DE L’IN SI LL VE EN A NZ A FIN IO AN NE ZA
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Mens. Anno 24 numero 277 Febbraio 2020 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
MEDIOEVO n. 277 FEBBRAIO 2020
EDIO VO M E
IN EDICOLA IL 4 FEBBRAIO 2020
SOMMARIO
Febbraio 2020 ANTEPRIMA
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MEDIOEVO INVENTORE La staffa
Un cavallo non fa il cavaliere
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MOSTRE Bologna, capitale d’Europa
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RESTAURI Bentornati!
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APPUNTAMENTI Uniti per sempre I giorni dei messaggeri L’Agenda del Mese
17 19 22
STORIE PERSONAGGI Pietro Bembo
Il cardinale vulcanologo
30
di Maria Paola Zanoboni
STORIE Quando Siena inventò la finanza di Alessio Montagano
58
LUOGHI ITINERARI Sulle mura di Gerusalemme di Andreas M. Steiner
CROCIATE LA VERA STORIA 74
CALEIDOSCOPIO
30 GENOVA E L’ORIENTE L’Oriente dei Genovesi di Antonio Musarra
44
44
Dossier
LIBRI Visioni di un mistero Lo Scaffale
112 113
MUSICA Se la Commedia incontra la musica
114
testi di Franco Cardini e Antonio Musarra
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MEDIOEVO n. 277 FEBBRAIO 2020
MEDIOEVO
IN EDICOLA IL 4 FEBBRAIO 2020
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MEDIOEVO Anno XXIV, n. 277 - febbraio 2020 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it
Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Franco Cardini è storico del Medioevo. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Alessio Montagano è membro dell’Accademia Italiana di Numismatica. Antonio Musarra è ricercatore in storia medievale presso «Sapienza» Università di Roma. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 44/45, 52/53, 72/73 – Doc. red.: pp. 5, 18, 18/19, 30, 35 (alto), 48-51, 54, 62/63, 91-94, 96-111 – Cortesia Ufficio Stampa Istituzione Bologna Musei: p. 8 (alto); Giorgio Bianchi: pp. 6-7, 8 (basso), 9-10 – Cortesia SABAP Umbria: M. Achilli: pp. 14-16 – Turol Jones: p. 17 – Cortesia degli autori: pp. 19, 58, 60/61, 62, 65, 66-67, 69, 71 – Mondadori Portfolio: pp. 40/41; Fine Art Images/Heritage Images: p. 31; Veneranda Biblioteca Ambrosiana/Paolo Manusardi: pp. 32/33; Veneranda Biblioteca Ambrosiana/Mauro Ranzani: p. 34; Electa: p. 35 (basso); Album/Prisma: p. 36; Erich Lessing/Album: p. 37; AKG Images: pp. 38/39, 40, 47, 54/55, 56-57, 68/69; Album/The Metropolitan Museum of Art, New York: p. 55; Archivio Lensini/Fabio e Andrea Lensini: pp. 59, 60, 64, 70 – Andreas M. Steiner: pp. 74-75, 78 (alto), 78/79, 88-89 – Duby Tal/ Albatross: pp. 77, 80/81, 86 – Library of Congress, Wahington, USA: p. 78 (basso) – Andrew Shiva: pp. 82/83 – Cortesia Israel Antiquities Authority: Yoli Schwartz: pp. 84-85, 87 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 46/47, 76 – Cippigraphix: cartina a p. 95. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.
Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano
In copertina Gerusalemme. La Cupola della Roccia.
Prossimamente pasqua 1475
Il caso di Simonino da Trento
medioevo nascosto
L’episcopio di Ventaroli
dossier
Enrico II d’Inghilterra
MEDIOEVO INVENTORE a cura di Federico Canaccini
Un cavallo
non fa il cavaliere
A
guardarlo bene, non si direbbe che quel grosso anello metallico abbia avuto un ruolo cosí decisivo nella storia della guerra. E invece la staffa, sospesa con corregge di cuoio ai lati della sella, e comodo alloggio per il piede del cavaliere, ha contribuito in modo determinante al progresso delle tecniche di combattimento nell’Alto e poi nel Basso Medioevo. Occorre però qualche chiarimento, giacché, innanzitutto, non si tratta di un’«invenzione» occidentale, dal momento che la staffa, prima di giungere in Europa intorno all’VIII secolo, era già conosciuta nelle regioni dell’Asia centrale. Né si tratta, probabilmente, di una rivoluzione, ma dell’adozione graduale di un oggetto che, nella divulgazione e nella manualistica, è invece divenuto quasi il simbolo di una svolta epocale. Nel mondo antico la staffa era sconosciuta: nell’Antico Egitto, per esempio, il carro ospitava un auriga e un lanciere e Alessandro Magno raccomandava ai propri cavalieri di scagliare le lance appena prima di impattare col nemico, per evitare di essere scavallati. La prima staffa degna di tale nome sarebbe identificabile con un manufatto databile al V secolo d.C., rinvenuto in Cina; poi, dall’VIII secolo, essa viene progressivamente adottata anche dai corpi di cavalleria dell’Occidente barbarico, che lo importa probabilmente dai Sarmati. La vittoria di Carlo Martello a Poitiers, nel 732, è il fatto d’arme forse piú noto dell’Alto Medioevo, anche perché celebrato dalla propaganda franca e cristiana come la vera vittoria sugli infedeli, quella che avrebbe fermato
MEDIOEVO
febbraio
l’onda araba. Questa idea venne largamente diffusa nei decenni successivi alla battaglia, creando il mito di Carlo Martello, il mito di Poitiers, nonché quello dell’uso della staffa, che avrebbe determinato la vittoria schiacciante dei cristiani sugli Arabi. In realtà, nell’Alto Medioevo, pur disponendo di corpi di cavalleria, gli eserciti occidentali dovevano essere composti prevalentemente da uomini appiedati: alla fine dell’VIII secolo, su un contingente forte di circa 700 uomini, appena 135 montavano a cavallo. E, di questi, appena 13 utilizzavano le staffe: avere i cavalli non significava affatto essere cavalieri! Giunti sul campo, infatti, quasi tutti smontavano e combattevano con le armi tradizionali: asce, spade, scramasax e lance (angoni) da usare negli scontri corpo a corpo. Insomma, pur impegnando sul campo tanti «uomini a cavallo», la «cavalleria» ancora non esisteva, né, tanto meno, la «carica»! L’adozione della staffa (e la carica a lancia in resta) fu parte di un processo lento e progressivo. Solo con l’aumento di «cavalieri» in grado di permettersi la costosa attrezzatura (rinunciando agli eserciti di popolo, ma contando ora su introiti di tipo feudale), la staffa si diffuse per l’Europa. E con essa nacque la «cavalleria pesante». In alto particolare del ricamo di Bayeux (comunemente indicato come «arazzo») raffigurante due cavalieri che utilizzano le staffe. 1066-77. Bayeux, Musée de la Tapisserie de Bayeux. Il grande telo ricamato celebra la conquista normanna dell’Inghilterra.
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ANTE PRIMA
Bologna, capitale d’Europa MOSTRE • Il Museo Civico
Medievale del capoluogo emiliano documenta la significativa produzione scultorea in legno sviluppatasi fra XII e XIV secolo. E presenta una nuova e decisiva attribuzione... In alto un particolare dell’allestimento della mostra «Imago splendida», in corso a Bologna, nel Museo Civico Medievale. In basso coperta di lezionario in argento parzialmente dorato. 1207-1218 circa. Trento, Museo Diocesano Tridentino.
N
el XIII secolo Bologna è una delle piú ricche, popolose e creative metropoli europee. Da una parte, l’affermazione a livello internazionale dello Studium, l’università che richiamava docenti e studenti dall’intero continente; dall’altra, l’ascesa degli Ordini mendicanti, in particolare il ruolo strategico dei Domenicani, ne fecero un crocevia di culture che s’incontravano e si fondevano tra loro. La sua posizione strategica sull’antica via Emilia le assicurava un ruolo fondamentale nelle comunicazioni tra le aree appenniniche, la Pianura Padana e verso il mondo d’Oltralpe. La cruciale partecipazione alla seconda Lega Lombarda, i rapporti con il papato e con il regno di Napoli garantirono alla città un ruolo di grande rilevanza nella compagine politica guelfa. Questi fattori, congiunti alla florida economia mercantile e all’espansione urbanistica, fecero di Bologna un centro di importanza primaria per la produzione artistica.
Una stagione di straordinaria fioritura Il Duecento fu un’età aurea, durante la quale, grazie alla presenza di grandi cantieri e maestranze artistiche, furono attivi nella città felsinea alcuni dei piú celebri maestri della Penisola, come Giunta di Capitino, Nicola Pisano o Cimabue. La circolazione dei modelli tra le diverse arti fu unica e senza precedenti, e sovente si crearono molteplici interazioni tra miniatura, pittura, scultura, metallurgia o arte del vetro. In tal senso un caso di rilievo è quello dell’iconografia della Crocifissione.
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Qui sopra particolare di una pagina di un lezionario realizzato dal Maestro del Collettario e da miniatori bolognesi. 1265-1270. Bologna, Museo Civico Medievale. In alto, a destra croce astile in ottone. Manifattura della
Germania meridionale, ultimo quarto del XII sec. circa. Torino, Palazzo Madama, Museo Civico d’Arte Antica. In basso, a destra Croce dipinta, tempera su tavola attirbuita a un pittore giuntesco. 1270 circa. Bologna, Collezioni Comunali d’Arte.
È questo, dunque, il contesto nel quale matura la produzione artistica documentata dalla mostra «Imago splendida», che, in particolare, approfondisce l’affascinante e ancora poco studiata produzione scultorea lignea a Bologna tra XII e XIII secolo. Il nucleo principale dell’esposizione si compone delle testimonianze piú rappresentative della produzione plastica superstite nella città: tre croci intagliate di proporzioni monumentali appartenenti alla variante iconografica del Christus Triumphans, che vince la morte, per la prima volta eccezionalmente riunite.
Analogie decisive Nella disposizione dello spazio liturgico nelle chiese medievali, le croci erano collocate sul tramezzo murario, a segnare una piú netta divisione tra la zona presbiteriale riservata al clero e la navata accessibile ai laici. La comparazione ravvicinata dei manufatti offre in visione tangenze e analogie, sul piano della sintassi formale e tecnica, che suggeriscono l’ipotesi di un’inedita attribuzione a un’unica bottega, credibilmente di area alpina sudtirolese – il cosiddetto Maestro del Crocefisso Cini –, in una fase temporale compresa tra il 1270 e il 1280. Si tratta del Crocefisso conservato nelle Collezioni Comunali d’Arte di Bologna, riallestito nel corso del XIV secolo su una croce duecentesca dipinta da Simone dei Crocifissi, dell’ancora poco conosciuto Crocefisso
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ANTE PRIMA Il capolavoro d’un maestro tirolese Il gruppo scultoreo della Crocifissione con la Vergine e San Giovanni Evangelista, oggi collocato sull’altare maggiore della cattedrale di S. Pietro a Bologna, è un unicum tra gli esemplari scultorei sopravvissuti nel contesto locale. La sua datazione tra il 1170 e il 1180 è stata avanzata su base stilistica e ben si accorda anche ai dati storici: l’opera dovette far parte del programma di ricostruzione intrapreso dopo l’incendio del 1141 e collocarsi a poca distanza dalla nuova consacrazione della cattedrale, avvenuta nel 1184. Dalle visite pastorali si apprende che nel XVI secolo la Crocifissione venne trasferita in una nicchia e ciò dovette comportare, a causa della mancanza di spazio, il taglio degli arti inferiori delle figure dei Dolenti. Realizzato in legno policromo finemente dipinto,
il gruppo scultoreo colpisce per i lineamenti definiti delle anatomie dei corpi, delle chiome, dei panneggi delle vesti: elementi che apportano all’insieme una forte aura di sacralità. Emerge, in particolare, la decisa plasticità della figura del Cristo, di cui la perfezione della capigliatura intrecciata, della barba con boccoli a uncino, è resa nel dettaglio. E su tutto si impone la ieraticità del volto, caratterizzante della piú antica tipologia del Cristus Triumphans, il Cristo che trionfa sulla morte, una solennità conferita attraverso l’intaglio netto della materia arricchita dalle vivaci cromie.
Le caratteristiche plastiche dell’opera sono proprie del lessico artistico internazionale del periodo: la sapiente modellazione del legno, propria di un artista sudtirolese, palesa la conoscenza di episodi aulici della scultura d’Oltralpe, peculiari ai grandi cantieri delle cattedrali di Chartres, Autun o Moissac. Invero, si è supposta la possibilità che il maestro tirolese che realizzò il manufatto bolognese, grazie alle vie di pellegrinaggio e alla grande circolazione delle botteghe scultoree tra XII e XIII secolo, possa aver percorso la Francia spingendosi fino in Galizia, ove sono stati individuati esempi scultorei affini.
A destra Crocifissione con la Vergine e San Giovanni Evangelista. 1170-1180. Bologna, S. Pietro.
A sinistra Crocifisso in legno policromato attribuito al Maestro del Crocifisso della Fondazione Giorgio Cini. 1280 circa. Bologna, S. Maria Maggiore.
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A destra due delle tre grandi croci protagoniste della mostra. A sinistra, il Crocifisso nelle Collezioni Comunali d’Arte di Bologna, attribuito al Maestro del Crocifisso della Fondazione Giorgio Cini e riallestito nel Trecento su una croce dipinta da Simone dei Crocifissi; a destra, il Crocifisso della Fondazione Giorgio Cini di Venezia. In basso piatto di legatura in rame inciso, sbalzato e dorato e smalto champlevé con Crocifissione. 1190-1200 circa Torino, Palazzo Madama-Museo Civico d’Arte Antica.
proveniente dalla basilica di S. Maria Maggiore a Bologna e, infine, del Crocefisso pervenuto alla raccolta d’arte della Fondazione Giorgio Cini di Venezia. A integrazione esterna della mostra, in un ideale percorso diffuso in città, va inoltre considerata la maestosa Crocefissione scolpita situata nella cattedrale di S. Pietro (vedi box alla pagina precedente), di cui in mostra viene elaborata la ricostruzione sull’antico pontile attraverso un video in 3D a cura di Fabio Massaccesi e CINECA, in collaborazione con SAME Architecture.
Contesto francescano Rispetto al numero limitato di crocefissi scolpiti duecenteschi superstiti, quelli dipinti con la stessa iconografia del Christus Triumphans risultano documentati a Bologna da svariati esempi, quasi tutti collegabili a un contesto strettamente mendicante, e, in particolar modo, francescano. Un confronto tra le due produzioni, scultorea e pittorica, viene proposto nel percorso di visita dall’esposizione di una Croce dipinta, con due figure di Dolenti, attribuita a pittore giuntesco, databile al settimo decennio del XIII secolo. L’autore dell’opera, confluita alle Collezioni Comunali d’Arte da un’ottocentesca collocazione nella Certosa di Bologna, mostra di conoscere e reinterpretare, seppure
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in una declinazione totalmente personale, i modelli piú tardi di Giunta Pisano, a cominciare dalla grande Crocefissione della chiesa di S. Domenico, progettata in vista della consacrazione avvenuta nel 1251 e ben presto divenuta un riferimento per i vari artisti e miniatori che operavano per gli Ordini mendicanti. Pur in presenza delle integrazioni e modifiche subite nel corso del tempo, la ricorrenza dello schema compositivo e di alcuni dettagli morfologici nelle quattro sculture considerate sembra ricondurre a un unico modello plastico, opera di un autore di cultura eterogenea a conoscenza delle piú aggiornate istanze naturalistiche del Gotico nordeuropeo. L’irradiazione di un nuovo lessico figurativo al di là dell’orizzonte territoriale alpino, in occasione di una tappa emiliana dell’anonimo maestro, appare verosimile se si considera la ricca e ricettiva realtà artistica che doveva animare la Bologna cosmopolita del Duecento.
Le relazioni stilistiche Muovendo dalla ricerca avviata nel 2003 da un contributo critico di Luca Mor – che, insieme a Massimo Medica, ha curato la realizzazione di «Imago splendida» –, la rete di relazioni stilistiche omogenee tracciata dalla
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ANTE PRIMA Frammento miniato ritagliato da un codice giuridico, rappresentante l’Elevazione dell’Ostia e attribuito a miniatore bolognese (Maestro delle Decretali di Lucca). 1270-1275 circa. Venezia, Fondazione Giorgio Cini. approfondire il tema dello spazio liturgico a Bologna tra XII e XIII secolo, il percorso espositivo consente anche di misurare in dettaglio gli originalissimi effetti della rinascenza gotica sul genere della plastica lignea in rapporto alle arti preziose, che in città conobbero una straordinaria intensità di circolazione.
La lezione toscana
mostra viene resa piú chiaramente leggibile dai dati diagnostici sugli intagli, ricavati dagli interventi di restauro su due delle opere esposte. Per il Crocefisso collocato nella navata destra della basilica di S. Maria Maggiore, appena riaperta dopo la chiusura per gli ingenti danni causati dal terremoto nel 2012, l’intervento condotto da Ottorino Nonfarmale e Giovanni Giannelli è stato appositamente programmato e finanziato dal Comune di Bologna in vista della presente occasione espositiva. Risale invece al 2011 l’azione conservativa eseguita sul precario stato del Crocefisso acquistato dal conte Vittorio Cini, in origine ubicato nel vestibolo antistante il refettorio palladiano del convento di S. Giorgio Maggiore, che, di fatto, trova al Museo Civico Medievale di Bologna la prima occasione di adeguata valorizzazione espositiva. Oltre a rendere noti i preziosi dati di restauro e A destra pisside in rame inciso e dorato e smalto champlevé. 1270/1275-1300 circa. Venezia, Fondazione Giorgio Cini.
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Il dialogo fra le tecniche viene testimoniato dalla presenza di preziosi codici miniati e raffinati oggetti liturgici, in parte conservati nella collezione del museo e in parte provenienti in prestito da Biblioteca Palatina di Parma, Palazzo Madama-Museo Civico d’Arte Antica di Torino, Fondazione Giorgio Cini di Venezia, Museo Diocesano Tridentino di Trento e Museo Diocesano di Padova. Se, da un lato, le soluzioni innovative ricorrenti in questi manufatti dimostrano quanto fosse diffusa l’influenza di testi miniati e oggetti d’arte importati dalle aree d’Oltralpe, dall’altro va riconosciuta l’eco di suggestioni della lezione artistica toscana che, proprio a Bologna, manifestarono episodi di assoluto rilievo come la celebre Arca marmorea di S. Domenico, eseguita per la chiesa omonima da Nicola Pisano e aiuti tra il 1264 e il 1267. Si può supporre che tale capolavoro non dovette lasciare insensibile anche il Maestro del Crocefisso Cini. Stando agli indizi conservativi emersi con il restauro dell’opera eponima, egli dovette infatti affermarsi non molto tempo dopo, come autore di una delle prove che emerge come tra le piú interessanti e luminose del Duecento a Bologna. (red.) DOVE E QUANDO
«Imago splendida. Capolavori di scultura lignea a Bologna dal Romanico al Duecento» Bologna, Museo Civico Medievale fino all’8 marzo Orario da martedí a domenica e festivi, 10,00-18,30; chiuso lunedí feriali Info tel. 051 2193916 o 2193930; e-mail: museiarteantica@comune.bologna.it; www.museibologna.it/arteantica; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Twitter: @MuseiCiviciBolo; Instagram: @bolognamusei Catalogo Silvana Editoriale febbraio
MEDIOEVO
ANTE PRIMA
Bentornati! RESTAURI • Messa
da parte la ricerca di un presunto Medioevo «puro», il Duomo di Orvieto si riappropria del magnifico gruppo dell’Annunciazione e delle statue degli Apostoli
I
l Duomo di Orvieto saluta il ritorno del ciclo scultoreo realizzato tra gli anni Cinquanta del Cinquecento e gli anni Venti del Settecento. Ne era stato allontanato nel 1897, a conclusione di una serie di lavori, durati una ventina di anni, che tolsero la maggioranza delle testimonianze post-medievali dalla chiesa alla ricerca di un mitizzato Duomo delle origini. Su quella stagione diede un giudizio amaro lo storico e archivista Luigi Fumi, che ne era stato uno dei protagonisti principali; nella sua monografia Orvieto, pubblicata nel 1918 e quindi ad anni di distanza scriveva: «Mai piú avverrà che il piccone ignobile, con tanta disinvoltura, porti la distruzione sulle opere dell’ingegno e della mano di buoni maestri del loro tempo, per cedere il posto alla scialba tinta degli imbianchini. Abbiamo abbattuto gli altari, abbiamo dato lo sfratto ai Santi. È rimasta isolata, come in un deserto, la maestà di Dio, in un grande vuoto». Si era andati
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alla ricerca di un Medioevo supposto, enfatizzato, sempre piú «puro», quello compreso tra gli anni 12901310 prima della svolta avvenuta con l’arrivo di Lorenzo Maitani, quale responsabile del cantiere.
Orvieto, Duomo. Particolari delle statue dell’Angelo (in alto) e della Madonna che compongono l’Annunciazione di Francesco Mochi posta ai lati dell’altare.
Di nuovo al suo posto Non si era compreso che una Cattedrale è un corpo vivo, che muta insieme ai fedeli (e, in senso piú generale, alla società intera) e ne vive le aspirazioni, le contraddizioni, le conquiste, le difficoltà. Ora l’Opera del Duomo di Orvieto, in piena collaborazione con la Diocesi di Orvieto-Todi, la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Umbria, l’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro e l’ENEA, ha scelto di riportare l’intero ciclo scultoreo al suo febbraio
MEDIOEVO
posto. Vi figurano opere di Raffaello da Montelupo, Francesco Moschino, Ippolito Scalza, Francesco Mochi, Giambologna, Bernardino Cametti per limitarsi a qualche nome. La scelta è stata realizzata riallacciandosi a posizioni teoriche sostenute da Cesare Brandi, Federico Zeri, Vittorio Franchetti Pardo e Antonio Paolucci a partire dagli anni Ottanta del Novecento. In quegli anni si arrivò quasi a realizzare la ricollocazione: Brandi – convinto che l’operazione stesse per concretizzarsi – giunse nel 1986 ad annunciare il prossimo ritorno dell’Annunciazione di Francesco Mochi e delle statue degli Apostoli sulle pagine del Corriere della Sera. Il riposizionamento venne bloccato all’ultimo minuto con le motivazioni che la straordinaria Annunciazione di Mochi, ai lati dell’altare, avrebbe interferito con le cerimonie religiose e che le sculture degli Apostoli, dislocate – come erano in origine – nella navata e a ridosso delle colonne, avrebbero impedito
MEDIOEVO
febbraio
In alto una veduta della navata centrale del Duomo, con le statue degli Apostoli ricollocate a ridosso delle colonne. Qui sopra l’altare del Duomo affiancato dall’Annunciazione di Francesco Mochi.
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ANTE PRIMA
Particolari delle statue che ritraggono Giacomo Maggiore (in alto; opera di Giacomo Caccini, 1589-1591) e Taddeo (opera di Francesco Mochi, 1631-1644). (o, almeno, limitato) la lettura dello spazio architettonico. Nel frattempo, dopo diverse peregrinazioni, l’intero ciclo scultoreo giaceva, chiuso in casse, nei sotterranei del Duomo, dove lo vide Federico Zeri, che, nel 1996, denunciò la situazione con grande energia in un documentario televisivo intitolato significativamente Arte negata.
Gli anni dell’oblio Nel 2006, sempre per iniziativa dell’Opera del Duomo e in accordo con la Soprintendenza, le statue vennero liberate dalle casse (l’Annunciazione lo era stata già in precedenza) ed
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esposte nella chiesa di S. Agostino, una delle sedi del Museo dell’Opera. Nelle intenzioni doveva essere un passaggio breve prima di acquisire i progetti e le autorizzazioni necessarie per il loro rientro nella Cattedrale. Le operazioni si sono concluse nello scorso mese di novembre e le statue sono tornate nel luogo esatto dove si trovavano, individuato grazie alla documentazione fotografica di fine Ottocento. Quest’ultima, tra l’altro, viene presentata nella mostra «Le statue nel Duomo di Orvieto. Una storia ricomposta nelle immagini del fondo fotografico Raffaelli Armoni Moretti e negli scatti attuali» (allestita nei Sotterranei del Duomo e visitabile fino al prossimo 12 aprile). Un attento e complesso lavoro di restauro ha portato anche alla ricomposizione dei basamenti originari. Ora le statue dei Santi sono tornate a riempire il «grande vuoto» della navata e potranno dialogare con i fedeli e i visitatori. Giuseppe M. Della Fina febbraio
MEDIOEVO
Uniti per sempre APPUNTAMENTI • La cittadina spagnola di Teruel rievoca la triste vicenda di cui
furono protagonisti, agli inizi del Duecento, il cavaliere Diego de Marcilla e Isabella de Segura, che solo nella morte poterono coronare il loro sogno d’amore
D
a giovedí 20 a domenica 23 febbraio, nella cittadina spagnola di Teruel torna la rievocazione delle nozze fra Diego e Isabella de Segura, avvenute all’inizio del XIII secolo. In una città arricchita da ambientazioni medievali, vengono proposte rappresentazioni di teatro di strada, concerti musicali, spettacoli di danza e un mercato d’epoca. La messinscena della storia leggendaria degli «Amanti di Teruel», denominata, Las Bodas de Isabel de Segura, si svolge tutti i giorni. Siamo nel 1217. Un cavaliere esausto arriva in città: si tratta di Diego de Marcilla (Juan Martínez de Marcilla, secondo i testi storici), che torna ricco e famoso, dopo aver combattuto in diverse battaglie. Diego è innamorato fin da bambino di Isabella de Segura, un sentimento corrisposto dalla giovane nobile, ma mentre lei appartiene a una casata importante, lui è il secondogenito di una famiglia molto modesta.
Una città in festa Il padre di Isabella gli aveva concesso cinque anni di tempo per arricchirsi, trascorsi i quali, con questo requisito, avrebbe potuto sposare Isabella. Diego torna a Teruel proprio il giorno in cui scade il termine del patto, ma viene subito informato che l’ambiente festoso e addobbato della città si deve al fatto che Isabella de Segura si è appena sposata, sulla spinta delle pressioni della sua famiglia e di un pretendente importante. Fra rabbia e dolore, Diego decide di incontrare la sua amata, andata in sposa a Pedro
MEDIOEVO
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Fernández de Azagra, fratello del Signore di Albarracín. Le chiede un bacio, ma Isabella si nega, spiegandogli che ora appartiene a un altro uomo. Il cuore di Diego non resiste al rifiuto e il cavaliere cade al suolo morto. Il giorno seguente, un corteo triste e silenzioso trasporta il suo cadavere alla chiesa del paese. Quando stanno per iniziare i funerali, fra la folla si fa largo una donna vestita da sposa e con il viso velato. È Isabella de Segura, che si avvicina al suo amato per dargli il bacio negatogli in vita, e nel momento in cui gli sfiora le labbra, muore crollando sopra di lui. La storia di Isabella e Diego, probabilmente mitizzata nel corso del tempo, ha ispirato numerose iconografie. Il Museo
Teruel. Un momento delle Bodas de Isabel de Segura, manifestazione che rievoca la triste storia d’amore fra Diego de Marcilla e Isabella de Segura. del Prado conserva un grandioso dipinto, realizzato da Antonio Muñoz Degrain, Los amantes de Teruel. La scalinata monumentale della stazione di Teruel è invece incorniciata da un magnifico altorilievo che si deve allo scultore Aniceto Marinas.
Le spoglie degli innamorati Ma l’immagine piú rappresentativa è la scultura in alabastro, sotto la quale riposano assieme i resti di Isabella e Diego, realizzata dallo scultore Juan de Ávalos nel secolo scorso. Questa scultura si trova nel
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ANTE PRIMA A destra Gli amanti di Teruel, olio su tela di Antonio Muñoz Degrain. 1884. Madrid, Museo del Prado. Qui sotto la locandina dell’edizione 2020 delle Bodas. In basso, a destra un momento della rievocazione.
Mausoleo de los Amantes, annesso alla chiesa di S. Pietro di Teruel, un piccolo museo cittadino che ne racconta la storia leggendaria. Nel 1555 le spoglie dei due giovani furono scoperte interrate nella cappella dei Ss. Cosma e Damiano. Vicino a esse, secondo la testimonianza del notaio Yagüe de Salas, comparve un antico documento che raccontava i fatti. Fondata dagli Iberi e piú tardi assoggettata dai Romani, Teruel è una cittadina di circa 35mila abitanti situata su un colle dei Monti Iberici meridionali. Nel 1986 l’UNESCO l’ha dichiarata Patrimonio dell’Umanità per la caratteristica architettura mudéjar dei suoi monumenti, in
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particolare le torri di San Martín e San Salvador, rivestite di piastrelle ceramiche, che ricordano gli antichi minareti orientali. A lungo Teruel fu un importante centro islamico, e quando Alfonso II d’Aragona nel 1171 la riconquistò, buona parte della popolazione araba rimase a vivere in città. Dal XII secolo divenne un noto centro di produzione ceramica. Fra gli edifici inseriti nell’elenco del Patrimonio dell’Umanità c’è anche la cattedrale di S. Maria di Mediavilla, grande chiesa gotica mudéjar a tre navate, eretta nel XII secolo e modificata nel 1257 con l’aggiunta di una torre. Interessante in particolare il soffitto mudéjar della navata centrale. Tiziano Zaccaria febbraio
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I giorni dei messaggeri I
l carnevale è una delle festività piú sentite in Slovenia, legata alle antiche tradizioni connesse al mondo contadino e ai cicli delle stagioni. Nel Paese slavo alcuni carnevali affondano le radici nel Medioevo, epoca di miseria, carestie, lotte tra signorotti locali e frequenti incursioni dell’esercito turco, pericoli che, tuttavia, non facevano passare il buonumore. Tra i numerosi carnevali sloveni, uno dei piú famosi ed etnologicamente significativo è la Kurentovanje di Ptuj, antica cittadina sulle rive della Drava fondata dai Romani, con un bel centro storico di impronta medievale, dominato dal castello rinascimentale asburgico. Le maschere tradizionali di Ptuj sono i Kurenti, nome che deriva probabilmente dallo sloveno antico «kurant», cioè messeggero. Questi stravaganti personaggi indossano un pesante costume di pelle di pecora, calze colorate e stivaloni, un grande copricapo di pelliccia decorato con piume, rami, corna e strisce colorate. Hanno sul viso una maschera di cuoio con aperture per occhi e bocca orlate di rosso, un naso a forma di tronco, fagioli bianchi per denti e una lingua di cuoio rossa lunga fino al petto. Ai costumi di pelle appendono campanacci da mucca, che i Kurenti fanno suonare saltellando ritmicamente mentre si muovono in gruppo, di casa in casa, accompagnati da altre figure carnevalesche come orsi, fate e galletti. In mano hanno una mazza di legno con pelli di riccio attaccate, il cui rumore scaccerebbe l’inverno e gli spiriti maligni.
Una festa internazionale Queste maschere si possono ammirare per tutto l’anno nel museo ospitato all’interno del castello cittadino. Negli ultimi decenni l’evento ha acquisito una valenza internazionale grazie alla presenza di altri costumi tradizionali provenienti da Croazia, Serbia, Macedonia, Ungheria, Austria, Italia e altre nazionii. Per tradizione il carnevale di Ptuj ha una durata di undici giorni. Quest’anno inizierà sabato 15 febbraio, con una processione e con il conferimento del governo provvisorio della città al Principe del Carnevale. Venerdí 21, alle 18,00, partirà una grande parata notturna dei Kurenti, da Krempljeva ulica e Mestni trg. Sabato 22 sono in programma la parata borghese e una nuova processione delle maschere per le vie e le piazze cittadine. Domenica 23, spazio al carnevale internazionale, con una lunga processione. Lunedí 24 febbraio, la parata dei bambini. Gran finale martedí 25 febbraio, con il funerale e la sepoltura del carnevale in Mestni trg. T. Z.
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ANTE PRIMA
IN EDICOLA
RELIGIONE E VIOLENZA IOEVO MED Dossier
L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.
MEDIOEVO DOSSIER
RELIGIONE E
VIOLENZA N°36 Gennaio/Febbraio 2020 Rivista Bimestrale
Renata SalvaRani
€ 7,90
IN EDICOLA IL 31 DICEMBRE 2019
di
Come si concilia la morale religiosa con massacri, soprusi e guerre? Quali sono le «colpe» originarie della Bibbia e dei tre monoteismi? Cosa ci insegnano i mille anni dell’età di Mezzo?
RELIGIONE E VIOLENZA
Costante, nei diversi capitoli dell’opera è il confronto tra le fonti che, da prospettive diverse, hanno tramandato i medesimi eventi: ecco perché i «campioni della fede» degli uni divennero gli «infedeli» degli altri, o cocenti e sanguinose sconfitte furono celebrate come fulgidi esempi di sacrificio collettivo. Un panorama ricco e articolato, dunque, che nel nuovo Dossier viene sapientemente descritto e analizzato, offrendo al lettore chiavi di lettura puntuali e originali.
NE A IO Z IG LEN L RE IO EV
Timeline Publishing Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv.
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ffidato alla penna brillante di Renata Salvarani, autorevole studiosa di storia delle religioni e del Medioevo, il nuovo Dossier di Medioevo affronta un tema millenario eppure di straordinaria attualità: il rapporto fra l’uso della violenza e la fede religiosa. Fin dalle età piú antiche, infatti, nel nome della fede si è combattuto, sono state inflitte torture, sono state organizzate grandi spedizioni militari… Fenomeni che, nell’età di Mezzo, si sono ripetuti con particolare frequenza e ai quali sono associate pagine decisive della storia di quel tempo: dalle crociate alla lotta alle eresie, dalla fondazione dei grandi ordini cavallereschi alla creazione dell’Inquisizione.
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GLI ARGOMENTI
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• VIOLENZA RELIGIOSA: I TERMINI DELLA QUESTIONE • IL CORPO COME PALINSESTO DEL POTERE • MORIRE PER LA FEDE • LE CROCIATE • ERESIE E PERSECUZIONI • LA RIVOLTA DEL PRAYER BOOK A sinistra una scena da Le crociate-Kingdom of Heaven (2005), film ambientato nella Terra Santa del XII sec., diretto da Ridley Scott. Nella pagina accanto I martiri di Cordova (particolare), dipinto di Antonio del Castillo y Saavedra, che ricorda l’uccisione di un gruppo di cristiani tra l’851 e l’864 per mano islamica al tempo dell’emirato di al-Andalus. XVII sec.
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Mostre BOLOGNA UN PASSATO PRESENTE. L’ANTICA COMPAGNIA DEI LOMBARDI IN BOLOGNA Collezioni Comunali d’Arte fino al 9 febbraio
Grazie all’accordo tra Compagnia dei Lombardi e Istituzione Bologna Musei, un prezioso nucleo di otto tavole di epoca medievale appartenenti a due perduti polittici di Simone di Filippo detto «dei Crocifissi» e di Giovanni di Pietro Falloppi, detto da Modena, è stato concesso in comodato d’uso gratuito ai Musei Civici d’Arte
a cura di Stefano Mammini
quattro tavole dipinte da Simone di Filippo con San Giovanni Battista, San Michele Arcangelo, Santa Caterina d’Alessandra e Santa Maria Maddalena, costituivano in origine gli scomparti laterali di un unico polittico, forse identificabile con quello che recava al centro l’Incoronazione della Vergine e che venne descritto nel 1686 nella scomparsa chiesa di S. Michele del Mercato dal canonico Malvasia. Le altre quattro tavole con San Giacomo Maggiore, San Pietro, San Nicola da Tolentino e San Francesco, attribuite a Giovanni, sono state ricollegate ai due scomparti di medesima fattura con Sant’Antonio Abate e San Domenico, oggi conservati presso la Pinacoteca Nazionale di Ferrara. I sei manufatti provenivano da un polittico smembrato, verosimilmente commissionato per la chiesa di S. Giacomo Maggiore a Bologna, vista la presenza di diversi santi cari all’Ordine agostiniano. info tel. 051 2193998 oppure 2193631; e-mail: arteanticamuseiarteantica@comune. bologna.it; www.museibologna.it; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Twitter @MuseiCiviciBolo MILANO LEONARDO E LA MADONNA LITTA Museo Poldi Pezzoli fino al 10 febbraio
Antica. Il progetto espositivo ripercorre anche le vicende legate alle origini della Compagnia dei Lombardi – una delle antiche società d’armi sorte in età comunale a Bologna, l’unica ancora oggi attiva nella sede attigua alla basilica di S. Stefano – e alla formazione di una prestigiosa, seppure quantitativamente esigua, collezione d’arte. Le
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Negli anni in cui era attivo a Milano, Leonardo da Vinci dipinse, intorno al 1490, una Madonna con il Bambino oggi nota come Madonna Litta. La tavola, che mostra notevoli affinità stilistiche con la seconda versione della Vergine delle rocce, oggi conservata alla National Gallery di Londra, conobbe subito grande fortuna, come provano le
numerose copie e derivazioni eseguite da artisti lombardi pervenuteci. Piú tardi, nell’Ottocento, divenne l’opera piú rinomata di una delle piú importanti collezioni milanesi, quella dei duchi Litta (da cui ha tratto l’odierna denominazione); il Museo dell’Ermitage – che ne è l’attuale proprietario – l’acquistò nel 1865 dal duca Antonio Litta Visconti Arese. Riconosciuta come uno dei capolavori del maestro toscano, la Madonna Litta torna, seppur temporaneamente, nella sua città d’origine ed è protagonista dell’esposizione allestita nelle sale del Museo Poldi Pezzoli. La affianca un altro capolavoro nato da una raffinata composizione di Leonardo, la Madonna con il Bambino del Museo Poldi Pezzoli: il dipinto, eseguito verso il 1485-1487 da
Giovanni Antonio Boltraffio – il migliore fra gli allievi di Leonardo a Milano – con ogni probabilità sulla base di studi preparatori messi a punto dal maestro, è accostabile, dal punto di vista stilistico, alla prima versione della Vergine delle rocce del Louvre. Nella prima metà dell’Ottocento anche la Madonna con il Bambino apparteneva alla collezione dei duchi Litta (fu acquistata da Gian Giacomo Poldi Pezzoli nel 1864): la mostra ha quindi permesso di riunire nuovamente a Milano, dopo oltre un secolo e mezzo, queste due straordinarie versioni leonardesche della Madonna con il Bambino. info tel. 02 794889 o 796334; www.museopoldipezzoli.it GRADARA E PESARO DÜRER E GLI INCISORI TEDESCHI DEL CINQUECENTO Gradara, Palazzo Rubini Vesin
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GUARDANDO DÜRER: I LIBRI, I COLLAGES E LUCA DI LEIDA Pesaro, Biblioteca Oliveriana fino al 16 febbraio
Il settecentesco Palazzo Rubini Vesin di Gradara presenta la piú ricca esposizione monotematica mai realizzata finora in Italia per numero di pezzi (oltre 400) e di autori rappresentati (60). «Dürer e gli incisori del Cinquecento» è una mostra di incisione, progettata però come una grande esposizione di pittura, con molti pezzi e molti artisti, in virtú di un ragionamento complessivo che, molto raramente e per motivi logistici e di opere disponibili, viene applicato alla grafica d’arte e soprattutto a quella antica. Le opere provengono da collezioni private, riunendo capolavori e opere minori. Parallelamente, nella splendida Biblioteca Oliveriana
di Pesaro, si rende omaggio a Luca di Leida, esponendo una selezione dei migliori bulini del grande amico, emulo e rivale di Dürer, una raccolta di libri illustrati dallo stesso maestro di Norimberga e una serie di collage, ispirati e in parte composti dalle sue opere. Attraverso questi pezzi diventa possibile guardare
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all’incisione tedesca del Cinquecento da una nuova prospettiva, apprendendo i diversi modi in cui l’incisione ha esercitato il proprio influsso nella cultura europea tra il XVI e il XIX secolo. info Gradara, tel. 0541 964673; e-mail: palazzorubinivesin@gmail. com; Pesaro, tel. 0721 33344; e-mail: biblio.oliveriana@provincia. ps.it; www.oliveriana.pu.it SANSEPOLCRO LEONARDO DA VINCI: VISIONS Museo Civico di Sansepolcro fino al 24 febbraio
BOLOGNA IMAGO SPLENDIDA. CAPOLAVORI DI SCULTURA LIGNEA A BOLOGNA DAL ROMANICO AL DUECENTO Museo Civico Medievale fino all’8 marzo
Può dirsi un fenomeno di recente affermazione il rinnovato interesse verso la scultura lignea italiana, ai cui aspetti materiali e tecnici è a lungo mancato, nella storiografia artistica, un pieno riconoscimento di dignità critica. In un quadro di riferimento segnato, in particolare per il patrimonio artistico prodotto nel XII e XIII secolo, da una rarefazione delle opere causata dalla deperibilità del materiale e dalla progressiva trasformazione delle immagini al variare dei canoni estetici, «Imago splendida» segna un
importante momento di ricognizione. La mostra approfondisce l’affascinante e ancora poco studiata produzione scultorea lignea a Bologna tra XII e XIII secolo, restituendone una rilettura aggiornata a quasi vent’anni dall’esposizione «Duecento. Forme e colori del Medioevo a Bologna», una cui sezione rappresentava lo spazio del sacro con opere inerenti l’iconografia sacra bolognese. Grazie alla collaborazione della Curia Arcivescovile di Bologna e della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, e con il patrocinio di Alma Mater StudiorumDipartimento delle Arti, il progetto è l’esito espositivo di una sedimentata ricerca filologica e documentaria, che fissa una nuova tappa verso la comprensione dei modelli di
Fulcro della mostra sono alcuni progetti di Leonardo, che ben illustrano la sua attitudine a cimentarsi con temi di inaudita complessità. Il volo prende forma nei suoi studi e nelle macchine che ha disegnato. Leonardo si misura anche con l’idea di conferire il movimento a oggetti inanimati: il carro semovente e il leone meccanico testimoniano i risultati raggiunti. Infine, il progetto per la gigantesca statua equestre in bronzo in memoria di Francesco Sforza costituisce un’ulteriore prova dell’eccezionale intelligenza con cui affrontava le sfide piú audaci. Fanno da corredo video di approfondimento e animazioni 3D realizzati dal Museo Galileo di Firenze. info tel 199 15 11 21 oppure 0575 732218; www.museocivicosansepolcro.it
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AGENDA DEL MESE riferimento nel contesto figurativo della Bologna altomedievale. Il nucleo principale della mostra, allestita nella Sala del Lapidario, si compone delle testimonianze piú rappresentative della produzione plastica superstite nella città: tre croci intagliate di proporzioni monumentali appartenenti alla variante iconografica del Christus Triumphans che vince la morte, per la prima volta eccezionalmente riunite insieme. La comparazione ravvicinata dei manufatti offre in visione tangenze e analogie, sul piano della sintassi formale e tecnica, che rendono plausibile l’ipotesi di un’inedita attribuzione a un’unica bottega, credibilmente di area alpina sudtirolese – il cosiddetto Maestro del Crocefisso Cini – in una fase temporale compresa tra il 1270 e il 1280.
info tel. 051 2193916 oppure 2193930: e-mail: museiarteantica@comune. bologna.it; www.museibologna.it; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Twitter: @MuseiCiviciBolo
FIRENZE PIETRO ARETINO E L’ARTE NEL RINASCIMENTO Gallerie degli Uffizi, Aula magliabechiana fino al 1° marzo
Fu poeta, commediografo, drammaturgo, sferzante penna satirica, consigliere di potenti, talent scout di grandi artisti: Pietro Aretino (1492-1556), oggi noto principalmente per i suoi celeberrimi quanto scandalosi Sonetti lussuriosi, è stato, nei fatti, una delle voci culturali piú autorevoli del Cinquecento, un intellettuale assai temuto da signori e alti prelati, amico del condottiero Giovanni dalle Bande Nere, del cardinale Giulio de’ Medici, che lo portò a Roma alla corte
di Papa Leone X, e di maestri come Tiziano, Raffaello, Parmigianino, che lo ritrassero nelle loro opere e con i quali intratteneva fitte e appassionate corrispondenze epistolari. Alla sua poliedrica figura, anticipatore (per stessa ammissione di Giorgio Vasari) della storia e critica dell’arte come disciplina autonoma, gli Uffizi dedicano ora, per la prima volta in assoluto, una grande mostra arricchita da importanti prestiti di musei internazionali. Il percorso espositivo raccoglie oltre cento opere tra pittura, grafica, libri a stampa, scultura, arti decorative, che raccontano la vita e lo spirito di Aretino nei luoghi simbolo del Rinascimento, dove egli visse ed esercitò la sua grande influenza sul fervido mondo culturale della prima metà del Cinquecento: la Roma dei papi Medici, la Mantova dei Gonzaga, la Venezia del doge Gritti, la Firenze dei duchi Alessandro e Cosimo I, ma anche Urbino, Perugia, Arezzo, Milano. info tel. 055 294883; e-mail: infouffizi@beniculturali.it; www.uffizi.it TORINO IL TEMPO DI LEONARDO 1452-1519 Musei Reali di Torino, Biblioteca Reale fino all’8 marzo
Sulla scia delle celebrazioni per il cinquecentesimo anniversario dalla morte di Leonardo da Vinci, i Musei Reali di Torino propongono un nuovo percorso tematico di approfondimento. Attraverso i preziosi materiali custoditi in Biblioteca, l’esposizione ripercorre oltre sessant’anni di storia italiana ed europea, un periodo di grande fermento culturale in cui si incrociarono accadimenti,
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destini e storie di grandi protagonisti del Rinascimento, da Michelangelo a Cristoforo Colombo, dal Savonarola a Cesare Borgia, dalla caduta dell’impero romano d’Oriente all’avvento del protestantesimo e all’invenzione della stampa, eventi che mutarono per sempre il corso della storia. Il percorso si snoda nelle due sale al piano interrato della Biblioteca Reale: il primo caveau, la Sala Leonardo, accoglie una selezione di opere di artisti italiani contemporanei a Leonardo da Vinci, accanto al Codice sul volo degli uccelli. Nove disegni autografi del maestro vinciano accompagnano il celebre Autoritratto: è l’occasione per ammirare uno dei piú noti capolavori della storia dell’arte. La seconda sala presenta manoscritti miniati, incunaboli, cinquecentine, preziose carte geografiche antiche, disegni e incisioni, affiancati da un ricco corredo didascalico, per illustrare i personaggi e i principali eventi storici occorsi durante la vita di Leonardo. info tel. 011 19560449; www.museireali.beniculturali.it FIRENZE I CIELI IN UNA STANZA. SOFFITTI LIGNEI A FIRENZE E A ROMA NEL RINASCIMENTO Gallerie degli Uffizi, Sala Edoardo Detti e Sala del Camino fino all’8 marzo
Il soffitto metafora del cielo. febbraio
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Forme quadrate, rettangolari od ottagonali tutte riccamente decorate invitano i visitatori delle chiese e dei palazzi rinascimentali a sollevare gli occhi al cielo. Da elemento costruttivo nato per proteggere gli ambienti a ornamento che fonde nel suo insieme tutte le arti. Per la prima volta il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi dedica una mostra a un singolo elemento architettonico. Con questa mostra la Galleria degli Uffizi, che custodisce il maggior numero di disegni di soffitti rinascimentali, inizia a scriverne la storia. Del ricco patrimonio di disegni degli Uffizi è stata operata un’attenta selezione integrata da fogli dal Louvre, dal Museo Nazionale di Stoccolma, dalla Biblioteca di Storia dell’Arte e di Archeologia, dal Museo di Roma, dagli TRENTO L’INVENZIONE DEL COLPEVOLE. IL «CASO» DI SIMONINO DA TRENTO, DALLA PROPAGANDA ALLA STORIA Museo Diocesano Tridentino fino al 13 aprile
Archivi di Stato di Roma e di Firenze. Oltre trenta opere esposte tra disegni tecnici, di ornato e di figura, dipinti e altri manufatti preziosi e poco conosciuti che raccontano lo splendore dei soffitti lignei nel Rinascimento e come, per la loro realizzazione, pittura e scultura fossero strettamente connesse all’architettura. info tel. 055 294883; e-mail: infouffizi@beniculturali.it; www.uffizi.it
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Simone da Trento (detto il «Simonino»), un bambino di circa due anni, scomparve misteriosamente la sera del 23 marzo 1475 e fu ritrovato cadavere la mattina di tre giorni dopo, nei pressi dell’abitazione di una famiglia ebrea. In base a radicati pregiudizi, la responsabilità del rapimento e del delitto venne subito attribuita ai membri della locale comunità ebraica. L’accusa si fondava sulla convinzione che gli Ebrei compissero sacrifici rituali di fanciulli cristiani con lo scopo di reiterare la crocifissione di Gesú, servendosi del sangue della vittima per scopi magici e religiosi. Incarcerati per ordine del principe vescovo di
Trento Johannes Hinderbach, gli Ebrei vennero processati, costretti a confessare sotto tortura e infine giustiziati. Proprio in virtú del presunto martirio, Simone divenne presto oggetto di un intenso culto locale, che papa Sisto IV vietò sotto pena di scomunica. La prudenza e i dubbi della Chiesa non riuscirono a opporsi a una venerazione tributata per via di fatto e costruita utilizzando due potenti mezzi di comunicazione: le immagini e il nuovissimo strumento della stampa tipografica. Grazie alla macchina della propaganda, abilmente orchestrata dal vescovo Hinderbach, il culto di Simonino si estese presto ad altre zone dell’Italia centrosettentrionale e della Germania, riuscendo a imporsi come prototipo di tutti i presunti omicidi rituali dei secoli a seguire. Solo nel Novecento, negli anni del
Concilio Vaticano II, la rilettura critica delle fonti ha ristabilito la verità storica: il 28 ottobre 1965, lo stesso giorno in cui venne pubblicato il documento conciliare Nostra Aetate, la Chiesa abolí il culto del falso «beato». L’intera vicenda viene ora ripercorsa dalla mostra allestita nel Museo Diocesano Tridentino, ideata come omaggio a monsignor Iginio Rogger (1919-2014), già direttore del Museo stesso e coraggioso protagonista della storica revisione del culto di Simonino. A distanza di piú di mezzo secolo dalla sua abolizione, l’esposizione intende fare il punto sul «caso» di Simone da Trento e diffondere una piú ampia conoscenza di questa delicata e attualissima pagina della storia tardo-medievale. info tel. 0461 234419; e-mail: info@museodiocesanotridentino.it; www.museodiocesanotridentino.it URBINO RAPHAEL WARE. I COLORI DEL RINASCIMENTO Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale fino al 13 aprile
La grande stagione rinascimentale italiana trova piena espressione in ogni forma artistica: quella della maiolica esprime pienamente la ricerca estetica, il clima culturale, ma anche il modus vivendi, che fa dell’Italia e dei suoi artisti, tra Quattrocento e Cinquecento, il faro culturale dell’Occidente. Dal Seicento in poi, nei Paesi europei, la maiolica cinquecentesca italiana diventa una vera e propria passione collezionistica e, a quella istoriata, da considerarsi a pieno titolo un aspetto della pittura rinascimentale, viene associato il nome del grande
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AGENDA DEL MESE Palazzo Madama, Corte Medievale e Piano Nobile fino al 4 maggio
pittore urbinate: in inglese Raphael ware. E la Galleria Nazionale delle Marche espone, in questa mostra, 147 raffinati esemplari di maiolica italiana rinascimentale, provenienti dalla piú grande collezione privata al mondo, di questo genere, con l’obiettivo di focalizzare l’attenzione su quell’importante momento della tradizione artistica italiana. L’esposizione è allestita al secondo piano del Palazzo Ducale di Urbino, nella luminosa Loggia del Pasquino, con l’intenzione di mostrare questi raffinati oggetti nella piena luce naturale, poiché la maiolica – piú di ogni altra forma d’arte del tempo – mostra i suoi colori perfettamente conservati come all’origine, quando uscí dalla bottega del ceramista. La loggia è posta a fianco alle sale che espongono una parte delle ceramiche della collezione permanente e l’allestimento – appositamente creato – verrà poi utilizzato proprio per ampliare lo spazio espositivo dedicato a questa sezione. info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it TORINO ANDREA MANTEGNA. RIVIVERE L’ANTICO, COSTRUIRE IL MODERNO
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Torino rende omaggio ad Andrea Mantegna, uno dei piú importanti artisti del Rinascimento italiano, con una ricca rassegna, allestita nelle sale monumentali di Palazzo Madama. La mostra presenta il percorso artistico del grande pittore, dai prodigiosi esordi giovanili al riconosciuto ruolo di artista di corte dei Gonzaga, articolato in sei sezioni che evidenziano momenti particolari della sua carriera e significativi aspetti dei suoi interessi e della sua personalità artistica, illustrando al tempo stesso alcuni temi meno indagati come il rapporto di Mantegna con l’architettura e con i letterati. Viene cosí proposta
un’ampia lettura della figura dell’artista, che definí il suo originalissimo linguaggio formativo sulla base della profonda e diretta conoscenza delle opere padovane di Donatello, della familiarità con i lavori di Jacopo Bellini e dei suoi figli (in particolare del geniale Giovanni), delle novità fiorentine e fiamminghe, nonché dello studio della scultura antica. Un’attenzione specifica è dedicata al suo ruolo di artista di corte a Mantova e alle modalità con cui Mantegna definí la fitta rete di relazioni e amicizie con scrittori e studiosi, che lo resero un riconosciuto e importante interlocutore nel panorama culturale, capace di dare forma ai valori morali ed estetici degli umanisti. Il percorso della mostra è preceduto e integrato, nella Corte Medievale di Palazzo Madama, da un apparato di
proiezioni multimediali: ai visitatori viene proposta un’esperienza immersiva nella vita, nei luoghi e nelle opere di Mantegna, cosí da rendere accessibili anche i capolavori che, per la loro natura o per il delicato stato di conservazione, non possono essere presenti in mostra, dalla Cappella Ovetari di Padova alla celeberrima Camera degli Sposi, dalla sua casa a Mantova al grande ciclo all’antica dei Trionfi di Cesare. Il Piano Nobile di Palazzo Madama accoglie, quindi, l’esposizione delle opere, a partire dal grande affresco staccato proveniente dalla Cappella Ovetari, parzialmente sopravvissuto al bombardamento della seconda guerra mondiale ed esposto per la prima volta dopo un lungo e complesso restauro e dalla lunetta con Sant’Antonio e San Bernardino da Siena proveniente dal Museo Antoniano di Padova. Il percorso espositivo non è solo monografico, ma presenta capolavori dei maggiori protagonisti del Rinascimento nell’Italia settentrionale che furono in rapporto con Mantegna, tra cui opere di Donatello, Antonello da Messina, Pisanello, Paolo Uccello, Giovanni Bellini, Cosmè Tura, Ercole de’ Roberti, Pier Jacopo Alari Bonacolsi detto l’Antico e infine il Correggio. Accanto a dipinti, disegni e stampe di Mantegna, sono esposte opere fondamentali dei suoi contemporanei, cosí come sculture antiche e moderne, dettagli architettonici, bronzetti, medaglie, lettere autografe e preziosi volumi antichi a stampa e miniati. info tel. 011 4433501; www.palazzomadamatorino.it febbraio
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TORINO LEONARDO DA VINCI. I VOLTI DEL GENIO Museo Storico Nazionale d’Artiglieria fino al 31 maggio
Il museo torinese rende omaggio alla figura di un mortale che non smette di essere attraente e potente, genio artistico dalla personalità poliedrica e complessa. Suddivisa in cinque aree tematiche, la mostra indaga la vita del maestro, la sua immensa eredità, la sua opera piú famosa, l’Ultima Cena, i suoi studi sul corpo umano e infine la Tavola Lucana, una tempera su legno realizzata tra la fine del XV secolo e l’inizio del XVI secolo, scoperta nel 2018 in una collezione privata di Salerno. Il lavoro, sottoposto alle analisi scientifiche condotte dagli esperti del CNR dell’Università Federico II di Napoli e del Circe-Innova, presenta il volto di Leonardo da Vinci ripreso di tre quarti in semi-profilo, con caratteristiche molto diverse dalle aspettative e da quelle già evidenziate dal famoso ritratto di un anziano della Biblioteca Reale di Torino. info www.leonardodavincitorino. com; Facebook @ivoltidelgenio; Instagram Leonardodavinciivoltidelgenio
PADOVA «A NOSTRA IMMAGINE». SCULTURA IN TERRACOTTA A PADOVA NEL RINASCIMENTO DA DONATELLO A RICCIO Museo Diocesano fino al 2 giugno (dal 15 febbraio)
Secoli, dispersioni, furti, indifferenza, vandalismi hanno quasi completamente distrutto o disperso un patrimonio d’arte unico al mondo: le sculture in terracotta rinascimentali del territorio padovano. Ma qualcosa di prezioso e significativo è rimasto e il
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Museo Diocesano di Padova, insieme all’Ufficio beni culturali, al termine di una intensa, partecipata campagna di recupero, studi, ricerche e restauri – sostenuti anche dalla campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi «Mi sta a cuore» – sono riusciti a riunire nelle Gallerie del Palazzo vescovile di Padova, una ventina di terrecotte rinascimentali del territorio, orgogliosa testimonianza delle migliaia che popolavano chiese, sacelli, capitelli, conventi e grandi abbazie di una Diocesi che spazia tra le province di Padova, Vicenza, Treviso, Belluno e Venezia. La diffusione tanto capillare della scultura in terracotta proprio in questo territorio va individuata nella presenza prolungata e molto attiva, a Padova, a ridosso della basilica di S. Antonio, della bottega di
Donatello e, dopo di lui, di Bartolomeo Bellano, Giovanni De Fondulis e Andrea Riccio. Questi artisti creavano capolavori in pietra, marmo, bronzo, ma anche nella piú umile (e meno costosa) terracotta. Opere preziose ed espressive, e per questo molto ambite e richieste. In queste fucine venivano alla luce grandi scene di gruppo, come i Compianti, ma anche piccole ma raffinate Madonne con il Bambino o immagini di Santi per devozione familiare, di dimensioni ridotte ma spesso di grande qualità. E la mostra, quasi per campione, accoglie esempi emozionanti di queste variegate produzioni artistiche distribuite nel territorio, non meno pregiate di altre sculture in terracotta che saranno prestate per l’occasione da alcuni Musei nazionali e internazionali. info tel. 049 652855 o 049 8761924; www.museodiocesanopadova.it
Oltre cento opere di mano di Raffaello Sanzio sono riunite per la prima volta per la mostra che costituisce l’apice delle celebrazioni mondiali per i 500 anni dalla sua scomparsa. Il progetto espositivo trova ispirazione, in particolare, nel fondamentale periodo romano di Raffaello, che lo consacrò quale artista di grandezza ineguagliabile e leggendaria, e racconta con ricchezza di dettagli tutto il
ROMA RAFFAELLO Scuderie del Quirinale fino al 2 giugno (dal 5 marzo)
complesso e articolato percorso creativo. Ne fanno parte creazioni amatissime e famose in tutto il mondo, quali, solo per fare qualche esempio, la Madonna del Granduca dalle Gallerie degli Uffizi, la Santa Cecilia dalla Pinacoteca di Bologna, la Madonna Alba dalla National Gallery di Washington, il Ritratto di Baldassarre Castiglione e l’Autoritratto con amico dal Louvre, la Madonna della Rosa dal Prado, la celebre Velata, anch’essa dagli Uffizi. info tel. 02 92897722; e-mail: info@scuderiequirinale.it; www.scuderiequirinale.it
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AGENDA DEL MESE
Appuntamenti BOLOGNA IMAGO SPLENDIDA, CONFERENZE A INGRESSO GRATUITO Museo Civico Medievale fino al 27 febbraio
A corollario della mostra «Imago splendida», è stato anche organizzato un ciclo di conferenze. Questi gli appuntamenti: 6 febbraio, ore 17,30: François Boespflug e Emanuela Fogliadini, Dal Cristo Triumphans al Cristo Patiens. Una lettura iconografica alla luce della teologia; 27
febbraio, ore 17,30: Emanuele Zappasodi, Da Assisi a Bologna. La croce dipinta da Giunta Pisano al Maestro dei Crocifissi Francescani. info tel. 051 2193916 o 2193930: e-mail: museiarteantica@comune.bologna. it; www.museibologna.it; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Twitter: @ MuseiCiviciBolo ROMA EPHIMERA. DIALOGHI SULLA MODA Curia Iulia al Foro Romano fino al 21 marzo
Nella suggestiva
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ambientazione della Curia Iulia, antica sede del Senato romano, poi trasformata, nel Medioevo, nella chiesa di S. Adriano, continuano gli incontri previsti dalla rassegna «Ephimera. Dialoghi sulla moda». Le conferenze, aperte al pubblico, si tengono il sabato mattina, alle 11,30, con ingresso libero fino a esaurimento posti (100 posti seduti, 30 posti in piedi), secondo il calendario seguente: 8 febbraio, Gabriella Pescucci Enrico Magrelli, Oscar ai costumi; 22 febbraio, Daniela Baroncini, Giacomo Ferrara, Il guardaroba dell’eros: letteratura, moda e seduzione; 7 marzo, Roberto D’Agostino, Andrea Mecacci, Considerazioni sul kitsch; 21 marzo, Giovanni Gastel, Cristina Lucchini, Sguardi italiani. L’ingresso alla Curia si effettua direttamente da Largo della Salara Vecchia, su via dei Fori Imperiali all’altezza di Largo Corrado Ricci. È necessaria la prenotazione da effettuarsi a partire dal lunedí precedente l’incontro, dalle ore 7,30, scrivendo, indicando il nominativo, alla seguente mail: ephimera@mondadori.it info https://parcocolosseo.it/ MILANO MEDIOEVO IN LIBRERIA, XVIII EDIZIONE IL MEDIOEVO DEI CASTELLI
riuso e valorizzazione; 4 aprile: ore 10,00: visita guidata alla chiesa di S. Cristoforo; ore 16,00: Nicolangelo D’Acunto, Castelli reali, castelli immaginati. info tel. 333 5818048; e-mail: info@ italiamedievale. org; www.italiamedievale.org; http://medioevoinlibreria. blogspot.com FIRENZE Museo Civico Archeologico, Sala Conferenze fino al 4 aprile
«Il Medioevo dei castelli» è il tema scelto per la XVIII edizione di «Medioevo in Libreria», rassegna che prevede visite guidate al mattino, proiezioni video e conferenze al pomeriggio. Tutti gli incontri pomeridiani hanno inizio alle ore 15,30 con la proiezione del filmato Medioevo Movie-Viaggio nel Medioevo, a cui fanno seguito le conferenze. Qui di seguito, l’elenco dei prossimi appuntamenti: 11 gennaio: ore 10,00: visita guidata all’abbazia di Chiaravalle; ore 16,00: Marina Uboldi, Ricerche archeologiche in alcuni castra altomedievali della Lombardia settentrionale; 8 febbraio: ore 10,00: visita guidata gratuita alla basilica di S. Marco; ore 16,00: Marco Tamborini, Torri e rocche medievali attraverso le fonti scritte: alcuni casi del tenitorio varesino; 7 marzo: ore 10,00: visita guidata alla chiesa di S. Maria Incoronata; ore 16,00: Alessandro Bazzoffia, I castelli alla motta dell’Ovest mantovano: risorse culturali e turistiche del territorio tra restauro,
RICORRENZE DI BRUNELLESCHI E RAFFAELLO Antica Canonica di San Giovanni, Sala Brunelleschi fino al 19 maggio
A cinquecento anni dalla morte di Raffaello (che in riva all’Arno soggiornò dal 1504 al 1508, maturando la sua espressione in uno dei momenti piú alti della storia fiorentina) e a seicento dall’avvio dei lavori alla Cupola di Brunelleschi, l’Opera del Duomo di Firenze ricorda gli anniversari con un ciclo di conferenze, alle ore 17,00, a ingresso libero, fino a esaurimento posti. Questi i prossimi appuntamenti: 11 febbraio: Roberto Corazzi, Originalità, proporzionalità, armonie della Cupola di Brunelleschi; 25 febbraio: Massimo Ricci, Come Brunelleschi costruisce la Cupola; 17 marzo : Sergio Givone, Brunelleschi «inventore»; 31 marzo: Marco Gigante, Interpretazioni moderne dell’Umanesimo. info e-mail: eventi@ operaduomo.firenze.it; www.operaduomo.firenze.it febbraio
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APPUNTAMENTI • Luce sull’Archeologia 2020 - Alle origini di Roma. Miti, popoli, culture Roma – Teatro Argentina
fino al 21 aprile info www.teatrodiroma.net
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lle origini di Roma. Miti, Popoli, Culture» è il tema scelto per la VI edizione di «Luce sull’Archeologia. Incontri di Storia e Arte». A esplorarlo sono stati invitati storici, filologi, archeologi, storici dell’arte, architetti, epigrafisti, scienziati, ai quali si affiancheranno musicisti e specialisti di strumenti musicali del mondo antico. Fino al 21 aprile, gli incontri propongono un ricco palinsesto dedicato non solo alla storia piú antica di Roma, ma anche alla progressiva conquista del Lazio, analizzando i miti di fondazione e i popoli con i quali Roma si è trovata a confronto. Aver assicurato continuità a questi incontri ha consentito di raggiungere un risultato di eccellenza nella divulgazione e fruizione dei dati scientifici, grazie anche al prosieguo della collaborazione FIRENZE DIALOGHI DI ARTE E CULTURA Gallerie degli Uffizi, Auditorium Vasari fino al 27 maggio
Replicando una formula sperimentata con successo, le Gallerie degli Uffizi propongono un nuovo ciclo di incontri, articolati in quattro categorie: Tesori dai depositi, Capolavori su carta, Dietro le quinte e Laboratorio universale. Questo il calendario dei prossimi appuntamenti, che si tengono alle ore 17,00, con ingresso
con lo storico dell’arte Claudio Strinati, con il direttore delle riviste «Archeo» e «Medioevo», Andreas M. Steiner, e con il direttore associato dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, Massimiliano Ghilardi. Questi i prossimi appuntamenti: 9 febbraio, Per volere degli dèi, con Claudio Strinati, Andreas M. Steiner, Piero Bartoloni e Annalisa Lo Monaco, nonché un excursus lirico tratto da opere di Vinci, Cavalli, Mercadante, Purcell eseguito da Silvia Pasini, Andrea Fossa e Marco Silvi; 23 febbraio, La conquista del Lazio, tra storia, mito e religione, con Claudio Strinati, Andreas M. Steiner, Marisa de’ Spagnolis, Massimiliano Di Fazio e Alessandro Pagliara; 8 marzo, Roma, il Lazio dei Ciclopi e lo sguardo dei Greci, con Claudio Strinati,
libero, fino a esaurimento posti: 5 febbraio (Tesori dai depositi): Valeria d’Aquino, La fornace di Tugio di Giunta a Firenze; 12 febbraio (Tesori dai depositi), Novella Lapini, La raccolta epigrafica degli Uffizi. Un dialogo aperto tra collezione storica e nuove acquisizioni; 19 febbraio (Dietro le Quinte), Antonella Poce, L’educazione al patrimonio. Riflessioni ed esperienze; 26 febbraio (Capolavori su Carta), Marco Tanzi, Emanuela Daffra,
Andreas M. Steiner, Luciano Canfora, Paolo Sommella e Massimiliano Valenti; 22 marzo, Testimonianze scritte e architettura, con Claudio Strinati, Andreas M. Steiner, Francesco Maria Galassi, Silvia Orlandi e Alessandro Viscogliosi.
Rivisitando Camillo Boccaccino agli Uffizi: un protagonista della Grande Maniera in Valpadana; 4 marzo (Laboratorio Universale), Paolo Pastres, Luigi Lanzi e la Galleria degli Uffizi; 11 marzo (Laboratorio Universale), Veronica D’Ascenzo, Arte ed educazione in aiuto dei minori con disturbo post traumatico da stress. Esperienze a confronto. info www.uffizi.it/ FIRENZE INCONTRI AL MUSEO. VIII EDIZIONE Museo Archeologico Nazionale fino al 4 giugno
Tornano gli ormai tradizionali incontri del giovedí presso il Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Gli appuntamenti, a ingresso gratuito, sono in programma alle 17,00. Queste le prossime date: 13 febbraio: Stefania Berutti, Un «addio al nubilato» su una
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hydria del Museo Archeologico di Firenze; 12 marzo: Anna Revedin, Legno, farina... tracce inaspettate del più antico popolamento della Toscana; 2 aprile: Paolo Persano, Antiope perde la testa! Nuove ricerche sulle sculture frontonali del tempio di Apollo Daphnephoros a Eretria. info tel. 055 23575 o 2357717; e-mail: pm-tos. musarchnaz-fi@beniculturali.it; www.polomusealetoscana. beniculturali.it
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Il cardinale
di Maria Paola Zanoboni
vulcanologo Non ancora trentenne, Pietro Bembo si reca a Messina, per studiare alla scuola di Costantino Lascaris. Durante il soggiorno decide di compiere, insieme all’amico Angelo Gabriele, un’escursione sull’Etna...
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ibri di scuola e manuali hanno cristallizzato lo stereotipo di un Pietro Bembo visto come austera figura di cardinale e letterato immerso in questioni linguistico-filologiche (immagine codificata dagli studi di Vittorio Cian e Benedetto Croce), ma il personaggio storico fu in realtà ben diverso. Giovane dell’aristocrazia veneziana dagli interessi piú vari, instancabile viaggiatore dedito ad annotare quanto lo aveva colpito; poeta e fervido ammiratore del Petrarca; umanista e storico galante, mondano, raffinato, e uno dei piú eleganti autori del suo tempo di rime in latino e in volgare; intenditore e amante dell’arte e del bello in ogni sua forma, nonché amico dei maggiori maestri del Rinascimento, da Bellini a Raffaello, da Michelangelo a Tiziano. Fu legato da rapporti di amicizia con i principali protagonisti (e protagoniste) della vita politica del suo tempo: papi, principi e principesse, duchi e duchesse. Fu, insomma, uno dei piú grandi e versatili eclettici del Rinascimento, con gusti e idee originali, e una vita varia, movimentata, complessa.
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In alto pagine tratte da un’edizione della Descrizione dell’Etna (De Aetna), saggio di Pietro Bembo che opera una descrizione del vulcano corredata da osservazioni scientifiche. 1495. Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek. Nella pagina accanto Ritratto di Pietro Bembo, olio su tavola attribuito a Raffaello Sanzio. 1504 circa. Budapest, Museo delle Belle Arti. Il cardinale veneziano fu cultore e amico dei piú celebri pittori italiani del Rinascimento.
Nato a Venezia il 20 maggio 1470, da una famiglia di antica origine nobiliare, Pietro seguí fin da giovanissimo in tutti i suoi spostamenti il padre Bernardo, diplomatico e senatore della Repubblica, che cercò invano di fargli ricalcare le proprie orme. Sicuramente la biblioteca paterna e l’ambiente umanistico veneto, con cui il genitore aveva svariati contatti, stimolarono non poco le sue attitudini letterarie. Tra il 1478 e il 1480 seguí il padre ambasciatore a Firenze, instaurando, fin dalla piú tenera, età i primi contatti con i Medici e con i letterati fiorentini dell’epoca: da Lorenzo il Magnifico a Marsilio Ficino, al Poliziano. Fu poi a febbraio
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Visita del cardinale Pietro Bembo nello studio di Raffaello, smalto su porcellana di Pietro Bagatti Valsecchi. 1839. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.
Roma (1487/88), dove entrò in contatto con la cultura classica, e a Bergamo (1489), di cui Bernardo Bembo era stato nominato podestà. Tornato a Venezia (1491), risultò determinante per la sua vocazione letteraria l’incontro con Angelo Poliziano e Pico della Mirandola, in viaggio nell’Italia settentrionale alla ricerca di manoscritti antichi, e ospiti dei Bembo. Affascinato da queste ricerche, Pietro comprese che, per diventare un vero umanista, avrebbe dovuto imparare il greco, per cui decise di recarsi a Messina, insieme a un altro patrizio veneziano, per erudirsi alla scuola del celebre Costantino Lascaris: in questa circostanza appunto, nacque la Descrizione dell’Etna (De Aetna), ovvero il racconto fatto da Pietro al padre della propria visita al vulcano, che costituisce la prima descrizione in assoluto della montagna, corredata da osservazioni scientifiche sulla sua attività (1494).
Amicizie e corrispondenze
Continuò poi gli studi filosofici e giuridici a Padova, per approdare, nel 1497, alla corte di Ferrara, una delle piú raffinate d’Europa, dove vigeva un diverso rapporto tra scuola umanistica e letteratura volgare, molto di moda. Qui strinse rapporti di amicizia con l’Ariosto e il Boiardo, e iniziò una fitta corrispondenza epistolare con Lucrezia Borgia, di cui si era invaghito, e alla quale fu legato per tutta la vita da una sincera amicizia (vedi box a p. 41). Cominciò poi in quel periodo un’opera in volgare, gli Asolani, dialogo immaginario sulla natura dell’amore, alimentato dalla relazione con Maria Savorgnan (1500/1501), e poi da quella epistolare con Lucrezia Borgia, a cui l’opera è dedicata. Nello stesso periodo tentò piú volte senza successo di candidarsi a varie cariche di ambasciatore, dibattendosi al tempo stesso tra teorie filosofiche di impronta aristotelica e passione per la poesia volgare. Gli anni successivi furono caratterizzati da continui spostamenti: il 30 dicembre 1503 la morte del fratello Carlo costrinse Pietro Bembo a lasciare Ferrara rientrando a Venezia. Cercò invano di ottenere l’incarico di ambasciatore in Francia e in Germania, per poi seguire il padre a Roma (1504), dove avviò i primi contatti che lo portarono, 35 anni piú tardi, a ottenere il cappello cardinalizio. Fu poi a Urbino, Ferrara e Mantova, dove fu presentato alla corte di Isabella d’Este moglie di Francesco Gonzaga, con cui instaurò un duraturo rapporto di amicizia, basato sulla comune passione per le antichità e le opere d’arte. Nel 1506 si stabilí per 6 anni alla corte di Urbino (dove si andavano riunendo molti poeti sostenitori del volgare), preparandosi alla carrie-
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personaggi pietro bembo La questione della lingua
Per un sapere enciclopedico Verso i 30 anni Pietro si era ormai convinto che la discussa questione della lingua volgare risultasse fondamentale per dare il giusto valore alla sua opera letteraria, e per farla comprendere a un piú vasto pubblico. Cominciò cosí un intenso lavoro di collazione e trascrizione dei testi di Dante e Petrarca, che gli permise di acquisire una eccezionale padronanza dell’italiano trecentesco. Fece poi pubblicare i testi dei due sommi poeti da Aldo Manuzio, dando una svolta fondamentale all’indirizzo dell’editore che fino ad allora aveva Pagina da un’edizione delle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, opera ritenuta come il primo compendio di storia letteraria italiana. 1525. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.
ra ecclesiastica, che iniziò nel 1508, quando ottenne da papa Giulio II la commenda di S. Giovanni dell’Ordine Gerosolimitano a Bologna. Nel 1512 si trasferí a Roma, dove Leone X lo nominò «segretario dei brevi latini», coiè preposto alla redazione dei documenti in latino (1513), ottenendo poi vari incarichi per conto del pontefice, nonché numerosi benefici ecclesiastici (che gli garantivano altrettante rendite), ma continuò a rimandare i voti religiosi che non si confacevano affatto alla sua indole. Nel 1518 la morte del padre lo portò sull’orlo del tracollo economico, tanto che dell’eredità riuscí a salvare soltanto una villa nei pressi di Padova. Fu costretto a prendere i voti nel 1522 in seguito alla morte di Leone X e all’ascesa al soglio pontificio di Adriano VI, e ciononostante continuò a convivere con Faustina Morosina Della Torre che gli avrebbe dato 3 figli negli anni successivi (1523, 1525 e 1528). Nel 1525 dedicò al nuovo papa, Clemente VII, le Pro-
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stampato esclusivamente testi in latino e in greco, e che, grazie all’incentivo del Bembo, iniziò a pubblicare in carattere corsivo e formato tascabile Dante, Petrarca, Orazio e Virgilio. La collaborazione tra i due si basava sull’idea di costruire un sapere enciclopedico, filologicamente moderno e regolato da norme precise, imperniato su una lingua – latina o volgare – chiara ed elevata, tale da favorire la circolazione delle idee in un’epoca di divisioni politiche e religiose. In un periodo imbevuto di classicismo, il Bembo si poneva cioè come strenuo assertore e difensore della lingua italiana.
se della volgar lingua e pubblicò nello stesso anno quella che a suo dire sarebbe stata la prima raccolta di regole grammaticali della lingua italiana (in realtà era stato preceduto di una decina d’anni dal letterato friulano Giovanni Francesco Fortunio, morto prematuramente senza poter difendere la propria opera): Bembo si presentava cosí come il padre della grammatica italiana.
L’ultima fatica
Nel 1530, nominato storiografo e bibliotecario della Repubblica di Venezia, pensò di scrivere una storia contemporanea della Serenissima, basata sugli appunti dell’anziano e malato Marin Sanudo, che da anni raccoglieva materiale sull’argomento, e al quale riuscí a carpire i Diari con la complicità del Consiglio dei Dieci. Nel 1536 cercò di ingraziarsi il cardinale Alessandro Farnese, nipote del papa, per avere il suo appoggio alla porpora cardinalizia, che ottenne finalmente nel marzo 1539 senza mai rinunciare alla sua attività di letterato e di uomo di corte, trasferendosi poi, definitivamente, nell’ottobre di quell’anno, a Roma, dove ebbe un ruolo non indifferente nel tenere a freno la parte piú estrema dei riformatori, nel periodo che preludeva al Concilio febbraio
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Strutturata in forma di racconto di Pietro al padre Bernardo, la narrazione segue passo dopo passo l’itinerario percorso dallo scrittore e dall’amico Angelo Gabriele nella loro escursione sull’Etna, dopo un anno trascorso nell’apprendimento del greco come diligentissimi studenti. Oltre a rilievi scientifici di grande valore, basati sull’analisi diretta delle eruzioni e sul raffronto con altre esperienze, la prima cosa che colpisce è sicuramente il lato umano del rapporto tra padre e figlio. Dal dialogo, infatti, emergono con grande tenerezza la preoccupazione del padre per l’aspetto pallido ed emaciato del figlio a causa dell’eccessiva applicazione allo studio, nonché il suo spavento alla notizia che Pietro e l’amico avevano esplorato l’interno di uno dei crateri e assistito vicinissimi a un’eruzione, tanto da trovarsi in mezzo a lapilli e ceneri. Di fronte a questa confessione il pover’uomo non potè che esclamare «Che dici? Possa io morire se non mi scuoti tutto e atterrisci completamente con questo tuo discorso. Cosa fecero quei sassi? Forse offesero qualcuno di voi? (…) Ma perché vi eravate spinti tanto avanti senza prudenza ? (…) Non sapevate dunque che Plinio il Vecchio morí cosí, mentre con troppo zelo, per non dire In basso fronte di una medaglia in bronzo raffigurante Pietro Bembo, attribuita a Benvenuto Cellini. 1539 circa. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. In alto frontespizio degli Asolani di Pietro Bembo, dialogo immaginario sulla natura dell’amore, tratto dalla prima edizione dell’opera pubblicata da Aldo Manuzio nel 1505.
di Trento. La traduzione in volgare della sua Storia di Venezia (1545/46) rappresentò la sua ultima fatica, prima che la morte lo portasse via, a Roma, il 18 gennaio 1547.
Stampe sopraffine
Prima opera letteraria di PietroBembo, e prima descrizione particolareggiata del vulcano (che già nell’antichità aveva affascinato dotti e letterati), il De Aetna venne stampato a Venezia da Aldo Manuzio nel 1496 con caratteri tipografici di particolare bellezza, destinati a notevole fortuna nelle epoche successive, tanto da dare origine al carattere battezzato appunto «Bembo» (tuttora in uso). Autore dei punzoni fu Francesco Griffo, inventore del «corsivo italico», anch’esso utilizzato ancora. L’opera originale venne pubblicata in latino, e soltanto in anni recentissimi (1969) ne è stata realizzata la traduzione in italiano, inglese e tedesco.
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sconsideratamente, osservava l’eruzione del Vesuvio?». La curiosità, l’entusiasmo e lo stupore del figlio di fronte a quello spettacolo mozzafiato, la sua «voglia, o piuttosto l’avidità di osservare», ebbero però subito il sopravvento, spingendo Bernardo Bembo ad ascoltare con sempre maggior interesse, unendo le proprie conoscenze a quelle di Pietro, in un continuo, fecondo scambio di opinioni e nozioni scientifiche.
Nella città «recente»
Partiti a cavallo da Messina alla volta di Taormina, oltrepassata la rupe su cui era arroccato il castello di Niso, Pietro e l’amico si erano fermati a visitare le antiche rovine della città che dall’alto del suo promontorio domina il Mar Ionio: i templi, i sepolcri traboccanti di monete antiche, l’acquedotto, l’anfiteatro digradante verso il mare. Scesi dal colle di Taormina, erano entrati nella valle dell’Etna, scavata da un rumoroso fiume dal corso perenne, ombreggiato da antichi platani, giungendo fino a Randazzo, città allora «recente», ai piedi del vulcano, per il quale Pietro esprime immediatamente tutta la sua ammirazione: «quel monte per la posizione, la forma, la grandezza, la fertilità e le eruzioni è
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stupefacente, e per tutta la sua singolarità e bellezza è di gran lunga eccelso, e non ha eguali». La fascinazione dello scrittore prosegue nella splendida descrizione del luogo: «la terra è ricca dei doni di Bacco, di Pallade e di Cerere, e ricchissima di armenti di ogni genere. Lí intorno ovunque siti amenissimi, lí fiumi scroscianti e rumoreggianti ruscelli, lí gelide sorgenti perenni; lí la terra è sempre ornata di fiori in perenne primavera; lí svariate specie di alberi allietano con la loro ombra o i loro frutti». Una selva di pini e faggi di eccezionale grandezza copriva il monte, mentre campi arabili si stendevano sul suo fianco, cosí fertili e ricchi di grano da rendere agli agricoltori cento volte le sementi impiegate. Rigogliosi ed eccellenti i frutti che maturavano nelle plaghe dell’Etna. La narrazione raggiunge l’apogeo nella descrizione della vetta della montagna, dai paesaggi piú vari (tratti erbosi alternati a rocce tufacee, distese di lava, campi sabbiosi), e della discesa in uno dei suoi crateri. Dal meno profondo, stretto e rotondo come la bocca di un pozzo, uscivano sassi con fumo verde sulfureo. Pietro e l’amico tentarono di scendere nello spazio pianeggiante che lo cingeva, ma vennero subito colpiti in volto dai vapori sulfurei e da un fumo bollente simile a quello febbraio
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Nella pagina accanto la Sicilia in un portolano del cartografo Joan Martines. 1587. Madrid, Biblioteca Nacional de EspaĂąa.
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In alto Ritratto di Pietro Bembo, olio su tela di Tiziano Vecellio databile al 1539. Washington, National Gallery of Art.
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personaggi pietro bembo che esce da una fornace, riuscendo a stento a tornare sui propri passi. Non si diedero per vinti, ed entrarono pian piano nel cratere dalla parte da cui soffiava il vento, mentre, come da un camino, si sprigionava fumo senza interruzione. La superficie del monte piena di crepe consentiva al fumo di uscire in molti punti, mentre al suo interno infuriavano i venti che quel giorno turbinavano assai violenti. Alzandosi all’improvviso sotto i piedi dei due visitatori, il fumo non consentiva loro di rimanere fermi in un punto. Mentre osservavano i sassi eruttati di recente, che conservavano ancora tracce di fuoco e di zolfo, si aprí improvvisamente una fessura, da cui prese a scorrere un fiume di lava incandescente, e massi infuocati piombarono tra i piedi dei due malcapitati. La loro curiosità e la smania di conoscenza erano tali, che lasciatili raffreddare tanto da poterli prendere in mano, li portarono a Messina. Erano in parte quasi neri, e in parte con tracce di zolfo.
Pianta prospettica della città di Messina nel Rinascimento, dal Civitates Orbis Terrarum di Georg Braun e Franz Hogenberg, una raccolta di mappe delle città del mondo pubblicata in 6 volumi tra il 1572 e il 1617.
Il «respiro» del vulcano
La violenza indicibile del vento e le esalazioni di fumo impedirono loro di raggiungere il secondo cratere, alla sommità del vulcano, che si raggiungeva attraverso una salita ripidissima, e che viene descritto invece attraverso il racconto di un monaco, che pochi giorni prima era riuscito a perlustrare la vetta in condizioni di assoluta tranquillità. Il religioso aveva potuto fermarsi ai margini del baratro, a osservare la montagna che eruttava con grande strepito fuoco, fumo e sassi incandescenti che si alzavano sopra la bocca del vulcano: «quasi fosse un corpo vivo, il suo soffio non era continuo, ma s’arrestava per un po’, una volta emesso il fiato, per respirare». Il monaco aveva potuto osservare che l’Etna eruttava piú e piú volte, in ogni direzione, a intervalli regolari, mentre le caverne al suo interno gemevano e il monte tremava rumoreggiando sotto i piedi degli astanti. La narrazione avvincente ottenne un tale effetto su Bernardo Bembo da fargli superare il timore iniziale per il pericolo corso dal figlio, stimolando piuttosto un proficuo confronto delle conoscenze reciproche, volte a mettere in stretto contatto le teorie aristoteliche sull’attività vulcanica, e sull’origine dei venti e dei terremoti, con l’osservazione diretta dei fenomeni e con l’esperienza sul campo. L’esperienza e la conoscenza diretta, infatti, concordavano padre e figlio, hanno un’autorità suprema, al di là di ogni nozione teorica e di ogni racconto degli antichi. Pietro chiese dunque al padre spiegazioni scientifiche sull’origine dei venti all’interno del cratere, e sulle cause del fuoco, ottenendone una risposta articolata basata sulle teorie aristoteliche sull’argomento, che tanta fortuna ebbero in epoca medievale/rinascimentale. Secondo il filosofo greco, infatti, lo «pneuma», pro-
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dotto dal calore della terra dovuto al suo fuoco interno o ai raggi del sole, se riusciva a trovare uno sfogo esterno, produceva il vento, ma se vi rimaneva imprigionato era causa dei terremoti. Nel Duecento, questa teoria era stata ripresa ed espressa con grande chiarezza dal francescano Salimbene da Parma nella sua Cronaca: «nota quod terremotus consuevit fieri in montibus cavernosis, in quibus includitur ventus, et volens egredi, quia non habet spiraculum ad egrediendum, concutitur terra et tremit, et inde terremotus sentitur». Alla base della spiegazione di Bernardo Bembo relativa all’origine del fuoco nel vulcano è la concezione della terra come corpo vivo, percorso da vene [cunicoli e cavità], animato dal respiro: «essa effettivamente vive, e, febbraio
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traendo la vita dall’anima del mondo, da questa medesima anima all’interno e all’esterno è percorsa». Le cavità del pianeta sono maggiori nelle zone vicine al mare, che con la sua continua erosione scava caverne profondissime, in cui soffiano i venti che ne propagano perennementre il fuoco alimentato dallo zolfo e da altri materiali infiammabili. Tutto questo vale a maggior ragione per l’Etna, che ha le sue radici nel mare, è sulfurea e piena di caverne.
Un fuoco che scende in mille rivoli
Poi fu il padre a chiedere al figlio il modo in cui avveniva l’eruzione, non accontentandosi delle teorie filosofiche con cui quest’ultimo aveva iniziato l’esposizione, ma chiedendogli risposte basate sull’esperien-
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za concreta da lui vissuta e sulle osservazioni fatte sul campo. E Pietro non esitò ad accontentarlo: uscendo da qualunque fenditura, oppure dal cratere inferiore (e mai da quello superiore), «scendevano spumeggiando rivi di fuoco incalzati dalle fiamme, lambendo via via nel loro lento scorrere tutte le plaghe in basso; e quelli poi, a poco a poco, perdendo il calore, riprendono la loro primitiva natura, indurendosi in una pietra fragile e friabile. Cosí questa fiumana si ferma rapprendendosi come ghiaccio, finchè non discendano altri rivoli di fuoco». I materiali induritisi, essendo friabili, allo scendere del nuovo fuoco si spaccano e, frantumandosi, vengono scagliati ovunque. L’eruzione non è continua, ma a riprese successive, e i sassi frantumati dallo scorrere della
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personaggi pietro bembo In basso fronte di una moneta bronzea raffigurante Lucrezia Borgia e attribuita all’ambito di Gian Cristoforo Romano. 1502-1510. Washington, National Gallery of Art.
In alto Lucrezia Borgia che regge il papato, olio su tela di Giuseppe Boschetto. 1866. Napoli, Museo di Capodimonte. Nel dipinto, di spalle, è raffigurato il padre di Lucrezia, il pontefice Alessandro VI.
Da leggere Carlo Dionisotti, Bembo, Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, a cura della Fondazione Treccani, vol. VIII, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1966; anche on line su treccani.it Gildo Meneghetti, La vita avventurosa di Pietro Bembo, umanista, poeta e cortigiano, Tipografia commerciale, Venezia 1961 Petri Bembi, De Aetna liber & Pietro Bembo, Dell’Etna, Officina Bodoni, Verona 1969
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Giulia Raboni (a cura di), Pietro Bembo, Lucrezia Borgia. La grande fiamma. Lettere 1503-1517, Archinto Editore, Milano 1989 Marco Faini, L’alloro e la porpora. Vita di Pietro Bembo, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2016 Antonello Fabio Caterino, Le controverse vicende del padre del canone: per una biografia di Pietro Bembo, in Eretici, dissidenti, inquisitori. Per un dizionario storico mediterraneo, Vol. II, Aracne Editrice, Roma 2018; anche on line su www.ereticopedia.org febbraio
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il rapporto con lucrezia borgia
Lettere d’amore (platonico) Nonostante la carriera ecclesiastica, intrapresa per ambizione e motivi economici nella seconda parte della vita, e che lo avrebbe portato alla porpora cardinalizia, Pietro Bembo non rinunciò mai alle sue passioni. Tre furono i suoi grandi amori: Maria Savorgnan, nella prima giovinezza; Lucrezia Borgia, con cui intrattenne una relazione epistolare (dal 1502 in poi) e Faustina Della Torre, detta Morosina, con cui convisse per 22 anni (fino alla morte di lei), e che gli diede 3 figli. Invitato alla corte ferrarese per assistere agli intrattenimenti musicali, Pietro conobbe Lucrezia nel 1502, poco dopo le sue nozze col duca Alfonso d’Este, e se ne invaghí immediatamente. Al momento del loro primo incontro, Lucrezia indossava una veste di broccato d’oro, adorna di gioielli e perle di inestimabile valore, mentre una cuffia trapunta di pietre preziose agghindava il suo capo. Ci furono tra loro scambi di versi, intrattenimenti letterari, passeggiate e svaghi di corte, e un epistolario, fitto da parte di Bembo (40 lettere), e limitato a 9 circospette missive da parte della duchessa. Le lettere si possono suddividere in due sezioni: quelle ufficiali, indirizzate apertamente alla duchessa di Ferrara, in cui il Bembo affronta argomenti quotidiani: dalla preoccupazione per la lava vanno a costituire mucchi altissimi. Sono tanto piú neri e resistenti quanto piú di emissione recente, e col tempo si schiariscono e si sgretolano. Pietro rileva poi che le rocce laviche sono «aridissime e perciò assai meno pesanti che la pietra viva, e tanto scabre, che in breve tempo le calzature di quelli che salgono restano corrose. La lava scorre serpeggiando fino ai piedi della montagna e nella piana di Catania fino al mare, estendendosi fin dove spazia lo sguardo, ora in fosse spalancate, ora sui declivi». Difficilissima la salita: coloro che vogliono vedere un cratere devono arrampicarsi per circa due miglia su un percorso faticosissimo, dato che, sotto il peso del viandante, i sassi ammucchiati confusamente franano, rischiando di trascinare a valle e colpire il visitatore. Splendido il panorama che si può godere dalla vetta: la visuale di tutta l’isola, la costa calabra, e, nei giorni piú limpidi anche il litorale napoletano. D’inverno
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salute di lei, del proprio padre e del proprio fratello, alle condoglianze per la morte di Alessandro VI (18 agosto 1503), a informazioni sull’andamento delle epidemie e sui problemi del vettovagliamento cittadino, ai suoi molteplici spostamenti, alle notizie sul procedere delle sue pubblicazioni, alla richiesta di sovvenzioni per farle stampare. Il tono di questa sezione appare perlopiú del tutto formale e cauto, anche se via via piú appassionato. Ben diverso, invece, è il tono delle missive sotto pseudonimo, indirizzate da «AD» (Bembo) a «FF» (presumibilmente Lucrezia), in cui lo scrittore esprime senza remore i propri sentimenti alla maniera petrarchesca. È anche vero però che, se delle lettere della duchessa ci rimane la versione originale (conservata in un manoscritto dell’Ambrosiana), del Bembo restano soltanto versioni a stampa rielaborate. Anche quando fu costretto a lasciare Ferrara, all’indomani della morte del fratello Carlo (30 dicembre 1503), le lettere indirizzate a Lucrezia, pur diradandosi, continuarono fino al 1517, fitte fino al 1506, poi sempre piú rare; alcune concernenti il suo lavoro agli Asolani, pubblicati nel 1505 da Aldo Manuzio, altre sulla vita alla corte di Urbino (1506/1513), ma erano ormai omaggi di convenienza, privi di qualsiasi componente affettiva.
quasi tutto il monte è bianco di neve, che dalla cima non scompare del tutto neppure d’estate: talvolta persino all’inizio di giugno si verificano copiose nevicate. Una sola sorgente d’acqua purissima e perenne sgorga sull’Etna, per il resto, la sola acqua è quella della neve. Alle pendici del vulcano un paesaggio da favola, degno di accogliere i fauni e le divinità dei boschi: «un rivo di gelida acqua che la selvosa Etna sciogliendo le sue nevi fa scorrere, è come nettare da bere», mentre «da un’altissima rupe, dove per diradarsi gli alberi la vista spazia liberamente sull’isola e sulle onde del Tirreno, un campo erboso scende con dolce declivio: alti pini lo circondano facendogli cerchio intorno ad uguale distanza l’uno dall’altro. In mezzo un faggio foltissimo di fronde, (…) cavo fino alle ultime radici, che fa di sé un’urna alle acque piovane, che l’aria montana purificatrice e l’ombra che le protegge dal sole rendono piú fresche delle acque di fonte e piú pure di quelle di pozzo». F
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Istanbul (Turchia), la torre di Galata. L’imponente edificio è il piú alto della città. Fu innalzato dai Genovesi nel 1348, sulla sommità dell’omonima collina, là dove sorgeva il sobborgo di Pera, che si specchiava sul Corno d’Oro e che fu fortificato, nonostante i divieti imposti dalle autorità locali, a partire dal 1307.
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L’Oriente
dei Genovesi di Antonio Musarra
I lunghi e intensi rapporti con le terre d’Asia sono una delle piú significative testimonianze della vocazione imprenditoriale e mercantile della città della Lanterna. I cui rappresentanti, però, non furono soltanto artefici di ricchi scambi commerciali, ma ebbero ruoli di primo piano anche a livello politico e diplomatico
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ell’inverno del 1287, giungeva a Genova un monaco nestoriano d’origine turco-uigura di nome «rabban» Sauma, inviato dall’il-khan mongolo Argun con il compito di promuovere un’alleanza contro l’Egitto mamelucco, in procinto di cacciare i Franchi dalla costa siro-palestinese. Assieme a Sauma viaggiavano un cristiano orientale, Sabadino, un interprete, chiamato «Uguetus» – una latinizzazione del termine mongolo «ügetü», «abile nel linguaggio» – e un genovese di nome Tommaso Anfossi. Con ogni probabilità, non si trattava d’una tappa casuale. Il nome dei Genovesi era ben noto lungo le vie carovaniere da cui proveniva: numerosi mercanti della città tirrenica risiedevano nell’impero mongolo, talvolta ricoprendo ruoli di prestigio. Come già era accaduto a Roma, raggiunta qualche tempo prima, l’interesse del monaco fu catturato dalle reliquie cristiane conservate in città. I vertici cittadini gli mostrarono le ceneri di san Giovanni Battista, recate in patria, secondo un’inveterata tradizione, nel corso della prima crociata, seguite dal celebre Sacro Catino: «un bacile di smeraldo a sei facce», in cui – gli fu detto – «Nostro Signore aveva mangiato la Pasqua».
Come il giardino del paradiso
La città lo colpí profondamente, tanto ch’egli decise di farvi ritorno nell’inverno successivo, dopo essersi recato a Parigi, in visita al re di Francia, e a Londra, presso il re d’Inghilterra. «Essa – afferma Sauma – somiglia al giardino del paradiso: il suo inverno non è freddo, né la sua estate calda; lí la verdura dura tutto l’anno, e vi sono alberi dai quali non cadono le foglie e che non restano mai senza frutti. Cresce là una sorta di vite che porta grappoli sette volte l’anno, ma non se ne spreme vino». La Genova visitata da Sauma – la città dove non v’è un re ma è il popolo a scegliersi «a suo piacimento un capo che lo governi» – è al massimo del proprio splendore. Da tempo, i Genovesi hanno valicato la corona di monti
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L’Europa dei commerci
Nidaros
Bergen
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Edimburgo
Limerick
Southampton
Cadice Ceuta Salé
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Amburgo Brema Hildesheim
Valencia
Cordova
Danzica Königsberg
Altri centri Città della Lega anseatica Depositi della Lega anseatica Itinerari terrestri e fluviali
Vilna
Smolensk
Vladimir-Volynskij
Belgorod Vicina
Ragusa
Bari
Napoli
Amalfi
Algeri Bugia
Messina Tunisi
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Qairouan
Durazzo Tessalonica Corfù Tebe Atene
Palermo
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Tripoli Barca Alessandria
Rotte anseatiche Aree tessili
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Kiev
Roma
Cagliari Orano
Polock
Kovno
Stettino
Ancona
Sedi di fiere importanti
Rotte genovesi
Stralsund Lubecca
Montpellier Barcellona
Granada
Melilla
Novgorod
Soest
Palma
Colonie e fondaci di Genova e Venezia
Rotte veneziane
Visby
Brandeburgo Torun Corvey Magdeburgo Bruges Brest Varsavia Rouen Colonia Lipsia Breslavia Francoforte Lendit Treviri Metz Provins Angers Norimberga Cracovia Orléans Ratisbona Erfurt Basilea Troyes Augusta Vienna La Rochelle Châlons Zurigo Coira Salisburgo Buda Pest Bordeaux Lione Milano Bayonne Cahors León AiguesTrieste Verona Burgos Mortes Venezia Pézenas Genova Zara Belgrado Firenze Saragozza Marsiglia Canterbury
Narva Pskov
Copenaghen Haithabu
Londra
Reval
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Dorestad York
Toledo Siviglia
Dublino
Stoccolma
Mare del Nord
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Oslo
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Jaroslavl’
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Tarso
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Damasco S. Giovanni d’Acri
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In alto mappa a volo d’uccello di Costantinopoli e Pera (l’attuale Galata), raffigurate come città murate, dal Liber insularum Cycladum. 1485 circa. Londra, British Library.
che li circonda, stringendo proficue relazioni con la valle padana e con il resto della Penisola, attirando mercanti, banchieri e agenti di cambio, perlopiú toscani, ma anche ebrei e veneziani, tra le calate del proprio porto. La «communitas» genovese è ormai estesa in tutto il Mediterraneo, e oltre. Dal 1277, i Genovesi oltrepassano regolarmente le Colonne d’Ercole raggiungendo le Fiandre e l’Inghilterra. Ma è soprattutto a Levante ch’essi dirigono le loro galee. Là dove s’incrociano molte fortune.
Un mutamento repentino
Alla fine del Duecento, la nuova frontiera del commercio internazionale è il Mar Nero, da cui si dipanano alcuni degli itinerari conosciuti complessivamente con il nome di «Vie della Seta». Sino a tutto il secolo precedente, l’impero costantinopolitano aveva precluso ai mercanti occidentali l’accesso alle sue sponde. Tale situazione era mutata repentinamente a seguito della cosiddetta «quarta crociata», tra il 1202 e il 1204, e, dunque, della creazione dell’impero latino d’Oriente, monopolizzato da Venezia, a cui aveva fatto seguito l’instaurarsi di principati greci indipendenti a Nicea e a Trebisonda. Il passaggio in mano veneziana della disponibilità
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genova e l’oriente A sinistra una nave tonda in navigazione, illustrazione tratta da un’edizione degli Annali genovesi compilati da Caffaro di Rustico da Caschifellone. XII-XIII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso resti della fortezza trecentesca di Caffa, oggi Teodosia, in Crimea, città che fu una delle principali colonie genovesi in quella regione fino al 1475.
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degli Stretti – ovvero del sistema formato dal Bosforo e dai Dardanelli – aveva causato l’esclusione dei Genovesi da traffici lucrosi, a cui essi avevano risposto dandosi a una pressante guerra di corsa. Non pare, a ogni modo, che i mercanti veneziani si fossero riversati in massa nel Ponto, sebbene Costantinopoli seguitasse a ricevere da questa direttrice i consueti approvvigionamenti, tra cui soprattutto grano, sale, pellicce e cuoio. In effetti, a quest’altezza cronologica, il nodo dei traffici di lunga distanza è ancora concentrato a sud-est: l’Egitto, la costa siro-palestinese e il regno armeno di Cilicia sono i principali terminali occidentali degli itinerari che s’inerpicano nell’Asia interna e dei traffici provenienti dal Mar Rosso. L’asse commerciale costituito dal collegamento fra Trebisonda e Tabriz, assurta a capitale dell’il-khanato di Persia, iniziò ad acquisire importanza soltanto a seguito della conquista mongola di Baghdad, nel 1258, che favorí lo sposamento dei traffici verso settentrione. Tale mutamento ebbe luogo in concomitanza con la riconquista greca di Costantinopoli da parte di Michele Paleologo, imperatore di Nicea, nella notte tra il 24 e il 25 luglio del 1261. Nel marzo precedente, questi aveva siglato un patto di alleanza con i Genovesi – il trattato di Ninfeo –, che apriva loro la navigazione oltre gli Stretti in cambio della fornitura di navi e galee. Eppure, nemmeno questi ultimi approfittarono im-
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mediatamente della situazione. Anzi, l’alleanza con il Paleologo fu di breve durata. Rotta nel 1263, ufficialmente a causa del tradimento del podestà inviato a Costantinopoli dalla madrepatria, sarebbe stata ripristinata soltanto nel 1267. Fu allora che i Genovesi s’installarono oltre il Corno d’Oro, dando vita all’abitato di Pera, lungo il fianco scosceso della collina di Galata, che, nell’arco di un’ottantina d’anni sarebbe riuscito a rendersi indipendente dalla capitale imperiale, ottenendo un vero e proprio privilegio di extra-territorialità. A partire dal 1265, inoltre, il Paleologo riallacciò lentamente i rapporti con Venezia, cosí da riequilibrare la preponderanza genovese. A ogni modo, sarebbe stata Genova a inaugurare una politica di sistematico attraversamento degli Stretti e di penetrazione nel Mar Nero, che andrà progressivamente integrando nell’ambito delle consuete rotte mediterranee.
L’insediamento in Crimea
La presenza genovese nel Mar Nero crebbe considerevolmente dagli anni Ottanta del secolo. Verso questa direttrice iniziarono a dirigersi i capitali piú ingenti. Un esempio per tutti: l’enorme cifra di 8635 lire investita nel 1285 a Costantinopoli dai fratelli Benedetto e Manuele Zaccaria. I primi viaggi noti non sono anteriori al 1274, quando il notaio Federico di Piazzalunga roga un
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Genova, Palazzo Lercari-Parodi. Affresco di Luca Cambiaso raffigurante la costruzione del fondaco dei Genovesi a Trebisonda, di cui fu artefice il mercante Megollo Lercari, figura avvolta nella leggenda. 1570 circa.
atto a Soldaia, presso la quale erano stanziati i Veneziani. L’anno successivo, i Genovesi ottennero dal khan dell’Orda d’oro, che controllava le steppe a nord del Mar Nero, l’autorizzazione a insediarsi nel sito dell’antica Teodosia, in Crimea, da loro ricostruito e denominato Caffa, che, in breve tempo, sarebbe divenuta la «Ianuensium civitas in extremo Europae»: il centro principale della presenza genovese nella regione pontica. La cittadina si sviluppò velocemente: nel 1281 si ha notizia della presenza d’un console; nel 1289 fu eretta una prima cinta difensiva; nello stesso anno si segnala la presenza del notaio Lamberto di Sambuceto, i cui atti testimoniano la vivacità economica dei suoi abitanti. Non a caso, Caffa avrebbe subito ripetuti assedi, il primo dei quali, tra il 1307 e il 1308, per opera delle armate di Tohtu, khan dell’Orda d’oro. Nel 1316, l’Officium Gazarie, creato appositamente per gestire la navigazione e gli affari d’Oltremare, avviò la costruzione d’un nuovo insediamento sulla base d’una precisa progettazione urbanistica. Nuovamente posta sotto assedio negli anni Quaranta del secolo, Caffa rimase in mano genovese sino al 1475, quando fu conquistata dagli Ottomani, ormai padroni di Costantinopoli. Nel corso del Trecento la cittadina sarebbe stata al centro d’una fitta rete di scali, dislocati lungo le coste,
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di cui accoglieva le merci per convogliarle verso Pera e di qui in Occidente. Dal 1281, è segnalata la presenza di Genovesi a Vicina e a Moncastro. Altri Genovesi installarono fondaci e quartieri presso i porti fluviali di Kilia e Licostomo, nel delta danubiano. Soltanto nel 1365, invece, i Genovesi di Caffa occuparono Soldaia. Un poderoso insediamento si svilupperà a Cembalo, utilizzato quasi esclusivamente come porto militare. Nel 1381, il khan Toqtamish riconobbe il dominio genovese sull’intera fascia costiera da Cembalo a Caffa, assegnando loro come tributaria l’intera regione circostante, nota come Gotia.
In contrasto con i Comneni
Piú a levante, i Genovesi sono presenti a Tana, uno dei terminali occidentali delle «Vie della Seta», presso la quale, dal 1304, risiede un loro console. Nel 1343, il khan Gani Beg cacciò dalla cittadina tutti i mercanti occidentali, che vi rientrarono soltanto a distanza di qualche anno. Altre comunità sorsero a Trebisonda, Samastri, Sinope e Simisso, la cui autonomia fu però ostacolata dai Grandi Comneni, la dinastia regnante: nel 1304 il quartiere genovese di Trebisonda subí gravi danni, compensati con la cessione del sito fortificato di Leoncastron; nuovi dissapori sorsero nel 1313, a seguito di una serie di attacchi portati da un manipolo di corsari Genovesi contro alcune navi locali. Alessio II Comneno si alleò con il signore di Sinope, Ghazi Çelebi, con lo scopo d’attaccare Caffa. Alla difesa presero parte molti genovesi, tra cui Ottaviano Doria, Ezzelino Grillo e il cugino Megollo Lercari, noto per il trattamento riservato ai febbraio
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prigionieri, ai quali mozzava naso e orecchie che inviava poi ad Alessio come macabri trofei. Dalla costa meridionale del Mar Nero, cosí come dal regno armeno di Cilicia, si accedeva facilmente alle piste carovaniere che conducevano a Tabriz, capitale dell’ilkhanato, e di qui al Mar Caspio, a Baghdad, a Mossul, a Ormuz. I contatti con quest’area erano frequenti, come suggerisce la redazione da parte d’un genovese di Crimea d’un dizionario trilingue latino-cumano-persiano, evidentemente utile agli scambi commerciali nella zona. Ma si pensi anche alla testimonianza di Marco Polo, che, nel Milione, afferma di aver incontrato a piú riprese Il porto di Genova cosí come doveva presentarsi verso la fine del Medioevo, in una xilografia di Hartmann Schedel, dalla Cronaca di Norimberga (1493).
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mercanti genovesi lungo la strada carovaniera facente capo a Laiazzo. Pare, inoltre, ch’essi andassero organizzando un regolare servizio di navigazione nel Mar Caspio, con lo scopo di sfruttare il commercio della seta. Come s’è visto, i Genovesi godevano d’ampia considerazione alla corte mongola: tra il 1285 e il 1290, il genovese Buscarello Ghisolfi fu scelto dall’il-khan Argun per condurre un’ambasceria in Occidente, finalizzata, come quella di Sauma, a stipulare un’alleanza col papato contro l’Egitto mamelucco. Che Tabriz fosse diventata un centro nodale nell’ambito degli itinerari di lunga distanza è dimostrato, del resto, dalla presenza continuativa, tra il 1328 e il 1336, del notaio Azzelino Romano, scriba del fondaco genovese. Ben presto, i mercanti occidentali residenti nella capitale il-khanide si diedero una propria organizzazione, tanto che il governo mon-
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genova e l’oriente golo ritenne opportuno concedere loro la costituzione di un Officium mercantie composto da ventiquattro membri. È inoltre significativo notare come, tra la dozzina di mercanti interrogati nel 1344 da frate Rainero da Vercelli in merito alle dottrine professate dai frati minori presenti in città, vi fossero ben cinque Genovesi, segno d’una presenza stabile. Nell’arco di qualche decennio, Tabriz divenne il centro principale del traffico della seta, oltre che il punto di partenza delle vie che conducevano, da un lato, all’Asia centrale e alla Cina attraverso Samarcanda, dall’altro, all’India attraverso Ormuz e il Golfo Persico. Le stesse Indie che furono meta del grandioso tentativo di navigare «per mare Oceanum» compiuto nel 1291 dai fratelli Ugolino e Vadino Vivaldi, desiderosi d’aggirare, circumnavigando l’Africa, i dazi doganali sul commercio delle spezie imposti dai Mamelucchi, ormai padroni della costa siro-palestinese. Tale ostacolo contribuí a rafforzare i percorsi piú settentrionali, che, da Tabriz o da Tana, attraversavano il grande impero mongolo. Numerosi Genovesi intrapresero questa direttrice. Tra i meglio documentati vi è, senz’altro, Andalò di Savignone, il quale, nel 1330, si
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recò nel Catai in compagnia di un mercante di seta, un certo Leone Vegia, ritornando indietro con i beni d’un certo Antonio Salmora, originario di Chiavari, morto a Pechino nel corso della sua permanenza. Nel 1334, Andalò partí nuovamente per la Cina, dove, nel luglio 1336, ricevette da Temür l’incarico di portare ad Avignone, assieme ad altri quindici compagni – per la maggior parte genovesi –, una lettera che raccomandava a papa Benedetto XII alcuni cristiani di origine alana e sollecitava l’invio di un missionario per rimpiazzare il francescano Giovanni da Montecorvino, morto otto anni prima. In realtà, non sappiamo se il genovese fosse a capo della spedizione. In passato lo si è confuso con un Andrea «franco», identificabile con un certo Andrea da Nascio, originario dell’omonima località della Val Graveglia, nel Levante genovese. A ogni modo, nel dicembre del 1337, Andalò era di nuovo a Genova, in procinto di ripartire per mare alla volta di Costantinopoli. A Napoli, la galea su cui era imbarcato accolse a bordo il francescano Giovanni de’ Marignolli, nominato dal papa arcivescovo di Pechino. Il convoglio raggiunse Caffa prima del giugno del 1339. Con tutta probabili-
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tà, Andalò accompagnò in Cina il nuovo arcivescovo, recando con sé alcune lettere papali, per poi rientrare a Genova prima del 1345.
Seta, spezie e panni dorati
Nonostante l’attività di missionari e ambasciatori, in Cina si andava soprattutto per commerciare, in particolare alla ricerca della seta locale. È quanto mostra un documento bilingue risalente al 1343 e oggi conservato nell’archivio del Peshawar Museum, nella città pakista-
na, inerente l’acquisto, da parte del genovese Percivalle Cibo, di venti partite di seta del Catai. Nello stesso anno, il genovese Sacco Gentile risulta aver rinnovato un contratto di società con un certo Larino Mariolo: due terzi del capitale erano costituiti da una grossa partita di seta del Catai, depositata tra Avignone e Parigi; il restante, invece, da spezie e panni dorati cinesi, collocati in un magazzino genovese, ma già in gran parte venduti e scambiati con vino di Napoli, corallerie della Campania e con l’appalto del dazio della colonia di Pera. La fortezza di Sudak (oggi in Crimea), con i resti delle mura merlate. Edificato inizialmente dai Veneziani nel XII sec., il complesso venne ricostruito nel Trecento dai Genovesi.
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genova e l’oriente Nelle terre dell’Orda I Genovesi erano presenti anche nei territori dell’Orda d’oro. Una comunità esisteva, infatti, nella capitale, Saraj, sul corso inferiore del Volga, impegnata nella compravendita di schiavi, smerciati, con la complicità dell’imperatore bizantino, all’Egitto mamelucco, nonostante gli espliciti divieti papali. Con tutta probabilità, si trattava di una comunità fiorente, come suggerito da un contratto stipulato nel 1320 da Giannotto Ghisolfi, ambasciatore genovese, cosí come dagli scambi diplomatici intercorsi verso il 1340 tra Genova e il khan del Kiptchak, Ozbeg, per mezzo di Pietro dell’Orto, Federico Piccamiglio ed Enrico de Guasco. Di qui pare sia passata, altresí, la carovana mercantile partita da Genova nella primavera del 1343, diretta «in partibus Catay et Indie», guidata dal genovese Leonardo Ultramarino. Per l’occasione, questi assunse al proprio servizio uno schiavo affrancato di nome Oberto di Persio, che s’impegnò a seguirlo per tre anni «in quibuscumque mundi partibus». Nel 1336, il medesimo percorso era stato compiuto da Ingo Gentile, tornato a Genova prima del dicembre del 1345, consegnando ben 1000 bisanti bianchi di Tabriz a uno dei propri finanziatori: Egidiolo Boccanegra.
Un documento posteriore, risalente al 1372, rinvenuto presso la moschea di Mazar-i-Sharif, in Afghanistan, riguarda, invece, l’acquisto, da parte del genovese Gentile Adorno, presso un gruppo di mercanti itineranti provenienti dalla Cina, di pietre preziose e seta. Si trattava di operazioni assai frequenti, capaci di coinvolgere intere famiglie. È il caso, per esempio, dei fratelli Jacopo e Ansaldo «de Oliverio», i quali, nel 1333, si recarono «ad partes Catagii», raggiunti successivamente dal nipote Franceschino per rimanervi parecchi anni «trafegando, negotiando et mercando», come rivela un lodo arbitrale del 13 agosto 1347 relativo all’eredità di Jacopo, morto in Cina. I beni di Franceschino, anch’egli scomparso, sarebbero stati riportati a Genova nel 1345 dall’unico superstite, Ansaldo, assente dalla città per un quindicennio. Questi era tornato con beni e denaro per un valore di circa 22 000 lire, quintuplicato rispetto a quello investito in partenza. Ancora: nel settembre del 1343, il genovese Galeotto Adorno aveva raggiunto il Catai con la considerevole cifra di 800 sommi d’argento, investiti in gioielli e perle (benché non fosse raro che si comprasse soprattutto seta, grezza, da smerciare, al proprio ritorno, alle manifatture di Lucca e Bologna); nel 1344 è attestata la presenza a Ormuz, nel Golfo Persico, del mercante genovese Tommasino Gentile, diretto in Cina con alcuni soci, ma costretto a interrompere il viaggio a causa di un’improv-
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A sinistra la lapide in memoria di Caterina, figlia del mercante genovese Domenico Illione, morta nel 1342. L’epigrafe è stata scoperta a Yangzhou (la Quinsai di Marco Polo) sul Fiume Azzurro.
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A destra elmo di fattura russa o centro-asiatica, rinvenuto in Tibet, che riporta un’iscrizione araba damascata in argento nella quale si ritiene compaia il nome di un sovrano mongolo. 1342-1357. New York, Metropolitan Museum of Art.
A sinistra miniatura di scuola turca raffigurante un arciere a cavallo. XV sec. Istanbul, Museo del Palazzo di Topkapi.
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Miniatura raffigurante una carovana di mercanti in viaggio verso il Catai, dall’Atlante catalano, tavola comprensiva di tutti i mari del mondo e cosí chiamata perché realizzata da geografi catalani. 1375. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
visa malattia e ad affidare le proprie merci ai compagni di viaggio, che proseguirono alla volta del Catai; sempre in Cina si recò, prima del 1363, il genovese Gabriele Basso, i cui beni, a seguito della morte, furono riportati in patria da Antonio da Trani e Raffaele Castagna. Quella genovese, a ogni modo, fu una presenza stabile. Nel 1326, il francescano Andrea da Perugia segnala la presenza di Genovesi a Zaitun (Quanzhou). La sua è una testimonianza importante: dotata d’un grande porto, lodato da molti viaggiatori, la città costituiva, infatti, una delle principali porte d’accesso alla Cina. Qui giungevano il cotone dell’Indocina, le perle del Golfo Persico, i chiodi di garofano di Giava e delle Molucche, il legno di sandalo dall’Indonesia. Le numerose lapidi sepolcrali superstiti testimoniano l’esistenza d’una folta comunità musulmana, formata, in parte, da Cinesi convertiti, capace di garantire i collegamenti di lunga distanza. I mercanti cristiani vi avrebbero incontrato,
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invece, tre conventi francescani, fondati da Giovanni da Montecorvino e dai suoi successori. Un migliaio di chilometri piú a nord viveva, invece, il genovese Domenico Illione, attivo tra il 1335 e il 1342. È quanto suggerito, infatti, dal ritrovamento, a Yangzhou, sul Fiume Azzurro – la Quinsai di Marco Polo, anch’essa sede di un insediamento francescano – di due lapidi in latino – risalenti al 1342 e al 1344 –, incise in caratteri gotici, che riportano i nomi d’una certa «Katerina filia quondam Dominici de Ylionis», morta nel giugno del 1342, e del fratello Antonio, scomparso due anni dopo (un loro avo, Illione Illioni, è menzionato in una lapide conservata a Genova, nella cattedrale di S. Lorenzo, che riporta un’iscrizione simile a quella trovata a Yangzhou).
Una presenza discreta ma importante
Le relazioni tra Genova e la Cina subirono una battuta d’arresto a seguito dell’ascesa della dinastia Ming, nel 1368, che costrinse la dirigenza genovese a ristudiare la politica orientale. Nei decenni successivi, i circuiti tradizionali del commercio marittimo genovese conobbero importanti mutamenti. L’epilogo della lotta contro Venezia e l’Aragona, la progressiva perdita dei possefebbraio
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Lettera inviata dall’il-khan mongolo Argun a Filippo IV, re di Francia, nella quale veniva proposta un’alleanza strategico-militare contro il mondo arabo. 1289. Parigi, Archives nationales.
dimenti orientali e l’avvento delle marinerie atlantiche misero fortemente in discussione l’assetto raggiunto a fatica. Si trattò d’un processo preparato da tempo: il crollo della pax mongolica, a cui fece seguito la chiusura delle principali rotte carovaniere per l’Asia centrale, diminuí l’importanza commerciale dei porti del Mar Nero; la costante avanzata turca rese nuovamente appetibili le coste siriache ed egiziane, presso le quali, tuttavia, la presenza veneziana era preponderante. Tutto ciò influí sulla progressiva riconversione dei circuiti economici, commerciali e finanziari genovesi lungo una direttrice che dall’area iberica – prevalentemente castigliana, andalusa e portoghese – conduceva alle Fiandre e all’Inghilterra. A fronte di tali esiti, non si può certo dire, a ogni modo, che la presenza genovese nel Levante mediterraneo, nel Mar Nero e lungo le cosiddette «Vie della Seta» sia stata marginale. Taciturni, intenti nei loro affari, i Genovesi non hanno lasciato testimonianze letterarie paragonabili al Milione, capaci di strutturarne il mito. Eppure, la loro presenza in Oriente dovette essere paragonabile, se non addirittura superiore, a quella veneziana. Non è certo un caso se il mercante fiorentino Francesco Pegolotti ragguagli i pesi e le misure di quel-
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le regioni al sistema in uso a Genova. Né che Giovanni Boccaccio faccia iniziare l’unica novella del Decameron ambientata nel «Cattaio», in Cina – la terza della decima giornata – facendo riferimento alla «parola di certi genovesi e di altri uomini che vi sono stati». Ma si pensi, altresí, alla diffusione, a Genova, di nomi di persona che richiamano l’universo mongolo, quali Tartaro, Argone o Casano, questi ultimi in riferimento agli il-khan Argun e Ghazan. La loro presenza lungo i vasti territori dell’Asia Centrale, giunta al culmine negli anni Trenta-Quaranta del Trecento, non può essere sottovalutata, benché le poche fonti a disposizione non permettano di valutarne la reale portata. Quelle superstiti, a ogni modo, sono sufficienti per affermare l’esistenza d’una continua corrente di traffico. Ciò mostra, una volta di piú, come la società medievale genovese fosse impregnata dei valori della mercatura, attinenti a un proto-capitalismo fatto di pragmatismo, individualismo e interessi di parte, ch’erano soprattutto interessi di famiglie o di consorzi di famiglie. Si può dire, insomma, alla luce della grande avventura orientale che caratterizzò il XIV secolo, che l’equivalenza «Ianuensis ergo mercator» corrisponda in gran parte a realtà. F
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Quando Siena inventò la finanza di Alessio Montagano
Sul finire del XII secolo, all’apice della sua indipendenza, la Repubblica di Siena apre una zecca e batte moneta. Il nuovo conio si impone presto sulle principali piazze valutarie dell’Italia centrale, contribuendo a promuovere l’incredibile ascesa economica dei suoi banchieri. Ma quali furono gli elementi costitutivi di questo successo e a quale «modello» si ispirava la moneta senese?
Denari e grossi di Siena. La zecca della città toscana fu attiva dalla fine del XII sec. e batté monete di notevole valore e qualità anche tecnologica.
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uel che condusse al trionfo il mercante senese, sino dagli ultimi decenni del secolo XII, fu il commercio del denaro. Il denaro d’argento che esce dalla zecca di Siena è di ottima lega (...) tiene testa al cambio coi Veneziani grossi, coi Ravennati, coi Volterrani, e specialmente coi Provesini di Francia. La merce principale nella quale negoziavano allora i senesi, fu dunque la moneta (...) In questo modo si sviluppò sull’arteria principale del commercio, sulla via Francigena, uno scambio vivissimo di relazioni soprattutto tra Siena e la Francia, che mi sembra abbia avuto una influenza considerevole anche sui costumi del paese» (Ludovico Zdekauer, Il mercante senese nel Dugento, 1925). Un legame indissolubile unisce lo sviluppo economico e culturale di Siena alla Francia nel periodo bas-
somedievale. La storiografia che si è occupata dell’argomento – a partire dalla prosa romantica dello storico boemo a cui si deve la citazione iniziale, che nel 1899 ritrasse le imprese cosmopolite del mercante senese nel Duecento, sino ad arrivare ai piú recenti e specifici saggi dedicati ai banchieri e mercanti di Siena – abbonda in merito. Sappiamo per certo che la città toscana, a partire dall’ultimo quarto del XII secolo, o già prima, riuscí a tessere una fitta e proficua rete mercantile e bancaria, grazie alla quale, attraversando le Alpi, raggiunse le fiere e i mercati della Champagne, fece affari con i vescovi, conti e baroni delle terre dell’impero, sino ad arrivare a trattare con i reali inglesi, oltre la Manica, contribuendo a gettare le basi dell’economia moderna. Un fenomeno che, a detta degli storici, portò i mercatores senesi a essere tra i primi fautori dell’economia monetaria a base capitalistica. Per meglio comprendere il fenomeno, occorre una breve premessa storica. Dalla fine del X secolo, l’Occidente visse una fase di crescita economica, dettata dall’aumento del volume e del valore della produzione e degli scambi, condotti sempre piú mediante l’uso della moneta metallica come mezzo di pagamento, a scapito del barat-
Nella pagina accanto tavoletta di Biccherna raffigurante il camerlengo e un ufficiale (scriptor) nel loro ufficio. 1353. Siena, Archivio di Stato. febbraio
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storie siena A sinistra Predica di san Bernardino in Piazza del Campo, tempera su tavola di Sano di Pietro, dalla chiesa di S. Girolamo. 1444. Siena, Pinacoteca Nazionale. In basso un gruzzolo di denari lucchesi.
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to. Siena fu una delle prime realtà italiane a beneficiare di questo cambiamento. La sua rapida ascesa economica venne determinata dalla fortunata circostanza di essere vicina a importanti giacimenti argentiferi – Montieri prima di tutto – e di trovarsi sul tracciato della piú grande arteria europea di transito, la strata romea o strata peregrinorum, asse centrale nelle comunicazioni tra i Paesi d’Oltralpe a nord e il cuore della cristianità a sud. L’attività bancaria e il commercio del denaro, ha scritto Carlo Maria Cipolla, sono la diretta espressione di queste favorevoli circostanze: «La strada e l’argento – il commercio e la banca. Anche se scettici in tema di determinismo storico, sarebbe purtuttavia difficile negare una relazione tra il binomio geografico e i due poli di sviluppo dell’economia senese nei secoli di mezzo». Se la tradizione storiografica ha dunque individuato gli elementi propulsori dell’economia di Siena in ambito internazionale, resta da definire il contributo della sua moneta all’affermazione della città toscana nello stesso contesto temporale. Pochissimi autori si sono occupati dell’approfondimento di questo aspetto nel passato. All’inizio dello scorso secolo, Mario Chiaudano aveva negato che le miniere d’argento e la moneta senese avessero
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avuto un ruolo determinante nell’espansione internazionale della città, specificando che «questa fortuna, che può forse avere agevolato la battitura della moneta senese, non può essere stata una causa di predominio e di espansione, in quanto nel commercio internazionale la valuta senese non venne mai adottata e tutti gli affari all’estero si trattarono sempre in provenesini». La sua voce rimase tuttavia isolata.
Una prospettiva diversa
In queste pagine si vuole offrire un diverso punto di vista, quello dello storico della moneta, per spiegare i motivi che indussero Siena ad aprire una zecca verso il 1180 e perché la sua moneta si sia diffusa poco dopo la sua coniazione ben oltre i propri confini territoriali, almeno sino a tutta la metà del secolo successivo, smentendo in parte quanto asserito da Chiaudano. Cercheremo infine di dimostrare dal punto di vista numismatico a quale moneta si «ispirava» quella senese nel momento in cui si decise di coniarla e perché la città toscana è legata alla Francia anche da questo specifico punto di vista. Veniamo al contesto storico immediatamente precedente. Siena diventa libero comune e si regge a Repubblica nel XII secolo, dopo un iniziale periodo di autorità vescovile. Il passaggio a un governo laico arriva con un diploma del 1167 a firma di Rainaldo di Dassel, arcivescovo di Colonia e arcicancelliere imperiale, quando il popolo senese, approfittando della discesa in Italia dell’imperatore Federico I Barbarossa, si unisce ai consoli e, presa coscienza della propria forza, caccia il vescovo dalla città. In questo quadro politico maturano i presupposti ideali che portano la città a ottenere il diritto di zecca, come del resto molte altre dell’Italia centro-settentrionale nello stesso periodo. Soltanto i comuni titolati a farlo potevano tuttavia de-
cidere autonomamente se coniare moneta o meno: il diritto di zecca era infatti un antico privilegio, elargito, in cambio di favori, alleanze o altro, esclusivamente per concessione dell’imperatore. Tale privilegio, oltre a rappresentare un importante riconoscimento del prestigio nei confronti di una certa autorità, celava in realtà un interesse economico indiscusso per chi poteva disporne, in quanto era una sicura fonte di introito per le proprie casse: l’organo emittente infatti, ogni qualvolta coniava in città o in qualsiasi altra località di sua pertinenza, riscuoteva dagli ufficiali della zecca i relativi diritti di titolarità. In Toscana è Lucca l’unico centro ad avere un’esperienza monetaria ininterrotta nei secoli precedenti. La sua zecca viene infatti aperta già dalla seconda metà dell’VIII secolo durante la dominazione longobarda e prosegue la sua attività sotto Carlo Magno e i suoi successori. Il diritto le viene poi ribadito nel 1156, attraverso un diploma imperiale di Federico I Barbarossa, secondo quanto già concessole dai suoi predecessori ab antiquis temporibus, e, a tutela dei suoi diritti, viene espressamente vietato alla vicina Pisa di coniare moneta sub forma et cuneo Lucane civitatis vel eius consimilis.
Il divieto del papa
Il fenomeno dell’imitazione ufficiale della moneta lucchese da parte delle città limitrofe, attuata in tempi e con modalità diverse dal comune di Pisa e dai vescovi di Volterra nel corso del XII secolo per lucrare i diritti di zecca spettanti in realtà solo a Lucca secondo antica concessione, è una piaga talmente diffusa, da causare, nel 1158, l’intervento di papa Adriano IV, che diffida tutte le città toscane dal ricorrervi: omnibus civitatibus Tusciae, sub fortissimo anathemate, monetam lucensem cudere. Alla risoluzione dell’annosa vicenda si arriva nell’estate del 1181 quando, grazie a un accordo tra le
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storie siena parti, si stabilisce che le rispettive monete di Lucca e Pisa dovessero essere chiaramente distinguibili e accettate bilateralmente da entrambe le città e che i proventi di coniazione relativi fossero divisi in modo equo tra le stesse. Siena in questo periodo non ha una propria moneta e si serve di quella coniata a Pisa: ne è testimonianza un documento del 22 marzo 1176, secondo il quale la città si accordava con la vicina Firenze, attraverso un vero e proprio patto monetario, per usare come base per le contrattazioni nei rispettivi territori la moneta pisana.
La riconoscenza dell’arcivescovo
Il 1180 è il termine ante quem dell’apertura della zecca a Siena e dell’inizio della coniazione della sua moneta. Lo prova una lettera del 2 febbraio di quell’anno nella quale l’arcivescovo di Magonza Cristiano, cancelliere imperiale e legato di Federico I Barbarossa in Italia, si impegnava sotto giuramento a ottenere dallo stesso imperatore la confirmationem vestrae monetae, al fine di sdebitarsi con la città toscana per avere versato la somma di 400 lire per il suo riscatto al marchese Corrado di Monferrato, che lo teneva in prigionia a Montefiascone per un fatto d’arme. La conferma ufficiale del diritto di coniazione, dopo varie controversie militari sorte qualche anno dopo (1184) tra la Repubblica di Siena e Federico I, che avevano portato la città a perdere tutti i privilegi ottenuti in precedenza, inclusa la nominatim monetam, arriva definitivamente nel 1186 – dietro il pagamento di un consistente donativo da parte dei Senesi – attraverso un diploma stilato a Cesena in data 25 ottobre da Enrico VI (figlio di Federico I). Sebbene la prima attestazione della moneta senese si registri in città a partire dal 1182, anno in cui Conterano, vescovo di Siena, dava la licenza di innalzare un monaste-
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ro ponendo una penale in denari senesi, abbiamo la certezza che già un anno prima (aprile 1181) tale moneta veniva utilizzata correntemente nei pagamenti, circolando addirittura già fuori dal proprio territorio, come testimonia un atto di vendita della cattedrale di Viterbo: nel documento viterbese, infatti, sia il prezzo che la penale vengono stabiliti in denariorum senensium. Appare quindi molto probabile che la piú antica moneta senese, il denaro, sia stata emessa per la prima volta in un periodo di poco anteriore al 1180, cioè quando le autorità cittadine intensificano la ricerca di nuovi siti estrattivi volti al reperimento di metallo monetabile (1177-1178) e contemporaneamente redigono il loro primo Constituto (1179), nel quale probabilmente normano anche l’attività della costituenda zecca. Se da un lato abbiamo visto come la discesa dell’imperatore in Italia abbia contribuito in modo sostanziale alla nascita e alla proliferazione delle zecche comunali italiane, dall’altro la dotazione di metallo monetabile era condizione imprescindibile per attrezzare un’officina monetale e mantenerla efficiente.
L’argento di Montieri
Siena in quegli anni si procurava il metallo nobile direttamente alla fonte, grazie alla proprietà di una parte del castello e del borgo di Montieri (et ubicunque argentaria inventa fuerit), nel Grossetano, acquisita nel 1137, dopo reiterate insistenze, dal vescovo volterrano Aldemaro in cambio di alcune pievi. L’argento veniva estratto principalmente da Montieri per la qualità della sua materia prima
In basso denaro coniato dalla zecca di Provins (Francia), al tempo di Tebaldo II, conte di Champagne.
(Galena argentifera) e la copiosità dei suoi giacimenti. La sua collocazione, inoltre, rispetto ad altri siti estrattivi maremmani, era nettamente preferita, in quanto si trovava sulla rete viaria principale che collegava le potenti città di Siena e Volterra, a nord, e Massa, a sud. Nuovi importanti giacimenti furono in seguito scoperti, tra il 1177 e il 1178 (Miranduolo, Montebeccari e Montebinco), per soddisfare le crescenti necessità di coniazione da parte dei Senesi. Il costante approvvigionamento di metallo prezioso rappresentava febbraio
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pertanto un elemento fondamentale per garantire la stabilità e la bontà della moneta di Siena che, già qualche anno dopo la sua coniazione, finí con l’imporsi su quelle circolanti delle città limitrofe (soprattutto Pisa) in alcune precise zone geografiche di loro pertinenza (Maremma pisana). Già fra il XII e il XIII secolo, i denari senesi sono tra le principali valute dell’Italia centro-occidentale insieme a quelli di Lucca, Pisa e ai provisini francesi e del Senato romano, soprattutto nella zona territoriale che include la Toscana
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meridionale, l’Umbria e la Tuscia viterbese. Esemplare a riguardo è il contenuto dell’atto di costituzione, nel 1197, della Societas Tusciae, che riporta le condizioni della lega tra Firenze, Siena, Lucca, San Miniato, Prato e Volterra e nel quale si ordinano pagamenti esclusivamente in denariorum lucensium vel pisanorum aut senensium.
Cinque marche per le compere
Una testimonianza significativa sulle monete circolanti nell’area toscana proviene anche dai conti
Veduta delle mura di Provins, città che i conti di Champagne elessero a propria capitale, nella quale fu battuto un denaro che ebbe vasta circolazione anche al di fuori della Francia.
del viaggio di Volchero di Passavia, vescovo e poi patriarca di Aquileia, avvenuto tra il 1203 e il 1204. Questi infatti, diretto dall’Austria verso Roma, viaggiava con lingotti d’argento e monete delle sue terre, che poi cambiava nelle varie città oppure spendeva. Arrivato a Firenze nella Pasqua del 1203, cambiò cinque marche d’argento in moneta pisana
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storie siena Tavoletta di Biccherna raffigurante il monaco di S. Galgano don Guido, che fu camerlengo dell’importante magistratura cittadina nel primo semestre dell’anno 1280. Siena, Archivio di Stato. Il religioso è ritratto mentre conta denari divisi in mucchietti posti sopra al tavolo da lavoro, prima di essere sistemati in una borsa.
La sede della zecca
Nel centro della città Per motivi di sicurezza, l’ufficio preposto alla coniazione di moneta, era ubicato nel cuore di Siena, al pari delle altre importanti magistrature civili della Repubblica, come la Mercanzia, la Dogana e la Biccherna. Le registrazioni riportate nei libri della Biccherna riferiscono che, dal 1247, risiedeva nella piazza centrale della città, il Campus fori (oggi nota come piazza del Campo) e precisamente a lato della Dogana, al piano terra dell’edificio oggi noto come Palazzo Pubblico, dove cioè sono allocati i Magazzini del Sale. Dal 1286 al 1289, la zecca fu temporaneamente spostata in una casa privata di proprietà di Ildibrandino del Mancino, membro del governo senese dei Nove. Dobbiamo attendere il secolo successivo per avere nuove notizie della sua ubicazione. In particolare, alcune ricevute di pagamento della Biccherna del 1310 ci riferiscono che in quell’anno la zecca era tornata nella sede originaria e forniscono una prova, seppur indiretta, del fatto che, negli anni immediatamente precedenti, il «bulgano vecchio» era stato nuovamente trasferito, questa volta però in domo Bonsignorum (da indentificare, con ogni probabilità, con il palazzo Bonsignori, oggi sede della Pinacoteca Nazionale). La conferma definitiva del funzionamento della zecca nella sua sede centrale ci viene assicurata, molti anni piú
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tardi, dalla lettura di un’adunanza del Consiglio Generale del 1385 relativa alla proposta di coniazione di nuova moneta: «Item simili modo providerunt eidem sapientes predicti quod quicumque cives Civitatis Senarum vel alius undecumque sit voluerint in dogana senensis zecha comuni senensis ad cudendum et fabrigandum grossos valoris V. sol. denariorum». La zecca senese era denominata in origine bulgano, termine in passato attribuito alla derivazione del latino bulga (volgare bolga), cioè la borsa di pelle ove venivano custodite le monete, ma, secondo studi piú recenti, riferibile al nome Vulcano, il dio romano del fuoco e della metallurgia. Questa tradizione linguistica, documentata unicamente in Toscana tra Siena, Volterra, Massa (di Maremma) e Arezzo, viene poi sostituita nel corso del XIV secolo dalla parola «zecca» (dall’arabo sikka, cioè il conio) attraverso la graduale mediazione culturale sveva e angioina. A Siena il termine zecha è documentato per la prima volta nel 1351. La gestione della zecca era affidata ai Signori del Bulgano attraverso un’elezione indetta semestralmente dal Podestà fra i membri del Consiglio Generale; questi, scelti in genere in numero di due, furono portati solo in certi periodi a tre. All’inizio febbraio
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da spendere in questa città, mentre a Siena pagò in moneta senese. Successivamente, nelle località situate lungo la strada Romea a sud di Siena, pagò esclusivamente in denari senesi, in particolare a San Quirico d’Orcia, Radicofani, Acquapendente e Bolsena. In quegli anni la diffusione della moneta senese era rivolta alle traiettorie principali delle comunicazioni e del commercio verso Roma, città che utilizzava la moneta provisina francese e senatoriale romana, piú che verso le città settentrionali della Francigena in Toscana, dove ancora regnavano incontrastate le monete lucchesi e, soprattutto, pisane. Lo specchio della circolazione monetale negli anni im-
mediatamente precedenti l’apertura della zecca a Siena è piuttosto importante, perché ci indica quali sono state le monete che piú circolavano nello Stato senese e nei territori limitrofi e che in qualche modo hanno influenzato le abitudini di spesa dei Senesi.
Il «turismo religioso»
Come già accennato, dalla seconda metà del XII secolo, il rarefarsi del vecchio denaro pavese e il reiterato svilimento del denaro lucchese trasformano le monete pisane, a nord di Siena, e quelle francesi di Provins, a sud, nelle nuove valute egemoni. I denari provisini della zecca di Provins giungono a Roma, nelle serie attribuite ai conti di Champagne
Thibaut II (1125-52) e Henri I e II (1152-80, 1180-97), attraverso la Francigena, non solo come valuta legalmente riconosciuta nei commerci con l’Urbe, ma anche come moneta di «turismo religioso» grazie al movimento dei pellegrini diretti alla Terra Santa. Le loro prime attestazioni a Roma risalgono al 1154 e, in breve tempo, la prestigiosa valuta d’Oltralpe diventa caput moneta non solo in città, ma anche in gran par-
Denaro di Siena emesso verso il 1180. Al dritto, l’iniziale inversa della città, tra quattro globetti, attorniata in legenda dalla scritta SENA VETVS; al rovescio, la croce patente con il motto ALFA ET W (omega) in legenda.
del 1280 fu eletto per la prima volta un camerlengo, il camerarius bulgani, che, dal secolo successivo, venne in genere scelto fra i signori del bulgano. Questi ultimi, oltre a controllare tutte le fasi dell’operato della zecca ed essere responsabili del risultato finale della coniazione, dovevano periodicamente versare l’utile conseguito all’ufficio della Biccherna, la magistratura alla quale era affidata l’amministrazione finanziaria dello Stato senese. Vuole un’ipotesi, tuttora discussa, che il nome Biccherna derivi da Blacherne, il palazzo di Costantinopoli nel quale si custodiva anche il tesoro dell’imperatore. Per evitare irregolarità e ingerenze di famiglie private nella delicata fase di raccolta delle somme riscosse, almeno sino a tutto il XIV secolo, vennero chiamati a ricoprire l’importante incarico di camerlengo della Biccherna i monaci dell’abbazia di San Galgano. I libri, nei quali erano trascritte tutte le partite giornaliere di entrata e uscita del semestre, avevano per copertina tavolette lignee dipinte di notevole interesse artistico e storico. Nonostante la loro incompletezza, le biccherne ci forniscono informazioni utili relative ai nomi dei signori del bulgano e alle cifre versate al camerlengo di biccherna. A differenza di altre città come Firenze e Pisa, a Siena, secondo il Constituto del 1262, era concesso anche agli
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stranieri (foretanos et lombardos) di lavorare nell’officina monetale cittadina se dotati di buona reputazione ed esperienza; al contempo, però, era proibito ai cittadini senesi di prendere parte attivamente nella gestione di altre zecche in Toscana, salvo dove fosse diversamente espresso su licenza (a Firenze tale concessione era subordinata all’approvazione dell’Arte dei Monetieri). La manodopera, in genere, era divisa in monetieri e operai: questi ultimi erano a loro volta suddivisi in fonditori, tagliatori, affilatori e imbianchitori, a seconda delle diverse specializzazioni relative alle fasi di lavorazione. Nella zecca lavoravano inoltre figure contabili, volte a registrare tutte le entrate e le uscite di quell’ufficio. Una tra queste, di particolare importanza, era il notaio, la cui funzione era quella di compilare e registrare le dichiarazioni liberatorie rilasciate dai privati nel momento in cui veniva loro restituita, in moneta, la quantità di metallo portata in precedenza da coniare (sotto forma di verghe, suppellettili o vecchie monete). In ciascuna operazione di coniazione, la zecca tratteneva il rimedio, ovvero una percentuale che compensava le spese di gestione dell’officina e in piú dava un utile al Comune, che la concedeva in appalto oppure la gestiva direttamente a seconda delle circostanze.
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storie siena il funzionamento della zecca
La tutela innanzitutto Pur essendo amministrata dai signori del bulgano, l’attività della zecca era sottoposta al controllo e all’approvazione dei Consoli di Mercanzia, che, insieme ad altre importanti magistrature, quali il Podestà – che nel XIII secolo rappresentava la piú alta carica comunale –, il Capitano del Popolo e il Consiglio Generale – detto anche della Campana, poiché convocato dal suono della campana e costituito da un gruppo di bonorum virorum scelti tra i cittadini di maggior censo (selezionati in egual numero dai tre terzieri in cui era divisa la città) –, deliberavano in modo collegiale su qualsiasi questione inerente l’emissione di nuova moneta, il corso di quella vecchia, i tassi di cambio tra le monete locali e quelle forestiere e le relative disposizioni volte a tutelare il commercio nello Stato senese dall’immissione di cattiva moneta di qualsivoglia provenienza. A tal proposito riportiamo il contenuto di una delibera del Consiglio Generale del 3 luglio 1309, piuttosto esemplare, nel quale si vietava la circolazione della moneta grossa d’argento da due soldi precedentemente emessa, non solo delle città di Firenze e Pisa, ma addirittura di Siena stessa, perché tosata e di peso calante, pertanto non piú rispondente ai requisiti con la quale era stata coniata: «moneta grossa senensi, florentina et pisana qua currit et expenditur in Civitate Senarum pro duobus soldis sit valde corrupta, incisa et vitiata, ita quod quasi nullus grossus dictarum monetarum reperitur legalis ponderis ad quod fuerunt primitus fabricati». Questo provvedimento, già adottato dalle autorità fiorentine, lucchesi e pisane perché videntes et conoscentes manifestam fraudem, si riferiva certamente
alle monete coniate negli anni Novanta del XIII secolo che, a causa della prolungata circolazione, erano ormai diventate troppo logore. Il tasso di cambio tra le valute senesi (in argento e lega) e il fiorino d’oro era di vitale importanza non solo per le casse dell’erario, ma anche per i commercianti della città. A loro maggiore tutela, nel 1333, il consiglio cittadino dispose che i valori venissero fissati e resi pubblici giornalmente dalla Mercanzia nella propria corte, affinché tutti potessero consultarli (la Loggia della Mercanzia, sorta in prossimità del palazzo omonimo dove anticamente era la chiesa di S. Paolo, è oggi ubicata presso la Croce del Travaglio, cioè all’incrocio delle tre principali arterie cittadine: Banchi di Sopra, Banchi di Sotto e via di Città). In circostanze di particolare rilevanza, come l’avvento di anni giubilari o di occorrenze devozionali o diplomatiche straordinarie, per evitare abusi e speculazioni nell’applicazione del cambio tra la moneta senese e quella forestiera, le autorità governative dettavano norme specifiche, a cui dovevano attenersi con rigore tutti li camerlenghi della città di Siena et anco quelli de fuore. In particolare, la provvisione del 25 aprile 1450, predisposta dal Consiglio Generale di Siena in concomitanza con l’Anno Santo indetto da papa Niccolò V, è piuttosto dettagliata e chiarificatrice in merito. Partendo da una premessa che descrive il contesto storico «veduto che questo anno del giubileo ell’oro et le monete che ricevano e camerlenghi della comunità di Siena, cosí drento nella città come de fuore (...) et inde appresso inteso et veduto a che pregi li detti Camarlenghi el decto Nella pagina accanto, in alto la Loggia della Mercanzia, a Siena. A sinistra ricostruzione virtuale della fonderia di Montieri (Grosseto).
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oro et monete fanno ne pagamenti a soldati et altre particulari persone et a creditori di nostro comune» la provvisione ci informa che in queste circostanze sono proprio i camerlenghi senesi a trarne vantaggio a spese dello Stato perché «fanno guadagni et forse si potreber dire piú disonestamente da quello che pigliano l’oro et la moneta et quello ch’essi fanno e pagamenti s’inborsano una utilità grande di centonaia et centonaia di fiorini, li quali, com’è detto, sonno di ragione apartenenti alla nostra comunità; la quale è una infamia». Di fronte a questa frode perpetrata (proprio) dai camerlenghi dello Stato le autorità insorgono e ordinano per prima cosa che «ognuno de decti camerlenghi d’ogni denari che riceveranno o in oro o in moneta debba, d’anno innanzi, tenere uno quadernetto marcato, dove stesamente et particularmente debbano scrivare, a dí a dí, ogni denaro che riceveranno, la quantità et in che oro et in che moneta (...) et oltre a questo essi camarlenghi debbino fare una politia [ricevuta] di loro mano a quelle persone da chui receveranno oro et moneta et a che pregi [valori]». Secondariamente impongono che «tucte le monete predette d’ariento o di rame di qualunque ragioni [provenienza e tipo] (...) debbino mandare per sei banchieri, differente l’uno dall’altro, li quali banchieri sia licito al loro comprare tali monete, et quello banchiere che piú pregio darà di tali monete a utilità di comune, allui sieno date». Cioè il comune, in questo modo, si assicurava che tutte le monete te del Lazio, della Sabina e in molte zone dell’Italia meridionale piú prossime al territorio laziale. La sua predominanza è tale che le autorità cittadine, a partire dal 1186, si svincolano dall’egemonia della moneta francese producendo a nome proprio – enfatizzando cioè una legittima autorità riconosciuta nel Senato – denari provisini sul piede di quelli francesi già circolanti (chiamati, per distinguerli dai francesi, provisini del Senato). La necessità di imitare il prototipo francese era senza dubbio volta a conservare un sistema monetario già collaudato e
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d’argento e di rame riscosse attraverso i dazi fossero vendute al miglior prezzo ai banchieri e cambiavalute dopo una sorta di gara di appalto. Soprattutto, però, stabiliscono, «per honore et utile di comuno», che venga prefissato il tasso di cambio tra la moneta d’oro senese (fiorino senese largo) e quella fiorentina dello stesso tipo, per evitare speculazioni e arbitraggi a cui erano maggiormente soggette questo tipo di monete di elevato valore nominale. Questa decisione è di particolare importanza, perché intende colpire soprattutto coloro che, ricevendo in pagamento la moneta d’oro senese, la portavano a Firenze, dove era maggiormente apprezzata e la facevano riconiare in moneta fiorentina: «viene a dire che tutto l’oro che ci capita ne va a Fiorenze et maxime e nostri fiorini larghi nuovi (...) li quali essi fiorentini ristozano et fanno al chonio loro (...) et perché questo è vergogna et danno della nostra città». Vista la contingente necessità, la provvisione indica anche le modalità con cui renderla nota: «che tucte queste provisioni (...) si faccino bandire colla tromba ne’ luoghi consueti della città». Da ultimo, impone la sua registrazione entro dieci giorni dalla sua approvazione nel libro di cinque chiovi. Questo libro, di cui è ignota l’esistenza, potrebbe essere paragonale al noto Libro del Chiodo di Firenze, che contiene la copia di tutti i bandi stilati dalla Repubblica Fiorentina dal 1268 al 1368, incluso quello relativo alla condanna in contumacia di Dante nel 1302.
che fosse subito riconoscibile, anche a colpo d’occhio, grazie al disegno archetipico già noto al pubblico. Anche i Senesi dimostrano familiarità nella spesa della moneta provisina, sia nella propria città, grazie alla sua collocazione sulla via Romea – che la metteva in contatto direttamente con l’Urbe –, che sulle principali piazze fieristiche della Champagne a Provins, Bar-surAube, Lagny-sur-Marne e Troyes, attraverso l’attività bancaria delle filiali riconducibili alle maggiori societates cittadine (cioè quelle degli Angiolieri, Bonsignori, Tolomei,
Salimbeni, Piccolomini, Gallerani, Malavolti e Squarcialupi). L’utilizzo di questo tipo monetale, non a caso, cresce proporzionalmente all’aumento della frequentazione senese in Francia nel corso del XIII secolo, è attestato sia nelle lettere di cambio che nei contratti di prestito stipulati dai Senesi, alcuni dei quali proprio in società con i conti di Champagne, nelle principali fiere di quella regione. Ricordiamo, per esempio, un prestito di 540 lire di «provinesini» che nel 1221 Bartolomeo di Ugone e Chiaramontese Piccolomini, sotto la co-
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obbligazione del conte Thibaut IV, erogano al conte di Bar con la promessa che quest’ultimo lo restituisca a maggio dell’anno successivo alla fiera di Provins, la stessa piazza dove Ugone di Chiaramontese e il fratello di Piccolomo, Roberto, ottennero la garanzia di essere pagati nel maggio 1231 delle 1725 lire di «moneta di Provins» prestate al duca Matteo II di Lorena. Oppure un contratto stipulato nella chiesa di S. Cristoforo a Siena, in data 31 marzo
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1243, col quale le parti si cedevano un credito computato in 560 provisini di Francia.
Un modello vincente
L’analisi delle fonti e le osservazioni di carattere numismatico suggeriscono, in via ipotetica ma credibile, che, nella propria coniazione, i Senesi si siano ispirati, senza però mai imitarla, alla moneta provisina francese in voga in quegli anni. Siena, infatti, a differenza dell’Ur-
be, rientrava già da tempo nell’area monetale del denaro toscano e non avrebbe avuto alcun interesse a uscirne, perché troppo rischioso e oneroso, soprattutto nella fase di riconversione dei contratti già stipulati in valuta pisana. È perciò possibile che la scelta della città toscana si sia focalizzata solamente sugli aspetti «vincenti» della moneta transalpina, cioè quelli che l’hanno portata a essere legalmente riconosciuta oltre i profebbraio
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A sinistra capitello con due monetieri all’opera. XII sec. Souvigny, priorato dei Ss. Pietro e Paolo.
pri confini nazionali, identificabili cioè nella superiorità del titolo (d’argento) in primis – che le dava un maggiore grado di credibilità e stabilità nei pagamenti – e uno stile del conio piú curato e moderno rispetto ai rozzi denari toscani in circolazione, ormai obsoleti e non piú rispondenti alle nuove necessità del commercio in espansione.
Caratteristiche che il denaro provisino francese era stato in grado di anticipare già in occasione delle crociate in Terra Santa, prima cioè della sua penetrazione sul suolo italiano. Le liste di monete contenute nei manuali di mercatura compilati tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo – utilizzate dai cambiavalute a mo’ di breviario per conoscere rapidamente tutte le specie monetali circolanti e non – sembrano confermare questa ipotesi, poiché equiparano il titolo di coniazione dei sanesi piccoli vecchi a quello dei previsini nuovi a 3 once (circa) d’argento la libbra. Un ulteriore elemento di conferma della nostra ipotesi sta nella superiorità del titolo dei denari senesi rispetto a quello dei lucchesi vecchi e pisani vecchi, che, secondo quanto riportato dalle stesse fonti, si attesterebbero invece a 2 once e mezzo la libbra. Quanto all’aspetto, sin dalle prime emissioni, il denaro senese appare meglio coniato rispetto a quelli
lucchesi e pisani, spesso quadriformi, grazie al tondello piú circolare e bene impresso, ed è corredato da una bianchitura superficiale, talmente omogenea che ancora oggi è difficile scorgere il contenuto di rame sottostante nei numerosi esemplari superstiti. Ma la vera novità sta nella sua scelta iconografica, dal momento che si tratta della prima moneta toscana del periodo medievale (se escludiamo le emissioni longobarde e carolinge della zecca di Lucca) a rappresentare il tema iconico della croce (come del resto il denaro di Provins). Ma non è tutto.
Glossario
Le parole del monetiere B ianchitura o imbianchimento procedimento chimico usato nelle zecche per mettere in evidenza l’argento sulla superficie delle monete in lega di rame-argento. C ampo spazio centrale della moneta sul dritto o sul rovescio. C onio detto anche matrice o stampo della moneta. Blocco di ferro nel quale veniva intagliato in incavo un disegno prescelto e contro il quale era forzato a martellate il tondello da monetare, fino a che vi restava impresso il disegno in rilievo. I conii erano due: quello superiore di martello, detto torsello, e uno inferiore, chiamato pila, infisso in un supporto di legno funzionante da incudine. Legenda parte marginale della moneta, verso il bordo, dove veniva impressa una scritta. Libbra antica unità di peso, che si divideva in 12 once, ogni oncia in 24 denari e ogni denaro in 24 grani. La libbra aveva peso diverso a seconda dei luoghi di adozione (a Siena equivaleva a gr. 336,730).
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Conio di Massa Marittima (Grosseto). Queste matrici venivano custodite gelosamente: il loro eventuale furto, infatti, implicava il pericolo di frodi e falsificazioni.
O ncia unità di misura ponderale che equivale a un dodicesimo di libbra e pesava 24 denari. S vilire (una moneta): ridurre il suo tenore intrinseco. T erzerio (o terzo) la città di Siena era divisa in tre parti o terzi: il terzo di Città, quello piú antico, il terzo di Camollia e il terzo di San Martino. Titolo percentuale di metallo prezioso presente nella moneta. Tondello dischetto di metallo preparato per ricevere l’impronta del conio della moneta. Tosatura rendere di minor peso una moneta asportandone una parte del metallo prezioso. Spesso questa operazione era effettuata a scopo fraudolento, limando il bordo, o sfregando la moneta con la sabbia o trattandola chimicamente.
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A sinistra dritto di un fiorino d’oro largo di Siena. Post 1450. Reca una elegante lettera S foliata, tipica del gotico evoluto, attorniata dalla scritta SENA VETVS CIVITAS VIRGINIS.
Nella pagina accanto Tribunale della Mercanzia, miniatura di Sano di Pietro per lo Statuto dell’omonima magistratura senese. Giugno 1472-gennaio 1473. Siena, Archivio di Stato. Qui sopra grosso senese d’argento da 2 soldi. 1296-1313. Al dritto, una S tra quattro crocette; al rovescio, una croce patente. Nella legenda, attorno alla croce, si ripete il simbolo di zecca della «stella» o «rotella di sperone». A sinistra grosso pisano d’argento da 2 soldi. Post 1295. Al dritto, un’aquila su capitello, al rovescio, la Vergine e il Bambino in trono, alla cui sinistra si riconosce il segno di zecca della «chiave».
Nella monetazione senese, sacro e profano convivono: infatti, se da un lato (rovescio) compare una croce «incorniciata» dal motto biblico dell’Alfa et Omega (tratto dall’Apocalisse di Giovanni come simbolo dell’eterna essenza di Cristo), dall’altro (dritto) viene rappresentata l’iniziale (inversa) dell’antico e glorioso nucleo cittadino, la lettera «S» di Sena vetus (espresso invece per esteso in legenda), rivelandoci cosí la volontà autonomista della città rispetto all’impero. Circostanza singolare, in quanto tutte le coeve monete prodotte dalle zecche limitrofe toscane (Lucca e Pisa) e non (Asti, Genova, Milano, Piacenza, ecc.)
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Qui sopra grosso fiorentino d’argento da 2 soldi. 1296-1306. È caratterizzato dal giglio, al dritto, e, al rovescio, dalla figura intera di san Giovanni, che regge una lunga croce, nella mano destra; nella sinistra tiene invece un cartiglio, su cui è scritto «Ecce».
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fanno invece riferimento all’autorità che ha concesso loro il diritto di coniazione (ovvero gli imperatori del Sacro Romano Impero: Henricvs Rex da Enrico I, II o III di Sassonia, Cunradvs Rex da Corrado III e Fredericvs Rex da Federico I Barbarossa). Questo aspetto è piuttosto importante, perché potrebbe in realtà celare la reale motivazione per cui l’arcivescovo di Magonza Cristiano, nel 1180, poco dopo l’apertura della zecca a Siena e l’emissione di una propria moneta, prometteva alla cit-
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tà toscana di rivolgersi al piú presto al Barbarossa per «farla confermare»: non tanto perché l’autorizzazione non era (ancora) stata rilasciata, come è stato ipotizzato nel passato, ma piuttosto perché nel conio della moneta senese mancava il riferimento (dovuto) alla concessione imperiale e perciò non era stata ufficialmente riconosciuta dall’imperatore. Elemento di riflessione conclusivo, ma non ultimo per importanza, e che assimila inequivocabilmente la moneta senese alla provisina
francese, è l’introduzione dei globetti nella rappresentazione del conio (nei quarti della croce nei denari francesi e attorno alla «S» in quelli senesi), ma, soprattutto, del richiamo apocalittico dell’Alfa et Omega (rappresentato dalle iniziali A e W attorno alla croce nei denari francesi mentre dalla scritta ALFA ET W in quelli senesi). Questa scelta epigrafica, che i Francesi adottano per primi e che risulta invece sconosciuta nelle emissioni delle altre zecche coeve (salvo le già citate imitazioni febbraio
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Da leggere AA.VV., Banchieri e mercanti di Siena, Monte dei Paschi di Siena, Roma 1987 AA.VV., Le monete della Repubblica Senese, Monte dei Paschi di Siena, 1992 AA.VV., Massa di Maremma e la Toscana nel basso Medioevo: zecche, monete ed economia, Biblioteca di Archeologia Medievale n. 27, All’insegna del Giglio, Firenze 2019 Fabio Gabbrielli, Siena medievale. L’architettura civile, Protagon editori toscani, 2010 Alessio Montagano, Il forziere della Maremma, Medioevo, n. 234, luglio 2016 Alessio Montagano, Monete Italiane Regionali. Toscana, zecche minori, Varesi editore, Pavia 2007 Roberta Mucciarelli, Piccolomini a Siena XIII-XIV secolo. Ritratti possibili, Dentro il Medioevo. Padova, Battistero. Particolare della volta della cupola, affrescata da Giusto de’ Menabuoi. 1375-1377. Al centro, il Cristo benedicente, che nella mano sinistra regge un libro sulle cui pagine è scritto «Io sono l’Alfa e l’Omega».
In assenza, a oggi, di notizie certe, è impossibile rispondere in maniera definitiva, anche se, per le motivazioni fin qui addotte, chi scrive propende per la seconda ipotesi. «senatoriali» dei provisini), affonda le sue radici nella monetazione romana tardo-imperiale (solitamente accompagnata dal cristogramma o Chi-ro) e viene ripresa qualche secolo dopo, proprio per volere dei re franchi della dinastia merovingia. Se per i Francesi, quindi, tale usanza è comprovata dalla tradizione storica, che cosa rappresenta invece per i Senesi? Si tratta di una pura casualità oppure di una scelta «influenzata» dalla familiarità dell’utilizzo della moneta provisina?
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Simbolo del Comune
D’altronde, perché i Senesi avrebbero dovuto adottare questa citazione nella propria moneta quando è noto che, sin dal X secolo, o già prima, la Vergine rappresentava il simbolo stesso del nascente Comune cittadino, tanto che le donazioni di terre e sottomissioni di castelli a favore di Siena si effettuavano in suo onore, come attesta la formula Ecclesiae S. Marie et populo civitatis Senensi, che troviamo sovente negli atti dell’epoca?
Collana del Dipartimento di Storia dell’Università di Siena, Pacini editore, Pisa 2005 Gabriella Piccinni (a cura di), Fedeltà ghibellina Affari guelfi, Dentro il Medioevo. Collana del Dipartimento di Storia dell’Università di Siena, Pacini editore, Pisa 2008 Alessia Rovelli, Patrimonium Beati Petri. Emissione e circolazione monetaria nel Lazio settentrionale (XI-XIV secolo), Annali dell’Istituto italiano di Numismatica, n. 55 (2009) Adolfo Sissia, Denier au peigne champegnois e denaro provisino emesso a nome del Senato romano, Bollettino della Società Numismatica Italiana, n. 68 (Anno XXIX) Lucia Travaini, Monete, mercanti e matematica. Le monete medievali nei trattati di aritmetica e nei libri di mercatura, Jouvence, Roma 2003
Era infatti usuale, soprattutto in questo periodo storico permeato dalla propaganda crociata, che le città coinvolte usassero stilemi comuni e si influenzassero a vicenda nella scelta della rappresentazione del proprio conio: ne è un esempio il tema della croce, adottata sia dalle zecche francesi, sia da quelle comunali dell’Italia centro-settentrionale (tra cui per l’appunto Siena), come Asti, Genova, Milano, Mantova, Ancona e Ravenna, per citarne alcune, tra il XII e il XIII secolo. E risultati di sicuro interesse a riguardo potrà riservare lo studio delle numerose varianti morfologiche della croce rappresentata sui denari senesi e sui loro multipli in argento, i denari grossi o semplicemente grossi, coniati a partire dal secondo decennio del XIII secolo, in quanto potrebbe rivelarci inaspettate curiosità legate non solo alla storia dei Templari sulla Francigena, ma anche alla sua rappresentazione simbolica in terra di Siena. F
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Sulle mura di
di Andreas M. Steiner
Gerusalemme Il centro storico della Città Santa, erede dell’impianto urbanistico di epoca romana, conserva splendidi edifici riconducibili ai secoli della dominazione islamica e crociata. Ma la sua «anima medievale», suggerita anche dalla monumentale cinta muraria, viene oggi arricchita da una serie di recentissime scoperte. Un invito alla visita...
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Una veduta delle mura che cingono la Citta Vecchia di Gerusalemme, all’altezza della Porta di Giaffa (nel riquadro a destra). Lunghe 4018 m e alte in media 12, furono costruite su volere di Solimano il Magnifico tra il 1537 e il 1541.
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n regolamento comunale di età moderna segna ancora oggi l’aspetto della Città Santa. Siamo nel 1918, Gerusalemme è da poco sede del Mandato britannico e il governatore dell’epoca, Sir Ronald Storrs (definito da T.E. Lawrence, il Lawrence d’Arabia, «The most brilliant Englishmen in the Near East» – l’inglese piú brillante nel Vicino Oriente – e dallo scrittore Michael Korda come «il primo governatore militare di Gerusalemme dai tempi di Ponzio Pilato») emana un decreto, tuttora in vigore: le facciate di tutti gli edifici gerosolimitani devono essere rivestite con la tipica pietra calcarea del luogo, la cosiddetta «pietra di Gerusalemme», nel rispetto di una scelta costruttiva che ha caratterizzato l’architettura della città sin dalle sue origini.
Dalla superficie ruvida e resistente, una volta estratta dalle cave e esposta alla luce, la pietra (il cui nome arabo è meleke, «regale») assume una morbida tonalità dorata. La gradevole uniformità della materia prima impiegata in quasi tutti gli edifici gerosolimitani – antichi e moderni – e che determina l’aspetto cromatico della città, non facilità, però, l’inquadramento storico-cronologico delle sue architetture sacre e profane, antiche, medievali e moderne. E se la regalità della pietra è eminentemente rappresentata dai resti delle straordinarie imprese costruttive di Erode il Grande (basti citare il monumentale recinto voluto dal re a contenimento del Tempio di Gerusalemme e al cui centro oggi sorgono la Cupola della Roccia, la Moschea di Al Aqsa e gli altri edifici d’epoca
Chiesa di S. Anna Porta dei Leoni
Porta Nuova
MURISTAN dS.
A sinistra pianta della Città Vecchia di Gerusalemme con i principali monumenti citati nel testo. Suddivisa in quattro quartieri (musulmano, cristiano armeno ed ebraico) ha una superficie di circa 1 kmq e vi si accede attraverso le sette porte aperte nella cinta muraria di Solimano il Magnifico. Nella pagina accanto veduta aerea di Gerusalemme in cui si riconosce il circuito delle mura che racchiudono la Città Vecchia. Al centro, la vasta spianata con la Cupola della Roccia e la moschea di Al-Aqsa.
Chiesa di S. Marco
Cattedrale S. Giacomo
Porta del Letame
Sorgente di Gihon
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islamica), il suo colore si estende anche sulle architetture di epoca medievale. Ed è proprio un’aria medievale quella che ci avvolge quando ci apprestiamo a visitare il centro storico della città (la «Citta Vecchia»), alla quale si accede attraverso una delle sette porte aperte nelle spettacolari mura volute da Solimano il Magnifico e costruite dall’architetto Sinan tra il 1537 e il 1541.
Un’anima medievale
Cronologicamente assai poco «medievali», la cinta muraria, lunghe 4018 m e munite di una elegante merlatura, racchiude l’intera Città Vecchia ed è, oggi, quasi interamente percorribile. Grazie a un tragitto sicuro e agevole, munito di pannelli informativi, la passeggia-
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ta lungo le mura e attraverso le porte offre un’ottima visione d’insieme dei principali monumenti e, soprattutto, dell’articolazione urbanistica dell’antico cuore di Gerusalemme. La cui «anima» medievale, d’altra parte, si manifesta piú compiutamente in alcuni complessi architettonici celeberrimi, tra cui spiccano la Chiesa del Santo Sepolcro (vedi «Medioevo» n. 158, marzo 2010) e la già citata Cupola della Roccia, ma anche grazie alla presenza di monumenti minori e ad alcune scoperte recentissime, di cui diamo notizia in queste pagine. Vale la pena sottolineare che, nonostante sia legata a un immaginario prevalentemente «antico», il quadro architettonico complessivo della città si è formato, per(segue a p. 86)
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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
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Nella pagina accanto, in alto una veduta della vicina Porta di Erode. Nella pagina accanto, in basso la Porta di Damasco in una fotografia della fine dell’Ottocento.
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Sulle due pagine la Porta di Damasco. Aperta sul lato nord-occidentale delle mura, rappresenta uno degli accessi principali alla Citta Vecchia. Realizzata sotto il governo di Solimano il Magnifico, sorge sul luogo di una preesistente porta di epoca adrianea.
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itinerari gerusalemme Da Monte del Tempio a ÂŤNobile SantuarioÂť
Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
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1. IL MURO OCCIDENTALE Dopo la costruzione dei santuari musulmani, agli Ebrei fu negato l’accesso al Monte del Tempio. Cosí, una porzione delle mura di sostruzione della grande spianata erodiana (il cosiddetto Muro Occidentale o Muro del Pianto) divenne la loro principale meta di pellegrinaggio. Dipinto di Gustav Bauernfeind (1848-1904). 2. LA CUPOLA DELLA ROCCIA Voluto dal califfo omayyade Abd al-Malik, l’edificio è uno dei piú straordinari esempi dell’architettura islamica. Nel Cinquecento, il sultano Solimano il Magnifico sostituí l’originaria decorazione a mosaico con le ceramiche policrome che oggi ne rivestono l’esterno. 3. LA CUPOLA DELLA CATENA La graziosa costruzione, anch’essa edificata sotto Abd al-Malik, fungeva da casa di preghiera e figura, insieme alla Cupola della Roccia, tra i piú antichi edifici dell’Haram. 4. LA MOSCHEA DI AL-AQSA Posta sul versante meridionale dell’Haram, la moschea di Al-Aqsa («la piú lontana») è il principale luogo di culto islamico di Gerusalemme. Costruita nel 715, venne notevolmente ampliata in periodo abbaside. Nel XII secolo fu trasformata in quartiere generale dei cavalieri templari. 5. I QUATTRO MINARETI Il minareto di al-Fakhariyya è il primo dei quattro minareti di epoca mamelucca eretti sul Nobile Santuario. 5
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Particolare delle maioliche colorate che ornano la Cupola della Roccia. La decorazione fu apposta al monumento da Solimano il Magnifico, in sostituzione dell’originaria decorazione a mosaico.
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itinerari gerusalemme L’affresco ritrovato Durante il regno di Melisenda (1131-1153), figlia maggiore di Baldovino II re di Gerusalemme, in una valle che a sud-est, solcata dal torrente Kidron, fiancheggiava le mura della Città Santa, vi era un’abbazia intitolata a santa Maria di Giosafat. L’edificio, situato non lontano dal giardino del Getsemani, andò distrutto durante la conquista di Gerusalemme da parte di Saladino (1187). Nel 1999, scavi archeologici diretti da Jon Seligman hanno portato alla luce i resti di edifici risalenti al XII secolo e appartenuti alla suddetta abbazia. E proprio in occasione di quelle esplorazioni gli archeologi hanno scoperto (e, cosí, potuto salvare!) la parete di uno degli ambienti della struttura, decorata con un affresco lungo 9 m e alto quasi 3. Il restauro è stato effettuato dagli studiosi del Dipartimento per la Conservazione dell’IAA (Israel Antiquities Authority, la
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Soprintendenza alle Antichità di Israele). Si tratta della piú importante testimonianza del genere a oggi nota, relativa al periodo crociato, sia per la qualità della pittura sia per le sue dimensioni. In origine, infatti, l’affresco doveva raggiungere un’altezza pari alla sua estensione, ovvero ben 9 m. Resta ancora da definire l’esatto significato dei soggetti raffigurati nell’affresco. Potrebbe trattarsi di una scena di deésis (greco per supplica o intercessione), un motivo iconografico comune, di matrice bizantina, in cui viene rappresentata la Madonna insieme a san Giovanni Battista, intenti a rivolgersi in preghiera a Gesú, supplicandolo di assolvere i peccati degli uomini. Nell’affresco gerosolimitano, però, solo le parti inferiori sono visibili: Gesú è seduto al centro della rappresentazione, con la
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Madonna alla sua destra e il Battista alla sinistra. Ai lati di questi ultimi sono visibili le gambe di altri due personaggi, forse degli angeli. La fascia centrale dell’affresco mostra una decorazione a girali, racchiusa da una scritta in latino tratta da una frase di sant’Agostino: «Chi infanga il nome di un amico assente, non sia degno di essere ospitato a questa tavola». Forse l’affresco decorava il refettorio del monastero e la scritta era rivolta ai pellegrini che, provenienti dalle lontane terre d’Europa, qui trovavano ospitalità.
Il grande affresco di epoca crociata, oggi esposto all’Israel Museum di Gerusalemme, dopo i lavori di restauro (in alto).
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itinerari gerusalemme Veduta dall’alto del Muristan (persiano per ospedale, ospizio), nel quartiere cristiano della Citta Vecchia, un insieme di stradine che confluiscono in una piazzetta rettangolare con, al centro, una fontana. L’area è situata nelle immediate vicinanze, a sud, del Santo Sepolcro (la grande cupola a sinistra nella foto). Nell’angolo sud-orientale si trova la chiesa di S. Giovanni Battista, costruita da mercanti amalfitani nell’XI sec. (la cupola argentata a destra in basso nella foto). Il lungo edificio sul lato occidentale del Muristan (nel riquadro) copre i resti dell’antico ospedale dei Cavalieri di San Giovanni, recentemente rimesso in luce e al centro di un intervento di restauro e valorizzazione.
lopiú, nei secoli a partire dal 638, data che segna la conquista islamica di Gerusalemme e che – molto convenzionalmente – può essere fatta coincidere con l’inizio del periodo medievale. Un periodo che, a sua volta, si articola in una prima fase islamica – quella della dominazione omayyade – poi interrotta, nel 1099, dall’avvento dei crociati e, a partire dalla riconquista musulmana da parte del Saladino, in una seconda fase islamica, segnata dalla dominazione degli Ayyubidi (1187-1250), dei Mamelucchi (1260-1517) e degli Ottomani 1517-1917).
Sul luogo piú santo
Nel Levante, a differenza dell’Europa latina, il passaggio dall’evo antico al Medioevo avvenne senza una vera soluzione di continuità. La Palestina sotto il dominio dei Bizantini (324-640 d.C.), la Terra Santa cristiana con Gerusalemme come capitale, subí, dopo secoli, un primo trauma in seguito all’avvento dei Persiani Sasanidi che, nel 614, conquistarono la città, saccheggiando le chiese e massacrando la popolazione cristiana. Dopo un conflitto durato diversi anni, nel 628 l’imperatore bizantino Eraclio costrinse i Persiani alla pace. Una decina di anni piú tardi, dovette assistere alla presa di Gerusalemme da parte di un nuovo nemico, l’Islam. Nel 638
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gli Arabi del califfo Omar conquistano la città che chiameranno Ilya, da Aelia Capitolina, il nome romano che l’imperatore Adriano aveva imposto a Gerusalemme nel 134 d.C., dopo la definitiva repressione della rivolta giudaica (l’impianto urbanistico dell’odierna Città Vecchia rispecchia ancora, in ampia parte, quello realizzato dall’imperatore romano). Secondo la leggenda, proprio Omar, accompagnato da Sofronio (il patriarca di Gerusalemme che con il califfo aveva trattato la resa consegnandogli le chiavi della città), si sarebbe recato sul Monte del Tempio e, giunto sul luogo del Santo dei Santi, avrebbe ripulito la sacra roccia dai detriti, facendovi erigere una prima moschea. 47 anni piú tardi, sulle orme di Omar, il secondo califfo della dinastia degli Omayyadi, Abd al-Malik, inizia a costruire, sullo stesso luogo, la Cupola della Roccia, che verrà completata nel 691/92. Lo splendido edificio, costruito da maestranze bizantine, riprende il modello delle architetture ottagonali tardo-antiche (tra cui la stessa chiesa del Santo Sepolcro, ma si pensi anche a S. Vitale a Ravenna), rappresentando, cosí, una «risposta» islamica alle numerose chiese bizantine sparse nella città. Un dato curioso e «transepocale» contrassegna oggi quel monumento simbolo febbraio
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L’ospedale dei cavalieri di San Giovanni In una piazza del quartiere cristiano della Citta Vecchia di Gerusalemme, denominata Muristan (persiano per ospedale, ospizio), a poca distanza dal Santo Sepolcro e fiancheggiata da una delle piú antiche chiese di Gerusalemme, la chiesa di S. Giovanni Battista, scavi recentissimi condotti dalla Soprintendenza alle Antichità di Israele hanno riportato alla luce parti di un’enorme struttura risalente al periodo della dominazione crociata. Fino a un decennio addietro, gli ambienti, alti piú di sei metri e caratterizzati da possenti colonne e volte a croce, ospitavano un vivace e affollato mercato di frutta e verdure, per poi cadere in disuso. L’edificio, di proprietà del Wakf, la pia fondazione di diritto islamico incaricata della cura dei luoghi santi e pubblici, è ora al centro di un progetto di ristrutturazione da parte di una compagnia di Gerusalemme Est, la Grand Bazaar Company, intenta a valorizzare l’area e trasformare parte degli ambienti in ristorante. Le grandiose strutture, paragonabili a quelle rinvenute e restaurate nella cittadella di San Giovanni d’Acri (Akko), appartenevano all’ospedale edificato nel 1099, anno della conquista crociata, dai cavalieri dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, ordine che prese nome della vicina chiesa dedicata al Battista, costruita da mercanti di Amalfi già intorno al 1070. L’ospedale ebbe una lunga e gloriosa storia, documentata da numerose testimonianze di pellegrini e viaggiatori dell’epoca. Dopo la riconquista islamica di Gerusalemme, Saladino, che risiedeva nei pressi dell’ospedale, mantenne la struttura consentendo a un numero limitato di monaci di continuare la loro attività di cura e assistenza sanitaria della popolazione.
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Le grandi volte dell’antico ospedale gestito, a partire dal 1099, da alcuni cavalieri crociati, in seguito riunitisi nell’Ordine dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme e noti anche come Cavalieri Ospitalieri.
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della città che, con la sua cupola dorata e la policromia della fabbrica ottagonale, si staglia come una macchia di colore sullo sfondo della pietra di Gerusalemme: le raffinate maioliche, a dominanza blu, furono applicate a questo primo edificio «tardo-antico/medievale» secoli dopo dallo stesso Solimano il Magnifico, in sostituzione dell’originale rivestimento a mosaico.
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Fondamentale fu, poi, il contributo dei crociati, le cui tracce architettoniche sono nascoste un po’ ovunque all’interno della Città Vecchia (vedi box a p. 87), rielaborate e trasformate nelle epoche successive. Delle circa trecento chiese – annota lo storico dell’architettura gerosolimitana David Kroyanker –, perlopiú trasformate in moschee, solo poche sono sopravvissute fino a oggi. Tra febbraio
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Sulle due pagine la chiesa di S. Anna, nel quartiere musulmano della Citta Vecchia. Costruita nel 1138, è l’esempio piú rappresentativo dell’architettura sacra crociata di Gerusalemme.
Informazioni utili Jerusalem Development Authority www.itraveljerusalem.com/it/ Ufficio Nazionale Israeliano per il Turismo https://info.goisrael.com/
queste spicca la chiesa del Santo Sepolcro, che ancora oggi si presenta nelle forme assunte durante l’epoca crociata. Un altro esempio principe – e, a giudizio di molti, tra cui lo scrivente, forse il piú bello – dell’architettura sacra di età crociata a Gerusalemme è rappresentato dalla chiesa del monastero di S. Anna. L’edificio sorge nella parte nord-orientale della Città Vecchia, nell’odierno
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quartiere musulmano, sui resti di una precedente chiesa bizantina della metà del V secolo. Il luogo è tradizionalmente associato all’abitazione dei genitori della madre di Gesú, Anna e Gioacchino. Dopo la conquista di Saladino, nel 1187, la chiesa fu trasformata in scuola coranica, come testimonia l’iscrizione posta sopra l’ingresso principale, datata al 1192. La basilica attraversò un lungo periodo di abbandono fino a quando, nel 1856, fu donata dal sultano ottomano Abd al-Majid I a Napoleone III, come gesto di riconoscenza per l’aiuto ricevuto dai Francesi durante la guerra di Crimea. In seguito fu sottoposta a un profondo restauro che ha restituito al monumento il suo originario splendore. La sua architettura espone in maniera nitida e ben riconoscibile l’integrazione di elementi derivati dallo stile romanico europeo con quelli della tradizione architettonica locale, a sua volta composta da apporti bizantini e musulmani. F
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introduzione alla
pittura Romana Il grande naturalista latino Plinio il Vecchio scrive nella Storia Naturale, l’opera che lo ha reso immortale, «ma in verità non c’è gloria se non per gli artisti che dipinsero quadri». Parole che, senza possibilità di equivoco, danno prova dell’importanza della pittura su tavola nel mondo antico e di come in essa si dovesse addirittura riconoscere la grande arte. Prende le mosse da questa affermazione il viaggio che Giulia Salvo, autrice della nuova Monografia di «Archeo», ci fa compiere attraverso una delle espressioni piú vivaci e significative della cultura di Roma. Di quell’arte si conserva un patrimonio considerevole, in larga parte composto dai magnifici affreschi di Pompei ed Ercolano, che, a oggi, sono la testimonianza piú nota della pittura romana. Composizioni che vedevano la luce grazie all’attività di un «esercito» di decoratori e artigiani e che raccontano storie di dèi e di eroi, amori leggendari, ma propongono anche paesaggi esotici, vivaci ritratti e giardini lussureggianti. Dipinti suggestivi, nei quali si mescolavano gli echi della tradizione mitologica, mode, nonché, spesso, il desiderio di autocelebrazione dei committenti.
IN EDICOLA
di Franco Cardini e Antonio Musarra
Urbano II consacra la basilica di San Saturnino a Tolosa, olio su tela di Antoine Rivalz. 1715. Tolosa, Musée des Augustins.
Crociate
La vera storia Spedizione militare, viaggio religioso, itinerario marittimo: se ai tempi della prima spedizione (1096-99) invocata da papa Urbano II la volontà di liberare dall’occupazione musulmana le terre in cui era vissuto Gesú si accompagnò a un grande fervore religioso, in seguito altri fattori decisivi motivarono le campagne in Terra Santa. In un libro appena pubblicato, Franco Cardini e Antonio Musarra riscrivono la storia della crociata, dimostrando come l’onda lunga di quell’epopea sia giunta fino ai giorni nostri. Ne presentiamo, in esclusiva per i nostri lettori, alcuni passi particolarmente significativi
Dossier GUERRA SANTA, JIHAD E CROCIATA
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ata sullo scorcio dell’XI secolo come pellegrinaggio armato, sviluppatasi come guerra per la conservazione o il recupero della Terrasanta, la crociata conobbe un’immediata applicazione quale naturale prosecuzione delle guerre condotte contro i mori nella penisola iberica, i musulmani di Sicilia e i corsari saraceni del Mediterraneo; per venir quindi istituzionalizzata e utilizzata dalla Chiesa ora come mezzo di espansione verso il nord-est europeo, ora come arma di repressione nei confronti di eretici e di nemici politici. Sovente si incontrò con l’ideale della missione, rispetto al quale si configurò ora in opposizione, ora come complemento. Non perse mai, a ogni modo, l’aspirazione alla pace interna della Cristianità: condizione primaria per un’efficace azione contro gli infedeli. Quando, tra XIV e XV secolo, andò profilandosi alle frontiere sud-orientali d’Europa la minaccia ottomana, cambiò nuovamente aspetto per ripresentarsi come guerra di difesa del continente unito e del «suo» mare contro la nuova minaccia barbarica. La politica delle «leghe» contro il Turco, fra Quattro e Settecento, vide l’elemento politico-diplomatico affiancarsi a quello religioso, ma quest’ultimo non sparí mai del tutto, sopravvivendo in particolare nella coscienza collettiva diffusa. A fronte di tutto ciò, cosa sono state, dunque, le crociate? Guerre di religione, guerre ideologiche, guerre coloniali? Il primo esempio di aggressione sistematica dell’Occidente all’Oriente? Un lontano modello dei massacri razzisti? La pubblicistica – medievale e moderna – le presenta, spesso, come bella sacra. Talvolta, l’aggettivo sacrum è
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sostituito, non sempre con la necessaria attenzione ai valori teologici, da sanctum. Tuttavia, all’interno del cristianesimo non è stata mai formulata una vera e propria teologia della «guerra santa»; tantomeno le crociate, spedizioni nate dalla volontà di conquistare, conservare o recuperare i Luoghi Santi e canonisticamente fondate a partire dal Duecento su tale intenzione, sono state mai concepite come «guerre di religione» e ancora meno considerate parallele o alternative rispetto
all’impegno missionario nella conversione degli infedeli. Se, malgrado tutto, episodi di conversione forzata si verificarono, essi non hanno mai ricevuto legittimazione da parte della Chiesa in quanto esito di una volontà missionaria.
Un impegno assoluto
Ciò vale, del resto, anche per l’Islam: il jihad non è una «guerra santa», ma un impegno assoluto (uno «sforzo») assunto in favore di una causa ritenuta teologicamente febbraio
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Nella pagina accanto miniatura raffigurante papa Urbano II che si reca a Clermont, per partecipare al Concilio indetto nell’estate del 1095, da un’edizione del Roman de Godefroy de Bouillon di Guglielmo di Tiro. 1337. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A destra miniatura raffigurante Urbano II che presiede il Concilio di Clermont e predica la crociata (1095), da un’edizione dei Passages d’outremer faits par les François contre les Turcs depuis Charlemagne jusqu’en 1462 di Jean Colombe. 1474-1475. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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La Mappa di Uppsala, pianta della città di Gerusalemme contenuta nell’Historia Hierosolymitana di Robert le Moine. XII sec. Uppsala, Universitetsbibliotek.
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e giuridicamente gradita a Dio, che in qualche caso può essere anche un fatto militare, ma che spesso è di tipo civile, morale o umanitario. Oggi, il termine jihadismo sembra aver sostituito quelli, precedenti, di «fondamentalismo» e di «islamismo». Vero è che esso ha, rispetto a quelli, una sfumatura di legittimità
maggiore: vi sono effettivamente gruppi di musulmani che si definiscono tali in quanto impegnati nel jihad. Ma le cose sono piú articolate. Il diritto musulmano classico distingue il mondo in due grandi parti: il dar al-Islam, nel quale l’Islam è trionfante o decisamente maggioritario e nel quale si vive secondo le sue leggi e la guerra è, piú che proibita, impossibile e improponibile; e il dar al-Harb, abitato dai pagani (cioè dagli idolatri, che debbono scomparire o perché sterminati o perché convertiti) e dalle genti dette ahl al-Kitab («popoli del Libro», cioè monoteisti che conoscono il vero Dio che è stato loro rivelato da un Libro sacro: ebrei e cristiani, ma secondo certe scuole islamiche anche mazdei, mandei, yezidi e buddhisti). Queste genti debbono essere assoggettate all’Islam e riconoscerne la superiorità in quanto «sigillo della Profezia», fede perfetta, ma non possono essere costrette alla conversione all’Islam e possono, con alcune restrizioni civili, restare nel dar al-Islam ed esercitare privatamente il loro culto in quanto dhimmi («soggetti», ma altresí «protetti»). Del resto la parola Harb, «guerra», è l’esatto contrario di Islam, termine strettamente connesso con Salam, «pace»: anzi, dal momento che l’arabo è consonantico, si tratta in ultima analisi della stessa parola, s-l-m, che significa appunto «pace», «concordia», «intimo consenso» (sottinteso: tra volontà divina e volere umano chiamato a conformarsi a essa). Islam è quindi sinonimo di Din («fede»), inscindibile da Dawla («legge»). L’Islam si sorregge su cinque «Pilastri» o princípi basilari (Arkan al-Islam), i cinque essenziali doveri ai quali il buon musulmano deve ottemperare: la professione di fede, la preghiera rituale giornaliera, il digiuno del Ramadan, il pellegrinaggio alla Mecca almeno una volta nella vita e l’«elemosina legale» (zakat). Ma sono molte le scuole giurifebbraio
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Mappa degli Stati latini d’Oriente. Nati dopo le conquiste della prima crociata (1096-1099), furono presto costretti a fronteggiare la controffensiva islamica.
Sultanato di Rum
Contea di Edessa (1098-1146)
Piccola Armenia
Divisioni e guerre interne
Certo è, comunque, che nell’Islam si è fatto spesso ricorso alla dimensione del jihad nel senso di «guerra voluta da Dio e da lui ben accetta». D’altronde l’Islam, pur pretendendo di proporsi come fede unificante e pacificante per tutti i fedeli, fin dalla morte del Profeta ha conosciuto la divisione e la guerra interna (fitna) tra i suoi due gruppi principali, i sunniti e gli sciiti. Tale differenza di confessione corrisponde entro certi limiti anche a una differenza-rivalità etnoculturale: lo sciismo si è affermato soprattutto in area persiana, mentre la «sunna» – largamente maggioritaria – ha riguardato nella quasi totalità gli altri gruppi etnici. Esistono tuttavia sciiti anche fra gli arabi e gli uraloaltaici. La fitna, fra Quattro e Settecento,
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Edessa
Adana Antiochia
Atabeg di Mosul
Aleppo
Principato Regno di Antiochia di Aleppo
Eufrate
(1098-1268)
Regno di Cipro (1192-1489)
Or
Famagosta
Contea di Tripoli (1102-1146)
Nicosia
on
te
Palmira Krak dei Cavalieri Homs
Tripoli Beirut Tiro Montfort Acri Chastel Pélerin Cesarea Giaffa Ascalona Damietta
Beaufort
Le Chastellet
Belvoir
Amman Gerusalemme
Regno di Kerak Gerusalemme (1099-1187)
Califfato fatimide di Egitto (968-1171)
Golfo di Suez
DESERTO DI SIRIA
Ajlun
Gaza
El Mansûra Il Cairo
Regno di Damasco
Damasco
o
Mar Mediterraneo
Giordan
diche che, a questi cinque «Pilastri», aggiungono anche il jihad, che è letteralmente il benemerito sforzo del fedele che volontariamente si impegna in una direzione gradita a Dio. Tale direzione, come si è detto, può anche comportare la guerra, e in effetti ciò è spesso accaduto nel mondo musulmano. In realtà, qualunque impegno anche civile, sociale, umanitario assunto nel nome di Dio e per compiere la Sua volontà è jihad. Che poi nell’Islam, come nell’ebraismo e nel cristianesimo, esista una vera e propria «guerra santa», cioè una guerra che per il solo e semplice fatto di essere combattuta «santifica», vale a dire rende pienamente accetti a Dio, è di per sé improponibile. Non esiste in alcuna delle tre religioni abramitiche una guerra che santifichi solo perché combattuta con uno scopo religioso: l’uomo deve rendere conto a Dio anche dei suoi singoli atti, non solo dello scopo cui essi sono diretti.
(1138-1375)
Stati latini d’Oriente Regno di Gerusalemme Contea di Tripoli
Shawbak Petra
SINAI
‘Aqaba
Mar Rosso
ha assunto anzitutto l’aspetto della lotta tra i due imperi ottomano (sunnita) e safavide persiano (sciita). Ma lo jihadismo è, nella forma in cui lo conosciamo oggi, figlio di una situazione piú complessa che si è andata creando solo a partire dalla fine del XVIII secolo. La crociata, pur ricollegandosi sia al concetto di «guerra santa» sia al concetto di jihad, è un’altra cosa. La sua genesi è lunga e tormentata e prende le mosse quanto meno da Agostino di Ippona, che aveva basato la propria idea di «guerra legalizzata» sul modello delle guerre volute da Dio nell’Antico Testamento. Il bellum era da considerarsi iustum solo se comandato da un’autorità legittima, investita di questo potere da Dio stesso. Ora, nel momen-
Principato di Antiochia Contea di Edessa Principali fortezze crociate Principali fortezze musulmane
to in cui, nel corso dell’XI secolo, si produsse una frattura tra papato e impero, la possibilità di proclamare guerre di questo genere venne immancabilmente meno. A ciò il papato sopperí facendosi interprete del presunto volere divino, legalizzando, sacralizzando e perfino santificando alcune guerre. È il caso, ad esempio, di papa Alessandro II (1061-73) che, scrivendo al clero di Volterra, indicava la procedura da seguire da parte dei combattenti decisi a recarsi nella penisola iberica per combattere i mori: ognuno doveva confessare i propri peccati e ricevere la penitenza piú adatta. «Quanto a noi – afferma il papa – per l’autorità dei santi apostoli Pietro e Paolo, li liberiamo da questa penitenza e rimettiamo i loro peccati».
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Dossier Roma, chiesa dei Ss. Quattro Coronati, cappella di S. Silvestro. Affresco raffigurante Elena, madre dell’imperatore Costantino, che scopre la croce di Cristo a Gerusalemme. 1246.
Non si tratta, ancora, di un’indulgenza, teorizzata solamente in pieno XII secolo, ma di una commutazione: la spedizione faceva le veci della penitenza. In effetti, ciò è quanto avrebbe avuto luogo con la prima crociata. Alessandro II non bandí alcuna spedizione, limitandosi a sostenere un’azione nell’ambito di quella che piú tardi sarebbe stata definita reconquista. Nel novembre del 1095, alla conclusione del concilio di Clermont, papa Urbano II si sarebbe spinto oltre incitando i cavalieri cristiani a un’operazione dagli obiettivi differenti: l’aiuto ai cristiani d’Oriente e forse addirittura, secondo una versione del suo discorso, la riconquista di Gerusalemme. Una spedizione che assunse gli ambigui tratti della «guerra santa», voluta da Dio – «Deus vult!», avrebbero acclamato i partecipanti, secondo qualche cronista – nel momento in cui la Christianitas si convinse che la vittoria sarebbe giunta con l’aiuto del Cielo.
Una «teologia della storia»
L’appello di Urbano II risponde, nei fatti, ai canoni di una vera e propria «teologia della storia»: a causa dei peccati – nostris peccatis exigentibus –, Dio aveva permesso ai saraceni di occupare i Luoghi Santi; tuttavia, Egli perdonava il suo popolo desideroso di correggersi, ed ecco perché adesso recava aiuto alla riconquista cristiana che si realizzava un po’ ovunque: dalla penisola iberica alla Sicilia, all’Oriente. Rispetto alla reconquista iberica e all’azione di contrasto alla pirateria saracena nel Mediterraneo operata dalle città marinare italiane, l’obiettivo gerosolimitano rappresen-
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Dossier Veduta di Gerusalemme, ripresa dalla Valle di Giosafat, dipinto di Louis Auguste de Forbin. 1825. Parigi, Museo del Louvre.
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tava però qualcosa di nuovo. Prendiamo la spedizione che precedette di poco l’impresa, quella di Mahdia, promossa da papa Vittore III nel 1087, alla quale presero parte Pisani e Genovesi: possedeva tutti i crismi della crociata, come l’approvazione papale, la demonizzazione
dell’avversario, il perdono dei peccati per i combattenti, il martirio per coloro che in combattimento avrebbero trovato la morte. E naturalmente le motivazioni materiali, sempre presenti. Ma Gerusalemme era lontana. L’idea di liberare la Città Santa non era, certo, nuova.
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Un’avvisaglia di tale intenzione si era avuta all’inizio del secolo, dopo la distruzione della chiesa del Santo Sepolcro da parte dell’imam fatimide d’Egitto al-Hakim, nel 1009. Un’ulteriore avvisaglia, molto piú chiara, era legata all’arrivo in Levante negli anni Settanta del
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secolo dei Turchi Selgiuchidi, sostituitisi velocemente al piú mite dominio arabo, i quali nel 1071 erano riusciti a sconfiggere, nella piana di Manzicerta, l’esercito bizantino catturando nientemeno che il basileus, Romano IV Diogene. Tre anni piú tardi Gregorio VII,
appena asceso al soglio papale, espresse in almeno sei lettere il proposito di recarsi personalmente in Oriente alla guida di una spedizione, e anche di raggiungere Gerusalemme. Tuttavia, quell’impresa sarebbe stata organizzata effettivamente soltanto alla fine
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Dossier A sinistra miniature raffiguranti, dall’alto, Goffredo di Buglione che prega sul Santo Sepolcro e che poi assume il titolo di Advocatus (Difensore) dello stesso luogo santo, da un’edizione manoscritta dell’Histoire d’Outremer di Guglielmo di Tiro. XII sec. Lione, Bibliotèque municipale. In basso, sulle due pagine miniatura raffigurante un manipolo di cavalieri che raggiunge una fortezza, dall’edizione manoscritta dell’opera poetica L’Entrée d’Espagne. Metà del XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.
compiuto con spirito di penitenza privo di obiettivi mondani. Come interpretare, dunque, la crociata? Come definirne le motivazioni concrete e profonde? Si trattò di una «guerra santa» o di un «pellegrinaggio armato» o di entrambe le cose o di chissà cos’altro? Senza dubbio il fatto centrale è la meta, Gerusalemme, cui si connette tutto un immaginario apocalittico ed escatologico in precedenza assente. Un tratto, questo, sufficiente da solo a fare della crociata (o quantomeno della prima crociata) anche un pellegrinaggio. Ma le opinioni al riguardo sono molte. del secolo. Perché? Diciamo che l’appello di Clermont, oltre a raccogliere attese di lunga durata, colpí l’immaginario di un pubblico assai pronto a recepire un’idea «forte» come quella di procedere manu militari alla liberazione di Gerusalemme. Tale idea intercettò una serie di importanti circostanze: da tempo l’esercito bizantino faceva uso di mercenari occidentali, in genere normanni, i quali negli anni Ottanta del secolo avevano compiuto una serie di raids contro le coste dalmate dell’impero. Il nuovo basileus, Alessio I Comneno, richiese espressamente l’aiuto del papa.
L’esortazione del papa
Nella primavera del 1095, durante un concilio tenutosi a Piacenza, Urbano II ricevette alcuni ambascia-
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tori greci venuti a sollecitare l’invio di un contingente di guerrieri «franchi» da ingaggiare come mercenari. Ciò può aver favorito e, in qualche modo, indirizzato le decisioni papali. Nel novembre successivo, a Clermont, in Alvernia, dopo aver descritto le sofferenze dei cristiani d’Oriente, il papa esortava i cavalieri presenti a partire pellegrini in Oltremare. «A chiunque avrà intrapreso il viaggio per Gerusalemme – si legge in uno dei canoni del concilio – allo scopo di liberare la Chiesa di Dio, ammesso che sia per pietà e non per guadagnare onori e denaro, questo viaggio verrà computato come penitenza completa». Tutto converge. Si ha qui la meta della spedizione: Gerusalemme; il suo scopo: la liberazione dei cristiani; il suo valore di penitenza. E una sola condizione: che il viaggio sia febbraio
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In sintesi, circa la natura delle crociate si sono delineate quattro fondamentali tendenze: i «generalisti» ritengono che il termine «crociata» vada applicato a qualunque forma di guerra giustificata dalla volontà sacrale di riconquistare Gerusalemme (il tormentato tema della «guerra santa»); i «popularisti» (dall’aggettivo sostantivato latino populares, sovente usato specie dai cronisti della prima crociata) pensano che l’essenza della crociata stia nel suo carattere profetico, escatologico, di collettiva esaltazione; i «tradizionalisti» insistono invece sul definire come crociate esclusivamente le spedizioni organizzate per la conquista, la difesa o il recupero di Gerusalemme e del Santo Sepolcro; i «pluralisti», infine, intendono la storia delle crociate nel lungo periodo e guardano ai vari e differenti fronti su cui si sono dispiegate spedizioni militari che hanno assunto il nome di crociata. Quanto ai motivi delle crociate, il campo appare diviso tra i «materialisti» di varia tradizione culturale, che giudicano le ragioni religiose «sovrastrutturali» rispet-
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to alla realtà socioeconomica del mondo eurasiafromediterraneo; e gli «olisti», secondo i quali il vivo processo dinamico di una realtà complessa come quella costituita dal movimento crociato ed espressa dall’idea di crociata va affrontato tenendo presenti tutte le sue componenti, dalla fede religiosa alle istanze di pellegrinaggio, alle attese millenaristiche, agli interessi economici, alle vicende diplomatiche, all’immaginario relativo all’Islam, ai pregiudizi diffusi dalla propaganda e dalla predicazione.
remissione dei peccati, il diffondersi del pellegrinaggio penitenziale, un contesto di riforma ecclesiale e spirituale, le spedizioni genovesi e pisane nel Tirreno dell’XI secolo, le azioni di reconquista nella penisola iberica, una Cristianità d’Oriente in pericolo, un papa coraggioso e, last but not least, Gerusalemme, la Città Santa, meta primigenia di quel pellegrinaggio armato dai caratteri della «guerra santa» che siamo soliti definire crociata. La crociata non è tutte queste cose, ma scaturisce da tutte queste istanze.
Un disordinato insieme di elementi
Nella diversità degli orientamenti, una cosa è certa: per quel poco che è dato saperne, la crociata, nel suo sorgere, è un complicato, disordinato insieme di elementi e di motivazioni. Per parlare di crociata si ha insomma bisogno di numerosi «ingredienti»: sant’Agostino con il suo concetto di bellum iustum, i guerrieri germanici, Carlo Magno e le sue «guerre missionarie», un papato e una Chiesa alla ricerca di difensori, un nuovo concetto di miles Christi, la
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Dossier CRONOLOGIA 330 circa In seguito ai ritrovamenti che, secondo la tradizione, si debbono a sant’Elena, madre di Costantino, vengono fondate a Gerusalemme e a Betlemme alcune basiliche per ricordare i principali momenti della vita del Cristo; inizia la devozione per i Luoghi Santi cristiani. 614 I Persiani del Gran Re Cosroe conquistano Gerusalemme; la basilica della Resurrezione, che accoglie l’edicola del Santo Sepolcro, viene distrutta e la reliquia della Vera Croce portata a Ctesifonte come trofeo di guerra. 622, 15 giugno Ègira (hijrah, migrazione) del profeta Muhammad (Maometto) da Mecca a Yatrib (piú tardi detta Medina, «la Città»). 629 L’imperatore bizantino Eraclio libera Gerusalemme dai Persiani, conquista Ctesifonte e recupera la Vera Croce; si restaura la basilica della Resurrezione. 632 Morte del profeta Maometto a Medina. 638 Il califfo Umar conquista Gerusalemme. 639 Inizia la conquista araba dell’Egitto. 641 Gli Arabi conquistano Alessandria. 647 Inizia la conquista araba dell’Ifriqiyah (corrispondente all’antica provincia romana d’Africa), terminata attorno al 705. 711 Gli Arabo-Berberi avviano la conquista della Penisola Iberica. 732, 25 ottobre Battaglia di Poitiers (la data è quella piú comunemente accettata). 750 Fondazione del califfato abbaside. 756 L’omayyade Abd ar-Rahman I fonda l’emirato di Cordova. 759 I Franchi cacciano i musulmani da Narbona. 762 Fondazione di Baghdad, nuova capitale del califfato abbaside. 797 Avvio delle relazioni diplomatiche fra Carlo Magno e Harun ar-Rashid. 801 I Franchi riconquistano Barcellona. 827 Inizio della conquista aghlabita della Sicilia (completata nel 902). 827-961 Emirato arabo nell’isola di Creta. 833 Conquista musulmana di Palermo. 844 Assalto normanno a Siviglia, respinto da cristiani e musulmani che combattono insieme. 846 Incursione araba su Roma. 847-871 Emirato arabo di Bari. 849 Battaglia di Ostia, conclusasi con la vittoria dei cristiani sugli Arabi. 859 I Normanni incendiano la moschea di Algesiras, in Spagna. 870 Occupazione musulmana dell’isola di Malta. 882-915 Insediamento saraceno al Garigliano. 890-972 Insediamento saraceno a Fraxinetum (La Garde-Freinet), presso l’odierna Saint-Tropez. 902 Conquista musulmana delle Baleari.
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Miniatura raffigurante un cavaliere che riceve il simbolo della croce da un monaco. XIV sec.
910 Fondazione in Ifriqiyah del califfato fatimide sciita. 912 Penetrazione musulmana nell’area del Volga. 915 Fondazione della città tunisina di al-Mahdiyah. 929 L’emiro omayyade Abd ar-Rahman III di Cordova si arroga il titolo califfale. 960-961 I Bizantini riconquistano Creta. 966 I Danesi di Harald Blåtand («Dente Azzurro») assaltano Lisbona. 969 Fondazione del Cairo. 982 A Capo Colonna, in Calabria, i Saraceni battono l’imperatore romano-germanico Ottone II di Sassonia. 985-1003 Ripetuti attacchi saraceni contro Barcellona. 997 Al-Mansûr, vizir del califfo di Cordova, attacca e saccheggia la città di Santiago di Compostella. 1009 Il califfo fatimide d’Egitto al-Hakim fa distruggere la chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme. 1015-1021 Guerre genovesi-pisane contro al-Mujahid, emiro delle Baleari. 1020 Attacco saraceno a Narbona. 1031 Fine del califfato omayyade di Cordova. 1034 Spedizione pisana contro Bona. 1062 Fondazione di Marrakesh. 1063-1064 Campagna di Barbastro, in Aragona. 1064 Presa castigliana di Coimbra. 1085, 6 maggio Alfonso VI di Castiglia conquista Toledo. 1086 Gli Almoravidi sconfiggono i Castigliani a Zallaqa. 1087 Spedizione pisana contro al-Mahdiyah. 1090 Ruggero d’Altavilla occupa Malta e Gozo. 1094, 15 giugno Il Cid conquista la città di Valencia. 1095, 18-27 novembre Concilio di Clermont d’Alvernia. 1096-1099 Prima crociata in Siria-Palestina. Vi partecipano quattro eserciti: Goffredo di Buglione, duca di Lorena, comanda i Lotaringi; Roberto, duca di Normandia, e Roberto, conte di Fiandra, capeggiano i cavalieri della Francia settentrionale; Raimondo, marchese di Provenza, guida i cavalieri della Francia meridionale; Boemondo d’Altavilla è a capo dei febbraio
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Normanni venuti dall’Italia meridionale. 1098, giugno I crociati conquistano Antiochia, della quale si appropria Boemondo d’Altavilla. 1099, 10 luglio Il Cid Campeador muore a Valencia. 1099, 15 luglio I crociati conquistano Gerusalemme. 1100 Baldovino di Boulogne diviene il primo sovrano del Regno «franco» di Gerusalemme. 1102 Gli Almoravidi occupano Valencia. 1108 Vittoria degli Almoravidi sui Castigliani a Uclés. 1113-1115 Spedizione pisano-catalana contro le Baleari. 1118, 19 dicembre Gli Aragonesi conquistano Saragozza. 1128 Concilio di Troyes: la fraternitas dei pauperes milites Templi salomonici viene trasformata in militia (Ordine religioso-cavalleresco). 1145-1146 Papa Eugenio III emana, in due differenti successive redazioni (1° dicembre 1145 e 1° marzo 1146), la Quantum praedecessores, prima vera e propria enciclica regolatrice del movimento crociato. 1147, 13 aprile Enciclica papale Divina dispensatione. 1147, luglio-agosto Campagna tedesco-danese contro i Wendi. 1147, 17 ottobre I crociati prendono Almeria. 1147, 24 ottobre I crociati prendono Lisbona. 1148-1152 Seconda crociata in Siria-Palestina. Vi confluiscono la crociata tedesca, guidata da Corrado III, e quella francese, al seguito di Luigi VII e della moglie Eleonora d’Aquitania. 1148 I crociati prendono Tortosa di Spagna. 1149 I musulmani sgombrano le residue piazzeforti di Catalogna. 1157 Gli Almohadi riconquistano Almeria. 1187 Vittoria saracena a Hattin; il Saladino conquista Gerusalemme. Papa Gregorio VIII promulga l’enciclica Audita tremendi. 1187-1192 Terza crociata. Vi partecipano l’imperatore tedesco Federico I Barbarossa, il re di Francia Filippo Augusto e il re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone. 1195, 19 luglio Gli Almohadi battono i Castigliani ad Alarcos. 1202-1204 Quarta crociata, detta «dei baroni», riuniti sotto il comando del marchese Bonifacio di Monferrato; si conclude con la conquista di Costantinopoli e la fondazione dell’impero latino. 1209 Innocenzo III bandisce la crociata contro gli eretici catari detti «Albigesi». 1210 Predicazione di una nuova crociata nella Penisola Iberica, causata dalla conquista almohade di Salvatierra. 1212 Crociata «dei fanciulli» (o
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«degli innocenti»). 212, 17 luglio Le truppe cristiane franco-ispano1 portoghesi riportano una grande vittoria nella battaglia di Las Navas de Tolosa. 1217-1221 Quinta crociata, organizzata da Andrea II re d’Ungheria e da Leopoldo VI duca d’Austria. Incontro tra Francesco d’Assisi e al-Malik al-Kamil, sultano d’Egitto. 1228-1229 Sesta crociata (crociata di Federico II); Gerusalemme è recuperata per mezzo di un accordo diplomatico con il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil. 1229-1231 Crociata aragonese contro le Baleari. 1232-1253 Crociata aragonese contro l’emirato di Valencia. 1233 Bolla Vox in Roma: papa Gregorio IX proclama la crociata contro gli Stedinger. 1236, 29 giugno San Ferdinando III di Castiglia prende Cordova. 1239 Passagium particulare di Tibaldo IV conte di Champagne e di Brie, re di Navarra. 1244 Rogo degli ultimi difensori catari di Montségur; le milizie nomadi kwarizmiane occupano Gerusalemme. 1248, 23 novembre Ferdinando III di Castiglia conquista Siviglia. 1248-1254 Settima crociata (prima crociata di Luigi IX): spedizione in Egitto del re di Francia. 1258 I Mongoli conquistano Baghdad; fine del califfato abbaside. 1258-59 Crociata guelfa contro Ezzelino e Alberico da Romano. 1267 Completata la conquista cristiana del Portogallo. 1270 Ottava crociata (seconda crociata e morte di Luigi IX, vittima di un’epidemia durante l’assedio di Tunisi). 1274 Concilio di Lione ed emanazione delle Constitutiones pro zelo fidei. 1291 Caduta di Acri. 1300 Giubileo proclamato da Bonifacio VIII. 1307 Inizio del processo ai Templari. 1312 Nel concilio di Vienne, papa Clemente V scioglie l’Ordine del Tempio. 1314 Morte sul rogo di Jacques de Molay, ultimo Maestro dell’Ordine del Tempio. 1340, 30 ottobre Alfonso XI di Castiglia vince i Merinidi del Marocco nella battaglia del Rio Salado. 1355 Assalto genovese a Tripoli d’Africa. 1365, 10-16 ottobre Pietro di Lusignano, re di Cipro, assale e saccheggia Alessandria. Acquamanile di produzione francese raffigurante un cavaliere. XIII-XIV sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello
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Dossier 1380 Dimitri Donskoi, Gran Principe di Mosca, batte i Tartari a Kulikovo. 1388 Genovesi, Pisani e Siciliani occupano l’isola di Jerba. 1389, 15 giugno Battaglia di Cossovo (nell’odierno Kosovo): il sultano ottomano Murad I annienta la potenza serba, ma cade nello scontro. 1390 Crociata franco-genovese contro al-Mahdiyah, guidata da Luigi II duca di Borbone. 1396, 25 settembre Battaglia di Nicopoli; sconfitta dei crociati. 1402 Battaglia di Ankara: il sultano ottomano Bayazet sconfitto e preso prigioniero da Timur Beg (Tamerlano). 1405 Morte di Timur Beg. 1410 I Cavalieri Teutonici vengono sconfitti dai Polacchi nella battaglia di Tannenberg. 1415, 15 agosto I Portoghesi conquistano Ceuta. 1444, 10 novembre Battaglia di Varna; sconfitta dei crociati. 1448, 17-19 ottobre A Cossovo Murad II batte i crociati ungheresi. 1453, 29 maggio Il sultano ottomano Maometto II prende Costantinopoli. 1456, 6 agosto Janos Hunyadi d’Ungheria conquista Belgrado; in segno di festeggiamento si indice la festa della Trasfigurazione. 1459 Convegno di Mantova, indetto da papa Pio II per organizzare una nuova crociata. 1463 I Bosniaci cominciano ad abbracciare l’Islam abbandonando cristianesimo greco e bogomilismo. 1466 I cavalieri teutonici definitivamente costretti alla pace con il regno di Polonia. 1470 I Turchi prendono Negroponte. 1471 I Portoghesi conquistano Tangeri. 1475, 6 giugno I Turchi prendono Caffa. 1480 Approfittando delle divisioni tra i capi tartari, il Gran Principe di Mosca Ivan III sospende il pagamento del tributo a essi dovuto. 1480, agosto Una flotta turca assalta e conquista Otranto; istituzione dell’Inquisizione spagnola. 1481, 3 maggio Muore Maometto II. 1492, 2 gennaio I re cattolici conquistano Granada. 1497-1510 Conquista di varie rocche tra Melilla e Tripoli da parte degli Spagnoli. 1502 Il khanato tartaro dell’Orda d’Oro si scinde nei tre khanati di Khazan, Astrakan e Crimea. 1504, 4 maggio A Venezia il Consiglio dei Dieci discute una proposta di taglio dell’Istmo di Suez. 1516-1518 Guerra fra Turchi ottomani e sultanato mamelucco del Cairo; i Mamelucchi sottomessi agli Ottomani. 1517 Gli Ottomani occupano Gerusalemme, strappandola al controllo mamelucco. 1520-1566 Sultanato di Solimano il Magnifico.
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521, 30 agosto I Turchi prendono Belgrado. 1 1522 I Turchi conquistano l’isola di Rodi, cacciandone i Cavalieri di San Giovanni, ai quali l’imperatore Carlo V concede d’insediarsi a Malta. 1526, 29-30 agosto Vittoria turca a Móhacs; trattato di Madrid fra Carlo V e Francesco I per una «crociata generale». 1529, 10 settembre I Turchi prendono Buda. 1529, settembre-ottobre Primo assedio turco, fallito, di Vienna. 1530 I Cavalieri di San Giovanni si insediano nell’isola di Malta e a Tripoli. 1533 Khair ad-Din («Barbarossa») nominato da Solimano capo della marina sultaniale. 1534 Khair ad-Din saccheggia le coste italiche e occupa Tunisi, cacciandone l’emiro protetto dagli Spagnoli. 1535, giugno-luglio Crociata di Carlo V contro Tunisi. 1535 «Capitolazioni» tra Francesco I e Solimano. 1536 Trattato franco-turco. 1538, settembre Khair ad-Din sconfigge la flotta della Lega veneto-pontificio-imperiale alla Prèvesa, all’imboccatura del golfo di Arta; Solimano conquista Aden per contrastare la penetrazione portoghese nell’Oceano Indiano. 1540 Pace separata di Venezia con Solimano, cui la Serenissima cede le sue ultime fortezze nel Peloponneso. 1541 Fallito attacco di Carlo V ad Algeri. 1543 I Franco-Turchi assediano Nizza. 1544 Convocazione del concilio di Trento; pubblicazione del De orbis terrae concordia di Guillaume Postel. 1546 Morte di Khair ad-Din. 1547 Andrea Arrivabene pubblica a Venezia la prima versione a stampa in volgare italico del Corano. 1550, giugno-settembre Spedizione navale organizzata da Carlo V contro al-Mahdiyah, base del corsaro Turghud Ali («Dragut»). 1552 Conquista moscovita di Khazan, capitale dell’Orda d’Oro. 1551, 14 agosto Gli Ospitalieri di Tripoli si arrendono ai Turchi; il sultano nomina governatore di Tripoli Turghud Ali. 1556 Conquista moscovita di Astrakhan. 1565, maggio-settembre I Turchi assediano senza successo l’isola di Malta. 1560, marzo-luglio I crociati conquistano e quindi perdono di nuovo l’isola di Jerba. 1562, 15 marzo Nel duomo di Pisa viene costituito per volontà di Cosimo I granduca di Toscana il Sacro Militare Ordine Marittimo dei Cavalieri di Santo Stefano. 1565 I Turchi assediano invano Malta; sbarco barbaresco in Andalusia appoggiato dalla popolazione moresca. 1566 I Turchi strappano ai Genovesi l’isola di Chio. 1566, 30 agosto Muore Solimano il Magnifico. 1568 Trattato turco-imperiale di Adrianopoli. febbraio
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1568-1570 Gli Spagnoli soffocano la rivolta dei moriscos. 1569 Progetto ottomano di un canale tra Volga e Don per collegare Mar Nero e Mar Caspio. 1569-1574 Tunisi ripetutamente perduta e ripresa dagli Ottomani. 1570-1572 Guerra di Cipro fra Turchi e Veneziani. 1571, 7 ottobre Battaglia di Lepanto. 1578 Battaglia di al-Qasr al-Kabir e morte di Sebastiano del Portogallo. 1583-1587 Si allacciano rapporti diplomatici e mercantili tra Inghilterra e Impero ottomano. 1593-1606 Guerra austro-turca. 1609, 9 dicembre Editto regale di definitiva espulsione dei moriscos dalla Spagna. 1622 Coadiuvati da forze persiane, gli Inglesi cacciano i Portoghesi dal golfo di Hormuz. 1627 Incursione dei pirati barbareschi in Islanda. 1644-1669 Guerra di Candia fra Turchi e Veneziani. 1664 Il feldmaresciallo Montecuccoli vince i Turchi a San Gottardo sulla Raab. 1672-1676 Guerra turco-polacca. 1677-1681 Guerra russo-turca. 1681-1684 Guerra tra Francia e bey d’Algeri. 1682-1699 Guerra turco-austro-polacca. 1683, 17 luglio-13 settembre Secondo fallito assedio turco di Vienna. 1684-1699 Guerra di Morea fra Turchi e Veneziani. 1685, 25-27 settembre Un bombardamento veneziano dell’Acropoli di Atene danneggia Propilei e Partenone, che i Turchi utilizzavano come depositi di munizioni. 1686, 2 settembre Carlo di Lorena conquista Buda. 1688, 2 agosto Battaglia di Mohacs. 1691 I Turchi sconfitti a Slanhamen. 1691-1698 Escono traduzione latina e commento del Corano del padre Lodovico Maracci. 1696, 28 luglio I Russi prendono Azov. 1697, 11 settembre I Turchi sconfitti nella battaglia di Zenta. 1699, 26 gennaio Pace di Karlowitz. 1711, 21 luglio Pace turco-russa: lo czar costretto a cedere la piazzaforte di Azov. 1715-1718 Guerra turco-veneta detta «di Corfú». 1716, 5 agosto Vittoria di Eugenio di Savoia a Petrovaradin. 1718, 21 luglio Trattato di Passarowitz, redatto in latino e in turco. 1722-1727 Campagne militari russe e turche nel Caucaso. 1729 Esce il primo libro in turco da una tipografia di Istanbul (chiusa nel 1742, riapre nel 1784). 1736-1739 Guerra austro-russo-turca. 1739, 18 settembre Pace di Belgrado.
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742, 9 agosto Prima rappresentazione di Le 1 fanatisme. Mahomet le Prophète, di Voltaire. 1768-1774 Guerra russo-turca. 1774, 21 luglio Trattato di Kuchuk Kainarji fra Russia e Turchia. 1781 Trattato austro-russo per la spartizione dell’Impero sultaniale. 1783-1792 Guerra russo-turca per i territori tartari fra Mar Nero e Mar Caspio. 1792 Trattato di Jassy fra Russia e Turchia. 1793 Riforme del sultano ottomano Selim III («Nuovi Regolamenti»). 1798 Bonaparte in Egitto. 1801 La Russia annette la Georgia. 1804 Attaccando la Persia, la Russia annette Armenia e Azerbaijan; rivolta serba contro il sultano. 1806-1812 Guerra russo-turca. 1816, 9 aprile Alla Camera francese, René de Chateaubriand presenta una mozione per «l’ultima crociata» contro i Barbareschi. 1821-1831 Insurrezione greca e guerra greco-turca; insurrezioni in Valacchia, in Moldavia, in Morea. 1826 Il sultano Mahmud II abolisce il corpo dei Giannizzeri. 1828-1833 Guerra russo-turca. 1830 Occupazione francese di Algeri.
Particolare di una miniatura di scuola turca raffigurante Selim II (1524-1574), sultano dell’impero ottomano. 1570, Turchia. Istanbul, Topkapi Sarayi Muzesi Kutuphanesi (Biblioteca del Topkapi).
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Miniatura raffigurante la presa di Gerusalemme, dalla Cronaca, nota come Bouquechardière, di Jean de Courcy. XV sec. Chantilly, Musée Condé.
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UNA STORIA DELLA CRISTIANITÀ
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a crociata appartiene alla storia della Cristianità. Ciò ha dato spesso scandalo; e non solo nel senso paolino del termine. Nella cultura europea degli ultimi tre secoli – diciamo dall’Encyclopédie in poi –, attorno al suo ruolo nella storia sono andate addensandosi valenze diverse, talvolta sfociate nella polemica. È singolare e paradossale che un contenuto semantico-lessicale tanto «incandescente» si sia insediato in un vocabolo che, nel suo primario significato, ha un valore piuttosto ristretto e sta a indicare nient’altro che una spedizione militare condotta in difesa della Chiesa, con l’obiettivo di conquistare il Sepolcro di Cristo. Il termine cruciata, che affiora tardi, non prima del XIII secolo, fu utilizzato sporadicamente, e si affermò soltanto in età moderna per descrivere la peculiare spedizione militare bandita dal papa mediante uno specifico atto documentario (la bulla cruciatae), da condursi contro musulmani, eretici o nemici della Chiesa. Alla fine dell’XI secolo non esiste dunque alcuna crociata. Esistono, però, i crucesignati: i pellegrini che recano cucito o ricamato sugli abiti il segno della croce, simbolo della loro volontà di raggiungere la Città Santa. Il loro impegno è peregrinatio – pellegrinaggio –, se ci si riferisce alla meta religiosa e alla possibilità di scontare i propri peccati; ma è anche iter – viaggio –, per il suo carattere militare, e passagium – passaggio per raggiungere l’Oltremare –, giacché si viaggia sempre piú spesso per nave. Questa esperienza è dominata da un segno, anzi da un’insegna: la croce. Simbolo centrale e solare, diffuso in molti sistemi mitico-religiosi, passato da stilizzazione del patibolo riservato agli schiavi condannati a morte a insegna di trionfo e vittoria. Il cammino che porta la croce a essere emblema dell’identità reli-
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giosa del popolo cristiano ha inizio nel IV secolo, sia con Costantino, «cristianizzatore» dell’impero, sia col miracoloso ritrovamento della reliquia della Vera Croce, a Gerusalemme, per opera dell’imperatrice madre, Elena: vera fondatrice della Gerusalemme cristiana e ideatrice della città-santuario. Intorno al legno della croce, diviso in frammenti, i piú importanti dei quali vengono portati a Roma e a Costantinopoli, nel corso dei secoli sorgerà una leggenda destinata a campeggiare in tutto l’immaginario cristiano, allungando la propria ombra ben oltre l’età medievale. Assieme alla croce, ulteriore protagonista della crociata fu Gerusalemme. Si è visto, tuttavia, come nel corso della propria storia la crociata abbia finito col perdere di vista la Città Santa, anteponendole altri obiettivi: i mori, i greci scismatici, gli eretici, i pagani, i nemici politici del papato o del mondo cristiano, i Turchi. Gerusalemme, a ogni modo, restò sempre il fondamento e la misura di ogni spedizione bandita in nome della croce, di fatto equiparata a quella compiuta per la sua conquista, la sua difesa o la sua riconquista.
Pellegrinaggio armato
Ora, giacché la dimensione originaria del rapporto tra il cristiano e Gerusalemme, desunta dalla grande tradizione ebraica ma anche da modelli pagani, è quella del pellegrinaggio, la crociata assume sin dal suo primo apparire i tratti precipui del pellegrinaggio armato. Le scoperte – presunte o reali – di Elena donano concretezza al desiderio del popolo cristiano di entrare in contatto fisico con i Luoghi Santi. Poiché non tutti possono compiere il pellegrinaggio, costoso e pericoloso, spesso imposto come penitenza, in tutta Europa sono eretti santuari
che riproducono le forme della basilica o dell’edicola del Santo Sepolcro, dando corpo alla lectio che ogni città «è» Gerusalemme. Tuttavia, l’attenzione per la Gerusalemme terrena – corrispettivo, in certo qual modo, di quella celeste – ha accompagnato a lungo la Cristianità, sino ai nostri giorni, seguitando a ispirare torme di pellegrini. È dunque nel suo solco che si inserisce la risposta all’appello pronunciato da papa Urbano II nel 1095 a Clermont, in Alvernia, con cui prende tradizionalmente avvio la storia delle crociate. Nel richiamarsi a Gerusalemme, il papato, allora impegnato in un’importante opera riformatrice finalizzata a ricucire una Cristianità lacerata dalla lotta tra le due massime autorità universali del tempo, esprime il desiderio di recuperare la semplicità evangelica perduta nella corruzione. La visione convenzionale della crociata, che fissa l’obiettivo esclusivamente alla Siria-Palestina, è profondamente radicata in tali suggestioni. Tuttavia, non si comprende appieno il movimento crociato se non si collegano strettamente i fatti siro-palestinesi a quelli mediterranei ed europei. Lo spirito di crociata non si esaurí con il fallimento delle spedizioni in Terrasanta, relativamente consuete fra XII e XIII secolo. Mai si parlò tanto di crociate o «guerre sante» contro l’infedele come nell’Europa rinascimentale e barocca. Da questo punto di vista, la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso è il frutto, poetico, della battaglia di Lepanto e della reazione europea alla minaccia turca che incombeva sui Balcani. Gli Ottomani, che assediarono Vienna due volte – nel 1529 e nel 1683 –, dilagavano nel Mediterraneo sfruttando il dinamismo dei corsari barbareschi, ai quali la Cristianità contrapponeva
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Dossier le marinerie degli ordini di Malta e di Santo Stefano, dedite ad attività non poi cosí diverse. Vi è chi ha visto in tali spedizioni la forma medievale e cristiana di un inevitabile e continuo conflitto strutturale e geopolitico che avrebbe contrapposto, quantomeno dal VI-V secolo a.C., l’Oriente all’Occidente. Altri hanno rivendicato, invece, l’originalità di quelle spedizioni, non riscontrabile in ulteriori esperienze. Ai primi si può obiettare che, connaturato alla crociata, v’è un elemento religioso che si può valutare in modi differenti, ma non ignorare o negare, tale comunque da rendere la tesi del conflitto permanente schematica e generica. Ai secondi si può rispondere che nella vita giuridica e culturale dell’Occidente l’idea di crociata, unita a quella della lotta anti-turca e della difesa etno-religiosa del continente europeo, non è affatto esclusiva del Medioevo; anzi, la sua definizione è molto tardiva e la sua pratica perdurò a lungo.
Un’idea duttile
Alla luce di quell’ideale, continuamente ridefinito e rivissuto, gli Europei condussero le proprie guerre contro la potenza ottomana fino al Settecento, rielaborandone poi la memoria in base alla sensibilità romantica e alle esperienze colonialistiche. Insomma: il nostro immaginario relativo alle crociate deve molto di piú a Torquato Tasso e a Walter Scott che alla realtà dei fatti. Certo, l’idea di crociata si è rivelata, nel tempo, estremamente duttile. I mutamenti cui essa è andata incontro sono stati variamente intesi: ora come «ampliamento» delle sue caratteristiche fondanti; ora come pura e semplice «deviazione» dai suoi intenti originari. Ciò non toglie che nell’Europa tardomedievale e protomoderna sia andata costruendosi una «cultura della crociata» passata dal diritto canonico alla letteratura, alla musica, alle arti, alla propaganda popolare, al sentire
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comune. Alimentandosi di gesti, di riti, di tradizioni, essa è stata capace di giungere sino alle polemiche illuministiche, al risveglio romantico e ai piú recenti e piú scopertamente strumentali revival politici, come quelli verificatisi durante le due guerre mondiali o nel corso della guerra civile spagnola del 1936-39. Un’idea-forza che fu soprattutto un fattore di aggregazione, perfino di unità o di definizione di una identità, e che però dobbiamo smettere di collegare in modo unilaterale alla Terrasanta e ai secoli XI-XIII. Tale idea va letta nella complessa dinamica dell’intero secondo millennio dell’era cristiana, non senza aver sgombrato il campo da pregiudizi di vecchia data. La realtà è che la crociata conobbe un lungo Nachleben e molti revival. Si potrebbe anzi dire che, tra la spedizione di Nicopoli del 1396 e la battaglia di Lepanto del 1571, la Cristianità europea abbia vissuto un vero e proprio «autunno della crociata»; un lungo autunno,
che giunge forse fino al secondo assedio di Vienna e oltre. La crociata: una sorta di «Balena bianca» che ha attraversato la storia della Cristianità occidentale fino a quando essa è stata definibile come tale, e cioè fino al secolo XVI; quindi dell’Europa finché è rimasta cristiana, vale a dire fino al Settecento; poi dell’Europa moderna per tutto l’Ottocento e parte del Novecento; infine di quella realtà ardua a definirsi che gli ambienti neoconservative e theoconservative amano chiamare «il nostro Occidente». Proprio da tali ambienti ha preso avvio una rivalutazione pseudostorica, strumentale delle crociate, viste come guerre di difesa della Cristianità attaccata dall’Islam, e si è diffusa la vulgata di uno «scontro di culture». Come abbiamo detto, sottoposte a un esame serio e non ideologicamente viziato, queste tesi rivelano tutta la loro inconsistenza, direttamente proporzionale all’attenzione mediatica di cui godono.
LE CROCIATE VISTE DAGLI ARABI
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a predicazione della fede, l’espansione degli interessi coloniali, le missioni cristiane, l’esportazione delle libertà politiche e del progresso civile, sociale e tecnologico ai popoli fuori d’Europa – insomma: ciò che Kipling avrebbe definito «il fardello dell’uomo bianco» – hanno concorso, variamente miscelate, alla giustificazione delle avventure asiatiche e africane dei popoli europei. In tale contesto è capitato fra Otto e Novecento (e, piú pretestuosamente ancora, all’alba del nuovo millennio) di veder balenare – in genere, come espediente propagandistico – il vessillo crociato. Era accaduto nella spedizione francese in Tunisia del 1881-83; in quella del generale britannico Charles George Gordon nel Sudan contro il mahdi Muhammad Ahmad del 1884-85; nell’occupazione italiana della Tripolitania del 1911-12; nel-
la campagna spagnola del Rif tra il 1921 e il 1926, nel corso della quale si era distinto il galiziano Francisco Franco, piú tardi caudillo di un’altra cruzada; perfino, nelle due guerre italiane contro l’Etiopia. Sono queste le «crociate» che oggi alcuni musulmani nel nome dell’intero Islam rinfacciano all’Europa, anche se accade spesso di sentir affermare – e non solo da parte islamica – che il primo non ha mai perdonato alla seconda le sette-otto spedizioni che ordinariamente si contano nei manuali scolastici. La realtà è ben diversa: il mondo islamico non si era accorto delle crociate, non le aveva distinte dalle incursioni dei barbari «franchi», non aveva mai sospettato che esse poggiassero su basi teologiche e giuridiche. In realtà, furono i figli dei ceti dirigenti e «illuminati» del mondo musulmano che, nell’Ot-
tocento, conquistati e affascinati dall’Occidente, e sognando un domani rinnovato, a Oxford, a Cambridge, alla Sorbona, impararono che nei secoli addietro l’Europa si era data a un complesso tentativo di impadronirsi del loro mondo, e che tale aggressione poteva essere considerata il diretto antecedente del colonialismo moderno.
L’omaggio del kaiser
Tale visione scorgeva nel Saladino un eroe del jihad passato e futuro contro gli infedeli: è lui che il kaiser Guglielmo II, giunto a Damasco nel corso del suo trionfale viaggio del 1898 come alleato dell’impero turco, omaggiava recando al sacello saladiniano, presso la moschea umayyade, preziosi e devoti doni. Egli visitò molte aree dell’Islam: da Istanbul a Gerusalemme, dove aveva patrocinato la costruzione delle grandi chiese luterane della Dormizione sul Sion e di Santa Maria presso il Santo Sepolcro fino a Tangeri, dove aveva rassicurato gli alleati contro i rischi dell’entente cordiale franco-inglese. Il suo era il tributo romantico e cavalleresco di chi volentieri si inchinava dinanzi alla grande cultura islamica: la stessa a cui, del resto, avevano reso omaggi il Goethe del West-östlicher Divan, il Wagner del Parsifal, il Nietzsche dello Zarathustra. Ma si trattava di esiti recenti, recentissimi. Tale interesse ormai maturo – anche se spesso ingenuo e confuso – da parte degli Europei per i musulmani era ricambiato? In realtà, nonostante alcune eccezioni, buona parte del mondo Miniatura raffigurante cavalieri crociati che sono vittime di un agguato dei Saraceni, da un’edizione delle Chroniques de France ou de Saint Denis. Secondo quarto del XIV sec. Londra, The British Library.
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Per una nuova conoscenza
Estrapolazioni pericolose Abbiamo accennato ai punti nevralgici insoluti che ostacolano il riavvicinamento fra mondo orientale e occidentale. A conclusione di queste pagine, ci limitiamo a una sola, ma a nostro avviso cruciale, esortazione: poiché la tolleranza si costruisce attraverso la conoscenza, una volta per tutte sarebbe opportuno abbandonare la cultura della «citazione avulsa»; non giova a nessuno isolare spezzoni di teologia o di diritto musulmani ed evocare
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versetti coranici estrapolati dal loro contesto, privi di qualunque sistemazione critica, per dimostrare che l’Islam è sinonimo di violenza. A colpi di estrapolazioni, di citazioni manipolate, di confusione fra teorie teologiche e avvenimenti storici a loro volta decontestualizzati, non si farebbe fatica a provare anche la natura sanguinaria della Bibbia; cosí come si potrebbe sostenere il carattere feroce e liberticida dell’ebraismo o del cristianesimo, perfino di certi
ambienti buddhisti, per non parlare dalle varie ideologie occidentali razionaliste e laiciste nate all’ombra dell’Illuminismo. Come replicare allora agli sconsiderati jihad scatenati contro l’Occidente da minoranze irresponsabili o da criminali politici, piú o meno oscuramente manovrati, che pretendono di agire nel nome di tutto l’Islam? Di certo non con nuove crociate: la conoscenza della lunga storia della crociata almeno di questo deve renderci consapevoli. febbraio
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La presa di Granada, olio su tela di Carlos Luis de Ribera y Fieve. 1890. Burgos, Cattedrale.
l’Occidente si è reso responsabile. Si tratta però di una posizione soprattutto demagogica. A parte l’impossibilità di paragonare crociate e campagne colonialistiche moderne, resta il fatto che mancano tracce della continuità di tale memoria: se nella cultura dei musulmani e degli ebrei cacciati dalla Spagna fra Quattro e Cinquecento il ricordo, il rimpianto, la nostalgia di al-Andalus e di Sefarad si sono tramandati, vivi e struggenti, di generazione in generazione, niente del genere è avvenuto per le spedizioni crociate. È solo dal secolo scorso, attraverso la storia occidentale, che il mondo musulmano si è riappropriato della loro conoscenza, come tappa nel processo di costruzione di un’identità non piú esclusivamente religiosa, bensí anche patriottico-culturale. Ciò non è accaduto a caso.
politica, i suoi intellettuali e i suoi giuristi-teologi. Nel mondo laicistico occidentale, per contro, si debbono individuare i fautori di un’equivalenza sostanziale tra crociata e jihad, sbrigativamente equiparati per mezzo del concetto alquanto sfuggente di «guerra santa». Di queste incomprensioni non dovremmo stupirci piú di tanto. La convinzione che l’Islam sia qualcosa di monoliticamente compatto sopravvive in larghi strati dell’opinione pubblica europea, magari in modo implicito. Ne è prova il fatto che l’attuale risveglio musulmano, dai tratti tutt’altro che omogenei, è spesso interpretato in modo univoco, come «terza ondata» delle tre che storicamente si sono abbattute sul mondo occidentale: quella dell’Islam giovanissimo, tra VII e X secolo, quindi quella turco-ottomana, fra XIV e XVIII secolo, e infine l’attuale. V
Una minacciosa tenaglia
musulmano ignorava le abitudini di quello europeo. L’atteggiamento culturale predominante imponeva inoltre un generale disinteresse per le culture diverse dalla propria, ritenute inferiori. Alla luce di ciò, si comprende bene il motivo per cui i musulmani non abbiano mai sospettato l’esistenza di una qualche elaborazione giuridica e concettuale del fenomeno: al punto da definire le crociate semplicemente come «guerre dei Franchi», e solo di recente – a contatto con la storiografia occidentale – «guerre della croce». Oggi si insiste molto sulla memoria delle crociate in tutto il mondo arabo – e, anzi, in tutto l’Islam – come momento fondamentale nella catena di soprusi e di violenze di cui
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Per secoli, cristiani e musulmani hanno avuto difficoltà a riconoscere e a comprendere gli uni le articolazioni interne dei sistemi degli altri. Fin dal Medioevo, la Cristianità – che idealmente concepiva se stessa come un tutto unico, stretto attorno ai suoi luminaria: papa e imperatore – ha immaginato l’Islam come una gigantesca, minacciosa tenaglia la cui morsa stringeva territori che andavano dall’Anatolia alla Spagna. Non valeva che i musulmani, dappertutto, si combattessero tra loro: l’idea invalsa era che il mondo islamico disponesse di una Chiesa organica e gerarchica, il cui papa era il califfo. Non stupisce che, specie a livello popolare, l’Islam abbia mantenuto nei confronti dell’Occidente una visione analoga. Le crociate, dunque, appartengono non già alla memoria storica dell’Islam ma all’uso che della storia hanno fatto la sua classe
Da leggere Franco Cardini, Antonio Musarra, Il grande racconto delle crociate, Il Mulino, Bologna, 522 pp., ill. col.
48,00 euro ISBN 978-88-15-2853-2 www.mulino.it
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CALEIDO SCOPIO
Visioni di un mistero LIBRI • Una selezione mirata di rappresentazioni
della rinascita alla vita del Salvatore dà vita a un’antologia di grande interesse, ricca di spunti di approfondimento e confronti stimolanti
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inquanta opere illustri compongono questa sorta di museo immaginario della Risurrezione allestito da François Bœspflug ed Emanuela Fogliadini. Pur non avendo goduto della stessa fortuna accordata ad altri grandi temi religiosi – come la Natività o la Passione –, il ritorno alla vita del Salvatore ha comunque attirato l’attenzione di una schiera foltissima di artisti, molti dei quali, forse, furono indotti ad affrontarlo dallo stesso misto di stupore e scetticismo palesato dall’apostolo Tommaso dopo i fatidici tre giorni. La rassegna è ordinata in ordine cronologico ed è opportuno segnalare, in questa sede, che le composizioni prettamente medievali ne coprono all’incirca la prima metà. Ma proprio dal confronto con le composizioni successive scaturisce uno degli elementi di maggior interesse del volume, costituito dalla possibilità di verificare come determinate soluzioni siano rimaste pressoché inalterate nell’amplissimo arco cronologico abbracciato dal libro. Per ciascuna delle opere selezionate, gli autori offrono al lettore informazioni di carattere tecnico e storico, alle quali aggiungono note sulla destinazione funzionale e sul carattere del messaggio
Gruppo reliquiario scolpito raffigurante l’uscita dal Sepolcro. 1290. Wienhausen (Germania), Abbazia.
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che, di volta in volta, al di là della celebrazione dell’episodio, si era voluto trasmettere.
Dall’Europa all’America La raccolta offre un repertorio variegato, non solo dal punto di vista stilistico e cronologico, ma anche in termini geografici – come del resto lascia intendere il sottotitolo del volume –, spaziando dall’Italia all’Armenia, dall’Etiopia al Colorado. È cosí possibile mettere a confronto immagini celeberrime e ormai iconiche – quali il giottesco Noli me tangere della Cappella degli Scrovegni o l’Uscita dal Sepolcro di Piero della
François Bœspflug ed Emanuela Fogliadini La Risurrezione di Cristo Nell’arte d’Oriente e d’Occidente Jaca Book, Milano, 224 pp, ill. col. 70,00 euro ISBN 978-88-16-60591-6 www.jacabook.it Francesca – con declinazioni meno popolari, ma non per questo meno efficaci, come quelle realizzate in area slava e balcanica. Ad accomunare pittori, scultori e miniatori figli di tradizioni culturali fra loro distanti è la capacità di farsi veicolo del messaggio di speranza che la Risurrezione trasmette ai fedeli. Un messaggio, soprattutto nelle opere del pieno Medioevo, reso talvolta con soluzioni quasi naif, ma sempre espresso con decisione. Al quale fa da contraltare il desiderio di sottolineare quanto mal riposto potesse essere lo scetticismo nei confronti del mistero che costituisce uno dei cardini della religione cristiana. Stefano Mammini febbraio
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Lo scaffale La fase altomedievale è stata ampiamente indagata ed evidenziata, cosí come le testimonianze romaniche legate alla presenza normanna, Posa Edizioni, Mottola (TA), ma il santuario ha 308 pp., 91 figg. b/n rivestito un ruolo 30,00 euro ISBN: 978-88-944-4182-6 di spicco anche in https://posaedizioni.it/ età angioina, come Il santuario di S. prova un’ampia Michele Arcangelo serie di realizzazioni sul promontorio architettoniche del Gargano gode e scultoree. Al di ampia notorietà, culmine di questo periodo la stessa cattedrale di Napoli viene condedicata all’Arcangelo (1412), ma già nell’importante testamento con cui la regina Maria d’Ungheria commissiona a Tino di Camaino il proprio monumento funerario (1326), a S. sia per gli aspetti Maria Donnaregina, prettamente si dispone anche storico-religiosi, sia l’esecuzione di una per l’importanza statua d’argento di san archeologica e storicoMichele, da destinare artistica. È luogo di proprio al santuario pellegrinaggio tra i piú pugliese. E se questa frequentati in tutto il opera è andata corso del Medioevo, perduta, la realtà grazie alla grotta monumentale del in cui l’Arcangelo complesso micaelico sarebbe apparso, offre all’attenzione ed è una cospicua un corpus artistico testimonianza sul angioino davvero ruolo dei Longobardi cospicuo, ma che, Martín in Ondas. Italia, tanto da Codax, finora, non era stato Cantigas de inAmigo essere incluso un trattato in maniera Biffi, Pierre Hamon e sitoVivabiancaluna seriale UNESCO approfondita (A390), 1 CD unitaria. Il requisito delArcana Patrimonio www.outhere-music.com mondiale dell’Umanità, principale del libro di denominato appunto Marcello Mignozzi sta Italia Langobardorum. proprio nel proporsi Marcello Mignozzi Gigli di Francia, pietre del Gargano. L’apparato scultoreo del Santuario micaelico in età angioina: un’antologia critica
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sin dal titolo come un’antologia dell’arte di età angioina nella realtà del S. Michele, con uno scrupolo e una intensità che interessano allo stesso modo gli interventi strutturali cosí come i singoli monumenti sepolcrali. Il quadro non si ferma quindi al campanile ottagonale e all’assetto attuale della grotta, con il diretto interessamento (in prima battuta) del re Carlo I, ma investe aspetti decorativi e figurativi di numerosi apparati, di vario impatto e su un ampio arco cronologico, fino agli inizi del XV secolo. Emerge cosí il senso di una centralità religiosa, politica e culturale che perdura indisturbata fino al tardo Medioevo, facendo in modo che Monte Sant’Angelo recepisse anche nei suoi aspetti piú sfuggenti le indicazioni di gusto che provenivano da Napoli, la capitale del Regno, con interazioni assai suggestive con l’arte locale, ma anche con gli stili di altre aree del versante adriatico, dall’Abruzzo alla stessa Venezia. Il volume indaga questa casistica in modo chiaro e serrato, avvalendosi di un ampio apparato
iconografico, piacevole e funzionale, in larga parte predisposto dall’autore in persona. La presentazione visiva crea cosí una perfetta alchimia con lo sviluppo dell’analisi. Furio Cappelli Francesca Ceci, Vincenzo Fiocchi Nicolai, Giancarlo Pastura (a cura di) Le catacombe della Tuscia viterbese. Contributo alla storia del territorio nella tarda antichità e nell’altomedioevo
loro utilizzatori ai ritrovamenti archeologici effettuati al loro interno, senza tralasciare il rapporto con i centri, piú o meno grandi, a cui afferivano. Fra gli altri, il contributo di Vincenzo Fiocchi Nicolai fornisce un aggiornamento sulle realtà attuali delle chiese e dei cimiteri cristiani tardo-antichi nelle diocesi della Tuscia Viterbese, mentre altri articoli hanno esaminato
Spolia, Journal of Medieval Studies, numero speciale 2019, Fregene (Roma), 346 pp., ill. b/n
24,00 euro ISSN 1824-727X www.spolia.it
Il volume costituisce la pubblicazione degli atti del convegno svoltosi nel 2017 a Soriano nel Cimino (Viterbo), con l’intento di fare il punto sul tema delle catacombe del settore settentrionale del Lazio e per riportare le catacombe viterbesi all’attenzione del mondo scientifico per promuoverne la conoscenza e la valorizzazione. I contributi prendono in considerazione i molteplici aspetti inerenti i cimiteri sotterranei, dalla planimetria alle decorazioni pittoriche, dall’identità dei
i siti del Viterbese, affrontando temi come la conformazione e le peculiarità degli impianti funerari, le testimonianze epigrafiche, pittoriche e agiografiche connesse con i martiri venerati. Ne risulta un contributo aggiornato alla storia tardo-antica di questo territorio e una nuova base da cui procedere per nuove future ricerche. Eleonora Storri
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CALEIDO SCOPIO
Se la Commedia incontra la musica MUSICA • Il capolavoro dantesco è ancora una
volta il filo conduttore del progetto realizzato dalla Camera delle Lacrime. Con letture di versi tratti dal Purgatorio a fare da contraltare a suoni e voci
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a Camera delle Lacrime, diretta da Bruno Bonhoure per la parte musicale e da Khaï Dong Luong per quella scenica, torna a occuparsi della Divina Commedia, presentando, come seconda tappa di una trilogia dantesca, una proposta avvincente, dedicata al Purgatorio. Recitazione e musica, aspetto sonoro e visivo giocano simbioticamente nell’opera, in un continuum narrativo-musicale
celestiali, che preludono ai cori angelici del Paradiso. Il cambiamento del paesaggio poetico ha indotto il direttore Bonhoure ad attingere ampiamente a brani della tradizione monodica liturgica, ma senza precludersi il ricorso al repertorio profano. Numerosi sono gli incontri, nelle sette cornici del Purgatorio, di poeti-musici, come il Sordello, Arnaud Daniel, Guido Guinizelli, di cui si ascoltano anche vari brani. In alcuni casi viene adottata la contaminazione, con testi adattati ad altre melodie e viceversa, che è poi una prassi – quella del contraffatto – molto praticata nel Medioevo e oltre.
Coerenza cronologica
di grande potenza evocativa. Come già nella registrazione dedicata all’Inferno, i brani riuniti nel disco sono dunque accompagnati da letture in italiano e in traduzione francese di versi tratti dai canti del Purgatorio. Rispetto all’Inferno, si percepisce, già dai primi ascolti, il cambiamento di atmosfere e anche l’elemento musicale si fa qui piú preponderante. Sono infatti molteplici le descrizioni di musiche
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Dal punto di vista cronologico, la scelta dei brani della tradizione liturgica e provenzale rientra perlopiú all’interno del periodo in cui fu composta la Divina Commedia, salvo caso come quello di un Te Deum polifonico di Gilles Binchois (1400-1460), piuttosto lontano dal contesto originale del poema dantesco. In ogni caso, se si escludono simili «licenze» poetiche, il panorama musicale evocato risulta sempre di grande fascino e le scelte musicali di Bonhoure assecondano appieno le scelte registiche di Khaï
Purgatorio La Divine Comédie-Dante Alighieri La Camera delle Lacrime, direttori Bruno Bonhoure e Khaï Dong Luong La Camera delle Lacrime, 1 CD www.lacameradellelacrime.com Dong Luong che l’accompagna in questo affascinante progetto dantesco. La recitazione, affidata all’attore Matthieu Dessertine e a Bruno Bonhoure per i passaggi in italiano, viene efficacemente proiettata nella narrazione dantesca, soprattutto grazie alla vicinanza con lo stile dei cantastorie, mettendo ancor piú in risalto il pathos narrativo. Notevoli sono anche i solisti della Camera delle Lacrime, veri e propri «poliglotti» musicali, che hanno il pregio di auto-accompagnarsi agli strumenti: VivaBiancaLuna Biffi (voce e viella ad archetto), Leah Stuttard (voce e arpa), Pierre Hamon (flauti, cornamusa e tamburo); un ensemble «misurato», che, come già detto, ammicca a modalità narrative tipiche di un contesto popolare perfettamente adeguato a questo progetto musicale. Franco Bruni febbraio
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