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MEDIOEVO n. 244 MAGGIO 2017 CALIFFATO SAN BENEDETTO DA NORCIA
EDIO VO M E
SOMMARIO
Maggio 2017 ANTEPRIMA
PROTAGONISTI San Benedetto
Croce, libro e aratro
ANIMALI MEDIEVALI Viva il re!
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ITINERARI Tesori nel silenzio
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RICORRENZE Una storia da riscoprire
12
RECUPERI Ritorno in Austria
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APPUNTAMENTI In festa nel segno del vino Mira la botte! Coreografie per una santa «straniera» L’Agenda del Mese
di Maria Paola Zanoboni
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60 LUOGHI SAPER VEDERE Subiaco Qui nacque il monachesimo di Mimmo Frassineti
20 20
EVENTI «Michaelica» Nel segno dell’Arcangelo di Elena Percivaldi
21 26
L’INTERVISTA Si fa presto a dire califfo
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CALEIDOSCOPIO
STORIE incontro con Marco Di Branco, a cura di Andreas M. Steiner
60
Dossier
AOSTA MEDIEVALE
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UN ANTROPOLOGO NEL MEDIOEVO Il mese dell’amore
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LIBRI Lo scaffale
113
Da Augusto ad Anselmo di Furio Cappelli
81
IN
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MEDIOEVO n. 244 MAGGIO 2017
MEDIOEVO UN PASSATO DA RISCOPRIRE
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CALIFFATO SAN BENEDETTO DA NORCIA
• Chi furono i primi seguaci di Maometto? • Come nasce l’idea della guerra contro l’Occidente?
12/04/17 18:42
MEDIOEVO Anno XXI, n. 244 - maggio 2017 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it
Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: AKG Images: copertina e pp. 32, 37, 42-43, 112; Leemage: pp. 38, 41, 44-45, 103; Zumapress.com: pp. 46-47; AGE: pp. 87, 94; Guy Heitmann: p. 93; Electa/Antonio Quattrone: pp. 110/111 – Shutterstock: pp. 5, 39, 62, 74, 75 (alto), 81, 82/83, 86, 88, 89, 106 – Cortesia degli autori: pp. 8-9, 20-21 – Per gentile concessione della Diocesi di Pistoia: Silvio Moresi: p. 10 – Cortesia Azienda di Soggiorno di Merano: Alex Filz: pp. 12, 13 (sinistra), 14; Clorenzo Masin: p. 13 (destra) – Cortesia Comando Carabinieri TPC: p. 18 – Doc. red.: pp. 33, 35, 40/41, 54, 91, 95, 98-99, 100-101, 102, 104 (basso), 105, 108 – Mimmo Frassineti: pp. 48-51, 53, 56, 59, 60-61, 63-65, 66, 67 (basso), 68-72, 75 (basso), 76-79 – Francesco Corni: disegni alle pp. 66/67, 88/89, 94/95 (basso), 96/97 – Getty Images: YannArthus Bertrand: p. 82; Blom UK: p. 85; Nicolas Thibaut: pp. 96, 97 (alto) – Marka: Jevgenija Pigozne/ImageBroker: p. 90; Luca Santilli: pp. 92/93 – Archivi Alinari, Firenze: p. 97 (basso) – DeA Picture Library: M. Carrieri: p. 104 (alto) – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 34-35, 52, 57, 58, 62, 75, 84, 107. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione. Editore: MyWay Media S.r.l.
Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Alessia Pozzato Amministrazione: Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it
Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Concessionaria per la pubblicità extra settore: Lapis Srl Viale Monte Nero, 56 - 20135 Milano tel. 02 56567415 - 02 36741429 e-mail: info@lapisadv.it
Hanno collaborato a questo numero: Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Claudio Corvino è antropologo. Marco Di Branco è assegnista di ricerca all’Università di Padova. Mimmo Frassineti è scrittore e fotografo. Mila Lavorini è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Stefania Romani è giornalista. Roberto Roveda è storico del Medioevo e giornalista. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.
Pubblicità di settore: Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com
Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl - titolare del trattamento - al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere elencocompleto ed aggiornato dei responsabili.
In copertina Harun al-Rashid riceve gli ambasciatori di Carlo Magno, 786, olio su tela di Julius Köckert. 1864. Monaco, Maximilianeum.
Direzione, sede legale e operativa: Via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI)
Nel prossimo numero costume e società
Quando le donne facevano la birra
medioevo nascosto
I tesori di Acquasparta dossier
itinerari
Creta nell’età di Mezzo
Geert Grote, riformatore prima di Lutero
ANIMALI MEDIEVALI a cura di Federico Canaccini
Viva il re!
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l titolo di «Re degli animali» o «Re delle bestie selvatiche» si trova attribuito al leone già nei bestiari antichi. Una qualifica che viene confermata nel Medioevo: Isidoro di Siviglia lo definisce appunto Rex, ereditando una tradizione piú orientale, alla quale i Greci e i Latini non si erano rifatti, eleggendo invece l’elefante come animale piú forte tra quelli terrestri. Il leone, e tutta la sua simbologia, giunse in Occidente tramite il Vecchio Testamento, in cui compare spessissimo e e con ripetute lodi del suo coraggio e della sua potenza. Possiamo però ricordare, dalla classicità, come la prima fatica di Ercole fosse stata proprio l’uccisione del leone di Nemea, che il semidio riuscí a sopraffare dopo una lotta terribile, durante la quale perse l’armatura e rischiò seriamente la vita. Sconfiggere un leone è dunque un’impresa per pochi eletti, e, non a caso, i re e gli eroi dotati di forza eccezionale vengono detti «forti come un leone». Tuttavia, come spesso accade, anche questo animale è una creatura ambivalente, nel senso che può avere aspetti positivi e negativi. Nella Bibbia sono frequentissime le citazioni che ritraggono il re degli animali come una fiera orgogliosa, forte, brutale «che uccide la preda ogni dí» e la cui forza, secondo sant’Agostino, è al servizio del Diavolo. Sansone si trova solo davanti a un leone e riesce a smascellarlo solo grazie alla forza infusagli da Dio. Agostino paragona le sue fauci all’abisso infernale e infatti il salmista, rivolgendosi a Dio, lo implora di «salvarlo dalle fauci del leone». Anche nei Vangeli il trattamento non cambia. San Pietro paragona il Diavolo proprio a «un leone ruggente». Di contro, alcune credenze e alcune sue peculiarità fanno rassomigliare lo stesso animale addirittura a Cristo. Nel Libro della Genesi, infatti, viene definito l’animale piú forte di tutti, ed è il leone il simbolo della tribú di Giuda, al cui titolo sono associati prima il re Davide e poi Cristo stesso. Nei bestiari del XII e del XIII secolo, il leone trionfa come simbolo cristologico ed eredita caratteristiche che sono perlopiú retaggio delle tradizioni iraniche e indiane. Ecco allora che la fiera, se inseguita, nasconde con la coda le proprie orme, come Cristo cela la propria divinità con l’incarnazione. Il leone risparmia la vita al nemico sconfitto, come Cristo perdona il peccatore pentito. Oppure la tradizione voleva che il leone dormisse con gli occhi aperti, come Cristo nel sepolcro, il cui corpo mortale «dorme», mentre la sua natura divina «vigila». Infine, si narrava che i leoncini nati morti venissero rianimati dopo tre giorni da un soffio vitale dal leone, a simboleggiare la resurrezione di Cristo con l’intervento del Padre. Il cronista fiorentino Giovanni Villani, nelle sue Cronache, afferma però, tra lo sconsolato e il meravigliato, che egli, assieme ai suoi concittadini, poté verificare che questa tradizione era falsa (siamo in pieno XIV secolo!). A Firenze infatti, cosí come in molte città europee, erano tenuti in gabbia alcuni leoni (menagièrs), alimentati a spese del Comune, simbolo della forza e della potenza della città: uno dei simboli di Firenze era proprio il leone, il Marzocco, cosí come fu il leone marciano per Venezia, che, per i motivi succitati, simboleggia la resurrezione. Il leone non era naturalmente un animale «tipico» dell’Europa; il suo corrispettivo nostrano era l’orso, che infatti era protagonista di numerosi culti e di tradizioni. Ma grazie ai bestiari, e ai menagièrs, già verso il 1100 il leone soppiantò l’orso. Erano poi proprie del leone tutte le doti che un buon sovrano dovrebbe possedere: la forza, il coraggio, la generosità, la munificenza, la giustizia, la clemenza. Sarà per questo che Alessandro Manzoni se ne ricordò quando dovette definire il suo don Abbondio, scrivendo che il povero curato di campagna «non era nato con un cuor di leone».
La replica del Marzocco, scultura che raffigura un leone realizzata da Donatello (1419-1420) a simboleggiare la potenza della Repubblica fiorentina.
ANTE PRIMA
Tesori nel silenzio ITINERARI • Pistoia è stata scelta come Capitale Italiana della Cultura 2017:
un tributo piú che meritato per una città che vanta un patrimonio storico-artistico insigne, racchiuso in un tessuto urbano armonioso ed elegante
L
a città di Pistoia ha origini tuttora controverse. Sembra comunque che l’iniziale insediamento romano sia nato come appoggio per l’esercito in guerra contro i Liguri che controllavano l’area montana, nel II secolo a.C. Esigui sono oggi i resti dell’oppidum romano, devastato dagli Ostrogoti (406 d.C.) e poi occupato dai Longobardi (dalla fine del VI all’VIII secolo), che vi lasciarono una profonda impronta in agricoltura, giurisprudenza e toponomastica, oltre che valutaria, con il conio della moneta aurea, nota come tremisse. Dopo la conquista franca (IX secolo) e un difficile periodo per la spartizione dei possedimenti, Pistoia diventa autonoma, cominciando a emergere anche a
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In alto Ospedale del Ceppo. Particolare del Fregio Robbiano con le Sette Opere di Misericordia: Ospitare i pellegrini. La composizione, in ceramica invetriata, fu realizzata da Santi Buglioni e dai fratelli della Robbia a partire dal 1525. A destra il battistero gotico di S. Giovanni in Corte, il cui aspetto attuale risale alla seconda metà del Trecento. livello internazionale grazie al ceto mercantile che andava affermandosi. Ai primi del Trecento, ebbe inizio la disputa per il suo controllo tra Firenze e Lucca, che frenarono le mire di Pistoia, anche se le vere responsabili della sua successiva decadenza furono le continue e cruente lotte tra le fazioni capeggiate dai banchieri Panciatichi – il cui maggio
MEDIOEVO
palazzo rimane l’unico esempio di residenza privata medievale – e dai Cancellieri. Dispute che gettarono città e contado nell’anarchia, facendone, di conseguenza, un facile territorio di conquista. Ad accelerare il declino, intervenne la peste del 1348, decimando la popolazione. La secolare contesa tra le due potenti «vicine» ebbe termine nel 1401, quando Pistoia diventò definitivamente suddita di Firenze che, agli inizi del Cinquecento, si vide addirittura costretta a inviare il segretario di Stato Machiavelli, per placare le violente faide intestine. E, per arginare il fenomeno, Cosimo I de’ Medici decise di sottoporre Pistoia al potere centrale diretto e di rinforzarne le mura – tuttora parzialmente conservate –, con la fortezza di S. Barbara, notevole esempio dell’architettura militare del Cinquecento, che aveva il duplice scopo di protezione e di controllo dell’insofferente dominio. Nonostante le migliorie apportate nelle aree rurali e le successive riforme operate dai Lorena – sopraggiunti dopo il 1743, quando si estingue la dinastia medicea –, Pistoia si trasformò in luogo malinconico e ombroso.
costruí un piccolo cavalcavia per il passaggio diretto alla Cattedrale. Ospita il piú importante museo cittadino (il Museo Civico), allestito su due piani, in un doppio percorso cronologico e tematico, a delineare i momenti piú salienti della storia artistica locale, dal XIII al XX secolo. Sono, comunque, i lavori della prima sezione quelli che meglio mostrano esperimenti di un linguaggio autonomo, seppur mediato dalle formule di matrice fiorentina, nel cui ambito culturale viene collocata la tavola monocuspidata che raffigura San Francesco con episodi della sua vita e miracoli post mortem, attribuita al Maestro di Santa Primerana e al Maestro della Croce 434, forse identificabile con Coppo di Marcovaldo. Il dipinto proviene dalla chiesa di S. Maria al Prato, originario insediamento francescano in città, prima della costruzione della chiesa dedicata al santo di Assisi, alla fine del 1200. È invece piú tardo il Compianto di Cristo, firmato da
Lippo di Benivieni intorno al 1310, ascrivibile agli stilemi giotteschi, ma con raffinate soluzioni formali, coloristiche ed espressive.
Tra profano e sacro Seppur staccato dal corpo della romanica Cattedrale, il campanile si pone come punto di unione tra profano e sacro, in quanto nasce come torre civica, su resti longobardi, alla fine del 1100, quando erano in corso i lavori di rifacimento del duomo di S. Zeno, risalente al 923, ma successivamente sottoposto a vari interventi strutturali. Oltre a manufatti medievali e rinascimentali e alla tomba del giurista e poeta Cino da Pistoia, custodisce il dossale d’argento a sbalzo, dedicato al patrono, commissionato nel 1287 e terminato nel 1456, grazie al contributo di numerosi artisti, Compianto di Cristo, tempera su tavola di Lippo di Benivieni. 1300-1310. Pistoia, Museo Civico.
Alla scoperta della città Lontana dai circuiti turistici tradizionali, l’«aspra» città del «silenzio» di dannunziana memoria vanta però un notevole patrimonio artistico e architettonico, costituito soprattutto da opere pittoriche, scultoree e d’oreficeria, oltre a numerosi edifici religiosi: tesori che le sono valsi la nomina a Capitale Italiana della Cultura 2017. Cuore del centro storico è la piazza del Duomo, che riunisce gli edifici rappresentativi dei tre poteri-cardine della comunità, politico, religioso e giudiziario. Al gotico Palazzo Pretorio fa riscontro quello degli Anziani, sede del Municipio, iniziato alla fine del Duecento e modificato al principio del 1600, quando si
MEDIOEVO
maggio
Il culto iacobeo San Giacomo di Compostella, primo apostolo martire, morí in Giudea nel 42 o forse 43 d.C., decapitato dal re Erode Agrippa. Affermatosi come una delle figure piú carismatiche della cristianità, divenne oggetto di sentita devozione anche a Pistoia, come prova la chiesa di S. Jacopo in Castellare, risalente al IX secolo. Risale invce al luglio del 1144 l’arrivo in città di un frammento dell’osso mastoideo del santo, portato dai pellegrini Tebaldo e Mediovillano, che lo ottennero dall’arcivescovo spagnolo Didaco per intercessione del vescovo pistoiese Atto. La preziosa reliquia regalò fama alla cittadina, che si trasformò ben presto in una tappa obbligata nel percorso verso la Spagna e in un luogo accreditato in Italia per il culto iacobeo.
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ANTE PRIMA DOVE E QUANDO
L’elenco completo e costantemente aggiornato delle iniziative organizzate per celebrare la nomina di Pistoia a Capitale Italiana della Cultura 2017 è disponibile sul sito ufficiale del progetto: www.pistoia17.it Pieve di S. Andrea. Pulpito in marmo di Giovanni Pisano. 1297-1301 circa. Il parapetto, a pianta esagonale, è retto da colonne poggianti su grifoni alati, un leone, una leonessa e un telamone. Nel registro mediano sono raffigurati i Profeti e le Sibille, mentre in quello superiore compaiono le Storie di Cristo.
tra cui Giovanni Pisano e Filippo Brunelleschi. Rimonta invece alla prima metà del XIV secolo l’ottagonale Battistero, esternamente rivestito da bande marmoree bianche e verdi, eseguito su probabile disegno di Andrea Pisano, che completa il complesso di cui fa parte anche l’Antico Palazzo dei Vescovi, sede del Museo della Cattedrale, dimora di pregevoli pezzi, tra cui il raffinato reliquiario di San Jacopo, realizzato da Lorenzo Ghiberti nel 1407. Nel sottosuolo è, inoltre, allestito un percorso archeologico. Bastano pochi passi per giungere in piazza della Sala, termine che, in età longobarda, indicava il palazzo in cui risiedeva l’amministrazione pubblica. Divenuto luogo di
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commerci in età comunale, lo spazio ospitò botteghe artigiane e bancarelle di generi alimentari, tuttora attive e «controllate» dal Marzocco, il «leoncino» in pietra arenaria che tiene la zampa sinistra sopra lo stemma di Pistoia, ergendosi sull’architrave del pozzo al centro della piazzetta.
Capolavoro gotico Nelle vicinanze, è la romanica pieve di S. Andrea, che custodisce una delle piú alte espressioni di scultura gotica, eseguita da Giovanni Pisano tra il 1298 e il 1301. Si tratta di un pulpito esagonale, dalla accentuata enfatizzazione dinamica ed espressiva, dalle sottili colonne in porfido, dove gli archi trilobati
a sesto acuto gli conferiscono leggerezza e slancio, mentre i pannelli con episodi del Nuovo Testamento e le figure angolari formano una composizione unitaria. È invece Guido da Como l’autore del pergamo romanico all’interno di S. Bartolomeo in Pantano, fondata nell’VIII secolo annessa a un monastero benedettino. A poca distanza sorge l’Ospedale del Ceppo, fondato nel 1277, sotto il quale si trova un camminamento di circa 650 m, composto da gallerie con il soffitto a campana, che fungevano da «basamento» per la stessa costruzione la cui facciata è abbellita dal fregio robbiano, commissionato a Santi Buglioni nel 1522 dallo «spedalingo» fiorentino, Leonardo Buonafede, a completamento della decorazione del loggiato che vide anche la mano di Giovanni della Robbia nei cinque medaglioni raffiguranti Annunciazione, Visitazione, Glorificazione di Maria e stemmi di Pistoia e del Ceppo. Le Sette opere della Misericordia alternate dalle virtú cardinali e teologali nel fregio raccontano le attività benefiche svolte nell’Ospedale (vestire gli ignudi, assistere le vedove e gli orfani, ospitare i pellegrini, visitare infermi e carcerati, seppellire i morti, dar da mangiare agli affamati e dar da bere agli assetati). Varietà cromatica, brillantezza e vivace realismo denotano le scene delle formelle, nelle quali compare sempre il committente e che sono riconducibili ai modi innovativi introdotti da Luca Della Robbia, con il perfezionamento della tecnica della terracotta invetriata e la cui Visitazione decora la chiesa di S. Giovanni Fuorcivitas. Mila Lavorini maggio
MEDIOEVO
ANTE PRIMA
Una storia da riscoprire
RICORRENZE • Nel 1317, Merano si vide riconosciuta la qualifica di città: una
tappa decisiva, che viene ora celebrata con numerose iniziative e l’invito a conoscere i molti monumenti incorniciati dalla magnifica corona delle vette alpine
U
n fitto calendario di eventi celebra un compleanno importante per Merano, «città» dal giugno 1317, quando Enrico di Carinzia († 1335), re di Boemia e Polonia, le conferisce il primo ordinamento civico, dal quale emerge la vocazione commerciale del centro, posto fra il torrente Passirio e il monte Benedetto, nel punto di confluenza di val Venosta, val Passiria e val d’Adige. Documentato dalla metà del IX secolo, l’abitato viene acquistato assieme all’area circostante dal conte Alberto III di Tirolo (1180-1253), che
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In alto una veduta panoramica di Merano. Qui accanto uno scorcio del Kurhaus, raffinato esempio di architettura Jugendstil dell’intero arco alpino.
maggio
MEDIOEVO
Tutti gli appuntamenti Per il programma delle iniziative legate al Giubileo, si può consultare il sito www.700xm.it, che riporta appuntamenti quali musical, concerti, mostre, conferenze, presentazioni di libri. Fra le mostre in calendario, segnaliamo MERANoEIKoN, dal 6 al 19 maggio, in cui vengono esposti l’Icona della Sequela, una sequenza di croci e altri simboli leggibili nel reticolo urbanistico di Merano e soggetti a interpretazione alla luce della Buona Novella di Gesú. Per i Settecento anni è stato inoltre prodotto un vino con il logo del Giubileo ed è stato realizzato un calendario di fotografia e moda. Per ulteriori informazioni sul territorio: www.merano-suedtirol.it. lo lottizza per concederlo in feudo. Fu però il successore Mainardo II (1238-1295), padre di Enrico di Carinzia, a incoraggiare la crescita di Merano, scegliendola come sede di rappresentanza, dotata via via di mura, lebbrosario, ospedale di Santo Spirito e zecca. Lo statuto che compie settecento anni, oggi custodito nel Palais Mamming Museum, è un insieme di leggi che regolano la giustizia e il commercio: alcune disposizioni stabiliscono i termini di tutela della cerchia muraria, le modalità per farsi ricevere in udienza dal signore, le pene in caso di furto; altre norme disciplinano in maniera molto precisa i guadagni e la produzione di pane, vino, carne, stabilendo anche la legittimità di vendita in strada o altrove. Dalla seconda metà del Trecento,
MEDIOEVO
maggio
con il passaggio agli Asburgo e lo spostamento a Innsbruck della capitale del Tirolo, Merano perde progressivamente importanza.
In alto, a sinistra una tipica via porticata del centro storico. Qui sopra la chiesa di S. Maria del Conforto, di origini romaniche.
Sull’asse dei portici
una hallenkirche a tre navate, citata già nel Duecento, che nelle forme attuali risale al secolo successivo: il campanile con copertura a crociera conta un’aquila tirolese nella chiave di volta, mentre il coro gotico è consacrato nel 1367. Sempre in centro, sono leggibili nel palazzo in cui ha sede la Banca Popolare di Merano i resti del convento delle Clarisse, voluto dal duca Ottone e dalla moglie Eufemia nel 1310, con le chiese dedicate a Maria e a santa Caterina. A Maia Balla c’è la già ricordata chiesa di S. Maria del Conforto, con gli affreschi romanici dell’arco
Il Giubileo per i settecento anni dell’evento fondativo offre l’opportunità di riscoprire le testimonianze medievali, attraverso un itinerario con tappe come i portici, la parrocchiale, i resti del convento delle Clarisse, gli affreschi di S. Maria del Conforto. In linea con un criterio diffuso in tutto il Tirolo, la struttura urbanistica medievale si snoda attorno all’asse dei portici, documentati dal 1322, ai quali si accedeva tramite le quattro porte collegate alla cerchia difensiva. Un’altra testimonianza dell’età di Mezzo è la parrocchiale di S. Nicolò,
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ANTE PRIMA
In alto una sala del Palais Mamming Museum, che custodisce lo Statuto con il quale Merano veniva riconosciuta come «città», nel 1317. A sinistra il campanile della parrocchiale di S. Nicolò, di fondazione medievale. trionfale e delle pareti adiacenti. Documentata dal 1271, la struttura donata all’abbazia cistercense di Stams, conserva il ciclo scoperto cinquant’anni fa: a episodi come il Transito della Vergine e il Compianto degli Apostoli si affiancano rappresentazioni di Profeti e scene frammentarie. L’opera, che influenzò la produzione pittorica nella Val d’Adige, viene attribuita a due artisti di cultura bizantina, con una datazione che oscilla fra l’inizio e il quinto decennio del XIII secolo. Il luogo di culto custodisce inoltre affreschi trecenteschi, realizzati nell’ambito dei lavori resi necessari dall’alluvione del
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1372. L’impronta post giottesca dei dipinti è riconducibile al Maestro di Sant’Urbano, documentato negli ultimi decenni del secolo.
Dal castello il nome All’imbocco della val Passiria svetta Castel San Zeno, ricostruito da Mainardo II, che lo acquisisce nel 1285. A poca distanza sorge Castel Tirolo, sede dinastica dei conti, che nel corso del Duecento dà il nome a tutta la regione. Il suo primo nucleo – databile tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo – è costruito su un precedente insediamento, testimoniato da una struttura carolingia, e venne ampliato secondo un modello di riferimento che guardava alla casata imperiale sveva. I portali d’accesso mostrano figure del bestiario, affini alle sculture del Duomo di Trento e a quelle pavesi di S. Michele in Ciel d’Oro. Stefania Romani maggio
MEDIOEVO
ANTE PRIMA
Ritorno in Austria RECUPERI • A trent’anni dal loro trafugamento, sono
stati ritrovati dodici preziosi pannelli facenti parte di due pale d’altare dipinte fra il XV e il XVI secolo
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n nuovo, importante successo corona il costante impegno del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale nell’attività di repressione del traffico di opere d’arte. A beneficiarne è in questo caso l’Austria, Paese che si vedrà restituire un nucleo di 12 dipinti a olio su tavola. I pannelli erano stati trafugati nel 1986 e nel 1987, a seguito di due distinte azioni criminose, condotte nelle cittadine di Bad Sankt Leonhard (Carinzia) e Hallstatt (Alta Austria), rispettivamente ai danni della chiesa di S. Leonardo e della parrocchiale dell’Assunta. Si tratta, in entrambi i casi, di parti di pale d’altare: quella di Bad Sankt Leonhard, attribuita a un artista noto come Meister Melchior e datata al 1513, ha come soggetto principale un gruppo con la Vergine e il Bambino insieme a Sant’Anna e gli elementi asportati ritraggono figure di altre quattro sante; la pala di Hallstatt, che si colloca intorno alla metà del XV secolo, è invece incentrata su una Crocifissione e i quadri recuperati mostrano scene riferibili alla vita dei santi Anna e Gioacchino (madre e padre di Maria), alle quali si aggiungono ritratti di san Cristoforo e di alcuni vescovi.
La prova regina Al recupero delle opere si è arrivati grazie a indagini negli ambienti della mediazione d’arte, coordinate dalla Procura della Repubblica di Ferrara. In particolare, la svolta decisiva si è avuta nel momento in cui sono state acquisite le fotografie
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Pannelli con scene della vita di sant’Anna e san Gioacchino facenti parte della pala d’altare realizzata da Meister Melchior per la parrocchiale di S. Leonardo a Bad Sankt Leonhard (Carinzia, Austria). 1513. di alcuni dei dittici successivamente rinvenuti: le scene raffigurate facevano immediatamente intuire che la produzione artistica, di eccellente fattura, potesse essere esterna all’Italia, e in particolare mitteleuropea. Dal controllo effettuato dagli esperti della Sezione Elaborazione Dati del TPC è emerso che le opere erano censite nella Banca dati dei beni culturali illecitamente sottratti e riconducibili ai furti avvenuti appunto nelle due chiese austriache. Al momento dell’azione degli investigatori, le opere erano già pronte per essere cedute all’estero e la prontezza dell’intervento ha perciò permesso di poterle salvare prima che fossero collocate sulle rotte del traffico internazionale. Prima del rientro in Austria, alcuni dei dipinti, in particolare quelli trafugati ad Halstatt, sono attualmente esposti in Palazzo Reale, a Milano, nella mostra «I Santi d’Italia». (red.) DOVE E QUANDO
«I santi d’Italia» Milano, Palazzo Reale fino al 4 giugno Orario lu, 14,30-19,30; ma-do, 9,30-19,30 (gio e sa, apertura serale fino alle 22,30) Info www.palazzorealemilano.it maggio
MEDIOEVO
ANTE PRIMA
In festa nel segno del vino APPUNTAMENTI • Culla di uno
dei bianchi piú rinomati, Soave vanta anche una storia lunga e importante, alla quale si ispira la rievocazione che, ogni anno, anima le vie cittadine. E che, come sempre, si appresta a nominare Castellane e Spadarini...
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er tradizione, nel terzo week end di maggio (quest’anno dal 19 al 21), il centro di Soave, situato a 20 km da Verona, ospita la Festa Medievale del Vino Bianco Soave. La cittadina veneta rende cosí omaggio al suo prodotto piú noto e alla sua storia, rivivendo i fasti del XIV secolo. Si inizia il venerdí sera con il banchetto di gala nel Palazzo del Capitano; la serata di sabato viene poi allietata dal concerto del corpo bandistico cittadino e da varie rievocazioni in centro storico. La domenica è la giornata «clou». Nel Castello Scaligero avviene l’investitura delle nuove Castellane e degli Spadarini, mentre nelle vie del borgo antico prende vita il «quotidiano medioevale», con un corteo storico, un mercatino degli antichi mestieri, un torneo degli arcieri e l’antico Palio delle Botti, una sfida tra le contrade del borgo. L’investitura delle Castellane rievoca l’epoca d’oro del Castello di Soave, vale a dire l’inizio del XIV secolo, quando la «padrona di casa» era la principessa imperatrice d’Antiochia, moglie di Federico della Scala, che, secondo la tradizione popolare, riconobbe i meriti delle piú illustri nobildonne e damigelle
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del tempo. Conferendo loro il titolo di «Castellana di Suavia», la principessa le autorizzava a fregiarsi di una tracolla damascata sulla quale era appesa la chiave del maniero, simbolo di potere su queste terre.
La Madonna e i ritratti Situato sul monte Tenda, dal quale domina la pianura sottostante, il Castello Scaligero è documentato
per la prima volta nell’anno 934, nel periodo in cui gli Ungari penetrarono in Europa occidentale. Tipico manufatto militare medievale, fu costruito probabilmente su un antico fortilizio romano. È costituito da un mastio e da tre cortili, uno dei quali presenta un bell’affresco datato 1321 con la Madonna che protegge i fedeli inginocchiati. Interessante, all’interno, è la «stanza
Mira la botte! N
el villaggio carinziano di Feistritz an der Gail, nel giorno dell’Ascensione – quest’anno il 4 giugno –, si rinnova la tradizione del Kufenstechen, una giostra cavalleresca risalente alla fine del XV secolo, a ricordo dell’arrivo dei soldati turchi che invasero l’Austria, attraversando la valle del Gail, uccidendo e incendiando borghi. La rievocazione vede i ragazzi del paese cavalcare senza sella cavalli di razza Noriker, lungo uno stretto rettilineo, con l’obiettivo di distruggere una botte di legno, fissata su un palo, con un bastone di ferro. La botte, detta Kufe, evoca i barilotti con i quali nel Medioevo in questa zona si commercializzava il sale. Dopo il Kufenstechen ha luogo il Lindentanz, ovvero il «ballo sotto il tiglio». Il vincitore della giostra dà inizio alle danze con la ragazza desiderata; seguono le altre coppie che indossano il Gailtaler Tracht, il costume tradizionale della valle. T. Z. maggio
MEDIOEVO
Coreografie per una santa «straniera» V
dei ritratti», con cinque dipinti raffiguranti Mastino I della Scala, il fondatore della potenza scaligera; Dante Alighieri, di cui si presume un soggiorno nel castello; Cangrande, il piú importante tra gli Scaligeri; Cansignorio della Scala, che restaurò il maniero e fece cingere Soave dalle mura fortilizie; Taddea da Carrara, moglie di Mastino II. Tiziano Zaccaria
issuta in Umbria dal 1381 al 1447, santa Rita da Cascia è celebrata in molte città italiane il 22 maggio. Una delle feste piú sontuose è il corteo storico che si svolge a Castelvetrano, nel Trapanese, in una domenica di fine maggio, quest’anno il 28. Nelle sette piazze cittadine centinaia di figuranti abbigliati con i costumi dell’epoca danno vita a tableaux vivant, quadri viventi che raffigurano i principali momenti della vita di Rita da Cascia: bambina con i genitori; il suo sposalizio; l’assassinio del marito Paolo; la morte dei figli; novizia con i tre santi protettori; monaca stimmatizzata; il miracolo dell’orto; il suo glorioso transito. Una coreografia di sbandieratori, tamburi, alfieri e musici precede i quadri viventi, proiettando gli spettatori nel Medioevo. Gruppi folcloristici provenienti da tutta la Sicilia e dal resto d’Italia arricchiscono la festa, che si conclude davanti all’immagine esposta della santa, alla quale il sindaco offre una lampada votiva dopo i saluti di rito assieme al parroco.
L’antica aristocrazia Il corteo storico rievoca l’antica aristocrazia locale, a partire dal principe Carlo d’Aragona e Tagliavia con la consorte principessa Margherita Ventimiglia. Viene raffigurata anche la Deputazione civica, guidata dal Capitano del Popolo, che sfila con l’antica mazza giuratoria d’argento, esibita in pubblico solo in questa occasione. Ma la protagonista della festa resta Rita da Cascia: nella parrocchia di Maria Santissima della Salute si rende omaggio a un’effigie della santa particolarmente venerata dai fedeli della Valle del Belice. L’origine di Castelvetrano risalirebbe alle antiche popolazioni sicane di Legum, tuttavia l’esistenza della città è documentata a partire dal dominio angioino. Nel 1299 la baronia di Castelvetrano fu concessa ai Tagliavia, futuri principi della città, il cui cognome si mutò nel tempo in Aragona e Pignatelli. Nel 1522 re Carlo V elevò la città a contea; nel 1564 Filippo II la eresse a principato. T. Z. Sulle due pagine, dall’alto, in senso orario due momenti della Festa Medievale del Vino Bianco Soave, che, nell’omonima cittadina veneta, è l’occasione per rievocare i fasti del XIV sec.; un gruppo di figuranti coinvolti nel corteo storico
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che anima le vie di Castelvetrano in occasione della festa in onore di santa Rita da Cascia; uno dei concorrenti che partecipano alla Kufenstechen di Feistritz an der Gail, in Austria, giostra cavalleresca di ispirazione medievale.
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ANTE PRIMA
Il Monferrato vi aspetta
INFORMAZIONE PUBBLICITARIA
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n maggio, il Monferrato, terra del Piemonte inserita dall’UNESCO nella World Heritage List, saluta il ritorno di «Riso & Rose in Monferrato», insieme alla vicina pianura del Po fino alla Lomellina. Giunta alla diciassettesima edizione, la manifestazione ripropone la sua consolidata formula diffusa e itinerante, nel tempo e nello spazio. Il tempo è l’intero mese di maggio (da venerdí 5 a domenica 28) e, in particolare, i suoi quattro fine settimana. E lo spazio è l’intero territorio del Monferrato, con manifestazioni nella sua capitale, la storica città di Casale Monferrato, e in una trentina di Comuni a cavallo fra Piemonte e Lombardia e fra le province di Alessandria, Asti, Vercelli e Pavia. Ricca è l’offerta di opportunità incluse nel calendario degli eventi, denominato «Le stagioni del Monferrato»: dalle visite a castelli, dimore, siti storici e aziende alle degustazioni di vini, artigianato tipico gastronomico e distillati, dai mercatini di hobbistica, vita all’aria aperta e fiori agli eventi musicali e sportivi. Appuntamenti musicali di elevato livello artistico accompagneranno le visite ai tesori artistici e architettonici di Casale Monferrato: qui, per l’intero mese di maggio, avranno luogo concerti, letture e incontri nelle cornici piú suggestive, come le chiese di S. Domenico e S. Caterina, nella Sinagoga, presso l’Accademia Filarmonica e negli incantevoli cortili cittadini. In calendario, musica classica, corale, ma anche lirica, musica della tradizione ebraica ed esecuzioni con arpa e flauto. Il florovivaismo e le idee per casa e giardino sono temi centrali nella rassegna e si sviluppano attraverso appuntamenti come «Coniolo Fiori» (20 e 21 maggio), che da diciassette anni attira gli appassionati sulla collina di Coniolo (Alessandria), proponendo un mercato specializzato nella floricoltura e concorsi che riguardano le piante piú belle di rose di ogni categoria. Spicca anche l’evento di Terruggia (Alessandria) «Vivere in Campagna» (6 e 7 maggio), alla sua ventiquattresima edizione, con la mostra-mercato nel Parco della locale Villa Poggio. E poi le visite al Roseto della Sorpresa di Castell’Alfero (Asti) il 28 maggio e ancora le aperture
In alto e in basso paesaggi tipici delle colline del Monferrato. Qui sopra visita e degustazione all’interno di una cantina. degli storici giardini delle dimore storiche di Ponzano Monferrato (Alessandria) il 7 maggio. Fra gli altri appuntamenti, la riscoperta di un antico mulino ad acqua a Fontanetto Po, il Palio dell’Oca Bianca a Quargnento, l’incanto dei Castelli di Gabiano e Giarole, e, ancora, le visite alle suggestive cavità sotterranee (gli «infernot») e gli appuntamenti enologici di «Cantine Aperte» e «Di Grignolino in Grignolino». Eventi anche in Lomellina, a Sartirana nella Pila del castello, sul tema vini e cultura, e a Breme, con biciclettata e risottata. Info sul sito www.monferrato.org oppure attraverso l’Ufficio Informazioni Turistiche di Casale Monferrato: tel. 0142 444330 (attivo ma-do, 10,00-13,00; ma-gio, 15,00-18,00; ve-do, 15,00-19,00).
AGENDA DEL MESE
Mostre MONTEFALCO (PERUGIA) ANTONIAZZO ROMANO E MONTEFALCO Complesso museale di S. Francesco fino al 7 maggio
Nella Roma della seconda metà del XV secolo, Antoniazzo Romano (al secolo Antonio di Benedetto degli Aquili) era certamente il pittore piú famoso: guidava una fiorente bottega, che lo affiancava nei cantieri impegnati nella decorazione di chiese e conventi e nella produzione di tavole devozionali e d’altare. Il maestro romano è ora protagonista dell’esposizione allestita nel Complesso
a cura di Stefano Mammini
Vincenzo da Saragozza, Santa Illuminata, San Nicola da Tolentino, proveniente dalla chiesa di S. Illuminata di Montefalco e oggi custodita nella Pinacoteca cittadina. Antoniazzo Romano realizzò la pala con i santi Vincenzo, Illuminata e Nicola da Tolentino nel 1430-35 per la cappella di S. Caterina nella chiesa di S. Maria del Popolo a Roma. Giunse a Montefalco nel 1491 e venne posta nella chiesa di S. Illuminata, grazie all’intervento di frate Anselmo da Montefalco, generale dei frati agostiniani. In quell’occasione fu eseguito un adattamento dei santi raffigurati sulla tavola, di cui il restauro dà testimonianza: santa Caterina d’Alessandria, titolare della cappella romana, fu trasformata in santa Illuminata, coprendone la ruota del martirio; sant’Antonio da Padova venne spogliato del saio francescano e rivestito di quello agostiniano al fine di trasformarlo in san Nicola da Tolentino. L’unico santo non modificato fu Vincenzo da Saragozza, connotato dal vascello. info www.sistemamuseo.it NEW YORK PICCOLE MERAVIGLIE: MINIATURE GOTICHE IN BOSSO The Met Cloisters fino al 21 maggio
museale di San Francesco a Montefalco, che accoglie il trittico della Madonna col Bambino tra i Santi Paolo, Benedetto, Giustina e Pietro, realizzato tra gli anni 1488-1490 e conservato presso la Pinacoteca della Basilica di S. Paolo Fuori le Mura a Roma. Gli ori del dipinto romano, restaurato nei laboratori dei Musei Vaticani, brillano accanto alla pala San
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Piccole nelle dimensioni, ma piene di vita, le miniature in legno di bosso – pianta originaria del Mediterraneo che ha conosciuto uno straordinario successo nella creazione dei giardini - sono state fonte di meraviglia fin da quando ebbe inizio la loro produzione, nell’Olanda del Cinquecento. I miracoli e i drammi della Bibbia vengono rievocati su manufatti riccamente lavorati che spesso misurano non piú di 5 cm. Gli oggetti venivano realizzati per essere utilizzati come elementi di rosario o altari in miniatura e una loro selezione viene ora presentata, per la prima volta, nella mostra allestita presso i Cloisters, la sezione staccata del Metropolitan Museum dedicata all’arte e all’architettura del Medioevo. Fra i materiali di maggior pregio, spiccano il rosario realizzato per Enrico VIII d’Inghilterra e per la sua prima moglie, Caterina d’Aragona, e una scultura miniaturistica, in forma di lettera P, ornata con scene della leggenda di san Filippo. info http://www.metmuseum.org SANSEPOLCRO NEL SEGNO DI ROBERTO LONGHI. PIERO DELLA FRANCESCA E CARAVAGGIO Museo Civico fino al 4 giugno
L’inedito accostamento tra Caravaggio e Piero della Francesca potrebbe a prima vista sembrare azzardato. Eppure, le motivazioni emergono se si guardano i due artisti, tra loro cosí lontani e diversi, nel segno di Roberto Longhi (1890-1970): entrambi, infatti, furono studiati e «riscoperti» dallo storico dell’arte già dai suoi anni formativi. Del Caravaggio Longhi fu «scopritore»
moderno, lucido studioso e collezionista, tanto da acquisire per la propria «raccolta», intorno al 1928, il Ragazzo morso da un ramarro; e su Piero della Francesca, lo studioso scrisse, nel 1927, una monografia tuttora imprescindibile, anticipata dal lucidissimo saggio del 1914, Piero dei Franceschi e lo sviluppo della pittura veneziana. A ideale apertura della mostra è il meraviglioso Polittico della Misericordia. La tavola di Ercole de’ Roberti Ritratto di giovane, che reca nel verso un Ritratto di giovane donna – appartenente a una collezione privata – viene esposta a testimonianza della «discendenza, per quanto evoluta e ormai incrociata di veneto», del profilo «nitido» del giovane dai ritratti di Piero, come ebbe a riconoscere Longhi nel volume Officina ferrarese del 1934. Accanto al Caravaggio, alla tavola di Ercole de’ Roberti, e al polittico di Piero della Francesca, sono esposti documenti provenienti dall’archivio, dalla biblioteca e dalla fototeca della Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi. info tel. 199 151 121; www.mostrapieroecaravaggio.it VENEZIA JHERONIMUS BOSCH E VENEZIA Palazzo Ducale, Appartamento del Doge fino al 4 giugno
Visioni inquietanti, scene convulse, paesaggi allucinati con città incendiate sullo sfondo, mostriciattoli e creature oniriche dalle forme piú bizzarre: è questo l’universo di Jheronimus Bosch affascinante ed enigmatico pittore vissuto tra il 1450 circa e il 1516 a ’s-Hertogenbosch (Boscoducale) in Olanda, ricordato in occasione dei 500 maggio
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anni dalla morte con due grandi mostre monografiche, rispettivamente nella città natale e al Prado di Madrid. A questo straordinario artista, Venezia, unica città in Italia a conservare suoi capolavori, dedica una mostra di grande fascino e di notevole rilevanza per gli studi, il cui punto focale sono proprio le tre grandi opere di Bosch custodite in laguna alle Gallerie dell’Accademia - due trittici e quattro tavole - riportate all’antico splendore grazie a una importante campagna di restauri: Il martirio di santa Ontocommernis (Wilgefortis, Liberata), Tre santi eremiti e Paradiso e Inferno (Visioni dell’Aldilà). info palazzoducale.visitmuve.it CONEGLIANO BELLINI E I BELLINIANI, DALL’ACCADEMIA DEI CONCORDI DI ROVIGO Palazzo Sarcinelli fino al 18 giugno
La nuova mostra in Palazzo Sarcinelli prosegue le esplorazioni sulle trasformazioni dei linguaggi della pittura veneziana e veneta negli anni magici tra Quattro e Cinquecento, approdando alla figura imprescindibile di Giovanni Bellini, nel quinto centenario della morte del maestro. Chi sono, quindi, i giovani artisti e collaboratori del grande Giambellino? Come si formarono, quale posto avevano nella produzione della bottega? Che cosa trassero e che cosa a loro volta tramandarono dalla
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frequentazione e dalla stessa collaborazione con un artistaintellettuale tanto sublime per pensiero e per invenzione, per tecnica e non meno che per precisione formale? L’esposizione prende le mosse proprio da queste domande e trova nella raffinata collezione dell’Accademia dei Concordi di Rovigo lo spunto per tracciare una sorta di mappa del milieu belliniano. Dai due celebri capolavori di Bellini in mostra – la Madonna col Bambin Gesú e il Cristo portacroce – il percorso espositivo propone importanti confronti, contaminazioni, suggestioni con opere di altri artisti, da Palma il Vecchio a Dosso Dossi fino a Tiziano e Tintoretto, o, addirittura, a maestri tedeschi e fiamminghi (come Mabuse e Mostaert) per sottolineare la centralità di Giovanni Bellini rispetto a uno scenario non solo veneziano e veneto. info tel. 0438 1932123; www.mostrabellini.it CITTÀ DEL VATICANO «DILECTISSIMO FRATRI CAESARIO SYMMACHUS». TRA ARLES E ROMA: LE RELIQUIE DI SAN CESARIO, TESORO DELLA GALLIA PALEOCRISTIANA Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano fino al 25 giugno
I Musei Vaticani e il Musée départemental de l’Arles antique avviano con questa mostra un dialogo fra le rispettive collezioni. Il primo capitolo di questa collaborazione è dunque un omaggio a Cesario, vescovo di Arles all’inizio del VI secolo, grande umanista, grande santo, grande erudito, che a
suo tempo fu ricevuto a Roma da papa Simmaco e a Ravenna da Teodorico. E nel solco delle sue impronte è stata concepita l’esposizione: Il Musée de l’Arles antique, infatti, ospita attualmente, in attesa della loro ricollocazione nella cattedrale cittadina, le reliquie di san Cesario, che, prima del loro rientro definitivo nella chiesa di Arles, si è deciso di portare in Vaticano,
quale Amedeo Lia assegna alla sua città d’adozione la preziosa e cospicua raccolta d’arte, forte di quasi milleduecento opere tra dipinti, sculture, miniature e oggetti. A poco piú di un anno, il 3 dicembre del 1996, il Museo Civico «Amedeo Lia» ha aperto al pubblico, mettendo a disposizione della comunità, anche scientifica, un patrimonio collezionistico fino
nella suggestiva prospettiva di un ritorno a Roma del pallio donato a Cesario dal papa in segno del suo munus episcopale e del legame con il Vescovo di Roma. A sottolineare gli elementi di vicinanza e i legami fraterni esistenti tra le due comunità, accanto ai vestimenta di Cesario e alle testimonianze storiche relative al suo culto nel corso dei secoli, sono esposti preziosi confronti provenienti da raccolte vaticane e romane. info www.museivaticani.va
ad allora privato e dunque di difficile consultazione. Sono ora trascorsi vent’anni e per l’occasione vengono presentate alla città e al pubblico opere di grande significato provenienti da altre istituzioni museali che in questi due decenni hanno collaborato con il Lia. Venti opere, una per ogni anno trascorso, distribuite lungo il percorso museale, a integrazione, pur provvisoria, della collezione permanente. info tel. 0187 731100 http://museolia.spezianet.it
LA SPEZIA
MONTEPULCIANO, SAN QUIRICO D’ORCIA, PIENZA (SIENA)
L’ELOGIO DELLA BELLEZZA. 20 CAPOLAVORI, 20 MUSEI, PER I 20 ANNI DEL LIA Museo Lia fino al 25 giugno
Il 6 giugno del 1995 il notaio Leonardo Milone di Roma redige l’atto di donazione unilaterale a favore del Comune della Spezia, con il
IL BUON SECOLO DELLA PITTURA SENESE. DALLA MANIERA MODERNA AL LUME CARAVAGGESCO Museo Civico Pinacoteca Crociani, Palazzo Chigi Zondadari, Conservatorio S. Carlo Borromeo fino al 30 giugno
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AGENDA DEL MESE Riccio, appartenente alla Compagnia del Santissimo Sacramento di San Quirico d’Orcia. Il Conservatorio S. Carlo Borromeo di Pienza, infine, ospita la sezione Francesco Rustici detto il Rustichino, caravaggesco gentile e il naturalismo a Siena, incentrata sulla pala di Francesco Rustici raffigurante la Madonna col Bambino e i Santi Carlo Borromeo, Francesco, Chiara, Caterina e Giovanni Battista. info tel. 0578 757341 (Pro Loco di Montepulciano) tel. 0577 899728 (Ufficio Turistico San Quirico d’Orcia); tel. 0578 748359 (Ufficio Turistico di Pienza) e-mail: ilbuonsecolodella dellapitturasenese@gmail.com https://ilbuonsecolodella pitturasenese.wordpress.com/ FIRENZE Il progetto espositivo è nato dalla volontà di mettere finalmente in luce gli interpreti della pittura in terra di Siena tra i primi del Cinquecento e la seconda metà del 1600. Artisti di eccellente e spesso notevolissimo livello, ancora non tutti compiutamente studiati e conosciuti. La mostra è strutturata in tre sezioni, divise cronologicamente in relazione alla presenza di opere d’arte già esistenti in loco. Il Museo Civico Pinacoteca Crociani di Montepulciano ospita la sezione Domenico Beccafumi, l’artista da giovane. A San Quirico d’Orcia, in Palazzo Chigi Zondadari, viene invece proposto il percorso Dal Sodoma al Riccio: la pittura senese negli ultimi decenni della Repubblica, che si dipana attorno alla Madonna col Bambino e i Santi Leonardo e Sebastiano di Bartolomeo Neroni detto il
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FACCIAMO PRESTO! MARCHE 2016-2017: TESORI SALVATI, TESORI DA SALVARE Gallerie degli Uffizi, Aula Magliabechiana fino al 30 luglio
selezione di capolavori provenienti dai paesi e dalle cittadine delle Marche, in particolare dalle province di Ascoli Piceno, Fermo e Macerata colpite dal terribile terremoto che ha semidistrutto o reso inagibili le chiese, i palazzi e i musei dove erano custoditi, spesso fin dalla loro origine. Occasione eccezionale per far conoscere i tesori di questi territori dell’entroterra marchigiano meridionale, l’iniziativa intende costituire un omaggio alle Marche da parte delle Gallerie degli Uffizi, che, grazie all’eredità di Vittoria della Rovere, mantengono un forte legame storico con le collezioni artistiche marchigiane e in particolare urbinati. La scelta delle opere esposte si prefigge anche l’intento di ripercorrere sinteticamente un ideale percorso nella storia dell’arte di questi territori a partire dal Medioevo e fino al XVIII secolo. info tel. 055 23885 (centralino); www.uffizi.it
FIRENZE GIULIANO DA SANGALLO. DISEGNI DAGLI UFFIZI Gallerie degli Uffizi, Sala Edoardo Detti e Sala del Camino fino al 20 agosto
PARIGI CHE C’È DI NUOVO NEL MEDIOEVO? Cité des sciences et de l’industrie fino al 6 agosto
La mostra, i cui proventi verranno utilizzati per la ricostruzione dei monumenti colpiti dal sisma, presenta una
invenzioni e nessuno piú, ormai, si lascerebbe andare a definirli «bui». La descrizione di questa età di Mezzo (almeno in parte) inaspettata si sviluppa in due grandi sezioni: nella prima, vengono messi a punto i riferimenti cronologici essenziali, corredati da alcuni manufatti particolarmente rappresentativi del periodo; nella seconda, si passa invece ai materiali scaturiti dagli scavi condotti dall’INRAP. info www.cite-sciences.fr
In Francia, la pratica dell’archeologia preventiva è gestita dall’INRAP (Institut national de recherches archéologiques preventives), che è fra gli ideatori di questo nuovo progetto espositivo e grazie alle cui ricerche è stato possibile riunire i materiali presentati. Si tratta di un repertorio in molti casi inedito, che permette di inserire nel racconto dei mille anni del Medioevo molte novità importanti, accomunate da un dato ormai inconfutabile: quei dieci secoli furono ricchi di storia, ma anche di innovazioni e
Si tratta della prima esposizione monografica degli Uffizi dedicata alla produzione grafica di Giuliano da Sangallo (Firenze, 1445 circa-1516), la mostra, oltre a ospitare una ragionata scelta del vasto corpus di disegni conservato in collezione, espone un numero limitato di altri manufatti artistici, accuratamente selezionati per dar conto della poliedricità dell’artista e delle molteplici implicazioni dei suoi interessi architettonici, nonché dell’attività della bottega. Il catalogo realizzato per l’occasione offre una valutazione complessiva dell’opera grafica di Giuliano da Sangallo, mettendo in luce maggio
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la cronologia, i luoghi e la committenza degli ultimi decenni di attività; le ricerche compositive e le sperimentazioni tipologiche, nell’architettura sacra, civile e militare; la funzione degli studi antiquari e dei libri di disegni; i rapporti con il fratello Antonio il Vecchio, il nipote Antonio il Giovane e il figlio Francesco, nei codici e nei disegni di presentazione a piú mani; la pratica della copia e la circolazione del sapere architettonico e antiquario e, infine, la funzione dei modelli lignei come strumenti operativi di progettazione in relazione al disegno. info tel. 055 23885 (centralino); www.uffizi.it ROMA I FORI DOPO I FORI. LA VITA QUOTIDIANA NELL’AREA DEI FORI IMPERIALI DOPO L’ANTICHITÀ Mercati di Traiano, Museo dei Fori Imperiali fino al 10 settembre
L’area in cui sorgevano i Fori Imperiali, cuore antico della città di Roma e complesso architettonico unico al mondo per vastità e continuità urbanistica, è stata oggetto di scavi, studi e ricerche straordinariamente intensi. In particolare, gli scavi archeologici realizzati negli
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ultimi venticinque anni hanno portato alla luce un tesoro prezioso. Il rinvenimento di un’eccezionale varietà di reperti, in alcuni casi unici, ha permesso, infatti, di ampliare le conoscenze sulle vicende del sito nel periodo medievale e moderno. Un contesto storico sicuramente meno noto (e meno rappresentato) al grande pubblico rispetto a quello classico, ma altamente esemplare della continuità insediativa urbana. E ora un’interessante e quanto mai diversificata selezione di questi reperti – tra cui ceramiche, sculture, monete, oggetti devozionali e di uso quotidiano –, tra le migliaia recuperati e per la maggior parte esposti per la prima volta, raccontano questi significativi periodi storici nella mostra «I Fori dopo i Fori». info tel. 06 06 08 (tutti i giorni, 9,00-21,00); www.mercatiditraiano.it; www.museiincomune.it PERUGIA DA GIOTTO A MORANDI. TESORI D’ARTE DI FONDAZIONI E BANCHE ITALIANE Palazzo Baldeschi al Corso fino al 15 settembre
Come annuncia il titolo, la mostra intende valorizzare il patrimonio artistico posseduto dalle Fondazioni di origine bancaria e delle banche italiane. Si tratta di un patrimonio ampio che, per varietà di composizione e stratificazione temporale, può essere considerato il volto storico e culturale dei diversi territori della nostra Penisola. Questa particolare attività collezionistica è un aspetto del piú complessivo impegno culturale delle banche e delle fondazioni, in una dimensione piú ampia di attività e di impegno verso la
comunità di riferimento: acquisto, recupero, restauro e quindi tutela e valorizzazione di opere che altrimenti andrebbero disperse. La maggior parte delle opere in mostra sono catalogate in Raccolte, la banca dati consultabile on line realizzata dall’Acri, l’Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio. La mostra perugina propone dunque un avvincente percorso lungo sette secoli di storia dell’arte e al contempo consente di verificare la pluralità degli orientamenti che stanno alla base del fenomeno del collezionismo bancario. info tel. 075. 5724563; www.fondazionecariperugiaarte.it FIRENZE IL COSMO MAGICO DI LEONARDO DA VINCI: L’ADORAZIONE DEI MAGI RESTAURATA Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture fino al 24 settembre
L’Adorazione dei Magi di Leonardo da Vinci torna agli Uffizi dopo sei anni di restauri e indagini conoscitive, condotti dall’Opificio delle Pietre Dure con il sostegno economico degli Amici degli Uffizi. La tavola fu commissionata a Leonardo nel 1481 dai monaci agostiniani per la chiesa di S. Donato a Scopeto; la partenza del maestro per Milano, nel 1482, determinò l’abbandono dell’opera, mai ultimata da Leonardo. Il dipinto incompiuto rimase per qualche tempo nelle case della famiglia fiorentina dei Benci, per poi
entrare nelle collezioni dinastiche dei Medici. Costituisce oggi la tavola vinciana piú grande pervenutaci (246 x 243 cm). Il suo restauro, oltre ad avere risolto alcuni problemi conservativi, ha consentito di recuperarne tonalità cromatiche inaspettate e la sua piena leggibilità, ricchissima di dettagli affascinanti che aprono nuove prospettive sul suo complesso significato iconografico. Con l’Adorazione dei Magi di Leonardo viene esposta anche la versione eseguita da Filippino Lippi nel 1496, proponendo cosí un dialogo affascinante, che fa emergere le diversità tra i due maestri e la loro differente interpretazione del soggetto. info tel. 055 23885 (centralino); www.uffizi.it SIENA LA BELLEZZA FERITA. NORCIA, EARTH HEART ART QUAKE. LA SPERANZA RINASCE DAI CAPOLAVORI DELLA CITTÀ DI SAN BENEDETTO Cripta sotto il Duomo e Complesso Museale Santa Maria della Scala fino al 29 ottobre
Il 24 agosto 2016 un forte terremoto colpisce il Centro Italia. Il 26 e 30 ottobre 2016, altre scosse «feriscono» Norcia e il territorio circostante. La basilica di S. Benedetto, la concattedrale di S. Maria Argentea e tutte le chiese della città e dintorni sono distrutte. A seguito del sisma, la Protezione Civile, il Corpo Nazionale Vigili del Fuoco, il Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale e la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Umbria, insieme con l’Ufficio Beni Culturali dell’Archidiocesi di Spoleto-Norcia, hanno
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AGENDA DEL MESE
provveduto alla messa in sicurezza delle opere d’arte del territorio. Alcune di esse sono ora ospitate dalla città di Siena e protette all’interno delle sue viscere: nella cosiddetta «Cripta» sotto il Duomo, dedicato alla Vergine Maria, e nel percorso del Santa Maria della Scala. L’allestimento prevede un itinerario attraverso i capolavori prima custoditi all’interno di basiliche, santuari e pievi del territorio. Una serie di video, concessi dal Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, e materiali fotografici di fotoreporter locali permettono inoltre la visione delle fasi di recupero delle opere dopo il terremoto. info e-mail: bellezzaferita@ operalaboratori.com; tel. 0577 286300; www.operaduomo.siena.it; www.santamariadellascala.com
Appuntamenti
ROMA VISITE GUIDATE ALL’AULA GOTICA DEL MONASTERO DEI SS. QUATTRO CORONATI 9-10 maggio
Si è aperta la nuova stagione di visite agli affreschi realizzati alla metà del Duecento nell’Aula Gotica dei Ss. Quattro
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Coronati. L’Aula era l’ambiente piú prestigioso del palazzo cardinalizio eretto da Stefano Conti: vi si svolgevano banchetti, ricevimenti e vi si amministrava la giustizia. Mirabile esempio di architettura in stile gotico, eccezionale per la città di Roma, il salone colpisce per lo straordinario ciclo pittorico, attribuito al Terzo Maestro di Anagni e a Giunta Pisano. Rimaste per secoli nascoste sotto strati di tinte successive, le meravigliose decorazioni sono tornate a risplendere grazie a un lungo restauro. L’Aula viene aperta due volte al mese in date prefissate e le visite si possono prenotare telefonicamente o per posta elettronica. info tel: 335 495248; e-mail: archeocontesti@gmail.com; www. aulagoticasantiquattrocoronati.it
PISTOIA DIALOGHI SULL’UOMO OTTAVA EDIZIONE 26-27-28 maggio
svolge nell’area dei laghetti Fipsas di Romans d’Isonzo, dove saranno anche allestiti un’area conferenze, un’area ristoro e un’area didattica per bambini e ragazzi. info www.invictilupi.org ITALIA GIORNATA NAZIONALE ADSI 21 maggio 2017
Torna la Giornata Nazionale dell’Associazione Dimore Storiche Italiane, l’iniziativa che apre gratuitamente oltre 200 splendide residenze
«La cultura ci rende umani. Movimenti, diversità e scambi» è il tema dell’edizione 2017 dell’ormai affermato festival di antropologia del contemporaneo – che richiama la nomina della città toscana a Capitale Italiana della Cultura – sul quale si confronteranno importanti pensatori italiani e internazionali. Il centro storico di Pistoia, quest’anno sotto i riflettori di tutto il mondo, sarà animato da un ricco palinsesto di incontri, spettacoli, conferenze e dialoghi, rivolti a un pubblico interessato all’approfondimento culturale e alla ricerca di nuovi stimoli per comprendere e decodificare la realtà di oggi. info www.dialoghisulluomo.it
ROMANS D’ISONZO (GO)
BRISIGHELLA (RA)
ROMANS LANGOBARDORUM V EDIZIONE, «574-584: GLI ANNI DELL’ANARCHIA» 19, 20 e 21 maggio
FESTE MEDIOEVALI 2-4 giugno
La quinta edizione della rievocazione storica è incentrata sulla vita e gli avvenimenti occorsi nel decennio nel quale i duchi longobardi non vollero piú nominare un re: un periodo caratterizzato dall’espansione territoriale di questo popolo in
tutta la Penisola, dalle guerre contro Romei e Franchi e anche dagli scontri fratricidi per la supremazia dei vari Ducati. Come in passato, la manifestazione – che vedrà la partecipazione di 14 gruppi di rievocazione storica provenienti dall’Italia e dall’estero – si
d’epoca, castelli, ville, casali, cortili e giardini in tutt’Italia. Per celebrare i quarant’anni di ADSI, questa edizione del Grand Tour si avvale, in particolare, del contributo di ciceroni d’eccezione: numerosi studenti delle scuole medie superiori, sempre piú coinvolti localmente dal sistema delle dimore storiche, grazie alla partnership siglata con il MIUR nel 2016 nell’ambito dei programmi di alternanza scuola-lavoro, guideranno i visitatori insieme ai proprietari nel viaggio alla scoperta di luoghi di grande fascino, spesso poco noti. info www.adsi.it
La Rocca fortilizia che domina Brisighella rivive le sue origini medievali, attraverso tre giornate (da mattina a notte fonda) nelle quali si potrà fare un salto indietro nel tempo grazie a un ricco programma di animazioni, intrattenimenti, spettacoli a tema. I visitatori potranno calarsi nella vita della Rocca e passeggiare tra nobili, soldati e artigiani in costume d’epoca. Ai piedi delle mura esterne sarà allestito con tende un campo d’arme in preparazione al grande assedio al bastione. Alla base del fortilizio si svolgerà poi la vita di un villaggio medievale, con mercato e osteria, animato dall’intervento di artisti di strada e compagnie con azioni teatrali e musici itineranti. info tel. 0546 81166; www.festemedioevali.org maggio
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intervista il califfato di Andreas M. Steiner
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Si fa presto a dire
CALIFFO
INCONTRO CON MARCO DI BRANCO, STUDIOSO DEL MONDO ARABO E AUTORE DI UN LIBRO DI GRANDE ATTUALITÀ STORICA, ORA IN LIBRERIA di Andreas M. Steiner
F F
orse non è esagerato affermare che, fino a pochi anni fa, il pubblico occidentale associava i sostantivi «califfo» e «califfato» essenzialmente all’immaginario evocato dai racconti delle Mille e una notte o, tutt’al piú, a qualche reminiscenza di storia medievale, quale, per esempio, quella dei contatti «diplomatici» istauratisi tra il leggendario califfo di Baghdad, Harun al-Rashid (alla cui favolosa corte si ispira la stessa raccolta delle Mille e una notte) e il fondatore del Sacro Romano Impero, Carlo Magno, negli anni di passaggio dall’VIII al IX secolo. Nella prefazione al nuovo libro di Marco Di Branco Il Califfo di Dio. Storia del califfato dalle origini all’ISIS. (VII-XXI secolo), lo storico Franco Cardini rievoca uno di questi contatti, avvenuto proprio in Italia: nell’anno 801 sbarcò a Portovenere, nel Golfo di La Spezia, l’ambasciatore del califfo, l’ebreo Isacco, insieme a un dono, da inoltrare a Carlo, tanto inconsueto quanto ingombrante: un elefante bianco, di nome Abu ’l-’Abbas. In tempi recentissimi, da quando, il 5 luglio 2014, il mondo ha assistito all’apparizione in video del califfo dello «Stato islamico», l’«emiro dei credenti» Abu Bakr al-Husayni al-Qurashi al-Baghdadi, il nuovo leader dei combattenti sunniti radicali, proclamato califfo pochi giorni prima, il 29 giugno, la percezione diffusa del suddetto termine ha subito
un brusco rinnovamento. Delle implicazioni storiche e politiche di questo evento abbiamo parlato con il nostro collaboratore, il bizantinista e arabista Marco Di Branco, in occasione della pubblicazione del suo libro.
Nella pagina accanto miniatura raffigurante Maometto e Abu Bakr (miglior amico del Profeta, tra i suoi primi seguaci e primo califfo dell’Islam) in una grotta, da un’edizione cinquecentesca del Siyer-i Nebi (Vita del Profeta). Istanbul, Biblioteca del Topkapi Sarayi.
In alto elefante bianco che trasporta un castello, pittura murale staccata dal romitorio mozarabico di S. Baudelio di Berlanga (presso Soria, Castiglia e León, Spagna). 1125 circa. Madrid, Museo del Prado.
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intervista il califfato Dottor Di Branco, il suo nuovo volume si apre ricordando la proclamazione di Abu Bakr al-Baghdadi – il nuovo leader dei combattenti sunniti radicali – a califfo dello «Stato islamico», il 29 giugno 2014, e la sua successiva apparizione in video, il 5 luglio. Il testo riporta per intero l’inquietante «discorso di Mossul», nonché alcuni altri discorsi di al-Baghdadi, nei quali si invoca la nascita di un nuovo califfato, che mira a divenire un punto di riferimento universale per i musulmani di tutto il mondo. Sin dal sottotitolo, il suo libro fa riferimento a un’implicita continuità tra il fenomeno originario e la sua versione contemporanea e prosegue poi con la storia «moderna» dell’istituzione del califfato, a partire dalla sua abolizione da parte di Kemal Atatürk (il «padre» della moderna nazione turca) nel 1924 e l’appropriazione del titolo califfale da parte degli Hashemiti e del Mahdi in Sudan e di re Fuad I d’Egitto. Quali sono i motivi di questa scelta?
Marco Di Branco, bizantinista e arabista, assegnista di ricerca all’Università di Padova, ha insegnato Civiltà bizantina, Storia islamica e Archeologia bizantina all’Università della Basilicata e alla «Sapienza» Università di Roma. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Storie arabe di Greci e di Romani (PLUS, 2009), Alessandro Magno. Eroe arabo nel Medioevo (Salerno, 2010), e L’elogio della sconfitta. Un trattato inedito di Teodoro Paleologo marchese di Monferrato (con Angelo Izzo, Viella, 2015). Collabora da anni ad «Archeo» e a «Medioevo».
«In generale, ritengo che, per comprendere pienamente il senso storico, politico e religioso dell’inquietante operazione portata a termine dallo “Stato Islamico”, sia piú che mai necessario riflettere sul significato dell’istituzione califfale nella storia islamica, dalle sue origini fino a oggi, confrontandosi con il tema complesso e affascinante del rapporto tra politica e religione nell’Islam e dei modi in cui esso si è evoluto nel tempo. È questa, in estrema sintesi, la ragione che mi ha spinto ad affrontare la stesura del mio nuovo libro».
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Sulle due pagine, da sinistra cartine geopolitiche dell’area mediterranea e vicino-orientale che mostrano la successione delle conquiste operate dai califfi: 1. i territori assoggettati sotto i primi quattro califfi islamici (632-661); 2. l’espansione dell’Islam nel periodo omayyade (661-750); 3. le conquiste durante il califfato abbaside (750-1258).
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In Italia, la ricca pubblicistica concernente l’ISIS brilla per l’assenza di un inquadramento storico adeguato del problema del califfato e per l’assoluta superficialità dei riferimenti religiosi e culturali. Laddove, invece, secondo Lei, è piú che mai necessario riflettere storicamente, evidenziando l’artificiosità della proposta politica avanzata dagli ideologi dell’ISIS, basata su una forma di Islam mai inveratasi nella realtà effettuale. Ci si chiede, infatti, se sia mai esistita un’epoca d’oro dell’Islam, a cui il nuovo califfato sembra volersi richiamare…
Pedina in bronzo di un gioco degli scacchi raffigurante Harun al-Rashid. X sec.
«A mio parere, a dispetto delle correnti e degli autori musulmani piú tradizionalisti – che vagheggiano il ritorno alla forma piú antica di Stato islamico governata dai cosiddetti “califfi ben guidati” (632-661 d.C.) –, è del tutto evidente che l’elaborazione teorica dei musulmani radicali fa riferimento a un Islam puro e mitico che, nei termini utopici in cui esso è evocato, non è mai realmente esistito. Nella tradizione islamica di epoca ‘abbaside (VIII-XIII secolo), i primi quattro califfi musulmani sono definiti concordemente “califfi ben guidati” (rashidun). L’epoca dei primi due – Abu Bakr (632-634) e ‘Umar (634-644) – è considerata un periodo trionfale, un tempo di lealtà verso la leadership e di grandi conquiste, mentre l’epoca di ‘Uthman (644-656) e ‘Ali (656-661) è vista come contrassegnata da dissensi sociali e politici, comportamenti non appropriati da parte dei governanti e caos nel rapporto tra centro e province. Tuttavia, questa netta divisione tra un’età perfetta e una fase di inarrestabile declino – che in qualche modo sussume in
Mar Nero Costantinopoli
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Le conquiste del califfato abbaside (750-1258)
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intervista il califfato Gli anni dei califfi 632 Morte di Maometto CALIFFATO DEI RASHIDUN (I «BEN GUIDATI») 632-634 Abu Bakr, detto al-’iddiq, «Il grandemente veritiero» 634-644 ‘Umar ibn al-Kha’’ab, detto al-Faruq, «Colui che sa distinguere» 644-656 ‘‘Uthman ibn ‘Affan, detto Du ’l-Nurayn, «Quello delle due luci» 656-661 ‘‘Ali ibn Abi Talib, detto al-Murta’a, «Colui che è approvato» CALIFFATO OMAYYADE 661-683 ‘Ramo sufyanide 684-750 Ramo marwanide CALIFFATO ‘ABBASIDE 750-1258 CALIFFATO ‘ABBASIDE DEL CAIRO 1261-1517 CALIFFATO OMAYYADE DI CORDOVA 929-1031 CALIFFATO FATIMIDE 909-1171 CALIFFATO ALMOHADE 1145-1269 sé tutti i successivi sviluppi della storia islamica – appare come una forma di rappresentazione etico-religiosa piú che come una ricostruzione storica basata sui fatti. Piuttosto, occorre porre l’accento sugli aspetti “postmoderni” delle attuali derive terroristiche islamiche – come l’eccezionale abilità nell’uso dei media, la spettacolarizzazione della violenza, il culto della morte, l’estrema spregiudicatezza in campo finanziario – del tutto estranei alla prassi politica e alla cultura islamica medievale». Ma l’istituzione del califfato è, in qualche maniera, storicamente sovrapponibile a quella del fondamentalismo islamico? E quale ruolo vi gioca, per esempio, il movimento salafita? «Nella visione fondamentalista il califfato non è un sistema da costruire nel futuro, ma quello storicamente determinatosi dopo la morte del Profeta, modello eterno di una forma perfetta di Stato che Dio ha voluto si attuasse
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Nella pagina accanto miniatura turca di scuola ottomana raffigurante i quattro califfi «ben guidati», da un’edizione dello Zubdat Al-Tawarikh (Storia del mondo). XVI sec. Istanbul, Topkapi, Biblioteca del Serraglio.
nel tempo della storia. Sono state soprattutto le correnti di pensiero del “fondamentalismo” contemporaneo, dai Fratelli musulmani ai “Salafiti” (“coloro che ripercorrono le tracce degli antichi”), a riproporre una teoria della ricostituzione del califfato adeguata alle esigenze della modernità (che, per esempio, desse spazio al concetto di “Stato”, ignoto al mondo medievale) e interprete delle tendenze piú radicali del pensiero islamico. Tuttavia, il movimento salafita, nato nel XIX secolo, ha oggi assunto posizioni fortemente rigoristiche, conservatrici e reazionarie, abbandonando del tutto l’attitudine originariamente riformista e progressista dei fondatori del movimento». Nella propaganda dei moderni propugnatori del califfato c’è un esplicito richiamo alla «conquista di Roma». A questo proposito, Lei pone l’attenzione su un equivoco storico di non poca rilevanza … «Per quanto strano possa sembrare, l’incitamento alla conquista di Roma è un argomento scarsamente presente nella tradizione retorica dell’Islam medievale. In questo periodo, la città al centro delle brame dei califfi e dei sultani musulmani è un’altra Roma: la seconda, cioè Costantinopoli, non solo in quanto metropoli cristiana, ma soprattutto in quanto capitale di un impero nemico. Tra il 674 e il 678 la capitale bizantina fu piú volte assediata da una grande flotta araba, ma riuscí a resistere anche grazie al famoso “fuoco greco” (una miscela incendiaria a base di pece, salnitro, zolfo, nafta e calce viva, n.d.r.). Un nuovo attacco contro la “Seconda Roma” fu sferrato dai califfi omayyadi tra il 717 e il 718, sotto la guida del comandante Maslama ibn ‘Abd al-Malik, figlio del califfo ‘Abd al-Malik ibn Marwan e di una sua schiava, ma, come quarant’anni prima, i Bizantini riuscirono ad avere la meglio nella battaglia decisiva e i tentativi degli Arabi di espugnare Costantinopoli si infransero contro la saldezza delle mura della città. Con questo ulteriore fallimento, si chiude una fase importante della lotta arabo-bizantina. Costantinopoli non subirà piú assedi arabi, e l’Asia Minore resterà a lungo parte integrante dell’impero bizantino. Saranno infatti i Turchi, e non gli Arabi, a impadronirsi della città nel 1453, e a farne la splendida capitale di un nuovo impero, quello ottomano. La “Prima Roma”, che nel periodo medievale era ben lontana dal raggiungere i fasti costantinopolitani, suscitò l’interesse dei musulmani in pochi casi. Il piú importante fu l’attacco alla città da parte di milizie islamiche nell’agosto dell’846, che si risolse unicamente nel saccheggio delle basiliche di S. Pietro e S. Paolo, ambedue fuori dalle Mura Aureliane: in effetti, le coste laziali, dall’inizio del IX secolo, erano divenute maggio
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In alto Mecca. Pellegrini in preghiera presso la Ka‘ba, un piccolo edificio di forma cubica, posto al centro del sacro recinto e che conserva, incastrata in uno spigolo, la pietra nera venerata nel rituale pellegrinaggio islamico. Nella pagina accanto miniatura raffigurante la Ka’ba, da un’edizione del Futûh al-haramayn (Descrizione delle città sante) scritta da Muhi al-Din Lari. XVII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
obiettivo di incursioni musulmane provenienti dal Marocco, dall’Algeria e dall’Andalusia; proprio per proteggere Roma da tali raid, papa Gregorio IV (828-844) aveva fondato una nuova città fortificata presso Ostia, dotandola di strutture necessarie alla difesa e dandole il nome di Gregoriopoli. Un altro caso è costituito da una semplice dichiarazione di intenti: quella dell’emiro aghlabida Ibrahim II (sovrano del grande emirato islamico di al-Qayrawan, in Tunisia, dall’875 al 902), il quale, nel 902, indisse il jihad contro le popolazioni cristiane confinanti (Bizantini e Longobardi), affermando che non si sarebbe fermato fino alla conquista di Costantinopoli e della città “del vecchio Pietro”, cioè, appunto, Roma. In ogni caso, sia quest’ultimo evento sia il precedente riguardano un’area periferica dell’Islam, quella dell’estremo Occidente. Il cuore del mondo islamico mostra scarsissimo interesse per l’antica capitale dell’impero romano. Ciò si riflette anche
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nelle opere dei geografi arabi orientali, i cui capitoli dedicati a Roma (in arabo Rumiyya, Rumiya o Ruma) contengono in realtà quasi sempre descrizioni della Seconda Roma, cioè della capitale bizantina. Accenni, non privi di ambiguità, alla Roma antica compaiono quasi esclusivamente in testi di tipo apocalittico, che troveranno una eco interessante in alcuni ambienti ottomani dopo la conquista di Costantinopoli». L ’istituzione del «califfato» non nasce certo dal nulla. E nel suo libro, infatti, Lei rintraccia le sue radici in un fenomeno ben piú vasto e antico, quello della regalità sacra delle civiltà tardo antiche e medievali europee e vicino-orientali, e che si riflette nella stessa radice linguistica del termine «califfo»… «I punti di riferimento naturali della politica islamica in formazione vanno ovviamente individuati nei modelli politici rappresentati dai due grandi imperi con i quali la comunità dei musulmani (umma) si trovò dapprima a convivere e poi a guerreggiare vittoriosamente: Bisanzio e la Persia. Al modo stesso in cui, come ha notato Oleg Grabar – uno dei maggiori studiosi del fenomeno artistico musulmano –, l’arte islamica si origina riutilizzando e rielaborando in maniera assolutamente originale elementi tipici dell’arte bizantina e dell’arte sasanide, cosí le istituzioni politiche islamiche (segue a p. 42)
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A sinistra La Battaglia di Ostia, affresco di Raffaello e della sua scuola nella Stanza dell’Incendio di Borgo, Musei Vaticani. 1514-1517. Il dipinto evoca lo scontro dell’849 fra le truppe di Leone IV e i Saraceni – che si concluse con la miracolosa vittoria delle armate papali –, ma intende anche alludere alla crociata contro gli infedeli incoraggiata da papa Leone X. In basso miniatura raffigurante l’assedio turco di Costantinopoli del 1453, da un’edizione del Voyage d’Outremer di Bertrandon de la Broquière. 1458 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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intervista il califfato A sinistra Gerusalemme, Cupola della Roccia. La roccia sulla quale, secondo i musulmani, Maometto avrebbe completato il suo «viaggio notturno», ascendendo al cielo, e sulla quale, per gli Ebrei, Abramo avrebbe invece sacrificato Isacco. Nella pagina accanto miniatura turca raffigurante il sacrificio di Isacco. XVI sec. Istanbul, Museo di arte turca e islamica.
si sviluppano sulla base di elaborazioni concettuali già operanti a Bisanzio e nel mondo persiano. Analogamente, i rituali della monarchia musulmana inglobano, sin dai primi secoli dell’Islam, elementi tipici della tradizione tribale preislamica della Penisola araba, come, per esempio, la bay‘a, cioè il giuramento di alleanza, ma anche forme e simboli complessi, appartenenti all’ideologia regale e alla prassi della corte bizantina e di quella sasanide. Va rilevato come nella trattatistica giuridica e politica islamica medievale la sostanza teologica del potere califfale non sia affatto chiara e come tale ambiguità si ritrovi già nelle varie accezioni date dai testi al termine khalifa, che può avere, secondo i tempi e i casi, il senso di “vicario” di Dio sulla terra o quello di “rappresentante” del Profeta. In altri termini, il califfato musulmano oscilla tra il modello sacrale del sovrano sasanide, “mano di Dio sulla terra” e quello ‘quasi sacerdotale’ dell’imperatore bizantino, in cui il rapporto tra impero e sacerdozio non è mai rivendicato in maniera esplicita e fino alle estreme conseguenze». Le radici del sistema politico e religioso islamico sono in gran parte legate alla vicenda biografica di Maometto. Un aspetto interessante sollevato, a questo proposito, nel Suo libro riguarda l’attendibilità della storiografia islamica sugli inizi dell’Islam. Mi riferisco, in particolare, alla «costruzione» dell’albero genealogico del Profeta, al cosiddetto «abramismo coranico» e all’«abramizzazione della Ka‘ba»…
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«Una delle iniziative piú interessanti e raffinate intraprese dalle fonti medievali islamiche è senza dubbio la “costruzione” dell’albero genealogico di Maometto, che comincia da suo padre e, procedendo a ritroso, giunge fino ad Adamo, passando per i grandi patriarchi biblici: Abramo, Sem, Noè, Matusalemme, Enoch e Seth. Questa connessione del Profeta dell’Islam con il mondo dell’Antico Testamento si inserisce in una piú vasta e complessa operazione ideologico-religiosa: l’innesto dei racconti dei “Figli di Israele” nella tradizione culturale della Penisola araba. Quello che gli studiosi hanno definito “biblismo islamico” è in parte già presente nel Corano, ma solo in versetti rivelati nel periodo piú tardo della missione profetica di Maometto. Di tale operazione è parte integrante la cosiddetta “abramizzazione della Ka‘ba”, cioè la connessione artificiale operata dalle fonti islamiche fra il grande santuario preislamico meccano – destinato a divenire il principale luogo di culto islamico – e la figura di Abramo, della concubina Hagar e di suo figlio Ismaele. Secondo le fonti islamiche medievali, che ancora una volta sviluppano in un racconto compiuto accenni contenuti nelle sure piú tarde del Corano, la “dimora inviolabile” della Ka‘ba sarebbe stata infatti eretta originariamente da Dio perché Adamo potesse girarvi intorno in venerazione; distrutta dal Diluvio Universale, essa sarebbe stata poi riedificata da Abramo. Nella sua opera di ricostruzione, il patriarca avrebbe ricevuto l’assistenza del figlio Ismaele, considerato il capostipite del popolo arabo, e dell’angelo Gabriele. maggio
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L’“abramismo coranico”, poi, è strettamente collegato alle vicende che vedono Maometto alle prese con l’opposizione delle tribú giudaiche di Medina: non è un caso che l’Abramo del Corano venga rappresentato come né Ebreo, né cristiano, ma seguace di una religione monoteistica indefinita che spetterà alla missione profetica di Maometto rinnovare e perfezionare». N el capitolo dedicato alla fitna, ovvero alla «guerra civile», Lei sottolinea come una profonda divisione all’interno dello stesso Islam si fosse verificata già tra gli immediati discendenti di Maometto a proposito della successione alla guida della umma, la «comunità dei fedeli». Quale ruolo svolse questo conflitto nella definizione della prima istituzione califfale? «In effetti, il conflitto (fitna: letteralmente, “prova”, “tribolazione”, ma anche “scandalo”, “corruzione”, “dissenso”, “litigio” e “guerra civile”) fra ‘Ali, cugino e genero del Profeta, e Mu‘awiya, il potente leader del clan degli Omayyadi, intorno al ruolo di guida della comunità (umma) cambiò per sempre il volto del mondo islamico, non solo perché sfociò nella costituzione della prima grande dinastia musulmana della storia (gli Omayyadi), ma anche e
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Qui sopra replica cinquecentesca di una miniatura raffigurante Maometto, sua figlia Fatima, il genero Ali e due nipoti, da un’edizione dell’al-Athar al-baqiya (un trattato di cronologia dei popoli antichi) compilato dal grande scienziato persiano al-Biruni (973-1048). A destra miniatura raffigurante una carovana, da un’edizione delle Maqamat di al-Hariri. 1237. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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soprattutto perché da esso si ingenerò un processo che condusse a un vero e proprio scisma nella umma, che perdura fino a oggi, con la divisione fra sciiti e sunniti. In questo scontro, gli eventi assunsero ben presto un carattere prototipico, finendo per “fondare” situazioni, attitudini, inimicizie, alleanze, istituzioni che giungono fino ai giorni nostri e che non solo sono come sono, ma “devono” essere come sono, perché cosí sono diventate in quel lontano tempo in cui tutto si è deciso». A quando è possibile far risalire il concetto di jihad, inteso come guerra di conquista, diretta contro gli «infedeli»? «Nel Corano, sparsi in varie sure, sono presenti numerosi versetti che parlano della “guerra sulla via di Dio” o incitano a essa. Il termine arabo piú utilizzato nel testo coranico per rendere tale concetto è qital (fi sabil Allah), mentre la parola jihad – oggi universalmente tradotta come “guerra santa” – vi appare solo in pochi casi, con il senso di “sforzo” in nome di Dio e della sua causa. Per ragioni ancora non del tutto perspicue, fu però quest’ultimo termine a essere piú tardi associato a una dottrina e a un insieme di pratiche riguardanti la guerra. In ogni caso, i giurisperiti dei primi secoli dell’Islam non inclusero il jihad tra i cinque pilastri dell’Islam – la professione di fede, le preghiere giornaliere, la decima, il pellegrinaggio a Mecca e il digiuno del
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mese di ramadan – anche se proprio i trattati di diritto musulmano si diffondono largamente su tutti i particolari della “guerra santa”: in che modo e contro chi si debba intraprendere, se si possano o meno accettare le proposte di pace degli avversari, ecc. E, come sempre accade, nella letteratura giuridica il testo coranico si presta alle interpretazioni piú varie». U n’ultima domanda ci riporta ai giorni nostri e riguarda un aspetto visivo, di «comunicazione». L’ISIS annovera, tra i suoi segni distintivi il vessillo nero su cui campeggia una scritta bianca. La scelta del colore nero, come spiega nel libro, non è una scelta casuale… «Le fonti che descrivono i trionfi degli eserciti rivoluzionari ‘abbasidi si soffermano costantemente su un particolare: gli stendardi neri che essi innalzano verso il cielo. Il nero inizialmente alludeva alla rivolta contro gli Omayyadi, i cui sostenitori indossavano vesti bianche e portavano bianchi vessilli. I seguaci degli ‘Abbasidi erano chiamati musawwida, i “vestiti di nero”, definizione che veniva utilizzata sia dai favorevoli sia dai contrari al movimento. La tradizione filo-‘abbaside ricollega le bandiere nere che giungono dall’Oriente a una profezia di Maometto, che avrebbe preconizzato l’avvento di una nuova dinastia contraddistinta da tali stendardi: ciò, al fine di dissipare la fitta cortina di critiche provenienti dagli ambiti religiosi nei maggio
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Il Califfo di Dio. Storia del califfato dalle origini all’ISIS (VII-XXI secolo) Il 5 luglio 2014 tutto il mondo ha potuto assistere all’apparizione in video del califfo dello «Stato islamico tra Iraq e Siria» (ISIS), Abu Bakr al-Baghdadi, l’astro nascente del jihad globale, il nuovo leader dei combattenti sunniti radicali. Nel video, al-Baghdadi incita i fedeli di tutto il mondo islamico a dichiarare il jihad sulla via di Dio, al fine di restituire dignità, diritti e autorità all’Islam, e loda la vittoria che dopo secoli ha permesso di restaurare il califfato. Per comprendere pienamente il senso storicopolitico di questa inquietante operazione è necessario riflettere sul significato dell’istituzione califfale nella storia islamica. Questo libro, che colma un’evidente lacuna della saggistica italiana (ma sul tema del califfato mancano da decenni sintesi aggiornate anche in altre lingue), ricostruisce in maniera sintetica ma rigorosa la vicenda storica dei califfati medievali (omayyade, ‘abbaside, andaluso, fatimida, almohade), fino alle loro estreme propaggini in terra egiziana, all’abolizione del califfato ottomano voluta da Kemal Atatürk e ai recentissimi tentativi di riproposizione di questo modello di governo, con un occhio attento non solo alla prassi ma anche alle teorie elaborate su tale istituzione dal pensiero politico musulmano. Nella pagina accanto Srinagar, India. Una donna prega durante le celebrazioni organizzate per ricordare la morte di Abu Bakr, primo califfo dell’Islam. A destra Raqqa, Siria. Un combattente dell’ISIS sfila in parata con la bandiera nera.
confronti di ogni tipo di ribellione o dissenso interno. Nello stesso spirito, il nero delle vesti e dei vessilli è presentato come denso di un forte potere simbolico. Le spiegazioni delle origini della scelta di questo colore sono varie e si adattano ai vari ambienti che le produssero o ai quali erano rivolte. Una delle motivazioni piú diffuse dell’uso di vesti nere in ambito ‘abbaside è quella dell’imitazione della sunna (della “consuetudine”) del Profeta, che le
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avrebbe indossate in occasione della conquista di Mecca. Anche le bandiere di Maometto e di ‘Ali sarebbero state nere. Il primo l’avrebbe adottata dopo la sconfitta di Uhud, in segno di lutto e di vendetta. Come è evidente, è a questa stessa tradizione che si rifanno le vesti nere del califfo al-Baghdadi e gli stendardi neri dell’ISIS, che recano su di essi la professione di fede: “Non c’è dio al di fuori di Dio, Maometto è l’inviato di Dio”».
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Croce, libro e aratro di Maria Paola Zanoboni
Benestante d’origine, san Benedetto da Norcia divenne il campione del rigore e dell’umiltà, elaborando una Regola che si affermò nel tempo come uno dei cardini del monachesimo occidentale. Una vicenda esemplare, della quale si può ancora oggi cogliere la viva e significativa eredità
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Subiaco, Monastero di S. BenedettoSacro Speco, Chiesa Inferiore. Particolare di una delle scene degli affreschi che decorano la terza campata, raffigurante l’episodio della Vestizione di San Benedetto a opera dell’abate Romano. XIII sec.
e radici del monachesimo occidentale, che tanta parte ebbe nell’unificazione culturale (ma anche civile e amministrativa) dell’Europa, affondano nelle esperienze religiose ascetiche caratteristiche della spiritualità orientale, e già da secoli ampiamente diffuse nelle civiltà dell’Asia in tutte le regioni in cui ebbe successo il buddhismo. Se le esperienze religiose d’Oriente si fermavano però al concetto di ascesi come aspro e vigoroso esercizio della virtú che portava al progressivo distacco della mente dal corpo, nel monachesimo occidentale, gli stessi valori furono assunti a espiazione salvifica, non solo per chi li mettesse in pratica, ma anche per il prossimo. Non si mirava piú, dunque, solo a un’ascesi personale ottenuta mediante prove superbe, ma anche alla carità verso gli uomini, e quindi all’azione diretta e concreta nel mondo, mettendo in tal modo le basi per un forte recupero della socialità. A questi valori, già diffusi in Cappadocia dall’insegnamento di san Basilio verso la metà del IV secolo, s’ispirò la Regola benedettina, mirabile esempio di sintesi tra la spiritualità orientale e quella occidentale.
Un giovane di buona famiglia
L’unica fonte sulla biografia di san Benedetto è il II libro dei Dialoghi di Gregorio Magno (di una generazione a lui successivo), che ne delinea la fisionomia storica e spirituale. Nato a Norcia intorno al 480 da un’agiata famiglia
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In alto Subiaco, Monastero di S. Benedetto, Chiesa Inferiore. Particolare di un affresco della prima campata, raffigurante l’episodio de Il pane avvelenato sottratto dal corvo. XIII sec. A sinistra Subiaco, Monastero di S. Benedetto, Chiesa Superiore. Un’altra delle scene degli affreschi che decorano la seconda campata, raffigurante l’episodio de Il miracolo del veleno. XIII sec.
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romana, Benedetto trascorse la fanciullezza nel borgo, per poi essere inviato a Roma, dove intraprese gli studi letterari. Dalla Città Eterna fuggí dopo breve tempo, sottraendosi al rischio di farsi coinvolgere dalla gioventú corrotta che vi dimorava, per rifugiarsi nel silenzio e nella preghiera dei boschi dell’alta valle dell’Aniene, ai confini tra il Lazio e l’Abruzzo. All’età di 17 anni decise di dedicarsi alla vita eremitica, trovando rifugio in una grotta nei pressi di Subiaco (ancora esistente e inglobata attualmente all’interno del monastero del Sacro Speco), dove Benedetto visse fino alla Pasqua dell’anno 500. Conclusa tale esperienza, accettò di fare da guida ad altri monaci in un ritiro cenobitico presso Vicovaro.
Il calice pieno di serpenti
L’invidia e la gelosia che il successo della sua opera gli avevano procurato, uniti al rigore estremo della disciplina da lui imposta, sfociarono però in un primo tentativo di avvelenamento (mediante un calice di vino, durante la messa) perpetrato contro di lui dai monaci di Vicovaro. Da questo episodio scaturirono due dei simboli del santo: il bastone con cui castigò un frate, e il calice pieno di serpenti, a ricordo appunto dello scampato pericolo. Un terzo suo emblema è costituito dal fascio di verghe, che indicava i 73 capitoli di cui è composta la Regola. In
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seguito a tale vicenda, Benedetto tornò a Subiaco, dove rimase per quasi trent’anni, predicando e accogliendo discepoli sempre piú numerosi, fino a creare una comunità di dodici monasteri, ognuna delle quali composta da dodici monaci col proprio abate, tutti sotto la guida spirituale del santo di Norcia. Tra il 525 e il 529, dopo un secondo tentativo di avvelenamento (questa volta con una pagnotta), Benedetto fu costretto ad abbandonare Subiaco, dirigendosi verso Cassino, dove fondò sopra un’altura la celebre abbazia. In questo cenobio, che fu la sua ultima dimora, egli compose nel 540 la Regola, in cui, prendendo spunto dalla tradizione monastica ed eremitica precedente, combinò il principio di un’onesta condotta morale – basata su
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povertà, umiltà, obbedienza – con il rispetto per i singoli individui e le loro capacità: si trattava della piú completa e autorevole sistemazione della complessa, ma spesso vaga e imprecisa precettistica monastica precedente, e, come tale, ebbe un successo straordinario e un’altrettanto straordinaria diffusione nei secoli successivi. Secondo la tradizione, Benedetto morí il 21 marzo 547, quaranta giorni dopo la scomparsa di sua sorella Scolastica, fondatrice del ramo femminile dell’Ordine.
Una sintesi di pratiche piú antiche
Costituita, come già detto, da 73 capitoli che disciplinavano la vita monastica in ogni suo aspetto – dalla struttura gerarchica dei monasteri, alla figura dell’amaggio
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Nella pagina accanto cartina dell’Europa occidentale con indicazione delle principali fondazioni benedettine. A destra Subiaco, Monastero di S. Benedetto, Chiesa Superiore. Particolare dell’affresco raffigurante La guarigione del monaco indemoniato. XIV-XV sec.
bate, alla vita materiale dei monaci (occupazioni durante la giornata, lavoro, preghiera, accoglienza e predisposizione verso il prossimo, quantità e qualità del cibo e degli indumenti dei frati) – la Regola benedettina, sulle cui origini sappiamo pochissimo, costituí per molti secoli il modello piú seguito e la sintesi piú matura delle pratiche monastiche precedenti. Il suo successo portò alle grandi abbazie dell’Ordine cospicue donazioni dei governanti laici che di esse talvolta si servivano, facendo sí che molti cenobi, proprietari di vaste estensioni territoriali, venissero a ricoprire una posizione economica, politica e sociale importantissima in tutta l’Europa medievale.
Vincere l’accidia
Secondo la Regola, due erano i cardini della vita comunitaria: l’obbligo di risiedere per tutta la vita nello stesso monastero (in contrapposizione al vagabondaggio, allora piuttosto diffuso, di monaci di dubbia fama), e la buona condotta morale, consistente nella carità reciproca, nell’obbedienza all’abate, nel lavoro e nella preghiera. L’accidia (noia spirituale) derivante dalla solitudine dell’eremitismo andava vinta mediante il cenobitismo, ovvero la vita comunitaria fatta di lavoro manuale, preghiera e studio, ben diversa dall’esistenza solitaria costellata di privazioni e mortificazioni che caratterizzava invece gli asceti. «L’ozio è nemico dell’anima – recitava la Regola – e per questo i confratelli devono, in determinate ore, dedicarsi al lavoro manuale, in altre invece, dedicarsi alla lettura dei libri contenenti la parola di Dio». L’attività principale di molti monasteri divenne perciò la copiatura dei testi antichi, soprattutto biblici, che costituiva il connubio perfetto tra lavoro manuale e meditazione. Seguendo gli insegnamenti dei maestri orientali, Benedetto fece dell’obbedienza la base della vita monastica. Non una semplice conformità esterna, ma il consenso piú profondo e immediato alla volontà dell’abate, al punto che, se avesse ricevuto l’ordine di intraprendere qualcosa di troppo pesante o impossibile, un monaco
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avrebbe dovuto spiegarne i motivi, ed eseguire il compito ugualmente nel caso in cui il superiore non fosse tornato sulle sue decisioni. Tale intransigenza rendeva perno della comunità monastica l’abate, il quale, pur senza poter ordinare nulla che fosse in contrasto con la Legge Divina, godeva per il resto della discrezionalità piú assoluta: poteva nominare e destituire i suoi subordinati, distribuire punizioni e gestire le relazioni del monastero con il mondo esterno nel modo che riteneva piú opportuno. Sebbene esortato dalla Regola a richiedere i pareri dei confratelli prima di prendere decisioni politiche, non era obbligato a tenere conto del loro parere. L’abate esercitava anche un ruolo pastorale: maestro, confessore, guida spirituale dei monaci. Doveva attenersi a una condotta ineccepibile, divenendo punto di riferimento coi fatti piuttosto che con le parole. La sua nomina spettava ai confratelli e veniva poi confermata dalla consacrazione da parte del vescovo. Sebbene la Regola benedettina consentisse l’ingresso in monastero a uomini di qualsiasi ceto sociale, in pratica i requisiti richiesti restringevano il reclutamento agli individui piú colti e provenienti da famiglie agiate. Benedetto riteneva basilare che i monasteri possedessero edifici e terreni con le cui rendite sostentare i religiosi ed esercitare opere di carità; presupponeva che il lavoro della terra venisse eseguito da affittuari, am-
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protagonisti san benedetto Miniatura di Jean Stavelot (1388-1449) raffigurante san Benedetto che predica ai suoi discepoli presso Montecassino, da una raccolta degli scritti di san Benedetto. 1432-1437. Chantilly, Musée Condé.
da cui scaturí il problema della compatibilità della ricchezza con la Regola. Nel XII secolo l’interrogativo fu posto da Bernardo di Chiaravalle († 1153), e una risposta venne formulata nella stessa epoca, da Pietro il Venerabile, abate di Cluny dal 1122 (1092-1156), che diede un’interpretazione della Regola in base alla quale: «Nel parlare di qualsiasi proprietà la Regola non fa eccezioni. I monaci possiedono i beni in un modo completamente diverso (...) vivono come se non avessero niente, eppure possiedono tutto». Tuttavia, la questione non poteva essere messa a tacere cosí facilmente in una società in cui coloro che avevano fatto voto di povertà godevano di beni cospicui, mentre la maggior parte della società del mondo esterno viveva a livello di sussistenza (vedi box alle pp. 56-59).
Oasi di pace e di ordine
mettendo comunque che i monaci potessero aiutarli nel periodo del raccolto senza lamentarsi «perché sono veri monaci quando vivono col lavoro delle loro mani, come i nostri padri e gli Apostoli». Ma sicuramente non prevedeva la ricchezza dei monasteri: i religiosi – che non potevano possedere assolutamente nulla di proprio – venivano da lui concepiti come «i poveri di Cristo» e, in quanto tali, dovevano essere sostentati da devoti benefattori.
Condividere i beni
Tuttavia, Benedetto non parla mai di «paupertas» (letteralmente, povertà) dei conventi, bensí di espropriazione del singolo: miseria e mendicità sono un male, cosí come lo è una mancanza di mezzi tale da impedire un’attività socialmente valida ed efficiente. Non bisogna farsi scrupolo, perciò, di chiedere ciò di cui si ha bisogno, ma senza porre se stessi al centro di ogni cosa. Come corollario di tutto questo, coloro che possedevano dei beni dovevano acconsentire, entrando nel monastero, che divenissero proprietà comune. Nel corso dei secoli, però, le donazioni trasformarono molte abbazie in istituzioni ricche e potenti, fatto
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La Regola di san Benedetto forniva il modello per una comunità ascetica ben organizzata e fortemente unita, che seguiva una routine giornaliera attentamente programmata di preghiera, lavoro e studio. Benché i debiti dell’autore verso gli insegnamenti ascetici orientali siano evidenti, a dare a questo programma il suo carattere peculiare fu la preoccupazione in esso contenuta per i valori tipicamente romani di stabilità, ordine e moderazione: sagge e rassicuranti indicazioni per gruppi religiosi che reclutavano i propri membri nell’intellighenzia della tarda antichità. Tra le rovine della civiltà classica, in un mondo divenuto barbaro, violento e imprevedibile, il monastero benedettino offriva un’oasi di pace e di ordine. Era però vulnerabile, e la sopravvivenza del suo istituto non era affatto assicurata. Circa vent’anni dopo la morte del fondatore, arrivarono in Italia i Longobardi e portarono devastazione ovunque. La presenza militare lasciata da Bisanzio era troppo debole per offrire una resistenza efficace. Nel 577 Montecassino fu saccheggiato e le costruzioni monastiche bruciate e distrutte. Le altre fondazioni di Benedetto, a Subiaco e Terracina, subirono lo stesso destino. I monaci di Cassino furono dispersi; alcuni di essi andarono a Roma, dove il papa offrí loro un rifugio a S. Pancrazio, uno dei monasteri-satellite della basilica laterana. Montecassino rimase deserto e pieno di rovine per i successivi centoquarant’anni. maggio
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Anche altrove in Italia sembra che l’arrivo dei Longobardi sia stato la causa dell’arresto dello sviluppo del monachesimo per circa un secolo. Una ripresa si ebbe piú tardi, nel VII secolo, con l’avvento, nella casa regnante longobarda, di una dinastia cattolica e la conversione dei duchi di Benevento. Cosí, i governanti dell’VIII secolo divennero ferventi patroni dei monaci e la vita monastica germogliò nuovamente. In questo periodo, un parente di re Astolfo (749-756) fondò la grande abbazia di Nonantola in Emilia, e monaci provenienti da Bobbio piantarono olivi sulla costa della Liguria.
La sua opera rivestí un’importanza fondamentale anche per l’organizzazione amministrativa del territorio tedesco: in accordo col papa, infatti, Bonifacio ordinò vescovi e suddivise la regione evangelizzata in diocesi che, in mancanza di città vere e proprie, facevano capo ad altrettanti luoghi fortificati che, col tempo, si trasformarono in sedi episcopali stabili, analogamente a quanto già avveniva nell’Europa mediterranea. La penetrazione religiosa permise cosí, attraverso un processo spontaneo, di promuovere anche in Germania l’efficiente sistema di dominazione cattolico-franco di ascendenza greco-romana. Tale attività di organizzaUn periodo oscuro zione religiosa e territoriale venne utilizzata anche dai Ma il destino della Regola di san Benedetto dopo il sac- figli di Carlo Martello per ricostruire nello stesso modo, cheggio di Cassino è un mistero. Dai riferimenti di papa con l’aiuto di Bonifacio, l’assetto ecclesiastico del reGregorio essa doveva essere conosciuta a Roma alla fine gno dei Franchi, dove era in crisi l’impianto gerarchico del VI secolo, eppure non c’è alcuna prova di monasteri e disciplinare che avrebbe dovuto inquadrare le popoche nella città seguissero la Regola, né, e questo è molto lazioni intorno ai vertici della società. Il monachesimo significativo, ci sono tracce di qualche culto a san Bene- benedettino diveniva cosí strumento di fondamentale detto, sia nella iconografia che nella dedicazione delle importanza anche nell’organizzazione territoriale della chiese, a Roma fino al X secolo. In effetti, il futuro della nascente Europa, un’Europa la cui unità sarebbe stata Regola non fu in Italia, ma a nord delle Alpi, nei regni suggellata, anche se per breve tempo, dall’impero crigermanici e, soprattutto, in Gallia. stiano di Carlo Magno. Vissuto in un periodo in Basilare per l’Ordine cui «la Chiesa cresceva sorretta benedettino e per la stoda nuovi fermenti spirituali, Al successo della Regola contribuí ria della Chiesa e dell’Ocmentre la civiltà romana, orcidente fu la fondazione l’avvio dell’evangelizzazione mai decrepita, decadeva», san del monastero di Cluny, dell’Inghilterra Benedetto fu colui che «con in Borgogna (910), libero la Croce, con il libro e con l’arada ogni ingerenza civile tro» (secondo le parole di Paolo VI) evangelizzò il con- ed ecclesiastica e direttamente dipendente dalla Setinente europeo dal Mediterraneo alla Scandinavia, e de Apostolica. Il suo influsso sulla società medievale dall’Irlanda alle pianure della Polonia. La sua missione fu immenso, grazie al movimento riformatore che da unificatrice, religiosa e culturale, si esplicò con la cristia- esso ebbe origine, con lo scopo di migliorare il livello nizzazione di regioni anche molto remote, talora non spirituale sia nel clero che nel laicato. assoggettate neppure dall’impero romano, come l’IrlanMonaco benedettino sostenitore della riforma cluda, dove la mancanza di città che potessero fungere da niacense fu quell’Ildebrando di Soana, divenuto Papa sedi episcopali fece sí che proprio i monasteri divenisse- Gregorio VII, «di soavissimo costume, di prudenza ed ammiro il bacino di reclutamento dei vescovi. rabile dottrina» (come lo definí il suo maestro GiovanIl santo trascorse tutta la sua vita (480-547) nell’Ita- ni Graziano, ovvero papa Gregorio VI), che risollevò lia centrale, tra Subiaco, Montecassino e gli altri nume- la Chiesa dall’immoralità dilagante in cui era caduta, rosi monasteri da lui fondati in Umbria e nel Lazio – in- affrancandola al tempo stesso dall’ingerenza laica e sanguinate in quell’epoca dalla tremenda guerra greco- dell’impero, assicurando tanto l’indipendenza quanto gotica (535-553) –, ma la sua Regola ebbe un successo la disciplina del clero, e, con il Dictatus Papae (1075) ristraordinario a partire dalla fine del VI secolo, quando stabilendo in tutta la sua pienezza l’autorità pontificale san Gregorio Magno inviò i primi monaci in Inghilterra. che assunse con tale atto la suprema capacità giurisdiI religiosi celti e anglosassoni, riversatisi sul continen- zionale sull’intera cristianità. te, proseguirono a loro volta l’evangelizzazione (che si connotò sempre come fenomeno del tutto spontaneo), La Chiesa è infallibile dapprima nel regno franco, poi in Germania, dove du- Era stato proprio san Benedetto a elaborare per primo rante la prima metà dell’VIII secolo, san Bonifacio (na- quelli che sarebbero stati i caposaldi del pensiero di Gretivo dell’Inghilterra meridionale, † 755), fondatore del gorio VII: l’infallibilità della Chiesa di Roma («Romana cenobio di Fulda, diffuse col cristianesimo la Regola be- Ecclesia nunquam erravit, nec in perpetuo, scriptura testante, errabit», «La Chiesa di Roma non ha mai errato; né, senedettina in Baviera, in Assia e in Turingia.
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condo la testimonianza delle Scritture, mai errerà per l’eternità»), nonché il celebre assioma secondo cui «Catholicus non habeatur qui non concordat Romanae Ecclesiae» («Colui il quale non è in comunione con la Chiesa Romana non sia da considerare cattolico»). Cluny, e i monasteri benedettini in genere – nei quali si concentrava, irradiandosi in tutto il mondo cristiano, una straordinaria attività speculativa, teologica, intellettuale e filosofica – rivestirono poi un ruolo primario nell’unificazione culturale dell’Europa e nella conservazione e trasmissione dei testi tanto religiosi, quanto dell’antichità classica, che le biblioteche dei conventi non solo riproducevano in splendidi manoscritti miniati, ma prestavano anche agli studiosi e ai confratelli sparsi per tutte le fondazioni dell’Occidente. Nella seconda metà del Quattrocento, quando fu inventata l’arte della stampa, proprio in un monastero benedettino, quello di Subiaco (che raccoglieva una comunità proveniente da tutta Europa, e dalla Germania in particolare), venne realizzata, nel 1464, da due chierici di Magonza, la prima tipografia italiana, dalla quale uscí, il 29 ottobre 1465, il primo libro stampato in Italia, in uno stile tipografico detto appunto «stile Subiaco». Non va trascurata infine la parte che le fondazio-
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Cluniacensi e Cistercensi Il rinnovamento spirituale promosso dalla riforma gregoriana stimolò il desiderio di tornare ai primordi del cristianesimo, per infondere nuova vita e migliorare il mondo secondo gli ideali della Chiesa primitiva, purificando il clero dalle lusinghe terrene, seguendo l’esempio degli Apostoli. Molti movimenti laicali trovavano nel Vangelo la fonte di un’ispirazione nuova per il loro piano di ricostruzione sociale e religiosa, mentre nelle comunità monastiche si fece sempre piú forte il richiamo delle piú antiche tradizioni di vita eremitica dei Padri del Deserto. Si era avviata cioè una crisi del cenobitismo, con lo sviluppo di nuove correnti eremitiche e movimenti monastici rigoristi. Il nodo della riforma monastica dell’XI secolo era costituito appunto dalla contrapposizione tra gli esempi lasciati dagli asceti e la Regola benedettina, diffusa ormai in tutto l’Occidente: autorità influenti come Pier Damiani non esitarono a dichiararsi favorevoli alla vita eremitica di cui esaltavano la superiorità. Un certo numero di comunità religiose venne organizzato secondo i nuovi ideali: le piú significative furono Camaldoli e Vallombrosa, in Italia, e quella francese dei Certosini (Grenoble). Anche in Francia, infatti, una lunga serie di riforme era animata da
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Nel 1109 l’Ordine cluniacense Nel 1109 l’Ordine cluniacense comprende 1184 conventi
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ispirazioni analoghe: unanime la critica alle condizioni del monachesimo contemporaneo e il tentativo di riorganizzarlo facendo ritorno all’ascetismo severo delle forme di vita prebenedettina. Punti comuni: la separazione totale dal mondo, la povertà assoluta, la rigorosa penitenza. In quest’epoca e in questa cornice storica si colloca la fondazione dei monasteri di Cluny (910) e di Cîteaux (1098), destinati a ricoprire un ruolo decisivo negli sviluppi religiosi, politici ed economici dei secoli successivi. La scelta di vivere secondo la Regola, senza cedere a compromessi, insieme a un ardente desiderio di solitudine, divenne la pietra angolare della fondazione di Cîteaux, avvenuta nel 1098 in Borgogna a opera del benedettino Roberto, già abate di Molesme. L’importanza della riforma cistercense consiste in tale abile combinazione degli ideali ascetici dell’eremitismo popolare maggio
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Nella pagina accanto Subiaco, Monastero di S. Benedetto, Chiesa Superiore. Ancora un particolare degli affreschi della parete di fondo della seconda campata, raffigurante San Benedetto in cattedra. XIV-XV sec. A destra cartina che illustra la diffusione dell’Ordine cluniacense nel XII sec.
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«Quinque filiae»,i icinque cinquemonasteri monasteri «Quinque filiae», direttamente dipendentidadaCluny Cluny direttamente dipendenti tre monasteri monasteri che II tre chehanno hannoadottato adottato la regola regola di la di Cluny Clunymodificandola modificandola Altri monasteri monasteri importanti Altri importanti Zone di di grande Zone grandedensità densitàmonastica monastica cluniacense e cistercense cluniacense e cistercense
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con la forma tradizionale della vita monastica benedettina. Cîteaux dava ampia possibilità di seguire le virtú eroiche dei Padri del Deserto a chi lo desiderava, salvando al tempo stesso il carattere cenobitico della vita monastica e l’autorità ormai assoluta di san Benedetto e della sua Regola. Le virtú sottolineate con maggiore forza erano la povertà, la semplicità e il distacco da ogni forma di coinvolgimento con il mondo. La separazione completa dalle cose terrene ebbe a sua volta come conseguenza il duro lavoro manuale dei monaci, che altrove veniva svolto dai servi: proprio questo divenne un altro aspetto basilare delle fondazioni cistercensi, in contrapposizione con quelle cluniacensi che invece privilegiavano la preghiera, relegando ai conversi il lavoro manuale. L’«insolita e quasi inaudita austerità del tenore di vita» cistercense scoraggiò inizialmente molti dall’entrare
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protagonisti san benedetto Hovedøya Kinloss
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Tutto questo derivava dalla piú stretta aderenza alla Regola benedettina che, secondo san Bernardo e i padri fondatori di Cîteaux andava osservata alla lettera, salvo alcune eccezioni, che l’abate aveva la facoltà di deliberare, con lo scopo esclusivo di realizzare nel modo migliore la legge della carità. Veniva perciò rifiutato il precetto della «stabilitas» (legame permanente e definitivo fra monaco e monastero), contenuto nella Regola benedettina, sostenendo invece la legittimità del passaggio da un convento cluniacense a uno cistercense, dove la regola professata era piú rigorosa e piú aderente a quella di san Benedetto rispetto ai monasteri cluniacensi. Collegato a questi temi è il pensiero di Bernardo sui problemi piú gravi del suo tempo: la natura della Chiesa e del papato, messi a confronto con le questioni sollevate dalla riforma gregoriana e dalla lotta per le investiture. Alle sue teorie si contrappose Pietro il Venerabile, abate di Cluny, il quale sosteneva invece la legittimità e l’opportunità di interpretare la Regola benedettina in nome della carità, maggio
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Chiaravalle Milanese Valsainte Danubio Sénanque Morimondo Castagnola Monte Acuto Aiguebelle Silvacane Le Garde-Dieu S. Galgano Valsainte Moreruela La Oliva Fontfroide Sénanque S. Martino Castagnola Monte Acuto Le Thoronet Valbuena Roma Silvacane Casamari Tarouca Valbonne S. Galgano Fossanova La Oliva Fontfroide Tago Le Thoronet Santes Creus S. Martino Valbuena Monsalud Roma Casamari Valbonne Alcobaça Fossanova S. Maria delle Paludi Santes Creus Monsalud S. Stefano S. Maria delle Paludi S. Stefano S. Spirito Mediterraneo
nell’Ordine. L’enorme successo di Cîteaux è merito soprattutto di san Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), la cui personalità attrasse all’Ordine migliaia di vocazioni, mentre la profondità della sua spiritualità produceva il moltiplicarsi delle fondazioni, e la sua penna magistrale diffondeva il messaggio di Cîteaux, anche alle generazioni future della cristianità occidentale. Bernardo considerava la vita monastica dei Benedettini di Cluny – allora all’apogeo del loro sviluppo – come una negazione dei valori di povertà, austerità e santità. La disputa sull’osservanza della vita monastica scoppiò con forza dopo il 1124, quando l’abate di Chiaravalle lanciò un duro attacco contro Cluny, che poi sfociò nella celebre Apologia, in cui metteva in netta contrapposizione i «monaci neri» cluniacensi – ricchi, tronfi, immersi in un’esistenza agiata –, con i «monaci bianchi» cistercensi, che vivevano del proprio lavoro, parchi nel cibo, nelle bevande e nell’abbigliamento, modesti persino nelle celebrazioni liturgiche.
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Sulejow Pforta Nivelles Wa˛chock Eberbach Molesmes Leubus EbrachJedrzejów Saar Pforta Orval Nivelles SavignyEberbach Maulbronn Les Vaux Zwettl Molesmes EbrachClairvaux Saar Carnoët Orval La Trappe Morimond Heiligenkreuz Maulbronn Les Vaux Melleray Belapatfalva Zircz Zwettl Pontigny
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e 694 abbazie alla fine del XIII sec. e cistercense comprende azie alla fine del XII sec. bbazie alla fine del XIII sec.
Alcobaça
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Falkenau Gudvala Nydala Alvastra Vitskøl Dünamünde Gudvala Esrum Melrose del Herrevad Nord Nydala ar Vitskøl Boyle Mare M Sorø Melrose del Nord Herrevad Esrum Rievaulx ar Oliva Mellifont Boyle M Eldena Sorø E Vis lba Rievaulx Kolbatz tola Oliva Mellifont Eldena Lond Fermoy Loccum Tintern Elb Vis Kolbatz a Sulejow Waverley Altenkamp tola Buckfast Lond Fermoy Loccum Tintern Leubus
PPrincipali i i li monasterii di dipendenti d da: E CISTERCENSE Clairvaux (80 femminili) monasterii dipendenti di d Cîteaux da: (28 femminili) ux (80 femminili) Morimond (28 femminili) x (28 femminili) Pontigny (16 femminili) ond (28 femminili) La Ferté (5 femminili) ny (16 femminili) Zona di grande densità monastica é (5 femminili) cluniacense e cistercense i grande densità monastica L’Ordine cistercense comprende ense e cistercense 525 abbazie alla fine del XII sec.
A destra cartina che illustra la diffusione dell’Ordine cistercense. Nella pagina accanto Subiaco, Monastero di S. Benedetto, Chiesa Superiore. Ancora un particolare degli affreschi del transetto raffigurante il miracolo dello storpio. XIV-XV sec.
Hovedøya
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anziché applicarla alla lettera, per renderla piú flessibile alle esigenze dei contemporanei. Piú che l’osservanza materiale dei precetti e dei doveri monastici, era per lui importante lo spirito con cui la si compiva. A proposito della povertà scriveva: «Prendi la via della povertà non tanto nel corpo quanto nello spirito, non tanto nelle cose, quanto nell’umiltà, non tanto della carne, quanto della mente». E anche il monito di Pietro a fuggire la tentazione di adempiere incarichi e intraprendere uno stile di vita poco consono agli ideali monastici risultava agli occhi dei contemporanei una contraddizione: «Non è affare della nostra solitudine essere presenti nei tribunali (…) – scriveva – La nostra semplicità non ha nulla a che fare con le furbizie del mondo, né è opportuno che noi, che abbiamo scelto di abitare la solitudine, ora usciamo dalla solitudine per tornare nel mondo». Eppure l’abate di Cluny era costantemente in viaggio per visitare e riformare monasteri, partecipare a sinodi, incontrare papi e imperatori, ricevere donazioni e proprietà terriere. E proprio l’insistenza sull’osservanza sostanziale, anziché letterale, della Regola, oppose i Cluniacensi ai Cistercensi. Un’altra differenza tra i due Ordini concerneva le nuove fondazioni: i Cluniacensi prevedevano una struttura verticistica, che vedeva la casa madre di Cluny a capo di tutti i nuovi organismi (all’epoca di Pietro il Venerabile, il monastero contava circa 400 religiosi residenti e 2000 case dipendenti in tutta Europa). I Cistercensi, invece, istituirono l’ordinamento giuridico detto «filiazione», in base al quale ogni nuova abbazia godeva di una propria autonomia ed era indipendente dalla casa madre, con diritti e doveri verso di essa. Ogni filiazione sarebbe stata abitata da almeno 12 monaci, guidati da un abate e coadiuvati da un certo numero di conversi (cioè di laici vincolati da tutti gli obblighi fondamentali della vita religiosa eccetto l’ufficio divino). In questo modo furono poste le basi anche dell’economia agraria cistercense, il cui straordinario successo si deve all’organizzazione e alla pianificazione dello sfruttamento delle proprietà dell’Ordine, ruotante intorno al caposaldo delle «grange», stanziamenti monastici agrari paragonabili alle moderne fattorie, che univano i vantaggi della direzione centrale del monastero di appartenenza con quelli derivanti dall’autonomia locale. A tale scopo, ogni grangia non doveva distare dall’abbazia piú di una giornata di cammino. Anche l’architettura e la struttura delle abbazie cistercensi avevano come punto di riferimento la disposizione e la sistemazione dello spazio tipicamente benedettini: semplicità, e armonia prive di qualsiasi forma di decorazione che avesse lo scopo di attirare folle di pellegrini e devoti.
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ni dell’Ordine ebbero nella messa a coltura dei terreni abbandonati, e il loro inserimento nelle strutture dell’«economia curtense», come centri di fondamentale importanza non solo economica ma anche di aggregazione sociale e di organizzazione territoriale. Fu dunque per quest’opera di unificazione «con la Croce, con il libro e con l’aratro» che Paolo VI con la lettera apostolica Pacis Nuntius, il 24 ottobre 1964, giorno della riconsacrazione di Montecassino, ricostruito dopo i bombardamenti del 1944, proclamò san Benedetto patrono d’Europa.
Da leggere Hugh Lawrence Clifford, Il monachesimo medievale: forme di vita religiosa in occidente, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1993 Réginald Grégoire, Leo Moulin, Raymond Oursel, La civiltà dei monasteri, Jaca Book, Milano 1998 Gregorio Penco et alii, Gli ordini religiosi. Storia e spiritualità. Vol. I: Benedettini, Cistercensi, Francescani, Domenicani, Gesuiti, Nardini, Firenze 1997 La Regola di san Benedetto, testo integrale latino-italiano, introduzione e commento di Georg Holzherr, Piemme, Casale Monferrato 1999 Joseph Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti oggi e domani, Edizioni San Paolo, Milano 2004 Paolo VI, Pacis Nuntius, Lettera Apostolica del 24 ottobre 1964; disponibile on line: www.vatican.va Giovanni Paolo II, Sanctorum altrix, Lettera Apostolica dell’11 luglio 1980; disponibile on line: www.vatican.va Gian Paolo Stefanelli, San Benedetto da Norcia patrono d’Europa: cinquantenario della proclamazione: 19642014, Comune di Norcia, Norcia 2014 Pierantonio Piatti, Renata Salvarani (a cura di), San Benedetto da Norcia e l’Europa nel 50° anniversario della Pacis Nuntius (1964-2014): materiali per un percorso storiografico, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2015
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Qui nacque il
monachesimo
di Mimmo Frassineti
È un luogo speciale, scrigno di straordinarie testimonianze dell’arte medievale italiana: il monastero laziale del Sacro Speco, a Subiaco, dove la vita cenobitica ha trovato, grazie all’esperienza di san Benedetto, una delle sue prime e piú importanti espressioni
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uando l’Aniene entra a Roma, a Ponte Mammolo, per intraprendere il suo percorso urbano, le sue acque sono grigie, le rive poco invitanti. Eppure, qualche decina di chilometri a monte, lo stesso fiume è terso e impetuoso, tra pareti a precipizio e fitti boschi, in una natura esuberante e selvaggia. Nasce sui Monti Simbruini (sub imbribus, sotto le piogge), che, fin dai tempi piú antichi, attrassero monaci ed eremiti, il cui animo mistico si rispecchiava nell’asprezza e nella solitudine dei luoghi. Qui, allo scadere del V secolo, Benedetto, un ragazzo di ottima famiglia, si ritirò per tre anni in una grotta, noto soltanto a un monaco, che gli passava qualche tozzo di pane calandolo da una rupe, e ad alcuni pastori, che prima
Salvo diversa indicazione, tutte le immagini documentano le strutture e i cicli pittorici compresi nel Monastero di S. Benedetto-Sacro Speco di Subiaco (Roma). Sulle due pagine il Sacro Speco (noto anche come Grotta della Preghiera). È il luogo piú santo del complesso: si tratta dell’anfratto roccioso nel quale Benedetto visse come eremita per tre anni. A ricordo di quell’esperienza sono la statua che lo raffigura in preghiera (scolpita da Antonio Raggi, un allievo del Bernini) e la riproduzione di un cestino, a imitazione di quello con cui il monaco Romano faceva arrivare il cibo al futuro santo. In alto Il viaggio verso la chiesa di Affile, particolare del ciclo con i Miracoli di San Benedetto affrescato nella Chiesa Inferiore dal Magister Conxolus. Seconda metà del XIII sec.
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Fiano Romano
SR2
E80
E35 E45
Riserva Naturale della Marcigliana
E45 SS7
Ariccia SR148
Velletri
Parco Regionale Monti Simbruini
SR411
Palestrina
Frascati
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Tagliacozzo Vicovaro
Subiaco
ROMA E90
Palombara Sabina
SR155 E45
Anagni
In alto veduta panoramica del complesso sublacense. Il convento si articola in due chiese, due grotte e numerose cappelle, collegate da scalinate, su quattro livelli.
lo scambiarono per un animale, poi furono conquistati dalla sua parola. Un’esperienza, sembrerebbe, volta a rimanere confinata nell’isolamento, tra pochi esseri umani dai costumi primitivi: invece, le sue conseguenze furono enormi (vedi anche, in questo numero, l’articolo alle pp. 48-59). La purezza delle acque del fiume aveva indotto i Romani ad attingervi per i loro acquedotti, come quello dell’Acqua Marcia (146 a.C.), che partiva dalla confluenza dell’Aniene con il Simbrivio, oggi area archeologica di Comunacque (ad communes aquas), raggiungibile sia da Jenne, maggio
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sia da Trevi, percorrendo la Provinciale 193. Un sentiero porta a un ponte romano, fino a una radura dove i due corsi d’acqua si uniscono. Di questi luoghi si era innamorato Nerone al quale, probabilmente senza saperlo, san Benedetto (480560 circa) fu debitore per le mura del suo primo convento, nonché per la strada che vi conduceva.
La villa dell’imperatore In alto, a destra resti della villa voluta da Nerone nell’area poi occupata dal monastero. A destra una cascata formata dalle acque dell’Aniene presso Trevi nel Lazio, una trentina di chilometri a sud-est di Subiaco.
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L’imperatore avviò la costruzione di una grande villa sull’Aniene nel 54 d.C. Amava i laghi – ne volle uno anche al centro della Domus Aurea, a Roma, dove poi sarebbe sorto il Colosseo – e sbarrò il corso del fiume in tre punti, creando tre bacini artificiali. Per arrivarci costruí la via Sublacense, derivandola dalla Tiburtina Valeria, sul cui tracciato corre tuttora la strada. Dai resti della villa un sentiero scende fino a un minuscolo specchio d’acqua, che è quanto oggi rimane dei Simbruina Stagna. Ai muri neroniani, come già accennato, Benedetto si appoggiò per fondare il primo monastero. «Nato da nobile famiglia nella provincia di Norcia, fu mandato a Roma per
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attendere agli studi letterari»: comincia cosí la sua biografia, redatta da san Gregorio Magno nei Dialogorum Libri Quatuor, un’opera che si propone di raccontare vite edificanti e il cui secondo libro è dedicato appunto a Benedetto (il passo citato e i successivi sono tratti dalla traduzione dell’opera curata dai Monaci Benedettini di Subiaco e pubblicata dalla Tipografia Editrice Santa Scolastica). Eletto pontefice (590-604) tre decenni dopo la morte di Benedetto, Gregorio ebbe la possibilità, come tiene a spiegare nelle pagine iniziali, di interrogare alcuni discepoli
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del santo, che l’avevano conosciuto di persona. «Quivi egli si accorse – prosegue Gregorio – che molti rovinavano per la china del vizio e subito ritrasse il piede che appena aveva posto sulla soglia di quel mondo. Abbandonato lo studio delle lettere, lasciate le sostanze paterne e la sua casa, desideroso di piacere soltanto a Dio, si ritrasse dal mondo».
Un viaggio interiore
Quel mondo assisteva allora alla fine dell’impero romano d’Occidente (476) e il giovane Benedetto lo abbandonò, per iniziare un viaggio alla ricerca di se stesso. A seguirlo c’era
soltanto l’affezionata nutrice. I due raggiunsero Enfide (oggi Affile), un villaggio di montagna sopra la valle dell’Aniene. All’entrata del borgo, nel vecchio cimitero, c’è ancora la piccola chiesa di S. Pietro, in cui trovarono rifugio per vivere di carità. Un giorno la nutrice ruppe un vaglio di terracotta, un attrezzo per mondare il grano, che aveva avuto in prestito. Toccato dalla disperazione della donna, Benedetto si concentrò nella preghiera, e l’oggetto si ricompose. Un miracolo modesto in apparenza, ma capace di suscitare un grande (segue a p. 68) maggio
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In queste pagine particolari delle pitture della Chiesa Superiore, opera di maestri umbro-marchigiani degli inizi del XV sec. In alto, l’Ultimo colloquio di San Benedetto e Santa Scolastica; a destra, Sant’Agostino in cattedra.
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Un trionfo di colori
In alto il transetto della Chiesa Superiore. Il grande affresco raffigurante la Crocifissione, opera di maestranze senesi, campeggia sull’arco che divide la navata nelle due campate. XIV sec. Sulla parete sinistra è collocato il pulpito marmoreo.
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In basso la prima campata della Chiesa Inferiore, decorata con affreschi del XIII sec. attribuibili a un collaboratore del Magister Conxolus. Sulla sinistra, la scala che porta alla Chiesa Superiore e, al centro, la porta che dà accesso al Coro.
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In basso particolare degli affreschi dell’abside della Chiesa Inferiore in cui si può leggere l’iscrizione «Magister Conxolus pinxit hoc opus», ovvero la firma del pittore responsabile della decorazione.
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In questa pagina assonometria ricostruttiva del Monastero di S. Benedetto-Sacro Speco: 1. Chiesa Superiore 2. Affresco della Crocifissione (XIV sec.) 3. Chiesa Inferiore 4. Grotta dell’Eremitaggio.
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Miracoli e fulgidi esempi di santità
In alto alcuni degli affreschi nel Transetto della Chiesa Inferiore, attribuiti ad artisti di scuola umbro-marchigiana degli inizi del XV sec.
stupore, e il vaglio fu appeso sulla porta d’ingresso della chiesa. Per quanto isolato fosse quel villaggio, per Benedetto non lo era ancora abbastanza: «Abbandonò di nascosto la nutrice e si diresse verso un luogo deserto chiamato Subiaco ricco di fresche limpide acque che prima si raccolgono in un grande lago e poi scorrono in un fiume». A Subiaco (sub lacum, per la prossimità col lago neroniano) Benedetto individuò una grotta angusta e quasi inaccessibile, dove decise di ritirarsi per condurre vita eremitica. La sua esistenza era nota soltanto a un monaco, Romano, che
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Sulla sinistra, Il miracolo dello storpio, e, sulla destra, Il martirio di San Placido, di cui si può ammirare un particolare nella pagina accanto.
dimorava in un cenobio piú in alto, sulle pendici del Monte Taleo. Romano gli donò il saio da eremita e, ogni volta che poteva, con un cestino calato dalla rupe, gli faceva arrivare del pane sottratto al suo desco. Per avvertire Benedetto legava alla lunga fune un campanello.
Furia demoniaca
La generosità del frate e la virtú del giovane eremita risultarono insopportabili per il demonio: «Cosí un giorno, quando vide calare il pane con la corda, vi scagliò contro una pietra e ruppe il campanello. Nonostante ciò, Roma-
no non smise di prestare il suo servizio, come meglio poteva». Lo incontreremo ancora, il demonio, sempre piú infuriato, sempre piú frustrato per i suoi fallimenti. Benedetto educò i pastori, che «passarono da una condizione di vita bestiale alla grazia di una vita santa. In tal modo il suo nome fu conosciuto da tutti gli abitanti dei paesi vicini e successe che molti cominciarono a frequentarlo». Il maligno non tardò a ripresentarsi, inducendo nella mente del ragazzo una violenta tentazione carnale: «Vinto dal desiderio, stava già per abbandonare l’eremo. Scorse lí vicino maggio
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Ritratti di uomini illustri Sulle due pagine pitture della cappella di S. Gregorio. A sinistra il ritratto di san Francesco, forse dipinto quando il santo era ancora in vita e prima del 1224, poichÊ l’Assisiate ancora non ha le stimmate. In alto affresco raffigurante il Salvatore benedicente, ai lati del quale stanno i santi Pietro e Paolo. A destra particolare dell’affresco che ritrae il vescovo Ugolino (il futuro Gregorio IX) mentre consacra la cappella a san Gregorio Magno.
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fitti cespugli di ortiche e rovi, si spogliò delle vesti, si gettò nudo in quel groviglio di spine, vi si rotolò a lungo e ne uscí col corpo lacerato in ogni sua parte. Cosí soffocò quel desiderio che gli ardeva nell’animo. Da quel giorno la fiamma della concupiscenza era stata talmente domata da non sentire piú nessuno stimolo. Molti cominciarono ad abbandonare il mondo per correre alla sua scuola».
Vino avvelenato
La permanenza nello speco si concluse dopo tre anni. Quando i monaci di un monastero vicino gli si rivolsero affinché diventasse il loro abate, Benedetto esitò: i costumi di quei frati non sembravano accordarsi con i suoi. Infine accettò e instaurò nel monastero un severo rispetto delle regole. Ben presto i frati si pentirono della loro scelta e decisero di eliminarlo, con un calice di vino avvelenato. Ma «Benedetto alzando la mano, tracciò il segno della croce e con quel segno frantumò il recipiente di vetro». Abbandonò allora quei disgraziati monaci e fondò egli stesso un monastero, intitolato a san Clemente, sulla riva del lago, nei ruderi della villa neroniana. Compí miracoli d’ogni tipo e poiché la fama della sua santità cresceva e molti lo raggiungevano con lo scopo di servire Dio, Benedetto fondò altri dodici monasteri, assegnando a ciascuno un abate e dodici monaci. Sfuggí a un secondo tentativo di avvelenamento, questa volta posto in atto da un prete invidioso, dopo di che giudicò compiuta la sua opera a Subiaco: «Riordinati sotto i loro superiori tutti i monasteri che aveva costruito, vi aggiunse anche altri monaci. Quindi decise di cambiare residenza e andare altrove». È Cassino la nuova destinazione, dove il popolo è ancora pagano. In cima al monte c’è un tempio di Apollo, mentre nei boschi, consacrati ai demoni, folle fanatiche offrono sacrileghi sacrifici. Per una volta Benedetto dimenticò la misura che gli è propria: «Fece a pezzi l’idolo, rovesciò l’altare, tagliò i
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luoghi subiaco Grotta dei Pastori. Pittura murale raffigurante la Madonna che porta il Bambino ritto sul grembo, secondo l’uso degli artisti bizantini. VII sec. Secondo la narrazione di Gregorio Magno, in questa cavità Benedetto scendeva per incontrare i pastori e quanti abitavano nella valle dell’Aniene, che accorrevano per ascoltare le sue parole.
boschetti, eresse un oratorio a San Martino, dove si ergeva il tempio di Apollo». Il diavolo tentò invano di ostacolare la costruzione del monastero: creò incidenti, provocò crolli, indusse visioni che terrorizzarono i monaci. Ma a Benedetto bastò l’arma della preghiera per venirne sempre a capo. Ormai scomposta fu la reazione del demonio: «Gli appariva davanti con la bocca e gli occhi fiammeggianti. Lo potevano udire tutti. Urlava a gran voce “Benedetto, Benedetto” e, aspettando invano una risposta, subito ag-
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giungeva: “Maledetto, non Benedetto, perché ce l’hai con me? Perché mi perseguiti?”».
Scopritore di inganni
Benedetto leggeva nella mente delle persone: nessuno poteva ingannarlo, non il monaco furbo che si appropriò di un barilotto di vino, non il re Totila, che gli inviò un servo vestito da re per metterlo alla prova salvo poi, smascherato, prostrarsi ai suoi piedi. Guariva i malati di orrende infermità come la lebbra o
l’elefantiasi, corresse con fermezza e umanità i monaci che non si adeguavano alla sua Regola, un insieme di precetti a cui, negli anni, aveva dato veste sistematica. Si adoperò per saldare i debiti di chi non poteva pagarli, moltiplicò le provviste in tempi di carestia, liberò gli invasati, si oppose ai prepotenti, resuscitò i morti. Alla fine, fu sempre lui a vincere. Con una sola eccezione, quando Scolastica, la sorella gemella, andò a trovarlo per quello che sarebbe stato il loro ultimo appuntamento. maggio
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Come racconta Gregorio, i due siddetti luoghi della cultura, quelli non sarebbe tale se non ci fosse una s’incontrarono in una casa di pro- ovviamente che appartengono allo comunità che lo fa vivere». Il convento del Sacro Speco si prietà del monastero, non lontano Stato, come i due monasteri beneda esso. «Passarono tutta la giornata dettini di Subiaco, che sono tra i be- articola in due chiese, due grotte e nella lode divina e in santi colloqui. Tra ni ecclesiastici incamerati dal Regno numerose cappelle collegate da scalinate, su quattro livelli. Impressioun sacro discorso e l’altro, si era fatto ab- d’Italia nel 1867. na l’arditezza della struttura, retta bastanza tardi quando la sua pia sorella da nove arconi, sotto la montagna lo implorò dicendo: “Ti prego, questa La venerabile grotta notte non te ne andare ma parlia- Nel Polo Museale del Lazio, Stefano incombente. Al suo interno hanno mo delle gioie della vita celeste fino Petrocchi è il direttore dei monaste- operato svariate scuole pittoriche al mattino”. Egli rispose: “Che cosa ri benedettini di Subiaco. «La pecu- tra il 1200 e il 1500. L’ingresso è dici sorella? Non posso assoluta- liarità fondamentale dei monasteri in alto, da un loggiato aperto sul mente pernottare fuori del mona- sublacensi – ci dice – è che sono il paesaggio. Si attraversa la sala del stero”. La donna scoppiò in lacrime luogo di nascita del monachesimo Capitolo Vecchio, con affreschi dele dal cielo, perfettamente sereno fino a occidentale. Se il Medioevo ha tra- la scuola del Perugino, per entrare quel momento, si scatenò un tale diluvio mandato il sapere classico, questo nella Chiesa Superiore. Le pittuche impedí di mettere il piede fuori della è accaduto grazie all’organizzazio- re sono opera di un artista senese porta. Benedetto si arrabbiò: “L’onni- ne culturale dei monasteri. Il mo- della seconda metà del Trecento e potente Dio ti perdoni sorella; che nachesimo occidentale è nato con rappresentano episodi della vita di cosa il fatto?”. Ed ella rispose: “Ho san Benedetto a Subiaco, in quella Cristo, con al centro una grandiosa Crocifissione. Nella volta pregato te e non hai voluto ascoltare, ho pregato il Benedetto aveva la capacità di a crociera sono raffigurati i Dottori della Chiesa mio Signore e mi ha esauleggere nella mente delle persone quattro – Gregorio, Girolamo, Agodito. Ora esci se puoi”. Cosí stino e Ambrogio –, assisi trascorsero tutta la notte vee di smascherarne i tranelli in cattedre gotiche. Verso gliando e si saziarono di sacri l’altar maggiore affreschi colloqui, confidandosi le loro esperienze di vita spirituale. E non c’è grotta che ancor oggi si venera». Un dei primi anni del Quattrocento, da meravigliarsi – conclude Gregorio eremita, il Beato Palombo prese a di scuola umbro-marchigiana, racMagno – se in quella circostanza abbia dimorare presso il Sacro Speco. Al- contano fatti della vita di san Benepotuto di piú la sorella che desiderava tri si aggiunsero e, alla fine del XII detto, fra i quali l’ultimo colloquio intrattenersi piú lungo col fratello e poi- secolo, si impiantò il primo cenobio. dei due fratelli, durante il provviché, come dice Giovanni, Dio è amore, di Sul santuario rupestre crebbero vari denziale acquazzone. fabbricati, connessi l’uno all’altro Una scala conduce alla Chiesa piú poté colei che piú amò». – la cui cronologia è incerta – che Inferiore, dove la gran parte dei diSanta Scolastica viveva in un aderiscono alla roccia del Monte Tapinti è di Magister Conxolus, come lui monastero sotto Montecassino, nelleo, lasciandola in vista accanto alle stesso si firma, un artista di scuola valle Primarola. Quello che oggi la romana della seconda metà del le è dedicato si trova poco fuori Su- pareti affrescate. «Ai valori religiosi – continua Duecento. Suoi l’Innocenzo III in biaco, e san Benedetto l’aveva intiPetrocchi – si affiancarono quelli piviale rosso (sopra la bolla con la tolato a papa Silvestro. Distrutto dai Saraceni nel IX secolo, fu riedificato dell’organizzazione delle varie at- quale, nel 1203, questo papa assesotto i papi Gregorio IV, Leone IV e tività, con grandi conseguenze an- gnò delle rendite al Sacro Speco) e Benedetto VII. Poco piú in alto sor- che sul piano economico. I mona- i Miracoli di San Benedetto. In un tonge il monastero di S. Benedetto, o steri diventarono roccheforti, vere do, compare un ritratto del santo, del Sacro Speco, che non è fra quelli e proprie cittadelle. Conservando e che è diventato il logo del monastefondati dal santo, ma nacque piú tar- copiando i testi antichi, conteneva- ro. Dalla Chiesa Inferiore si entra di, come santuario rupestre, intorno no tutto il sapere religioso e i testi nel Sacro Speco, angusto e scabro. alla grotta dove san Benedetto aveva della classicità. Non dobbiamo con- Una statua rappresenta Benedetto siderare questi luoghi alla stregua di in preghiera, un cestino di marmo vissuto tre anni come eremita. La recente riforma del Ministero musei, poiché non sono musei, sono evoca quello con cui Romano gli cadei Beni Culturali ha istituito in cia- un’altra cosa. La comunità monasti- lava il pane dalla rupe. Una scala a scuna regione d’Italia una Direzione ca stessa è il primo valore di quello chiocciola ci riporta in alto, non alla del Polo Museale. In quella del Lazio che consideriamo un monumento Chiesa Superiore bensí a una cap(segue a p. 76) ha inserito, accanto ai musei, i co- storico. Un monumento storico che
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luoghi subiaco Il Cammino delle Abbazie
San Benedetto è passato di qui Nel 2008, la sezione di Alatri del CAI (Club Alpino Italiano) ha elaborato il progetto denominato «Cammino delle Abbazie. Da Subiaco a Montecassino, sulle orme di San Benedetto», un percorso ideato per scoprire la realtà storica, artistica e religiosa di un territorio ad alta concentrazione di testimonianze di elevato valore, come pochi altri luoghi in Italia e in Europa. L’idea è stata quella di unire – per mezzo di un
ambienti naturali (alta montagna, media montagna, fondovalle) dell’Appennino Laziale Meridionale. Un percorso in cui il legame tra escursionismo, arte e fede diventa un’occasione di sviluppo turistico sostenibile e di valorizzazione dei centri d’arte «minori» della Ciociaria. Qui di seguito, l’elenco delle tappe e delle rispettive varianti (la numerazione delle località si riferisce alla pianta riprodotta alla pagina accanto):
Subiaco. Una suggestiva veduta del ponte di S. Francesco, sul fiume Aniene. XIV sec.
solo, grande sentiero, segnato e attrezzato, che si snoda per circa 150 km e con la quasi completa esclusione delle strade asfaltate – Subiaco con Montecassino, rispettivamente «culla» e «capitale» del monachesimo occidentale. Un sentiero che offre la possibilità di ripercorrere, grosso modo, il tragitto intrapreso da san Benedetto tra l’anno 525 e il 529 e che collega tra loro 7 importanti monumenti religiosi: S. Scolastica e Monastero di S. Benedetto-Sacro Speco a Subiaco, Certosa di Trisulti, badia di S. Sebastiano ad Alatri, abbazia di Casamari, abbazia di S. Domenico a Sora, abbazia di Montecassino. Il Cammino si sviluppa in nove tappe (a cui si aggiunge una variante estiva d’alta quota), tenendo conto delle possibilità di pernottamento alberghiero o extra-alberghiero e mettendo in risalto i pregevoli diversi
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1-2 Subiaco, Villa di Nerone-Altipiani di Arcinazzo 2-3 Altipiani di Arcinazzo-Guarcino 3-5 Guarcino-Collepardo 5-6 Collepardo-Veroli 6-7 Veroli-Monte San Giovanni Campano 7-8 Monte San Giovanni Campano-Arpino 8-9 Arpino-Casalvieri 9-10 Casalvieri-Colle San Magno 10-12 Colle San Magno-Abbazia di Montecassino Variante 2-4 Altipiani di Arcinazzo-Campocatino 4-5 Campocatino-Collepardo 9-11 Casalvieri-Roccasecca 11-12 Roccasecca-Abbazia di Montecassino (informazioni tratte da www.caialatri.it) maggio
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A destra Civitella San Paolo (Roma). Una veduta panoramica del monastero di S. Scolastica, edificato sul fianco del Monte Lino e immerso nella vegetazione. In basso l’itinerario del «Cammino delle Abbazie», progetto ideato dalla sezione di Alatri del CAI (Club Alpino Italiano).
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a
ubiaco Subiaco
S. Scolastica b
Sacro Speco
2 Altipiani di Arcinazzo nazzo
C 3 Campocatino
Guarcino o 4 c
Collepardo 5
Certosa di Trisulti Abbazia di Casamari Abbazia di S. Domenico f
Badia di S. Sebastiano d 6 Veroli
FROSINONE
e
Monte San Giovanni Campano 7
8 Arpino pino
Roccasecca 11
9
Casalvieri C
10 Colle S. Magno
Abbazia di Montecassino 12
A sinistra Chiesa Inferiore. San Benedetto riceve il pane avvelenato inviato dal prete Fiorenzo, sotto lo sguardo atterrito di fra Mauro e fra Placido, affresco. XIV sec.
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luoghi subiaco pella intitolata a san Gregorio Magno, autore di un Commento al Libro di Giobbe. Gregorio è raffigurato in abiti pontificali, con Giobbe seduto ai suoi piedi, ricoperto dalle piaghe che il demonio gli ha inflitto per mettere alla prova la sua fede. La cappella si compone di tre ambienti in sequenza. In quello centrale si ammira un ritratto di San Francesco, a figura intera, con l’iscrizione Fr. Franciscus. Protetta da una spessa lastra di vetro, vediamo la figura di un uomo ancora giovane, dove si coglie, sia pure nelle forme stilizzate, un’attitudine ferma ed energica, assai diversa dall’umile postura del famoso ritratto di Cimabue, dipinto circa settant’anni piú tardi. Francesco è raffigurato senza le stimmate, che ricevette nel 1224, due anni prima della morte. Non ha neppure l’aureola, poiché la sua canonizzazione ebbe luogo nel 1228. Si tratterebbe dell’unico ritratto, fra quelli a noi pervenuti, dipinto quando il santo era ancora in vita, forse addirittura eseguito da un artista che potrebbe averlo incontrato, se realmente Francesco fece visita al convento del Sacro Speco, come vuole la tradizione. Un altro affresco, che illustra la consacrazione della cappella da parte del cardinale Ugolino (poi papa Gregorio IX) mostrerebbe, secondo alcuni, Francesco fra i presenti. Dalla Chiesa Inferiore, si scendono i gradini della Scala Santa, affiancata da pitture – attribuite allo stesso maestro senese della chiesa superiore – che mostrano la Morte all’opera e i suoi effetti sui corpi in disfacimento. Una cappella dedicata alla Vergine si affaccia sulla grotta nella quale Benedetto predicava ai pastori. Una porticina conduce all’esterno, in uno spiazzo, dove crescono alcune piante di rosa: si narra che fu san Francesco a innestarle sui rovi nei quali Benedetto, giovanissimo eremita, si era gettato per vincere le lusinghe dei sensi, infliggendo al demonio la sua prima sconfitta.
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L’eredità di Benedetto Don Mauro Meacci è l’abate dei monasteri sublacensi del Sacro Speco e di S. Scolastica. Lo abbiamo incontrato per analizzare la vicenda di san Benedetto. ● Padre Meacci, una natura selvaggia attirò san Benedetto in questi luoghi... «In una scelta di tipo monastico c’è sempre, accanto agli aspetti penitenziali, l’aspirazione a trovare un contatto fecondo con la natura. La scelta dei luoghi, storicamente, è stata condizionata anche da altri fattori, come la vicinanza all’acqua o, in certi casi, dal non essere particolarmente appetibili, e pertanto facili da ottenere in dono: le fondazioni cistercensi nascono per la gran parte come regali di signori feudali che donavano territori impervi o siti paludosi, magari sperando che fossero rimessi un po’ in ordine. Ma, in ogni caso, nel cuore della scelta monastica c’è il rapporto con la natura. La gente dice “Voi vi scegliete sempre i posti piú belli!”. Certo, sono posti che possiedono un’intrinseca bellezza ma è anche vero che questa è stata valorizzata dal lavoro dei monaci, dalla capacità di sviluppare il territorio intorno al monastero». ● San
Benedetto ha fondato il monachesimo occidentale, che aveva già una lunga storia. Quale fu il suo ruolo? «Il monachesimo non è un’invenzione attribuibile a un singolo personaggio: è un modo di vivere la vita umana. Esiste in tutti i contesti religiosi, in tutti i contesti culturali, ed esprime una delle caratteristiche fondamentali dell’uomo: la A sinistra san Benedetto ritratto in uno dei clipei affrescati sulla volta della Chiesa Inferiore. Nella pagina accanto Cappella di S. Gregorio. San Gregorio e Giobbe piagato e afflitto, affresco attribuito al Maestro di frate Francesco. XIII sec.
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ricerca dell’assoluto. Ciò vale nel monachesimo orientale, nel mondo giudaico, nel sufismo, addirittura in certe forme di sciamanesimo. San Benedetto è dentro questa grande area. Anche nel mondo cristiano, san Benedetto non è il primo, benché sia tra i piú grandi. Il fondatore del monachesimo e dell’eremitismo, tradizionalmente, è sant’Antonio. Il quale però, come si legge nella Vita Antoni di Atanasio, quando si ritirò nel deserto, si recò presso alcuni asceti. Dunque c’era già qualcuno prima di lui. Il grande divulgatore è Cassiano, che, con il suo De Institutis Coenobiorum, fa da ponte tra il monachesimo orientale e il monachesimo che già era fiorito anche in Occidente, dove troviamo il monachesimo francese, quello dei grandi centri del Sud Italia, e quello basilicale delle basiliche romane. San Benedetto s’inserisce in questo
contesto, e lo riorganizza, poiché il suo contributo al monachesimo è la Regola. Alla fortuna di san Benedetto contribuisce la testimonianza che, della sua persona, dà Gregorio Magno. Gregorio scrive il Dialogorum Libri Quatuor nel 594, quando Montecassino era già stata distrutta dai Longobardi. I monaci si ritirano presso il Laterano e a Subiaco resta forse una piccola comunità. Il monachesimo benedettino rifiorisce alla corte dei Franchi, nel grande processo di romanizzazione dell’impero, quando la Regola di san Benedetto viene considerata, peraltro erroneamente, regola della Chiesa romana, avallata dall’autorità di Gregorio Magno. Quindi la Regola viene imposta a tutti i monasteri dell’impero carolingio, e si diffonde ovunque». ● Qual
è la peculiarità della Regola? E perché risultò tanto autorevole? «Perché è una regola quadro, nella quale le disposizioni fondamentali – l’obbedienza, l’umiltà, la disponibilità alla preghiera, l’impegno nella vita comunitaria – sono dettagliate, ma si lascia spazio allo spirito dei tempi. Nel corso della storia, la Regola si è sempre accompagnata a consuetudini che la arricchiscono e che la rendono solidale con i tempi. Nel capitolo sulla misura del bere, san Benedetto argomenta cosí: “Sebbene il vino non sia per i monaci tuttavia, poiché oggi non è possibile convincerne i monaci, concediamo che possono usare del vino però fino a una certa misura”. San Benedetto afferma il principio, ma tiene conto dell’umanità che ha davanti, e lo modula. La Regola incrocia dialetticamente l’umanità che entra nel monastero. ● Tra
i miracoli narrati da san Gregorio Magno, due riguardano umili utensili: quando san Benedetto ripara il vaglio rotto dalla nutrice e quando recupera il falcetto che il Goto ha perso nel lago... «Questi miracoli esprimono probabilmente l’esigenza di tornare alla laboriosità quotidiana, che costituisce la vera ricchezza di un popolo. Il primo miracolo ci dice anche che san Benedetto non è della razza di sant’Agostino, un grande convertito, magnifico nella violenza della sua convinzione. È un bravo giovane che si allontana dalla Roma dell’epoca per approfondire la sua vita spirituale ed è già, agli inizi, una persona benedetta da Dio e quindi capace di operare miracoli. In questo passaggio “morbido” tra la vita di prima e la vita monastica, cosí diverso dalla drammaticità di un sant’Agostino, riconosciamo quella discrezione profonda che pervade la Regola. Il secondo miracolo ci dice anche dell’impegno dei monasteri nell’accoglienza di quell’elemento nuovo che erano i barbari. Significa, per Gregorio Magno, che i
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confini del Vangelo non sono quelli dell’impero romano, ma che il Vangelo va portato anche ai popoli che sono al di là. C’è poi un terzo miracolo, importante ai fini del nostro discorso, ma in questo caso ne è protagonista Scolastica, la sorella di Benedetto. Quando, a fronte delle rimostranze del fratello che vuole assolutamente rispettare la Regola e quindi rientrare a dormire in monastero, interrompendo la conversazione, lei si rivolge a Dio in lacrime ottenendo che un’improvvisa bufera gli impedisca di uscire. Commenta Gregorio Magno: “Ha potuto di piú chi piú ha amato”. Sul rispetto della Regola la legge dell’amore prevale. Non per scardinare la Regola, ma per ammorbidirla con un’attenzione concreta alle persone». ● Pervade
la Regola l’idea che ogni cosa vada sempre fatta con cura... «È l’idea di civilizzazione cosí com’è scaturita dai monasteri. L’Europa è quello che è anche grazie a essi. Ecco perché la componente cristiana, ma vorrei dire anche la componente monastica, ne è una delle radici: per il principio del rispetto di ciò che si fa, del rispetto dei luoghi e dei tempi. Ci sono le ore della preghiera, e sono fissate, come quelle in cui si lavora, si studia, si sta insieme a
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Nella pagina accanto ancora due scene dagli affreschi della Chiesa Inferiore. In alto, Il miracolo del vaglio; in basso, Il miracolo del falcetto. A destra particolare di una delle scene degli affreschi della Chiesa Superiore raffigurante Il martirio di San Placido.
pranzo. E queste attività si svolgono in luoghi ben definiti: in chiesa si prega, nel refettorio si mangia, nel laboratorio si lavora, nel capitolo si discute. Non c’è confusione. Ciò impatta con una struttura sociale in cui i popoli nuovi erano avvezzi al nomadismo. Mangiavano quando avevano fame, il loro orizzonte temporale era indeterminato, lo spazio era dove arrivava la freccia. I monaci recuperano dal mondo classico l’idea della misura». ● I n
questo senso la Regola si rifà alla cultura classica? «Sí, quello della misura è un ideale che appartiene al mondo classico. La Regola si propone di creare un ordine armonico fra le persone. Oggi tutto ciò sembra ovvio. Che alle sette ci si alzi, che si faccia colazione, che alle otto ci si prepari a uscire, che si vada a lavorare, che all’una si interrompa per andare a pranzo e cosí via. Tutto questo a noi sembra ovvio, ma non lo è affatto. Anche nei meccanismi apparentemente piú laici o piú distanti da una determinazione religiosa, la radice sta nelle horae competentes della Regola, nel rispetto delle ore e dei tempi che san Benedetto introdusse in un mondo sociale in preda al caos».
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● Nel
IX secolo a piú riprese i monasteri benedettini furono saccheggiati e distrutti dai Saraceni. Sorprende che arrivassero fin qui... «Quando si pensa al rapporto con il mondo islamico, si va subito alle crociate, con enormi e culturalmente ridicoli sensi di colpa che ci portiamo addosso per operazioni sicuramente di attacco, ma in funzione di legittima difesa. A partire dal 622, l’Islam si espande ovunque. In poco tempo arriva in Marocco, dove fa scempio delle comunità cristiane, raggiunge la Spagna, conquista la Sicilia. I Saraceni creano avamposti importanti anche sulle coste italiane, per esempio al Garigliano, e di lí perseguono il loro sogno, quello di sottomettere Roma. Per tre secoli saccheggiano ovunque per catturare schiavi – i cristiani sono legittimamente schiavi di ogni buon islamico, secondo la loro legge – per raccogliere tesori, per distruggere le testimonianze religiose cristiane. Arrivare fin qui dalla costa non era per nulla complicato: se venivano dal Garigliano sono quaranta chilometri, altrimenti c’era la Tiburtina Valeria. Hanno compiuto saccheggi fino nel cuore degli Appennini. Fino a quando anche da noi qualcuno si sveglia e parte, potremmo dire, proprio dal contesto monastico, l’epopea delle crociate».
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di Furio Cappelli
Aosta. I resti del teatro romano di Augusta Praetoria. In secondo piano, si riconosce il campanile della chiesa di S. Orso.
AOSTA MEDIEVALE
Augusto ad Anselmo Da
Associato, fin dal nome, al primo imperatore romano, il capoluogo della Valle d’Aosta ha conosciuto una storia non meno importante anche nei secoli seguenti e, in particolare, nell’età di Mezzo. Una stagione di cui sono testimonianza monumenti insigni e, in piú di un caso, contraddistinti da caratteri di grande originalità
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uando si nomina la Valle d’Aosta, viene subito in mente un microcosmo di valli profonde e di ristrette pianure, racchiuso in una corolla di montagne e di alture prealpine. E quando un territorio del genere viene riferito al Medioevo, lo si immagina costellato di innumerevoli castelli, posti a dominare le vie di comunicazione. Ed effettivamente i castelli valdostani, spesso conservati in ottimo stato, compongono tuttora una realtà storica assai eloquente. Tuttavia la regione piú piccola d’Italia vanta anche una città degna d’essere menzionata fra le piú
In alto veduta dall’alto del teatro romano, che doveva avere una capienza compresa fra i tre e i quattromila spettatori. Sulle due pagine ancora un’immagine dell’area del teatro romano. Sulla sinistra, spicca la mole poderosa della casa-torre dei Casei, nota anche come Tour Fromage, realizzata ex novo a ridosso di una piú antica torre difensiva.
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importanti testimonianze urbane del Medioevo italiano, senza pensare alla ricchezza del patrimonio superstite della sua fase romana. Si tratta del capoluogo, l’antica Augusta Praetoria, cosí chiamata in onore di Augusto, che la fondò nel 25 a.C., dopo aver assoggettato la popolazione locale dei Salassi. La struttura urbanistica della cit-
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tà romana, solcata da assi viari ortogonali e racchiusa dalla cinta muraria in un rettangolo di 727,5 x 574 m, è ancora perfettamente leggibile, proprio perché la città medievale, pur sviluppandosi con alcuni sobborghi lungo le vie di collegamento, non richiese in alcun momento una nuova perimetrazione, e il nuovo
incasato rispettò in maniera quasi «filologica» l’impianto originario. Si ha cosí un esempio davvero sorprendente di continuità tra il mondo antico e quello medievale.
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Giungendo da Ivrea, lungo la via che conduceva alle Gallie, l’arco trionfale eretto in onore del fondatore Augusto sfoggia un crocifisso allocato sotto la volta, proprio nel mezzo della struttura. La scultura quattrocentesca (oggi conservata nel Museo del Tesoro della Cattedrale e sostituita in situ da una copia) trasforma cosí l’elegante apparato imperiale in una grande edicola, che trae la propria ragion d’essere dall’immagine del Crocifisso, di cui è la custode e l’esaltante cornice. La cinta muraria, d’altro canto, non solo vide una continuità d’uso indiscussa e ininterrotta come apparato difensivo della città, ma divenne un singolare circuito di edifici nobiliari. Sia le 4 porte monumentali (ciascuna rinfiancata da due torri gemelle) che le 12 torri poste a rinforzare la struttura difensiva a intervalli regolari, subirono adattamenti, rifacimenti o ristrutturazioni per le esigenze delle famiglie piú potenti della città. Nel caso sorprendente della Torre del
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Lebbroso, appartenuta già nel 1191 alla famiglia Frior, sul lato occidentale della città (in corrispondenza dell’attuale via Festaz), si nota tuttora la persistenza della torre originaria, nonostante le alterazioni e le aggiunte medievali.
Quartieri e famiglie
Le famiglie nobiliari si distribuirono lungo il perimetro della città in base al loro grado di eminenza e ai loro legami parentali. Di riflesso, la città stessa risultò suddivisa in tre quartieri con tanto di perimetrazione interna regolata da porte di accesso, e ogni quartiere – ciascuno identificato da una chiesa e dotato di propri servizi – individuava un nucleo di potere su cui determinate casate esercitavano la propria egemonia. Un tale assetto, perfezionato da nuove porte aperte sulla cinta muraria esterna, rimase intatto fino alla seconda metà del Trecento, quando la dominazione dei Savoia eliminò la concorrenza delle famiglie altolocate della città.
A destra veduta dall’alto di Aosta. Si può cogliere la sovrapposizione dell’assetto urbanistico moderno a quello definito in epoca romana, basato sugli assi ortogonali del cardo e del decumanus e delle rispettive vie secondarie.
Proprio in corrispondenza di Porta Praetoria, sul lato orientale della città antica, possiamo osservare uno dei piú cospicui esempi superstiti di edilizia nobiliare del Medioevo. La porta monumentale, aperta in corrispondenza dell’asse viario principale ovest-est della città romana, il decumanus maximus, è tuttora leggibile nelle sue componenti originarie. Si osserva infatti la struttura a doppia cortina (esterna e interna), che forma una duplice facciata traforata da tre archi con un cortile intermemaggio
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dio. Sui lati nord e sud si notano poi le strutture superstiti delle lunghe torri di rinfianco. Ebbene, in corrispondenza della torre settentrionale si evidenziano le strutture del palatium appartenuto alla potente famiglia che si era identificata proprio con l’antica porta. La casata si chiamava infatti De Porta Sancti Ursi, dal momento che nel Medioevo la porta stessa traeva nome dall’importante chiesa extramuranea di S. Orso, a pochi passi da lí (vedi «Medioevo» n. 240, gennaio 2017).
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La struttura attuale dell’edificio nobiliare, databile alla fine del XII secolo, si segnala in modo particolare per la cura del suo cospicuo paramento murario, intessuto da grandi blocchi di reimpiego, in modo da mimetizzarsi adeguatamente con le solenni strutture antiche. Si tratta poi di un complesso davvero imponente e «fuori scala» rispetto all’ambiente urbano, a tal punto che appare paragonabile alle compatte fortificazioni-residenze (donjon) che i cavalieri normanni realizzavano in
Francia e oltremanica. Come si vede nella Tour Colin di Villeneuve (XIII secolo), gli stessi castelli valdostani diffusero poi nel territorio questa nuova tipologia edilizia. Va inoltre ricordato che sul lato esterno della porta, su un braccio di collegamento che correva sopra agli archi antichi (eliminato nel secolo scorso nell’ambito di un ripristino del monumento romano), proprio in corrispondenza dell’arco centrale, sporgeva l’abside della cappella gentilizia dei De Porta, intitolata alla
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Dossier In questa pagina castello di Bramafam (noto anche come Torre Beatrice), particolare della torre cilindrica che il visconte Goffredo di Challant fece realizzare sui resti della Porta principalis dextera di epoca romana. 1253-1260. Nella pagina accanto cattedrale di S. Maria Assunta, facciata. Busto in terracotta policroma raffigurante un profeta, inserito nella lunetta sovrastante il portale laterale destro. 1522-1526.
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Santissima Trinità, cosicché la porta stessa era anche nota come Porta Trinitatis o Trinité. In questo modo non solo l’ingresso della città veniva adeguatamente sacralizzato, ma gli stessi De Porta affermavano la propria preminenza nello scenario locale. Assunta la signoria di Quart nel 1185 (e Quart si chiameranno in seguito), finiranno per schierarsi con i ghibellini, fino a costituire l’unico ostacolo alla preminenza degli Challant, i visconti di Aosta, insediati sul lato opposto della città. Osservando lo sviluppo della cinta muraria a nord di Porta Praetoria, in piena area archeologica, tra il Teatro e l’Anfiteatro spicca la casatorre dei Casei, nota anche come Tour Fromage. Già attestata nel 1191, venne realizzata ex novo a ridosso della torre difensiva antica, e appartenne a una famiglia di vassalli dei Quart. La casa-torre che si vede in fondo, all’angolo nord-est dell’antico impianto urbano, apparteneva nel 1192 alla famiglia De Palatio. È nota come Torre dei Balivi, perché, dopo la vendita ai Savoia (1263), fu ristrutturata e individuò la sede del nuovo balivato (1266). Lí risiedeva il balivo, ossia il magistrato che rappresentava in città gli interessi di
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quella potente famiglia, ben prima che Aosta venisse inglobata nello stesso Stato sabaudo (1416). D’altronde, la dominazione dei Savoia, sia pure condizionata da varie franchigie, risale al 1191, all’epoca del conte Tommaso I. In quella fase storica i conti sabaudi erano rappresentati in città da un visconte, e la carica divenne appannaggio dei potenti signori di Challant.
Il «castello urbano»
Come già accennato, essi dominavano la città sul «fronte occidentale». La loro residenza, in modo analogo agli antagonisti Quart, sfruttò le strutture di un’antica porta urbica, la Porta principalis dextera, aperta sul lato sud in corrispondenza dell’asse viario principale nord-sud, il cardo maximus. Dopo l’assalto subito per mano dei Quart (1253), il visconte Goffredo di Challant ristrutturò il complesso in modo radicale. Si definí cosí l’attuale «castello urbano» di Bramafam (noto anche come Torre Beatrice), i cui resti fanno oggi da scenario a un parco pubblico. Si compone di un’ampia struttura rettangolare a blocco unico (30 x 20 m), con il piano nobile aperto da bifore. Un angolo è co-
stituito dal basamento superstite di una torre della porta urbica romana, e su questa base quadrangolare spicca un’elegante torre cilindrica che fungeva da residenza e da punto di avvistamento (donjon). L’edificio è interessante sia per la sua impostazione di rappresentanza – assai inconsueta nei «manieri» dell’epoca (ha infatti il «tono» di una piccola residenza regale) –, sia per l’introduzione di una torre cilindrica, che risponde ai gusti piú aggiornati dell’architettura militare d’oltralpe. L’altra torre cilindrica di Aosta, la Tourneuve («Torre nuova»), sull’angolo nord-occidentale della cinta urbana, apparteneva a una famiglia di vassalli degli stessi Challant, i De Villa de Turre nova. Sempre seguendo l’ossatura della città romana, arriviamo infine al fulcro del Medioevo aostano, nel settore nord-orientale dell’impianto antico, laddove era ubicato il Foro. Lí, infatti, trovò sede la cattedrale di S. Maria Assunta. La si può anche definire Notre-Dame, alla francese, poiché cosí venne chiamata fino all’Ottocento. Tuttavia, al di là di questo dettaglio «anagrafico», l’architettura dell’edificio sembra davvero annullare la barriera delle
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Dossier Alpi. Già da lontano svettano due torri campanarie simmetriche, rare di per sé in Italia e ancor piú rare nella situazione che le vede all’opera in Aosta. Si trovano infatti in fondo all’edificio, facendo corpo con il complesso delle absidi laterali. Ricostruendo l’edificio nel suo originale assetto, abbiamo poi una cattedrale «senza facciata». In luogo dell’atrio frontale odierno (che si è definito in ultima battuta nel XIX secolo), dobbiamo infatti immaginare un’abside che corrispondeva in modo simmetrico a quella «canonica» sul lato orientale. Per giunta, due ulteriori torri affiancavano l’abside occidentale, completando in modo armonico la corrispondenza tra i due blocchi del complesso, come si vede in illustri edifici romanici della Francia o della Germania. L’aula della chiesa ha un marcato slancio verticale, che la accomuna alle chiese di rappresentanza realizzate in età ottoniana nelle stesse aree d’oltralpe. Questo effetto è oggi attutito internamente dall’innalzamento della quota pavimentale e dall’abbassamento di quota del soffitto, per effetto delle volte a crociera quattrocentesche. Esaltava lo slancio verticale e ribadiva l’accento oltralpino della costruzione, la presenza di un piano sopraelevato in entrambi i cori, sia a ovest che a est, con spazi in funzione di tribune o cappelle.
Una lunga consuetudine
L’ingresso principale era situato sul fianco meridionale. Sul lato opposto, in luogo dell’attuale costruzione quattrocentesca, dobbiamo immaginare un chiostro dei canonici in stile romanico, che doveva risultare molto simile a quello, superstite, dei canonici di S. Orso (1132). Non a caso, le due canoniche aostane erano legate da una lunga consuetudine di rapporti ed erano entrambe coinvolte, per esempio, nella elezione del vescovo. Per giunta, il chiostro della cattedrale identificava l’antica sede della cancelleria cittadina.
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Veniamo ora alla cronologia della chiesa. In mancanza di specifiche attestazioni storiche, sono risultate assai preziose le analisi condotte con il metodo della dendrocronologia sui legni del sottotetto, in corrispondenza della navata centrale. Si tratta di lunghe catene («dormienti») adagiate lungo la fascia alta delle pareti, poco al di sotto del piano di appoggio delle capriate. È un accorgimento molto ingegnoso, che garantisce al tempo stesso elasticità e compattezza nel massimo punto di carico. Ebbene, le analisi hanno datato al 1031 i legni impiegati. Al-
In alto in questa immagine della Porta Praetoria è ben visibile la torre settentrionale del complesso che, nel Medioevo, fu trasformata nel palatium della famiglia identificatasi proprio con l’antica porta: i De Porta Sancti Ursi (il secondo appellativo derivava dalla vicinanza con la chiesa di S. Orso).
La Porta Praetoria Assonometria della Porta Praetoria con le modifiche medievali, compresa la scomparsa cappella della Trinità sulla facciata esterna. Innalzata in corrispondenza del decumanus maximus, l’asse viario cittadino piú importante, costituiva l’accesso principale ad Augusta Praetoria. Aveva una duplice facciata, con torri di rinfianco. In basso, a destra una delle facciate della Porta Praetoria, con evidenti resti del suo rivestimento marmoreo. In ciascuna di esse si aprivano tre archi: quelli centrali erano adibiti al transito dei carri, mentre i laterali sormontavano i percorsi destinati ai pedoni.
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Dossier Sant’Anselmo
Quel pane piú bianco della neve Nella via intitolata a sant’Anselmo, al civico 66, su un palazzo nobiliare del Cinquecento, eletto per motivi ignoti a casa paterna del santo aostano, una lapide in francese recita: «Qui vide la luce nel 1033 sant’Anselmo, arcivescovo di Canterbury, primate d’Inghilterra, dottore della Chiesa, metafisico e teologo profondo, il piú grande genio della sua epoca. Nella sua dottrina e nelle sue opere egli seppe unire in modo ammirevole
il culto della ragione agli splendori della fede. Egli combatté l’errore con l’eloquenza del filosofo e l’ardore degli apostoli. Egli lottò contro i grandi della Terra, con una energia indomabile, in difesa del diritto, della giustizia e della libertà». Il testo si conclude con l’incitamento: «Valdostani! Salutate, venerate la piú alta gloria del Paese». Secondo il biografo Eadmero di Canterbury (1060 circa–ante 1134), Anselmo bambino ricevette in sogno una prefigurazione del proprio destino. Sua madre Ermemberga aveva un certo ascendente su di lui, e lo suggestionò non poco parlando di un signore, creatore di ogni cosa, che aveva la propria reggia in cielo. Il paesaggio montano che domina Aosta aggiunse un tassello alla rivelazione, perché le alte vette sembravano indicare ad Anselmo la strada piú breve per giungere a quel luogo straordinario. Ed ecco allora tutte le premesse per la visione che giunge in sogno. Salendo lungo un sentiero, Anselmo accede alla reggia, dove il Signore in persona lo accoglie, risponde ai suoi quesiti, e gli offre un pane «bianchissimo». La «chiamata» del Signore, però, si realizza solo molti anni piú tardi. Dopo aver fallito un primo tentativo di accedere alla vita
monastica, Anselmo subisce come un trauma la morte della madre e decide allora di lasciare casa per dare forma al proprio destino. Un giorno, mentre è intento a valicare il Moncenisio in condizioni disperate, arriva a nutrirsi della sola neve. Il chierico che lo accompagna rovista disperatamente nella bisaccia in cerca di qualcosa da mangiare, e riappare cosí, per miracolo, il pane «bianchissimo» del sogno. Seguono le vicende ben documentate della lunga e fruttuosa amicizia con il maestro Lanfranco di Pavia (1005 circa–1089), che fu, tra l’altro, priore del monastero normanno di Le Bec, e infine, nel 1070, arcivescovo di Canterbury e primate d’Inghilterra. Anselmo fu successore di Lanfranco sia a Bec (1063) che a Canterbury (1093). E quando, nella sede episcopale di oltremanica, ebbe un contrasto con il «tirannico» re Guglielmo II il Rosso (1087-1100) – deciso a esercitare un forte controllo sulle investiture vescovili –, fu costretto all’esilio. Dopo nuovi diverbi con il successore Enrico I il Chierico (1100-1135), si giunse a un accordo grazie alla mediazione di papa Pasquale II (1099-1118), allorché Anselmo poté fare ritorno in via definitiva a Canterbury (1106), dove morí (1109).
Nella pagina accanto il monumento a sant’Anselmo inaugurato nel 1909: è sormontato dalla statua bronzea del santo realizzata da Arturo Stagliano. In basso il criptoportico di età augustea che si snoda nell’area del Foro.
tri elementi lignei sulla navata sinistra sono risultati databili al 1026. In questa fase storica, Aosta non rientrava nei confini del Regno italico, e questo spiega molto il tono oltralpino della sua cattedrale. Basta scorrere i toponimi del territorio, d’altronde, per rendersi conto che la Valle era largamente francofona fino ai provvedimenti di epoca fascista. Gli abitanti parlavano un dialetto (patois) franco-provenzale, e il francese divenne lingua ufficiale nel 1536 (nel 1861, con l’avvento del Regno d’Italia, si ebbe il bilinguismo italiano-francese, che fu poi reintrodotto nel 1948, con la nascita stessa della Regione autonoma).
In posizione strategica
Non dobbiamo quindi sorprenderci del fatto che nell’XI secolo la Valle, pur trovandosi al di qua delle Alpi, fosse inclusa nel Regno di Borgogna. Aosta ne fece parte sin dalla sua nascita (888) e aveva assunto un ruolo cruciale per i sovrani (i Rodolfingi), dal momento che vantava una posizione strategica in relazione ai valichi del Piccolo e del Gran San Bernardo. Aosta e il cospicuo monastero di Saint-Maurice-d’Agaune (nel Vallese, cantone della Svizzera sud-occidentale) rappresentavano addirittura il cuore del patrimonio dinastico dei sovrani. Il vescovo aostano non vantava diritti comitali e non esercitava dunque un ruolo politico in prima persona, ma godeva comunque di un prestigio ragguardevole come autorità di alto riferimento simbolico in una città-chiave del Regno. Tra il 994 e il 1025 era in cattedra il presule Anselmo (da non confondersi con l’omonimo filosofo aostano; vedi box alla pagina preceden-
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LE DATE DA RICORDARE 888 Nasce il Regno di Borgogna, che comprende la Provenza, il ducato di Vienne/Lione e l’Alta Borgogna. Aosta rientra in questo nuovo assetto politico. 951 Adelaide, figlia di Rodolfo II di Borgogna, sposa in seconde nozze Ottone I, re di Germania e d’Italia, futuro imperatore. Si crea cosí la premessa di una convergenza tra Germania, Italia e Borgogna. 994 Anselmo viene eletto vescovo di Aosta. 1016 Per effetto degli accordi di Strasburgo, Rodolfo III di Borgogna designa come erede al trono l’imperatore Enrico II. Nel contempo, Rodolfo affida agli Umbertini (i futuri Savoia) il controllo diretto sulle zone cruciali del Regno. 1022 Burcardo, figlio del conte Umberto I e nipote del presule Anselmo, viene eletto successore di quest’ultimo quando è ancora in vita. 1024 Umberto I risulta conte di Aosta. 1025 Morte del vescovo Anselmo. Ascesa alla cattedra aostana di Burcardo. 1031 Burcardo lascia la sede di Aosta per usurpare la cattedra di Lione. 1033 Muore Rodolfo III di Borgogna. Nasce il teologo Anselmo d’Aosta. 1034 In forza degli accordi di Strasburgo, l’imperatore Corrado II il Salico, successore di Enrico II, cinge solennemente la corona di Borgogna, ma incontra subito problemi per far valere la propria autorità nel Regno. 1036 Corrado II depone Burcardo, che si è schierato con i ribelli. 1038 I conflitti per la corona di Borgogna si concludono con l’assemblea dei Grandi del Regno a Soleure. Funge da mediatore Umberto I, che ottiene il perdono per il proprio figlio Burcardo. 1046 ca. Morte di Burcardo, ritiratosi a Saint-Maurice con la carica di abate. 1048 Muore il conte Umberto I.
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te). Patrocinò la chiesa di S. Orso e avviò il rifacimento della cattedrale. Era figlio di un conte e di donna Aldiuda, che era stata concubina del re borgognone Corrado. Il fratello di latte, Burcardo, figlio di Corrado e di Aldiuda, fu arcivescovo di Lione e abate di Saint-Maurice. E, di fianco allo stesso Burcardo, Anselmo fu anche prevosto di Saint-Maurice e arcicancelliere del Regno. Poteva sfoggiare inoltre un vero e proprio titolo principesco (princeps Regni). Già nel 1022 fu nominato il successore di Anselmo, un altro
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Burcardo, la cui madre Ancilia era sorella dello stesso Anselmo. Il padre Umberto I era conte della città almeno sin dal 1024, e apparteneva a quella illustre dinastia degli Umbertini, conti del Belley, che diede luogo alla stirpe dei Savoia.
Il vescovo superbo
E proprio Burcardo completò i lavori della cattedrale, anche se il suo ricordo fu piuttosto legato a una certa ingordigia di cariche illustri. Lo stesso monaco-cronista cluniacense Rodolfo il Glabro (985 circa-1050
circa), nelle sue Storie, lo menziona come esempio di superbia. Nel 1031, l’anno dei «legni» del sottotetto, abbandonò infatti la sede di Aosta per assumere la cattedra di Lione e mantenne al contempo la carica di prevosto di Saint-Maurice, di fianco all’abate Aimone, suo fratello. Dal canto suo, il padre Umberto, fino al 1032, nella sua duplice posizione di conte cittadino e di padre del vescovo aostano, non esitò a gestire i beni dell’episcopato e della canonica con la massima disinvoltura, alla stregua di beni di famiglia. I futuri Savoia, maggio
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Sulle due pagine la cattedrale di S. Maria Assunta. La foto in questa pagina evidenzia una delle caratteristiche piú salienti dell’edificio, vale a dire la presenza di due torri campanarie simmetriche.
evidentemente, erano già proiettati nel ruolo di signori della città. Tornando all’antico assetto della cattedrale, per spiegarne la struttura «doppia», è utile risalire alle origini stesse del complesso episcopale. Si parte naturalmente dalle preesistenze romane. Nell’ambito del complesso forense, a settentrione, si sviluppava un cospicuo portico seminterrato (criptoportico) articolato intorno a un’area sacra. La struttura, assai suggestiva, è tuttora visitabile. Nel Medioevo dette luogo (segue a p. 99)
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Dossier S. Maria Assunta A sinistra l’atrio della cattedrale, ornato da terrecotte policrome e da affreschi con scene della vita della Vergine (1522-1530). Nella pagina accanto, a destra il Crocifisso ligneo che sovrasta l’altare e domina il coro della chiesa. XIV sec. Sulle due pagine spaccato assonometrico della cattedrale.
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A sinistra pianta della cattedrale aostana: 1. altar maggiore; 2. ambone; 3. cattedra vescovile; 4. custodia eucaristica; 5. fonte battesimale; 6. chiostro dei canonici; I. Crocifisso; II. Mosaici pavimentali romanici; III. Museo del Tesoro della Cattedrale; IV. Urne-reliquiari dei beati Bonifacio I ed Emerico I di Quart.
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Intitolata alla Vergine, la cattedrale aostana si presenta oggi come l’esito di ripetuti interventi e rifacimenti 95
La prima cattedrale In alto e nella pagina accanto, in alto particolari del complesso pittorico medievale di S. Maria Assunta: la Piaga dei tafani (parete sud della navata centrale) e un Angelo (arco trionfale ovest). La realizzazione degli affreschi fu avviata intorno al 1035. Sulle due pagine ricostruzione della cattedrale di S. Maria Assunta, cosí come doveva presentarsi nella fase romanica.
L’acqua non si spreca Grazie a un «pozzo sigillato» in vista nell’aula attuale della chiesa, si può ammirare la vasca battesimale paleocristiana, concepita secondo l’antico rito a immersione. E, osservandola con attenzione, si può notare come lo spazio invaso dall’acqua lustrale sia stato ridotto nel corso del tempo. Da una forma presumibilmente circolare, il fonte passò cosí a una singolare struttura a croce patente (con i bracci rastremati; V sec.), per poi restringersi ulteriormente con un impianto ottagonale (VI sec.). Poiché era sempre piú raro che i neofiti fossero di età adulta, era inutile un eccessivo impiego di acqua per il rito, ormai indirizzato ai soli neonati, ed è per questo che ad Aosta e in diverse altre situazioni il fonte subí questa riduzione progressiva.
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In basso il mosaico pavimentale del coro orientale, raffigurante, al centro, la personificazione dell’Anno, contornata da allegorie dei Mesi e dai Fiumi del Paradiso. Seconda metà del XII sec.
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Dossier Sant’Eustachio
Il cacciatore che diventa preda Narra la leggenda che, durante una battuta di caccia, un ufficiale dell’esercito romano di nome Placido, messosi sulle tracce di un cervo maestoso, una volta trovatosi al cospetto dell’animale, assisté a un prodigio. Cristo gli parlò per bocca del cervo oppure, secondo la versione piú diffusa nell’iconografia, il Crocifisso apparve tra le corna dell’animale, rivolgendosi a Placido con le proprie labbra. Poiché Placido era di animo nobile e misericordioso, doveva senza indugio abbandonare il culto degli dèi pagani e riconoscere il Signore come l’unico dio da venerare, e in suo nome doveva continuare a offrire le elemosine. Con questo discorso, impersonando Cristo o esaltando la sua immagine, l’animale selvatico non è piú una preda, e si trasforma cosí in predatore di anime: «Ho voluto cacciarti mentre tu mi cacciavi». Placido si battezza al cospetto del papa in persona, ricevendo il nome di Eustachio, e con lui entrano nella comunità dei fedeli la moglie Teospite e i figli Agapito e Teospito. Tornato sul luogo del prodigio,
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come convenuto, Cristo riappare e gli preannuncia una serie di tormenti che metteranno a dura prova la tenacia della sua fede. Arriva cosí una gravissima pestilenza, che stermina tutti i servi e il bestiame di proprietà di Eustachio. Alcuni sciacalli approfittano della devastazione per irrompere nella casa e per impadronirsi di ogni bene. Al povero Eustachio e ai suoi familiari, rimasti senza un vestito da poter indossare, non rimane che fuggire alla volta dell’Egitto. Si devono affidare a un nocchiero per attraversare il mare, e questi approfitta indegnamente della situazione. Messi gli occhi sulla bella Teospite, la pretende in pegno come pagamento del viaggio. Eustachio si oppone, ma il turpe comandante non sente ragioni e gli offre un’alternativa poco allettante. Se Eustachio preferisce essere buttato in mare per morire annegato, vorrà dire che il nocchiero otterrà comunque i favori della donna, anche se è diventata nel frattempo vedova. In lacrime, Eustachio, una volta approdato, lascia cosí la moglie
Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
alla mercé del bruto. Si appresta ad attraversare un fiume vorticoso, costretto a trasportare un figlio alla volta con un viaggio a doppia spola. Durante il tragitto, nel mezzo della corrente, assiste impotente, in rapida sequenza, alla scomparsa di entrambi i figli. Su una riva, uno di loro viene rapito da un lupo. Sulla riva opposta, l’altro figlio viene rapito da un leone. Trascorrono poi quindici lunghi anni, durante i quali Eustachio si adatta a vivere in un villaggio, facendo il pastore. Frattanto, Roma è sempre piú minacciata dalle orde barbariche. L’imperatore Traiano cerca in ogni modo di rintracciare il suo valente generale Placido (Eustachio in persona), e messa in atto una leva per rinforzare i reparti dell’esercito, vengono coinvolti proprio i suoi figli, entrambi salvati a suo tempo dagli abitanti di due distinti villaggi. Rientra in scena anche la bella Teospite, che ha avuto salva la virtú, perché il truce nocchiero è morto all’improvviso, prima di soddisfare le proprie brame. Eustachio viene rintracciato e rientra nei ranghi dell’esercito avendo come assistenti personali proprio i suoi figli, senza che nessuno dei tre si accorga dei loro legami. Ma, dopo una vittoriosa battaglia, la famiglia si maggio
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Sulle due pagine cattedrale di S. Maria Assunta. Due brani del ciclo di sant’Eustachio: la caccia prodigiosa; il ritorno nell’esercito e la condanna.
a un complesso di cantine dette crote («grotte»). A est del criptoportico, in epoca tardo-antica, venne realizzata una grande dimora aristocratica (domus) di impianto quadrato (30 x 30 m), situata nell’area oggi corrispondente all’aula della chiesa. Ebbene, questa domus fu probabilmente riutilizzata come primissimo luogo di riunione dalla comunità cristiana locale (domus ecclesiae).
Una chiesa a due poli ricompone. Accade infatti che una locandiera, Teospite in persona, assiste al riconoscimento reciproco dei propri figli, e quando ottiene un’udienza presso il generale, per avere un salvacondotto, si accorge che questi è proprio suo marito. Tuttavia, il tempo per festeggiare l’agognato ricongiungimento si esaurisce presto. L’imperatore Traiano muore e gli succede il «terribile» Adriano. Di fronte al rifiuto opposto da Eustachio alla richiesta di consacrare offerte agli dèi pagani, il sovrano lo condanna a morte insieme ai suoi familiari. Dapprima vengono dati in pasto a un leone, che si guarda bene, però, dall’aggredire un santo di tal fatta. Lo saluta con deferenza e si allontana. Adriano fa allora rinchiudere la famiglia nel ventre di un bue di bronzo, che viene reso incandescente da un grande rogo. Dopo tre giorni, i familiari vengono ritrovati senza vita, ma, nonostante il calore bruciante, i loro corpi sono miracolosamente intatti. Nemmeno un capello ha preso fuoco. Conclude Jacopo da Varagine nella sua Legenda aurea (1255-66): «Questo martirio avvenne il 12 ottobre sotto il regno di Adriano».
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Quel che è certo, l’edificio residenziale dette luogo tra il IV e il V secolo alla cattedrale paleocristiana. La sua aula aveva una struttura a navata unica, corrispondente alla navata centrale attuale. E, in asse alla chiesa principale, si presentava un battistero a sé stante che giunse a intaccare la struttura perimetrale del criptoportico. La presenza del battistero pose le premesse per la struttura a due poli della cattedrale romanica. Essa infatti unificò il battistero di S. Giovanni, corrispondente al corpo occidentale, e la chiesa di S. Maria, corrispondente alla nuova aula a tre navate. L’altare di S. Giovanni, a ovest, era destinato alle messe parrocchiali e, nel Quattrocento, era anche il luogo deputato agli annunci pubblici, al termine delle funzioni religiose. L’altare di S. Maria, a est, era invece in funzione della cattedra vescovile e del collegio dei canonici. Di conseguenza, la cattedrale venne a lungo menzionata con il titolo di S. Giovanni o di S. Maria, o con entrambi. Le modifiche intraprese nel 1494 su mandato del canonico Giorgio di Challant, posero fine a questa bipolarità, abolendo il corpo occidentale. Lo spazio dell’aula fu cosí allungato e venne finalmente eretta una «normale» facciata. Lo stesso titolo di S. Giovanni non fu piú adottato, e la
chiesa fu esclusivamente nota con il titolo principale di S. Maria. Nell’assetto interno, l’unico elemento integralmente tramandato è la cripta, che si presenta strutturata in due fasi. A seguito di un probabile crollo in corso d’opera, il settore piú recente si presenta edificato con il ricorso a massicci sostegni con abbondante materiale antico di reimpiego. Il coro orientale presenta tuttora il resto di un pregevole pavimento istoriato in mosaico policromo, con un’articolata composizione entro un campo rettangolare. La composizione, databile alla seconda metà del XII secolo, raffigura al centro la personificazione dell’Anno, contornata dalle vivaci allegorie dei Mesi e dai Fiumi del Paradiso. L’altra composizione musiva che si nota poco piú in là, con animali fantastici e la ripetizione del tema dei Fiumi paradisiaci, è stata eseguita in una fase successiva, e deriva probabilmente dal distrutto coro occidentale. Si deve inoltre ricordare che la cattedrale era anche impreziosita da vetrate istoriate già alla fine del XII secolo. Se i mosaici pavimentali figurati rientrano in una tradizione di lunghissimo corso, ben attestata in area italica, le vetrate rimandano piuttosto a consuetudini tipicamente oltralpine. Difatti, il primo grande complesso superstite di opere di tal fatta osservabile nella Penisola, situato nella basilica superiore di S. Francesco ad Assisi, si iniziò negli anni 1240-50, e vide dapprima l’importazione diretta degli elementi già eseguiti in area germanica, e poi l’arrivo in Umbria di maestri vetrai della Francia. Almeno un cinquantennio prima, la cattedrale di Aosta sfoggiava nell’abside centrale una serie di vetrate di alta qualità, con un programma iconografico basato sulla vita di Maria, la santa dedicataria. Ne rimangono due preziosi tondi conservati nel Museo del Tesoro, lungo il deambulatorio. Raffigurano la Morte e l’Assunzione della Vergine.
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Un precedente illustre Particolare delle pitture realizzate nella chiesa di S. Orso dalle medesime maestranze che furono poi coinvolte nella realizzazione del ciclo affrescato in S. Maria Assunta. In questa scena è ritratto il proconsole Egeas mentre ordina il martirio dell’apostolo Andrea.
La cattedrale romanica era inoltre dotata di un vasto ciclo pittorico ad affresco, intrapreso intorno al 1035, quando si era già conclusa la decorazione di S. Orso. L’analisi dei dipinti superstiti ha per giunta evidenziato che in cattedrale lavorò in prima battuta la stessa maestranza di S. Orso. Sono analoghe anche le attuali condizioni di fruibilità dei reperti. In entrambe le chiese, infatti, si è salvato parzialmente il fascione conclusivo sulle parti alte della navata centrale, a livello delle antiche finestre. Il nuovo soffitto quattrocentesco a volte, in entrambi i casi patrocinato da Giorgio di Challant, ha in larga parte eliminato i dipinti, ma ha anche creato nel sottotetto una fascia di rispetto, il
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che ha consentito l’individuazione e il restauro di una parte cospicua dell’opera, rimasta indenne da nuove scialbature sin dal XVI secolo. Gli estradossi delle stesse volte hanno poi creato le premesse di un camminamento che permette di osservare da vicino gli affreschi.
Il ciclo ritrovato
I dipinti di S. Orso, già noti nel 1944, sono stati dotati di un percorso di visita nel 1968, sostituendo le capriate con arcate metalliche. Il ciclo della cattedrale è invece un’acquisizione abbastanza recente. La sua esistenza è stata appurata nel 1979. Dopo i primi sondaggi effettuati nel 1985, è stata avviata una lunga campagna di
restauri. Liberati dall’intonaco che li occultava, gli affreschi sono stati resi fruibili nel 1992 con uno splendido percorso che, a differenza di S. Orso, ha mantenuto quasi integralmente le travature originali. Si può cosí ammirare l’unico ciclo pittorico superstite di una cattedrale romanica dell’XI secolo. Volgendo lo sguardo verso l’attuale facciata, si notano in primo luogo due Angeli in posizione simmetrica, colti nell’atto di rendere omaggio a una figura che va immaginata al centro, sull’asse della navata. Nella situazione attuale sembra che le due figure siano adagiate sui profili curvilinei della volta. Effettivamente esse erano situate ai lati di un arco che inquadrava maggio
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Visitiamo insieme Il viaggio alla scoperta della Aosta medievale trova il suo corollario naturale nella visita del Museo Archeologico Regionale, che, nella sezione dedicata all’avvento del cristianesimo, amplia l’orizzonte alle fasi medievali. MAR, MUSEO ARCHEOLOGICO REGIONALE Aosta, piazza Roncas 12 Orario aprile-settembre: tutti i giorni, 9,00-19,00; ottobre-marzo: tutti i giorni, 10,0013,00 e 14,00-18,00; chiuso 25 dicembre e 1° gennaio; gli orari sono soggetti a variazioni: si consiglia di verificarli contattando il numero telefonico Info tel. 0165 275902; e-mail: mar@regione.vda.it; www.regione.vda.it, www.lovevda.it Il chiostro dei canonici di S. Orso. 1132.
la scomparsa abside occidentale. Nel catino di quest’ultima, si può ipotizzare la presenza della figura centrale a cui gli Angeli rendevano omaggio. Poteva trattarsi di un Cristo benedicente o della Madonna in trono col Bambino. Lungo la navata, la lettura dei dipinti superstiti può partire da quelli eseguiti in prima battuta, seguendo il loro stesso percorso cronologico. Si inizia cosí dalla parete destra, procedendo da est. Dapprima si osservano alcuni episodi del Vecchio Testamento. Si riconoscono in particolare il prodigio del bastone di Aronne, che di fronte al faraone si tramuta in serpente, e tre delle 10 piaghe d’Egitto: la trasformazione in sangue delle acque del Nilo, l’invasione delle rane e la piaga dei tafani (mosche canine). Subito dopo si balza al Nuovo Testamento, con la parabola del ricco Epulone e del povero Lazzaro (Luca 16, 19-31). Si riconoscono la mensa del ricco, l’anima del povero condotta in cielo da un angelo,
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il ricco tra le pene dell’inferno. La parete sinistra, la cui lettura parte da ovest, è invece dedicata all’articolato «romanzo agiografico» di sant’Eustachio (vedi box alle pp. 9899), una leggenda di pura fantasia che godette di enorme popolarità nel Medioevo. Si tratta della piú antica versione figurata superstite.
Il gallo portacroce
I fregi sommitali presentano due serie di ritratti. A sinistra, in particolare, si osserva una sequenza di antenati di Cristo, con taluni inserti di immagini simboliche e favolistiche. Suddivisa su alcuni comparti, si ritrova infatti la fortunata narrazione della volpe che si finge morta. Segue il funerale celebrato dalle galline, il cui corteo vede in testa un gallo che regge la croce con la zampa. In generale, la narrazione raggiunge un effetto di vivacità e di complessità sorprendenti, con pochi elementi che risaltano su un fondo bicromo, e una tavolozza che si limita ad alternare 4 colori, oltre al
nero. Tanti dettagli e talune caratterizzazioni spiccano in modo davvero coinvolgente, con senso del pathos o con sottile umorismo. L’autore ringrazia per la cortese disponibilità Roberta Bordon, responsabile per i Beni Culturali della Diocesi di Aosta. V
Da leggere Charles Bonnet, Renato Perinetti, Aosta. I primi monumenti cristiani, Musumeci Editore, Quart 1986 Bruno Orlandoni, Architettura in Valle d’Aosta. Il romanico e il gotico. Dalla costruzione della cattedrale ottoniana alle committenze di Ibleto e Bonifacio di Challant. 1000-1420, Priuli & Verlucca Editori, Ivrea 1995 Sandra Barberi (a cura di), Medioevo aostano. La pittura intorno all’Anno Mille in Cattedrale e in Sant’Orso, Umberto Allemandi & C., Torino 2000
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«michaelica» Alato, vestito di corazza e con la spada in pugno, Michele è il santo guerriero per antonomasia. Una caratteristica che, non a caso, indusse i Longobardi a farne l’oggetto di una vasta e sentita devozione. Questa significativa «appropriazione» ha ispirato la manifestazione «Michaelica», in programma in uno dei luoghi simbolo della religiosità longobarda, l’abbazia di S. Pietro in Valle, a Ferentillo
Nel segno di Elena Percivaldi
dell’Arcangelo Monte Sant’Angelo (Foggia). La statua dell’Arcangelo Michele collocata sulla facciata del santuario a lui dedicato.
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«michaelica» La processione di san Gregorio a Castel sant’Angelo, olio su tavola di Giovanni di Paolo. 1465 circa. Parigi, Museo del Louvre. L’artista evoca la leggenda secondo la quale il papa chiese ai Romani di sfilare in processione per implorare l’aiuto della Vergine contro la terribile pestilenza che aveva colpito la città: l’apparizione, sul mausoleo di Adriano, dell’Arcangelo Michele che inguainava la spada annunciò che la preghiera era stata accolta.
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«M
i-ka-El», «Quis ut Deus»: «Chi è come Dio?». Custode di Israele, difensore della fede contro Satana e i suoi angeli ribelli, l’Arcangelo Michele trae le sue caratteristiche dal libro biblico dell’Apocalisse e, come tale, è rappresentato con due grandi ali, rivestito da un’ampia corazza e armato di spada o lancia, con le quali trafigge il drago che incarna Satana. Egli, infatti, è il princeps militiae caelestis, ossia il comandante che guidò l’esercito celeste contro gli angeli ribelli e li sconfisse, precipitandoli a terra. Equiparato a un santo, e guerriero per eccellenza, ha tra le sue prerogative anche la psicostasía, ossia la facoltà di soppesare le anime in vista del Giudizio Universale. Per queste sue caratteristiche, in tutto o in parte comuni anche ad alcune divinità precristiane (per esempio il classico Mercurio-Hermes) l’Arcangelo divenne figura assai popolare sia in Oriente – dove viene tradizionalmente rappresentato come un alto dignitario di corte –, sia in Occidente, che invece ne ha enfatizzato l’aspetto bellicoso. Qui a venerarlo furono in particolare i Longobardi, che gli dedicarono numerosi santuari e luoghi di culto in tutta Italia, elevandolo al rango di santo «nazionale».
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Le ragioni di questa predilezione sono molteplici e, per comprenderle, è necessario considerare brevemente la situazione religiosa dei Longobardi e il loro panorama culturale di riferimento prima e subito dopo il loro ingresso nella Penisola italiana. All’arrivo in Italia, nel 568, i Longobardi erano ancora in massima parte pagani: solo l’élite guerriera – ma la questione è assai controversa – poteva aver aderito al Cristianesimo nella sua versione ariana, professante la sola natura umana di Cristo e pertanto giudicata eretica sin dal concilio di Nicea del 325.
L’imprimatur della coppia regnante
Il lungo ed elaborato processo di conversione della gens Langobardorum ebbe invece inizio circa un quarantennio dopo l’ingresso nella Penisola e fu voluto e favorito dai sovrani Agilulfo (591-616) e Teodolinda – lei bavarese e cattolica – nel quadro delle iniziative da loro adottate allo scopo di consolidare il regno in vista della ripresa della politica espansionista ai danni di Bisanzio. L’avvio della conversione fu possibile grazie all’asse stabilito dalla coppia regnante con il papato – retto all’epoca da un uomo energico come Gregorio Magno
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«michaelica»
A destra Pavia, basilica di S. Michele Maggiore. Rilievo raffigurante l’Arcangelo sopra il portale della chiesa. XI-XII sec. In basso tremisse aureo di Cuniperto, sovrano dei Longobardi dal 688 al 700. Milano, Civiche Raccolte Archeologiche e Numismatiche. Al dritto, il busto del re con l’appellativo di rex; al verso, l’immagine di san Michele.
(590-604) –, nel tentativo di ottenerne l’appoggio nel delicato e sempre precario quadro politico interno, caratterizzato da frequenti ribellioni al potere centrale da parte dei duchi piú periferici. Un ruolo decisivo nel processo di evangelizzazione fu ricoperto dalla fondazione, durante tutto il VII e l’VIII secolo, di numerosi monasteri e chiese, e dal culto dei santi a cui erano intitolati. I Longobardi ne percepivano alcuni come affini alle divinità pagane che veneravano nel loro pantheon tradizionale e l’Arcangelo era proprio uno di questi: Michele, infatti, ricordava molto da vicino il Godan/Odino/Wotan al quale si erano votati in tempi remoti e non solo perché legato alla guerra e protettore di eroi e guerrieri, ma anche perché entrambe le figure erano considerate psicopompi, ossia accompagnavano le anime dei defunti nell’Aldilà.
Il «tempietto» e la chiesa «maggiore»
All’Arcangelo i Longobardi dedicarono edifici religiosi in tutta l’area da loro occupata. A Cividale, primo ducato fondato subito dopo il loro ingresso in Italia e centro di grande rilevanza nell’VIII secolo durante il ducato di Pemmone e del figlio (e futuro re) Astolfo, il «Tempietto longobardo» edificato da quest’ultimo – oggi oratorio di S. Maria in Valle – vanta tra gli altri gioielli artistici una lunetta della porta in mezzo alla quale, contornato da motivi ornamentali a grappoli e vitigni, è raffigurato il Cristo tra gli Arcangeli Michele e Gabriele. Il culto fu poi importantissimo nella capitale del regnum, Pavia, la cui chiesa maggiore («quae dicitur maior») era proprio la basilica di S. Michele, la piú grande delle quattro dedicate all’Arcangelo che col tempo sorsero in città. Considerata come templum regium, ossia chiesa regia, per la sua stretta dipendenza dal Palatium eretto già dal goto Teodorico nel VI secolo e restaurato dai Longobardi, la basilica di S. Michele fu sempre al centro della vita politica e delle vicende private dei sovrani ospitando battesimi di rampolli illustri e incoronazioni di re italici per tutto il Medioevo: da Berengario I (nell’anno 888) a Lodovico III (900), da Ugo (926) a Berengario II e al figlio Adalberto (950), da Arduino d’Ivrea (1002) a Enrico
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il Santo (1004), a Federico Barbarossa (1155). Subí non poche vicissitudini, dal saccheggio degli Ungari nel 924 all’incendio del 1004, fino al terribile terremoto del 1117, che la danneggiò al punto tale che dovette essere abbattuta. Al suo posto, fu costruito l’edificio che, salvo alcune modifiche, si può ammirare ancora oggi.
Il rifiuto del duca
Quanto il culto dell’Arcangelo fosse diffuso e sentito è dimostrato anche da un altro celebre episodio, riportato anch’esso da Paolo Diacono (lo storico longobardo al quale si deve l’Historia Langobardorum, fonte ancora oggi indispensabile per conoscere la storia del suo popolo dalle origini fino all’VIII secolo, n.d.r.) verificatosi appena prima della battaglia di Cornate d’Adda – nella pianura tra Milano e Bergamo –, che, nel 688, vide scontrarsi l’esercito di re Cuniperto, filocattolico e fautore di una pomaggio
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Capua, S. Angelo in Formis. Il ritratto dell’Arcangelo Michele nell’affresco absidale. XI sec.
litica di pacificazione con Bisanzio, e i duchi «tradizionalisti» del Nord-Est, capeggiati dal duca di Trento Alachis. Narra il cronista che Alachis, sfidato dal sovrano in persona, rifiutò di combattere con lui perché fra le lance del re aveva scorto l’immagine sacra dell’Arcangelo, sulla quale anch’egli aveva prestato giuramento. Dopo la battaglia, vinta da Cuniperto, il re edificò sul luogo un monastero dedicato a san Giorgio, altro santo guerriero già protettore della cavalleria bizantina e ora «arruolato» di diritto tra le fila dell’esercito longobardo. Nella Langobardia maior, uno dei santuari di spicco era poi la Sacra (o Chiusa) di S. Michele, a Susa, lungo il valico del Moncenisio. Si trattava della prima tappa in territorio italiano, venendo dalle Alpi, della cosiddetta Via Sacra Langobardorum, un itinerario percorso dai pellegrini che, dal monastero di MontSaint-Michel in Normandia, portava al santuario di S. Michele sul Gargano (di cui parleremo fra breve), per poi continuare fino alla Terra Santa. Oltre all’eremo («Spelonca di S. Michele») consacrato da san Colombano a Coli, vicino al monastero da lui fondato a Bob-
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bio, su terreni demaniali donati sempre da Agilulfo e Teodolinda – siamo nel 613 circa –, altre importanti chiese dedicate all’Arcangelo si trovano a Lucca, che fu capoluogo del ducato di Tuscia, e nel suo territorio.
Alla conquista della «minor»
Nella cosiddetta Langobardia minor, ossia l’area centromeridionale della Penisola controllata dai Longobardi, il culto dell’Arcangelo era ancor piú antico. Tra i primi a venerarlo fu l’imperatore Costantino, che, dopo l’Editto di Milano (313), fece costruire e dedicare un grande santuario a Costantinopoli, il Micheleion. Dall’Oriente, il suo culto penetrò in Occidente, dove la prima basilica eretta a suo nome fu probabilmente quella che sorgeva su un’altura al VII miglio della via Salaria, a Roma. A darvi ulteriore impulso furono le sue ripetute apparizioni – raccontate nel Liber de apparitione sancti Michaelis in monte Gargano, redatto intorno al IX secolo e giunto in differenti redazioni sia greche, sia latine –, l’ultima delle quali l’8 di maggio del 490 al vescovo di Siponto (presso Manfredonia, Foggia), Lo-
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«michaelica»
La Sacra (o Chiusa) di S. Michele. Il complesso sorse sul monte Pirchiriano, in Val di Susa, e all’origine della sua fondazione vi fu la miracolosa apparizione dell’Arcangelo, che avrebbe indotto l’eremita Giovanni Vincenzo a dedicargli un tempio. Il santuario divenne la stazione intermedia nel percorso micaelico che unisce il Gargano a Mont-Saint-Michel.
renzo Maiorano, per indicargli una grotta sul Gargano da consacrare al culto cristiano. Il santuario edificato sulla grotta, noto anche come «Celeste Basilica», si rivelò decisivo per lo sviluppo della devozione all’Arcangelo e per la sua diffusione in tutto l’Occidente europeo. Cent’anni piú tardi, nel 590, papa Gregorio Magno ribattezzò la Mole Adriana – lo tramanda Jacopo da Varagine nella Legenda Aurea – «Castel Sant’Angelo», proprio in omaggio a un’altra apparizione, stavolta a segnare la fine della tremenda pestilenza che stava mettendo in ginocchio Roma.
Il mausoleo dei duchi di Spoleto
Un’ulteriore apparizione, da poco documentata grazie a una scoperta d’archivio ancora inedita, sarebbe alla base anche della fondazione dell’abbazia di S. Pietro in Valle a Ferentillo, in Umbria, luogo destinato a ospitare
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S. Pietro in Valle
Una fondazione miracolosa Da sempre si è ritenuto che S. Pietro in Valle, l’abbazia della Valnerina fondata secondo la leggenda da Faroaldo I (o da Faroaldo II: su ciò esiste ancora confusione) e diventata mausoleo dei duchi longobardi di Spoleto, sorga sul luogo scelto da due eremiti siriaci, Giovanni e Lazzaro, venuti a ritirarsi, nel VI secolo, in Umbria, nei pressi del monte Solenne, nel cuore della Valnerina. Faroaldo sarebbe stato spinto a costruire il monastero da san Pietro, apparsogli in sogno. La leggenda di fondazione è confusa e controversa ed è stata oggetto di dibattito da parte di vari studiosi, in particolare Ansano Fabbi. Ma un manoscritto del 1697 da poco scoperto, l’Historia del Ducato di Ferentillo, assegna i fatti all’epoca di Liutprando e Faroaldo II (inizi dell’VIII secolo) e aggiunge un particolare importantissimo: a indicare il luogo esatto in cui erigere l’abbazia fu proprio l’Arcangelo, che una notte apparve a Lazzaro, solo e maggio
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Tevere
il mausoleo dei duchi di Spoleto (vedi box in queste pagine, sero sul monte Gargano per depredare il santuario del santo e vedi anche «Medioevo» n. 229, febbraio 2016). E spearcangelo, ma quando Grimoaldo si avventò contro di loro col lonche, ipogei e chiese rupestri consacrate al culto misuo esercito li sterminò tutti». caelico si trovano sparse un po’ in tutto il Centro Italia. Secondo una tradizione piú tarda, l’episodio, Sul Gargano e sul santuario i Longobardi finirono dell’anno 650, avvenne l’8 maggio: cosí, accanto alla fatalmente per concentrare la loro ormai tradizionale festività del 29 attenzione a partire dal 570 – anno a settembre – giorno della consacracui si fa convenzionalmente risalire zione della grotta a opera del MaioMARCHE Città di Castello la creazione del ducato di Benevenrano –, questa data entrò nel calenArezzo Pietralunga to a opera di Zottone –, quando tendario delle celebrazioni micaeliche MontoneGubbio Fabriano tarono ripetutamente di strappare come anniversario dell’apparizione TOSCANA Tolentino l’Italia meridionale ai Bizantini. Un dell’Arcangelo e della vittoria di Lago episodio cruciale da questo punto Grimoaldo. Trasimeno Perugia Nocera Umbra di vista fu l’attacco, iniziato nel 642 Assisi Deruta Santuario nazionale dal duca di Benevento Aione (641Spello Foligno Da questo momento in poi, proprio 642), contro gli Slavi che razziavara Campello Ne il friulano Grimoaldo, duca di Beneno la costa adriatica non lontano sul Clitunno Norcia Todi vento ma destinato a salire sul trono da Siponto. Messi in fuga dal suo Spoleto Cascia Orvieto Acquasparta Ferentillo (662-671), si sarebbe prodigato per successore Rodoaldo (642-647), gli Lago Cascata Amelia fare del luogo il santuario nazionale Slavi furono ben presto sostituiti dai di Bolsena Terni delle Marmore Narni del suo popolo, dando inizio a cospiBizantini, i quali, preoccupati per le Orte Rieti Viterbo cui lavori di ingrandimento e ristrutmire espansionistiche dei LongoLAZIO Lago di Vico turazione, che proseguirono alacrebardi nei confronti del territorio da mente con i suoi successori. Posto sotloro occupato, attaccarono il santo la giurisdizione del vescovo Barbato di Benevento, il tuario. Ecco la narrazione di Paolo Diacono: «Morto a santuario di S. Michele divenne il centro propulsore della Benevento il duca Rodoaldo, che aveva governato cinque anni, definitiva conversione al cattolicesimo dei Longobardi divenne duca suo fratello Grimoaldo e guidò il ducato per venancora pagani e, piú in generale, dell’evangelizzazione ticinque anni. (…) Era un grandissimo guerriero e famoso del territorio: un esempio può essere riscontrato nella in ogni luogo. In quel tempo i greci [ossia i Bizantini] giunABRUZZO
disperato per la perdita di Giovanni nel frattempo defunto, «nella sommità del Monte che lera incontro, qual poi da ciò è stato detto il monte di Sant’Angilo». Il testo contiene la trascrizione di alcune relazioni dell’abate Francesco Ferentilli, «segretario di Sant’Officio», curate dal pronipote Giovanni Mattia Silvani Ferentilli. Esso è conservato nell’Archivio della Soprintendenza archivistica e bibliografica dell’Umbria e delle Marche (a cui si deve la prima trascrizione, ancora inedita) e vi si legge anche che il duca Faroaldo II, memore «dell’apparitione dell’Angelo, volse che la grotte ove era stato à consolar Lazzaro fusse dedicata al suo nome, e nella sommità del Monte ove li apparve fece fare una cappella in honore, e memoria di essa apparitione». Dopo aver accresciuto e dotato il monastero di molti beni, vi si ritirò per vivere in pace gli ultimi anni, lasciando il potere (o piú probabilmente finendo deposto) nelle mani del figlio Transamondo II.
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Questa interessante scoperta d’archivio si aggiunge al ritrovamento della menzione, all’interno di una «collezione di notizie diverse» compilata nel 1804 dall’abate Natale Bonaiuti e parimenti inedita, del «vero» patrono di Ferentillo, l’Arcangelo (oggi è invece san Sebastiano). Nel manoscritto, conservato nell’Archivio Storico del Comune col titolo Il Ducato di Ferentillo, si legge infatti testualmente che «Protettore principale di tutto lo stato di Ferentillo è S. Michele Arcangelo, come da Decreto della Congregazione de’ Riti emanato li 23 giugno 1736 dal Card. Zondadaro [Antonio Felice Zondadari sr., 1665-1737] Pro-Prefetto». Entrambe le testimonianze non solo confermano l’importanza di S. Pietro in Valle per i Longobardi del ducato di Spoleto, ma suggerirebbero, proprio in virtú dell’apparizione in loco del santo protettore dell’intera gens Langobardorum, che l’abbazia della Valnerina possa aver rivestito all’epoca un ruolo di portata storica e morale ancora maggiore di quanto finora sospettato.
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eventi
«michaelica»
«Michaelica»
«Ritorno» in Valnerina Ai Longobardi e a san Michele Arcangelo è dedicata la prima edizione di «Michaelica», evento storico-rievocativo che si terrà dal 19 al 21 maggio a Ferentillo (Terni), nell’abbazia romanica di S. Pietro in Valle. Il programma, ideato dalla medievista Elena Percivaldi e organizzato da Pro Loco e Comune di Ferentillo, si aprirà venerdí 19, alle ore 15,00, con l’inaugurazione ufficiale e il Convegno dedicato alla figura dell’Arcangelo e al suo culto presso i Longobardi. Seguirà un incontro con il professor Marco Valenti (Università di Siena), che parlerà de «L’Archeodromo
di Poggibonsi: un viaggio nel tempo alla scoperta del Medioevo». Chiuderà la prima giornata un concerto di musica medievale del gruppo Winileod. Sabato 20 e domenica 21 sarà allestito, nel prato antistante la chiesetta dell’abbazia, il campo storico curato dai rievocatori del gruppo Fortebraccio Veregrense. Il programma prevede inoltre incontri, conferenze, un mercato medievale ed editoriale, spettacoli di combattimento, escursioni e trekking, visite guidate all’Abbazia e al Museo delle Mummie, una cena longobarda (su prenotazione) e degustazioni di birre e prodotti tipici. Chiude la manifestazione il concerto dell’Ensemble Sangineto (domenica, ore 17,00). L’evento si avvale del patrocinio istituzionale di Regione Umbria e Comune di Ferentillo e gode del patrocinio culturale di Associazione Italia Langobardorum, Centro Studi Longobardi, Festival del Medioevo, Associazione Culturale Italia Medievale, Rievocare, Anticae Viae. Media partner: «Medioevo» e Radio Francigena. Info www.michaelica2017.wordpress.com; e-mail: michaelica.ferentillo@gmail.com
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grotta della Morgia Sant’Angelo di Cerreto Sannita, detta anche «della Leonessa», trasformata in una cappella dedicata al culto dell’Arcangelo intorno all’anno 700. L’importanza del luogo non sarebbe diminuita nemmeno dopo la formale caduta del regno: non solo la sua frequentazione da parte dei fedeli non conobbe sosta, ma Normanni, Svevi e Angioini lo utilizzarono a loro volta come formidabile elemento di coagulazione nella altrimenti precaria situazione politica del Mezzogiorno medievale. Percepita come apotropaica da parte dei Longobardi, la funzione del loro santo «nazionale» risulta evidente dalla presenza costante dell’Arcangelo – con croce, scudo e legenda –, sulle monete coniate da Cuniperto e dai suoi successori Ariperto II (702-712) e Liutprando (712-744), sicché san Michele finí per sostituire l’effigie della Vittoria sul verso non solo dei
A sinistra Ferentillo (Terni). L’abbazia di S. Pietro in Valle, la cui prima fondazione viene attribuita, su basi perlopiú leggendarie, a due eremiti di origine orientale, Giovanni e Lazzaro, che vi avrebbero posto mano nel VI sec. Nelle sue forme attuali, il complesso è l’esito di numerosi interventi, ma è comunque evidente la forte impronta romanica. A destra Nicciano di Ferentillo, chiesa di S. Michele Arcangelo. Particolare di un affresco che ritrae il santo.
tremissi del regno, ma anche dei denari del ducato di Benevento. Da lí, con le ali spiegate e la spada sguainata, avrebbe ben presto «conquistato» l’Europa: come scrive lo storico Gilles Jeanguenin, «Da Roma e dall’Italia meridionale la devozione all’Arcangelo si diffuse verso l’Est in epoca carolingia, lungo l’itinerario dei monaci celti fino alle Alpi bavaresi, di cui i santuari dedicati a san Michele occupano le cime». Lungo la cosiddetta Via Langobardorum, il principe degli angeli svolse dunque l’importante funzione di cerniera tra Oriente e Occidente portando con sé, oltre ai vessilli delle milizie cristiane, anche l’eredità delle antiche divinità del mondo pagano. F maggio
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CALEIDO SCOPIO
UN ANTROPOLOGO NEL
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Il mese dell’amore L
e feste popolari di maggio hanno un sapore allegro, oltre che antico. Se il primo viene dal fatto che ci troviamo nel cuore della stagione primaverile, l’atmosfera «antica» sembra provenire da quegli elementi vegetali che non hanno un tetto cronologico: coroncine di fiori che ornano il capo di «vergini» fanciulle, frasche fiorite portate in processioni laiche e religiose, alberi innalzati nelle piazze di borghi e di villaggi. Soprattutto e ovunque, fiori. Ma le due cose – allegria e antichità – forse coincidono, perché la gioia è una risposta fisiologica umana al rinascere della terra. Una risposta che diviene, grazie ai processi culturali, un vero e proprio elemento rituale, che si oppone all’angoscia suscitata dal rischio che i frutti della terra possano andare distrutti. Cosí, in questo mese, l’Europa – sia medievale che contemporanea – si colora di abiti, fiori, danze all’aria aperta piú o meno circolari, battaglie, corse, risate. Perché ogni delicato «passaggio» stagionale viene ricapitolato da tenzoni, sfide, uomini e donne che si contrappongono – anche nell’amore, la piú nota «sfida» medievale –, vivi e morti, stregoni e benandanti, tutto in un concerto di risate, canti e musica che intendono vincere l’oscurità.
L’incontro fatale «E quale, annunziatrice de li albori, / l’aura di maggio movesi e olezza, / tutta impregnata da l’erba e da’ fiori», scriveva Dante nel suo Purgatorio. Lo stesso sommo poeta – vuole un po’ fantasiosamente Boccaccio nel suo Trattatello in laude di Dante – incontrerà Beatrice in questo giorno: «Folco Portinari, uomo assai orrevole in que’ tempi tra’ cittadini, il primo dí di maggio aveva i circustanti vicini raccolti nella propia casa a festeggiare, infra li quali era il già nominato Alighieri». Prima di lui, il trovatore provenzale Rambaldo di Vaqueiras (1165-1207) in una sua estampida (poesia cantata accompagnata da uno strumento), intitolata appunto Kalenda maya, recita disperato alla sua donna, anch’ella di nome Beatrice: «Calendimaggio né foglie di
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faggio né canti di uccelli, né fiori di gladiolo mi sono graditi, o nobile e felice signora». Quest’aura di maggio, questo anelito alla vita, viene simboleggiata da elementi vegetali in genere chiamati Maggio o Albero di maggio, Re e Regina, abati e in vari altri modi. In una lettera scritta intorno al 1244, il vescovo inglese Grossatesta proibisce al suo clero di apparire in quel tipo di rappresentazioni che vengono definite «Portare il Maggio» – ludos quos vocant Inductionem Maii – riferite alle celebrazioni primaverili di cui parliamo. Appena qualche anno prima un altro vescovo, stavolta maggio
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di Worcester, Walter di Chanteloup, istruisce il suo clero sulla partecipazione ai ludos de Rege et Regina e proibendo forse anche un’esposizione di corna di montone poste sulla Ondas. sommità Martíndell’albero Codax, o del palo di Maggio.
Cantigas de Amigo Spettacoli regolarmente Vivabiancaluna Biffi, Pierre retribuiti Hamon Come ancora ai nostri Arcana (A390), 1 CD giorni, questo tipo di celebrazioni rituali aveva una forte propensione alla www.outhere-music.com
spettacolarizzazione – come in fondo la hanno tutti i rituali – e alla drammatizzazione. Anzi, dovevano essere veri e propri spettacoli, visto che già Grossatesta parlava
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Allegoria della primavera, tempera su tavola di Sandro Botticelli (al secolo Alessandro Filipepi). Firenze, Galleria degli Uffizi. Universalmente riconosciuto come opera del Botticelli, il dipinto è tuttavia di controversa datazione. Secondo lo storico dell’arte tedesco Hermann Ullmann, si tratterebbe dell’ultima opera eseguita dall’artista, prima del viaggio a Roma (1481). Per Ronald W. Lightbown, la tavola potrebbe invece essere stata realizzata nel 1482, in occasione delle nozze di Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici: la composizione presenta infatti un’allegoria della Venere degli Umanisti, oroscopo dello stesso Lorenzo, da quanto risulta da una lettera di Marsilio Ficino.
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CALEIDO SCOPIO Miniatura raffigurante un’allegoria della primavera, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. nei centri abitati nel giorno dei santi Filippo e Giacomo (3 maggio). La cerimonia faceva disertare la messa di precetto e, inoltre, le piante venivano rubate (ritualmente?) e ne seguivano «liti, vulgi clamor, bellicorum instrumentorum vehemens strepitus», oltre ad «atti disonesti» e tanti altri «mala». Ricordiamo, di passaggio, che l’inizio della lotta armata tra Cerchi e Donati, a Firenze, risale a una zuffa avvenuta proprio nel Calendimaggio del 1300, quando Ricoverino de’ Cerchi ne ebbe il naso tagliato di netto. Ancora, in una visita apostolica ad Alba del 1584, si legge: «Si levi l’abuso che in questa diocesi è grande di drizzar li arbori che si chiamano Maggi alle feste delle Calende di Maggio, che oltre causa di molti disordini, risse, contentioni et scandali, da segno piú presto di una pagana superstizione che di attione cristiana e in vece loro si drizzino delle croci in tutti i capi delle strade pubbliche». Sappiamo, infine, che, pochi anni piú tardi, a Milano appare «el Mag», un palo con in cima una frasca.
Non è tempo di matrimoni
di «ludos quos vocant miracula». Probabilmente, già nel Medioevo, cominciarono a parteciparvi anche artisti professionisti, dal momento che, nel 1375, ritroviamo un atto di pagamento delle autorità del villaggio di King’s Lynn, nel Norfolk, a un menestrello e a un commediante, definiti entrambi ludenti, e, nel 1422 e 1424, gli abitanti di Lydd ricevevano un premio in denaro da quelli di New Romney, nel Kent, «quando giunsero con il loro Maggio». Le cerimonie comprendevano anche la figura di un Abate del Buon Accordo, simile a quel Signore del Malgoverno che si incontrava nelle celebrazioni invernali legate a san Nicola e, almeno dalla seconda metà del Quattrocento, sono testimoniate pantomime delle storie di Robin Hood. La Chiesa fu sempre contraria a queste pratiche arboree, almeno dal Concilium Carthaginense del 397, quando si scagliò contro il culto degli alberi e la conservazione dei boschi sacri in cima alle colline. Tuttavia, tali usanze dovettero superare indenni il Medioevo, se in un sinodo milanese del 1579 si parla ancora di erezione dei «magi»
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Eppure, in questo mese dedicato all’amore, non mancano i pericoli. Quelli legati agli spiriti o alla Notte di Valpurga, quando streghe e stregoni volano sul monte Brocken, reso famoso dal Faust di Goethe, innanzitutto, ma anche pericoli che riguardano la vita sessuale e soprattutto i matrimoni: «Non a nozze di vedove né di fanciulle quei giorni s’addicono; e chi prese marito, visse poco», scriveva già Ovidio nei suoi Fasti e, continuando, «nel mese di maggio si sposano le male femmine, dice il volgo». Già i Romani in questo mese celebravano la festa dei Lemuria, per allontanare gli spiriti della notte, i lemures (o larvae), che perseguitavano i vivi fino a portarli alla follia. Credenze sopravvissute per secoli e sepolte dal velo sottile della dedicazione del mese di maggio alla Vergine. Il 31 maggio, giorno della Visitazione in cui i cristiani commemorano la visita di Maria a Elisabetta incinta di san Giovanni, le nozze sono assolutamente sconsigliate. Perché, forse, in un mese in cui gli dèi e le potenze della natura si accoppiano, gli stessi favori non sono concessi ai comuni mortali. Claudio Corvino maggio
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Lo scaffale Alessandro Barbero Costantino il Vincitore Salerno Editrice, Roma, 852 pp.
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vicini – primo fra tutti, lo scrittore e vescovo Eusebio di Cesarea, che fu autore di una Vita Constantini – oppure da fonti tarde e poco affidabili. Hanno accettato un Costantino in larga a parte «costruito» oppure ne hanno costruito uno a loro volta, scegliendo le fonti che piú si confacevano al proprio
Pochi personaggi hanno segnato la loro epoca come Costantino, il primo imperatore cristiano. E pochi sono stati circondati a posteriori da un simile alone mitico, leggendario, quasi mistico. Un alone che, nel corso dei secoli, ha di fatto sottratto allo sguardo di storici e studiosi la vicenda umana di un sovrano su cui molto si è scritto e sul quale, però, esistono pochissime certezze documentarie. Esiste, viceversa, pensiero. Alessandro una vulgata, creatasi Barbero, docente quando già Costantino di storia medievale aveva trionfato sui all’Università suoi avversari e del Piemonte stretto un’alleanza Orientale, in questo indissolubile con documentatissimo la Chiesa cristiana. studio sul primo Emerge allora imperatore cristiano l’imperatore da – intitolato non prediletto dal Dio del casualmente cristianesimo, guarito Costantino il dalla lebbra grazie al Vincitore, invece del battesimo, il sovrano classico Costantino dell’«In hoc signo il Grande – sceglie Ondas.Molti Martín Codax, invece di allontanarsi vinces». storici de Amigo si Cantigas sono uniformati dalle tradizioni Vivabiancaluna Hamon a questa immagineBiffi, Pierre e, soprattutto, Arcana (A390), monolitica e nata 1 CD dalle narrazioni www.outhere-music.com dalla ricca apologetica convenzionali sul costantiniana, dagli sovrano che aprí una scritti di autori a lui nuova era per l’impero.
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Barbero lo fa ripartendo dalle fonti prima di tutto coeve e poi anche piú tarde, fonti che non si limitano a testi e scritti, ma sono arricchite da tutto il corpus disponibile attorno all’epoca costantiniana: iscrizioni, leggi, pronunciamenti in ambito religioso, monete. Questi materiali vengono posti all’attenzione del lettore senza voler trarre conclusioni a ogni costo, anche quando i dati a disposizione sono mancanti o infidi. Barbero non vuole costruire un nuovo mito costantiniano, né è interessato a distruggere quelli preesistenti. Vuole però porre l’attenzione sulle molte ambiguità e lacune che attraversano l’era costantiniana. Su come manchino conferme anche su vicende che vengono date per assodate, come la fondazione della basilica del Laterano il giorno dopo la vittoria su Massenzio oppure l’editto di Milano del 313. Le vicende costantiniane, viceversa, vanno analizzate con attenzione e prudenza, perché ambigue,
sfuggenti, come ambiguo e sfuggente fu il loro protagonista. Un uomo crudele, sanguinario, capace di sterminare nemici e anche familiari e di ricompensare con ricchezze enormi chi gli fu fedele fino alla morte. Un uomo che è però passato alla storia quasi unicamente come l’imperatore sacerdote e santo. Fu piú di tutto, ci avverte Barbero, un vincitore, anzi «il Vincitore», come Costantino stesso scelse di chiamarsi una volta vinto Licinio, l’ultimo avversario. E, come usa chi vince, riuscí in un certo modo a nascondere la sua vicenda storica dietro le coltri del mito. Roberto Roveda Régine Pernoud Eloisa e Abelardo
Jaca Book, Milano, 210 pp.
20,00 euro ISBN 978-88-16-41394-8 www.jacabook.it
Torna in libreria (siamo ormai alla terza edizione italiana) il saggio che la medievista francese Régine Pernoud (1909-1998) volle dedicare a una delle coppie dell’età di Mezzo divenute nel tempo celeberrime, ben oltre i confini della cerchia degli addetti ai lavori.
L’amore fra Pietro Abelardo – insigne filosofo e teologo – e la bellissima Eloisa – colta nipote del canonico Fulberto – ha infatti appassionato schiere infinite di lettori, colpiti soprattutto dall’esito tragico della vicenda, che, lo ricordiamo, si svolse a cavallo fra l’XI e il XII secolo.
La trattazione si basa sull’Historia calamitatum scritta dallo stesso Abelardo e sulla raccolta delle lettere scambiate con Eloisa: documenti attraverso i quali Pernoud ricostruisce lo svolgersi dei fatti, cercando al tempo stesso di far rivivere al lettore l’atmosfera nella quale essi ebbero a prodursi. Un’operazione che, a quasi mezzo secolo dalla sua prima presentazione, mantiene intatta la sua efficacia. Stefano Mammini
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