M DI TA OS B D TR AR DE A A TO O PE LO RU GI A IN
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STORIE DI UN MARTIRIO INVENTATO
TRADIZIONI
MIRACOLO AD AMSTERDAM
MEDIOEVO NASCOSTO
L’EPISCOPIO DI VENTAROLI
DOSSIER
L’INGHILTERRA DI ENRICO II
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SIMONINO DA TRENTO MIRACOLO AD AMSTERDAM TADDEO DI BARTOLO VENTAROLI DOSSIER ENRICO II D’INGHILTERRA
TRENTO 1475
Mens. Anno 24 numero 278 Marzo 2020 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
MEDIOEVO n. 278 MARZO 2020
EDIO VO M E
IN EDICOLA IL 3 MARZO 2020
SOMMARIO
Marzo 2020 ANTEPRIMA
Dossier
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MEDIOEVO INVENTORE Le campane
Fede, allarmi e altri rintocchi
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SCOPERTE La terza vita dell’asilo
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MOSTRE Quella fragile bellezza C’era una volta una quercia...
14 16
ITINERARI Tesori d’una terra di frontiera
20
Enrico II IL GRANDE PLANTAGENETO
di Tommaso Indelli
APPUNTAMENTI La settimana delle confraternite 28 L’Agenda del Mese 32
STORIE TRENTO Simonino e il martirio che non c’era di Lorenza Liandru
40
LUOGHI
40
MEDIOEVO NASCOSTO I colori della devozione di Corrado Valente
104
CALEIDOSCOPIO LIBRI Visioni di un mistero Lo Scaffale
COSTUME E SOCIETÀ PAESI BASSI Miracolo ad Amsterdam di Aart Heering
MOSTRE Perugia La prima volta di Taddeo di Gail E. Solberg
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M DI TA OS B D TR AR DE A A TO O PE LO RU GIA IN
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SIMONINO DA TRENTO MIRACOLO AD AMSTERDAM TADDEO DI BARTOLO VENTAROLI DOSSIER ENRICO II D’INGHILTERRA
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STORIE DI UN MARTIRIO INVENTATO Mens. Anno 24 numero 278 Marzo 2020 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
MEDIOEVO n. 278 MARZO 2020
MEDIOEVO
Hanno collaborato a questo numero: Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Aart Heering è giornalista. Tommaso Indelli è assegnista di ricerca in storia medievale presso l’Università degli Studi di Salerno. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Lorenza Liandru è co-curatrice della mostra «L’invenzione del colpevole. Il “caso” di Simonino da Trento, dalla propaganda alla storia». Andrea Nante è direttore del Museo Diocesano di Padova Chiara Parente è giornalista. Stefania Romani è giornalista. Gail E. Solberg è storica dell’arte. Corrado Valente è architetto. Tiziano Zaccaria è giornalista.
IN EDICOLA IL 3 MARZO 2020
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20/02/20 15:53
MEDIOEVO Anno XXIV, n. 278 - marzo 2020 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it
Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI)
Illustrazioni e immagini: Cortesia Museo Diocesano Tridentino, Trento: copertina (e pp. 40/41) e pp. 42-53 – Doc. red.: pp. 5, 56/57, 58/59, 60-68, 86/87, 89, 90-91, 94, 98-99, 102 – Cortesia Associazione Luce Nascosta: Matilde Castagna: pp. 6-9 – Cortesia Studio Esseci, Padova: pp. 10-14, 16-18 – Cortesia degli autori: pp. 20/21 (alto), 21 (alto), 22-24, 104-105, 106, 107-111 – Cortesia Giovanni Bolla: pp. 21 (centro), 20/21 (basso) – Shutterstock: pp. 29 (alto), 100 – Max Ponzi: pp. 28, 29 (basso) – Mondadori Portfolio: Album: p. 59; AKG Images: pp. 85, 92/93, 95, 97, 100/101, 102/103; Mauritius Images/Steve Vidler: pp. 94/95; Erich Lessing/Album: p. 96– Cortesia Ufficio Stampa CLP, Milano/Galleria Nazionale dell’Umbria, Perugia: pp. 70-83 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 88, 106 – Cippigraphix: cartina a p. 92.
Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno.
Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.
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Impaginazione Alessia Pozzato
In copertina Compianto sul corpo morto di Simonino da Trento, gruppo in legno intagliato, dipinto e dorato della bottega di Daniel Mauch. Primo-secondo decennio del XVI sec. Collezione privata.
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Prossimamente pisa
Il nuovo Museo dell’Opera del Duomo
storie
Glisente, l’eremita che parlava agli orsi
dossier
Bestie, animali fantastici e altre storie
MEDIOEVO INVENTORE a cura di Federico Canaccini
Fede, allarmi e altri rintocchi
S
e in Cina, India e in altri Paesi asiatici le campane sono conosciute dagli albori dell’epoca storica, in Occidente i primi manufatti in metallo, fusi per richiamare le comunità religiose, furono realizzati in età tardo-antica: la tradizione ne attribuisce la primogenitura addirittura a Paolino di Nola, nel 420. La campana è uno strumento musicale particolare, unico nel suo genere. A forma di vaso rovesciato, veniva fusa in bronzo, appesa, e percossa da un battente interno (batacchio) o da uno esterno (martello). Talvolta furono costruiti automi che percuotevano la campana con enormi martelli: si pensi a quelli di Orvieto, Venezia o Perugia. Questi automi avevano dei nomi (a Orvieto, per esempio, si chiamava Maurizio) e avevano spesso le fattezze dei Mori, come la coppia che ancora si vede in piazza San Marco. Col termine «Mori», si intendevano infatti le popolazioni del Nord Africa e del Vicino Oriente, aree in cui l’arte di costruire questi «servitori meccanici» era assai diffusa. Come già in Oriente, in Occidente le campane nacquero come strumenti legati al richiamo per gli uffici liturgici. Vi erano campane di grandi dimensioni, poste in alto su edifici appositi (i cosiddetti «campanili»), in modo che il suono si propagasse nel territorio e fosse ben udibile dai fedeli per invitare alla messa. Giunti in chiesa, vi erano altre «campane», di dimensioni minute – i campanelli –, fuse perlopiú in ferro, che invitavano agli uffici liturgici: a partire dal 1100, nacque anche l’uso di servirsene per scandire i vari momenti della funzione religiosa. Ai paramenti del celebrante, potevano poi essere applicati piccolissimi campanelli, in oro o argento, che tintinnavano al suo incedere, imitando gli abiti del Sommo Sacerdote del Vecchio Testamento. Ma le campane iniziarono ben presto ad avere funzioni anche civili: al richiamo della campane (che ben presto sorsero anche sugli edifici pubblici), la gente si radunava in piazza in caso di pericolo, di incendio o di chiamata alle armi. Durante l’assedio di Messina, a seguito dei Vespri Siciliani, due sentinelle, Dina e Chiarenza, avrebbero dato l’allarme suonando le campane e sventando l’assalto angioino. Nel 1379, a causa dell’assenza di una campana sulla torre di Figline, non si poté invece dare l’allarme generale per inseguire un contingente ghibellino che voleva entrare in città all’alba: «Se solo avesse una campana loro gridato dietro, non ne campava coda». Talvolta poi, l’invito alla preghiera si mescolava con quello
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marzo
della guerra: è il caso della cosiddetta Martinella, la campana montata sul Carroccio, sul quale era allestito anche un altare da messa, e che ritmava i tempi della battaglia. Se poi a mezzogiorno ancora oggi si sentono scampanare tutte le chiese, è perché nel 1456, durante l’assedio di Belgrado, papa Callisto IIII ordinò che la campane suonassero all’unisono alle 12, cosí da chiamare i credenti a pregare per i difensori. In molti luoghi d’Europa però la notizia della vittoria arrivò ancor prima dell’ordine e cosí questa usanza si trasformò nella commemorazione della vittoria e il papa non lo ritirò. Particolare di una miniatura raffigurante un chierico che suona la campana d’una chiesa, da un’edizione delle Très Belles Heures de Notre-Dame di Jean de Berry. 1380-1405 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
ANTE PRIMA
La terza vita dell’asilo SCOPERTE • Grazie
a un ritrovamento tanto eccezionale quanto fortuito, nella Casa del Pellegrino di Civate (Lecco) torneranno a fare bella mostra di sé gli affreschi quattrocenteschi di una delle «camere dipinte» che impreziosivano la struttura
In alto Civate (Lecco), Casa del Pellegrino. L’ingresso di una delle Camerae Pictae («camere dipinte»), che conservano affreschi databili alla metà del XV sec. A destra veduta esterna della Casa, durante i lavori di restauro.
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I
l borgo di Civate (Lecco) deve la sua notorietà ai preziosi cicli di affreschi romanici delle basiliche di S. Pietro al Monte e del monastero benedettino di S. Calocero. Quest’ultimo, già fiorente almeno dall’epoca carolingia e importante per la sua posizione strategica ai piedi delle Prealpi lombarde, ha infatti conosciuto una fase di particolare splendore artistico e architettonico nel XII secolo, lasciandoci due basiliche romaniche che conservano una parte consistente dei relativi cicli pittorici. Civate però ospita un altro gioiello risalente alla fine del Medioevo: la Casa del Pellegrino. Meno nota al pubblico in quanto restaurata e visitabile solo da pochi anni, la Casa era utilizzata già in antico come luogo d’accoglienza dei numerosi pellegrini che giungevano all’importante monastero civatese. Tuttavia, a partire dal XV secolo, con il declino del complesso monastico, marzo
MEDIOEVO
In alto e a destra due immagini dell’affresco ritrovato nella Scuola Beato Angelico di Milano e strappato dalla Camera Picta di Civate demolita in antico.
l’asilo si trasforma in abitazione di famiglie nobili del paese, che la arricchiscono con numerose decorazioni pittoriche.
Scene di caccia e d’amore La piú significativa è un ciclo di storie di caccia e di amor cortese, risalente alla metà del Quattrocento, che celebra e ricostruisce la vita e le passioni delle classi nobili nell’epoca dei Visconti e degli Sforza. Fra dame, cavalieri, cinghiali, falconi e ghepardi, rivivono simboli e rituali di un’epoca in un cui il ducato di Milano sta per raggiungere il suo massimo splendore. L’edificio si sviluppa attorno a un cortile interno. La parte piú antica risale almeno al 1400 e presenta al piano terreno un piccolo loggiato con numerose tracce di affreschi. Il primo piano ospita la parte piú cospicua delle decorazioni, in particolare all’interno delle Camerae Pictae (camere dipinte). Nel corridoio che affaccia sul cortile sono infatti presenti tre ingressi ad arco, con intradosso decorato, che davano accesso a tre Camere interamente decorate, una delle quali venne però demolita in epoca antica.
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Gli affreschi delle due Camerae Pictae superstiti sono divisi orizzontalmente in tre fasce. Nella piú alta, decorazioni a palmette si alternano a stemmi riconducibili a nobili famiglie locali. In quella centrale, caratterizzata da uno sfondo rosso intenso, probabile riferimento alla tematica amorosa del ciclo, si svolgono le numerose scene di caccia e d’amor cortese. Infine, nella zoccolatura inferiore, appare una decorazione principalmente vegetale, di cui sono protagoniste le zucche, simbolo e
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ANTE PRIMA
augurio di fertilità e prosperità. Vediamo ora i contenuti della fascia principale. Nella prima Camera si susseguono scene che raffigurano le varie tipologie di caccia: la piú raffigurata è quella al cinghiale, messa in pratica con la picca e i cani, ma non mancano la caccia alla lepre e al cervo. Appaiono anche animali estranei alla caccia, da serraglio, come il ghepardo e l’orso ammaestrato.
La dama e il ghepardo Dotato di collare, il ghepardo figura anche vicino alla dama protagonista dell’unica scena di amor cortese della prima Camera. Riccamente vestita, la dama, dall’acconciatura molto ricercata, porge al suo cavaliere un fiore, simbolo di purezza. La figura maschile, sulla cui veste spiccano gli ampi sbuffi delle maniche, dona alla dama frutti simbolici. Nell’altra Camera un’intera parete è dedicata all’illustrazione della caccia con il falcone. Il nobile è raffigurato a cavallo, con un
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In alto affresco raffigurante una battuta di caccia alla lepre. Sulla sinistra, in alto, compare anche un grande «sole» simbolo di san Bernardino. A destra affresco raffigurante la caccia al cinghiale. Nella pagina accanto affresco raffigurante un orso ammaestrato.
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falcone al braccio; nel canneto poco distante vengono lanciati i cani, che spaventano le anatre e gli altri uccelli che si alzano in volo. Il falcone li ghermisce e porta la preda al suo padrone. Un’altra parete è ancora dedicata alla caccia al cinghiale. Resa lacunosa dall’apertura di una finestra, una scena di amor cortese ci mostra la dama, avvolta in una veste di ermellino, in piedi vicino a una fontana dalle specchiature marmoree. Sull’ultima parete appare, assieme ad alcuni stemmi, un grande «sole» simbolo di san Bernardino, con al centro una Crocifissione. Altri simboli sacri, meno evidenti, appaiono su altre pareti.
Una scoperta eccezionale Come detto, della terza Camera Picta, demolita in antico, resta traccia dell’ingresso, mentre si riteneva che le decorazioni fossero andate perdute per sempre. Fino a ora. Nel 2019, infatti, Milano è stata teatro di un ritrovamento tanto inaspettato, quanto straordinario: nei locali della Scuola Beato Angelico, dimenticato e mai piú ricollegato a Civate, giaceva infatti da decenni un grande strappo d’affresco, corrispondente a una intera parete della terza Camera Picta di Civate. Sono ancora da ricostruire le vicissitudini che hanno portato l’affresco lontano dalla sua sede originaria e dalla memoria degli autori dello strappo. Ma adesso, dopo un lunghissimo oblio, quella Camera torna a Civate e alla sua Casa del Pellegrino. E vi porta non solo una straordinaria testimonianza artistica della metà del Quattrocento, ma anche nuove luci e nuovi misteri. Nell’affresco sono infatti rappresentati, oltre a scene di caccia coerenti con quelle presenti nelle altre camere, numerosi elementi sacri molto peculiari, fra cui spicca una rara raffigurazione della trinità eucaristica. La forte presenza
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di elementi sacri in un contesto iconografico tipicamente profano rende molto singolare il ciclo civatese, che si auspica venga messo al centro di studi che possano chiarirne meglio origine e interpretazione.
Restauro «aperto» Nel corso del 2020 sarà realizzato il restauro dell’affresco, finanziato dal fondo comunitario civatese. Si tratterà di un intervento «aperto»: il pubblico potrà infatti seguire le varie fasi delle operazioni, occasione preziosa per studenti e appassionati. Attualmente la Casa del Pellegrino è aperta al pubblico grazie alle visite guidate condotte dall’associazione di volontari Luce Nascosta. La Casa del Pellegrino (ingresso da piazza Antichi Padri a Civate) è attualmente visitabile le prime tre domeniche del mese, dalle 16,00 alle 18,00. Per informazioni: www.lucenascosta.it, e-mail: lucenascosta@gmail.com. Carlo Cantoni
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ANTE PRIMA
Quella fragile bellezza MOSTRE • Il Museo Diocesano
di Padova documenta la ricca produzione artistica in terracotta nel territorio euganeo e, piú in generale, veneto. Un capitolo importante, in cui la lavorazione di un materiale «umile», ma straordinariamente duttile, poté avvalersi della mirabile lezione di Donatello
N
el 1453, Donatello (al secolo Donato di Niccolò di Betto Bardi, 1383 o 1386-1466) lasciava Padova per fare rientro nella nativa Firenze; dopo un decennio di intenso lavoro all’ombra delle cupole della basilica antoniana, il maestro toscano lasciava una città cambiata, ricca di stimoli artistici e rinnovata nella sua veste tardo-gotica, trasformata in uno dei centri principali del Rinascimento. È sicuramente lui a dare un impulso decisivo a rinnovare il linguaggio artistico in città, che non poteva lasciare indifferente il giovane Andrea Mantegna, come neppure i fratelli Bellini, a quel tempo attivi in basilica. Per acquisire un metodo, apprendere tecniche di lavorazione e guardare allo stile del maestro toscano giunsero a Padova artisti da luoghi diversi della Penisola. Verso la metà del secolo, prima dell’arrivo di Donatello nella città euganea, già altri artisti toscani approdarono in Veneto e contribuirono a rendere familiare l’impiego della plastica figurativa, inserendosi in contesti ancora legati alla cultura del gotico internazionale: Michele da Firenze, coetaneo di Donatello e anch’egli uscito dalla bottega di Ghiberti, lavora in Emilia, a Verona e nel Polesine negli anni Trenta e Quaranta; Nanni di Bartolo, formatosi con lo stesso Donatello nel cantiere del Duomo fiorentino, dal 1424 era a Venezia e si trattenne nel territorio veneto per circa un decennio, lavorando tra la città lagunare
In alto Compianto su Cristo morto, gruppo attribuito a un plasticatore padovano. Padova, chiesa di S. Pietro. A sinistra Madonna in trono con Gesú Bambino, opera Andrea Riccio. Roncajette (Padova), Chiesa parrocchiale. marzo
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A destra Madonna con il Bambino, opera di Andrea Riccio. 1495 circa Campiglia dei Berici (Vicenza), chiesa di S. Pietro. Qui sotto Madonna, terracotta policroma e dorata di Donatello. 1440-1445 circa. Parigi, Museo del Louvre.
In basso Cristo in pietà sorretto dalla Madonna e da san Giovanni Evangelista, opera di Andrea Riccio. 1490-1495. Due Carrare (Padova), chiesa di S. Stefano.
e Verona; Niccolò Baroncelli, legato anch’egli al de’ Bardi, dal 1434 al 1443 si trovava a Padova impegnato in una serie di lavori in pietra e terracotta di cui restano purtroppo solo frammenti.
Opere dalla forma «umana» La mostra allestita nel Museo Diocesano di Padova racconta questo momento straordinario con un affondo specifico sulla scultura in terracotta, una tecnica che a un certo punto del Quattrocento, sembra primeggiare in città, divenendo, grazie alla pratica di alcune botteghe, esperienza artistica e culturale diffusa. «A nostra immagine», l’espressione del Dio demiurgo di Genesi 2 e incipit del titolo dell’esposizione, ritrova eco nell’azione dell’artista plasticatore che plasma la creta dandone forma «umana», facendola rivivere nelle immagini che parlano del Dio incarnato. Sviluppatasi in particolare in area padana, dove era piú alta la reperibilità della materia prima, l’arte della terracotta conosce a Padova una fioritura straordinaria, proprio in seguito all’arrivo di artisti toscani e alla presenza in città di Donatello.
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ANTE PRIMA Caratteristiche ambientali, tradizioni locali e apporti culturali esterni hanno dato origine a una produzione dagli esiti formali ed espressivi del tutto unici, diversi dalla produzione che per esempio si sviluppa nella vicina area emiliana con protagonisti come Niccolò dell’Arca, Guido Mazzoni e il piú tardo Antonio Begarelli. Non certo un’arte minore, popolare come farebbe pensare l’indifferenza da parte degli studi, avviati invece solo negli ultimi decenni. Praticata e apprezzata nel mondo antico, come ci testimonia Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia, durante il Medioevo la plastica fittile conobbe un lungo periodo di oblio. Certo, l’argilla continuò a essere materiale impiegato in edilizia e nella produzione di vasellame, ma sono rare le testimonianze di rilievi e sculture anteriori al XV secolo. Fu Firenze, e piú precisamente la bottega di Ghiberti, a tenere a battesimo la rinascita della terracotta e fu soprattutto Donatello a determinarne la diffusione, insieme alla scultura in bronzo, a Firenze, Siena e Padova: una scelta tecnica che per l’artista fiorentino era programmatico recupero dell’antichità e, allo stesso tempo, campo di sperimentazione di nuove potenzialità espressive.
Ideale per l’arte sacra A Padova questa tradizione si legava alla produzione della statuaria in bronzo, anch’essa introdotta da Donatello, e del bronzetto di piccole dimensioni. Rispetto al bronzo, molto piú costoso, la lavorazione della terracotta non richiedeva avanzate conoscenze tecnologiche e proprio per questo era un materiale adatto alla creazione di immagini religiose destinate ad avere grande diffusione, a basso rilievo o a tutto tondo. Si tratta di una produzione spesso seriale, nella quale si riproponevano modelli secondo consuete pratiche di bottega, a volte, tuttavia, con esiti di assoluta eccezionalità. Nell’operosa bottega allestita nei pressi della basilica antoniana, lavorano i suoi allievi giunti dalla Toscana, quali Giovanni da Pisa e Francesco del Valente, e padovani come Nicolò Pizolo e il giovanissimo Bartolomeo Bellano. Presente ancora in città Donatello, per l’altare della Cappella Ovetari agli Eremitani si lavora alla prima pala unificata in terracotta del Quattrocento veneto, la bottega del maestro elabora bassorilievi
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destinati a chiese, oratori, dimore private, raffiguranti perlopiú l’immagine della Vergine con il Bambino, un tipo di produzione di carattere devozionale, replicato anche con alta qualità e che trovò diffusione in città e nel contado. Alcuni esemplari in mostra documentano la fortuna di modelli che talvolta venivano riprodotti anche in materiali diversi, in stucco o addirittura in cartapesta. E la splendida Madonna del Louvre con la sua policromia originale, pur eseguita da Donatello poco prima di recarsi a Padova, ne è sicuramente un autorevole esempio. Continuatore del linguaggio donatelliano a Padova è Bartolomeo Bellano, il quale, dopo un’esperienza in Toscana con l’anziano maestro, rientra in città nel 1468, e lavora indifferentemente la pietra, il legno, la terracotta e il bronzo, fino alla sua morte. Due immagini della Madonna con il Bambino di Giovanni de Fondulis. 1468-1470. Padova, chiesa di S. Nicolò. marzo
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Negli stessi anni fa il suo ingresso sulla scena padovana Giovanni de Fondulis, un artista che solo in anni recenti gli studi stanno mettendo a fuoco quale personalità chiave nello sviluppo della plastica padovana dopo la partenza di Donatello. Nativo di Crema, allora territorio della Serenissima, si era formato in Lombardia per trasferirsi a Padova forse già dagli anni Sessanta del Quattrocento. Giovanni innesta la sua iniziale formazione lombarda sul sostrato donatelliano e in breve tempo si afferma come uno dei protagonisti della scultura padovana in terracotta, un ruolo che la mostra cerca di evidenziare esponendo alcune opere fondamentali del suo catalogo, incluse la Madonna della chiesa di S. Nicolò e quella di S. Giustina. Accanto a queste due, è esposta la Madonna con il Bambino di Pozzonovo, fino a qualche mese fa attribuita a Nanni di Bartolo e ora assegnata al Cremasco alla luce di confronti con altre sue opere. Proprio in questi mesi, anche grazie al lavoro di ricerca di un perfezionando alla Normale di Pisa, si riesce a far luce sulla sua attività. In passato sue opere erano state erroneamente assegnate a Giovanni Minelli, artista padovano di una generazione successiva e specializzato nella scultura in marmo. A tradire la sua mano sono alcuni caratteri ricorrenti, le mani che si inarcano in maniera innaturale, i volti espressivi, le bocche semiaperte che lasciano intravedere denti e lingua, le barbe irsute e fiammeggianti.
Un artista infaticabile Alcune sculture inedite rinvenute nelle chiese del territorio negli ultimi due anni di lavoro sottopongono alla critica la questione della bottega organizzata da questo infaticabile artista, bottega che, a un certo punto, in città si doveva contrapporre a quella di Bellano, specializzandosi nella produzione di opere in terracotta. Vi lavora fino al 1482 il figlio Agostino, lo scultore Antonio Antico, mentre non è certo se vi si formi come scultore il giovane Andrea Briosco detto il Riccio, altro protagonista importante, destinato a occupare la scena padovana fino al 1532, anno della sua morte. Sul finire del secolo, dopo l’apprendistato con il padre, l’orefice trentino Ambrogio di Cristoforo, il Riccio si trasferisce a Padova; poco si sa di lui durante i primi anni padovani, le fonti lo vogliono nella bottega di Bartolomeo Bellano, sebbene alcune sue prime inflessioni lo avvicinino alla produzione di de Fondulis, tanto da
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ipotizzare una iniziale collaborazione nella sua bottega. Dai modi di entrambi è presto in grado di affrancarsi; piú autonomamente, il Riccio decide di raccogliere le istanze intellettuali degli umanisti padovani e di tradurle in un linguaggio colto e raffinato, privo dell’espressionismo di Bellano e de Fondulis e improntato su una classica nobiltà, nutrito di riferimenti al mondo antico anche nel caso di soggetti religiosi e destinati alla devozione. È la stagione dell’umanesimo cristiano che nella città del Santo fiorisce proprio con Riccio nei primi decenni del Cinquecento, e che, di lí a poco, la Riforma cattolica spazzerà via per sempre, mentre la terracotta cesserà di essere apprezzata come linguaggio autonomo, complice l’idea di scultura intrisa di neoplatonismo sostenuta da Michelangelo e raccolta da Giorgio Vasari nelle sue Vite. Il Compianto su Cristo, oggi diviso tra la chiesa di S. Canziano e i Musei Civici, per l’occasione eccezionalmente ricomposto in mostra nelle parti che sopravvivono, illustra Pietà, opera di Giovanni de Fondulis. 1480-1485. Prozzolo di Camponogara (Venezia), chiesa di S. Michele Arcangelo.
ANTE PRIMA A destra Madonna con il Bambino, opera di Giovanni de Fondulis. 1468-1470 circa Padova, basilica di S. Giustina. In basso figura dolente, opera di Bartolomeo Bellano. 1470 circa. Padova, chiesa di S. Gaetano (in deposito al Museo Diocesano). in modo eloquente la direzione che Riccio intraprende fin dal primo decennio del Cinquecento. Non sappiamo purtroppo quale spazio occupasse il gruppo nella piccola chiesa, poco lontana dalla centrale piazza delle Erbe, ammodernata nelle forme nella prima metà del Settecento; di fatto, è uno dei tanti casi di dispersione a seguito di un cambiamento di gusto e di modifiche succedutesi nel tempo. Quanto oggi sopravvive è infatti solo una minima parte: la fragilità del materiale, il mutamento delle pratiche liturgiche e devozionali, la trasformazione degli spazi sacri, l’incuria e i danni derivati da guerre, le dispersioni seguite alle soppressioni degli enti religiosi o causate da vendite improvvide a mercanti, collezionisti privati e musei
stranieri. Nella comunità di Lissaro, non lontano da Padova, è ancora viva la memoria e la ferita procurata a seguito della vendita a un privato della Madonna Borromeo ai primi del Novecento. Battuta all’asta Sotheby’s qualche anno fa come opera di Donatello, oggi arricchisce le collezioni del Kimbell Museum di Fort Worth in Texas.
Tesori da riscoprire Oggi i rilievi, le statue che si trovano ancora nei luoghi di culto e che sono oggetto di devozione risultano spesso irriconoscibili per le continue ridipinture; sotto strati di policromia nascondono l’aspetto originario, a volte di grande qualità. Averle individuate attraverso una mappatura nel territorio veneto, alcune di esse restaurate con il coinvolgimento delle comunità e di privati cittadini e grazie alla collaborazione della competente Soprintendenza e degli Istituti di ricerca dell’Università di Padova, ha costituito un metodo di lavoro che vorrebbe ripetersi nel tempo, in cui la mostra non è che la fase conclusiva di un progetto piú ampio. Ecco allora che «A nostra immagine», oltre a tracciare un percorso della storia della scultura in terracotta a Padova da Donatello al primo Cinquecento, attraverso le opere di alcuni dei maggiori protagonisti della stagione del Rinascimento provenienti da chiese del territorio e da collezioni pubbliche e private, si propone anche come momento di consapevolezza e responsabilità nei confronti di un patrimonio storico artistico fragile, bisognoso di cure. E l’itinerario di visita pensato tra chiese e monumenti di città e provincia durante il periodo di apertura, diviene in tal modo straordinaria occasione di conoscenza. Andrea Nante DOVE E QUANDO
«A nostra immagine. Scultura in terracotta nel Rinascimento da Donatello a Riccio» Padova, Museo Diocesano fino al 2 giugno Orario ma-ve, 10,00-13,00 e 14,00-18,00; sa-do e festivi, 10,00-13,00 e 14,00-19,00; chiuso il lunedí (non festivo) e il giorno di Pasqua Info tel. 049 8226159; http://museodiocesanopadova.it marzo
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C’era una volta una quercia... MOSTRE • Rovigo anticipa
il fitto calendario di iniziative organizzate per il settimo centenario della morte di Dante. E rende omaggio al maestoso albero sul quale il sommo poeta si sarebbe un giorno arrampicato per ritrovare la via smarrita...
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n vista delle celebrazioni del settimo centenario della scomparsa di Dante, che cadrà l’anno prossimo, Rovigo ricorda la quercia secolare morta nel 2013, che la leggenda vuole abbia permesso di orientarsi nel Delta del Po al sommo poeta, di ritorno da un viaggio a Venezia. L’ingresso del rinascimentale Palazzo Roncale ospita a piano terra, fino al 28 giugno, un frammento di radice dell’albero, una scultura naturale alta circa tre metri, che introduce il visitatore alle sale con le immagini della farnia e del territorio. La «Rovra», come viene chiamata in polesano, con un tronco che poteva essere abbracciato da sei adulti, segnava il paesaggio del Po dall’alto dei suoi 26 metri; colpita da un fulmine nel 1976, sopravvisse altri 37 anni. Secondo la vulgata, lo scrittore si sarebbe smarrito nella fitta vegetazione che rivestiva l’argine del Po di Goro, nei pressi di S. Basilio, dove i monaci di Pomposa gestivano un hospitium; per riprendere il cammino sarebbe salito
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Qui sopra un frammento del tronco della Grande quercia, sulla quale Dante si sarebbe arrampicato per orientarsi nel cammino attraverso i territori del Delta del Po. In alto veduta di Ariano nel Polesine (Rovigo), dove sorgeva il romitorio di S. Basilio. Nella pagina accanto, in alto Inferno, Canto XXXIV/1, opera di Brigitte Brand. Nella pagina accanto, in basso la chiesetta altomedievale di S. Basilio. XI sec. marzo
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sulla maestosa quercia, menzionata in un atto notarile del 1548. Come spesso accade, la leggenda si intreccia con alcuni dati storici: Dante nell’estate del 1321 si recò, su incarico di Novello da Polenta, signore di Ravenna, alla Serenissima, le cui navi erano minacciate dagli attacchi sferrati dalle galee ravennati. Il poeta, che aveva il compito di intercedere presso il Senato veneziano, riuscí nell’intento, ma, rientrando, sembra sia stato contagiato dalla malaria proprio nel Delta del grande fiume, dove avrebbe soggiornato, ospite dei Benedettini di Pomposa. La mostra di Rovigo ripercorre gli ultimi anni della quercia, la sua fine e l’omaggio che le fece l’artista Miranda Greggio, che realizzò una sorta di sindone del gigante verde.
Tre maestri per l’Inferno Al piano superiore di Palazzo Roncale è invece allestita un’altra rassegna, dedicata all’Inferno dantesco, illustrato da tre artisti di secoli diversi. La visione ottocentesca della prima cantica è affidata al francese Gustave Doré, presente con il corpus completo di 75 tavole, mentre il XX secolo e il III millennio sono documentati rispettivamente dalle immagini dell’americano Robert Rauschenberg, protagonista della Pop art, e dai lavori della contemporanea tedesca Brigitte Brand. Le mostre possono essere il pretesto per seguire l’itinerario nei luoghi della Grande quercia, fra resti romani e altomedievali. Il romitorio di S. Basilio sorgeva lungo la via Popilia, arteria laterale rispetto al tracciato della Romea, in una posizione strategica per la viabilità nel Delta. La località, oggi a dieci chilometri dal mare, contava uno dei tre porti dell’Adriatico, con Spina e Adria, come confermano le dune fossili; la sua centralità come crocevia commerciale è testimoniata dal ritrovamento di
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ANTE PRIMA Minosse il giudice delle anime, tavola di Gustave Doré per l’edizione da lui illustrata della Divina Commedia. 1861. In basso Robert Rauschenberg, Canto V.
DOVE E QUANDO ambre, che come altri prodotti raggiungevano la Grecia e il Mediterraneo del sud, passando dall’Europa continentale attraverso le sponde dell’Alto Adriatico. Al confine fra Emilia e Veneto, lungo l’argine del Po di Goro, si snodavano il centro religioso di S. Basilio, il porto e il borgo. Oggi il visitatore trova la chiesetta altomedievale, del IX secolo, con un elemento interno legato sia alla fede che alla leggenda, ovvero una colonna romana riutilizzata in epoca medievale, da cui secondo la tradizione sgorgherebbe olio santo: le donne con problemi di fertilità vi si strofinavano. La chiesa fu edificata sui resti di una villa romana, visibili grazie alla pavimentazione a vetro realizzata dopo gli scavi. A pochi
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«Visioni dell’Inferno» Rovigo, Palazzo Roncale fino al 28 giugno Orario lu-ve, 9,00-19,00; sa-do e festivi, 9,00-20,00 Info tel. 0425 460093; e-mail: info@palazzoroverella.com; www.palazzoroverella.com passi dal luogo di culto meritano una visita il Museo di S. Basilio, con reperti di epoca romana e medievale, e un’area di scavo con le tracce dell’insediamento imperiale e paleocristiano, sormontate da una cupola avveniristica. Poi un viale alberato porta alla strada che corre lungo il fiume e che conduce all’area in cui sorgeva la quercia. Stefania Romani marzo
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Tesori d’una terra di frontiera ITINERARI • Il Finalese, nella provincia
di Savona, vanta una storia millenaria, i cui capitoli medievali sono ancora oggi ben testimoniati dal ricco patrimonio architettonico e artistico conservato in splendidi borghi, immersi in un paesaggio fra i piú suggestivi della Liguria, sospeso fra i monti e il mare
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uando, percorrendo l’autostrada Genova-Ventimiglia (A10), si raggiunge il Finalese (Savona), s’incontra un paesaggio dominato da falesie calcaree imponenti, sovrastate da altopiani con boschi e macchia mediterranea. Quelle infinite gradazioni di verde e di marrone, quegli alti alberi e quella folta ombra nascondono uno straordinario ambiente carsico. Padroni assoluti ne sono sculture naturali e canyon, valli fossili e corsi d’acqua sotterranei,
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grotte e inghiottitoi, castellari dell’età del Bronzo e villaggi dell’età del Ferro, ponti e strade d’epoca romana, castrum altomedievali e campanili romanici, borghi secolari e contrade dimenticate. Il tour nell’entroterra di Finale Ligure, insomma, è un sorprendente viaggio nel tempo e nello spazio. La storia del Finale è racchiusa nel suo nome. Questa esile striscia di terra delimitava la frontiera tra le tribú liguri degli Ingauni, con
capitale Alba Ingauna (Albenga), e dei Sabazi, con capitale Vada Sabatia (Vado Ligure). Nel 180 a.C., i Liguri furono sconfitti dai Romani, il cui arrivo non portò modifiche sostanziali. Il pagus di Finale, polo amministrativo comprendente parecchi vici, forse coincidente con la misteriosa mansio di Pullopice (= dall’unione dei nomi dei torrenti Pora e Sciusa, intorno ai quali si era allora strutturato il territorio finalese), indicata nell’Itinerario
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A sinistra Perti (Savona). La chiesa di Nostra Signora di Loreto. Qui accanto Perti. L’interno della chiesa di S. Sebastiano. Qui sotto Finalborgo (Savona). Il Palazzo del Tribunale. In basso, sulle due pagine ancora il borgo di Perti, in una veduta panoramica.
Antonino (III secolo d.C.), restò incastonata fra i municipia di Vada Sabatia e Albingaunum.
L’avvento del cristianesimo La via Iulia Augusta, voluta da Augusto nel 13 a.C., di cui in Val Ponci si conservano cinque ponti romani, collegava i due municipia e garantiva il passaggio di persone, merci e conoscenze, compreso l’annuncio della Buona Novella. Indizi sulla relativa precocità
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Due maestri in convento
Preziosa testimonianza sulla pittura tardo-trecentesca in Liguria gli affreschi della cappella di S. Maria degli Oliveri, nel convento di S. Caterina, mostrano Scene di vita di Maria e di Gesú. Ne furono artefici due anonimi pittori, noti come «maestri della cappella Oliveri», dal cognome
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della famiglia finalese che agli esordi dell’ultimo decennio del Trecento commissionò i dipinti. Il primo artista, a cui spettano l’ideazione e l’avvio del decoro, sembra allineato su canoni tradizionali. Probabilmente piú anziano, raffigurò l’Apparizione dell’Assunta a san Tommaso e l’Incoronazione della marzo
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Sulle due pagine gli affreschi tardo-trecenteschi con Scene di vita di Maria e di Gesú, nella cappella di S. Maria degli Oliveri, nel convento di S. Caterina, a FInalborgo.
Vergine. Pur rivelando chiare influenze stilistiche di Barnaba da Modena, allora imperante nella regione, per gli schemi compositivi precostituiti, condizionati da una rigida simmetria, si colloca in quell’ambiente artistico toscano, che allora estendeva la propria influenza in Liguria.
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Il secondo maestro, al quale sono ricondotti i registri inferiori, si stacca dagli schemi consueti. Forse piú giovane, rappresentò la Fuga in Egitto, predisponendo con una certa libertà la composizione e delineando personaggi e costumi con tonalità varie e luminose.
dell’introduzione del cristianesimo e sull’insediamento di una comunità ecclesiale già parzialmente articolata, è l’epigrafe funeraria (362 d.C.) di Lucius Helvius, scoperta nei pressi della chiesa di S. Eusebio a Perti. Nell’entroterra finalese le millenarie intitolazioni delle chiese a sant’Eusebio in Perti, a san Dalmazzo in Monticello e ai santi Cipriano e Cornelio in Calvisio suggeriscono che nella tarda antichità l’introduzione del culto sia avvenuta anche tramite le vie marenghe. Un intricato groviglio di serpeggianti mulattiere, che valicando i passi alpini e appenninici del Piemonte e della Lombardia, univa le coste liguri alla regione padana e a Milano, fulcro di irradiazione della nuova religione. Se nel retroterra i tre tempietti rappresentano i probabili residui dell’originaria sistemazione plebana, agli albori dell’Alto Medieovo nella Marina un altro nucleo abitativo di cristiani, formatosi sui livelli di abbandono di fabbricati dell’età
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ANTE PRIMA Perti, Castel Gavone. La Torre dei Diamanti, ornata da un rivestimento bugnato «a punte di diamante». XV sec.
imperiale, si stava aggregando attorno a una chiesa battesimale, ubicata allo sbocco litoraneo della Val Pora. Innalzata su un edificio di età tardo-romana, la Pieve del Finale esisteva già all’inizio del VI secolo, poiché la lapide di Paula, trovata nel luogo di culto, risale al 517. Ampliata da una a tre navate in epoca carolingia, quando si dotò anche di una vasca battesimale circolare, mantenne le prerogative plebane per mille anni. All’interno un affresco dei secoli XII-XIII documenta la devozione verso i santi evangelizzatori Nazario e Celso, arrivati a Finale lungo la via Iulia Augusta alla metà del I secolo d.C. Persa nel silenzio e nel verde di
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oliveti, vigne e rampicanti, la suggestiva frazione di Perti sovrasta Finalborgo. Qui lo sguardo si perde nell’orizzonte.
Fra mare e cielo Da un lato mare e cielo si fondono, toccandosi in un’armoniosa e seducente unione. Dall’altro le sagome appuntite delle Alpi incorniciano un’infinita distesa di tondi e sinuosi colli. Un viottolo campestre porta alla contrada di Sant’Antonino e ai resti del castrum Pertice, l’insediamento fortificato bizantino del VI secolo, eretto a protezione delle possibili vie di accesso su posizioni di retrovia. Nell’ambito del sistema difensivo
della Maritima Italorum, esso si accostava ai castra negli agglomerati rurali su mezzacosta di Pia e Orco e si rapportava con il nucleo demico litoraneo di Varigotti, la cui rada portuale, tramite naturale con il mondo mediterraneo, era destinata al controllo dell’Alto Tirreno e all’approvvigionamento del territorio limitrofo. Anfore e ceramiche da mensa d’importazione africana e orientale ritrovate nella fortezza di Sant’Antonino, attestano i contatti tra gli abitanti del castrum, le principali città del Nordafrica e le altre terre del Mediterraneo subordinate all’Impero di Bisanzio. Dal Bellum Gothicum, redatto dallo storiografo bizantino Procopio di Cesarea, e dai dati archeologici si evince invece la stratificazione sociale delle famiglie dei residenti, composte da una classe privilegiata, alla quale si associavano militari romano-bizantini e fabbri. Poco piú in là rispetto al castrum di Sant’Antonino si trovano l’omonima chiesa, fabbricata tra la fine del X e i primi decenni dell’XI secolo, e l’edificio romanico di S. Eusebio. Quest’ultimo è impreziosito da una cripta con pilastri del Mille e da un’abside poligonale con un campaniletto a vela, su cui si distingue una croce, disegnata da scodelle di maiolica valenzana e laggioni spagnoli nella seconda metà del Quattrocento.
I cinque campanili Non lontana è poi la chiesa di Nostra Signora di Loreto, detta «dei Cinque Campanili» per i cinque gugliotti che la adornano. Costruita in stile rinascimentale lombardo su incarico di Alfonso I Del Carretto, marchese del Finale – prendendo a modello la cappella Portinari in S. Eustorgio a Milano – è inserita marzo
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nel Museo Diffuso del Finale. Sempre a Perti, da non perdere è la visita a Castel Gavone, la cui mole possente e altera si staglia all’uscita del casello autostradale di Finale Ligure. La sua storia comincia nel 1217, quando Enrico II Del Carretto commissionò la ricostruzione della caminata marchionis Finarii, sita sulla dorsale meridionale della Rocca di Perti, in posizione dominante rispetto alle sottostanti valli del Pora dell’Aquila e già menzionata nel 1180. La dimora fortificata signorile, una delle architetture militari italiane piú interessanti della fine del Quattrocento, appare ordinata attorno a un nucleo centrale, impostato su un grande cortile a colonnato, che dava l’affaccio ad ambienti di rappresentanza e residenziali. Piú volte ricostruita e ampliata, nel XV secolo è stata arricchita con la superba Torre dei Diamanti che, ornata da un originale rivestimento bugnato «a punte di diamante», preserva un interessante ciclo di affreschi, dipinto nel 1495 e dedicato al mito del ratto di Proserpina.
Una pietra di pregio A Enrico II Del Carretto si deve anche la fondazione, nella piana alluvionale, sulle falde dell’altura del Becchignolo, alla confluenza del Pora e dell’Aquila, del Burgus Finarii, oggi Finalborgo. Elemento essenziale dell’elegante borgo medievale, inserito tra le località piú belle d’Italia, è la pietra di Finale, che estratta a Perti e nella valle dell’Aquila, conferisce delicate sfumature di rosa all’edilizia pubblica e privata del centro storico. Un atto, rogato nel 1213 a Burgus Finarii, fornisce la prima attestazione documentaria sull’esistenza dell’abitato murato, che si sviluppava in uno spazio non completamente privo di insediamenti preesistenti. Gli statuti del 1311 regolano la tipologia urbana del borgo signorile e si riflettono
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Passi nel silenzio I
l Cammino dei Borghi Silenti è un percorso ad anello di 86 km che si snoda sulle pendici settentrionali dei Monti Amerini, in Umbria. Il cammino è suddiviso in quattro tappe della durata di altrettanti giorni e attraversa luoghi incontaminati e borghi medievali ancora intatti: a contraddistinguerlo è il fascino del silenzio, che dai boschi di lecci e castagni, fino alle mura antiche dei piccoli paesi, sembra abbracciare e comprendere ogni cosa. Il camminatore che saprà ascoltare quel silenzio potrà viaggiare fuori dal tempo e dallo spazio, come in una sorta di macchina del tempo: si percorre con buone gambe ma soprattutto con un gran cuore! Il percorso è situato nella parte sud occidentale dell’Umbria, in uno dei luoghi piú affascinanti e meno conosciuti della regione, lontano dalle grandi mete turistiche affollate. Il progetto intende promuovere e far conoscere luoghi dal sicuro fascino attraverso le fatiche degli antichi cammini, dando la possibilità di poter percorrere il suo anello anche agli amanti della mountain bike. Essendo strutturato come il Cammino di Santiago e la Via Francigena, questo percorso è anche un ottimo allenamento per chi voglia affrontare in futuro tali esperienze. Info: www.camminodeiborghisilenti.it (red.) nell’organizzazione sociale ed economica della popolazione. Le case in pietra di un certo prestigio, i reperti ceramici di produzione andalusa, islamica e nordafricana, le pregiate maioliche del regno di Granada e l’unico esemplare rinvenuto in Italia di reposadero de tinaja», (il reposadero serviva a raccogliere e a espellere attraverso il becco versatoio l’acqua trasudata dalla tinaja, un grande contenitore di forma globulare destinato alla conservazione e refrigerazione dell’acqua), abitualmente collocato in punti nevralgici della casa ispanomusulmana nel periodo tardoalmohade (fine XII-prima metà XIII secolo), indicano l’elevato tenore di vita dei residenti. Inoltre permettono
di associare Finalborgo a Genova, Savona e Noli, importanti città mercantili aperte sui principali porti commerciali del Mediterraneo. Il prestigio di Burgus Finarii crebbe con le fondazioni carrettesche del convento domenicano di S. Caterina, che ospitava la chiesa gentilizia della famiglia marchionale (1359), e della nuova parrocchiale di S. Biagio (1372-1375), la cui torre campanaria si ispira al campanile della chiesa di S. Gottardo a Milano, alle torri nolari delle abbazie lombarde di Chiaravalle, Morimondo e Cerreto Lodigiano e ai progetti nel Trattato di Architettura (1464) del Filarete per il campanile della cattedrale nell’immaginaria città ideale di Sforzinda. Chiara Parente
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Terzetto vincente S
INFORMAZIONE PUBBLICITARIA
abato 21 e domenica 22 marzo torna a Piacenza Expo «Armi&Bagagli», il piú grande Mercato Internazionale della Rievocazione Storica in Europa, giunto alla sua Sedicesima edizione. E anche in questa edizione gli organizzatori – Estrela Fiere e Wavents Events & Services, in collaborazione con Piacenza Expo e il CERS-Consorzio Europeo Rievocazioni Storiche – hanno voluto continuare a… farsi in tre, garantendo la triplice ricca offerta per appassionati di storia e di rievocazione storica. Il padiglione 1 ospita «Armi & Bagagli», con oltre 350 espositori, provenienti da Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Olanda, Polonia, Repubblica Ceca, Svizzera e Ungheria. E sono piú di 50, invece, gli artisti italiani specializzati nello spettacolo rievocativo: giullari, musici, teatranti, giocolieri, trampolieri, maghi che daranno vita a un ricco programma di esibizioni, praticamente senza sosta, tra i corridoi e sul palco appositamente allestito. La manifestazione piú propriamente espositiva offre ad appassionati e curiosi una gamma sterminata di prodotti: repliche di armi antiche e moderne, armature, elmi, uniformi ed equipaggiamenti di ogni periodo storico, oltre a oggetti utilizzati nella vita quotidiana, tende, abiti, calzature, attrezzi e finimenti. Ogni equipaggiamento e materiale che si desidererà acquistare potrà, previo accordo con gli espositori, essere provato in un’area
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appositamente attrezzata. Ai visitatori piú piccoli sono riservate due aree con laboratori manuali e giochi della tradizione medievale. Risulta infine ampliata anche l’offerta enogastronomica, grazie alla presenza di espositori qualificati che si occupano di gastronomia storica e tradizionale, sia di consumo immediato che da asporto, provenienti da diverse regioni d’Italia e dall’estero. Nel padiglione 2 è invece in programma «Expo Arc», la prima vera e propria fiera della cultura dell’arco, che si propone come grande kermesse dedicata al mondo dell’arco in tutte le sue espressioni e declinazioni: sportiva, culturale, artigianale, didattica, storica, venatoria, fino ad arrivare a discipline innovative come la «Archery Combat». Un’intera area sarà dedicata ai fornitori italiani e stranieri: produttori di archi, frecce, bersagli, accessori vari in cuoio e pelle, parabracci, guanti, stabilizzatori… tutto quanto possa essere necessario a un appassionato arciere è disponibile tra i banchi di «Expo Arc», dove spesso si possono trovare anche importanti novità (qui Celestino Poletti ha lanciato nel 2018 il suo TECNO LV ALU). Verranno allestite anche linee di tiro e di prova, a disposizione non solo di produttori e distributori per far provare i propri prodotti, ma anche di istituzioni, società sportive, club e di tutti i soggetti a diverso titolo coinvolti in tale attività. Diverse sono infatti le rappresentanze federali sportive, storico/tradizionali e non, come la FIARC, la UISP o la FITAST, e partner come la rivista ARCO e il marchio Decathlon, presenti per promuovere soprattutto nei giovani la cultura della tradizione arcieristica italiana. Il padiglione 3 accoglie infine «Piacenza Militaria», storica mostra/mercato di collezionismo militare, con espositori italiani ed esteri, la cui offerta si concentra su materiale originale: uniformi ed elmetti, medaglie, distintivi e decorazioni, buffetteria ed equipaggiamenti, riferiti soprattutto ai due conflitti mondiali. Info Armi&Bagagli: e-mail: info@armiebagagli.org; tel. 345 7583298 o 333 5856448; ExpoArc e Piacenza Militaria: e-mail: info@estrela.it; tel. 333 5856448. marzo
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La settimana delle confraternite
APPUNTAMENTI • A Enna, le celebrazioni pasquali sono particolarmente sentite
e i giorni che precedono la domenica della Resurrezione sono animati da un serrato calendario di cortei religiosi e riti, ai quali partecipa l’intera città
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el panorama italiano delle tradizioni legate alla Settimana Santa, occupa un posto di primo piano Enna, con i suoi suggestivi riti pasquali risalenti al XV secolo. Nella città siciliana le prime confraternite sorsero nel Basso Medioevo ed ebbero il loro apice intorno al Seicento. La dominazione degli Spagnoli, che governarono l’isola dal Quattrocento al Settecento, favorí la proliferazione di queste confraternite, nate sul modello delle cofradias iberiche, che a quei tempi esercitavano un importante ruolo sociale. Tutte possedevano patrimoni estesi, essendo beneficiarie di lasciti, ex voto e donazioni provenienti dalle
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classi piú agiate. La Settimana Santa ennese è tuttora impostata sul modello dei riti spagnoli, dai quali deriva il tipico abbigliamento dei confrati, composto da un lungo camice bianco stretto ai fianchi da un cingolo, uno scapolare, una mantellina (il cui colore distingue la confraternita), guanti bianchi, un cappuccio con la visiera abbassata e una coroncina attorno al capo, a simboleggiare la corona di spine portata da Gesú durante il calvario.
Processioni e rievocazioni Le celebrazioni attraggono migliaia di fedeli e turisti, soprattutto in occasione della processione del Venerdí Santo, nella quale sfilano
Due momenti delle processioni organizzate a Enna nei giorni della Settimana Santa. i circa 2500 confrati incappucciati appartenenti alle sedici confraternite cittadine. I riti si aprono la mattina della Domenica delle Palme, quest’anno il 5 aprile, quando, nel santuario di Papardura, i confrati della Santissima Passione mettono in scena l’arrivo di Gesú a Gerusalemme su un asinello, preceduto dai dodici apostoli che reggono ramoscelli d’ulivo. Il corteo sale la strada che porta in città e viene accolto al quadrivio del Monte dalle rappresentanze di tutte le altre confraternite e marzo
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dalla banda in festa. Alla chiesa di S. Sebastiano, Gesú e gli apostoli assistono alla benedizione delle palme e dei ramoscelli d’ulivo, per poi guidare una processione che percorre la parte occidentale della città alta. Nel pomeriggio, dalla chiesa di Montesalvo parte un corteo religioso con il Collegio dei Rettori e le terzaglie, ovvero le rappresentanze di ogni confraternita, che si snoda per le vie principali di Enna alta e arriva al Duomo.
A turno, in adorazione In seguito, fino al Mercoledí Santo, ogni confraternita effettua a turno un’ora di adorazione dinanzi al Santissimo Sacramento esposto in Duomo. Si parte la sera della domenica con le confraternite di Santa Maria del Rosario, della Passione, del Santissimo Crocifisso e del Santissimo Salvatore. Il Lunedí Santo è il turno di Sant’Anna, Santa Maria della Visitazione, Santa Maria delle Grazie, Santissimo Sacramento e Santa Maria La Nuova. Il Martedí Santo tocca allo Spirito Santo, alle Anime Sante del Purgatorio e al Collegio di San Giuseppe. Infine, il Mercoledí Santo, si recano in adorazione al Duomo le ultime quattro confraternite: Santa Maria di
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A destra la facciata del Duomo di Enna, intitolato a Maria Santissima della Visitazione. In basso un altro momento dei cortei religiosi, ai quali partecipano, incappucciati, i membri delle sedici confraternite cittadine.
Valverde, Sacro Cuore di Gesú, Santa Maria Addolorata e Santa Maria Immacolata. Il Giovedí Santo in ogni chiesa viene allestito un «sepolcro», che consiste nell’addobbare l’altare maggiore con tabernacoli e urne
varie. Il culmine dei festeggiamenti si raggiunge il Venerdí Santo, con la grande processione generale che parte dal Duomo, preceduta dai fercoli del Cristo Morto e dell’Addolorata, dalla Spina Santa (una preziosa Croce reliquiario in argento del XVI secolo) e dai cosiddetti «misteri», ovvero i simboli della Passione di Cristo. Il lungo e lento corteo religioso formato da tutte le confraternite attraversa Enna alta sulle note delle marce funebri intonate dalle bande, raggiungendo il piazzale del Cimitero. E dopo una sosta, torna in Duomo. La domenica di Pasqua, quest’anno il 12 aprile, è caratterizzata dalla Processione della Pace, al termine della quale il simulacro della Madonna fa cadere il velo nero che l’aveva ricoperta quando vede spuntare il simulacro del Cristo Risorto all’ombra del Duomo, e i due fercoli si corrono incontro al suono delle campane. Tiziano Zaccaria
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IN EDICOLA
LE GRANDI MONARCHIE
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l nuovo Dossier di «Medioevo» narra le vicende dei grandi regni dell’Europa medievale: Spagna, Francia, Germania e Inghilterra. L’autore, Tommaso Indelli, ricapitola dunque i fatti salienti che hanno segnato la storia delle quattro nazioni e traccia i profili dei loro protagonisti principali. Si ha cosí l’occasione di seguire, per esempio, il cammino compiuto dalla Spagna per affrancarsi dalla dominazione araba (la Reconquista) e favorire l’affermazione delle casate che la ressero a lungo e con successo, grazie a sovrani come Alfonso X il Saggio o come i re che promossero le grandi esplorazioni alla scoperta di nuove terre. La Francia, dal canto suo, fu senza dubbio una delle culle dell’Europa, quale ancora oggi la conosciamo, per impulso innanzitutto di Carlo Magno; ma anche in seguito, al trono transalpino ascesero figure di rilievo assoluto e, spesso, destinate a giocare ruoli decisivi nei rapporti – non sempre facili – fra il potere temporale e il potere religioso. Per dare quindi un’idea del peso esercitato dalla Germania, basterà ricordare che in quelle terre salirono al potere dinastie del calibro degli Ottoni e degli Svevi, i cui esponenti – si pensi, fra i tanti, a Federico II, lo stupor mundi – hanno plasmato la cultura medievale, ben oltre i confini della nazione tedesca. L’Inghilterra, infine, è senza dubbio la piú «regale» del quartetto, visto che tuttora è una monarchia anche dal punto di vista costituzionale: una corona i cui primi titolari furono uomini (e donne) del Medioevo e che è stata senza dubbio una fra le piú contese della storia, alimentando spesso cruente guerre intestine.
LO/MI. L. 46/2004, art. 1, c.1, . - D.L. 353/2003 conv.
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Rivista Bimestrale N°37 Marzo/Aprile 2020
MEDIOEVO DOSSIER
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AGENDA DEL MESE
Mostre TORINO IL TEMPO DI LEONARDO 1452-1519 Musei Reali di Torino, Biblioteca Reale fino all’8 marzo
Sulla scia delle celebrazioni per il cinquecentesimo anniversario dalla morte di Leonardo da Vinci, i Musei Reali di Torino propongono un nuovo percorso tematico di approfondimento. Attraverso i preziosi materiali custoditi in Biblioteca, l’esposizione ripercorre oltre sessant’anni di storia italiana ed europea, un periodo di grande fermento culturale in cui si incrociarono accadimenti, destini e storie di grandi protagonisti del Rinascimento, da Michelangelo a Cristoforo Colombo, dal Savonarola a Cesare Borgia, dalla caduta dell’impero romano d’Oriente all’avvento del protestantesimo
e all’invenzione della stampa, eventi che mutarono per sempre il corso della storia. Il percorso si snoda nelle due sale al piano interrato della Biblioteca Reale: il primo caveau, la Sala Leonardo, accoglie una selezione di opere di artisti italiani contemporanei a Leonardo da Vinci, accanto al Codice sul volo degli uccelli.
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a cura di Stefano Mammini
Nove disegni autografi del maestro vinciano accompagnano il celebre Autoritratto: è l’occasione per ammirare uno dei piú noti capolavori della storia dell’arte. La seconda sala presenta manoscritti miniati, incunaboli, cinquecentine, preziose carte geografiche antiche, disegni e incisioni, affiancati da un ricco corredo didascalico, per illustrare i personaggi e i principali eventi storici occorsi durante la vita di Leonardo. info tel. 011 19560449; www.museireali.beniculturali.it FIRENZE I CIELI IN UNA STANZA. SOFFITTI LIGNEI A FIRENZE E A ROMA NEL RINASCIMENTO Gallerie degli Uffizi, Sala Edoardo Detti e Sala del Camino fino all’8 marzo
Il soffitto metafora del cielo. Forme quadrate, rettangolari od ottagonali tutte riccamente decorate invitano i visitatori delle chiese e dei palazzi rinascimentali a sollevare gli occhi al cielo. Da elemento costruttivo nato per proteggere gli ambienti a ornamento che fonde nel suo insieme tutte le arti. Per la prima volta il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi dedica una mostra a un singolo elemento architettonico. Con questa mostra la Galleria degli Uffizi, che custodisce il maggior numero di disegni di soffitti rinascimentali, inizia a scriverne la storia. Del ricco patrimonio di disegni degli Uffizi è stata operata un’attenta selezione integrata da fogli dal Louvre, dal Museo Nazionale di Stoccolma, dalla Biblioteca di Storia dell’Arte e di Archeologia, dal Museo di Roma, dagli Archivi di Stato di Roma e di Firenze. Oltre trenta opere esposte tra disegni tecnici, di ornato e di figura, dipinti e altri
manufatti preziosi e poco conosciuti che raccontano lo splendore dei soffitti lignei nel Rinascimento e come, per la loro realizzazione, pittura e scultura fossero strettamente connesse all’architettura. info tel. 055 294883; e-mail: infouffizi@beniculturali.it; www.uffizi.it BOLOGNA IMAGO SPLENDIDA. CAPOLAVORI DI SCULTURA LIGNEA A BOLOGNA DAL ROMANICO AL DUECENTO Museo Civico Medievale fino al 13 aprile (prorogata)
Può dirsi un fenomeno di recente affermazione il rinnovato interesse verso la scultura lignea italiana, ai cui aspetti materiali e tecnici è a lungo mancato, nella storiografia artistica, un pieno riconoscimento di dignità critica. In un quadro di riferimento segnato, in particolare per il patrimonio artistico prodotto nel XII e XIII secolo, da una rarefazione delle opere causata dalla deperibilità del materiale e dalla progressiva trasformazione delle immagini al variare dei canoni estetici, «Imago splendida» segna un importante momento di ricognizione. La mostra approfondisce l’affascinante e ancora poco studiata produzione scultorea lignea a Bologna tra XII e XIII secolo, restituendone una rilettura aggiornata a quasi
vent’anni dall’esposizione «Duecento. Forme e colori del Medioevo a Bologna», una cui sezione rappresentava lo spazio del sacro con opere inerenti l’iconografia sacra bolognese. Grazie alla collaborazione della Curia Arcivescovile di Bologna e della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, e con il patrocinio di Alma Mater StudiorumDipartimento delle Arti, il progetto è l’esito espositivo di una sedimentata ricerca filologica e documentaria, che fissa una nuova tappa verso la comprensione dei modelli di riferimento nel contesto figurativo della Bologna altomedievale. Il nucleo principale della mostra, allestita nella Sala del Lapidario, si compone delle testimonianze piú rappresentative della produzione plastica superstite nella città: tre croci intagliate di proporzioni monumentali appartenenti alla variante iconografica del Christus Triumphans che vince la morte, per la prima volta eccezionalmente riunite insieme. La comparazione ravvicinata dei manufatti offre in visione tangenze e analogie, sul piano della sintassi formale e tecnica, che rendono plausibile l’ipotesi di un’inedita attribuzione a un’unica bottega, credibilmente di area alpina sudtirolese – il cosiddetto Maestro del
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Crocefisso Cini – in una fase temporale compresa tra il 1270 e il 1280. info tel. 051 2193916 oppure 2193930: e-mail: museiarteantica@comune. bologna.it; www.museibologna.it; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Twitter: @MuseiCiviciBolo URBINO RAPHAEL WARE. I COLORI DEL RINASCIMENTO Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale fino al 13 aprile
La grande stagione rinascimentale italiana trova piena espressione in ogni forma artistica: quella della maiolica esprime pienamente la ricerca estetica, il clima culturale, ma anche il modus vivendi, che fa dell’Italia e dei suoi artisti, tra Quattrocento e Cinquecento, il faro culturale dell’Occidente. Dal Seicento in poi, nei Paesi europei, la maiolica cinquecentesca italiana diventa una vera e propria passione collezionistica e, a quella istoriata, da considerarsi a pieno titolo un aspetto della pittura rinascimentale, viene associato il nome del grande pittore urbinate: in inglese Raphael ware. E la Galleria Nazionale delle Marche espone, in questa mostra, 147 raffinati esemplari di maiolica italiana rinascimentale, provenienti dalla piú grande collezione privata al mondo, di questo genere, con l’obiettivo di focalizzare l’attenzione su quell’importante momento della tradizione artistica italiana. L’esposizione è allestita al secondo piano del Palazzo Ducale di Urbino, nella luminosa Loggia del Pasquino, con l’intenzione di mostrare questi raffinati oggetti nella piena luce naturale, poiché la maiolica – piú di ogni altra
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forma d’arte del tempo – mostra i suoi colori perfettamente conservati come all’origine, quando uscí dalla bottega del ceramista. La loggia è posta a fianco alle sale che espongono una parte delle ceramiche della collezione permanente e l’allestimento – appositamente creato – verrà poi utilizzato proprio per ampliare lo spazio espositivo dedicato a questa sezione. info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it CITTÀ DEL VATICANO
maestro umbro: la tavola con la Madonna in trono col Bambino e Santi dei Musei Vaticani reinserita nella sua splendida cornice originale e riunita alla cimasa raffigurante il Cristo in pietà del museo perugino. Realizzati nel 1495 per la Cappella del Palazzo dei Priori di Perugia, i due dipinti furono separati nel 1797, in seguito alle requisizioni francesi che portarono a Parigi la sola grande tavola. Cornice e cimasa furono invece lasciate nel Palazzo. Dopo la caduta di Napoleone, la tavola
non fu restituita a Perugia ma, per disposizione di Pio VII, entrò a far parte della Pinacoteca Vaticana. L’anno delle celebrazioni raffaellesche per il cinquecentenario della morte dell’Urbinate – l’Anno Sanzio per usare un neologismo – si apre quindi in Vaticano con la ricostruzione di una delle opere piú significative del suo maestro, Pietro Vannucci detto il Perugino. info tel. 06 69884676; e-mail: info.mv@scv.va; www.museivaticani.va GENT VAN EYCK. UNA RIVOLUZIONE OTTICA Museo delle Belle Arti (MSK) fino al 30 aprile
In tutto il mondo, sopravvive appena una ventina di dipinti e disegni di Jan van Eyck (1390 circa-1441), piú della metà dei quali sono riunite nell’esposizione allestita nell’MSK, insieme a opere della sua bottega, copie di quadri del maestro ormai scomparsi e piú di 100 altri
ALL’ALBA DI RAFFAELLO LA PALA DEI DECEMVIRI DEL PERUGINO Musei Vaticani, Sala XVII, Pinacoteca fino al 30 aprile
Dopo essere stata ammirata a Perugia nella sua ritrovata unità e bellezza originaria – la Pala dei Decemviri del Perugino torna a fare bella mostra di sé, sempre eccezionalmente e temporaneamente ricomposta. Un’occasione imperdibile, nata dalla felice e proficua collaborazione tra i Musei «del Papa» e la Galleria Nazionale dell’Umbria, per ammirare anche nella Pinacoteca Vaticana la ricomposizione della celebre opera del
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AGENDA DEL MESE capolavori. Il cuore della mostra è costituito dagli otto pannelli del polittico dell’Agnello mistico (1432) di Hubert e Jan van Eyck. Tra il 2012 e il 2016, questi pannelli sono stati restaurati all’interno del museo dall’Istituto statale per la tutela del patrimonio artistico (KIK). Gli straordinari risultati del restauro (durante il quale sono stati rimossi vecchi strati di pittura e parti coperte riportando al suo splendore originario questo capolavoro) consentono di vedere l’opera di Van Eyck in «modo nuovo». E proprio questo intervento ha suggerito al Museo di realizzare questa prestigiosa esposizione. In via unica e del tutto eccezionale, gli otto pannelli restaurati del polittico chiuso, insieme ai dipinti di Adamo ed Eva ancora da restaurare, vengono esposti come dipinti singoli al di fuori della cattedrale di S. Bavone. Sono sistemati all’altezza dello sguardo, in modo che tutti possano ammirare i magnifici colori, gli straordinari dettagli e la rappresentazione quasi tangibile dei tessuti. Si tratta della prima e ultima volta che il visitatore potrà arrivare cosí vicino al lavoro del maestro fiammingo. info www.mskgent.be
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TORINO ANDREA MANTEGNA. RIVIVERE L’ANTICO, COSTRUIRE IL MODERNO Palazzo Madama, Corte Medievale e Piano Nobile fino al 4 maggio
Torino rende omaggio ad Andrea Mantegna, uno dei piú importanti artisti del Rinascimento italiano, con una ricca rassegna, allestita nelle sale monumentali di Palazzo Madama. La mostra presenta il percorso artistico del grande pittore, dai prodigiosi esordi giovanili al riconosciuto ruolo di artista di corte dei Gonzaga, articolato in sei sezioni che evidenziano momenti particolari della sua carriera e significativi aspetti dei suoi interessi e della sua personalità artistica, illustrando al tempo stesso alcuni temi meno indagati come il rapporto di Mantegna con l’architettura e con i letterati. Viene cosí proposta un’ampia lettura della figura dell’artista, che definí il suo originalissimo linguaggio formativo sulla base della profonda e diretta conoscenza delle opere padovane di Donatello, della familiarità con i lavori di Jacopo Bellini e dei suoi figli (in particolare del geniale Giovanni), delle novità fiorentine e fiamminghe, nonché dello studio della scultura antica. Un’attenzione specifica è dedicata al suo ruolo di artista di corte a Mantova e alle modalità con cui Mantegna definí la fitta rete di relazioni e amicizie con scrittori e studiosi, che lo resero un riconosciuto e importante interlocutore nel panorama culturale, capace di dare forma ai valori morali ed estetici degli umanisti. Il percorso della mostra è preceduto e integrato, nella
Corte Medievale di Palazzo Madama, da un apparato di proiezioni multimediali: ai visitatori viene proposta un’esperienza immersiva nella vita, nei luoghi e nelle opere di Mantegna, cosí da rendere accessibili anche i capolavori che, per la loro natura o per il delicato stato di conservazione, non possono essere presenti in mostra, dalla Cappella Ovetari di Padova alla celeberrima Camera degli Sposi, dalla sua casa a Mantova al grande ciclo all’antica dei Trionfi di Cesare. Il Piano Nobile di Palazzo Madama accoglie, quindi, l’esposizione delle opere, a partire dal grande affresco staccato proveniente dalla Cappella Ovetari, parzialmente sopravvissuto al bombardamento della seconda guerra mondiale ed esposto per la prima volta
dopo un lungo e complesso restauro e dalla lunetta con Sant’Antonio e San Bernardino da Siena proveniente dal Museo Antoniano di Padova. Il percorso espositivo non è solo monografico, ma presenta capolavori dei maggiori protagonisti del Rinascimento nell’Italia settentrionale che furono in rapporto con Mantegna, tra cui opere di Donatello, Antonello da Messina, Pisanello, Paolo Uccello, Giovanni Bellini, Cosmè Tura, Ercole de’ Roberti, Pier Jacopo Alari Bonacolsi detto l’Antico e infine il Correggio. Accanto a dipinti, disegni e stampe di Mantegna, sono esposte opere fondamentali dei suoi contemporanei, cosí come sculture antiche e moderne, dettagli architettonici, bronzetti, medaglie, lettere marzo
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autografe e preziosi volumi antichi a stampa e miniati. info tel. 011 4433501; www.palazzomadamatorino.it TRENTO L’INVENZIONE DEL COLPEVOLE. IL «CASO» DI SIMONINO DA TRENTO, DALLA PROPAGANDA ALLA STORIA Museo Diocesano Tridentino fino all’11 maggio (prorogata)
Simone da Trento (detto il «Simonino»), un bambino di circa due anni, scomparve misteriosamente la sera del 23 marzo 1475 e fu ritrovato cadavere la mattina di tre giorni dopo, nei pressi dell’abitazione di una famiglia ebrea. In base a radicati pregiudizi, la responsabilità del rapimento e del delitto venne subito attribuita ai membri della locale comunità ebraica. L’accusa si fondava sulla convinzione che gli Ebrei compissero sacrifici rituali di
fanciulli cristiani con lo scopo di reiterare la crocifissione di Gesú, servendosi del sangue della vittima per scopi magici e religiosi. Incarcerati per ordine del principe vescovo di Trento Johannes Hinderbach, gli Ebrei vennero processati, costretti a confessare sotto tortura e infine giustiziati.
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Proprio in virtú del presunto martirio, Simone divenne presto oggetto di un intenso culto locale, che papa Sisto IV vietò sotto pena di scomunica. La prudenza e i dubbi della Chiesa non riuscirono a opporsi a una venerazione tributata per via di fatto e costruita utilizzando due potenti mezzi di comunicazione: le immagini e il nuovissimo strumento della stampa tipografica. Grazie alla macchina della propaganda, abilmente orchestrata dal vescovo Hinderbach, il culto di Simonino si estese presto ad altre zone dell’Italia centrosettentrionale e della Germania, riuscendo a imporsi come prototipo di tutti i presunti omicidi rituali dei secoli a seguire. Solo nel Novecento, negli anni del Concilio Vaticano II, la rilettura critica delle fonti ha ristabilito la verità storica: il 28 ottobre 1965, lo stesso giorno in cui venne pubblicato il documento conciliare Nostra Aetate, la Chiesa abolí il culto del falso «beato». L’intera vicenda viene ora ripercorsa dalla mostra allestita nel Museo Diocesano Tridentino, ideata come omaggio a monsignor Iginio Rogger (1919-2014), già direttore del Museo stesso e coraggioso protagonista della storica revisione del culto di Simonino. A distanza di piú di mezzo secolo dalla sua abolizione, l’esposizione intende fare il punto sul «caso» di Simone da Trento e diffondere una piú ampia conoscenza di questa delicata e attualissima pagina della storia tardo-medievale. info tel. 0461 234419; e-mail: info@museodiocesanotridentino.it; www.museodiocesanotridentino.it
TORINO LEONARDO DA VINCI. I VOLTI DEL GENIO Museo Storico Nazionale d’Artiglieria fino al 31 maggio
Il museo torinese rende omaggio alla figura di un mortale che non smette di essere attraente e potente, genio artistico dalla personalità poliedrica e complessa. Suddivisa in cinque aree tematiche, la mostra indaga la vita del maestro, la sua immensa eredità, la sua opera piú famosa, l’Ultima Cena, i suoi studi sul corpo umano e infine la Tavola Lucana, una tempera su legno realizzata tra la fine del XV secolo e l’inizio del XVI secolo, scoperta nel 2018 in una collezione privata di Salerno. Il lavoro, sottoposto alle analisi scientifiche condotte dagli esperti del CNR dell’Università Federico II di Napoli e del Circe-Innova, presenta il volto di Leonardo da Vinci ripreso di tre quarti in semi-profilo, con caratteristiche molto diverse dalle aspettative e da quelle già evidenziate dal famoso ritratto di un anziano della Biblioteca Reale di Torino. info www.leonardodavincitorino. com; Facebook @ivoltidelgenio; Instagram Leonardodavinciivoltidelgenio
PADOVA «A NOSTRA IMMAGINE». SCULTURA IN TERRACOTTA A PADOVA NEL RINASCIMENTO DA DONATELLO A RICCIO Museo Diocesano fino al 2 giugno
Secoli, dispersioni, furti, indifferenza, vandalismi hanno
quasi completamente distrutto o disperso un patrimonio d’arte unico al mondo: le sculture in terracotta rinascimentali del territorio padovano. Ma qualcosa di prezioso e significativo è rimasto e il Museo Diocesano di Padova, insieme all’Ufficio beni culturali, al termine di una intensa, partecipata attività di recupero, studi, ricerche e restauri – sostenuti anche dalla campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi «Mi sta a cuore» – sono riusciti a riunire nelle Gallerie del Palazzo vescovile di Padova, una ventina di terrecotte rinascimentali del territorio, orgogliosa testimonianza delle migliaia che popolavano chiese, sacelli, capitelli, conventi e grandi abbazie di una Diocesi che spazia tra le province di Padova, Vicenza, Treviso, Belluno e Venezia. La
diffusione tanto capillare della scultura in terracotta proprio in questo territorio va individuata nella presenza prolungata e molto attiva, a Padova, a ridosso della basilica di S. Antonio, della bottega di Donatello e, dopo di lui, di Bartolomeo Bellano, Giovanni De Fondulis e Andrea Riccio. Questi artisti creavano capolavori in pietra, marmo, bronzo, ma anche nella piú umile (e meno costosa) terracotta. Opere preziose ed
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AGENDA DEL MESE espressive, e per questo molto ambite e richieste. In queste fucine venivano alla luce grandi scene di gruppo, come i Compianti, ma anche piccole ma raffinate Madonne con il Bambino o immagini di Santi per devozione familiare, di dimensioni ridotte ma spesso di grande qualità. E la mostra, quasi per campione, accoglie esempi emozionanti di queste variegate produzioni artistiche distribuite nel territorio, non meno pregiate di altre sculture in terracotta che saranno prestate per l’occasione da alcuni Musei nazionali e internazionali. info tel. 049 652855 o 049 8761924; www.museodiocesanopadova.it ROMA RAFFAELLO Scuderie del Quirinale fino al 2 giugno
Oltre cento opere di mano di Raffaello Sanzio sono riunite per la prima volta per la mostra che costituisce l’apice delle celebrazioni mondiali per i 500 anni dalla sua scomparsa. Il progetto espositivo trova ispirazione, in particolare, nel fondamentale periodo romano di Raffaello, che lo consacrò quale artista di grandezza ineguagliabile e leggendaria, e racconta con ricchezza di dettagli tutto il complesso e articolato percorso creativo. Ne fanno parte creazioni amatissime e famose in tutto il mondo, quali, solo per fare qualche esempio, la Madonna del Granduca dalle Gallerie degli Uffizi, la Santa Cecilia dalla Pinacoteca di Bologna, la Madonna Alba dalla National Gallery di Washington, il Ritratto di Baldassarre Castiglione e l’Autoritratto con amico dal Louvre, la Madonna della
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Da segnalare che la sua importante attività come frescante è illustrata da una ricostruzione video in 3D degli affreschi della cappella del Palazzo Pubblico di Siena, parte di un ricco apparto multimediale che documenta i restauri e le indagini diagnostiche eseguiti in occasione della mostra grazie al contributo della Galleria Nazionale dell’Umbria. info tel. 075 58668436; e-mail: gan-umb@beniculturali.it; biglietteria/bookshop: tel. 075 5721009; e-mail: gnu@sistemamuseo.it; www.gallerianazionaledellumbria.it BOLOGNA Rosa dal Prado, la celebre Velata, anch’essa dagli Uffizi. info tel. 02 92897722; e-mail: info@scuderiequirinale.it; www.scuderiequirinale.it PERUGIA TADDEO DI BARTOLO Galleria Nazionale dell’Umbria fino al 7 giugno (dal 7 marzo)
Il senese Taddeo di Bartolo (1362 circa-1422) è per la prima volta protagonista di una rassegna monografica, che, grazie a un centinaio di opere, ne ricostruisce l’intera parabola artistica. Vero e proprio maestro itinerante, trascorse buona parte della carriera spostandosi tra Toscana, Liguria, Umbria, e Lazio al servizio di famiglie politicamente ed economicamente potenti, autorità pubbliche, grandi Ordini religiosi e confraternite, affermandosi come il piú grande maestro del polittico del suo tempo. La rassegna enfatizza perciò questa forma d’arte sacra, grazie alla presenza di pale complete e di tavole disassemblate che, riaffiancate, consentono
eccezionali ricomposizioni. Per l’occasione, in un ambiente che ricrea l’interno di una chiesa francescana ad aula, è stato ricostruito l’imponente apparato figurativo della ormai smembrata Pala di San Francesco al Prato di Perugia, di cui la Galleria Nazionale dell’Umbria conserva ben 13 elementi. A questi si aggiungono le parti mancanti, finora individuate, come le sette tavole della predella raffiguranti Storie di san Francesco, conservate tra il Landesmuseum di Hannover (Germania) e il Kasteel Huis Berg a s’-Heerenberg (Paesi Bassi), e il piccolo San Sebastiano del Museo di Capodimonte a Napoli, che probabilmente decorava uno dei piloni della carpenteria. Sono comunque documentate anche le altre tipologie di opere, come gli stendardi processionali o le piccole tavole di devozione privata, offrendo quindi di una panoramica completa dell’arte di Taddeo.
IL POLITTICO GRIFFONI. LA RISCOPERTA DI UN CAPOLAVORO Palazzo Fava fino al 28 giugno (dal 12 marzo)
Nove musei di tutto il mondo, 16 tavole, tre secoli di attesa, un grande ritorno a casa. È un evento straordinario quello che si celebra in Palazzo Fava, con la ricostituzione di uno dei massimi capolavori del Rinascimento italiano: il Polittico Griffoni di Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti torna a splendere nella sua integrità, a 550 anni dalla sua realizzazione e 300 dalla sua disgregazione, in un’esposizione che per la
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prima volta ne riunisce tutte le parti esistenti, grazie agli straordinari prestiti di tutti i Musei proprietari. L’evento si articola in due iniziative: una focalizzata sulla pala d’altare, il suo significato e la sua importanza storica; l’altra sull’operato di Factum Foundation e l’importanza delle tecnologie digitali nella tutela e condivisione del patrimonio culturale. La superba pala, dedicata a san Vincenzo Ferrer, fu concepita per la cappella di famiglia di Floriano Griffoni nella basilica di S. Petronio. La sua realizzazione, collocata tra il 1470 e il 1472, fu affidata al ferrarese Francesco del Cossa, e il Polittico Griffoni segnò l’inizio della sua collaborazione con il piú giovane Ercole de’ Roberti, uno dei piú formidabili sodalizi artistici del secondo Quattrocento italiano. Assieme a Cossa e de’ Roberti lavorò alla cornice il maestro d’ascia Agostino de Marchi da Crema. Attorno al 1725 il nuovo proprietario della cappella, monsignor Pompeo Aldrovandi, fece smantellare la pala e destinò le singole porzioni figurate a «quadri di stanza» della residenza di campagna della famiglia a Mirabello, nei pressi di Ferrara. Nel corso dell’Ottocento i dipinti entrarono poi nel giro del mercato antiquario e del collezionismo prima di pervenire nei nove musei, oltre la metà dei quali fuori dai confini nazionali, che oggi custodiscono le opere. info tel. 051 19936305; e-mail: palazzofava@genusbononiae.it; https://genusbononiae.it/ ROMA RINASCIMENTO MARCHIGIANO. OPERE D’ARTE RESTAURATE DAI
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LUOGHI DEL SISMA Complesso Monumentale di San Salvatore in Lauro del Pio Sodalizio dei Piceni fino al 5 luglio 2020
Il Complesso Monumentale di San Salvatore in Lauro, sede della Fondazione Pio Sodalizio dei Piceni, attiva nell’Urbe fin dal 1600, accoglie 36 opere d’arte – databili fra il XV e il XVIII secolo – scelte tra quelle restaurate a seguito del sisma del 2016. Si tratta della seconda tappa di un’esposizione itinerante che ha preso il via proprio nella zona del cratere, ad Ascoli Piceno presso il Forte Malatesta, che ora continua a Roma e che si concluderà a Senigallia, sulla riviera adriatica. Della selezione fanno parte manufatti dall’alto
e Giacomo della Marca dalla sacrestia della chiesa di S. Francesco ad Ascoli Piceno. E ancora, da Roma, Giovanni Baglione e Giovanni Serodine, che dalla Svizzera seguí nella capitale l’esempio di Caravaggio. Tutti autori di indubbia fama che nelle Marche sono nati o che vi hanno soggiornato e che hanno contribuito a modificare la geografia della storia dell’arte. Gli interventi di restauro sono stati eseguiti con innovative analisi diagnostiche, che non soltanto hanno consentito di porre rimedio ai danni subiti dalle opere, ma hanno permesso di effettuare nuove attribuzioni e di acquisire nuove conoscenze relative alla tecnica pittorica e ai materiali usati dai pittori, accrescendo le conoscenze che si avevano su questo patrimonio e aprendo la strada a molti studi scientifici. info tel. 06 99572979; e-mail: info@artifexarte.it; www.artifexarte.it ROMA
valore devozionale e/o storicoartistico, fra i quali figurano crocifissi lignei e vesperbild di ambito tedesco, che ancora oggi si trovavano all’interno delle chiese come oggetti di culto da parte dei fedeli. Vi sono quindi nomi importanti, come Jacobello del Fiore, con la serie delle Scene della vita di Santa Lucia provenienti dal Palazzo dei Priori di Fermo, Vittore Crivelli con la Madonna orante, il Bambino e angeli musicanti di Sarnano, Cola dell’Amatrice, di cui spicca la Natività con i santi Gerolamo, Francesco, Antonio da Padova
RAFFAELLO E LA DOMUS AUREA. L’INVENZIONE DELLE GROTTESCHE Domus Aurea fino al 10 gennaio 2021 (dal 24 marzo)
Gli spazi della Domus Aurea (sala ottagona e ambienti limitrofi) celebrano il cinquecentenario della morte di Raffaello con un evento espositivo dedicato al tema delle grottesche, forte di straordinari apparati interattivi e multimediali. Il progetto ha l’ambizione di raccontare la storia e l’arte di uno dei complessi architettonici piú famosi al mondo, che ha segnato e influenzato, con la sua scoperta, l’iconografia del Rinascimento. Fu infatti Raffaello, nel secondo
decennio del Cinquecento, insieme al fidato collaboratore Giovanni da Udine, a comprendere a fondo la logica delle grottesche antiche, riproponendole organicamente, grazie alle sue profonde competenze antiquarie, per la prima volta nella Stufetta del cardinal Bibbiena (1516) e poi, sempre nell’appartamento del Bibbiena nel Palazzo Apostolico in Vaticano, nella Loggetta (1516-17). La secolare fortuna delle grottesche può essere documentata anche sul lunghissimo periodo: saranno in particolare i principali esponenti del surrealismo (Victor Brauner, Salvador Dalí, Max Ernst, Joan Miró, Yves Tanguy) a essere sedotti dall’«arte magica» di questi sistemi decorativi, riproponendo ancora una volta, in chiave onirica e freudiana, quelle invenzioni capaci di scandalizzare il gusto dei classicisti e la falsa coscienza dei moralisti. info www.parcocolosseo.it
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AGENDA DEL MESE
Appuntamenti ROMA EPHIMERA. DIALOGHI SULLA MODA Curia Iulia al Foro Romano fino al 21 marzo
Nella suggestiva ambientazione della Curia Iulia, antica sede del Senato romano, poi trasformata, nel Medioevo, nella chiesa di S.
da effettuarsi a partire dal lunedí precedente l’incontro, dalle ore 7,30, scrivendo (indicando il nominativo) al seguente indirizzo mail: ephimera@mondadori.it info https://parcocolosseo.it/ MILANO MEDIOEVO IN LIBRERIA, XVIII EDIZIONE IL MEDIOEVO DEI CASTELLI Museo Civico Archeologico,
mattino, proiezioni video e conferenze al pomeriggio. Tutti gli incontri pomeridiani hanno inizio alle ore 15,30 con la proiezione del filmato Medioevo Movie-Viaggio nel Medioevo, a cui fanno seguito le conferenze. Qui di seguito, l’elenco dei prossimi appuntamenti: 7 marzo: ore 10,00: visita guidata alla chiesa di S. Maria Incoronata; ore 16,00: Alessandro Bazzoffia, I castelli alla motta dell’Ovest mantovano: risorse culturali e turistiche del territorio tra restauro, riuso e valorizzazione; 4 aprile: ore 10,00: visita guidata alla chiesa di S. Cristoforo; ore 16,00: Nicolangelo D’Acunto, Castelli reali, castelli immaginati. info tel. 333 5818048; e-mail: info@ italiamedievale.org; www.italiamedievale.org; http:// medioevoinlibreria.blogspot.com FIRENZE
Adriano, continuano gli incontri previsti dalla rassegna «Ephimera. Dialoghi sulla moda». Le conferenze, aperte al pubblico, si tengono il sabato mattina, alle 11,30, con ingresso libero fino a esaurimento posti (100 posti seduti, 30 posti in piedi), secondo il calendario seguente: 7 marzo, Roberto D’Agostino, Andrea Mecacci, Considerazioni sul kitsch; 21 marzo, Giovanni Gastel, Cristina Lucchini, Sguardi italiani. L’ingresso alla Curia si effettua direttamente da Largo della Salara Vecchia, su via dei Fori Imperiali all’altezza di Largo Corrado Ricci. È necessaria la prenotazione
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Sala Conferenze fino al 4 aprile
«Il Medioevo dei castelli» è il tema scelto per la XVIII edizione di «Medioevo in Libreria», rassegna che prevede visite guidate al
RICORRENZE DI BRUNELLESCHI E RAFFAELLO Antica Canonica di San Giovanni, Sala Brunelleschi fino al 19 maggio
A cinquecento anni dalla morte di Raffaello (che in riva all’Arno soggiornò dal 1504 al 1508, maturando la sua espressione in uno dei momenti piú alti della storia fiorentina) e a seicento dall’avvio dei lavori alla Cupola di Brunelleschi, l’Opera del Duomo di Firenze ricorda gli anniversari con un ciclo di conferenze, alle ore 17,00, a ingresso libero, fino a esaurimento posti. Questi i prossimi appuntamenti: 17 marzo: Sergio Givone, Brunelleschi «inventore»; 31 marzo: Marco Gigante, Interpretazioni moderne dell’Umanesimo; 14 aprile: Vittoria Compagni
Perrone, Filosofia dell’Umanesimo; 21 aprile: Vincenzo Farinella, «Il nuovo Apelle»: Raffaello e le arti degli antichi. info e-mail: eventi@ operaduomo.firenze.it; www.operaduomo.firenze.it FIRENZE DIALOGHI DI ARTE E CULTURA Gallerie degli Uffizi, Auditorium Vasari fino al 27 maggio
Replicando una formula sperimentata con successo, le Gallerie degli Uffizi propongono un nuovo ciclo di incontri, articolati in quattro categorie: Tesori dai depositi, Capolavori su carta, Dietro le quinte e Laboratorio universale. Questo il calendario dei prossimi appuntamenti, che si tengono alle ore 17,00, con ingresso libero, fino a esaurimento posti: 4 marzo (Laboratorio Universale), Paolo Pastres, Luigi Lanzi e la Galleria degli Uffizi; 11 marzo (Laboratorio Universale), Veronica D’Ascenzo, Arte ed educazione in aiuto dei minori con disturbo post traumatico da stress. Esperienze a confronto; marzo
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APPUNTAMENTI • Luce sull’Archeologia 2020 - Alle origini di Roma. Miti, popoli, culture Roma – Teatro Argentina
fino al 21 aprile info www.teatrodiroma.net
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lle origini di Roma. Miti, Popoli, Culture» è il tema scelto per la VI edizione di «Luce sull’Archeologia. Incontri di Storia e Arte». A esplorarlo sono stati invitati storici, filologi,
archeologi, storici dell’arte, architetti, epigrafisti, scienziati, ai quali si affiancheranno musicisti e specialisti di strumenti musicali del mondo antico. Fino al 21 aprile, gli incontri propongono un ricco palinsesto dedicato non solo alla storia piú antica di Roma, ma anche alla progressiva conquista del Lazio, analizzando i miti di fondazione e i popoli con i quali Roma si è trovata a confronto. Aver assicurato continuità a questi incontri ha consentito di raggiungere un risultato di eccellenza nella divulgazione e fruizione dei dati scientifici, grazie anche al prosieguo della collaborazione con lo storico dell’arte Claudio Strinati, con il direttore delle riviste «Archeo» e «Medioevo», Andreas M. Steiner, e con il direttore associato dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, Massimiliano Ghilardi. Questi i prossimi appuntamenti: 8 marzo, Roma, il Lazio dei Ciclopi e lo sguardo dei Greci, con Claudio Strinati, Andreas M. Steiner, Massimiliano Ghilardi, Luciano Canfora, Paolo Sommella e Massimiliano Valenti; 22 marzo, Testimonianze scritte e
architettura, con Claudio Strinati, Andreas M. Steiner, Massimiliano Ghilardi, Francesco Maria Galassi, Silvia Orlandi e Alessandro Viscogliosi; 19 aprile, Roma città aperta tra rappresentazione e realtà, con Claudio Strinati, Andreas M. Steiner, Massimiliano Ghilardi, Carmine Ampolo, Francesca Cenerini, Stefano Tortorella.
Museo Archeologico Nazionale
fino al 4 giugno
18 marzo (Dietro le Quinte), Lucia Meoni, Raffaello e gli arazzi per Leone X; 25 marzo (Lectura Dantis), Paolo Procaccioli, Per Dante e per Firenze. Programmi letterari e artistici tra Quattro e Cinquecento; 1° aprile (Dietro
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le Quinte), Maurizio Michelozzi, La Scuola di Atene di Raffaello, esempio di ben finito cartone. info www.uffizi.it/ FIRENZE INCONTRI AL MUSEO. VIII EDIZIONE
Tornano gli ormai tradizionali incontri del giovedí presso il Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Gli appuntamenti, a ingresso gratuito, sono in programma alle 17,00. Queste le prossime date: 12 marzo: Anna Revedin, Legno, farina... tracce inaspettate del più antico popolamento della Toscana; 2 aprile: Paolo Persano, Antiope perde la testa! Nuove ricerche sulle sculture frontonali del tempio di Apollo Daphnephoros a Eretria; 30 aprile: Graziella Becatti, Hypnos-Somnus: il dio del sonno, un demone custode.
info tel. 055 23575 o 2357717; e-mail: pm-tos. musarchnaz-fi@beniculturali.it; www.polomusealetoscana. beniculturali.it
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Simonino e il martirio che non c’era
di Lorenza Liandru
Il piccolo Simonino da Trento, presunta vittima di omicidio rituale ebraico, fu venerato per secoli come «martire» innocente. Una vicenda penosa, nella quale si intrecciano, sovrapponendosi, sentimenti antiebraici, esigenze devozionali e ambizioni di politica ecclesiastica. Ora una mostra allestita presso il Museo Diocesano Tridentino ripercorre le tappe di questo emblematico episodio risalente al 1475, mettendo in evidenza i meccanismi di «costruzione del nemico» e il potere della propaganda
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l 23 marzo 1475, un Giovedí Santo, il piccolo Simone Lomferdorm scomparve misteriosamente tra i vicoli di Trento, città alpina di antica origine,adagiata su un’ansa del fiume Adige, che all’epoca dei fatti era parte dell’impero asburgico e da circa dieci anni era governata dal principe vescovo Johannes Hinderbach (1418-1486), autorità spirituale e temporale dell’omonimo principato vescovile. A lui si rivolse, venerdí 24 marzo, il conciapelli Andrea, padre del bambino scomparso e, in un primo momento, dichiarò di temere che Simone – che aveva poco piú di due anni – fosse accidentalmente caduto nell’acqua del fossato che scorreva davanti alla casa di famiglia. Il vescovo affidò le ricerche al podestà di Trento, il bresciano Giovanni de Salis, il quale emanò un bando per invitare chiunque avesse notizie a presentarsi. Alla fine della giornata, tuttavia, i sospetti del padre si orientarono verso la piccola comunità
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Compianto sul corpo morto di Simonino da Trento, gruppo in legno intagliato, dipinto e dorato della bottega di Daniel Mauch. Primo-secondo decennio del XVI sec. Collezione privata.
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storie trento Presunto martirio di Simonino da Trento, olio su tela di Giuseppe Alberti. 1677. Trento, Castello del Buonconsiglio, Monumenti e collezioni provinciali.
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Omicidio rituale
Quell’accusa infamante... Quello di Simonino da Trento è probabilmente il piú famoso «caso» di presunto omicidio rituale, ma non l’unico: tra Medioevo e prima età moderna si contano decine di accuse di infanticidio mosse agli Ebrei in Europa. I primi casi risalgono alla metà del XII secolo e rappresentano l’inizio di un fenomeno di lungo periodo, che conobbe grande notorietà e che si protrasse fino agli inizi del XX secolo. In quanto stereotipo calunnioso e invenzione priva di fondamento, il mito dell’omicidio
rituale prevedeva uno schema ben definito: si pensava che durante la Settimana Santa un fanciullo cristiano venisse rapito, torturato e infine ucciso secondo modalità che si ricollegavano in modo piú o meno esplicito alla Passione di Cristo; si credeva che il sangue della vittima fosse poi utilizzato per scopi di natura magica e rituale e per impastare gli azzimi, evidente ribaltamento negativo dell’eucarestia. Rigettata da molte bolle papali, la leggenda dell’omicidio rituale racchiude in sé numerosi stereotipi
antiebraici codificati nel corso dei secoli ed è legata alle concezioni medievali sull’uso del sangue e ai valori simbolici del Sangue di Cristo. Si rifà, inoltre, a elementi mitici preesistenti, le cui origini rimangono ancora oggi oscure. Il culto spontaneo dei bambini presunte vittime di omicidio rituale permise la sopravvivenza e la diffusione della cosiddetta «accusa del sangue», radicando il mito dell’Ebreo assassino nel sistema di credenze e superstizioni popolari.
ebraica locale, costituita da circa trenta persone, quasi tutte di origine ashkenazita (germanica). Nel rivolgere istanza al podestà cittadino, Andrea Lomferdorm dichiarò infatti di aver udito da molte persone che gli Ebrei, nei giorni della Settimana Santa, rapivano e uccidevano i bambini cristiani.
Una credenza terribile e assurda
La diceria riportata da Andrea era largamente diffusa nella mentalità popolare – soprattutto nei territori a nord delle Alpi – e costituiva una delle principali superstizioni cristiane nei confronti degli Ebrei. Secondo tale credenza, tanto terribile quanto assurda, gli Ebrei erano soliti compiere sacrifici rituali di fanciulli cristiani con lo scopo di reiterare la crocifissione di Gesú, servendosi del sangue della vittima per scopi magico-religiosi e in spregio della religione cristiana (in vilipendium Christianae fidei; vedi box in questa pagina). È probabile che in tale circostanza l’antica diffidenza nei confronti delle comunità ebraiche fosse stata rinfocolata dalle accese parole di fra Bernardino da Feltre (presente a Trento nei primi mesi del 1475), che aveva fra i propri bersagli proprio gli Ebrei e l’attività di piccolo credito da loro esercitata (vedi box a p. 48). Pur non essendoci un nesso diretto tra predicazione francescana e accusa di presunto omicidio rituale, le invettive del frate favorirono senza dubbio la diffusione di un generalizzato e pesante clima antiebraico. In seguito alla segnalazione del padre del bambino, il podestà fece perquisire le case degli Ebrei, ma la ricerca fu vana. E furono gli stessi Ebrei, domenica 26 marzo, giorno di Pasqua, a denunciare il ritrovamento del corpo di Simone nel fossato che percorreva i sotterranei della
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Simonino da Trento trionfante con due fanciulli, opera attribuita a un pittore cremonese (?). Fine del XVI-inizi del XVII sec. Ferrara, Pinacoteca nazionale.
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storie trento In questa pagina Santa Elisabetta d’Ungheria e Simonino da Trento, tempera su tavola attribuita a un pittore tirolese 1480-1490 circa. Bressanone, Hofburg.
Nella pagina accanto xilografia raffigurante il martirio di Simonino, da un’edizione del Liber chronicarum di Hartmann Schedel. 1493, Trento, Biblioteca comunale.
storia del culto di simonino
Dalla revisione all’abrogazione All’inizio del XX secolo prese avvio il lento processo di revisione dei culti legati ai presunti omicidi rituali ebraici, già messi in dubbio da isolate figure nei secoli precedenti. Il «caso» di Simonino da Trento fu tra i primi a essere messo in discussione: nel 1903 Giuseppe Menestrina affrontò per primo la vicenda dal punto di vista storico-giuridico, ponendo in maniera chiara e decisa il problema storico e critico connesso alle fonti, nello specifico gli atti dei processi trentini. Si dovrà tuttavia attendere il secondo dopoguerra perché la «questione» Simonino trovi terreno fertile per una revisione. Una svolta si ebbe nel 1961, quando l’ebrea triestina Gemma Volli giunse a Trento per studiare le testimonianze storiche del «caso» Simonino e creare un movimento d’opinione favorevole alla soppressione del culto del «beato». Durante la sua permanenza in città, Volli incontrò don Iginio Rogger – uno storico della Chiesa che alcuni anni prima, occupandosi di Simonino, aveva lamentato l’assenza di uno studio critico in proposito – e gli rivelò il peso del caso trentino nella questione ebraica. Va ricordato che il tema del rapporto tra tradizione cristiana e antisemitismo stava divenendo oggetto di riflessione proprio nei primi anni Sessanta. Nel 1963 Rogger propose al vescovo Alessandro Maria Gottardi di affidare al domenicano Willehad Paul Eckert uno studio indipendente sulla vicenda. I risultati dell’indagine di Eckert, resi pubblici nel 1964, denunciarono chiaramente le pesanti distorsioni presenti nella procedura inquisitoria del tribunale trentino contro gli Ebrei, giungendo a invalidare la sentenza per la mancanza di prove a loro carico. Nel 1965 lo studio di Eckert fu quindi sottoposto alla Sacra Congregazione dei Riti, che, il 4 maggio dello stesso anno, decise di rimuovere il culto del presunto martire. Il 28 ottobre 1965 il culto di Simonino fu ufficialmente abrogato, lo stesso giorno della promulgazione del documento Nostra Aetate, la storica dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane.
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casa di Samuele di Bonaventura da Norimberga, l’esponente piú in vista del piccolo gruppo israelita. Il rinvenimento del cadavere avvenne in un clima fortemente avverso agli Ebrei, avvelenato da sospetti, superstizioni e pregiudizi che vedevano nei giudei i tradizionali nemici del popolo cristiano. Otto di loro vennero subito incarcerati per ordine del podestà Giovanni de Salis e altri dieci subirono la medesima sorte il giorno successivo.
Un’autopsia sospetta
Nel frattempo, le perizie eseguite sul corpo del fanciullo evidenziarono, secondo il parere dei medici, la presenza di ferite sospette, non compatibili con una morte accidentale. Questa controversa indagine, condotta dal medico umanista Giovanni Mattia Tiberino, persona strettamente legata al vescovo e al podestà, acquistò nella vicenda un valore del tutto particolare, poiché venne considerata come una prima verità processuale. La posizione degli Ebrei si aggravò e le testimonianze raccolte in città fornirono ulteriori indizi di colpevolezza: i testi (segue a p. 49) marzo
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storie trento Il ÂŤmartirioÂť illustrato
Riunione degli Ebrei in Sinagoga
Tobia viene incaricato di rapire un bambino
Simonino viene portato in casa degli Ebrei
Ritrovamento del corpo di Simonino nella roggia
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I genitori di Simonino cercano il figlio
Il corpo di Simonino viene deposto sull’altare
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cristiano
Tobia rapisce Simonino
Sulle due pagine xilografie che corredano l’opera di Giovanni Mattia Tiberino Die Geschicht und Legend von dem seyligen Kind und Marterer genannt Symon, von den Juden zu Trientt gemarteret und getÜttet. 1475. Washington, Library of Congress.
Presunto martirio di Simonino da Trento
Gli Ebrei vengono giustiziati
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storie trento Bernardino da Feltre Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
Accuse pesanti come macigni Generalmente rivolta alle fasce mediobasse della società medievale, l’attività dei banchi ebraici venne presto interpretata come un atto di guerra contro i cristiani, un metaforico «dissanguamento» di denaro che creava un’immediata connessione tra l’Ebreo «usuraio» e l’accusa di omicidio rituale. In questa temperie culturale si collocano i fondamenti dello stereotipo dell’Ebreo strozzino, capace di impoverire un’intera città e i suoi abitanti con i suoi tassi di interesse. Per contrastare i banchi di pegno ebraici, nella seconda metà del XV secolo i Francescani promossero in Italia la fondazione dei Monti di Pietà, istituzioni finanziarie senza scopo di lucro, ideate per erogare piccoli prestiti su pegno a condizioni particolarmente favorevoli. Il Minore Osservante Bernardino da Feltre, al secolo Martino Tomitano, fu tra i piú attivi fautori dei Monti. Nato nel 1439, entrò nell’Osservanza francescana nel 1456, scegliendo il nome di Bernardino in memoria del piú famoso santo da Siena (1380-1444). A trent’anni fu nominato predicatore provinciale e da allora percorse l’Italia in lungo e in largo, esortando le folle ad abbandonare vizi, sprechi e vanità. Dedicò gli ultimi dieci anni di vita – morí nel 1494 – alla diffusione e al sostegno dei monti pii e contro l’usura ebraica. Secondo i suoi biografi, Bernardino predicò instancabilmente la necessità di «smorbare» le città dalla presenza degli Ebrei, esortando i cristiani ad evitare rapporti con i giudei e invitando le autorità locali a sciogliere i patti con i prestatori e adoperarsi per la creazione di un monte. Nelle biografie si legge che Bernardino, di passaggio a Trento in prossimità della Pasqua del 1475, pronunciò nella chiesa cattedrale un duro attacco contro gli Ebrei, lamentando la familiarità che i cristiani della cittadina intrattenevano con loro, soprattutto con il medico Tobia e con Brunetta, moglie del prestatore Samuele da Norimberga. Dopo i fatti di Trento, la predicazione dei Francescani osservanti ebbe un ruolo non secondario nella vasta diffusione del culto di Simone. A sinistra Beato Bernardino da Feltre, tempera su tela di Vicino da Ferrara. Seconda metà del XV sec. Ferrara, Pinacoteca Nazionale. Nella pagina accanto lastra tombale del principe vescovo Johannes Hinderbach, attribuita a uno scultore austriaco (?). 1486 circa. Trento, Museo Diocesano Tridentino.
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gli ebrei e l’usura
Uno stereotipo duro a morire L’immagine dell’Ebreo usuraio rappresenta lo stereotipo antiebraico piú comune e duraturo nel tempo. Esso venne formulato dalla cultura cristiana medievale attraverso un processo di elaborazione mitica e religiosa di un’attività realmente esercitata dagli Ebrei e ufficialmente riconosciuta dai poteri locali. Gli Ebrei, tuttavia, non furono sempre prestatori e non tutti si dedicarono al piccolo credito al consumo: tale attività si impose in maniera crescente entro il mondo ebraico a partire dal X-XI secolo, per poi affermarsi tra il XII e il XVI come una realtà molto diffusa, in particolare nell’Italia centro-settentrionale. Il prestito al consumo venne gestito, soprattutto tra XII e XIII secolo, anche da mercanti e cambiavalute di religione e appartenenza culturale cristiana, figure che nel XIV secolo scomparvero progressivamente dal settore creditizio minore, per abbandonare del tutto l’attività feneratizia o dedicarsi alla finanza e al commercio. E proprio in questa fase il prestito ebraico si diffuse in Europa ed in Italia, sulla scia di trasformazioni economiche di vasta portata e come parziale soluzione alla crescente domanda di credito. In questo periodo molte città stipularono con i prestatori ebrei specifici contratti (noti come condotte), che, in cambio dell’apertura di un banco, garantivano al titolare dell’attività e alla sua comunità la cittadinanza per un certo numero di anni. Fu un fenomeno complesso e ambiguo, che la storiografia piú recente ha affrontato, mettendo in discussione la teoria che vedeva il diffondersi del prestito ebraico in stretta connessione con il divieto teologico-morale imposto ai cristiani di non prestare denaro a interesse. riferirono di aver udito il pianto di un bambino presso la sinagoga; qualcuno affermò di essere a conoscenza di un analogo episodio di rapimento avvenuto nella stessa Trento, solo due anni prima. Queste confuse e infervorate dicerie – diffuse soprattutto nella comunità tedesca residente a Trento – riecheggiavano la paura della diversità rappresentata dagli Ebrei, che seguivano usanze e ritualità inconsuete (e quindi sospette) per i cristiani. La fase processuale durò circa un mese. Gli interrogatori degli imputati si tennero per la gran parte in loco torturae, perché l’uso di tale strumento di coercizione fisica fu continuo e metodico, finalizzato a estorcere la piú perfetta delle prove: la confessione degli inquisiti. Fiaccati nel corpo e umiliati nello spirito, gli Ebrei con-
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storie trento fessarono uno alla volta, adattando le proprie risposte a quanto veniva chiesto dal podestà Giovanni de Salis – a cui venne demandata la gestione del procedimento – e alle leggende diffuse tra il volgo superstizioso. Solo Brunetta, moglie di Samuele di Bonaventura, non fece mai alcuna ammissione di colpevolezza, morendo presumibilmente in carcere, in seguito alle torture subite. Leggendo i verbali dei processi, colpisce, in particolare, la disperata richiesta di Vitale, che, logorato dalle immani sofferenze subite, supplicò il podestà chiedendo «Cosa devo dire?». Attraverso la tortura e l’uso di domande tendenziose e suggestive (vale a dire quesiti che suggeriscono le risposte), gli inquisitori ottennero dagli Ebrei anche la confessione del movente del delitto: l’antico odio contro i cristiani.
Pubbliche esecuzioni
Dopo una temporanea sospensione dei lavori, imposta dal conte del Tirolo Sigismondo d’Asburgo il 21 aprile 1475, il processo riprese il 5 giugno, giungendo in breve tempo al suo tragico epilogo. Sulla base delle fragili testimonianze raccolte, delle dubbie perizie mediche e, soprattutto, delle confessioni degli inquisiti – tutte estorte, come detto, con la tortura –, il giudice condannò a morte nove Ebrei di Trento. Le esecuzioni si tennero in piazza Duomo il 21, 22 e 23 giugno 1475. Circa un mese piú tardi, Papa Sisto IV intervenne nella questione, ordinando l’immediata interruzione del processo contro i dieci imputati minori. Il pontefice, inoltre, decise di inviare a Trento un commissario, incaricato di indagare sui fatti e supervisionare i procedimenti giudiziari ancora in corso. Il delicato compito fu affidato al frate domenicano e vescovo di Ventimiglia Battista de’ Giudici, che giunse a Trento il 2 settembre 1475. Benché accolto con tutti gli onori del caso, il commissario venne subito ostacolato e messo in seria difficoltà dalle autorità locali. I numerosi impedimenti incontrati a Trento nello svolgimento dell’incarico costrinsero quindi il
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de’ Giudici a stabilirsi a Rovereto, cittadina considerata piú sicura e «neutra» perché collocata nel territorio della Repubblica di Venezia. I processi e gli interrogatori ripresero il 21 ottobre 1475; l’anno successivo, il 13 e il 15 gennaio 1476, furono giustiziati i sei imputati minori, accusati di aver consumato il sangue di Simone. Tutti i loro beni furono confiscati.
Il «caso» è chiuso
Il «caso» si chiuse nel 1478, quando papa Sisto IV, con la bolla Facit nos pietas, dichiarò la regolarità del processo trentino, ordinando al contempo la scarcerazione di bambini e madri ebrei battezzati. Nello stesso documento il pontefice rinnovò il divieto di culto per il piccolo Simone, proibizione piú volte (e ampiamente) disattesa negli anni precedenti. Fin da principio, infatti, l’indagine giudiziaria s’intrecciò con le prime, spontanee manifestazioni di culto per il bambino, subito venerato come un martire. All’indomani del ritrovamento, il corpo di Simone (successivamente appellato con il diminutivo di «Simonino») venne deposto nell’ospedale annesso alla chiesa di S. Pietro, a Trento, sopra un altare. In breve si sparse la voce di presunti miracoli ottenuti dal contatto con la salma del piccolo e la devozione spontanea, incoraggiata dalle stesse autorità, si manifestò con episodi di vero e proprio fanatismo religioso. In poco tempo si accumularono attorno al corpo le offerte votive, lasciate dai miracolati in segno di riconoscenza. Per i cittadini di Trento Simonino divenne un santo taumaturgo, un «martire» innocente vittima della perfidia ebraica. Ma non solo per loro. Il principe vescovo Johannes Hinderbach sostenne fin da principio la colpevolezza degli Ebrei e la realtà dell’omicidio rituale, giocando un ruolo fondaReliquiario contenente un’ampolla con sangue, opera di Giuseppe Ignazio Pruchmayer. 1774-1775. Trento, Museo Diocesano Tridentino. marzo
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Iconografie antiebraiche Incisione raffigurante una Judensau («scrofa degli Ebrei»), realizzata in ambito tedesco. Inizi del XVII sec. Trento, Università degli Studi di Trento. L’immagine si inserisce nell’ampio e variegato panorama delle iconografie antiebraiche. Oltre alla scena principale, in cui gli Ebrei succhiano il latte dalle mammelle dell’animale e ne mangiano gli escrementi, si riconosce, in alto, all’interno di una cornice modanata, il cadavere di Simonino da Trento, che qui assurge a simbolo universale della classica accusa del sangue.
mentale in tutta la vicenda, anche sul fronte del procedimento giudiziario, che venne istituito sia ex officio, sia su mandato dello stesso vescovo trentino. Hinderbach, inoltre, si spese su piú fronti, con tutti i mezzi a sua disposizione, per promuovere il culto del bambino, nella speranza di ottenere un riconoscimento ufficiale della santità di Simone presso il pontefice. Perorò la causa trentina scrivendo lettere a vescovi, cardinali, uomini di curia, intellettuali e predicatori. In vista della causa di canonizzazione fece compilare un registro certificato delle grazie ottenute per intercessione del piccolo «martire» (il Liber Miracolorum). Incaricò perfino il domenicano Heinrich von Schlettstadt – autore del famigerato Martello delle streghe – di raccogliere informazioni su casi analoghi a quello di Trento.
Un modello di successo
La campagna mediatica di Hinderbach si avvalse anche dell’apporto di poeti, scrittori ed eruditi legati al suo entourage: le loro opere letterarie, scritte sia in versi sia in prosa, seppero raggiungere un ampio pubblico grazie alla stampa tipografica, di gran lunga il piú potente mezzo comunicativo di questa complessa e astuta macchina propagandistica. Non è quindi un caso che la stampa, a Trento, abbia fatto la sua comparsa proprio in connessione con il «caso» di Simonino: il 6 settembre 1475 uscí in città, per i tipi di Albrecht Kunne, un libello in tedesco che raccontava, con apparente fedeltà cronachistica, la vicenda del bambino e la condanna degli Ebrei. L’in-
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cunabolo, che va sotto il titolo tradizionale di Geschichte des zu Trient ermordeten Christenkindes, è illustrato da 12 xilografie dalla potente forza fumettistica e comunicativa. Esse costituirono il presupposto iconografico per la successiva produzione artistica. Furono inoltre stampate singole immagini di Simonino e del suo presunto martirio: inserite nei libelli o veicolate da fogli volanti – quindi facilmente replicabili e acquistabili a poco prezzo –, queste immagini contribuirono a diffondere la storia del piccolo «martire», muovendo a compassione i fedeli per la sorte toccata a Simone e scatenando l’odio nei confronti dei suoi carnefici. Nonostante l’impegno profuso, Johannes Hinder-
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storie trento Il «caso» in mostra
Dalla propaganda alla storia Al «caso» di Simonino da Trento è dedicata la mostra allestita nel Museo Diocesano Tridentino e ideata come omaggio a monsignor Iginio Rogger (1919-2014), già direttore del Museo stesso e coraggioso protagonista della storica revisione del culto di Simonino (vedi box a p. 44). A piú di mezzo secolo dall’abolizione, avvenuta nel 1965, la mostra fa il punto sul «caso» di Simone da Trento e diffonde una piú ampia conoscenza di questa delicata e attualissima vicenda tardo-medievale. Nel 1965, infatti, il dibattito attorno al «caso» coinvolse una ristretta cerchia di specialisti, sfiorando i piú. Di qui la necessità di riprendere il filo della storia per riannodarlo al presente. Un presente, per altro, segnato dal preoccupante riemergere di pulsioni antisemite e razziste, alimentate da una crescente intolleranza nei confronti dell’altro da sé, comunque inteso. IL PERCORSO ESPOSITIVO La mostra, distribuita su due diversi piani di Palazzo Pretorio, prestigiosa sede del Museo Diocesano Tridentino, presenta piú di settanta opere. Con linguaggio accessibile – ma senza abbandonare il rigore storico e scientifico – l’esposizione ricostruisce il contesto culturale della Trento del XV secolo e le circostanze che condussero all’accusa di omicidio rituale. Ampio spazio è dedicato alla vasta e multiforme produzione artistica generata dal culto del «beato» Simonino: dipinti, sculture, bassorilievi, ex voto, reliquiari, disegni, incunaboli istoriati, xilografie, incisioni e fotografie testimoniano la fortuna e la vitalità di una devozione durata quasi cinquecento anni. Particolare attenzione è infine riservata ai protagonisti della revisione del «caso» di Simonino e alle motivazioni che condussero all’abrogazione del culto nel 1965. L’esposizione presenta inoltre una sala multimediale, curata da Aurora Meccanica, che evidenzia i meccanismi che portarono all’«invenzione» del colpevole: immagini, suoni, testi desunti da documenti storici accompagnano il visitatore in un percorso emotivo e coinvolgente. Il percorso espositivo è infine arricchito da un video con interviste di approfondimento e da un filmato bach non ricevette mai un’approvazione ufficiale del culto del piccolo Simone. La sua richiesta di canonizzazione, inviata a Sisto IV il 30 giugno 1475, venne rifiutata. Il pontefice, piuttosto, vietò con un breve del 10 ottobre 1475 la venerazione e la raffigurazione di Simonino, proibendo a chiunque di affermare che
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che testimonia l’ampia diffusione dell’immagine del falso «beato» nelle chiese del Trentino, delle regioni circonvicine e di quelle dell’Italia centrale. La mostra presenta al pubblico un importante recupero: il rilievo con il Compianto sul corpo morto di Simone da Trento, attribuito alla bottega dello scultore svevo Daniel Mauch (vedi foto in apertura, alle pp. 40/41). Databile al principio del XVI secolo, l’opera faceva parte del monumentale polittico ad ante mobili situato sull’altare maggiore della chiesa dei Ss. Pietro e Paolo a Trento, edificio che per secoli custodí il corpo del presunto martire. Il rilievo uscí dalla chiesa in circostanze misteriose prima del 1882, anno in cui fu acquistato a Merano, si presume sul mercato antiquario. Oggi il museo è in grado di presentare nuovamente questa importante opera al pubblico, con la segreta speranza che essa possa restare nella città per la quale fu realizzata. Per questo motivo il rilievo è stato scelto come immagine guida dell’esposizione. L’esposizione è corredata da un ricco catalogo edito dal Museo Diocesano Tridentino al quale hanno contribuito riconosciuti studiosi di diverse discipline storiche e storico-artistiche. La mostra e il catalogo non si soffermano volutamente sulle polemiche che hanno seguito l’abolizione del culto, né sulla assai discussa interpretazione degli atti processuali. I saggi in catalogo offrono infatti una esauriente e serena risposta a quanti hanno espresso dubbi o perplessità sulla rilettura critica della vicenda operata a partire dal Novecento e sulle decisioni che ne scaturirono. Curata da Domenica Primerano con Domizio Cattoi, Lorenza Liandru e Valentina Perini e la collaborazione di Emanuele Curzel e Aldo Galli, la mostra si avvale della preziosa collaborazione dell’Università degli Studi di Trento (Facoltà di Giurisprudenza e Dipartimento di Lettere e Filosofia), dell’Archivio Diocesano Tridentino e della Fondazione Museo Storico del Trentino. L’esposizione inoltre è sostenuta dall’Arcidiocesi di Trento, dalla Provincia Autonoma di Trento e dal Comune di Trento e realizzata con il contributo della Fondazione Caritro. il bambino fosse stato ucciso dagli Ebrei. All’altezza del 10 ottobre le immagini e soprattutto i testi stampati che miravano a canonizzare Simonino al di fuori dell’approvazione romana erano ormai una realtà diffusa e affermata. Il documento pontificio, inoltre, fu del tutto ignorato sia da Hinderbach, sia dai suoi sucmarzo
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Dove e quando «L’invenzione del colpevole. Il “caso” di Simonino da Trento, dalla propaganda alla storia» Trento, Museo Diocesano Tridentino fino all’11 maggio Orario tutti i giorni, 10,00-13,00 e 14,00-18,00; chiuso ogni martedí e la domenica di Pasqua Info tel. 0461 234419; e-mail: info@museodiocesanotridentino.it; www.museodiocesanotridentino.it L’urna di Simonino da Trento attorniata da un gruppo di bambini vestiti da angioletti, fotografia di Giuseppe Brunner. 1905. Trento, Archivio della Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo.
cessori. E cosí il culto e la produzione artistica legata al piccolo «innocente» proseguirono indisturbati, anche se in modo «abusivo».
La lunga strada per la verità
Il culto di Simonino venne ufficialmente riconosciuto solo un secolo piú tardi, nel pieno dell’età controriformistica: nel 1584 Gregorio XIII inserí il nome di Simone nel martirologio romano e, nel 1588, Sisto V, assecondando le istanze del principe vescovo di Trento Ludovico Madruzzo, autorizzò la celebrazione della sua festa nella diocesi di Trento con la bolla Regni Coelorum. I tempi tuttavia erano cambiati e il «caso» di Simonino, nonostante il riconoscimento del 1588, non ebbe piú la forza dirompente dei primi decenni, quando Johannes Hinderbach era vescovo di Trento. Il culto si assestò a livello locale, spogliandosi con il tempo della componente antiebraica piú cruenta, che ne aveva caratterizzato la prima fase di diffusione. Pur in un contesto ancora contraddistinto da un generale sospetto antiebraico, nei secoli successivi l’asse del culto per il piccolo Simone si spostò dalla violenza dell’omicidio rituale all’emozione per il santo bambino, che divenne co-patrono della città, a fianco di san Vigilio. Solo nel Novecento la rilettura critica delle fonti ha ristabilito la verità storica, dimostrando l’infondatezza delle accuse di omicidio rituale rivolte
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Da leggere Tommaso Caliò, La leggenda dell’ebreo assassino. Percorsi di un racconto antiebraico dal medioevo ad oggi, Viella, Roma 2007 Anna Esposito e Diego Quaglioni, Processi contro gli ebrei di Trento (1475-1478), vol. I, I processi del 1475, CEDAM, Padova 1990 Domenica Primerano, con Domizio Cattoi, Lorenza Liandru, Valentina Perini (a cura di), L’invenzione del colpevole. Il ‘caso’ di Simonino da Trento, dalla propaganda alla storia, catalogo della mostra (Trento, Museo Diocesano Tridentino, 14 dicembre 2019-13 aprile 2020), Museo Diocesanto Tridentino-Tipografia Editrice Temi, Trento 2019 Maria Giuseppina Muzzarelli, Il denaro e la salvezza. L’invenzione del Monte di Pietà, il Mulino, Bologna 2001 Valentina Perini, Il Simonino. Geografia di un culto, con saggi di Diego Quaglioni e Laura Dal Prà, Società di Studi Trentini di Scienze Storiche, Trento 2012 Daniela Rando, Dai margini la memoria. Johannes Hinderbach (1418-1486), il Mulino, Bologna 2003
agli Ebrei, maturate in un clima di radicati pregiudizi antigiudaici. Il 28 ottobre 1965, negli anni del Concilio Vaticano II, la Chiesa ha deciso di abrogare il culto del Simonino sulla base di questi studi (vedi box a p. 44). F
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di Aart Heering
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Paesi Bassi, 15 marzo 1345: un’ostia finisce nel fuoco di un camino, ma esce indenne dalle fiamme. Il prodigioso evento trasforma la giovane città, nata intorno alla diga sull’Amstel, nella meta di intensi pellegrinaggi. Una vicenda singolare, destinata a diventare lo specchio dei drammatici – e secolari – conflitti confessionali dell’Olanda. E che, nel Novecento, dà adito a un curioso ritorno «di fiamma»… Stampa raffigurante l’uomo malato, nel suo letto, che riceve la comunione; in secondo piano, a destra, l’uomo vomita e il contenuto del suo stomaco, compresa l’ostia, viene gettato nel camino. 1720-1740. Amsterdam, Rijksmuseum.
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gni anno, in una sera di metà marzo, le antiche stradine del centro di Amsterdam diventano teatro di un rituale curioso. Poco dopo la mezzanotte, in mezzo alla folla di turisti in cerca di divertimento, si muove lentamente una processione assai meno stravagante. Senza prestare attenzione alle tentazioni di bar, discoteche, coffee shop e luci rosse, migliaia di persone vestite in maniera convenzionale e con lo sguardo severo partecipano alla Marcia Silenziosa in ricordo del Miracolo di Amsterdam. Il miracolo in questione, avvenuto nel lontano 1345, non fu particolarmente spettacolare, ma conserva il valore di memoria identitaria per la minoranza cattolica in una città e in un Paese a maggioranza protestanti, mantenendo, sempre, un particolare significato sia politicoreligioso che socio-culturale.
Prodigi e frodi
Amsterdam è una città relativamente giovane. Nata nelle torbiere appena bonificate della contea d’Olanda, intorno a una diga (dam in olandese) nel fiume Amstel, è menzionata per la prima volta in un atto del 1275. Posta fra il fiume e un porto marino naturale, Het IJ, crebbe velocemente, passando dai circa 1000 abitanti del 1300 ai 3000 del 1400, fino ai 10 000 del secolo successivo. Negli anni della prima espansione, il 15 marzo del 1345, durante la Quaresima, la città fu testimone di un miracolo. Le cronache raccontano che in una casa nel Kalverstraat – oggi una delle principali strade dello shopping –, un uomo gravemente malato chiamò il parocco per ricevere l’ultima comunione. Poco dopo, fu colto da un forte conato e vomitò quanto aveva nello stomaco nel camino, compresa l’ostia appena consumata, che però il giorno successivo venne ritrovata, tra le fiamme ancora alte, completamente integra e senza segni di bruciatura. A quel punto la particola venne trion-
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falmente portata nella vicina chiesa parrocchiale, come prova di un evidente evento miracoloso. L’accaduto ricordava la storia biblica di Mosè, che «vide ardere un roveto in fuoco e non consumarsi». Era l’apparizione del Signore, che in seguito ordinò al profeta di togliersi i calzari «perché il luogo dove tu stai, è terra santa» (Es. 3: 1-5). Seguendo l’analogia con l’Antico Testamento, la casa nella Kalverstraat fu ribattezzata Heilige Stede – in latino locus sacer, luogo sacro – e cominciò
ad attirare un gran numero di pellegrini, che erano soliti recarvisi scalzi. Nel frattempo, un bambino che soffriva di epilessia era inspiegabilmente guarito dopo una visita alla casa del miracolo. Si erano cosí venuti a creare i requisiti necessari per la nascita di un culto capace di accrescere il prestigio della giovane città e di farne la meta di un intenso pellegrinaggio. E le autorità locali non persero l’occasione: sul «luogo sacro» si cominciò a costruire una cappella, consacrata marzo
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nel 1347, e fu realizzata una nuova «strada santa» (l’Heiligeweg, tuttora esistente), per facilitare il traffico verso il nuovo santuario. Da un atto del 1346 risulta che l’autorità ecclesiastica, in questo caso il vescovato di Utrecht, riconobbe immediatamente il miracolo di Amsterdam, promettendo un’indulgenza di quaranta giorni ai pellegrini che avessero lasciato un obolo per i lavori di costruzione della cappella. Per venire incontro ai desideri dei visitatori, l’ostia miracolosa fu
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esposta in mostra permanente già prima della conclusione dei lavori e, per dare il massimo lustro all’oggetto miracoloso, il vescovo Jan van Arkel non soltanto autorizzò la fabbricazione di un imponente ostensorio in cristallo, ma anche – come scrisse in una lettera al parroco –, ogni qual volta fosse stato necessario, la sostituzione dell’ostia con un esemplare fresco, cosí da evitare lo spettacolo di un oggetto di culto logoro. Ed è quasi inutile aggiungere che quest’ultimo accorgimento
In alto l’ostia finita nel camino viene ritrovata intatta fra le ceneri, stampa facente parte di una serie sul Miracolo di Amsterdam realizzata da Jacob de Wit. 1705-1754. Amsterdam, Rijksmuseum. Nella pagina accanto mappa a volo d’uccello della città di Amsterdam. 1544. In evidenza, la Heilige Stede.
venne nascosto ai fedeli: un classico esempio di pia fraus, di pia frode. Il Miracolo di Amsterdam non fu un evento isolato, anzi: tra il 1200 e il 1550, in Europa nacquero circa
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A sinistra Il miracolo di Amsterdam (particolare), dipinto su tela di Jacob Cornelisz. van Oostsanen. 1505-1518. Amsterdam, Amsterdam Museum.
duecento «culti» legati ad altrettanti Miracoli del Sacramento – ostie sanguinanti, ostie maltrattate ma incolumi, vino da messa bianco che diventava rosso, ecc. –, 23 dei quali nei soli Paesi Bassi. Già prima di quello di Amsterdam, simili «miracoli di fuoco» si erano verificati nelle città olandesi di Dordrecht (1338), Amersfoort (1340) e Stiphout (1342). Ma quello della Kalverstraat acquistò ben presto un posto di primo piano sul calendario religioso.
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La sua popolarità era in parte dovuta al buon rapporto di Amsterdam con i suoi signori feudali. Alberto I di Baviera, conte d’Olanda e della Zelanda dal 1367-1404, e sua moglie Margherita di Brieg visitarono la Heilige Stede almeno tre volte. Nel 1378 chiesero a papa Clemente VII di accordare un’indulgenza di dieci anni ai pellegrini che avessero contribuito alla riparazione della cappella, segno che – costruita in fretta e furia – stava già degradan-
dosi. Intorno al 1390 il poeta di corte Willem van Hildegaersberch dedicò una poesia al Sacramento di Amsterdam, consigliando a tutti gli Olandesi di recarsi nella città per visitare il luogo del miracolo, dove ciechi e storpi sarebbero miracolosamente guariti. Nel 1415 la custodia della Heilige Stede passò da L’Aja – dove risiedevano i conti d’Olanda e che è tuttora la sede del governo dei Paesi Bassi – all’amministrazione cittamarzo
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In alto incisione raffigurante la Nieuwezijds Kapel, ricostruzione della Heilige Stede ultimata nel 1457, dopo che l’edificio originario era stato distrutto da un incendio. 1663.
dina, che in seguito indicò il primo mercoledí dopo il 12 marzo come data fissa della processione annuale che ricordava il miracolo. Nel 1434 il consiglio comunale – e non piú il conte, circostanza da cui si intuisce che nel frattempo il potere cittadino doveva essere cresciuto rispetto a quello feudale – mandò una missiva a papa Eugenio IV chiedendo un’indulgenza di cento giorni per tutti coloro che avessero visitato la cappella e lasciato una donazione
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alla fabbrica della chiesa. Nella richiesta, accolta l’anno successivo, i cittadini ripercorrevano la storia del locus sacer, teatro di tanti miracoli anche «in tempi moderni».
Scalzi, come Mosè
Due «Libri dei miracoli» compilati nel Cinquecento elencano decine di eventi miracolosi intorno alla Heilige Stede: oltre a guarigioni prodigiose, si tratta di salvataggi da naufragi e prigionie in Paesi lontani
– come Spagna, Francia e «Barbaria» –, testimoninanza della precoce vocazione marittima e imprenditoriale di Amsterdam. I canoni del rito si erano nel frattempo consolidati: i pellegrini giravano per tre volte intorno al luogo sacro, scalzi, come Mosè davanti al roveto ardente. Miracoli eccezionali si registrarono nel 1421 e nel 1452, quando alcuni incendi distrussero gran parte della città, i cui edifici erano allora perlopiú in legno. Bruciò anche la cappella, ma non l’ostia miracolosa, che, insieme alla sua teca, uscí per ben due volte indenne dalle fiamme. Un «miracolo nel miracolo», che accrebbe il prestigio della Heilige Stede e della stessa Amsterdam, che, in continua crescita demografica ed economica, stava rapidamente avvicinandosi al livello di città vicine e piú antiche come Dordrecht, Delft e Gouda. Dopo il secondo incendio, venne costruita una nuova cappella, piú grande e prestigiosa, ultimata nel 1457, nella quale furono inglobati i resti del camino originale. Al numero sempre crescente di pellegrini venivano venduti campioni di «cenere sacra» della vecchia cappella, la cui scorta non sembrava diminuire mai, come piú tardi avrebbero ironizzato i protestanti. Un’ulteriore spinta venne poi dagli Asburgo, arciduchi d’Austria e sovrani del Sacro Romano Impero, che nel 1482 avevano ereditato le contee di Olanda e Zelanda. Due anni piú tardi, Massimiliano I si ammalò gravemente a L’Aja e fece un voto pubblico, promettendo che, se fosse sopravvissuto, avrebbe intrapreso un pellegrinaggio alla Heilige Stede. Non sappiamo se l’arciduca abbia poi onorato l’impegno, ma fu comunque l’inizio di uno stretto rapporto tra la città di Amsterdam e la casata austriaca. Lo stesso Massimiliano pose fine alla lunga lotta tra le fazioni degli Hoeken e Kabeljauwen – le versioni locali di guelfi e ghibellini –, che
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costume e società dalla metà del Trecento aveva diviso le città olandesi. Nel 1488 gli Hoeken, trinceratisi a Rotterdam, si rifiutarono di riconoscere l’autorità dell’arciduca, che tuttavia, nel giro di due anni, riuscí a schiacciarne la resistenza. Le campagne militari causarono gravi danni alle città di Rotterdam, Delft e Gouda, a tutto vantaggio di Amsterdam, schieratasi al fianco di Massimiliano, dal quale, come ricompensa, ottenne nel 1489 il diritto di inserire nel proprio stemma la corona imperiale. Approfittando della pace ritrovata, i consiglieri cittadini decisero di tenere due fiere annuali, una delle quali in concomitanza della processione con l’ostia miracolosa. Alla fine del XV secolo, Amsterdam stava dunque trasformandosi in un centro religioso e commerciale di prim’ordine.
Venti di riforma
La Riforma protestante, avviata nel 1517 da Martin Lutero in Germania, non ebbe inizialmente particolari ripercussioni. Ad Amsterdam, i riIn alto stampa raffigurante Massimiliano d’Asburgo e la sua famiglia che rendono omaggio alla Heilige Stede (in alto) e il cofanetto che custodiva l’ostia miracolosa. 1763-1765. Amsterdam, Rijksmuseum.
In basso il cofanetto nel quale, secondo la tradizione, sarebbe stata conservata l’ostia del miracolo. 1500-1520. Amsterdam, Amsterdam Museum. In realtà, si tratta di una cassettina per la custodia di accessori liturgici che apparteneva alla corporazione religiosa della Heilige Stede.
formati restavano in minoranza e, nel 1535, una rivolta di anabattisti (movimento estremista nato in seno alla Riforma protestante che sosteneva la necessità di riservare il battesimo ai soli adulti, n.d.r.), che l’anno precedente nella città tedesca di Münster avevano dato vita a un effimero «regno millenario», fu facilmente sventata. Grazie al culto del Miracolo, che ormai faceva parte dell’identità cittadina e costituiva anche una notevole fonte di guadagno, Amsterdam rimase cattolica, dimostrandosi tuttavia assai tollerante verso i dissidenti protestanti, perlopiú seguaci del riformatore di Ginevra, Giovanni Calvino.
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Cuscino in velluto al centro del quale è ricamato un episodio del Miracolo di Amsterdam. XVI sec. Amsterdam, Amsterdam Museum.
La situazione mutò dopo il 1550, quando l’imperatore Carlo V, nipote e successore di Massimiliano, emanò una serie di misure severissime, note come Bloedplakkaten (Ordinanze di Sangue), destinate a sradicare una volta per sempre l’eresia protestante dai Paesi Bassi. Il risultato fu l’esatto opposto: il crescente malcontento verso il governo asburgico e cattolico sfociò nel 1566 in una furia iconoclasta, per effetto della quale in centinaia di chiese dei Paesi Bassi migliaia di statue e reliquiari furono distrutti, in quanto simboli dell’«idolatria papista». I rivoltosi presero di mira anche la Heilige Stede, che fu però difesa con successo da un gruppo di battagliere massaie. Poco dopo, però, per domare la ribellione, il successore di Carlo V, suo figlio Filippo II, re di Spagna, mandò una spedizione punitiva guidata da Fernando Alvarez de Toledo, il duca d’Alba. Anche questa iniziativa ebbe conseguenze disastrose. Il feroce «duca di ferro» lasciò dietro di sé una scia di roghi, teste mozzate e città bruciate, facendo crescere l’odio verso lo Spagnolo e la simpatia verso i rivoltosi, a capo dei quali, dal 1568, si era posto il principe Guglielmo d’Orange, ben presto noto come il «padre della patria» olandese. Tuttavia, se nel 1572 la maggior parte delle città olandesi aveva scelto apertamente di ribellarsi al re di Spagna – che nel frattempo aveva anche gravato il Paese di nuove pesanti tasse –, Amsterdam gli rimase fedele, cosí come alla Chiesa Madre. E negli anni successivi, il sacramento miracoloso fu piú volte portato in processione per chiedere il sostegno dell’Onnipotente contro gli attacchi dei protestanti.
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Nel gennaio del 1578, quando la pressione militare dei rivoltosi si stava facendo insopportabile, i sacerdoti di Amsterdam tentarono un’ultima mossa: una preghiera perpetua per supplicare l’intervento divino. Centocinquanta uomini e donne si alternarono, ognuno pregando per un’ora davanti al Sacramento, esposto sull’altare di un convento vicino al «luogo sacro». Tanto slancio mistico fu però insufficiente. Di fronte alla crescente superiorità dei protestanti, il 26 maggio la città aprí loro le sue porte. Anche perché i rivoltosi avevano avuto il buon senso (o la furbizia) di offrire ad Amsterdam, ormai divenuta la principale città olandese, il titolo di capitale dello Stato che in quegli anni si stava formando. Ragione per cui Amsterdam è tuttora la capitale dei Paesi Bassi, mentre il governo è rimasto a L’Aja.
La distruzione
Per il santuario cattolico fu la fine. I preti e molti notabili cattolici vennero cacciati dalla città, e il 29 maggio 1578 il «luogo sacro» fu distrutto. Il camino del miracolo e l’altare dov’e-
ra esposta l’ostia vennero fatti a pezzi e, secondo un cronista cattolico, alcuni facinorosi non si trattennero nemmeno dal fare i propri bisogni nella cenere santa. La cappella stessa venne risparmiata, ma solo per essere assegnata, già due giorni dopo, ai rifugiati valloni, calvinisti di lingua francese. Il «luogo sacro» cattolico si era trasformato in chiesa protestante e per i cattolici cominciava un periodo difficile. Benché formalmente vietata, nel nuovo Stato la fede cattolica era «tollerata», nel senso che si poteva celebrare la messa, ma in privato. In pratica, in alcuni appartamenti patrizi, i cattolici crearono le Schuilkerken (chiese nascoste) per la funzione liturgica, una delle quali, Ons‘ Lieve Heer op Solder (Il nostro Buon Signore in Soffitta) è oggi una delle piú note attrazioni turistiche della capitale olandese. Per alcuni predicatori calvinisti, questo «cripto-cattolicesimo» – che poi cosí «cripto» non era –, non si poteva tollerare, ma le autorità decisero diversamente, per mantenere la pace in una città in cui la maggioranza della po-
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costume e società L’interno della della Heilige Stede in una stampa di Cornelis Bogerts. 1770-1783. Amsterdam, Rijksmuseum.
polazione, alla quale appartenevano anche imprenditori eccellenti, era ancora cattolica. Solo nel corso del XVII secolo i protestanti sarebbero diventati maggioranza, grazie a una massiccia immigrazione dai Paesi Bassi meridionali – piú o meno l’attuale Belgio –, che nel frattempo erano stati riconquistati dagli Spagnoli, i quali si mostrarono assai poco tolleranti verso i dissidenti religiosi. I borgomastri di Amsterdam invece, da buoni borghesi quali erano, sapevano bene che l’estremismo religioso sarebbe stato dannoso per il commercio, linfa vitale della loro città. La tolleranza aveva però un limite preciso: la processione religiosa, in quanto ostentazione pubblica del cattolicesimo, fu vietata. Nei secoli successivi, nella Repubblica olandese, il calvinismo continuò a essere religione di Stato, mentre il cattolicesimo, benché tollerato, era decisamente discriminato e rimaneva comunque sospetto agli occhi di molti protestanti, che piú volte si allarmarono per «congiure papiste», perlopiú inesistenti. Solo verso la metà dell’Ottocento si può parlare di una rinnovata eman-
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cipazione della minoranza cattolica, con la libertà di culto garantita dallo Statuto di re Guglielmo II del 1848, e la restaurazione, nel 1853, della gerarchia episcopale, abolita dopo la presa di potere calvinista. In un simile contesto è quasi un «miracolo» che il culto del Miracolo di Amsterdam sia sopravvissuto. Nei primi decenni successivi all’affermazione del protestantesimo, comunemente noto come l’Alterazione di Amsterdam, centinaia di cattolici continuavano a compiere, informalmente, il pellegrinaggio annuale al «luogo santo», dove si era conservato un «angolo sacro» del famoso forno. Ma nel 1624, quando una corrente calvinista ortodossa prese il sopravvento nel consiglio comunale, anche quei resti vennero distrutti.
Una rinnovata devozione
Svanito ogni ricordo fisico del Miracolo, il culto tuttavia non finí, ma si spostò di alcune centinaia di metri, verso il Begijnhof, la Corte delle Beghine (vedi box alle pp. 66/67), dove, in virtú di antiche prerogative, vigeva una maggiore libertà di culto. La sopravvivenza si deve soprattutto a marzo
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un sacerdote del Begijnhof, Marius de Zeelander (1588-1652). Sfidando l’opposizione dei pastori protestanti (ma tollerato dalle autorità cittadine), Marius si adoperò per una rinnovata devozione verso il Miracolo, soprattutto attraverso la pubblicazione del trattato Amstelredams eer ende opcomen (Onore e ascesa di Amsterdam), in cui interpretava i successi economici e politici della città come conseguenze del Miracolo. Il libro venne pubblicato ad Anversa, cioè in terra cattolica, ma migliaia di copie presero la via del Nord protestante. Un’altro successo di Marius fu la conversione al cattolicesimo del suo amico Joost van den Vondel (1587-1679), il piú noto e stimato poeta olandese del tempo, il quale pubblicò nel 1645 un’ode in
A sinistra frammenti della Heilige Stede collocati nel giardino del Rijksmuseum di Amsterdam dopo che l’edificio era stato demolito nel 1908. La foto risale al 1910.
In alto stampa raffigurante uno degli incendi che devastarono la Heilige Stede, ma che non distrussero l’ostia del Miracolo. Fine del XVI-inizi del XVII sec. Amsterdam, Rijksmuseum.
Il culto del Miracolo riprese vigore grazie a Marius de Zeelander, un sacerdote del Begijnhof MEDIOEVO
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costume e società Il Begijnhof
Un’oasi di pace Nel pieno centro di Amsterdam, in mezzo alle frequentatissime arterie Kalverstraat, Spui e Singel, si trova un’inaspettata oasi di tranquillità. È il Begijnhof (Beghinaggio), un insieme di appartamenti disposti intorno a un cortile con un bel prato verde, dove dal Trecento si riunivano le beghine, pie signore laiche, in una comunità religiosa. Dopo l’Alterazione del 1578, chiese, seminari e altre istituzioni cattoliche furono confiscati. Salvo il Begijnhof, che venne risparmiato in quanto proprietà privata. Solo la cappella cattolica nel cortile fu assegnata ai presbiteriani inglesi e da allora si chiama Chiesa Inglese. Di fronte a essa, nel 1671, due abitazioni furono trasformate in una «chiesa nascosta», la cappella
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dei Ss. Giovanni e Ursula, i santi protettori del Begijnhof. Nel 1908, la cappella è diventata anche formalmente la chiesa del Miracolo di Amsterdam dopo la demolizione della cappella di Heilige Stede. Sul luogo del miracolo, nella Kalverstraat, di fronte all’Amsterdam Museum, si trova ora una lapide che «commemora la Heilige Stede». Il Begijnhof ha conservato il suo fascino grazie alle facciate tipiche delle sue antiche case, tra cui una, rarissima, ancora in legno. Il Begijnhof conta oggi 108 abitanti, tutte donne, che possono godere di un luogo unico, lamentandosi però del flusso ininterrotto dei turisti che visitano il cortile, magari per sfuggire alla frenesia della capitale dei Paesi Bassi.
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A sinistra uno scorcio della Kalverstraat. Murata sopra la targa che indica il nome della strada, si vede la nicchia che ricorda la Heilige Stede, teatro, nel 1345, del miracolo dell’ostia. In basso, sulle due pagine il Begijnhof di Amsterdam.
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occasione del terzo centenario del Miracolo. A riprova del clima relativamente liberale che si respirava nell’Amsterdam dell’epoca, va detto che la popolarità e la posizione sociale di Vondel non furono danneggiati da questo suo «tradimento» del protestantesimo.
Il recupero novecentesco
Il libro di Marius, che per due secoli troneggiò sui caminetti di quasi tutte le famiglie cattoliche di Amsterdam, assicurò la continuazione del culto. Tuttavia, per il periodo compreso fra il XVII e il XIX secolo, sono scarsissime le notizie di pellegrinaggi al «luogo santo». Una vera ripresa si ebbe solo nella seconda metà dell’Ottocento, quando la comunità cattolica olandese appena emancipata cercava di affermare la sua rinnovata identità con la creazione di un «kit» di miti, stili e miracoli. Se per i protestanti il mito nazionale era quello del «Secolo d’Oro», vale a dire il Seicento – con le sue imprese commerciali, artistiche e militari –, letteratura, politica e scuole di stampo cattolico idealizzavano la religiosità e l’ordine sociale del Medioevo. Contemporaneamente sorgevano in tutto il Paese nuove chiese cattoliche in stile neogotico, perlopiú disegnate da Pierre Cuypers, l’architetto cattolico per eccellenza (che nello stesso stile disegnò anche il Rijksmuseum, il Museo Nazionale di Amsterdam, inaugurato nel 1885 senza la presenza di re Guglielmo III, che lo considerava troppo «papista» e dichiarò che non sarebbe mai entrato in «quel convento»). In questa prospettiva anche i miracoli avevano una funzione e cosí, nel 1881, un gruppo di cittadini cattolici di Amsterdam riprese la processione verso il «luogo sacro». Con il benestare della Chiesa ufficiale, che in quegli anni, guidata da papa Pio IX, stimolava ardentemente la devozione popolare e miracolistica come antidoto contro modernismo, liberalismo e socialismo.
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costume e società un nuovo miracolo
Ida e la Signora Il 25 marzo 1945, a 600 anni esatti dal Miracolo dell’ostia, Amsterdam fu teatro di un altro (presunto) evento soprannaturale. A Ida Peerdeman (1907-1996), impiegata come segretaria in una fabbrica di sapone, apparve la Madonna, «una donna bellissima in un mare di luce», che le ordinò di «spargere la predica» e chiese di essere chiamata de Vrouwe (la Signora). Inoltre, indicò il luogo, sempre ad Amsterdam, dove sarebbe dovuta sorgere una chiesa in suo onore. Fra il 1945 e il 1959, la Vergine si manifestò per ben 56 volte, in casa di Ida, presso alcuni suoi parenti e in chiesa. I primi messaggi avevano spesso un carattere politico: alludevano alla paura della Guerra Fredda, all’imminente caduta del comunismo, allo sbarco degli uomini sulla luna, ecc. In seguito diventavano piú spirituali, ordinando una nuova definizione di Maria, quella di Co-Salvatrice del Mondo, accanto al Figlio, con il nuovo soprannome di Signora di Tutti i Popoli. Il parroco locale si convinse della veridicità delle apparizioni e mise Ida in contatto con la ricca e devota Gertrud Brenninkmeijer, erede di una famosa dinastia tessile (C&A), che divenne la sua principale finanziatrice. Nel 1951, su indicazione della veggente, il pittore tedesco Heinrich Repke dipinse il ritratto della Signora. È il ritratto di Maria in piedi sul globo,
La Signora di tutti i Popoli, olio su tela di Heinrich Repke. 1951. Amsterdam, Cappella della Signora di tutti i Popoli.
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con un piede sull’Olanda, la schiena rivolta verso la croce, le mani segnate da stimmate dalle quali partono raggi di pietà, salvezza e pace verso una mandria di pecore, ossia i popoli della terra. Il dipinto si trova ora nella Cappella della Signora di Tutti i Popoli ad Amsterdam, diventata centro di pellegrinaggio. Nel frattempo, il culto è divenuto piú popolare all’estero che nel Paese d’origine, grazie a un’intensa attività missionaria, tra l’altro in India e nel Sud-Est asiatico. Le prediche e l’effigie della Signora sono state distribuite in centinaia di migliaia di santini e dépliant e cento copie del dipinto sono state distribuite ad altrettanti centri devozionali. La Signora dispone inoltre di un sito web in 19 lingue, tra cui l’italiano (www.de-vrouwe.info/it). Tuttavia, la Chiesa rimane divisa. Nel 2002 il vescovo di Haarlem (nella cui diocesi si trova Amsterdam) affermò il carattere soprannaturale delle apparizioni. Ma i suoi colleghi olandesi non erano d’accordo e l’allora cardinale Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Fede, rifiutò di riconoscere il dogma di Maria Co-Salvatrice. Anche la nuova chiesa, che, secondo le indicazioni di Ida/Maria, dovrebbe somigliare alla Santa Sofia di Istanbul non è ancora stata costruita. Mancano infatti all’appello i 100 milioni di euro necessari allo scopo...
Nei Paesi Bassi questo revival religioso assunse una forma particolare, appunto quella della Stille Omgang, la Marcia Silenziosa. Anche dopo l’emancipazione cattolica del 1848, fortemente contrastata dalla frazione protestante piú rigida, la processione classica – con canti, preghiere, insegne e abiti religiosi – continuava a essere proibita, un divieto formalmente revocato soltanto nel 1983. Per non incorrere in sanzioni legali, la Marcia si trasformò quindi in «un evento per quanto possibile anonimo, neutrale e silenzioso», come la definisce un recente libro sul Miracolo, dall’eloquente sottotitolo di Biografia di una devozione contestata. A differenza di altre città, la Marcia di Amsterdam era anche un evento esclusivamente maschile, in primo luogo per proteggere l’onorabilità delle signore, visto che il tragitto passava per le Wallen, ossia il Red Light District, la zona delle prostitute in vetrina. Ciononostante, diventò presto un punto d’incontro per i cattolici di Amsterdam (ormai non piú del 20% della popolazione) e del resto del Paese, raggiungendo negli anni Trenta del secolo scorso una media di 60 000 partecipanti all’anno e creando un crescente sentimento di appartenenza tra i cattolici olandesi. Nel 1952 fu istituita anche una «marcia mattutina» per signore e la partecipazione massima – con 90 000 pellegrini – fu raggiunta nel 1957. Negli anni Sessanta, però, la processione venne offuscata dalle manifestazioni laico-rivoluzionarie dei Provos e di altri gruppi alternativi. Tuttavia, in anni piú recenti la Marcia Silenziosa ha riscosso nuovamente un discreto successo, con
Da leggere Charles Caspers e Peter Jan Margry, The Miracle of Amsterdam. Biography of a Contested Devotion, University of Notre Dame Press, Notre Dame (Indiana) 2019
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circa 5000 partecipanti di ambedue i sessi e qualche volta in forma ecumenica, con cattolici e protestanti fraternamente insieme. Nel 2004 fu addirittura portata in processione l’ostia miracolosa, per la prima volta dopo il 1578.
La fine delle rivalità
Con ciò è cessata anche l’antica rivalità con i protestanti, che ancora all’inizio del secolo scorso aveva causato un vero e proprio conflitto. La cappella costruita nel 1452 sul sito del Miracolo aveva urgente bisogno di un restauro che la Chiesa Riformata Olandese di Amsterdam, proprietaria dell’edificio, non era in grado di finanziare. Un comitato di cattolici benestanti si offrí allora di acquistarla per poterla recuperare come luogo di devozione cattolica, ma le autorità riformate, preoccupate per l’avanzata cattolica in quegli anni, rifiutarono, ordinando la demolizione della cappella, i cui frammenti furono venduti a musei, antiquari e privati. Nel 1984 si contavano ancora 529 frammenti dispersi e quattro anni piú tardi alcuni di essi apparvero in un’asta di mobili da giardino organizzata da Christie’s. Da allora la situazione è però cambiata: uno scultore di Amsterdam ha utilizzato alcuni frammenti depositati nel giardino del Rijksmuseum per ricreare una delle colonne della cappella, che, nel 1988, è stata collocata sullo Spui, la piazza nel centro di Amsterdam a metà strada tra il «luogo sacro» e il Begijnhof. Da lí fu rimossa nel 2001 per consentire lo svolgimento dei lavori per la metropolitana, per poi farvi ritorno nel 2017. Di recente, infine, la Chiesa protestante di Amsterdam si è detta intenzionata a recuperare il maggior numero possibile di frammenti della cappella, cosí da poterla ricostruire e rimediare al danno fatto un secolo fa. La storia del Miracolo di Amsterdam sembra, insomma, avviata a concludersi con un happy end. F
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mostre perugia
La prima volta di Taddeo
di Gail E. Solberg
Senese d’origine, ma presto apprezzato e attivo ben oltre i confini toscani, Taddeo di Bartolo raggiunse, tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento, vette fino ad allora ineguagliate nella creazione dei polittici. Una parabola luminosissima, ripercorsa nella Galleria Nazionale dell’Umbria con una rassegna impreziosita da eccezionali ricomposizioni e nuove attribuzioni
Tutti i dipinti riprodotti nell’articolo sono opera di Taddeo di Bartolo. Sulle due pagine gli elementi del polittico realizzato per la chiesa perugina di S. Francesco al Prato oggi custoditi presso la Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia. 1403. Si tratta dei sette scomparti verticali e di una porzione di uno dei registri orizzontali.
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el 1400, intorno ai quarant’anni d’età, Taddeo di Bartolo (1362 circa-1422) era un pittore rinomato, a capo della bottega piú importante di Siena, sua città natale. Qui, dove era tornato nel 1399 dopo aver lavorato per un decennio in Toscana e in Liguria, aveva dipinto opere ad affresco in Duomo e nel Palazzo Pubblico, luoghi simbolo della città, guadagnandosi un meritato posto tra le fila della celebre generazione di pittori senesi del primo Trecento rappresentata da Duccio,
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Simone Martini e i fratelli Ambrogio e Pietro Lorenzetti. Tuttavia, la storiografia ottocentesca non riconobbe il suo merito, relegandolo ingiustamente a un ruolo di secondo piano, sebbene già ai suoi tempi egli venisse considerato non «un», ma «il» maestro del polittico. Fino al prossimo 7 giugno, la Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia presenta la prima mostra mai dedicata a questo pittore, incentrata proprio sui suoi polittici, opere monumentali composte da (segue a p. 74)
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mostre perugia La riflettografia infrarossa
Segreti e «pentimenti» La riflettografia infrarossa è una metodologia di indagine diagnostica ottica non distruttiva generalmente applicata su opere mobili, quali dipinti su tavola, tela, manoscritti e disegni. Gli sviluppi tecnologici e il relativo passaggio della fotografia dall’analogico al digitale hanno determinato una naturale transizione della «fotografia a infrarosso», eseguita tradizionalmente con pellicole bianco/nero sensibili fino a circa 800 nm (nanometri), verso la sua naturale evoluzione la «riflettografia in infrarosso», con un’unica grande innovazione a separarle, la telecamera Vidicon degli anni Sessanta, dotata di rivelatore al solfuro di piombo (PbS). Le moderne fotocamere a sensore CMOS o CCD modificate tramite rimozione del filtro «low pass» risultano essere oggi il sistema piú facile e a buon mercato per la riflettografia infrarossa consentendo di selezionare la «profondità di indagine» mediante l’impiego di filtri «passa alto» posti sopra gli obiettivi, fino a una
lunghezza massima di 1100 nm, ovvero, la lunghezza d’onda massima rivelata dai sensori al silicio. I sensori InGaAs (Arseniuro di Gallio Indio) a oggi non sono una semplice alternativa, bensí lo strumento migliore per questa tipologia di indagini data l’estesa sensibilità spettrale tra i 950 nm e i 1700 nm e i crescenti miglioramenti tecnologici di risoluzione delle immagini. Quest’ultima tipologia di camera è stata impiegata per eseguire le indagini diagnostiche nel lontano infrarosso sul polittico di S. Francesco al Prato di Taddeo di Bartolo presso la Galleria Nazionale dell’Umbria permettendo di identificare il disegno (denominato disegno sottostante o underdrawing) tracciato dall’autore mediante scontorno di sagome sulla preparazione pittorica, impiegando un pigmento liquido e delimitando le aree dorate con incisioni. L’analisi riflettografica ha inoltre rivelato alcune variazioni in corso d’opera (i cosiddetti «pentimenti»), individuato il modus operandi dell’autore mediante il riconoscimento dei modelli adoperati per i diversi personaggi e gli interventi di restauro effettuati con pigmenti moderni. Nella pagina accanto Santa Caterina d’Alessandria, tavola facente parte di un gruppo di santi quali elementi laterali di una delle ultime pale d’altare dell’artista. Caen, Musée des Beaux-Arts, Collezione Mancel. A sinistra tavoletta di predella con Storie di San Francesco dal polittico di S. Francesco al Prato. 1403. Hannover, Niedersächsisches Landesmuseum.
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mostre perugia Un’altra tavoletta di predella con Storie di San Francesco, già nel polittico di S. Francesco al Prato. 1403. Hannover, Niedersächsisches Landesmuseum.
piú scomparti in legno di pioppo strettamente uniti tra loro da una salda architettura lignea che si autososteneva sugli altari. Ricchi di colori, di ornati, sfavillanti d’oro – vere delizie per gli occhi – raffiguravano per lo piú santi del Paradiso e spesso raccontavano per immagini come lo avessero raggiunto. La realizzazione di queste pale monumentali era frutto di un lavoro di équipe, articolato in diverse fasi. Se a Taddeo spettava il disegno
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complessivo dell’opera e della sua cornice, quest’ultima veniva realizzata insieme alle tavole «pulite» dal legnaiolo, che poi inviava tutta la macchina, smontata in singoli pezzi, presso la bottega del maestro.
Coperte per il trasporto
Qui i collaboratori preparavano le superfici su cui venivano trasferiti i disegni che il maestro e i suoi collaboratori piú valenti avrebbero dipinto e ornato in dettaglio e, una
volta ultimati, questi pezzi, avvolti in coperte, venivano spediti a destinazione per mezzo di carri. Nel caso di opere di grandi dimensioni, Taddeo si spostava per sovrintendere personalmente al montaggio, un obbligo a volte esplicitamente richiesto dal contratto in ragione del fatto che la stabilità di queste strutture alte, larghe – ma allo stesso tempo sottili – presupponevano capacità ed esperienza particolari anche nella fase di conmarzo
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Santo Stefano, tavoletta che faceva parte dell’eptittico di Taddeo di Bartolo realizzato per i Domenicani di Gubbio. 1418. Gubbio, Museo di Palazzo Ducale.
giunzione degli elementi e del loro ancoraggio sull’altare. La prima rassegna monografica dedicata a questo grande pittore senese si realizza nella Galleria Nazionale dell’Umbria e non nella sua città d’origine, perché nella collezione permanente del museo si conservano numerosi elementi di una stupenda pala d’altare opistografa (dipinta su entrambe le facce, n.d.r.) proveniente dalla chiesa perugina di S. Francesco al Prato, un’opera che nel 1403 aveva consacrato Taddeo ingegnere del piú importante polittico del suo tempo. Per mostrare l’eccezionalità del dipinto, che costituisce il fulcro dell’iniziativa espositiva, è stato necessario riunire le parti smembrate – ben 23 elementi! – in modo da ricostruire almeno un simulacro dell’originale, dando l’idea di quali possano essere stati le sue dimensioni e il suo aspetto originale. L’ineluttabile evoluzione del gusto fu la causa che nella maggior parte dei casi motivò la rimozione di polittici dalle sedi per le quali erano stati concepiti e solo di rado essi sono sfuggiti allo smembramento.
Una macchina spettacolare
Una volta montato, il capolavoro di Taddeo raggiungeva approssimativamente una larghezza di quattro metri e mezzo e un’altezza probabilmente ancora maggiore. Comprendeva sette scomparti verticali (un eptittico) e almeno tre registri orizzontali, se non addirittura quattro o cinque, il tutto racchiuso da un’incorniciatura che consentiva all’opera di autosostenersi. Eccezionalmente dipinta su entrambi i lati, si trattava di una macchina spettacolare, che comprendeva almeno quarantadue campi figurati senza considerare
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mostre perugia le indagini diagnostiche
Incontri ravvicinati con l’artista e le sue opere Grazie alla contemporanea presenza nella stessa sede espositiva di circa cento tavole, la rassegna su Taddeo di Bartolo ha fornito la preziosa occasione di studiare la tecnica esecutiva del maestro in maniera estensiva, impiegando criteri comparativi. A cavallo tra Medioevo e Rinascimento, negli stessi anni in cui Cennino Cennini scrive il suo Trattato dell’Arte, il pittore produsse un grande numero di dipinti su tavola, nei quali lo stile e la tecnica rigorosa, che corrispondono a quanto descritto dal pittore e trattatista toscano, sono sempre un tutt’uno, con il raggiungimento di effetti luministici e cromatici peculiari e che si trasformano nel marchio distintivo della bottega. Le indagini diagnostiche hanno ribadito l’importanza fondamentale dell’organizzazione del lavoro nella bottega quasi «industrializzata» dell’artista medievale, mirata al mantenimento della qualità del prodotto, pur nell’ambito di una vasta produzione. Per un’équipe dotata di una lunga e scrupolosa formazione guidata da un maestro, era possibile garantire un elevato standard di qualità e una certa varietà nella creazione, con un sistema di progettazione flessibile ma ben delineato e riconducibile a un’unica idea di progetto. L’osservazione ravvicinata delle opere, affiancata da indagini riflettografiche e radiografiche, ha consentito un approfondito studio dell’underdrawing (disegno sottostante): si tratta di un disegno molto preciso, eseguito con pennello sottile e senza esitazioni, nel quale si riscontrano rarissimi pentimenti. È senz’altro possibile acquisire una grande sicurezza di tratto attraverso una lunga e costante pratica del disegno, come assicura Cennino, ma tale abilità non è sufficiente a spiegare alcune caratteristiche del disegno preparatorio. Quest’ultimo era riportato sulla tavola, secondo la prassi in uso dall’antichità fino a tutto il Medioevo, tramite i cosiddetti patroni, ovvero sagome corrispondenti a porzioni della figura, che venivano scontornati o calcati. I medesimi patroni sono utilizzati per decenni dalla bottega e impiegati per una gran varietà di figure, maschili o femminili, apportando di volta in volta leggere modifiche per caratterizzare il personaggio e per dissimulare l’uso delle sagome stesse. Proprio la necessità di «rendere dissimili» le figure fa riscontrare da un’opera all’altra delle leggere variazioni all’interno dello stesso patrono: lo spostamento di un braccio, l’allungamento di una piega, una modifica dell’acconciatura, accorgimenti che rispondono esattamente alla volontà di rendere diverso il risultato finale. Oltre alla evidente velocizzazione del lavoro, l’uso delle sagome definisce lo stile della bottega, una sorta di marchio di fabbrica che rende riconoscibile la paternità del maestro la decorazione dei sostegni laterali (pilieri). È quasi certo che Taddeo dipinse l’eptittico a Siena nella sua bottega, centro della sua attività e di distribuzione, per poi trasferirsi a Perugia in modo da soprintendere al montaggio. È probabile ch’egli vi si fosse recato preventivamente piú volte nel corso della preparazione dell’opera, per discutere con i committenti ed esaminare gli spazi dove si trovava l’altare. S. Francesco al Prato era un centro importantissimo dell’Ordine francescano, secondo solo alla basilica di Assisi nella gerarchia delle comunità francescane, poiché vi si conservavano le spoglie di uno dei
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primi compagni dell’Assisiate, il beato Egidio, confratello «limpido e laborioso, portatore di gioia», morto a Perugia nel 1262. Costruita circa centocinquant’anni prima dell’ingresso dell’opera di Taddeo, la chiesa aveva proporzioni monumentali, alle quali – come spiegano Donal Cooper e Alberto Sartore nel loro saggio inserito nel catalogo della mostra – si deve fare riferimento per comprendere anche le ragioni delle enormi dimensioni della pala commissionata al maestro senese, pensate certamente per essere commisurate all’ambiente. Le immagini di Taddeo, meticolosamente orchestrate dagli stessi
Arcangelo Gabriele (a destra) e Vergine Annunciata, cuspidi del polittico di Montepulciano. 1401. Montepulciano, Capitolo del Duomo.
frati forse fin dal 1398, equivalevano a un manifesto della loro identità collettiva e dei loro principi. Si trattava perciò di un documento fondamentale per i seguaci di Francesco all’approssimarsi del secondo marzo
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Secondo solo alla basilica di Assisi nella gerarchia delle loro comunitĂ , S. Francesco al Prato era un centro importantissimo per i Francescani
centenario della sua morte, avvenuta nel 1226 e significativa era stata dunque la scelta di Taddeo di raffigurare il santo come si presentava sul sigillo tardo-trecentesco del convento di Assisi.
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mostre perugia A destra Santa Elisabetta, pannello appartenente a un polittico eseguito per l’Ordine francescano. Assisi, Museo del Tesoro della Basilica di S. Francesco. Nella pagina accanto San Tommaso, tavoletta proveniente da una delle quattro cuspidi della seconda pala a sette scomparti di Taddeo di Bartolo, realizzata dopo il polittico francescano di Perugia. 1418. Gubbio, Museo di Palazzo Ducale.
La pala di Taddeo rimase sull’altare fin verso il 1535, per poi essere smontata in fasi successive: l’intera cornice andò perduta e, nel corso del tempo, anche numerosi elementi, dei quali in alcuni casi non resta traccia, furono alienati oppure andarono distrutti o dispersi. Fortunatamente, nel caso dell’eptittico bifacciale di Perugia, gli scomparti principali sono tutti superstiti – a parte i 12 in Galleria Nazionale dell’Umbria, due si trovano in altre collezioni italiane – e altri elementi «minori» che componevano questa grandiosa macchina appartengono a collezioni europee e sono stati riuniti, mentre un elemento oggi negli Stati Uniti, purtroppo, non ha potuto essere trasportato per ragioni conservative. L’effetto finale della ricostruzione viene esaltato anche grazie agli strumenti informatici di supporto.
Il percorso espositivo
Gli studi condotti intorno a quest’opera hanno dato corpo a un discorso piú ampio sull’attività di Taddeo come «specialista» del polittico, consentendoci di ampliare la mostra e di delineare a tutto tondo la personalità del maestro. Le sette sezioni in cui è suddiviso l’itinerario espositivo sono state concepite proprio per accompagnare il visitatore alla scoperta della figura di questo straordinario artista fino a oggi rimasto immeritatamente ai margini della storiografia e della critica d’arte. La prima opera firmata e datata da Taddeo, il Polittico Collegalli (1389) è stato ricostruito digitalmente ed è fisicamente presente in mostra at-
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traverso due cuspidi in prestito dalla Norvegia, che precedono il «testimone» del suo secondo polittico, lo scomparto centrale dell’opera eseguita intorno al 1390 per S. Miniato. Questi lavori, insieme a quello eseguito nel 1388 per San Gimignano, oggi perduto, tracciano un percorso che progressivamente si allontana da Siena verso nord, lungo la via Francigena, e documentano un giro di committenze sempre piú importante al di fuori delle mura senesi. I suoi primi sponsor si conoscevano tra loro e avevano dato inizio a un effetto domino tra altri clienti imprimendo un forte impulso alla carriera del pittore non ancora trentenne. La seconda sezione è dedicata agli anni Novanta, un decennio che Taddeo trascorse viaggiando. Intorno al 1395 si addestrò come imprenditore in una bottega a Pisa, dove ebbe l’opportunità di conoscere l’opera di artisti stranieri e dove probabilmente giunse verso il 1390, al termine di un lungo itinerario attraverso la Toscana, con tappe a Firenze e a Lucca.
In Liguria e poi a Pisa
Fin dal 1391, comunque, Taddeo si era imbarcato per la Liguria, dove gli erano state commissionate anche due pale dalla potente famiglia Spinola, opere ora perdute, cosí come gran parte di quelle che lo avevano trattenuto al nord fino alla metà del 1394, quando si era stabilito a Pisa, rimanendovi fino alla fine del 1397. In questa città sopravvive una nutrita schiera di polittici destinati a una fitta rete di committenti. Rispetto alle altre sezioni della mostra, lo spazio dedicato alle opere pisane conta quindi il maggior numero di pale d’altare che è stato possibile ricostruire. Due Madonne giunte dall’estero si presentano riunite, per la prima volta dopo due secoli, ai Santi laterali rimasti a Pisa. A giudicare da quanto resta, Genova, città dove Taddeo aveva soggiornato per due volte (dal 1391 alla metà del 1394 e dal 1397
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mostre perugia Crocifissione, cuspide di polittico. Dopo il 1410. Siena, Pinacoteca Nazionale.
L’analisi delle opere esposte a Perugia dimostra come Taddeo, lavorando su larga scala, abbia dato il meglio di sé e il 1398), aveva una cultura visiva molto diversa da quella toscana, forse motivo per cui non esiste una pala d’altare completa di Taddeo in questa regione. Taddeo tornò a Siena nel settembre 1399 e si aggiudicò ben presto ampi cicli di affreschi all’interno dei principali edifici cittadini: l’abside del Duomo (1401-1405) e la cappella e l’anticappella dei Priori in Palazzo Pubblico (1406-1408 e 1413-1414). E per rendere noto l’impegno di Taddeo anche nella pittura ad affresco in mostra è disponibile un modello informatico a 3D. Una volta rientrato a Siena, Taddeo portò a compimento due enormi polittici, nel 1401 quello per Montepulciano e, nel 1403, quello per Perugia. In questa stessa sezione, accanto alle cuspidi del trittico del 1401, figura una serie di tavole vicine per tipologia, iconografia o stile all’eptittico del 1403, che documentano la produzione della bottega in quell’arco di anni. La star del gruppo è un trittico mariano integro, risalente al 14001405 e destinato a una confraternita laica, tipologia di committenti a cui è probabilmente da ricondurre buona parte dell’opera di Taddeo. Nei polittici piú antichi la narrazione rivestiva un ruolo fondamentale. In seguito furono le predelle a presentare storie, spesso la Passione di Cristo o la vita dei santi raffigurati nel registro principale. Le pale che invece raccontano una storia nel campo principale sono in genere rare, ma un po’ meno a Siena, dove a partire dalla Maestà di Duccio, pure ricca di storie, orbitavano quattro altari, ciascuno con un trittico del primo Trecento, che nel campo principale narrava un grande evento mariano. Questi dipinti tuttora
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famosissimi di Simone Martini, dei fratelli Lorenzetti e di Bartolomeo Bulgarini erano ben presto diventati icone a cui ispirarsi come modelli. Taddeo l’aveva fatto almeno due volte: per la Natività del 1404 e per l’Annunciazione del 1409, destinate ad altari della città. Protagonisti della quarta sezione sono gli elementi appartenenti ai due trittici senesi, insieme alla magnifica Pentecoste del 1403 per Perugia, che rivela un Taddeo pronto a sorprendere gli spettatori, sconvolgendone le attese. La narrazione, rivoluzionaria, senza precedenti, non potrebbe essere piú diversa dall’eptittico francescano creato per la stessa città nello stesso anno. Si deduce che quando ebbe occasione di dipingere una scena narrativa su larga scala l’artista si distinse realizzando alcune tra le sue pitture migliori, svincolate dalla necessità di ripetere i soggetti canonici richiesti dalla maggior parte dei clienti.
ben quattro sante: Chiara d’Assisi ed Elisabetta d’Ungheria, che rappresentano rispettivamente il secondo e il terz’Ordine francescano; Maddalena, che per le sue penitenze, la devozione e la vita eremitica incarna un alter ego di Francesco; Caterina, famosa per la sua sapienza e quindi allusione allo studium di S. Francesco al Prato. Per cronologia, struttura e iconografia, l’eptittico di Perugia del 1403 costituisce quindi uno spartiacque nella carriera di Taddeo. Se i dipinti narrativi
del maestro senese rivelano il suo entusiasmo per le novità, altrettanto significativo è il suo costante impegno nel modificare i modelli di cui si serviva continuamente. Paradossalmente, la maniera in cui usava i suoi fidati master design gli consentiva di rinnovarsi, apportando continue modifiche sia nei dettagli dei disegni, sia cambiando il modo di eseguirli. Nel corso del tempo si notano cambiamenti sensibili, come dimostra l’evoluzione della Madonna
Arcangelo Gabriele, cuspide di polittico. 1405-1410 circa. Siena, Pinacoteca Nazionale.
Fruitori e spettatori
Lo splendido polittico francescano – fulcro della mostra – è allestito in modo da evocare quale potesse essere stata la sua posizione originale, sopra un altare maggiore con una faccia rivolta verso la navata e quella opposta, invece, verso il coro. La Madonna e il Bambino con i Santi guardavano verso la navata. San Francesco con la sua schiera di santi si rivolgeva invece ai frati. Scopo preminente su questo lato posteriore era l’autoidentificazione: gli stessi uomini che avevano progettato il dipinto erano contemporaneamente fruitori e spettatori principali. È raro che arte e vita siano cosí strettamente connesse. Francesco, figura orante, irraggiata d’oro un tempo ancora piú rifulgente, è una guida per la vita di preghiera e un modello di virtú che calpesta i vizi, a imitazione di Cristo. Sulla parte frontale, il programma, apparentemente tradizionale, è reso inusuale dalla presenza di
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In alto Adorazione dei Magi, scomparto della predella della pala dell’Annunciazione 1409. Siena, Pinacoteca Nazionale. Nella pagina accanto Pentecoste, tempera su tavola. 1403. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria
col Bambino del 1390 circa per S. Miniato a quella del 1403 per Perugia per arrivare, infine, a quella del 1411 per Volterra, tutte basate sullo stesso modello, ma con risultati notevolmente diversi. La sesta sezione della mostra documenta il culmine del tentativo di Taddeo di conferire maggior volume e peso alla tipologia di figure che facevano parte del suo repertorio fin da prima del 1400. Personaggi carnosi che fanno la loro comparsa nelle cuspidi di Montepulciano del 1401 migrano nella Pentecoste del 1403 e continuano a maturare negli anni seguenti. Il fascino delle Madonne tarde risiede in un cambio di stile ben ponderato;
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si leggono come le prime parole di una nuova lingua che altri avrebbero cercato d’imparare nel corso del Quattrocento.
L’ultimo capolavoro
Taddeo si rivolgeva, comunque, anche a un pubblico piú ampio, come dimostra il contratto di società stipulato nel 1421 con Gregorio di Cecco, nel quale i due pittori s’impegnavano ad accettare qualsiasi tipo di lavoro su tavola, su muro, su stoffa o d’altro tipo. Alcuni esempi di commissioni minori, categoria piú soggetta all’usura del tempo, illustrano la varietà di oggetti offerti dalla bottega di Taddeo, e a chiudere l’esposizione è la splendida statua lignea della Madonna del Magnificat con cui si conclude anche l’operato del pittore. L’intera operazione non potrà dirsi compiuta del tutto se non al termine della mostra, quando i confronti e le riflessioni degli studiosi, dei restauratori e degli storici com-
bineranno assieme una nuova valutazione della figura e dell’opera di questo importante maestro. Già la fase propedeutica ha riservato non poche «scoperte» grazie anche al soccorso offerto dalle indagini diagnostiche e dai restauri (vedi box alle pp. 72 e 76), che hanno fatto chiarezza, per esempio, sulle tecniche di lavoro utilizzate da Taddeo. F
Dove e quando «Taddeo di Bartolo» Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria fino al 7 giugno (dal 7 marzo) Orario lunedí, 12,00-19,30; martedí-domenica, 8,30-19,30 Info tel. 075 58668436; e-mail: gan-umb@beniculturali.it; www.gallerianazionaledellumbria.it biglietteria/bookshop: tel. 075 5721009; e-mail: gnu@sistemamuseo.it Catalogo Silvana Editoriale
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di Tommaso Indelli
ENRICO II
Il grande
Plantageneto Cresciuto in Francia per motivi dinastici e dunque impregnato della cultura di quella terra, Enrico II divenne uno dei piú importanti sovrani d’Inghilterra. Il suo regno fu segnato da scelte politiche decisive, dal mecenatismo culturale, ma anche da aspri contrasti con la Chiesa, culminati in un assassinio dai tratti particolarmente violenti...
Enrico II con cotta di maglia e armatura, mostra una lapide su cui sono incisi alcuni versi, da una raccolta manoscritta di rime sui sovrani inglesi nota come Sir Thomas Holme’s Book of Arms. 1445-50 circa. Londra, British Library.
Dossier
E E
nrico II d’Inghilterra, il «fondatore» della dinastia plantageneta inglese – destinata a regnare su un impero esteso su entrambi i lati della Manica –, nacque a Le Mans, in Francia, il 5 marzo del 1133, da illustri genitori. Sua madre era Matilde († 1167), figlia di Matilde di Scozia († 1118) – detta anche Edith – e di Enrico I «Beauclerc» (1100-1135), il «Chierico» re d’Inghilterra e figlio di Guglielmo il «Conquistatore» († 1087), duca di Normandia, appartenente alla stirpe reale normanna insediatasi sul trono inglese il 14 ottobre 1066, dopo la vittoria di Guglielmo, nella battaglia di Hastings, su Aroldo del Wessex († 1066), ultimo esponente della dinastia anglosassone e pretendente al trono (vedi box alle pp. 88-89).
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Padre di Enrico era Goffredo V il Bello († 1151), conte d’Angiò, uno dei piú importanti «principati territoriali» di Francia, nato nel X secolo, a seguito della disgregazione del regno franco dopo la morte di Carlo III «il Grosso» († 888). Goffredo era detto «Plantageneto» – nome poi utilizzato per indicare l’intera stirpe angioina – dalla pianta di ginestra – plante de genêt – che compariva nella simbologia araldica familiare.
Nessun erede maschio
Enrico I d’Inghilterra aveva perduto l’unico figlio maschio legittimo, candidato alla successione, Guglielmo, nel naufragio della White Ship – la «Nave Bianca» – al largo delle coste normanne, nel 1020. Seppur a malincuore, non avendo avuto altri
figli maschi, designò come successore la figlia Matilde, nel 1128, costringendo la nobiltà inglese a giurarle fedeltà. In quello stesso anno, Matilde sposò a Le Mans il giovane Goffredo V «il Bello» e, in tal modo, Enrico cercò di ricucire i rapporti conflittuali tra i conti d’Angiò e i duchi di Normandia, da sempre in lite per questioni di confini e per il possesso della contea del Maine. Quello contratto con Goffredo era il secondo matrimonio per Matilde, già sposata (1114), a lungo, con l’imperatore tedesco Enrico V di Franconia (1106-1125). Da quell’unione – che imparentava la dinastia normanna alla salica e fortemente voluta da Enrico I per ragioni di prestigio – non erano nati figli, ma Matilde ne aveva guadagnato il sopran-
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nome che l’accompagnò per tutta la vita: «l’Imperatrice». Nel 1135, quando Enrico d’Inghilterra morí, le sue tragiche previsioni sulla sorte del regno si avverarono in tutta la loro drammaticità. Gran parte dell’aristocrazia normanna non riconobbe legittime le pretese di Matilde al trono, e appoggiò la candidatura del cugino, Stefano, conte di Blois († 1154), il quale si fece incoronare re dal fratello Enrico, vescovo di Winchester (1129-1171), la notte di Natale del 1135. Stefano vantava degne pretese alla successione reale, perché nelle sue vene scorreva sangue normanno, in quanto figlio di Adele († 1138), a sua volta figlia di Guglielmo il Conquistatore e sorella di Enrico I. Stefano, suo padre, era conte
di Blois, Meaux e Chartres, morto nel 1102 a Ramla, nel corso della crociata in Terra Santa.
La guerra civile
L’appoggio del fratello Enrico fu preziosissimo per Stefano. Il prelato era uomo ricco e potente – giustamente soprannominato «the king behind the throne» – e fu in grado di conservare il suo vescovato anche dopo la vittoria di Enrico Plantageneto. L’incoronazione di Stefano segnò l’inizio di una lunga guerra civile, destinata a protrarsi fino al 1153. Matilde, assistita dal marito e dal fratellastro Roberto, conte di Gloucester († 1147), radunò un esercito e sbarcò in Inghilterra, conducendo in prima persona la campagna militare contro Stefano. Nel frattem-
po, Goffredo d’Angiò, rimasto in Francia, occupò la Normandia, se ne proclamò duca e la sottrasse al controllo di Stefano (1144). Privò, inoltre, il fratello Elia († 1151)– che s’era schierato con Stefano – del controllo della Turenna e del Maine, mentre Matilde occupava Winchester, Oxford e Londra e veniva riconosciuta come legittima sovrana (1141). Tuttavia, i successi militari furono effimeri. Fatto prigioniero Roberto di Gloucester in battaglia, Matilde fu costretta a scambiarlo con lo stesso Stefano, precedentemente catturato, mentre una rivolta scoppiata a Londra la obbligò a fuggire in Francia, temporaneamente. La morte del conte di Gloucester, nel 1147, privava Matilde di uno dei supporti piú importanti per la sua politica e di uno dei piú abili comandanti delle sue truppe. Quando anche il marito Goffredo morí, nel 1151, l’Imperatrice si vide perduta e, abbandonata l’Inghilterra, decise di tornare in Francia. Intanto, il figlio Enrico, nato nel 1133, era cresciuto e in grado di rivendicare, in prima persona, la successione materna. Nel 1153 sbarcò in Inghilterra e inflisse una pesante sconfitta allo zio Stefano, costringendolo a ratificare una durissima pace. Il trattato di Wallingford fu stipulato anche perché, in quello stesso anno, Stefano aveva perduto il figlio Eustachio, che avrebbe potuto garantire la continuità dinastica al suo regno. L’accordo prevedeva il riconoscimento di Enrico come re, ma l’effettiva ascesa al trono sarebbe avvenuta solo dopo la morte di Stefano, il quale, nel frattempo, avrebbe mantenuto la corona. Nell’ottobre del 1154, all’indomani della morte di Stefano, Enrico poMiniatura raffigurante l’incoronazione di Enrico II, primo re della dinastia dei Plantageneti, titolare del trono d’Inghilterra dal dicembre del 1154 sino alla sua morte, avvenuta nel luglio del 1189. XV sec. Chantilly, Musée Condé.
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Dossier LA CONQUISTA NORMANNA (1066-1072) Edimburgo
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té essere incoronato solennemente a Westminster dall’arcivescovo di Canterbury, Teobaldo (1138-1161). Iniziava, cosí, il lungo regno del «Grande Plantageneto».
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DEL NORD
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Una volta incoronato, Enrico, re di lingua e cultura «francesi», poiché aveva a lungo vissuto in Francia, diede vita a un regno che, per la molteplicità di iniziative politiche e militari, lasciò un segno profondo nella storia inglese. Enrico II rivestiva una posizione giuridicamente ambigua, già secondo i parametri dell’epoca. In quanto re d’Inghilterra, non era soggetto ad alcuno se non al proprio volere, ed era, allo stesso tempo, duca di Normandia e conte di Angiò, Maine e Turenna. Nel 1152, ancor prima di diventare re d’Inghilterra, Enrico aveva sposato Eleonora († 1204), duchessa d’Aquitania e contessa di Poitou, che gli aveva portato in dote l’immenso ducato, nella Francia sud-occidentale. Come titolare di vasti feudi in terra francese, Enrico era sottoposto vassallaticamente al re di Francia, Luigi VII «il Giovane» (1137-1180), con il quale ebbe sempre un rapporto tempestoso, e l’ambiguità della sua posizione pesò non poco – come vedremo – nella sua politica estera verso il regno d’oltremanica.
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La Manica POSSEDIMENTI NORMANNI NEL 1071
CONFINE SCOZZESE NELL’ XI SEC.
ULTIMA ROCCAFORTE ANGLOSASSONE
BATTAGLIA DI HASTINGS (14-10-1066)
I duchi di Normandia
Una genealogia complicata Attraverso il padre Enrico I, Matilde discendeva dall’illustre stirpe ducale dei Normanni di Francia. Il ducato di Normandia venne costituito nel 911, quando il re di Francia, Carlo il Semplice (899-923), per frenare le incursioni vichinghe nel Nord della Francia, aveva concesso, a titolo feudale, a Rollone († 932), capo normanno di origine norvegese, le contee di Rouen e di Caen, lungo la Senna, con il compito di proteggerle dai suoi connazionali vichinghi. In cambio della concessione, Rollone fu costretto a battezzarsi e ad assumere il nome di Roberto, sposando la figlia naturale del re, Gisla.
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I suoi successori – Guglielmo Lungaspada (933942), Riccardo I (942-996) e Riccardo II (9961026) – si denominarono «duchi» e proseguirono l’opera di conquista, ampliando i loro domini con l’annessione del Cotentin, dell’Avranchin e di parte della Bretagna. Erano state in questo modo poste le premesse per la creazione di una superba struttura politica, il ducato di Normandia, con capitale Rouen, esteso su buona parte della Francia nord-occidentale e proiettato, per naturale conformazione geografica, verso l’Inghilterra. Nel 1066, grazie alla vittoria riportata sugli Anglosassoni marzo
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Nel campo della politica interna Enrico lavorò al fine di perfezionare l’organizzazione amministrativa del regno inglese, sulla scia dei suoi predecessori normanni. Il regno continuò a essere ripartito in shires – contee – con a capo gli sceriffi, ufficiali di nomina regia con compiti di polizia, amministrazione della giustizia e riscossione delle imposte. Ogni contea era ripartita in distretti minori dette centene, con propri capoluoghi, dove si tenevano i placiti per l’amministrazione della giustizia nei casi non deferiti al tribunale di contea presieduto dallo sceriffo. Enrico costituí anche gruppi itineranti di giudici – coroners – che svolgevano funzioni giudiziarie, nei casi piú gravi, coadiuvando le corti di contea. I poteri dell’aristocrazia normanna sui villani dimoranti nei rispettivi feudi, furono drasticamente limitati, soprattutto nell’ambito giurisdizionale. Le città conservavano, in genere, le proprie consuetudini, mentre al vertice delle stesse vi era un ufficiale – mayor – con compiti di vigilanza sulle amministrazioni cittadine, riscossione delle imposte e di rappresentanza giuridica dell’ente. Miniatura raffigurante Guglielmo I in trono, dai Flores Historiarum di Matteo Paris. XIII sec. Manchester, Chetam’s Library.
DUCHI DI NORMANDIA E RE D’INGHILTERRA Riccardo I († 996) Riccardo II
nella battaglia di Hastings, il duca di Normandia, Guglielmo il Bastardo (1035-1087) – detto poi «il Conquistatore» – figlio di Roberto «il Magnifico» (1027-1035) e della lavandaia di Falaise, Arlette († 1050), divenne re di Inghilterra. Guglielmo estese in Inghilterra gli stessi ordinamenti amministrativi che aveva già instaurato in Normandia, dopo avere avuto la meglio sull’aristocrazia ribelle nelle battaglie di Val-ès-Dunes (1047), Mortemer (1054) e Varaville (1058). Morto Guglielmo nel 1087, sul trono inglese gli successero i figli Guglielmo II «il Rosso» (1087-1100) ed Enrico I (11001135), nonno di Enrico II, detto, per la sua notevole istruzione, «Beauclerc», il «Chierico».
MEDIOEVO
marzo
(996-1027)
Riccardo III
Emma Sposa Aethelred II re d’Inghilterra Roberto il Magnifico
(† 1028)
Guglielmo
(† 1035)
Guglielmo il Conquistatore († 1087)
Roberto Gambacorta
(† 1134) duca fino al 1106
Enrico I
(† 1135) re d’Inghilterra nel 1100, duca nel 1106
Guglielmo II il Rosso († 1100) re d’Inghilterra
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Dossier Enrico non disdegnò di ricorrere ai rapporti feudali come strumento di organizzazione del territorio e di inquadramento delle popolazioni, sebbene tali rapporti fossero sempre inseriti nelle strutture burocratiche dello Stato. Sotto questo punto di vista, quello del Plantageneto fu realmente un regno «feudale», immune dal disordine politico e dalla frammentazione istituzionale, capace di servirsi dell’istituto del feudo – e della connessa delega di poteri – per rafforzare, anziché indebolire, l’autorità regia. Una corposa normativa in tal senso fu emanata nel corso delle Assise di Northampton (1176) e «delle armi» (1181). I vassalli regi erano tenuti al servizio militare o al pagamento di un’imposta sostitutiva – scutage –, proporzionata all’estensione e alla rendita del feudo.
L’«omaggio ligio»
Sull’esempio di quanto stava avvenendo, progressivamente, in Francia, Enrico II impose l’osservanza dell’istituto della ligesse – «omaggio ligio» –, che consentiva subinfeudazioni da parte dei vassalli del sovrano ad altri cavalieri, ma imponeva a questi ultimi un giuramento di fedeltà «speciale» nei confronti del re, dominus supremo. Pertanto, in caso di conflitto tra il re e il signore da cui avevano avuto il feudo, era l’obbligo di fedeltà verso il re a prevalere e, conseguentemente, il signore non avrebbe potuto pretendere dai suoi vassalli l’adempimento dell’obbligo militare. La successione nei feudi, l’alienazione e la costituzione in dote degli stessi erano rigidamente disciplinate dalla legislazione regia, per evitare l’eccessiva dispersione del patrimonio, con conseguente difficoltà ad adempiere agli obblighi verso la curia. In questa politica di consolidamento del potere regio, Enrico II si trovò invischiato in una durissima lotta contro la Chiesa inglese, organizzazione potentissima e ricchissi-
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Miniature tratte da un’edizione della Chronique de Normandie. Seconda metà del XV sec. Londra, British Library. Qui accanto, i funerali di Guglielmo I nell’Abbazia degli Uomini di Caen; due file di personaggi vestiti a lutto reggono candele ai lati della bara, coperta dalle insegne d’Inghilterra, mentre, sulla sinistra, un uomo cerca di impedire le esequie, sostenendo che la chiesa sorgeva su una terra illegittimamente sequestrata da Guglielmo. A destra, l’arcivescovo Lanfranco incorona Guglielmo il Rosso (il quinto dei nove figli che Guglielmo aveva avuto da Matilde di Fiandra), che s’inginocchia davanti a lui.
ma, all’epoca impersonata dal colto arcivescovo di Canterbury, Thomas Becket (1162-1170). Nel 1164, a Clarendon, presso Salisbury, il re tenne una dieta solenne, a cui partecipò anche l’arcivescovo, nel corso della quale furono emanate alcune ordinanze legislative note come «Assise di Clarendon». Alcune delle norme promulgate limitavano fortemente il privilegium fori, cioè il privilegio concesso agli ecclesiastici di essere giudicati soltanto dai tribunali vescovili in caso di commissione di illeciti civili. Secondo le nuove leggi, gli ecclesiastici accusati di crimini avrebbero dovuto essere processati davanti al tribunale diocesano, che, erogate le sanzioni canoniche e dopo averli sospesi dai loro uffici, avrebbe dovuto consegnarli, per il giudizio finale, ai tribunali del regno. Becket rifiutò di giurare e sottoscrivere queste disposizioni e avviò una lunga battaglia contro il Plantageneto, in difesa della «libertà» della Chiesa inglese dalle ingerenze del potere regio, che si concluse con la sua morte, per assassinio, nel 1170 (vedi box alle pp. 94-95). La riorganizzazione della cancelleria del regno implicò la sua ripartizione in una serie di uffici, tra cui lo Scacchiere – Exchequer –, che fungeva da tesoreria e alta corte di giustizia per le questioni finanziarie. Il marzo
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marzo
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Dossier I domini inglesi in Francia dopo il trattato di Parigi (1259) allo scoppio della guerra dei Cent’anni (1338) dopo la pace di Brétigny (1360) all’abdicazione di Riccardo II (1399)
Contea di Caithness Contea di REGNO Ross DI SCOZIA Stirlig 1297 Edimburgo Dunbar 1269 Bannockburn Halidon Hill 1314 1333 Galloway Nevilles Cross Carlisle U ls te r 1346 Co
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REGNO DI
dopo il trattato di Parigi (1259) allo scoppio della guerra dei Cent’anni (1338) dopo la pace di Brétigny (1360) all’abdicazione di Riccardo II (1399) Battaglie Eventi importanti
Mare del Nord
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In alto miniatura raffigurante il sovrano Leicester A q u i t a n i aLimerick ia Waterford Evesham l v asrtne r A Filippo II Augusto che invia un emissario Cambridge Pé rig ord M u n Galles 1265 Le Puy Bordeaux (a sinistra) presso il re d’Inghilterra Enrico Gui Redez Cork INGHILTERRA enn Londra a II, che lo riceve (a destra) insieme a a z Pembroke Limburg Canterbury Runnymede en v o Margherita di Francia, da un’edizione delle Albi r Re a Salisbury Calais P c Baiona n do Grandes Chroniques de France. Bouvines Tolosa u a Lewes Exeter g 1214 n 1264 British 1332-1350. Londra, Crecy Library. Li 0 200 Km
Taillebourg
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Oceano Atlantico
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I domini inglesi in Francia
Gua
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Rodano
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Rivolta dei contadini (1381)
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Stabili conquiste del Galles (1277-95) e dell’Irlanda (1399)
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Tentativi di occupazione inglese della Scozia (XIII-XIV sec.)
Oceano Atlantico
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Giovanni Senza Terra promulga la Magna Charta (1215)
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Confini del Regno di Francia nel XII sec.
Reims
Ch a glio della giurisprudenza in matendi am ma Parigi r o ria di «diritto a pa N inglese» n n R E G N–Ocosiddetto Se g B rcommon law Le Mans sul rispetto n e M a – fondato eta ine Orléans gn delleaconsuetudini anglosassoni e Tu Lo Blois ira Cîteaux sui writs, schemiredi n n «azioni giudiziaAngers a DI rie» con cui il tribunale regioBourges – King’s Savoi Ber P i r y secondo i tou bench – ostabiliva i criteri Poitiers Rochelle qualiLale corti di Fcontea avrebbero Lione RANCIA dovuto giudicare. Ben presto, di taTaillebourg A q u i t a n i a ia li schemi legali si fecero raccolte r nda Alva d or rig Pé utilizzare in tutti i casi simili discussi Le Puy Bordeaux Redez davanti a unGtribunale del regno. Al uien na Lord Tesoriere Riccardo FitzNeal († e ov Albi è attri- a 1198),Baiona poi vescovo di Londra, Pr oc
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Altri territori conquistati tra il 1169 e il 1188
Bretigny 1360
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Conquista del Regno d’Inghilterra (1154)
suo nome derivava da una sorta di grande tovaglia, molto simile aBrest una scacchiera, che, posta su un tavolo, serviva al computo finanziario. Il lord cancelliere – sorta di «primo ministro» –, il gran tesoriere e il maestro giustiziere erano tra i piú importanti ufficiali della curia. Durante il regno di Enrico fu attivo il maestro giustiziere Rainulfo di Glanville († 1190), autore di un’importante opera giurisprudenziale, il Tractatus de legibus et consuetudinibus regni Angliae, che raccoglieva il me-
Rouen
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Dote della moglie Eleonora d’Aquitania (1152)
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Eredità paterna e materna (1150-51)
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Formazione dei domini di Enrico II Plantageneto (1154-1189)
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buito il Dialogus de Scaccario, un’opera di carattere giuridico-finanziario relativa all’organizzazione dell’ufficio dello Scacchiere e all’amministrazione tributaria del regno. L’esperienza politica e amministrativa del regno di Enrico fu aliena dal semplice «pragmatismo» istituzionale e produsse importanti elaborazioni giuridiche e intellettuali, in grado di condizionare il futuro stesso del regno inglese. Tutto ciò è comprensibile, se si tiene in considerazione che, al di là di rozze apparenze, Enrico II fu uomo colto, amante dell’arte e delle «belle lettere», di cui comprese appieno il valore «ideologico» e «propagandistico», avviando una politica di grande mecenatismo culturale, in parte favorita anche dagli interessi intellettuali della moglie Eleonora. Non si deve del resto dimenti-
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care che l’Aquitania, assieme alla Provenza, era il nucleo pulsante della grande tradizione letteraria e poetica in lingua d’oc, basata sull’esaltazione dell’«amor cortese», di cui furono ispiratori i trovatori. Il nonno di Eleonora, Guglielmo IX «il Trovatore» (1086-1126), era stato un grande ammiratore della poesia trobadorica e poeta egli stesso. Grazie al mecenatismo della coppia, Londra e Poitiers, capitali del regno d’Inghilterra e del ducato d’Aquitania, divennero importantissimi centri di cultura (vedi box alle pp. 100-101).
In lotta con i nobili
In politica estera, Enrico II fu costantemente impegnato contro i re di Francia, prima contro Luigi VII il Giovane e, in seguito, contro suo figlio, Filippo II Augusto (11801223). Entrambi i sovrani perse-
guivano l’obiettivo di centralizzare la burocrazia del regno franco, ampliandone il territorio attraverso una lotta senza quartiere contro la riottosa nobiltà feudale. Pertanto, Enrico fu costantemente in guerra per difendere i suoi domini in Francia, cosa in cui riuscí brillantemente. Luigi e Filippo – come si vedrà – non si astennero neppure dall’indurre i figli di Enrico alla ribellione contro il padre, sostenendo la Chiesa inglese e l’arcivescovo Becket contro il suo re. Il Plantageneto ottenne i suoi maggiori successi militari non contro la Francia, ma contro la Scozia e l’Irlanda. Nel 1173, il re di Scozia, Guglielmo I il Leone (1165-1214), fece atto di sottomissione a Enrico e accettò di pagare un tributo, mentre nel 1171 iniziò l’invasione inglese dell’Irlanda che, in breve, portò alla
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Dossier thomas becket
Assassinio nella cattedrale Assassinio nella cattedrale è il dramma composto nel 1935 da Thomas S. Eliot ispirato alla straordinaria figura di Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury e primate della Chiesa inglese, simbolo della lotta per «la libertà» contro l’ingiusta oppressione del potere. Thomas era nato a Londra, agli inizi del XII secolo, da una famiglia di mercanti di origine normanna, giunti nella città all’epoca del Conquistatore. Intrapresa la carriera ecclesiastica, aveva studiato diritto canonico a Bologna e teologia a Parigi e nell’abbazia inglese di Merton. Divenuto segretario personale dell’arcivescovo di Canterbury, Teobaldo, fu fatto arcidiacono (1154) e cancelliere del re (1155). Nel 1162, morto Teobaldo, venne eletto arcivescovo di Canterbury, rinunciando all’incarico di cancelliere. Quella rinuncia suggeriva come Becket intendesse operare in totale autonomia dal potere regio, salvaguardando innanzitutto gli interessi della Chiesa. Nel 1164 scoppiò il conflitto con il sovrano per via delle Assise di Clarendon che Becket interpretava come una forte limitazione delle libertà ecclesiastiche. In segno di protesta contro Enrico II, quello stesso anno l’arcivescovo fuggí in Francia, dove fu accolto da Luigi VII, che entrò in conflitto col Plantageneto. Ospite delle abbazie di Pontigny e Sens, Becket rimase in esilio fino al 1170 e, nel corso del soggiorno francese, ebbe modo di incontrare il papa, Alessandro III (1159-1181), che era stato allontanato da Roma dall’imperatore Federico Barbarossa, promotore di uno scisma. L’arcivescovo ottenne l’appoggio incondizionato del pontefice e del clero francese e, nel 1170, dopo un’apparente riconciliazione con Enrico,
tornò in Inghilterra, ma la pace col re, non intenzionato a revocare le Assise, fu di breve durata. Becket non riconobbe l’incoronazione di Enrico – figlio del Plantageneto – che era stata celebrata, in sua assenza, dall’arcivescovo di York, che fu pertanto scomunicato. Il 29 dicembre del 1170, mentre officiava la messa, Thomas Becket venne assassinato a colpi di spada sull’altare della cattedrale di Canterbury da alcuni cavalieri al servizio di Enrico. Non si seppe mai se essi avessero agito su mandato del sovrano o di propria iniziativa, per compiacere il re, ma Enrico fu considerato il «responsabile morale» dell’assassinio e scomunicato. Alla fine, nel 1172, papa Alessandro III revocò la scomunica, in cambio della penitenza di Enrico, che si sottomise a una pubblica fustigazione davanti all’altare di Canterbury. Il 21 febbraio del 1173, il papa canonizzò Becket, includendolo nell’elenco ufficiale dei santi della Chiesa cattolica, mentre la cattedrale di Canterbury si trasformava in un’importantissima meta di pellegrinaggio. L’assassinio e la sepoltura di Thomas Becket, in uno scrigno francese, in oro e smalti. XII sec. Parigi, Museo del Louvre.
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A sinistra l’arcivescovo Thomas Becket effigiato in una delle sculture della cattedrale di Canterbury, luogo in cui il religioso fu assassinato.
sottomissione dell’isola (1176). La conquista dell’Irlanda iniziò come «guerra privata», nata dall’iniziativa di uno dei piú potenti vassalli di Enrico, il conte di Pembroke, Riccardo di Clare, detto «Strongbow» (letteralmente, «Arco Forte»). Con il consenso di Enrico, Riccardo sposò Eva († 1188), figlia del re del Leinster, Dermot MacMurrough († 1171), ed erede di uno dei cinque regni – Meath, Ulster, Connacht, Munster, Leinster – in cui era divisa l’Irlanda. Dermot era fuggito in Inghilterra dopo essere stato spodestato dal re del Connacht, Rory O’Connor († 1198), e Riccardo, con l’aiuto di un gruppo sostanzioso di baroni normanni, occupò il Leinster e se ne fece re. Quando morí, nel 1176, Enrico II intervenne in Irlanda con il suo esercito e la sottomise. Aveva inizio il lungo e difficile dominio inglese sull’isola celtica. Un altro aspetto caratterizzante (segue a p. 98)
A destra miniatura raffigurante una disputa tra il re Enrico II d’Inghilterra e l’arcivescovo cattolico Thomas Becket, da un manoscritto trecentesco. Londra, British Library.
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Dossier Nella pagina accanto miniatura raffigurante Riccardo I Cuor di Leone, in trono, con la spada in pugno, da un’edizione della Chronicle of England di Peter de Langtoft. Prima metà del XIV sec. Londra, British Library. In questa pagina il monumento funebre di Eleonora di Aquitania nell’abbazia di Fontevraud, nella quale sono sepolti anche il marito Enrico II e il figlio Riccardo I Cuor di Leone. XIII sec.
eleonora d’aquitania
Una donna straordinaria Figlia di Guglielmo X (1126-1137), conte di Poitou e duca di Aquitania, Eleonora aveva ereditato dal padre un potere immenso e un vastissimo territorio situato nella Francia sud-occidentale. Nel 1137, aveva sposato il re di Francia, Luigi VII. Le nozze avevano avuto chiare motivazioni politiche, poiché il sovrano, con quell’unione, ambiva al controllo di uno dei piú importanti feudi di Francia, portatogli in dote dalla giovane sposa. Il matrimonio non fu felice: il re trascurava la moglie ed Eleonora non riuscí a partorire un erede maschio, ma solo alcune femmine. Durante la seconda crociata (1147-1149), Eleonora aveva accompagnato in Oriente il marito Luigi e si erano diffuse voci su una presunta relazione extraconiugale tra la regina e lo zio, il principe di Antiochia Raimondo di Poitiers († 1149). Alla fine, nel 1152, un sinodo di vescovi riunito a Beaugency, dichiarò nullo il matrimonio della duchessa col re di Francia, per consanguineità tra gli sposi. Tornata nubile, Eleonora sposò, in quello stesso anno, Enrico II Plantageneto, piú giovane di lei di circa undici anni, il quale, nel giro di pochi anni, divenne anche
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re di Inghilterra, duca di Normandia e conte d’Angiò, Maine e Turenna. Grazie alla moglie, poté assicurarsi il controllo anche dell’Aquitania, diventando uno dei sovrani medievali piú potenti per le dimensioni «imperiali» del suo regno. L’unione tra i due fu allietata da molti figli, ma fu anche violenta e conflittuale. Nel 1190, dopo la morte di Enrico e la partenza del nuovo re d’Inghilterra – Riccardo Cuor di Leone – per la terza crociata (1189-1192), Eleonora svolse la funzione di «reggente», sventando un complotto ordito dal figlio Giovanni, in accordo col re di Francia Filippo II, per impossessarsi del trono a discapito dell’assente Riccardo (1194). Nel 1194, Eleonora reperí l’enorme somma di 150 000 marchi d’argento necessaria a pagare il riscatto per la liberazione di suo figlio Riccardo, prigioniero dell’imperatore Enrico VI di Germania (1190-1197) che lo aveva catturato al ritorno dalla crociata in Terra Santa. Nel 1199, dopo la morte di Riccardo, Eleonora si trasferí in Aquitania e si stabilí a Poitiers, dove morí nel 1204. Le sue spoglie furono tumulate nel monastero di Fontevraud, nell’Angiò.
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Dossier TUTTI I RE DELLA «PIANTA DI GINESTRA» Enrico II
(1154-1189) Sposa nel 1152 Eleonora d’Aquitania, già moglie di Luigi VII di Francia.
del regno di Enrico II furono i continui contrasti con la moglie, Eleonora d’Aquitania, e con i figli maschi, verso i quali si dimostrò inflessibile e severo. Conflitti che degenerarono in guerre vere e proprie. Escludendo la nutrita schiera della prole illegittima, tutte le figlie di Enrico furono sacrificate dal padre sullo scacchiere della politica internazionale e date
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Riccardo I
(1189-1199) Detto «Cuor di Leone», partecipò alla terza crociata (1189-1192) prendendo Messina, Cipro e San Giovanni d’Acri.
Giovanni Senza Terra
(1199-1216) Deve il soprannome al fatto di non aver avuto la sua parte nella divisione dei regni amministrati da Enrico II, di cui era il quinto figlio.
in moglie ai piú prestigiosi sovrani e principi dell’epoca, in modo da tessere un complesso e variegato gioco di alleanze politiche.
Alleanze matrimoniali
Matilde († 1189) fu data in sposa, nel 1168, al duca di Sassonia e Baviera, Enrico XII «il Leone» († 1195), cugino dell’imperatore Fe-
Enrico III
(1216-1272) Figlio di Giovanni, divenne re a soli nove anni. Sposò Eleonora di Provenza (1236), da cui ebbe cinque figli.
derico I Barbarossa, mentre Eleonora († 1214) si uní, nel 1177, al re di Castiglia, Alfonso VIII (11581214). Giovanna († 1199), invece, fu destinata, sempre nel 1177, al re normanno di Sicilia Guglielmo d’Altavilla (1166-1189) e, dopo la morte di Guglielmo, a Raimondo VI (1194-1222), conte di Tolosa. Nel 1169, Enrico II designò comarzo
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A sinistra una moneta di Edoardo I d’Inghilterra. XIII sec. Göteborg, Göteborgs Konstmuseum. In basso miniatura raffigurante Riccardo II, ultimo dei Plantageneti per via diretta, in partenza per la spedizione contro l’Irlanda, da un’edizione delle Chroniques di Jean Froissart. 1470-1475. Londra, British LIbrary.
Edoardo I
(1272-1307) Ebbe sei figli da Eleonora di Castiglia (tra cui il successore Edoardo) e tre da Margherita di Francia.
Edoardo II
(1307-1327) Deposto dal Parlamento e obbligato ad abdicare, fu imprigionato e assassinato nel carcere di Berkley.
Edoardo III
(1327-1377) Il suo regno fu segnato dall’espansione territoriale in Scozia e in Francia.
Riccardo II
(1377-1399) Figlio di Edoardo, il Principe Nero (figlio primogenito di Edoardo III), morí assassinato.
(in parentesi, gli anni di regno di ciascun sovrano)
Nella pagina accanto miniatura con i ritratti immaginari di Enrico II (a sinistra) e Riccardo I, da un’edizione della Historia Anglorum di Matteo Paris. 1250-1259. Londra, British Library.
me successore il figlio Enrico, suo omonimo, incoronato solennemente dall’arcivescovo di York, perché Becket era in esilio, al quale assegnò l’Angiò e la Normandia. Nel 1173, insoddisfatto per la distribuzione degli appannaggi paterni, Enrico sobillato dalla madre e in alleanza con gli altri fratelli e il re di Francia Luigi VII, si ribellò al padre, e cercò di scalzarlo dal trono, ma già l’anno successivo fu costretto a sottomettersi e a chiedere perdono. Eleonora aveva indotto il figlio alla ribellione molto probabilmente perché non tollerava che Enrico volesse totalmente estrometterla dal controllo del ducato d’Aquitania e perché non sopportava le numerose relazioni extraconiugali del consorte, tra cui quella con la dama di corte Rosamunda Clifford – «la bel(segue a p. 103)
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Dossier Intellettuali alla corte di Enrico
Il «valore politico» della cultura Molti uomini e donne di cultura lavorarono al servizio di Enrico II e di sua moglie Eleonora. A quel tempo, per esempio, il «ciclo bretone», l’antico patrimonio storico-leggendario britannico basato sulle avventure di re Artú e dei «Cavalieri della Tavola Rotonda», formatosi tra il VI e il IX secolo, assunse una forma compiuta ed elaborata – che conosciamo anche oggi – grazie all’opera del gallese Goffredo di Monmouth (†
dei resti mortali di Artú e della consorte Ginevra, poi traslati solennemente nella chiesa e lí sepolti. Fossero i resti autentici o meno, il re sfruttò politicamente quel ritrovamento. Infatti, secondo la tradizione, il sito di Glastonbury era identificato con la mitica Camelot – cuore del regno arturiano – e, talvolta, col castello di Corbenic, in cui il «Re Pescatore» custodiva il Graal. Tra gli intellettuali attivi alla corte di Enrico ci fu anche Robert Wace († 1174 circa), autore di due romanzi in versi, il Romanzo di Bruto e il Romanzo di Rou. Il primo era ispirato alla leggenda di Bruto, pronipote del troiano Enea, eroe eponimo dell’isola e primo re della stessa, da cui sarebbero discesi – secondo la leggenda – i suoi successori, incluso Artú. Il secondo romanzo si ispirava alla storia del vichingo Rollone, fondatore del ducato di Normandia e antenato dei re normanni di Inghilterra; lasciato incompiuto
In alto i resti dell’abbazia di Glastonbury (Somerset, Inghilterra). Secondo la leggenda, il complesso medievale, fondato nell’VIII sec., ospiterebbe la tomba di Artú e Ginevra.
1155), vescovo di Saint Asaph, autore dell’Historia regum Britanniae. L’opera ripercorreva la storia d’Inghilterra da Bruto, primo re dei Britanni, fino al VII secolo, soffermandosi in particolare sulle leggende arturiane. L’Historia fu molto conosciuta e senz’altro consultata dagli intellettuali attivi alla corte di Enrico, il quale amava leggere e associare se stesso e la sua corte al mitico Artú, re dei Britanni, presumibilmente vissuto tra il V e il VI secolo, campione nella lotta contro i Sassoni, in difesa dell’indipendenza britannica. Nel 1186, in occasione della visita all’abbazia benedettina di Glastonbury, nel Somerset, Enrico – promotore di imponenti lavori di restauro del cenobio – fu protagonista del ritrovamento
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In basso, sulle due pagine miniatura raffigurante l’arrivo del Graal tratta da un’edizione del Perceval o Il racconto del Graal di Chrétien de Troyes. XIV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
dall’autore, fu poi completato da Benedetto de SaintMaure († 1173 circa) – chierico originario della regione di Tours – già autore di un monumentale romanzo in versi – Romanzo di Troia – che rielaborava, in volgare, le vicende connesse alla guerra di Troia. All’elaborazione della «materia arturiana» contribuirono anche Maria di Francia († fine del XII secolo) e Chretien de Troyes († 1190 circa). La prima, giunta in Inghilterra dalla Normandia, scrisse molti lais – Eliduc, Lanval, Il Caprifoglio – brevi racconti in versi spesso ispirati alla materia del «ciclo bretone», e l’Isopet, rielaborazione delle favole di Esopo e Fedro. Chretien, invece, fu autore di molti romanzi, alcuni dei quali connessi proprio alle vicende di Artú e dei suoi cavalieri, come la trilogia Lancillotto o Il cavaliere della carretta, Ivano o Il cavaliere del leone, Perceval o Il racconto del Graal. Poligrafi molto attivi furono i chierici
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Walter Map († 1210) e Gervasio di Tilbury († 1234), autori del De nugis curialium e degli Otia imperialia. La prima è un’opera di carattere enciclopedico ed erudito, ricca di osservazioni pettegole e mordaci sulla vita di corte all’epoca di Enrico II, mentre la seconda è uno «specchio dei principi», cioè un’opera sull’arte del buon governo, destinata all’imperatore Ottone di Brunswick († 1218), di cui Gervasio, morto Enrico II, divenne consigliere. Il vescovo di Saint David, il gallese Giraldo Cambrense († 1223), seguí Enrico – e poi suo figlio Giovanni – nelle spedizioni irlandesi e fu autore di due importanti opere dedicate all’isola, la Topographia hibernica e l’Expugnatio hibernica. La prima era un trattato di taglio storico-geografico sulla popolazione, i costumi e le tradizioni irlandesi, mentre la seconda un vero e proprio resoconto delle campagne militari di sottomissione delle stirpi celtiche insulari.
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Dossier A sinistra miniatura raffigurante Edoardo I, re d’Inghilterra dal 1272 al 1307, che presiede una seduta del Parlamento, dal Wriothesley Garter book. 1530 circa. Londra, Royal Collection Trust. Sulle due pagine Veduta del ponte di Westminster, olio su tela di John Paul. XVIII-XIX sec. Collezione privata.
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la Rosamunda» – poi fattasi monaca presso il convento di Godstow, dove morí nel 1176. Dopo la rivolta del 1173, Eleonora venne fatta arrestare dal marito e trattenuta prigioniera in alcuni castelli normanni e inglesi fino al 1189, quando, morto Enrico II, riacquistò la libertà. Il figlio Enrico morí di malattia, nel 1183, dopo aver tentato un’ennesima rivolta contro il padre, che scelse come successore il figlio Riccardo – meglio noto come «Cuor di Leone» – futuro crociato e re di Inghilterra (1189-1199). Nel frattempo, nel 1186, in un torneo, era morto anche Goffredo, il figlio che Enrico II aveva imposto in Bretagna come duca, dopo il matrimonio con Costanza († 1201), erede al trono bretone. La «terribile» situazione familiare del Plantageneto è stata ben ricostruita nel film Il leone d’inverno (1968), tratto dal dramma dello statunitense James Goldman, con
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Peter O’ Toole e Katharine Hepburn nei ruoli di Enrico II e di Eleonora d’Aquitania. Nonostante le molte disavventure, la pace era però lontana dal regnare in famiglia.
La fine
Nel 1188, Riccardo, investito del ducato d’Aquitania e designato alla successione, insorse contro il padre, in alleanza con il nuovo re di Francia, Filippo II, e con l’altro fratello, Giovanni, viceré d’Irlanda e futuro re d’Inghilterra (1199-1216), meglio conosciuto col soprannome di «Senza Terra». Alla fine, sconfitto da Enrico, Riccardo si sottomise, fu perdonato e reintegrato nella successione (1189). Ma per il Plantageneto si avvicinava la fine. Poco tempo dopo, infatti, Enrico morí a Chinon, il 9 luglio del 1189, e fu sepolto nell’Angiò, vicino a Saumur, nell’abbazia di Fontevraud destinata a necropoli della dinastia plan-
Da leggere Norman Davies, Storia d’Europa, vol. I, Bruno Mondadori, Milano 2006 Norman Davies, Isole. Storia dell’Inghilterra, della Scozia, del Galles e dell’Irlanda, Bruno Mondadori, Milano 2004 Jean Flori, Riccardo Cuor di Leone. Il re cavaliere, Einaudi, Torino 2004 Kenneth O. Morgan, Storia dell’Inghilterra. Da Cesare ai nostri giorni, Bompiani, Milano 1993. Régine Pernoud, Eleonora d’Aquitania, Jaca Book, Milano 2012
tageneta: usciva cosí di scena uno dei piú grandi sovrani della storia dell’Inghilterra medievale. Qualche anno piú tardi, accanto a lui avrebbe trovato riposo anche la moglie, la duchessa Eleonora. V
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I colori della
devozione di Corrado Valente
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Nei secoli dell’Alto Medioevo, il borgo di Ventaroli, nel Casertano, fu la prima sede dei vescovi della diocesi di Carinola. Un ruolo di spicco, dunque, al quale si lega la costruzione di un episcopio – noto anche come basilica di S. Maria in Foro Claudio –, impreziosito dalla presenza di magnifici affreschi, aventi come tema dominante il culto della Vergine
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l territorio di Carinola (Caserta) è luogo di storia antica, di arte e cultura, espressione delle molteplici dominazioni che hanno interessato il Regno di Napoli e la sua fertile Terra Laboris. Con la fine dell’impero romano anche questa terra visse il suo Medioevo, con la lenta fine di un importante centro qual era il Forum Popilii (già sede episcopale) e la formazione di un nuovo insediamento in un luogo piú sicuro, noto come Forum Claudii, toponimo che non trova riscontro in alcuna epigrafe o documento antico che non sia di dubbia autenticità. In quel luogo, a ogni modo, insisteva un insediamento prima romano, poi ampliato nell’Alto Medioevo, al punto da realizzarvi una chiesa con funzione di sede episcopale. L’episcopio di Ventaroli (cosí denominato per il borgo che sorge sull’altura poco distante) – noto anche come basilica di S. Maria in Foro Claudio – fu eretto verso il IX secolo sul sito di una chiesa paleocristiana (della quale sono visibili i resti delle tre absidi e del battistero), in un luogo su cui insistevano strutture di epoca romana, che hanno continuato a vivere anche durante i secoli successivi, grazie alla vicinanza di rilevanti assi viari di antica matrice. L’attuale chiesa insiste sui resti di una struttura paleocristiana. Diversamente, non si spiegherebbe nel sito la presenza di una struttura di culto, poi sede episcopale, di una certa importanza, tale da rappresentare la prima sede dei vescovi della diocesi di Carinola. La seconda fu realizzata nella nascente cittadella di Carinola, alla fine dell’XI secolo, dal vescovo di origini capuane Bernardo. Al di là degli interessanti resti della citata chiesa di maggiore
Tutte le immagini che corredano l’articolo si riferiscono all’episcopio di Ventaroli (o basilica di S. Maria in Foro Claudio) a Carinola (Caserta). In alto affresco raffigurante l’Arcangelo Michele che trafigge il diavolo. XI sec. A sinistra, sulle due pagine la navata centrale della chiesa.
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medioevo nascosto campania MOLISE LAZIO
PUGLIA
Roccamonfina
Carinola Caserta
Benevento CAMPANIA
Napoli
Avellino
Procida Golfo di Ischia Napoli Sorrento Capri
Salerno Amalfi
BASILICATA Eboli
Mar Tirreno
A destra, sulle due pagine gli affreschi del catino absidale, XII sec. Al centro è una Madonna in trono, che indossa abiti regali, con il Bambino benedicente. Ai suoi lati stanno due grandi Angeli incensanti. Sopra la testa della Vergine, un fascio di raggi all’interno di un cerchio rappresenta la luce emanata dallo Spirito Santo. In basso la facciata a capanna della chiesa, costruita con blocchi di tufo grigio di provenienza locale. Al culmine si apre una bifora, sormontata da un piccolo campanile a vela, con due aperture simili, per forma e dimensioni, alle sottostanti.
Palinuro
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estensione, ascrivibile al periodo tardo-antico, il semplice costrutto della facciata presentava un portale in pietra di piperno (roccia di origine vulcanica, n.d.r.) lavorata, riferibile a maestranze del XVI secolo, purtroppo trafugato nottetempo nel 2007. Anche dopo il trasferimento della sede episcopale nell’XI secolo, la chiesa rimase un edificio di culto attivo e degno di attenzione da parte dei fedeli che, per devozione, commissionarono al suo interno, nel tempo, la realizzazione di svariate opere. Realizzato facendo largo ricorso a conci di tufo grigio di estrazione locale disposti a filari, l’edificio è caratterizzato da una facciata a capanna; al culmine della porzione
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centrale si osserva una bifora, sormontata da un piccolo campanile a vela, con due aperture simili, per forma e dimensioni, alle sottostanti.
Materiali di recupero
Lo spazio interno è suddiviso in tre navate, con la centrale ampia circa il doppio delle laterali. Ospita sette colonne per lato, coronate da capitelli corinzi databili tra il II e il IV secolo, frutto del reimpiego di materiale redivivus, sormontate da arcate a tutto sesto in opus vittatum misto, composto da due filari di laterizi alternati a un filare di blocchi di tufo grigio. Undici di esse recano incise delle lettere dal significato non chiaro. È possibile che contribuissero a formare una frase nell’origi-
naria disposizione delle colonne, nel luogo di provenienza, oggi ancora ignoto. A ogni modo, se alla stregua dei capitelli anche i fusti sono ascrivibili a edifici diversi, è verosimile anche che le iscrizioni risalgano alla fase del loro reimpiego. L’ingresso, un tempo preceduto da un nartece, la cui porzione superstite è inglobata nella fabbrica medievale – anch’esso realizzato facendo ricorso alla descritta tecnica costruttiva – è sottoposto al piano di campagna di 1,30 m; chiudono le navate tre absidi semicircolari, contenenti affreschi. La luce naturale, che giunge dalle monofore poste in corrispondenza delle arcate della navata, da quelle sulle pareti delle navate
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Sulle due pagine mestieri raffigurati sotto il Giudizio Universale (in larga parte perduto) dipinto sulla parete destra della chiesa. XV sec. circa. Da sinistra: lo cauciolaro (il calzolaio), lo potecaro (il salumiere) e lo ferraro (il fabbro).
laterali e dalla bifora in facciata, è scarsa, spezzata e fortemente contrastata, cosí da creare un delicato stato di penombra. Dalle nude pareti esterne e interne, su alcuni blocchi di tufo, compaiono graffite svariate iscrizioni, un motivo floreale realizzato con un compasso, un pesce (simbolo che rinvia al nome di Gesú, poiché il suo nome in greco, ichtys, dà luogo all’acrostico costituito dalle iniziali della formula Iesous Christos, Theou
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Yios, Soter: Gesú Cristo Salvatore Figlio di Dio), una croce latina con i terminali svasati e la data «1547». All’interno della chiesa si segnalano numerosi e interessanti brani pittorici, databili tra l’XI e il XVI secolo. Per la descrizione del ciclo si parte dalla controfacciata, a sinistra dell’ingresso, dove è raffigurata una Virgo lactans, mentre sul pilastro della prima arcata di destra è raffigurato San Leonardo di Noblac, sopra il cui ritratto corre un’iscrizione.
La firma dei pittori
Sulla controfacciata della navata destra, in una nicchia sporgente con arco tendente all’ogiva, è un affresco del XVI secolo (sovrapposto a un’opera precedente), con al centro
la Madonna con Bambino in trono tra i santi Nicola e Bernardo di Carinola. Al di sotto, poi, corre l’iscrizione che ricorda i nomi dei due santi e quelli dei pittori che lo hanno realizzato: «Nicolaus de Belarduczi et Antonio suo compagno pincserunt de Carin(o)». Sulla parete della navata sono i resti di un grande Giudizio Universale, di cui permangono: l’immagine di un mostro infernale, due figure di santi in preghiera, alcune anime dannate, resti di una mandorla policroma, che verosimilmente ospitava la figura di Cristo. Interessante in questo affresco, quasi del tutto perduto e databile intorno al XV secolo, è la fascia sottostante dove, all’interno di piccole finestrelle arcate, si intravedono i «mestieri». marzo
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Il primo non è integro, ma dovrebbe trattarsi del sarto; poi vi sono lo cauciolaro (il calzolaio), lo cantiniero (il vinaio), lo voziero (il macellaio), lo potecaro (il salumiere), lo ferraro (il fabbro), lo mulinaro (il mulinaio). Al di sopra delle finestrelle, entro una fascia, corre un’iscrizione della quale, però, si leggono solo alcune parole: «Sibillator mano […]ra sen prein uve[…] sen serrato». Il ciclo si compone di sette mestieri, sei dei quali raffigurati sullo stesso piano, mentre lo mulinaro è posto nel piano sottostante, in asse con quello superiore, ma seguito da una fascia libera, a significare che l’affresco non fu ultimato. Anche in questo ciclo, il monito a non cadere in tentazione, quindi nel peccato durante l’esercizio della propria professione, è dato dalla presenza, in ogni scena, di un piccolo demone, che aleggia sulle umane figure. La presenza di categorie socioprofessionali in una raffigurazione del Giudizio Universale trova confronto con diverse opere dell’Italia centro-meridionale, confermando l’affermazione di tali attività nella realtà economica e civile. Pertanto, nell’immaginario collettivo, all’Inferno, accanto ai rei di vizi capitali, erano anche quelli che avevano peccato nel cattivo esercizio del proprio lavoro. Lungo le pareti delle navate laterali e di due setti murari (presenti tra le arcate della centrale) sono diversi brani di affreschi (databili tra i secoli XIV e XV), raffiguranti per la maggior parte la Vergine col Bambino tra santi e altre due immagini di San Leonardo. Le tre absidi sono anch’esse affrescate.
Il diavolo trafitto
Nel catino absidale sinistro è una Madonna in trono con Bambino tra un arcangelo e san Pietro. L’opera, con buona probabilità, è stata realizzata alla fine del XII secolo. Nel catino dell’abside di destra, invece, sono i resti dell’Arcangelo Michele, raffi-
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gurato con la lancia che trafigge il diavolo calpestandolo ed effettua la psicostasia, ossia la «pesatura delle anime». L’affresco, molto degradato, è l’unico – unitamente a frammenti un tempo presenti sull’arco trionfale (raffiguranti probabilmente san Giovanni Evangelista) – ascrivibile all’XI secolo. Tra l’altro, evidenti sono i legami con una certa figuratività di stampo bizantino. Sotto l’Arcangelo, nel Quattrocento, è stata affrescata un’immagine di San Bernardino da Siena. Il fulcro della basilica, però, è il ciclo pittorico che riveste l’abside maggiore. Nel catino absidale, poi, è una Madonna, dagli abiti regali, in trono, con il Bambino benedicente. Accanto alla testa della Vergine sono
i monogrammi greci MP-OY (Mater Dei) e due grandi angeli incensanti. In testa alla Vergine, come consuetudine, sono delineati una serie di raggi all’interno di un cerchio, che rappresentano la luce emanata dallo Spirito Santo. Il catino absidale è stato verosimilmente realizzato nel pieno del XII secolo. Il gruppo centrale, con l’imponente icona della Madonna, evidenzia il conservatorismo della pittura campana che, a un secolo di distanza, propone formulazioni stilistiche ancora sostanzialmente dipendenti da quella di circa un secolo precedente, rinvenibile in Sant’Angelo in Formis. Nella fascia sottostante l’Arcangelo Michele, la cui impostazione ricorda quella dell’abside della
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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
In alto, sulle due pagine il registro inferiore degli affreschi del catino absidale, con le immagini degli apostoli, ritratti, a gruppi di due, ai lati dell’Arcangelo Michele. Fine del XII-inizi del XIII sec. Da sinistra: Pietro e Andrea, Tommaso e Giacomo, Bartolomeo e Simone, l’Arcangelo, Paolo e Giacomo, Giovanni e Filippo, e infine, separati, Matteo e Taddeo. A sinistra affresco raffigurante san Leonardo di Noblac.
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citata abbazia benedettina, separa gli apostoli. Questi sono disposti a gruppi di due: a destra dell’angelo sono Pietro e Andrea, Tommaso e Giacomo, Bartolomeo e Simone; a sinistra, Paolo e Giacomo, Giovanni e Filippo; chiudono l’emiciclo, separati, Matteo e Taddeo. Questo registro non sembra essere coevo a quello superiore, ma forse databile tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo. Al di sopra degli apostoli corre una fascia con all’interno una decorazione a meandri tridimensionali e, sopra questa, un’altra fascia, con un’iscrizione dedicatoria oggi non leggibile, ma con la possibilità di ricostruirla attraverso la riproduzione degli affreschi dell’abside realizzata da Francesco Antoriello negli anni Settanta del XIX secolo. Il testo dell’iscrizione è: «Spir[itus in cel]is nos [que s]umus ut tuearis. Virgo prebe Petro non claudi carcere tetro» («Lo spirito in cielo noi preghiamo affinché ci protegga. O Vergine concedi a Pietro che non sia afflitto dal carcere duro»). La dedica non dovrebbe verosimarzo
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milmente riferirsi a un nobile o a un committente facoltoso caduto in disgrazia, quanto piuttosto a un vescovo di Carinola: il monaco cistercense Pietro, che occupò la cattedra a partire dal primo quarto del XIII secolo. Dalla Chronica del notaio Ryccardi de Sancto Germano si apprende, infatti, che nel 1239 il vescovo di Carinola, Pietro, il cui fratello era stato giustiziato per alto tradimento, era presente al Concilio di Lione del 1245. Con l’eccezione dei rappresentanti ecclesiastici di Federico II, il suddetto Pietro e il vescovo di Bari erano gli unici prelati meridionali (che mostrarono – secondo le cronache del tempo – di non intrattenere legami con la monarchia), che parteciparono all’incontro in cui la Chiesa decise di scomunicare lo Svevo. Nel 1239, i vescovi che acconsentirono alla scomunica, furono mandati in esilio. Tra questi, anche il carinolese Pietro, che, verosimilmente, essendosi nel Concilio schierato apertamente contro l’imperatore – in quella sede difeso
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dal fedelissimo e influente Taddeo da Sessa – dovette subire certamente piú degli altri le ritorsioni per la linea anti-fridericiana. Sotto il registro che contiene gli apostoli, che a sua volta troverebbe una datazione piú circostanziata, corre un’altra iscrizione (realizzata da una mano e in una fase diversa da quella della dedica superiore) leggibile solo per la prima metà: «Vos hic depicti pietatem poscite Christi».
Un’arte eterogenea
Nella sua impostazione generale, il programma iconografico dei secoli XI-XIII che decora la chiesa intrattiene legami con le espressioni figurative bizantine. Le maestranze di Foroclaudio certamente conoscevano i modelli benedettino-cassinensi attraverso la lezione desideriana, ma anche quelli che, pur gravitando nell’ambito della figuratività bizantina, potevano essere seriori. Il ciclo di Ventaroli potrebbe, in sostanza, dimostrare l’eterogeneità nell’arte pittorica della Campana settentrionale, anche quando essa sembra se-
guire linee espressive individuabili nel ciclo inaugurato dall’abate benedettino a S. Angelo in Formis. La raffigurazione del terzo registro, poi, consiste in una decorazione costituita da un misto di natura, astrazione e genere fantastico. L’elemento principale è una struttura a quinconce, ossia una composizione di quattro tondi attorno a un quinto, connesso agli altri attraverso bande intrecciate. Nei cerchi minori e negli spazi residui sono elementi floreali bianchi su fondo scuro. Nei cerchi centrali maggiori, invece, figure fantastiche, dall’aspetto docile, un misto tra cavallo ed elefante, che trasportano delle torri. Queste immagini fantastiche rientrano appieno nel repertorio simbolico-figurativo tipico dei secoli XI e XIII e sono, per la maggior parte, derivate dai bestiari, opere che vedevano nella natura un insieme di simboli che rimandavano al Creatore tanto che, a volte, alcune qualità degli animali descritti erano modificate per rispondere meglio alle necessità simboliche.
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Credo, dunque creo LIBRI • Forse nessuno potrà mai stabilire quando
l’uomo abbia per la prima volta maturato un sentimento religioso. È certo, però, che a quelle prime scintille si accompagnò, fin da subito, il desiderio di dare al divino una forma e un’immagine
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l volume nasce da un colloquio internazionale organizzato nel 1990 da uno dei suoi autori, Julien Ries, che aveva invitato studiosi di vari Paesi a dibattere sul tema che ora fa da filo conduttore anche alla pubblicazione. Un tema di particolare interesse, come prova il tuttora vivace e stimolante dibattito scientifico sulla relazione fra sentimento religioso e creazione artistica. Un confronto che negli ultimi anni si è sviluppato anche all’indomani di scoperte archeologiche che, soprattutto nel campo della storia piú antica, hanno indotto a un’ampia revisione dei modelli interpretativi a lungo sostenuti. Di fatto, quello che
anche in questo libro viene definito Homo religiosus ha cominciato a manifestarsi in epoche remote, innescando un fenomeno che ha poi attraversato l’intera storia del genere umano e del quale sono figlie anche molte delle esperienze moderne e contemporanee. Come già in occasione dell’incontro di trent’anni fa, il volume non abbraccia questo sterminato orizzonte cronologico, ma si sofferma su alcuni casi di studio ben precisi. E cosí, dopo un saggio introduttivo dedicato alla preistoria, i riflettori si accendono su quattro importanti realtà: le manifestazioni artistiche maturate in seno al buddhismo, all’induismo, nel mondo ortodosso e,
In alto Cristo Pantocratore. Sinai (Egitto), Monastero di S. Caterina. A sinistra Vergine Orante (particolare). Kiev, chiesa di S. Sofia.
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Julien Ries, Michel Delahoutre, Jean Varenne, Jacqueline Lafontaine-Dosogne, Olivier Clement Le religioni e l’arte Esperienza estetica ed esperienza religiosa Jaca Book, Milano, 216 pp., ill. col. 70,00 euro ISBN 978-88-16-60603-6 www.jacabook.it infine, in quello bizantino. Mondi geograficamente e cronologicamente distanti, ma che rivelano significative affinità concettuali, come è facile scoprire leggendo i vari contributi e scorrendo le immagini scelte a loro corredo. Nel nome della fede, Homines religiosi di latitudini diverse hanno costruito, scolpito, dipinto, composto mosaici: ne è cosí scaturito un patrimonio di eccezionale rilevanza artistica del quale oggi possiamo cogliere fin dal primo approccio l’indubbio valore estetico, per poi individuare, a una visione piú approfondita, i potenti contenuti ideologici e simbolici. Stefano Mammini marzo
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CALEIDO SCOPIO
Lo scaffale Domitilla Campanile (a cura di) Due secoli con Ivanhoe Atti della Giornata di Studio, Pisa 18 ottobre 2018
Pisa University Press, Pisa 246 pp., ill. col.
25,00 euro ISBN 978-88-3339-271-4 www.pisauniversitypress.it
Sul finire del 1819 il poeta e romanziere scozzese Walter Scott dà alle stampe Ivanhoe, romanzo che si trasforma in quello
che oggi definiremmo «caso letterario», poiché ottiene un successo clamoroso, assicurando fama e ricchezza al suo autore. A due secoli dalla sua prima pubblicazione, l’opera ha ispirato la giornata di studi della quale dà conto il volume curato da Domitilla Campanile, nel quale l’opera scottiana viene esaminata e
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discussa secondo molteplici angolazioni. E subito emergono le contraddittorie reazioni che quelle pagine sono state capaci di suscitare, soprattutto in epoca: se in anni recenti è stato scritto che Ivanhoe è stato «il romanzo piú influente del diciannovesimo secolo» e se uno dei contributi ora pubblicati si chiude sentenziando che «Dopo Scott, né il romanzo, né la storiografia furono piú gli stessi», non sono meno veementi le prese di posizione di quanti rinfacciarono e hanno rinfacciato a Scott la costruzione di un affresco storico inficiato da gravi incongruenze, che dipingono un quadro fin troppo artificioso dell’Inghilterra medievale e, piú in generale, dell’intero Medioevo. In realtà, come viene sottolineato a piú riprese, l’aver a lungo retrocesso Ivanhoe a romanzo per ragazzi è una forzatura palese, proprio come quelle operate dallo stesso Scott, che, per esempio, inserisce nella vicenda da lui raccontata, che si svolge nel 1194, fatti e personaggi che a quell’altezza cronologica erano
ormai usciti di scena o dovevano ancora fare la loro comparsa. Peccati evidentemente veniali, se l’opera, a duecento anni dalla sua edizione, continua ad animare un dibattito scientifico cosí vivo e stimolante. Enrica Neri Lusanna Le chiese di Montefollonico Arte e storia
Leo S. Olschki Editore, Firenze, 225 pp., ill. b/n e col.
32,00 euro ISBN 978-88-222-6651-4 www.olschki.it
Borgo situato nel territorio di Siena, fra la Val di Chiana e la Val d’Orcia,
Montefollonico offre una concreta riprova della ricchezza del patrimonio che solo per convenzione possiamo definire minore. Per oltre mezzo millennio, infatti, tra il XII e il XIII secolo, il sito, che, tra l’altro, fino al Cinquecento fu un
avamposto senese, ha infatti vissuto un clima culturale di notevole vivacità, presupposto essenziale per la nascita delle realtà architettoniche e artistiche descritte nel volume. Oggi, come scrive la curatrice nell’Introduzione, il fascino di Montefollonico appare «piú legato al sito naturale», ma senza dubbio la documentazione ora raccolta e pubblicata potrà costituire un invito alla scoperta di monumenti di sicuro interesse. I contributi definiscono un profilo completo dell’insediamento, affiancando alla descrizione del castello, delle chiese e degli edifici piú significativi, analisi di tipo storico, economico e demografico. Un’opera dunque analitica ed esauriente, nella quale trova spazio la vicenda di monsignor Ambrogio Landucci (nato Volunnio Landucci), che si rese protagonista di una brillante carriera ecclesiastica a Roma, senza mai dimenticare la natia Montefollonico, per le cui chiese patrocinò la realizzazione di numerose opere d’arte.
Francesc Eiximenis Estetica medievale Dell’eros, della mensa, della città
Jaca Book, Milano, 203 pp. 20,00 euro
ISBN 978-88-7814-404-0 www.jacabook.it
Nato a Girona nel 1330, Francesc Eiximenis fu Minore francescano, ma soprattutto prolifico scrittore e trattatista. Qui vengono proposte in forma di trittico le sue considerazioni sull’estetica dell’eros, della mensa e
della città, che rispettivamente analizzano il ruolo della donna, la convivenza privata – vista attraverso il momento del convivio – e la convivenza pubblica. Pagine che restituiscono un fedele specchio dei tempi e offrono molteplici spunti di riflessione sull’approccio ideologico scelto dal loro autore. (a cura di Stefano Mammini) marzo
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