Medioevo n. 279, Aprile 2020

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MEDIOEVO n. 279 APRILE 2020

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SOMMARIO

Aprile 2020 ANTEPRIMA MEDIOEVO INVENTORE Verrà la morte e avrà l’odore dello zolfo

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ITINERARI Quei dialoghi che non t’aspetti... 6 ICONOGRAFIA Riflessi (ed enigmi) in una sfera di vetro

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RESTITUZIONI Un gesto doppiamente significativo

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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58 COSTUME E SOCIETÀ

CALEIDOSCOPIO

MEDIEVALISMO/11

LIBRI Specchi di un’epoca Lo scaffale

STORIE

Neotemplarismo

MUSEI Pisa All’ombra della Torre

di Riccardo Facchini e Davide Iacono

di Stefano Mammini

PESTILENZE La vita al tempo del contagio di Maria Paola Zanoboni

Il grande mito dei Templari 30

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LUOGHI ROMA Sancta Sanctorum Ventotto venerabili gradini... di Mimmo Frassineti

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Dossier LUCCA

CAPITALE DEL PELLEGRINAGGIO 83 testi di Franco Cardini, Raffaele Savigni, Ilaria Sabbatini e Alessandro Bedini


IL

MEDIOEVO n. 279 APRILE 2020

M TEM ITO P CO LA NT RI IN UA

MEDIOEVO UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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17/03/20 21:30

MEDIOEVO Anno XXIV, n. 279 - aprile 2020 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Alessandro Bedini è giornalista e scrittore. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Franco Cardini è storico del Medioevo. Francesco Colotta è giornalista. Riccardo Facchini è dottore di ricerca in storia della civiltà europea. Mimmo Frassineti è scrittore e fotografo. Davide Iacono è storico del Medioevo. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Corrado Occhipinti Confalonieri è cultore di materie storiche. Ilaria Sabbatini è Research fellow presso SISMEL (Società Internazionale per lo Studio del Medioevo Latino). Luca Salvatelli è docente di storia dell’arte. Raffaele Savigni è professore ordinario di storia del cristianesimo e delle Chiese presso Alma Mater Studiorum-Università di Bologna. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina (e p. 83) e pp. 84, 87, 93, 98, 100-101 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 5, 58/59 (alto), 63, 65, 92, 95, 102-103, 108/109, 110; Fine Art Images/Heritage Images: p. 62; AGE: pp. 64/65; 20th Century Fox/ Cortesia Everett Collection: pp. 66/67; Art Media/ Heritage Images: pp. 89, 90/91; Archivio Claudia Beretta/ Claudia Beretta: pp. 94/95; Electa/Nostos Giancarlo De Leo: pp. 96/97; Archivio Lensini/Fabio e Andrea Lensini: pp. 99, 106/107; Electa/Remo Bardazzi: p. 106 – Doc. red.: pp. 6-7, 10, 14-16, 42/43, 44/45, 46/47, 48-57, 58/59 (basso), 60, 61 (centro), 66, 70/71, 86, 88, 96, 104/105 – Cortesia Livio Nodari: pp. 8/9 – Cortesia degli autori: pp. 11-13 – Cortesia Comando Carabinieri TPC: p. 18 – Stefano Mammini: pp. 30/31, 34/35 (alto) – Cortesia Opera della Primaziale Pisana: pp. 31, 32-33, 34, 34/35 (basso), 36-39 – Bridgeman Images: p. 61 (alto) – Mimmo Frassineti: pp. 68/69, 72-81 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 44, 46 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 85. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina Lucca. La cattedrale di S. Martino.

Prossimamente medievalismo

Il sogno d’ordine dell’Inghilterra vittoriana

ars bellica

Al riparo del legno

dossier

Birkebeiner e Bagler. Una guerra dimenticata


MEDIOEVO INVENTORE a cura di Federico Canaccini

Verrà la morte e avrà l’odore dello zolfo

A

ll’udire il termine «pistola», è piú probabile che nella nostra mente compaiano le immagini di un cow boy o di un gangster, anziché quella di un cavaliere medievale. Eppure, sia il termine «pistola», sia una sorta di rudimentale arma simile a una rivoltella vanno riferiti al Basso Medioevo. Vi sono diverse ipotesi sulla parola «pistola»: la prima (di scuola italiana) la vorrebbe originaria da «Pistoia» città da cui prese anche il nome una lama corta, pisturi-bisturi, termine attestato anche in Francia alla metà del XV secolo, come deformazione di «pistolese». E chissà che il termine, oltre a una lama corta, non abbia preso il significato di un fucile corto, una pistola. La seconda ipotesi, avanzata da studiosi nordeuropei, accrediterebbe invece alle guerre ussite il termine «pištala», da tradurre con «canna, tubo», ma da pronunciarsi, non senza difficoltà, almeno per noi, piscgiala. Oltre a ciò, nel XV secolo, con questo termine si indicavano le canne degli zufoli. Quando poi, con questo vocabolo si andò a indicare un’arma da fuoco, la scelta cadde su dei fucili a canna lunga, e non su ciò che oggi intendiamo per «pistola». Il rombo dei cannoni è sicuramente una caratteristica dell’epoca moderna, ma non si deve dimenticare che schioppi, bombarde e cannoni iniziano a fare la loro comparsa sui campi di battaglia d’Europa già nel XIII secolo. Ruggero Bacone, nel suo Opus maius del 1267, parla di alchimia e di manifattura di polvere da sparo. Nelle Cronache forlivesi si legge che il conte Guido chiamò una squadra di «balestrieri e scoppettieri», i quali avranno fatto certamente scoppiare qualcosa! Si chiamavano «vasi di Forlí», ma, evidentemente, non lanciavano fiori... Nella piana di Crècy, nel 1346 – quando si combatté una delle battaglie chiave della Guerra dei Cent’anni –, i cannoni «facieno sí grande timolto e romore, che pareva che Iddio tonasse, con grande uccisione di gente e sfondamento di cavalli», scrive Giovanni Villani. E nel 1415, ad Azincourt – che del suddetto conflitto fu un altro scontro decisivo –, compaiono i primi archibugi, una sorta di «fucili» da tenere a spalla. Sembra che i Cinesi conoscessero la terribile miscela già dal XII secolo e, oltre che per fuochi artificiali, la utilizzassero per lanciare granate e creare bombe incendiarie. Dalla Cina sarebbe passata ai Paesi arabi, come l’Egitto, i cui guerrieri, nel 1260, la utilizzarono nella battaglia di ‘Ayn Jalut per respingere i Mongoli.

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Miniatura raffigurante un assedio portato da uomini armati di armi da fuoco, da un’edizione della traduzione in francese del De rebus gestis Alexandri Magni di Quinto Curzio Rufo curata da Vasco da Lucena. 1468-1475. Londra, The British Library. Si trattava di una miscela di salnitro, carbone e zolfo, elemento, quest’ultimo, da sempre associato all’accensione del fuoco. E dal fuoco a Lucifero il passo è breve, tanto piú che le esalazioni sulfuree provenienti dalla terra hanno sempre collegato questo elemento agli Inferi. Un’arma mortale, dunque, non poteva che essere associata al Demonio e alla Morte e non a caso, dunque, Francesco Petrarca, nel De remediis utriusque fortunae, scrisse a proposito della povere da sparo che «la follia umana ha imitato l’inimitabile fulmine e ciò che per natura scende dalle nubi ora fuoriesce da uno strumento ligneo ma infernale».


ANTE PRIMA

Quei dialoghi che non t’aspetti... ITINERARI • Nella

chiesa di S. Lorenzo a Berzo Inferiore, in Val Camonica, si può leggere, raccontata per immagini, la singolare storia del santo pastore Glisente. Uomo pio e mite, capace, come Francesco d’Assisi, di parlare agli animali, anche a quelli ritenuti pericolosi...

«N

on è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto simile a lui» (Gen. 2, 18). Prima della cacciata dal Paradiso Terrestre, Adamo dà un nome a tutti gli animali che capiscono la sua lingua e che, come lui, sono vegetariani. Nel dittico in avorio della fine del IV secolo conservato al Museo Nazionale del Bargello di Firenze , il nostro progenitore accenna il gesto della parola mentre sta appunto imponendo il nome a tutti gli animali: vediamo un’aquila, alcuni leoni, un orso, un cinghiale, un cavallo, una mucca e un cervo. Hanno tutti un’aria molto tranquilla, sembrano capirlo e non mostrano alcuna aggressività, né fra di loro e neppure verso Adamo. Con il peccato originale, con l’entrata nel mondo della violenza

A destra, sulle due pagine Berzo Inferiore (Brescia), chiesa di S. Lorenzo. Affresco raffigurante la morte di san Glisente. XVI sec. Anche in questa scena, oltre quella della pecora, si può notare la presenza di un’orsa.

e della morte tutto cambia: anche molti animali diventano carnivori. Da allora, e lungo tutto il Medioevo, l’uomo è condannato a vivere in una natura ostile, perennemente in lotta contro lupi, orsi, cinghiali che gli contendono il frutto del suo duro lavoro; le armi a sua disposizione non sono in grado di combattere efficacemente contro questi temibili avversari e anche le trappole contro i lupi spesso si rivelano inefficaci. Il solo che sappia come comportarsi con le belve feroci è Francesco d’Assisi: capisce che il lupo non è cattivo, ma solo carnivoro e che se la popolazione di Gubbio lo sfama, la «belva» non ha bisogno di aggredire uomini e armenti. La capacità del santo di farsi comprendere dagli animali viene

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Nella pagina accanto, in basso Predica agli uccelli, scena dal ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa. A destra l’esterno della chiesa di S. Lorenzo a Berzo Inferiore.

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ANTE PRIMA

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L’affresco che narra i momenti salienti della vita di san Glisente. XV sec. Berzo Inferiore (Brescia), chiesa di S. Lorenzo. 1. Glisente, vestito come un giovane cavaliere, ha slacciato la cintura e sta per deporre la sua spada: come per Francesco d’Assisi, il gesto va interpretato come la scelta di rinunciare ai beni terreni e agli agi. 2. Con indosso i panni tipici di un pastore, Glisente porta al pascolo il suo gregge; nella mano destra tiene il corno che utilizza come richiamo per gli animali (vedi box a p. 11).

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3. Un’orsa, ritta sulle zampe posteriori, tiene un ramoscello in una zampa e ha un fico in bocca: l’insolito atteggiamento è la prova che Glisente è riuscito ad ammansire il plantigrado. 4. Glisente munge una delle sue pecore, che non è spaventata dalla presenza dell’orsa: l’opera del santo pastore ha dunque avuto effetto. 5. Per Glisente è giunto il momento del trapasso: lo si vede in ginocchio, con un rosario fra le mani, sospeso a mezz’aria; secondo la leggenda, è cosí che lo trovarono i mandriani dopo la morte.

ripresa in numerose immagini, come nella Tavola Bardi, custodita nell’omonima cappella della basilica di Santa Croce, a Firenze, in cui parla a varie specie di uccelli che lo ascoltano con attenzione. Nel Medioevo ricorrono le raffigurazioni di animali che attaccano l’uomo: a farne le spese, fra gli altri, vi fu anche il re di Francia Filippo il Bello, ucciso da un cinghiale durante una battuta di caccia. Gli unici in grado di contrastare questi predatori sono i santi, a cui l’uomo deve votarsi per ottenere protezione, aprile

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come san Biagio, che comanda al lupo di riportare a una vedova il maiale che le ha rubato.

Ristabilire l’armonia perduta Nell’affresco quattrocentesco della chiesa di S. Lorenzo a Berzo Inferiore (Brescia), in Val Camonica, san Glisente ha recepito il messaggio di Francesco d’Assisi su come, dopo la cacciata dall’Eden, un santo può ristabilire con gli animali l’armonia perduta, come metafora della pacifica convivenza fra gli uomini. Nel corso del XIV secolo, in Val

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Camonica si era intensificata la devozione verso san Francesco per contrastare i movimenti eretici che creavano discordia nella popolazione. Favoriti dalla diocesi di Brescia, sorgono numerosi conventi dedicati al santo: nelle vicinanze di Berzo ci sono quello di Bienno, di Breno e di Piancogno. Depositari della chiesa di S. Lorenzo sono i Disciplini berzesi, una confraternita dedita alla preghiera e alle opere di bene. Di stretta osservanza francescana, dedicano a san Francesco la cappella dove

tenevano le riunioni, nella torre a fianco del luogo sacro. Il maestro di Berzo ha sintetizzato nell’affresco due distinte leggende su san Glisente, quella che lo considera cavaliere di Carlo Magno e quella che lo definisce semplicemente un pastore eremita. Il dipinto deve essere letto partendo da sinistra. Glisente, riccamente vestito, scioglie la cintola dell’elsa e abbandona le armi: come Francesco, ha rinunciato al lusso e agli onori. Il giovane cavaliere appare in piedi e ci fissa di tre quarti come se volesse presentare

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ANTE PRIMA

la sua storia. In secondo piano, troviamo il riferimento alla povertà della vita francescana. Glisente è vestito da pastore: indossa un saio marrone e ha in testa un cappello dalle larghe tese in feltro. Possiamo identificarlo perché ha lo stesso sguardo ed è imberbe, come nella prima immagine. In una mano tiene il bastone pastorale e con l’altra regge un corno da richiamo per gli ovini. Il pastore è povero, non possiede beni perché fa pascolare le pecore sulle proprietà di altri.

Tra i crochi in fiore Qui sopra la Tavola Bardi. 1250-1260. Firenze, basilica di S. Croce, Cappella Bardi. San Francesco, in atteggiamento benedicente, è attorniato da una sequenza di 20 scene, che riproducono altrettanti episodi dei quali è protagonista insieme ai compagni. In alto, a destra valva di dittico in avorio raffigurante Adamo nel Paradiso Terrestre che dà un nome a ciascun animale. Fine del IV sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

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Il suo gregge appare molto piccolo, come lo erano quelli dell’epoca e il cane seduto non è destinato a guidarlo, bensí deve fare la guardia e combattere contro i lupi, come aprile

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si intuisce dal collare da difesa che porta al collo. La grande scena principale, si svolge in un’abetaia, a primavera, quando i crochi bianchi sono appena sbocciati. Si tratta della stagione preferita dai pastori, sempre costretti a una vita all’aperto. L’assenza del lupo mette in risalto l’importanza dell’orso. Questo mammifero è in grado di mettere in fuga i lupi e anche se gli incontri con il plantigrado sono meno frequenti, sono molto pericolosi, perché l’orso è in grado di mettersi su due zampe e sbranarlo. San Glisente è riuscito ad addomesticare l’orso, anzi, l’orsa: l’animale gli ha portato delle mele, in una zampa tiene un rametto di erbe commestibili e in bocca ha un fico. Il lupo carnivoro non avrebbe potuto nutrire san Glisente con la frutta, come invece può fare l’onnivoro orso. La scena fa intendere che Glisente, come Francesco, non solo è riuscito ad addomesticare una belva feroce, ma in piú la aiuta a sopravvivere nella foresta. Il dettaglio del santo che, a piedi nudi, munge una pecora è un altro nesso con l’Assisiate. Dopo la conversione, anche Francesco negli affreschi della Basilica Superiore di Assisi viene sempre rappresentato scalzo, un riferimento alla sua umiltà e alla sua povertà. La pecora non ha alcun timore dell’orsa, anzi la guarda con dolcezza. Questa prossimità fra due specie nemiche dà un’idea di fratellanza, come, secondo Francesco, dovrebbe avvenire anche fra gli uomini.

All’altezza dell’Assisiate Da eremita, Glisente ha scelto la strada che anche Francesco avrebbe voluto perseguire: a un certo punto della sua vita, chiede a Chiara di Assisi e ai suoi seguaci se debba continuare nella vita apostolica oppure intraprendere quella ascetica, ed è la santa a consigliargli di continuare con la vita pastorale. In questo affresco, Glisente viene

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Antichi richiami Il corno rappresentato nella mano destra di san Glisente nell’affresco della chiesa di S. Lorenzo a Berzo Inferiore è una delle piú antiche testimonianze di questo tipo di richiamo per gli animali. Di recente, in occasione della festa del santo pastore, è tornato a suonare grazie a una replica sperimentale: lo strumento è stato costruito con un ramo di abete rosso lungo 98 cm circa, che è stato tagliato longitudinalmente e scavato al suo interno fino ad arrivare allo spessore ideale di 6 mm. Le due parti sono state poi attaccate con colla di origine animale e legate orizzontalmente con anelli in rami flessibili, simili a quelli che si possono vedere nell’affresco di Berzo. Il corno risulta piuttosto difficile da suonare: dopo aver appoggiato le labbra al bocchino, che ha un diametro di 2,5 cm circa, il pastore prima fa vibrare le labbra con un piccolo colpo di lingua e poi emette l’aria. Ne scaturisce un suono che rimbomba su rocce, piante e vallate, creando una vasta eco, che può richiamare animali anche molto distanti dal loro guardiano.

considerato un santo all’altezza di Francesco perché capace di vivere da solo in armonia con il creato. L’ultima scena sulla destra rappresenta la morte di san Glisente. La leggenda narra che la pecora corre verso alcuni pastori e li guida dove giace il santo eremita. I mandriani lo trovano ginocchioni, con le mani giunte, come se la morte lo avesse colto mentre era intento a pregare. Nel dipinto appare come sospeso nell’aria, con la corona del rosario fra le mani. Una colomba in volo getta ramoscelli sul luogo dove Dio vuole venga costruita una chiesa, cioè sulla grotta nella quale il santo ha vissuto, che si trova a 1956 m di quota, a ridosso della sommità della Colma di San Glisente (2160 m). Dalla storia rappresentata in questo dipinto,

Glisente non deve essere considerato solo il protettore dei pastori, ma anche degli animali che con generosità lo hanno sfamato. Mentre gli Eugubini hanno dato da mangiare al lupo, in questo affresco l’orsa e la pecora nutrono Glisente in una reciprocità che rafforza il messaggio di fratellanza voluto da Francesco. Corrado Occhipinti Confalonieri

DA LEGGERE Chiara Frugoni, Uomini e animali nel Medioevo, il Mulino, Bologna 2018 ● Giovanni Mocchi, Al suono del corno, Centro Studi Val Imagna, Bergamo 2016

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ANTE PRIMA

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Riflessi (ed enigmi) in una sfera di vetro ICONOGRAFIA • La tavola raffigurante il Cristo

come Salvator Mundi ha fatto parlare di sé per l’astronomica cifra alla quale è stata venduta. Ma l’opera, attribuita a Leonardo da Vinci, solleva piú di un interrogativo intrigante...

I

l Salvator Mundi, un olio su tavola di medie dimensioni (66 x 45 cm), databile alla fine del XV secolo, è un dipinto che presenta interessanti e alterne vicende storico-conservative. Se ne erano infatti perse le tracce fino a tempi recenti, sebbene alcune testimonianze, circa una sua sicura esistenza, risultassero in alcuni schizzi della Windsor Collection della British Library, o in differenti copie, tra cui l’acquaforte del disegnatore e incisore boemo Wenzel Hollar (1607-1677), risalente al 1650. Quest’ultima fu realizzata quando la tela, probabilmente acquistata in seguito alla conquista del ducato di Milano da parte delle milizie francesi (1499), rientrava ancora nella collezione reale inglese di Carlo I Stuart (1600-1649), prima della dispersione e smembramento di quest’ultima a seguito della condanna a morte del sovrano. Ricomparsa nel XIX secolo sul mercato antiquario con una generica attribuzione a scuola leonardesca, la tela tornò alla ribalta grazie al magistrale restauro di Dianne Dwyer Modestini, nonché alla mostra «Leonardo painter at the court of Milan» (National Gallery, Londra, 9 novembre 2011-5 febbraio 2012).

Una paternità discussa

Sulle due pagine Salvator Mundi, olio su tavola attribuito a Leonardo da Vinci. 1499 circa. Collezione privata. Nel particolare (qui sopra) il globo in vetro retto dal Cristo nella mano sinistra la cui presenza, in questo caso, potrebbe non essere la semplice citazione di uno strumento scientifico, ma alludere all’unitarietà della creazione divina.

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Ne scaturí una dibattuta expertise internazionale circa la sua ancora non del tutto risolta attribuzione a Leonardo da Vinci, che tuttavia non impedí alla tavola d’essere offerta in vendita a New York, dalla casa d’aste Chtistie’s, il 15 novembre 2017, ed essere aggiudicata per poco piú di 450 milioni di dollari.

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ANTE PRIMA A sinistra La Vergine e il Bambino con Santa Elisabetta, Santa Barbara e Jan Vos, olio su tavola di Jan van Eyck. 1441-1443. New York, The Frick Collection. Si noti il globo in vetro sormontato dalla croce nella mano del Bambino. In basso Salvator Mundi, olio su tavola di Vittore Carpaccio. 1500 circa. Collezione privata

Una cifra che, a oggi, è la piú alta mai pagata per un dipinto. Nello scorso dicembre, sulla scorta di tali presupposti, un gruppo di ricerca dell’Università di Irvine, Los Angeles, California (UCLA) ha tentato di dimostrare, con una ricostruzione digitale, come il magnetico globo nella mano del Salvator Mundi non sia in calcite, come ipotizzato in precedenza, bensí vitreo, avente una superficie spessa poco piú di 1 cm, e riempito d’acqua: si tratterebbe, pertanto, di una peculiare lente sferica, utilizzata fin dall’evo antico per migliorare la visione. Simili strumenti ottici erano sicuramente noti e delle loro proprietà era ben consapevole Leonardo, il quale ne cita, tra i suoi appunti, anche una derivazione di sua invenzione: un apparato utilizzato come sistema di illuminazione, un prototipo di lampada a olio, che egli stesso aveva messo a punto durante il soggiorno milanese presso la corte di Ludovico

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il Moro. Doveva trattarsi di una sfera riempita d’acqua, che, grazie alla superficie esterna convessa, era in grado di diffondere la luce prodotta dallo stoppino posto in un cilindro all’interno dello stesso globo, che fungeva da lente d’ingrandimento. Ripercorrendo la storia di questa varietà di globo, Lucio Anneo Seneca (attivo nel I secolo d.C.), rifacendosi probabilmente a Pitagora (VI secolo a.C.) e/o Archimede (287-212 a.C.), riporta e dimostra il suo uso assai comune nelle Naturales Questiones (Lib. I, 6.5): «Ho già detto che ci sono specchi che aumentano ogni oggetto che riflettono. Aggiungo che tutto è molto piú grande quando lo guardi attraverso l’acqua. Le lettere, per quanto minuscole e oscure, sono viste piú grandi e chiaramente attraverso una palla piena d’acqua». Questo strumento non va però confuso con un altro, citato da Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) nella Naturalis Historia: qui, infatti, il riferimento è a globi vitrei incandescenti per cauterizzare le ferite e viene altresí sottolineato come il vetro potesse sopportare il calore in quanto riempito con acqua (Lib. XXXVII, 10).

Studi scientifici e testimonianze letterarie Nel XIII secolo, in Occidente, i globi ottici e lo studio della rifrazione furono rinnovati grazie a Ibn-alHaythan, noto in Europa come Alhazen (965-1040), e al suo Kitabal-Manazir, tradotto in latino con il titolo De Perspectiva libri VII, tra la fine del XII e il XIII secolo. Ne sono prova gli studi ottici del filosofo e matematico Witelo (1220/1230dopo il 1277), membro dello studium viterbiensis – il piú importante circolo scientifico del XIII secolo insieme a quelli delle corti di Federico II o di Alfonso il Saggio – cosí come le ricerche sulle leggi sulla diffrazione della luce e sulle costituzioni dell’arcobaleno confluite nel De iride et radialibus impressionibus del domenicano Teodorico di Vriberg

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(1250 circa-dopo il 1310). Che queste sfere fossero piuttosto comuni sembrano suggerirlo alcune righe del De remediis utriusque fortunae di Francesco Petrarca (1304-1374), ove, trattando della senescenza, l’autore cita il già menzionato passaggio di Seneca, tratto dal I libro delle Naturales questiones, sull’uso di globi che ingrandiscono oggetti e scritte

Salvator Mundi, tempera su tavola del Giampietrino (al secolo Giovanni Pedrini o Gian Pietro Rizzi). Prima metà del XVI sec. Mosca, Museo Statale Pushkin. Già nella collezione di Carlo I d’Inghilterra, che l’avrebbe acquistato dai Gonzaga, anche questo dipinto era stato inizialmente attribuito a Leonardo da Vinci.

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ANTE PRIMA identificare il globo colmo d’acqua sormontato da una croce gemmata in mano al Bambino. Nei casi citati, l’effetto complessivo appare tuttavia molto diverso dal Salvator Mundi (forse) vinciano.

L’acqua, l’aria e le stelle

Il Salvator Mundi attribuito a Leonardo nell’acquaforte realizzata dal disegnatore e incisore boemo Wenzel Hollar. 1650. per mezzo dell’acqua. Allo stesso tempo, menzioni e riferimenti simili si riscontrano in vari passi del duecentesco Roman de la Rose di Guillame de Lorris e Jean de Meun. E ancora, nel Seicento, possiamo trovare un chiaro rimando nel sermone del rabbino Saul Levi Morteira su Genesi: «Il bene è come qualcuno, che abbia creato una grande sfera di vetro e la tiene nella mano, guardandola costantemente, sapendo che ovunque tocchi possa rompersi».

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Volendo esaminare le differenti sfere o globi di vetro presenti nella tradizione iconografica del Salvator Mundi attestata tra il XV e la prima metà del XVI secolo, potremmo sottolineare come in alcuni dei medesimi soggetti dipinti, per esempio, da Albrecht Dürer, Andrea Previtali, Palma il Vecchio, Vittore Carpaccio, essi sembrino vuoti e di vetro traslucido. Quelli di Giampietrino e Cesare da Sesto sembrano invece pieni d’acqua, e un analogo effetto ottico viene reso da Jan van Eyck nella Vergine con Bambino (Frick Collection) o nel San Cristoforo (Louvre), dove è facile

Le somiglianze e le differenze in una tradizione iconografica non appaiono come una semplice scelta dell’artista, e il voler inserire uno strumento scientifico implica un significato assai apprezzabile, e peculiare. La riproduzione di un globo ingrandente adombra un peculiare globo terracqueo e una volta celeste. Nella sfera, infatti, non soltanto sono riscontrabili acqua e bolle d’aria, poste radialmente alla sua base, ma anche alcuni punti luminosi. Questi ultimi potrebbero essere stelle, elementi della costellazione di Arturo o piuttosto tre delle lune di Giove, secondo quanto ipotizzato da Frank Keim. Tuttavia, è altresí riscontrabile come, pur in assenza dei sensibili effetti diffrattivi propri di una simile lente, si possano apprezzare lievi ingradimenti relativi alle pieghe della veste. Pertanto, desiderando al medesimo tempo bilanciare e soppesare gli effetti ottici e scientifici all’interno di un consueto, e tradizionale, soggetto devozionale – quale è il Cristo Salvatore – e dovendo rispettarne il dettato canonico, l’artista inserisce sí un vero e proprio globo ingranditore, ma simile al globo terracqueo. Mentre menziona a malapena le proprietà ingrandenti, in quanto, in una simile pittura devozionale, un intervento scientifico piú marcato avrebbe avuto un effetto grottesco e irrituale, come ha già sottolineato Martin Kemp. Ed è proprio questa peculiarità a rendere il Salvator Mundi attribuito a Leonardo del tutto diverso dalle altre opere di analogo soggetto. Luca Salvatelli e James Constable aprile

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ANTE PRIMA

Un gesto doppiamente significativo RESTITUZIONI • Il Comando Tutela

Patrimonio Culturale dei Carabinieri ha messo a segno un’altra brillante operazione. Questa volta, però, la riconsegna del bene ai suoi legittimi proprietari ha avuto un valore speciale, poiché ha sanato uno dei molti abusi compiuti negli anni del nazismo

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l Deutsches Zentrum Kulturgutverluste (Fondazione tedesca per l’arte perduta) dovrà aggiornare il suo database: al momento in cui scriviamo, infatti, una pregevole statua in terracotta smaltata raffigurante Maria Maddalena e realizzata da Andrea Della Robbia alla fine del XV secolo è ancora archiviata come opera sottratta ai suoi legittimi proprietari. E invece, nelle scorse settimane, grazie alle indagini svolte dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, l’opera è stata restituita dall’Italia alla Germania, sanando una ferita aperta negli anni della dittatura nazista. La scultura faceva infatti parte dello stock della galleria d’arte Drey, di Monaco di Baviera, di proprietà delle famiglie ebree di Siegfried Drey e Ludwig Stern, che, sotto la pressione delle leggi razziali, furono costrette a svendere tutto il loro patrimonio. Fra il 17 e il 18 giugno, la casa d’aste Paul Graupe, organizzò una vendita a Berlino, nel corso della quale furono aggiudicati oltre 500 lotti. La Maddalena, in particolare, andò ad arricchire le

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Due immagini della Maria Maddalena, statua in terracotta smaltata realizzata da Andrea Della Robbia. Fine del XV sec. collezioni di Hermann Göring ed è lí che fu ritrovata dalle truppe alleate alla fine del secondo conflitto mondiale.

Il lieto fine In seguito, per effetto degli accordi raggiunti nel 1954 fra i capi di governo tedesco e italiano, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi, che prevedevano tra l’altro la restituzione delle opere d’arte giunte in Germania in maniera illegale durante la guerra, la statua fu inviata in Italia. Piú di recente, il processo di sdemanializzazione dell’opera, operato attraverso l’attività del Comitato per il Recupero e la Restituzione dei beni culturali del MiBACT di concerto con il Comando Carabinieri TPC, le Gallerie degli Uffizi e l’Avvocatura dello Stato, ha permesso di giungere alla restituzione del Della Robbia ai legittimi proprietari tramite il governo tedesco. (red.) aprile

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AGENDA DEL MESE

a cura di Stefano Mammini

AVVISO AI LETTORI

Le pagine di questa edizione dell’Agenda del Mese sono state redatte nei giorni in cui le autorità nazionali e locali hanno emanato le disposizioni mirate al contenimento della diffusione del COVID-19. È perciò possibile che le date di apertura e chiusura delle mostre segnalate abbiano subito variazioni: invitiamo dunque i nostri lettori a verificare l’agibilità delle sedi che le ospitano. Per quanto riguarda invece la sezione Appuntamenti, daremo conto delle nuove date attraverso il nostro sito web (www.medioevo.it) e gli altri canali social della rivista: Facebook @medioevo.unpassatodariscoprire, Instagram @medioevo_rivista, Twitter @_medioevo

Mostre BOLOGNA IMAGO SPLENDIDA. CAPOLAVORI DI SCULTURA LIGNEA A BOLOGNA DAL ROMANICO AL DUECENTO Museo Civico Medievale fino al 13 aprile

Può dirsi un fenomeno di recente affermazione il rinnovato interesse verso la scultura lignea italiana, ai cui aspetti materiali e tecnici è a lungo mancato, nella storiografia artistica, un pieno riconoscimento di dignità critica. In un quadro di riferimento segnato, in particolare per il patrimonio

artistico prodotto nel XII e XIII secolo, da una rarefazione delle opere causata dalla deperibilità del materiale e dalla progressiva trasformazione delle immagini al variare dei canoni estetici, «Imago splendida» segna un importante momento di ricognizione. La mostra approfondisce

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l’affascinante e ancora poco studiata produzione scultorea lignea a Bologna tra XII e XIII secolo, restituendone una rilettura aggiornata a quasi vent’anni dall’esposizione «Duecento. Forme e colori del Medioevo a Bologna», una cui sezione rappresentava lo spazio del sacro con opere inerenti l’iconografia sacra bolognese. Grazie alla collaborazione della Curia Arcivescovile di Bologna e della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, e con il patrocinio di Alma Mater StudiorumDipartimento delle Arti, il progetto è l’esito espositivo di una sedimentata ricerca filologica e documentaria, che fissa una nuova tappa verso la comprensione dei modelli di riferimento nel contesto figurativo della Bologna altomedievale. Il nucleo principale della mostra, allestita nella Sala del Lapidario, si compone delle testimonianze piú rappresentative della produzione plastica superstite nella città: tre croci intagliate di proporzioni monumentali appartenenti alla variante iconografica del Christus Triumphans che vince la morte, per la prima volta eccezionalmente riunite insieme. La comparazione ravvicinata dei manufatti offre in visione tangenze e analogie, sul piano della sintassi formale e tecnica, che rendono plausibile

l’ipotesi di un’inedita attribuzione a un’unica bottega, credibilmente di area alpina sudtirolese – il cosiddetto Maestro del Crocefisso Cini – in una fase temporale compresa tra il 1270 e il 1280. info tel. 051 2193916 oppure 2193930: e-mail: museiarteantica@comune. bologna.it; www.museibologna.it; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Twitter: @MuseiCiviciBolo URBINO RAPHAEL WARE. I COLORI DEL RINASCIMENTO Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale fino al 13 aprile

La grande stagione rinascimentale italiana trova piena espressione in ogni forma artistica: quella della maiolica esprime pienamente la ricerca

estetica, il clima culturale, ma anche il modus vivendi, che fa dell’Italia e dei suoi artisti, tra Quattrocento e Cinquecento, il faro culturale dell’Occidente. Dal Seicento in poi, nei Paesi europei, la maiolica cinquecentesca italiana diventa una vera e propria passione collezionistica e, a quella istoriata, da considerarsi a pieno titolo un aspetto della pittura rinascimentale, viene associato il nome del grande pittore urbinate: in inglese Raphael ware. E la Galleria Nazionale delle Marche espone, in questa mostra, 147 raffinati esemplari di maiolica italiana rinascimentale, provenienti dalla piú grande collezione privata al mondo, di questo genere, con l’obiettivo di

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focalizzare l’attenzione su quell’importante momento della tradizione artistica italiana. L’esposizione è allestita al secondo piano del Palazzo Ducale di Urbino, nella luminosa Loggia del Pasquino, con l’intenzione di mostrare questi raffinati oggetti nella piena luce naturale, poiché la maiolica – piú di ogni altra forma d’arte del tempo – mostra i suoi colori perfettamente conservati come all’origine, quando uscí dalla bottega del ceramista. La loggia è posta a fianco alle sale che espongono una parte delle ceramiche della collezione permanente e l’allestimento – appositamente creato – verrà poi utilizzato proprio per ampliare lo spazio espositivo dedicato a questa sezione. info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it CITTÀ DEL VATICANO ALL’ALBA DI RAFFAELLO LA PALA DEI DECEMVIRI DEL PERUGINO Musei Vaticani, Sala XVII, Pinacoteca fino al 30 aprile

Dopo essere stata ammirata a Perugia nella sua ritrovata unità e bellezza originaria – la Pala dei Decemviri del Perugino torna a fare bella mostra di sé, sempre eccezionalmente e temporaneamente ricomposta. Un’occasione imperdibile, nata dalla felice e proficua collaborazione tra i Musei «del Papa» e la Galleria Nazionale dell’Umbria, per ammirare anche nella Pinacoteca Vaticana la ricomposizione della celebre opera del maestro umbro: la tavola con la Madonna in trono col Bambino e Santi dei Musei Vaticani reinserita nella sua splendida cornice

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della sua bottega, copie di quadri del maestro ormai scomparsi e piú di 100 altri capolavori. Il cuore della mostra è costituito dagli otto pannelli del polittico dell’Agnello mistico (1432) di Hubert e Jan van Eyck. Tra il 2012 e il 2016, questi pannelli sono stati restaurati all’interno del museo dall’Istituto statale per la tutela del patrimonio artistico

esposizione. In via unica e del tutto eccezionale, gli otto pannelli restaurati del polittico chiuso, insieme ai dipinti di Adamo ed Eva ancora da restaurare, vengono esposti come dipinti singoli al di fuori della cattedrale di S. Bavone. Sono sistemati all’altezza dello sguardo, in modo che tutti possano ammirare i magnifici colori, gli straordinari dettagli e la rappresentazione quasi

(KIK). Gli straordinari risultati del restauro (durante il quale sono stati rimossi vecchi strati di pittura e parti coperte riportando al suo splendore originario questo capolavoro) consentono di vedere l’opera di Van Eyck in «modo nuovo». E proprio questo intervento ha suggerito al Museo di realizzare questa prestigiosa

tangibile dei tessuti. Si tratta della prima e ultima volta che il visitatore potrà arrivare cosí vicino al lavoro del maestro fiammingo. info www.mskgent.be

originale e riunita alla cimasa raffigurante il Cristo in pietà del museo perugino. Realizzati nel 1495 per la Cappella del Palazzo dei Priori di Perugia, i due dipinti furono separati nel 1797, in seguito alle requisizioni francesi che portarono a Parigi la sola grande tavola. Cornice e cimasa furono invece lasciate nel Palazzo. Dopo la caduta di Napoleone, la tavola non fu restituita a Perugia ma, per disposizione di Pio VII, entrò a far parte della Pinacoteca Vaticana. L’anno delle celebrazioni raffaellesche per il cinquecentenario della morte dell’Urbinate – l’Anno Sanzio per usare un neologismo – si apre quindi in Vaticano con la ricostruzione di una delle opere piú significative del suo maestro, Pietro Vannucci detto il Perugino. info tel. 06 69884676; e-mail: info.mv@scv.va; www.museivaticani.va GENT VAN EYCK. UNA RIVOLUZIONE OTTICA Museo delle Belle Arti (MSK) fino al 30 aprile

In tutto il mondo, sopravvive appena una ventina di dipinti e disegni di Jan van Eyck (1390 circa-1441), piú della metà dei quali sono riunite nell’esposizione allestita nell’MSK, insieme a opere

TORINO ANDREA MANTEGNA. RIVIVERE L’ANTICO, COSTRUIRE IL MODERNO

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AGENDA DEL MESE

Palazzo Madama, Corte Medievale e Piano Nobile fino al 4 maggio

Torino rende omaggio ad Andrea Mantegna, uno dei piú importanti artisti del Rinascimento italiano, con una ricca rassegna, allestita nelle sale monumentali di Palazzo Madama. La mostra presenta il percorso artistico del grande pittore, dai prodigiosi esordi giovanili al riconosciuto ruolo di artista di corte dei Gonzaga, articolato in sei sezioni che evidenziano momenti particolari della sua carriera e significativi aspetti dei suoi interessi e della sua personalità artistica, illustrando al tempo stesso alcuni temi meno indagati come il rapporto di Mantegna con l’architettura e con i letterati. Viene cosí proposta un’ampia lettura della figura dell’artista, che definí il suo

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originalissimo linguaggio formativo sulla base della profonda e diretta conoscenza delle opere padovane di Donatello, della familiarità con i lavori di Jacopo Bellini e dei suoi figli (in particolare del geniale Giovanni), delle novità fiorentine e fiamminghe, nonché dello studio della scultura antica. Un’attenzione specifica è dedicata al suo ruolo di artista di corte a Mantova e alle modalità con cui Mantegna definí la fitta rete di relazioni e amicizie con scrittori e studiosi, che lo resero un riconosciuto e importante interlocutore nel panorama culturale, capace di dare forma ai valori morali ed estetici degli umanisti. Il percorso della mostra è preceduto e integrato, nella Corte Medievale di Palazzo Madama, da un apparato di

proiezioni multimediali: ai visitatori viene proposta un’esperienza immersiva nella vita, nei luoghi e nelle opere di Mantegna, cosí da rendere accessibili anche i capolavori che, per la loro natura o per il delicato stato di conservazione, non possono essere presenti in mostra, dalla Cappella Ovetari di Padova alla celeberrima Camera degli Sposi, dalla sua casa a Mantova al grande ciclo all’antica dei Trionfi di Cesare. Il Piano Nobile di Palazzo Madama accoglie, quindi, l’esposizione delle opere, a partire dal grande affresco staccato proveniente dalla Cappella Ovetari, parzialmente sopravvissuto al bombardamento della seconda guerra mondiale ed esposto per la prima volta dopo un lungo e complesso restauro e dalla lunetta con Sant’Antonio e San Bernardino da Siena proveniente dal Museo Antoniano di Padova. Il percorso espositivo non è solo monografico, ma presenta capolavori dei maggiori protagonisti del Rinascimento nell’Italia settentrionale che furono in rapporto con Mantegna, tra cui opere di Donatello, Antonello da Messina, Pisanello, Paolo Uccello, Giovanni Bellini, Cosmè Tura, Ercole de’ Roberti, Pier Jacopo Alari Bonacolsi detto l’Antico e infine il Correggio. Accanto a dipinti, disegni e stampe di Mantegna, sono esposte opere fondamentali dei suoi contemporanei, cosí come sculture antiche e moderne, dettagli architettonici, bronzetti, medaglie, lettere

autografe e preziosi volumi antichi a stampa e miniati. info tel. 011 4433501; www.palazzomadamatorino.it TRENTO L’INVENZIONE DEL COLPEVOLE. IL «CASO» DI SIMONINO DA TRENTO, DALLA PROPAGANDA ALLA STORIA Museo Diocesano Tridentino fino all’11 maggio (prorogata)

Simone da Trento (detto il «Simonino»), un bambino di circa due anni, scomparve misteriosamente la sera del 23 marzo 1475 e fu ritrovato cadavere la mattina di tre giorni dopo, nei pressi dell’abitazione di una famiglia ebrea. In base a radicati pregiudizi, la responsabilità del rapimento e del delitto venne subito attribuita ai membri della locale comunità ebraica. L’accusa si fondava sulla convinzione che gli Ebrei compissero sacrifici rituali di fanciulli cristiani con lo scopo di reiterare la crocifissione di Gesú, servendosi del sangue della vittima per scopi magici e religiosi. Incarcerati per ordine del principe vescovo di Trento Johannes Hinderbach, gli Ebrei vennero processati,

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costretti a confessare sotto tortura e infine giustiziati. Proprio in virtú del presunto martirio, Simone divenne presto oggetto di un intenso culto locale, che papa Sisto IV vietò sotto pena di scomunica. La prudenza e i dubbi della Chiesa non riuscirono a opporsi a una venerazione tributata per via di fatto e costruita utilizzando due potenti mezzi di comunicazione: le immagini e il nuovissimo strumento della stampa tipografica. Grazie alla macchina della propaganda, abilmente orchestrata dal vescovo Hinderbach, il culto di Simonino si estese presto ad altre zone dell’Italia centro-settentrionale e della Germania, riuscendo a imporsi come prototipo di tutti i presunti omicidi rituali dei secoli a seguire. Solo nel Novecento, negli anni del Concilio Vaticano II, la rilettura critica delle fonti ha ristabilito la verità storica: il 28 ottobre 1965, lo stesso giorno in cui venne pubblicato il documento conciliare Nostra Aetate, la Chiesa abolí il culto del falso «beato». L’intera vicenda viene ora ripercorsa dalla mostra allestita nel Museo Diocesano Tridentino, ideata come omaggio a monsignor Iginio Rogger (1919-2014), già direttore del Museo stesso e coraggioso protagonista della storica revisione del culto di Simonino. A distanza di piú di mezzo secolo dalla sua abolizione, l’esposizione intende fare il punto sul «caso» di Simone da Trento e diffondere una piú ampia conoscenza di questa delicata e attualissima pagina della storia tardo-medievale.

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info tel. 0461 234419; e-mail: info@museodiocesanotridentino.it; www.museodiocesanotridentino.it

TORINO LEONARDO DA VINCI. I VOLTI DEL GENIO Museo Storico Nazionale d’Artiglieria fino al 31 maggio

Il museo torinese rende omaggio alla figura di un mortale che non smette di essere attraente e potente, genio artistico dalla personalità poliedrica e complessa.

PADOVA «A NOSTRA IMMAGINE». SCULTURA IN TERRACOTTA A PADOVA NEL RINASCIMENTO DA DONATELLO A RICCIO Museo Diocesano fino al 2 giugno

Secoli, dispersioni, furti, indifferenza, vandalismi hanno quasi completamente distrutto o disperso un patrimonio d’arte unico al mondo: le sculture in terracotta rinascimentali del territorio padovano. Ma qualcosa di prezioso e significativo è rimasto e il Museo Diocesano di Padova, insieme all’Ufficio beni culturali, al termine di una intensa, partecipata attività di recupero, studi, ricerche e restauri – sostenuti anche dalla campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi «Mi sta a cuore» – sono riusciti a riunire nelle Gallerie del Palazzo vescovile di

Padova, una ventina di terrecotte rinascimentali del territorio, orgogliosa testimonianza delle migliaia che popolavano chiese, sacelli, capitelli, conventi e grandi abbazie di una Diocesi che spazia tra le province di Padova, Vicenza, Treviso, Belluno e Venezia. La diffusione tanto capillare della scultura in terracotta proprio in questo territorio va individuata nella presenza prolungata e molto attiva, a Padova, a ridosso della basilica di S. Antonio, della bottega di Donatello e, dopo di lui, di Bartolomeo Bellano, Giovanni De Fondulis e Andrea Riccio. Questi artisti creavano capolavori in pietra, marmo, bronzo, ma anche nella piú umile (e meno costosa) terracotta. Opere preziose ed espressive, e per questo molto ambite e richieste. In queste fucine venivano alla luce grandi scene di gruppo, come i Compianti, ma anche piccole

Suddivisa in cinque aree tematiche, la mostra indaga la vita del maestro, la sua immensa eredità, la sua opera piú famosa, l’Ultima Cena, i suoi studi sul corpo umano e infine la Tavola Lucana, una tempera su legno realizzata tra la fine del XV secolo e l’inizio del XVI secolo, scoperta nel 2018 in una collezione privata di Salerno. Il lavoro, sottoposto alle analisi scientifiche condotte dagli esperti del CNR dell’Università Federico II di Napoli e del Circe-Innova, presenta il volto di Leonardo da Vinci ripreso di tre quarti in semi-profilo, con caratteristiche molto diverse dalle aspettative e da quelle già evidenziate dal famoso ritratto di un anziano della Biblioteca Reale di Torino. info www.leonardodavincitorino. com; Facebook @ivoltidelgenio; Instagram Leonardodavinciivoltidelgenio

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AGENDA DEL MESE ma raffinate Madonne con il Bambino o immagini di Santi per devozione familiare, di dimensioni ridotte ma spesso di grande qualità. E la mostra, quasi per campione, accoglie esempi emozionanti di queste variegate produzioni artistiche distribuite nel territorio, non meno pregiate di altre sculture in terracotta che saranno prestate per l’occasione da alcuni Musei nazionali e internazionali. info tel. 049 652855 o 049 8761924; www.museodiocesanopadova.it ROMA RAFFAELLO Scuderie del Quirinale fino al 2 giugno

Oltre cento opere di mano di Raffaello Sanzio sono riunite per la prima volta per la mostra che costituisce l’apice delle celebrazioni mondiali per i 500 anni dalla sua scomparsa. Il progetto espositivo trova ispirazione, in particolare, nel fondamentale periodo romano di Raffaello, che lo consacrò quale artista di grandezza ineguagliabile e leggendaria, e racconta con ricchezza di dettagli tutto il complesso e articolato percorso creativo. Ne fanno parte creazioni amatissime e famose in tutto il mondo, quali, solo per fare qualche esempio, la Madonna del Granduca dalle Gallerie degli Uffizi, la Santa Cecilia dalla Pinacoteca di Bologna, la Madonna Alba dalla National Gallery di Washington, il Ritratto di Baldassarre Castiglione e l’Autoritratto con amico dal Louvre, la Madonna della Rosa dal Prado, la celebre Velata, anch’essa dagli Uffizi. info tel. 02 92897722; e-mail: info@scuderiequirinale.it; www.scuderiequirinale.it

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PERUGIA TADDEO DI BARTOLO Galleria Nazionale dell’Umbria fino al 7 giugno

Il senese Taddeo di Bartolo (1362 circa-1422) è per la prima volta protagonista di una rassegna monografica, che, grazie a un centinaio di opere, ne ricostruisce l’intera parabola artistica. Vero e proprio maestro itinerante, trascorse buona parte della carriera spostandosi tra Toscana, Liguria, Umbria, e Lazio al servizio di famiglie politicamente ed economicamente potenti, autorità pubbliche, grandi Ordini religiosi e confraternite, affermandosi come il piú grande maestro del polittico del suo tempo. La rassegna enfatizza perciò questa forma d’arte sacra, grazie alla presenza di pale complete e di tavole disassemblate che, riaffiancate, consentono eccezionali ricomposizioni. Per l’occasione, in un ambiente che ricrea l’interno di una chiesa francescana ad aula, è stato ricostruito l’imponente apparato figurativo della ormai smembrata Pala di San Francesco al Prato di Perugia, di cui la Galleria

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Nazionale dell’Umbria conserva ben 13 elementi. A questi si aggiungono le parti mancanti, finora individuate, come le sette tavole della predella raffiguranti Storie di san Francesco, conservate tra il Landesmuseum di Hannover (Germania) e il Kasteel Huis Berg a s’-Heerenberg (Paesi Bassi), e il piccolo San Sebastiano del Museo di Capodimonte a Napoli, che decorava probabilmente uno dei piloni della carpenteria. Sono comunque documentate anche le altre tipologie di opere, come gli stendardi processionali o le piccole tavole di devozione privata, offrendo quindi una panoramica completa dell’arte di Taddeo. Da segnalare che la sua importante attività come frescante è illustrata da una ricostruzione video in 3D degli affreschi della cappella del Palazzo Pubblico di Siena, parte di un ricco apparato multimediale che documenta i restauri e le indagini

diagnostiche eseguiti in occasione della mostra grazie al contributo della Galleria Nazionale dell’Umbria. info tel. 075 58668436; e-mail: gan-umb@beniculturali.it; biglietteria/bookshop: tel. 075 5721009; e-mail: gnu@sistemamuseo.it; www.gallerianazionaledellumbria.it BOLOGNA IL POLITTICO GRIFFONI. LA RISCOPERTA DI UN CAPOLAVORO Palazzo Fava fino al 28 giugno

Nove musei di tutto il mondo, 16 tavole, tre secoli di attesa, un grande ritorno a casa. È un evento straordinario quello che si celebra in Palazzo Fava, con la ricostituzione di uno dei massimi capolavori del Rinascimento italiano: il Polittico Griffoni di Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti torna a splendere nella sua integrità, a 550 anni dalla sua realizzazione e 300 dalla sua disgregazione, in un’esposizione che per la prima volta ne riunisce tutte le parti esistenti, grazie agli straordinari prestiti di tutti i Musei proprietari. L’evento si articola in due iniziative: una

focalizzata sulla pala d’altare, il suo significato e la sua importanza storica; l’altra sull’operato di Factum Foundation e l’importanza delle tecnologie digitali nella tutela e condivisione del patrimonio culturale. La superba pala, dedicata a san Vincenzo Ferrer, fu concepita per la cappella di famiglia di Floriano Griffoni nella basilica di S. Petronio. La sua realizzazione, collocata tra il 1470 e il 1472, fu affidata al ferrarese Francesco del Cossa, e il Polittico Griffoni segnò l’inizio della sua collaborazione con il piú giovane Ercole de’ Roberti, uno dei piú formidabili sodalizi artistici del secondo Quattrocento italiano. Assieme a Cossa e de’ Roberti lavorò alla cornice il maestro d’ascia Agostino de Marchi da Crema. Attorno al 1725 il nuovo proprietario della cappella, monsignor Pompeo Aldrovandi, fece smantellare la pala e destinò le singole porzioni figurate a «quadri di stanza» della residenza di campagna della famiglia a Mirabello, nei pressi di Ferrara. Nel corso

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AGENDA DEL MESE dell’Ottocento i dipinti entrarono poi nel giro del mercato antiquario e del collezionismo prima di pervenire nei nove musei, oltre la metà dei quali fuori dai confini nazionali, che oggi custodiscono le opere. info tel. 051 19936305; e-mail: palazzofava@genusbononiae.it; https://genusbononiae.it/ PARIGI SGUARDI SULLA VITA QUOTIDIANA Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 28 giugno

Prima di chiudere per un anno le sue porte, al fine di consentire il completamento dell’intervento di ristrutturazione che lo sta interessando, il Museo nazionale del Medioevo di Parigi propone una mostra che riunisce circa 200 opere della sua collezione permanente – alcune delle quali mai esposte prima d’ora – attraverso le quali si vuole documentare la vita quotidiana degli uomini e delle donne dell’età di Mezzo. Un’occasione per constatare come i bisogni e le necessità di tutti i giorni non fossero poi cosí diversi dai

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nostri: dall’alimentazione alla cura del corpo, ma anche dalla volontà di arricchire il proprio spirito o, per esempio, al desiderio di mettere a punto strumenti con i quali misurare il tempo o le distanze. Ed è quindi l’occasione per ribadire come i secoli del Medioevo siano stati tutt’altro che «bui». Certo, non mancano le differenze, anche in aspetti all’apparenza minori, ma, nel complesso emerge il profilo di una società in movimento, capace di sviluppare nuove sensibilità religiose e nella quale, soprattutto, si pongono le basi per la fioritura del Rinascimento. info www.musee-moyenage.fr CLASSE (RAVENNA) TESORI RITROVATI. IL BANCHETTO DA BISANZIO A RAVENNA Classis Ravenna-Museo della Città e del Territorio fino al 5 luglio

I ceti dirigenti della tarda antichità hanno molti modi per autorappresentarsi. Uno dei principali è commissionare oggetti preziosi ad artigiani specializzati. Un settore di grande prestigio è quello dell’argenteria: coppe, boccali, posate e grandi piatti sono tra gli oggetti piú richiesti dalle aristocrazie. Spesso questi oggetti recano raffigurazioni di miti antichi o scene agresti e di banchetto. Il senso di queste rappresentazioni si giustifica nei modelli della loro committenza. Importanti personaggi vogliono comunicare il loro status symbol, le loro radici culturali. In molti casi si tratta di prodotti di alta qualità realizzati nei piú importanti centri culturali dell’impero.

Il percorso espositivo inizia da due grandi piatti realizzati in argento dorato di epoca tardoantica provenienti dal Museo Archeologico di Cesena. La sequenza narrativa della mostra prende avvio dalla documentazione del loro ritrovamento e stabilisce connessioni con analoghi grandi missoria in argento che, per qualità e modalità di realizzazione, appaiono in relazione con quelli di Cesena. Inoltre partendo dalla rappresentazione del banchetto, incorniciata al centro di uno dei grandi piatti di Cesena, si sviluppa un racconto sulla produzione di suppellettili da mensa tardo-antiche e sulle rappresentazioni figurative di banchetto circolanti tra le aristocrazie del tempo, derivate da modelli prestigiosi, funzionali anche a precise esigenze di affermazione e esaltazione sociale. info tel. 0544 473717; https://classisravenna.it; www.ravennantica.it ROMA RINASCIMENTO MARCHIGIANO. OPERE D’ARTE RESTAURATE DAI LUOGHI DEL SISMA Complesso Monumentale

di San Salvatore in Lauro del Pio Sodalizio dei Piceni fino al 5 luglio 2020

Il Complesso Monumentale di San Salvatore in Lauro, sede della Fondazione Pio Sodalizio dei Piceni, attiva nell’Urbe fin dal 1600, accoglie 36 opere d’arte – databili fra il XV e il XVIII secolo – scelte tra quelle restaurate a seguito del sisma del 2016. Si tratta della seconda tappa di un’esposizione itinerante che ha preso il via proprio nella zona del cratere, ad Ascoli Piceno presso il Forte Malatesta, che ora continua a Roma e che si concluderà a Senigallia, sulla riviera adriatica. Della selezione fanno parte manufatti dall’alto valore devozionale e/o storicoartistico, fra i quali figurano crocifissi lignei e vesperbild di ambito tedesco, che ancora oggi si trovavano all’interno delle chiese come oggetti di culto da parte dei fedeli. Vi sono quindi nomi importanti, come Jacobello del Fiore, con la serie delle Scene della vita di Santa Lucia provenienti dal Palazzo dei Priori di Fermo, Vittore Crivelli con la Madonna orante, il Bambino e angeli musicanti di Sarnano, Cola dell’Amatrice, di cui spicca la aprile

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Natività con i santi Gerolamo, Francesco, Antonio da Padova e Giacomo della Marca dalla sacrestia della chiesa di S. Francesco ad Ascoli Piceno. E ancora, da Roma, Giovanni Baglione e Giovanni Serodine, che dalla Svizzera seguí nella capitale l’esempio di Caravaggio. Tutti autori di indubbia fama che nelle Marche sono nati o che vi hanno soggiornato e che hanno contribuito a modificare la geografia della storia dell’arte. Gli interventi di restauro sono stati eseguiti con innovative analisi diagnostiche, che non soltanto hanno consentito di porre rimedio ai danni subiti dalle opere, ma hanno permesso di effettuare nuove attribuzioni e di acquisire nuove conoscenze

relative alla tecnica pittorica e ai materiali usati dai pittori, accrescendo le conoscenze che si avevano su questo patrimonio e aprendo la strada a molti studi scientifici. info tel. 06 99572979; e-mail: info@artifexarte.it; www.artifexarte.it ROMA RAFFAELLO E LA DOMUS AUREA. L’INVENZIONE DELLE GROTTESCHE Domus Aurea fino al 10 gennaio 2021 (dal 24 marzo)

Gli spazi della Domus Aurea (sala ottagona e ambienti limitrofi) celebrano il cinquecentenario della morte di Raffaello con un evento espositivo dedicato al tema delle grottesche, forte di

straordinari apparati interattivi e multimediali. Il progetto ha l’ambizione di raccontare la storia e l’arte di uno dei complessi architettonici piú famosi al mondo, che ha segnato e influenzato, con la sua scoperta, l’iconografia del Rinascimento. Fu infatti Raffaello, nel secondo decennio del Cinquecento, insieme al fidato collaboratore Giovanni da Udine, a comprendere a fondo la logica delle grottesche antiche, riproponendole organicamente, grazie alle sue profonde competenze antiquarie, per la prima volta nella Stufetta del cardinal Bibbiena (1516) e poi, sempre nell’appartamento

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del Bibbiena nel Palazzo Apostolico in Vaticano, nella Loggetta (1516-17). La secolare fortuna delle grottesche può essere documentata anche sul lunghissimo periodo: saranno in particolare i principali esponenti del surrealismo (Victor Brauner, Salvador Dalí, Max Ernst, Joan Miró, Yves Tanguy) a essere sedotti dall’«arte magica» di questi sistemi decorativi, riproponendo ancora una volta, in chiave onirica e freudiana, quelle invenzioni capaci di scandalizzare il gusto dei classicisti e la falsa coscienza dei moralisti. info www.parcocolosseo.it

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musei pisa

All’ombra della Torre di Stefano Mammini

La storia della cattedrale intitolata a santa Maria Assunta e degli altri «Miracoli» di Pisa è raccontata nelle sale dal Museo dell’Opera del Duomo. Che ora si presenta in un allestimento rinnovato e di grande suggestione aprile

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A sinistra Crocifisso (detto «d’Elci») in legno dipinto, opera di Giovanni Pisano. Ottavo decennio del XIII sec.

uando, solitamente da via Santa Maria, si raggiunge la piazza dei Miracoli di Pisa, l’occhio – e l’obiettivo – vengono calamitati dalla Torre pendente: sarebbe del resto difficile rimanere indifferenti di fronte a tanta sghemba bellezza. Tuttavia, sebbene sia (divenuto) unico nel suo genere, quel monumento è parte di un complesso ricco e articolato, del quale fanno parte il Duomo – intitolato a santa Maria Assunta –, il Battistero – dedicato a san Giovanni – e il Camposanto monumentale. Un insieme che ha acquisito le sue forme attuali nell’arco di almeno tre secoli, come esito di vicende che si possono ripercorrere nelle sale del rinnovato Museo dell’Opera del Duomo. Sebbene di recente istituzione – la sua prima inaugurazione risale al 1986 –, la raccolta è stata oggetto di un ampio intervento di riallestimento, dettato da esigenze tecniche, ma suggerito anche dall’arricchimento delle collezioni.

L’istituto ha sede in un edificio che ha visto anch’esso stratificarsi numerose fasi di vita: fu infatti Casa Capitolare, Seminario Vescovile, poi abitazione privata e, infine, monastero di clausura delle Benedettine, che l’occuparono fino al 1979. Venne quindi acquistato dall’Opera della Primaziale Pisana, che lo aveva individuato come struttura ideale per il museo che tuttora accoglie, considerando la sua prossimità ai monumenti da cui proviene la quasi totalità delle opere che espone, in tutto poco meno di 400, distribuite in 26 sezioni, che occupano 3000 mq di superficie espositiva interna, a cui si aggiunge una parte del chiostro porticato.

Storie sacre sul bronzo

Il percorso espositivo si apre con la monumentale porta bronzea realizzata da Bonanno Pisano per l’ingresso orientale del transetto meridionale del Duomo. Detta anche «di San Ranieri», venne ultimata dall’artista intorno al 1180 circa,

Tutte le immagini si riferiscono all’allestimento e alle opere del Museo dell’Opera del Duomo di Pisa. Sulle due pagine una delle sale del museo, dove è esposta la copia in scala 1:25 della Torre pendente, realizzata con alabastri volterrani. A destra reliquiario a cofanetto in rame smaltato e dorato. Produzione limosina, XII-XIII sec.

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musei pisa In basso Madonna col Bambino, scultura in avorio di Giovanni Pisano. 1299.

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

a un anno di distanza dal compimento delle tre porte che lo stesso Bonanno aveva creato per la facciata principale di S. Maria Assunta e che andarono distrutte nel 1595, a causa di un incendio. Considerata un capolavoro della scultura europea del Medioevo, la Porta di San Ranieri mostra, distribuite sui due battenti, venti formelle, all’interno delle quali si susseguono episodi delle vite del Cristo e della Vergine, corredati da didascalie (vedi foto a p. 38). In alto e in basso, questo ricco programma iconografico è chiuso da riquadri piú grandi, nei quali sfilano le immagini di dodici profeti, alternate ad altrettante palme. È, nell’insieme, una raffinata Biblia pauperum, che, di lí a pochi anni, Pisano riprese e ampliò nella porta principale del Duomo di Monreale. La sala successiva offre la prima testimonianza tangibile di come i monumenti della piazza dei Miracoli abbiano vissuto piú fasi e riunisce, in questo caso, materiali riferibili agli interventi operati nel corso del XII secolo, sia all’in-

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In alto uno scorcio della piazza del Duomo (o dei Miracoli). Sulla destra, il Museo dell’Opera del Duomo.

terno che all’esterno del Duomo. Si possono quindi ammirare capitelli e altri frammenti architettonici, molti dei quali ascrivibili a Rainaldo, l’architetto pisano citato anche nell’iscrizione commemorativa che corre sulla facciata della chiesa. Assieme al quale operarono anche Guido e Bonfilio – i cui nomi compaiono in una tabella iscritta –, nonché Guglielmo, che firmò il primo pulpito della cattedrale. Un’opera magnifica, quest’ultima, che venne però smontata nel 1310 per fare posto al pulpito di Giovanni Pisano e trasferita nel Duomo di Cagliari, dove si può tuttora ammirarla. Un destino che forse lo stesso Guglielmo avrebbe accettato senza particolari turbamenti, se consideriamo che uno dei manufataprile

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ti piú belli di questa sezione – una transenna presbiteriale – venne realizzato nella sua bottega reimpiegando marmi prelevati dalla basilica di Nettuno a Roma, nel segno di quel riuso dell’antico che ha costituito per secoli una prassi consueta e che, nel Medioevo, raggiunse i suoi livelli forse piú alti di sistematicità. Poco oltre, si percepiscono atmosfere ben diverse, grazie a una selezione di opere, per cosí dire, esotiche, scelte come indizio della dimensione internazionale assunta da Pisa, affermatasi come potente repubblica marinara. Ne è testimonianza il grifone in bronzo che, fino al 1828, coronava il timpano absidale del Duomo e la cui realizzazione viene attribuita a maestranze islamiche della Spagna. Databile nel XII secolo, s’impone all’attenzione per l’equilibrio delle forme e la minuzia della lavorazione, attestata

anche dalle iscrizioni in caratteri cufici incise sul corpo dell’animale. Attorno alla fantastica creatura (che, sul Duomo, è stata rimpiazzata da una replica), spicca, fra gli altri, la statua che ritrae re David come citaredo, in questo caso assegnata a una bottega dell’area provenzale (vedi foto a p. 36).

E venne Nicola de Apulia...

Il percorso tocca quindi uno degli ambienti piú suggestivi del museo: la sezione denominata Un popolo di

pietra è infatti allestita all’interno di quella ch’era un tempo una cappella e nella quale si conservano gli affreschi originari, fra cui il Cristo Pantocratore, circondato dai simboli degli Evangelisti, che si mostra ieratico al centro della volta. Lungo le pareti sono distribuite le sculture che in origine ornavano il coronamento esterno del Battistero. Opere che, grazie a un’iscrizione, si possono attribuire alla mano di Nicola de Apulia (meglio noto come Nicola Pisano), al quale, dopo la morte, su-

A destra Madonna col Bambino (detta Madonna del Colloquio), gruppo in marmo di Giovanni Pisano. 1280-1285.

In basso corona in argento fuso, sbalzato, cesellato inciso e dorato con inserti in vetro e cristallo di rocca, dal monumento funebre di Arrigo VII. 1313.

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musei pisa bentrò il figlio Giovanni (e tuttora dibattuta è la ripartizione delle rispettive paternità). La musealizzazione permette oggi la visione ravvicinata delle statue e ne porta dunque allo scoperto la realizzazione a tratti sommaria: una soluzione non certo sbrigativa, ma figlia del buon senso di chi per primo sapeva che quelle opere sarebbero state issate a diversi metri d’altezza e difficilmente sarebbe stato possibile scorgerne eventuali imperfezioni. Ascrivibili senza alcun dubbio a Giovanni sono invece le tre Madonne riunite nella sala successiva: la prima, proveniente dal portale occidentale del transetto Sud del Duomo, mostra la Vergine con il Bambino in braccio, al quale sembra rivolgersi in un ideale discorso ed è perciò detta «del Colloquio» (vedi foto a p. 33, a destra); la seconda, dalla lunetta del portale principale del Battistero, mostra invece Maria fra i due san Gio-

In alto particolare di un capitello con protomi umane e animali realizzato da Biduino, scultore romanico attivo fra Pisa e Lucca negli ultimi decenni del XII sec. A destra la sala che ospita i reliquiari a cofanetto di produzione limosina. In alto, sulle due pagine uno scorcio del chiostro, sotto il cui porticato sono riunite sculture in origine appartenenti alla decorazione scultorea che coronava il Battistero pisano.

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Francesco, architetto che nel 1315 fu chiamato a dirigere il cantiere del Duomo. Al primo si devono l’altare di San Ranieri e gli elementi superstiti del monumento funebre realizzato per l’imperatore Arrigo VII. Il sovrano di cui, nella chiesa cattedrale si conserva il solo sarcofago, appare seduto in trono, circondato dai suoi dignitari e, nonostante le lacune, non è difficile cogliere l’imponenza originaria dell’opera, nella quale, come è stato osservato, si percepisce l’influsso esercitato da Giotto sulla resa dei vari personaggi. All’imperatore, come lui coronata, si contrappone la Madonna con Bambino scolpita da Lupo, figura centrale della composizione pensata per il tabernacolo che sormonta l’ingresso del Camposanto monumentale (dove è stata sostituita da una replica), intorno alla quale si dispongono due angeli, due santi e un devoto inginocchiato.

Di padre in figlio vanni, l’Evangelista e il Battista; la terza, infine, era compresa nella decorazione della Porta di San Ranieri e fu realizzata in occasione della visita in città dell’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo. La madre del Salvatore è in questo caso seduta e, di fronte a lei, figura una personificazione di Pisa, inginocchiata. Eredi della lezione di Giovanni sono gli artisti a cui si attribuiscono le opere che seguono, il cui allestimento mette particolarmente in risalto uno degli aspetti vincenti del nuovo museo, vale a dire il riuscito dosaggio degli apparati illuminotecnici, che permettono di leggere al meglio i dettagli di ogni singola opera e, al tempo stesso, creano effetti di grande suggestione, facendo emergere le figure – soprattutto nel caso dei grandi gruppi scultorei – come fossero attori su un ideale palcoscenico. Qui si confrontano dunque il senese Tino di Camaino e Lupo di

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Piú avanti, la rassegna lascia spazio alla seconda grande famiglia di scultori attivi a Pisa: capostipite ne fu Andrea da Pontedera, meglio noto come Pisano (ma, è bene sottolinearlo, a legarlo a Nicola e Giovanni è solo l’omonimia), del quale si può ammirare una splendida Madonna con Bambino, in origine destinata a coronare la facciata del Duomo. E, contemplandola, appare evidente la distanza, non soltanto cronologica, dall’artefice del pulpito: oltre trent’anni separano le due opere e, soprattutto, nel gruppo di Andrea, realizzato intorno al 1346, appaiono evidenti i richiami alla contemporanea scultura francese e alla scuola giottesca. Nel 1363, all’indomani della morte dell’arcivescovo Giovanni Scherlatti, al figlio di Andrea, Nino, viene commissionato il monumento funebre del presule, qui esposto insieme a un’opera analoga, realizzata per l’arcivescovo Francesco Moricotti. Entrambe le opere si tro-

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musei pisa GLI ANNI DELLA FABBRICA 1064 Fondazione del Duomo di S. Maria Assunta. L’invasione del porto di Palermo da parte dei Pisani frutta un enorme bottino che viene investito nel cantiere della chiesa. 1081-85 Prima attestazione della magistratura consolare. 1092 Il presule Daiberto ottiene il titolo di arcivescovo, dopo che la Chiesa pisana aveva ricevuto la conferma della primazia sulla Corsica. 1099 Partecipazione dei Pisani alla prima crociata. 1100 L’arcivescovo Daiberto diviene primo patriarca di Gerusalemme. Secondo la tradizione, Goffredo di Buglione regala due battenti di fabbricazione bizantina con decori in argento niellato, montati sulla porta sud della facciata del Duomo. Furono perduti a seguito dell’incendio del 1595. Particolare di una statua raffigurante il re David che suona la cetra, attribuita a uno scultore provenzale. Secondo terzo del XII sec.

1110, 21 settembre Presumibile data di morte di Buscheto, menzionato per l’ultima volta come Operaio del Duomo. 1116 Il giudice Ildebrando riceve l’investitura di Operaio del Duomo dai consoli del Comune, che nella circostanza si sostituiscono d’autorità al vescovo. 1118, 26 settembre Consacrazione del Duomo da parte di papa Gelasio II, che apporta personalmente nuove reliquie. 1135 Si celebra in Duomo un importante concilio che vede la partecipazione di san Bernardo di Chiaravalle. 1150 circa Rainaldo erige la nuova facciata del Duomo. 1152 Su progetto e direzione di Diotisalvi, iniziano i lavori del battistero. 1155-62 Erezione delle nuove mura urbiche. 1159 Guglielmo intraprende la lavorazione del pulpito romanico del Duomo. 1173-74 Inizia la costruzione della torre. In due fasi distinte, si esegue un doppio giro di fondazioni. 1180 Il Comune stabilisce la sua giurisdizione sull’elezione degli Operai del Duomo, che erano soliti giurare nelle mani dell’arcivescovo. 1180-81 Bonanno Pisano realizza i battenti bronzei istoriati per la porta centrale della facciata del Duomo, distrutti dall’incendio del 1595. 1207 Il contrasto di giurisdizione tra l’episcopato e il Comune sull’elezione degli Operai del Duomo viene risolto in via definitiva a favore della magistratura civica. 1232 Lavori in corso sulla torre, al livello della terza loggetta. 1245 Guido Bigarelli da Como firma il fonte battesimale del battistero. 1259-60 Nicola Pisano firma il pulpito del battistero. 1260 Pisa, schierata con i ghibellini, partecipa alla battaglia di Montaperti. 1265-66 Nicola Pisano è impegnato nella lavorazione della loggetta esterna del battistero.

vavano in origine all’interno della chiesa cattedrale e mostrano un’impaginazione simile, con il sarcofago chiuso da un coperchio sul quale è scolpita a tutto tondo l’immagine del defunto giacente, mentre la fronte dell’arca è scandita in formelle con immagini del Cristo e di santi fra angeli. Prima di salire al piano superiore, il percorso regala uno

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dei colpi d’occhio di maggiore effetto: al centro della sezione denominata Verso il cielo troneggia infatti la replica in scala 1:25 della Torre pendente, realizzata in alabastro da maestri artigiani di Volterra. Un manufatto che, al di là del valore della materia prima, colpisce per l’accuratezza con cui sono stati resi i dettagli del monumento originario. Al quale erano state destinati anche le altre opere qui riunite: fra aprile

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1270-75 Giovanni Pisano esegue le figure a mezzobusto nelle ghimberghe (frontoncini) che sormontano la loggetta esterna del battistero. 1271 La torre risulta ancora in costruzione. 1277 Si intraprende la realizzazione del camposanto e si completa una fase edilizia del battistero. 1278-84 Giovanni Pisano è capomastro del battistero. Appone una teoria di statue sulle ghimberghe della loggetta esterna del battistero. 1284 Sconfitta dei Pisani alla battaglia della Meloria. I Genovesi infliggono la quasi totale perdita della flotta navale. 1298 Nomina di una commissione preposta alla torre, presieduta da Giovanni Pisano. 1302 Nel Duomo, Cimabue completa il San Giovanni Evangelista del mosaico absidale, e Giovanni Pisano intraprende la realizzazione del pergamo, in sostituzione del pulpito di Guglielmo, trasferito a Cagliari nel 1312. 1310 Completamento del pergamo del Duomo. 1315 Tino di Camaino esegue nel coro del Duomo il monumento sepolcrale di Arrigo VII, parzialmente trasferito nel transetto sud nel 1493. 1321 Vincino da Pistoia completa il mosaico absidale del Duomo. 1333 circa La Crocifissione di Francesco Traini segna l’avvio della decorazione pittorica del Camposanto. 1336 È attestato a Pisa il pittore fiorentino Buonamico Buffalmacco, impegnato con tutta probabilità nella decorazione pittorica del camposanto. 1358 Si avvia la costruzione del lato settentrionale del camposanto. 1358-72 Su modello di Zibellino da Bologna, un gruppo di scultori esegue la decorazione terminale del battistero. 1385-88 I maestri Puccio di Canduccio e Tomeo di Ciomeo lavorano sul coronamento a pinnacoli della cupola del Duomo. 1395 Viene apposta la statua di san Giovanni Battista al sommo del battistero. queste, spicca un capitello scolpito dallo scultore romanico Biduino, al quale fanno da corona protomi umane e animali dai tratti quasi grotteschi (vedi foto a p. 34).

Legno, oro e avorio

Nelle sezioni successive, riunite al primo piano del museo, la pietra lascia il posto a una variegata gamma di materie prime, che si inaugura con il legno e, in particolare, con le

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Tre Santi (san Ranieri, papa Sisto II e san Michele Arcangelo), tempera e oro su tavola di Spinello Aretino. 1395 circa.

tarsie del Coro del Duomo, realizzate sul finire del XV secolo. Ancora in legno è poi il magnifico Crocifisso con il quale si torna alle prime fasi di vita della chiesa cattedrale: si tratta infatti di un’opera realizzata nella prima metà del XII secolo da un artista verosimilmente borgognone e che faceva parte, come è stato accertato grazie al recente restauro, di un piú articolato gruppo, avente per tema la Deposizione (vedi

foto alle pp. 38-39). La rappresentazione del Salvatore sulla croce ha tratti essenziali, quasi schematici, ma non per questo meno potenti, e si segnala anche per il magistrale uso della policromia. D’oro e smalti rifulgono poi i cofanetti reliquiario di produzione limosina (databili tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo), ai quali fa da pendant, anch’essa con il suo fondo oro, la tavola di Spinello Aretino che ritrae san Ranieri, papa Sisto II e san Michele Arcangelo (vedi foto in questa pagina). Nella sala seguente si ritrova Giovanni Pisano, del quale si ha modo di apprezzare la versatilità. Alla mano del maestro sono infatti riconducibili il Crocifisso in legno dipinto detto «d’Elci» (vedi foto a p. 31) e una piccola Madonna col Bambino in avorio (vedi foto a p. 32). Il primo

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musei pisa Nella pagina accanto palotto d’altare a ricamo realizzato per il vescovo di Cipro. 1325. A sinistra porta bronzea detta «di San Ranieri», opera di Bonanno Pisano. 1180 circa. In basso Cristo in croce, scultura in legno dipinto in origine facente parte di un gruppo avente come soggetto la Deposizione, opera di un artista borgognone. Prima metà del XII sec.

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Dove e quando Museo dell’Opera del Duomo Pisa, piazza del Duomo Orario gli orari variano stagionalmente Info www.opapisa.it

prende nome dall’arcivescovo Francesco Pannocchieschi d’Elci (16631702), in quanto venne rinvenuto all’interno del suo monumento funerario, situato nel transetto sinistro di S. Maria Assunta. La rappresentazione del Cristo ha tratti quasi veristici, accentuati dalla scelta di rappresentare la croce come un albero, semplicemente privato di rami e foglie. La scultura in avorio, realizzata nel 1299, era compresa in un altarolo ed è a buon diritto ritenuta uno dei capolavori dell’intera collezione: basta soffermarsi sulle movenze della Vergine e del Figlio o sul panneggio delle vesti per intuire quanto elevato fosse il livello raggiunto dal suo autore nel trattamento della materia. Piú avanti, protetti da teche climatizzate, sono esposti i materiali recuperati in occasione della ricognizione del sepolcro dell’imperatore Arrigo VII (vedi «Medioevo» n. 210, luglio 2014; anche on line su issuu.com): un intervento che ha portato al recupero, fra gli altri, di un prezioso telo funebre di manifattura spagnola e delle insegne del sovrano, cioè la corona (vedi foto a p. 33, a sinistra), il globo e lo scettro. Tre oggetti che richiamano le immagini dell’imperatore conte-

nute nel resoconto illustrato in 73 miniature del suo viaggio in Italia, commissionato dopo il 1330 dal fratello Baldovino, arcivescovo di Treviri (ora conservato a Coblenza, nel Landeshauptarchiv). Quindi, dopo una selezione di preziosi paramenti e arredi liturgici, viene aperta una finestra anche sulla ricca produzione di manoscritti miniati legata alla cattedrale pisana. Fra di essi vi sono due preziosi esemplari di Exultet, libro liturgico vergato su un rotolo di pergamena che prende nome dal primo verso dell’inno cantato in occasione delle celebrazioni pasquali: «Exultet iam angelica turba coelorum» («Esulti ormai l’angelica turba dei cieli»). Accanto ai rotoli è esposto un documento di grande valore storico: si tratta infatti di una pergamena quattrocentesca nella quale viene narrata la mitica fondazione della città di Pisa e, soprattutto, si ricorda la fondazione del Duomo, nel 1118. A chiusura del percorso, non va tralasciata la visita del chiostro porticato del museo, nel quale sono state riunite sculture originariamente appartenenti alla decorazione del Battistero di S. Giovanni: busti colossali, che ancora una volta si devono all’estro dell’ancora giovane Giovanni Pisano.

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storie pestilenze

La vita al tempo del

di Maria Paola Zanoboni

contagio

Divieto di assembramento di persone, chiusura di attività commerciali, quarantena: nonostante i progressi delle discipline mediche, le misure per prevenire le epidemie sono ancora oggi, in buona sostanza, quelle elaborate nel Trecento. Ma in cosa si differenzia l’attuale pandemia dalle pestilenze medievali? E quali furono gli effetti – sociali, economici e culturali – delle epidemie del passato?

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elle scorse settimane, trovando sbarrato il portone di un’importante chiesa del centro di Milano, e sentendomi annunciarere da un omino incappucciato (che sembrava uscito da una miniatura medievale) la sospensione delle messe a causa del coronavirus (COVID-19), mi sono sentita proiettata (con tutta la curiosità della situazione) in un limbo storico compreso tra il XIV e il XVII secolo, non senza la sottile speranza di poter incontrare Leonardo e tutti coloro che avevano frequentato nel corso dei secoli quel luogo... Perché i provvedimenti adottati di fronte al diffondersi del virus ricalcavano le misure prese appunto in quelle epoche ormai lontane: divieto di accesso e di uscita dai comuni colpiti, quarantena, divieto di assembramento di persone, chiusura di attività commerciali, scuole, luoghi di pubblico assembramento, cancellazione delle manifestazioni per il carnevale. Con la differenza che, ai giorni nostri, è risultato molto piú difficoltoso metterle in pratica, sia perché (ora come allora) in netto contrasto con gli interessi economici e commerciali, sia per l’attuale velocità dei mezzi di trasporto che rende impossibile individuare e arginare il diffondersi di un’epidemia al suo primo manifestarsi. La velocità negli spostamenti supera di gran lunga i tempi d’incubazione.

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Miniatura attribuita al Maestro «dell’Echevinage» di Rouen, raffigurante i dieci giovani protagonisti del Decameron di Giovanni Boccaccio, da un’edizione francese del XV sec. Parigi, Bibliothèque de l’Arsénal. Nell’illustrazione è rappresentato, a destra, il gruppo di sette donne e tre uomini che, per sfuggire alla Peste Nera, trascorre dieci giorni nelle campagne fiorentine. Sulla sinistra, cinta dalle mura, è la città di Firenze, in cui la morte continua a mietere vittime un giorno dopo l’altro.


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storie pestilenze

Oceano Oceano Atlantico Atlantico

Mare Mare del del Nord Nord

Mosca Mosca

Copenaghen Copenaghen Lubecca Londra 1629 Lubecca Londra Varsavia Amsterdam 1665 1629 Magdeburgo Varsavia 1663-1664 Amsterdam 1665 Magdeburgo Varsavia1663-1664 Rouen VarsaviaFrancoforte Praga Francoforte Rouen Praga Parigi Vienna Parigi

Toledo

Toledo

Milano Venezia Vienna 1524 1329 Milano 1576 Venezia 1524 1630 1329 Ravenna 1576 1630 Ravenna Marsiglia Firenze 1720-1721 1348 Marsiglia Firenze 1383 Barcellona 1720-1721 1348 Roma 66 d.C. 1383 Roma 590 Barcellona 66 d.C. 590 Messina 1347 Messina 1347

Bucarest

Caffa 1346 -1347 Caffa 1346 -1347

Bucarest

Salonicco

Salonicco

Ankara

Ankara

A sinistra cartina nella quale sono riportate le piú importanti epidemie in Europa. Le pestilenze, naturalmente, non colpirono solo le città indicate, ma ebbero sempre una diffusione ben piú ampia. In basso, sulle due pagine particolare di un capolettera miniato raffigurante un vescovo che benedice quattro clerici appestati, dall’Omne Bonum, enciclopedia del sapere di James le Palmer. 1360-75, Londra, British Library. Nel corso delle epidemie il clero portava assistenza agli ammalati e, talvolta, governava le città abbandonate dai maggiorenti, come fece san Carlo Borromeo durante la peste di Milano del 1576.

Atene 430-429 a.C. Atene 430-429 a.C.

Mar Mediterraneo Mar Mediterraneo

CRONOLOGIA DELLE PRINCIPALI EPIDEMIE DI PESTE 430-429 a.C. Pestilenza di Atene descritta da Tucidide e da Lucrezio. 66 d.C. Epidemia a Roma narrata da Tacito. V-VI secolo Morbo endemico, continuo ripetersi di epidemie. 542 d.C. «Peste di Giustiniano» descritta da Procopio di Cesarea. 590 d.C. Pestilenza a Roma dopo la quale la Mole Adriana venne ribattezzata «Castel Sant’Angelo». VIII secolo La malattia scompare dall’Europa. 1348 La peste torna in Europa, epidemia descritta dal Boccaccio. XIV-XVII secolo Morbo endemico, continuo ripetersi di epidemie. 1524 Epidemia durante la quale a Milano venne creato un cimitero apposito per gli appestati. 1576-1577 «Peste di San Carlo»: l’epidemia comparve in Trentino nel 1574, contagiò nel 1576 Milano e si diffuse poi in tutta Italia, anche a causa degli spostamenti dei pellegrini per il Giubileo indetto in quell’anno. 1630 Pestilenza narrata nei Promessi Sposi e documentata da Giuseppe Ripamonti. 1665 Epidemia di Londra descritta da Defoe. 1720-1721 Epidemia di Marsiglia: il morbo viene debellato dall’Europa grazie a un rigido cordone sanitario.

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Come al tempo della peste, è dilagato poi l’uso di mascherine (allora la caratteristica maschera del «medico della peste»), e di prodotti antisettici (nel Medioevo, soprattutto l’aceto e l’acqua di rose). E hanno completato il quadro delle analogie le speculazioni, il rincaro dei prezzi di quegli articoli, l’assalto ai supermercati (come un tempo alle botteghe dei fornai), per scongiurare il pericolo della quarantena. Una differenza importante sta invece nel fatto che la peste veniva veicolata non solo dai contatti umani, ma anche dai topi e dalle pulci, per cui le merci in cui si annidavano trasmettevano il contagio. La sua morbilità era molto maggiore, e devastanti gli effetti su tutti coloro che la contraevano. Pochissimi guarivano, la maggior parte degli infettati moriva a tre giorni dall’apparire dei sintomi. E fu infatti impressionante il numero dei decessi causati dalle grandi pestilenze: i 2/3 della popolazione a Firenze nel 1348 (80 000 persone su 120 000, secondo il mercante Giovanni di Pagolo Morelli, e oltre 100 000, secondo il Boccaccio); 18 000 nella sola Milano nel 1576/77 e ben 150 000 nella stessa città nel 1630; 50 000 (su 100 000 abitanti) a Marsiglia nel 1720/21.

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Dopo l’epidemia del 1348, nel giro di cinque anni, la sola popolazione italiana passò da 12 milioni e mezzo a 9 milioni di persone, e il declino continuò fino ai 7 milioni e 300 000 abitanti della metà del Quattocento. Complessivamente, in tutta Europa si stima che sia perito il 30% circa della popolazione (30 milioni di individui su un totale di 100 milioni), con conseguenze economiche e sociali importantissime. Ripercorriamo, dunque, i capitoli salienti di una vicenda che ha segnato profondamente la storia del nostro continente, nei secoli del Medioevo, ma non solo.

Un flagello ricorrente

Alla metà del Trecento, quando la peste ricomparve dopo centinaia di anni, l’Europa era del tutto impreparata ad affrontare la malattia, che produsse perciò un livello elevatissimo di mortalità, arrivando a distruggere circa un terzo della sua popolazione. Dopo l’epidemia diffusasi tra la fine del 1347 e il 1348 la peste rimase endemica, ripresentandosi un po’ ovunque con cadenza pressoché decennale, e divenendo quasi parte integrante del normale

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storie pestilenze Crisi economica e crollo demografico 19

Milioni di abitanti

1340 1400

16

12,5 11 9,5

9

8,3

7,7 5,3

Italia

4,4

Germania Inghilterra Francia

Spagna

Dopo tre secoli di crescita quasi continua, all’inizio del Trecento una serie di disastrosi eventi climatici e le gravi carestie che seguirono indebolirono la popolazione europea, favorendo la diffusione delle epidemie di peste che investirono il continente a partire dal 1348, ripresentandosi piú volte lungo tutto il XV secolo e provocando forti cali nella popolazione. Si stima che, nei primi decenni del Quattrocento, in tutta Italia la popolazione passò, dai 12 milioni e 500 000 abitanti dell’epoca precedente la pestilenza, a 9 milioni nei cinque anni successivi, per scendere fino ai 7 milioni e 300 000 abitanti della metà del Quattrocento. Le ripercussioni sul sistema economico furono gravissime, in quanto la carenza di manodopera provocò l’aumento incontrollato dei salari.

ritmo della vita, per cui la società, soprattutto nei centri urbani, fu costretta suo malgrado ad adeguarvisi. Già nel 1348 Venezia, Firenze e Pistoia istituirono comitati per affrontare l’emergenza, le cui misure furono, al momento, quelle tradizionali: stabilirono la profondità delle inumazioni perché l’aria non venisse corrotta da cadaveri seppelliti frettolosamente. A Firenze il Capitano del Popolo vietò ai residenti di venire in contatto con Genovesi e Pisani e di vendere oggetti appartenuti agli appestati; nella lotta contro il flagello si trovarono uniti il Comune, le associazioni di mestiere e quelle caritative. Pistoia cercò di salvarsi evitando ogni contatto con i territori infetti di Pisa e di Lucca, stabilendo che nessun pistoiese potesse recarvisi e viceversa che nessun forestiero proveniente da quelle zone potesse entrare in città; fu proibita l’introduzione di stoffe di lino e di lana usate, che sarebbero state altrimenti bruciate sulla

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A destra miniatura raffigurante la cura degli appestati, da La Franceschina, libro sulla vita di san Francesco e dei primi Francescani. XV sec. Perugia, Biblioteca Comunale Augusta. Le fonti descrivono una gravissima epidemia che colpí, nel 1475 e per cinque anni, il territorio perugino. aprile

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storie pestilenze la peste del 1630

Maggiorenti in fuga

pubblica piazza; guardie armate avrebbero sorvegliato le porte cittadine perché le disposizioni fossero rispettate. Per evitare assembramenti, era inoltre proibito entrare nelle case in cui ci fossero persone decedute, e accompagnare i funerali oltre la chiesa. I legislatori pistoiesi presero poi anche altre misure, concernenti in particolare l’igiene nella macellazione e nella vendita della carne. Ciononostante non riuscirono a evitare l’epidemia.

Non tutti i mali...

Milano, che aveva adottato provvedimenti analoghi, riuscí invece, almeno nel 1348, a sfuggire al contagio, probabilmente favorita anche dalla guerra che in quel momento era in corso tra i Visconti e i Gonzaga e bloccava il commercio dei Milanesi in direzione di Mantova. Anche Venezia tentò di evitare la peste, proibendo prima agli stranieri e poi agli stessi Veneziani malati l’ingresso in città, ma sembra che il provvedimento

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Miniatura raffigurante la morte che prende le vittime della peste, da un manoscritto francese. 1503 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

La pestilenza del 1630 rimase nella memoria per le sue dimensioni (si parlò di 150 000 morti nella sola Milano) e per la sua estensione geografica: da Lione a Berna, a Milano, a Venezia, a Mantova, a Modena, a Bologna, a Pistoia, a Pescia e a Lucca. La principale descrizione di un contemporaneo è la Storia della peste (1640) del sacerdote e dottore della Biblioteca Ambrosiana Giuseppe Ripamonti (1577-1643), opera nella quale compare per la prima volta un intero capitolo dedicato agli «untori», di cui non si era fatta invece quasi menzione all’epoca di san Carlo. L’autore cerca di spiegare razionalmente le origini dell’epidemia, individuando una serie di cause che la precedettero: l’assedio di Casale Monferrato da parte del duca di Savoia, modesto episodio militare dalle innumerevoli conseguenze (che si inquadra nelle guerre per la successione dinastica nel Monferrato e che rientrano nel piú vasto quadro del conflitto tra Francia e Spagna, n.d.r.); l’imposizione fiscale eccessiva su una popolazione già sfibrata dalla carestia; l’aumento dei mendicanti che furono ospitati nei lazzaretti, e il loro afflusso dalla campagna in città; l’indebolimento degli organismi dovuto alla fame; i disordini e i tumulti per il pane. A coronare il tutto, la processione voluta dal cardinale Federico Borromeo quando si manifestarono i primi casi di peste, che non fece che diffondere enormemente il contagio. Anche questa epidemia, come le precedenti, non arrivò all’improvviso: già nel 1628 il Tribunale della Sanità, date le poco rassicuranti notizie sui contagi che dilagavano in Europa, aveva emanato una grida per cercare di salvaguardare Milano. In seguito venne vietato il commercio con Friburgo e Berna. La situazione fu aprile

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Stampa seicentesca raffigurante l’interno del lazzaretto di Milano occupato dagli appestati nell’anno 1630. Milano, Castello Sforzesco, Civiche Raccolte d’Arte Applicata e Incisioni. Durante la terribile epidemia, nel cortile vennero costruite baracche temporanee per ricoverare circa 16 000 ammalati.

aggravata dalla carestia e dalla già citata guerra nel Monferrato, per cui l’esercito spagnolo prese d’assedio Casale. Ciononostante, nell’ottobre del 1629, nessun provvedimento era ancora stato preso, a causa dello scetticismo delle autorità sulla possibilità che il contagio toccasse Milano. La paura cominciò a diffondersi davvero solo alla metà di ottobre, con la notizia che poco lontano erano morte dodici persone. Alla fine dello stesso mese il morbo era ormai in città. Il rigore dell’inverno arrestò momentaneamente il diffondersi del contagio, ma, nei primi mesi del 1630, i festeggiamenti del carnevale, quelli per la nascita dell’erede al trono di Spagna e i movimenti di truppe (dalla Valsassina scesero 4000 lanzichenecchi, diretti nel Novarese e nel Mantovano), causarono il riacutizzarsi dell’epidemia, che si diffuse ovunque. Nel maggio del 1630, il lazzaretto era ormai incapace di accogliere altri appestati. Si ventilò persino l’ipotesi di chiudere l’intero borgo di Porta Orientale, la zona di Milano col piú alto numero di malati e di decessi.

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L’indifferenza delle autorità, gli interessi commerciali e l’atteggiamento psicologico della popolazione avevano dunque reso la situazione irrimediabile. In questo clima si scatenò la caccia agli untori, descritta da Alessandro Manzoni nella Storia della colonna infame. La processione organizzata dal cardinale Federico Borromeo diede il colpo di grazia alla città, amplificando la caccia agli untori. La situazione si era fatta a questo punto ingestibile: il numero dei decessi aumentava ogni giorno di piú, cosí come le tracce di sostanze appiccicose, rinvenute ormai dappertutto, nonostante le gride contro coloro che andavano ungendo porte, catenacci, e muri della città. Alla fine di maggio, con quaranta decessi al giorno e centinaia di malati, venne allestito un secondo lazzaretto, al Gentilino, affidato ai Carmelitani. Ormai la situazione appariva drammatica: migliaia di case deserte o abbandonate ai saccheggi, infermi lasciati senza conforto e senza alcun tipo di aiuto, un passaggio continuo di carri colmi di cadaveri.

I maggiorenti cittadini si erano dati alla fuga, diretti nelle piú sicure case di campagna, nonostante le gride che proibivano di lasciare Milano, pena la confisca dei beni. Nell’agosto del 1630, anche a causa del caldo opprimente, l’epidemia toccò il suo picco massimo. I morti giornalieri ammontavano ormai a 600, e almeno 4000 cadaveri insepolti giacevano lungo le strade o nelle case. Iniziarono a mancare i generi di prima necessità e a scarseggiare i monatti, al punto che venne emanata un’ordinanza per intimare di non «gettare, far gettare dalle finestre, lasciare o far lasciare in strada alcun cadavere, se non nell’atto che i monatti li ricevono». Secondo una missiva del 31 agosto 1630 «ormai a Milano è rimasta assai poca gente, e vi sono case disabitate, e i morti, dall’inizio del contagio, ammontano a settantaduemila». Quando, nel dicembre del 1630, l’epidemia era ormai quasi cessata, si calcolava che a Milano fossero rimasti soltanto 50 000 abitanti, e che l’epidemia avesse prodotto 150 000 morti, pari ai 3/4 della popolazione cittadina.

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storie pestilenze IL LAZZARETTO DI MILANO

AREA DI SEPOLTURA La zona adibita al seppellimento di quanti non sopravvivevano al morbo, situata appena fuori l’uscita posteriore, era costituita da fosse comuni.

STANZE PER I MALATI Intorno al grande chiostro vi erano 288 camere destinate ad accogliere gli ammalati, dotate di servizi igienici e di un caminetto. In ogni camera si apriva inoltre una finestra che dava sul fossato esterno.

CHIESA DI S. CARLO Si trattava in origine di un altare posto al centro del lazzaretto. Provvista di aperture su ogni lato per permettere ai ricoverati di assistere alle funzioni da ogni punto del recinto, la chiesa fu costruita da Pellegrino Tibaldi su incarico di Carlo Borromeo durante la peste del 1576.

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FOSSATO La struttura era circondata da un fossato di acqua corrente, oltre il quale i parenti potevano parlare con gli ammalati, che si affacciavano dalle camere, i sacerdoti confessare e i medici impartire disposizioni senza venire a contatto diretto con gli appestati.

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La «peste di San Carlo»

Il «j’accuse» del vescovo L’epidemia nota come «peste di San Carlo» comparve in Trentino nel 1574, contagiò nel 1576 Milano e si diffuse poi in tutta Italia, anche a causa degli spostamenti continui dei pellegrini per il Giubileo indetto in quell’anno. A Milano provocò la morte di oltre 18 000 persone, corrispondenti a 1/10 della popolazione cittadina, ed ebbe un impatto devastante anche a Venezia e a Mantova. Nel capoluogo lombardo i maggiorenti fuggirono, lasciando la città in mano al vescovo Carlo Borromeo, che, in quell’occasione, assunse i poteri assoluti per poter governare la città. Il futuro san Carlo prese immediatamente una serie di provvedimenti urgenti come quello di far terminare il lazzaretto; scrisse al papa per ottenere aiuto, indirizzò una serie di consigli pratici alla popolazione, compilò un opuscolo da distribuire ai sacerdoti sul comportamento da tenere con gli ammalati e sulle norme igieniche da rispettare; proibí di trasportare i cadaveri sui carri per evitare ulteriori veicoli di infezione; assegnò ai frati Cappuccini l’incarico di gestire

Rilievo in marmo raffigurante Carlo Borromeo che prega perché la pestilenza abbia fine. Opera di Pierre Puget, 1692. Marsiglia, Musée des Beaux-Arts. Oltre a occuparsi degli appestati, il cardinale fu costretto ad assumere la guida di Milano, abbandonata dai suoi governanti.

il lazzaretto; mandò gruppi di sacerdoti in giro per la città per dare aiuto agli infermi. Il morbo venne debellato soltanto all’inizio del 1578, e l’evento fu celebrato con una solenne processione durante la quale Carlo Borromeo pronunciò un’omelia, poi data alle

non abbia avuto applicazione a causa del grande traffico commerciale. Si provò allora a chiudere le osterie in cui si riunivano gli stranieri malati o sospetti, ma la disposizione conseguí un effetto peggiore, provocando lo spargersi per la città di persone potenzialmente infette e accelerando la diffusione del morbo. Indipendentemente dal loro esito, questi casi costituirono precedenti di basilare importanza, introducendo il concetto secondo il quale spettava all’autorità pubblica che governava la città sobbarcarsi l’onere di avviare misure preventive e di gestire la situazione di emergenza in caso di epidemia. E furono appunto due formazioni statali, Ragusa e Milano, a dare un contributo decisivo al controllo della peste nella seconda metà del Trecento. A Ragusa, nel 1377, fu introdotto un sistema di quarantena marittima che prevedeva il rifiuto di accesso in

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stampe, che rappresenta la prima descrizione di quell’epidemia, e, al tempo stesso, un atto d’accusa nei confronti del lusso, del malcostume e dei riti del carnevale, nonché un proclama dell’importanza dell’autorità civile della Chiesa, soprattutto in situazioni di emergenza.

porto alle navi provenienti da zone appestate, che dovevano prima trascorrere un mese in isolamento al largo della città. Ancor piú notevoli furono le misure introdotte da Gian Galeazzo Visconti, a Milano, tra il 1398 e il 1400: nel 1398 proibí ogni contatto con la località di Soncino, dove infuriava la peste, facendo divieto a chiunque provenisse da lí di attraversare l’Adda in direzione della capitale del Ducato. Questo primo ricorso alla barriera naturale del fiume come cordone sanitario fu seguito, l’anno successivo, da misure – come il rinvio della fiera di sant’Ambrogio – volte a impedire il raduno di folla, e dall’istituzione di centri di ricovero per i malati di peste. Nell’ottobre del 1399 tali provvedimenti erano già in vigore come parte di un sistema di controllo della peste già predisposto, embrione del metodo adottato poi regolarmente in Italia nei due secoli successivi.

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storie pestilenze Furono queste le premesse ai tentativi, condotti soprattutto a partire dal XV secolo, di prevenire l’insorgenza del morbo e di mitigarne gli effetti, con ordinanze e regolamenti che, per tre secoli, sarebbero stati un punto di riferimento per la gestione delle pestilenze in tutta l’Europa occidentale. Le misure adottate si possono ricondurre sostanzialmente a tre categorie. L’autorità pubblica cercò, innanzitutto, di arginare la diffusione della malattia limitando i movimenti di persone e merci; una strategia che si concretizzava attraverso la quarantena, i certificati sanitari e il miglioramento delle condizioni igieniche urbane. In secondo luogo si mise mano alla costruzione (dalla metà del Quattrocento) di edifici appositi, i lazzaretti, nei quali riunire esclusivamente i malati di peste per cercare di curarli ed evitare il propagarsi dell’epidemia. La terza risposta, di carattere religioso, costituita da preghiere e processioni, si rivelò completamente deleteria perché contribuiva ad ampliare il contagio, invece di fermarlo. Parallelamente, soprattutto a partire dal secondo Cinquecento, andò radicandosi un altro fenomeno: quello dell’individuazione di un capro espiatorio, ovvero della «caccia all’untore».

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La gamma di provvedimenti adottata durante le prime epidemie fu piuttosto scarsa: nella maggior parte delle città ci si limitò a pulire le strade e i canali di scolo, a ordinare la rimozione di tutto ciò che emanava cattivo odore e a proibire l’attività dei mestieri potenzialmente inquinanti (soprattutto calzolai, conciatori e tintori); si decise anche di espellere vagabondi, mendicanti e prostitute.

Saccheggi e disordini

Contemporaneamente, furono create magistrature sanitarie provvisorie, composte dai cittadini piú eminenti, destinate a gestire la situazione di emergenza, in linea con quanto era già avvenuto per altre malattie epidemiche. Tuttavia, quando fu chiaro che il rischio portato dalla peste era molto superiore a quello di tutte le altre epidemie, i maggiorenti cittadini si rifugiarono nelle campagne, lasciando le città prive di guida ed esposte al pericolo di saccheggi e disordini di ogni tipo. A Firenze, durante l’epidemia del 1383, per esempio, fuggito il ceto dirigente, gli artigiani si diedero a fare scorribande per la città urlando slogan rivoluzionari. Dopo questa esperienza – narra il cronista Marchionne di Coppo Stefani – nella città di Dante vennero emana-

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te ordinanze che proibivano ai governanti di lasciare la città in caso di peste, ma con scarso effetto. Piú razionali furono i provvedimenti emanati dalla metà del Quattrocento, quando mantenere l’ordine pubblico di fronte a un’epidemia divenne una questione di primaria importanza, al punto che diversi centri urbani affidarono la responsabilità del controllo delle epidemie a magistrature esistenti: cosí avvenne nel 1448 a Firenze, dove fu delegato a tale scopo un ufficio con compiti di sorveglianza e tutela della pubblica sicurezza (quello degli «Otto di Guardia»), nel 1463 a Mantova e nel 1478 a Venezia, dove se ne assunse l’incarico l’ente deputato al monopolio del sale e ai lavori pubblici («Magistrato al Sal»). Questo sistema si rivelò comunque insufficiente per il gran numero di pratiche da cui le magistrature erano oberate, per cui negli anni Ottanta del XV secolo si dovette ricorrere a Provveditorati alla Sanità permanenti, di cui fornirono i primi esempi Venezia e Milano. Fu allora che molte città dell’Italia centrosettentrionale adottarono una serie di norme e regolamenti che fecero da modello per il resto dell’Europa. Si trattava in ogni caso di provvedimenti che non erano – né potevano essere – rivolti alla cura del morbo,

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ma soltanto a prevenirne e a limitarne la diffusione, nonché a evitare disordini. Il cardine di questo sistema fu lo stretto controllo dei movimenti di merci e persone, nonché il monitoraggio continuo delle aree geografiche colpite di volta in volta dall’epidemia, cosa che richiedeva un sistema costante di informazione sui luoghi e i tempi in cui la pestilenza si era manifestata. Le relazioni diplomatiche divennero allora una componente essenziale nel Venezia, Isola del Lazzaretto Nuovo, olio su tela di Giacomo Guardi (1764-1835). Dopo la ricomparsa della peste in Europa nel 1347-1348, molte città presero provvedimenti volti a limitare il diffondersi del contagio tra cui, dalla metà del 1400, la costruzione dei lazzaretti, appositi ospedali nei quali riunire esclusivamente gli ammalati di peste, spesso con zone separate dedicate agli appestati e alla quarantena.

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storie pestilenze

garantire un regolare e veritiero flusso di notizie in proposito. Al tempo stesso anche le grandi compagnie mercantili e bancarie richiedevano costantemente alle proprie filiali l’aggiornamento continuo su eventuali casi di peste. Fu poi istituita la quarantena per le navi e le merci provenienti da località infette.

Tentativi di fronte comune

In quello stesso periodo venne anche ipotizzata un’alleanza sanitaria a scopo preventivo tra Genova, Firenze, Roma e Napoli, per l’organizzazione di una rete internazionale di quarantena mirante al contenimento della peste. Ogni città avrebbe dovuto uniformare le proprie regole a un’unica norma e, di comune accordo, sotto-

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porre le aree dichiarate infette al blocco delle esportazioni e della circolazione degli individui. Il tentativo fallí sul nascere, ma appare comunque notevole la consapevolezza dell’importanza di organizzare quarantene e blocchi preventivi su ampie aree geografiche. Paradossalmente, l’attuazione dei provvedimenti contro la peste fu molto piú rapida nelle città italiane (dove le magistrature sanitarie deputate alla gestione dell’emergenza vennero quasi subito rese permanenti), che nei grandi Stati nazionali come la Francia e l’Inghilterra. L’istituzione delle magistrature sanitarie permanenti costituí appunto il caposaldo di questa politica di prevenzione. A Milano esisteva un ufficio di questo tipo già prima del 1450, a Venezia nel 1486, nel 1527 a aprile

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Veduta del Corso (di Marsiglia) durante la peste del 1720, olio su tela di Michel Serre. 1721. Marsiglia, Musée des Beaux-Arts. La peste scoppiata nella città francese nel 1720, l’ultima grande epidemia europea, fu incontenibile. Il morbo si era propagato al punto tale che il lazzaretto non bastava piú ad accogliere i malati, che vennero segregati in casa.

va trasmetteva informazioni sulle pestilenze in corso in Spagna e Francia; Milano su quelle in Svizzera e in Germania, Venezia sul Mediterraneo orientale, sui Balcani e sull’Austria. Venivano emanati bandi sulle zone infette e comunicati agli altri centri della regione. L’obiettivo diventò sempre di piú la difesa di ampi tratti del territorio presidiando i confini politici e le barriere naturali (ponti, passi, guadi). Le famiglie colpite dalla malattia vennero segregate in casa o costrette a trasferirsi nei lazzaretti. La prima struttura permanente di questo tipo fu fondata a Venezia, nel 1423, su di un’isola della laguna, per accogliere sia i malati della città che quelli delle navi in arrivo. Nel 1468 ne venne aggiunto un altro che avrebbe ospitato i sospetti di contagio e i convalescenti. Sul volgere del Quattrocento esistevano lazzaretti nella maggior parte delle principali città della terraferma veneta, tra cui Padova, Vicenza, Brescia e Treviso. A Firenze, durante gli episodi epidemici del Trecento, gli ammalati erano stati ricoverati indiscriminatamente all’ospedale di S. Maria Nuova, dove la mortalità era stata quasi totale. Perciò, nel 1464, il governo fiorentino si espresse in proposito, avendo notato che ricoverare gli appestati negli ospedali ordinari era soltanto dannoso e contribuiva alla diffusione del morbo, e nel 1476 deliberò la costruzione del lazzaretto, con criteri che prevedessero la separazione tra malati e guariti.

Quasi una città nella città

Firenze e nel 1549 a Lucca. Dai primi anni del Seicento anche i centri italiani piú piccoli disponevano di un funzionario permanente deputato alla gestione dei problemi sanitari. A questo si accompagnava la redazione di rapporti statistici sulle cause dei decessi, compilati, a partire dalla seconda metà del Quattrocento, ancora una volta nelle città dell’Italia centro-settentrionale, nonché la realizzazione di vere e proprie reti di informazione sulle epidemie in corso, attuate, a partire dal Cinquecento, mediante contatti assidui tra i magistrati deputati alla sanità dei vari centri italiani. Tra il 1576 e il 1577, per esempio, Firenze inviò rapporti regolari a Lucca, Genova, Ancona, Bologna, Ferrara e Napoli sull’epidemia scoppiata a Venezia. Geno-

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Di proporzioni enormi, paragonabili a quelle del filaretiano Ospedale Maggiore (costruito tre decenni prima), era il lazzaretto di Milano (nel quale Manzoni ambientò l’ultima parte dei Promessi Sposi), realizzato alla fine del XV secolo (fu iniziato nel 1488), grazie a un lascito, e sacrificato alla fine del XIX secolo dalla speculazione edilizia. Ne rimangono oggi soltanto la chiesa centrale e una piccola parte del muro di recinzione. Per avere un’idea delle proporzioni dell’edificio, basti pensare che sul chiostro, che delimitava un cortile quadrato di 377 x 370 m, si aprivano ben 288 camere destinate a ospitare gli ammalati, dotate di servizi igienici e di caminetto. Nei momenti critici di un’epidemia anche il cortile poteva ospitare gli infermi ricoverati in capanne temporanee, come avvenne nel 1630, quando circa 16 000 pazienti vi trovarono posto. L’edificio era circondato da un fossato di acqua corrente e da una strada dalla quale i visitatori potevano parlare con i ricoverati (ogni camera aveva infatti una finestra che dava sul fossato), i sacerdoti ascoltare le confessioni, i notai redigere i testamenti e i medici impartire consigli terapeutici, senza venire a contatto con il malato. Verso la metà del Seicento anche Genova disponeva di una struttura analoga a quella di Milano. L’edificio era pattugliato da mercenari tedeschi e dotato di due distinte

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storie pestilenze aree di quarantena, di cui una destinata alla convalescenza degli appestati veri e propri, e l’altra riservata a coloro che avevano avuto contatti con gli infermi senza contrarre il morbo o che provenivano da zone infette. In totale il lazzaretto poteva ospitare circa 300 persone. Si stabilí poi che i morti di peste non potessero essere seppelliti all’interno delle mura cittadine, ma fuori dall’area urbana, in fosse comuni che venivano poi ricoperte abbondantemente di calce per disinfettare la zona. A Milano, per esempio, dopo la pestilenza del 1524, fu creata un’immensa fossa comune poco lontano dalla città, nella località detta «Gentilino», di proprietà dei Borromeo, in un’area prima occupata da giardini e frutteti. Nel 1576, all’epoca della «peste di san Carlo» (vedi box a p. 51), il Gentilino era ormai un cimitero ben organizzato e un punto di riferimento per le successive epidemie, tanto che durante quella del 1630 (vedi box alle pp. 48-49) fu addirittura necessario aprire una nuova strada per condurre in quel luogo i carri con le vittime della pestilenza.

Misure drastiche, ma impopolari

L’uso delle fosse comuni si scontrava però con l’opposizione delle comunità, che rifiutavano decisamente l’anonimato e la barbarie delle sepolture di massa, al punto che, nel 1710, la popolazione della cittadina svedese di Blekinge fece riesumare i corpi sepolti in una fossa comune per tumularli nuovamente nel cimitero locale. Neppure la paura del contagio, dunque, poteva troncare i legami di affetto con i defunti. Altro provvedimento preso nella maggior parte dei centri colpiti dall’epidemia, e che incontrò una notevole resistenza, fu la distruzione degli oggetti e degli indumenti appartenuti ai malati di peste: soprattuto i becchini, infatti, avevano l’abitudine di chiedere come ricompensa parte degli abiti dei morti per poi rivenderli. Anche il divieto di libera circolazione delle merci, e dei tessuti soprattutto, trovava spesso la strenua opposizione dei mercanti, che disponevano di mezzi alquanto efficaci per impedire l’applicazione delle norme. Dal canto loro, i consigli cittadini tendevano a evitare la dichiarazione di inizio dell’epidemia per il timore dei danni che ne avrebbe subito il commercio. In genere si cercava di minimizzare e di nascondere i primi casi sospetti. Nel 1629, a Venezia, questo atteggiamento ritardò l’organizzazione di un efficace cordone sanitario, permettendo alla peste di diffondersi in città. Lo stesso avvenne nel 1630 a Milano, nel 1665 a Londra e nel 1720 a Marsiglia.

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L’epidemia scoppiata nel 1720 a Marsiglia, che dimezzò la popolazione cittadina (50 000 decessi su 100 000 abitanti), segnò, pur senza diminuire affatto la sua virulenza, il ritirarsi del morbo dall’Europa. Della pestilenza rimane la dettagliatissima documentazione del principale medico cittadino attivo al tempo dell’epidemia, il dottor Jean-Baptiste Bertrand. La sua opera, che si apriva con una rassegna delle principali pestilenze, sottolineava in particolare l’atteggiamento psicologico delle persone di fronte all’epidemia, il rifiuto iniziale di ammetterne l’esistenza, diffuso per motivi diversi sia tra la gente comune (motivata dalla paura), sia tra i funzionari pubblici, che speravano in questo modo di scongiurare il blocco del commercio e la crisi economica; la convinzione dell’efficacia dei principi curativi erboristici; la credulità e la psicosi collettiva contro gli untori. Circa le cause della malattia, Bertrand, opponendosi alla teoria dei «miasmi» che avrebbero corrotto l’aria e a quella del morbo derivante dalla frutta troppo matura, sosteneva la teoria del contagio. Era convinto, perciò, che se le rigide misure di quarantena di cui Marsiglia era dotata fossero state realmente osservate, la peste non avrebbe mai potuto colpire la città. La malattia in effetti si diffuse perché non erano state adottate tutte le precauzioni necessarie con alcune navi provenienti da Sidone, dove il morbo si era appena manifestato: il chirurgo che aveva esaminato i casi sospetti, infatti, aveva ritenuto che si trattasse semplicemente di febbre. Solo quando molti portuali, venuti a contatto con i carichi di cotone infetti, si ammalarono, si prese finalmente coscienza della gravità della situazione. Le autorità tentarono però in ogni modo di scongiurare una quarantena generale, consapevoli degli effetti dirompenti che un tale provvedimento avrebbe avuto sull’economia di Marsiglia. La reticenza delle autorità e del chirurgo dell’ospedale illusero la popolazione che la situazione non fosse particolarmente grave: nessuno voleva prendere in considerazione la prospettiva di un collasso del commercio e dell’ordine sociale. A sinistra una grande pinza per il trasporto dei cadaveri degli appestati, ideata al fine di compiere l’operazione senza dover toccare i corpi. XVI sec. Marsiglia, Musée du Vieux Marseille. aprile

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Incisione che ritrae il dottor Chicogneau, rettore dell’Università di Medicina di Montpellier, inviato a Marsiglia per l’epidemia di peste. 1720. L’abbigliamento, ideato nel XVI sec., è composto da una tunica cerata, guanti e una maschera con occhiali protettivi e un lungo becco contenente sostanze aromatiche, che si credeva proteggessero dal contagio. Il bastone permetteva di sollevare coperte e indumenti dei malati, evitando il contatto diretto.

Solo quando la notizia del contagio cominciò a diffondersi spontaneamente fuori dalla città, le autorità furono costrette a prendere provvedimenti adeguati. Il parlamento della Provenza proibí ogni contatto con la città e i suoi abitanti; venne nominato un comitato di persone qualificate a gestire l’epidemia; a ogni quartiere della città vennero assegnati un medico, un chirurgo, un vice-chirurgo e un farmacista. Ciononostante nel volgere di una settimana l’epidemia si era tanto diffusa che il lazzaretto non bastava piú e si fu costretti a segregare i malati in casa. Eppure la popolazione continuava a rimanere incredula e ad accusare i medici di aver esagerato per sete di guadagno. Le autorità della regione continuarono in ogni caso a imporre la quarantena, al punto che i fornai non erano ormai piú in grado di produrre una quantità di pane sufficiente, cosa che provocò tumulti e rivolte. Per i rifornimenti di generi alimentari si venne poi a un compromesso con l’istituzione di mercati fuori dalla città nei quali i mercanti avrebbero deposto i loro prodotti e i bottegai di Marsiglia, i soli autorizzati ad accedervi, li avrebbero ritirati. Il cordone sanitario predisposto a livello provinciale si dimostrò estremamente efficace nell’impedire il diffondersi dell’epidemia all’intera regione, per cui, dopo aver raggiunto il suo picco massimo durante l’estate del 1720, la pestilenza cessò spontaneamente all’inizio del 1721.

Da leggere William H. McNeill, La peste nella storia. epidemie, morbi e contagio dall’antichità all’età contemporanea, Einaudi, Torino 1981 William Naphy, Andrew Spicer, La peste in Europa, il Mulino, Bologna 2006 John Hatcher, La morte nera: storia dell’epidemia che devasto l’Europa nel Trecento, Bruno Mondadori Editore, Milano 2009 Maria Paola Zanoboni, Scioperi e rivolte nel Medioevo. Le città italiane ed europee nei secoli XIII-XV, Jouvence (Mimesis edizioni), Milano 2015; cap. 8, e la bibliografia ivi citata Maria Paola Zanoboni, La vita al tempo della peste. Misure preventive, quarantena, conseguenze economiche e sociali, Jouvence (Mimesis edizioni), Milano c.s.

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costume e società

Il grande mito dei

di Riccardo Facchini e Davide Iacono

Templari L’Ordine del Tempio esercita, da sempre, un fascino irresistibile. Un’attrazione a cui ha contribuito anche il drammatico epilogo della sua parabola: la condanna al rogo dell’ultimo Gran Maestro, Jacques de Molay. La schiera dei presunti epigoni dei Cavalieri, dunque, è folta, fra suggestioni nobili, intransigenza religiosa e, piú di recente, anche alcune, sinistre, riletture politiche della loro esperienza di milites Christi...


A sinistra rotolo di pergamena contenente la trascrizione di 231 deposizioni rese da Cavalieri Templari durante il processo al loro Ordine, celebrato in Francia dal 12 novembre del 1309 al 5 giugno 1311. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano.

«N

oi, con l’approvazione del santo concilio, sopprimiamo l’ordine dei Templari, la sua regola, il suo abito e il suo nome, con decreto assoluto, perenne, proibendolo per sempre, e vietando severamente che qualcuno, in seguito, entri in esso, ne assuma l’abito, lo porti, e intenda comportarsi da Templare. Se poi qualcuno

Sulle due pagine Jacques de Molay, Gran Maestro dei Templari, olio su tela di Fleury François Richard. 1852. Rueil-Malmaison, Musée national des châteaux de Malmaison et de Bois-Préau. Nel dipinto, si immaginano le ultime ore del cavaliere, esortato da un confessore ad ammettere d’aver commesso i crimini che gli sono stati contestati.

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costume e società Miniatura raffigurante l’arresto dei Templari, disposto nel 1308 dal re di Francia Filippo il Bello, da una edizione delle Grandes Chroniques de France. Fine del XIV sec. Londra, The British Library. Nella pagina accanto, al centro Jacques de Molay, ultimo Gran Maestro dell’Ordine del Tempio, olio su tela di Eugène Emmanuel Pineu-Duval. 1844. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.

La nascita dell’Ordine

All’inizio erano solo undici... Quello dei Cavalieri del Tempio di Salomone è uno dei numerosi Ordini monastico-cavallereschi creati durante le crociate. Fondato nel 1118 dall’aristocratico Ugo di Pains al termine della prima crociata, era in origine costituito da 11 nobili francesi ed ebbe il compito di difendere dalle forze islamiche i pellegrini che viaggiavano lungo le strade della Terra Santa, fra Giaffa e Gerusalemme. L’Ordine, che aveva sede sul luogo in cui si credeva sorgesse il tempio di Salomone (da cui il nome), fu riconosciuto dalla Chiesa nel 1129

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grazie anche all’appoggio di Bernardo di Chiaravalle, che, nel De laude novae militiae, celebrava questa nuovissima militia Christi, insieme guerriera e monastica. I singoli cavalieri potevano essere laici o chierici, ma vincolati dai voti di castità, obbedienza e povertà, regola, quest’ultima, che permise all’Ordine di accumulare immense ricchezze. Con i loro mantelli bianchi e la croce rossa, essi divennero una delle piú formidabili forze combattenti durante le crociate. Vivevano secondo

regole rigidissime: erano tenuti a osservare frequenti celebrazioni liturgiche e digiuni, a fare l’elemosina, a consumare i pasti in silenzio ascoltando una lettura biblica, a portare corti capelli, barba e baffi. A sottolinearne la povertà, il sigillo dell’Ordine raffigurava due cavalieri in sella a un unico cavallo. L’influenza dei Templari (che secondo alcune stime, all’apice della loro crescita contavano 20 000 appartenenti) si espanse rapidamente in tutta Europa e la loro ricchezza crebbe a ritmi vertiginosi. aprile

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facesse diversamente, incorra la sentenza di scomunica ipso facto». Con queste parole, Clemente V, nella bolla Vox in excelso (1312), sopprimeva ufficialmente il piú potente tra gli Ordini monastico-cavallereschi. Alla morte sul rogo nel 1314 di Jacques de Molay, ultimo Gran Maestro dei Cavalieri del Tempio, faceva seguito la dissoluzione e il trasferimento degli ingenti beni templari agli Ospitalieri (poi divenuti i Cavalieri di Malta). Calava cosí il sipario, definitivamente, sulla vicenda storica dei valorosi – e poi tanto discussi – monaci-cavalieri.

A destra il medico francesce Bernard-Raymond Fabré-Palaprat in costume da Gran Maestro dei Templari. XIX sec.

Templari e massoni

A partire dal Settecento si fece però largo l’idea che l’Ordine fosse sopravvissuto in segreto. Una fantasia non basata su dati certi o fonti medievali, ma solo su romantiche suggestioni esoterico-iniziatiche. La pretesa di una linea che, senza soluzione di continuità, unisce i Templari alle logge massoniche o alle confraternite neotemplari odierne è infatti non solo un’invenzione moderna, dall’enorme fortuna, ma anche un chiaro esempio di medievalismo.

Il tramonto ebbe inizio nel 1307: accusati di sodomia, tradimento, avidità e idolatria, centinaia di Templari furono arrestati, torturati per ottenere false confessioni e condannati al rogo dal re di Francia Filippo il Bello, profondamente indebitato con i cavalieri e forse intimorito dalla loro influenza. Nel 1312 l’Ordine fu soppresso da Clemente V sotto le pressioni del re di Francia. La brusca e drammatica fine dei Templari ha dato origine a speculazioni, leggende e a una tormentata «eredità».

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Il recupero dei Templari si colloca, in prima battuta, nel quadro del piú vasto revival cavalleresco che investe l’Europa già alla fine del Settecento e poi con piú forza durante l’Ottocento romantico. In questo contesto fu la massoneria a celebrare l’Ordine del Tempio quale massima espressione della cavalleria medievale, dotata di una conoscenza superiore, di una «illuminazione». Un approccio rilevabile, innanzitutto, in

Germania e nella Scozia giacobita. In particolare, fu il «cavaliere» scozzese Andrew Ramsey, nel discorso pronunciato alla Loggia di San Giovanni il 26 dicembre 1736, a Eperney, a sostenere per la prima volta in età moderna il collegamento tra massoneria e cavalieri crociati. Su questa scia, nel 1751, il barone Karl Gotthelf von Hund fondava in Germania l’Ordine della Stretta Osservanza. I massoni si identificavano cosí con i Templari, i Cavalieri del Tempio di Salomone, divenendo i presunti eredi di una misteriosa e segreta conoscenza – la Tradizione – appresa in quel luogo cosí ricco di sapienza. La leggenda della sopravvivenza dell’Ordine anche dopo l’esecuzione di Jacques de Molay si diffuse in pieno clima rivoluzionario. Giacobini, ma anche aristocratici – illumi-

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costume e società nisti e massoni –, facevano a gara a paragonarsi, nei molti pamphlet stampati in Francia, Germania e Inghilterra, ai Cavalieri del Tempio in lotta contro la «cristianissima» monarchia e la Chiesa. D’altro lato, anche l’ideologia controrivoluzionaria dipingeva i Templari come sovversivi, cultori di magia nera e adoratori di Satana, il cui spirito di vendetta si sarebbe tramandato ai rivoltosi, sacrileghi, giacobini.

La «vendetta»

Il 21 gennaio 1793, a Parigi, Luigi XVI veniva ghigliottinato e la leggenda vuole che, alla vista della testa mozzata esposta dal boia Sanson, dalla folla si fosse levato il grido: «Jacques de Molay, sei stato vendicato!». Si compiva in questo modo, secondo alcuni sostenitori della teoria del complotto, la vendetta dell’ultimo Gran Maestro dei Templari, messo a morte, come già ricordato, quattro secoli prima da un altro re francese, Filippo il Bello. In età napoleonica si assistette a un rinnovato interesse della massoneria per i Templari. Furono in particolare i medici Charles Ledru e Bernard-Raymond Fabré-Palaprat a rilanciare e rendere popolare nei circoli massonici francesi l’idea del legame storico con i Cavalieri Templari. Per legittimare tale ascendenza prestigiosa, i due dichiararono di aver «scoperto» un documento che avrebbe dovuto provare la successione ininterrotta dei gran maestri templari, anche dopo la condanna al rogo di Jacques de Molay. Si trattava di una pergamena, la cosiddetta charta di Larménius o charta transmissionis – un falso medievale –, che provava come de Molay avrebbe affidato la propria carica al cavaliere Jean-Marc Larménius (o de l’Armenie) e quindi la traditio – la successione – di ventidue gran maestri nascosti e succedutisi nel tempo sino al 1804. Stranamente, chi rivelò l’esistenza della straordinaria pergamena, Palaprat, appare

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per ultimo nell’elenco e, forte di tale riconoscimento, ricostituí «l’Antico e sovrano ordine militare del Tempio di Gerusalemme», nella forma di un’istituzione neo-cavalleresca. L’Ordine del Tempio di Palaprat sosteneva anche di possedere importanti reliquie: la spada di Jacques de Molay, l’elmo di Guy Dauphin (precettore d’Alvernia), il Baussant (il vessillo di guerra dei Cavalieri Templari) e quattro frammenti di ossa bruciate prelevate

dalla pira funebre dove de Molay era stato giustiziato. Denominate «Sacro Tesoro dell’Ordine del Tempio» nel Manuale dell’Ordine (e descritte in un inventario negli Statuti dell’ordine stesso), queste reliquie furono esposte nel marzo 1808, quando Palaprat e i suoi confratelli celebrarono pubblicamente una messa solenne in ricordo del Gran Maestro «martirizzato». Ma le ambizioni del medico transalpino si spinsero oltre, sino aprile

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alla creazione di una vera e propria personale Chiesa neo-templare, in aperta rottura con il credo cattolico; nel 1812 Palaprat formò infatti la Chiesa Gioannita. La sua legittimazione venne addotta, anche in questo caso, attraverso la fortuita scoperta di un manoscritto, il Levitikon, una versione gnostica del Vangelo di Giovanni, in cui si sosteneva la successione apostolica non da Pietro – fondatore di una Chiesa illegittima –, bensí da san Giovanni Evangelista. In seguito, Palaprat ordinò primate della sua nuova Chiesa Ferdinand-François Châtel, un ecclesiastico radicale che aveva abbandonato il sacerdozio in seguito alla Rivoluzione di luglio. La chiesa di Châtel era situata in un’antica bottega nella zona di Montmartre, soprannominata «Corte Apostolica del Tempio». L’Ordine si era anche dotato di un suo calendario mistico, che iniziava dalla fondazione dei Cavalieri Templari nel 1118. L’indirizzo anticattolico dell’Ordine causò numerose scissioni e accuse di eresia, che si acuirono alla morte di Palaprat, nel 1838. Nel 1871, in seguito al declino numerico, l’Ordine venne nuovamente «messo in sonno», mentre molti dei massoni «templari» cattolici trovarono spazio nell’Ordine della Rosacroce cattolica del Tempio e del Graal, fondato da un altro curioso personaggio, tale Joséphin Péladan. Già membro dei Rosacroce, Péladan – poeta, occultista, esoterista, teosofista – si definiva depositario di perdute arti magiche e di una conoscenza ermetica. Alla del fine del secolo fu la volta della nascita di un nuovo ordine, l’Ordo Templi Orientis, tra i cui appartenenti piú influenti vi fu l’occultista inglese Aleister Crowley, la cui filosofia – essenzialmente individualista, antidemocratica ed esotericorazzista – lo mise in sintonia con parte della cultura di destra, ma lo rese anche precursore di certe tema-

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Nella pagina accanto Sua Altezza Reale Joséphin Péladan, olio su tela di Marcellin Desboutin. 1891. Moulins, Musée Anne-de-Beaujeu. Poeta, occultista, esoterista, teosofista, Péladan fondò l’Ordine della Rosacroce cattolica del Tempio e del Graal. A destra la tomba di Joséphin Péladan nel cimitero parigino di Batignolles.

tiche New Age. Crowley ispirò anche la nascita dell’Ordine del Tempio solare, una setta millenarista francosvizzera di chiara matrice neotemplare, resasi tristemente nota per una serie di omicidi-suicidi negli anni 1994-1997. Ed è questo, probabilmente, uno dei risvolti piú sinistri dell’eredità del mito templare.

Neotemplarismo e destre

Il percorso fin qui delineato non si concluse con suggestioni esoteriche, speculazioni fanta-storiche o gruppi settari piú o meno inquietanti, ma andò a inserirsi anche nel variegato e nutrito contenitore del medievalismo politico, in particolare in quello vicino alle istanze dell’estrema destra. Come abbiamo già evidenziato

in alcuni contributi precedenti (vedi «Medioevo» nn. 266 e 270, marzo e luglio 2019; anche on line su issuu. com), il legame tra destre novecentesche e una certa idea di Medioevo non deve affatto sorprenderci. Parole d’ordine come crociata, guerra santa o condottiero hanno infatti sostanziato spesso le battaglie politiche di grandi dittature o di piú comuni movimenti politici estremisti, tra cui possiamo annoverare anche alcuni tra i piú recenti gruppi suprematisti, che, a tutt’oggi, continuano a sfilare sotto insegne raffiguranti rune o croci celtiche Tuttavia, uno dei topoi che piú hanno influenzato l’immaginario politico di alcune formazioni politiche afferenti all’eterogeneo mondo dell’estrema destra è sicuramente

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costume e società

quello del cavaliere. Esso, infatti, non fu soltanto, come detto in apertura, un modello per le aristocrazie europee ottocentesche, infrantosi di fronte al dramma della moderna prima guerra mondiale, ma fu altresí l’esempio di «soldato politico» a cui aspirava, in particolare, quella parte della destra italiana che aderiva al pensiero di Julius Evola (1898-1974) e che era desiderosa di organizzarsi in un nuovo

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ordo di cavalieri in lotta contro il mondo moderno. Questo cavaliere, però, non andava a incarnare il modello cavalleresco cattolico, configurandosi invece con caratteristiche che, in sintesi, potremmo descrivere piú vicine al mondo neopagano e neoghibellino. A tal proposito, nel 1974, su una rivista cattolico-tradizionalista, si sentí addirittura il bisogno di sottolineare le differenze tra il tradizio-

nalismo cavalleresco della destra e quello cattolico, specificando come fosse la Regola di san Bernardo a costituire «tuttora la piú sicura traccia per l’identificazione e la precisazione del significato storico della cavalleria medioevale». Proprio in seno al mondo cattolico-tradizionalista furono quindi posti i semi per una sorta di secondo revival cattolico neotemplare, questa volta forse meno influente, aprile

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Nella pagina accanto Tomar (Portogallo), convento dei Cavalieri di Cristo. L’interno della Charola, oratorio privato dei membri dell’Ordine, eretto in stile bizantineggiante. Qui accanto copertina del menu preparato in occasione del ricevimento organizzato dalla commenda di Palestina dei Cavalieri Templari nel 1901 in onore di Herman R. Kretschmar, Eminente Gran Portaspada.

aristocratico e meno politicizzato di quello ottocentesco ma, anche a causa del suo impatto mediatico, sicuramente piú visibile e folkloristico. Nel mare magnum del piú recente neotemplarismo cattolico, possiamo citare in particolare due associazioni: i Cavalieri Templari Federiciani e la Milizia del Tempio-Ordine dei poveri Cavalieri di Cristo; i primi, famosi soprattutto per le solenni cerimonie annuali tenute nella Cat-

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tedrale di Enna, i secondi per poter invece vantare l’approvazione della loro regola da parte del vescovo di Siena, avvenuta nel 1990. Il nome dei Templari è drammaticamente balzato agli onori della cronaca negli ultimi anni per eventi collegati al problema del terrorismo di destra, di matrice xenofoba e suprematista. Tra questi, il caso forse piú famoso non ha, fortunatamente, coinvolto movimenti che, al piú, continuano a considerarsi eredi di un Ordine mai più formatosi dopo la sua fine, sancita dalla bolla del 1312. Il 22 luglio 2011, l’allora trentatreenne Anders Behring Breivik uccise infatti 77 persone tra Oslo e la cittadina di Utøya. Le indagini portarono alla scoperta dei moventi dell’attentatore, contenuti in un delirante e al tempo stesso lucido manifesto caricato in rete dal carnefice dal titolo 2083. A European

Declaration of Independence. Nel testo, Breivik parlava a piú riprese di un rinato ordine templare, che sarebbe stato fondato da lui e altre otto persone nel 2002, dalla forte impronta anti islamica e anti jihadista. Questo moderno modello di templare incarnava le idee xenofobe di molti movimenti di estrema destra, conferendo loro una spiccata allure medievalista. Lo stesso autore dell’attentato alla moschea di Christchurch (Nuova Zelanda) del 15 marzo 2019, Brenton Tarrant, sosteneva di aver ricevuto l’approvazione al suo gesto da un presunto movimento templare legato proprio a Breivik.

Le ricadute turistiche

Spostando ora la nostra attenzione sulle manifestazioni piú innocue del neotemplarismo, non possiamo fare a meno di spendere qualche parola su uno degli aspetti piú

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costume e società videogiochi

La Terra Santa a portata di joystick Il mito neotemplare è approdato anche all’industria videoludica, soprattutto grazie alla fortunata saga di Assassin’s Creed. L’intera trama del videogioco, di cui ogni capitolo è ambientato in epoche storiche diverse tra loro, è basata sul plurisecolare scontro tra la Setta degli Assassini e l’Ordine templare, visti entrambi come società occulte risalenti addirittura alla creazione. In questo contesto, i Templari si caratterizzano come una sorta di setta segreta che, attraverso l’appropriazione di manufatti magici, intende esercitare un dominio occulto sull’umanità, perseguendo obiettivi marcatamente anti-democratici e alleandosi di conseguenza, nel corso della storia, con ogni figura di stampo anti-liberale come Giulio Cesare, Caligola o ai papi medievali.

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rilevanti – se non piú remunerativi – del fenomeno. Non è infatti difficile, ormai, imbattersi in siti turistici spesso definiti dagli enti locali come «autentiche» testimonianze della presenza dei Cavalieri Templari. Questo fenomeno, a volte incentivato o addirittura creato ex novo da eruditi o storici dilettanti locali, non fa che alimentare quello che è stato definito il «flagello» della comunicazione turistica. Il fenomeno è stato ben descritto da Sonia Merli nel suo contributo Templari e templarismo: un mito dalle molteplici declinazioni e ha radici lontane, che la studiosa individua al di fuori dell’Italia, e in particolare nella cittadina portoghese di Tomar, autodefinitasi «cidade templaría» grazie anche alla presenza del monumentale Convento dei Cavalieri di Cristo, dal 1983 Patrimonio dell’UNESCO. Nel Bel Paese gli esempi di sfruttamento turistico di una vera o presunta eredità templare sono

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molti, ma, sempre sulla scia dello studio di Merli, ricorderemo in questa sede unicamente gli esempi del borgo di Caggiano (Salerno) – i cui abitanti, potendo vantare al di fuori del centro abitato i resti di una mansio templare con tanto di leggenda, hanno deciso di abbinare al borgo il marchio di «città dei Templari»» – e di quello di Castignano (Ascoli Piceno), sede del popolare Templaria Festival, giunto nel 2019 alla XXX edizione. Quest’ultimo, in particolare, è esemplare di come a volte, quando si parla di Medioevo e medievalismo, l’invenzione del mito e della tradizione siano piú forti dell’attenzione alle fonti o alla ricostruzione filologica di un evento. A Castignano, infatti, i Templari non lasciarono di fatto alcun tipo di testimonianza materiale. Tale circostanza non ha tuttavia scoraggiato il comitato organizzatore che, come si può evincere dal suo sito internet, ha sostanzialmente sfruttato vaghe notizie su un preUna scena del film Le Crociate (2005), diretto da Ridley Scott.

sunto passaggio a Castignano dei Cavalieri del Tempio per costruire quella che ormai si configura come una solida identità territoriale dalla forte vocazione turistica.

Letteratura e cinema

Non è, però, il filone turistico a presentarsi oggi come il piú remunerativo. Se, infatti, tali iniziative rappresentano un robusto volano per aumentare il numero di visitatori di un piccolo territorio, possiamo affermare che, a livello globale, sono stati i mezzi di comunicazione a collocare definitivamente i Templari nell’ambito della cultura popolare e, di conseguenza, a farne un filone creativo e narrativo inesauribile, nonché un vero e proprio brand di sicuro successo economico. L’inizio dello sfruttamento in tal senso si può collocare in Francia, alla metà degli anni Cinquanta del Novecento, quando l’accademico Maurice Druon pubblicò il primo dei sette volumi (l’ultimo dei quali uscito nel 1977) che compongono la saga de I Re Maledetti. Il ciclo era però incentrato soprattutto sulle vicende della dinastia capetingia, sulla quale pendeva – come ricordato poc’anzi – la famigerata maledizione di Jacques de Molay. Da allora, il mondo dell’intrattenimento ha sfruttato a fondo il neotemplarismo e i numerosi miti a esso collegati, tra cui non potevano mancare i loro legami con il Graal e con presunte pratiche misteriche. Il capostipite di questa rilettura di fantasia del neotemplarismo è forse il film Indiana Jones e l’Ultima

Crociata (1989), dove è proprio un Templare a custodire il Graal, per poi passare al Codice da Vinci (2006) fino ad arrivare alla piú recente Knightfall (2017-2019), serie tv prodotta da History, che vede ancora una volta riproporre al pubblico il leggendario legame tra i monaci cavalieri e il Sacro Calice. Risulta inoltre interessante la rappresentazione proposta nel film di Ridley Scott Kingdom of Heaven (2005), conosciuto in Italia come Le Crociate, dove i cavalieri incarnano alla perfezione – seguendo il cliché del perfido Templare inaugurato da Walter Scott in Ivanhoe – il cliché di personaggi fanatici e intolleranti. In una pellicola riconosciuta ormai da molti come un manifesto pacifista e anti-islamofobo – girata a pochi anni dai tragici eventi dell’11 settembre 2001 anche con lo scopo di costruire un ponte di dialogo col mondo islamico – vennero trasposti infatti sul grande schermo Templari alfieri di messaggi che rievocavano le parole d’ordine dell’amministrazione Bush e, in particolare, dei cosiddetti «falchi» neocon propugnatori delle guerre preventive nel Medio Oriente. Letto alla luce del medievalismo politico che abbiamo imparato ormai a studiare e interpretare, il neotemplarismo si configura quindi come uno degli aspetti piú significativi del bisogno di alcune componenti della società contemporanea di appellarsi al passato per sostanziare – o, al contrario, stigmatizzare – la realtà politica e culturale del nostro presente.

Da leggere Sonia Merli, Templari e templarismo: un mito dalle molteplici declinazioni, in Tommaso di Carpegna Falconieri e Riccardo Facchini (a cura di), Medievalismi Italiani, Gangemi Editore, Roma 2018; pp. 93-114 Tommaso di Carpegna Falconieri, L’eredità

templare, in Giancarlo Andenna, Cosimo Damiano Fonseca, Elisabetta Filippini (a cura di), I Templari. Grandezza e caduta della «Militia Christi», Vita e Pensiero, Milano 2016; pp. 225-233 Franco Cardini, Simonetta Cerrini, Storia dei templari in otto oggetti, UTET, Torino 2019

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Ventotto venerabili gradini...

di Mimmo Frassineti, con un reportage dell’autore

È, dopo la basilica di S. Pietro, il luogo piú visitato dai credenti in visita a Roma. Un santuario complesso e articolato, andato distrutto e ogni volta ricostruito nei secoli, eretto intorno a una delle piú celebri reliquie della cristianità: la scala ascesa da Gesú un giorno ¯di venerdí, per recarsi al cospetto di Ponzio Pilato...

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Papa Niccolò III offre al Cristo il modellino della Cappella del Sancta Sanctorum, particolare dal ciclo di affreschi attribuito alla scuola del Cavallini o del Cimabue. 1277-1279. Roma, Sancta Sanctorum.

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oma. Dove oggi si apre piazza San Giovanni, in corrispondenza del sagrato dell’omonima basilica, durante il principato di Settimio Severo (193-211) sorgeva probabilmente la domus del generale Sestio Laterano. Secondo la tradizione, nel 326, sant’Elena, la madre dell’imperatore Costantino, avrebbe fatto portare da Gerusalemme in questa casa la scala del Pretorio, il palazzo del governatore romano Ponzio Pilato, che Gesú salí e discese durante il processo del Venerdí Santo che si concluse con la sua condanna a morte. Convertitasi al cristianesimo in età avanzata, quando suo figlio era già imperatore, Elena aveva rinvenuto in Terra Santa, dove si era recata in pellegrinaggio, i resti della croce di Cristo – un frammento è custodito nella chiesa di S. Croce a Gerusalemme, un altro fu donato a Costantinopoli – e i gradini marmorei lungo i quali sarebbero cadute alcune gocce del sangue di Gesú. La cappella del Sancta Sanctorum, che risale all’epoca di Costantino, fu voluta e ideata nella sua forma attuale da papa Niccolò III (12771280), il quale, come ricorda l’epigrafe incisa su uno degli sportelli bronzei dell’altare, la inaugurò il 4 giugno 1279: NICOLAUS PP. III HANC BASILICAM A FUNDAMENTIS RENOVAVIT ET ALTARE FIERI FECIT IPSUMQUE ET EADEM BASILICAM CONSECRAVIT.

Al di là di una grata

Qui il sacro si manifesta come concentrato in minime dimensioni. Fu la cappella privata dei papi prima del trasferimento in Vaticano, un sacello gotico a pianta quadrata – di soli 7 x 7 m – ornato di mosaici e affreschi, che i fedeli intravvedono al di là da una grata di ferro, dopo aver superato in ginocchio i ventotto gradini della Scala Santa. Il secondo, l’undicesimo e il ventottesimo recano, secondo la tradizione, le tracce del sangue di Cristo.

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Veduta di Roma, tempera su tela di scuola mantovana, da un originale tardoquattrocentesco. 1540-1545. Mantova, Museo di Palazzo Ducale. Nel dipinto si possono riconoscere, tra gli altri: la basilica di Santa Croce in Gerusalemme (1); la basilica di S. Giovanni in Laterano (2); il Battistero Lateranense (3); il Sancta Sanctorum (4); la basilica di S. Maria Maggiore (5); il Colosseo (6); la basilica di S. Pietro (7); Castel Sant’Angelo (8); il Pantheon (9).

Il Sancta Sanctorum e la Scala Santa sono inglobati in una complessa fabbrica, che include anche una chiesa, altre due cappelle e quattro scale, eretta verso la fine del XVI secolo da Domenico Fontana su incarico di papa Sisto V (1585-1590) per salvare i resti dell’antico Patriarchio lateranense, che fu sede papale dal 313 – anno in cui Costantino promulgò l’editto di Milano sulla libertà religiosa – al 1305, quando i papi si trasferirono ad Avignone. L’ultimo pontefice prima della cattività avignonese fu il domenicano Benedetto XI (1303-1304). Dopo il suo breve regno, un conclave svoltosi a Perugia e durato undici mesi elesse Bertrand

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De Got, arcivescovo di Bordeaux, che si insediò ad Avignone nel 1313. Sessant’anni piú tardi, quando Gregorio XI, nel 1377, si risolse a rientrare a Roma da Avignone, trovò il Patriarchio inagibile e in abbandono, anche a causa di un incendio che lo aveva devastato, unitamente alla basilica, nel 1308. Decise allora di trasferire la Santa Sede in Vaticano. Di quanto restava del Patriarchio fu Sisto V (1585-1590) a ordinare la demolizione, affidando a Fontana la costruzione in suo luogo del palazzo, oggi Vicariato della Diocesi di Roma, per farne la sede estiva della corte papale (ma poi sarebbe stato scelto il Quirinale). aprile

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Con il palazzo del Laterano, all’architetto fu chiesto di creare un santuario che inglobasse, risparmiandoli dalla demolizione, due ambienti dell’antico patriarchio, la Scala Santa e l’Oratorium Sancti Laurentii de Palatio, piú conosciuto come Sancta Sanctorum, che, nel nuovo assetto, fu posto alla sommità della scala. L’idea era di collegare i gradini macchiati dal sangue di Cristo alla cappella che custodiva le reliquie piú sacre e la venerata Acheropíta – l’icona non fatta da mano umana – del Salvatore. Il papa annunciò l’apertura del nuovo santuario il 24 maggio del 1590. Davanti alla sobria facciata

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– a due ordini, con paraste doriche l’inferiore, ioniche il superiore, che la suddividono in cinque arconi e in cinque finestre con timpani triangolari e ricurvi – si allinea sempre una lunga fila di persone, poiché, dopo la basilica di S. Pietro, la Scala Santa è il luogo a Roma piú visitato dai credenti.

Quattro nuove rampe

Protetti da tavole di noce, applicate nel 1724, i gradini possono essere ascesi soltanto in ginocchio. Per metterli in opera nell’attuale posizione, Fontana rimontò la scala partendo dall’alto, affinché non fossero calpestati. Al fine di facili-

tare l’accesso dei fedeli, l’architetto costruí altre quattro scale della stessa altezza e lunghezza, due per lato, con un effetto scenografico parzialmente compromesso, nel XIX secolo, dalla chiusura dei quattro arconi laterali sulla facciata. Le cinque scale parallele, che alludono alle navate di una chiesa, le due cappelle simmetriche, al piano superiore, dedicate a Lorenzo e Silvestro – santi romani dei primi secoli – come bracci del transetto e, al centro, il Sancta Sanctorum, ricalcano nell’insieme una pianta a croce latina, che non è a tutta prima evidente, perché si articola su due piani. (segue a p. 74)

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VIA EMANUELE FILIBERTO

luoghi roma Tutte le tappe della devozione

VIA DOMENICO FONTANA

Sancta Sanctorum

PIAZZA DI PORTA S. GIOVANNI

In alto il crocifisso ligneo (XIV-XV sec.) che dà nome alla cappella situata dietro il Sancta Sanctorum, in uno spazio di collegamento con la sacrestia. In basso la Cappella di S. Silvestro, oggi adibita a coro dei padri Passionisti.

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PIAZZA DI S. GIOVANNI IN LATERANO

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In alto mosaico raffigurante il Cristo benedicente fra gli Apostoli e inserito nel 1743 nel fianco meridionale esterno del santuario della Scala Santa. Il mosaico stesso si presenta oggi nel suo rifacimento settecentesco.

Sulle due pagine planimetria e assonometria del santuario della Scala Santa. Nella sua forma attuale, il complesso è l’esito di ripetuti interventi, i piú importanti dei quali si devono ai papi Niccolo III (alla fine del XIII sec.), Sisto V (negli ultimi anni del XVI sec.) e Benedetto XIV (alla metà del XVIII sec.)

A sinistra la Scala Pilati, nel palazzo della Scala Santa. Secondo la tradizione, fu Elena, madre di Costantino, a portare a Roma, dalla Terra Santa, la scala oggi venerata dai fedeli come quella su cui salí Gesú per recarsi al Sinedrio, al cospetto di Ponzio Pilato.

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luoghi roma Un tempo vietato a tutti fuorché al papa, il Sancta Sanctorum è oggi visitabile, anche senza arrivarci dalla Scala Santa, raggiungendolo grazie alle rampe laterali. Vi si accede da una porta di bronzo del IV secolo (con un massiccio chiavistello perfettamente funzionante), e un breve corridoio. Al suo interno, la cappella si presenta oggi nel suo aspetto originale, mentre le mura esterne non esistono piú, poiché inglobate nell’edificio cinquecentesco. È possibile farsene un’idea da uno degli affreschi, nel quale Niccolò III offre a Cristo il modellino della chiesa (vedi foto in apertura). In basso la parete è ricoperta di lastre di marmo pavonazzetto. Nel registro intermedio un finto ambulacro, con nicchie trilobate divise da colonnine, ospita figure di pontefici, santi e profeti. Sono affreschi di epoca tardomanierista – attribuiti a Girolamo Nanni – unico dettaglio non medievale, che sostituiscono probabilmente pitture perdute di analogo soggetto. Sopra, un mirabile ciclo pittorico duecentesco, rivelato da un restauro alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, si articola in otto episodi, ispirati alla centralità della chiesa romana e al sacrificio dei suoi martiri.

Martiri illustri

Partendo dalla scena che raffigura il papa, affiancato da Pietro e Paolo nell’atto di porgere la cappella a Gesú, vediamo nel riquadro successivo Cristo in trono, destinatario dell’offerta – verso la quale protende la destra – mentre regge nella sinistra una croce d’oro con al centro un rubino. Segue poi la drammatica crocifissione di san Pietro a testa in giú, sullo sfondo di Castel sant’Angelo, la torre del Campidoglio e la Meta Romuli. Quest’ultima era una sepoltura piramidale fuori porta – cosí chiamata in rapporto alla piramide Cestia, identificata popolarmente quale Meta Remi – spesso presente nella rappresentazione del

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martirio del santo, che si credeva avvenuto a pari distanza fra le due. A sinistra assistono all’evento alcuni soldati, due dei quali con l’aureola, a destra un gruppo di donne dolenti. La decollazione di san Paolo è invece ambientata in un paesaggio agreste nel quale la testa del santo, rimbalzando tre volte, dà origine alle Tre Fontane. La celebrazione dell’eroismo dei martiri prosegue con la lapidazione di santo Stefano, la morte di san Lorenzo sulla gra-

In alto una delle quattro scale laterali realizzate su progetto di Domenico Fontana e disposte, accoppiate, ai lati della Scala Santa: l’idea era quella di alludere alle navate di una chiesa, che si completava con le cappelle dedicate ai santi Silvestro e Lorenzo, componendo cosí una pianta a croce latina. Nella pagina accanto la porta bronzea del IV sec. (provvista di un massiccio chiavistello perfettamente funzionante) che dà accesso al Sancta Sanctorum. aprile

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Uno scorcio della decorazione pittorica del Sancta Sanctorum. Nel registro intermedio, un finto ambulacro, con nicchie divise da colonnine, ospita figure affrescate di pontefici, santi e profeti, attribuite al pittore seicentesco Girolamo Nanni; al di sopra, corre un ciclo pittorico duecentesco articolato in otto episodi, ispirati alla centralità della Chiesa romana e al sacrificio dei suoi martiri; nella volta a crociera, sullo sfondo di un cielo stellato, campeggiano i simboli degli Evangelisti.

ticola e la decapitazione di sant’Agnese. L’ultimo riquadro racconta il dono – in monete d’oro – di san Nicola al padre delle tre fanciulle, grazie al quale le ragazze potranno avere una dote e trovare marito invece che avviarsi alla prostituzione. Nella volta a crociera, sullo sfondo di un cielo stellato, campeggiano i simboli degli evangelisti. Sul lato orientale della cappella si apre un piccolo vano dalla ricca, quasi abbagliante, decorazione musiva, introdotto da due colonne di porfido che sostengono un architrave che reca l’epigrafe, in caratteri d’oro su fondo nero, NON EST IN TOTO SANCTIOR ORBE LOCUS. Si tratta, verosimilmente, di un richiamo al luogo piú santo del Tempio di Gerusalemme, accessibile solo dal sommo sacerdote per i riti di Yom Kippur, e allude all’idea di Roma come nuova Gerusalemme.

L’icona in processione

Al suo interno l’altare, protetto da una pesante inferriata, contiene l’arca donata da Leone III (795 816), una cassa reliquiario in legno di cipresso, ed è sormontato dalla già ricordata Acheropíta, l’effigie di Cristo non dipinta da mano umana. L’icona originale, che sarebbe stata condotta in processione da Stefano II (752-757) per proteggere la città dai Longobardi di Astolfo, in realtà è quasi scomparsa, sostituita da una pittura piú tarda. Di questa è visibile solo il volto, dopo che Innocenzo III (1198-1216) la fece ricoprire da una

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lamina d’argento sbalzata. Gli sportelli laterali in argento sono un’aggiunta del XV secolo. Alcuni locali sotterranei, dove la volta reca nell’intonaco l’impronta delle frasche utilizzate per armare la struttura, sono visitabili solo da gruppi e su prenotazione. S’incontrano i resti di una torre, risalente a Zaccaria I (741-752), che fungeva da campanile per il Sancta Sanctorum, e da torre difensiva. Un vano conserva due colonne di marmo cipollino fra le quali un agnello di epoca medievale simboleggia il Cristo morto e risorto. C’è anche uno

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stemma papale il cui titolare non è stato individuato.

Una Bibbia dei poveri

Esattamente sotto la Scala Santa affreschi dell’XI e del XII secolo rappresentano piante e animali e, su un pilastro, la Morte di San Giovanni Evangelista. Un affresco sotto le scale laterali rappresenta il Martirio di San Sebastiano. In fondo a un cunicolo, proprio sotto il Sancta Sanctorum, è ritratto un personaggio nell’atto di consultare un libro, verosimilmente sant’Agostino, che indica forse la presenza di una biblioteca.

Sisto V rivoluzionò l’urbanistica della città con l’apertura della via Sistina, che univa Trinità dei Monti a San Giovanni. Anche il cantiere della Scala Santa fu eccezionalmente impegnativo, in particolare riguardo agli affreschi che ricoprono, in un unico e coerente progetto, la Scala Santa, due delle quattro scale laterali e, al piano superiore, la chiesa di S. Lorenzo e la cappella di S. Silvestro che si trovano rispettivamente a destra e a sinistra del Sancta Sanctorum. Dalla contabilità del cantiere si evince la partecipazione di oltre aprile

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Sulle due pagine l’altare del Sancta Sanctorum, sopra il quale è posta l’icona del Salvatore (particolare a destra), coperta da una lastra d’argento istoriata e venerata come Acheropíta, cioè compiuta senza intervento umano. Sulla volta, entro un clipeo sorretto da quattro angeli a figura intera, è raffigurato il Cristo Pantocratore.

100 artisti, quando a Roma in quel periodo se ne contavano 150. Il papa intese il ciclo pittorico come una Bibbia dei poveri, che consolidasse la fede grazie alla rappresentazione, facilmente intellegibile, di scene tratte dalle Sacre Scritture. A tal fine coinvolse nella stesura del progetto iconografico i migliori intellettuali della sua cerchia. I soggetti derivano dall’Antico Testamento e dai quattro Vangeli canonici. A dirigere la nutrita équipe di artisti furono chiamati Giovanni Guerra e Cesare Nebbia. Ai fedeli, che si apprestano a salire in ginoc-

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chio sulla Scala Santa, è proposto un percorso di apprendimento e di meditazione, ripartito in sette livelli, ciascuno composto di quattro scene, una a destra, due sulla volta, una a sinistra, che vanno lette attenendosi a una precisa sequenza, volgendo lo sguardo prima a destra, poi sulla volta, quindi a sinistra per passare, salendo, al livello successivo. Gli episodi, che hanno inizio dall’Ultima Cena, sono ispirati alla passione e alla morte di Cristo. Conquistata la cima, i fedeli si trovano di fronte una grata, oltre la quale s’intravvede l’altare del Sancta San-

ctorum con l’Acheropíta e, nel corridoio che collega le scale, tre affreschi che rappresentano la Crocifissione, la Resurrezione e l’Ascensione.

Scambio di volti

A questo punto possono scendere lungo una delle due rampe che affiancano la Scala Santa, ornate con scene bibliche da leggersi con procedura analoga a quella della salita, oppure trattenersi al piano superiore e visitare la chiesa di S. Lorenzo (dalla quale si può accedere, se provvisti di biglietto, al Sancta Sanctorum) e la cappella di S. Silvestro, collegate

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Nella pagina accanto il soffitto della chiesa di S. Lorenzo: al centro, La Trinità in gloria angelica; nei pennacchi, figure di Dottori della Chiesa; nelle vele, angeli con i simboli della Passione e le personificazioni della Carità e della Fede. A sinistra fedeli ascendono, in ginocchio, la Scala Santa: dopo la basilica di S. Pietro, è il luogo a Roma piú visitato dai credenti.

da uno spazio dominato da un crocifisso ligneo del XIV-XV secolo. La decorazione della chiesa di S. Lorenzo vede al centro del soffitto La Trinità in gloria angelica, nei pennacchi i Dottori della Chiesa, nelle vele angeli con i simboli della Passione e le personificazioni della Carità e della Fede. In una cappella laterale un affresco rappresenta l’Apoteosi di san Lorenzo. Nella cappella di S. Silvestro – il primo papa (314-335) dopo l’editto di Milano – oggi adibita a coro dei padri Passionisti, un affresco dietro l’altare raffigura il santo titolare, che però ha il volto di Sisto V. Del Patriarchio, e precisamente del refettorio, resta anche un grande nicchione, decorato da mosaici, che ricostruisce un’esedra, o un’abside, del triclinio eretto nel 799 da papa Leone III (795-816) per l’incoronazione di Carlo Magno a imperatore del Sacro Romano Impero. L’esedra, ormai in rovina, fu inglobata nel 1743 da Ferdinando Fuga, su incarico di Benedetto XIV, in una struttura neoclassica affacciata verso la piazza, che salvava, per il loro significato ideologico, alcuni dei mosaici, sia pure pesantemente rimaneggiati. Rappresentano Cristo, che regge un libro aperto sulla scritta pax vobis, contornato dagli apostoli (11, poiché manca Giuda) al momento della sua apparizione dopo la resurrezione. Nell’estradosso dell’arcone, in alto a sinistra, Cristo consegna i simboli dell’autorità a san Pietro – le chiavi della cristianità – e a Costantino, lo stendardo sormontato dalla croce. Sull’altro lato si vede san Pietro che dona la stola a papa Leone III e il vessillo a Carlo Magno.

Dove e quando Santuario della Scala Santa e Cappella del Sancta Sanctorum Roma, piazza di San Giovanni in Laterano, 14 Orario gli orari variano stagionalmente Info www.scala-santa.com; Facebook @santuarioscalasanta

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testi di Franco Cardini, Raffaele Savigni, Ilaria Sabbatini e Alessandro Bedini

LUCCA

Capitale del pellegrinaggio Vero e proprio nodo viario dei percorsi che portavano a Roma, Gerusalemme e Santiago, la splendida città della Toscana nord-occidentale custodisce memorie e simboli di un’epoca segnata dai grandi viaggi della fede. Un invito alla riscoperta di questo straordinario e profondo patrimonio storico-culturale... Lucca. La cattedrale di S. Martino. Fondata forse già in età tardo-antica, la chiesa fu oggetto di un’importante ricostruzione nell’XI sec., seguita da ulteriori interventi.


Dossier IL LABIRINTO NELLA CATTEDRALE

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hi si occupa di pellegrinaggi sa bene che tra i gadget piú comuni in quella che sempre piú assume i contorni di un’occasione turistica – se non di un business – fioriscono, tra le altre cose, portachiavi a forma non solo di conchiglia (com’è noto, la conchiglia del mollusco «nautilo», arrotolando le sue volute spiraliformi dal centro verso l’esterno, si accresce di un valore proporzionale uguale al cosiddetto «Numero d’Oro» o «proporzione aurea») o di «Tau» oppure

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di «croci di Santiago», ma anche di «labirinto»: un disegno caratteristico, che si presenta costituito di cerchi concentrici collegati tra loro da piccoli sentieri di raccordo. Ve ne sono, per la verità, di molti tipi e con variabili anche importanti (il piú famoso forse è a pianta ottagonale, ispirato a quello del pavimento della cattedrale di Amiens): ma il piú noto riproduce in genere quello della cattedrale di Chartres. Lo ritroviamo scolpito su una pietra collocata nel pilastro di destra

di Franco Cardini

dell’antiportico della facciata della cattedrale di S. Martino di Lucca e databile al XII-XIII secolo: francamente è molto difficile decidere se questo sia una copia piú piccola e meno accurata di quello, o se invece sia quello una copia ingrandita e solennizzata di questo. Ne troviamo anche una copia – o una libera reinterpretazione – su una pietra che costituisce ancora oggi uno dei vanti del glorioso centro di Pontremoli, sulla tratta della via Francigena che, discenaprile

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A destra gli itinerari seguiti dai pellegrini che dal Nord Europa si dirigevano verso Roma ricostruiti sulla base della cronaca universale dell’abate tedesco Alberto di Stade, che narra i fatti compresi dalla creazione del mondo al 1256. Nella pagina accanto veduta a volo d’uccello del centro storico di Lucca.

MARE DEL NORD Stade Brema Celle Münster

Ren

Duisburg Colonia Bonn

Echi gerosolimitani

Se invece si passava l’Arno a Fucecchio e si procedeva a sud verso Siena, ai confini della Tuscia di cui era signora la magna comitissa Matilde di Toscana, si giungeva fino ad Acquapendente, dove sorgeva – nella cripta della bella chiesa locale – un sacello del X secolo costruito ad instar sacratissimi Sepulchri, come quelli di Aquileia, di S. Stefano a Bologna, di Pisa, di S. Tomè d’Almenno presso Bergamo e di tanti altri luoghi d’Italia e d’Europa. Erano le stationes, i luoghi di pel-

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Roda

dendo dal passo della Cisa, portava i pellegrini provenienti dal Settentrione fino a Lucca. Quest’ultima era un vero e proprio nodo viario sulla strada verso Roma, dalla quale, attraverso il «padule» delle Cerbaie, dominato dall’ospizio detto de alto passu («Altopascio», sede anche di un famoso Ordine ospitaliero), conduceva al guado di Fucecchio sull’Arno – ancora oggi sorge, nei pressi, il luogo detto «Catena» in memoria dell’antico attracco fluviale –, ma dal quale, prendendo la direzione ovest senza abbandonare la riva destra dell’Arno, si poteva giungere a un’altra città nella quale il culto di san Giacomo e del suo emblema, il «Tau», era primario. E al santo di Compostella era dedicato un capolavoro dell’arte sacra occidentale, l’Altare argenteo della cattedrale con le storie dell’Apostolo che gli spagnoli della Reconquista avrebbero denominato Matamoros da una sua leggendaria apparizione in armi, nel corso della battaglia del Clavijo, contro i musulmani.

Coblenza

Nordhausen

Sardegna

MAR TIRRENO

Sicilia

legrinaggio «minori» (alcuni di loro tali solo per inadeguata definizione) che punteggiavano la rete stradale che collegava i grandi santuari di Gerusalemme, di Roma e di Santiago de Compostela. Una rete lungo al quale transitavano papi e vescovi, imperatori e re, santi e pellegrini, crociati e mercanti: una rete ricca di storia e di leggende, lungo la quale talora si poteva incontrare perfino il diavolo, magari a sua volta travestito da pellegrino oppure impegnato a costruire arditi ponti, alcuni dei

quali si ammirano ancora, specie nella bella Lucchesia. Ricostruire la rete dei pellegrinaggi vuol dire anche questo: riscoprire antiche leggende con i loro reconditi, sovente sorprendenti significati. Ma che cos’è, cosa significa, il labirinto di S. Martino? Sulla fascia verticale a sinistra del piccolo, elegante bassorilievo (quindi a destra guardando), corre una bella iscrizione in grafia capitale-onciale che suona: «HIC QUEM / CRETICUS / EDIT DEDA – / LUS

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Dossier

EST / LABERINT / HUS DEQ(U)- / O NULLU – / S VADER – / E QUIVIT / QUI FUIT / INTUS / NI THESE – / US GRAT – / IS ADRIAN – / E STAMI- / NE IUTUS», che si può tradurre cosí: «Questo è il labirinto costruito da Dedalo cretese dal quale nessuno che vi entrò poté uscire eccetto Teseo aiutato dal filo di Adriana (Arianna)». Al centro dell’immagine, configurato come uno spazio circolare a una sola entrata – il che significa che l’immaginario viaggiatore, per uscire, avrebbe dovuto percorrere a ritroso la medesima strada fatta per giungere dall’ingresso al centro – vi sono tracce di una figura abrasa, che, stando ad alcuni testimoni o critici successivi, poteva raffigurare Teseo e il celebre mostro guardiano dell’edificio, Minotauro, figlio di re Minosse: o meglio, della lubrica regina Pasifae, che si era concessa a un toro entrando nel simulacro metallico di una vacca e sfruttando quindi, lí rinchiusa, gli ardori dell’anima-

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le; la sua atroce punizione consisté nell’essere chiusa nella statua cava ch’era stata tramite del suo peccaminoso desiderio e che fu riscaldata fino a diventare incandescente.

L’uomo-toro

Secondo il celebre mito narrato anche da Plutarco, l’eroe Teseo, figlio di Egeo, re di Atene, inviato dal padre per liberare la sua patria da un tributo di fanciulle vergini che Minosse re di Creta imponeva destinandole come cibo per il suo figliastro Asterione, o Minotauro, mostruosa creatura dal corpo umano e dalla testa taurina, trovò un aiuto nella figlia stessa del monarca cretese, Ariadne o Arianna, sorellastra, quindi, del Minotauro. Innamoratasi di Teseo, Arianna gli affidò un filo di lana ch’egli avrebbe dovuto svolgere dietro di sé, addentrandosi nel palazzo costruito dall’architetto Dedalo e detto «della Bipenne», cioè appunto nel Labirinto – Labyrinthus aprile

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A sinistra il Labirinto scolpito sul pilastro di destra dell’antiportico di S. Martino, a Lucca. XII-XIII sec. A destra l’iscrizione incisa a fianco del Labirinto, che cosí recita: «Questo è il labirinto costruito da Dedalo cretese dal quale nessuno che vi entrò poté uscire eccetto Teseo aiutato dal filo di Adriana (Arianna)». Nella pagina accanto, in alto Acquapendente (Viterbo). La «memoria» del Santo Sepolcro di Gerusalemme, nella cripta dell’omonima chiesa locale. Nella pagina accanto, in basso miniatura raffigurante un pellegrino, da Les Trois Pèlerinages di Guillaume de Digulleville. 1355. Parigi, Biblioteca di Sainte-Geneviève.

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Dossier (greco labyrinthos) da làbrys, termine greco per quel che di solito si definisce pèlekus, l’ascia bipenne da guerra e da taglio dei grandi alberi, fornita di due lame simmetriche e simbolo sacro per eccellenza, insieme con il toro, della civiltà minoica dell’isola di Creta –, un edificio caratterizzato da un insieme di corridoi che costituivano un cammino inestricabile al centro del quale il saggio re Minosse aveva rinchiuso il divino e mostruoso Minotauro. Teseo trovò il mostro, lo uccise e quindi, con l’aiuto del filo procuratogli da Arianna, riuscí a riguadagnare l’esterno dell’edificio. Per gli antichi il Labirinto simboleggiava la difficoltà del vivere e dell’orizzontarsi nei pericoli e negli imprevisti della vita: esso era difatti un insieme di sentieri che s’intersecavano e che non conducevano a nulla. In alto Alatri (Frosinone). Affresco raffigurante il Cristo Pantocratore all’interno di un Labirinto. Nella pagina accanto miniatura raffigurante il Labirinto con, al centro, il Minotauro, da un’edizione del Liber Floridus, un’enciclopedia di scienze teologiche e liberali attribuita a Lamberto di Sant’Omero. XI-XII sec. Gent, Biblioteca Universitaria. A sinistra labirinto scolpito su una lastra in arenaria. XII sec. (?). Pontremoli, chiesa di S. Pietro.

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Quello di Teseo e della sua avventura nel Labirinto era con ogni evidenza un mito di nekyia, di discensus ad Inferos, di morte, di lotta spirituale e di resurrezione. Nella sua struttura spiraliforme – e la spirale è un’altra forma grafica simbolicamente significativa –, il Labirinto rinvia alle interiora umane e animali, a loro volta simbolo del mistero della vita, come ben sapevano gli aruspici che leggevano il futuro negli intestini degli animali sacrificati. Probabilmente grazie al tramite di alcuni modelli misterici a esso tramandati, il cristianesimo si appropriò del mito di Teseo: tanto piú che esso era molto complesso e includeva anche una sua discesa agli Inferi, dai quali sarebbe risalito grazie a Eracle. Nel Medioevo cristiano, l’eroe greco divenne, quindi, figura Christi, prefigurazione simbolica del Cristo, come accadde anche ad altre divinità o figure eroiche antiche, da Dioniso a Orfeo. Di Teseo avevano parlato due poeti latini notissimi in età medievale, Ovidio e Stazio; lo stesso Dante ricordò piú volte sia lui, sia aprile

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Cassone nuziale con episodi del mito di Teseo, olio su tavola del Maestro dei Cassoni Campana. 1500-1525. Avignone, Musée du Petit Palais. Da sinistra: l’eroe sbarca dalla sua nave e incontra Fedra e Arianna; s’incammina verso il Labirinto, di fronte al cui ingresso ritrova le due sorelle: dalla parte di Arianna (a sinistra), un anello sul muro segna il punto di partenza del filo; al centro del Labirinto si vede quindi Teseo che uccide il Minotauro, le cui stragi, prima dell’uccisione, sono raffigurate sullo sfondo; in secondo piano, al centro, l’eroe vincitore si allontana con Arianna e Fedra.

il Minotauro. Come il Cristo, Teseo aveva affrontato un mostro feroce, che nell’immaginario cristiano diveniva un demonio; come lui era disceso negli Inferi e ne era risalito. Ne consegue che il Labirinto si trasformò in un simbolo della vita, la complessità della quale è facilmente vinta dal credente che segue la fede (il filo di lana) propostagli dalla Provvidenza (Arianna). Ma poiché, nel mondo medievale, simbolo per eccellenza della vita era il pellegrinaggio, ecco che il Labirinto divenne simbolo del viaggio verso una santa mèta, minacciato dai pericoli materiali e spirituali (il

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Minotauro), ma il buon esito del quale era assicurato dal possesso di un filo che sarebbe stato guida sicura: il «filo di Arianna», la fede.

La Santa Mèta

Tuttavia, al centro del Labirinto medievale, raffigurato come un sentiero tortuoso, sí, ma dal percorso certo e obbligato nella misura in cui era viaggio di fede, non v’era piú il mostro diabolico, bensí la Santa Mèta: Gerusalemme, sia quella terrestre punto d’arrivo dei pellegrini, sia quella celeste, desiderata sede definitiva degli eletti. Si è discusso sul significato

simbolico del fatto che il Labirinto cretese del Minotauro fosse caratterizzato da sette circonvoluzioni e quello cristiano da undici, senza tuttavia su ciò raggiungere risultati criticamente apprezzabili. Importante è invece il fatto che il Labirinto cristiano sia sempre rappresentato come «monocursale», vale a dire a percorso obbligato, con una sola entrata e una sola uscita, a indicare la certezza della vita che, trascorsa alla luce della fede, conduce alla salvezza. Sul Labirinto lucchese abbondano le leggende cittadine a base folklorica o pseudomisterica, come quella che lo ricollegherebbe, non si aprile

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sa né come, né perché, ai Templari: ma nessuna di esse è significativa. In altre raffigurazioni medievali tuttavia, al centro del Labirinto, troviamo figure e immagini differenti da quella di Gerusalemme: e lo stesso caso lucchese è al riguardo dubbio in quanto l’immagine raffigurata al suo centro è abrasa e ormai illeggibile. Al centro di altri Labirinti potevano trovarsi il minotauro-diavolo, se si voleva alludere al pericoloso sforzo iniziatico di purificazione; oppure il giardino dell’Eden, l’albero della Vita simbolo della croce, quindi il Paradiso, se s’intendeva piuttosto indicare la mèta ultima della vita.

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Nel primo caso si dava importanza al cammino di ritorno, che comporta l’uscita del labirinto; nel secondo si sottolineava invece che il fedele raggiunge la mèta una volta conseguito il centro, cioè compreso l’autentico senso e scopo del vivere (la polarizzazione simbolica è permessa dal momento che il simbolo è, per sua natura, polisemico e non ha mai un senso unico e univoco, bensí va interpretato nel suo contesto).

Origini remote

Di solito si indicano i possibili archetipi storico-archeologici del Labirinto medievale: la reggia di Cnosso a

Creta o il sepolcro del re etrusco Porsenna a Chiusi in Toscana. Si tratta comunque di adattamenti di un mito raccolto (o inventato?) da Diodoro Siculo – vissuto a cavallo tra l’età di Giulio Cesare e quella di Augusto –, che lo trasmise a Virgilio e a Ovidio. In realtà, la storia del Labirinto sembra piú antica e risalirebbe a un’origine egizia (cosí come la parola, che secondo alcuni non deriverebbe quindi da làbrys). È Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, 13, 19) a parlarci di un Labirinto situato nell’Alto Egitto, quindi nella parte meridionale del Paese, tra le città di Arsinoe e di Crocodilopolis: un edificio fatto di

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Dossier 12 cortili e 3000 stanze, per la metà scavate sottoterra: Erodoto e Strabone l’avrebbero visitato. Si ignora se avesse funzione cultuale, iniziatica o sepolcrale: certo è divenuto, dagli orfici in poi, simbolo per eccellenza del cammino iniziatico. A livello antropologico, strutture e camini di tipo «labirintico», di solito posti in relazione con grotte e cunicoli naturali o artificiali, si trovano in molte tradizioni con un significato ch’è in qualche modo sempre iniziatico. La fortuna del labirinto come simbolo della vita del cristiano e del pellegrinaggio, ma anche come

motivo magico, è esemplare di una quantità di segni carichi d’intenso fascino e rimasti nel nostro immaginario collettivo anche quando se ne è perduto il significato. Sulle cattedrali del Medioevo, in effetti, si è fatta molta, troppa letteratura: specie esoterica. Nel 1932 venne pubblicato a Parigi Il mistero delle cattedrali, uno strano libro d’un autore rimasto anonimo, il cui pseudonimo era Fulcanelli: vi si sosteneva che alcune grandi cattedrali francesi – come Notre-Dame di Parigi o quella di Chartres – sarebbero, in realtà, a saperne interpretare

correttamente la foresta dei simboli, veri e propri trattati dell’ars regia alchemica eternati nella pietra. Esiste tutta una letteratura esoterica sui costruttori delle cattedrali del Medioevo, i «Maestri» e i «Compagni», identificati come i fondatori delle logge massoniche ai quali sarebbero arcanamente giunti i segreti architettonici delle antiche piramidi egiziane e del Tempio di Salomone a Gerusalemme. Ma anche a proposito di ciò la critica piú avveduta rileva molte forme di arbitrio e di fantasiosa elucubrazione: e invita alla prudenza.

A sinistra miniatura raffigurante un suonatore di liuto e un gruppo di cantanti all’interno di un giardino cinto da mura, alla maniera di un hortus conclusus medievale, da un’edizione del Roman de la Rose di Guillaume de Lorris e Jean de Meung. 1490-1500 circa. Londra, The British Library. A destra uno scorcio del Labirinto Superiore del Giardino di Boboli (Firenze), con, sullo sfondo, la Fontana degli Uccellini.

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Siamo comunque abituati a considerare il Labirinto come una presenza necessaria sulle pareti o sul pavimento di certe chiese medievali: ma essa lo divenne anche nei giardini, dove si costruivano labirinti utilizzando siepi di vegetali vari – di solito di bosso, secondo la cosiddetta ars topiaria, a scopi che non si collegavano alla meditazione simbologica religiosa sul senso della vita. A quest’ultimo, nei giardini monastici o in quelli dei chiostri dei monasteri, servivano semmai riproduzioni schematiche del «giardino dell’Eden» ispirate al racconto del primo Libro della Bibbia, il Genesi. Ma possediamo notizia che, già alla fine dell’XI secolo, il giardiniere fiammingo Louis di Beaubourg avesse costruito per il castello di Ardre, del suo signore Arnoulds de Guines, un labirinto che possiamo immaginare fatto di strutture in legno coperte di verzura. In casi simili siamo piuttosto dinanzi a giochi cortesi ispirati magari alla memoria di giardini visitati in lontane contrade (durante la seconda metà del XII secolo, Luigi VII ed Eleonora d’Aquitania avevano potuto ammirare i

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giardini che circondavano Damasco; poi c’erano i giardini della Spagna musulmana) o a racconti contenuti nei romanzi cavallereschi. D’altronde, sia i giardini monastici, sia quelli signoriali del Medioevo, erano a loro volta costruiti in modo da richiamare immagini paradisiache: e il Labirinto di siepi ne era parte.

L’Oriente di Roberto

Alla fine del Duecento, piú o meno contemporaneamente alla stesura della seconda parte del celebre romanzo allegorico denominato Roman de la Rose, il conte Roberto d’Artois fece realizzare il parco di Hesdin, non lontano da Arras (Alta Francia). Da dove provenivano le suggestioni che presiedettero alla sua ideazione? Da un Oriente passato attraverso l’Italia meridionale, che Roberto conosceva bene (ed ereditato quindi dall’esperienza federiciana in Sicilia), perché nel 1270 aveva partecipato alla scorta che aveva riportato da Tunisi, attraverso Palermo, i resti di Luigi IX morto crociato sul litorale nordafricano, e perché di seguito aveva vissuto circa cinque anni tra Palermo e Napoli?

O dalla passione meccanica che aveva da tempo contagiato l’Occidente – e viene da pensare agli automi dei Mirabilia Romae e della leggenda di papa Silvestro II –, e che può avere precedenti e modelli orientali, ma che si era oramai anche sviluppata autonomamente? Quando i racconti e i romanzi cavallereschi parlano di giardini incantati, popolati di mirabili fontane e di automi semoventi, siamo portati a ritenerlo un genere letterario. Ma sembra che a Hesdin – giardino sul quale siamo discretamente documentati – vi fossero realmente un Labirinto con specchi deformanti, getti d’acqua nascosti, automi e macchine in grado di stupire e sorprendere gli ospiti del giardino. È stato notato che in questo caso siamo di fronte a tecniche a quanto pare orientali, il cui effetto è però quello di creare un’atmosfera da «giardino incantato» che parrebbe piuttosto arturiana. In pieno Trecento, il poeta e musicista Guillaume de Machaut, nelle composizioni Le remède de Fortune e in La fontaine amoureuse, descrive il parco di Hesdin, i suoi automi, le sue celebri fontane decorate di motivi desunti dai miti classici. Esso, dopo l’inevitabile decadenza dovuta alla guerra dei Cent’Anni, venne restaurato nel 1432 dal duca di Borgogna Filippo il Buono e qualcuno si è chiesto se nel parco rinnovato non fosse già matura la sensibilità del giardino rinascimentale. L’Hypnerotomachia Polyphili (Lotta d’amore in sogno di Polifilo, romanzo allegorico pubblicato con 170 xilografie da Aldo Manuzio il Vecchio nel 1499, n.d.r.) è caratterizzata da una serie di vicende iniziatiche distribuite in una sequenza di giardini dove natura e artificio si confrontano e si mimano vicendevolmente. Dalla selva dell’iniziale disorientamento, Polifilo giunge in un giardino di cristallo dove incontra Logistica (la Ragione) e Telemia (la Volontà), con la loro guida può addentrarsi in un

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

A destra una delle grottesche composizioni che caratterizzano il «Bosco Sacro» di Bomarzo (Viterbo), frutto della fantasia onirica del dominus loci Virginio Orsini. Nella pagina accanto incisione raffigurante un satiro che trattiene i rami di un albero affinché facciano ombra a una ninfa dormiente, da una copia dell’edizione della Hypnerotomachia Poliphili stampata a Venezia da Aldo Manuzio il Vecchio. 1499. Vicenza, Biblioteca Civica Bertoliana.

altro giardino, di forma labirintica, costituito da sette canali navigabili; al termine di questo viaggio lo attende un altro giardino ricco di artificialia, in seta, ornato di piante d’oro, di frutti e di gemme. Infine l’isola di Citera: naturale, ma dove le diverse piante si ordinano in ben costruiti settori attorno al tempio di Venere. Nell’Hypnerotomachia il tema centrale del discorso onirico e iniziatico è costituito dalla conoscenza e quindi dell’appropriazione di sé. Ma non si può dimenticare che il giardino di via Larga (o di San Marco, a Firenze), dove, protetti da Lorenzo il Magnifico, i migliori artisti del suo tempo si esercitavano nello studio della bellezza antica, si ispirava direttamente al modello dell’Accademia platonica e quindi a quel conosci te stesso che, non a caso, Lorenzo stes-

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so rammenta commentando i suoi sonetti. A Poggio a Caiano Lorenzo aveva voluto costruire un Labirinto – elemento classico dei giardini dell’antichità – accanto a una sorta di orto botanico, a una scena di gigantomachia e a un serraglio, che consentivano lo studio dei tre regni della natura. A Careggi, il riferimento a Platone era immediato. E non a caso, fra il XV e XVI secolo, il facoltoso cittadino fiorentino Bernardo Rucellai volle riunire in una nuova Accademia, ancora una volta nel suo giardino urbano, gli Orti Oricellari, gli ingegni di una città che stava cercando disperatamente di mantenere le sue libere istituzioni. I grandi modelli di giardino iniziatico – che sono anche, e ciò non va dimenticato, elaborati da un potere ormai sovrano, quello mediceo

divenuto granducale – della Firenze del Cinquecento (vale a dire quelli costituiti da Boboli, Castello e Pratolino), risentono di un discorso iniziatico in cui la letteratura ermetica rappresentata soprattutto dall’Hypnerotomachia Polyphili non sono passati invano, ma sono al tempo stesso grandi mappe simboliche della regione soggetta al principe e grandi enciclopedie del sapere universale tradotte in immagini.

Giardini tripartiti

I parchi fiorentini di Boboli, di Castello e di Pratolino (soltanto i primi due mantengono oggi in una qualche misura il loro antico assetto, mentre il terzo ha subíto un riattamento ottocentesco che lo ha reso illeggibile) conservano i caratteri fondamentali del discorso iniziatico. Un aprile

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tanto d’isola centrale, a Boboli), ma che allude anche all’acqua come elemento santificante, fons vitae; la grotta, sentiero sotterraneo per eccellenza misterico, nel quale appaiono squadernate le meraviglie della natura (come nel bestiario scultoreo della villa di Castello). Superato anche il prato, cioè il corpo ampio e complesso del giardino, gli iniziati – cioè gli intimi del Principe – godono le delizie e i misteri del giardino segreto, dal quale, non visti, si ammira l’intero quadro del parco.

Una metafora del potere

rapporto variamente atteggiato tra naturalia e artificialia, questi ultimi costituiti, tra l’altro, da parchi di automi ormai scomparsi o comunque non piú in funzione; in secondo piano una scansione tripartita, costituita da un’area a bosco (il selvatico), una a prato, e una piú propriamente a giardino architettonicamente atteggiato, il giardino segreto, hortus conclusus di medievale memoria nel quale si addensano gli elementi piú elaborati e da mantenere piú protetti. Ben conservato altresí è il parco detto «Bosco Sacro» di Bomarzo, nel Lazio settentrionale, caratteristico frutto della fantasia onirica del dominus loci Virginio Orsini. Seguiamo brevemente questo percorso dal cerchio al centro, e poi dal centro al cerchio, tenendo presente che il primo cammino è di tipo ini-

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ziatico, il secondo di tipo politico. Per quanto riguarda il primo aspetto, il selvatico è la selva dell’insicurezza, dell’ignoranza, del peccato, di una natura non ancor razionalmente interpretata e ordinata; la hyle, la selva oscura. Dal selvatico si esce nel prato, che in realtà può essere una distesa ampia, anzi un panorama variato di aiuole, siepi fiorite, giochi d’acqua, vasche, fontane, peschiere, labirinti, montagne artificiali, parchi d’automi, colossi abitabili al loro interno (si pensi al gigante di Pratolino), teatri vegetali, il luogo centrale e privilegiato del racconto del giardino. Là vi saranno il labirinto, che è gioco ma anche simbolo dell’avventura esistenziale e iniziatica dell’uomo; la grande vasca che sovente arieggia a un simbolo oceanico (un esempio evidente, con

Se il giardino segreto, annesso piú strettamente alla corte, è il luogo della perfezione spirituale e della conoscenza, esso è appunto metafora politica della corte stessa. Avviamoci qui per il secondo viaggio, dove dalla reggia si può accedere, se si vuole, anche alla periferica campagna, al contado, ai luoghi piú vicini, a una natura libera che però, per gli uomini del Rinascimento, non ha assolutamente il fascino che avrà con la meditazione rousseauiana. Architettura di piante, di acque, di animali, di pietre rare, di statue, il giardino diviene una sorta di complesso museale a uso dei suoi fruitori: è anche orto officinale, jardin potager come a Villandray in Francia, giardino botanico, specola, serraglio, Wunderkammer, collezione di antiquitates e di mirabilia, studiolo. Quando il Principe voglia, esso di trasforma anche in teatro, in arena per tornei, in lago per naumachie, in spazio per rappresentazioni drammatiche. Luogo d’incontro di natura e d’artificio (di «natura» e «cultura», diremmo noi; di natura e di ars, meglio si dovrebbe dire), esso è anche luogo d’estrinsecazione della volontà sovrana. In esso il potere manifesta la sua piú autentica natura e la sua piú intima vocazione: giocare con la volontà dei sudditi come con gli automi, trattare lo Stato con la stessa energia demiurgica

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

de plume, è ancora visitabile la settecentesca nobile villa Garzoni con il suo parco: all’interno del quale si può percorrere un Labirinto di verzura perfettamente conservato, arricchito da bei giochi d’acqua. I riti iniziatici che vi si svolgevano non erano certo sacri: erano deliziosamente mondani, forse anzi erotici. Ma il «Labirinto d’Amore» giuntoci dal Settecento aristocraticamente libertino è pur sempre, attraverso il Medioevo e il Rinascimento, l’erede di un legato sacrale che viene da lontano.

Un simbolo primordiale con il quale il mago tratta, nell’universo artificiale evocato dai suoi incantesimi, le sue creature. Attraverso la meditazione ermetica rinascimentale, si può dire che il mistero del Labirinto, cristianizzato nel Medioevo, torna alle sue radici pagane, per poi «laicizzarsi» in forme ludiche e ornamentali. Tutti ricordiamo il gigantesco, terribile Labirinto nel parco dell’albergo all’interno del e attorno al quale si svolge la paurosa storia di Shining, il film di Stanley Kubrick.

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Ma siamo partiti dalla raffigurazione labirintica di Lucca, piccola per dimensioni ma elegante per la sua fattura e la scritta che l’illustra. In omaggio a essa, dedichiamo queste pagine a un viaggio «da Lucca a Lucca». Non lontano dalla bella città toscana sorge il piccolo e incantevole centro demico di Collodi presso un’altra cittadina di grande pregio, Pescia. A Collodi, paese originario del Carlo Lorenzini autore di Pinocchio che scelse il nome del paese come nom

Il suo messaggio archetipico si collega, in ultima analisi, a quello della Spirale: una delle forme simboliche di base piú diffuse nelle civiltà tradizionali. Quando è semplice, si tratta di una linea che si avvolge su se stessa in modo circolare, allargandosi successivamente se parte dal centro o, viceversa, restringendosi se ha direzione centripeta; ma sovente assume un carattere elicoidale, cioè una direzione centripeta per giungere a un centro dal quale riparte per riguadagnare l’esterno (spirale doppia). Il suo motivo grafico trova vari modelli in natura, ma aprile

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Qui accanto un’altra veduta del «Bosco Sacro» di Bomarzo, con gruppi scultorei raffiguranti una famiglia di leoni, una sirena e un’arpia. Nella pagina accanto, in basso Collodi (Pistoia). Il Labirinto nel giardino di Villa Garzoni.

soprattutto due nel regno animale: la conchiglia e il serpente; e sembra collegarsi al principio del divenire, dell’eterno e immutabile svolgersi della natura, dell’emanazione e dell’estensione. La Spirale ha un carattere per molti versi affine al Labirinto, a differenza del quale, però, non cela né pericoli, né inganni. Seguendo le linee del Labirinto si può perdere (quando non sia «monocursale» come lo era il modello cristiano medievale) l’orientamento e restare imprigionati, mentre la Spirale conduce sempre e comunque al centro o alla periferia di se stessa.

Un percorso iniziatico

Come il labirinto, essa sembra in questo senso assumere un significato esistenziale, di cammino della vita o del percorso iniziatico, quindi di rapporto tra morte e resurrezione iniziatiche. I percorsi degli iniziandi nelle varie cerimonie non-cristiane di questo tipo sono – come nel nostro stesso Medioevo, nel quale si riferivano al pellegrinaggio a Gerusalemme – labirintici o spiraliformi. Sovente i disegni a spirale hanno comunque un percorso obbligato, seguendo il quale non si può sbagliare: sono pertanto «falsi Labirinti», che

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conducono sempre al punto voluto. Nella tradizione indú della kundalini, al pari che nel caduceo greco, le due Spirali serpentiformi che si avvolgono in volute ascensionali di tipo elicoidale attorno all’asse costituito dal bastone o dalla colonna vertebrale rinviano alle polarità dell’esistere, le alternanze vitamorte, freddo-caldo, notte-giorno e cosí via. Per questo, oltre che per motivi tecnico-pratici, una spirale ascensionale è sovente la parte di base di un attrezzo tecnico: la frusta che serve a frullare il latte nel rito-mito induistico, oppure l’accendifuoco ad archetto, o ancora il trapano (una forma ripresa nel nostro comune cavatappi). La Spirale domina e ripartisce le forze, e per questo è anche simbolo di fertilità dominata dai movimenti ascensionale e discensionale delle acque e dalla luna, che con la sua attrazione provoca le maree. Andamento spiraliforme assumono anche molte danze rituali, da quelle di alcuni Native Americans a quelle dei «dervisci rotanti», dove il girare su se stessi acquista il significato della permanenza del centro dell’essere nella mutevolezza del cambiamento. Nei mondi maya e

azteco, la figura della spirale era collegata allo scorrere del tempo: rappresentava l’inizio di un ciclo calendariale, allorché il cosmo ha bisogno di sacrifici umani per mantenersi equilibrato. Dall’Eurasia buddhista e induista all’America questo movimento rotatorio era collegato al girar su se stesso del sole ed espresso dal simbolo dello swastika. Nelle culture africane, la Spirale o l’Elica rinviano alla dinamica dell’esistere: per questo, anche nella cultura del voodoo, la divinità che presiede al ciclo vitale è rappresentata da un serpente che si morde la coda – ‘Ouroboros ermeticoalchemico –, simbolo dell’«Eterno Ritorno», dell’eternità cosmica che non si esaurisce mai nel ciclo delle singole esistenze. È stato lungo il cammino che, partendo dalla piccola pietra scolpita lucchese, ci ha condotto alle soglie dei misteri archetipici radicati nella nostra preistoria e vivi nel nostro inconscio. Veramente l’uomo è animal symbolicum.

Da leggere M. Cristina Fanelli, Labirinti. Storiografia, geografia e interpretazioni di un simbolo millenario, Il Cerchio, Roma 1997 Gianni Pirrone (a cura di), Il giardino come labirinto della storia, Atti del Convegno Internazionale (Palermo 14-17 aprile 1984), Centro per l’Arte e la Storia dei Giardini, Palermo 1984 Priya Hemenway, Le Code Secret. La formule mysterieuse qui régit les arts, la nature et les sciences, Evergreen, Köln 2008 Hermann Kern, Labirinti, Feltrinelli, Milano 1981 Giorgio Padoan, Il mito di Teseo e il cristianesimo di Stazio, «Lettere Italiane», XI, 1959, pp. 432-57. Paolo Santarcangeli, Il libro dei labirinti, nuova edizione, Feltrinelli, Milano 1984

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Dossier I 950 ANNI DI S. MARTINO di Raffaele Savigni La facciata della cattedrale di S. Martino con, a fianco, la torre campanaria. Nella pagina accanto miniatura raffigurante i membri della Fraternitas Sanctae Crucis che adorano il Volto Santo, dal manoscritto noto come Codice Tucci-Tognetti. Secondo decennio del XIV sec. Lucca, Biblioteca Capitolare.

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a ricostruzione della cattedrale di Lucca, nell’XI secolo, accompagna il tormentato processo di introduzione della riforma della Chiesa nella città toscana, ove esso incontrò notevoli resistenze da parte del Capitolo di S. Martino, e anche l’emergere di una società cittadina che pochi decenni piú tardi si organizzò in Comune. Non conosciamo il momento preciso in cui la basilica di S. Martino assunse il ruolo di ecclesia maior, ereditandolo dalla chiesa tardo-antica di S. Reparata, che conservò la funzione di pieve urbana. Il passaggio dev’essere avvenuto prima del 724, quando un documento menziona S. Martino in connessione con l’episcopio. Non sembra verosimile che S. Pier Maggiore o S. Frediano abbiano svolto per qualche tempo, come è stato ipotizzato, tale funzione. La nozione di «cattedrale» è stata comunque sottoposta negli ultimi decenni a un riesame critico da parte degli studiosi, che hanno evidenziato la compresenza, per vari secoli, di un insieme di piú edifici legati al vescovo e chiamati a svolgere funzioni complementari. A Lucca esisteva un gruppo di chiese urbane e suburbane, denominate «sedali», protagoniste, insieme a S. Martino, della liturgia stazionale e identificabili con S. Reparata, S. Pier Maggiore, S. Donato, S. Maria Forisportam, forse S. Michele in Foro, S. Frediano (quest’ultima acquisí dall’inizio del XII secolo uno spazio di maggiore autonomia, in competizione con S. Martino, grazie al suo legame speciale con la Chiesa romana). La basilica di S. Martino era denominata ecclesia maior o matrix: quest’ultima denominazione evocava la funzione generativa della Chiesa madre, mentre il termine cathedralis compare solo piú tardi, quando si è ormai affermato pienamente, nell’immaginario collettivo, quel ruolo simbolico della cattedrale efficacemente illustrato dallo storico francese Dominique Iogna-Prat.

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I rettori delle chiese sedali erano tenuti a offrire annualmente un pranzo al vescovo, come segno di comunione e di unità della Chiesa diocesana.

Quella Chiesa splendente

La liturgia stazionale, con la quale Lucca si ispirava al modello romano, si svolgeva nel tempo pasquale e consisteva in una serie di celebrazioni che si tenevano nell’arco di una settimana nelle diverse chiese. Essa è descritta nell’Ordo officiorum, un «libro ordinario» redatto alla fine del Duecento, ma le sue radici sono certamente antiche, in quanto alla fine dell’XI secolo il vescovo Rangerio (1096-1112) la ricorda come un elemento centrale dell’identità reli-

giosa lucchese: «Lucca fu splendente e tramite della luce, e si dice abbia avuto origine dalla nobiltà di Roma. La nobiltà della fede della tradizione originaria diede forma alla Chiesa lucchese e le portò la liturgia festiva e stazionale, che non è propria di tutte le chiese della Tuscia». In un celebre passo delle sue Storie (III 4), Rodolfo il Glabro osserva che dopo l’anno Mille vennero costruite molte nuove chiese: «Pareva che la terra stessa, come scrollandosi e liberandosi dalla vecchiaia, si rivestisse tutta di un candido mantello di chiese». In questo clima di fervore edilizio si inserisce anche la ricostruzione della cattedrale di Lucca, consacrata il 6 ottobre 1070, dopo un decennio di lavori, sotto il governo episcopale di Anselmo I da Baggio,

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Dossier il quale, divenuto pontefice romano col nome di Alessandro II, conservò fino alla morte (1073) anche la funzione di vescovo di Lucca. Un frammento cronachistico del primo Trecento, trasmesso in volgare sulla base di un testo latino (i Gesta Lucanorum), ricorda che la chiesa di S. Martino era già stata accresciuta in altri due momenti, nel 752 e nel 1022 (e una mano piú tarda accenna all’avvio di nuovi lavori nel 1353), ma non siamo in grado di verificare la fondatezza di questa tradizione. Come ricorda l’epigrafe celebrativa del portico, «gettate le fondamenta nel 1060, il sacro tempio fu completato dopo due lustri».

Un nuovo Salomone

Nella sua biografia in versi del vescovo riformatore Anselmo II († 1086), morto in esilio presso Matilde di Canossa, di cui era padre spirituale, Rangerio ricorda l’evento presentando il pontefice come un nuovo Salomone: «Guarda ora la cattedrale, mira le colonne, costruite su entrambi i lati, guarda la struttura delle pietre, che con arte raffinata una mano abile collocò sotto la guida del nuovo Salomone, ossia papa Alessandro, che reggeva a un tempo Roma e Lucca, realizzando in breve tempo un’opera grandiosa». In prima linea emerge il ruolo del vescovo, evocato secondo il modello del «vescovo costruttore», diffuso in quel periodo. Altre fonti lasciano però intravedere il ruolo determinante dei canonici Lamberto e Blancardo. In particolare, il racconto dell’arrivo del Volto Santo a Lucca, attribuito a Leboino e redatto nel XII secolo, afferma che «l’arciprete Lamberto e l’arcidiacono Blancardo, fratelli uterini, sapienti e devoti e molto cari a Dio e agli uomini, edificarono dalle fondamenta la presente chiesa la portarono a compimento, a onore del beato Martino e del Volto Santo». In quel periodo vescovi riformatori di provenienza lombarda dovettero infatti confrontarsi con il Capitolo di S. Martino, i cui canonici erano stati definiti sino all’inizio

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dell’XI secolo «cardinali», in quanto strettamente collegati al cardo, ossia al vertice della diocesi. All’inizio del Trecento il cronista domenicano Tolomeo da Lucca ricorda, nei suoi Annali, che papa Alessandro considerò i Lucchesi come suo «popolo peculiare» e onorò con una grazia speciale la chiesa matrice di S. Martino, concedendo ai suoi canonici il privilegio di usare la mitra durante le processioni, come i «cardinali» di Ravenna e di San Giacomo di Compostella.

In alto particolare della facciata della cattedrale di S. Martino con la statua del santo che divide il suo mantello con un povero; quest’ultima immagine veniva ogni anno rivestita durante una cerimonia che rappresentava un importante rituale civico. Nella pagina accanto un altro particolare della facciata, con rilievi che rappresentano episodi della vita di san Martino (nel registro superiore) e allegorie dei mesi dell’anno, identificati dalle rispettive attività stagionali.

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In alto l’altare di S. Regolo, con santi entro nicchie (ai lati dello stesso Regolo compaiono Giovanni e Sebastiano), opera di Matteo Civitali. 1484.

Alessandro II trasferí da Roma a Lucca le reliquie della martire Lucina e di sant’Alessandro, probabilmente in concomitanza con l’avvio della costruzione della basilica dedicata a quest’ultimo. Come in altre città, la ricostruzione di una cattedrale rappresentava l’occasione per ridefinirne lo spazio sacro mediante una ricognizione e un ampliamento del «tesoro» di corpi santi in essa custodito. Ai decenni successivi risale una descrizione degli altari, conservata nel codice 124 della biblioteca capitolare di Lucca. Le dedicazioni riflettono l’ampiezza di orizzonti

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devozionali e culturali della città di Lucca, centro della marca di Tuscia e definita nel 1124 caput Tuscie: accanto al martire spoletino Gregorio troviamo Remigio di Reims, l’anglosassone Edmondo, Valentino di Terni, il monaco napoletano Agnello, Apollinare di Ravenna. La menzione di due altari ubicati rispettivamente ante vultum e ante crucem veterem ha fatto ipotizzare la compresenza nell’edificio di due oggetti devozionali distinti, ma è stata variamente interpretata.

Una ricostruzione veloce

All’inizio del XII secolo, in occasione della traslazione di alcuni corpi santi, fu redatta un’omelia, attribuibile al vescovo Rangerio, nella quale viene ricordata l’iniziativa della ricostruzione della cattedra-

le, effettuata «in breve tempo, ma con spese e fatiche non lievi», in quanto i tetti dell’edificio erano pericolanti. Il corpo di san Regolo (compatrono della diocesi), giunto a Lucca da Populonia verso la fine dell’VIII secolo, era stato trasferito da Alessandro II nella cripta, con l’intento di evitare una banalizzazione del culto, che una vista quotidiana e un accesso troppo facile poteva favorire. Ora però Rangerio, avendo constatato che la cripta era troppo frequentata, e che era diventata luogo di conversazioni mondane, riportò le reliquie all’interno della basilica, collocando il corpo di san Regolo alla destra dell’altar maggiore, e alla sua sinistra quelli di Giasone, Mauro e Ilaria. Questa decisione rifletteva probabilmente, come ha ipotizzato Romano Silva, la volontà aprile

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Da leggere Clara Baracchini, Antonico Caleca, Il Duomo di Lucca, CARILO,Lucca 1973 Romano Silva, La ricostruzione della cattedrale di Lucca (1060-1070): un esempio precoce di architettura della riforma gregoriana, in Sant’Anselmo vescovo di Lucca (1073-1086) nel quadro delle trasformazioni sociali e della riforma ecclesiastica, Atti del convegno internazionale di studio (Lucca, 25-28 settembre 1986), Roma, 1992 (Nuovi studi storici 13); pp. 297-309 (e anche altri saggi nello stesso volume) Graziano Concioni, San Martino di Lucca. La cattedrale medioevale, Lucca, numero unico della «Rivista di archeologia, storia, costume», XXXII, 1994, Istituto storico lucchese, 1995 Carlotta Taddei, Lucca tra XI e XII secolo: territorio, architetture, città, Quaderni di storia dell’arte, 23, Parma 2005 A sinistra la lunetta e l’architrave sopra l’ingresso della navata destra, ornati da rilievi con il martirio e scene della vita di san Regolo, opera di Guidetto da Como e dei suoi collaboratori. 1204.

di ricondurre il culto di tutte le reliquie sotto il controllo della Chiesa vescovile, evitando il rischio che si sviluppassero devozioni particolari e incontrollate. Nel 1107 papa Pasquale II ripartí tra il vescovo e il Capitolo i proventi delle offerte al sacrario del Volto Santo, che, ampliato, divenne una vera e propria cappella, consacrata nel 1119. Nel corso del XII secolo si formò in città una rete di circoscrizioni parrocchiali, che acquisirono progressivamente uno spazio autonomo, ma vescovi e pontefici romani ribadirono il ruolo eminente della chiesa «matrice». Poco dopo il 1170 scoppiò una lite tra le due canoniche di S. Frediano e di S. Michele in Foro per la precedenza dei rispettivi gonfaloni in occasione delle litanie che precedevano l’Ascensione: gli

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arbitri designati decisero che i canonici delle due chiese si recassero separatamente fino alla cattedrale, ove avrebbero dovuto deporre i propri gonfaloni e portare in processione quello di S. Martino, segno di unità della Chiesa cittadina. All’ombra della cattedrale si svilupparono anche forme di aggregazione dei nuovi ceti professionali emergenti, come i cambiatori e gli speziali, che nel 1111 si impegnarono con un giuramento (conservato in un’epigrafe dell’atrio) a non commettere violenza o truffe nelle loro attività, svolte sotto la sorveglianza di custodi incaricati dal vescovo.

Lotta di classe

Nel 1214 la cattedrale fu coinvolta in uno scontro violento che contrappose il populus (in primo luogo i mercanti, il cui punto di forza era la chiesa di S. Giusto) ai milites, ossia ai cavalieri e agli esponenti del ceto feudale: i canonici di S. Martino intervennero con le croci e le reliquie per sedare il tumulto. Dalla fine del XII secolo, la manutenzione di S. Martino fu affidata a diverse «opere» (del campanile, del frontespizio, di S.

Croce). L’Opera di S. Croce acquisí poi un ruolo sempre piú centrale nella gestione del cantiere della cattedrale, mentre si ridusse sensibilmente quello dei canonici. I lavori di sistemazione della facciata proseguirono fino ai primi decenni del Duecento, quando fu realizzato un ricco programma iconografico che celebrava, accanto a Martino, san Regolo. La statua marmorea con san Martino e il povero veniva annualmente rivestita nel corso di una cerimonia che rappresentava un importante rituale civico: le vecchie vesti venivano donate a un cittadino che doveva indossarle mentre percorreva a cavallo la città. Una successiva ristrutturazione fu avviata nel 1372, dopo la riconquista della libertà cittadina, sotto l’influenza della classe dirigente comunale, nella quale aveva un ruolo eminente Francesco Guinigi, acclamato dopo la sua morte come pater patriae. Una scultura, ora conservata nel Museo della Cattedrale e popolarmente denominata Fra Fazio, raffigura presumibilmente un ricco mecenate o piú in generale i cittadini chiamati a finanziare i lavori. All’interno della cattedrale venne costruito l’altare della libertà, e nel contempo il culto del Volto Santo assunse una piú spiccata valenza civica, saldandosi con l’ideologia della libertas cittadina.

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Dossier UN VOLTO MISTERIOSO E AMATISSIMO di Ilaria Sabbatini

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Luni convergono le strade provenienti dalla Spagna e dalla terra di San Iacopo. Da Luni c’è un giorno di viaggio per arrivare a Luka. Li c’è una sede vescovile dove si trova quel crocifisso che Nicodemo fece costruire per volere di Dio stesso; esso ha parlato due volte: una volta donò la sua scarpa a un povero, un’altra volta testimoniò in favore di un uomo ingiustamente accusato». Con queste parole l’abate islandese Nikulas de Munkathvera descrive il passaggio da Lucca nel prezioso memoriale del suo pellegrinaggio a Gerusalemme che stilò intorno al 1154. Lucca aveva un ruolo di primo piano nel sistema viario del XII secolo, che metteva in comunicazione tutti i grandi santuari dell’epoca. Le vie di transito vedevano il passaggio di uomini, merci, armi, culti e cultura, valori materiali e beni immateriali. Il ruolo di Lucca nella compagine medievale e la sua fortuna commerciale erano legati a una simile tessitura viaria che ne faceva l’ultima città prima degli Appennini per chi saliva a nord e la prima ad aprire l’accesso alla Tuscia per chi scendeva verso Roma. Lucca era coinvolta dal fenomeno storico del pellegrinaggio grazie alla presenza di una delle statuereliquiario piú venerate del passato. Sul suo ruolo di snodo nel collegamento tra il Nord e il Centro, si innestò il culto del Volto Santo destinato a diventare l’emblema identitario della città nel corso dei secoli. La statua-reliquiario, datata dagli storici dell’arte all’XI secolo, ha una leggenda che l’ha resa famosa ben oltre i confini locali e in un’epoca molto precoce. Secondo la tradizione, si tratterebbe infatti di un’immagine acheropita, cioè non prodotta da mano d’uomo (dal greco acheiropoietos,

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derivante dall’unione tra la alfa con funzione privativa, cheir, «mano», e poiein, «fare», n.d.r.). L’opera si può plausibilmente datare al periodo piú fecondo della scultura a Lucca, che coincide con l’ascesa economica della città e che vide svilupparsi molteplici cantieri con la presenza di maestranze di diversa origine. Questa fase si protrasse dalla seconda metà del IX secolo fino alla prima metà del XIII. Quello però che preme sottolineare, dal punto di vista storico-istituzionale, non è la discussione sulla cronologia della statua lucchese quanto la forza e la continuità del suo culto che, partendo da una radice antica, è riuscito a permanere fino all’età contemporanea.

Allargare lo sguardo

Se vogliamo avere una percezione della fama del culto del Volto Santo, della sua profondità e della sua estensione, dobbiamo allargare lo sguardo, prendendo in considerazione alcune delle testimonianze che ce ne sono pervenute. La chevalerie Ogier de Danemarche, un’opera epica risalente all’XIXII secolo, parla dell’omaggio reso da Carlo Magno all’icona lucchese: «Il re dei franchi si fermò sulla riva / e ascoltò messa a San Martino il grande. / Il Volto di Lucca vi si trovava a quei tempi, / alcuni dicono che c’è ancora. / Nicodemo lo fece a Gerusalemme, / Carlo gli offrí un pallio d’oro lucente». A questa narrazione si aggiunge la testimonianza di Gugliemo di Malmesbury, che, nei Gesta Regum Anglorum, del XII secolo, racconta di come il re d’Inghilterra Guglielmo II il Rosso solesse giurare «per Vultum de Luca». La leggenda ha una struttura relativamente semplice. Il diacono Leobino, presunto autore del testo,

Lucca, S. Martino. Il crocifisso ligneo noto come Volto Santo. La datazione dell’opera è stata ed è tuttora piuttosto dibattuta: è comunque probabile che oscilli fra l’XI e il XII sec.



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In alto, sulle due pagine scomparto di predella raffigurante il miracoloso approdo del Volto Santo che sarebbe giunto nei pressi di Luni, dipinto su tavola del Maestro di Montefloscoli. 1440-1450. Lucca, Museo Nazionale di Villa Guinigi. A sinistra Lucca, S. Martino. Il tempietto a pianta centrale che ospita il Volto Santo, innalzato da Matteo Civitali nel 1484, nella navata sinistra della chiesa.

racconta come il vescovo Gualfredo si recò a Gerusalemme ed ebbe una visione che lo incoraggiava a cercare la statua scolpita da Nicodemo, il cui volto era stato realizzato per intervento divino. La statua era rimasta nascosta in una grotta fino alla visita del vescovo che – «Deo gubernante» – la caricò su una nave senza equipaggio. L’imbarcazione, arrivata a Luni, risultava inavvicinabile, finché il ve-

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Da leggere Ilaria Sabbatini, Lucca, il Volto Santo e la Via Francigena, MPF, Lucca 2020 Stefano Martinelli, L’immagine del volto santo di Lucca. Il successo europeo di un’iconografia medievale, ETS, Pisa 2016 La santa croce di Lucca: il Volto santo. Storia tradizioni immagini, Atti del Convegno (Lucca, 1-3 marzo 2001), Editori dell’Acero, Empoli 2003 Il Volto Santo in Europa: culto e immagini del Crocifisso nel Medioevo, Atti del Convegno Internazionale di Engelberg (13-16 settembre 2000), Istituto Storico Lucchese, Lucca 2005 Clara Baracchini e Maria Teresa Filieri (a cura di), Il Volto Santo. Storia e culto, Catalogo della mostra (21 ottobre-21 dicembre 1982), MPF, Lucca 1982 Carlotta Taddei, Lucca tra XI e XII secolo: territorio, architetture, città, Quaderni di storia dell’arte, 23, Parma 2005

scovo di Lucca, Giovanni, avvertito in sogno, riuscí a salire sulla nave. Vuole la leggenda che la statua fosse anche un reliquiario contenente due ampolle del sangue di Cristo. Per risolvere la contesa nata tra Lucchesi e Lunensi circa la proprietà dell’icona, il Volto Santo fu messo su un carro trainato da giovenchi che puntarono verso Lucca. Allora una delle ampolle contenenti la reliquia del sangue venne data in pegno al vescovo di Luni. La leggenda è raffigurata negli affreschi, del XVI secolo, che decorano la cappella della Villa Buonvisi a Monte San Quirico (Lucca) e rappresentano l’unico ciclo pittorico completo che sia giunto fino a noi su questo tema. La storia del Volto Santo è stata talmente amata che scrittori, pittori e compositori hanno continuato a reinterpretarla dai tempi

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antichi fino all’età contemporanea. Enrico Pea nella raccolta de Il romanzo di Moscardino (1944) dice del Volto Santo: «Lucca non è il suo paese, e non si sa se, un giorno o l’altro, si rimette in piede quella ciabatta per continuare il suo pellegrinaggio interrotto».

Per le vittime del mare

Lorenzo Viani compie un’operazione parallela, letteraria e pittorica, descrivendo la benedizione dei morti in mare nel romanzo Il nano e la statua nera (1943), che trova corrispondenza nel quadro dedicato allo stesso struggente soggetto: «Il viandante, che all’alba nel primo giorno di novembre transitasse sulla spiaggia della Lucchesia, vedrebbe delle turbe inginocchiate sotto gli stendardi e il prete benedire lo sterminato cimitero senza tumoli

né croci. Sono le figlie, le madri, le vedove, i parenti dei marinai pericolanti nel pelago». Nel 1961, Ildebrando Pizzetti compose, su libretto di Riccardo Bacchelli, l’opera Il calzare d’argento, che fu rappresentata al Teatro alla Scala di Milano. In una copia del libretto si può leggere la dedica autografa di Bacchelli a Raffaello Morghen che fu presidente del prestigioso ISIME, l’Istituto Storico Italiano per il Medioevo di Roma. Tutto fa pensare che lo scrittore e drammaturgo abbia chiesto consiglio all’accademico. Cosí il cerchio si chiude su questo piccolo prezioso dettaglio che rivela come storia, tradizione popolare e creatività possano sempre incontrarsi da qualche parte nella biblioteca degli infiniti labirinti della conoscenza, come sarebbe piaciuto a Borges.

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Dossier «DEUS LO VOLT!» LUCCA ALLA PRIMA CROCIATA

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di Alessandro Bedini

hissà cosa avrà pensato papa Urbano II, al secolo Ottone de Chatillon, allievo di Brunone di Colonia, il fondatore dell’Ordine certosino, quando, tra la fine d’ottobre e i primi di novembre del 1096, come riportano le cronache, giunse a Lucca con il suo seguito. Fulcherio di Chartres, riferisce l’evento nella sua Historia Ihiero-

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Stampa raffigurante papa Urbano II che predica in favore della crociata. 1684. Amsterdam, Rijksmuseum.

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solymitana: «Arrivati a Lucca, città molto rinomata, incontrammo vicino a quella Papa Urbano col quale parlarono il conte di Normandia e il conte Stefano e anche degli altri, e noi che lo volemmo». Fulcherio era arrivato nella città toscana con le colonne crociate guidate dai piú importanti feudatari dell’epoca: Roberto, conte di Fiandra, Stefano, conte di Blois e di Chartres, Roberto «Cosciacorta», duca di Normandia. È molto probabile che il pontefice, proveniente da Cremona e diretto a Roma, abbia in-

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contrato i crociati presso il luogo denominato «prato del marchese», appena fuori l’antica cinta muraria della città, un sito particolarmente adatto per un campo militare. La situazione politico-religiosa di quello che al tempo era il capoluogo piú importante della Toscana, posto tra l’altro sulla via Francigena, arteria essenziale tanto per i pellegrinaggi che per gli scambi commerciali, era piuttosto complicata. Le continue dispute tra coloro che, fau-

tori della politica di papa Gregorio VII formavano il partito dei «riformatori» e gli «enriciani», seguaci dell’imperatore e contrari al papa e alla sua politica, si fronteggiavano da parecchi anni nell’ambito della cosiddetta lotta per le investiture. È probabile che Urbano II, fedele alla riforma voluta da Gregorio VII, non fosse convinto della pacificazione che si era comunque avviata,

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Dossier Miniatura raffigurante il vescovo Ademaro di Monteil (riconoscibile dalla mitra portata sul capo invece dell’elmo) che partecipa all’assedio di Antiochia del 1098, da un’edizione francese dell’Historia rerum in partibus transmarinis gestarum di Guglielmo di Tiro. 1250-1259. Londra, The British Library.

non senza difficoltà, tra le due fazioni. Tanto piú che il suo pilastro nella politica religiosa toscana, la contessa Matilde di Canossa, non era affatto ben voluta da una buona parte dei Lucchesi, in particolare dai canonici della cattedrale. Del resto, che Urbano fosse piuttosto prudente rispetto alle dispute cittadine, è dimostrato dal fatto che appena due anni prima, nel 1094, transitando per la Toscana per recarsi oltralpe in vista dei concili di Piacenza e Clermont Ferrand – dove predicò quel pellegrinaggio armato che siamo abituati a definire «crociata» –, aveva accuratamente evitato di fare sosta a Lucca. Una decisione piuttosto strana e ancor piú sospetta, se si tiene conto che il papa si trattenne in Toscana per quattro mesi e mezzo, risiedendo a Pisa, a Firenze, a Pistoia e incontrandosi

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varie volte con Matilde per affrontare alcune questioni di carattere politico-religioso relative alle città toscane. Nei due anni che seguirono la situazione era tuttavia mutata.

Un fautore della riforma

Sul prestigioso seggio episcopale lucchese sedeva il vescovo Rangerio, fedele al pontefice e convinto fautore della riforma gregoriana. Purtroppo non siamo a conoscenza della data esatta riguardo l’elezione e la consacrazione di Rangerio, ma si può ipotizzare che essa sia da collocare a ridosso del passaggio di Urbano a Lucca e da collegare alla decisa inversione di tendenza verificatasi nel frattempo all’interno dell’ecclesia lucchese. Poco addentro alle dispute in atto, Fulcherio non ci fornisce informazioni utili, e si limita ad annotare

i momenti e i particolari dell’incontro tra il papa e i cavalieri crociati al quale, fatto assai significativo, non partecipò la contessa Matilde, ufficialmente per non intromettersi nei rapporti tra il pontefice e i maggiorenti cittadini, ma piú probabilmente perché i dissapori con i Lucchesi non erano stati del tutto appianati. Sono i primi giorni del novembre 1096 quando i cavalieri crociati compaiono per le strade di Lucca. Si tratta delle avanguardie della colonna franco-normanno-fiamminga agli ordini dei piú grandi condottieri dell’Occidente cristiano. «Deus lo volt!» è il grido che i cavalieri fanno risuonare al loro ingresso in città e sarà lo stesso Urbano a esortare il popolo lucchese a unirsi alla spedizione crociata in Terra Santa. L’appello del papa non rimase inascoltato. Siamo a conoscenza di alcuni aprile

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documenti che testimoniano di come alcuni cittadini, pare non molti, abbiano risposto all’esortazione. Il mercante lucchese Guido, figlio di Rolando, per esempio, si presentò davanti al pontefice in compagnia del notaio imperiale Rodolfo, per stilare una notitia brevis, ovvero un documento con il quale affidava i suoi averi ai canonici della cattedrale all’atto stesso di farsi pellegrino crociato, come risulta dal Regesto del capitolo di Lucca. Responsabili dei beni del mercante lucchese furono nominati due chierici: Roffredo arcidiacono e Guido prete. Nel documento veniva specificato che il Capitolo della cattedrale sarebbe entrato in possesso dei beni di Guido qualora egli non fosse tornato dalla Palestina e naturalmente in mancanza di eredi. Si tratta, a nostra conoscenza, dell’unico attestato di un pellegrino lucchese relativo al lascito delle proprie sostanze. Il che suggerirebbe – come osserva Franco Cardini – che altri possano aver seguito l’esempio di Guido senza però aver lasciato una traccia scritta in quanto non possedevano beni di cui disporre. In qualità di garanti da parte della città furono presenti all’incontro tra Guido di Rolando e il pontefice, i buoni uomini rappresentanti dell’istituzione comunale. Sappiamo che la città andò molto orgogliosa di questo evento e, attraverso fonti indirette, siamo anche a conoscenza del fatto che Guido di Rolando fece ritorno dalla Palestina. Altra testimonianza sulla partecipazione dei Lucchesi alla prima crociata è un eccezionale documento del 1098, nel quale si fa riferimento a un certo Brunus lucensis, appartenente alla borghesia cittadina, ma del quale purtroppo non possediamo ulteriori notizie. Il documento si deve allo storico e nobile francese del XIX secolo Paul Riant, il quale, nel corso delle sue ricerche sul movimento crociato, rinvenne una lettera-enciclica contenuta in un manoscritto conservato presso

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la Bibliothéque Mazarine di Parigi, iscritta al catalogo con il seguente titolo: «Epistola cleri lucensis de victoria mirabili contra Turcos (scripta anno 1187, quo obiit Urbano III)»; ossia «Lettera del clero lucchese riguardo la mirabile vittoria contro i Turchi (redatta nell’anno in cui morí Urbano III)». Pubblicata per la prima volta dallo stesso Riant, sulla rivista Archives de l’Orient Latin nel 1881 a Parigi, fu poi ripubblicata negli Atti della Reale Accademia Lucchese di Scienze, Lettere e Arti nel 1883 col titolo: Un documento lucchese riguardante la prima crociata. 2-11 ottobre 1098.

Lettera alla cristianità

Nel documento, il clero e il popolo lucchese rendono noto quanto testimoniato direttamente da Bruno riguardo l’impresa antiochena, a cui egli stesso aveva partecipato. La lettera in questione è indirizzata alla cristianità tutta, compresi i piú alti prelati dell’Occidente, in concomitanza con il concilio di Bari, presieduto dallo stesso Urbano II, in occasione del quale si sarebbe dovuto, tra l’altro, fare il punto in merito alla spedizione in partibus infidelium e dove si esortava il papa stesso a prender parte al pellegrinaggio armato. Bruno si sarebbe imbarcato su una nave inglese che aveva fatto scalo a Pisa, alla volta del Vicino Oriente per approdare nel porto di San Simeone ad Antiochia tra il 4 e il 5 maggio del 1098. Le date sono confermate da Raimondo di Aguilers, principale cronista dell’impresa crociata antiochena. Bruno partecipò all’assedio a cui seguí la conquista di Antiochia e rimase chiuso tra le mura della città dopo che le truppe dell’emiro di Mossul Kerbogha l’avevano a loro volta posta sotto assedio. Fu inoltre testimone oculare del ritrovamento della Santa Lancia con la quale il centurione romano Longino aveva trafitto il costato di Gesú sulla Croce, nonché della definitiva vittoria dell’esercito crociato

sui Saraceni, il 28 giugno del 1098. Bruno riferisce anche dell’apparizione celeste che annunciava il trionfo in battaglia dei crociati. Seguendo il suo racconto, egli si sarebbe trattenuto ad Antiochia per circa tre settimane dopo la conquista della città e, intorno al 20 luglio, si sarebbe imbarcato per l’Italia, dove giunse dopo circa due mesi: tra gli ultimi giorni di settembre e i primi di ottobre del 1098. Non prese parte dunque alla conquista di Gerusalemme, che sarebbe avvenuta circa un anno dopo. Fu festa grande a Lucca quando Bruno vi fece ritorno. Il Capitolo, il clero e i cittadini lucchesi, illustri e non, resero omaggio a colui che «Partecipe dei trionfi e della gloria, combattè con i combattenti, soffrí con i sofferenti, esultò con i vincitori», come è scritto nella lettera rinvenuta dal Riant. L’aventure di Bruno, crociato lucchese, oltre a fare il giro del mondo cristiano-occidentale dell’epoca, si impresse profondamente nell’immaginario collettivo e nell’epopea cittadina. Ne è un esempio Tolomeo da Lucca, che, nei suoi Annales, relativi alla storia della città, colloca la caduta di Gerusalemme in mani cristiane proprio nel 1098. Quell’errore di datazione non può forse essere dovuto alla memoria storica di una città che aveva legato gli avvenimenti piú importanti della prima crociata alla tradizione dell’impresa di Bruno, cittadino-eroe del popolo di Lucca?

Da leggere Sergio Pagano, Pierantonio Piatti, (a cura di), Il patrimonio documentario della chiesa di Lucca. Prospettive di ricerca, SISMEL, Edizioni del Galluzzo, Firenze 2010 Raoul Manselli, Italia e italiani alla prima crociata, Jouvence, Roma 1983 Augusto Mancini, Storia di Lucca, MPF, Lucca 1999

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CALEIDO SCOPIO

Specchi di un’epoca LIBRI • Dittici in avorio, reliquiari smaltati, miniature, croci e corone sono

tradizionalmente classificati come espressioni delle «arti minori». In realtà, si tratta di un patrimonio secondario solo di nome e che, soprattutto per il Medioevo, ci permette di conoscere da vicino lo spirito e l’atmosfera culturale del tempo

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quindici anni dalla sua prima edizione, torna nelle librerie un’opera dedicata a quelle produzioni artistiche che un severo Bernardo di Chiaravalle giudicò utili a soddisfare la «concupiscenza degli occhi». E, in effetti, scorrendo i capitoli introduttivi del volume, si colgono le difficoltà incontrate dalle cosiddette «arti minori» a farsi accettare come espressioni della creatività umana degne di considerazione analoga a quella solitamente riservata alla pittura o alla scultura. Una difficoltà di cui è specchio la definizione stessa assegnata a queste opere, che induce a considerarle inferiori, secondarie, quando non addirittura frutto di una produzione industriale, come è accaduto con il termine tedesco Kunstindustrie. È invece doveroso andare oltre le terminologie e

riconoscere a oreficerie, avori, miniature o smalti il loro giusto ruolo nella storia dell’arte ed è questa l’operazione compiuta da Liana Castelfranchi.

Piccolo gruppo in avorio raffigurante una Madonna in Trono. 1000 circa. Magonza, Landesmuseum.

L’importanza del contesto In sei capitoli, arricchiti da un corredo iconografico di grande pregio, viene dunque proposta una rassegna che non può certo essere esaustiva, ma che porta alla ribalta quanto di meglio è stato realizzato, in tutta Europa, fra l’età tardoimperiale e gli ultimi secoli del Medioevo. Una selezione che, oltre all’estetica, è stata definita anche secondo il principio della contestualizzazione, perché, come scrive l’autrice del volume, dovendo scegliere, ha preferito escludere «singole opere di grande qualità ma che non sono riferibili a un contesto storico specifico, non “fanno storia”». L’apparato testuale è dunque descrittivo, ma puntuale e permette di conoscere sia,

Liana Castelfranchi Lo splendore nascosto del Medioevo. Arti minori, V-XIV secolo Jaca Book, Milano, 240 pp., ill. col. 80,00 euro ISBN 978-88-16-60609-8 www.jacabook.it

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Lo scaffale Daniele Giusti I Gaddi da pittori a uomini di governo Ascesa di una famiglia nella Firenze dei Medici Leo S. Olschki Editore, Firenze, 234 pp.

32,00 euro ISBN 978-88-222-6662-0 www.olschki.it

Formella smaltata raffigurante Salomone e la regina di Saba, particolare della pala realizzata da Nicolas de Verdun per i canonici regolari di Klosterneuburg. 1183. Klosterneuburg, Stiftmuseum. ove noti, i nomi di grandi artisti e maestri artigiani – come Vuolvinio o Nicolas de Verdun –, sia le committenze, laiche ed ecclesiastiche, che stimolarono la creazione di un repertorio estremamente variegato e per i quali si fece ricorso a una gamma eccezionalmente ricca di materie prime. Comuni alle arti «maggiori» erano le principali fonti di ispirazione per i soggetti di volta in volta raffigurati, plasmati, incisi o fusi in oro e argento: dai celebri episodi della mitologia antica alle storie sacre. E di fronte a capolavori quali la cattedra eburnea di Massimiano o la Pala di Klosterneuburg si comprende perché Castelfranchi ribadisca come le arti minori, forse ancor piú delle loro illustri «sorelle», si rivelino in grado di esprimere la sensibilità artistica e la creatività del Medioevo. Stefano Mammini

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Il volume offre uno spaccato di estremo interesse sulla vita culturale, sociale ed economica della Firenze quattro-cinquecentesca. Quel torno di tempo, per molti versi irripetibile, viene ripercorso attraverso le vicende biografiche degli esponenti della famiglia Gaddi che piú degli altri ne costruirono la fortuna: Agnolo di Zanobi (1398-1474) e suo figlio Francesco (1441-1504). Il primo – omonimo e nipote del pittore al quale si devono gli affreschi della Leggenda della Vera Croce nella basilica fiorentina di S. Croce – pose le basi per il decollo imprenditoriale della casata, dedicandosi alla mercatura, fino a farne la propria occupazione principale. Corroborata da accorte scelte matrimoniali, la sua fu un’ascesa costante, che si accompagnò al respiro sempre piú internazionale delle attività commerciali e finanziarie. Parallellamente,

cominciò a tessere la trama dei rapporti con i Medici, che non minore importanza ebbe nei successi conseguiti. Una trama ripresa e resa ancora piú fitta da Francesco, il quale si mosse nel solco del padre e, senza tralasciare una solida formazione umanistica, si occupò assiduamente delle imprese di famiglia e, soprattutto, consolidò la posizione dei Gaddi nel novero delle famiglie che, a rotazione, rivestirono le principali cariche del governo mediceo. S. M. Franco Cardini Luigi Russo Homo viator Il pellegrinaggio medievale

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La Vela, Viareggio, 278 pp.

16,00 euro ISBN 978-88-99661-58-8 www.edizionilavela.it

A colui che decide di intraprendere un cammino, un viaggio alla ricerca di sé, del centro, del luogo della

devozione, è dedicato questo piccolo ma intenso volume. L’homo viator, infatti, è il viaggiatore cristiano, intento a esplorare la spiritualità piú intima e nascosta attraverso un reale ed effettivo spostamento da un luogo all’altro. Partendo dalle sue origini antiche (il pellegrinaggio cristiano si fonda sulla tradizione ebraica della salita verso la Città Santa, nonché

sulla consuetudine del viaggio alla volta di un centro sacrale – si pensi soltanto ai santuari oracolari – dell’antichità greco-romana), il volume affronta, con nuove e illuminanti riflessioni, l’intero fenomeno del pellegrinaggio medievale, con i suoi protagonisti, i luoghi e gli oggetti che lo sostanziano. Offrendo al lettore, credente o meno, piú di uno spunto perché si trasformi, egli stesso, in moderno… homo viator. A. M. S.

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