MEDIOEVO n. 280 MAGGIO 2020
UN D ...F A C AN OR OM T TU M E NA ED TA IA
EDIO VO M E www.medioevo.it
UN PASSATO DA RISCOPRIRE
Mens. Anno 24 numero 280 Maggio 2020 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
CONTAGIO ANIMALI, CIBI E MALATTIE NELL’ETÀ DI MEZZO
DOSSIER COME DIVENTARE PRINCIPI NEL QUATTROCENTO INGHILTERRA ALLE ORIGINI DEL GUSTO GOTICO
L’ARTE DELLA GUERRA IL MEDIOEVO PRIMA DEI CASTELLI www.medioevo.it
€ 5,90
CIBO E CONTAMINAZIONE DIVINA COMMEDIA REVIVAL GOTICO PRIMA DEI CASTELLI DOSSIER COME SI DIVENTA PRINCIPI
LA PAURA DEL
IN EDICOLA IL 5 MAGGIO 2020
SOMMARIO
Maggio 2020 ANTEPRIMA MEDIOEVO INVENTORE Quel dono dei Mamelucchi ARCHEOLOGIA Nella Daunia dei Cavalieri Teutonici
L’ARTE DELLA GUERRA Motte castrali
6
INCONTRI Vitalità del Medioevo
13
MEDIEVALISMO/12 Quel sogno d’ordine di Davide Iacono
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42 LETTERATURA
18
Divina Commedia
Sulla bocca di tutti di Paolo Garbini
STORIE di Laura Prosperi
76
Inghilterra vittoriana 10 14
ALIMENTAZIONE/1 Quando il nemico è nel piatto
di Flavio Russo
COSTUME E SOCIETÀ
RESTAURI Due vite in dodici scene Un prezioso lavoro di squadra
APPUNTAMENTI Con l’avallo del papa
Di terra e legno
5
56
26
26
64 CALEIDOSCOPIO LIBRI Oltre la contemplazione Lo scaffale
56
Dossier PRINCIPI SI DIVENTA
di Isabella Lazzarini
ALIMENTAZIONE/2 Molte miserie e poche nobiltà di Elisabeth Crouzet-Pavan e Fabien Faugeron
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85
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20/04/20 16:00
MEDIOEVO Anno XXIV, n. 280 - maggio 2020 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it
Hanno collaborato a questo numero: Sabina Addamiano è docente di Sustainability and Cultural Awareness nell’Università Roma Tre. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Elisabeth Crouzet-Pavan è professore di storia medievale all’Université Paris IV-Sorbonne. Fabien Faugeron è professore associato di storia medievale all’Université Paris IV-Sorbonne. Giampiero Galasso è giornalista. Paolo Garbini è professore associato di letteratura latina medievale e umanistica presso «Sapienza» Università di Roma.Davide Iacono è storico del Medioevo. Mila Lavorini è giornalista. Isabella Lazzarini è professore associato di storia medievale presso l’Università degli Studi del Molise. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Daniele Molinari è presidente dell’Associazione Giostra di Cesena ASP. Silvia Prosperi è assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina (e p. 28) e pp. 17, 26/27, 29-33, 34 (basso, sinistra e destra), 35-37, 40-53, 56-57, 58/59, 60, 61, 85, 87-89, 91, 96-97, 98, 98/99, 102-111 – Cortesia Cooperativa Frequenze: Emiliano Moccia: pp. 6-9 – Cortesia Museo dell’Opera del Duomo, Firenze: Antonio Quattrone: pp. 10-12 – Cortesia Ufficio Stampa Opera Laboratori Fiorentini-Civita: pp. 14-16 – Cortesia degli autori: pp. 18-22, 70-71, 73, 76-83 – Erich Zangheri: p. 23 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 34 (alto), 39, 58, 60/61, 66, 67, 68/69, 74-75, 92 (alto), 93, 100/101; Album/Prisma: pp. 38/39; Fine Art Images/Heritage Images: pp. 62-65; The Print Collector/Heritage Images: pp. 66/67; Album/Quintlox: p. 68; Ashmolean Museum, University of Oxford/Heritage Images: p. 72; Album/Fine Art Images: p. 90; Erich Lessing/Album: p. 92 (basso); Index/Heritage Images: pp. 94/95; Electa/Antonio Quattrone: p. 99. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.
Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano
In copertina La cuoca (particolare), olio su tela di Joachim Beuckelaer. Seconda metà del XVI sec. Tolone, MAT-Musée d’Art de Toulon.
Prossimamente spagna
E venne il tempo dei «re cattolici»
medioevo nascosto
Arte catalana in Campania
campaldino 1289
Il castello di Poppi e i luoghi della battaglia
MEDIOEVO INVENTORE a cura di Federico Canaccini
Quel dono dei Mamelucchi
L
a cosiddetta «magia bianca» non è certo un’invenzione medievale: il mago Dedi, intorno al 2600 a.C., intrattenne il faraone Cheope (sovrano della IV dinastia) riattaccando a un’oca la testa appena mozzata, e Alessandro Magno volle che la sua festa di nozze fosse rallegrata da giocolieri e prestigiatori. Anche nel Medioevo non mancavano i maghi: i vari tipi di intrattenitori erano chiamati «joculatores» (giocoliere, jongleur, juggler), funamboli e prestigiatori. Questi artisti di strada erano presenti nelle piazze d’Europa già prima del Mille e il loro numero crebbe sino al Duecento. La loro popolarità è testimoniata dai ritratti scultorei nelle chiese romaniche e persino dalla leggenda francese di Barnaba, il quale, fattosi monaco, si esibiva davanti all’altare per rallegrare la Madonna. Di contro, la diminuzione di queste sculture nell’arte gotica conferma i progressivi divieti imposti dalle autorità: già nel IX secolo, Rabano Mauro aveva composto un trattatello Sui giochi di prestigio dei maghi e le false divinazioni; poi, al tempo di Luigi IX, in Francia, fu interdetto l’esercizio dei giochi di prestigio. Tra i giocolieri che riuscivano a esibirsi, c’era chi stava in verticale poggiando la mano sulla punta della spada, e chi invece la ingoiava; ne Il Prestigiatore, un olio su tavola attribuito a Hieronymus Bosch, si vede un mago intento a esibirsi nel famoso numero dei Bussolotti. Tra i giochi di maggior successo, vi erano senza dubbio quelli di carte, che nascono proprio nel Medioevo. Alla fine
del Trecento, probabilmente portati dai Mamelucchi egiziani, fanno la loro comparsa i primi mazzi, composti da 52 carte, raffiguranti spade, coppe, denari e bastoni da polo. Le tre figure erano Re, Vicerè e Secondo Vicerè. In Occidente il mazzo fu adattato alla società del tempo: fu introdotta una Regina (che talvolta valeva piú del Re!) e poi Cavalieri e Servi. Nei mazzi prodotti a Rouen, le figure furono identificate con personaggi storici o mitici: i 4 re erano Davide, Alessandro Magno, Cesare e Carlo Magno; le regine Pallade, Rachele, Giuditta e l’enigmatica Argine, forse anagramma di Regina. I fanti, infine – knave in inglese, e solo piú tardi jack – erano niente meno che Ettore, Giuda Maccabeo (ma a volte Lancillotto), La Hire – amico di Giovanna d’Arco – e Uggeri il Danese, cavaliere di Carlo Magno. Anche i «semi» ebbero grandi varianti, che perdurano ancora oggi: verso la fine del XV secolo, Cuori, Campane, Foglie, Ghiande evolvono nei segni che ben conosciamo. I Cuori non cambiano praticamente né nel colore, né nel nome, né nel disegno. I Fiori sono la resa del Trifoglio, a sua volta stilizzazione della Ghianda; le Picche derivano dalle Foglie, di colore verde, ma assumono il nome di un’arma (la Picca, in analogia con la Spada; non a caso in Inghilterra vengono chiamate Spades, che significa però «vanghe»); i Quadri, infine, vengono definiti Diamonds. Tali segni fecero la loro comparsa persino sulle lamelle delle armature dei cavalieri, attestando il successo del gioco probabilmente piú diffuso al mondo.
Bozzetto per fanti destinati a un mazzo di carte francesi realizzato a Lione, da Giles Savouré. 1490-1500. Londra, The Victoria and Albert Museum. È interessante osservare come le figure abbiano tratti molto piú realistici di quelli che solitamente caratterizzano le carte oggi in uso, nelle quali prevale invece la stilizzazione dei personaggi.
MEDIOEVO
maggio
ANTE PRIMA
Nella Daunia dei Cavalieri Teutonici
ARCHEOLOGIA • Nei
pressi di Cerignola, nel Foggiano, una poderosa masseria fortificata domina il Tavoliere: è Torre Alemanna, un complesso nato, come s’intuisce dal nome, per volere dell’Ordine Teutonico e testimone di una lunga storia di assistenza ai pellegrini diretti in Terra Santa 6
N
el cuore della Daunia, a ridosso di due importanti vie di comunicazione riferibili al tracciato di antichi tratturi della transumanza (Stornara-Lavello, CandelaMontegentile), a 18 km da Cerignola (Foggia), lungo la strada provinciale 95, si trova l’unico complesso masseriale fortificato nell’area del Mediterrano appartenuto all’Ordine religioso-militare di Santa Maria in Gerusalemme, meglio noto come Ordine dei Cavalieri Teutonici, fondato sul finire del XII secolo in Terra Santa da crociati tedeschi con funzioni di assistenza caritativa e militare, prendendo come modello i Templari e gli Ospitalieri. Il complesso monumentale, che si
estende per oltre 4500 mq su un lieve colle a dominio del Tavoliere pugliese, nell’attuale frazione Borgo Libertà, è caratterizzato dalla presenza dell’imponente Torre Alemanna: si tratta di una torre d’avvistamento a pianta quadrata (10 m di lato, per 24 di altezza), la cui costruzione risale al primo quarto del XIV secolo, e alla quale sono annessi una serie di corpi di fabbrica edificati nel tempo con funzioni residenziali e produttive.
Il dono dell’imperatore Lo stesso toponimo di Turri de Alamagnis, già riportato in un documento del 1334, rinvia ai Cavalieri Teutonici, ai quali Federico maggio
MEDIOEVO
Sulle due pagine Torre Alemanna (Borgo Libertà, Cerignola, Foggia). Vedute degli esterni e di un ambiente interno. La struttura, che è il solo complesso masseriale fortificato della regione mediterranea, sorse nella prima metà del XIV sec. per iniziativa dell’Ordine dei Cavalieri Teutonici.
Avviso ai lettori anche questo numero di «Medioevo» è stato redatto in vigenza dei provvedimenti mirati a contenere la diffusione del COVID-19. Abbiamo perciò preferito rinunciare alla consueta Agenda del Mese, in quanto non è al momento possibile definire le eventuali variazioni delle date di apertura e chiusura delle mostre in corso e in programma. Vi invitiamo anche a verificare ulteriori aggiornamenti attraverso il nostro sito web (www.medioevo.it) e gli altri canali social della rivista: Facebook @medioevo.unpassatodariscoprire, Instagram @medioevo_rivista, Twitter @_medioevo
MEDIOEVO
maggio
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ANTE PRIMA
In alto gli affreschi che, sopra finti velaria, mostrano una teoria di clipei intrecciati, con immagini di santi vescovi. Seconda metà del XIII sec. A destra un ambiente situato al secondo livello della Torre Alemanna. Nella pagina accanto una delle sale del Museo della Ceramica. II di Svevia fece dono nel settembre 1231 (dal 26 maggio al 10 settembre di quell’anno l’imperatore si trovava a Melfi) delle terre ubicate in prossimità del casale fortificato di Cornetum, raso al suolo nel 1349 durante la guerra dinastica tra la regina Giovanna I d’Angiò e Carlo d’Angiò Durazzo e i cui resti distano a due chilometri dalla torre.
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Per gestire queste proprietà rurali, che si estendevano per 2800 ettari, il Gran Maestro dell’Ordine Ermanno di Salza, amico e consigliere dell’imperatore svevo, vi fece istituire da fratelli-cavalieri, dopo il 1231, una commenda autonoma, dando vita a un’azienda agricola cerealicola e zootecnica, organizzata in una complessa struttura dotata
di corpi perimetrali destinati a stalle e vani funzionali, il cui scopo era quello di produrre derrate alimentari con le quali rifornire le sedi del baliato di Puglia dell’Ordine Teutonico dedite all’assistenza dei pellegrini diretti in Terra Santa. Nei primi anni del Trecento vi fu elevata la monumentale torre, che si articola su tre livelli superiori, maggio
MEDIOEVO
con funzioni sia abitative, sia di controllo sul territorio, inglobando nelle fondazioni le strutture murarie di un preesistente edificio di culto duecentesco – dedicato a santa Maria dei Teutonici –, che venne demolito per fare spazio alla nuova costruzione, oggi nucleo centrale della cittadella fortificata. Proprio all’interno di quello che doveva costituire il presbiterio a pianta quadrata della chiesa preesistente, di cui si conserva l’arco trionfale sulla parete ovest e la volta a crociera costolonata poggiante su quattro esili colonnine con capitelli gotici «a crochet», una serie di interventi di restauro hanno messo in luce su tre lati un ciclo di pitture parietali databili alla seconda metà del XIII secolo. Si tratta di affreschi che raffigurano finti velaria, sovrastati da clipei intrecciati, con immagini di santi vescovi sulla parete sud, scene tratte dalla Vita e Passione di Cristo e, sulla parete nord, il Lignum vitae, l’Albero della Croce ispirato all’opera del francescano
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Bonaventura da Bagnoregio. I restauri hanno anche rilevato la presenza di una serie di graffiti in caratteri gotici e altri segni incisi, tra cui uno scudo araldico con i tre martelli, un nodo di Salomone, astri e un cavaliere con mantello e cimiero. Un gruppo di graffiti costituiti da un segno verticale scandito in sette porzioni fa invece pensare a indicatori temporali.
Novità dagli scavi Scavi archeologici condotti all’interno del presbiterio hanno accertato la preesistenza di un’altra abside, appartenente a un edificio di culto piú antico forse del X-XI secolo, mentre all’esterno è emersa un’area funeraria in cui sono state rinvenute sepolture a fossa e resti antropologici. Ulteriori indagini archeologiche condotte nel complesso fortificato – che hanno rivelato le stratigrafie della piú antica fase di occupazione del sito (XIII secolo) – hanno poi portato alla scoperta della camera
di combustione di una fornace medievale per la produzione di ceramiche o laterizi e tre «butti» sigillati che hanno restituito una notevole quantità di frammenti ceramici post-medievali: da questi ultimi provengono numerose ciotole acrome e rivestite in protomaiolica e invetriata dipinta in rosso e bruno (XIII-XIV secolo), piatti e ciotole graffite policrome (prima metà del XVI secolo) e ceramiche invetriate policrome «tipo Bari» (XV-XVI secolo). Tutti i reperti sono oggi esposti nel Museo della Ceramica allestito nelle cinque sale del cinquecentesco Palazzo dell’Abate, edificio signorile costruito nella seconda metà del XVI secolo all’interno della cittadella fortificata dal cardinale Nicola Caetani di Sermoneta, dopo che ormai in età aragonese (seconda metà del XV secolo), il grande patrimonio fondiario fu tolto all’Ordine Teutonico per essere concesso dal papato ai cardinali commendatari. Giampiero Galasso
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ANTE PRIMA
Due vite in dodici scene RESTAURI • Sul finire del Trecento, una
nobile vedova veneziana donò al Battistero di Firenze un prezioso dittico a micromosaico di produzione bizantina. Un manufatto di qualità eccelsa, oggi conservato nel Museo dell’Opera del Duomo e oggetto di un recente restauro
I
l grande fervore che caratterizzava l’ambiente intellettuale di Firenze e il fascino esercitato dalla cultura greca incrementarono l’arrivo, fra Tre e Quattrocento, di manufatti pregevoli, che andarono ad arricchire fondi come quello dell’Arte di Calimala, la potente corporazione fiorentina dei mercanti che si occupavano del commercio internazionale di prodotti tessili. Politicamente ed economicamente influenti, i membri di questo «sindacato» sponsorizzavano le attività e la manutenzione di uno dei piú importanti monumenti del centro storico del capoluogo toscano, il Battistero, dedicato proprio al loro protettore, san Giovanni Battista. Nel 1394, Nicoletta Grioni, veneziana residente a Costantinopoli e vedova del nobile Antonio di Pietro Torrigiani, un funzionario della corte bizantina di Giovanni VI Cantacuzeno, donò al Battistero un’icona a mosaico e un gruppo di reliquari, facenti parte di una stessa raccolta, assemblata nella capitale imperiale da esperti mosaicisti: un caso emblematico, che attesta quanto fosse complessa la rete di rapporti e scambi stabilita da Venezia con altre città italiane. Mercanti, ecclesiastici e
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rappresentanti diplomatici della Serenissima ebbero un ruolo fondamentale per la circolazione tra Bisanzio e l’Occidente della produzione artistica realizzata oltremare tra il IX e il XV secolo.
Centinaia di tessere Bene di lusso e oggetto di devozione, il dittico musivo Grioni è oggi conservato nel Museo dell’Opera del Duomo ed è stato oggetto di un intervento di restauro condotto dall’Opificio delle Pietre Dure. Il prezioso manufatto è composto da una coppia di tavolette realizzate con centinaia di minuscole tessere in oro, vetro e lapislazzuli, incastrate in un sottile strato di cera e incorniciate da lamine d’argento lavorate a sbalzo, in parte dorate e smaltate. Si tratta di una raffinata esecuzione con microicone a mosaico (56 x 37 cm, inclusa la cornice) – nelle quali sono rappresentati dodici episodi delle vite di Gesú Cristo e Maria, corrispondenti alle maggiori festività liturgiche – che, stilisticamente, ricorda alcune soluzioni formali dei mosaici e degli affreschi trecenteschi della chiesa di S. Salvatore in Chora, a Istanbul; quest’ultima, che è uno dei piú pregevoli esempi di architettura
In alto particolare del retro di uno dei pannelli del dittico con lo stemma dell’Arte di Calimala, consistente in un’aquila che ghermisce un torsello, cioè una balla di stoffe arrotolate, che era la forma in cui queste mercanzie venivano confezionate per il trasporto. Nella pagina accanto uno dei pannelli del dittico, con sei dei dodici episodi della vita del Cristo e della Vergine. Ante 1354. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo. sacra bizantina, custodisce tesori pittorici i cui elementi distintivi si diffusero proprio attraverso le opere trasportabili, come questa, considerata un capolavoro dell’arte di Bisanzio. Basandosi sulla comparazione con altre icone portatili e miniature, si ipotizza che il dittico risalga alla prima metà del XIV secolo, presumibilmente databile non oltre il 1354, anno in cui Giovanni Cantacuzeno fu espulso dall’impero da Giovanni Paleologo e costretto a farsi monaco. In ogni riquadro, il «titolo» della scena è in greco, con lettere contraddistinte maggio
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ANTE PRIMA L’altro pannello del dittico a micromosaico. Ante 1354. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo. Gli episodi della vita del Cristo e della Vergine raffigurati nei riquadri corrispondono alle maggiori festività liturgiche.
da accenti e spiriti, introdotti in epoca alessandrina, per facilitare la pronuncia delle parole. Ciascun pannello è montato in una seconda intelaiatura di legno intagliato e dorato, tardo-quattrocentesca, sul cui retro è dipinta l’aquila che
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ghermisce un torsello (una balla di stoffe arrotolate), simbolo dell’Arte di Calimala. I dittici, lignei o eburnei, erano in origine usati, internamente, come lavagnette per scrivere, ma successivamente diventarono regali per personaggi illustri, in occasione
di eventi speciali, con decorazioni su ambo le superfici; da iniziali oggetti profani si trasformarono in simboli del culto cristiano, come altaroli che accompagnavano i proprietari nei loro spostamenti. Mila Lavorini maggio
MEDIOEVO
Vitalità del Medioevo INCONTRI • Lo studio, l’interpretazione e la
percezione della cultura dell’età di Mezzo al centro di un seminario organizzato dall’Università Roma Tre
I
l Medioevo come artefatto culturale europeo, i medievalismi succedutisi nei secoli, la storia medievale e la loro valorizzazione attraverso il Festival del Medioevo: se ne è parlato il 2 aprile in un seminario organizzato all’Università Roma Tre nell’ambito del corso Sustainability and Cultural Awareness. I relatori hanno offerto a un pubblico internazionale di studenti e studiosi una molteplicità di prospettive disciplinari su questi temi appassionanti. Federico Fioravanti, ideatore e presidente del Festival del Medioevo, ha raccontato la genesi di questa manifestazione unica, che coniuga ogni anno una rigorosa ricerca storica, un parterre di qualificati relatori europei e un pubblico proveniente da ogni parte d’Italia. Subito dopo, Tommaso di Carpegna Falconieri si è soffermato sull’intreccio delle tre dimensioni – Medioevo, medievalismi e storia medievale – che nel Festival e nella cultura contemporanea fanno di noi non solo i figli, ma anche i genitori del Medioevo. La straordinaria vitalità della relazione tra il Medioevo e l’oggi è stata illustrata, tra l’altro, con un meme che parla da solo, realizzato da Davide Ravaioli e pubblicato attraverso i canali social del sito MediaEvi. Il passato al presente.
Narrazione e digitalizzazione Vito Loré ha poi ripercorso l’evoluzione della storiografia sul Medioevo, dalle grandi narrazioni che si sono succedute fino agli anni Ottanta del Novecento alla difficoltà attuale di estrapolare un
MEDIOEVO
maggio
paradigma interpretativo valido a livello europeo da una messe di dati digitalizzati via via crescente e relativa a un ambito spesso molto circoscritto. L’utilizzazione di dati e tecnologie digitali per valorizzare presso il grande pubblico l’arte medievale è stata quindi oggetto dell’intervento di Giulia Bordi. Mediazione culturale, tipologie degli apparati critici, livelli di conoscenza storica e tecnica, tempo e soglie di attenzione per leggere e comprendere gli artefatti culturali medievali (e non solo) sono stati i temi toccati dal suo intervento, che ha suscitato tra l’altro un dibattito collaterale sullo spazio occupato nel Festival dalle discipline storico-artistiche. La discussione successiva si è concentrata sull’analisi del Festival del
Il meme di Davide Ravaioli realizzato per il sito MediaEvi. Il passato al presente. Medioevo in chiave di sostenibilità sociale, ambientale, economica e culturale, e ha confermato le forti potenzialità di sviluppo offerte della dimensione europea. Il lavoro di ricerca su questa iniziativa culturale, che costituisce un unicum nel panorama delle maniffestazioni dedicate al Medioevo, proseguirà anche prossimi anni. Sabina Addamiano
Un progetto fortemente innovativo Il corso Sustainability and Cultural Awareness fa parte del curriculum in inglese «Innovation and Sustainability» del corso di laurea in economia e management attivato presso Roma Tre; si inserisce altresí in un accordo di cooperazione tra Roma Tre, l’Università di Groningen e il Reale Istituto Neerlandese di Roma (KNIR). L’accordo, stipulato nel 2014, ha consentito a numerosi studenti internazionali di fruire degli insegnamenti tenuti in vari dipartimenti di Roma Tre, e di conoscere prestigiose istituzioni culturali italiane. La collaborazione tra i partner ha inoltre dato vita a un corso di laurea magistrale denominato «Cultural Leadership/Strategie e politiche per le organizzazioni culturali», che sarà attivato dal prossimo anno accademico. Il corso ha un carattere fortemente innovativo: incardinato per Roma Tre nel Dipartimento di Studi Umanistici, si svolgerà interamente in inglese e sarà fortemente orientato allo sviluppo di competenze di ricerca. Gli insegnamenti si terranno sia a Roma che a Groningen; nel secondo anno, gli studenti svolgeranno un lungo periodo di traineeship presso istituzioni culturali di diversi Paesi europei. Info saddamiano@uniroma3.it
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ANTE PRIMA
Un prezioso lavoro di squadra RESTAURI • Alla metà del
Quattrocento, la famiglia Graziani di Sansepolcro e la chiesa di S. Giovanni in Val d’Afra si fanno committenti di questo magnifico trittico. Al quale lavorarono, in tempi diversi, tre dei massimi artisti del tempo: Antonio d’Anghiari, Matteo di Giovanni e Piero della Francesca Sulle due pagine Trittico di San Giovanni in Val d’Afra, tempera su tavola di Matteo di Giovanni. 1455 circa. Sansepolcro, Museo Civico. Nelle due tavole principali, i Santi Pietro e Paolo; nei pilastrini laterali, altre figure di Santi; nella predella, Storie del Battista, Crocifissione e Quattro Dottori della Chiesa. Nella pagina accanto Strage degli Innocenti (particolare), scena del pavimento a commesso marmoreo realizzata su cartone di Matteo di Giovanni. 1481. Siena, Cattedrale. Dida, niet qui odio quisquunt, soluptae? Pe moloressenim estis enduci quia nim sequi doluptu rescius eni optiur, quae
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maggio
MEDIOEVO
È
stato recentemente ultimato il restauro del Trittico di San Giovanni in Val d’Afra di Matteo di Giovanni, oggi conservato nel Museo Civico di Sansepolcro. Il ricollocamento del Trittico ha rappresentato per il Museo un momento molto importante, perché ha restituito al mondo un’opera di eccezionale importanza e ha permesso di mostrare i risultati delle indagini scientifiche effettuate in occasione dell’intervento di restauro e di approfondire gli studi storico-artistici. Si spera, inoltre, nel coinvolgimento futuro, oltre che dell’Opificio delle Pietre Dure (che ha curato il restauro insieme al Polo Museale della Toscana), dei tecnici della National Gallery di Londra,
MEDIOEVO
maggio
per lo studio della connessione dell’opera con il Battesimo di Piero della Francesca.
Una genesi complessa La storia del Trittico di San Giovanni in Val d’Afra è molto complessa, poiché venne realizzato in piú tempi, con la partecipazione di Antonio d’Anghiari, Piero della Francesca e Matteo di Giovanni. Al primo si rifece la progettazione dell’impaginato generale dell’opera, realizzato poi da un carpentiere locale, a cui è stata commissionata la parte lignea nel 1433. Il prezioso intagliato, che ancora oggi si può osservare nelle cornici, nei capitelli fogliati, nelle cuspidi e nella foggia
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ANTE PRIMA degli archetti trilobati, rientra nella tradizione tardo-gotica senese. L’esecuzione della tavola centrale con il Battesimo, dipinta da Piero della Francesca, è da riferire probabilmente agli anni 14441447, dopo il soggiorno fiorentino del maestro. Destinata alla chiesa di S. Giovanni in Val d’Afra da Sansepolcro, l’opera portava con sé i segni della dedicazione della chiesa stessa al Battista. I molteplici incarichi di Piero non gli consentirono con probabilità di
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prestare fede agli impegni assunti e, intorno al 1455, Matteo di Giovanni subentrò all’incarico. Il complesso fu scomposto e privato dello scomparto centrale nel 1857, per essere venduto alla National Gallery di Londra, dove fece il suo ingresso nel 1861.
Stemmi e figure di santi Matteo di Giovanni eseguí su fondo d’oro i laterali con i Santi Pietro e Paolo e la predella, dove sono raffigurati gli stemmi della famiglia Graziani e della Chiesa, a cui il trittico era
destinato. La zona basamentale è suddivisa in cinque scene, con Storie del Battista, Crocifissione e Quattro Dottori della Chiesa. Nei laterali, le figure dei Santi emulano lo stile di Piero, nella possente volumetria dei corpi, accentuata dal forte chiaroscuro. Si tratta di una delle pagine piú alte della poetica figurativa di Matteo di Giovanni, nativo di Sansepolcro, ma operante a Siena nell’entourage del Vecchietta. Il Trittico appare comunque incongruo nelle dimensioni rispetto alla
maggio
MEDIOEVO
A destra Battesimo di Cristo, tempera su tavola di Piero della Francesca. Post 1437. Londra, National Gallery. Come viene illustrato dallo schema, si è da sempre ipotizzato che l’opera costituisse l’elemento centrale del Trittico di San Giovanni in Val d’Afra. Tuttavia, anche alla luce del recente intervento di restauro, è stata riconosciuta la necessità di condurre nuovi accertamenti sull’effettiva appartenenza della tavola al polittico oggi conservato nel Museo Civico di Sansepolcro.
tavola centrale del Battesimo, che rendono necessari ulteriori studi e approfondimenti circa i tempi e le modalità di esecuzione dell’opera. In precedenza, la tavola era stata smontata in due occasioni: nel 2009, in seguito all’avvio della campagna di studio sulla carpenteria e all’esecuzione di indagini in funzione della sua comparazione con il Polittico
MEDIOEVO
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della Misericordia di Piero, durante il quale, a causa di vari fattori di criticità, erano stati eseguiti minimi interventi di messa in sicurezza; e nel 2014, in occasione dei lavori di adeguamento antisismico del Museo, durante il quale il Trittico venne nuovamente smontato e si decise di programmare l’intervento di restauro vero e proprio.
Il restauro del Trittico di San Giovanni in Val d’Afra è stato eseguito da Rossella Cavigli del Polo Museale della Toscana, inizialmente in collaborazione con l’Opificio delle Pietre Dure (per la parte tecnica), sotto la direzione di Paola Refice della SABAP, a cui è subentrata Felicia Rotundo, presso il Laboratorio di Restauro della Soprintendenza di Arezzo. (red.)
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ANTE PRIMA
Con l’avallo del papa
APPUNTAMENTI • I preparativi per l’edizione 2020
della Giostra all’Incontro di Cesena hanno subíto una brusca battuta d’arresto a causa dell’emergenza sanitaria. Ma la rievocazione è solo rinviata e, in attesa di veder nuovamente sfilare e battersi i cavalieri, ripercorriamo la storia plurisecolare di un evento centrale nella memoria della città romagnola
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Italia è ricca non solo di monumenti e opere d’arte, ma anche di quel patrimonio di conoscenze e tradizioni convenzionalmente ricompreso nella definizione di «patrimonio immateriale». Cosí, scartabellando tra cronache e archivi, si scoprono storie affascinanti, come quella della Giostra all’Incontro di Cesena, una delle piú antiche giostre italiane e probabilmente la piú longeva: fu infatti tenuta in modo sostanzialmente ininterrotto dal 1465 (allorché papa Paolo II la concesse alla città in privilegio perpetuo) al 1838. Si svolgeva in
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piazza Maggiore (oggi del Popolo), preceduta da un corteo storico o allegorico, e al vincitore spettavano il Palio e un premio di 25 fiorini d’oro zecchino pagati dalla Camera Apostolica. La città la considerava come una sua speciale prerogativa, un tratto distintivo, tanto da offrirla in omaggio agli ospiti di riguardo.
Una documentazione ricchissima A Cesena, presso l’Archivio di Stato e la Biblioteca Malatestiana, sono conservati circa 2000 documenti che ne testimoniano la continuità quasi anno per anno e contengono dettagli incredibili: i nomi dei
giostranti, degli scudieri, i Capitoli (cioè il regolamento), cronache, stampe, poemi, la cerimonia della premiazione. Addirittura, dalla fine del Cinquecento, si trovano i «tabellini», con i colpi segnati in ogni singolo scontro. Col tempo le giostre persero la loro natura originaria: nate come vero e proprio esercizio militare e come strumento di affermazione personale, furono rese anacronistiche dall’evoluzione della tecnica bellica e dai mutamenti della società, che le trasformarono in spettacoli suggestivi, ma superati. A Cesena, come detto, la giostra maggio
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A sinistra illustrazione di una giostra tenuta in piazza del Popolo nel 1649. Cesena, Biblioteca Malatestiana. Nella pagina accanto la Rocca Malatestiana di Cesena in una foto della fine dell’Ottocento. Cesena, Biblioteca Malatestiana.
proseguí fino al 1838, piú a lungo che altrove, quando la morte di un giostrante ne causò la sospensione. Ma vediamo in che modo si giunse alla prima disputa dell’evento. Prima della Giostra all’Incontro, anche a Cesena – come nelle altre città italiane – si tenevano palii e tornei. La menzione piú antica risale al 1316 (Annali Cesenati) e racconta di un palio corso durante una scorreria militare nel territorio forlivese: «E martedí 6 luglio, trovandosi l’esercito presso Bagnolo di Lagoduzzo, fecero correre un palio bianco in occasione della festività di San Severo, Patrono di Cesena». Per tutto il Quattrocento si
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trovano testimonianze frammentarie di palii in coincidenza con le festività cittadine: il 24 giugno per la festa del patrono, san Giovanni (palio di colore verde); il 6 luglio per la festa dell’altro patrono, san Severo (palio di colore bianco); il 15 agosto per la festa della Madonna del Monte (palio di colore «morello», cioè porpora). La stessa piazza del Popolo fu «inaugurata» nel 1401 con un torneo cavalleresco di grande sfarzo, che mise di fronte 30 cavalieri al comando di Andrea Malatesta (padrone di casa), contro 32 cavalieri al comando del fratello Carlo, signore di Rimini.
Nel 1465 un fatto cambiò radicalmente la storia della città: Novello Malatesta, signore di Cesena, morí senza lasciare eredi, e poiché i Malatesta governavano come semplici vicari della Chiesa (in conseguenza del Sacco dei Bretoni del 1377) papa Paolo II decise di approfittare della situazione per riprendere il controllo diretto della città. Il 9 dicembre 1465, un esercito pontificio al comando del governatore Lorenzo Zane (il cui stemma campeggia ancora oggi nella Rocchetta di Piazza) fece il suo ingresso a Cesena. Per festeggiare, lo Zane fece correre una giostra, e
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ANTE PRIMA A destra un figurante con l’armatura da Giostra in una foto della fine dell’Ottocento. Cesena, Biblioteca Malatestiana. A sinistra manifesto con la composizione del Corteo Storico del 1838. Cesena, Biblioteca Malatestiana. Qui sotto un momento di una delle ultime edizioni della Giostra.
chiese al papa di concedere alla città in privilegio perpetuo di correre una giostra ogni 9 dicembre a venire. Il pontefice accordò il privilegio pochi giorni piú tardi con una speciale bolla (oggi conservata presso l’Archivio di Stato di Cesena; vedi box a p. 21), inaugurando un’epopea destinata a durare ben 373 anni.
Regole ben precise Ma come si svolgeva la Giostra? La risposta è nei suoi Capitoli (cioè il regolamento), che venivano ristampati ciclicamente sempre uguali. I piú antichi oggi a disposizione risalgono alla metà del Cinquecento e recano la dicitura «Capitoli della singolar
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Giostra all’Incontro che ogn’anno immemorabilmente si fa nella città di Cesena con arme alla greve da battaglia rappresentante occorrenza di giusta guerra». L’uso dell’avverbio «immemorabilmente» suggerisce l’esistenza di Capitoli precedenti; inoltre la formula ritorna in tutti i Capitoli successivi e si può dunque ragionevolmente ipotizzare che Cesena abbia conservato un’autentica Giostra medievale dalla seconda metà del Quattrocento fino all’età moderna. Nella Giostra cesenate i cavalieri – divisi da una lizza «a tele» (cioè con teli dipinti distesi sopra una fune tesa) – si scontravano otto volte, e, nel caso in cui nessuno dei due maggio
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fosse disarcionato, si dichiarava vincitore colui che aveva totalizzato il punteggio migliore. I punti venivano attribuiti a seconda della parte del corpo colpita e della forza del colpo. Segno tangibile di un colpo ben assestato era il fatto di spezzare la lancia, da cui il detto «spezzare una lancia a favore di qualcuno». Il miglior punteggio veniva assegnato per i colpi alla testa e alla gola: «Chi ferirà con la lancia nella testa dalla punta della baviera in suso,
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In alto cavalieri impegnati in un’edizione moderna della Giostra all’Incontro. In basso, sulle due pagine i palii cuciti e ricamati per le edizioni del 1768 e del 1838 della Giostra. Cesena, Biblioteca Malatestiana.
Per l’onore e il decoro della città Ecco, qui di seguito, un ampio stralcio del testo del documento con il quale papa Paolo II accordò alla città di Cesena il privilegio della disputa della Giostra: «Paolo, vescovo, servo dei servi di Dio ai diletti figli del Comune della Città di Cesena, salute e apostolica benedizione! La fedeltà e la devozione che avete mostrato nei nostri confronti e in quelli della Santa Romana Chiesa, quando (...) siete tornati spontaneamente sotto la diretta giurisdizione e dominio nostro e della stessa Chiesa con consenso unanime merita che, paternamente ricompensandovi, vi concediamo ciò per cui si provveda all’onore e al decoro di questa stessa Città. (...) ordiniamo, comandiamo e decretiamo per autorità apostolica che in perpetuo ogni anno nello stesso felice giorno in cui il ritorno ha avuto luogo (ovvero il 9 dicembre) ci sia una corsa di cavalli e al vincitore sia disposto un premio e concessa una ricompensa o un palio a spese della Camera Apostolica del valore di venticinque fiorini d’oro zecchino. Dando mandato al nostro tesoriere della provincia di Romagna presente e futuro che di volta in volta sconti i venticinque fiorini d’oro zecchino ogni anno per il detto palio dalle nostre finanze comunque pervengano nelle sue mani in ragione del suo ufficio che al presente ordiniamo gli siano accreditati. Se qualcuno, poi, abbia la presunzione di opporsi sappia di incorrere nell’indignazione di Dio Onnipotente e dei suoi beati apostoli Pietro e Paolo».
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ANTE PRIMA A sinistra la Biblioteca Malatestiana di Cesena, che custodisce un ricco patrimonio documentario sulla Giostra di Cesena. Nella pagina accanto la piazza del Popolo, già piazza Maggiore.
e per tale colpo battesse il compagno in terra guadagnerà sei colpi, e quelli dell’avversario in terra abbattuto, il quale ipso iure s’intenda fuori di Giostra». Minor valore era attribuito ai colpi in altre parti del corpo, il torace, il «braccialetto» (cioè il braccio dal gomito alla mano), ecc. I «tabellini» conservati all’Archivio di Stato, come detto, riportano i punteggi di ogni scontro, lancia per lancia. A dispetto di quanto si potrebbe credere, i cavalieri non portavano lo scudo, ma solo un rinforzo fra torace e spalla, detto «spallone» o «spallazzo»; inoltre era vietato «civettare»: «intendendosi per civettare ogni scansar entro di vita e abbassamento di testa per schivar il colpo». Un cavaliere degno di tal nome riceveva il colpo senza esitare, il che spiega anche la pericolosità della Giostra. Il retaggio cavalleresco, i concetti di onore e lealtà emergono dalle norme che punivano (come nel caso del «civettare») i comportamenti
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ritenuti biasimevoli. Cosí era vietato colpire il cavallo dell’avversario, e, se un cavaliere fosse caduto durante la rincorsa, era d’obbligo fermarsi e ripetere lo scontro. Egualmente si doveva alzare la lancia nel caso in cui all’avversario fosse caduta la propria nella rincorsa. Vietatissimi e disonorevoli erano i comportamenti sleali, tesi a procurarsi un indebito vantaggio, come assicurarsi alla sella con legacci o cuciture, mentre le lance erano bollate dai Soprastanti (cioè i giudici) al fine di assicurarne l’uguaglianza.
Le edizioni straordinarie L’influenza della Giostra sopravvive nel linguaggio comune: oltre al già citato «spezzare una lancia a favore di qualcuno», possiamo ricordare «entrare in lizza» (cioè partecipare a una competizione), «partire lancia in resta» (cioè andare alla carica) e il molto romagnolesco «caffo», che indicava un numero dispari di giostranti.
Oltre alla Giostra «istituzionale», le cronache ricordano numerose giostre speciali organizzate da aristocratici (per esempio la «Giostra amorosa» del 1558 cantata in un poema dal notaio Nicolò Taipo, quelle del 1559, del 1582, del 1733, quella spettacolare del 1612, in cui il conte Vincenzo Masini affrontò da solo 10 cavalieri, vincendone 8), oppure dal Comune come omaggio per ospiti di riguardo (per esempio il granduca Cosimo di Toscana, la regina Cristina di Svezia, ambasciatori di Venezia o dello zar, legati papali) o per festeggiare l’elezione al soglio del papa cesenate Pio VI. Insomma, Cesena può a giusto titolo essere considerata «la» città della Giostra. Inizialmente la giostra era corsa da cavalieri e aristocratici, ma successivamente invalse l’uso per questi ultimi di fungere da semplici «padrini», un po’ come al Palio di Siena, in cui i fantini sono professionisti veri e propri. maggio
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L’aristocratico (o la famiglia importante e facoltosa) incaricava un popolano (o concedeva il suo nome) perché corresse sotto le sue insegne. Nonostante tutto, la giostra continuava a essere radicatissima nell’animo dei Cesenati. Nel 1796, quando i Francesi al seguito di Napoleone entrarono in città, la popolazione innalzò «l’albero della Libertà», cioè il simbolo degli ideali della Rivoluzione, ma, contestualmente, fece... correre una giostra: il simbolo della modernità piú estrema accanto a quello piú antico. Ma i tempi stavano cambiando: soffiava il vento del Risorgimento e le tradizioni legate all’antica identità municipale erano considerate quasi disdicevoli nello spirito unitario. Ultima sopravvissuta tra le giostre anche quella di Cesena non poteva durare a lungo, e quando, nel 1838, un giostrante rimase accidentalmente ucciso, fu sospesa e pian piano dimenticata.
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La Giostra di Cesena rappresenta un caso unico nel pur variegato panorama italiano. Può vantare un’origine sicura e certificata (e già questa è una circostanza non comune), ed è la piú antica e longeva tra le giostre «istituzionali».
L’inversione dei canoni La sua eccezionalità emerge anche dalla sua natura «ibrida», che mescola tratti tipici delle giostre aristocratiche con quelli popolari di festa cittadina. Probabilmente ha ragione Giovanni Battista Tomassini nell’accostarla, sotto questo aspetto, a un palio piú che alle giostre classiche. Questa caratteristica, a sua volta, è presumibilmente dovuta alla sua origine di festa laica concessa dal potere religioso, in una singolare inversione dei canoni sulla base dei quali spesso nascevano quegli spettacoli. Tutto ciò denota un’originalità che, lungi dallo svalutarla, la rende ancor piú
interessante e ne spiega la longevità. I giostranti cesenati del resto erano celebri: nel 1667, quattro cavalieri furono invitati dalla città di Bologna a esibirsi in occasione della «festa della porchetta», la prima volta in assoluto in cui la giostra bolognese fu corsa esclusivamente da stranieri. Nel Settecento, quando cominciarono a diffondersi trattati e manuali geografici, quasi sempre la Giostra veniva indicata come una delle peculiarità di Cesena. Piú tardi, nel 1805, Bologna chiese a Cesena di inviare cavalieri e attrezzatura per una giostra da offrire a Napoleone di passaggio in città, poiché la sua tradizione era finita da tempo. Ancora oggi, però, la Giostra all’Incontro consente uno sguardo retrospettivo unico sui giochi cavallereschi, e costituisce perciò un patrimonio che merita d’essere valorizzato e restituito alla memoria comune. Daniele Molinari
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MEDIOspEeciaVleO
Timeline Publish ing S.r.l. – Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonam ento – Aut. n° 0703 Periodico ROC
MEDIOEVO SPECIA LE
ANTE PRIMA
CASTELLI
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castelli sono una presenza costante nel paesaggio italiano, uno dei tratti Dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, distintivi dell’identità territoriale del un avventuroso viaggio alla risc nostro Paese. E il nuovo Speciale di operta dei luoghi simbolo dell’età di Mezzo «Medioevo» ne offre una conferma eloquente, presentando una selezionata rassegna di monumenti distribuiti in tutte le regioni della Penisola – dalla Valle d’Aosta alla Calabria –, cosí come in Sicilia e in Sardegna. 1
N°2 Aprile/Maggio 2020 Rivista Bimestrale
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11/04/20 15:57
Concepiti nell’età di Mezzo per fini di semplice difesa, i castelli assunsero in seguito forme aggraziate, acquisendo un fascino perlopiú estetico e trasformandosi in residenze signorili. Stilare un elenco ristretto di tali bellezze può rivelarsi una semplificazione arbitraria e quelle che abbiamo scelto sono senza dubbio un numero esiguo, se messo a confronto con le migliaia di capolavori che l’architettura militare italiana può vantare. È vero, dunque, che l’inevitabile, ridotto margine di scelta ha comportato esclusioni anche sofferte. Confidiamo, però, nel fatto che una sintesi può risultare piú appagante di un corposo compendio. Questo Speciale, dunque, non deve scontentare nessuno! E, anzi, vuole essere uno stimolo rivolto ai nostri lettori per scoprire quanto non appare in queste pagine e creare, cosí, un personale atlante dei «castelli nascosti»... 2 1. La Rocca albornoziana di Spoleto (Umbria), edificata sul colle di Sant’Elia a controllo della città e della via Flaminia. 2. Il castello di Fénis (Valle d’Aosta). Citato per la prima volta in un documento del XIII sec., visse il suo massimo splendore tra il XIV e il XV sec. 3. Il castello di Avio (Trentino). Fu costruito a partire dall’XI sec. in cima a uno sperone che domina la frazione di Sabbionara e si affaccia sulla Vallagarina solcata dal fiume Adige. 4. Castel del Monte (Puglia), il piú famoso dei castelli di Federico II, che una tradizione tenace vuole progettato dallo stesso imperatore. 1
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Quando il nemico è nel piatto
di Laura Prosperi
Anche nell’età di Mezzo, alcuni cibi erano guardati con sospetto perché ritenuti tossici e portatori di malattie. Piú che considerare i rischi di trasmissioni patologiche dall’animale all’uomo, però, erano le malattie umane a venir impropriamente proiettate su alimenti quali la carne da macello. Inoltre, la fiducia accordata a materie prime considerate innocue poteva rivelarsi assai mal riposta. Esponendo cosí la popolazione a rischi mortali... 26
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Doppio ritratto di un’anziana coppia, olio su tela di Lucas van Valckenborch (ultimato da Georg Flegel, suo allievo). Fine del XVIinizi del XVII sec. Stoccolma, Museo Nazionale. In primo piano, sulla tavola, fanno bella mostra di sÊ pane e cibi freschi.
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storie alimentazione/1
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e grandi campagne d’informazione condotte negli ultimi anni sono riuscite ad accendere un lampeggiante rosso tra gli scaffali della grande distribuzione. In alcuni frangenti la pressione mediatica è stata tale da trasformare la spesa dei consumatori piú informati in uno slalom acrobatico tra pericoli piú o meno remoti. Se la lista dei cibi a rischio è tristemente celebre, meno noti sono alcuni «effetti collaterali» provocati da tali campagne, effetti secondari, sicuramente non intenzionali, ma non per questo meno interessanti. Mentre la carne di struzzo ha visto aumentare vertiginosamente il proprio prezzo e le proprie fogge culinarie, qualche storico è tornato a interrogarsi sulle paure alimentari del passato, sollecitato dall’urgenza di verificare quanto di veramente nuovo e attuale vi fosse nelle ansie del consumatore medio odierno. È indubbio, in tal senso, che il vino al metanolo, i polli alla diossina e altre simili «amenità» siano stati tutti indistintamente recepiti dall’opinione pubblica come segno di un lento e inarrestabile declino dell’Occidente, l’ultimo segnale di un sistema produttivo sempre piú cinico e perverso.
Un passato mitizzato
Di fronte a tale degrado, qualcuno, nel grande cantiere della storiografia, ha voluto dubitare di una verità spesso subdolamente suggerita, vale a dire dell’esistenza di un mitico passato esente da ogni sorta di timore e precauzione alimentare. L’esistenza di un’epoca, irrimediabilmente perduta, in cui non vi era motivo di diffidare della genuinità dei prodotti, un tempo in cui il cibo non nascondeva insidie per l’umana specie. Ripercorrendo questo cammino a ritroso, piú di uno storico ha potuto dimostrare, documenti alla mano, l’infondatezza di tale comune intendimento, lasciando adito
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a ben poca nostalgia per i tempi andati. Si comprenderà infatti, seguendo alcuni dei loro argomenti, che le molte fobie di oggi sono solo l’ultima espressione di un rapporto di eterna tensione tra l’uomo e la sua alimentazione, rapporto che ha sempre lasciato spazio ad ansie collettive e a fondati timori: contagi, truffe e intossicazioni alimentari non sono, insomma, un’invenzione della società contemporanea. Il primo grande errore commesso ai danni del passato è credere che lo spettro della fame abbia po-
tuto in qualche modo contenere, o addirittura annientare, ogni altra ansia legata alla nutrizione. La fame è stata senza dubbio la vera ossessione alimentare di molte generazioni di uomini, ma figurare a buon diritto come la piú diffusa e la piú sentita paura alimentare della storia è ben altra cosa dall’essere stata la sola. Assillati dalla necessità di avere scorte sufficienti, i consumatori del passato non si sono per questo «fidati» del cibo a loro disposizione, e si vedrà invece come essi abbiano spesso dovuto coniumaggio
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Nella pagina accanto La cuoca (particolare), olio su tela del pittore fiammingo Joachim Beuckelaer. Seconda metà del XVI sec. Tolone, MATMusée d’Art de Toulon.
In alto Banco di macelleria, olio su tela di Pieter Aertsen. 1568. Collezione privata. A destra, in basso Il grande mercato (particolare), olio su tela
gare l’ossessione per la quantità con preoccupazioni dovute alla cattiva qualità del cibo disponibile. Le paure alimentari del passato non sono mute. Nel Medioevo esse si esprimono, secondo diversi livelli di gravità, nella legislazione che regola il commercio e nella manualistica alimentare, sia essa dietetica o gastronomica. Questo tipo di documentazione offre i suoi primi spunti già a partire dal XIII secolo, ma sono il Trecento e il Quattrocento, almeno in Italia e in Francia, a consentire una ricostruzione piú articolata
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attribuito a Francesco Bassano. 1580 circa. Torino, Galleria Sabauda. Nel Medioevo, la vendita delle carni era soggetta a regole precise, soprattutto nel caso del maiale.
su tali aspetti. Gli statuti comunali e corporativi prodotti in gran parte delle città italiane e francesi in questi due secoli, contengono rimandi precisi alle patologie piú temute in relazione al cibo e sono ricchi di indicazioni sugli stratagemmi adottati dai commercianti per raggirare i consumatori sprovveduti, propinando loro merce scadente, contraffatta o contaminata. Stando a queste fonti, risulta evidente come, nel XIV e XV secolo, l’allerta pubblica si concentrasse su tre generi alimentari: carne, pesce e
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storie alimentazione/1 A sinistra Il pasto dei contadini (particolare), olio su tela di Louis Le Nain. 1642. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto Venditore di lumache, olio su rame di Filippo Napoletano (al secolo, Filippo Angeli). Prima metà del XVII sec. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina. In basso pane e vino, particolare della Cena in Emmaus, olio e tempera su tela di Michelangelo Merisi da Caravaggio. 1601. Londra, National Gallery.
Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
pane. È chiaro che gli altri alimenti non erano al riparo dall’adulterazione, si pensi – per citare qualche caso eccellente – ai mille espedienti menzionati dai libri di segreti per «tagliare» il vino o il miele, ma l’attenzione e lo spazio dedicato dagli statuti comunali a queste tre categorie alimentari non lasciano dubbi: sono macellai e pescivendoli i possibili «untori» della società urbana bassomedievale, mentre il pane, controllatissimo perché affare politico e requisito di sussistenza, risulta passibile di frode, ma sarà preso di mira per ragioni sanitarie solo a partire dai secoli seguenti. La freschezza della merce è – in assoluto – la prima preoccupazione del legislatore e dell’interesse pubblico che egli rappresenta. In assenza di un’adeguata tecnologia del freddo, i provvedimenti in tal
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senso possono essere drastici. Risale al 1262 l’ordinanza della cittadina francese di Grasse che limita la vendita della carne al giorno stesso della macellazione e a quello seguente, imponendo, scaduto tale termine, di passare la carne in salagione.
Lo spettro della putrefazione
Le differenze climatiche potevano naturalmente giocare a favore di un’estensione del periodo di vendita, giungendo a un massimo di due o tre giorni nei mesi invernali, come attestato, per esempio, dagli statuti parigini del XIV secolo. Scaduto tale limite, la carne poteva giungere sui banchi cittadini, almeno su quelli autorizzati, solo previa salatura o cottura: in ogni caso, altri professionisti l’avrebbero presa in carico, poiché il macellaio esauriva il suo
mandato di vendita nella sola carne cruda, offerta allo stato naturale. In questo tipo di disposizione è facile cogliere la presenza dello spettro della putrefazione: secondo la medicina ippocratica, insegnata presso le Università medievali, nulla risulta piú inviso alla salute umana della materia marcescente. Per tale motivo, le parti piú esposte alla degenerazione, vale a dire le interiora, non possono generalmente essere vendute insieme alle altre, ma vengono subito affidate ai trippai per le dovute lavorazioni. I tempi di vendita ristrettissimi e l’imposizione drastica di salatura o cottura dei pezzi rimanenti mostrano quali fossero le principali strategie per ovviare alla naturale degenerazione della carne e del pesce, senza garantire però che la merce cosí esclusa dai circuiti «alti» della maggio
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storie alimentazione/1 Il sale
Un conservante nel mirino del fisco La salagione era prevista per tutte le carni non vendute a ridosso della macellazione e destinate quindi alla consumazione non immediata. Il potere antisettico del sale, dato acquisito dalla memoria collettiva, rappresenta una difesa antica contro le insidie di natura alimentare ed è per questo che il sale rimase, per secoli, non solo sinonimo di disponibilità di carne durante il corso dell’anno, ma anche di consumo sicuro. In tal senso la relazione tra fiscalità e intossicazione alimentare si rivela stringente, poiché è chiaro che ogni innalzamento di gabella, comportando l’inasprimento del prezzo del sale, induceva al suo risparmio forzato, costringendo le classi meno abbienti a consumare carni piú esposte a degenerazioni batteriche e a processi di putrefazione. L’uso del sale rimane dunque sinonimo di tutela alimentare per gran parte della popolazione, ma esso risulta vincolato ai flussi della politica fiscale.
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vendita, non passasse poi, a prezzi estremamente ridotti, sui banchi della cosiddetta «bassa macelleria». Il criterio medico dell’epoca imponeva anche di evitare accuratamente l’eccessiva freschezza (che nel linguaggio coevo è detta «troppa calidità» e «troppa umidità»), riducendo ulteriormente il tempo di accesso al mercato di carne e pesce. Esisteva dunque anche un intervallo di tempo minimo che stabiliva l’inizio legale dell’esposizione della merce: nel caso della carne, sancisce un’ordinanza di Avignone del XVI secolo, mai prima che fossero trascorse quattro ore dalla macellazione, mentre altri statuti coevi impongono la sera, per capi abbattuti la mattina, e il giorno seguente per quelli uccisi in serata. Il presupposto che ispira questo genere di norma era che il cibo troppo fresco fosse nocivo per la salute, convinzione assunta con la massima gravità e portata alle sue estreme conseguenze, come mostra la sanzione parigina del 1559 che condanna tre macellai per avere venduto carni troppo fresche, e aver cosí attentato alla salute dei cittadini.
Questioni di naso
Sulla «giusta» freschezza della merce l’esame visivo del consumatore era allora – esattamente come oggi – della massima importanza. Mentre oggi, però, è solo l’occhio a «volere la sua parte», tatto e soprattutto olfatto guidavano il consumatore di allora nella scelta delle proprie derrate. La massima «Tutto ciò che puzza uccide» orienta questo cliente tra i banchi dei mercati cittadini. Egli annusa tutto ciò che gli par degno del suo naso, per dedurre se lo sarà poi, una volta cucinato, della sua bocca e del suo stomaco. Cosí facendo, egli non turba la benevolenza del commerciante, né infrange in alcun modo il codice vigente delle buone maniere; esercita semplicemente il suo diritto di compratore avveduto, sapendo di non
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Sulle due pagine, in senso orario la vendita delle cervella, la macellazione di un ovino e quella di un bovino, miniature tratte da un’edizione del Tacuinum Sanitatis, traduzione in latino del Taqwim al Sihha (Almanacco della salute), redatto a Baghdad dal medico e letterato Ibn Butlan nell’XI sec. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.
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storie alimentazione/1 In questa pagina altre miniature tratte dall’edizione del Tacuinum Sanitatis conservata presso la Österreichische Nationalbibliothek di Vienna. Fine del XIV-inizi del XV sec. A destra, una giornata di pioggia, allusione della necessità di adeguarsi ai climi delle diverse stagioni dell’anno per godere di buona salute; in basso, a sinistra un mercante di generi alimentari vende riso a una donna; in basso, a destra, le carcasse delle capre vengono lavorate dopo la macellazione.
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Capolettera raffigurante la pulitura del riso, da un’edizione del Trattato di Medicina di Ildebrando da Firenze. XIV sec. Lisbona, Biblioteca Nacional.
poter contare su alcuna associazione dei consumatori, né su alcuna etichetta affissa sulla merce. In tale contesto, i suoi cinque sensi e la sua personale esperienza diventano l’unica strategia possibile per farsi garante della propria incolumità: sui banchi del mercato, prima dell’acquisto, gli alimenti vengono scrutati, annusati, tastati e assaggiati. Nonostante l’accurato esame, l’insidia dell’inganno sulla freschezza della merce sembra rimanere in agguato, allora ben piú di oggi, perché il venditore dispone di svariati trucchi per depistare i suoi acquirenti. Tagliare l’animale nella zona ventrale e insufflare aria al suo interno è una pratica comunissima nel Basso Medioevo, sebbene spesso osteggiata dalla legislazione, che vede in essa la fonte di un possibile contagio – dall’alito umano alla carne dell’animale –, e un modo poco onesto per rendere artificialmente piú distesa e tonica, quindi apparentemente migliore, la carne esposta. Tale espediente, praticato in Sardegna come nella Francia meridionale, veniva ufficialmente utilizzato al solo fine di facilitare lo scuoiamento dell’animale, ma è chiaro che tutti i diversi effetti collaterali citati – ai quali va aggiunto l’aumento di peso del capo – depo-
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certezze e pregiudizi
Se è bianco, è buono e non nuoce A influenzare il consumatore medievale è soprattutto la questione cromatica: nella scelta degli ingredienti la preferenza accordata al bianco non conosce rivali, e guida il consumatore nella selezione della merce. L’alimento bianco viene generalmente ritenuto piú salubre di altri, al riparo dalla contaminazione e dalla corruzione organica, e a esso la gastronomia internazionale dedica una portata di gran conto. Il biancomangiare, uno dei piatti di maggior successo della cucina tardo-medievale, è l’unico caso di preparazione determinata unicamente dal colore degli ingredienti (riso, latte e mandorle sono tra quelli sempre presenti, pollo o pesce figurano invece tra le varianti possibili). Sono state avanzate diverse ipotesi sulle ragioni del pregio alimentare conferito al bianco, e sulla sua facoltà di rassicurare il consumatore. Accanto a spiegazioni di carattere metastorico – vale a dire legate al simbolismo della purezza e dell’innocenza –, ne sono state considerate altre di natura piú contestuale, quale, per esempio, il potere di neutralizzare la bile nera, ovvero l’umore nefasto ritenuto responsabile, dalla medicina del tempo, di moltissimi disturbi e patologie. Quali che ne siano state le ragioni, «bianco è sano» per il consumatore medievale, che, lasciandosi orientare da questo criterio, rimane spesso vittima della propria suggestione. I commercianti, infatti, sfruttano questo luogo comune per depistarlo nell’acquisto delle derrate, e usano espedienti piú o meno innocui per conquistarne il favore. Illuminare il banco di esposizione con numerose candele accese serviva cosí per ridare al lardo il candore perduto, e dissimularne l’ingiallimento. A questo trucco di longeva fortuna, e utilizzato ancora in pieno XVIII secolo, se ne aggiungevano altri, praticati direttamente sugli alimenti e decisamente piú nocivi. Ne è un esempio l’uso, severamente bandito in un regolamento parigino del Trecento, di sbiancare artificialmente il merluzzo impastandolo con la calce. nevano a favore del commerciante, traducendosi per il consumatore in un binomio truffaldino, fatto di aria e carne scadente.
Controlli severi
Le autorità locali controllano la qualità della carne, che compare generalmente sui banchi del mercato solo nei giorni di «grasso» previsti dal calendario religioso, vale a dire 215 giorni all’anno, lasciando alla sola vendita del pesce quasi un terzo dell’anno. A differenza del pane e del pesce, la carne non è controllata dal servizio municipale solo per accertamenti relativi alla freschezza,
ma anche perché ritenuta possibile vettore di malattia e quindi fonte diretta di contagio. Dati i mezzi diagnostici del tempo, non doveva risultare semplice distinguere un’intossicazione alimentare da un contagio vero e proprio, ma, al di là dell’esattezza del riconoscimento, esiste una distinzione netta tra cibo adulterato, avariato, e contaminato. Quest’ultima categoria è – in assoluto – la piú temuta. In termini teorici la sua costruzione avrebbe dovuto riguardare patologie trasmissibili dall’animale all’uomo, ma di fatto si trattò principalmente dell’inverso, ovvero
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storie alimentazione/1 di malattie umane proiettate impropriamente su capi di bestiame. La ricostruzione delle zoonosi medievali, cioè delle patologie condivise da uomo e animale, presenta una serie di difficoltà non aggirabili. Tali difficoltà sono dovute principalmente al fatto che sulle malattie degli animali la documentazione è caotica e carente, consentendo solo pochi casi di identificazione certa. Mentre le malattie umane dispongono quasi sempre di una denominazione latina, ovvero universale, e di un ampio quadro sintomatologico, quelle animali vengono sbrigativamente liquidate nella documentazione con termini volgari e regionalismi, che ne rendono ancor piú arduo il riconoscimento. Esiste una relazione diretta tra la poca considerazione destinata alle
Sulle due pagine miniature raffiguranti la macellazione e la lavorazione del maiale. A destra, da un codice del XIV sec. (Forlí, Biblioteca Comunale «Aurelio Saffi»); nella pagina accanto, dal Breviario di Ercole I d’Este (1502-1506; Modena, Biblioteca Estense); in basso, dal Martirologio di Adone (XII sec.; Cremona, Biblioteca Capitolare).
I controlli sanitari
Orecchie come «etichette» In molti mercati dell’Europa continentale l’acquisto di carne suina avveniva previo controllo dell’orecchio dell’animale. A Parigi, per esempio, a seguito dell’ispezione sanitaria, l’orecchio veniva siglato, se si riscontravano tracce leggere – e pertanto incerte – di contagio da «lebbra», mentre veniva tagliato se la malattia era diagnosticata con certezza. In questo caso l’animale veniva messo comunque in vendita, ma solo sui circuiti meno esigenti, denominati di «bassa macelleria». Segnate, marchiate o amputate, le orecchie del suino funzionavano dunque, in molti mercati urbani, come una vera e propria etichetta, capace di informare l’acquirente rispetto alle condizioni della carne. Allo stesso modo nel pesce ispezionato e giudicato atto alla vendita veniva inciso un piccolo segno (un cerchio nella città di Lille), come garanzia di qualità.
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patologie degli animali e la possibilità di fare di questi ultimi carne da macello. In questo contesto, infatti, evitare di prendersi troppa cura della salute e della vita dell’animale appare condizione necessaria, sebbene non sufficiente, per poterlo consumare senza scrupoli.
Tabú alimentari
Non a caso, l’unico animale al quale vengono rivolti sforzi di cura considerevoli è il cavallo, che, infatti, non compare sui banchi delle macellerie medievali, probabilmente per via della sua utilità e del legame affettivo stabilito con il genere umano. La sua assenza, certo comprensibile anche sul piano della mera convenienza economica, rimanda a un antico timore che impedisce all’uomo di consumare esseri viventi con i quali esiste una relazione di promiscuità, maggio
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collaborazione e solidarietà. Il tabú alimentare che tocca oggi gli animali domestici, in particolare cani e gatti, rappresenta il corrispettivo del divieto implicito che colpisce l’ippofagia in epoca medievale. Non è una resistenza di carattere emotivo, ma una preoccupazione che tocca la salute, invece, quella che porta a escludere la capra dalla macelleria dell’epoca. Della capra adulta è temuto il contagio di febbre di Malta, o brucellosi, male che affligge, secondo la visione del tempo, ogni capo adulto del genere caprino. Solo i cuccioli, ovvero i capretti, ne sono considerati esenti, ed è per questo che essi vengono destinati alla vendita senza ipotecare la salute del consumatore. Fra tutte le patologie comuni a uomo e animale, o presunte tali, la vera ossessione del consumatore medievale è la «lebbra» porcina. Ma poiché la lebbra, in realtà, non colpisce i suini, merita ritornare sulle ragioni di questa costruzione mentale e della sua fortissima incidenza. Fra tutti gli animali, il maiale è il bersaglio prediletto di ogni fobia alimentare. La medicina araba e quella ebraica riversano sul porco una diffidenza che è sostanziata nelle rispettive religioni nell’obbligo dell’astensione. Sebbene né l’Antico Testamento, né il Corano facciano riferimento a ragioni di ordine sanitario, la coincidenza non può essere passata sotto silenzio. L’area che si votò al cristianesimo, invece, coincide grosso modo con l’area di espansione della medicina ippocratica, che si pronunciò a favore della carne di maiale, e che sarà infatti l’unica a consentirne il libero consumo. Anche nell’Occidente cristiano, però, si avvertirono il peso e l’influenza di aree e culture limitrofe, capaci di gettare
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una luce equivoca su questo genere di consumo: nella documentazione medievale vi sono moltissime tracce della diffidenza riservata al maiale, e non sarà pertanto difficile reperirne qualche esempio.
Occhio alla lingua!
A differenza di manzi e montoni, il maiale subisce in gran parte dei mercati francesi ben due controlli sanitari: uno per ispezionare le condizioni dell’animale ancora in vita, con particolare attenzione alla sua lingua, e uno, dopo l’abbattimento,
per verificare che non ci siano larve incistate tra le sue fasce muscolari. Se il maiale è percepito come animale potenzialmente infetto, e come una delle fonti piú probabili di contagio, è anche perché esso poteva risultare affetto, esattamente come il paziente lebbroso, da pustole sotto la lingua. Leggiamo come il celebre enciclopedista Bartolomeo Anglico (1190-1250) inquadra le possibili vie di trasmissione alimentare della lebbra, attribuite al cattivo «temperamento» di alcuni viveri, o per l’appunto al maiale contagiato: «Essa
(la lebbra) può essere causata dall’aria corrotta o dal consumo di alimenti cattivi e melanconici, troppo freddi e secchi, quali la carne di manzo, di asino e di orso. Essa può, allo stesso modo, derivare da cibi troppo caldi: come nel caso di un consumo continuo di cipolle, pepe e simili sostanze. Essa è parimenti causata dall’ingestione di alimenti corrotti, come la carne di porco lebbroso o malato, cosí come di vino alterato». Ciò che l’uomo può davvero contrarre a causa del consumo di carne porcina è la tenia, nota come verme solitario, inquilino poco gradito dell’apparato digerente umano, che in esso trova il suo habitat ideale, riuscendo a raggiungere dimensioni considerevoli. Una dieta primaverile a base di burro «di maggio» e aglio era il trattamento abitualmente riservato a tutti i pazienti che involontariamente ospitavano questo parassita opportunista, che risulta – è bene ricordarlo – ben piú dannoso in regimi alimentari spesso al limite della carenza e del fabbisogno. Ma per temibile e sconveniente che fosse, la tenia intestinale giustifica solo in parte l’accanimento legislativo a carico del suo primo ospite, ovvero del maiale, un accanimento che trova qualche argomento di sostegno anche nella scrittura gastronomica. Maestro Martino, il celebre cuoco del patriarca di Aquileia, scriveva nel Quattrocento che «carne de porco non è sana in nullo modo», offrendo una soluzione per mangiare il dorso dell’animale e facendo passare tutto il resto alla salagione: «Pur la schina vole essere arrosto quando è fresco con cipolle, et il resto per salare o come ti piace». Che le cipolle fossero un espediente utile a neutralizzare la pericolosità del maiale, del resto, è norma ben piú antica di questo ri-
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In questa pagina altre miniature dal Tacuinum Sanitatis conservato presso la Österreichische Nationalbibliothek di Vienna. Fine del XIV-inizi del XV sec. In alto, una degente mangia un decotto curativo a base di erbe; a sinistra, la raccolta delle cipolle.
cettario, perché il connubio con le cipolle è suggerito già – con questa precisa finalità – nel manuale dietetico della Scuola Medica di Salerno, testo risalente all’XI secolo. Oltre a essere l’unico capo ispezionato «da vivo» e «da morto», il maiale era anche il solo animale da macello la cui alimentazione in vita poteva preoccupare il consumatore. A sconcertare quest’ultimo era innanzitutto l’eventualità che qualche singolo capo, liberamente circolante, potesse aver attinto le proprie sostanze dalle lordure della
città, cibandosi degli scarti dell’alimentazione umana e bevendo dagli scoli delle abitazioni. La presenza di maiali all’interno delle mura cittadine è riferita da numerose fonti del XV secolo come dato abituale, esattamente come il vagare dei cani: le Ordinazioni cagliaritane, ovvero le delibere emesse dal consiglio comunale, ci informano che solo quando i capi superavano certe proporzioni ne veniva vietata la libera circolazione. La spiccata propensione di quest’animale ad amare gli am-
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storie alimentazione/1 Spighe insidiose Miniature raffiguranti la semina e la mietitura del grano, da un Libro d’Ore. XVI sec. Rouen, Bibliothèque municipale. Nel Medioevo, i cereali causarono il piú alto numero di vittime per intossicazione alimentare, soprattutto in caso di carestie: in simili circostanze, infatti, molti consumavano anche i chicchi infestati dal fungo della segale, il Claviceps purpurea, che causa l’ergotismo (o «fuoco di Sant’Antonio»).
studio di Madeleine Ferrières intitolato Storia delle paure alimentari, un fondamentale contributo storiografico sull’argomento, cita ordinanze dell’epoca che vietano di nutrirsi di animali vissuti nei pressi di lazzaretti, di residenze di chirurghi, o di altri luoghi dove il bestiame potesse attingere nutrimento sospetto. Tra le righe di questo genere di provvedimento si percepisce la necessità di scongiurare il rischio di cibarsi di animali a loro volta nutriti di sangue umano o, ancora peggio, di carne umana infetta. Rimaniamo, in ogni caso, decisamente distanti da quello scenario idilliaco della nutrizione del bestiame fornito dal cronista Bonvesin della Riva (1240-1315) nella sua celebrazione della città di Milano: «Essi non si cibano solo di fieno, ma spesso sono portati al pascolo, a mangiare erba e frasche; e che nelle stalle si nutrono anche di erba fresca, paglia, rape, avena e molte altre cose ancora». Se volessimo indagare su cosa fossero, nella realtà, le «molte altre cose ancora», ci troveremmo talvolta di fronte a risposte assai poco rassicuranti.
Un’intuizione tardiva
bienti putridi contribuí verosimilmente alla sua cattiva reputazione, ma l’opinione corrente seppe andare oltre. Con un’anticipazione interessante su quelli che diverranno, secoli dopo, gli standard di qualità e salubrità del cibo, la legge di mercato distingue, differenziandone il prezzo, il maiale che si è nutrito esclusivamente di radici e di ghian-
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de, vale a dire cresciuto allo stato brado, da quello allevato in ambiente cittadino e ingrassato con crusca e scarti di farina. Quest’attenzione per la nutrizione del bestiame, divenuta oggi cosí importante per gli standard dell’allevamento biologico, può offrire accesso, nel contesto cittadino tardomedievale, a scenari inquietanti. Lo
L’insieme di queste indicazioni può dare, complessivamente, l’impressione che fosse la carne il genere alimentare piú temuto in età medievale, mentre non va dimenticato che furono i cereali – e in particolare la segale – a mietere il piú alto numero di vittime per intossicazione alimentare. A dispetto dei fatti, tuttavia, gli occhi vennero puntati sulla qualità dei cereali solo molto piú tardi, ovvero a partire dal XVII secolo, quando all’interno della comunità scientifica si fece strada l’ipotesi che l’ergotismo fosse dovuto alla consumazione di ciò che venne comunemente denominata «segale cornuta». Chiamato «fuoco sacro» o «fuoco di Sant’Antonio» nelle fonti, l’ergotismo è malattia estremamente comune in tutta l’Europa medievale. maggio
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Particolare di una miniatura raffigurante la bottega di un mercante di granaglie, da un manoscritto lombardo. XV sec. Modena, Biblioteca Estense Universitaria.
Mortale nelle sue forme acute, si manifesta con paralisi progressiva degli arti e cancrena degli stessi, conducendo spesso alla loro perdita per autoamputazione. Il nesso con il fungo della segale, denominato Claviceps purpurea, venne ignorato per secoli, mentre non era sfuggita, già ai cronisti altomedievali, la relazione tra il dilagare della malattia e le annate di carestia. Erano queste, infatti, a costringere gran parte della popolazione a ingerire, insieme ai chicchi sani, anche quelli dal sapore sgradevole attaccati dal parassita, riconoscibili a occhio nudo perché di dimensioni molto piú grandi degli altri, e perciò scartati nelle annate di abbondanza. Per uno strano paradosso, fu proprio il temutissimo maiale a fornire la materia prima – in questo caso il grasso – utile a confezionare un unguento di rinomata efficacia
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adottato nella cura della malattia. Nonostante il maiale sia dunque utilizzato come alimento, e alcune sue componenti come medicamento, esso rimane un animale infido per il consumatore medievale, che su di esso riversa, almeno in termini legislativi, il massimo delle precauzioni. L’accanimento di provvedimenti messi in atto contro il contagio porcino consente di fare una valutazione di ordine generale sulla distanza, sempre esistita, tra pericolo reale e pericolo percepito. Mentre il fungo della segale falcidiava indisturbato la popolazione europea, la carne di maiale catalizzava tutte le paure e le ansie del consumatore tardo-medievale. Per quest’ultimo, la forbice tra rischio effettivo e rischio immaginario sembra essere stata singolarmente ampia, ma è bene non illudersi, perché le epoche successive non
sempre presentano una divaricazione meno pronunciata. Il progresso scientifico può sicuramente favorire una maggiore coscienza sulla reale entità dei pericoli connessi al consumo alimentare, ma a torto ci sentiremmo rassicurati da quest’ultima constatazione: le paure alimentari non sono, in tal senso, diverse dalle altre paure, e lasciano libero campo all’azione dell’irrazionale e dell’emotività.
Da leggere Piero Camporesi, Il pane selvaggio, Il Saggiatore, Milano 2016 (ed. or. il Mulino, Bologna 1980) Madeleine Ferrières, Storia delle paure alimentari. Dal Medioevo all’alba del XX secolo, Editori Riuniti, Roma 2004 (ed. or. Seuil, Parigi 2002)
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Molte miserie e poche nobiltà
di Elisabeth Crouzet-Pavan e Fabien Faugeron
Pagnotte «arricchite» con argilla, vini inaciditi, zuppe piú simili a brodaglie che a minestre... Questo desolante quadro gastronomico affiora dalle memorie del soggiorno veneziano di Erasmo da Rotterdam. Una testimonianza, sarcastica e spietata, di come si mangiasse nella città della laguna agli inizi del Cinquecento, dove leccornie e prelibatezze erano appannaggio di pochi e facoltosi commensali 42
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Un’allegra compagnia, olio su tela di Jan Metsys. 1557 circa. Collezione privata.
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fogliando i Colloqui di Erasmo da Rotterdam, non s’incontrano soltanto insegnamenti morali. Innanzi ai nostri occhi, infatti, si animano anche aneddoti, prendono forma ricordi di viaggio e quelli che l’umanista riferisce di Venezia non sono certo dei piú piacevoli. Eccolo, ridotto al «fantasma di un uomo», perché in una città cosí ricca, dice, ha rischiato di morire di fame. All’interlocutore di questo dialogo immaginario racconta gli orrori del suo soggiorno nella laguna presso Francesco d’Asola, suocero del famoso stampatore Aldo Manuzio, nel 1508. Niente Malvasia su questa tavola, ma vino inacidito, vecchio talora di dieci anni. A quel tempo i vini, tranne i migliori, non si facevano invecchiare e la bevanda servita da Asola, evidentemente, non apparteneva a quella nobile categoria. Erasmo lo dichiara senza mezzi termini: questo «nettare», anche se mescolato nelle botti con l’acqua che Francesco traeva dalla cisterna di cui disponeva, era peggio dell’aceto. Per i suoi consumatori regolari era causa, oltre che di una poco piacevole esperienza, anche di calcoli renali.
Il controllo dell’annona
Quanto al pane, non illudiamoci che fosse migliore. In una città in cui, durante i secoli del Medioevo, l’autorità pubblica si era adoperata per garantire approvvigionamenti regolari, Erasmo mangia grano guasto. Dal 1173 era stata istituita a Venezia un’amministrazione permanente incaricata dell’annona. Si trattava di assicurare alla città cresciuta in mezzo alle acque, priva di terra a eccezione dei miseri isolotti lagunari, forniture di cereali sempre piú importanti man mano che la popolazione aumentava. La Dogana e il Canale della Giudecca, olio su tela del Canaletto (al secolo, Giovanni Antonio Canal). 1728. Collezione privata.
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storie alimentazione/2 In basso Ritratto di Erasmo da Rotterdam (particolare), olio su tavola di Quentin Metsys. 1517. Roma, Palazzo Barberini.
Nella pagina accanto Il mercato del pesce, olio su tela di Joachim Beuckelaer. 1570. Napoli, Museo di Capodimonte.
Il saor
Aceto, pesce acqua, cipolle... Fra le ricette medievali ereditate dalla cucina veneziana, spicca il saor (sapore): questa preparazione permetteva, grazie all’aceto, la conservazione del pesce a bordo delle navi per piú giorni, se non per piú settimane e costituiva a breve termine un’alternativa alla salagione. L’Anonimo veneziano ne dà una ricetta del XIV secolo: «Toy lo pesse e frigello, toy zevolle [cipolle] e lassale un pocho e taiale menude, po’ frizelle ben, poy toli aceto et aqua e mandole monde intriegi et uva passa, e specia forte, e un pocho de miele e fa bolire ogni cassa insema e meti sopra lo pesse».
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I rifornimenti di grano arrivavano dall’Italia – dalle Marche, dalle Puglie e dalla Sicilia – e dai mercati piú lontani, quelli dell’impero coloniale, dalla Dalmazia e dalla Grecia, ma anche dall’Albania o dalle regioni del Ponto. Innalzati nel primo terzo del Trecento sulle acque del bacino di S. Marco, nelle immediate vicinanze della piazza e del Palazzo Ducale, i granai pubblici di Terranova, imponenti e monumentali, dichiaravano a tutti la ricchezza di una città ben approv-
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vigionata e l’eccellenza del Comune che la governava.
Una magra consolazione
Tuttavia, sulla tavola di Francesco d’Asola regna la penuria: nel pane, per un buon terzo, la farina è mescolata all’argilla, cosicché – unica consolazione di Erasmo – se ne avverte meno il cattivo gusto! Ecco, insomma, qual era la situazione per il pane e per il bere. Quanto alla dieta, si dovrebbe mangiare di grasso cinque volte
a settimana, ma il piú delle volte sulla tavola appare solo un piatto di insalata, cosí povero che alcuni convitati sono ridotti a inzuppare il pane nell’aceto. Questo è seguito in autunno da qualche acino d’uva, a meno che non gli si preferisca una specialità veneziana, piccoli molluschi che i battellieri pescano e poi vendono per le strade. Malgrado l’abbondante produzione di regolamenti dedicati da quest’epoca all’igiene dei mercati, il racconto faceto di Erasmo evoca
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storie alimentazione/2 piuttosto alimenti di bassa qualità, la spazzatura e la frode. In quegli anni, alla minima minaccia di penuria, i magistrati incaricati della salute pubblica rafforzavano un controllo sanitario già rigoroso. Sulle carni, i cibi conservati sotto sale, i pesci, il vino, le farine e la frutta, la sorveglianza si faceva piú attenta in nome di una profilassi generale. Si ritiravano dai magazzini le merci dubbie per bruciarle e si vietava per alcune settimane la vendita degli alimenti sospetti. A leggere Erasmo, invece, niente di tutto ciò. I molluschi sarebbero stati pescati nelle latrine! E la lista degli orrori culinari non è finita. Erasmo ha fame, protesta perciò con il suo ospite, il quale, vinto da tante recriminazioni, acconsente
infine a migliorare il vitto. Ed ecco allora la minestra! La ricetta è semplice: una pentola piena d’acqua in cui si sono gettati a fondere alcuni pezzi di formaggio duro come la pietra. Si serve, in seguito, un po’ di carne, della vecchia vacca bollita da quindici giorni e, per mascherare il fetore, un uovo stemperato nell’acqua calda che condisce il piatto.
Il mercato delle erbe (particolare), olio su tela attribuito a Jan Baptiste le Saive II. 1590. Vienna, Kunsthistorisches Museum.
Nel segno dell’avarizia
Nei giorni di magro, si presentano in tavola tre orate, ma assai piccole e che devono sfamare sette, otto convitati. Per di piú, senza attendere che la pietanza sia finita, la si porta via velocemente, perché alcune donne, i bambini e la serva devono ancora essere nutriti con gli avanzi. A quel punto, si può of-
la stagionalità
Una specialità per ogni festa Nel Medioevo, la combinazione tra le risorse stagionali della laguna e il calendario liturgico determina alcuni momenti forti, che interrompono la monotonia dell’ordinaria penuria del resto dell’anno. Con la primavera, la tavola si imbandisce di moleche, piccoli granchi in muta che si servono fritti, oppure di castraure, teneri germogli di carciofo. La Domenica delle Palme si prepara la sopa coada con i piccioni, che la tradizione voleva fossero offerti dal doge alla popolazione. La festa dell’Annunciazione porta il dessert: il bussolà forte di Murano, preparato a partire da melassa, strutto, lievito e numerose spezie. All’Ascensione, a scelta, si poteva mangiare la lingua di porco o l’osella, l’anatra selvatica della laguna. L’estate permetteva di degustare le seppioline fritte nel momento in cui sono piú tenere. Infine, per San Martino, la codognata, la pasta di cotogne, addolcisce l’ingresso nell’inverno.
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Tavola a colori raffigurante una contadina padovana, dal Codicetto Bottacin, un liber amicorum raffigurante feste, cerimonie e costumi veneziani, padovani e dell’Italia centrosettentrionale. Inizi del XVII sec. Padova, Biblioteca del Museo Bottacin. maggio
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frire il formaggio, senza che l’avaro ospite debba temere per la spesa: è cosí duro che non si riesce neppure a grattugiarne una briciola con il coltello. Erasmo irride l’«opulenza sordida», giacché questo è il titolo del Colloquio. Soprattutto, i suoi ricordi compongono un dipinto delle tavole veneziane che costituisce l’esatto contrario delle descrizioni consuete. Per rendersene conto, basta leggere i racconti dei viaggiatori contemporanei. Nonostante gli sforzi dell’autorità pubblica per ordinare e organizzare secondo una gerarchia i luoghi di vendita, al mercato di Rialto i mercanti di polli e di meloni si trovano fianco a fianco con i banchieri e questi ultimi con quelli che fissano il corso del pepe. In questo luogo, presentato come il piú ricco del mondo, si svolgono le transazioni
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importanti, l’assicurazione e il cambio, ma anche i grandi mercati generali, i panieri degli erbivendoli e l’attività quotidiana di un mercato. La meraviglia dei forestieri si desta anche innanzi ai banchi stipati di frutta e di verdura e per la profusione di mercanzie.
Una città della cuccagna?
Le barche ormeggiate alle rive diventano botteghe e si affittano come tali; sommerso dalla frutta e dalle erbe il mercato sembra un giardino. Il reale, già inaudito, si adorna e si trasforma e, grazie a questa gigantesca bella mostra, Venezia diventa la città dell’abbondanza. Le evocazioni dei forestieri celebrano una ricchezza unica nel panorama del tempo. In ragione del suo mercato, Venezia pare una città della cuccagna, un mondo in un mi-
crocosmo. Ma che cosa mangiano, dunque, i Veneziani? La risposta si dimostra piú complessa di quel che non appaia a prima vista. Se attraverso le leggi suntuarie – che limitano il lusso dei pasti nobiliari – o ancora grazie ai rari conti della spesa arriviamo a conoscere gli alimenti consumati, è molto piú difficile, nonostante il contributo offerto dai libri di cucina medievali, sapere come i Veneziani li preparavano. I conti della spesa rivelano una certa monotonia, soprattutto in inverno: a Venezia, come altrove in Europa, il vitto medievale è in gran parte costituito da cereali. Privilegio delle città, questi sono consumati soprattutto sotto forma di pane e non uno qualunque: pane bianco di frumento, almeno in teoria. Di fatto, nel XV secolo, coesistono due
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storie alimentazione/2 Pesce e cacciagione
La laguna, una riserva preziosa I Veneziani pescavano in mare, talora spingendosi relativamente lontano, come, per esempio, nelle acque dell’Istria. Ma, soprattutto, pescavano nella laguna. Fissati a pali di sostegno, i recinti di canneti e di erbe delle paludi non impedivano il flusso e il riflusso delle acque, ma trattenevano il pesce. Era, questa, una tecnica di pesca che sfruttava un fenomeno naturale ben conosciuto. Alla fine dell’inverno, nei mesi di febbraio-marzo, alcune specie di pesci lasciano il mare per le acque meno profonde della laguna, dal riscaldamento piú rapido, e vi restano fino alla fine dell’autunno. Il raffreddamento piú lento del mare spiega perché poi in inverno abbandonino Pescatori su un bragozzo, tipica imbarcazione da pesca di Chioggia, Italia. Venezia, Museo Storico Navale.
qualità regolamentari: il pane bianco propriamente detto, riservato ai consumatori agiati, e il pan traverso, mescolato a crusca, per le borse piú modeste. Nella pratica non è raro che la segatura, l’argilla o altri scarti accompagnino la crusca nella sua fabbricazione a opera dei pistori (fornai). Cosí, le famiglie agiate preferiscono cuocersi il proprio pane o ancora, lusso supremo, farlo arrivare da Mestre o da Padova, dov’era, dicono, assai migliore. Nei periodi di penuria, il pane dei poveri è integrato con altri cereali, come il miglio rosso, la segale, il riso (a partire dal XVI secolo), il che non facilita certo la sua digestione. Il muratore Antonio da Murano se ne lamenta pubblicamente in piazza S. Marco, il 15 dicembre 1397, e apostrofa i governanti che mangiano «del buon pane e bevono del buon vino»: un’iniziativa che gli valse di mangiare il vitto delle galere, i «biscotti». Altri preparati a base di cereali coesistono in effetti con il pane: lasagne, focacce, bigoli (una pasta fresca tipica, simile agli spaghetti,
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n.d.r.) o ancora «rafioli de erba (...) e caxo fresco», un classico dei pasti di Quaresima. I piú poveri devono accontentarsi spesso di bolliti a base di frisoppi, le briciole dei biscotti, destinati al rifornimento delle galere, rivendute dai pistori.
Sua maestà il vitello
Venezia appartiene a buon diritto all’«Europa dei carnivori», sebbene l’egemonia medievale della carne sulla tavola sia qui meno forte che altrove. O almeno questo sembra indicare il numero dei macellai: 80, alla metà del XV secolo, per una città di circa 100 000 abitanti, contro i 180 presenti, per esempio, a Tolosa, che conta un numero due o tre volte minore di anime. Nondimeno, i conti della spesa indicano acquisti regolari, piú volte alla settimana, di carni fresche che, insieme con quelle sotto sale, rappresentano di gran lunga il primo capitolo finanziario. Nella gerarchia dei gusti del XV secolo, il vitello ha conquistato il primo posto, a lungo conteso alla selvaggina da penna, segnatamen-
orti urbani e suburbani
Paradosso veneziano Lattuga, uva, alcuni prodotti freschi sono serviti sulla tavola di Francesco d’Asola. Ma da dove vengono? Ai confini dell’agglomerato urbano, ampi spazi sfuggono, alla fine del Medioevo, all’avanzare della città. Giardini erano stati sistemati sulle rive lagunari dell’isola della Giudecca. All’estremità occidentale della città, su terre nuove strappate all’acqua dalla bonifica, una cintura ampia di giardini, orti o vigneti segnava una prima forma di sfruttamento del terreno. Ma questa produzione non assorbiva che una minima parte della domanda. I prodotti affluivano dunque dalla vicina terraferma. Tuttavia, all’interno dello stesso ducato era stata realizzata una prima cintura orticola. Venezia non tratta il suo ducato diversamente da un contado, maggio
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la laguna. In altri casi il ciclo della riproduzione, per potersi compiere, comporta il ritorno del pesce verso il mare. I recinti delle valli, da luglio a Natale, permettevano di controllare il fenomeno della migrazione e di pescare con relativa facilità. La selvaggina di palude costituiva un’altra risorsa tradizionale. I volatili nidificavano, infatti, in abbondanza in questo ambiente di terre e di paludi, fra le tranquille barene che l’acqua ricopre solamente durante le maree piú alte. Questi terreni furono presto attrezzati per la caccia: da ripari costruiti con giunchi intrecciati si faceva la posta alle anatre. A partire dal XV secolo, la caccia tende tuttavia a divenire il passatempo delle élite. Le barche portano ormai verso la laguna i patrizi che cacciano con esche, reti, falconi, archi e proiettili di terracotta.
Venezia, la città dove niente cresceva, ma dove tutto si poteva trovare
te alle anatre della laguna, le oselle. Seguono l’agnello castrato e il manzo, il capretto e il maiale. Ai poveri, restano le interiora. La cucina veneziana medievale dei ceti piú umili elabora alcuni piatti, che – in una sorta di vendetta – si sono trasformati in altrettante celebri specialità della gastronomia marciana, come il figà (fegato) alla veneziana. Per i giorni di magro, la laguna offre ai suoi abitanti varie risorse: l’alimentazione veneziana della fine del Medioevo dà grande spazio al pesce e ai frutti di mare e le élite urbane, altrove e di norma piú inclini a consumare il pesce d’acqua dolce, non lo disdegnano nemmeno qui, tutt’altro. A partire dalla legge annonaria del 1173, i poteri pubblici enumerano le specie, calmierano i prezzi e vegliano sulla qualità dei prodotti. Ma, anche in questo caso, c’è pesce e
In basso natura morta con un tacchino spennato, pesci e verdure. Olio su tela. XVII sec.
da sfruttare per diversi usi. Riparo a protezione dell’agglomerato urbano, ne garantisce l’inviolabilità. A lungo riserva di uomini, contribuí al primo sviluppo demografico della città. Distesa di acque e di terre, produceva infine quel che la città gli lasciava produrre per il suo beneficio: il sale, fintanto che non fu piú redditizio per la fiscalità e il commercio locali farlo venire da altrove; il pesce, a condizione che la pesca e i suoi profitti rimanessero sotto il controllo dei Veneziani; la frutta e le verdure, perché il centro urbano li consumava. Le isole della laguna si videro quindi quasi condannate dalla capitale a tali attività orticole. Si chiarisce cosí, in parte, il segreto di questo paradosso che le storie veneziane ripetono a sazietà: in una città dove niente cresceva, si trovava di tutto.
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storie alimentazione/2
Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
pesce: i consumatori benestanti acquistano lo storione, il rombo o la trota, talvolta il branzino o l’orata. Le tasche piú modeste devono accontentarsi di cefali, barboni (pesci gatto), gò (ghiozzi) o ancora di sardine, dalla carne meno delicata e che spesso si consumavano fritti.
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Tuttavia, almeno durante l’inverno, la vera regina della tavola veneziana è la verza: i conti della spesa mostrano acquisti quotidiani di questa verdura poco costosa, spesso associata alle rape. D’altronde, l’importanza accordata alle erbette e alle insalate cosí come alle erbe
aromatiche e alla frutta è caratteristica dell’alimentazione medievale italiana. Rispetto alla quale, però, la cucina veneziana si segnala per una maggiore varietà e costituisce a ben vedere un incrocio di tradizioni culinarie che anticipa spesso l’evoluzione gastronomica della Penisola. maggio
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La tradizione culinaria
Ricette per ogni portata Al contrario di città come Parigi o Napoli, nel Medioevo Venezia non ha conosciuto un’intensa produzione di libri di cucina: l’assenza di una corte principesca spiega in parte questa carenza. Nondimeno, per il XIV secolo ci è pervenuto un manoscritto anonimo eccezionale, che costituisce la versione veneziana della tradizione del Libro dei dodici ghiotti, di origine toscana. Contiene 127 ricette per la preparazione di brodi e salse, biancomangiare, salmí di cacciagione, ragú di carne, piatti di pesce e di crostacei e anche numerose preparazioni a base di verdura e alcune di frumento o di riso. Vi figurano anche parecchie ricette di ravioli, di lasagne, di tortelli e, soprattutto, di tortini di pesce, di verdure, di fiori di sambuco o ancora alle uova e formaggio, senza dimenticare le frittelle. Infine, vino cotto, frutta candita, codognata (cotognata) e scorze di arancio macerate nel miele vengono a chiudere il pasto. Interno di cucina, olio su tela di Joachim Beuckelaer. 1566. Parigi, Museo del Louvre.
ro, delle spezie e dei vini liquorosi si dimostra qui piú vasta e precoce che non altrove e non è un caso che sia Venezia ad assicurarne la distribuzione nell’Europa continentale. Se crediamo al cuoco Bartolomeo Scappi, i pescatori della laguna avrebbero utilizzato correntemente Malvasia per preparare la loro zuppa di pesce! Inoltre, numerosi alimenti orientali, meno spettacolari, divengono alla fine del Medioevo prodotti di consumo corrente: gli spinaci, i meloni, le cotogne e i carciofi invadono gli orti e le tavole veneziani.
Preparazioni originali
I prodotti orientali portano in tavola il lusso: caviale, spezie varie, vini greci o ancora lombi di storione affumicati (schenalia), una prelibatezza che il mercante Giacomo Badoer compra sul Mar Nero e conserva come dono per i genitori. Ma non solo: la diffusione dello zucche-
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Come i prodotti, anche la preparazione degli alimenti tradisce influenze e apporti di varia provenienza: l’eredità romano-bizantina nella salsa di pesce detta garòn, lontana discendente del garum romano; l’influenza armena nell’associazione dei cibi e dei sapori; l’influsso giudaico nella cottura dei cibi stufati o nella preparazione della lingua, ma anche germanico – troviamo i crauti sui banchi di Rialto – oppure ungherese. Questo melting pot ha dato vita a preparazioni originali, in cui dominano i sapori agrodolci, il cosid-
detto dolzegarbo. Fra le preparazioni culinarie piú famose ancora oggi resta il saor («sapore»), che risale al XIV secolo: un’alleanza di spezie dagli aromi soavi e dolci (cannella, chiodi di garofano, noce moscata, anice, cumino, zenzero), accompagnate da frutta secca (pinoli, uva passa di Corinto) e dal sapore piú acre della cipolla e dell’aceto, che serviva a preparare tanto il pesce quanto la carne o ancora il fegato di vitello (vedi box a p. 46). Nel complesso, però, non era certo la finezza a dominare. In genere, la quantità aveva la meglio sulla qualità e la raffinatezza del palato, come la intendiamo oggi, a Venezia come altrove non appartiene al Medioevo. Per convincercene, ascoltiamo, a guisa di conclusione, il mercante di panni Jacques le Saige, venuto dal Nord come Erasmo, quando descrive la dieta che gli era stata servita prima della sua partenza dal patrono di una nave desideroso di attirare la clientela: «È cioè al mattino una tazza piena di Malvasia con due o tre pezzetti di pan biscotto; a pranzo passato di verdure e due tipi di carne bollita e anche formaggio e vino a volontà per la durata del pasto. Ugualmente a cena arrosto e anche bollito di due tipi di carne e ancora del formaggio. E, circa due ore dopo cena, una tazza di vino... ».
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letteratura divina commedia
Sulla bocca di tutti di Paolo Garbini
La Divina Commedia godette di straordinaria fortuna già all’indomani della sua composizione facendo di Dante una delle celebrità del tempo. Un successo testimoniato dal gran numero di edizioni manoscritte del poema e rinnovato dalle pubbliche letture dei versi, organizzate un po’ ovunque nella Penisola
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ra i motivi per cui in letteratura il Medioevo va considerato il primo tempo dell’età moderna v’è la possibilità di seguire da vicino la nascita e la diffusione di un capolavoro. Al Medioevo risalgono, per esempio, i primi autografi tuttora conservati, come quelli famosi di Petrarca e di Boccaccio. E sempre nel Medioevo è possibile seguire le vie di diffusione delle opere letterarie, a partire dal momento in cui esse furono composte. Sembrano, questi, elementi apparentemente marginali, eppure non lo sono. Oggi sappiamo quasi tutto dei classici del nostro tempo: di Svevo, di Montale, di Pasolini abbiamo appunti, redazioni manoscritte con correzioni, edizioni controllate e licenziate come «originali» dagli autori in persona: tutto materiale che aiuta alla comprensione dei loro scritti. Ma la situazione cambia, e moltissimo, se si retrocede a epoche piú antiche. Basti pensare, per esempio, che circa i classici latini – per non parlare dei greci – il tempo ci ha sottratto invece una mole enorme di informazioni preziose. Un caso su tutti: i piú antichi
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In alto capolettera miniato raffigurante Dante e Virgilio fra i dannati. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A destra Orvieto, Duomo, Cappella Nova (o di S. Brizio). Il ritratto di Dante realizzato ad affresco da Luca Signorelli. 1499-1502.
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letteratura divina commedia manoscritti da noi posseduti delle opere di Virgilio risalgono a circa cinquecento anni dopo la morte del poeta. Un salto di secoli. Una eclissi culturale che ci nasconde cose che vorremmo sapere: chi ha letto le opere di Virgilio, e dove, e come? Domande le cui risposte molto ci direbbero su uno dei classici indiscussi della letteratura, perché Virgilio classico fu – già anticamente – ed è ancora, in prima battuta, per il fatto semplicissimo che è stato letto e riletto attraverso i secoli. Questo infatti pare essere lo «statuto» di un «classico»: il fatto di essere un’opera «contemporanea» di qualsiasi epoca.
Un mistero senza tempo
Conoscere il modo con cui un’opera si è diffusa nel tempo, vedere cioè come quell’opera sia stata appunto sempre «presente» nello scorrere della storia è dunque un momento fondamentale per accostarsi al mistero della letteratura. Quel mistero per cui un testo scritto da chi oggi è morto ha bisogno del nostro corpo di lettori per vivere, quel mistero per cui noi oggi, per vivere, abbiamo bisogno di alimentarci della vita di chi non c’è piú. Accostiamoci alla Commedia, che Eugenio Montale definí «l’ultimo miracolo della poesia mondiale». Il poema dantesco fu uno dei bestsellers del Medioevo: al primo posto fra le opere nei diversi volgari europei, viene dietro solo alla Bibbia e alla Legenda aurea di Iacopo da Varazze. Della Commedia si conservano oggi ben circa seicento manoscritti contenenti almeno una delle tre cantiche, copiati fra Tre e Quattrocento: circa seicento superstiti di un numero molto maggiore, per la «legge»
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La copiatura
Quasi una catena di montaggio Il successo subito riscosso dalla Commedia provocò un eccezionale lavoro di copiatura del testo. Tanta era, per esempio, la richiesta del poema da parte di lettori dei ceti abbienti e mercantili di Firenze che, verso la metà del Trecento, il notaio e copista Francesco di ser Nardo da Barberino decise di allestire un’officina scrittoria adibita unicamente alla copiatura del poema, tanto da produrre circa un centinaio di codici, chiamati per questo «Danti del Cento». Si trattò insomma di una sorta di vera e propria catena di montaggio, e fu un’impresa economica e culturale unica nel panorama librario italiano ed europeo del Trecento. In basso miniatura raffigurante Dante e Beatrice davanti al Cielo del Primo Mobile (Paradiso, Canto XXVIII) da un’edizione della Commedia illustrata da Giovanni Di Paolo. 1450 circa. Londra, British Library.
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Capolettera miniato da un’edizione manoscritta della Commedia. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale.
secondo cui piú codici di un’opera si conservano, piú ne devono essere andati perduti. Il successo lungo i secoli della Commedia, e cioè la capacità del poema di sopravvivere al suo tempo è nozione comune in Europa per qualsiasi persona di media cultura. Quello che invece è perlopiú noto solo agli specialisti è il modo in cui l’opera si diffuse al suo apparire. Risalire ai primi momenti di quella che poi fu una fortuna sconfinata è emozionante, per un letterato, come per un astronomo risalire agli attimi immediatamente successivi al Big Bang: si tratta, in entrambi i casi, di assistere all’espansione di un universo.
La prima pubblicazione
La fama di Dante prese a circolare quando il poeta era ancora vivo: condannato al suo destino di esule, trovò
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fuori Firenze cerchie sempre piú larghe di estimatori. Le cantiche del poema si diffusero non appena egli le ebbe rese pubbliche: l’Inferno nel 1314, il Purgatorio nel 1315, il Paradiso fra il 1316 e il 1320. Le piú antiche testimonianze della lettura della Commedia si affacciano, timidamente, sui margini di manoscritti di altri testi. Sono le prime gocce di quello che di lí a poco ingrosserà fino a diventare un oceano di inchiostro. I primi lettori del poema dantesco sono uomini di legge che lasciano dove possono tracce – minime ma indelebili – della loro passione. La piú antica menzione della Commedia si deve infatti al notaio e letterato Francesco da Barberino (1264-1348), il quale nel 1314, in una nota autografa ai suoi Documenti d’amore, cita due versi dell’Inferno (I, 83 e 85). Qualche tempo dopo, a Bologna, nel 1317, nel 1319 e poi in an-
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letteratura divina commedia la lectura dantis
Far vivere le cantiche Fra Tre e Quattrocento un canale importante per la diffusione della Commedia furono le letture pubbliche del poema, tenute perlopiú da letterati o professori. Organizzate dai Comuni e dagli Studi cittadini, queste letture, insieme anche ai numerosi commenti al poema, provano che la Commedia, prima tra le opere in volgare, fu ben presto inserita nel canone dei libri letti nella scuola, al pari dei classici latini. Si trattò del primo tentativo di pareggiare i conti tra antichi e moderni. La piú antica lettura di successo fu quella commissionata dal Comune di Firenze a Giovanni Boccaccio, il quale, nel 1373, vecchio e malfermo, tenne 60 lezioni, utilizzando sia i commenti alla Commedia di Pietro Alighieri, di Iacopo della Lana e dell’Ottimo, sia le notizie ricavate da cronisti e da conoscenti di Dante. Dopo l’acclamata esperienza di Boccaccio, per tutto il Quattrocento la lectura Dantis si estese e si istituzionalizzò, sia a Firenze che in Toscana. Tra i numerosi lettori incaricati dallo Studio fiorentino ricordiamo il cronista Filippo Villani, che lesse il poema dal 1391 al 1402; l’umanista Francesco Filelfo, che tenne un corso nel 1431-32 a S. Maria del Fiore, e Cristoforo Landino, il quale trasse dalle proprie lezioni un fortunatissimo commento alla Commedia (1481). Letture pubbliche del poema si tennero anche fuori di Toscana a Milano, Verona, Città di Castello, nelle Marche, in Sicilia. Nel Cinquecento, tra le accademie che promossero letture dantesche, si distinse l’Accademia Fiorentina, fondata nel 1540 da Giovanni Mazzuoli e attiva fino al 1589. Successivamente, dopo un lungo periodo in cui le iniziative volte a diffondere la conoscenza della Commedia si attenuarono, l’istituzione della lectura Dantis rinacque in età moderna a Firenze nel 1899, per allargarsi poi a Roma (alla «Casa di Dante»), a Ravenna, a Milano e quindi in altre città. In anni piú recenti, hanno avuto grande seguito le letture proposte dagli attori Vittorio Gassman e Carmelo Bene, e, soprattutto, dallo scrittore Vittorio Sermonti, che ha declamato le terzine dantesche per tutti gli anni Novanta e Duemila, riscuotendo un successo straordinario.
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ni successivi, diversi notai, entusiasti del poema, trascrissero i versi che piú li avevano colpiti sui margini di alcuni registri e memoriali, addirittura, cioè, negli spazi bianchi dei loro strumenti di lavoro. Nel 1321, quando Dante morí, la sua figura era ormai diventata leggendaria. Eppure, di lui tutto è andato perduto: l’autografo della Commedia, quelli delle altre opere, la biblioteca. Le copie piú antiche del poema risalgono a circa dieci anni dopo la morte di Dante e furono allestite in Toscana: da lí – e dall’Italia settentrionale – grazie anche all’opera di un «divulgatore» d’eccezione come Giovanni Boccaccio nel ritratto facente parte del Ciclo degli uomini e donne illustri affrescato da Andrea del Castagno per la villa Carducci di Legnaia. 1450. Firenze, Galleria degli Uffizi. maggio
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A sinistra miniatura raffigurante Dante e Virgilio che incontrano il conte Ugolino mentre costui sta divorando la testa dell’arcivescovo Ruggeri (Inferno, Canto XXXIII), dal Manoscritto Palatino 313 o Codice Poggiali, raccolta che contiene il Commento all’Inferno di Iacopo Alighieri, figlio del poeta. Secondo quarto del XIV sec. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale.
A destra Virgilio, al centro, mostra a Dante Beatrice in cielo (Inferno, Canto II), incisione realizzata da Baccio Baldini, su disegno di Sandro Botticelli, per il commento alla Commedia di Cristoforo Landino. 1481.
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letteratura divina commedia
Boccaccio, la Commedia si diffuse rapidamente per tutta la Penisola. Una caratteristica davvero singolare della fortuna del poema di Dante è che esso incontrò non solo un successo immediato ma anche il favore di un pubblico larghissimo, fatto sia di letterati che di popolani. L’accoglienza della Commedia presso i ceti sociali piú bassi è testimoniata da un ricco fiorire di aneddoti e battute colorite. Alla pari di altri uomini famosi come Carlo Magno, il Saladino, o Giotto, anche Dante entra dunque come personaggio in quella letteratura novellistica che non è solo un prodotto letterario, dotto, ma è anche il punto d’arrivo, scritto, della fantasia popolare o, in altri termini, della cultura orale. A mettere insieme
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tutto questo materiale narrativo si ottiene una specie di leggenda agiografica di Dante, che oltre a fornirci il ritratto della fiera personalità del poeta, molto ci dice anche sulla estesa diffusione della Commedia.
L’irriverenza di un asinaio
Un paio di esempi, i famosi aneddoti del fabbro e dell’asinaio raccontati da Franco Sacchetti (1332/34-1400) nel suo Trecentonovelle: un fabbro, mentre lavorava sull’incudine, «cantava il Dante come si canta uno cantare» e nel far ciò smozzicava e storpiava i versi, al punto che Dante, ascoltandolo, si sentí offeso; un asinaio «andava drieto agli asini, cantando il libro di Dante, e quando avea cantato un pezzo, maggio
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La voragine infernale, una delle tavole realizzate da Sandro Botticelli per illustrare la Divina Commedia. 1480-1495. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
Ma come si spiega questa circolazione orale della Commedia tra i ceti inferiori della società? Come potevano, cioè, fabbri e asinai sapere dell’esistenza della Commedia? E come potevano, analfabeti o quasi, conoscerne il testo? Per rispondere a queste domande dobbiamo pensare alla «geografia» della fama di Dante. Le regioni in cui subito si diffuse la Commedia sono la Toscana, l’Emilia-Romagna e il Veneto: siamo dunque in quell’Italia comunale che aveva identificato la politica urbana con la parola pubblica, e che aveva fatto delle assemblee cittadine un momento fondamentale della vita politica e culturale. In questo contesto si era diffusa una iniziativa, che oggi chiameremmo un mezzo di comunicazione, e cioè la lettura pubblica di opere letterarie nelle piazze o nelle chiese gremite di cittadini (vedi box a p. 60).
Tutti in piazza per la Commedia
toccava l’asino e diceva: “Arri”. Suscitando la reazione violenta di Dante che lo colpí e gli urlò “Cotesto ‘arri’ non vi mis’io”». Non conviene domandarsi se questi due episodi siano davvero accaduti, registriamo piuttosto che, alla fine del Trecento, doveva essere plausibile che almeno parti del poema dantesco fossero cantate – alla maniera dei cantari, cioè dei romanzi in ottave – anche da persone che potevano non comprenderne il senso. Che la Commedia possa essere diventata addirittura un canto di lavoro si spiega pensando al suo contenuto, in particolare alla presenza di personaggi notissimi, e si spiega anche pensando alla forma del poema, articolato su terzine e dunque facilmente memorizzabile per via della sequenza delle rime.
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Ben presto, e un po’ ovunque, la Commedia fu letta pubblicamente, raggiungendo cosí larghe fasce di ascoltatori, tra i quali molti sicuramente lontani da interessi letterari, però certo avvinti dalla stessa passione con cui Dante aveva scritto il suo poema. Affollatissima fu, per esempio, la lettura pubblica affidata a Boccaccio, che la iniziò il 23 ottobre 1373 nella chiesa di S. Stefano in Badia a Firenze. In precedenza, tra il 1346 e il 1348, a Verona anche uno dei figli di Dante, Pietro, aveva esposto il contenuto del poema paterno in una accalcata piazza delle Erbe. Nelle rissose piazze dei Comuni italiani del tardo Medioevo, tormentati da incessanti scontri tra le fazioni, la Commedia conobbe insomma il destino davvero singolare di mettere tutti d’accordo. Sulla straordinaria circolazione popolare della Commedia qualcosa insegna anche la tradizione manoscritta. Abbiamo detto dello sterminato numero di manoscritti del poema oggi conservati, e dobbiamo aggiungere che moltissimi, sia del Trecento che del Quattrocento, sono di fattura rozza, essendo libri a buon mercato destinati non alle biblioteche di signori, ecclesiastici o letterati, ma alle bisacce di mercanti e pellegrini: tascabili o economici, diremmo oggi. Le copie superstiti del XV secolo sono circa quattrocento e ci fanno intravedere quel pubblico di lettori sempre crescente che acquisterà la prima edizione, stampata a Foligno da Giovanni Neumaster l’11 aprile del 1472 e via via le numerosissime altre che, attraverso cinque secoli, ci hanno consegnato il capolavoro indiscusso del Medioevo.
Da leggere Enrico Malato, Il mito di Dante dal Tre al Novecento, in «Per correre miglior acque...». Bilanci e prospettive degli studi danteschi alle soglie del nuovo millennio, I, Salerno Editrice, Roma 2001; pp. 3-39
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costume e società di Davide Iacono
Quel
sogno
d’ordine...
Nel 1837, a soli diciotto anni, Vittoria, principessa del Kent, cinge la corona d’Inghilterra e dà inizio a uno dei regni piú lunghi della storia del Paese anglosassone. Un’età di grandi mutamenti, ma anche di riscoperta degli ideali del Medioevo, visto come un’epoca idilliaca, fatta di spirito cavalleresco e di una (presunta) umanità, preferibile al degrado della civiltà industriale
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Re Artú e Lancillotto, cartone per una delle vetrate policrome disegnate da William Morris per la Harden Grange, residenza del mercante di stoffe Walter Dunlop, e aventi come soggetto il ciclo di Tristano e Isotta. 1862.
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n Inghilterra, il recupero medievale e cavalleresco che ebbe la sua gestazione tra le pagine scritte di protoromantici e romantici cominciò a tracimare, all’indomani dell’ascesa della regina Vittoria (1837), anche nello spazio sociale. Da allora in poi si iniziò a guardare al Medioevo con occhi nuovi. Per sostanziarsi di antichità e rilanciare la propria immagine, la casa regnante attinse a un immaginario e a una retorica che riconducevano all’Inghilterra medievale. Il presente veniva collegato a un mitico passato medievale, di cui si esasperavano gli ideali cavallereschi e la continuità dinastica tra gli Hannover – la casa reale della regina Vittoria – e i Plan-
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costume e società
tageneti, che avevano fatto grande il regno nei secoli di mezzo. È il Return to Camelot (1981), per citare il bel saggio di Mark Girouard, opera fondamentale per quanti vogliano approfondire i medievalismi e il revival cavalleresco. Pensiamo al Torneo di Eglinton, nel 1839 (vedi box a p. 71), che, seppur ampiamente parodiato dai whigs (denominazione popolare dei politici d’ispirazione liberale, poi passata a indicare, convenzionalmente, il partito laburista, n.d.r.), rimase nella memoria popolare come l’incarnazione vivente del genere di cose che Walter Scott in precedenza aveva portato in vita tra le pagine dei suoi romanzi; o al Bal Costumé, la grande festa di gala «medievale»
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In alto Violet and Columbine, panno di twill in lana e mohair, tessuto su disegno di William Morris. 1883.
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voluta dalla regina Vittoria all’indomani del matrimonio con il principe Alberto di Sassonia-CoburgoGotha – il novello re Artú (vedi «Medioevo» n. 271, agosto 2019; anche on line su issuu.com) – e che per l’occasione vide la coppia reale nei panni, rispettivamente, della regina Filippa e di Edoardo III (cosí furono immortalati in un dipinto di Sir Edwin Landseer).
Un fascino irresistibile
Anche le arti figurative, in particolare la pittura, sembrano ossessionate dalle figure medievaleggianti di Artú, sir Galahad, La Belle Dame sans Merci, o, piú in generale, dal tema del cavaliere errante. Entro gli anni Quaranta dell’Ottocento, i preraffaelliti scoprirono (e per molti inventarono) il Medioevo, quello del nostro immaginario collettivo. I cavalieri ritratti da Mclise, Dyce o Rossetti spopolarono non solo tra gli aristocratici, ma anche tra una borghesia in rapida ascesa e de-
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siderosa di affermazione, preda di un’irresistibile medieval fever. Negli stessi anni, il partito tory, quello dei conservatori, muovendo da un medievalismo fatto di ideali cavallereschi di ascendenza «scottiana», iniziò a cercare soluzioni nel Medioevo per far fronte alla crescente preoccupazione per la «condition of England». È il caso di Thomas Carlyle, che, in Past and Present (1843), contrappose ai mali della sua epoca l’armoniosa vita di un’abbazia, auspicando il ritorno a un Medioevo eroico, in grado di contrastare l’inesorabile avanzata del mondo industriale, della borghesia, e dei disordini legati alle istan-
ze operaie; o di Benjamin Disraeli, il quale, con il movimento Young England (1842), individuava soluzioni neo-feudali alla crisi del presente. Anche il mondo religioso e spirituale non rimase insensibile al canto delle sirene neomedievali. Negli stessi anni il Movimento di Oxford – fondato dal futuro cardinale John Henry Newman – riproponeva atmosfere monastiche, insieme al recupero del ritualismo e del simbolismo religioso nell’ambito del revival anglo-cattolico e dell’High Church.
In basso, sulle due pagine il Palazzo di Westminster, a Londra, in una tavola realizzata per la Cassell’s History of England. 1890. A destra William Morris in una caricatura di Frederick Waddy. 1834.
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costume e società il revival gotico
Fra etica e razionalità Per «neogotico» s’intende la corrente artistica ottocentesca caratterizzata dalla riscoperta e dalla valorizzazione dell’arte gotica. Le sue origini sono da rintracciare in Inghilterra, dove il gotico aveva mantenuto la sua importanza nei secoli e già nel Settecento era stato oggetto di interpretazioni preromantiche. Le prime manifestazioni furono la realizzazione di tempietti gotici e finte rovine nei giardini, o residenze private. Solo nel XIX secolo, però, il movimento neogotico assunse caratteri piú precisi, dando vita al cosiddetto «Gothic Revival». Ciò fu possibile perché in vari Paesi europei, tra cui Inghilterra, Germania e Francia, si cominciò a identificare l’arte gotica come l’arte propria di ogni nazione, a tal punto che le tre nazioni se ne contesero a lungo la paternità originaria. Al contempo, nei singoli Stati furono aspre le dispute tra architetti neoclassici e neogotici su quale fosse lo stile piú adatto a celebrare lo spirito nazionale. Appartengono a questo periodo la costruzione di importanti edifici, come il palazzo di Westminster a Londra, il Duomo di Colonia e il completamento della
cattedrale di Notre Dame a Rouen. Videro inoltre la luce i primi trattati sull’architettura medievale, come An Attempt to Discriminate the Styles of English Architecture di Thomas Rickman (1817), The true principles of pointed Christian architecture di Augustus W.N. Pugin (1841), The stones of Venice di John Ruskin (1851-53), Dictionnaire raisonné de l’architecture française du 11me au 16me siècle di Eugène-Emmanuel Viollet-le-Duc (1854-68). Proprio le opere di Ruskin e Viollet-le-Duc possono considerarsi l’apice del movimento neogotico, con alcune differenze importanti: se Ruskin dava infatti all’architettura gotica un importante valore etico e morale, Violette-le-Duc vi vedeva un esempio di estrema razionalità strutturale, che poteva ancora essere preso a modello per l’architettura contemporanea.
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A sinistra il progetto di Eugène-Emmanuel Viollet-le-Duc per la ristrutturazione di una cappella della cattedrale parigina di Notre-Dame. 1843. New York, The Metropolitan Museum of Art. Nella pagina accanto disegno di Viollet-le-Duc, raffigurante l’armatura di un cavaliere tedesco del XV sec. 1868 circa.
In letteratura, Alfred Tennyson rielaborò motivi arturiani in The Lady of Shalott (1832-42) e Idylls of the King (1859-88), mentre la scoperta di importanti manoscritti, gli studi pionieristici sulla filologia e il folklore nordici emanciparono la cultura «germanica» dalla tradizione classica, che riscoprí – per citare Tommaso di Carpegna – le sue radici nel «Medioevo del Grande Nord» (Vedi «Medioevo» n. 268, maggio 2019; anche on line su issuu.com). L’architettonico Gothic revival si diffondeva nelle campagne e nelle città, grazie al successo di uno stile
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sancito dalla ricostruzione e decorazione in forme neogotiche – a opera degli architetti Barry e Pugin – del palazzo di Westminster dopo l’incendio del 1834: esempio monumentale, vistosissimo, della connessione fra monarchia e medievalismo. Vincitore della «Battaglia degli Stili» come «stile nazionale», il gotico esprimeva la superiorità morale, protestante e libera, dello spirito inglese.
Come un atto d’accusa
La vittoria del Gothic taste fu segnata dal successo delle opere del critico d’arte John Ruskin: The Seven
Lamps of Architecture (1849) e The Stones of Venice (1851). Qui la lezione del gotico diviene ispirazione per una severa denuncia contro l’asservimento mutilante dell’operaio all’industria. Il gotico – che per Ruskin è uno stile umano, popolare, semplice, fantasioso, libero, selvaggio – rappresenta un atto d’accusa contro l’inumano degrado provocato dalla civiltà industriale e da una modernità che sembrava divorare inesorabilmente la Merry England (letteralmente, l’«Allegra Inghilterra», con riferimento alla presunta atmosfera idilliaca che
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Sulle due pagine tavole a colori che illustrano alcuni momenti del Torneo di Eglinton, allestito in Scozia nel 1839.
nuova società fondata sul rispetto dell’uomo e del suo lavoro.
avrebbe caratterizzato la nazione inglese fra il Medioevo e la Rivoluzione industriale, n.d.r.). La cattedrale medievale si profila in questo caso come un monumento alla libertà dell’uomo. Modello insieme etico ed estetico, essa era espressione del lavoro collettivo degli antichi, liberi, operai e di una società cooperativa, armoniosa, piú equa e giusta. In questa nostalgica apologia di un Medioevo totalmente idealizzato – perfetta età perduta in cui bellezza e crescita umana marciavano insieme – si rintracciavano i mezzi per la costruzione di una
Il sogno medievalista portò Ruskin addirittura a prosciugare averi e salute mentale nella creazione di una gilda, in cui san Giorgio stesso – santo patrono britannico e massimo esempio di cavalleria – venne arruolato a combattere il drago dell’industrialismo. La St. George Guild non era che una comunità utopica, organizzata secondo una rigida, quanto artificiosa, piramide feudale, con un legame tra gli appartenenti e il capo della gilda, paragonato dal suo fondatore a quello che univa un vassallo al proprio dominus. Al momento dell’affiliazione, gli appartenenti
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La gilda di san Giorgio
erano tenuti a donare un decimo dei loro beni alla comunità mentre i terreni acquistati sarebbero stati coltivati rigorosamente senza l’ausilio di macchinari. «Un monastero mondiale contro il male di questi giorni», secondo le fantasticherie di Ruskin, retto dall’uso delle antiche leggi anglosassoni, integrate a quelle fiorentine del Trecento. Gli artigiani sarebbero stati divisi in arti e organizzati secondo rigidi principi gerarchici e la valuta, di puro oro o argento, coniata sul modello di fiorini e ducati, avrebbe recato impresse le effigi di san Giorgio e san Michele. La Merry England sarebbe finalmente risorta. Nonostante l’esito tragicomico – nella realizzazione pratica, la gilda maggio
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Il torneo di Eglinton
Vestivamo alla medievale Il piú spettacolare e indimenticabile sfoggio di medievalismo nella prima metà del XIX secolo nel Regno Unito fu il torneo svoltosi nel parco del castello di Eglinton, in Scozia, nell’agosto del 1839. Organizzato dal conte di Eglinton, Archibald Montgomerie, fu pensato inizialmente come festa locale e crebbe come grande rievocazione ispirata al gusto letterario di Scott e alla fortuna del suo Ivanhoe. Molti dei costumi, delle armature e delle scenografie furono procurati da Samuel Pratt, un commerciante londinese specializzato in questi prodotti. Aperto al pubblico, il torneo attirò migliaia di spettatori, provenienti anche dall’India o dal Sud America, che, ovviamente, assistettero con vestiti «medievali». I partecipanti, benestanti e conservatori, avevano trascorso l’anno precedente in esercitazioni, sia in privato che in pubblico, suscitando una grande curiosità per l’evento. Allo stesso tempo fu prodotta una grande varietà di souvenirs a beneficio del pubblico.
sprofondò tra mille debiti, e si risolse in pochi tetri acri nello Yorkshire e a qualche minuto di giardinaggio –, l’impresa di Ruskin rappresenta la traduzione piú concreta del medievalismo vittoriano, e anticipò il movimento – questo sí egemonico e di portata europea – Arts and Crafts. Una tale prospettiva trovò infatti terreno fertile tra marxisti e socialisti, come il preraffaellita William Morris, che fece delle idee del conservatore Ruskin, e del suo gotico, un manifesto politico. Con Morris, il preraffaellita che probabilmente lasciò il segno piú marcato in ambito sociale, il sogno romantico medievale si trasformò in un’utopia realizzabile, che univa diritti operai ed estetica medievale.
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Vi è in questo senso un’ambiguità di fondo, quasi inestricabile, nel medievalismo vittoriano.
Una rottura paradossale
Potrà sembrare assurdo, un po’ paradossale ma, riflettendoci, il medievalismo vittoriano risultò antitradizionalista nella misura in cui la riproposta di un ritorno al passato – che a un’analisi superficiale può apparire come qualcosa di reazionario, statico o passatista – rappresentò una rottura che tendeva a modificare una situazione di fatto, che rifiutava principi d’autorità dati per assoluti (come ben testimonia la vicenda preraffaellita, nient’altro che una rivolta ai rigidi stilemi dell’Accademia).
Il revival medievale vittoriano di Ruskin, Pugin, Disraeli, Newman, Rossetti, Morris e molti altri non era allora un semplice vagheggiare, come quello dei loro, illustri, romantici predecessori, che amavano il Medioevo come qualcosa di remoto, senza alcuna connessione con il loro quotidiano. Essi consideravano la vita, la società medievale, come l’unica via realmente praticabile, esperibile, per una «moderna» riforma socio-politica. In questo senso medievalismo e romanticismo smisero di coincidere quando il primo accolse la dimensione utopica di attualizzare e rivivere il passato. Ciò è evidente, per esempio, in Ruskin, che accusava Walter Scott – rappresentante di un
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Contro la disumanità della civiltà industriale Per Ruskin, come per molti altri intellettuali dell’età vittoriana – per esempio Pugin o Carlyle –, il Medioevo riveste un’importanza fondamentale. Le idee di Ruskin, che ne fecero uno dei grandi medievalists del suo tempo, emergono in un’opera monumentale, in tre volumi, The Stones of Venice (Le pietre di Venezia), edita tra il 1851 e il 1853. Questo «Sermon in stones» – come lo definí l’altro grande medievalist del suo tempo, Thomas Carlyle – traccia la storia artistica di Venezia attraverso il periodo bizantino, gotico e rinascimentale, sviluppandosi nella dicotomia tra arte gotica e rinascimentale, tra Medioevo e modernità, fil rouge del pensiero dell’autore. In particolare, il capitolo piú importante dell’opera è «La natura del gotico». Qui la lezione sui caratteri del gotico diviene ispirazione per un severo atto di accusa sull’asservimento mutilante dell’operaio all’industria. L’architettura rinascimentale è In alto autoritratto ad acquarello e matita di John Ruskin. 1875. Nella pagina accanto uno scorcio della basilica veneziana di S. Marco dopo la pioggia, 27 maggio 1846, schizzo di John Ruskin. Oxford, Ashmolean Museum.
medievalismo ancora di «carta» – di sciupare «quasi metà della sua potenza intellettuale sognando il passato con passione, ma senza scopo», dedicando i suoi sforzi letterari a rivivere il passato «non nella realtà, ma sul palcoscenico della finzione». La nostalgia per i «bei tempi andati», per l’«età dell’oro» e per la Merry England, non costituiva allora una semplice fuga che incoraggiava un passivo ritiro dalla realtà politica e sociale, ma un ideale, dotato di un potere reale e attivo.
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condannata come distaccata, aristocratica, sterile, meccanica. Inutile al popolo e rivolta solo al potere. Il gotico, invece, è visto come umano, semplice, fantasioso, libero. La parte piú originale è però rappresentata dall’accusa contro l’inumano degrado provocato dalla civiltà industriale. Per l’autore, la mentalità inglese, non dissimile da quella dell’antica Grecia, con il suo desiderio di massima perfezione, aveva creato una nuova classe di schiavi. La cattedrale medievale diveniva cosí un monumento alla libertà e un modello insieme etico ed estetico (espressione del lavoro collettivo degli antichi, liberi, operai e di una società cooperativa e armoniosa). Nel 1892 William Morris pubblicò, negli eleganti caratteri neogotici della Kelmscott Press, il capitolo in questione: il sogno romantico medievale si trasformò in una concreta utopia che univa socialismo, lotta di classe e immaginario medievale.
Il medievalismo ottocentesco, complesso nelle sue origini e vario nelle sue manifestazioni, si profila quindi come soluzione ai «mali» della modernità: industrialismo, utilitarismo e urbanizzazione. Il Medioevo, in particolare il sistema feudale – veicolato principalmente attraverso il modello neocavalleresco – sembrava offrire un’immagine piú armonica e stabile rispetto all’insicurezza religiosa e all’alienazione di una società industriale.
Visioni distanti
Lungi dal configurare un programma omogeneo e coerente, l’irretimento dei vittoriani per il Medioevo diede però luogo a visioni distanti e spesso contraddittorie. Possiamo cosí parlare di un medievalismo di
destra, autoritario, paternalistico, reazionario in Disraeli, Carlyle e Ruskin; di segno utopico e socialista in William Morris; di ispirazione cattolica in Pugin, Digby e Newman o anticattolico e filoanglicano in Charles Kingsley. Come ben rilevò negli anni Settanta Alice Chandler, il sogno del Medioevo vittoriano, nelle sue diverse declinazioni e sfumature, si configura però sempre come «sogno d’ordine», come tentativo di recuperare una dimensione armoniosa e piú solidale della convivenza umana. I secoli di Mezzo diventano allora emblema di un ordine piú alto al quale l’umanità poteva tornare a mirare rispetto a un presente disorientato e in veloce trasformazione. Gli effetti di questo medievalismo – in particolare quello del
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costume e società revival cavalleresco con tutto il suo apparato ideologico-pedagogico (ordine, obbedienza, dovere, sacrificio, fedeltà al sovrano e alla nazione), e immaginario (cavalleria, crociata, spiritualità monastica) – si rese tristemente utile nel fornire il necessario equipaggiamento ideologico per le generazioni mandate all’avventura coloniale prima e all’enorme massacro della Grande Guerra poi. E proprio la prima guerra mondiale fu la tomba dell’imponente costruzione medievalista dell’età vittoriana ed edoardiana (vedi «Medioevo» n. 270, luglio 2019; anche on line su issuu.com). Sui fangosi campi di battaglia dell’Europa, quelli di Verdun e della Somme, tra le ultime, disperate, cariche di cavalleria – contro poco cortesi nidi di trincee e carri armati –
In alto Nota di William Morris sul suo contributo alla fondazione della Kelmscott Press. 1895. A sinistra reliquiario in bronzo dorato realizzato su disegno di Violletle-Duc. 1851 circa.
si consumò il naufragio del sogno medievale vittoriano. Dopo l’esperienza dei brutali combattimenti in trincea, il medievalismo britannico gradualmente abbandonò il mondo reale – cessando di idealizzare la società britannica come una nuova Camelot – per rifugiarsi nel regno della fantasia. È il 1917 quando un giovane accademico oxoniense, John R. R. Tolkien, dopo aver sperimentato l’orrore della battaglia della Somme, scrisse La
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Parigi, Notre-Dame. Particolare del portale del Giudizio Universale.
Caduta di Gondolin, il primo racconto completo ambientato nella Terra di Mezzo: l’allucinata epopea di una città di una civiltà superiore schiantata da un esercito da incubo e difesa, disperatamente, da forze elfiche. Il ventiquattrenne studioso di filologia, trovò cosí rifugio nella scrittura e in quello che sarà, forse, il piú noto dei mondi neomedievali.
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Da leggere Renato Bordone, Lo specchio di Shalott: l’invenzione del Medioevo nella cultura dell’Ottocento, Liguori, Napoli, 1993 Guido Bulla, William Morris fra arte e rivoluzione, Garigliano, Cassino 1980 Tommaso di Carpegna Falconieri, Medioevo militante. La politica di oggi alle prese con barbarie e crociati, Einaudi, Torino 2011
Kenneth Clark, Il revival gotico, traduzione di Renzo Federici, Einaudi, Torino 1970 Mario Domenichelli, Cavaliere e gentiluomo: Saggio sulla cultura aristocratica in Europa 1513-1915, Bulzoni, Roma 2002 John Garth, Tolkien e la Grande Guerra. La soglia della Terra di Mezzo, Marietti 1820, Genova 2007
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di Flavio Russo
Prima dell’avvento dei castelli, il controllo del territorio era affidato a strutture semplici e assai meno imponenti: le motte castrali, postazioni dal rilievo modesto, solitamente coronate da una torre e difese da fossati e palizzate. Una soluzione semplice, dunque, e dal sapore «antico», poiché replicava, senza differenze sostanziali, modelli sperimentati dalle comunità umane fin dalla preistoria. E che, prim’ancora degli assedi, temevano le piogge e il fuoco... 76
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al punto delle tecniche d’assedio, un rilevato di appena una decina di metri sulla circostante pianura, creava piú difficoltà d’approccio di un percorso di varie decine di chilometri in pianura. Quella preminenza tattica derivava da molteplici fattori, tra i quali possiamo sottolineare: la piú ampia visuale, che frustrava ogni investimento insidioso; il minor spazio disponibile per posizionare attorno alle mura uomini e macchine d’assedio, dalle scale d’assalto alle grandi artiglierie a gravità; la maggiore e piú violenta gittata delle armi da lancio rispetto a quelle nemiche, per l’incremento del tiro dall’alto verso il basso e, di conseguenza, la minore letalità delle seconde. L’insieme di questi vantaggi e di altri ancora di minore importanza – ma non per questo di trascurabile valenza ostativa – costituí da sempre la ragione della collocazione apicale delle fortificazioni piú coriacee, una peculiarità che ne esaltò il potenziale difensivo
dopo il dissolversi dell’impero romano d’Occidente. Da quel momento, infatti, si perse non tanto la cognizione della precedente ed evoluta architettura militare, quanto la capacità di espugnare anche la postazione piú malandata. Di conseguenza, i canoni difensivi regredirono notevolmente, poiché strutture appena piú massicce delle semplici capanne di legno e paglia si rivelarono sufficienti per tenere a bada predoni e razziatori, feroci quanto digiuni dei rudimenti piú elementari dell’arte degli assedi. In tale contesto, nel IX secolo, fece la sua comparsa un singolare archetipo fortificatorio, definito motta castrale, che si diffuse rapidamente dalla Normandia, alla
Nella pagina accanto una motta castrale assediata: da notare i tentativi di incendiarla, particolare del telo ricamato di Bayeux (comunemente indicato come «arazzo»). 1066-1077. Bayeux, Musée de la Tapisserie de Bayeux.
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LA MOTTA CASTRALE Ricostruzione grafica di una motta castrale e del borgo sottostante. A. primo ponte levatoio; B. borgo; C. canale di derivazione; D. fossato; E. motta; F. secondo ponte levatoio; G. dongione/mastio; H. palizzata; I. rampa.
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Gran Bretagna, alla Danimarca e al Mezzogiorno d’Italia. Alle spalle del fenomeno, squisitamente europeo, vi fu lo sgretolarsi dell’impero carolingio, che favorí il manifestarsi di forme di anarchia violenta e inconcludente, stimolo ideale per la proliferazione di costruzioni difensive precarie, con scarse capacità di resistenza.
Per difendersi dai Vichinghi
Purtroppo, l’insicurezza crebbe nel secolo successivo, in seguito alle incursioni di Magiari e Vichinghi, incentivando ulteriormente la costruzione di fortificazioni di elementare concezione, prime fra tutte, appunto, le motte castrali. Se ne avvalsero in particolare gli Angioini, per resistere alle scorrerie vichinghe, favorendo in tal modo il loro diffondersi nelle regioni a ridosso dei territori slavi. Paradossalmente, di lí a breve, proprio i Normanni –
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diretti discendenti dei Vichinghi – vi fecero ricorso, come testimonia il cosiddetto «arazzo» di Bayeux (in realtà, un telo ricamato, n.d.r.), avendone apprezzato sia la facilità che l’economicità di costruzione, a fronte della prestazione difensiva, comunque limitata, dal momento che si trattava pur sempre di fortificazioni di legno. Dal punto di vista strutturale, si intende per motta una costruzione militare costituita da un basamento tronco-conico in terra battuta – la motta propriamente detta – e da una torre apicale di legno. Come già accennato, simili apprestamenti proliferarono in pochi decenni nell’Europa centrale come nell’Italia meridionale, determinando un antesignano incastellamento territoriale. Agevoli da erigere, economiche da finanziare, rapide da ultimarsi, le motte castrali divennero la soluzione difensiva per antonomasia. maggio
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Non sempre l’innalzamento delle torri costituiva la fase finale della costruzione di una motta: spesso, infatti, la fortificazione veniva realizzata inglobando una struttura preesistente
In alto ricostruzione grafica ipotetica di un villaggio di epoca protostorica cinto da un fossato e da una palizzata: uno schema che, concettualmente, accomuna simili insediamenti alle motte castrali. A sinistra resti della motta castrale di Supersano (Lecce), ascrivibile all’epoca della dominazione normanna (XI sec.).
Il modesto rilievo d’impianto, quasi sempre artificiale, era ottenuto ammassando il terreno estratto dallo scavo del fossato anulare al suo interno, erigendo poi lungo il perimetro una robusta palizzata. Nulla di nuovo, dunque, poiché, concettualmente, si trattava della mera riproposizione di un criterio ostativo sperimentato dall’uomo fin dall’età del Bronzo e basato su fossati e aggeri di riporto sormontati da palizzate. Del resto, anche i Romani fecero proprio quel modello, adattandolo e adottandolo nell’impianto dei loro accampamenti. Nell’odierna lingua italiana, il termine motta non è piú in uso e il solo, labile, riferimento al suo originario significato si ravvisa nel verbo smottare, con il quale si allude allo sgretolarsi della motta. Il vocabolo motte, peraltro, fu coniato in Francia, traendolo dal latino mota, il cui significato era «prato». In seguito indicò le
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torbiere e poi piú tardi, intorno al XII secolo, si applicò a quella sorta di proto-castello. Quando possibile, la costruzione di una motta castrale si impiantava su di una collinetta naturale, sagomandola secondo le necessità tattiche. Ma era difficile trovare rilievi non molto alti, che avrebbero reso problematici gli approvvigionamenti e faticoso l’accesso, e neppure troppo ampi, che avrebbero allora richiesto eccessivi lavori di adattamento. Dovendo scavare il fossato, la soluzione piú agevole e rapida consisteva quindi nell’accumulare il terreno in forma di tronco di cono, creando in tal modo una collinetta artificiale, la motta anzidetta, sulla cui sommità si installava la torre.
Cantine e depositi sotterranei
Tuttavia, studi e ricerche condotti su piú di una di queste strutture hanno dimostrato che non sempre la torre veniva eretta dopo l’ultimazione della motta: spesso, infatti, preesistendo alla stessa, veniva inglobata, in rari casi totalmente, piú spesso solo parzialmente. Nella seconda circostanza, la parte sepolta si utilizzava come deposito, cantina o cisterna: è presumibile che la torre emergente venisse sopraelevata, o che comunque la sua sommità, al termine degli interventi, mantenesse la stessa quota precedente. Un’ottima ragione per non innalzare piú del necessario la motta derivava dalla lapalissiana constatazione che, al crescere lineare dell’altezza, cresceva in maniera esponenziale il fabbisogno di terra, che imponeva allora
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l’ampliamento a dismisura del fossato. Una scelta del genere che moltiplicava il lavoro degli zappatori – dotati unicamente di picconi, badili e carriole a barella – e faceva notevolmente lievitare i tempi e i costi di costruzione, senza apportare un proporzionale beneficio. Si deve inoltre considerare che la larghezza del fossato doveva mantenersi entro i limiti imposti dal ponte levatoio, la cui dimensione, affinché la struttura risultasse ancora manovrabile, non poteva eccedere la decina di metri.
Dimensioni e tempi di costruzione
Quanto alle dimensioni, l’altezza della motta variava fra i 3 e i 30 m, con un diametro della spianata sommitale compreso fra i 30 e i 90 m: dai resti ancora presenti in Gran Bretagna, si è ricavato che soltanto nel 7% dei casi superava i 10 m di altezza, mentre il 24% si attestava tra i 10 e i 5 m, e il 69% non eccedeva i 5 m. La durata del cantiere, pur essendo in funzione della cubatura della motta, non superava in genere i 10 mesi, attestandosi intorno ai 4 laddove fosse stata disponibile piú manodopera, sempre stimabile intorno al migliaio di zappatori, lavoratori non qualificati. Al riguardo, è significativo osservare che una costruzione di pari volume e carat-
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teristiche architettoniche, se in muratura di pietra, richiedeva invece cavatori e scalpellini – cioè lavoratori altamente specializzati e perciò scarsi e costosi – e poteva protrarsi per un decennio. Per restare all’altezza, i resti di motta conservati in Italia meridionale e in Francia, eretti dai conquistatori normanni per consolidare le loro conquiste, non superano solitamente i 10-15 m, con una conformazione perfettamente tronco-conica, dalla pendenza costante. Circa quest’ultima caratteristica va osservato che mentre i terreni argillosi potevano sopportare le maggiori ripidità, con pendenze prossime ai 45°, quelli sabbiosi, invece, non consentivano di superare i 30°. Fu forse per ovviare a questa grave limitazione che spesso si frapponevano nell’accumulo del terreno di riporto degli strati di argilla, di pietrisco o anche di grossi blocchi di pietra, che venivano in tal modo a formare il nucleo coerente della motta. Analogamente, anche la pendenza della scarpa dei fossati risentiva della tipologia di terreno, sebbene le inclinazioni maggiori coincidessero in genere con le larghezze maggiori. Il vero problema della motta, quale che fosse la sua dimensione, era rappresentato dall’acqua piovana maggio
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Sulle due pagine la ricostruzione di una motta castrale realizzata a Saint Sylvain d’Anjou, presso Angers (Francia occidentale) non lontano dai resti di una fortificazione simile, d’età medievale. La replica, inserita all’interno del Parco André Delibes, è l’esito di un progetto di archeologia sperimentale avviato nel 1986 e portato a termine nel 1992, e, dal 1994, è teatro di manifestazioni e rievocazioni ispirate al Medioevo.
che, ruscellando in assenza di un efficace drenaggio, poteva facilmente provocarne lo smottamento. E poiché si trattava di strutture in legno, anche il fuoco ne minacciava la sopravvivenza. Come accennato, le spianate sommitali delle collinette artificiali avevano un diametro contenuto, che di rado superava la cinquantina di metri, pari, quindi, a 2000 mq circa di superficie: un’estensione piú che sufficiente per l’impianto della torre, vera ragion d’essere della motta. Aderente al ciglio tattico, correva tutt’intorno una palizzata, che in molti casi equivaleva al raddoppio di una identica, sebbene molto piú ampia, innalzata intorno alla base della motta, sul bordo interno del fossato. L’insieme motta-torre può essere visto come una sorta di proto-castello, la cui validità,
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ancorché limitata a resistere alle semplici scorrerie brigantesche – peraltro mai del tutto eliminate –, si protrasse per oltre un secolo, sopravvivendo, in contesti geografici marginali, anche per piú di due.
Tronchi d’albero molto robusti
La descrizione coeva di una struttura del genere, redatta intorno al 1130 e relativa a una motta della regione di Calais, precisava che era composta da un alto tumulo di terra, il piú elevato possibile, circondato da un ampio fossato, per ovvie ragioni il piú largo e profondo possibile. Sulla sua sommità correva una palizzata di tronchi d’albero molto robusti, rafforzati, nella costruzione in esame, da numerose torrette, il cui numero non eccedeva le modeste potenzialità difensive dell’insediamento, ovvero l’entità demografica degli abitanti idonei alle armi. Al suo interno una sorta di cittadella, con la torre dominante, o mastio, dalla cui sommità si poteva battere l’intero circuito. L’ingresso avveniva attraverso un ponte levatoio che, scavalcando il fossato, conduceva a una rampa, a volte gradinata, con la quale si accedeva alla sommità della motta. Circa il mastio, o piú in generale la torre svettante
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Un’altra veduta della ricostruzione della motta castrale di Saint Sylvain d’Anjou, che comprende anche un piccolo borgo.
sulla motta, era costruito nella maggior parte dei casi ponendo in opera una semplice parete di tronchi sovrapposti, piú raramente doppia, quasi una sorta di intercapedine riempita di terra e pietrisco, per incrementarne la solidità passiva e attiva. La sua pianta era di solito quadrata o rettangolare, in quanto derivava dall’incastro ortogonale dei tronchi d’albero che ne formavano l’alzato, come nelle classiche capanne di legno dei pionieri nordamericani. Non a caso, alla connotazione a prisma quadrilatero del mastio della motta si fa risalire la preferenza dei Normanni e degli Svevi per le torri quadrate, che i primi adottarono per i loro dongioni e i secondi per i loro castelli.
Le stanze del signore e della servitú
Alla sommità, oltre al coronamento merlato, spesso si avvicendavano alcuni «balconi», che, consentendo una efficace difesa piombante, anticipavano l’apparato a sporgere posticcio. Stando poi a un’altra descrizione del XII secolo, impalcati lignei suddividevano internamente in piú piani il mastio di una motta. Nell’inferiore, che coincideva con la quota della spianata, si trovavano, come accennato in precedenza, le cantine, i granai e i depositi degli utensili domestici. Le stanze di abitazione stavano nel piano immediatamente sovrastante e comprendevano quelle per gli stretti dipendenti del signore e una sala piú grande, destinata al signore stesso e alla sua consorte. Infine, nella soffitta, o, per meglio dire, nel sottotetto, stavano gli alloggi della servitú, i cui compiti prevedevano la manutenzione e la pulizia del mastio. Non di rado, al pari delle elepoli (torri semoventi) d’età ellenistica, i masti erano protetti dal fuoco da un rivestimento di pelli, piú o meno fresche. Intorno al mastio si snodava il cortile, o corte, fino alla palizzata che abitualmente lo recingeva: addossate a quest’ultima, in quelli piú ampi, erano ubicate baracche minori, perlopiú adibite a depositi, mense, cappelle, stalle e fucine, tutte pertinenze dalle quali dipendeva la vita, civile e militare, della motta. Quando la ristrettezza della corte anulare non lo consentiva, quegli ambienti si insediarono invece in aderenza alla palizzata inferiore, a ridosso del fossato, spesso allagato. Abitualmente, infine, ai piedi della motta si aggregava un piccolo villaggio di contadini e artigiani, la cui esistenza e attività ruotavano intorno al signore, racchiuso anch’esso in un altro fossato, completato da un aggere con palizzata superiore e ponte levatoio, spesso connesso con il fossato della motta. Se nelle vicinanze scorreva un fiume, con una canalizzazione si allagavano i fossati, avendo cura che l’acqua non ristagnasse, magari allontanandola con un secondo canale.
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di Isabella Lazzarini
Principi si diventa
Tirare di scherma e cavalcare, ma anche studiare latino e greco: nel Quattrocento, per ambire alla reggenza di una corte, non era sufficiente richiamarsi ai privilegi del proprio lignaggio...
Particolare della Pala Sforzesca raffigurante Ludovico il Moro, tempera e olio su tavola attribuito al Maestro omonimo. 1494-95. Milano, Pinacoteca di Brera.
Dossier
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on il Quattrocento le corti italiane sviluppano una crescente e precipua attenzione per l’educazione dei giovani principi, maschi e femmine: si moltiplicano i segni di una riflessione pedagogica innovativa, come le testimonianze della fitta trama della cura quotidiana della mente e del corpo dei giovani principi (legittimi e illegittimi). Percorsi di studi, trattati pedagogici, biblioteche di corte, entourage professionali attorno ai fanciulli, viaggi di formazione: tutto concorre a costruire attorno ai figli e alle figlie delle dinastie principesche italiane un iter formativo articolato, innovativo, attento a mille dettagli e mirato a sviluppare nei giovani principi specifiche qualità di governo secondo i diversi ruoli che ciascuno di loro è chiamato a rivestire – una volta adulto – all’interno della dinastia. I figli dei principi, maschi e femmine, legittimi e naturali, sono, infatti, innanzitutto una risorsa per la casata: i primogeniti sono destinati a regnare, i cadetti allargano lo spettro delle possibili aderenze specializzandosi nella carriera militare o nella vita ecclesiastica (che può giungere alla porpora o addirittura al soglio pontificale), le femmine ampliano la rete di relazioni politiche e dinastiche con matrimoni di prestigio, cementando allo stesso tempo la coesione della dinastia con articolati e duraturi rapporti epistolari con i congiunti. La formazione dei giovani principi deve quindi ormai prepararli ad assolvere compiti diversi e complessi, che passano per un percorso pedagogico non solo militare o politico, ma anche intellettuale. Lo spettro delle discipline che costituivano il tradizionale quadro educativo medievale si amplia ormai a comprendere una formazione di tipo umanistico: la crescita dei giovani principi si nutre di attività intellettuali, capacità sociali, pratiche aristocratiche, e sovente si mette al-
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la prova attraverso viaggi di formazione presso corti straniere. Testi specifici a carattere deontico, trattati, lettere (composti da pedagoghi, medici o segretari, come l’Ordine da servare nella vita del Conte Galeazo del medico Cristoforo da Soncino, ma ispirati talora dagli stessi augusti genitori), ribadiscono la necessità che i giovani principi trascorrano la loro infanzia e la loro prima adolescenza in modo regolato, articolandone il percorso formativo in vista non solo del quotidiano, ma anche, se non soprattutto, di un futuro rilevante per il destino della casata. Il benessere dei fanciulli, sulla cui formazione i principi compiono pesanti investimenti in termini di attenzione e di cura, viene ormai affidato a interi gruppi di professionisti – intellettuali umanisti, medici, cortigiani, che compongono una corte minore nella corte degli adulti –, il cui compito è di vigilare sull’articolarsi quotidiano del tempo dei loro giovani discepoli e protetti, scandito in modo «regolato», vale a dire secondo regole fisse e attente proporzioni delle diverse occupazioni, e di tale tempo e del suo uso rendere conto minuzioso ai genitori.
Il processo formativo
La relativa abbondanza delle fonti documentarie e librarie e delle testimonianze iconografiche e materiali consente di ripercorrere questo processo formativo in dettaglio nei vari contesti: dalla Savoia a Milano, da Mantova a Ferrara e a Urbino, la geografia della formazione dei giovani principi disegna ormai un quadro ricco e articolato. L’educazione dei principi è oggetto, nel corso del Quattrocento, di un’attenzione teorica e pratica molto accentuata: la formazione dei futuri regnanti, improntata a rettitudine morale e sapienza letteraria, è un elemento cardine della legittimazione e della continuità, non scontate, di dinastie giunte al potere
per vie spesso traverse, dalle basi di consenso ancora fragili e dalla collocazione politica incerta. In un contesto in cui i quadri di riferimento politici e sociali del Medioevo stanno indebolendosi, l’Umanesimo e la cultura umanistica concorrono alla costruzione di un’immagine del principe e della principessa italiani, frutto insieme dell’alta cultura mediata dai classici e di una meditata considerazione dei costumi sociali del proprio tempo. I maestri e i medici a cui viene affidata la cura dei giovani principi hanno nella gran parte dei casi una formazione universitaria e umanistica: si occupano dei loro discepoli e, al tempo stesso, elaborano la loro esperienza in lettere (celebri quelle di Guarino Veronese a Leonello d’Este e a Ludovico Gonzaga) e testi (interessantissima la serie di quelli pedagogico-pratici elaborati nel contesto della corte sforzesca tra gli anni Cinquanta e Novanta del Quattrocento per l’educazione di tre generazioni successive di principi Sforza). D’altro canto, anche i migliori umanisti del Quattrocento italiano (Pier Paolo Vergerio, Enea Silvio Piccolomini, Leonardo Bruni) si impegnano in trattati sull’educazione dei principi e delle principesse, in cui l’attenzione alla pratica culturale corrente (la scrittura e la capacità di pronunciare eleganti orazioni) si mescola alla formazione intellettuale, con il vivo richiamo al vasto bacino di esempi di virtú civili ereditato dall’antichità, e alla pratica delle armi. Nell’ampia selezione di testi e autori classici ormai disponibili, particolarmente autorevoli vengono ritenuti alcuni scritti, tradotti e studiati con frequenza: soprattutto Plutarco, tanto Le Vite quanto i Moralia, Isocrate, i trattatisti militari come Vegezio e Frontino, la Rethorica ad Herennium di Cicerone, la Grammatica di Donato; le traduzioni in latino o in volgare di questi maggio
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Ritratto di Federico da Montefeltro e del figlio Guidobaldo, olio su tela del pittore spagnolo Pedro Berruguete. 1475. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche.
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Dossier testi sono spesso dedicate ai giovani principi, come le traduzioni in latino da Isocrate che Guarino Veronese dedica a Leonello d’Este, o il volgarizzamento dell’Ad Nicoclem, sempre di Isocrate, che Bartolomeo Facio dedica nel 1444-45 a Ferrante d’Aragona.
«Esercizi di civiltà»
Il principio che regge la scelta dei testi e il loro studio è quello di promuovere con l’esempio degli antichi o degli uomini celebri contemporanei la virtú dei futuri regnanti, instillando in essi, attraverso un calibrato metodo di «ammonizione dolce», la morigeratezza dei costumi, la giustizia, la modestia, l’umanità: ogni momento e ogni atto della vita del principe devono costituire «esercizi di civiltà».
A sinistra Ritratto di Giovanni de’ Medici bambino, olio su tavola del Bronzino (al secolo, Agnolo di Cosimo). 1545. Firenze, Galleria degli Uffizi.
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Contemporaneamente, e ci torneremo, i giovani principi devono imparare a scrivere in volgare e in latino, quando non in greco (per Gian Galeazzo Sforza, primogenito di Galeazzo Maria, è stato composto un codice con la Grammatica greca di Costantino Lascaris, anche se si nutrono ragionevoli dubbi sul suo effettivo utilizzo), e a comporre orazioni latine di una certa eleganza. Particolarmente portate agli studi classici si rivelano alcune princimaggio
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Nella pagina accanto, in alto miniatura raffigurante Galeazzo Maria Visconti che riceve in dono una copia dell’Opusculum de impedimentis matrimonii ratione consanguinitatis et affinitatis di Gerolamo Mangiaria dall’autore stesso. 1465 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A destra miniatura raffigurante Massimiliano Sforza a tavola con le balie, dal Liber Jesus della bottega di Cristoforo de Predis. XVI sec. Milano, Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana.
pesse, come Cecilia di Gian Francesco Gonzaga e Ippolita Maria di Francesco Sforza, di cui resta testimonianza di celebri ed eleganti orazioni pronunciate dinnanzi a consessi riuniti di gentiluomini e gentildonne. L’istruzione delle giovani principesse è, infatti, relativamente diffusa, anche se nella maggior parte dei casi segue percorsi e tempi diversi da quella dei coetanei maschi e viene affidata a maestri differenti. L’ammaestramento dei giovani
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principi non è questione semplice: i nobili discepoli, infatti, vanno educati, anche qualora – come nel caso di Galeazzo Maria Sforza – siano indolenti, superbi, svogliati; il maestro si trova allora nella condizione di correggere un discepolo che gode di uno statuto sociale infinitamente superiore al suo e che in età adulta potrebbe far scontare al precettore imprudente il fio di una disciplina vissuta a suo tempo come eccessiva. Inoltre, la giornata dei giova-
ni principi, tanto maschi quanto femmine, si svolge perlopiú in un continuo contesto pubblico: in mezzo alla familia di servitori, cortigiani, condiscepoli, e in un’infinità di occasioni pubbliche, il dovere di seguire ed eventualmente emendare il comportamento dei nobili alunni può rivelarsi un compito impossibile, per il quale, come scrive un medico sforzesco, «non bastano gli ochij d’Argo». (segue a p. 92)
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Dossier Le corrispondenze epistolari
«Di mano propria» oppure sotto dettatura Nella chiusa dell’ultimo capitolo dell’Arte della guerra, Niccolò Machiavelli depreca la vanità della formazione dei principi italiani di fronte alla cruda realtà delle guerre della fine del Quattrocento, ricapitolando le loro doti migliori: «Credevano i nostri principi italiani, prima ch’egli assaggiassero i colpi delle oltremontane guerre, che a uno principe bastasse sapere negli scrittoi pensare una acuta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare nei detti e nelle parole arguzia e prontezza» (Niccolò Machiavelli, Opere, a cura di Ezio Raimondi, Mursia, Milano 1966, p. 433). Il Segretario fiorentino nella sua aspra polemica non ha torto: la «fictione» di parole, le «belle lettere» pensate con arguzia negli scrittoi sono divenute, nel corso del Quattrocento, una facoltà che i principi devono dominare se vogliono «sbigotire» i nemici, confonderli, sorprenderli, batterli infine senza armi, ormai troppo dispendiose e incerte. Questa confidenza con la parola scritta si trasforma in un utensile fondamentale nel bagaglio formativo dei principi, e l’insegnamento e la pratica della scrittura epistolare divengono un momento essenziale dell’educazione quotidiana dei fanciulli e delle fanciulle delle dinastie principesche italiane. L’ossessione informativa che pervade il pieno Quattrocento si esprime, infatti, anche all’interno delle reti relazionali dinastiche, preparando i piccoli principi sia a usare lo strumento della lettera per governare, sia a mantenere regolati rapporti fra le generazioni e le persone, attraverso un canale comunicativo epistolare sempre aperto. Sin dai primi sforzi di alfabetizzazione, intorno ai sette-nove anni, i piccoli principi vengono infatti incoraggiati a
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scrivere ai genitori, all’interno di un panorama comunicativo nel quale tutti – congiunti, governanti, governati – danno notizia di sé. In questo panorama è interessante notare come non solo l’istruzione umanistica e morale, ma pure una compiuta alfabetizzazione che comprende anche una capacità di scrittura autografa, siano egualmente ripartite fra maschi e femmine (non soltanto alla Ca’ Zoiosa; vedi box alle pp. 96-97): anzi, la propensione alla scrittura «di mano propria» nel secondo Quattrocento si consolida e prolunga soprattutto nelle femmine. Abbiamo cosí le prime, stentate lettere in cui i bambini e le bambine, di mano propria, adempiono al compito quotidiano di
scrivere ai genitori, «per non manchare in tuto» al loro «debito», al loro dovere di figli, raccontando minuti eventi della loro vita quotidiana, piccole indisposizioni, giochi, malinconie.
Nella pagina accanto affresco raffigurante un maestro con i suoi scolari, particolare delle Storie di Sant’Agostino dipinte da Benozzo Gozzoli per la chiesa del santo omonimo a San Gimignano (Siena). 1465. A destra Ritratto di Francesco Gonzaga, tempera su tavola di Andrea Mantegna. 1461 circa. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte. maggio
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A queste prime missive seguono le lettere piú articolate, che i fanciulli di ambo i sessi, ormai adolescenti, continuano a scrivere ai genitori e ai fratelli, magari in latino, probabilmente sotto dettatura di un cancelliere che le compone al posto loro, ma in qualche caso di propria iniziativa: il tono si fa piú alto, l’argomentare piú articolato, la narrazione piú dettagliata e meno ripetitiva, la mano è piú sicura. Nell’adempiere a questo «debito di scrittura», il carteggio dei piccoli principi inizia a differenziarsi in maniera funzionale. I primogeniti destinati a regnare – come in buona misura i cadetti dediti alle armi – diventano protagonisti sempre piú sporadici di questo scambio personale e affettivo: scrivono tramite cancellieri lettere sempre piú «adulte» e di governo. Le principesse, al contrario, si fanno carico di continuare a mantenere rapporti epistolari regolari anche una volta uscite di casa e sposate altrove: Ippolita Sforza, sposa di Alfonso d’Aragona, Chiara Gonzaga moglie di Gilbert de Montpensier, Iolanda di Savoia regina di Francia, Isabella d’Este, marchesa di Mantova, per non fare che qualche esempio, mantengono viva, attraverso il carteggio familiare, la salda rete dei rapporti dinastici originari, pronta a intervenire anche politicamente laddove serva. In molti casi, anche i figli destinati alla carriera ecclesiastica continuano a scrivere personalmente, di mano propria: il cardinale Francesco Gonzaga porta avanti un ininterrotto scambio epistolare con la madre Barbara e i fratelli e le sorelle per tutta la vita, contribuendo alla coesione e all’efficacia dinastica dei Gonzaga in modo sostanziale.
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Dossier lo studio dei classici
Piccoli umanisti crescono L’educazione dei piccoli principi dà adito alla scrittura o alla composizione di una serie di testi – classici o coevi – destinati alla lettura, allo studio, alla copiatura da parte degli illustri discepoli. Si tratta di raccolte di orazioni, di testi grammaticali o devozionali, di opere di grammatica, retorica, storia, di testi infine pensati dai diversi precettori a fini esplicitamente didattici. In generale, nella seconda metà del Quattrocento, gli autori classici si sostituiscono alle grammatiche e ai testi devozionali di tradizione medievale, mentre iniziano a circolare e a essere sempre piú utilizzati i manuali di grammatica latina composti dagli umanisti stessi, come Guarino, Valla, Filelfo. Questi volumi sono talora confezionati da professionisti della scrittura, come i sontuosi Libri d’Ore che servono alle giovani principesse sabaude per imparare a leggere alla fine del Trecento, la Grammatica latina del Martorello, precettore di Ippolita e Galeazzo Maria Sforza, o il Liber Jesus finemente miniato composto per Massimiliano Sforza (conservati questi ultimi alla Biblioteca Trivulziana di Milano), ma sovente gli stessi piccoli principi copiano in parte o integralmente i testi
Alla metà del Quattrocento, la giornata dei giovani principi si articola, infatti, in una complessa successione di momenti devozionali (le preghiere al risveglio e la messa di prima mattina), di ore di studio (perlopiú al mattino), di svaghi e di esercizio delle arti militari (soprattutto nel pomeriggio). In nessun momento della giornata, fuori casa o dentro casa, in occasioni pubbliche e private, i fanciulli sono soli: la sorveglianza di una nutrita familia di medici, maestri, camerieri, domestici li segue in ogni attimo, e i loro gesti vengono vagliati e riferiti ai genitori. A capo di questa familia al seguito dei fanciulli vengono scelti uomini di provata esperienza, cancellieri o consiglieri dei principi: essi coordinano non solo il percorso educativo, ma anche le condizioni e i ritmi
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Nella pagina accanto, in alto pagina miniata con l’allegoria del mese di Ottobre, dal Libro d’Ore Sforza, realizzato da Giovan Pietro Birago per Bona Sforza, vedova del duca di Milano Galeazzo. 1490 circa. Londra, Brisith Library.
classici o compongono e scrivono di mano propria orazioni che vengono poi raccolte in codici. Se i testi trascritti e copiati sono pensati per essere letti e studiati con il maestro negli spazi chiusi della biblioteca o della schola, le orazioni sono composte per essere recitate in occasioni particolari e per far brillare l’allievo e il maestro. Nel caso delle orazioni, la loro composizione è spesso alla base di un doppio esercizio: i giovani principi sono per esempio tenuti non solo a comporre i testi, ma a scriverne una copia di particolare pregio che donano ai genitori, in onore e lode dei quali sono sovente scritte e di fronte ai quali sono recitate. L’inventario dei libri di Iolanda di Savoia, regina di Francia e figlia del duca Amedeo VIII, redatto alla fine degli anni Settanta del Quattrocento, annovera fra i beni della regina una biblioteca personale di una settantina di volumi, di genere assai vario: testimonianza della cultura non solo dei principi, ma anche delle principesse del Quattrocento. Nonostante la dispersione della biblioteca visconteo-sforzesca renda necessario cercare i codici milanesi nelle biblioteche europee, un buon numero di manoscritti di grande pregio artistico e culturale testimoniano dell’investimento compiuto dai duchi di Milano nell’educazione dei figli: una dozzina di volumi composti per
Galeazzo Maria fra il 1457 e il 1461 raccolgono il De offlciis e il De amicitia di Cicerone, i Facta et memorabilia di Valerio Massimo, il Liber de excellentibus ducibus di Cornelio Nepote; per Gian Galeazzo sono state trascritte le Favole di Esopo e la Grammatica greca di Costantino Lascaris; per Ludovico Maria e il figlio Massimiliano restano numerosi volumi, conservati soprattutto a Parigi, mentre al British Museum di Londra si conserva il De senectute di Cicerone, trascritto dalla tredicenne Ippolita Maria nel 1458. Oltre ai codici che raccolgono le orazioni dei giovani Sforza (sparsi fra la Trivulziana e l’Ambrosiana a Milano e la Biblioteca nazionale di Parigi), fra questi volumi merita attenzione il commento alla Rethorica ad Herennium scritto di mano propria nel 1467 da Ludovico il Moro, allora quindicenne, sotto la supervisione del Filelfo, e conservato alla Biblioteca Reale di Torino. In quest’opera, come nella Grammatica del Donato e nel Liber Jesus che verranno composti piú tardi per il figlio del Moro, l’immagine ha un ruolo fondamentale: il testo è infatti inquadrato in una sontuosa cornice decorata che ospita non solo i ritratti dei duchi e delle duchesse di casa Sforza, e i profili del maestro e dell’allievo, ma anche una serie di exempla desunti dalle gesta dei condottieri del passato, da Annibale a Vespasiano, da Leonida a Serse. Nella pagina accanto, in basso medaglia celebrativa in bronzo con il profilo di Cecilia Gonzaga, opera del Pisanello (al secolo, Antonio di Puccio Pisano). 1447. Parigi, Museo del Louvre. A sinistra la Sala di lettura della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze. I banchi e il soffitto ligneo intagliato furono realizzati su disegni di Michelangelo.
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Miniatura raffigurante il piccolo Massimiliano Sforza che fa merenda in un padiglione allestito in un giardino, dalla Grammatica del Donato, un codice che, insieme al Liber Iesus, componeva uno straordinario dittico di «manoscritti d’educazione» per il primogenito di Ludovico il Moro. 1495-1500. Milano, Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana.
di vita dei loro protetti e il loro benessere fisico (prima fra tutti gli elementi chiave, ovviamente, la dieta). Accanto alle attività intellettuali, i giovani principi – parliamo in questo caso soprattutto dei maschi, evidentemente – praticano anche ogni sorta di esercizi fisici. Nel Quattrocento, infatti, è ancora essenziale preparare i futuri signori alla guerra praticata: la morte sul campo di battaglia di Nancy di Carlo il Temerario, quarto duca di Borgogna, nel 1477, dimostra che la guerra è per questi grandi principi ancora un evento reale e la destrezza in battaglia una capacità necessaria. Per prima cosa dunque i fanciulli imparano a cavalcare, iniziando sin dai tre-quattro anni a fare pratica su asinelli (come in Savoia il piccolo Filippo, nel 1447) o su animali assai docili: quanto alle bimbe, le testimonianze del loro apprendistato di cavallerizze sono assai piú rare, ma è probabile che anch’esse imparino a cavalcare, anche se meno precocemente.
Giochi, giostre e tornei
Il fisico viene esercitato con il gioco della palla e con il nuoto, ma i giovani principi vengono anche assai rapidamente introdotti al maneggio delle armi: intorno ai dieci anni, i fanciulli ricevono spade che, se sono spesso splendidi oggetti, sono anche e comunque strumenti di guerra, e si prevedono per loro lezioni di scherma, dapprima con lame di legno. Con l’adolescenza, gli esercizi militari si fanno piú duri, seguendo in questo il testo del Vegezio, l’Epitoma rei militaris, largamente diffuso nel Medioevo e nel Rinascimento: l’addestramento alla scienza equestre e all’arte della guerra si pratica, prima ancora che in vere e proprie giostre o tornei, in esercizi a lancia in resta o in combattimenti a cavallo con armi di legno e nel corso di lunghi addestramenti. L’interesse quattrocentesco di queste pratiche, comuni all’adde-
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Dossier In basso illustrazione raffigurante un docente con i suoi allievi, da un’edizione della Prognosticatio di Johannes Lichtenberger. XV sec. Brescia, Biblioteca Queriniana.
A destra particolare del recto di un desco da parto (tondo dipinto) raffigurante il gioco del civettino, tempera su tavola dello Scheggia (al secolo, Giovanni di Ser Giovanni). 1450 circa. Firenze, Palazzo Davanzati Museo della Casa Fiorentina Antica.
La Ca’ Zoiosa
Per imparare e per socializzare Uno dei piú noti e precoci esempi di educazione umanistica si sviluppa negli anni Trenta del Quattrocento a Mantova, alla corte dei Gonzaga, grazie all’esperienza pedagogica di un grande educatore quattrocentesco, Vittorino Rambaldoni da Feltre. Vittorino da Feltre (1378 circa-1466) in un’incisione ottocentesca.
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Rambaldoni viene chiamato a Mantova da Gian Francesco Gonzaga nel 1423 per dedicarsi all’educazione dei figli e delle figlie (Ludovico, futuro marchese, Carlo, Gian Lucido e Alessandro, Cecilia e Margherita), e rimane nella città virgiliana sino alla morte, avvenuta nel 1446. L’umanista veneto dirige a Mantova una vera e propria scuola: la Ca’ Zoiosa, frequentata non solo da figli di principi (oltre ai giovani Gonzaga, un illustre allievo di Vittorino è Federico di Montefeltro), ma anche da figli di umanisti, come quelli di Guarino Veronese e di maggio
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stramento fisico dei giovani nobili europei per tutto il Medioevo, è il riferimento costante all’antichità classica e agli esempi dei grandi condottieri antichi, sia nella trattatistica in materia, sia nella quotidianità (emblemi, motti, miniature). Del giovane Ercole d’Este, inviato decenne alla corte di Napoli, la letteratura encomiastica tramanda episodi di grande valore nelle battaglie regnicole, e giustifica ed esalta insieme tale valore con riferimento diretto all’Ercole mitologico, tema destinato a divenire un topos durante il regno dell’Estense.
Un binomio essenziale
A partire dai primi decenni del Quattrocento, l’addestramento militare dei principi italiani è poi sempre piú legato a una formazione di tipo intellettuale: il binomio armi-lettere diventa essenziale nella progressiva costruzione delle virtú individuali del principe, che lo legittimano nell’esercizio del potere. I letterati di corte e i pedagoghi dei principi puntano sempre piú a costruire e a proporre ai loro signori, come modello formativo, quello del condottiero letterato: già Pier Candido Decembrio, nel dedicare a Filippo Maria Visconti il suo volgarizzamento del De bello gallico, pone
Francesco Filelfo, da fanciulli di umile origine il cui mantenimento è a carico del Gonzaga o dello stesso Vittorino, e persino da bambine. Fra queste ultime, spiccano Margherita Gonzaga, futura moglie del coltissimo Leonello d’Este, allievo a sua volta di Guarino Veronese, Cecilia Gonzaga, per cui a otto anni venne acquistata una Grammatica greca e che stupí per la facondia Ambrogio Traversari, e Barbara di Brandeburgo, futura sposa di Ludovico Gonzaga, giunta tredicenne a Mantova. La scuola è un internato, istituzione non rara nel panorama scolastico ed europeo del Tre-Quattrocento: accoglie
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una settantina di alunni e alunne fra i quattro e i vent’anni, che vi vengono formati in quella cultura liberale densa di finalità civili che deriva dallo studio delle humanae litterae, alle quali si aggiungono matematica, musica e ginnastica, secondo un ideale enciclopedico di marca classica, a cui Vittorino imprime un sobrio carattere di spiritualità cristiana. La Ca’ Zoiosa è un esperimento unico, in cui si assiste non soltanto a una raffinata e precoce acculturazione dei bambini, per i quali Vittorino prepara i testi di studio personalmente e sperimenta
modalità didattiche individualizzate, ma si propugna anche un’attiva socializzazione tra ragazzi di età, ceto e sesso diversi. Qui Ludovico, meno atletico del fratello Carlo, impara quella dieta a base di «manzare poco, bevere aqua asai e dormire manco», che ne avrebbe asciugato il fisico e disciplinato i desideri; qui, sempre Ludovico apprende quella severa morale di uguaglianza, umanità e modestia che avrebbe – decenni dopo – suggerito a sua volta al figlio Francesco, neoeletto cardinale, come base di ogni nobiltà d’animo e di stirpe.
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In alto fronte del cassone nuziale detto «dei tre duchi», poiché vi sono dipinti Galeazzo Maria Sforza, suo figlio Gian Galeazzo e il duca di Baii, Ludovico Maria Sforza. Bottega lombarda. 1479-1494 circa. Milano, Castello Sforzesco, Civiche Raccolte d’Arte Applicata.
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in risalto il fecondo incontro, nella figura di Cesare, delle virtú militari e delle capacità letterarie. L’addestramento militare o l’apprendistato presso qualche grande condottiero (come è il caso di Federico di Montefeltro o di Leonello e Borso d’Este), vanno completati e mitiga-
ti con un successivo o contestuale processo di acculturamento.
I piaceri della caccia
I giovani principi infine, maschi e femmine, sono assai rapidamente iniziati ai piaceri della caccia, che continuano a praticare anche
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In basso miniatura raffigurante una battuta di caccia, dall’edizione del De Sphaera (trattato di astronomia di Giovanni di Sacrobosco) realizzata per la corte di Milano. 1470 circa. Modena, Biblioteca Estense Universitaria.
da adulti con grande slancio e che resta il passatempo di gran lunga favorito di principi e nobili. Se il maneggio di archi e balestre per la caccia degli uccelli è previsto perlopiú a partire dai dodici, tredici anni, la cura di falconi e uccelli venatori, come anche di cani da caccia, è assai piú precoce. La pratica della caccia e la cura di falchi e cani sono ben documentate. Un esempio particolarmente eloquente fra i tanti possibili è rappresentato da Giovanni, ultimogenito di Federico Gonzaga, nato nel 1474 e prematuramente orfano della ma-
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dre Margherita nel 1479. Il fanciullo intreccia con il padre, in genere lontano, un vivo scambio epistolare, dal tono affettivo piú accentuato della norma: tra i vari eventi di vita quotidiana che racconta al padre in letterine articolate ed espressive, la caccia nelle sue varie e diverse accezioni, a partire dai sei, sette anni, ha un ruolo fondamentale. L’esercizio dei «cagnoli», l’addestramento degli «astori», la caccia alla lepre e ai «fasanazii e pernigoni» intrecciano un ininterrotto racconto di vita infantile e gettano un ponte affettivo tra il padre lontano e il fanciullo.
Ritratto giovanile di Galeazzo Maria Sforza, particolare degli affreschi realizzati da Benozzo Gozzoli per la Cappella dei Magi. 1459. Firenze, Palazzo Medici Riccardi.
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L’ITALIA DELLE DINASTIE
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l tardo Medioevo italiano vede il radicarsi di alcune importanti dinastie, destinate a piú o meno lunga fortuna: i Savoia tra Savoia e Piemonte, i Visconti, poi gli Sforza a Milano, gli Este a Ferrara, i Gonzaga a Mantova, i Montefeltro a Urbino, gli Aragona nel Regno di Napoli. Altre, fiorite fra tardo Duecento e primo Trecento, non sopravvivono alla competizione militare tra XIV e XV secolo, come i della Scala, i da Carrara, i da Camino. Accanto a loro, una pletora di dinastie signorili minori, che con le maggiori sono legate da rapporti di parentela, soggezione, rivalità: i signori di Romagna e della Marca, i grandi feudatari a cavallo tra il Regno e lo Stato della Chiesa, le dinastie papali, dai Riario ai Della Rovere e ai Farnese. La struttura dinastica di queste grandi famiglie è costruita secondo principi successori di tipo longobardo: non vige cioè una primogenitura esclusiva (i cadetti hanno diritto a una parte dell’asse ereditario paterno) e i diritti dei figli legittimi non escludono in modo radicale i diritti dei figli naturali, sempre legittimabili, se necessario, e comunque parte a tutto tondo delle strategie familiari e dinastiche. Una struttura parentale di que-
Mantova, Palazzo Ducale, Castello di San Giorgio. Particolare del ciclo pittorico dipinto da Andrea Mantegna per la Camera degli Sposi: il marchese Ludovico (sulla sinistra), seduto in trono e affiancato dalla moglie Barbara di Brandeburgo e dall’intera corte, ascolta un funzionario (per alcuni, il suo segretario Marsilio Andreasi; per altri, il diplomatico Raimondo Lupi di Soragna o il fratello Alessandro) e apprende che Francesco Sforza, signore di Milano per il quale serve come comandante dell’esercito, è malato. L’artista realizzò gli affreschi verosimilmente tra il 1465 e il 1474.
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sto genere implica un numero consistente di potenziali eredi maschi in circolazione (e quindi una notevole variabilità negli assi successori) e un tasso molto elevato di alleanze matrimoniali significative: una conseguenza diretta di tale sistema è l’altissima conflittualità interna alla dinastia principesca, conflittualità che viene gradualmente disciplinandosi solo con la prima età moderna. I giovani principi, siano Bernabò e Galeazzo Visconti, o Leonello, Borso ed Ercole d’Este, Federico Gonzaga o Federico di Montefeltro, crescono immersi in un network relazionale e dinastico estremamente articolato e complesso, che tra l’altro si allarga ben presto a dinastie non italiane. Sin dai primi anni di vita, la loro vicenda – in bilico fra il percorso educativo, l’esperienza formativa, lo scambio diplomatico – si articola all’interno di una geografia politica e dinastica costituita da un mosaico di corti diverse, con cui entrano in contatto in tempi e modi differenti.
Una prassi interessante
In un simile contesto politico e culturale, e in seno a strutture dinastiche cosí configurate, fra Tre e Quattrocento si assiste al diffondersi di una prassi interessante: un giovane principe (perlopiú un cadetto, talora naturale, ma spesso legittimo), bimbo, adolescente o alle soglie dell’età adulta, viene inviato presso la corte di un altro sovrano per un periodo di lunghezza variabile, e per motivi e con scopi alquanto diversi. È una prassi dai connotati molteplici, all’incrocio di modelli formativi di varia origine e forza e spesso dovuta a circostanze differenti. È difficile costruire, sulla base degli esempi che abbiamo, un modello unitario: nondimeno, la frequenza di simili esperienze formative e talune loro caratteristiche (segue a p. 104)
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Dossier Ercole Bentivoglio
Un esilio reale Un caso interessante ed estremo di «parentela scambiata» è quello rappresentato da Ercole Bentivoglio, figlio di Sante, signore di Bologna nel 1445, alla morte di Annibale di Antongaleazzo. La vicenda bentivolesca appare assai complicata: la signoria dei Bentivoglio su Bologna era infatti recente e tutt’altro che salda e le lotte intestine e i ripetuti assassinii politici fecero sí che diverse generazioni di Bentivoglio, legittimi e illegittimi, si succedessero avventurosamente, barcamenandosi fra Milano, Firenze e Roma. Figlio illegittimo di Ercole Bentivoglio, Sante crebbe fra Poppi e Firenze, ignaro della propria identità e sperimentò per primo una sorta di fosterage totale. Divenuto signore di Bologna alla morte del cugino Annibale e tutore dell’erede legittimo di
quest’ultimo, Giovanni, all’epoca di soli due anni, pensò nel 1462 di inviare a sua volta il figlio Ercole, natogli nel 1459 da Ginevra Sforza, presso quello stesso Cosimo de’ Medici che aveva protetto la sua infanzia, ma che non gli era legato da parentela biologica. Il giovane Bentivoglio, superato nella successione alla signoria bolognese da Giovanni II, di fatto scelse – o fu costretto a scegliere – la terra adottiva: rimase infatti in Toscana e passò la vita al servizio di Firenze. Ercole crebbe nell’entourage dei Medici, che non gli erano parenti, ma che avevano costituito la parentela adottiva del padre: il suo fosterage, assai vicino a un prudente allontanamento volontario iniziale, divenne con gli anni un esilio reale. In alto Ritratto di Cosimo il Vecchio, olio su tela del Pontormo (al secolo Jacopo Carucci). 1519-1520. Firenze, Gallerie degli Uffizi. Qui sopra, a destra lo stemma dei Bentivoglio. A sinistra miniatura raffigurante Massimiliano Sforza a cavallo per le vie di Milano, dalla Grammatica del Donato. 1495-1500. Milano, Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana. Nella pagina accanto miniatura raffigurante l’incontro fra l’imperatore Massimiliano I e Massimiliano Sforza, dal Liber lesus. XV sec. Milano, Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana.
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Dossier Un altro particolare degli affreschi realizzati da Andrea Mantegna per la Camera degli Sposi raffigurante Ludovico II Gonzaga al cospetto del figlio Francesco, appena nominato cardinale, che tiene per mano il fratello Ludovico (in seguito protonotario apostolico) il quale, a sua volta, dà la mano al nipotino Sigismondo (futuro cardinale): in tal modo Mantegna ha ritratto la linea gonzaghesca destinata alla carriera ecclesiastica. 1465-1474.
comuni consentono di tracciarne una prima sintesi, senza mai dimenticare, però, che il confine fra il viaggio di formazione e l’esilio politico, piú o meno volontario, è molto labile, e che l’uno può trasformarsi nell’altro o viceversa a
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seconda del mutare – frequentissimo – delle condizioni politiche. Un primo modello di questo fenomeno è costituito dalle cosiddette «parentele scambiate»: si tratta di una forma prolungata di fosterage (letteralmente, allevamento, in
questo caso sottintendendo al di fuori della famiglia, n.d.r.), per cui un giovane principe in età perlopiú infantile viene inviato presso la corte di un grande signore al quale è legato da parentela, per trascorrervi da qualche mese a qualche anno. maggio
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Si tratta con ogni probabilità di una pratica in cui alle esigenze politiche e dinastiche si mescolano alcuni tratti della cultura cavalleresca, che prevedeva l’allontanamento dei giovani aspiranti cavalieri dalla loro famiglia d’origine per compiere l’addestramento militare presso un signore, al quale sarebbe spettato poi il compito di addobbarli cavalieri. Nel caso dei giovani principi, gli scopi di questa pratica sono molteplici: rafforza i legami interdinastici, moltiplicando in modo artificioso la soggezione fra le generazioni e i legami parentali (il giovane acquisisce una sorta di «seconda famiglia», a cui rimane legato anche in età adulta); rappresenta un momento formativo nella maturazione del bimbo o dell’adolescente, separato per la prima volta da chi sino ad allora si è preso cura di lui (anche se naturalmente il giovane viene accompagnato da un piccolo seguito a lui familiare); accresce le sue cognizioni politiche e culturali esponendolo agli usi e ai costumi di un ambiente cortigiano diverso dal suo.
Il modello germanico
È una prassi diffusa soprattutto Oltralpe: per esempio, nel corso del Quattrocento, le dinastie principesche germaniche adottano questa pratica con regolarità, sia in ambito maschile, sia in ambito femminile, come dimostra il caso dei Brandeburgo nella seconda metà del Quattrocento e nel primo Cinquecento. Si tratta di un modello educativo e insieme politico di una certa forza, la cui diffusione non si limita alla Germania, ma che in Italia viene mediato direttamente in almeno un caso, quello dei Gonzaga, da una principessa tedesca, Barbara di Hohenzollern, marchesa di Mantova fra il 1444 e il 1478 (vedi box in questa pagina). Una variante della «parentela scambiata» di lungo periodo è poi il viaggio di formazione, in genere piú breve e sostanzialmente pensa-
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gian francesco gonzaga
«Piú todesco che taliano» Ludovico Gonzaga, secondo marchese di Mantova, aveva sposato nel 1433 Barbara di Hohenzollern, figlia di Giovanni l’Alchimista, marchese di Brandeburgo. Si doveva rivelare un’unione felice da un punto di vista politico e personale, e feconda: i due ebbero infatti cinque figli maschi e cinque femmine che raggiunsero l’età adulta. Tra i maschi, Ludovico e Barbara nel 1455 decisero di inviare il terzogenito, Gian Francesco, allora di nove anni, dal nonno materno, Giovanni l’Alchimista, a Bayreuth e alla Plassenburg, presso Kulmbach. Il giovane Gonzaga rimase presso i nonni sino al 1458: quando Giovanni si ritirò dalla vita politica, lasciando lo Stato al fratello Alberto Achille, Gian Francesco si trasferí ad Ansbach, dallo zio; tornò a Mantova con lui alla fine del 1459, cogliendo l’occasione di accompagnarlo nella città gonzaghesca in occasione della Dieta indetta da papa Pio Il contro i Turchi. Gian Francesco era il terzogenito figlio della coppia: Ludovico e Barbara pianificarono con cura i percorsi educativi dei loro eredi maschi. Federico, il primogenito, doveva succedere al padre nel marchesato: ricevette dunque un’educazione umanistica e pratica a corte, dove iniziò il suo «apprendistato» come principe sin dall’adolescenza. Francesco, il secondogenito, venne avviato alla carriera ecclesiastica, andando a perfezionare i suoi studi a Pavia: ottenne la porpora a diciassette anni, nel 1460, primo di una lunga serie di cardinali-principi. Per il terzogenito, evidentemente, l’esperienza che Barbara aveva maturato Oltralpe delle pratiche di fosterage la convinse
a separarsi per un periodo non breve dal figlio, a cui voleva offrire l’opportunità di approfittare della parentela germanica e di imparare il tedesco: si tratta del primo esempio del genere fra i Gonzaga, ed è evidente che una scelta come questa derivò dall’influenza culturale germanica. Gian Francesco, in effetti, non deluse le aspettative materne: quando tornò, parlava cosí bene da sembrare, agli occhi del duca di Milano che lo incontrò sulla via del ritorno, «piú todesco che taliano»; la stessa marchesa lo aveva esortato a imparare il tedesco, senza però «che tu te dimenticasti la nostra di qua», come gli scriveva nell’aprile del 1458. Particolare di un busto marmoreo che ritrae Gian Francesco Gonzaga.
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to per i soli eredi maschi. In questo caso, si mescolano elementi assai diversi fra loro: l’addestramento militare, il perfezionamento spirituale, il percorso cavalleresco, l’acculturamento cortigiano.
A sinistra giovani che si esercitano in duelli e giochi nella pagina con l’allegoria del Sole, dal De Sphaera realizzato per la corte di Milano. 1470 circa. Modena, Biblioteca Estense Universitaria. A destra e nella pagina accanto, a sinistra due tarocchi facenti parte del mazzo Visconti-Sforza, realizzato dalla bottega di Bonifacio Bembo. 1455-1490. Bergamo, Accademia Carrara.
Viaggio in Terra Santa
Un esempio precoce, anche se anomalo – data l’età del protagonista – e relativamente insolito nella combinazione di esperienze a cui diede luogo, è il pellegrinaggio che Galeazzo II Visconti intraprese nel 1343, a ventitré anni, per visitare il Santo Sepolcro al seguito del conte di Hainault e che fu concluso al suo adoubement a Gerusalemme. Il pellegrinaggio in Terra Santa, dall’elevato contenuto spirituale e dal significato di coronamento e sacralizzazione della vocazione cavalleresca, non era infrequente fra i signori del Trecento italiano, anche se veniva intrapreso di solito in età piú adulta. Il viaggio del Visconti fu seguito poi dal soggiorno di un anno alla corte del conte di Hainault, nelle Fiandre, dove Galeazzo II completò la sua formazione militare.
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Un secolo piú tardi, Leonello e Borso d’Este, figli naturali del marchese Niccolò d’Este e della sua favorita, Stella dei Tolomei, vennero inviati dal padre presso il condottiero Braccio da Montone ad apprendervi, tra il 1422 e il 1424, il mestiere delle armi: i due ragazzi, rispettivamente di quindici e di nove anni, tornarono a Ferrara dopo la morte del condottiero nel giugno del 1424, alla battaglia dell’Aquila. Sempre in casa d’Este, Ferrante,
secondogenito di Ercole I e di Eleonora d’Aragona, nato e cresciuto con la madre a Napoli a causa della relativa incertezza della signoria di Ercole su Ferrara nei tardi anni Settanta del Quattrocento, venne inviato ancora bambino alla corte del re di Francia, affinché vi compisse il proprio apprendistato cavalleresco e militare. Il caso del giovane estense è particolarmente interessante per la durata e gli effetti di tale esperienza: giunto in Francia negli anni maggio
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In basso disegno raffigurante un’arena in cui si svolge un torneo, da un’edizione dei Quaedam antiquitatum fragmenta di Giovanni Marcanova. 1465. Modena, Biblioteca Estense.
Ottanta, egli vi rimase infatti sino al 1494, allorché partecipò, ormai diciassettenne, alla spedizione italiana di Carlo VIII. La formazione dei giovani principi nell’Italia quattrocentesca non si componeva però soltanto di un’iniziazione militare o di un apprentissage cortigiano: sempre piú a partire dai primi decenni del Quattrocento i principi chiamavano presso di sé noti umanisti che si occupassero di insegnare ai loro eredi le belle lette-
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re e di costruire per loro un percorso formativo improntato ai principi dell’Umanesimo.
Maestri illustri
Nei decenni centrali del Quattrocento, taluni di questi maestri diedero vita a celebri scuole, come Vittorino da Feltre a Mantova e Guarino Veronese a Ferrara. Qui l’insegnamento dei classici e lo studio della storia e delle lettere si accompagnavano a un esercizio fi-
sico calibrato e a una piú generale pratica pedagogica volta a inculcare ai giovani, e spesso non facili allievi, misura, equilibrio, senso di responsabilità. Queste scuole, in particolare la Ca’ Zoiosa di Vittorino da Feltre (vedi box alle pp. 96-97), peculiare fra tutte perché Vittorino credeva nell’utilità di insegnare a classi composte di fanciulli di diversa origine familiare, attirarono allievi forestieri di vario livello sociale, fra cui alcuni eredi di grandi famiglie
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Dossier La corte di Borgogna
Un modello da tutti imitato La corte dei duchi di Borgogna raggiunse nel Quattrocento uno splendore inarrivato. La complessità del rituale di corte, il numero e i diversi ruoli degli uomini e delle donne che vivevano accanto ai duchi, lo splendore delle cerimonie, il fiorire delle arti, resero la corte dei duchi Filippo il Buono e Carlo il Temerario un modello di vita aristocratica, cortigiana e cavalleresca per tutta l’Europa del Quattrocento. Le corti italiane non furono immuni da questo fascino, e i principi della Penisola, dai duchi di Milano ai re di Napoli, da Federico di Montefeltro ai
marchesi d’Este, oltre a intrattenere rapporti politici sovente complessi con quello che era uno dei principati piú potenti e ambiziosi d’Europa, accolsero presso di sé pittori, musici, miniaturisti dai Paesi Bassi, prendendo la corte borgognona e i suoi usi cavallereschi a modello simbolico e ideologico. A riprova della forza d’attrazione di quella corte è il numero di giovani principi che vi si recarono per compiervi o perfezionarvi la propria formazione. A partire da Francesco d’Este, figlio naturale del marchese Leonello, sino a Federico d’Aragona, figlio di re Ferrante, attraverso Rodolfo
Gonzaga, una serie di giovani cadetti, piú o meno legittimi, delle grandi dinastie italiane si recarono, per periodi diversi, in Borgogna. Francesco d’Este partí per Liegi nel 1444, quando doveva avere intorno ai quattordici anni: il padre Leonello, marchese di Ferrara e fresco sposo di Maria d’Aragona, stava pianificando con cura il destino di figli e fratelli piú o meno legittimi, usando con abilità e varietà lo strumento del loro allontanamento da corte. Partito per compiere presso Filippo il Buono solo un apprendistato militare e cortigiano, Francesco era destinato a rimanere tutta la vita tra la Borgogna e la Francia, sia a causa della sua riuscita integrazione, sia a causa del mutare della situazione a Ferrara, dove i discendenti di Leonello, legittimi o meno, vennero emarginati in modo radicale dalla successione. italiane. In questo caso, il viaggio di formazione assumeva connotati del tutto particolari: si trattava di un’esperienza pedagogica e formativa legata a un percorso di apprendimento, destinata a segnare profondamente la vita dei giovani allievi e a fornire loro un’educazione umanistica di alto livello. Talvolta la pratica della «parentela scambiata» assume significati politici piú marcati, e si configura come una soluzione indolore per venire almeno temporaneamente a capo di situazioni successorie incerte e potenzialmente rischiose: la struttura ramificata delle dinastie quattrocentesche, come si diceva, consiglia di mantenere vivi e addestrati tutti i potenziali eredi, anche a prezzo di allontanamenti dolorosi, tradimenti, rientri clandestini, odi fraterni. Il giovane principe, illegittimo o legittimo a seconda dei casi,
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Rodolfo Gonzaga, quarto figlio di Ludovico e Barbara, al contrario, compí piú chiaramente un semplice viaggio di formazione: partito diciassettenne nel 1469, il giovane Gonzaga rimase in Borgogna solo nove mesi, soffrendo di mancanza di danaro, dando prova di una scarsa adattabilità personale e confrontandosi con una pratica militare per lui troppo dura e rischiosa. Le intenzioni dei genitori, che probabilmente andavano dal completare la sua formazione al trovare per lui una sistemazione prestigiosa nella pratica delle armi, vennero in questo caso pressoché completamente disattese, e il giovane principe tornò in Italia, dove proseguí la propria carriera militare sino a una eroica morte nel 1494, a Fornovo sul Taro, agli ordini del nipote Francesco.
Nella pagina accanto miniatura raffigurante Filippo di Borgogna, detto il Buono, sotto il baldacchino, dalla riproduzione ottocentesca dell’opera L’instruction d’un jeune prince. A destra ritratto di Francesco d’Este, olio su tavola di Roger van der Weyden. 1460 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art. In basso ritratto di Filippo il Buono replica di un originale (1445 circa; perduto) di Roger van der Weyden. Digione, Musee des Beaux-Arts.
viene allontanato sia per garantire la sua incolumità, sia per tutelare la sicurezza degli altri eredi senza eliminare fisicamente quella che comunque rimane una potenziale risorsa per la dinastia, e trascorre anche anni presso un’altra corte o presso un celebre capitano di ventura, di volta in volta come figlio adottivo, apprendista cavaliere, studente, esule, ostaggio. Il suo ritorno in patria, la sua fedeltà alla dinastia e allo Stato, il suo grado di autonomia rispetto ai fratelli o ai cugini del ramo in quel momento regnante – l’opportunità cioè in termini dinastici del suo allontanamento in età infantile – dipendono poi dall’evolvere delle circostanze. Sono questi, in realtà, i casi piú frequenti di esperienze formative fuori dal proprio contesto dinastico originario: a seconda dei casi, si mescolano in queste esperienze
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Particolare della Pala di Brera raffigurante Federico di Montefeltro, olio su tavola di Piero della Francesca. 1472. Milano, Pinacoteca di Brera. Commissionata dal duca stesso, è un’opera simbolo dell’Umanesimo che permeava la corte urbinate.
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federico di montefeltro
Come diventare un «perfetto» signore rinascimentale Le vicende di Federico di Montefeltro, duca di Urbino fra il 1444 e il 1482, grande capitano e ancor piú grande mecenate e signore del Rinascimento, riassumono la maggior parte dei tratti che abbiamo sin qui analizzato. Figlio illegittimo di Guidantonio di Montefeltro e di madre ignota (o, come pure si sospettò, di Ottaviano Ubaldini della Carda), Federico nacque nel 1422 e trascorse la prima infanzia a Mercatello, allevato in fosterage da Giovanna Alidosi, vedova di Bartolomeo Brancaleoni e signora di Sant’Angelo in Vado e Mercatello, mentre a Urbino cresceva il fratellastro legittimo, Oddantonio. Nel 1433, a undici anni, fu consegnato come ostaggio alla Serenissima: i quindici mesi di soggiorno veneziano, importanti per la formazione del giovane urbinate, si completarono nei due anni successivi con un ancor piú significativo soggiorno alla corte di Mantova, dove Guidantonio ottenne di poter trasferire il figlio, ormai piú ospite che ostaggio. Qui Federico ebbe Ritratti di Ercole I e di Eleonora d’Aragona, dalla Genealogia dei Principi d’Este. XV sec. Modena, Biblioteca Estense Universitaria.
i diversi caratteri che abbiamo sin qui considerato. Leonello d’Este, figlio naturale del marchese Niccolò III, legittimato nel 1435, una volta al potere, non solo mandò il proprio figlio illegittimo Francesco alla corte di Borgogna, ma allontanò i fratellastri Ercole e Sigismondo, figli legittimi di Niccolò III e della terza moglie, Ricciarda di Saluzzo, inviandoli in fosterage nel 1445 alla corte aragonese di Napoli, a cui l’Estense era legato grazie al suo secondo matrimonio nel 1444 con Maria d’Aragona, figlia naturale di Alfonso il Magnanimo. I due giovani principi, rispettivamente di 14 e 12 anni, furo-
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l’opportunità di crescere alla scuola di Vittorino da Feltre, frequentando le lezioni del grande maestro veneto insieme con i giovani principi di casa Gonzaga. Tornato nel Montefeltro, Federico venne inviato dal padre a sedici anni sotto il comando del grande capitano Niccolò Piccinina, a Milano. Illegittimo scomodo, ma comunque importante per un padre non favorito da un primo matrimonio lungo e infruttuoso e da un secondo che gli diede un solo erede maschio; ostaggio politico; ospite di un’altra corte e studente brillante di un grande maestro; apprendista soldato presso un noto condottiero: le tappe della formazione di Federico toccarono tutti i diversi livelli del modello generale del viaggio pedagogico del giovane principe del Rinascimento italiano, e lo condussero, alla morte violenta del fratellastro, alla signoria su Urbino, in un crescendo che trovò, nell’assunzione al ducato e nel costruirsi di una perfetta biografia rinascimentale, il compimento di un percorso formativo cosí vario.
no inviati a Napoli per apprendervi il mestiere delle armi in una sorta di viaggio di formazione, ma di fatto vennero allontanati da Ferrara. La loro «adozione» napoletana (non tornarono a Ferrara che nel 1463), nonostante alcuni problemi politici, come l’allinearsi di Ercole nel 1460 al partito filoangioino, portò in ogni caso a un rafforzarsi dell’alleanza dinastica fra Estensi e Aragonesi: Ercole avrebbe infatti sposato nel 1472 Eleonora d’Aragona, figlia di re Ferrante. Il caso piú estremo di allontanamento pressoché forzato fu rappresentato dalle avventurose vicende del giovane erede del marchesato di Mantova, Federico Gonzaga, figlio del marchese di Mantova Francesco e di Isabella d’Este, nel secondo
decennio del Cinquecento. Nel 1510 Federico, decenne, dovette essere inviato come ostaggio a Roma, alla corte di Giulio II, per garantire della buona condotta dei genitori nelle difficilissime temperie dell’Italia del primo Cinquecento. Liberato alla morte di Giulio II da quello che di fatto era un soggiorno forzato in curia, il giovane Gonzaga partí poi nel 1516, sedicenne, per la corte di Francia, al seguito di Francesco I: i motivi politici di fondo erano gli stessi, ma in questo caso si trattò di un soggiorno piacevole, piú vicino al viaggio di formazione che alla prigionia di un ostaggio. Federico, infatti, recava con sé una piccola corte e godeva di un appannaggio tale da consentirgli di approfittare dei lussi della brillante corte francese, al tempo stesso intessendo importanti relazioni politiche, apprendendo gli usi di una grande corte europea e riallacciando i legami dinastici che lo univano al cugino Charles, conestabile di Borbone.
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CALEIDO SCOPIO
Oltre la contemplazione LIBRI • Autorevoli studiosi italiani e stranieri passano in rassegna e analizzano piú
di duemila anni di produzione artistica. Per evidenziare, dall’arte greca e romana alla pittura di Giotto, il valore simbolico tradotto in forme e immagini
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ella sua breve, ma densa Prefazione, François Bœspflug conia per questa ricca raccolta la definizione di «bottiglia nel mare», alludendo al fatto che i contributi in essa confluiti sono da intendersi come altrettanti messaggi che gli autori hanno raccolto dagli artefici delle creazioni artistiche analizzate e descritte e che, a loro volta, intendono ora trasmettere ai lettori. Filo conduttore dei vari saggi è dunque la dimostrazione di come monumenti, sculture, dipinti e le mille altre forme d’espressione elaborate nel corso dei secoli non siano stati generati a scopo solamente estetico, ma abbiano anche inteso riflettere, di volta in volta, temperie culturali, concezioni filosofiche, credenze religiose o
anche il desiderio di propagandare la supremazia politica dei committenti.
La lezione dell’antico I capitoli che compongono la prima parte del libro passano in rassegna la Grecia, l’Etruria e Roma, la cui lezione ebbe un peso determinante nello sviluppo dell’arte e dell’architettura del Medioevo. Alle quali è dedicata la parte piú corposa dell’opera, a partire dalle realizzazioni maturate nel corso dell’epoca paleocristiana: gli affreschi di Dura Europos segnano dunque l’avvio di un viaggio nel tempo, negli stili e nelle tecniche che abbraccia un orizzonte di notevole vastità, anche in termini geografici. Si ha modo di conoscere (o riscoprire) l’operato
Roberto Cassanelli, Adam S. Cohen, Robin Cormack, Jas’ Elsner, Alain Erlande-Brandenburg, Robert Hillenbrand, Robin Osborne, Serena Romano, Joan Sureda, Claudio Tiberi e Tania Velmans Le grandi stagioni dell’arte antica e medievale In Europa e nel Mediterraneo prefazione di François Boespflug; Jaca Book, Milano, 278 pp., ill. col. 90,00 euro ISBN 978-88-16-60607-4 www.jacabook.it A sinistra miniatura raffigurante i sette angeli che recano le sette piaghe mentre escono dal santuario, dal Giudizio Finale del Beato di Gerona. 975. Gerona, Museo Diocesano. Nella pagina accanto, in basso, a sinistra Vergine col Bambino, detta «di Valdimir», tempera su tavola, da Costantinopoli. 1120 circa. Mosca, Galleria Tret’jakov.
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Lo scaffale Marino Pagano Chiara da Montefalco Una monaca medievale con il cuore aperto al mondo Fede & Cultura, Verona, 80 pp.
14,00 euro ISBN 978-88-6409-715-2 www.fedecultura.com
In alto il chiostro della sala capitolare del monastero di Santo Domingo de Silos a Burgos (Spagna). Fine dell’XI-inizi del XIII sec.
Si avvertiva l’esigenza di uno studio sintetico ed efficace su una santa forse ancora trascurata da parte della ricerca sulla mistica medievale. Su Chiara da Montefalco, monaca agostiniana (1268-1308), ecco il volume a firma di Marino Pagano, giornalista e saggista. Al di là delle secolari diatribe sull’appartenenza reale della santa (agostiniana, ma vicina ai Francescani), nelle pagine dell’agile volume si possono
apprezzare una lettura dell’esperienza storica di Chiara e un’interpretazione della sua figura intesa come emblematica di un mondo claustrale
«aperto al mondo» e centro propulsivo di mentalità e persino «cultura». In che senso? Chiara elemento di sintesi e pacificazione nelle diatribe tra i
In basso Monreale, Cattedrale. Mosaico raffigurante la creazione delle stelle. 1180.
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comuni; donna capace di ricoprire un ruolo nella struttura ecclesiale (si pensi alle denunce contro gli eretici); persona di fede al centro di sofferenze esistenziali quasi «moderne»; temperie concreta e attiva a difesa dei bisognosi; mistica dalle numerose visioni, momenti in cui risolta appare la sua volontà di comunicare una particolare lettura dei tempi e della realtà. Un profilo lontano dalle classiche agiografie, quello dell’autore: piuttosto la lettura di una forte personalità e il suo ruolo nella storia del monachesimo femminile e del Basso Medioevo italiano, anche meramente sociale e laico. (red.)
di una schiera foltissima di maestri che, soprattutto nei primi secoli del Medioevo, restano ignoti, ma la cui mano non è per questo meno difficile da individuare. E, per l’ennesima volta, di fronte a miniature, mosaici, tavole dipinte o cattedrali, riesce difficile comprendere come sia potuta maturare l’idea che questa lunga stagione della nostra storia sia stata definita un momento «buio», per alcuni perfino di regressione. Un concetto difficilmente sostenibile, per esempio, al cospetto delle grandi fabbriche gotiche o dell’arte pittorica che si afferma fra Tre e Quattrocento, temi ai quali, insieme alla disamina delle produzioni islamiche, sono affidati i capitoli finali del libro. Stefano Mammini
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gli etruschi si Raccontano
Gli Etruschi hanno a lungo goduto dell’aura di «popolo misterioso», anche se, soprattutto grazie alle acquisizioni degli ultimi decenni, è stato possibile dimostrare come la maggior parte degli enigmi fossero in realtà solo presunti e probabilmente dettati dall’assenza di una documentazione letteraria paragonabile a quella dei Greci e dei Romani. I quali, in compenso, scrissero molto a proposito della piú importante e potente fra le genti dell’Italia preromana, ed è proprio attingendo a quelle testimonianze che Giuseppe M. Della Fina ha costruito la Monografia di «Archeo» che qui presentiamo. L’idea è stata infatti quella di ripercorrere le tappe salienti della storia etrusca in forma di racconto, attraverso le vicende personali di una quindicina di uomini e donne, celebri e non. Una carrellata di biografie accompagnata dalla descrizione dei luoghi che furono teatro dei fatti di volta in volta narrati e nei quali possiamo ancora oggi ritrovarne le tracce.
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