UN PASSATO DA RISCOPRIRE
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ISLAM
Il vino, «artifizio» di Satana?
GUERRA D’ASSEDIO Istruzioni per l’uso
IL DE AMORE Un best seller del Medioevo
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RICCARDO CUOR DI LEONE UNA NUOVA IMMAGINE
IN EDICOLA IL 3 MARZO 2018
Mens. Anno 22 numero 254 Marzo 2018 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
MEDIOEVO n. 254 MARZO 2018 VINO E ISLAM DE AMORE VERGINE GUERRIERA GUERRA D’ASSEDIO DOSSIER RICCARDO CUOR DI LEONE
CU R O ICC R AR DI D LE O O NE
EDIO VO M E
SOMMARIO
Marzo 2018 ANTEPRIMA
Dossier
50
PROVERBI Toccare ferro
5
MUSEI Qui nacque Arnolfo
6
ARCHEOLOGIA Cantina con sorpresa
10
MOSTRE Uniti nelle differenze
14
APPUNTAMENTI Salvare l’antico con un occhio al futuro Medioevo Oggi Tutti insieme, con Passione... Il giorno dei penitenti corridori L’Agenda del Mese
18 20 22 23 28
Riccardo I d’Inghilterra CUOR DI LEONE 79 di Aart Heering
GUERRA D’ASSEDIO Datemi una scala
72
di Flavio Russo
STORIE
COSTUME E SOCIETÀ
RELIGIONE Il vino e l’Islam Il Profeta e la bevanda proibita
VERGINI GUERRIERE Le imprese del gentil sesso
LETTERATURA
62
di Marco Di Branco
40
Il De amore
Amore: istruzioni per l’uso di Alessandro Bedini
di Elisabetta Gnignera
62
50
40
CALEIDOSCOPIO CARTOLINE Medioevo sul fiume
104
LIBRI Lo scaffale
110
MUSICA Una svolta epocale
112
MEDIOEVO n. 254 MARZO 2018
CU R O ICC R AR DI D LE O O NE
MEDIOEVO UN PASSATO DA RISCOPRIRE
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VINO E ISLAM DE AMORE VERGINE GUERRIERA GUERRA D’ASSEDIO DOSSIER RICCARDO CUOR DI LEONE
GUERRA D’ASSEDIO
19/02/18 18:15
MEDIOEVO Anno XXII, n. 254 - marzo 2018 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Redazione: Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione: Alessia Pozzato Amministrazione: Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it Hanno collaborato a questo numero: Alessandro Bedini è giornalista e scrittore. Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Marco Di Branco è assegnista di ricerca all’Università degli Studi di Padova. Elisabetta Gnignera è studiosa di storia del costume medievale e rinascimentale italiano. Aart Heering è giornalista. Mila Lavorini è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Chiara Parente è giornalista. Stefania Romani è giornalista. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Tiziano Zaccaria è giornalista.
Axia Art: p. 15 (alto e basso, a sinistra); Musée royal de Mariemont/M. Lechien: p. 15 (basso, a destra); Bibliothèque municipale de Lyon: p. 16 (alto); Furusiyya Art Foundation, Vaduz: p. 16 (basso); Dommuseum Hildesheim/Florian Monheim: p. 80; The British Library Board: pp. 82 (sinistra, in alto e in basso), 96; Museum Catharijneconvent, Utrecht: p. 86; Rosgartenmuseum, Konstanz: p. 87; Oberösterreichisches Landesmuseum, Linz: p. 91 (alto); Nationalmuseet, Copenaghen: p. 91 (basso); Musée Lorrain, Nancy/Michel Bourguet: p. 92; Mairie de Bordeaux/Florian David: p. 93 (alto); Furusiyya Art Foundation/Noël Adams: p. 93 (basso); Historisches Museum der Pfalz, Carolin Breckle: p. 97; Akg-images/ Erich Lessing: p. 98; Christian Fernández Gamio: pp. 100/101; Faber Courtial, Darmstadt, per Historische Museum der Pfalz, Speyer: p. 101; Musée de la Chartreuse, Douai/Daniel Lefebvre: p. 102; The David Collection, Copenhagen/Pernille Klemp: p. 103 (basso) – Shutterstock: pp. 4 (alto), 71, 72/73, 76 (alto), 77 – Doc. red.: pp. 4 (basso), 7 (alto), 23, 64/65, 66-67, 69, 70 (destra), 81, 82 (destra, in alto e in basso), 85, 88, 94/95 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 6, 7 (basso, a sinistra). 8-9, 18 – Cortesia Inrap (Institut national de recherches archéologiques préventives): Claude de Mecquenem: p. 10, 12; Guillaume Martin: p. 11 – Cortesia A.S.G.S. Associazione Sammarinese Giochi Storici, Repubblica di San Marino: p. 20 – Cortesia degli autori: pp. 22, 72 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 40-44, 47, 48/49, 56, 58, 62/63, 90; Album: pp. 45, 53-55; Leemage: pp. 46/47, 50/51, 57, 59-61, 64, 68, 74 (basso, a sinistra); Rue des Archives/ Tallandier: p. 52 – DeA Picture Library: p. 70 (sinistra) – Flavio Russo: pp. 74 (alto e basso, a destra), 75, 76 (basso) – Archivi Alinari, Firenze: BnF, Dist. RMNGrand Palais/image BnF: pp. 84/85 – Cortesia Ufficio di Promozione turistica della Provincia di Novara: pp. 104, 105-109 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 89, 100, 100/101, 104. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.
Illustrazioni e immagini: Cortesia Ufficio Stampa mostra: pp. 102/103, 103 (centro); Dennis Gilbert: copertina (e p. 79); Pénicaud: pp. 14/15; G. Antaki/
Editore: MyWay Media S.r.l.
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In copertina Londra. Particolare del monumento equestre in onore di Riccardo Cuor di Leone. 1860.
Direttore generale: Andrea Ferdeghini Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Pubblicità: Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Direzione, sede legale e operativa: Via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 0069.6369
Nel prossimo numero storie
protagonisti
In viaggio con Marco Polo
Opicino de Canistris
costume e società
dossier
L’osculum infame, fra sabba e parodia
Viterbo La città dei papi
IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini
Toccare ferro
L’
espressione «toccare ferro» si usa per scongiurare una iattura o un pericolo e può essere accompagnata dal gesto di toccare concretamente un oggetto di ferro. In realtà, si dovrebbe dire «toccare ferro di cavallo» e l’origine di questa superstizione è legata alle vicende agiografiche di san Dunstano, consigliere di Etelstano, re di Wessex e Mercia, quando l’Inghilterra non era ancora stata sottomessa dai Normanni di Guglielmo il Conquistatore. Allontanato dalla corte perché accusato di magia, Dunstano decise di entrare in monastero e divenne abate di Glastonbury. Caduto ancora una volta in disgrazia presso il nuovo sovrano, Eadwig, Dunstano fu esiliato nelle Fiandre, da dove fu richiamato per divenire vescovo di Worcester, di Londra e, infine, nel 960, arcivescovo di Canterbury. In quest’ultima veste promosse la riforma dei costumi ecclesiastici, con l’appoggio di re Edgardo il Pacifico. Questi, divenuto re d’Inghilterra nel 959, fu incoronato solo nel 973 – appena due anni prima della morte –, nel corso di una celebrazione solenne, intesa come culmine del suo regno e che è tuttora alla base della cerimonia di incoronazione inglese.
Come spesso accade per l’epoca dei fatti, in cui l’agiografia si confonde con racconti fantastici, la vicenda biografica del santo è parzialmente leggendaria e si narra, per esempio, che un giorno il diavolo si sarebbe presentato sotto mentite spoglie a Dunstano – il quale aveva nel frattempo intrapreso la carriera di maniscalco –, pregandolo di ferrargli il piede porcino. Il santo, però, intuí subito che il misterioso cliente non era altro che il demonio e gli riservò il trattamento che meritava. Dopo averlo legato e bloccato al muro con una catena, forgiò per lui un ferro su misura e glielo inchiodò a suon di martellate sul piede. Il diavolo iniziò a urlare sotto i colpi, ma il santo non smise di battere finché il demonio non chiese pietà. Furbescamente, Dunstano promise allora di rimuovere il ferro, ma, come contropartita, si fece promettere dal demonio che non sarebbe entrato mai piú in un luogo in cui fosse stato esposto un ferro di cavallo. Ecco perché, nel Medioevo, alle porte delle abitazioni si incontrava sovente appeso un ferro di cavallo, oggetto che viene ancora oggi ritenuto un portafortuna. Attenzione, però: per ottenere l’effetto sperato, il ferro deve essere inchiodato con i due bracci rivolti verso l’alto! Miniatura raffigurante san Dunstano che afferra il diavolo con le sue tenaglie da maniscalco arroventate, dai Decretali Smithfield (o «di Gregorio IX»). 1340 circa. Londra, British Library.
ANTE PRIMA
Qui nacque Arnolfo
MUSEI • Nel borgo del Senese che diede i natali a uno dei piú fervidi ingegni del
Medioevo italiano si possono tornare ad ammirare i tesori delle collezioni di arte sacra, ora confluite in un nuovo e articolato complesso museale
S
ituato su uno stretto sperone roccioso, a pochi chilometri da San Gimignano, Colle di Val d’Elsa divenne libero Comune già nel XII secolo, sebbene venisse ripetutamente conteso tra Siena e Firenze. Quest’ultima lo conquistò definitivamente agli inizi del Trecento, apportando inedite influenze in campo artistico, dove si cominciò a respirare un clima fresco. Nel Medioevo, grazie allo sfruttamento del fiume Elsa attraverso un sistema di canali, il borgo crebbe urbanisticamente ed economicamente con il fiorire di cartiere e vetrerie, fino a diventare il A destra Colle di Val d’Elsa (Siena). Una sala del Museo di San Pietro.
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marzo
MEDIOEVO
piú importante centro italiano nella produzione di cristallo. Il villaggio, inoltre, è noto per avere dato i natali, nel 1240, ad Arnolfo di Cambio, prolifico scultore e architetto che, tra l’altro, cambiò il volto della Firenze medievale con la costruzione dei piú significativi edifici, come la Cattedrale, il palazzo della Signoria e l’ultimo cerchio di mura che circondavano il capoluogo toscano. Divenuto sede episcopale nel 1592, Colle introduce una nuova stagione artistica con la costruzione di importanti complessi edilizi, in parte commissionati dalla potente famiglia Usimbardi, per arrivare, in seguito, ai linguaggi sperimentali tra Otto e Novecento, lanciati da eminenti esponenti colligiani del mondo culturale.
Arte antica e moderna Dopo un ventennio di chiusura, ha ora riaperto i battenti il Museo di San Pietro, istituzione nata dalla sinergia tra una pluralità di realtà locali e dalla fusione di arte sacra antica con In alto il tesoro di Galognano, composto da oggetti in argento databili al VI sec. Nella pagina accanto, in alto Colle di Val d’Elsa (Siena). Il Palazzo Pretorio.
MEDIOEVO
marzo
Il Tesoro di Galognano Nel 1963, un contadino, in località Pian dei Campi (Poggibonsi), durante la costruzione di una porcilaia, scopre una pila di straordinari manufatti in argento. Si tratta di un corredo eucaristico – composto da quattro calici, un cucchiaio e una patena –, risalente al VI secolo e che fu donato alla chiesa da due signore di origine ostrogota come risulta da alcune iscrizioni leggibili sugli oggetti: HIMNIGILDA e SIVERGERNA. La quanto mai anomala posizione degli oggetti al momento del rinvenimento suggerisce che essi fossero stati chiusi in un sacco, consumatosi con il tempo, poi nascosto, cosí da impedirne il furto e la profanazione. L’occultamento del corredo dovette avere luogo in quel turbolento periodo che vede la Toscana subire i pesanti contraccolpi della guerra greco-gotica e della successiva discesa dei Longobardi. Dopo una serie rocambolesca di eventi, il Tesoro, viene prima restaurato dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e poi trasferito alla Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Siena e da lí al Museo Diocesano di Colle di Val d’Elsa, oggi confluito nel complesso museale di San Pietro. Qui sotto Adorazione dei Magi, affresco di Giovanni Maria Tolosani facente parte in origine di un tabernacolo. 1522. Colle di Val d’Elsa, Museo di San Pietro.
Errata corrige con riferimento all’articolo All’ombra della grande isola (vedi «Medioevo» n. 253, febbraio 2017) ringraziamo un nostro attento lettore per averci segnalato l’errata identificazione del falco che compare nella foto di p. 63: il rapace in questione, infatti, è un falco sacro (Falco cherrug), mentre un falco pellegrino (Falco peregrinus) è quello di cui pubblichiamo la foto. Dell’errore ci scusiamo con i nostri lettori.
7
ANTE PRIMA Qui sotto due particolari della Natività della Vergine, opera del pittore colligiano Cennino Cennini. Fine del XIV-inizi del XV sec.
DOVE E QUANDO quella moderna e contemporanea, combinate nel nuovo percorso, frutto dell’unione del Museo Civico e di quello Diocesano con la Collezione del Conservatorio di San Pietro, che ne è anche divenuto la sede. L’itinerario, costituito da pitture del Trecento e Quattrocento senese – tra le quali spiccano la Maestà del Maestro di Badia a Isola e la Natività della Vergine di Cennino Cennini –, insieme al corpus delle Collezioni A destra Colle di Val d’Elsa. Palazzo Campana. Nella pagina accanto Maestà (particolare), dipinto su tavola del Maestro di Badia a Isola. Fine del XIII sec.
8
Fusi e Bilenchi, intende raccontare la storia del luogo, anche con l’aiuto di «stazioni interattive», che offrono al visitatore la possibilità di conoscere opere coeve, conservate altrove o raccogliere informazioni sull’identità di Colle la cui prima testimonianza cristiana è il cosiddetto Tesoro di Galognano: un corredo di oggetti sacri del VI secolo, che comprende anche un calice con inciso l’emblema del Sacro Chiodo,
Museo di San Pietro Colle di Val d’Elsa, via Gracco del Secco, 102 Info e-mail: info@collealtamusei.it; www.collealtamusei.it reliquia conservata nel Duomo del paese (vedi box a p. 7). Una sezione museale è rappresentata dalla galleria dei ritratti che espone il busto di Arnolfo di Cambio, accanto a quelli di alcuni membri degli Usimbardi. Religione e politica si intrecciano in un dialogo che sottolinea eventi storici, accanto a espressioni della cultura locale, raccontato nelle sale del museo e nella città, in un percorso integrato che si svolge per i vicoli del castello, per terminare al Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli». Mila Lavorini marzo
MEDIOEVO
MEDIOEVO
marzo
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ANTE PRIMA
Cantina con sorpresa ARCHEOLOGIA • A Saint-Paul-Trois-Châteaux, nella Francia sud-orientale, la
comunità ebraica fu, nel Medioevo, una componente importante della popolazione locale. Recenti indagini hanno individuato una possibile traccia di quella presenza
S
aint-Paul-Trois-Châteaux è una cittadina che conta oggi poco meno di 10 000 abitanti, situata nel dipartimento della Drôme (Francia sud-orientale). A partire dal XIII secolo, ospitò una consistente comunità ebraica, composta da una settantina di famiglie, di cui recenti indagini condotte dall’Inrap (Institut national de recherches archéologiques préventives) sembrano avere rivelato un’importante testimonianza: l’esplorazione della cantina di un edificio del centro storico suggerisce infatti che la struttura sotterranea abbia funzionato in origine come mikveh, vale a dire come ambiente destinato alle abluzioni rituali previste dalla religione ebraica. Gli Ebrei di Saint-Paul vivevano nel
In questa pagina Saint-Paul-TroisChâteaux (Drôme, Francia). L’esterno dell’edificio in cui è compresa la cantina interpretata come mikveh e due immagini della struttura, che provano il suo utilizzo per la conservazione del vino.
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marzo
MEDIOEVO
Saint-Paul-TroisChâteaux (Drôme, Francia). Una foto zenitale della cantina, che ne evidenzia il parziale e perenne allagamento.
cuore del borgo, fra la piazza del mercato e il palazzo episcopale, in un rione che conserva traccia della loro presenza nel nome di una delle sue vie, nota appunto come rue Juiverie (termine che, derivando da juif, ebreo, indicava il quartiere ebreo di un agglomerato urbano). La zona era delimitata da varie strade, che ogni sera venivano chiuse. Fino al XIV secolo, la comunità poté prosperare senza problemi particolari. Nei primi decenni del Quattrocento, però, la situazione mutò bruscamente e, nel 1486, a Saint-Paul si contavano ormai solo tre famiglie di Ebrei.
Acque perenni Ora la presenza nel quartiere della Juiverie di una cantina perennemente inondata dall’acqua viene interpretata dagli archeologi come la prova della possibile esistenza di un mikveh. La struttura, che presenta una copertura a volta ed è parzialmente interrata, ha dimensioni contenute – 7 x 4 m – e fu realizzata in corrispondenza
MEDIOEVO
marzo
di una risorgiva. La vasca per le abluzioni doveva essere poco profonda e l’insieme del complesso fu realizzato seguendo le prescrizioni relative ai mikvaot (plurale di mikveh) in epoca medievale.
L’aspetto attuale della costruzione è l’esito di numerosi e ripetuti rimaneggiamenti, fra i quali spicca l’adattamento a cantina, uno sfruttamento di cui sono testimonianza le oltre 600 bottiglie
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ANTE PRIMA Ancora due immagini della cantina esplorata in un edificio del quartiere ebraico di Saint-Paul-Trois-Châteaux. recuperate. Varie anomalie suggeriscono che l’organizzazione degli spazi fosse in origine ben piú articolata. La presenza di un diverticolo e di un’apertura, successivamente murata e parzialmente camuffata, evocano infatti evoluzioni architettoniche obliterate dalle trasformazioni succedutesi nel tempo. Potrebbero infatti essere altrettante tracce degli spazi solitamente annessi al vano destinato alle abluzioni e indispensabili per il suo funzionamento, come, per esempio, lo spogliatoio e la scala d’accesso. Il mikveh, destinato alla purificazione del corpo, era un elemento essenziale per la vita delle comunità ebraiche. Le donne erano, per esempio, tenute a recarvisi dopo la comparsa delle mestruazioni, cosí come durante i preparativi per le nozze.
Nella «casa della torre» In un edificio del quartiere ebraico di Saint-Paul, che le fonti ricordano come «casa della torre», si conservava inoltre un’arca santa, la cui presenza era già citata in un documento del 1710. Si tratta di un armadio in pietra destinato a custodire i rotoli della Torah nella sinagoga e che oggi è esposto nel locale Museo archeologico. Anche la «casa della torre» è stata oggetto di un intervento di archeologia preventiva che ha mirato a ricostruire l’evoluzione cronologica e funzionale dell’edificio. Sulla scia dei primi risultati, la municipalità di Saint-Paul-Trois-Châteaux ha deciso di acquisire una porzione consistente di un isolato del quartiere ebraico, il cui recupero potrà integrare la valorizzazione della «casa della torre», databile fra il XV e il XVI secolo, e permettere la ricollocazione in situ dell’arca santa. (red.)
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MEDIOEVO
ANTE PRIMA
Uniti nelle differenze MOSTRE • L’Oriente fu
la culla della predicazione di Cristo e poi della diffusione della sua dottrina. Un percorso scandito da tappe storicamente cruciali, ora narrate in una ricca rassegna presentata al Museo di Belle Arti di Tourcoing, in Francia 14
F
orte del successo ottenuto a Parigi, la mostra che ripercorre la storia delle prime comunità cristiane d’Oriente approda a Tourcoing, città della Francia settentrionale, ai confini con il Belgio. «Cristiani d’Oriente» propone un viaggio affascinante, alla scoperta della storia religiosa, politica, culturale e artistica delle comunità cristiane, dall’antichità ai giorni nostri. In questa nuova edizione, il percorso espositivo si è peraltro arricchito di opere inedite per il pubblico occidentale, di cui l’Iraq ha per la prima volta autorizzato il prestito.
Il progetto espositivo nasce dall’osservazione dei primi passi compiuti dal cristianesimo: secondo il racconto dei Vangeli, Cristo predicò la sua dottrina nelle terre della Palestina e la nuova fede attecchí e si sviluppò, innanzitutto, nelle regioni comprese fra il Mediterraneo e l’Eufrate, lungo il Nilo e sulle rive del Bosforo. E oggi, nonostante le vicissitudini, spesso tragiche, che hanno segnato la storia antica ma anche quella contemporanea, sarebbe sbagliato considerare i cristiani che vivono nel Vicino e Medio Oriente come i sopravvissuti marzo
MEDIOEVO
Sulle due pagine il monastero di Mar Saba, presso Betlemme. A sinistra icona raffigurante Santa Maria Egiziaca, da Aleppo. Fine del XVII sec. Londra, Collezione George Antaki. In basso, a sinistra piatto in argento raffigurante un santo cavaliere, dalla Siria. VIII sec. Londra, Collezione George Antaki. In basso, a destra flabello in bronzo di produzione siriana, da Deir Souriani (Egitto). XII sec. Morlanwelz, Musée royal de Mariemont.
di un passato fragile e caduco: essi, infatti, sono stati e sono elementi essenziali nel processo che ha condotto alla formazione e al consolidamento del mondo arabo.
Affreschi e mosaici La mostra è stata realizzata in stretta collaborazione con i rappresentanti delle diverse comunità e si avvale di oltre 300 oggetti e opere d’arte, fra i quali figurano numerosi capolavori. Basterà ricordare, a titolo di esempio, gli affreschi recuperati nelle chiese di Dura Europos, in Siria, che, datati al III secolo, costituiscono la piú antica
MEDIOEVO
marzo
testimonianza del genere a oggi nota; oppure i mosaici provenienti da chiese paleocristiane di Palestina o Siria, o, ancora, i ritratti di monaci copti dal monastero egiziano di
ANTE PRIMA di continuare a professare la propria fede. A loro viene assegnato lo status di dhimmi (protetti) e, sebbene il loro numero diminuisca, essi continuano ad avere un ruolo di primo piano nell’amministrazione e nella vita culturale e sociale, sia sotto i vari califfati, sia con l’avvento dell’impero ottomano. I cristiani partecipano alla fioritura della civiltà islamica, di cui adottano progressivamente la lingua e le loro Chiese conservano la propria vitalità, come prova lo sviluppo di nuove creazioni architettoniche e artistiche. (red.)
Bawit e le stele con i ritratti di san Mena, san Simeone e santa Tecla. Nella parte iniziale del percorso viene documentato il processo che, nell’arco di circa tre secoli, vide il cristianesimo rimpiazzare il culto degli dèi pagani nell’ambito dell’impero romano, ponendo le basi per il successivo sviluppo del monachesimo.
Una straordinaria continuità Viene quindi illustrata la formazione delle diverse Chiese – greca, copta, assiro-caldea, siriaca, armena e maronita –, che costituiscono altrettanti esiti naturali dei dibattiti teologici condotti dai primi teologi, e le cui linee guida furono riprese in epoca moderna. Si ha cosí l’occasione di cogliere le differenze che oggi segnano le diverse Chiese, diversità osservabili nei riti, nei santi venerati, nelle tradizioni, nei luoghi di culto, nelle lingue adottate per la liturgia, nelle architetture e nell’iconografia dei soggetti sacri. Quando, intorno alla metà del VII secolo, i primi quattro califfi si fanno artefici della conquista araba, a seguito della quale viene introdotta in Medio Oriente la religione
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In alto manoscritto in lingua greca contenente una raccolta di omelie dei Padri della Chiesa. XII sec. Lione, Bibliothèque municipale. A destra bottiglia in vetro smaltato e dorato decorata con scene di vita monastica, dalla Siria. Metà del XIII sec. Vaduz, Furusiyya Art Foundation. islamica, i cristiani sono chiamati a confrontarsi con una realtà inedita, anche se viene lasciata loro la facoltà
DOVE E QUANDO
«Cristiani d’Oriente. 2000 anni di storia» Tourcoing, Musée des beaux-arts Eugène Leroy fino all’11 giugno Orario tutti i giorni, 13,00-18,00; chiuso martedí e festivi Info www.muba-tourcoing.fr
marzo
MEDIOEVO
ANTE PRIMA
Salvare l’antico con un occhio al futuro
APPUNTAMENTI • Ferrara torna a essere, per tre giorni, la capitale italiana del
restauro. Proponendo, com’è ormai tradizione, un calendario ricco e che abbraccia tutti i campi della disciplina e, soprattutto, le sue possibili innovazioni
D
al 21 al 23 marzo 2018 torna il Salone Internazionale del Restauro, dei Musei e delle Imprese Culturali, giunto alla sua XXV edizione. Tre giornate che celebreranno questo importante traguardo con un fitto programma di esposizioni, convegni, eventi e mostre. Il Salone guarda alle nuove logiche di mercato, alle opportunità e alle necessità di cambiamento del Paese, nella convinzione che il patrimonio storico-artistico e ambientale ne siano la principale risorsa. Una risorsa che deve trovare luoghi, opportunità, professionalità in sinergia tra loro e in grado di valorizzarli e trasformarli in un importante volano dell’economia.
Restauro e riqualificazione Grazie alla partecipazione di importanti aziende e istituzioni, saranno presentate e affrontate le tematiche piú attuali e urgenti, le tecnologie, le innovazioni e i risultati, informando sui piú importanti interventi di restauro e riqualificazione dei beni culturali e ambientali. Nell’ottica di aprire l’orizzonte a settori emergenti nel panorama museale italiano, troveranno spazio aziende in dialogo diretto con le realtà pubbliche e private, provenienti da settori quali illuminotecnica, climatologia, trasporto di opere d’arte, software e altre tecnologie, accoglienza, guardiania, ristorazione, bookshop e
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A destra Ferrara, Museo Schifanoia. Particolare del ciclo pittorico che orna il Salone dei Mesi. XV sec. In basso intervento di restauro su un dipinto su tela.
DOVE E QUANDO
XXV Salone Internazionale del Restauro, dei Musei e delle Imprese Culturali Ferrara, Quartiere Fieristico, via della Fiera, 11 dal 21 al 23 marzo Orario 9,30-18,00 Info www.salonedelrestauro.com, www.ferrarafiere.it merchandising, che si affiancheranno ai consueti espositori. Fra le numerose partecipazioni di rilievo possiamo ricordare il TekneHub, Tecnopolo dell’Università degli Studi di Ferrara, Rete Alta Tecnologia dell’Emilia Romagna, che presenterà due laboratori riguardanti l’applicazione delle alte tecnologie nel settore edile, con particolare attenzione al valore storico, artistico e architettonico. Vi sarà anche spazio per il progetto di riqualificazione
dell’area adiacente alla tomba di Dante Alighieri a Ravenna, elaborato da Giampiero Cuppini, che vuole soddisfare l’esigenza di rendere l’area piú fruibile al pubblico, attuando l’inserimento nel tessuto urbano di zone di verde. Tra gli eventi collaterali, segnaliamo inoltre l’inaugurazione di una mostra dedicata a Biagio Rossetti, architetto di straordinaria rilevanza negli anni del Rinascimento estense. (red.) marzo
MEDIOEVO
ANTE PRIMA
EDIOEVO MOGGI
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uando siamo alla taberna, non ci curiamo piú del mondo; ma al giuoco ci affrettiamo, al quale ogni ora ci accaniamo. (...) Tra coloro che attendono al giuoco, c’è chi viene denudato, chi al contrario si riveste chi di sacchi si ricopre. Qui nessuno teme la morte, ma per Bacco gettano la sorte». Cosí scriveva un autore anonimo nel XIII secolo e dalla sua testimonianza si può partire per ripercorrere la storia del fenomeno che va sotto il nome di Baratteria, un istituto che, tra il 1200 e il 1300, si afferma in varie città italiane (fra cui Firenze, Pisa, Siena, Bologna, Piacenza e Venezia). Dapprima bisca clandestina, la Baratteria venne gradualmente tollerata e poi permessa dai Comuni, che richiedevano una gabella (tassa) per aprire tali sale da gioco d’azzardo. Essa venne anche regolamentata negli Statuti comunali, per limitare la visione di barattieri (o ribaldi, marochi, gaglioffi) che nelle piazze, sotto i portici o sdraiati sulle stuoie erano a lanciar dadi e bestemmiare per le perdite di denaro! I barattieri erano quindi protetti nell’esercizio del loro mestiere e, spesso, organizzati in corporazioni. Essi avevano solitamente un capo, il Potestà della Baratteria (Potestas Barateriorum), che teneva i contatti con gli amministratori del Comune. Oltre a gestire il loro spazio dedicato al gioco d’azzardo, i barattieri avevano anche altri compiti, che svolgevano per i potenti del luogo: messaggeri, spie, fustigazione dei condannati, riscossione delle tasse. Spesso erano parte dell’esercito e in certe occasioni potevano esporre il loro gonfalone, il quale era bianco, con i barattieri dipinti; tale gonfalone era issato in piazza, accanto alle loro tende o alla Baratteria. Nel Trattato sugli Scacchi di Jacopo da Cassole troviamo la descrizione di un tipico barattiere: «Che aveva i capelli crespi e rabbuffati con pochi denari in una mano, cioè nella manca, e nella ritta aveva 3 soldi, et al capestro che teneva per cintola aveva un bossolo da portare lettere pieno».
La nostra rievocazione Il gruppo di rievocazione storica de «I Barattieri» (Gruppo Gioco Medioevale A.S.G.S. della Repubblica di San Marino) ricostruisce e presenta nelle piazze italiane il fenomeno della Baratteria. L’ambientazione ottimale de «I Barattieri» è nei pressi di taverne o all’interno delle stesse, oppure in spazi che ricreino attività di vita sociale come appunto la Baratteria. All’epoca, infatti, la taverna offriva agli avventori cibo, bevande, gioco e donne di facili costumi, mentre la Baratteria era la bisca legalizzata. Con «I Barattieri» si viene catapultati nella storia con
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popolani, dame, menestrelli, armigeri, crociati, lebbrosi, maghi e giullari che utilizzano tavolieri in uso in questo periodo, perfettamente ricostruiti. In occasione delle manifestazioni alle quali partecipa il Gruppo Gioco Medioevale A.S.G.S. «I Barattieri», presenta giochi che in epoca medievale erano fra i piú amati dalla popolazione di quei tempi lontani. Il Gruppo si occupa di giochi utilizzati da adulti, tralasciando palloni, fischietti, trottole, bambole, cavalli-bastone, ecc. che erano giochi per i bambini. Possiamo sostanzialmente dividere in tre gruppi i giochi conosciuti nel Medioevo: d’azzardo, primi fra tutti quelli con i dadi e le carte (i giochi con le carte non sono trattati dal nostro gruppo); di intelligenza, fra cui la dama, il domino, gli scacchi, l’alquerque; di intelligenza con i dadi, fra cui il tric trac e i giochi delle tavole; spesso considerati anch’essi d’azzardo dato che si utilizzavano i dadi per il loro svolgimento; erano permessi solo in certe occasioni e in spazi aperti. Il gruppo de «I Barattieri» ha ricostruito oltre 15 tavolieri, perlopiú tratti da un libro del 1200, opera di Alfonso X il Saggio. Altri studi hanno permesso la costruzione di tavolieri utilizzati anche in zone lontane dalla penisola italiana, derivanti da popoli antichi quali i Vichinghi. Gian Carlo Ceccoli, Presidente de «I Barattieri», Gruppo Gioco Medioevale A.S.G.S.-Repubblica di San Marino marzo
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ANTE PRIMA
Tutti insieme, con Passione... APPUNTAMENTI • Messina
si appresta a rinnovare una tradizione fortemente sentita, in occasione della quale gli ultimi momenti di vita del Salvatore vengono rievocati da una spettacolare sfilata di sculture
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Messina la settimana pasquale si celebra con grande fervore religioso fin dal Medioevo. Da secoli il rito piú popolare e suggestivo è la processione delle «barette», che si svolge il Venerdí Santo nelle strade del centro storico. Con l’avvento della dominazione spagnola in Sicilia, iniziarono le processioni religiose con gruppi statuari detti appunto «barette», realizzati in cartapesta, gesso e legno. Fin da subito fu un corteo sontuoso, che coinvolgeva tutte le confraternite e gli Ordini religiosi, gran parte della popolazione e numerosi forestieri giunti per l’occasione, ma anche il Senato cittadino e l’aristocrazia messinese in pompa magna. Risale al 1508 una prima rievocazione sacra della Passione di Gesú, realizzata sulla piazza del monastero carmelitano con lavori di falegnameria, carta, stoffe colorate e attori calati nei vari ruoli. Nel 1610 la Confraternita dei Bianchi promosse una processione con tre statue che rievocavano la Passione di Cristo, nella notte del Giovedí Santo. Lentamente il corteo si arricchí con
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altre «barette» donate da artigiani, associazioni e fedeli come ex voto. Nel 1801 la processione fu spostata al Venerdí Santo e vennero introdotti il picchetto armato e la banda musicale militare, in seguito sostituiti, nel 1866, dai Vigili urbani.
Un racconto in undici scene Oggi le «barette» sono undici e rappresentano L’Ultima Cena, Gesú nell’Orto degli Ulivi, La Flagellazione, Ecce Homo, La Veronica, Cristo cade sotto il peso della Croce, Il Cireneo, La Crocifissione, L’Addolorata, La Pietà e Il Cristo Morto. Le piú grandi vengono portate in spalla da trenta uomini. Gli undici gruppi statuari sono stati realizzati in epoche diverse da esperti artigiani, scultori del legno o modellatori della cartapesta. Purtroppo, molti capolavori originali sono andati distrutti nei terremoti del 1783 e del 1908, e per via dei bombardamenti che hanno colpito Messina nella seconda guerra mondiale. Tuttavia, le opere disperse sono state ricreate grazie alle donazioni di famiglie messinesi o comitati spontanei.
Oggi durante l’anno le «barette» vengono conservate nella chiesa del Nuovo Oratorio della Pace, da dove parte la processione nel pomeriggio del Venerdí Santo, quest’anno il 30 marzo. Il fastoso corteo religioso percorre via Sant’Agostino, corso Cavour, via Cannizzaro, via Garibaldi e via Primo Settembre, per concludersi in piazza Duomo. Tiziano Zaccaria marzo
MEDIOEVO
Il giorno dei penitenti corridori
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lle falde del Vesuvio, durante la Settimana Santa, la cittadina campana di Sant’Anastasia esplode in un autentico fervore di religiosità popolare che raggiunge il culmine in occasione del pellegrinaggio al santuario della Madonna dell’Arco. Secondo un’antica leggenda, nel pomeriggio di un Lunedí in Albis (il giorno dopo Pasqua), alcuni giovani giocavano a pallamaglio nelle vicinanze di una cappella che custodiva un ritratto della Vergine col Bambino, sulle colline sopra Sant’Anastasia. Stando al racconto popolare, un giocatore per un tiro sbagliato calciò bestemmiando la palla contro l’immagine sacra, che iniziò a sanguinare da una guancia. Da allora nacque il culto della Madonna dell’Arco, cosí definita per la presenza in zona delle arcate di un antico acquedotto romano. La devozione popolare crebbe al punto che sul luogo, nel 1593, venne costruito un santuario.
A sinistra Sant’Anastasia (Napoli). La Madonna dell’Arco. In alto e in basso ex voto donati al santuario della Madonna dell’Arco di Sant’Anastasia.
A piedi scalzi verso il santuario La processione del Lunedí in Albis è oggi preceduta da una fase preparatoria, che inizia il giorno di sant’Antonio, il 17 gennaio. Da questa data le associazioni dedicate alla Madonna dell’Arco, molto diffuse nell’hinterland napoletano, mandano in giro gruppi di affiliati per la questua. Nel giorno del pellegrinaggio (quest’anno lunedí 2 aprile) i protagonisti sono i «fujenti», penitenti vestiti con una tunica bianca, una fascia azzurra trasversale e una fascia rossa legata sui fianchi, che portano grandi stendardi. In molti casi i «fujenti», per voto, affrontano il percorso a piedi scalzi, correndo l’ultimo pezzo di strada. Da qui il loro nome, un termine dialettale che significa «coloro che corrono». Giunti al santuario, i penitenti a
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volte coprono gli ultimi metri del percorso carponi, con inchini e battute sul petto, esplodendo in crisi di pianti e grida di devozione. Al di là dei devoti piú accaniti, fedeli provenienti da varie località campane percorrono le strade che conducono al santuario della Madonna dell’Arco. Oggi il complesso religioso è composto dal convento e dalla chiesa, quest’ultima a croce latina, nella quale si trova l’edicola che ospitava l’antica effigie della Vergine col Bambino. Le colonne che sostengono il soffitto sono in parte tappezzate da tavolette votive dedicate alla Madonna. Di fianco alla chiesa si trovano le cappelle del Rosario e di S. Giovanni Leonardi. T. Z.
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ANTE PRIMA
Primavera, tempo di rievocazione Due immagini delle ultime edizioni di «Armi&Bagagli», manifestazione che si svolge presso il quartiere fieristico di Piacenza e che si è affermata come un appuntamento imperdibile per operatori e appassionati della rievocazione storica.
INFORMAZIONE PUBBLICITARIA
C’
è un modo unico ed emozionante di vivere, gustare e toccare con mano la storia: il 24 e 25 marzo 2018 torna a Piacenza Expo «Armi&Bagagli», il piú grande Mercato Internazionale della Rievocazione Storica d’Europa. Da quattordici anni è questo l’appuntamento piú atteso dai rievocatori che devono rinnovare il proprio equipaggiamento, dagli enti e dalle organizzazioni alla ricerca di artigiani o gruppi storici per innalzare la qualità dei propri eventi, ma anche degli appassionati di ogni genere. Vari ed entusiasmanti sono i momenti che la fiera propone ai visitatori, grazie agli oltre 400 espositori provenienti da Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Olanda, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Spagna, Svizzera, Ucraina, e Ungheria suddivisi in tre padiglioni, di cui uno dedicato esclusivamente all’arco (EXPO ARC) e uno al collezionismo storico/militare (Piacenza Militaria). Un’ampia offerta, quindi, quella ideata e organizzata da Estrela Fiere e Wavents Events & Services, in collaborazione con il CERS-Consorzio Europeo Rievocazioni Storiche, in cui a fianco dei piú importanti artigiani e produttori di repliche di armi antiche e moderne, armature, elmi, uniformi ed equipaggiamenti per ogni periodo storico, si esibiranno giullari, giocolieri, musicisti e danzatori. Cosí come saranno allestiti laboratori manuali e giochi della tradizione medievale per i piú piccoli o numerosi stand di enogastronomia tradizionale dove si potranno gustare i sapori del nostro passato. Info per Armi&Bagagli: info@armiebagagli.org; tel. 345 7583298 o 333 5856448; www.armiebagagli.org
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INTRODUZIONE
ALL’ARTE MEDIEVALE MILLE ANNI DI CAPOLAVORI
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ome scrive Chiara Frugoni nella Presentazione, fra i meriti del Dossier di «Medioevo» di Furio Cappelli ora in edicola c’è quello di essere «un valido aiuto per smentire i numerosi pregiudizi che ancora circondano il Medioevo: per esempio, che il Medioevo sia l’epoca dei “secoli bui”, o quelli sui terrori dell’anno Mille, sempre risorgenti e applicati anche oggi a svariati contesti». Ma questa nuova opera, oltre a inserirsi nel solco di una rilettura condotta ormai da tempo, ha il merito di offrire, in tutta la loro potenza e vivacità, un panorama ampio e sistematico delle straordinarie espressioni artistiche che scandirono i dieci secoli dell’età di Mezzo. Affreschi, dipinti su tavola, sculture e la variegata gamma dei manufatti che tradizionalmente vengono assegnati al novero delle arti cosiddette «minori» – ma che, a ben vedere, lo sono soltanto di nome – costituiscono la prova migliore del fervore creativo che, all’indomani del crollo dell’impero romano, non venne certo meno, ma
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In alto Roma, basilica di S. Prassede. Veduta dei mosaici dell’arco trionfale e del catino absidale. 817-824. Nella pagina accanto Madonna del latte, tempera e oro su tavola di Ambrogio Lorenzetti. 1324. Siena, Oratorio della Compagnia di San Bernardino. scelse nuovi linguaggi. Il viaggio alla scoperta di questo universo ricco e multiforme tocca tutte le testimonianze piú significative: dagli sfolgoranti mosaici di Ravenna ai mirabili equilibri delle sculture di Giovanni Pisano, dalle ricercate decorazioni dei reliquiari smaltati ai grandi dipinti su tavola che divennero una presenza costante e irrinunciabile nelle chiese. Un mondo animato da attori di cui è stata ricostruita nel dettaglio la vicenda biografica, ma anche da un esercito di artisti dei quali difficilmente si potrà scoprire il nome. Un mondo, comunque, di ingegni mirabili, senza i quali le successive elaborazioni del Rinascimento non avrebbero mai potuto vedere la luce. marzo
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IL NUOVO DOSSIER DI MEDIOEVO
AGENDA DEL MESE
Mostre ROMA VOGLIA D’ITALIA. IL COLLEZIONISMO INTERNAZIONALE NELLA ROMA DEL VITTORIANO Palazzo Venezia e Gallerie Sacconi al Vittoriano fino all’8 aprile (prorogata)
L’esposizione presenta per la prima volta in modo organico la raccolta, vasta e sorprendente, che i coniugi statunitensi George Washington Wurts ed Henriette Tower misero insieme a cavallo fra XIX e XX secolo e donarono poi allo Stato italiano, per l’esattezza al Museo di Palazzo Venezia, dove tuttora è conservata. Alla base del progetto vi è anche l’idea di restituire il contesto della raccolta Wurts, ovvero quella particolare forma di collezionismo che, tra Ottocento e Novecento, si legò cosí intimamente all’Italia, fino a concretizzarsi spesso nella donazione allo Stato di singole opere o
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a cura di Stefano Mammini
di intere raccolte. La mostra illustra le dinamiche del collezionismo, soprattutto anglo-americano, e del mercato internazionale, sullo sfondo dei radicali cambiamenti vissuti in quegli anni dalla giovane nazione italiana e dalla sua nuova capitale, Roma. La costruzione del Vittoriano, iniziato nel 1885 e inaugurato nel 1911 nell’occasione dell’Esposizione che celebrava il cinquantenario dell’Unità d’Italia, diviene l’emblema che caratterizza la città all’alba del Novecento. info www.mostravogliaditalia.it PADOVA RIVOLUZIONE GALILEO. LA SCIENZA INCONTRA L’ARTE Palazzo del Monte di Pietà fino al 18 marzo
Dopo Galileo nulla fu come prima. E non solo nella ricerca astronomica e nelle scienze, ma anche nell’arte. Con lui, il cielo passa dagli astrologi agli astronomi. La mostra allestita nel Palazzo del Monte di Pietà di Padova racconta, per la prima volta, la figura complessiva e il ruolo di
uno dei massimi protagonisti del mito italiano ed europeo. In un’esposizione dai caratteri originali, dove capolavori dell’arte occidentale in dialogo con testimonianze e reperti diversi consentono di scoprire un personaggio da tutti sentito nominare ma da pochi realmente conosciuto. Dalla mostra emerge l’uomo Galileo nelle molteplici sfaccettature: dallo scienziato padre del metodo sperimentale al letterato esaltato da Foscolo e Leopardi, Pirandello e Ungaretti, De Sanctis e Calvino. Dal Galileo virtuoso musicista ed esecutore al Galileo artista, tratteggiato da Erwin Panofsky quale uno dei maggiori critici d’arte del Seicento; dal Galileo imprenditore – non solo il
cannocchiale ma anche il microscopio o il compasso – al Galileo della quotidianità. Poiché l’uomo, eccezionale per potenza d’intuizione e genio scientifico, lo era anche nei piccoli vizi e debolezze, quali gli studi di viticoltura e la passione per il vino dei Colli Euganei – rifiutando la «vil moneta» baratta i suoi strumenti di precisione con vino «del migliore» – o la produzione e vendita di pillole medicinali. info www.fondazionecariparo.it FIRENZE TESSUTO E RICCHEZZA A FIRENZE NEL TRECENTO. LANA, SETA, PITTURA Galleria dell’Accademia fino al 18 marzo
L’importanza dell’arte tessile a marzo
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Firenze nel Trecento è il tema del nuovo progetto espositivo realizzato dalla Galleria dell’Accademia. Proprio nel Trecento, infatti, inizia a svilupparsi un nuovo fenomeno legato al lusso: la moda. La qualità della lana e in seguito della seta dei prodotti fiorentini raggiunse, nonostante i costi molto alti delle materie prime e dei coloranti, un livello di eccellenza, tale da imporsi in Europa, a dispetto delle guerre, delle frequenti epidemie, nonché delle crisi finanziarie e dei conflitti sociali. Il percorso espositivo della mostra è cronologico e approfondisce lo sviluppo e la provenienza dei manufatti. La prima sezione illustra le cosiddette Geometrie mediterranee, che rimandano al mondo musulmano, segue il Lusso dall’Asia mongola, con i piccoli motivi vegetali e animali. Seguono le Creature
alate degli ornamenti tessili di influenza cinese. Mentre le Invenzioni pittoriche, della sezione seguente, evocano con fantasia i disegni delle sete pregiate lavorate da tessitori altamente qualificati. La sezione dedicata al Lusso proibito prende spunto dal registro che dal 1343 al 1345 annovera le vesti proibite elencate nella cosiddetta Prammatica delle vesti. Chiudono l’esposizione i Velluti di seta, che anticipano gli sviluppi della moda nel secolo successivo. info Firenze Musei: tel. 055 290383; e-mail: firenzemusei@operalaboratori.com; www.galleriaaccademiafirenze. beniculturali.it NAPOLI LONGOBARDI. UN POPOLO CHE CAMBIA LA STORIA Museo Archeologico Nazionale fino al 25 marzo
Dopo l’esordio di Pavia (vedi «Medioevo» n. 248, settembre 2017), approda al Museo Archeologico Nazionale di Napoli la grande mostra sui Longobardi: un’esposizione che corona oltre 15 anni di nuove indagini archeologiche, epigrafiche e storico-politiche su siti e necropoli altomedievali, frutto del rinnovato interesse per un periodo cruciale della storia italiana ed europea. Ne scaturisce una visione complessiva e di ampio respiro (dalla metà del VI secolo, dalla presenza gotica in Italia, alla fine del I millennio) del ruolo, dell’identità, delle strategie, della cultura e dell’eredità del popolo longobardo che, nel 568, guidato da Alboino, varca le Alpi Giulie e inizia la sua
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espansione sul suolo italiano: una terra divenuta crocevia strategico tra Occidente e Oriente, un tempo cuore dell’impero romano e ora sede della cristianità, ponte tra Mediterraneo e Nord Europa. info www.mostralongobardi.it REGGIO EMILIA EGO SVM VIA. VIA AEMILIA. VIA CHRISTI Museo Diocesano, Palazzo Vescovile Estense fino al 3 aprile
Il Museo Diocesano di Reggio Emilia partecipa alle celebrazioni organizzate per i
2200 anni della via Emilia (187 a.C.- 2017) con una mostra che, prendendo le mosse da Cristo, VIA di salvezza, documenta le piú antiche attestazioni della fede cristiana in terra reggiana, il rapporto tra paganesimo e fede cattolica e la piena adesione dei Longobardi alla ortodossia romana. Nel percorso espositivo sfilano
opere inedite, che provengono dallo scavo archeologico della cattedrale, analogamente al meraviglioso mosaico pavimentale del IV secolo rinvenuto al di sotto della cripta del duomo. Frutto degli scavi condotti tra il 2004 e il 2009, quest’ultimo doveva ornare una ricca residenza del III-IV secolo d.C.: delimitato da una cornice a treccia, il tappeto musivo presenta una struttura geometrica con motivi circolari simmetrici interrotti da campi quadrangolari in cui sono rappresentate coppie di personaggi; all’interno dei cerchi, bordati anche essi da una treccia policroma, vi sono riquadri animati da danzatori con cembali e danzatrici, mentre negli spazi romboidali tra gli elementi circolari sono raffigurati variopinti volatili. info tel. 0522.1757930; e-mail: beniculturali@diocesi.re.it
FIRENZE DA BROOKLYN AL BARGELLO: GIOVANNI DELLA ROBBIA, LA LUNETTA ANTINORI E STEFANO ARIENTI Museo Nazionale del Bargello fino all’8 aprile
Dopo essere stato esposto, tra il 2016 e il 2017, presso il Museum of Fine Arts di Boston e la National Gallery di Washington, approda a
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AGENDA DEL MESE Firenze un capolavoro che ha lasciato l’Italia nel lontano 1898: la lunetta con la Resurrezione di Giovanni della Robbia. L’opera viene presentata nella cornice del Museo Nazionale del Bargello, dove si conserva la maggiore raccolta al mondo di sculture realizzate in terracotta invetriata dai Della Robbia. Commissionata probabilmente intorno al 1520 da Niccolò di Tommaso Antinori (1454-1520), che dette inizio alla fortuna imprenditoriale di questo antichissimo casato fiorentino, la lunetta è di dimensioni monumentali (174,6 x 364,5 x 33 cm) e resta oggi uno dei piú notevoli esempi della produzione di Giovanni della Robbia (1469-1529). La lunetta raffigura il Cristo risorto, con il committente Antinori in ginocchio alla sua destra e i soldati attorno al sepolcro, secondo l’iconografia tradizionale: il tutto su un articolato sfondo di paesaggio e all’interno di una fastosa cornice di frutti e fiori popolata da piccoli animali. In parallelo, viene presentata un’opera di Stefano Arienti, artista italiano tra i piú apprezzati in ambito internazionale, dal titolo Scena fissa, con cui la scultura robbiana viene riletta e reinterpretata, dando vita a un inaspettato dialogo tra arte rinascimentale e contemporanea.
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info tel. 055 2388606; e-mail: mn-bar@beniculturali.it; www.bargellomusei.beniculturali.it
SIENA AMBROGIO LORENZETTI Complesso museale Santa Maria della Scala fino all’8 aprile
Alla luce del successo fin qui ottenuto, la mostra Ambrogio Lorenzetti al Santa Maria della Scala è stata prorogata fino al prossimo 8 aprile. L’esposizione rappresenta, in realtà, il culmine del progetto avviato nel 2015 con l’iniziativa «Dentro il restauro» e mirato a una profonda conoscenza dell’attività dell’artista, a una migliore conservazione delle sue opere e a favorirne la conoscenza presso il pubblico nazionale e straniero. Con «Dentro il restauro», sono state trasferite al Santa Maria della Scala alcune importanti opere dell’artista che necessitavano di indagini conoscitive, di interventi conservativi e di veri e propri restauri: il ciclo di affreschi staccati della cappella di S. Galgano a Montesiepi e il polittico della chiesa di S. Pietro in Castelvecchio a Siena (nell’occasione piú correttamente ricomposto e riunito con l’originaria cimasa raffigurante il Redentore benedicente) sono stati allestiti in un cantiere di restauro «aperto». I restauri sono proseguiti con l’apertura di altri due cantieri, il primo
nella chiesa di S. Francesco, volto al recupero degli affreschi dell’antica sala capitolare dei frati francescani senesi, e l’altro nella chiesa di S. Agostino, nel cui capitolo Ambrogio Lorenzetti dipinse un ciclo di storie di Santa Caterina e gli articoli del Credo. Tornano cosí a vivere idealmente i cicli di affreschi del capitolo e del chiostro della chiesa francescana senese, che tra l’altro contenevano la prima rappresentazione di una tempesta nella storia della pittura occidentale nella quale, come scrive il Ghiberti, spiccava la «grandine folta in su e’ palvesi»; il ciclo di dipinti della chiesa agostiniana senese, modello esemplare
ancora agli occhi di Giorgio Vasari, quando si approntò l’armadio delle reliquie della cattedrale; quello della cappella di S. Galgano a Montesiepi, a tal punto fuori dai canoni della consolidata iconografia sacra che i committenti pretesero delle sostanziali modifiche poco dopo la loro conclusione. info tel. 0577 286300: e-mail: ambrogiolorenzettisms@ operalaboratori.com; www.santamariadellascala.com ROMA LA MADONNA ESTERHÁZY DI RAFFAELLO Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma-Palazzo Barberini fino all’8 aprile
Grazie a una politica di marzo
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LORETO L’ARTE CHE SALVA. IMMAGINI DELLA PREDICAZIONE TRA QUATTROCENTO E SETTECENTO. CRIVELLI, LOTTO, GUERCINO Museo-Antico Tesoro della Santa Casa fino all’8 aprile
Primo appuntamento del ciclo di eventi «Mostrare le Marche», l’esposizione è finalizzata alla valorizzazione e
sui fedeli, attraverso il caso emblematico di santa Camilla Battista da Varano, al rapporto con altre fedi religiose e fino alla spinta missionaria mondiale dei predicatori della Compagnia di Gesú. Il percorso è illustrato attraverso una quarantina di oggetti, comprendenti dipinti, sculture, incisioni, manoscritti e volumi provenienti dalla Regione Marche, con un nucleo significativo di opere salvate dal terremoto del Centro Italia. info tel. 071 9747198 oppure 06 68193064; e-mail: museoanticotesoro@gmail. com oppure segr.artifex@gmail.com
SPIRA RICCARDO CUOR DI LEONE. RE, CAVALIERE, PRIGIONIERO Museo Storico del Palatinato fino al 15 aprile
scambi incrociati con musei italiani e stranieri, viene presentata una delle opere piú interessanti e significative della produzione raffaellesca. La Madonna Esterházy di Raffaello è una tavola in pioppo di piccole dimensioni, proveniente dal Museo Nazionale di Belle Arti ungherese, dipinta intorno al 1508, tra la fine del periodo fiorentino e l’inizio di quello romano. In quell’anno, cruciale per l’arte dell’Occidente, si aprivano i cantieri per le decorazioni del nuovo Vaticano: la volta della Cappella Sistina e le Stanze degli appartamenti papali. Il confronto con il disegno conservato presso il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi
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– qui rappresentato con una riproduzione di grande formato – evidenzia il momento di passaggio intellettuale dell’artista dal mondo fiorentino a quello romano. Nel disegno, infatti, il fondale presenta un partito tipicamente fiorentino fatto di colline e alberi. Si tratta di un primo stato, diverso da quello finale su tavola, dove si possono invece vedere rovine antiche di sapore romano, nelle quali si sono voluti riconoscere i resti del Tempio di Vespasiano e della Torre dei Conti nel Foro Romano. Elementi dell’antico che insomma rimandano a Roma. info tel. 06 4824184; e-mail: Gan-aar@beniculturali.it; www.barberinicorsini.org
alla tutela del patrimonio artistico e culturale dei luoghi colpiti dal sisma ed al rilancio dal punto di vista turistico ed economico degli stessi. «L’arte che salva» si propone di approfondire la conoscenza della produzione artistica collegata a un fenomeno che ha caratterizzato in profondità la cultura non solo europea, la predicazione. Il tema è illustrato nei suoi molteplici aspetti: dalle figure dei predicatori dei grandi ordini religiosi, francescani, domenicani, agostiniani e gesuiti, alle devozioni da loro promosse con le relative immagini, spesso opera di grandi artisti quali Crivelli, Lotto, Muziano, Guercino; dall’effetto della predicazione
La città in cui Riccardo Cuor di Leone trascorse parte della sua prigionia, «ospite» dell’imperatore Enrico VI, dopo essere stato arrestato al rientro dalla Terra Santa, dedica al grande sovrano inglese una ricca rassegna, forte di oggetti concessi in prestito da molti dei maggiori musei europei. Manoscritti, armi, sculture e reperti archeologici documentano le vicende delle grandi dinastie
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AGENDA DEL MESE che furono protagoniste principali di quegli anni – i Plantageneti e i Capetingi –, cosí come delle casate che ebbero comunque un ruolo decisivo nella vicenda di Riccardo, primi fra tutti gli Hohenstaufen. Temi centrali del percorso espositivo sono inoltre la vita di corte, la letteratura, la cavallerie, la terza crociata e l’architettura militare. Un’occasione da non perdere per verificare quanto meritata sia la fama di cui il re continua a godere. info www.museum.speyer.de/ ZURIGO DIO E LE IMMAGINI. QUESTIONI CONTROVERSE DELLA RIFORMA Museo nazionale fino al 15 aprile
In occasione del 500° anniversario della Riforma protestante, il Museo nazionale ripercorre l’epoca del riformatore zurighese Ulrich Zwingli (1484-1531) e analizza la disputa sulla vera fede che animò l’ancora giovane movimento protestante. La salvezza dell’anima non si compra: su questo principio
Zwingli, Lutero e gli altri riformatori del XVI secolo si trovavano d’accordo. Riguardo ad altre questioni, per molti ormai incomprensibili nel XXI secolo, si accesero conflitti tra i diversi movimenti protestanti. In
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MOSTRE • BELLINI/MANTEGNA. Capolavori a confronto Venezia – Fondazione Querini Stampalia
fino al 1° luglio (dal 21 marzo) info tel. 041 2711411; www.querinistampalia.org
È
affascinante cercare le differenze tra le due Presentazioni di Gesú al Tempio eccezionalmente affiancate per la mostra proposta dalla Fondazione Querini Stampalia. Due capolavori della storia universale dell’arte, l’uno di mano di Giovanni Bellini, di Andrea Mantegna il secondo. A un primo sguardo sembrano del tutto eguali, eppure si capisce che le due opere-specchio hanno «personalità diversissime». Ma chi fu l’inventore della meravigliosa composizione? Bellini, veneziano, e Mantegna, padovano del contado, si conobbero certamente, dato che quest’ultimo sposò la sorellastra del primo. Ma sarebbe sbagliato – chiarisce Giovanni Carlo Federico Villa, co-curatore dell’esposizione, immaginarli l’uno accanto all’altro intenti nel dipingere questo medesimo soggetto. Certo il cartone, la cui realizzazione richiedeva un enorme virtuosismo artistico, «stregò l’uno e l’altro, ma un lasso di tempo non piccolo, una decina di anni, separa i due capolavori». Che, sia pure a distanza, si sia trattato di una gara alla massima eccellenza, lo si evince dalla qualità assoluta delle due opere. È un caso probabilmente irripetibile quello che consente, per la prima volta nella
che forma si rende presente Dio nell’eucarestia? Qual è il momento piú indicato per il battesimo? I religiosi si possono sposare? Attorno a queste domande, che alla fine determinarono una vera e propria spaccatura all’interno del movimento protestante, ruota l’esposizione in programma al Museo nazionale. Oltre alle controversie della Riforma, la mostra si dedica anche al riformatore zurighese Ulrich Zwingli. In servizio come prete al Grossmünster di Zurigo dall’inizio del 1519, con le sue tesi del 1523 e l’impegno con cui si dedicò alla traduzione della prima Bibbia
storia dell’arte, di ammirarle l’una a fianco dell’altra. Accanto alle due Presentazioni, in Querini saranno esposte le opere coeve patrimonio del museo veneziano. E il visitatore sarà poi invitato, con lo stesso biglietto a scoprire, o riscoprire, i tesori della Querini Stampalia, una casa-museo tra le piú importanti al mondo.
completa in lingua tedesca, egli gettò le basi della Riforma in Svizzera. Dalla lotta a parole a quella armata il passo fu breve. La spada e l’elmo di Zwingli divennero, dopo la sua morte, dapprima trofei per i cattolici e in seguito reliquie della Riforma. info www.nationalmuseum.ch PAVIA GIOVANNI DA PISA. UN POLITTICO DA RICOSTRUIRE Musei Civici fino al 29 aprile
La mostra è il logico corollario del progetto di restauro e valorizzazione che ha riguardato quattro tavole attribuite al pittore ligure marzo
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d’inizio Quattrocento Giovanni da Pisa, originariamente appartenenti a un medesimo polittico. Presso il Centro Conservazione e Restauro «La Venaria Reale» sono state restaurate San Leonardo e Santa Chiara, di proprietà privata ma concesse in deposito a Palazzo Madama, cosí come la Sant’Agata del Museo Civico di Pavia; la Madonna col Bambino del Museo Diocesano di Genova era stata invece restaurata presso il laboratorio genovese di Antonio Silvestri. La ricomposizione del polittico viene effettuata per la prima volta e la sua presentazione prende avvio da Palazzo Madama, da dove poi farà tappa presso i Musei Civici di Pavia e al Museo Diocesano di Genova. In seguito a questo intervento, si è aperta la possibilità di sottoporre a una nuova verifica l’ipotesi già da tempo formulata dalla critica, di una comune provenienza delle due tavole e degli altri due dipinti presentati in mostra: la Sant’Agata di Pavia e la Madonna col Bambino di Genova. Gli studi hanno inoltre consentito di ipotizzare che a completare il polittico ci fosse una quinta tavola: un frammentario San Lorenzo di cui si ignora la attuale ubicazione. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it BERGAMO RAFFAELLO E L’ECO DEL MITO Accademia Carrara fino al 6 maggio
La mostra approfondisce l’opera e la fortuna che il genio di Urbino ha conosciuto nel tempo, modello di perfezione rincorso negli anni a lui coevi e nei secoli a
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venire. A Bergamo sono esposte alcune tra le piú rappresentative opere di Raffaello, dalla formazione agli esordi giovanili, dalle immagini simboliche alla consapevolezza di una nuova pittura di «grazia, studio, bellezza»; oltre a un’ampia riflessione sul capolavoro simbolo delle collezioni di Accademia Carrara, il San Sebastiano. Dipinti, sculture e testimonianze raccontano il mondo attorno a Raffaello, dalla sua formazione all’opera, fino all’«ossessione» degli autori successivi per un maestro il cui fascino ha influenzato intere generazioni. Dalle opere del padre, Giovanni Santi, di Perugino, di Pintoricchio e dei piú importanti pittori del suo tempo, fino a una panoramica dedicata al contemporaneo in cui artisti come Picasso, De Chirico, Giulio Paolini e Francesco Vezzoli sono chiamati a raccontare quanto l’ispirazione di un maestro tanto straordinario si sia propagata fino ai giorni nostri. info www.lacarrara.it
TORINO PERFUMUM. I PROFUMI DELLA STORIA Palazzo Madama fino al 21 maggio
L’evoluzione e la pluralità dei significati assunti dal profumo dall’antichità greca e romana al Novecento sono documentati da oltre 200 oggetti, tra oreficerie, vetri, porcellane, affiche e trattati scientifici. Il percorso espositivo presenta un excursus storico avviato a partire dalle civiltà egizia e greco-romana che, sulla scorta di tradizioni precedenti,
assegnano al profumo molteplici significati: da simbolo dell’immortalità, associato alla divinità, a strumento di igiene, cura del corpo e seduzione. Nell’Europa del primo Medioevo, sottoposta all’urto delle invasioni barbariche, sono rare le testimonianze di utilizzo di sostanze odorifere al di fuori della sfera sacra. Sopravvive tuttavia la concezione protettiva e terapeutica del profumo, come testimoniato in mostra dalla preziosa bulla con ametiste incastonate proveniente dal tesoro goto di Desana. L’uso di profumi a contatto con il corpo con funzione di protezione nei confronti di malattie è attestato piú tardi nei pommes de musc frequentemente citati negli inventari dei castelli medievali, come il rarissimo esempio quattrocentesco in argento dorato in prestito dal Museo di Sant’Agostino di Genova, che conserva ancora la noce moscata al suo interno. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it NEW YORK REGNI DORATI: LUSSO ED EREDITÀ DELLE ANTICHE AMERICHE The Metropolitan Museum of Art fino al 28 maggio
L’oro fu senza dubbio il piú potente innesco delle drammatiche vicende che fecero seguito all’incontro fra gli esploratori e i conquistadores europei con le popolazioni dell’America centrale e meridionale. Abbagliati dalle ricchezze dei Maya e degli Aztechi, gli Occidentali si abbandonarono infatti a razzie colossali, che hanno causato la dispersione
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AGENDA DEL MESE Rabbula, un manoscritto siriano del VI secolo, gli affreschi di Dura Europos (III secolo) e mosaici provenienti dalle piú antiche chiese di Palestina e di Siria. info www.muba-tourcoing.fr BOLOGNA
di una quantità incalcolabile di oggetti e opere d’arte. Ciononostante, anche grazie alle indagini archeologiche succedutesi negli ultimi decenni, molto si è comunque salvato ed è attingendo a questo patrimonio superstite che il Metropolitan ha potuto allestire la sua nuova rassegna. Da segnalare, a tal proposito, la presenza in mostra del Tesoro del Pescatore, un insieme di ornamenti in oro trafugati dagli Spagnoli e destinati a Carlo V, che mai giunsero a destinazione perché inabissatisi con il veliero che li trasportava, scoperto e recuperato negli anni Settanta del Novecento. info www.metmuseum.org TOURCOING (FRANCIA) CRISTIANI D’ORIENTE. 2000 ANNI DI STORIA Musée des beaux-arts Eugène Leroy fino al 16 giugno
Dopo essere stata presentata a Parigi, all’Institut du monde arabe, approda a Tourcoing – città della Francia settentrionale, ai confini con il Belgio – la grande mostra «Cristiani d’Oriente». A ispirare il progetto espositivo è un dato storico di rilevanza indiscussa, vale a dire il fatto che, secondo i Vangeli, teatro della predicazione di Cristo fu la Palestina e la nuova religione che da quell’esperienza prese le mosse si diffuse inizialmente
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MEDIOEVO SVELATO. STORIE DELL’EMILIA-ROMAGNA ATTRAVERSO L’ARCHEOLOGIA Museo Civico Medievale fino al 17 giugno
fra il Mediterraneo e l’Eufrate, lungo il Nilo e sulle rive del Bosforo. Oggi, a dispetto delle vicissitudini antiche e moderne, i cristiani del Vicino e Medio Oriente non sono la presenza residua di un passato ormai lontano, ma sono parte essenziale di un mondo arabo che hanno contribuito a formare. Grazie a una selezione di oltre 300 opere – molte delle quali vengono presentate in Europa per la prima volta e che, a Tourcoing includono anche manufatti eccezionalmente concessi in prestito dall’Iraq e non presenti nell’edizione parigina della mostra – viene ripercorsa la vicenda delle comunità cristiane orientali dall’antichità ai giorni nostri, documentandone, oltre alla religione, la politica, la cultura e l’arte. Fra i numerosi capolavori presenti in mostra, possiamo ricordare i Vangeli
Nell’ambito delle iniziative organizzate per i 2200 anni dalla fondazione romana di Modena, Parma e Reggio Emilia, il Museo Civico Medievale di Bologna presenta una mostra di archeologia sul Medioevo emiliano-romagnolo. L’esposizione offre una panoramica del territorio regionale attraverso quasi un millennio di storia, dalla tarda antichità (IV-V secolo) al Medioevo (inizi del Trecento). L’Emilia-Romagna, infatti, fornisce una prospettiva di ricerca privilegiata per la comprensione di fenomeni complessi che investono non solo gli aspetti politici, sociali ed economici, ma la stessa
identità culturale del mondo classico nella delicata fase di passaggio al Medioevo. Il percorso si articola in sei sezioni: la prima è incentrata sul tema della Trasformazione delle città, ossia sull’evoluzione dei centri di antica fondazione in rapporto ai cambiamenti socioeconomici e all’organizzazione delle nuove sedi del potere (laico ed ecclesiastico); imperniata sulla Fine delle ville, la seconda sezione prende in esame l’insediamento rurale di tipo sparso, già tipico delle fattorie di età romana; i grandi mutamenti e, in particolare, l’ideologia funeraria del VI-VII secolo caratterizzano la terza sezione, dedicata a Nuove genti, nuove culture, nuovi paesaggi; allo sfarzo di alcuni manufatti afferenti alle sepolture fanno riscontro i pochi materiali recuperati nei contesti urbani regionali – Fidenza (Parma), Rimini e Ravenna – della quarta sezione dedicata a Città ed empori nell’alto Medioevo; con la quinta sezione, Villaggi, castelli, chiese e monasteri:
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la riorganizzazione del tessuto insediativo, vengono evidenziate le nuove forme d’insediamento (VIII-XIII secolo); il racconto termina ciclicamente – grazie alla sesta sezione, incentrata su Dopo il Mille: la rinascita delle città, con il ritorno al tema dell’evoluzione dei centri urbani, studiati nella nuova fase di età comunale: Parma e Ferrara (di cui sono esposti oggetti di straordinario valore, perché conservati nonostante la deperibilità del materiale, il legno), Rimini e Ravenna, caratterizzate da rinnovato dinamismo e Bologna, rappresentata dalla piú antica croce viaria lapidea (anno 1143), recuperata nel 2013 sotto il portico della chiesa di S. Maria Maggiore. info tel. 051 2193916 oppure 2193930; e-mail: museiarteantica@comune.bologna. it; www.museibologna.it/ arteantica; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Twitter: @MuseiCiviciBolo MILANO DÜRER E IL RINASCIMENTO TRA GERMANIA E ITALIA Palazzo Reale fino al 24 giugno
Grazie a una rappresentativa selezione di opere di Albrecht Dürer e di alcuni dei suoi piú importanti contemporanei tedeschi e italiani, la mostra documenta la fioritura del Rinascimento tedesco nel suo momento di massima apertura verso l’Europa, sia al Sud (soprattutto Italia settentrionale) sia al Nord (Paesi Bassi). Protagonisti dell’esposizione sono dunque l’artista di Norimberga, ma anche l’affascinante quadro di rapporti artistici tra nord e sud Europa tra la fine del Quattro e l’inizio del Cinquecento, il dibattito religioso e spirituale
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delle quali, nella sala dell’archivio storico capitolare, è dedicata alla musica. Si possono quindi ammirare gli antichi libri provenienti dalla Biblioteca Ambrosiana, dalla Biblioteca Braidense, dall’Archivio di Stato di Parma, dall’Archivio di Stato di Piacenza, dagli Archivi Capitolari della Cattedrale e di Sant’Antonino, dall’Archivio Storico Diocesano di Piacenza e Bobbio, e dalla Biblioteca Passerini Landi. Straordinari capolavori dal IX al XV secolo raccontano la storia civile e religiosa del territorio, con particolare accento su Piacenza e Bobbio con il suo scriptorium, secondo solo a Montecassino. In particolare, l’ultima sezione è interamente dedicata al Libro del Maestro, un totum liturgico che, dal XII secolo, è stato modello e tesoro per la liturgia e che come substrato culturale delle opere di Dürer, il suo rapporto con la committenza attraverso l’analisi della ritrattistica, dei soggetti mitologici, delle pale d’altare, la sua visione della natura e dell’arte tra classicismo e anticlassicismo, la sua figura di uomo e le sue ambizioni d’artista. Si possono ammirare circa 130 opere, principalmente del maestro del Rinascimento tedesco – fra pitture, stampe grafiche e disegni –, che nelle mani di Albrecht Dürer assumono un valore e una centralità nel processo creativo praticamente senza precedenti. La collezione è affiancata da opere di artisti tedeschi suoi contemporanei come Lucas Cranach, Albrecht Altdorfer, Hans Baldung Grien da un lato, e dall’altro di grandi pittori, disegnatori e artisti grafici italiani della Val Padana fra Milano e Venezia,
come Giorgione, Andrea Mantegna, Leonardo da Vinci, Andrea Solario, Giovanni Bellini, Jacopo de’Barbari, Lorenzo Lotto. info palazzorealemilano.it; mostradurer.it; prenotazioni tel. 02 54913; www.ticket24ore.it PIACENZA I MISTERI DELLA CATTEDRALE. MERAVIGLIE NEL LABIRINTO DEL SAPERE Kronos-Museo della Cattedrale fino al 7 luglio (dal 7 aprile)
A coronamento del nuovo allestimento del Museo del Duomo di Piacenza, viene presentata una mostra che riporta alla luce alcuni dei piú preziosi codici miniati medievali, come il Libro del Maestro o il Salterio di Angilberga, appartenenti al patrimonio archivistico cittadino. Il percorso si articola in cinque sezioni, la prima
costituisce una summa culturale, secondo la concezione medievale. Il Libro del Maestro è il volume piú importante e misterioso dell’archivio della Cattedrale, la cui stesura ebbe inizio al principio del XII secolo. Al suo interno conserva nozioni di astronomia e astrologia, usi e
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AGENDA DEL MESE costumi della popolazione legata ai cicli lunari e al lavoro nei campi. Il codice illustra, attraverso splendide miniature e formule melodiche (dette tropi), i primi drammi teatrali liturgici medievali, rappresentati in chiese e conventi, come primi strumenti di comunicazione delle storie della Bibbia. info tel. 331 4606435 oppure 0523 308329; e-mail: cattedralepiacenza@gmail.com; www.cattedralepiacenza.it FERRARA EBREI, UNA STORIA ITALIANA. I PRIMI MILLE ANNI Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS fino al 16 settembre
Con questa mostra, che ha segnato l’inaugurazione del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS, si illustrano le origini della presenza ebraica
in Italia dai suoi albori sino al Medioevo, evidenziandone i caratteri di specificità e unicità. Il percorso espositivo, che prefigura la prima sezione del futuro Museo, presenta oggetti autentici, repliche, modelli, immagini, mappe, scenografie e dispositivi multimediali, grazie ai quali si
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raccontano il primo millennio di storia dell’ebraismo italiano, il suo radicamento e la sua espansione grazie alle conversioni e agli apporti da altri territori, e il processo di formazione della sua peculiare identità. Da dove sono venuti gli Ebrei italiani? Quando? Perché? E, una volta giunti in Italia, dove hanno scelto di attestarsi? Quali rapporti hanno stabilito con le popolazioni residenti, con i poteri pubblici: prima con la Roma imperiale, poi con la Chiesa, ma anche con i Longobardi, i Bizantini e i musulmani, sotto il cui dominio hanno vissuto? Quali sono stati la vita, le consuetudini, la lingua, la cultura delle comunità ebraiche d’Italia nel corso di tutto questo lungo tempo? E soprattutto: cosa ha di particolare e di specifico l’ebraismo italiano rispetto a quello di altri luoghi della diaspora? Le risposte a questi interrogativi sono affidate a un nuovo modo di presentare la storia in un museo: un modo che pone esplicitamente al centro le persone e non le cose, le persone attraverso le cose. Gli oltre duecento oggetti in mostra, alcuni dei quali mai esposti in una sede pubblica, sono stati selezionati soprattutto per rappresentare i contesti di cui sono testimonianza. La loro conoscenza e comprensione è affidata anche ai titoli e ai testi di sala, ai documenti e alle immagini, alle ricostruzioni e alle evocazioni di ambienti, di situazioni, di eventi, e alle parole dei curatori e degli esperti, che lungo l’itinerario si rivolgono al visitatore attraverso i video, rendendo esplicita l’interpretazione storica proposta. info www.meisweb.it
Appuntamenti
FIRENZE L’ALTROVE A FIRENZE. TESTIMONIANZE FRA ARTE E SCIENZA Palazzo Pitti, Teatro del Rondò di Bacco fino al 28 marzo
Il ciclo di conferenze, pensate per quanti desiderino conoscere meglio la storia di Firenze, nasce dalla collaborazione tra le Gallerie degli Uffizi e il Museo di Storia Naturale dell’Università degli Studi di Firenze. Il ciclo è dedicato sia ai docenti delle scuole di ogni ordine e grado, che potranno farlo valere anche come corso di aggiornamento, sia al pubblico dei musei fiorentini. Questi i prossimi appuntamenti in programma:
14 marzo, ore 17,00: Cosimo III e i viaggi da giovane principe per l’Europa (Ilaria della Monica, Villa I Tatti, The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies). 28 marzo, ore 17,00: Firenze e l’America: Amerigo Vespucci e l’invenzione del Nuovo Mondo (Filippo Camerota, Museo Galileo-Istituto e Museo di Storia della Scienza). info www.uffizi.it ROMA VISITE GUIDATE ALL’AULA GOTICA DEL MONASTERO DEI SS. QUATTRO CORONATI fino al 30 aprile
Tornano gli appuntamenti con le visite guidate all’Aula Gotica dei Ss. Quattro Coronati, uno
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dei monumenti piú ricchi di storia, arte e spiritualità della Roma medievale. L’Aula era l’ambiente piú prestigioso del palazzo cardinalizio eretto da Stefano Conti: vi si svolgevano banchetti, ricevimenti e vi si amministrava la giustizia. Mirabile esempio di architettura in stile gotico, eccezionale per la città di Roma, il salone colpisce per lo straordinario ciclo pittorico che adorna le sue pareti, attribuito al Terzo Maestro di Anagni e a Giunta Pisano e databile alla metà del Duecento. Rimaste per secoli nascoste sotto strati di tinte successive, le meravigliose decorazioni sono tornate a risplendere grazie a un lungo restauro. Questo il calendario delle prossime visite: 10, 11 e 30 aprile. I turni di visita saranno ogni ora, dalle 9,00 fino all’ultimo turno d’ingresso delle 18,00. Le richieste di prenotazione vanno indirizzate a: archeocontesti@gmail.com info tel. 335 495248; www. aulagoticasantiquattrocoronati.it; www.associazionecontesti.org
APPUNTAMENTI • Fiori, acque e castelli Strassoldo (Cervignano del Friuli, Udine) 24-25 marzo info www.castellodistrassoldo.it
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manieri di Strassoldo, a Cervignano del Friuli (Udine), riaprono i battenti due volte l’anno per «Fiori, acque e castelli». L’appuntamento di primavera, che si svolge il 24 e 25 marzo, offre una carrellata di piante rare, oggetti antichi e pezzi firmati da artigiani, artisti e decoratori. L’evento può essere l’occasione per visitare gli interni e il parco delle due fortezze, di solito chiuse al pubblico, la cui storia affonda le radici nella metà del primo millennio. Infatti, già nel 530, lungo la via Iulia Augusta, arteria che dall’età imperiale collegava Aquileia all’Austria centrale, era documentata l’esistenza di un complesso con due torri, attorno alle quali si sarebbero sviluppati i due castelli di Sotto e di Sopra, come baluardi nella fascia di pianura che si stende a una ventina di chilometri da Udine. Entrambe le strutture facevano capo agli Strassoldo, feudatari presenti nella regione dal 1077, l’anno in cui l’imperatore Enrico IV donò la contea del Friuli al patriarca di Aquileia Sigeardo. Incastonato nell’abitato, il forte di Sopra si raggiunge dal Borgo Vecchio, che conta le case degli armigeri, la chiesa gentilizia di S. Nicolò e la Vicinia, cuore amministrativo e tribunale medievale. Addossato al mastio ottoniano il corpo centrale della struttura si innalza sul parco, mentre il brolo e la pileria del riso conducono al castello di Sotto, che è circondato da una cerchia muraria merlata, il Gironutto. All’architettura fortificata si accede attraverso la porta della Pusterla, oltre la quale svetta il torrione originario. Stefania Romani
ROMA LUCE SULL’ARCHEOLOGIA ROMA E IL MEDITERRANEO Teatro Argentina fino al 13 maggio
In continuità con le precedenti edizioni, gli incontri della IV edizione di «Luce Sull’Archeologia», rassegna che si svolge presso il Teatro Argentina di Roma, hanno come filo conduttore le relazioni fra Roma e il Mediterraneo. Il Mare Nostrum è un susseguirsi di mari, di paesaggi, di popoli, un crocevia antichissimo dove persone, merci, idee e diverse forme dell’estetica generarono
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la diffusione di civilta, culti, costumi e leggende. In ogni incontro, prima dell’intervento iniziale, ci saranno 10/15 minuti di «Anteprime dal passato»: notizie su ritrovamenti, scoperte e mostre, a Roma e non solo, a cura di Andreas M. Steiner, direttore dei mensili «Archeo»
e «Medioevo». Questo il calendario degli appuntamenti in programma: domenica 8 aprile, ore 11,00: Il lusso dall’Oriente. Commerci e bottini che fecero grande Roma (relatori: Stefano Tortorella, Lucrezia Ungaro, Alessandro Viscogliosi).
domenica 15 aprile, ore 11,00: Roma verso l’Egitto. Protagonisti e vicende (relatori: Francesca Cenerini, Alessandro Pagliara, Claudio Strinati). domenica 22 aprile, ore 11,00: Popoli del Mediterraneo antico (relatori: Maamoun Abdulkarim, Massimiliano Ghilardi, Alessandro Naso). domenica 13 maggio, ore 11,00: Matera lucana tra Greci e Romani (relatori: Pietro Laureano, Massimo Osanna, Giuliano Volpe, Raffaello Giulio De Ruggiero). info www.teatrodiroma.net
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religione
Il Profeta e la bevanda proibita di Marco Di Branco
Nell’Islam, la condanna delle bevande alcoliche è davvero assoluta? Il Corano ne prescrive l’astinenza per i fedeli, ma non mancano interpretazioni meno rigide di quel dettato. Il vino, per esempio, per alcuni poeti e teologi musulmani, non è visto solo come un «abominio» o un’«opera del diavolo»… 40
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el periodo preislamico, che i musulmani chiamano età dell’«Ignoranza» (jahiliyya), il consumo di bevande inebrianti era piuttosto diffusa tra gli Arabi. L’Islam definisce il bere un peccato, in quanto fonte di corruzione individuale e sociale, e i dizionari arabi istituiscono un parallelo fra il termine khamr, «vino», e la parola khimar, «velo», affermando che il vino vela lo spirito e impedisce il giudizio razionale. Il divieto islamico che colpisce il vino non si è comunque prodotto in un colpo solo: esso si è imposto progressivamente, e perfino il Profeta Maometto non sembra insensibile al suo fascino, giacché un versetto coranico promette ai fedeli un vino che non produce ebbrezza. Nella II sura del Corano si afferma che il vino e il gioco di azzardo comportano per l’uomo un gran peccato e un grande vantaggio, ma il peccato che vi si trova è piú grande della loro utilità. Infine, nella sura V, il testo sacro dei musulmani vieta definitivamente il vino, dichiarando: «O voi che credete, il vino, il gioco d’azzardo, gli idoli e le frecce divinatorie sono un abominio, un’impurità gra-
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Placchetta in avorio raffigurante una scena di banchetto sovrapposta a un motivo decorativo a tralci di vite. Produzione fatimide, XI-XII sec. Berlino, Museum für Asiatische Kunst.
ve e un’opera del Diavolo. Evitatele» (V 91). Nel versetto che segue, piú esplicito, il Corano fornisce un orientamento globale e definisce il contesto nel quale questa bevanda è stata vietata: «il gioco d’azzardo e il vino sono artifizi che Satana utilizza perfidamente per gettare la discordia tra le genti, provocando risse, odii e vendette».
Vino e scuole giuridiche
Successivamente, la scuola giuridica shafiita (dal nome del suo fondatore, il giurista Muhammad ash-Shafii [767-820], n.d.r.) e quella malikita (basata sull’insegnamento di Malik ibn Anas [709/716-795], n.d.r.) vietarono il consumo di ogni tipo di bevande inebrianti, ivi compreso il succo di datteri fermentato. Al contrario, la scuola hanafita (che segue gli insegnamenti di Abu Hanifa [m. 767], n.d.r.) non espresse mai una chiara condanna
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religione Il dettato del Corano
Versetti «astemi» L’atteggiamento ambivalente della cultura islamica nei confronti del vino si mostra bene nel versetto coranico che segue, in cui si afferma esplicitamente che nelle bevande inebrianti vi è anche qualche vantaggio: «Ti chiedono del vino e del gioco d’azzardo. Dí: “In entrambi c’è un grande peccato e qualche vantaggio per gli uomini, ma in entrambi il peccato è maggiore dei benefici”» (Corano, 2:219). La legge islamica, comunque, vieta rigorosamente le bevande alcoliche che impediscono il normale funzionamento delle facoltà raziocinanti e che possono avere effetti dannosi sulla propria salute e su quella altrui: «O voi che credete, in verità, il vino, il gioco d’azzardo, le pietre idolatriche, le frecce divinatorie sono immonde opere di Satana. Evitatele affinché possiate prosperare. In verità, Satana vuole diffondere tra voi, mediante il vino e il gioco d’azzardo, inimicizia e odio, per allontanarvi dal Richiamo di Dio e dagli uffici divini. E allora, voi vi asterrete?» (Corano, 5:90-91). I brani sopracitati si riferiscono al vino terreno; nel Corano, però, si fa riferimento anche a un vino «paradisiaco», e questo passo coranico è a fondamento della visione positiva del vino che emerge nella dottrina dei sufi, i mistici dell’Islam: «[Ecco] la descrizione del Giardino che è stata promessa ai timorati [di Allah]: ci saranno ruscelli di un’acqua che mai sarà malsana e ruscelli di latte dal gusto inalterabile e ruscelli di un vino delizioso a bersi, e ruscelli di miele purificato. E ci saranno, per loro, ogni sorta di frutta e il perdono del loro Signore» (Corano, 47:15).
A destra placchetta in rame raffigurante un cortigiano seduto che regge un bicchiere di vino. Produzione fatimide, X-XII sec. Collezione privata.
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né per il vino, né per l’ebbrezza, né per la passione nei confronti delle rose, quest’ultima fortemente stigmatizzata dalla rigorista scuola hanbalita (che si ispira agli insegnamenti di Ahmad ibn Hanbal [m. 855], n.d.r.). E, tuttavia, gli stessi hanbaliti affermavano che il Profeta dell’Islam, prima di avere ricevuto la rivelazione divina concernente il divieto del vino, non rifiutava mai il vino che gli veniva offerto in occasione delle feste. Gli storici islamici riferiscono che il consumo di vino non fu mai veramente sradicato dal mondo islamico, malgrado i numerosi tentativi in tal senso posti in essere da califfi, giureconsulti ed emiri. Tutte le epoche e tutte le dinastie avevano conosciuto fasi di maggiore tolleranza: per esempio, il califfo omayyade Yazid (642-683) aveva introdotto a corte strumenti musicali e banchetti abbondantemente innaffiati da vino, che scorreva a fiumi nella corte abbaside, come anche nella corte safavide di Isfahan; inoltre un gran numero di miniature, dipinti e mosaici prodotti nel mondo musulmano mostrano chiaramente come il vino fosse parte integrante e irrinunciabile della dolce vita dei sovrani islamici di ogni epoca.
Ottanta frustate
Nel suo Libro delle bevande, Ibn Qutayba, che scrive nel IX secolo, si accontenta di presentare la controversia che opponeva i difensori del vino ai suoi detrattori, usando come guida il Corano. In ogni caso l’uso del vino veniva sanzionato penalmente: una legge attribuita al califfo Umar (634-644) stabiliva, per chi fosse stato ritenuto colpevole di aver fatto uso di bevande inebrianti, una condanna a ottanta colpi di frusta, da infliggere al colpevole una volta che fosse ritornato sobrio. La colpevolezza era stabilita sia per confessione dell’accusato, sia in seguito alla denuncia di due testimoni che l’avessero visto bere o che avessero percepito l’aroma alcolico da lui emanato. L’accusato poteva essere perdonato solo se si fosse accertato che era stato costretto da violenza o da necessità (per esempio, il pericolo di soffocamento). Tuttavia, in Paradiso l’universo vinicolo è ben diverso: qui la vigna è Nella pagina accanto miniatura di scuola araba raffigurante una coppia che beve vino. XIV sec. Istanbul, Sülemaniye-Bibliothek. marzo
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religione presentata come un beneficio divino (XVI 67) e gli eletti degustano un vino di rara bontà (LXXXIII 25), mentre i fiumi di vino sono una promessa accordata ai credenti degni del Paradiso. Nulla rappresenta meglio l’ambivalenza islamica nei confronti del vino di questo dato, apparentemente sconcertante ma ricco di implicazioni. Tra l’VIII e il IX secolo visse presso la corte del califfo abbaside Harun al-Rashid, Abu Nuwas, uno dei poeti piú controversi della letteratura araba, che per primo cantò il vino e il simposio in un contesto islamico. Nato da padre arabo e madre persiana, forse ad Ahwaz, In basso calice in vetro decorato con pastiglie di pasta vitrea applicate. Produzione islamica, XIV sec. Damasco, Museo Nazionale.
nell’attuale Iran, presto si trasferí a Baghdad e divenne poeta di corte. Alcuni racconti dell’epoca dicono che fosse di una bellezza straordinaria, fatto che sicuramente lo favorí nel condurre la vita libertina che tanto amava. Nei suoi componimenti predicava l’amore libero, senza fare troppe differenze tra uomini e donne, consigliando come soluzione a ogni problema un bicchiere di vino, prodotto, allora, nei monasteri cristiani di cui il poeta era assiduo frequentatore. La perenne ubriachezza e la cocciutaggine per le quali era famoso, però, gli complicarono non poco la
L’epitaffio di Abu Nuwas «Amici, in nome di Dio, non mi scavate la tomba se non a Qutrabbul, tra i frantoi e le vigne; non mi mettete vicino alle spighe. Chi sa che io non senta nella mia fossa, quando si pigia il vino, il calpestio dei piedi. Fate circolare la coppa, e si dileguerà la sventura, e il mio occhio godrà lo squisito profumo del mondo» (traduzione di Leonardo Capezzone)
vita. Per esempio, fu costretto a fuggire in Egitto dopo aver composto un’elegia in onore di una nobile famiglia persiana che era stata giustiziata dal califfo. Poté fare ritorno alla corte di Baghdad solo in seguito alla morte di Harun al-Rashid, quando salí al trono il figlio, al-Amin. Quest’ultimo era stato suo allievo e, sulle orme del maestro, amava moltissimo la dolce vita e i piaceri della carne.
La triste fine del poeta bevitore
In questo periodo Abu Nuwas compose la maggior parte dei suoi poemi, tra cui la sua ode (qasida) piú famosa, dedicata proprio alle prodezze del giovane califfo abbaside. Le cose si complicarono notevolmente quando prese il potere al-Ma’mun, fratello puritano di al-Amin. Alcuni testi narrano di alcuni tentativi del poeta di redimersi, dedicandosi alla religione, probabilmente per conquistare i favori del nuovo sovrano. Tuttavia, si racconta anche che il segretario del califfo abbia provocato Abu Nuwas, chiedendogli di scrivere una satira sul quarto califfo, Ali. Il poeta, ovviamente ubriaco, non si fece pregare troppo e assecondò la sua richiesta. Purtroppo per lui questo gli valse la prigione, dove non è chiaro se morí o venne avvelenato. L’eccentricità di questo personaggio ha affascinato e influenzato molti autori successivi. Una versione stilizzata del poeta-libertino appare in alcuni racconti delle famose Mille e una notte, insieme allo stesso califfo Harun al-Rashid. Per il grande poeta, filosofo e matematico persia-
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no Omar Khayyam, il vino assurge invece al rango di simbolo dell’attimo fuggente che consente al saggio di godere delle poche gioie che offre la vita. Fondandosi sul versetto 15 della sura XLVII, secondo cui il paradiso contiene molti fiumi di acqua, latte, miele e vino, Raqiq al-Qayrawani – autore di un libro di sintesi letteraria sul vino – crede invece di individuare nel Corano una preferenza divina per il vino. In effetti, secondo Qayrawani, Dio ha evocato l’acqua, il latte e il miele, ma ha attribuito a queste sostanze solo la qualità che è loro intrinseca: l’incorruttibilità per l’acqua e il latte, la purezza per il miele; solo il vino viene presentato come una delizia per chi lo beve, e ciò indicherebbe il fatto che essa è la sostanza preferita da Dio.
Il vino mistico
Conseguentemente, alcune sette che fanno riferimento allo sciismo estremo, come i Nizari e gli Alawiti, fanno regolarmente uso di vino nella loro liturgia. Qui, tuttavia, il vino profano – fatto per essere degustato nei banchetti – diviene, come nella liturgia cristiana, vino mistico, che presso i sufi, soprattutto persiani, simboleggia la via d’accesso alla conoscenza di Dio senza piú negazioni. Il mistico è cosí paragonato all’innamorato, la cui ebbrezza è metafisica e rappresenta la conoscenza, la perfezione e l’amore infinito del Dio creatore. Essa abolisce le catene che legano l’essere mortale alla sua contingenza fisica, elevandolo fino alle piú alte sfere del pensiero. Agli occhi dei mistici, scopo ultimo del consumo di vino è il raggiungimento di uno stato di estasi prossima all’illuminazione. Un esempio straordinario di questo tipo di atteggiamento è costituito dall’opera di Hafez, (segue a p. 49)
Miniatura raffigurante un automa per la mescita del vino, da un’edizione manoscritta del Libro della conoscenza delle apparecchiature ingegneristiche dell’ingegnere di palazzo al-Jazari. XIII sec. Oxford, Bodleian Library.
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religione il vino di hafez
«Parlatemi solo di coppe...» In una delle composizioni che fanno parte del suo Canzoniere, il poeta persiano Hafez si esprime cosí a proposito del vino: «L’eternità sta nel vino, coppiere, a me versane l’ultima goccia: lassú non fiorita è radura, non quale a Shiraz riva d’acque. Di liuti parlatemi solo, parlatemi solo di coppe: il segreto di questo mondo è un enigma che mai saprà scioglier sapienza. È fuoco nel cuore, il dolore d’amato, ne arse il mio petto: bruciarono vampe la casa nei suoi piú segreti recessi. Si dissolse il mio corpo, lontano dal ladro di cuori, bruciò l’anima, al fuoco solare del volto che amiamo. Chi ebbe a veder la catena dei riccioli tuoi, sopra viso di fata, nel seno colmo di nera passione bruciò per me folle. Oh, che fiamme ho nel petto! A queste mie lacrime calde, iersera, il cuore del cero fu preda all’amore e bruciò a causa mia qual falena! Se un amico si strugge per me non è cosa bizzarra: fu cuore d’estraneo a bruciare, allorché me ne andai da me stesso. A me rapí il saio devoto quell’acqua che corre in taverna, e il fuoco che è là tra le giare bruciò la dimora ove stava intelletto. Quale coppa s’infranse il mio cuore per tal contrizione, e qual tulipano bruciava, in assenza di calice e vino. Dimentica quello che è stato, ritorna, ché a me la pupilla, nell’occhio, se lo tolse di dosso, e bruciò ringraziando, il suo saio. Abbandona le fiabe, poeta, ed un attimo in pace centellina il vino, ché tutta la notte vegliammo, e ascoltate le fiabe bruciò la candela. Veramente infinita è la bruna dolcezza d’un corpo, e il bruno vino dell’occhio, e il riso del labbro, e la grande letizia del volto! Io sono lo schiavo di tutte le bocche soavi del mondo, ma questo è un sovrano che tutte le bocche soavi suggella. Questa gota colore del grano maturo c’insegna perché, come Adamo si volse alla spiga, si perse. In nome di Dio, dite, amici, per questa ferita quale balsamo resta sul cuore, se egli è partito? Bello il volto, è perfetta virtú, ed è limpido il grembo: a lui gli angeli e i puri del mondo s’affannano attorno. Chi potrà credermi dunque se è lui che petroso m’uccide, e pur lui che qual Cristo richiama con soffio lievissimo a vita? Io sono un poeta che crede: si tenga di me qualche conto, perché ben conosco la grazia, conosco il perdono dei santi». (traduzione di Gianroberto Scarcia e Stefano Pellò) A destra miniatura raffigurante un banchetto, da un manoscritto di uno dei poemi di Hafez. 1554. Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial.
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In basso, a destra l’interno di una coppa in ceramica smaltata raffigurante un uomo che mesce del vino. Produzione egiziana, XI-XII sec.
La versione di Omar Khayyam
Meglio vivere nell’ebbrezza Le quartine (robayyat) di Omar Khayyam non cessano di sedurre da quasi un millennio con la loro dolcezza, la loro gioia e la loro tristezza. Il persiano Omar Khayyam ha consegnato il suo nome, e la sua esperienza profonda della vita, a questo manipolo di fuggevoli impressioni liriche, di annotazioni di un razionalismo pessimistico, come vogliono alcuni, o d’una misticità esoterica, come sostengono altri. Un canto la cui immediatezza e altissima liricità si esprimono nell’obbligata brevità della quartina, nella quale il vino è spesso protagonista assoluto. «Gli amici che abbiamo amato, i piú fedeli e leali, ci hanno lasciato uno dopo l’altro con loro bevemmo due o tre coppe alla mensa del mondo prima che, uno alla volta, andassero silenziosamente a dormire. Alle labbra di questa povera e polverosa coppa, bevvi per svelare il sottile segreto della vita; le labbra della coppa, alle mie labbra mormorarono, bevi fin quando vivrai, dopo non potrai piú farlo. Fin quando sprecherai tu la vita adorando te stesso? E ad affannarti a correr dietro all’Essere e al Nulla? Bevi vino, ché una Vita che ha in fondo solo la Morte Meglio è che passi nel sonno, meglio è che passi in ebbrezza». (traduzione di Alessandro Bausani)
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Consumo e produzione
La storia continua In Turchia, Paese musulmano, ma nella cui Costituzione laica voluta da Mustafa Kemal Atatürk la parola «Islam» non compare mai, il consumo di alcolici è dieci volte superiore a quello dell’Egitto, anche se entrambe le nazioni contano circa 70 milioni di abitanti. Nel 2016 la produzione complessiva è stata di 928 milioni di litri, con un incremento del 9% rispetto all’anno precedente. Di questi, circa 780 milioni sono di birra. Anche in Marocco la vendita di alcolici è cresciuta del 4,6% nel 2003, con la birra che rappresenta il 72% del mercato e il 44% del fatturato, in considerazione del fatto che costa poco rispetto al vino e ai superalcolici. L’altra grande novità è che la produzione di alcolici nei paesi musulmani, come qualsiasi altra merce che deve competere in un mercato globalizzato, tende a migliorare sempre piú sul piano della qualità. Il «Coteaux de l’Atlas», il vino piú prestigioso prodotto dall’azienda marocchina «Les Celliers de Meknès» (40 milioni di litri annui), ha ottenuto la medaglia d’argento dell’Unione degli enologi francesi nel 2004. Il «Chateau Tellagh», prodotto nella regione algerina di Medea dall›azienda statale ONCV (Office National de Commercialisation des Produits Vitivinicoles), ha vinto il Premio della giuria dell’Esposizione vinicola di Montreal del 1998. La riscoperta dell’alcol nei Paesi musulmani costituisce in effetti un ritorno alle proprie radici. Tutto il bacino mediterraneo, millenni prima di Cristo, produceva vino e birra. Bevande fermentate e inebrianti erano note nella Penisola Arabica molto tempo prima dell’avvento dell’Islam. A livello popolare, l’alcol è sempre stato presente: come scrive, nel XII secolo, il sufi Ibn al-Farid, «Dicono: “hai bevuto il peccato!”. Nient’affatto, ho bevuto ciò che sarebbe peccato abbandonare! Non c’è vita in questo mondo per chi è sobrio, chi muore senza avere provato l’ebbrezza ha vissuto invano». Illustrazione da un’edizione manoscritta del Khamse del poeta ’Ata’i, raffigurante l’autore che parla con un erudito in una taverna. XVII sec. Istanbul, Biblioteca del Serraglio del Topkapi.
il poeta persiano piú celebre e amato, che mostra l’affascinante intreccio di amore carnale e mistica sufi in un contesto antitetico di figure dell’ipocrisia (il predicatore, il censore, ecc.) e di figure della sincerità (il libertino, il mendicante, il bevitore) che configurano una controcultura innervata nell’amore e nell’ebbrezza. O nell’ebbrezza dell’amore.
Le doglianze dell’imperatore
Al di là della mistica e nonostante i divieti espliciti, il vino era comunque parte dell’alimentazione dell’élite musulmana, al punto che la polemica anti-islamica di tradizione cristiana poteva proiettare sul sultano ottomano lo stereotipo negativo del sovrano beone tanto stigmatizzato dalla Chiesa bizantina. Cosí, l’imperatore Manuele II Paleologo (1391-1425), in una lettera al letterato bizantino Demetrio Cidone, si lamenta di dover affrontare un invito alla corte del sultano ottomano, dove non avrebbe potuto fare a meno (essendo un vassallo) di bere svariati vini. Nella sua risposta, Demetrio fa del suo meglio per minimizzare le preoccupazioni dell’illustre mittente: certamente le coppe dorate e le chiacchiere dei convitati non lo danneggeranno, al contrario, essendo egli un sapiente, non potrà che riceverne ispirazione. F
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AMORE:
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l’uso
di Alessandro Bedini
Personaggio dalla vicenda biografica solo in parte conosciuta, Andrea Cappellano scrisse nel XII secolo un trattato amoroso in tre libri che ottenne un grandissimo successo. Una sorta di vero e proprio manuale, ma anche una testimonianza vivida e preziosa degli ideali ai quali ogni buon cavaliere era tenuto a ispirarsi in campo sentimentale
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ndrea Cappellano è un personaggio ancora oggi sconosciuto ai piú. Nonostante gli studi storici e letterari, resta infatti avvolto da un alone di mistero del quale, probabilmente, egli stesso volle circondarsi. Sappiamo in realtà ben poco sulla sua vita e sul titolo di capellanus che gli è stato attribuito, se non che compose il trattato amoroso piú divulgato nel Medioevo: il De amore. Scritto in latino, è suddiviso in tre libri e conosciuto anche con i titoli di De arte honesti amandi e Gualtieri, quest’ultimo dal personaggio a cui venne dedicato. La versione in volgare ci è pervenuta attraverso cinque traduzioni dal latino, anonime, contenute in quattro codici fiorentini e in uno vaticano, il Barberiniano-latino, conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana. Il trattato d’amore di Cappellano ebbe ampia diffusione per tutto il Medioevo e oltre. L’esaltazione della sensualità, la raffinata rappresentazione delle tecniche di corteggiamento, l’idea secondo cui il matrimonio non sarebbe compatibile con l’essenza piú profonda dell’amore – tesi contenute in particolare nel primo dei tre libri – costarono al suo autore la pubblica condanna da parte del vescovo di Parigi, Étienne Tempier, nel 1277. Lo stesso De amore contiene le
Miniatura raffigurante una scena d’amor cortese, da un’edizione del Livre du coeur d’amour epris di René d’Anjou, miniata da Barthelemy d’Eyk. XV sec. Vienna, Nationalbibliothek.
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notizie a oggi disponibili su Andrea, altrimenti menzionato nei manoscritti con il solo nome di battesimo, sebbene alcuni lo abbiano identificato con Andrea de Luyéres. Vissuto probabilmente tra il 1150 e il 1220 – le date di nascita e di morte sono incerte –, Andrea, secondo le fonti, fu cappellano di Maria di Champagne, ripetutamente citata nella sua opera (vedi box a p. 58).
Duchessa e mecenate
Secondo altri avrebbe invece ricoperto, tra il 1190 e il 1191, il ruolo di ciambellano del re di Francia. Maria era la figlia di Luigi VII di Francia e di Eleonora d’Aquitania, il cui matrimonio venne sciolto nel 1152, a causa della presunta condotta scandalosa della donna. Ciò non le impedí di risposarsi con Enrico Plantageneto, futuro re d’Inghilterra. La duchessa, che era nipote di Guglielmo IX duca d’Aquitania, il primo dei trovatori e inoltre grande protettrice di Chretien de Troyes – il piú grande poeta dell’Occidente medievale prima di Dante, cantore del raffinato mondo cavalleresco, nonché appassionato traduttore di Ovidio – compare spesso nel trattato di Cappellano. A differenza di quanto è stato da alcuni ipotizzato, Andrea non nacque a Parigi, ma vi giunse da Troyes, dove aveva soggiornato per alcuni anni presso la corte del fratellastro di Maria di Champagne. Piú certe sono invece le notizie sul destinatario del suo trattato amoroso: si tratta di Gautier il Giovane, nato nel
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In alto miniatura raffigurante la Sempronia detta «Romana» da Giovanni Boccaccio (per distinguerla dalla piú celebre sorella dei Gracchi) e i suoi amanti in un giardino, con strumenti musicali, da un’edizione in lingua francese del De mulieribus claris del poeta toscano. 1402-1403. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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Nella pagina accanto miniatura raffigurante Galvano, cavaliere della Tavola Rotonda (qui identificato dall’armatura), che incontra un altro cavaliere, accompagnato da una dama, della quale si innamora, da un’edizione del Roman de Tristan illustrata dal Maestro di Carlo del Maine. XV sec. Chantilly, Musée Condé. marzo
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1163, che fu ciambellano del re di Francia Filippo Augusto. Secondo gli studi piú recenti, l’opera sarebbe stata composta dopo il 1174. Tra il XII e il XIII secolo le corti feudali francesi furono percorse da una vera e propria «rivoluzione culturale»: dal Nord e poi dal Sud della Francia, i trovatori stavano diffondendo in tutto l’Occidente l’ideale dell’amor cortese o fin’amor. Non si trattava solo di una moda letteraria, ma di un vero e proprio stile di vita, destinato a influenzare i comportamenti sociali e anche politici dei grandi signori feudali dell’epoca. Strettamente collegato con l’ideale cavalleresco – condannato dalla Chiesa in quanto esaltazione dei sensi e dell’erotismo –, l’ideale dell’amor cortese, con le sue regole, i suoi caratteri distintivi, ispirò il dolce stil novo, che ebbe in Dante,
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Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia, Guido Guinizzelli le sue maggiori espressioni. Il De amore si pone come una vera e propria sintesi di quello che deve essere il fin’amor, un vademecum per gli amanti, per certi versi un elogio dell’adulterio. La Francia della fine del XII secolo vede il tramonto della dinastia capetingia e il massimo splendore di Angioini e Plantageneti: uno snodo che ebbe il suo compimento proprio nella figura di Eleonora d’Aquitania. È nell’ambiente da lei creato che s’incontrarono la tradizione letteraria del Nord della Francia – che possiamo definire eroica – con la lirica provenzale, dolce e raffinata. La materia di Bretagna, che proprio Chretien fu capace di comporre in una mirabile sintesi, fu l’inizio dell’elaborazione trobadorica dell’amor cortese. Chretien visse presso la
Il Palazzo d’Amore Il Palazzo d’Amore è il vero nucleo del trattato di Andrea Cappellano. Egli lo rappresenta al centro del mondo, in quanto l’amore è fonte e origine di ogni bene. Nel Palazzo, dove troneggia l’amore, vi sono tre porte. Davanti alla prima porta si trovano le dame che ascoltano la voce d’amore; davanti alla seconda, ci sono le dame che rifiutano di ascoltare quella voce: di fronte alla terza, infine, ci sono coloro le quali sono mosse esclusivamente dalla sessualità, dal piacere e dalla soddisfazione del desiderio. Soltanto le prime saranno degne di entrare nel Palazzo d’Amore e di essere onorate dai cavalieri. Le altre saranno abbandonate al loro destino.
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corte di Maria di Champagne nella seconda metà del XII secolo e qui compose i romanzi del ciclo arturiano, le avventure di Lancillotto, Perceval, Galvano, eroi di quell’ideale cortese che era fondamento del fin’amor, tema dominante nella prosa di Andrea Cappellano. La prima crociata aveva prodotto i suoi effetti sulla società occidentale e su quella cavalleria mondana, irrequieta e rissosa, tanto detestata da Bernardo di Chiaravalle: la con-
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quista di Gerusalemme aveva indirizzato una consistente parte dei cavalieri verso la Terra Santa, con la promessa della remissione dei peccati, oltre a quella di cospicui benefici economici.
L’anima e la borsa
La società feudale d’Occidente aveva trovato nel pellegrinaggio armato alla volta del Vicino Oriente lo sbocco naturale in grado di salvare l’anima e la borsa, ma nell’Europa feudale,
oltre a guerreggiare, il vero cavaliere poteva porre il suo coraggio e la sua cortesia al servizio di una dama. In questo ambito si sviluppa l’ideale di amor cortese, quello insomma di una vita piú bella, per citare Johan Huizinga (lo storico olandese [18721945], che, nell’opera Autunno del Medioevo, descrisse appunto l’ideale di vita bella, le convenzioni cavalleresche e cortesi del ducato di Bretagna, n.d.r.), fondato su un rapporto nuovo e diverso tra uomo e donna. marzo
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Fortuna di un’opera
Dodici regole per non sbagliare La fortuna del De amore va ben oltre il Medioevo. Se Cino da Pistoia si immerge «nel libro di Gualtieri / per trarne vero e nuovo intendimento», Stendhal, nel De l’amour (1822), pubblica in appendice le regole contenute nel secondo libro del trattato di Andrea Cappellano. L’Ottocento romantico conosce bene l’opera di Cappellano, ne apprezza la raffinata analisi, ne condivide, come fa appunto Stendhal, la neppure troppo nascosta sensualità. Per questo il celebre romanziere francese inserisce nella sua opera i dodici comandamenti d’amore: «E sappi che i dodici principali comandamenti d’amore sono i seguenti: Fuggi come peste nociva l’avidità e ricerca il suo contrario. Conserva la castità per l’amante. Non cercare volutamente di turbare la donna legata all’amore di un altro. Non scegliere l’amore di quella donna con la quale il naturale pudore ti impedisce di contrarre nozze. Ricordati di evitare soprattutto le menzogne. Non confidare il tuo amore a troppe persone. Segui gli insegnamenti delle donne e legati sempre alla cavalleria d’amore. Nel dare e nel ricevere piaceri d’amore mai deve mancare il senso di pudore. Non essere maldicente. Non spubblicare gli amanti. Sii sempre cortese e civile. Nei piaceri d’amore non sopraffare la volontà dell’amante». Miniatura raffigurante lo sposalizio di Isotta con il re Marco di Cornovaglia, da da un’edizione del Roman de Tristan illustrata dal miniatore noto come Maestro di Carlo del Maine. XV sec. Chantilly, Musée Condé.
La rinascita delle città, il gusto rinnovato per la cultura latina – i classici in particolare –, i romanzi cavallereschi che cominciarono a circolare, la Chanson de Roland, in Francia, Il Cantar del mio Cid, in Spagna, il Ciclo dei Nibelunghi in Germania, ne sono le testimonianze piú significative. Nel corso del XII secolo, l’ideale cavalleresco fu dunque punto di riferimento morale, culturale, civile, osteggiato dai chierici, ma ben presente nell’aristocrazia del tempo.
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Al contrario di quanto si è portati a pensare, nei secoli di Mezzo, in particolare quelli feudali, la donna non era affatto priva di autonomia e indipendenza. Ovviamente i ceti aristocratici erano piú favoriti da questo punto di vista, ma feudatarie – come le già citate principesse di Champagne –, e anche educatrici, artiste, letterate, godevano di uno status di autonomia rispetto all’uomo e per questo finirono per influenzare non solo la letteratura ispirata all’amor cortese, ma anche l’ideale cavalleresco vissuto come servizio, ossequio nei confronti della donna amata. La storica Régine Pernoud (1909-1998) scrisse in proposito pagine fondamentali, sottolineando, tra l’altro, come la donna in epoca medievale diventasse maggiorenne a dodici anni e come soltanto dal 1600 fosse costretta ad assumere il cognome del marito. Si resta stupiti, leggendo le pagine di un’altra storica francese, Florence Colin-Goguel, allieva di Jacques Le Goff, la quale constata
come il Medioevo fosse pervaso di attrazione carnale e di erotismo. La musica, i tornei, gli stessi usi enogastronomici e persino le metafore religiose contenevano molto spesso aspetti erotici. Da questo punto di vista, si può affermare che il trattato di Andrea Cappellano finí con il ricollocare e rimodellare il ruolo della donna nella sua sfera sociale e culturale: l’autore ne esalta il valore non solo come ispiratrice, ma come protagonista di una stagione di grande fervore intellettuale, inserendola a pieno titolo tra i personaggi principali della stagione artistico-letteraria nell’età di Mezzo. «È evidente e alla mia mente assolutamente chiaro che gli uomini non sono nulla, che sono incapaci di bere alla fonte del bene se non sono spinti dalle donne», si legge in un passo del De amore. La riforma gregoriana rappresentò un grande sforzo di aggiornamento delle istituzioni ecclesiastiche al mutato clima socio-politico dell’Occidente cristiano. In particolare sancí la separazione tra la sfera
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letteratura il de amore Corti d’amore Che cos’è una corte d’amore? Si tratta di un gioco di società o di qualcosa di piú serio, in cui la donna ha un ruolo di primo piano? Nelle corti d’amore, alle quali sono ammessi cavalieri e dame che abbiano la dignità di farne parte, si esaminano i casi amorosi che vengono sottoposti ai partecipanti. I convenuti ne discutono animatamente utilizzando metafore ed esemplificazioni calzanti, qualora non si trovi un accordo sull’argomento dibattuto si ricorre a un vero e proprio arbitrato da parte di quelli, ma soprattutto di quelle, maggiormente esperti/e in fatto di cortesia. Dopodiché viene emessa una sentenza. Dame del calibro di Eleonora di Aquitania, Maria di Champagne, Ermengarda di Narbonne, Adele di Champagne, erano molto spesso investite del delicato e raffinato compito dell’arbitrato in questioni legate al fin’amor.
clericale e quella laica, assegnando a ciascuno compiti ben definiti all’interno della respublica christianorum. Tale mutamento di prospettiva, che trovò numerose resistenze e ostacoli sia dal punto di vista teologico che politico, liberò quelle energie che diedero vita a un riordinamento sociale, come lo ha definito il medievista Jean-Claude Schmitt, che ebbe un impatto molto importante anche sull’universo femminile. Un riordinamento sociale che, grazie all’affermarsi dell’ideale cortese, produsse il mutamento decisivo tra una cavalleria votata alla difesa dei valori cristiani, investita di una sorta di dignità religiosa, rappresentata dalle Chanson de geste, e la figura dell’eroe cortese, eternamente innamorato, convinto che senza l’amore
non si possa raggiungere la perfezione. Lancillotto è il modello del cavaliere del XIII secolo: valoroso, fiero, di nobile lignaggio, ma anche amante per eccellenza.
Humus aristocratico
Come abbiamo visto, il trattato d’amore di Andrea Cappellano ha origine in questo ambiente dell’aristocrazia feudale nella Francia a cavallo tra XII e XIII secolo, in cui la figura femminile occupa un posto di primo piano. Il primo dei tre libri di cui l’opera si compone si sofferma sulla natura dell’amore. L’autore descrive le tecniche di corteggiamento che l’amante deve scrupolosamente osservare secondo precise regole cortesi. In primo luogo, per giungere alla piena soddisfa-
A destra particolare di una miniatura dal Codice Manesse raffigurante il poeta conosciuto come Der von Kürenberg in conversazione con la regina Eleonora di Aquitania. 1305-1340. Heidelberg, Universitätsbibliothek. Nella pagina accanto Abbazia di Fontevraud (o Fontevrault, Francia). Il sarcofago (gisant) di Eleonora d’Aquitania. XII sec.
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zione del desiderio amoroso, non è possibile esimersi dalle pene che tale sentimento provoca in chi è pervaso dall’impulso amoroso. La natura stessa dell’amore comporta sofferenza: «Amore prende nome dal verbo amare che significa prendere o essere preso, perché chi ama desidera prendere l’altro al suo amo», scrive Cappellano. Il trattato prosegue poi con i consigli su come corteggiare una donna di ceto inferiore, di ceto superiore oppure di pari rango e di come un plebeo debba porsi di fronte a una nobildonna. Nel primo caso, colui che voglia ottenere i favori della donna desiderata, dovrà insistere sulla gentilezza che deriva «dall’innata virtú» anziché dalla nobile nascita. «Dice l’uomo (...) devo necessariamente ammettere che bisogna ricercare l’amore di una plebea molto gentile piú che di una nobile illustre per troppa gentilezza (...) E perciò prego incessantemente Dio di mettere nel tuo cuore il saldo proposito di accettare sempre i miei servizi, affinché ogni giorno il mio animo possa crescere facendo del bene e per questa via possa pervenire degnamente ai favori desiderati». Proseguendo nel suo excursus, l’autore del De amore prende in esame il caso in cui un plebeo parli a una nobile. Egli deve attenersi a un codice ancor piú rigido. Se la donna è nobile, ma semplice, suggerisce Cappellano, fatte salve le lodi per l’origine e il sangue aristocratico dell’amata – approccio ritenuto indispensabile –, si potranno usare parole che il plebeo userebbe con la plebea. Se invece la donna è di ragguardevole livello culturale e inoltre accorta, si dovranno controllare le parole di lode da rivolgere a lei: «Infatti, se l’uomo con le sue parole loda oltre misura la donna nobile e saggia, lei crederà o che lui non possiede pienezza di facondia o dice il falso per spirito di adulazione o che la considera stolta». Il testo prosegue poi con illuminanti esempi di dialogo tra il plebeo e la nobile, la quale, però, difficil-
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mente cederà al suo spasimante, nonostante ne abbia apprezzato le lusinghe. Nell’indottrinare l’amico Gualtieri sui segreti dell’amore, Andrea Cappellano costruisce un dialogo immaginario tra un nobile e una nobile. Quali dovranno essere i codici cortesi tra due persone dello stesso rango? Innanzitutto, non ci sarà il timore di subire biasimi per il troppo ardire dell’amante, inoltre l’uomo dovrà scegliere accuratamente le parole di lode da rivolgere all’amata: «Tanta è la vostra nobiltà e tanta cortesia fa bella la vostra persona che tutte le cose che il mio cuore desidera dire, alla vista della vostra gentilezza credo di poter dire senza paura di rimproveri». La cavalleria d’amore ha in questo dialogo un’ampia preminenza, la donna amata cita spesso tale figura di cavalleria e aggiunge: «Con libera voce ti ho promesso il favore che ti posso concedere, cioè di avere la quotidiana visione corporale di me».
Evitare l’imbarazzo
Nel secondo libro, Cappellano si dedica a istruire Gualtieri sul come conservare l’amore. Il primo comandamento che occorre osservare è la segretezza. L’amore non dev’essere svelato, pena la perdita del naturale incentivo. È evidente che l’autore si riferisce alla relazione tra amanti e non a quella coniugale, e probabilmente questo e altri passaggi destarono i sospetti della Chiesa. Quando i due amanti si incrociano per strada – suggerisce Andrea – è meglio far finta di non conoscersi, per non creare imbarazzo. Al fine di conservare l’amore è inoltre necessario assecondare i giusti desideri della donna amata ed evitare in ogni modo azioni che possano offenderla. Nel caso in cui ciò involontariamente avvenga, l’amante deve mostrarsi pentito, contrito, pronto a spegnere l’ira che turba in quel momento l’animo della dama: «A conservare l’amore vale anche la grande generosità dell’amante, perché tutti gli innamorati devono di-
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letteratura il de amore sprezzare ogni terrena ricchezza e donarla a chi ne ha bisogno». È evidente il richiamo alla largesse, che rappresenta uno dei principi fondamentali dell’ ideale cavalleresco. L’amante deve dunque essere misurato nelle parole e nel portamento, perché l’eccessivo sfoggio di abbigliamenti costosi lo farebbe sembrare un vanaglorioso agli occhi della donna.
Elogio della gelosia
Affinché l’amore possa crescere e conservarsi, è necessario inoltre che gli amanti si frequentino raramente e superando diverse difficoltà. Piú l’incontro è difficoltoso, maggiore è il desiderio del piacere che si accresce. Secondo la raffinata psicologia dell’autore, è la vera gelosia a nutrire l’amore: se qualcuno infatti metterà gli occhi sulla donna amata, la si amerà e desidererà ancora di piú. Al contrario: quando la soddisfazione del piacere è troppo frequente o addirittura scontata, l’amore si affievolisce, decresce. Anche l’eccessivo scambio di parole è negativo per il nutrimento amoroso, cosí come la povertà dell’amante, che sarà preoccupato piú per il suo patrimonio che per la sua donna. Avidità e malizia – sentenzia Cappellano – sono acerrimi nemici dell’amore, in quanto contrari ai precetti della cortesia cavalleresca. Infine la donna si allontana se l’uo-
il ruolo della donna
Un brusco ribaltamento Nella terza parte del trattato di Andrea Cappellano non solo il ruolo dell’amore, ma quello della donna viene stravolto rispetto alle due precedenti. Qui troviamo, infatti, una vera requisitoria contro la figura femminile, nella quale compaiono espressioni di una veemenza inusuale. Scrive l’autore: «Ogni donna non solo è naturalmente avida ma è anche invidiosa e maldicente delle altre, rapace, dedita al piacere della pancia, incostante, chiacchierona, disobbediente e renitente ai divieti, superba e vanagloriosa, bugiarda, ubriacona, berlingatora, incapace di segreti, troppo lussuriosa, pronta a ogni male e incapace di amare con sentimento di cuore. E come Epicuro crede che il sommo bene consiste nel saziare la pancia, cosí la donna crede che le lodi di questo mondo stanno nella ricchezza e nell’avarizia». A destra particolare di un capolettera miniato raffigurante Maria di Champagne che compila la raccolta delle favole di a Esopo. XIII sec. Parigi, Bibliothéque de l’Arsenal. Nella pagina accanto miniatura dal manoscritto Sphaerae coelestis et planetarum descriptio (De Sphaera), attribuito a Cristoforo de Predis, raffigurante l’influenza di Venere: il giardino d’amore e la fontana della giovinezza. 1470 circa. Modena, Biblioteca Estense.
Maria di Champagne
Una musa dal multiforme ingegno Conosciuta anche come Maria di Francia per via delle sue origini, Maria di Champagne, protettrice e ispiratrice di Andrea Cappellano, fu una donna di grande cultura: conosceva il latino, il francese e l’inglese. Fu anch’essa letterata e poetessa presso la corte inglese dei Plantageneti dopo essersi trasferita
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dalla Francia. Nella seconda metà del XII secolo compose dodici lais, brevi composizioni spesso musicali, che venivano poi cantate dai giullari bretoni. Maria ne fece un genere del tutto originale sotto forma di novelle sentimentali e cortesi che influenzarono la letteratura dell’epoca. Leggenda e folklore si
fondono nell’eleganza dei versi che la poetessa mette in opera, collocando le avventure di cavalieri e dame tra l’Inghilterra e la piccola Bretagna. Mise inoltre in versi la celebre opera di Enrico di Saltrey l’Espurgatoire de Saint Patriz. Tradusse dall’inglese una sua raccolta di favole esopiane, a cui diede il titolo di Ysopet. marzo
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Nella pagina accanto ancora una miniatura dal De Sphaera raffigurante il pianeta Venere associato ai segni zodiacali della Bilancia e del Toro e, in basso, scene d’amore cortese. 1470 circa. Modena, Biblioteca Estense. In basso anello nuziale lavorato raffigurante due mani che si stringono, dalla Scozia. XV sec. Londra, Victoria and Albert Museum.
mo mostra superbia o se si dà facilmente «allo sproloquio folle e pazzo». L’amore può dunque finire e Andrea ne descrive il lento decadimento, facendo però un’ulteriore considerazione che finí per suscitare l’ira dei chierici, tanto dovette apparire «blasfema»: «Amore vuole gli amanti congiunti dalla stessa fede e concordi nell’identità dei desideri, altrimenti perdono il favore d’amore e sono considerati estranei alla corte d’amore. Ma anche il contratto matrimoniale mette in fuga l’amore, come insegna la teoria di alcuni amanti». Si tratta, insomma, di un autentico elogio, se non proprio dell’adulterio, di quello che oggi definiremmo libero amore. Dopo aver ripetuto le regole sotto forma di dodici sentenze pronunciate dal re d’amore in persona (vedi box a p. 55), l’autore sottolinea come dalla corte d’amore sarà respinto colui che non tiene fede alla promessa fatta all’amante di esserle fedele. L’inganno è volgarità indegna di un cavaliere, che non merita il rispetto della dama. La donna quindi ne rifiuti l’amplesso, sentenzia Andrea.
Un epilogo inaspettato
Al termine del trattato, nel terzo libro, Andrea Cappellano sorprende il lettore e in una certa misura lo delude. Tutto quello che aveva scritto riguardo il corteggiamento, la conservazione, la crescita dell’amore, le regole cortesi per raggiungere l’agognato traguardo, il codice etico da osservare nei confronti della donna desiderata, non è stato scritto – afferma egli stesso – per far
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vivere meglio la vita degli amanti, ma per rinunciarvi, rendendo costoro maggiormente consapevoli del pericolo che andrebbero correndo. Cappellano è esplicito e rivolgendosi direttamente a Gualtieri lo ammonisce: «Leggi dunque questo libro non per cercare attraverso il suo insegnamento di vivere la vita degli amanti ma per rinunciare, confortato dalla sua dottrina e conoscendo le donne a spingere il tuo animo ad amare; cosí avrai il premio eterno e meriterai maggior gloria da Dio». Una vera e propria ritrattazione, nello stile della palinodia, suggerita con ogni probabilità dalla necessità di non porsi in totale con-
trasto con la morale cristiana e non attirare sulla sua opera l’anatema dei chierici. Che però, come abbiamo visto, arrivò ugualmente. Nel terzo libro, Andrea esalta dunque l’amore coniugale, che solo può avvicinare a Dio e condanna quanti cedono agli «atti di Venere» al di fuori del talamo nuziale: «Oh com’è povero e pazzo, e piú che bestia chi per i momentanei piaceri carnali lascia il gaudio eterno e si assoggetta alle fiamme dell’Inferno eterno!». Inoltre, il peccato d’amore, che è fornicazione, sporca non solo l’anima, ma anche il corpo e quindi è ancor piú grave degli altri. Non soltanto, mentre nel secondo libro del trattato, Cappellano esalta la largesse cavalleresca come indispensabile generosità nei confronti della dama, qui ne condanna gli effetti, affermando che la prodigalità smisurata «getta nell’a-
bisso della povertà» ed è contraria alle Sacre Scritture. Si devono praticare le virtú dell’astinenza e dell’onestà e rifiutare la lussuria e i vizi che portano diretti verso le fiamme eterne e rifiutare amore, che è sempre e comunque tentazione e angoscia.
Disciplina clericale
Il bene e il male, l’inferno e il paradiso sono divisi dall’amore e dal modo in cui lo si pratica. L’Ars Amatoria di Ovidio, a cui, secondo alcuni studiosi, Cappellano si sarebbe ispirato, è assai lontana, mentre prevale l’ideale feudale di fedeltà, servizio e sottomissione, in questo caso nei confronti di una dama degna del suo cavaliere. In quest’ultima parte del De amore, Andrea Cappellano sembra voler rientrare pienamente nella disciplina clericale di cui egli stesso, in quanto chierico, fa parte. Il De amore resta tuttavia famoso in quanto guida che ci permette di conoscere la cortesia, i suoi precetti, i suoi usi e costumi. La corte e la sentenza d’amore «sono un po’ come l’omaggio feudale», ha scritto Régine Pernoud, che conclude: «Si è perciò immaginata la donna che esercita, a immagine del signore, una sorta di funzione giudiziaria nel campo, piú d’ogni altro attraente, dei rapporti amorosi». È per questo che il trattato del misterioso Andrea Cappellano suscita ancora oggi grande interesse e curiosità, e i suoi precetti in materia amorosa tanto inossidabile fascino. F
Da leggere Andrea Cappellano, De amore, traduzione di Jolanda Insana, SE, Milano 2002 Régine Pernoud, La donna al tempo delle cattedrali, Edizioni Lindau, Milano 2017 Stendhal, Dell’amore, Garzanti, Milano 2007
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Le imprese del gentil sesso di Elisabetta Gnignera
Riunendo in sé forza e bellezza, il topos della donna guerriera travalica i secoli: da Pentesilea, che guidava le leggendarie Amazzoni frigie, passando per Camilla, regina dei Volsci, fino a eroine quali la grancontessa Matilde di Canossa, Filippa Siccardi, feudataria duecentesca del Castello di Naro nelle Marche, Maria Puteolana – di cui scrive Francesco Petrarca – e, infine, Caterina Sforza, la temibile signora di Forlí
Battaglia delle Amazzoni, olio su tavola di Pieter Paul Rubens. 1615 circa. Monaco, Alte Pinakothek. Donne guerriere per antonomasia, le Amazzoni, secondo il mito, abitavano uno Stato situato sulla costa meridionale del Mar Nero e governato da una regina di nome Pentesilea.
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er comprendere l’affascinante figura della vergine guerriera, occorre leggere ben oltre il mito e indagare le profonde radici che legano le donne guerriere del Rinascimento alle antiche Amazzoni, con le quali le prime si confondono nella commistione di forza e bellezza che ancora incantava gli uomini a esse contemporanee, cosí come le seconde avevano ammaliato gli eroi dell’Ellade... Nella tradizione mitologica, le Amazzoni sono donne di uno Stato favoloso, governato da una regina, Pentesilea, sulla costa meridionale del Mar Nero, e dal quale gli uomini sono esclusi, oppure, secondo un’altra versione della leggenda, ridotti a schiavi e usati solo per la conservazione della specie ma resi inabili all’uso delle armi. Quest’ultimo, infatti, era riservato, come ogni attività superiore, alle donne, le quali si amputavano, cauterizzandolo, uno dei seni, cosí da poter maneggiare piú facilmente l’arco. Di tale leggenda reca traccia un’etimologia «popolare» del nome Amazones, fatto derivare, da alfa privativo e mazos, «seno». Che il regno delle Amazzoni comprendesse l’attua-
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costume e società le Anatolia e i territori del bacino dell’antico fiume Sakarya (Sangario) nell’Asia Minore, regione della Frigia (l’odierna Turchia), lo apprendiamo dall’Iliade, quando Priamo evoca «il dí che a pugna le virili Amàzzoni discesero» (Iliade, III, 244-253). Ne prosegue il mito Virgilio, con «Pentesilea furente», che «guida le file delle Amazzonidi dagli scudi lunati ed in mezzo a mille freme, guerriera, legando cinture auree alla mammella mozzata, e osa, ragazza gareggiare con uomini» (Eneide, I, 490-493). La valente Pentesilea venne uccisa da Achille, il quale, commosso dal suo coraggio, secondo una versione del mito, ne fece restituire il corpo ai Troiani, affinché gli dessero onorevole
A destra una battaglia tra Greci e Amazzoni dipinta su una lekythos attribuita al Pittore di Eretria. 420 a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art. In basso anfora a figure nere raffigurante Achille che uccide Pentesilea, da Vulci. 530-540 a.C. Londra, The British Museum.
sepoltura; una versione piú nota vuole che Achille si fosse perdutamente innamorato di Pentesilea dopo averle sferrato il colpo fatale, nella disperazione della passione sospesa tra Eros e Thanatos. Sempre raffigurate con entrambi i seni intatti, a dispetto della leggenda, le Amazzoni indossano spesso corti chitoni (vestito d’origine orientale, introdotto in Grecia dagli Ioni, confezionato con un telo cucito come un sacco senza fondo, stretto alla vita da un cordone e fermato alle spalle da due fibbie, n.d.r.) o si fregiano di elementi che oggi diremmo «animalier», ai quali si attribuiva il potere simbolico di attrarre a sé la ferinità e la potenza animale, calcando sul capo una pelle o sfoggiando grafismi di manti animali. Questi ultimi potevano essere disegnati direttamente sul corpo, come
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tatuaggi, oppure usati come decorazioni per le aderenti «tutine», tipiche degli arcieri sciti dell’Asia Centrale e ottenute, in realtà, con l’antichissima tecnica dell’intreccio di soli fili di ordito su telaio verticale. Tale tecnica, documentata già nella prima età del Bronzo, è nota oggi con il termine moderno scandinavo di «sprang» che vuol dire «saltato», ma può riferirsi alla stessa tipologia di costruzione del particolare tessuto a rete, antesignano della maglia, la cui naturale elasticità bidimensionale, garantiva il necessario agio ai veloci movimenti di arcieri e, appunto, Amazzoni.
In prima linea contro gli infedeli
Non piú soltanto mito, le Amazzoni rivivono senza soluzione di continuità nelle donne guerriere, le quali, «di null’altro rivestite che di cotte di maglia» per non essere ri-
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conosciute, combatterono valorosamente tra le fila dei Franchi durante la terza crociata (1189-1192), nell’assedio di Acri (Gerusalemme), cosí come narra Imàd addin al-Isfahani (1125-1201), storico e letterato, nonché segretario di Norandino e di Saladino: «Tra i franchi vi sono infatti delle donne cavaliere, con corazze ed elmi, vestite in abito virile, che uscivano a battaglia nel fitto della mischia, e agivano come gli uomini d’intelletto, di tenere donne che erano, ritenendo tutto ciò un’opera pia». L’esempio di queste donne, che avevano dunque rinnegato sul campo di battaglia la propria femminilità, non tardò a suscitare la disputa sul confronto tra Nature e Norreture (Natura ed Educazione), ossia, per dirlo in termini moderni, sul rapporto tra la natura fisica e biologica della donna e le influenze socioculturali. Di tale sofisticato dibattito recano infatti
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costume e società traccia i romans de chevalerie del XIII secolo, soprattutto se al femminile. Cosí, nel Roman de Silence di Heldris di Cornovaglia (1286 circa), l’eroina omonima viene cresciuta come un maschio dai suoi genitori, perché possa ereditarne il feudo. Nature e Norreture, personificate, si contendono la determinazione del genere della fanciulla, la quale, convinta da Ragione, decide di non abbandonare le vesti maschili se non dopo molte peripezie, compresa la persecuzione a cui la sottopone una regina calunniatrice innamoratasi di lei «en travesti»: solo allora Silence abbandona il travestimento e sposa il re, decretando la vittoria di Nature.
L’ammirazione del poeta
Sul finire del XIII secolo, quando ormai si avanza spediti verso quella civiltà cavalleresca e cortese nella quale è normalmente la donna a incoronare il suo cavaliere, l’inversione dei ruoli sorprende e sciocca l’uomo, il quale, all’apparire in carne e ossa della vergine guerriera, cede alla propria curiosità, non estranea a una certa attrazione: è il caso di Francesco Petrarca (1304-1374), il quale, nella lettera inviata all’amico cardinale Giovanni Colonna, da Baia (campana) il 23 novembre 1343, si sofferma su Maria Puteolana, notissima vergine guerriera di Pozzuoli che, sotto il dominio angioino, difese la sua terra dai pirati saraceni, fino a trovare la morte, sopraffatta e accerchiata dai nemici provenienti dal mare. Documento preziosissimo, la lettera del Petrarca, che aveva visto Maria Puteolana già una volta prima di incontrarla di nuovo, non soltanto ci dà conto dei costumi «guerreschi» di una vergine guerriera del suo tempo, ma, ancor piú, dello «stupito incantamento» dell’uomo e dell’intellettuale, di fronte al fascino del mito redivivo delle Amazzoni. Scrive infatti il poeta all’amico Colonna: «Ciò che dunque questo giorno maggiormente mi ha mostrato e questa lettera ti mostrerà, fu la grande forza d’animo e di corpo di una donna di Pozzuoli. Si chiama Maria e suo merito particolare è d’aver conservato la verginità. Vissuta sempre tra uomini, e quasi sempre uomini d’arme, nessuno, come tutti fermamente credono, ha mai attentato né sul serio né per scherzo alla sua castità, e come si va dicendo, piú per timore che per rispetto. Ha un corpo piú da guerriero che da donna, ha una forza che può desiderare il piú provetto soldato; possiede un’agilità rara e inconsueta, l’età è fiorente, l’abito e l’aspetto sono quelli di un uomo forte. Non si compiace del cucito ma dei dardi; non degli aghi e degli specchi ma dell’arco e delle frecce; non la rendono bella i baci e i segni lascivi di un dente protervo ma le ferite e le cicatrici; ogni sua cura è volta alle armi e il suo animo disprezza il ferro e la morte. Trascina con i vicini una guerra ereditaria nella quale sono già morti in molti da una parte e dall’altra. Talvolta sola, piú spesso in compagnia di pochi, è venuta alle prese col nemico; sino a oggi è sempre riuscita vittoriosa. Piomba a capofitto nel combattimento, se ne distacca a fatica, aggredisce il nemico con
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In alto unica raffigurazione coeva di Giovanna d’Arco, rinvenuta a margine di un registro compilato da Clément de Fauquembergue, cancelliere del Parlamento di Parigi. La pulzella è raffigurata erroneamente con connotati squisitamente femminili, quali una lunga capigliatura sciolta e una gonnella. 1429.
violenza, con cautela gli tende insidie; sopporta le notti all’aperto e in armi, si compiace di riposare sulla nuda terra e di posare il capo sopra uno scudo o una zolla d’erba. Fra tante continue fatiche è in breve tempo cambiata. Non è trascorso molto da quando un giovanile desiderio di gloria mi spinse a Roma e a Napoli, dal re di Sicilia, eppure, quando mi si è accostata per salutarmi armata e circondata da armati, io che l’avevo conosciuta inerme – meravígliati – le resi il saluto marzo
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Grande fu l’impressione suscitata in Francesco Petrarca dal coraggio di Maria Puteolana In basso disegno raffigurante una dama che incorona un cavaliere, da un documento conservato nei Giudici ad maleficia, Libri inquisitionum et testium della Curia podestarile. 1327. Bologna, Archivio di Stato.
come a persona che non si conosce, sino a che, messo sull’avviso dal suo sorriso e dai cenni dei compagni, ho riconosciuto sotto quell’elmo la fiera, disadorna virago (…) Per me, dopo avere veduto questa donna, posso piú agevolmente credere non soltanto alle Amazzoni e al loro celebre regno di donne, ma anche a ciò che si tramanda delle italiche vergini guerriere guidate da Camilla, che fra tutte è la piú nota. Perché infatti non dovrei ritenere possibile in molte ciò che stenterei ad ammettere in una
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Qui accanto la vergine guerriera Maria Puteolana, conosciuta anche come «Virago Maria», in una stampa d’epoca.
sola, se non l’avessi veduto? E se l’antica Camilla nacque non molto discosto di qui, a Priverno, al tempo dell’iliaca rovina, questa moderna è nata a Pozzuoli, ai tempi nostri». Pertanto se i costumi virili della donna affascinano Petrarca, viceversa, a un’altra celeberrima guerriera, vissuta nei primi anni del Quattrocento, Giovanna d’Arco, pucelle d’Orleans (1412-1431), vengono imputati, tra i capi d’accusa, proprio quelle sembianze maschili che
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costume e società LA PULZELLA COME UNA GRAN DAMA Nel 2009, tra i beni della collezione Korner venduti in un’asta della Sotheby’s di Londra figurava un manoscritto del Libro dell’imperatere Sigismondo del cronista Eberhard Windeck, scritto fra gli anni Trenta e Quaranta del Quattrocento. Aggiudicata per oltre 1 milione di sterline, l’opera venne probabilmente compilata per Mathias von Eschebach, che era al servizio dello stesso Sigismondo di Lussemburgo (1368-1437), ed è oggi una fonte preziosa per ricostruire la vicenda biografica del sovrano. Di particolare interesse sono inoltre le miniature che corredano 3 delle 306 pagine del volume, nelle quali compare la figura di Giovanna d’Arco. Nella vignetta qui riprodotta, Sigismondo esorta un giovane messaggero inginocchiato a consegnare la sua missiva alla pulzella, definita come la «Vergine alla quale si devono numerosi miracoli». Giovanna non è in questo caso ritratta come una guerriera, né ha le fattezze mascoline che la tradizione le attribuiva: indossa un abito di colore rosso bordeaux e porta un copricapo bianco. (red.)
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la giovane aveva assunto per opportuno cameratismo quando, in prima linea, con il vessillo in mano, incitava i compagni alla difesa. Cosí veniva infatti apostrofata Giovanna d’Arco nel castello-fortezza di Rouen durante il processo a suo carico nel febbraio-maggio1431: «Hai detto che, per ordine divino, hai indossato e continui a indossare abiti maschili; e, con la scusa che era stato Dio a importi queste vesti, ti sei messa una tunica corta, un giustacuore, dei calzari alti; come se non bastasse, porti i capelli tagliati alti sulle orecchie e non è rimasto nulla sulla tua persona che riveli il sesso al quale appartieni, eccetto quello che la natura stessa ti ha conferito. In questa guisa hai piú volte ricevuto il sacramento dell’Eucaristia! E benché di continuo tu sia stata esortata a mutar panni, non hai mai voluto farlo affermando che preferiresti morire piuttosto che rinunciar a quest’abito e alle armi: in questo tu sostieni di agire bene, secondo la volontà di Dio».
Come un ragazzo
Dobbiamo pertanto immaginare Giovanna vestita come un ragazzo, con un aderente giustacuore (justaucorps in francese), forse un pourpoint imbottito all’uso militare, e alti calzari; i capelli corti nella foggia detta al tempo «à l’écuelle», ossia «a scodella», perché tagliati in tondo con tempie e nuca rasate al rasoio, seguendo una linea passante al di sopra dell’orecchio cosí come di moda al tempo per gli uomini. Il suo aspetto doveva perciò differire da quello disegnato nel 1429 da un suo contemporaneo, Clément de Fauquembergue, cancelliere del Parlamento di Parigi, che ritrasse la pucelle con connotati squisitamente femminili, quali una lunga capigliatura sciolta, una gonnella (abito femminile) e, l’immancabile vessillo con il quale incitava alla difesa, senza prendere parte a eccidi. Eppure, il disegno del cancelliere vissuto al tempo di Giovanna rivela ancora intatto, nella sua inossidabilità, tutto l’immaginario maschile, che riconosceva al connubio tra forza e bellezza femminile un fascino senza tempo, alla ricerca di quella «epifania» improvvisa, in cui la beltà si sarebbe mostrata dietro una corazza, proprio come ci mostra la miniatura di Minerva che distribuisce la propria armatura, da un codice francese dei primi anni del Quattrocento (vedi alla pagina accanto). Lo svelamento della guerriera, inatteso o agognato dai cavalieri, quando amanti, avversari o entrambi al contempo, è un codice ben noto agli autori di poemi epici ancora nel primo Cinquecento, quando Ludovico Ariosto tratteggia, nel suo Orlando Furioso (1516), la guerriera Bradamante: «La donna, cominciando a disarmarsi, // S’avea lo scudo e di poi Telmo tratto, // Quando una cuffia d’oro, in che celarsi // Soleano i capei lunghi e star di piatto, // Usci con l’elmo, onde caderon marzo
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A destra Minerva distribuisce la propria armatura, particolare di una miniatura tratta da un’edizione dell’Épître d’Othéa di Christine de Pizan contenuta nel codice miscellaneo noto come Libro della Regina (Ms. Harley 4431). 1410-1414 circa. Londra, British Library. Nella pagina accanto l’imperatore Sigismondo dinnanzi a Giovanna d’Arco, illustrazione da Das Buch von Kaiser Sigmund (Il libro dell’imperatore Sigismondo) di Eberhard Windeck. 1430-1440. Collezione privata.
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costume e società A sinistra La dama dei gelsomini conosciuto anche come Ritratto di Caterina Sforza, olio su tela attribuito a Lorenzo di Credi. 1481-1483. Forlí, Pinacoteca Civica. Nella pagina accanto Forlí. Veduta della rocca di Ravaldino, nota anche come la Rocca di Caterina Sforza. XIV-XV sec. In basso rilievo in pietra raffigurante una giovane che si rasa il pube, dalla demolita Porta Tosa di Milano, che dall’immagine prese nome. Fine del XIII sec. Milano, Musei Civici del Castello Sforzesco.
sparsi // Giú per le spalle, e la scopriro a un tratto, // E la feron conoscer per donzella // Non men che fiera in arme, in viso bella». (Orlando Furioso XXXII.79) Piú tardi, nella Gerusalemme Liberata (1575), Torquato Tasso mise in scena un altro «svelamento», quello di Clorinda: «Clorinda intanto ad incontrar l’assalto // va di Tancredi, e pon la lancia in resta // ferírsi a le viscere, e i tronchi in alto // volaro e parte nuda ella ne resta; // Ché, rotti i lacci e l’elmo suo, d’un salto // (mirabil colpo!) ei le balzò di testa; // e le chiome dorate al vento sparse, // giovane donna in mezzo ‘l campo apparse». (Gerusalemme Liberata III. 21) «Non men che fiera in arme, in viso bella» fu di fatto an-
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che Caterina Sforza (1462-1509), figlia naturale di Galeazzo Maria Sforza e Lucrezia Landriani e moglie del cortigiano Gian Piero Landriani. Caterina crebbe alla corte sforzesca dopo che Galeazzo Maria divenne duca di Milano (1466) e fu educata dapprima dalla nonna paterna Bianca Maria Visconti e poi da Bona di Savoia, neo-sposa di Galeazzo Maria nel 1468.
Dai cosmetici alle armi
Dedita a sperimentare personalmente ricette di ritrovati cosmetici e curativi scovati un po’ ovunque grazie a corrispondenti e faccendieri di tutte le estrazioni sociali, Caterina Sforza – a cui i cronisti del suo tempo riconoscono una bellezza che oggi definiremmo «anti-age» – è passata alla storia per un episodio leggendario, riferito all’assedio della rocca di Ravaldino a Forlí (1488), quando penetrò nella fortezza e tenne testa ai congiurati: gli marzo
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Orsi di Forlí. Riporta l’episodio anche il conte Pier Desiderio Pasolini (1844-1920), autore di una Vita di Caterina Sforza: «I congiurati, vedendosi cosí ingannati, apertamente le protestarono che in pezzi davanti agli occhi le havrebbero tagliati i suoi Figliuoli s’ella non consegnava loro la Ròcca nelle mani, e ch’ella per quelle horrende minacce, in tanto non si spaventò punto, anzi alzatesi le vesti, e loro mostrando le parti vergognose, disse che de’ suoi Figliuoli facessero a voglia loro, che a lei rimaneva la stampa di rifarne degli altri» Cresciuta a Milano, Caterina aveva forse ben in mente la figura impudica che si rade il pube, di tradizione celtica, scolpita sulla medievale Porta Tosa, una delle porte minori (o pusterle) poste sul tracciato medievale delle mura cittadine e aperta dopo il passaggio devastante di Federico Barbarossa, il cui nome si deve all’omonimo termine meneghino usato per «ragazza». Con Caterina chiudiamo questo excursus fra le donne guerriere, tutte sospese tra bellezza e forza, tra maschile e femminile, rievocando all’infinito le Amazzoni dell’antica Frigia e le donne delle feste degli Hybristikà di Argo, quando, vestite da uomini, esse imbracciavano le armi in un rito di iniziazione preadolescenziale, a cui sarebbe seguita la separazione dei due sessi nell’età adulta. Possiamo perciò affermare che il fascino della vergine guerriera risiede ancora nell’unione di bello/femminile e
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forza/maschile e che, per dirla con Giona Tuccini, «quando questa forza s’incarna in un corpo piacevole, l’uomo s’innamora (…) e la guerriera diventa destinataria di aperta ammirazione», oggi come migliaia di anni fa, di fronte alla «furente e bellissima» Pentesilea. F
Da leggere Elisabetta Gnignera, Vergini, spose, vedove. Stati sociali e acconciature femminili nell’Italia del Quattrocento, Amazon Editions (e-book e a stampa) 2017. Raymond Ourcel (a cura di), Il processo di condanna di Giovanna d’Arco, Res Gestae, Milano 2015 Pier Desiderio Pasolini, Caterina Sforza, 3 voll., Ermanno Loescher, Roma 1893 Francesco Petrarca, Le familiari, traduzione e cura di Ugo Dotti, collaborazione di Felicita Audisio, 5 voll., Nino Aragno Editore, Torino 2004; tomo I [Libri I-V]; pp. 647-651 Quinto Smirneo, Il seguito dell’Iliade, a cura di Emanuele Lelli, con prefazione di Giovanni Cerri, Bompiani, Milano 2013 Giona Tuccini, Renoppia, Belli Virago, in Studi e problemi di critica testuale, vol. 85, 2012/2 Fabrizio Serra, PisaRoma 2012; pp.141-171
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Datemi
una scala...
di Flavio Russo
Per essere vittorioso, l’assedio, prima ancora della potenza dei mezzi impiegati, doveva consentire di superare l’ostacolo costituito dallo sviluppo verticale delle fortificazioni. Ecco perché, anche nel Medioevo, le macchine da guerra, realizzate sulla falsariga di quelle messe a punto nell’antichità, miravano a dare a chi attaccava la possibilità di scavalcare le mura dell’avversario
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on il dissolversi dell’impero romano d’Occidente, si perse, fra le altre, la capacità di condurre razionalmente un assedio: per oltre cinque secoli, infatti, quella pratica sembrò non essere piú alla portata degli eserciti altomedievali, cosicché anche fortificazioni non particolarmente robuste si trasformarono in altrettanti inespugnabili capisaldi, moltiplicandosi. Il fenomeno può essere considerato come l’humus che permise all’incastellamento di «infestare» il territorio, suggerendo ai posteri un ambito sociale popolato di feudatari serrati nei loro manieri, di eroici cavalieri costretti nelle loro armature, di diafane dame chiuse nelle loro cinture di castità, di frati barbuti nelle loro abbazie e, soprattutto, di una pletora di miserabili a popolare borghi e città... In definittiva, una società frazionata o, per meglio dire, segmentata da diaframmi concentrici, al cui vertice svettava appunto il castello. In realtà, il paesaggio europeo assunse una fisionomia radicalmente diversa e solo per tratti marginali, e non prima del XII secolo,
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coincise con quanto favoleggiato, tanto che il castello fu spesso solo una scomoda costruzione militare, il che, tuttavia, non gli impedí d’essere onnipresente già nelle cronache antecedenti al Mille, sebbene nella piú ampia accezione del termine. Infatti, i documenti che ne fanno menzione tra il IX e l’XI secolo tramandando, quale loro residua traccia sul terreno, il solco del fossato, suggeriscono che essi non fossero altro che repliche di arcaiche (segue a p. 76)
A destra il castello di Beynac, in Aquitania (Francia). XII sec. In basso miniatura su una tabacchiera raffigurante l’imposizione di una cintura di castità, uno dei «simboli» di una certa idea di Medioevo.
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guerra d’assedio
MACCHINE D’ASSEDIO dal IX al XIV secolo
TOLLENONE
DA SCAVALCO
SCALA A PIOLI La scala a pioli fu la piú antica macchina per violare le fortificazioni. Per millenni il sormonto costituí, oltre all’insidia – mitica quella del cavallo di Troia –, l’unica possibilità di penetrare ostilmente una cerchia. La scala, quindi, se non ne garantí l’esito, ne agevolò il tentativo, tanto che, ancora alla fine del Settecento, le cortine dovevano sempre superare l’altezza di 7 m, limite operativo delle scale. La scala d’assedio differiva dalla domestica per larghezza, fino a 4 m, robustezza e distanza dei pioli. Doveva consentire a piú uomini, infatti, di salirvi affiancati rapidamente. Scale piú strette sarebbero state piú agevoli da manovrare, ma, al contempo, fin troppo facili da abbattere lateralmente, poiché sarebbe stato sufficiente spingerle con un forcone e si preferí dunque evitarle. CALA S A PIOLI
DA SOLLEVAMENTO
TOLLENONE La crescita abnorme dell’altezza delle fortificazioni relegò la scala a impieghi sporadici, e favorí la diffusione dei tollenoni. Questi ultimi consistevano in un palo verticale, saldamente infisso nel terreno, e in un lungo braccio a esso congiunto nel suo centro, tramite un doppio snodo, capace di ruotare orizzontalmente e verticalmente. All’estremità del braccio era collegata una capace «navicella» di vimini, mantenuta in verticale da un contrappeso. All’interno prendevano posto un discreto numero di attaccanti agevolmente deposti dal congegno sulle mura, similmente a quanto avviene con le attuali piattaforme a sollevamento idraulico. Una squadra di serventi l’azionava tirando verso il basso, con numerose funi, l’altra estremità del braccio. La sua invenzione viene attribuita a Diade, un ingegnere di Alessandro Magno.
D’ACCOSTAMENTO
Tali corazzature mobili constavano abitualmente di un telaio solidissimo, chiuso superiormente da due spesse falde a forte pendenza. L’avanzamento era ottenuto mediante rulli posti sotto il telaio, piú resistenti delle rotelle agli impatti dall’alto. Pelli fresche o piastre metalliche impedivano la combustione della copertura, mentre tavole piú sottili ne chiudevano i lati. Concettualmente affini al carapace di una tartaruga, ebbero perciò la denominazione di testuggini. TORRE AMBULATORIA La soluzione ottimale per l’avvicinamento e il sormonto delle mura nemiche fu la torre ambulatoria, che univa alle prestazioni delle scale quella del TESTUGGINE
TESTUGGINE Fino all’avvento delle artiglierie a polvere, cercare di praticare brecce alla base delle mura risultò estremamente rischioso, poiché tale tecnica esponeva i guastatori al tiro piombante. La soluzione per neutralizzare tale reazione degli assediati furono robustissime tettoie ruotate, in grado di sopportare i peggiori impatti senza schiantarsi, consentendo cosí agli attaccanti di affrontare al loro riparo le demolizioni in sicurezza.
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tollenone. Per il loro ruolo risolutivo, i Greci le ribattezzarono «elepoli», cioè conquistatrici di città. Dal punto di vista strutturale, la torre ambulatoria si può assimilare a un traliccio mobile di legno, di notevole altezza, necessariamente eccedente quella delle fortificazioni assediate. Verticalmente, la macchina venne suddivisa in diversi piani, in media uno ogni 3 m circa, che fungevano da ballatoi per le rampe di scale che conducevano alla sua sommità, e da piattaforme per gli arcieri e per le armi da lancio. La sua superficie anteriore, e spesso persino quelle laterali, potevano essere rivestite con pelli fresche o, a volte, con piastre metalliche. In cima, la piattaforma d’attacco era munita di un coronamento merlato, e, appena al di sotto, di un ponte volante, identico ai celebri «corvi». Sapendo che l’abbattimento del ponte era l’inizio della fine, per impedire ai difensori di bloccare l’accostamento delle torri, gli assedianti ricorsero a ogni genere di espediente: efferato quello di legarvi i prigionieri, che, tuttavia, quasi mai fece desistere gli assediati. Completata la manovra e posizionata con estrema precisione la torre, gli attaccanti vi entravano ordinatamente e, schierandosi su ogni piattaforma, protetti e nascosti dal rivestimento ignifugo, avviavano un nutrito lancio di dardi. Gli assediati, bersagliati anche dalla sovrastante sommità della torre, erano costretti ad allontanarsi dagli spalti che, rimasti sguarniti, finivano subito occupati dagli assedianti. Nel giro di pochi minuti centinaia di assalitori si riversavano sulle mura, sancendo l’espugnazione della cerchia.
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TORRE AMBULATORIA
Dal punto di vista storico, le torri ambulatorie dovettero ricomparire agli inizi del XII secolo. Ne abbiamo una testimonianza nella Vita di Luigi VI il Grosso redatta dall’abate Sugerio di Saint-Denis, in cui, a proposito dell’assalto al castello di Gournay del 1107, si legge: «Senza allontanarsi, si preparano gli ordigni di guerra per distruggere il castello; un’alta macchina, che domina dai suoi tre piani i combattenti, si alza, destinata essendo a strapiombo sul castello, a impedire agli arcieri e ai balestrieri della prima linea di circolare o di farsi vedere all’interno. Di conseguenza gli assediati, continuamente premuti giorno e notte da questi ordigni, non potevano piú stare sui loro bastioni, cercavano di mettersi prudentemente al riparo in buche praticate sotto terra, e dando ordine agli arcieri di tirare insidiosamente, facevano previsioni sul pericolo di morte corso da quelli che li dominavano nella prima merlatura dell’ordigno. A questa macchina, che si innalzava in aria, era attaccato un ponte di legno che allungandosi abbastanza in altezza doveva, abbassandosi un po’ verso il muro, preparare un’entrata facile ai combattenti che sarebbero scesi di là».
congegno formato da un grosso tronco d’albero munito di una massiccia testa di bronzo, che dall’animale prese il nome. Non schiantava le mura, ma ne svelleva le porte, suggerendo che la distruzione cresceva proporzionalmente all’aumento della massa battente e della velocità impartitagli. Piú tardi si intuí anche che la reiterazione degli impatti esaltava le demolizioni, per cui si costruirono arieti oscillanti. È difficile fissare la data della sua invenzione, ma i primi arieti ruotati e oscillanti comparvero con gli Assiri. Le soluzioni escogitate per manovrare i grandi arieti, pesanti a volte decine di tonnellate, erano fondamentalmente due. La prima consisteva nel montarli su articolati treni di rotolamento, la seconda nel sospenderli a solide incastellature, entrambe con concomitanti vantaggi e svantaggi. Nel sistema ruotato, dando per scontata la disponibilità di una pista abbastanza uniforme e magari leggermente in discesa verso la fortificazione, potevano conseguirsi velocità d’impatto rilevanti, ma la ripetizione del ciclo richiedeva tempi lunghissimi e innumerevoli uomini. Nel sistema oscillante, d’altro canto, gli urti sebbene piú deboli, avvenivano con scansione ravvicinata, implicando pochi uomini per la manovra, non appena posizionata l’incastellatura a ridosso delle mura. ARIETE
DA URTO
ARIETE Tentare di sfondare le mura assediate si rivelò presto una scelta velleitaria e cosí, traendo spunto dai violenti urti che gli arieti impartivano con le corna, si costruí un
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guerra d’assedio
In alto Prato (Toscana). Gli imponenti bastioni merlati del castello dell’Imperatore. XI-XVI sec. In basso un’armatura del XIII-XIV sec.
A destra Sarzana (La Spezia). Uno scorcio della fortezza Firmafede, con il fossato (oggi asciutto) e il ponte di accesso. XV-XVIII sec.
cerchie preistoriche, con alzati di terra battuta e palizzate lignee. Del resto, essendo finalizzate alla difesa, tutte le fortificazioni – torrioni longobardi, dongioni normanni o fortezze spagnole – si trasformarono in altrettanti castelli: le vistose differenze architettoniche che li caratterizzavano furono l’esito dell’evolversi dei rispettivi armamenti, la cui cronologia è oggi scarsamente nota, determinando interpretazioni anacronistiche.
Soluzioni analoghe
Comune a tutte le strutture difensive avvicendatesi negli ultimi otto millenni di storia, è l’insistenza sul valore ostativo della verticalità: rifugiarsi sopra un albero per sfuggire a un cane mordace o chiudersi in una torre per sfuggire a minacciosi aggressori sono del resto soluzioni concettualmente analoghe. Para-
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dossalmente, mentre spostamenti di migliaia di chilometri, per terra o per mare e pur avvalendosi di modesti mezzi, non presentarono mai difficoltà insormontabili, dislivelli verticali di poche decine di metri rimasero sempre preclusi, anche per congegni elaborati. Ecco perché, negli investimenti ossidionali, era indispensabile ricorrere a macchine che consentissero di scavalcare le mura: dalla semplice scala, al tollenone, fino alla torre ambulatoria (vedi box alle pp. 74-75), la cui manovra di accostamento era preceduta dal parziale riempimento del fossato, effettuato al riparo di robuste tettoie, alcune delle quali proteggevano anche gli arieti impegnati contro le porte. Appare perciò logico ravvisare il ruolo trainante dell’evoluzione delle armi nello sviluppo dell’architettura difensiva e non già il
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contrario. Che, tuttavia, influí sul perfezionamento delle stesse, se rivelatesi efficaci. La comparsa della bombarda, per esempio, suggerí l’anteposizione della scarpatura, l’abbassamento delle strutture e l’ispessimento delle mura esposte ai tiri. Rimedi che, a loro volta, determinarono il perfezionamento e il potenziamento delle bocche da fuoco, innescando una sequenza di causa ed effetto nella quale è difficile ravvisare la prima e il secondo.
Architetture «di transizione»
Negli oltre due secoli intercorsi tra l’invenzione della polvere pirica e l’esordio dei cannoni d’assedio, il castello, come accennato, tentò di resistere al crescendo distruttivo delle bombarde. L’avvicendarsi di quegli utopistici rimedi viene definito architettura militare «di tran-
sizione», ma, in realtà, proprio il castello fu la vera fortificazione di transizione, incastonato fra l’abbandono del tradizionale investimento con le macchine ossidionali e l’avvento del futuro, con artiglierie che contesero per quasi un secolo la supremazia al trabucco, la piú distruttiva delle macchine medievali. Nella poliorcetica, ovvero nell’«arte» dell’assedio, occorre dunque evidenziata questa suddivisione basilare: l’evoluzione delle fortificazioni fra il XII e il XVI secolo fu indotta dalla pressione delle macchine ossidionali, che, eccezion fatta per il trabucco, altro non furono che la riedizione appena aggiornata delle macchine romane; dalla metà del XIV secolo in poi, invece, l’evoluzione non dipese dalle artiglierie a polvere, i cui epigoni ancora oggi dominano i campi di battaglia. (1 – continua)
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presenta
INTRODUZIONE
ALL’ARTE MEDIEVALE MILLE ANNI DI CAPOLAVORI
Un ragazzo disegna il profilo di una pecora su una roccia con tale maestria da suscitare l’ammirazione di un artista allora già affermato, Cenni di Pepe, piú noto come Cimabue: il giovane si chiamava Giotto e, secondo una tradizione leggendaria, la sua prova convinse il pittore piú anziano a chiamarlo nella sua bottega e a insegnargli i rudimenti del mestiere. Vero o falso che sia, l’episodio esprime l’ammirazione nutrita, fin dal Medioevo, per uno dei piú grandi maestri dell’arte di ogni tempo. Ma i secoli dell’età di Mezzo videro esprimersi, pur senza raggiungere le vette toccate da Giotto, un numero forse incalcolabile di talenti, che, insieme all’artefice della Cappella degli Scrovegni e delle Storie francescane ad Assisi, sono ora i protagonisti del nuovo Dossier di «Medioevo». Nel quale troverete documentate tutte le migliori creazioni di un’epoca che conservò una sincera ammirazione per la lezione dell’età classica, ma che seppe anche proporre linguaggi nuovi e rivoluzionari.
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di Aart Heering
Londra. Il volto di Riccardo Cuor di Leone nel monumento equestre realizzato dallo scultore Carlo Marochetti e collocato davanti al Palazzo di Westminster. 1860.
RICCARDO I D’INGHILTERRA
Cuor di Leone Dai contemporanei, ma anche dai posteri, è stato considerato come il modello stesso del cavaliere intrepido, generoso e cortese. Un’immagine forse troppo «celebrativa» e sulla quale studi recenti gettano una luce ben diversa...
Dossier
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ra il 1958 e il 1959, la BBC mandò in onda la serie televisiva Ivanhoe – liberamente ispirata al romanzo omonimo di Walter Scott – subito premiata dal successo di pubblico e poi distribuita in vari Paesi europei, tra cui l’Italia.Interpretata da un giovanissimo Roger Moore, ne era protagonista un fiero cavaliere, fedele al re Riccardo Cuor di Leone, lontano dall’Inghilterra perché impegnato nella crociata in Terra Santa. Mentre Riccardo colleziona vittorie contro i Saraceni, il suo regno viene governato (male) dal fratello Giovanni Senzaterra, i cui malvagi sceriffi maltrattano la povera gente, difesa da Ivanhoe in nome di Riccardo. Ancora oggi, nell’immaginario popolare, Riccardo Cuor di Leone viene da molti visto cosí: come un re lontano, ma valoroso, fiero e gran combattente, e, allo stesso tempo, giusto, saggio, raffinato e galantuomo. Riccardo I d’Inghilterra (115799) è entrato nella storia come il «re cavaliere» per eccellenza, grazie ai resoconti dei cronisti e alle opere dei romanzieri. Il mito romantico di Riccardo si riflette anche nella monumentale statua equestre dello scultore franco-italiano Carlo Marochetti, eretta davanti al Palazzo di Westminster a Londra nel 1860, ma creata dall’artista in occasione dell’Esposizione Universale del 1851. E non meno monumentale è il Riccardo interpretato da Sean Connery nel film Robin Hood il principe dei ladri (1991). La storiografia moderna ci ha però fatto conoscere anche un altro Riccardo, alquanto diverso dall’eroe nazionale della cultura popolare. Già nell’Ottocento, lo storico inglese William Stubbs (18251901) lo caratterizzò come «un figlio malvagio, un ma-
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La croce detta «di Enrico il Leone». 1190 circa. Hildesheim, Museo del Duomo. Si tratta di un prezioso reliquiario nel quale è custodito un frammento della Vera Croce. La perdita del sacro legno, all’indomani della disfatta patita dai cristiani a Hattin (1187) fu il casus belli della terza crociata, alla quale partecipò anche Riccardo Cuor di Leone.
rito malvagio, un sovrano egoista e un uomo vizioso», aggiungendo che non era «un inglese». Piú di recente è stato descritto come un uomo pieno di difetti, irascibile, meschino, avaro e senza grandi capacità amministrative e diplomatiche. Resiste tuttavia anche un altro filone interpretativo, meno negativo, che lo esalta come un role model della nobiltà della spada. In ogni caso, la sua vita da re, crociato e prigioniero è stata cosí avventurosa da ispirare frotte di trovatori, romanzieri e storici e con ogni probabilità continuerà a farlo.
L’impero angioino
Dire che Riccardo non fosse inglese – affermazione imperdonabile per alcuni storici britannici, meno per il resto del mondo – è senz’altro corretto. Benché fosse re d’Inghilterra, visse quasi sempre in ambienti francesi, odiava il clima d’Oltremanica e, nei dieci anni di permanenza sul trono (1189-99), soggiornò nell’isola solo due volte, per sei settimane in tutto. E se era in grado di scrivere poesie in francese e occitano (la lingua della Francia meridionale), parlava a malapena l’inglese. Ciò non deve sorprendere, visto che dal 1066, anno dell’invasione da parte del duca normanno Guglielmo il Conquistatore, il trisavolo di Riccardo, i reali d’Inghilterra governavano anche su gran parte della Francia. Seguendo una politica dinastica oculata, i successori di Guglielmo avevano saputo ingrandimarzo
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Un re senza discendenti Chinon (Francia), Chapelle SainteRadegonde. Affresco duecentesco raffigurante Giovanni Senzaterra in compagnia della moglie Isabella d’Angoulême e della madre Eleonora d’Aquitania durante una battuta di caccia.
Enrico II = Eleonora d’Aquitania
(1133-1189)
Enrico,il Re Giovane
Riccardo Cuor di Leone
(1155-1183)
(1157-1199)
= Berengaria di Navarra
Goffredo, duca di Britannia
Giovanni Senzaterra (1166-1216)
= (1) Isabella di Gloucester (2) Isabella d’Angoulême
(1158-1186)
Edoardo I (1239-1307)
= Eleonora di Castiglia Riccardo II (1367-1400)
= (1) Anna di Boemia (2) Isabella di Francia
Edoardo II
Riccardo, conte di Cornovaglia
(1284-1327)
= Isabella di Francia
Enrico III
Edoardo III (1312-1377)
= Filippa di Hainaut
(1207-1272)
= Eleonora di Provenza
Edoardo il Principe Nero, principe del Galles
Lionello di Anversa duca di Clarence
Giovanni di Gand, duca di Lancaster
Edmondo di Langley, duca di York
(1330-1376)
(1338-1368)
(1340-1399)
(1341-1402)
= Giovanna del Kent
Casa di Lancaster Casa di York
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Dossier Dalla ginestra alla corona: i Plantageneti
(in parentesi, gli anni di regno di ciascun sovrano)
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Enrico II (1154-1189) Sposa nel 1152 Eleonora d’Aquitania, già moglie di Luigi VII di Francia. Riccardo I (1189-1199) Detto «Cuor di Leone», partecipò alla terza crociata (1189-1192) prendendo Messina, Cipro e San Giovanni d’Acri. Giovanni Senzaterra (1199-1216) Deve il soprannome al fatto di non aver avuto la sua parte nella divisione dei regni amministrati da Enrico II, di cui era il quinto figlio. Enrico III (1216-1272) Figlio di Giovanni, divenne re a soli nove anni. Sposò Eleonora di Provenza (1236), da cui ebbe cinque figli. Edoardo I (1272-1307) Ebbe sei figli da Eleonora di Castiglia (tra cui il successore Edoardo) e tre da Margherita di Francia. Edoardo II (1307-1327) Deposto dal Parlamento e obbligato ad abdicare, fu imprigionato e assassinato nel carcere di Berkley. Edoardo III (1327-1377) Il suo regno fu segnato dall’espansione territoriale in Scozia e in Francia. Riccardo II (1377-1399) Figlio di Edoardo, il Principe Nero (figlio primogenito di Edoardo III), morí assassinato.
In alto e in basso sigilli del re inglese Edoardo I. XIII-XIV sec. Göteborg, Göteborgs Konstmuseum. A sinistra Enrico II (in alto) e Riccardo Cuor di Leone (in basso) in una miniatura tratta da un’edizione dell’Abbreviatio chronicorum Angliae di Matteo Paris. 1250–1259. Londra, The British Library.
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re i loro possedimenti francesi fino a superare quelli degli stessi re di Francia, con i quali entravano spesso in conflitto. Per secoli, questa situazione fu causa di lotte per il potere, sfociate in una serie infinita di schermaglie, battaglie, massacri e devastazioni, terminata soltanto nel 1453, con la fine della Guerra dei Cent’Anni e il ritiro dal continente delle truppe inglesi.
Una ginestra sul cappello
Inizialmente Riccardo non era destinato a diventare re, ma a governare una parte delle terre francesi del suo casato, la cui estensione era notevolmente cresciuta nei decenni precedenti. Sua nonna, Matilde, aveva sposato Goffredo V d’Angiò (1113-51), detto il Bello, e soprannominato Plantageneto per la sua abitudine di portare sul cappello un rametto di ginestra (plante de genêt). In seguito, i loro discendenti sarebbero stati conosciuti come Plantageneti o Angioini. Matilde era stata designata alla successione dal padre Enrico I, morto nel 1135, ma fu soppiantata da suo cugino Stefano, conosciuto come «il re usurpatore». Dopo una guerra civile devastante, alla morte di Stefano, nel 1154, il figlio di Matilde e Goffredo, Enrico II (113389) – già duca della Normandia e conte d’Angiò –, succedette al defunto come re d’Inghilterra. Due anni prima, Enrico aveva sposato la piú ricca ereditiera di Francia, la duchessa Eleonora d’Aquitania: le nozze avevano dato vita al cosiddetto «impero angioino», un insieme di possedimenti – per la verità assai poco integrati – che si estendeva dalla Scozia ai Pirenei. Fu Eleonora (1122-1204) a introdurre alla corte anglo-normanna la cultura, le spezie, il vestiario e i trovatori della Francia meridionale, una tradizione dalla quale si sarebbe nutrito piú tardi suo figlio Riccardo. Il matrimonio di Enrico II con la bella Eleonora alimentò la crescen-
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te animosità tra i Plantageneti e la famiglia reale francese, i Capetingi. Per Luigi VII di Francia la nuova superpotenza costituiva una minaccia costante, anche a causa delle ripetute sortite compiute da Enrico per appropriarsi di castelli e città nella zona di frontiera. Inoltre, il sovrano francese pativa come un’offesa personale il fatto che Enrico avesse sposato Eleonora, che era stata, in precedenza, sua moglie! Quell’unione era stata sciolta per la troppo stretta parentela tra i coniugi, anche se, al di là delle motivazioni formali, la separazione fu causata dall’incompatibilità caratteriale tra Luigi – uomo severo, ascetico e bigotto – e la vivace, raffinata e gaudente Eleonora. Per di piú, la duchessa era considerata quasi sterile, dal momento che, in quindici anni di matrimonio, aveva messo al mondo soltanto due figlie femmine, le quali, secondo la legge salica vigente in Francia, non potevano succedere al trono. Il nuovo matrimonio di Eleonora, celebrato ad appena due mesi dal divorzio da Luigi, sorprese e indispettí il re francese, anche perché Enrico non gliene aveva formalmente chiesto il permesso, come invece avrebbe dovuto fare secondo il diritto feudale, essendo vassallo di Luigi per i suoi possedimenti francesi. La ferita inflitta all’orgoglio reale si fece ancor piú profonda negli anni successivi, quando Eleonora si dimostrò tutt’altro che sterile: dal suo rapporto con Enrico nacquero infatti non meno di otto figli, di cui cinque maschi. Con l’aiuto della moglie e un gruppo di abili collaboratori, Enrico II riuscí a ristabilire l’ordine in un’Inghilterra devastata dalla guerra civile e a domare i baroni ribelli nelle sue terre francesi. Creò un sistema giuridico, basato sulle giurie, che è tuttora la base della giustizia in gran parte del mondo anglosassone; rese efficace e meno corrotta la raccolta delle tasse; pose fine alla svalutazione delle moneta; e fece costruire un gran numero di stra-
de, ponti e castelli. Malgrado i suoi eccessi, tra i quali spicca l’uccisione, da parte di alcuni suoi cavalieri troppo solerti, dell’arcivescovo di Canterbury, Tommaso Becket, viene ancora oggi considerato un grande e illuminato amministratore. I suoi figli, purtroppo, non erano destinati a seguirne l’esempio.
Quattro eredi per un regno
Dopo la morte a soli tre anni del primogenito Guglielmo, quattro erano gli eredi maschi superstiti di Enrico II: Enrico, nato nel 1155; Riccardo, nato a Oxford nel 1157; Goffredo (1158) e l’ultimo nato Giovanni (1167). Nei progetti del re, il primo avrebbe dovuto assumere la guida di Inghilterra, Normandia e Angiò, mentre Riccardo, il futuro Cuor di Leone, sarebbe stato nominato duca d’Aquitania. A Goffredo, promesso sposo dell’erede della Bretagna, spettava quella contea, mentre per Giovanni non rimaneva piú nulla, circostanza da cui derivò il soprannome «Senzaterra». Per preparare Riccardo, suo figlio preferito, al futuro compito, all’età di 14 anni Eleonora lo portò in Aquitania, dove il giovane si trovò subito a suo agio e dove i signori locali, dopo un’iniziale riluttanza, gli resero omaggio. L’11 giugno del 1172, davanti all’altare della chiesa di S. Stefano, a Limoges, Riccardo, vestito di una tunica di seta, con la piccola corona d’oro ducale in testa e circondato da uno stuolo di preti, poté infilare al dito l’anello della martire Valeria, la santa patrona della città. Fu la conferma simbolica del legame indissolubile tra lui e le terre dei suoi antenati. Divenne cosí un «vicino» ingombrante del re di Francia, con il quale aveva comunque già stabilito un legame apparentemente solido nel 1169, quando, durante un intervallo nella lotta tra i due casati, si era fidanzato con Adele, figlia di Luigi e della sua seconda moglie, Costanza di Castiglia.
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Negli anni successivi, Riccardo risiedette a Poitiers, dove la madre, tornata nella capitale della sua regione, manteneva una corte sontuosa che attraeva decine di giovani cavalieri e trovatori. Ispirandosi spesso agli eroi dei romanzi di Re Artú, questi ultimi esaltavano un modello di vita da cavalieri spinti da alti princípi, come l’amor cortese e la prode ricerca di avventure e pericoli. In un periodo di relativa pace, i giovani ascoltatori potevano sfogare la brama di fama e onore nei frequenti tornei cavallereschi, nei quali Riccardo eccelleva. Alto, biondo, elegante, occhi azzurri, temerario e forte con la lancia, si guadagnò una reputazione di combattente senza paura che piú tardi confermò sui campi di battaglia.
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Tuttavia, ai rampolli reali i tornei non bastavano, poiché ambivano a governare le terre che re Enrico gli aveva già piú volte promesso. Uomo autoritario, che non stimava la propria progenie, il sovrano non intendeva però cedere neanche una parte dei suoi poteri. Il primo a ribellarsi fu Enrico junior, che già nel 1170 era stato incoronato re d’Inghilterra accanto al padre. Da allora fu sopranominato «il Re Giovane», ma si trattava di un titolo puramente formale, senza poteri decisionali. Dipinto dai cronisti come un ragazzo viziato, arrogante e instabile, Enrico il Giovane non smetteva di lamentarsi perché il padre si rifiutava di lasciarlo governare e teneva troppo stretti i cordoni della borsa. Finí con il rifugiarsi – insieme alla
moglie Margherita – dal suocero, Luigi VII di Francia, ben contento di fomentare il contrasto e quindi pronto a riconoscere il giovane Enrico come l’unico, vero re d’Inghilterra. Ben presto, anche Riccardo e Goffredo, che anelavano con altrettanta energia al potere, raggiunsero Parigi, per pianificare una rivolta ai danni del padre.
Tutti contro il padre
Dalla corte francese, i tre fratelli crearono una fitta rete di alleati nella lotta contro il padre, che si era fatto non pochi nemici. Re Luigi intravide l’occasione propizia per appropriarsi finalmente delle terre contese tra Capetingi e Plantageneti, mentre la regina Eleonora, sostenuta dai baroni aquitani, scelse la parte dei figli marzo
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Miniatura raffigurante Luigi VII che combatte contro i Turchi (a sinistra) durante la seconda crociata e l’annullamento delle nozze fra lo stesso sovrano francese ed Eleonora d’Aquitania (il matrimonio venne dichiarato nullo nel 1152), da un’edizione delle Grandes Chroniques de France. 1471. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
I Capetingi Ugo Capeto re di Francia dal 987 sposa Adelaide d’Aquitania Roberto II il Pio re di Francia dal 996 sposa (1) Rosala (2) Berta di Borgogna (3) Costanza di Arles Enrico I re di Francia dal 1031 sposa (1) Matilde di Sassonia (2) Anna di Russia Filippo I re di Francia dal 1060 sposa (1) Berta d’Olanda (2) Bertrada di Montfort Luigi VI il Grosso re di Francia dal 1108 sposa (1) Luciana di Rochefort (2) Adelaide di Savoia Luigi VII il Giovane re di Francia dal 1137 sposa (1) Eleonora d’Aquitania (2) Costanza di Castiglia (3) Adele di Champagne Filippo II Augusto re di Francia dal 1180 sposa (1) Isabella di Hainaut (2) Ingeborga di Danimarca (3) Merania Andechs
contro il marito. Molti nobili inglesi e francesi, stanchi della rigida politica fiscale e amministrativa di re Enrico, si lasciarono convincere con promesse di terre e denaro. Infine, anche il re di Scozia, Guglielmo il Leone, e il potente conte Filippo di Fiandra aderirono alla fronda. Il conflitto – quasi una faida familiare – divampò nella primavera del 1173. All’inizio, la sorte di Enrico sembrava segnata, ma agli alleati mancava una strategia comune: ciascuno seguiva i propri interessi, senza un coordinamento efficace tra le diverse forze in campo. Mentre Enrico, attingendo ai proventi garantiti dal suo efficiente sistema fiscale, mise insieme un esercito di 20 000 mercenari, con il quale colpí, uno alla volta, i suoi avversari.
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Luigi VIII il Leone re di Francia dal 1223 sposa Bianca di Castiglia Luigi IX il Santo re di Francia dal 1226 sposa Margherita di Provenza Filippo III l’Ardito re di Francia dal 1270 sposa (1) Isabella d’Aragona (2) Maria di Brabante Filippo IV il Bello re di Francia dal 1285 sposa Giovanna di Navarra Luigi X re di Francia dal 1314 sposa (1) Margherita di Borgogna (2) Clemenza d’Ungheria
Filippo V il Lungo re di Francia nel 1316 sposa Giovanna di Borgogna
Carlo IV il Bello re di Francia dal 1322 sposa (1) Bianca di Borgogna (2) Maria del Lussemburgo (3) Giovanna d’Evreux
Dossier A sinistra particolare della decorazione di un reliquiario raffigurante l’assassinio di Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury. Produzione limosina, 1195-1200. Utrecht, Museum Catharijneconvent. Nella pagina accanto bulla aurea dell’imperatore Enrico VI, che tenne prigioniero Riccardo Cuor di Leone, liberandolo solo a fronte del pagamento di un riscatto ingente. Costanza, Rosgartenmuseum.
Dopo un anno di ostilità, in cui ambedue le parti usavano la tattica della terra bruciata, con conseguenze disastrose per la popolazione, il progetto dei giovani Plantageneti poteva dirsi fallito. Eleonora era stata arrestata e portata in custodia a Londra. La tentata invasione dal Nord di Guglielmo di Scozia non era riuscita e il re stesso era stato catturato e costretto a sottomettersi a Enrico. Luigi di Francia, che mai aveva brillato come guerriero, si rifiutò di affrontare ulteriori spese e rientrò a Parigi, mentre Filippo
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di Fiandra rinunciò alla progettata invasione dell’Inghilterra via mare. I nobili riottosi dovettero accettare condizioni di pace assai poco vantaggiose. E infine anche i tre figli ribelli dovettero sottomettersi.
Come un figliol prodigo
L’8 settembre 1174, Enrico e Luigi firmarono la pace. Due settimane dopo, Riccardo si recò dal padre a Poitiers, recitando la parte del figlio pentito, piangendo e chiedendo perdono. Pochi giorni dopo seguirono Enrico il Giovane e Goffredo. Nei
loro confronti, il re si dimostrò magnanimo, ma di fatto non fece alcuna concessione e lasciò la moglie Eleonora rinchiusa nella gabbia dorata del castello di Salisbury. Enrico lasciò il figlio Riccardo in carica in Aquitania, con il compito di domare la rivolta dei baroni, e il principe si adoperò con slancio nella lotta ai suoi alleati di pochi mesi prima, rivelandosi un ottimo stratega e valoroso combattente e guadagnandosi il soprannome di «Cuor di Leone». Ma divenne tristemente noto anche come uomo violento e crumarzo
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dele, macchiandosi personalmente di stupri e omicidi. Le sue spedizioni punitive spietate e la rapacità dei suoi mercenari, criticate anche dai cronisti inglesi, fomentarono un odio crescente tra i suoi sudditi francesi, che piú volte sfociò in nuove ribellioni, anch’esse soppresse con misure estreme. Nel 1182, alcuni rivoltosi ottennero l’aiuto di Enrico il Giovane e di Goffredo, invidiosi del potere di Riccardo. Alleandosi con i baroni aquitani, speravano di impossessarsi di almeno una parte delle terre del fratello piú fortunato. Un tentativo di re Enrico di riportare la pace tra i fratelli fallí quando Riccardo, con fare altezzoso, si rifiutò di rendere formalmente omaggio a Enrico il Giovane, asserendo che non poteva esserne considerato un vassallo, dal momento che quello aveva ottenuto l’Aquitania da sua madre. Per Enrico si trattava di un’offesa inaccettabile che scatenò una nuova guerra intestina, durante la quale le terre aquitane furono ancora una volta saccheggiate e devastate.
Una morte improvvisa
Nel frattempo, Enrico junior e Goffredo avevano trovato un alleato nella persona del nuovo re di Francia, Filippo II, noto anche come Filippo Augusto (1165-1223). Il giovanotto era fatto di tutt’altra pasta del padre Luigi VII, al quale era succeduto quindicenne nel 1180. Incline agli intrighi, ambizioso e opportunista, era piú abile in diplomazia che sul campo di battaglia, ma si accingeva comunque a prendere le armi, mettendo in serio pericolo Riccardo, quando l’11 giugno 1183, all’improvviso, Enrico il Giovane morí, a soli 28 anni. La sua morte segnò la fine della spedizione militare e Riccardo si rimise all’opera per domare la ribellione aquitana. La morte del giovane sovrano imponeva una nuova divisione della ricca eredità angioina, ed Enrico intendeva a quel punto fare di Riccar-
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do il re d’Inghilterra – pur senza concedergli poteri reali –, lasciando il governo dell’Aquitania a Giovanni e la Bretagna a Goffredo. Quando Riccardo si rifiutò di abbandonare la «sua» Aquitania appena pacificata, scoppiò un nuovo conflitto. Con un esercito di mercenari, Giovanni e Goffredo saccheggiarono le terre di Riccardo, il quale, a sua volta, invase la Bretagna. In seguito, dopo aver chiesto invano al padre l’Angiò, Goffredo si rifugiò alla corte di Filippo Augusto, di cui diventò grande amico. Il re francese, che pretendeva la restituzione della ricca dote di sua sorella Margherita – vedova di Enrico il Giovane – era piú che pronto a fomentare i dissidi tra i Plantageneti. La situazione cambiò di nuovo, nel 1186, quando, durante un torneo alla corte francese, Goffredo cadde e fu stritolato dagli zoccoli dei cavalli. Deluso dai figli maggio-
ri, re Enrico puntava ora sul figlio piú giovane, Giovanni, al quale intendeva destinare anche la corona inglese. A quel punto fu Riccardo a cercare l’aiuto di Filippo Augusto, il quale, dal canto suo, rivendicò la Bretagna dall’eredità di Goffredo. Tra i due giovani nacque un rapporto d’amicizia particolarmente solido (le fonti riferiscono che a Parigi i due dormivano addirittura nello stesso letto e, nei decenni passati, la circostanza ha perfino acceso una dotta discussione sull’eventuale omosessualità di Riccardo). Insieme, Riccardo e Filippo inseguirono il vecchio re in Normandia, il quale perse, uno dopo l’altro, l’appoggio dei suoi vassalli e alla fine fu lasciato solo anche dal fidato Giovanni. Stanco, malato e deluso, Enrico II morí il 6 luglio 1189, lasciando come suo erede Riccardo. Dopo essere stato nominato du-
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Dossier Miniatura raffigurante l’incoronazione di Riccardo Cuor di Leone, a Westminster, nel 1189, da un’edizione delle Grandes Chroniques de France. 1335-1340. Londra, British Library. Sulla destra, le fiamme avvolgono Gisors, unica città di cui il re non aveva ripreso possesso dopo la tregua del 1199 con Filippo Augusto.
ca di Normandia, Riccardo attraversò la Manica, e, il 3 settembre 1189, nell’abbazia di Westminster, venne incoronato re d’Inghilterra dall’arcivescovo di Canterbury. La cerimonia fu però guastata da un grave incidente: al banchetto organizzato dopo l’incoronazione, Riccardo aveva
vietato la presenza di donne (con l’eccezione della madre Eleonora, reintegrata nelle sue prerogative dopo la morte del marito) e di Ebrei. Ciononostante, alcuni capi della comunità israelitica londinese, che Enrico aveva sempre trattato con rispetto, si presentarono ugualmente, ma furono malmenati e allontananti dagli uomini di Riccardo. Interpretato come un’istigazione da parte del nuovo re, l’episodio diede inizio a un pogrom, prima a Londra e poi in altre città inglesi, che costò la vita a centinaia di Ebrei. Fu anche un segno del crescente antisemitismo che, un secolo piú tardi, avrebbe portato all’espulsione di tutti gli Ebrei dall’Inghilterra (1290). Dopo l’incoronazione, Riccardo si preparò alla partenza per la Terra Santa. Il 2 ottobre del 1187, Gerusalemme – conquistata novant’anni prima, durante la prima crociata – era caduta in mano al condottiero musulmano Saladino (An-Nasir Salah ad-Din Yusuf ibn Ayyub, sultano di Egitto e Siria). Quando il mese successivo papa Gregorio VIII aveva chiamato le potenze europee a una nuova crociata per liberare la città santa, Riccardo era stato fra i primi a prendere la croce, mentre suo padre Enrico, come altri sovrani europei, aveva introdotto una nuova tassa, la «decima di Saladino», per finanziare l’impresa. Salito al trono, Riccardo aumen-
Le fonti su Riccardo
Fra cronaca e propaganda Con l’eccezione dell’infanzia, la vita di Riccardo Cuor di Leone è stata descritta e commentata da decine di cronisti, autori e trovatori contemporanei. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di ecclesiastici e di laici, che il re non esitò a usare come strumento di propaganda. Un esempio è Ambrogio, poeta e
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trovatore anglo-normanno, che seguí Riccardo in occasione della crociata, lasciandone un resoconto molto dettagliato, L’estoire de la guerre sainte. Il nobile Bertran de Born, anch’egli trovatore, descrive nelle sue Chansons le lotte in Aquitania, come testimone e partecipante, prima contro e poi con Riccardo. Pietro
de Blois (1135-1204), segretario di re Enrico II e poi cancelliere dell’arcivescovo di Canterbury, annota la situazione politica dei suoi tempi per averla vissuta in prima persona. Il gallese Walter Map, consigliere di Enrico II e in seguito arcidiacono di Oxford, descrive in maniera dettagliata la vita di corte. marzo
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La crociata «dei re»
Dopo il trattato di Parigi (1259)
ID
I
Contea Coo te C teaa di di Caithness Caaitthhnnesss C
Allo scoppio della guerra dei Cent’Anni (1338)
REGNO REG EGNO NO DI SCOZIA SCOZIA SCOZ SCO ZA Contea Coontea C ontea tea DI di di Ross Roosss Ro Stirling St tir irli lingg ling lin
1297 1297 129 12 2299977
Bannockburn rn 11314 13 314 314 31 14
Dopo la pace di Brétigny (1360) All’abdicazione di Riccardo II II. A ((1 (1399)
Edimburgo Du D Dumbar um mb bar a 1296 12 6
Battaglie Ba B
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Poitiers La Rochelle REGNO DI FRANCIA Taillebourg
Aquitania
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La terza crociata è detta «dei re», poiché, oltre a Riccardo, vi parteciparono Filippo Augusto e l’anziano imperatore tedesco Federico Barbarossa. Quest’ultimo era già partito nel maggio del 1189, ma non giunse mai in Terra Santa. Nel giugno del 1190 annegò in un fiume in Anatolia, lasciando il suo esercito allo sbaraglio. Solo una piccola parte delle truppe, guidata dal duca Leopoldo d’Austria, giunse poi a destinazione. Riccardo partí soltanto nell’estate del 1190, insieme a Filippo Augusto, soprattutto perché tra i due era venuta meno la fiducia reciproca. Dopo la morte di re Enrico, la loro amicizia si era rapidamente incrinata, per via delle ricorrenti
I DOMINI INGLESI IN FRANCIA
EBR
tò i fondi disponibili, vendendo terre, mansioni, prebende e privilegi a chiunque fosse in grado di pagare. Secondo la leggenda avrebbe perfino dichiarato: «Sarei disposto a vendere Londra stessa, se trovassi un acquirente sufficientemente ricco». In ogni caso, per Riccardo, l’Inghilterra, oltre ad avergli dato una corona, era soprattutto la riserva alla quale attingere. Lasciò il Paese appena poté, dopo aver nominato il cancelliere Guglielmo di Longchamp suo vicario e intimato al fratello Giovanni, del quale aveva giustamente motivo di diffidare, di non recarsi nell’isola durante la sua assenza.
Redez Albi
Tolosa
FORMAZIONE DEI DOMINI DI ENRICO II PLANTAGENETO (1154-1189) Eredità paterna e materna (1150-51)
Tra le varie cronache meritano d’essere ricordate quella del monaco Gervaso di Canterbury, morto nel 1210; del canonico Guglielmo di Newburgh, vissuto dal 1136-98; di Rodolfo, abate di Coggeshall; di Rodolfo di Diceto, decano della cattedrale di St. Paul a Londra e coinvolto personalmente nella prima incoronazione di Riccardo del 1189; e di Ruggero di Howden, morto intorno al 1201, che, in quanto
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chierico di corte, ebbe modo di avvalersi, per la stesura della sua Chronica, di documenti e personaggi della corte stessa. Ruggero di Wendover e Matteo Paris, monaci del convento di St. Albans, scrissero le proprie cronache nel XIII secolo, servendosi però di fonti piú antiche. Un’immagine dal fronte opposto dà Rigordo (1158-1208), medico e storiografo di Filippo Augusto e autore delle Gesta Philippi regis.
Dote della moglie Eleonora d’Aquitania (1152) Conquista del regno d’Inghilterra (1154) Altri territori conquistati tra il 1169 e il 1188 Confini nel regno di Francia nel XII sec. Giovanni Senzaterra promulga la Magna Charta (1215) Tentativi di occupazione inglese della Scozia (XIII-XIV sec.) Stabili conquiste del Galles (1277-1295) e dell'Irlanda (1399) Rivolta dei contadini (1381)
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contese sulle zone di frontiera tra la Normandia, terra dei Plantagenti, e la capetingia Île-deFrance (la regione storica al cui centro si trova Parigi, n.d.r.). Filippo, inoltre, criticava Riccardo per non aver ancora sposato la sorellastra Adele, con la quale era ormai fidanzato da quindici anni. In effetti, Riccardo tentennava, ma, in fondo, non era piú interessato alla principessa francese, il cui fratellastro stava trasformandosi nel suo principale nemico. Né giovò il fatto che Adele, durante la sua lunga permanenza alla corte inglese, avesse condiviso il letto con Enrico II, il padre di Riccardo. Sua madre Eleonora aveva perciò individuato un’altra sposa per Riccardo: la principessa Berengaria di Navarra, erede di un regno piccolo e povero, ma adiacente all’Aquitania, e che quindi poteva assicurare una buona protezione della frontiera meridionale dei possedimenti francesi dei Plantageneti.
La Sicilia contesa
Partito da Marsiglia il 7 agosto 1190, e dopo aver fatto tappa in varie città italiane, Riccardo arrivò a Messina il 23 settembre, dove la sua flotta, salpata dall’Inghilterra, era arrivata pochi giorni prima. In Sicilia trovò una situazione delicata: il re dell’isola, Guglielmo II, era morto l’anno precedente e suo cugino Tancredi si era impossessato del trono, che però di diritto spettava alla zia di Guglielmo, Costanza, moglie del nuovo imperatore tedesco Enrico VI. Tancredi, inoltre, aveva fatto imprigionare la vedova di Guglielmo, Giovanna, sorella di Riccardo. All’arrivo di quest’ultimo, Tancredi si disse pronto a liberare Gio-
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vanna, ma non a restituirle la dote. Per risolvere la questione, Riccardo occupò Messina e impose a Tancredi il pagamento di un indennizzo pari a 20 000 once d’oro (560 kg circa). In cambio, sostenne il diritto del sovrano normanno al trono di Sicilia. Aveva cosí salvato la sorella e incassato un ricco bottino, ma, allo stesso tempo, si era fatto un potente nemico nella persona dell’imperatore, Enrico VI, che aveva visto frustrate le sue ambizioni territoriali in Sicilia. Nell’aprile del 1191, dopo aver passato l’inverno in Sicilia, la flotta di Riccardo proseguí per la Terra Santa, ma fu nuovamente fermata. Riccardo aveva mandato avanti alcune galee, in una delle quali viaggiava-
In alto cotta in maglia d’acciaio del tipo in uso al tempo di Riccardo Cuor di Leone. Linz, Oberösterreichisches Landesmuseum. A destra aquamanile in bronzo in forma di cavaliere. XIII sec. Copenaghen, Museo Nazionale. Nella pagina accanto miniatura raffigurante la partenza per la terza crociata, da un’edizione dei Passages d’outremer faits par les François contre les Turc, 1472-1475. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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Dossier no sua sorella Giovanna e la nuova fidanzata, Berengaria. Le navi però naufragarono davanti alla costa di Cipro, dove all’epoca governava Isacco Comneno, un avventuriero parente dell’imperatore di Bizanzio, che si era autoproclamato imperatore dell’isola. Isacco catturò i naufraghi e si appropriò della cassaforte reale, portata da una delle galee. Inoltre, rifiutò di fornire acqua e viveri alla nave di Giovanna e Berengaria, rimasta intatta. Venuto a conoscenza del fatto, Riccardo sbarcò a Cipro e in pochi giorni occupò l’intera isola, accrescendo la sua fama di infallibile uomo d’armi. Arrestò Comneno e lo chiuse in manette d’argento, fatte forgiare per l’occasione, visto che gli aveva promesso che non l’avrebbe messo ai ferri. Autoproclamatosi re di Cipro, Riccardo non si lasciò sfuggire l’ennesima occasione per trarre profitto dalla situazione: estorse una ricca indennità a Comneno, impose una tassa a tutti gli abitanti e infine vendette l’isola stessa ai Templari. Cosí, fino alla battaglia di Lepanto del 1571, Cipro rimase un avamposto del cristianesimo latino in un mondo musulmano e bizantino.
Nuovi nemici
Tuttavia, l’impresa cipriota rinfoltí la schiera dei nemici di Riccardo, alla quale si unirono Leopoldo d’Austria e l’imperatore di Bizanzio, in quanto parenti di Comneno (che Riccardo fece incarcerare in Terra Santa), mentre Filippo Augusto si convinse una volta di piú dell’inaffidabilità del sovrano inglese: i due re avevano concordato la spartizione dei bottini di guerra, ma Riccardo tenne i proventi ciprioti tutti per sé. A Cipro, finalmente, sposò Berengaria, subito incoronata regina d’Inghilterra, ma che non vide mai le bianche scogliere di Dover. Il re trascorse comunque poco tempo con la mo-
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glie, che una cronaca dell’epoca definí «piú colta che bella», e la coppia non ebbe discendenti. Dopo una traversata veloce, il 5 giugno 1191 Riccardo giunse infine davanti ad Acri, città portuale a nord di Gerusalemme, dove la situazione era assai complicata. In città era di stanza una guarnigione musulmana, che da due anni resisteva all’assedio dei cristiani, le cui
truppe si erano appena rinforzate grazie ai contingenti francesi di Filippo Augusto. Ma gli Europei erano a loro volta circondati dalle truppe di Saladino e da mesi si era creata una situazione di stallo. Al suo arrivo, Riccardo fu – giustamente – accolto come il salvatore dell’impresa. Avendo assoldato un gran numero di mercenari, tra i quali spiccavano i Pisani, invece di attaccare direttamente, fece bombardare – con massi appositamente portati da Messina – e minare le mura acritane. Nonostante si fosse ammalato all’indomani dell’arrivo, Riccardo continuava a guidare le operazioni, facendosi portare in barella sul campo di battaglia. Dopo un mese, i difensori si videro costretti alla resa e, il 12 luglio, i cavalieri cristiani entrarono trionfalmente in città. La vittoria fu macchiata dall’incidente che ebbe per protagonista Leopoldo d’Austria, comandante del piccolo contingente tedesco. Questi aveva piantato il suo stendardo accanto a quelli di Riccardo e Filippo Augusto, e alcuni uomini del primo, presumibilmente su ordine dello stesso re, lo rimossero e lo gettarono al di là delle mura. Il gesto sottintendeva che solo i due re erano da considerare i capi della spedizione e fu anche un’umiliazione personale per il duca Leopoldo, il cui odiò nei confronti di Riccardo non poté che aumentare.
Una fama ambigua
Come ha scritto il medievista francese Jean Flori, con la vittoria di Acri, Riccardo divenne «il campione della cristianità» e, grazie ai racconti entusiasti di cronisti e cantastorie, A sinistra gruppo scultoreo raffigurante due crociati, dal chiostro del priorato di Belval. Metà del XII sec. Nancy, Musée Lorrain.
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una leggenda vivente in Europa. In seguito, diverse cronache e romanzi avrebbero esaltato i modi cavallereschi con cui i due grandi avversari, Riccardo e Saladino, si erano affrontati. Infatti, i due, che non si incontrarono mai di persona, si scambiarono doni e complimenti. Ma la presa di Acri è diventata tristemente nota anche per quello che fu un vero e proprio crimine di guerra, perpetrato da Riccardo. Dopo la resa della città, lui e Filippo Augusto, come d’accordo, si erano divisi bottino e ostaggi. In base alla tregua stipulata, Riccardo chiedeva un riscatto per 2700 cittadini di Acri, e, dopo avere appreso che gli emissari di Saladino non si erano presentati all’appuntamento per discutere le modalità dello scambio di prigionieri, in uno dei suoi non rari scatti d’ira, ordinò la decapitazione – bene in vista delle truppe musulmane – di tutti gli ostaggi, uomini, donne e bambini. La sua atrocità venne criticata persino dagli stessi crociati, che avevano visto svanire la speranza di un lauto riscatto, e si rivelò altresí fatale per i prigionieri cristiani in mano ai musulmani. Nel frattempo, i rapporti tra Riccardo e Filippo Augusto, geloso della gloria, dello sfarzo e del carisma di Riccardo, si erano ulteriormente deteriorati. Il re francese criticò l’eccessiva cordialità tra Riccardo e Saladino, insinuando perfino che il suo collega si fosse venduto al Saraceno. I due furono inoltre coinvolti in una lotta intestina fra i crociati, animata da due condottieri che rivendicavano entrambi il titolo di re di Gerusalemme: Guido di Lusignano, vassallo di Riccardo e da lui sostenuto, e il preferito di Filippo
In alto stemma bordolese nel quale le mura di Bordeaux sono sormontate dai tre leoni passanti d’Inghilterra, segno del dominio di quest’ultima sulla Francia. Metà del XV sec.
Qui sopra pugnale con fodero di produzione siriana nel quale si combinano motivi islamici e cristiani. XII-XIII sec. Vaduz, Furusiyya Art Foundation.
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Miniatura raffigurante la decapitazione dei prigionieri musulmani eseguita il 20 agosto 1191 per ordine di Riccardo Cuor di Leone, dopo la presa di Acri, da un’edizione dei Passages d’outremer faits par les Français contre les Turcs di Sébastien Mamerot. 1474-1475. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.
Augusto, Corrado di Monferrato. Alla fine prevalse il secondo, che però, pochi mesi dopo, fu vittima di un’imboscata tesa da membri della setta degli Assassini, ma della quale, secondo voci nel campo dei crociati, Riccardo non sarebbe stato all’oscuro. Alla fine di agosto, Filippo Augusto, insieme al duca Leopoldo d’Austria, lasciò la Terra Santa per tornare a casa. Il Francese giustificò la precoce partenza con la malattia, ma il vero motivo era l’intenzione di ampliare i confini del suo regno, approfittando dell’assenza di Riccardo.
Uno scontro leggendario
Invece di marciare subito su Gerusalemme, con il rischio d’essere accerchiati, il re d’Inghilterra decise allora di scendere lungo la costa, verso Giaffa (l’attuale Tel Aviv) e di occupare questa città portuale, essenziale per i rifornimenti per l’assalto finale alla Città Santa. Intimò ai suoi uomini di mantenere serrate le righe, malgrado i continui attacchi dei Saraceni. Tuttavia, quando nei pressi del villaggio di Arsuf alcuni cavalieri ospedalieri, contravvenendo agli ordini, si gettarono all’inseguimento degli attaccanti, Riccardo cambiò strategia, lanciando un violento contrattacco che spezzò in due le linee nemiche. Alla fine, i circa 10 000 crociati ebbero la meglio sulle forze musulmane, numericamente superiori, che si ritirarono verso Gerusalemme. La battaglia di Arsuf del 7 settembre 1191 diventò subito leggendaria, grazie a testimonianze oculari come quella del poeta Ambrogio, che cosí descrisse l’azione di
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Riccardo: «Quando vide che l’esercito aveva rotto i ranghi e attaccato i nemici, senza piú attendere diede di sprone al suo cavallo e lo lanciò a tutta velocità per soccorrere i primi combattenti. (…) Il valoroso re d’Inghilterra compí quel giorno prodezze tali che intorno a lui c’era un gran solco pieno di Saraceni morti». Innumerevoli commenti ed elogi fecero seguito alla campagna del Cuor di Leone in Terra Santa: Riccardo che combatte sempre in prima linea, soccorre i compagni minacciati, è ferito da un giavellotto, riesce a intercettare una carovana con ricco bottino... Il mito riccardiano del re cavaliere era nato, ma, allo stesso tempo, commentatori piú critici si chiesero se fosse militarmente saggio che un comandante in campo, soprattutto un sovrano, si esponesse con una simile temerarietà. Grazie alla successiva presa di Giaffa, il cui porto venne rafforzato nei mesi seguenti, parte della costa era di nuovo in mano cristiana, ma Gerusalemme era ancora lontana. La Città Santa era ben difesa e con il numero limitato di uomini a disposizione un lungo assedio sarebbe stato estremamente rischioso. Riccardo, tenendo a freno per una volta la propria indole, ne prese atto e, dopo alcuni tentativi falliti, scelse la via delle trattative. Per poter ottenere una pace dignitosa offrí persino sua sorella Giovanna come moglie al fratello di Saladino. Ma non se ne fece niente, perché la principessa, sdegnata, fece sapere che mai si sarebbe unita carnalmente con un seguace di Maometto. Il 2 settembre 1192 venne firmato il trattato che, in cambio della partenza dei crociati, lasciava ai cristiani la zona costiera e ai pellegrini (disarmati) il libero accesso ai luoghi sacri di Gerusalemme, Betlemme e Nazareth. Malgrado le imprese eroiche (ed efferate) di Riccardo, la terza crociata si chiudeva cosí con un parziale fallimento, perché l’obiettivo principale, la riconquista di Gerusalemme, non era stato centrato. La città
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Dossier A sinistra miniature raffiguranti la prigionia e il riscatto di Riccardo Cuor di Leone. 1280-1300. Londra, The British Library. Il re venne rinchiuso inizialmente nel castello di Dürnstein e poi piú volte trasferito, fino all’ultima detenzione a Trifels. Nella pagina accanto impronta di un sigillo (il cui originale è conservato a Parigi) di Riccardo I Cuor di Leone. La legenda indica il re come duca di Normandia e Aquitania e conte d’Angiò.
sarebbe tornata in mano cristiana, seppure per poco, solo nel 1229, con la quinta crociata. A quel punto Riccardo non poteva permettersi di perdere altro tempo oltremare: gli erano giunte cattive notizie dall’Europa, dove Filippo Augusto si stava appropriando dei castelli sulla frontiera normanna e i baroni aquitani erano nuovamente in rivolta, mentre Giovanni Senzaterra era tornato in Inghilterra, dove stava sobillando i nobili contro suo fratello. Il rientro presentava comunque numerosi problemi. Con le sue azioni, Riccardo si era fatto piú di un nemico: Filippo Augusto di Francia, Enrico VI di Germania, Leopoldo d’Austria e l’imperatore di Bizanzio. Nessuno di loro l’avrebbe fatto passare per le sue terre e, anzi, se ne avesse avuto l’occasione, l’avrebbe volentieri catturato. Da questa con-
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sapevolezza scaturí la decisione di viaggiare in incognito. Arrivato sulla costa dalmata – non sappiamo se volutamente o a causa di un naufragio – con una piccola comitiva, il re, spacciandosi per un commerciante di ritorno da Gerusalemme di nome Ugo, cercò di attraversare l’impero tedesco. Ma non arrivò lontano. Ben presto, infatti, si sparse la voce della sua presenza in zona e, il 21 dicembre 1192, Riccardo venne intercettato in un sobborgo di Vienna.
La cattura
Le circostanze, riferite da diversi cronisti, sono ben note. Sulla via per la Moravia, dove poteva contare sull’aiuto del principe, Riccardo e i suoi si erano fermati per qualche giorno in una casa. Un giovane inserviente che parlava il tedesco, si recava ogni mattina al mercato per
comprare i viveri. Il ragazzo, però, attirò l’attenzione dei locali, quando cercò di pagare con monete d’oro bizantine e perché si era messo i guanti di Riccardo, troppo lussuosi per un semplice servo: arrestato, interrogato e messo sotto tortura, indicò il luogo in cui il suo padrone s’era nascosto. Circondata la casa, l’arresto spettava al duca in persona, cioè a Leopoldo d’Austria, che Riccardo aveva piú volte offeso e che ora poteva prendersi la sua rivincita. In barba al divieto papale di molestare crociati e pellegrini, il duca lo rinchiuse nel castello di Dürnstein sul Danubio. Per Leopoldo, Riccardo rappresentava anche una potenziale fonte di reddito e, dopo varie settimane di trattative, lo «vendette» al suo signore, Enrico VI, il quale, a sua volta, aveva con il re d’Inghilterra un conto in sospeso per la perdita della Sicilia. L’imperatore lo fece trasferire a Spira nella Renania (il cui Museo Storico ospita attualmente una grande mostra su Riccardo; vedi box alle pp. 102103) e, per giustificarne formalmente la detenzione, lo sottopose a un processo farsa. Enrico accusò Riccardo di gravi crimini commessi durante la crociata: l’assassinio di Corrado di Monferrato; il tentato omicidio di Filippo Augusto; l’arresto di Comneno; l’offesa a Leopoldo d’Austria; l’intesa con Saladino; l’accordo con Tancredi di Sicilia; e la pretesa di guidare la cristianità, che spettava invece esclusivamente all’imperatore. Riccardo seppe difendersi abilmente, tanto che, alla fine, i conti e i vescovi della Germania si convinsero della sua innocenza e anche l’imperatore assunse un atteggiamento piú conciliante. Tuttavia, non lo rimise in libertà e avviò lunghe trattative con emissari venuti dall’Inghilterra, con i quali, dopo qualche mese, venne concordato il prezzo del riscatto: 150 000 marchi d’argento (per la metà destinati a Leopoldo d’Austria), di cui 100 000 da consegnare al momento della limarzo
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berazione. Si trattava di una cifra enorme, pari a 30 tonnellate di argento e che equivaleva al doppio delle entrate annuali dell’Inghilterra; ci sarebbero voluti mesi per raccoglierla.
Natale dietro le sbarre
Riccardo era rinchiuso nella tenuta imperiale di Haguenau, in Alsazia e la detenzione si prolungava. Pur mostrandosi sempre affabile e di buon umore, il re inglese cominciava a disperare, quando nel 1193 si vide costretto a passare un secondo Natale in cattività. Per l’occasione scrisse una delle sue poesie piú famose, Ja nus hons pris (Nessun uomo prigioniero), nella quale si lamenta dei suoi tanti amici, vassalli e compagni d’armi che non pagano per la sua liberazione, mentre lui non avrebbe mai abbandonato nessuno. In verità, i suoi uomini, guidati in Inghilterra dalla madre Eleonora e in Aquitania dalla moglie Berengaria (che dopo un lungo viaggio era tornata in patria) stavano cercando di convincere i loro vassalli a corrispondere la propria parte. Dopo la decima di Saladino, si trattava della seconda pesante gabella straordinaria – si chiedeva di consegnare un quarto di tutti i beni mobili, incluso i candelieri d’argento delle chiese parocchiali e una parte delle pecore dei monaci cistercensi – e molti baroni furono riluttanti a riscuotere le somme richieste. Nel frattempo, l’imperatore ricevette altre offerte interessanti, da Filippo Augusto e da Giovanni Senzaterra, che si erano alleati contro Riccardo. Giovanni era tornato in Inghilterra, dove, sostenuto da alcuni baroni, aveva tentato inva-
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no di farsi incoronare re al posto del fratello. Anche un’invasione con mercenari fiamminghi fallí, ma Giovanni continuava a sperare. Contemporaneamente, il re francese aveva colto l’occasione per occupare la parte orientale della Normandia e alcuni porti sulla Manica, preparandosi a ulteriori conquiste. L’assenza di Riccardo era essenziale per entrambi e perciò arrivarono anch’essi a offrire all’imperatore 150 000 marchi, affinché tenesse
Riccardo prigioniero almeno per un altro anno. Dopo un’ampia riflessione, Enrico VI decise, anche su richiesta dei suoi grandi elettori – che erano rimasti impressionati dall’autodifesa di Riccardo a Spira –, di non accettare la controproposta e di liberare il prigioniero. Malgrado i suoi 72 anni, un’età assai avanzata per l’epoca, la regina madre Eleonora in persona si recò a Colonia per versare il riscatto all’imperatore e farsi consegnare il figlio. Riccardo
fu liberato il 4 febbraio 1194 e, per l’occasione, Filippo Augusto scrisse a Giovanni Senzaterra che «il diavolo non aveva piú catene»... Dopo un viaggio trionfale attraverso la Germania e le Fiandre, dove nobili e gente comune si accalcarono per vedere l’eroe liberato, Riccardo, accompagnato dalla madre, partí dal porto di Anversa diretto verso l’Inghilterra. Fu una traversata condotta con discrezione, per non attirare l’attenzione di navi francesi. Il 13 marzo 1194 sbarcò a Sandwich, e, dieci giorni piú tardi, entrò a Londra, da dove in poche settimane riuscí a ristabilire la sua autorità. Per la maggior parte dei baroni, ai quali Giovanni aveva fatto credere che Riccardo fosse morto, bastava vedere il re di persona. Il castello di Nottingham, il nucleo della congiura contro Riccardo – poi reso famoso dal famigerato «sceriffo di Nottingham» delle storie di Robin Hood – capitolò dopo un breve assedio: quando Riccardo fece impiccare alcuni prigionieri come deterrente, la guarnigione si arrese prontamente. Il 17 aprile, Riccardo si fece incoronare una seconda volta nella cattedrale di Winchester, a riprova del ritrovato potere. Accanto a lui, la madre Eleonora, artefice della sua liberazione, mentre anche in quest’occasione Berengaria fu assente.
Per risanare le casse
Riccardo si dedicò quindi al risanamento delle casse della Corona. Dopo i due prelievi straordinari degli anni precedenti, era difficile imporre un’altra tassazione, ma il re trovò una soluzione, dichiarando scadute tutte le mansioni e pre-
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Dossier
Abbazia di Fontevraud (o Fontevrault, Francia). Particolare del sarcofago di Riccardo Cuor di Leone. 1200 circa. Il re morĂ il 6 aprile 1199, per i postumi di una banale ferita alla spalla, riportata sotto le mura di Chaluz, nel Poitou.
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bende vendute dopo la sua ascesa al trono e mettendole nuovamente in vendita. E poiché molti degli acquirenti di allora si erano notevolmente arricchiti, la decisione non suscitò proteste particolari. Inoltre, Riccardo obbligò i rivoltosi fatti prigionieri a pagare lauti riscatti e impose infine una nuova tassa sui tornei. Con il danaro cosí accumulato, assoldò mercenari per tornare sul continente e muovere contro il suo acerrimo nemico, Filippo Augusto. Dopo un soggiorno di neanche due mesi, il re d’Inghilterra lasciava il suo regno, dove non avrebbe piú fatto ritorno. In Francia, Riccardo avviò subito una campagna lampo per riconquistare le città e i castelli presi in precedenza dal re francese. Nel mezzo delle ostilità, Giovanni Senzaterra, fino a poco prima complice di Filippo Augusto, si presentò davanti al fratello maggiore, gettandosi ai suoi piedi, piangendo e chiedendo perdono. Riccardo si riconciliò con il fratello, dichiarando che si era semplicemente comportato come «un bambino» – Giovanni allora aveva 27 anni – portato sulla cattiva strada da consiglieri malvagi. Fatta per amore fraterno o per puro calcolo, fu in ogni caso una mossa azzeccata, sulla quale influirono probabilmente anche i buoni uffici della madre Eleonora.
Pace in Aquitania
Subito dopo l’incontro col fratello, Giovanni tornò a Évreux, città che Filippo Augusto gli aveva affidato. Il giovane voltagabbana fece massacrare la guarnigione francese e consegnò la città in mano al fratello maggiore, del quale negli anni seguenti continuò a essere un alleato abbastanza fedele. Grazie al prezioso contributo di contingenti del fratello di Berengaria, re Sancio VII di Navarra, Riccardo riuscí a infliggere ripetute sconfitte a Filippo Augusto e a pacificare l’Aquitania. Dopo due mesi di guerra, alla fine di luglio del
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1194, i due sovrani conclusero una fragile tregua, violata meno di un anno piú tardi. Seguirono tre anni terribili, nei quali i due eserciti, a volte affrontandosi in campo aperto, in altri casi dandosi a scorrerie e assedi, devastarono le campagne francesi, con conseguenze che ancora Jean Flori ha puntualmente elencato: «Distruzioni di piazzaforti conquistate e riconquistate, villaggi incendiati, massacri di guarnigioni giudicate sleali, prigionieri accecati e rispediti al nemico per scoraggiarlo, inutilmente». Tra una battaglia e l’altra, Riccardo ebbe una crisi mistico-morale, quando nel giorno di Pasqua del 1195 si ammalò seriamente. Temendo per la propria vita, si ricordò degli ammonimenti dei vari uomini pii che avevano criticato la sua vita dissoluta, che il re aveva ripreso a condurre dopo il suo rilascio. Chiese e ottenne l’assoluzione per i suoi numerosi peccati e si fece persino raggiungere da Berengaria, che in cinque anni non era mai stata chiamata alla corte del marito. Secondo un cronista, chiese perdono anche a lei, dopodiché divennero «un’unica carne». Secondo i cronisti, perlopiú monaci, il pentimento lo salvò: Riccardo guarí e poté tornare a combattere la sua guerra, ai cui esiti favorevoli poteva sommare anche alcune importanti vittorie diplomatiche. Temendo il boicottaggio economico inglese, i conti di Hainaut e di Fiandra, prima alleati di Filippo Augusto, scelsero la sua parte. E dalla Germania arrivò un’offerta allettante. Nel settembre del 1197, l’imperatore Enrico VI era morto a Messina (dopo aver finalmente sottomesso la Sicilia) e i principi elettori non erano riusciti ad accordarsi sul nome del successore. Memori del suo comportamento durante il processo a Spira, alcuni di loro avevano allora proposto come candidato il re inglese. Che ne
fu lusingato, ma, avendo ancora molte questioni da risolvere nelle proprie terre, rifiutò gentilmente, proponendo come sostituto suo cugino Ottone di Brunswick. Questo principe, figlio di Matilda, la sorella di Riccardo, e del duca sassone Enrico il Leone, aveva vissuto gran parte della sua gioventú alla corte inglese. Quando, dopo una lunga lotta intestina tedesca, venne eletto nel luglio del 1198 l’imperatore come Ottone IV, Riccardo acquisí un alleato importante anche a est della Francia.
Una fine poco gloriosa
Verso la fine del 1198, per Filippo Augusto la misura era ormai colma: Riccardo aveva di fatto riconquistato tutte le terre che in precedenza il re francese aveva occupato e stava minacciando il cuore del regno capetingio. Avanzò una proposta di pace e, il 13 gennaio 1199, fu stipulata una tregua, che avrebbe dovuto mantenere per cinque anni lo status quo. Liberatosi cosí dalle vicende in Normandia, Riccardo si dedicò all’Aquitania, dove i potenti conti di Angoulême e di Limoges si erano ribellati. Nel mese di marzo partecipò all’assedio di Chaluz, un castello di Aimaro di Limoges. Militarmente, si trattava di un’azione minore: il castello non contava piú di quaranta difensori, per giunta male armati. Ma le mura erano solide e l’assedio si protraeva. La sera del 26 marzo, dopo cena, Riccardo fece un giro di controllo vicino ai bastioni. Indossava abiti leggeri, perché non si aspettava azioni belliche. Vide invece sulle mura un arciere, equipaggiato con uno scudo piuttosto rozzo – «una padella», nelle parole di un cronista –, che mirava al campo degli assedianti. Il re si fermò per congratularsi con il prode avversario, il quale, per tutta risposta, scagliò altre frecce, una delle quali colpí Riccardo nella spalla. Dopo aver salutato cavallerescamente l’arcie-
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re, il re tornò nella sua tenda, dove tentò invano di estrarre il dardo. Piú tardi, anche il chirurgo, chiamato in aiuto, incontrò non poche difficoltà, soprattutto perché la punta si era conficcata nel tessuto adiposo del re, ormai obeso. La ferita si rivelò dunque piú seria del previsto, scatenando un’infezione che degenerò in cancrena. Sentendo sopraggiungere la morte, Riccardo chiamò al suo capezzale la madre, che, nel frattempo, si era ritirata in un vicino convento, ma che si affrettò per poter stare con il figlio nei suoi ultimi momenti (Berengaria fu invece assente ancora una volta). Dopo aver designato Giovanni come successore, Riccardo spirò il 6 aprile 1199. Prima di morire, dispose che all’uomo che aveva tirato la freccia fatale non venisse torto un capello, ma, secondo un cronista, i suoi collaboratori furono meno generosi e, una volta individuato, lo sfortunato venne scuoiato vivo. Per una vita intera, Riccardo aveva combattuto: per la cristianità, per la dinastia, per la gloria, per se stesso. L’aveva fatto con grande compiacimento e soddisfazione personale: sembrava fosse nato in sella, con la lancia o la spada in mano. Aveva raccolto fama, rispetto e onore. Tuttavia, all’indomani della morte, non eroica ma accidentale, delle sue fatiche rimase ben poco: non era riuscito a conquistare Gerusalemme; il suo successore, il fratello Giovanni, fu re malvagio, un militare mediocre e una persona infame, che in pochi anni perse quasi tutti i suoi possedimenti francesi a beneficio dell’avversario di sempre, Filippo Augusto. Alla morte di Giovanni, nel 1216, al casato dei Plantageneti non restava che la Guienna, la parte occidentale dell’Aquitania. Dell’eredità di Riccardo I è rimasto tuttavia il mito, quello del re cavaliere, valoroso, intrepido, generoso e cortese. Fino ai giorni nostri. V
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In alto ricostruzione dell’aspetto che la città di Spira doveva avere in epoca medievale al tempo di Riccardo. A sinistra le località nelle quali Riccardo Cuor di Leone soggiornò all’indomani del suo arresto e dopo la liberazione.
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In basso il castello di Trifels (nell’odierno Land Renania-Palatinato), nel quale Riccardo Cuor di Leone trascorse i suoi ultimi giorni di prigionia, fra il marzo e l’aprile del 1193, prima d’essere rilasciato a fronte di un ingente riscatto.
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Un ritratto a tutto tondo
LA MOSTRA A SPIRA
Fin dal sottotitolo – «Re, cavaliere, prigioniero» –, la mostra allestita a Spira evoca le molte facce di Riccardo Cuor di Leone, un personaggio sulla cui vera natura, come si legge nelle pagine di questo Dossier, il dibattitto è ancora assai vivace. L’esposizione costituisce il coronamento di un progetto ambizioso, realizzato con il concorso di numerosi istituti museali eruropei, che hanno inviato in Germania molti dei piú significativi documenti
In alto un particolare dell’allestimento della mostra dedicata a Riccardo Cuor di Leone, in corso presso il Museo Storico del Palatinato di Spira. A sinistra pedina degli scacchi (torre) in avorio decorata con una scena d’assedio. XII sec. Douai, Musée de la Chartreuse.
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Titoletto box Latin
riferibili alla straordinaria vicenda del sovrano inglese e a quelle dei suoi contemporanei. Lungo il percorso sfilano manoscritti, armi, sculture e reperti archeologici, attraverso i quali vengono ripercorse tutte le tappe della vita di Riccardo, coinvolgendo, in una sorta di grande e vivido affresco anche tutti gli attori che con lui furono protagonisti degli eventi succedutisi in Europa e in Terra Santa nel corso del XII secolo. Negli intenti dei curatori, peraltro, non c’è stata soltanto la ricostruzione della pur eccezionale vita del sovrano, ma anche la descrizione del contesto culturale e artistico nel quale le sue gesta ebbero luogo: ecco perché, fra i temi cardine della mostra, troviamo sí la terza crociata o i conflitti per il dominio di Francia e Inghilterra, ma anche la vita di corte, la letteratura, la cavalleria e l’architettura militare. Quasi a ribadire come dietro a un grande uomo ci sia sempre una grande donna, ampio spazio è inoltre riservato, in questo caso, alla madre dell’eroe: Eleonora d’Aquitania, di cui Riccardo fu il figlio prediletto. Un amore di cui la duchessa diede prova sino alla fine, quando, ormai anziana, non esitò a raggiungere Magonza per salutare il figlio prigioniero e, soprattutto, a correre a Chaluz, per vederlo morire fra le sue braccia. A sinistra un altro particolare dell’allestimento della mostra in corso a Spira fino al prossimo 15 aprile. In basso tavolino in fritta (un particolare tipo di ceramica smaltata). Produzione siriana, XIII sec. Copenaghen, The David Collection.
Dove e quando «Riccardo Cuor di Leone. Re, cavaliere, prigioniero» Spira, Museo Storico del Palatinato fino al 15 aprile Orario martedí-domenica, 10,00-18,00; lunedí chiuso Info www.museum.speyer.de/
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Medioevo sul fiume
CARTOLINE • Nelle terre della Bassa novarese, a ridosso del Sesia, si conserva un
ricco patrimonio artistico e architettonico, testimone di un passato vivace e florido, in cui, allora come adesso, l’acqua costituí il perno delle varie attività produttive
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ata dallo scioglimento dei ghiacciai, che, ritirandosi, hanno dato origine ad acquitrini, paludi e selve, la «Bassa» novarese è oggi una fertile piana, sapientemente coltivata, punteggiata da filari di pioppi, cascine storiche e borghi, collegati da una distesa di risaie, che pare infinita. Profondamente influenzato dall’azione dell’uomo questo paesaggio sembra avere come elemento dominante l’acqua. Ovunque fiumi, torrenti, rogge, fontanili, cavi, canali, risorgive plasmano il territorio, conferendogli un fascino particolare. Nel Medioevo la zona era attraversata dal tratto pianeggiante della via Biandrina, considerata
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In alto San Nazzaro Sesia. L’abbazia benedettina dei Ss. Nazario e Celso. Nella pagina accanto Carpignano. L’esterno e un particolare degli affreschi della cappella castrense di S. Pietro in Castello.
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Immagini insolite A Carpignano, nel primo quarto dell’XI secolo, la nobile famiglia Pombia fece costruire la cappella castrense di S. Pietro in Castello, aggregata nel 1141 da papa Innocenzo II al cenobio di S. Pietro di Castelletto Monastero, oggi Castelletto Cervo, nel Vercellese. Circondata da costruzioni realizzate nel Quattrocento, la chiesa è stata ampliata dai Cluniacensi e inglobata in un complesso monastico edificato in piú riprese tra Duecento e Trecento. All’interno conserva uno dei maggiori cicli pittorici romanici dell’Italia padana. I dipinti rappresentano i dodici Apostoli e l’interessante iconografia della Traditio legis che, alquanto rara in Piemonte, è riconducibile ai legami diretti della chiesa di S. Pietro con Roma e all’aggregazione del 1141 al monastero vercellese. Notevole è anche l’immagine dell’homo selvaticus nel velario, precoce esempio di una tipologia oltremontana, che ebbe fortuna in età gotica. Per l’accentuazione esasperata delle fisionomie, le rappresentazioni a fresco, opera di un anonimo artista novarese attivo nella metà del XII secolo, sono ricollegabili alla corrente piú manieristica della pittura salisburghese e in particolare agli affreschi del coro della chiesa abbaziale di Frauenwörth, sulla Fraueninsel, realizzati nel secondo quarto del XII secolo. una diramazione della Francigena e tracciata sulla sinistra del Sesia. L’arteria di comunicazione interna nell’ambito dei possedimenti dei conti di Biandrate, dall’omonimo centro abitato permetteva alla nobile famiglia di raggiungere rapidamente Romagnano e le rocche difensive in Valsesia, controllare il medio e alto corso del fiume Sesia e garantire ai loro armenti il foraggio in estate e in inverno con la transumanza. Una capillare rete di centri militari e dipendenze monastiche risolveva i principali problemi organizzativi. A testimoniare il passaggio di merci e persone lungo la Biandrina, nella Bassa novarese sono rimaste abbazie, chiese campestri, campanili romanici, strutture difensive,
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castelli, torri di guardia e brandelli di fondamenta di fortificazioni.
Nei pressi del guado A San Nazzaro Sesia si può visitare l’abbazia fortificata dei Ss. Nazario e Celso. Un monumento importante, ritenuto tra le fondazioni monastiche piú antiche del Piemonte, eretto vicino al guado del Sesia negli anni 1039-1053, probabilmente da Riprando, vescovo di Novara e conte di Pombia. Sotto la grata metallica della sacrestia si vedono i resti dell’absidiola meridionale, dell’altare quadrangolare e di un tratto di muro perimetrale del tempietto primitivo. Del quadriportico rettangolare, che incorniciava la facciata, si conservano invece le maniche
longitudinali, scandite in due piani. Due sono le ipotesi sulla datazione dell’atrio: quella che lo vuole contemporaneo alla fondazione del vescovo Riprando e quella di una cronologia risalente al secondo quarto del XII secolo. Nel 1152, alla Dieta di Würzburg, Federico I confermò a Guido di Biandrate, discendente dei conti di Pombia, tutti i domini nel Novarese, compresa l’abbazia di San Nazzaro, che formò un’unica circoscrizione amministrativa con Biandrate di Mezzo, Vicolungo e Casalbeltrame. La zona limitrofa alla badia fu bonificata e le acque del Sesia, canalizzate, divennero via di comunicazione, protezione naturale e risorsa economica fondamentale.
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CALEIDO SCOPIO Un territorio ricco d’acqua Nell’XI e nel XII secolo una vasta area della Bassa novarese era ancora coperta da boschi, terreni incolti, brughiere. Non mancavano prati e arativi, che producevano segale, miglio e panico. In piú si raccoglievano noci, castagne e frutta e si allevavano bovini, ovini e suini. Dalla fine del XII secolo, alle acque del Sesia, a quelle dei torrenti naturali e a risorgive, fontane e fontanili da cui derivavano piccoli canali, si aggiunsero altri corsi scavati artificialmente dai Novaresi, e forse anche dai conti di Biandrate, come le rogge oggi note come Busca e Biraga. Documentata dal 1259, la Busca fu ottenuta dalla derivazione del Sesia a nord di Carpignano e scorreva attraverso le terre di Sillavengo e Mandello, per poi proseguire nel Basso novarese; la Biraga fu tratta dal Sesia all’altezza di Sillavengo; il suo deflusso era orientato verso Biandrate e il Basso novarese. In un’età di grandi trasformazioni tecniche le grandi arterie idriche non erano soltanto sfruttate per l’uso agricolo dell’acqua, ma soprattutto per la forza idraulica che alimentavano. Le rogge servivano in particolare i mulini e le prime officine, dette «piste», «fulloniche», per la lavorazione di lana, tessuti e ferro.
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I monaci crearono anche un hospitalis per viandanti e pellegrini, con celle e priorati tutt’intorno. Nel XIII secolo, il complesso monastico fu quindi fortificato e costituí una «testa di ponte» per il controllo dell’area di cerniera, che, situata oltre il letto del fiume, rappresentava un confine instabile tra le giurisdizioni delle città rivali di Vercelli e Novara. La massiccia torre campanaria a otto piani, innalzata con grandi ciottoli provenienti dal greto del fiume e dallo spietramento dei campi circostanti, uniti a elementi in pietra di età romana e conci rettangolari di quarzite, assunse cosí anche il ruolo di bastione di difesa e avvistamento sulla piana circostante. Nel Quattrocento, già segnato da
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In questa pagina Casalvolone. Due particolari degli affreschi e una veduta esterna della chiesa romanica di S. Pietro al Cimitero.
non poche traversie, il complesso abbaziale riacquistò importanza strategica e divenne un cuneo milanese in terre sabaude.
Tra Milano e i Savoia Il Sesia delimitava allora il confine tra il ducato di Milano e i possedimenti dei Savoia. Al di qua del fiume, confinanti con il paese di San Nazzaro, c’erano le località di Recetto e Cassinale, soggette alla famiglia Arboreo, fedele ai Savoia, mentre a sud le terre erano spartite tra Novara e Vercelli. I duchi di Milano nominarono abate il conte Antonio Barbavara, durante la cui reggenza (1429-1466) furono introdotte nuove colture, bonificati i campi circostanti, ripristinati gli antichi diritti di acqua del Sesia e ripopolate le terre con altre piante. Vennero inoltre ristrutturati la chiesa, la sala capitolare e il chiostro. Consacrato nel 1450 e terminato nel 1461, il luogo di culto viene oggi considerato, per la sapiente distribuzione dei volumi e il pregio delle decorazioni, «la Nella pagina accanto Biandrate. Affreschi quattrocenteschi nell’atrio della parrocchiale di S. Colombano.
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miglior espressione dell’architettura lomellina del tempo». Oltre al complesso abbaziale di San Nazzaro, un prezioso manufatto per comprendere l’evoluzione della storia dell’architettura novarese è la chiesa romanica di S. Pietro al Cimitero di Casalvolone (Casale Gualonis). Consacrata dal vescovo Riccardo tra il 1118 e il 1119 e citata come «plebem de Casali» in una bolla papale del 1133, risale agli inizi del XII secolo. L’originario tempietto, però, si colloca tra l’VIII e l’XI secolo. A confermarlo è una
Dalle paludi alle risaie Nella seconda metà del Quattrocento la presenza di notevoli estensioni paludose favorí la coltivazione del riso. L’impianto delle risaie modificò il profilo dei campi, che per alcuni mesi all’anno si presentano come infinite tessere liquide di un’immensa laguna squadrata, da cui emergono filari di pioppi, strade e case. Pian piano le terre che nel Medioevo erano ancora coperte da una folta vegetazione furono dissodate e coltivate, con il conseguente aumento della popolazione e l’incremento dei nuclei abitativi. Nell’Ottocento la rete irrigua, con l’opera di potenziamento promossa dal ministro Cavour, registrò un forte incremento, favorendo la messa a coltura di ampie superfici. Inoltre ai numerosi corsi d’acqua che correvano nella Bassa novarese, si aggiunse il Canale Cavour, che, realizzato in meno di tre anni, lungo 85 km e con una portata massima di circa 100 mc/s, costituisce ancora oggi l’ossatura portante del sistema di canalizzazione delle risaie in Piemonte.
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CALEIDO SCOPIO si trova ancora l’oratorio di S. Maria Vetere. Menzionato per la prima volta nel 1067, ha aula rettangolare, abside seicentesca e campanile romanico. Passato nel Cinquecento tra le proprietà dell’ospedale di S. Michele di Novara, tra la fine del Quattrocento e il primo trentennio del Cinquecento è stato affrescato e ampliato, addossando al fianco meridionale una cappella dedicata a san Germano, ricoperta di pitture murali datate 1533. Oltrepassata S. Maria Vetere, a sud dell’abitato di Sillavengo, la via Biandrina superava la roggia Busca e raggiungeva la porta occidentale di Mandello Vitta, dirigendosi verso In alto Landiona. L’oratorio campestre di S. Maria dei Campi, la cui costruzione originaria risale probabilmente al XII sec. A destra Vicolungo. L’abside della chiesa di S. Martino, affrescata con santi, profeti e, al centro, il Cristo in mandorla. costruzione a navata unica con abside orientata come la chiesa attuale, ma di larghezza di poco inferiore, ben individuabile in pianta dall’andamento delle fondazioni. Anche il campanile, splendido esempio di un linguaggio costruttivo che supplisce alla semplicità dei mezzi con una sensibilità in grado di cogliere e trarre dalla povertà del materiale ogni possibile carica espressiva, è sicuramente piú antico della chiesa romanica. Si ipotizza che la costruzione di un nuovo impianto di minori dimensioni sia iniziata in una fase di transizione, a seguito delle condizioni precarie o addirittura del crollo della struttura. Poi, assecondando intenti piú ambiziosi, si decise di ampliare la fabbrica, suddividerla in quattro campate, coperte da volte a crociera rialzata, quasi cupoliforme, e organizzarla in tre navate sorrette da pilastri a fascio, concluse da absidi semicircolari affrescate. La raffigurazione che interessa totalmente l’invaso
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dell’abside maggiore è stata commissionata nell’aprile del 1478. Secondo schemi iconografici consueti, ritrae Cristo in mandorla e una serie di santi e di profeti.
Un patrimonio diffuso Nella Bassa novarese i luoghi di culto già esistenti nei secoli XI e XII sono piuttosto numerosi e nonostante ristrutturazioni frequenti, spostamenti di insediamenti umani, variazioni demografiche e forse un’economia piú agile, il patrimonio superstite è di considerevole interesse. Lungo la via Biandrina, appena fuori l’abitato di Sillavengo,
Biandrate. Nella piazza del paese di Mandello, tuttora dominato da una massiccia torre difensiva eretta nella prima metà del Duecento e perfettamente conservata, si può visitare la chiesa di S. Lorenzo, parrocchiale dell’antico borgofranco fondato durante le podesterie di Robaconte da Mandello, prima del 1233. Probabilmente edificato alla fine del XII secolo, il luogo di culto risulta documentato per la prima volta nel 1357 come chiesa dipendente dalla vicina pieve di Proh-Camoidea. Nel corso dei secoli la fabbrica a tre navate, con archi longitudinali retti da pilastri marzo
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Il fiume e il suo ambiente L’itinerario alla scoperta del patrimonio artistico medievale della Bassa novarese può essere arricchito dalla visita al Parco Naturale Lame del Sesia. L’ambiente fluviale – con lame, meandri, specchi d’acqua, boschi, ghiaie e sabbie – contrasta con il paesaggio circostante, caratterizzato dalla monocultura a riso. Al Parco è possibile accedere tutto l’anno, sia seguendo percorsi attrezzati e autoguidati, che attività didattiche. Si può inoltre visitare un museo ornitologico. rettangolari e facciata a salienti, ha subíto numerose modiche. Di certo l’originaria struttura tardo-romanica della muratura esterna è stata realizzata in ciottoli di fiume disposti a spina di pesce, intervallati da corsi di mattoni, mentre le due absidi in mattoni e il campanile risalgono al XV e XVI secolo.
Il potere nelle mani dei conti Nell’Alto Medioevo Biandrate fu il centro politico-amministrativo dell’omonima famiglia comitale. A differenza di altre zone d’Italia, in cui le potenti famiglie cittadine si erano dovute ritirare nel contado, nel Novarese il fulcro tradizionale del potere comitale era già rurale. Il vescovo di Novara riuscí solo tardivamente (poco dopo il 1000) a proporre la propria città come centro di un comitatus a lui soggetto, senza per questo eliminare l’importanza sempre viva e anzi rinnovata, dei titolari laici del potere comitale nella zona. Accadde cosí che gli intraprendenti conti di PombiaBiandrate, ignorando gli antichi confini circoscrizionali, dove potevano contare su basi fondiarie, fortificazioni, chiese e clientele vassallatiche diedero impulso a insediamenti signorili, legati alla politica di sfruttamento del suolo.
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Vicolungo. Il poderoso torrione quadrato sull’angolo sud-est del castello, la cui prima attestazione risale al XV sec.
DOVE E QUANDO
Abbazia benedettina dei Ss. Nazario e Celso San Nazzaro Sesia Info tel. 0321 834073; e-mail: visiteinabbazia@gmail.com Note l’abbazia offre anche ospitalità in foresterie Pro Loco Carpignano Sesia piazza volontari della Libertà Info tel. 348 9505670; Facebook: Pro Loco Carpignano Sesia Ente Parco Naturale Lame del Sesia Albano Vercellese Info tel. 0161 73112 Note la tenuta del Castello, sede del Parco è fornita di foresteria
Il ricetto di Carpignano Sesia, cinto da mura turrite per la difesa comune e formato da cellule abitative e «caneve» – capaci magazzini, costituiti da due ambienti comunicanti sopra un piccolo solaio – ne è un esempio interessante. Il nucleo a forma pseudocircolare della struttura fortificata, dettata dall’esigenza di popolare zone scarsamente abitate, dalla paura e dalla necessità di proteggere uomini e beni da scorrerie e saccheggi, risale all’XI secolo. Un torrione, anticamente munito di ponte levatoio, funge tuttora da ingresso al ricetto. Passeggiando per le vie pavimentate a ciottoli, si possono osservare le tipiche case quattrocentesche in mattoni e pietre del Sesia. Curioso è il torchio «alla latina», che, realizzato nel 1575 con un unico tronco di olmo lungo 12 m e considerato uno dei piú antichi esemplari del Piemonte, è inglobato in un complesso del XIV-XV secolo. Chiara Parente
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Lo scaffale Paolo Di Luca e Marco Grimaldi (a cura di) L’Italia dei trovatori
I Libri di Viella, 267, Viella, Roma, 246 pp.
30,00 euro ISBN 978-88-6728-875-5 www.viella.it
La produzione trobadorica fu, nel Medioevo, un fenomeno letterario di risonanza europea. Creatori di generi poetici in lingua d’oc accompagnati da melodie, i «trovatori» fecero dell’arte del
trobar («trovare», termine con cui si indica l’atto creativo del poeta/cantore) l’emblema di una nuova estetica e di nuove modalità espressive. Essi diedero vita a un fenomeno artistico di grande impatto, che si diffuse, tra il XII e il XIV secolo, dall’Occitania ai territori di lingua catalana, germanica e italiana. Pur essendo profondamente legata alla tematica amorosa,
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l’arte dei trovatori si sviluppò anche in altri generi, sia di natura storico-politica, come il sirventese, sia comicosatirica. A questi ultimi è dedicata la raccolta di saggi curata da Paolo di Luca e Marco Grimaldi, ideatori di un programma di ricerca, «L’Italia dei Trovatori», nato nel 2013 e ora in via di conclusione, che ha visto il coinvolgimento di giovani ricercatori e docenti universitari italiani, con lo scopo di raccogliere e ampliare lo studio dei testi trobadorici che al loro interno presentano richiami, piú o meno diretti, alla storia italiana. Gli otto saggi ora confluiti nel volume offrono nuove prospettive sul modo di affrontare lo studio della storia italiana, prospettive tanto interessanti quanto insolite, mettendo in evidenza l’aspetto piú «impegnato» della poesia trobadorica. Ne sono testimonianza i numerosi versi che hanno per oggetto la figura dell’imperatore Federico II, qui esaminati da Francesco Saverio Annunziata, passando dalla macro-storia alla alla micro-storia, come nel saggio di Giorgio Barachini in cui si ricostruisce
il contesto storico intorno a un anonimo sirventese del XIII secolo. Altri contributi si soffermano sui trovatori attivi in area genovese (Alessandro Bampa), a Pisa (Fabrizio Cigni) e Ferrara (Luca Gatti). Un approfondimento sull’evoluzione dei generi trobadorici è invece offerta dai curatori del volume che si dedicano alla poesia comico-satirica (Di Luca) e quella storicopolitica (Grimaldi). Il volume si conclude con l’ampia riflessione di Antonio Montefusco, che propone nuove prospettive per la ricerca nel campo della storia della lirica provenzale. Franco Bruni Giovanni Agosti, Chiara Battezzati, Jacopo Stoppa San Maurizio al Monastero Maggiore
fotografie di Mauro Magliani, Officina Libraria, Milano, 176 pp., ill. col.
29,00 euro ISBN 978-88-99765-69-9 www.officinalibraria.com
Racchiude un pezzo della storia di Milano la chiesa di S. Maurizio al Monastero Maggiore: se l’aspetto attuale del tempio è l’esito della fabbrica avviata nel 1503, sembra infatti che il luogo di culto fosse
già attivo tra l’VIII e il IX secolo. Alla vicenda plurisecolare del monumento è ora dedicato questo volume, del quale merita d’essere sottolineata la ricchezza dell’apparato iconografico, forte delle campagne fotografiche eseguite da Mauro Magliani. Altrettanto interessante è la ricca selezioni di materiali d’archivio che affianca la documentazione della chiesa nelle sue forme attuali: schizzi, rilievi e numerosi dipinti supportano la ricostruzione delle ripetute trasformazioni. Queste ultime hanno alterato la fisionomia originaria del complesso, soprattutto per quel che riguarda le strutture conventuali, che ospitarono una comunità di monache benedettine alla quale a lungo affluirono le giovani delle famiglie piú in vista della città. A determinare la fama di S. Maurizio è la ricchezza dell’apparato decorativo, e delle pitture in particolare, che impreziosiscono l’intera struttura. Fra le molte mani, spiccano quelle di Bernardino Luini e della sua bottega, riconosciute, per esempio, nei quadri che ornano il muro
innalzato per dividere il settore dei laici da quello delle monache. Qui si susseguono gli episodi che vedono protagonista il santo titolare della chiesa, il martire Maurizio, che l’imperatore Massimiano Erculeo fece mettere a morte per essersi rifiutato di uccidere una comunità di Vallesi convertitisi al cristianesimo. In queste come in altre composizioni si colgono gli echi della tradizione antica, ai
quali si affianca la ripresa dei canoni che andavano affermandosi nel primo Cinquecento in Italia e in Europa, come prova, per esempio, la vicinanza a modelli sperimentati in quegli anni da Albrecht Dürer. Il volume è una guida preziosa per la lettura di questo ricco e articolato palinsesto e costituisce il prologo naturale alla visita del monumento. Stefano Mammini marzo
MEDIOEVO
CALEIDO SCOPIO
Una svolta epocale MUSICA • Grazie a
un’antologia di brani sapientemente selezionati, il gruppo La Fonte Musica documenta lo straordinario fermento creativo che caratterizzò il panorama europeo nel corso del Trecento 112
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l repertorio trecentesco si caratterizza per l’inesauribile ricchezza melodico-compositiva e per la varietà stilistica che ebbe il merito di introdurre nella storia della musica occidentale, soprattutto in area franco-italica. Si usciva da un periodo, il XII secolo, che aveva visto maturare i primi generi polifonici elaborati dai magistri Leonino e Perotino, esponenti della scuola parigina di NotreDame, per affacciarsi al nuovo secolo, che, proprio nel campo della
musica profana, fece registrate una straordinaria fioritura. Vennero introdotti nuovi generi ed elaborati nuovi stili, tanto che un teorico dell’epoca – Philippe de Vitry (1285 circa-1361) – poté appunto parlare di Ars Nova, in contrapposizione all’Ars Antiqua dei due secoli precedenti. Alla rigogliosa stagione musicale trecentesca è dedicata l’antologia Metamorfosi Trecento, che ci offre un prezioso campionario grazie all’ascolto di autori italiani originari marzo
MEDIOEVO
Metamorfosi Trecento La Fonte Musica, Michele Pasotti Alpha Classics (Alpha 286), 1 CD www.outhere-music.com madrigale, di cui l’antologia svela la multiformità, a testimonianza della ricchezza inventiva e compositiva del XIV secolo.
Omaggio a Ovidio
del Centro e del Nord della Penisola e di tre eccellenze francesi, Guillaume de Machaut, Solage e il succitato Philippe de Vitry. Preponderante è dunque la presenza italiana, rappresentata innanzitutto dai fiorentini Francesco Landini e Paolo da Firenze, dai perugini Niccolò e Matteo, dal padovano Bartolino, da Filippotto da Caserta e da Zaccaria da Teramo. Tutti musicisti che hanno contribuito in maniera decisiva allo sviluppo dei nuovi generi, in particolare quelli della ballata e del
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Il titolo scelto per questo progetto musicale, «Metamorfosi», è un omaggio alle Metamorfosi ovidiane che, già nel corso del Trecento, erano ben note e motivo di ispirazione anche per questi autori. Molti personaggi classici popolano questi brani – Orfeo, Febo, Pitone, Anfione, Narciso, Calisto, Arianna, Teseo, Circe, Dafne, Diana – e con la loro presenza offrono una significativa testimonianza della diffusione della cultura antica nel XIV secolo. Di spettacolare bellezza risultano alcuni brani in cui le voci dei quattro solisti di canto del gruppo La Fonte Musica si librano in intricati e movimentati intrecci polifonici (Sí dolce non sonò chol lir’ Orfeo di Landini, Sí chome al chanto della bella Yguana
di Jacopo da Bologna) ovvero in sognanti melodie (Già da rete d’amor di Matteo da Perugia, Non piú infelice di Paolo da Firenze e Par le grant senz d’Adriane di Filippotto da Caserta), senza tralasciare anche brani strumentali come l’anonimo Tre Fontane (1360 circa) e Strinçe la man di Bartolino da Padova. Se nella maggior parte dei casi Michele Pasotti, liutista e direttore de La Fonte Musica, affida alle sole voci l’esecuzione di questi brani, non mancano momenti di commistione vocale-strumentale che vedono la presenza di flauti, violini, clavicembalo, arpa gotica e liuto medievale, il cui «sapore» antico, valorizza ulteriormente il repertorio proposto. Grande è il talento di questo giovane gruppo, specializzatosi nel repertorio trecentesco italiano. Se ne apprezzano la raffinatezza dell’interpretazione e la limpidezza delle voci, pari a quella degli strumenti, quasi a ricordare l’acqua della fonte, simbolo medievale del godimento e della rigenerazione a cui il nome dell’ensemble si ispira. Franco Bruni
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