mezza Quaresima è testimoniata sin dal XV secolo. Nel Cinquecento la Vecchia era un fantoccio impinzato di noci e fichi secchi, issato sull’alto di una scala e quindi portato a segare platealmente sotto le logge di Mercato Nuovo di Firenze, dove «quando era stato tagliato per lo mezzo, tutte le interiora, composte di frutta secca, cadevan dall’alto in mezzo alla folla, e ne seguiva la zuffa».
Un testimone d’eccezione Nel 1578, a Bologna, la Vecchia di Quaresima veniva invece messa al rogo. Ne parla anche Michelangelo Buonarroti, nella sua Cicalata sul Ferragosto, in cui racconta, forse reinterpretando usanze folkloriche a cui aveva assistito, l’origine delle festività di questa vecchina: «Costei, ritrovandosi una volta gravida, nel tempo della quaresima, le venne voglia d’un salsicciotto bolognese, e procacciatolo tutto intero, crudo crudo in una volta sel trangugiò. Fu scoperto alla Mozzalingua, la quale in breve processatala, la condannò a esser segata viva; (…) Venuta adunque la mattina che ella doveva morire, (…) i segatori tolta la spugna e tuffatala in quel calamajo, dove e’ dovean tigner le corde per far la riga a segarla dirittamente, la le fregarono al viso, e un vestire che pareva da monaca indosso le misero; e poscia, fattale una tacca, i denti appiccativi della sega, segarono lei e chi le era in corpo in un medesimo tratto, senza niuna misericordia. E da quell’ora in qua ogn’anno nel di della mezza quaresima, i fattori dalla vostre botteghe, in memoria di tanto caso, fregate le lor berrette al cammino o alla padella, si tingono l’un l’altro in faccia». Questi scampoli di Carnevale furono tollerati da parte della Chiesa forse perché la Mezza Quaresima era epoca di pagamenti di decime, o forse per smorzarne i rigori. È certo però che le allegre mascherate di Sega-la-Vecchia hanno resistito per secoli in tutta Europa, se ancora troviamo «Marzanne» (dal polacco marzo), Vecchie, alberi e a volte perfino «puzzole» – in realtà ragazzi mascherati come manichini di paglia – che continuano a essere cacciati, segati, annegati o bruciati, nella speranza che il tempo passato da loro incarnato vada via con tutti i mali e i peccati di cui sono la personificazione, e che quello a venire sia migliore. Claudio Corvino
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La «fidanzata» di Dio LIBRI • Ventiquattresima figlia di un tintore, Caterina da Siena nacque nel marzo
di 670 anni fa e dovette misurarsi con gli obblighi e le privazioni che caratterizzavano la condizione femminile nel Medioevo. Una vicenda emblematica, che André Vauchez ripercorre nel suo nuovo saggio
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er una donna, vivere nel Medioevo non era facile. Soggetta prima al padre e poi al marito, essa non aveva alcuna speranza di guadagnarsi un proprio spazio di autonomia. La scrittura le era negata, perché si riteneva che le fosse necessario solo imparare a leggere. Leggere il messale, per seguire la liturgia domenicale, o qualche opera di devozione, per edificazione personale. Ma anche imparare a leggere era appannaggio delle sole donne agiate. Nessuna vita culturale, dunque, era davvero concessa alle donne in un mondo in cui le scuole e le università non erano pubbliche ed erano riservate ai soli uomini. Dall’età di dodici anni, le donne non avevano piú il permesso di uscire da sole, ma dovevano essere accompagnate. Iniziava l’età in cui si ragionava sul marito da assegnare loro e una volta scelto, esse entravano nella zona d’influenza del promesso sposo oltre a continuare a subire la pressione della famiglia di appartenenza. L’entrata in religione era scoraggiata dalle famiglie, le quali volevano piuttosto investire su alleanze tra clan e sull’accrescimento del numero dei maschi da armare. In un’Italia in cui le autorità centrali erano polverizzate – o comunque frammentate –, l’unica difesa possibile era l’autodifesa. Attraverso il matrimonio, le figlie dovevano dunque contribuire ad accrescere quel numero di cavalieri e di armati. Ventiquattresima figlia di Jacopo
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Benincasa, tintore di condizione agiata, Caterina era perciò destinata, al pari delle sorelle, a incamminarsi sulla strada del matrimonio. Nozze che piú volte aveva manifestato di non volere in nessun caso. Certamente perché Caterina aveva già deciso di divenire la sposa di Cristo, ma anche perché il matrimonio in sé non rivestiva nell’età medievale alcuna attrattiva per le donne. Non offriva spazi decisionali, implicava una totale sudditanza morale e sessuale nei confronti del marito, determinava la presa in carico delle mansioni domestiche – delegate certo anche alla servitú –, ma, soprattutto, significava allevare i figli, senza poter in alcun modo orientare la loro educazione, che restava diritto esclusivo del marito.
Un quadro a tinte fosche La prassi implicava persino – e fu rispettata fin troppe volte– che, in caso di morte del marito, i figli – anche quelli in tenera età – rimanessero nella famiglia d’origine del padre, mentre la madre era condannata a nuove nozze. Oltre a essere una condizione frequente, la vedovanza, dunque, era soprattutto una condizione dolorosa, perché implicava spesso l’allontanamento dai figli e l’inizio di una nuova catena di lutti. È insomma fosco il quadro della società femminile medievale. Una condizione familiare soffocante, che spingeva le adolescenti
André Vauchez Caterina da Siena. Una mistica trasgressiva Laterza, Roma-Bari, 228 pp. 20,00 euro ISBN 9788858125854 disponibile anche in ebook www.laterza.it intellettualmente piú precoci e indipendenti a tentare l’unica possibile via di emancipazione, la scelta religiosa. Cosí anche Caterina, all’età di 15 anni, iniziò a ribellarsi alla strada che società e famiglia la spingevano a percorrere. Cercò il suo alleato in Dio, un Dio che – secondo quanto da lei stesso attestato – le parlò per mezzo di visioni e di segni, un Dio che le chiese di farsi sua «fidanzata», marzo
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consegnandole in dono un anello molto particolare, simbolo di unione e di fedeltà. Le pressioni e le punizioni della famiglia di fronte all’ostinato proposito di consacrarsi a Dio, non le impedirono di mantenere fermo il suo proposito. Per sette lunghi anni fu reclusa dalla famiglia in una stanza della casa natale. Una reclusione che per Caterina coincise con il paradiso spirituale che da sempre aveva rivendicato e che fu da lei definito come il confinamento felice nella «sua cella interiore».
Santa Caterina da Siena e un devoto inginocchiato, tempera e oro su tavola di Cristoforo di Benedetto da Bologna (notizie dal 1456 al 1497). Collezione privata.
Un appoggio decisivo Furono i frati domenicani, infine, ad aiutare Caterina a consacrarsi alla vita che desiderava. Essi ebbero la forza e il coraggio di dimostrare, di fronte alla famiglia e alle gerarchie ecclesiastiche, che la ragazza non era affatto folle, ma dotata, al contrario, di eccezionale vocazione religiosa e di spirito profetico; contro i suoi molti detrattori, che ne contestavano soprattutto le rigide pratiche ascetiche (forse anche spia di un disturbo alimentare), i Domenicani la aiutarono a ottenere dalla famiglia l’anelato permesso a entrare in religione; fu accolta tra le Mantellate, un gruppo di penitenti che afferivano all’Ordine di san Domenico. Spiata, interrogata, sospettata dalle autorità civili quanto da quelle religiosi, riuscí sempre ad aprire fessure nell’anima di quei religiosi che, di volta in volta, le furono affiancati per meglio controllarla; in particolare riuscí a guadagnarsi la stima di quello che sarebbe poi divenuto il suo primo biografo, il frate domenicano Raimondo da Capua. Questi la mise in contatto con il papa, persuaso che Caterina – come prima di lei Brigida – fosse la persona adatta a guidare – attraverso le sue molte visioni profetiche – i passi del vicario di Cristo in quella particolare congerie temporale, passata alla storia come «crisi del Trecento».
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Dilaniata dalle scorribande delle compagnie di ventura, dalle ondate epidemiche, dall’allontanamento del papato da Roma, dallo scisma fra la Chiesa avignonese e quella romana, l’Italia faticava, infatti, a trovare una via d’uscita. Il grande medievista francese,
André Vauchez, ci guida nelle pagine di questo intenso Caterina da Siena a recuperare tutte le verità nascoste dietro ai luoghi comuni dell’agiografia, restituendoci il ritratto vivido di un’epoca, di una città, di una donna, di una santa. Chiara Mercuri
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Lo scaffale Anna Bellavitis Il lavoro delle donne nelle città dell’Europa moderna Viella, Roma, 248 pp.
26,00 euro ISBN: 9788867286720 www.viella.it
Il volume sfata, per l’età moderna, il luogo comune secondo cui le donne non lavoravano, o lavoravano soltanto in casa. L’autrice si sofferma sulle principali attività femminili dell’epoca moderna: manifattura della seta, sartoria, arte della stampa (in cui le donne erano anche editrici, e non solo manovalanza), commercio ambulante, merceria, imprenditoria e mercantesse, domestiche, balie, levatrici, donne medico, prostitute. Sebbene alcune occupazioni fossero prevalentemente femminili, non esisteva una divisione di genere assoluta: nel Cinquecento, ad Augusta, molti uomini giovani e robusti filavano sulla piazza della città, e altrove quelli piú anziani si dedicavano ugualmente alla filatura per mantenersi negli ospizi. All’opposto, anche in età moderna (come già nel Medioevo) le donne erano
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impiegate nell’edilizia, mentre a partire dal XVI secolo, a Ginevra la produzione e la riparazione degli orologi erano prevalentemente femminili, e numerose apprendiste in tale attività erano presenti a Londra nel Settecento. Alcune pagine sono dedicate alle professioni intellettuali: scienziate, pittrici, giornaliste, musiciste, attrici. Oltre al lavoro, vengono esaminati anche i diritti di cui
le donne godevano: l’educazione, l’accesso alla proprietà e a ruoli di potere in ambito lavorativo, in particolare all’interno di alcuni sistemi corporativi. Tra le tematiche piú interessanti messe in evidenza dall’autrice, va ricordata, in primo luogo, la capacità delle donne di inserirsi negli interstizi di norme spesso ambigue e di manipolare i regolamenti e
interpretare a proprio favore le tradizioni, dando vita, al tempo stesso, a un’economia sommersa, che consentiva a molte famiglie di sopravvivere. In secondo luogo il rapporto ambiguo tra donne e corporazioni, che portava le prime al frequente rifiuto di iscriversi alle associazioni professionali per evitare tutti gli oneri che ne derivavano, e le corporazioni a cercare di sottometterle alla propria giurisdizione per controllarne l’attività. Nel 1675 le sarte di Parigi, che le autorità volevano costringere a iscriversi all’associazione professionale maschile, arrivarono a ricattare il governo di Colbert, minacciando di dedicarsi ad «attività poco oneste» se non fosse stata loro concessa una corporazione specifica, interamente femminile. Altro tema importante è quello dei ruoli di potere e autorità assunti dalle maestre che fungevano da intermediarie con le operaie a domicilio, ruoli che permettevano loro di trattare con gli imprenditori e quindi con le autorità politiche. Maria Paola Zanoboni
Elisabetta Gnignera Vergini, spose, vedove Stati sociali e acconciature femminili nell’Italia del Quattrocento. Volume 1
Collana editoriale Velamen, Amazon-Createspace. 257 pp., ill. col.
22,17 euro ISBN 9781520235301 www.amazon.it
Studiosa di storia delle acconciature e del costume medievale, Elisabetta Gnignera inaugura la collana editoriale Velamen, il cui spirito è quello del saggio storico, arricchito ed esemplificato da immagini e fonti letterarie. Attraverso l’analisi delle «loro teste», il volume indaga il mondo femminile quattrocentesco, diviso tra donne «per bene» e «ad evitandum», talvolta confuse nell’abito le une con le altre. Accanto alle vergini, spose e vedove del titolo, sfilano le «povere monache», ovvero giovani di buona famiglia obbligate alla monacatura, ma anche categorie vessate e reiette quali le prostituite e le ebree, spesso accomunate nell’«infamia» dai colori delle vesti imposte dai legislatori. Non mancano schiave e giullaresse; in Italia, queste
ultime, a differenza della Francia, erano considerate perlopiú semplici «buffone» e raramente assimilate alle trobairitz transalpine, artisteintrattenitrici che si cimentavano nel canto e nella danza. L’analisi del costume femminile quattrocentesco rivela dunque un mondo complesso e articolato, che strappa talvolta sorrisi amari, come quando, nel corso dello spettacolo di danza organizzato a Siena nel 1465 per accogliere Ippolita Sforza, figlia di Francesco Sforza, lungo la strada per Napoli dove si sarebbe celebrato il suo matrimonio con Alfonso, figlio del re Ferdinando d’Aragona, dodici figuranti di una danza moresca, tra le quali «una vestita a Monaca», danzarono una «Canzona a ballo», che cosí recitava: «Non vogl’esser piú Monica; arsa le sia la Tonica, chi se la veste piú!». Francesca Ceci marzo
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La pagina riccamente miniata di una delle Cantigas de Santa Maria composte dal re Alfonso X, detto il Saggio. XIII sec. El Escorial (Madrid), Biblioteca di S. Lorenzo.
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Le cantiche del re compositore M
entre a partire dal XII secolo si andava sviluppando, nel territorio occupato attualmente dalla Francia, la grande stagione lirico-musicale dei trovatori (lingua d’oc) e dei trovieri (lingua d’oïl) – con una produzione poetica dedita essenzialmente a esaltare e a idealizzare la figura della donna –, un fenomeno analogo si registrava anche nel campo della musica devozionale e liturgica, con lo sviluppo di un ricco repertorio mariano, in seno al quale la Vergine divenne l’antagonista delle donne «angelicate» del repertorio profano. Nell’ambito liturgico, basti citare il noto ciclo delle antifone mariane – Ave Regina Caelorum, Salve Regina, Alma Redemptoris Mater, Salve Mater Salvatoris – o degli offertori mariani, come il Recordare, Virgo: brani creati intorno all’XI secolo e adottati stabilmente nel repertorio gregoriano. Nel repertorio devozionale andarono invece diffondendosi brani mariani su testi vernacolari che, da una parte, risentivano musicalmente del coevo repertorio gregoriano, e dall’altra incarnavano uno spirito autenticamente popolare, con ritmi e andamenti melodici piú vivaci, influenzati anche dalla produzione dei trovatori e dei trovieri. Tra le musiche devozionali mariane piú note, un posto di riguardo occupano le Cantigas de Santa María di Alfonso X el Sabio, una delle raccolte liriche piú note del XIII secolo spagnolo. Personaggio poliedrico e dai mille interessi, nonché figura centrale della cultura ispanica nella seconda
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metà del Duecento, ad Alfonso si devono la scrittura e la messa in musica – anche se la critica non ne riconosce l’esclusiva paternità compositivomusicale – di queste Cantigas, in cui la Vergine Maria è dispensatrice di grazie e miracoli, e protagonista di scene di vita quotidiana da cui emerge un vivace tessuto sociale. I testi dei brani sono accompagnati da forme musicali piuttosto semplici, basate sul refrain (ritornello) che «commenta» l’azione miracolosa della Madonna, i cui prodigiosi interventi sono narrati nelle strofe che si alternano al refrain.
Doppia prospettiva Giocata sull’alternanza tra i toni aulici del repertorio gregoriano e la schiettezza delle cantigas, l’antologia proposta dall’Ensemble Discantus svela, in una doppia prospettiva, un ampio spettro della devozione mariana del Duecento ispanico. Molteplici sono gli stili utilizzati: da quello antifonale, con la melodia affidata a una solista a cui risponde il «tutti» del coro, allo stile contrappuntistico a due voci (Alma Redemptoris Mater) che risente delle sperimentazioni in campo polifonico della scuola polifonica parigina di Notre-Dame. Se alcune cantigas echeggiano il repertorio gregoriano, altre – come Quen Santa Maria quiser defender o De grad’a Santa Maria – rivelano un carattere melodico e una ritmica che rimandano a una matrice popolare. Oltre ai brani
MUSICA • Una pregevole
incisione dell’Ensemble Discantus esalta le splendide Cantigas de Santa María di Alfonso el Sabio
Santa Maria Chants à la Vierge dans l’Espagne du XIIIe siècle Ensemble Discantus Bayard Musique, 308 489.2, 1 CD, www.adf-bayardmusique.com gregoriani e alle cantigas di Alfonso X, vengono proposti anche brani di due trovatori, Guiraut Riquier e Folquet de Lunel, che omaggiano la Vergine. L’Ensemble Discantus diretto da Brigitte Lesne, una formazione tutta al femminile, interpreta magnificamente queste musiche. Oltre a confermare le brillanti doti vocali, le sette componenti del gruppo si esibiscono in vari strumenti della tradizione medievale (salterio, campanelle, viola ad arco, arpa-salterio, tamburello), utilizzati con discrezione e senza mai sorpassare il carattere prettamente vocale di queste suggestive musiche. Franco Bruni
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