MEDIOEVO n. 282 LUGLIO 2020
IL M B US R EO ES DE CI LL A EA RM I
EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE
www.medioevo.it
Mens. Anno 24 numero 282 Luglio 2020 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
LA FINE DEL MEDIOEVO
DOSSIER RACCONTI A LUCI ROSSE
TARQUINIA
NELLA CITTÀ DELLE TORRI
28 LUGLIO 1488 LA BATTAGLIA DI SAINT-AUBIN ARCHEOLOGIA NUOVA LUCE SUI VICHINGHI
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€ 5,90
BATTAGLIA DI SAINT-AUBIN 1492. LA CADUTA DI GRANADA TARQUINIA DOSSIER LETTERATURA PARODISTICA
GRANADA 1492
IN EDICOLA IL 3 LUGLIO 2020
SOMMARIO
Luglio 2020 ANTEPRIMA MEDIOEVO INVENTORE Con la forza del vento
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ARCHEOLOGIA Qui i Vichinghi sono «di casa»
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RESTAURI Una fortezza possente e dalle molte vite
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ARTI MINORI Oro, rubini e perle per la reliquia piú preziosa
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MUSEI Quando l’arte va alla guerra
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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese
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di Tommaso Indelli
LAZIO Tutte le torri di Tarquinia
BATTAGLIE
Saint-Aubin-du-Cormier di Federico Canaccini
SPAGNA/2 Nascita di una nazione
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LUOGHI
STORIE Il sogno svanito
52
di Luca Gufi
LETTERATURA PARODISTICA
Un mondo di sublimi 85 sconcezze 68
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68 CALEIDOSCOPIO
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LIBRI Pagine di un certo peso Lo scaffale
Dossier
112 113
di Lucia Lazzerini
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IL
MEDIOEVO n. 282 LUGLIO 2020
MEDIOEVO UN PASSATO DA RISCOPRIRE
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LA FINE DEL MEDIOEVO
DOSSIER RACCONTI A LUCI ROSSE
28 LUGLIO 1488 LA BATTAGLIA DI SAINT-AUBIN
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BATTAGLIA DI SAINT-AUBIN 1492. LA CADUTA DI GRANADA TARQUINIA DOSSIER LETTERATURA PARODISTICA
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MEDIOEVO Anno XXIV, n. 282 - luglio 2020 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it
Hanno collaborato a questo numero: Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Cristina Ferrari è archeologa. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Luca Gufi è dottore di ricerca in storia del cristianesimo e delle Chiese. Tommaso Indelli è assegnista di ricerca in storia medievale presso l’Università degli Studi di Salerno. Mila Lavorini è giornalista. Lucia Lazzerini è stata professore di filologia e linguistica romanza all’Università degli Studi di Firenze Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: MithraIndex/Heritage Images: copertina (e p. 55); Album/ Prisma: pp. 5, 101; AKG Images: pp. 41, 49, 54/55, 56/57, 57 (alto), 62, 70/71, 76, 77 (sinistra), 78, 80/81, 96/97, 100/101, 108; Index/Heritage Images: pp. 52/53, 56 (alto); Album/Oronoz: pp. 57 (basso), 58, 61, 64-65, 86/87; Album/Kurwenal/Prisma: pp. 62/63; Album: pp. 66/67; Age: pp. 82/83, 99; Album/Fine Art Images: p. 85 Fine Art Images/Heritage Images: pp. 90, 97, 98/99; Veneranda Biblioteca Ambrosiana/Paolo Manusardi: p. 106 – Cortesia Nordland fylkeskommune: Martinus Hauglid: pp. 6/7 – Cortesia NIKU (Norsk institutt for kulturminneforskning): pp. 7 (basso), 8 – Cortesia Diego Pizi: pp. 9, 10 (alto), 12, 13 (alto), 14 – Cortesia JM-Multimedia Developer: ricostruzioni 3D alle pp. 10 (basso), 10/11, 13 (basso) – Cortesia Ufficio Stampa Opera del Duomo, Firenze: p. 16 – Doc. red.: pp. 17, 18, 40, 42, 44, 46 (basso), 47, 48, 73, 77 (destra), 80, 88-89, 91, 92-95, 102-105, 106/107, 109, 110-111 – Cortesia Fondazione Brescia Musei: pp. 20-27 – Shutterstock: pp. 59, 60/61, 74-75 – Marka: Marco Scataglini: pp. 68/69; CSP_milla74: pp. 70 (basso), 72/73, 78/79; Claudio Ciabochi: p. 83 – Cortesia Museo della Bilancia, Campogalliano: Giorgio Giliberti: p. 112 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 45, 46, 70, 72. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.
Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano
In copertina Il Gran Capitano Gonzalo Fernández de Córdoba all’assalto di Montefrio, dipinto di José de Madrazo y Agudo. XIX sec. Segovia, Alcázar.
Prossimamente irlanda
Viaggio nella terra dei druidi
costume e società
Tutti i mestieri del Medioevo
folklore
La Bella Addormentata: oltre la favola
MEDIOEVO INVENTORE a cura di Federico Canaccini
Con la forza del vento
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on Chisciotte ci ha insegnato che «combattere contro i mulini a vento» significa sforzarsi vanamente contro qualcosa piú grande di noi, se non addirittura contro qualcosa che esiste solo nella nostra testa. Ma che cosa sappiamo sui mulini a vento? Di certo possiamo affermare che rivoluzionarono l’economia del Medioevo: prima della loro introduzione, infatti, per macinare si utilizzavano i cosiddetti «mulini a sangue» («blood mills»), sfruttando la forza animale o quella dell’acqua. In realtà, i primi mulini a vento orizzontali sarebbero stati realizzati molti secoli prima dell’era cristiana, nel Vicino Oriente. Superata la classicità, in cui si attesta il mulino progettato da Erone di Alessandria, i mulini a vento orizzontali dovevano essere attivi, nell’Oriente arabo, tra il VII e il IX secolo. Nel XII secolo, in Europa, dopo l’esperienza delle crociate, fanno invece la loro prima comparsa i mulini con meccanismo verticale: nel 1105 una bolla papale ne autorizza la costruzione nell’area di Coutances e Evreux, nel 1120 sono invece attestati, a Nantes, mulini che sfruttano le maree, nel 1185 se ne trova uno edificato a Weedley, nello Yorkshire, e appena sei anni piú tardi ne appare uno a Bury Saint Edmund’s, per volere dell’abate locale. La zona di nascita e diffusione di questo tipo di mulino fu certamente l’area compresa tra Francia, Fiandre e Inghilterra: da lí si sarebbero rapidamente diffusi per l’intera Europa. Nei Paesi Bassi ci si serví dei mulini a vento per prosciugare le zone agricole sommerse, sollevando l’acqua in canali (polder) e strappando cosí terraferma al mare. In un primo momento la struttura poteva essere ruotata e il palo centrale poggiava su una collinetta e su un supporto ligneo. Sul finire del Duecento, però, con l’aumento della richiesta di farina, furono realizzate strutture in muratura piú solide, cosí che solo la parte sommitale del mulino ruotasse, dando modo alle pale di ricevere il vento da direzioni diverse, con pale piú lunghe che avrebbero colto anche brezze leggere, azionando i meccanismi per far ruotare le macine. I mugnai dovevano spesso tentare di eludere i controlli dei padroni, arraffando qualche sacco di farina e falsando i conti: ce lo ricorda Geoffrey Chaucer (1343-1400) in The Reves Tale, e, un secolo piú tardi, il monaco benedettino John Lydgate (1370-1451), che compone nientemeno che un poemetto contro i mugnai e i panettieri degni soltanto di finire alla gogna («Under the pillory») proprio come i comuni ladri. I mulini europei erano molto piú grandi rispetto a quelli persiani, oltre a essere dotati di un maggior grado di complessità nell’apparato meccanico nascosto al loro interno. Da quel momento in poi, il mulino a vento
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Particolare del San Giorgio, pala d’altare dipinta da Pere Niçard, raffigurante il porto di Palma di Maiorca, con un mulino a vento ben riconoscibile in secondo piano. 1468-1470. Maiorca, Museo Diocesano. L’introduzione in Europa delle prime strutture che si servivano dell’energia eolica per macinare il grano si colloca nel XII sec., all’indomani delle crociate. non fu adibito esclusivamente alla molitura del grano: cominciò infatti a essere utilizzato anche per spremere oli, macinare sale e, grazie a un albero a camme, azionare persino segherie. Il valore di una simile invenzione era stato intuito dai giuristi medievali, che, dal Duecento, inserirono «il vento» tra le forze che ricadono sotto il diritto della signoria, quando prima «nessuno poteva interdire ad alcuno l’uso del vento», perché, si sa, «il vento soffia dove e quando vuole».
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ANTE PRIMA
Qui i Vichinghi sono «di casa» ARCHEOLOGIA • Indagini sistematiche e ritrovamenti
fortuiti arricchiscono le conoscenze sulla storia del popolo di navigatori venuti dal Nord. Gettando luce sui rituali che accompagnavano il viaggio nell’aldilà
Vago in pasta vitrea rinvenuto a Bødo, nella Norvegia settentrionale, in una struttura forse interpretabile come tomba. 950-1050 circa.
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umuli con navi funerarie, insediamenti complessi con vari edifici e long house (letteralmente, «casa lunga»: il termine designa abitazioni la cui pianta si caratterizza appunto per l’accentuato sviluppo in senso longitudinale, n.d.r.), e, da ultimo, una tomba nascosta sotto le fondamenta di una casa privata: negli ultimi mesi la Scandinavia e la Norvegia in particolare hanno restituito nuove, interessanti testimonianze relative all’età vichinga che probabilmente getteranno nuova luce sulla vita quotidiana e sul contesto storico, culturale e cultuale dell’epoca. La scoperta forse piú notevole risale all’autunno scorso, quando un’équipe del NIKU, l’Istituto Norvegese per la Ricerca dei Beni Culturali, ha individuato sull’isola di Edøy una nave funeraria, lunga 16 m circa, luglio
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Qui sotto testa d’ascia, dalla probabile tomba vichinga scoperta a Bødo. 950-1050 circa.
A sinistra Bødo (Norvegia). I resti di una probabile tomba vichinga affiorati sotto il pavimento di una casa in corso di ristrutturazione. 950-1050 circa.
sepolta all’interno di quello che un tempo era un tumulo sepolcrale, oggi interamente scomparso.
Indagini non invasive Il ritrovamento è stato possibile grazie al georadar – tecnologia che consente di esplorare il sottosuolo senza ricorrere allo scavo – ed è stato seguito da quello di una possibile seconda nave, di dimensioni inferiori, poco piú di 7 m di lunghezza per 1 di larghezza, rilevata questa volta grazie all’analisi dei dati raccolti dalla prima indagine. Di entrambe le imbarcazioni sembrano essersi conservate intatte solo le chiglie, mentre i fianchi e le parti superiori sarebbero andati completamente distrutti nel tempo a causa delle intense attività agricole alle quali l’area è stata sottoposta a partire dall’Ottocento. La scoperta
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Edøy (Smøla, Norvegia). Immagine da georadar che mostra la presenza di tumuli (rosso), di una nave funeraria (verde) e di due long house (giallo).
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ANTE PRIMA Edøy (Smøla, Norvegia). Immagine acquisita tramite georadar che mostra la presenza di un grande tumulo (in rosso), al centro del quale giacciono i resti di una nave funeraria (in verde).
assume particolare rilevanza perché nel Nord Europa le sepolture a nave in tumulo, attestate sia nel Periodo di Vendel (550-800) che nella successiva epoca vichinga (800-1050), sono tutto sommato abbastanza rare. La maggior parte dei defunti, infatti, veniva solitamente cremata, riservando le sepolture monumentali con corredo a personaggi eminenti della società, perlopiú capi guerrieri, i quali venivano deposti in una nave funeraria insieme ad armi e oggetti personali, a volte animali e persino schiavi. Le imbarcazioni venivano infine interrate sotto tumuli imponenti, contrassegnati da segnacoli, adempiendo a un rito arcaico e complesso che, secondo la mitologia norrena, favoriva il viaggio del defunto nell’aldilà e caratterizzava in maniera monumentale il paesaggio, favorendo il ricordo dei trapassati e la celebrazione delle loro famiglie. Il fatto che a Edøy si celerebbero piú navi di questo tipo suggerisce che l’isola, oggi appartenente alla municipalità di Smøla, fosse a
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quell’epoca un centro di potere di notevole rilievo; non a caso si trova a poca distanza da Kuløy, nota per l’importante stele in pietra (Kulisteinen) datata all’XI secolo e scritta in alfabeto runico (Rundata N 449), che menziona per la prima volta il nome «Norvegia» (Nóregi) e allude alla cristianizzazione (kristindómr) allora appena iniziata.
Tumuli e abitazioni Una cinquantina di metri piú a nord della seconda nave, il georadar avrebbe inoltre individuato altri due tumuli funerari, rispettivamente di 11 e 19 m di diametro, e verso nord-ovest i resti di due strutture abitative la cui funzione è ancora da valutare. Secondo l’archeologo Bjørn Ringstad, le strutture apparterrebbero a periodi diversi – le case al IV-VII secolo e le navi subito dopo, tra il VII e il IX –, ma sono state utilizzate in maniera continuativa. Oltre che a Edøy, altre navi funebri sono state individuate recentemente anche in Svezia (Uppsala) e in varie località norvegesi: Trondheim, Vinjeøra e soprattutto Viksletta,
nella contea di Østfold. Quest’ultima imbarcazione, ribattezzata «nave di Gjellestad» per la vicinanza al monumentale tumulo di Jell, è lunga una ventina di metri (la suggestiva ricostruzione in 3D è visibile sul sito www.gjellestadstory.no) e sarà ora interamente scavata – si tratta del primo scavo di questo tipo realizzato dopo oltre un secolo – per evitare che il prezioso reperto, sepolto nei pressi di una fossa di drenaggio dell’acqua, venga irrimediabilmente danneggiato dai funghi e dalle muffe causate dall’umidità e dalle infiltrazioni d’aria. A questi ritrovamenti di grande respiro si affianca quello, fortuito, di una possibile tomba vichinga a Bødo, nella Norvegia settentrionale. La scoperta è stata effettuata da una coppia durante la ristrutturazione della propria casa. Rimuovendo la pavimentazione del piano terra dell’edificio, realizzato nel 1914, i due hanno rinvenuto dapprima un vago di vetro, poi una testa d’ascia e via via altri oggetti metallici, che gli esperti del museo di Tromsø, subito accorsi sul posto, hanno datato intorno al IX-X secolo. Il sito sarà sottoposto a scavo completo: sebbene in Norvegia rinvenimenti di questo tipo siano frequenti, è la prima volta in assoluto che ciò avviene sotto le fondamenta di un’abitazione privata. La presenza di varie ossa ha indotto tuttavia l’archeologo Jørn Erik Henriksen dell’Università di Tromsø a ipotizzare che possa trattarsi non tanto di una tomba vera e propria, quanto di un deposito o di una discarica di «scarti», simile a quelle che spesso si trovano nei pressi dei tumuli funerari risalenti sempre a quell’epoca. Elena Percivaldi luglio
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Una fortezza possente e dalle molte vite RESTAURI • Acquaviva Picena vanta uno dei migliori esempi di rocca medievale
attestati nelle Marche. Un complesso vasto e articolato, la cui storia può essere ripercorsa anche grazie al Museo Multimediale di recente inaugurazione
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d Acquaviva Picena (in provincia di Ascoli Piceno), in posizione strategica a dominio della valle del Tronto, si trova una delle rocche medievali meglio conservate delle Marche. La fortezza sorge sul colle di Terra Vecchia, dove scavi archeologici hanno intercettato una complessa successione di fasi occupazionali che precedettero la realizzazione del complesso monumentale oggi visibile. In particolare, sono state rilevate sia la presenza di un piano d’uso medievale, con un focolare che ha restituito frammenti di pietra In alto la cittadina di Acquaviva Picena (Ascoli Piceno), dominata dalla rocca voluta da Rinaldo d’Acquaviva. A destra uno scorcio della fortezza, il cui aspetto attuale è l’esito degli interventi operati nel tardo Quattrocento.
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ANTE PRIMA A sinistra la torre-mastio, che raggiunge i 22 m d’altezza. È una struttura ad andamento poligonale ma esternamente di forma cilindrica. A destra e in basso ricostruzioni virtuali dell’aspetto che la rocca di Acquaviva Picena doveva avere nel corso del XIV sec.
ollare del X secolo e con alcune buche di palo dello stesso periodo, sia una struttura muraria in laterizi del XIII secolo, a testimonianza di una continuità di frequentazione del sito dall’età altomedievale al Rinascimento. La costruzione della rocca, che si sovrappone quindi a un nucleo fortificato preesistente, si deve con molta probabilità al mercenario ghibellino Rinaldo d’Acquaviva, capostipite della casata che prese nome proprio dalla località che gli venne donata, con altri feudi,
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dall’imperatore Enrico VI di Svevia. Rinaldo provvide alla realizzazione di un articolato impianto fortificato, sul ripido colle roccioso, per difendere i confini settentrionali dei suoi feudi e per controllare l’arteria di comunicazione che, passando lungo la costa adriatica, collegava il Nord al Mezzogiorno d’Italia, oltre che per impedire in caso di invasione l’accesso al mare da chi proveniva dall’entroterra ascolano. Nel 1325 un altro esponente della stessa casata, Francesco d’Acquaviva, vendette il maniero per 7500 fiorini
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d’oro al comune di Fermo, che, in guerra da decenni con Ascoli Piceno, decise di stabilirvi una guarnigione di 60 armigeri: ciononostante, nel 1341, il castello fu assediato e quindi distrutto dalle truppe guidate da Luigi I d’Ungheria in marcia per la conquista del Regno di Napoli.
Un ritorno effimero Piú tardi si registrò un veloce ritorno del casato degli Acquaviva, con il giovane Gioisia, intenzionato a recuperare l’antico castello di famiglia: nel 1432 corruppe il
capitano della fortezza e riprese l’intero feudo, che detenne fino al 1438, quando dovette cedere all’assedio delle truppe di Francesco I Sforza, duca di Milano. Gli Sforza furono poi allontanati dalle Marche grazie ad Alfonso d’Aragona, ma la fortezza di Acquaviva subí un nuovo assedio e la sua totale distruzione nel 1447 a opera delle truppe fermane. Fu poi la stessa Fermo a provvedere alla ricostruzione del complesso: nel 1487 papa Innocenzo VIII inviò nella zona, per sovrintendere all’ammodernamento delle
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ANTE PRIMA
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A destra uno scorcio della torre-mastio che permette di apprezzarne la base a scarpa, particolarmente accentuata. Nella pagina accanto il corridoio voltato a botte che conduce al puntone situato nell’angolo occidentale del complesso. In basso ricostruzione virtuale di uno dei numerosi assedi portati alla fortezza di Acquaviva nel corso del XIV sec.
fortificazioni marchigiane, il celebre architetto fiorentino Baccio Pontelli, sul cui progetto la rocca di Acquaviva venne riedificata, reimpiegando solo in parte elementi preesistenti della fortezza trecentesca.
Alte mura e solide torri La rocca si presenta ancora oggi proprio nell’impianto tardoquattrocentesco progettato dal Pontelli su pianta romboidale, con ampia corte centrale dotata di pozzo e di alte cortine murarie rafforzate da solide torri angolari. Nell’angolo occidentale è un maestoso puntone a pianta pentagonale che sopravanza le cortine e in cui si aprono feritoie per bocche da fuoco: all’interno sono due vani sovrapposti aperti sulla corte. Il puntone è affiancato da una posterla, di collegamento con l’esterno e a esclusivo uso militare, che immette in un corridoio voltato a botte che accede direttamente al
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ANTE PRIMA
DOVE E QUANDO Ancora un’immagine della rocca di Acquaviva Picena, che ha fra le sue caratteristiche l’ampio uso dei laterizi come materiale da costruzione. suo interno. Al vertice sud e quello nord si trovano, rispettivamente, un puntone minore a pianta pentagonale e una torre a pianta quadrata. Nell’angolo orientale è la torre-mastio che, dall’alto dei suoi 22 m, domina l’intero paesaggio: la torre, con andamento poligonale ma esternamente di forma cilindrica con accentuata base a scarpa, scandita da una leggera cornice torica, si presenta superiormente difesa da un apparato sporgente di beccatelli, con tre aggetti progressivi stondati, realizzati attraverso il ricorso sistematico a mattoni. Al suo interno si trovano due vani voltati,
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dotati di finestre e sedili, collegati tra loro da scalette elicoidali: l’accesso al mastio avveniva originariamente a un livello superiore, attraverso un ponte levatoio mobile che permetteva di isolare la struttura in caso di ultima difesa da parte degli assediati.
Camminamenti e casematte La parte sommitale delle cortine murarie interposte tra le torri, un tempo coronate da merlature, poi sostituite da un parapetto nel quale vennero ricavate tronerie, è ancora dotata di una struttura difensiva con beccatelli e risulta percorribile attraverso funzionali camminamenti, mentre nello spessore delle murature sono ricavati piccoli appostamenti a casamatta. Oggi, dopo un
Rocca di Acquaviva Picena piazza del Forte, 1 Acquaviva Picena (Ascoli Piceno) Info tel. 335 370870; www. fortezzadiacquavivapicena.com complesso intervento di restauro conservativo, il complesso di Acquaviva, già ristrutturato alla fine dell’Ottocento dall’architetto marchigiano Giuseppe Sacconi – al quale si deve, fra l’altro, l’Altare della Patria, a Roma –, è visitabile grazie anche all’allestimento di un Museo Multimediale dove è possibile compiere un viaggio virtuale nel tempo, con navigazione a 360° con visore Oculus GO, per vivere la storia della possente fortezza tra assedi e trasformazioni architettoniche. Giampiero Galasso luglio
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Nel segno della sicurezza e della sostenibilità L
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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA
a XXIII Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico si svolgerà a Paestum da giovedí 19 a domenica 22 novembre, in regime di sicurezza e nel rispetto dei protocolli sanitari. Obiettivo dell’iniziativa è promuovere i siti e le destinazioni di richiamo archeologico, favorire la commercializzazione, contribuire alla destagionalizzazione e incrementare le opportunità economiche, approfondire e divulgare i temi dedicati al turismo culturale e al patrimonio, essere occasione di incontro per addetti ai lavori, operatori turistici e culturali, viaggiatori, appassionati. Da sottolineare lo sviluppo della cooperazione tra i popoli che l’evento persegue con la presenza annuale di Paesi non solo del Mediterraneo e attraverso il confronto e lo scambio di esperienze con la partecipazione di 300 relatori, 100 giornalisti accreditati, 120 operatori dell’offerta e lo svolgimento di 60 tra conferenze e incontri. Prestigiose le collaborazioni di organismi internazionali quali UNESCO e UNWTO e la partecipazione del MiBACT (Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo con 300 mq di area espositiva). Ma quale futuro potrà avere il turismo culturale a seguito dell’emergenza sanitaria legata al Covid-19? Ecco, in proposito, il pensiero di Ugo Picarelli, Fondatore e Direttore i luoghi nel rispetto del bene Errata della Borsa Mediterranea del Turismo culturale. Ma turismo sostenibile Archeologico: «Le recenti dichiarazioni significa soprattutto valorizzazione corrige del ministro Franceschini di mettere del territorio, riscoperta delle aree con in atto un piano in tre mosse per interne e conoscenza del patrimonio riferimento rilanciare il turismo nel Sud devono far minore. al DossierAttraverso il racconto delle ben sperare. Il piano di aiuti europei destinazioni archeologiche minori L’umanista è un’opportunità unica per rilanciare si favorirà la scoperta del territorio, che il Bel Paese. Occorre riqualificare la puntando andò alle su un’economia anche nostra offerta, in quanto la consapevolezza dei rischi(vedi e «Medioevo» circolare. Parlare di turismo crociate n. 220, aprile 2015) culturale e sostenibile del non rispetto del pianeta, a cui ci ha riportato l’attualeprecisare significa desideriamo che lasoprattutto medaglia inaffrontare bronzo tante sfaccettature, pandemia, è motivo per intraprendere da subito l’unica non solo ambientali, ma anche sociali e politiche: è un riprodotta a p. 93 (in basso) ritrae Malatesta strada possibile, un turismo sostenibile nel segno della ampio e importante Novello (al secolodiscorso Domenico Malatesta, 1418- per il futuro dei nostri unicità, dell’accessibilità, della destagionalizzazione territorie enon della nostra madre terra. Naturalmente 1465) signore di Cesena, Sigismondo e rispettoso dell’ambiente. Il viaggiatore della società come indicato sia il programma, avviene annualmente, che Malatesta, in didascalia.come Dell’errore contemporanea, una volta definito turista, ècisempre soprattutto la prevenzione sanitaria da attuare nei giorni scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri piú alla ricerca di emozioni e di soddisfare bisogni di svolgimento della Borsa saranno condivisi con il lettori. di conoscenza, ossia di fare turismo esperienziale. Comune di Capaccio Paestum, il Parco Archeologico di Per i grandi attrattori archeologici è fondamentale Paestum e Velia, la Regione Campania che l’ha inserita ragionare sui flussi turistici: l’approccio sostenibile nel calendario ufficiale 2020 delle fiere del turismo». in questo caso deve essere una modalità per visitare Info: www.borsaturismoarcheologico.it
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Oro, rubini e perle per la reliquia piú preziosa ARTI MINORI • Questo magnifico
reliquiario, detto «del Libretto», è uno dei vanti del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze. Un oggetto di eccezionale valore, passato per molte e illustri mani, prima d’approdare alla sua collocazione attuale
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iero di Cosimo de Medici (1414 o 1416-1469), signore di Firenze dal 1464 al 1469 e mecenate dal gusto raffinato ed eclettico, contribuí in maniera significativa ad arricchire la collezione di famiglia con preziosi oggetti di piccole e medie dimensioni, come il cosiddetto Reliquiario del Libretto, menzionato in un inventario di «gioie ed altre cose di valuta», datato 1465 e in quello redatto dopo la morte del figlio Lorenzo nel 1492: il registro ce lo descrive come un «tabernacolo in oro con reliquie, ornato da sei rubini e otto perle» del valore di 1500 fiorini. I reperti che il manufatto contiene sono ricollegabili alla Vera Croce, ritrovati a Gerusalemme dall’imperatrice Elena, madre di Costantino, nella prima metà del IV secolo; conservate a Costantinopoli per lungo tempo, alcune di queste reliquie giunsero in seguito nell’Europa occidentale, attraverso vari canali, diventando talvolta doni per sovrani. Intorno agli anni Quaranta del 1200, l’imperatore d’Oriente Baldovino, in cambio di aiuti militari, decise di vendere le testimonianze della Passione di Cristo, quali la spugna del fiele, un frammento della lancia di Longino, la veste di porpora e la corona di spine, al re di Francia Luigi il Santo, che fece erigere a Parigi la Sainte-Chapelle per la loro conservazione. Realizzato intorno agli anni Settanta
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In alto Roma, chiesa dei Ss. Quattro Coronati, cappella di S. Silvestro. Affresco raffigurante Elena, madre dell’imperatore Costantino, che scopre la croce di Cristo a Gerusalemme. 1246. Nella pagina accanto il Reliquiario del Libretto, realizzato nel XIV sec. in Francia e poi arricchito dal «tempietto» protettivo commissionato nel 1499, dall’Arte di Calimala, all’orafo Paolo di Giovanni Sogliano. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo. del Trecento da orafi e miniatori francesi, il ricercato contenitore fu commissionato da Carlo V di Francia, il quale poi lo donò al fratello Luigi duca d’Angiò, come riporta un’iscrizione in caratteri gotici apposta sul retro del reliquiario stesso; un riferimento al regno transalpino si ha anche sui due scomparti laterali estremi, decorati da gigli dorati all’interno di losanghe.
raccolte medicee, seppur per un breve periodo; nel 1494, infatti, con la cacciata della famiglia e il saccheggio del loro palazzo, il Reliquiario fu confiscato dalle autorità cittadine al fine di venderlo per estinguere i numerosi debiti contratti durante la rivolta. Ceduto al cardinale di Siena Francesco Piccolomini, a saldo di un credito di 9000 fiorini con la banca medicea, fu poi acquistato per soli 200 fiorini dall’Arte di Calimala, che, nel 1499, commissionò la realizzazione di un «tempietto» protettivo in argento sbalzato, cesellato, dorato e parzialmente smaltato, per destinarlo al Tesoro di San Giovanni; l’incarico fu affidato all’orafo Paolo di Giovanni Sogliano, registrato al servizio dell’ente dai primi anni del XVI secolo, rientrato a Firenze dopo la morte del suo maestro, Antonio del Pollaiolo, che aveva seguito a Roma.
L’arrivo in Italia
Argento di recupero
Si presume che proprio lo stesso duca, quando divenne re di Napoli dopo la scomparsa della regina Giovanna, abbia portato il capolavoro d’oreficeria in Italia, dove rimase anche dopo la sua morte avvenuta nel 1384 nel corso della battaglia delle Bisceglie. Dopodiché se ne perdono le tracce fino al XV secolo. Religione, storia e arte si intrecciano nella storia complessa e confusa che caratterizza infatti l’opera, protagonista di un viaggio nel tempo alquanto intricato, tanto che tuttora sono sconosciuti gli eventi che ne determinarono l’arrivo a Firenze, ospite delle
Il metallo fu ricavato dalla fusione di «due voti d’argento» proprio appartenenti al Battistero fiorentino. La committenza è attestata da due placchette raffiguranti lo stemma con l’Aquila sul Torsello, simbolo della corporazione, riportato sul piede di forma allungata, mentre medaglioni in cornici modanati ritraggono san Giovanni Battista, i quattro Evangelisti e quattro ulteriori aquile che adornano altre sezioni della teca di forma parallelepipeda, a due facce; a coronamento, sulla sommità del timpano, si trova una statuetta raffigurante il Cristo risorto su un basamento a foggia di sarcofago.
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ANTE PRIMA Seguirono ancora passaggi di mano, finché, nel 1891, si inaugurò il Museo dell’Opera del Duomo dove il doppio Reliquiario terminò il suo travagliato percorso; qui fu esposto per la prima volta nel 1954 e qui tuttora si può ammirarlo in una bacheca trasparente che ne permette la visione ravvicinata a tutto tondo, attraverso le vetrine in cristallo di rocca spartite da semi-colonnine e da una cornice orizzontale.
Un polittico in miniatura
Ritratto di Piero il Gottoso, primogenito di Cosimo de’ Medici, detto il Vecchio, olio su tela del Bronzino. 1550-1570. Londra, National Gallery.
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Il «libretto», ossia l’elemento interno, fa parte di una tipologia di reliquiari detti «a tabella», destinati alla devozione privata, e «da viaggio», per la configurazione adatta a essere trasportata. È un minuscolo polittico d’oro di 7,5 cm di altezza, che, aperto, misura 24 cm, formato da una parte centrale fissa dalla quale si articolano sei ante, tre per lato, che si richiudono, appunto «a libro», tramite una cerniera, dove si trovano le reliquie di santi mentre il vano centrale ospita quelle della Passione in rientranze cruciformi sagomate, visibili quando la struttura è aperta: è sormontato da una lamina d’oro a cui sono applicate due miniature su pergamena; una raffigura la Crocifissione, con la Madonna, san Giovanni Battista e la Maddalena, e l’altra la Trinità, con i presunti ritratti di Carlo V di Francia, raffinato collezionista, e di sua moglie Giovanna di Borbone. Uno dei brani piú pregiati e delicati della collezione dell’Opera di Santa Maria del Fiore, il Reliquiario del Libretto ha richiesto una soluzione adatta a mantenere l’unità dell’oggetto e, contemporaneamente, la corretta conservazione dei materiali che lo compongono. Le pergamene originali sono state quindi smontate dalla loro sede e sostituite con repliche, per essere sistemate separatamente nella stessa vetrina a garanzia della loro integrità. Mila Lavorini luglio
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ANTE PRIMA
Quando l’arte va alla guerra MUSEI • Nato dalla
donazione di Luigi Marzoli, il Museo delle Armi di Brescia è una delle raccolte piú ricche nel suo genere, grazie alla quale si possono ripercorrere oltre mille anni di storia dell’equipaggiamento militare. Un incontro con Marco Merlo, studioso delle armi antiche e curatore del Museo 20
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el gennaio 1965, l’imprenditore Luigi Marzoli, originario di Palazzolo sull’Oglio, lasciava per testamento al Comune di Brescia la sua preziosa collezione di armi antiche, una delle piú significative raccolte private al mondo, nata con lo scopo di documentare la lunga tradizione di produzione lombarda e, specialmente, bresciana. Ma Marzoli aveva raccolto armi e armature anche di produzione straniera, a scopo di confronto, soprattutto dalla bassa Germania e dall’Austria, ancora oggi aree concorrenti di Brescia. La raccolta attirò subito l’attenzione dei piú importanti studiosi internazionali, al punto da essere citata nell’opera Great Private Collections, a cura di Douglas Cooper (New York, 1963),
tradotta in 7 lingue, mentre è datata 1969 la guida Armi antiche dal Museo Civico Luigi Marzoli di Francesco Rossi e Nolfo di Carpegna. Il 15 ottobre 1988 nel Castello di Brescia, nel trecentesco Mastio Visconteo, edificato per volere di Luchino Visconti, venne finalmente inaugurato il Museo, su allestimento di Carlo Scarpa e Francesco Rovetta. Al lascito di Luigi Marzoli, costituito da circa 1090 reperti (di cui 580 esposti), si aggiungevano 300 pezzi appartenenti alle Civiche raccolte, soprattutto armi da fuoco del XIX secolo (descritte nella Guida al Museo delle Armi Luigi Marzoli di Francesco Rossi, pubblicata nello stesso 1988). «Il nuovo allestimento – spiega Marco Merlo, oplologo e curatore del Museo delle Armi – è diviso luglio
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Salvo diversa indicazione, tutte le immagini si riferiscono all’allestimento e alla collezione del Museo delle Armi «Luigi Marzoli» di Brescia. A sinistra e a destra particolari dell’allestimento del Museo, che ha sede negli spazi del Mastio Visconteo. Nelle sale, come si può notare nella foto a destra, sopravvivono lacerti dell’originaria decorazione pittorica degli ambienti.
Una storta, arma bianca corta caratterizzata da una lama piú o meno curva, attribuita a Faustino Ghelfo. 1560-1580.
in quattro sezioni principali, e documenta in ordine cronologico l’evoluzione della grande produzione armiera bresciana (ed europea)».
Le armi dei Longobardi La prima sezione, «archeologica», presenta una selezione di armi che vanno dall’epoca longobarda (VI-VII secolo), in omaggio alla storia della città, al Basso Medioevo. «Le armi di età longobarda – spiega Merlo – quasi tutte rinvenute nel territorio bresciano ed esposte nella prima
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vetrina, permettono di ricostruire l’evoluzione delle varie tipologie della spatha (una sorta di lunga spada a doppio taglio con punta arrotondata, tipica dell’armamento germanico) e dello scramasax, un lungo coltello a un solo taglio, di cui viene esposto un esemplare con manico praticamente intatto, uno dei meglio conservati al mondo». L’equipaggiamento dei guerrieri longobardi, infatti, si differenziava da quelli delle altre popolazioni germaniche e solo dalla fine del XII secolo si assiste a una parziale omologazione: oltre allo scudo, viene adottato
l’usbergo, una veste in maglia in ferro lunga fino al polpaccio, che, dalla metà del XIII secolo, inizierà ad accorciarsi (arrivando fino alle cosce). Venivano utilizzati anche elmi, spiedi da guerra, scuri o mazze e, naturalmente, spade. Nella seconda e nella terza vetrina si può invece ammirare l’evoluzione delle armi tra il XII e il XIV secolo, testimoniata da rare tipologie di armi difensive e bianche, e il progresso dell’equipaggiamento del cavaliere (miles), in particolare spade e pugnali, tra cui uno stocco (detto anche spada bastarda) a una mano e mezza: «In quest’ultimo
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ANTE PRIMA A sinistra La barricata a San Barnaba. 31 marzo 1849, uno dei quadri del ciclo sulle Dieci giornate di Brescia di Faustino Joli. Brescia, Museo del Risorgimento.
Il Museo del Risorgimento Oltre al Museo delle Armi, il Castello di Brescia ospita il Museo del Risorgimento, istituito ufficialmente nel 1887, ma che trovò la sua sede definitiva solo nel 1959, quando venne spostato nel «Grande Miglio», edificio costruito alla fine del Cinquecento e originariamente utilizzato come deposito di granaglie per le guarnigioni venete (da cui il nome). Il nucleo originario delle collezioni deriva da cimeli di epoca risorgimentale, raccolti a Brescia e provincia in occasione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884 di Torino, in seguito ampliata anche grazie a donazioni private. L’allestimento realizzato nel 2005 segue un criterio basato sui fatti storici, con particolare attenzione alle vicende del territorio locale (la Repubblica bresciana del 1797, le successive Guerre d’Indipendenza, ecc.), ovvero i principali avvenimenti che hanno visto coinvolta direttamente la città, soprattutto le Dieci Giornate del 1849 (la rivolta della popolazione contro l’occupazione austriaca, conclusasi tragicamente il 1º aprile) e la battaglia di Solferino del 1859, che segnò la sconfitta inflitta agli Austriaci dalle truppe franco-piemontesi. La collezione è composta da dipinti, busti, medaglie, stampe, documenti d’archivio, armi, divise, bandiere, ceramiche, carte geografiche che illustrano i movimenti delle truppe, e cimeli di diversa natura, che testimoniano le arti figurative e la vita dell’epoca. I reperti sono databili tra il 1789, anno della Rivoluzione francese, e il 1870 (presa di Roma), passando dall’ultimo periodo in cui la città fu sotto il dominio della Repubblica di Venezia (fine del XVIII secolo), alla spedizione dei Mille (1860), alle Guerre d’indipendenza italiane (1848, 1859 e 1866), con particolare attenzione ai protagonisti, quali Napoleone III, Cavour, Vittorio Emanuele II, Garibaldi. Meritano menzione anche i cimeli legati al passaggio della città al Regno Lombardo-Veneto, e quelli legati al politico bresciano Giuseppe Zanardelli, per tre volte Presidente della Camera. Attualmente il Museo è chiuso per lavori di ristrutturazione dell’edifico, ma gli studiosi possono comunque accedere alle collezioni su appuntamento.
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In basso camicia rossa garibaldina appartenuta allo scrittore e patriota Cesare Abba, uno dei partecipanti alla spedizione dei Mille. Brescia, Museo del Risorgimento.
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principalmente pezzi del XV secolo. Una parte importante della raccolta è costituita da elmi (celate) all’italiana, con marchi di armaioli bresciani e milanesi: i modelli, diversi tra loro anche per lo spessore, variano a seconda degli scopi e degli usi, da elmi per cavalieri, da indossare sopra l’armatura, a quelli semplici per i fanti. Si dividono tra celate con montature in ottone (spesso aggiunte successive del XVII-XVIII secolo), con apertura per il viso (a «T», a «Y» e con chiusura sulle guance, tipici per i cavalieri), oltre a semplici caschetti completamente aperti (per i fanti), e a un bacinetto con visiera a muso di cane; interessante è una rara celata italiana del 1470-80, un semplice elmo da fante di pessima fattura. caso – continua Merlo – si tratta di un esemplare unico al mondo, di provenienza ignota, databile al 1380 circa. Significative sono anche la maglia in ferro, che comincia ad accorciarsi per guadagnare in leggerezza, un elmo nasale normanno, una scure e uno spiedo del XIII-XVI secolo».
La spia estense Racconta ancora il direttore che «proprio nel 1380 si hanno le prime notizie di botteghe di armaioli operanti in città, ma non è sicuro se si trattasse di produttori o rivenditori di armi; una prima vera produzione a Brescia è testimoniata a partire dalla seconda metà del XIV secolo, quasi sicuramente per iniziativa di artigiani milanesi. Un documento del 1549 attesta l’attività di una spia di Ercole II d’Este, duca di Ferrara, che opera a Brescia per carpire i segreti della produzione di armature e per verificare la possibilità di “rapire” un armaiolo nella città estense». La maggior parte delle armi della collezione Marzoli può essere ammirata nella seconda sezione, detta «gotica», che raccoglie
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Il marchio di Passau «Molto interessante – sottolinea Merlo – è anche la “lupa di Brescia”, un raffinato stocco a una mano e mezza del 1400-1450, che deve il nome a una figura realizzata in agemina, considerata il lupo (da cui il nome), marchio tipico della città tedesca di Passau». Sempre nella stessa sezione si può ammirare l’evoluzione delle armature a piastre, che proprio nel Trecento iniziano a prendere forma per opera di artigiani lombardi e bresciani, con le loro tipiche superfici lisce e tondeggianti, create In alto una sala del Museo delle Armi. A sinistra armatura per il torneo a cavallo detto «campo aperto» di probabile produzione bresciana. Seconda metà del XVI sec.
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In alto archibuso a ruota realizzato da Lazarino Cominazzo, Brescia. 1650 circa. Qui accanto corsaletto da barriera appartenuto a Carlo Emanuele I di Savoia, opera del Maestro del Castello a Tre Torri, Milano. 1590-1600.
Qui sopra testiera da cavallo appartenuta a Juan de La Cerda, IV duca di Medinaceli, forse di produzione milanese. 1560-1570
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per far «scivolare» i colpi. A tale «stile» si contrappongono le armature tedesche e tirolesi, caratterizzate da costolature «a fisarmonica», per «disperdere» i colpi. Le armi ad asta sono invece testimoniate da alabarde «primitive» prodotte in Svizzera, in realtà in uso fino al 1520, contemporaneamente ad altri modelli. Il 1400 è anche il secolo delle prime armi da fuoco, rappresentate da bombardelle a mortaio (la piú antica qui conservata risale al 1370-80), le classiche bombardelle raffigurate nelle miniature, tra cui una «esplosa» piú volte, a testimonianza del suo effettivo utilizzo sui campi di battaglia.
Prodotti esclusivi Un discorso a parte meritano le armi «di lusso», due splendide cinquedee (daghe) prodotte probabilmente a Ferrara tra il 1480 e il 1510, con punta rinforzata per sfondare le armature, e un prezioso stocco con pomo in oro e impugnatura in argento: «Il pomo – spiega Merlo – veniva appositamente plasmato per richiamare il medaglione di famiglia, rendendo cosí la spada un raffinato “accessorio” che completava l’abbigliamento dei ricchi signori, da ostentare oltre che da usare». Si accede quindi alla terza sezione, composta da 3 sale in cui vengono esposte armi del XVI secolo, l’epoca di massimo splendore per la storia delle armature. Come conferma il direttore, «si tratta del periodo di maggiore sviluppo per la produzione bresciana, che interessa tutte le tipologie di armi. Brescia era infatti famosa per la forgiatura di armature da fanti, ma anche di armature di lusso: era attiva una vera e propria filiera, che coinvolgeva decine di botteghe, per la produzione di corsaletti da piede, famosissimi ed esportati in tutto il mondo, e di spade di qualità (queste ultime prodotte in centri quali Caino e Nave). In città vi era anche una fonderia di cannoni, e si producevano armi da
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Quell’elmo venuto dall’Eubea Uno dei pezzi piú importanti della raccolta del Museo delle Armi «Luigi Marzoli» è un elmo proveniente dall’ospedale militare del castello di Chalcis, sullo stretto di Euripos, tra Eubea e Beozia, passato dai Veneziani ai Turchi nel 1470. Qui, durante lavori di ristrutturazione, nel 1840, è stata trovata una stanza murata che conteneva l’arsenale veneziano, con le armi della guarnigione: di particolare importanza sono varie parti di armatura databili tra la metà del XIV e la prima metà del XV secolo, tutte di produzione lombarda, soprattutto milanese. «Molti reperti – spiega Marco Merlo – sono oggi nel Museo Etnografico di Atene, ma la maggior parte delle armature è stata dispersa sul mercato antiquario, per approdare al Metropolitan Museum of Art di New York. Qualche pezzo è rimasto in collezioni private (di molti si sono perse le tracce), tra cui l’elmo acquistato da Luigi Marzoli, oggi esposto al Museo. È uno degli elmi meglio conservati, di sicura produzione milanese (riporta due marchi di armorari milanesi), di bassissima fattura e composito, ovvero realizzato con pezzi di recupero da altre armature, in quanto destinato a essere venduto ai Veneziani, e caratterizzato da una morfologia “involutiva”, arcaica rispetto alla produzione coeva di Milano. Tutte le armature rinvenute a Chalcis, d’altra parte, presentano numerosi problemi scientifici, soprattutto gli elmi, dalle forme uniche e peculiari». fuoco portatili (fucili e pistole), vero e proprio vanto del territorio». Già dai primi anni del secolo, gli stili tedesco e italiano iniziano a contaminarsi tra loro e le fitte scanalature delle armature tedesche (tipiche dell’armatura «alla massimiliana») cominciano a diradarsi, pur conservando le caratteristiche spigolature e, soprattutto, i cordoni, per arrivare alle armature con bordi cordonati (in metallo tirato), come si vede nella prima sala in cui sono esposte 4 armature da cavallo e 4 corsaletti da piede (da fante). «È in atto – è ancora Merlo a parlare – un processo di differenziazione dei ruoli e dei combattenti, e di conseguenza delle armature. Tale processo, iniziato in modo embrionale con una prima razionalizzazione nel 1300, si concluderà definitivamente nel 1600 con eserciti permanenti e, a fine secolo, con la piena definizione di tutti i ruoli e con le prime divise.
Precedentemente, infatti, l’unico modo per distinguere i compagni dai nemici era seguire il vessillifero (il portatore del vessillo), scelto tra i migliori combattenti, in quanto punto di riferimento per l’esercito».
Spade in affitto Un esempio di tale differenziazione dei modelli è rappresentato da un’armatura da cavallo leggera priva degli stinchi (come quelle da fante), ma con scarselle (protezioni delle cosce). «Le armature erano molto care, ma il vero problema era mantenerle. Un documento fiorentino del 1545-50 testimonia che parte dell’attività di uno spadino di Firenze era affittare le spade». Nella sala sono esposte anche le cosiddette «armature d’ordinanza» di produzione bresciana (1575 circa), ovvero le armature da fante delle Ordinanze Territoriali, acquistate a carico delle comunità: gli esemplari qui conservati
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ANTE PRIMA
appartenevano probabilmente agli ufficiali, in quanto riportano inciso il nome del proprietario. Sono inoltre presenti armi in asta italiane (spiedi e partigiane veneziane) e alabarde «alla svizzera», con lame a ghigliottina (a sezione inclinata) e «alla tedesca», con lame
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a mezzaluna. Le altre sale della sezione accolgono armature da fante (corsaletti da piede), sempre da Brescia, dette «alla pisana», o delle guardie di palazzo (del corpo), con decorazione a bande verticali e a camei sulle spalle e ad acquaforte, e quelle della «guardia papale», scurite
e decorate con foglia d’oro a bulino. Tipiche del Cinquecento sono le armature da torneo a cavallo, composte da una base a cui si aggiungono «grandi pezze», guarniture da rinforzo interscambiabili da montare e smontare a seconda delle necessità, luglio
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La sala del Museo in cui è collocata è la vetrina (a sinistra, nella foto) che custodisce la rotella «da pompa», oggetto simbolo della collezione bresciana, forse realizzata da Bartolomeo Piatti a Milano. 1563.
veneziane, prodotte per le facciate delle case dei patrizi e poi imitate sulle prue delle gondole». Nella seconda metà del Cinquecento si afferma il gusto tipico del manierismo, con armi lussuosissime, vere e proprie opere d’arte ma sempre funzionali, interamente ricoperte di motivi decorativi realizzati a sbalzo e ad agemina, arricchiti con e materiali preziosi quali oro, argento, sete. Il gusto estetico della decorazione è ben visibile nelle due rotelle da parata di cui una, siglata e datata 1563, è considerata uno dei capolavori dell’epoca. «La rotella – spiega il direttore – oggetto simbolo del Museo, presenta l’intera superficie in acciaio decorata a sbalzo e cesello, con raffigurato il corteo di Bacco nell’atto di attraversare una strada, e sullo sfondo una città fortificata su un corso d’acqua (le figure sono in agemina e foglia d’oro). Sulla parte superiore reca una palmetta con le lettere BP ed F (riportata sotto le altre sue), rovesciate rispetto allo spettatore (destinate a essere viste dal portatore dello scudo), sicuramente la firma dell’armoraro. La rotella conserva anche la sua imbottitura, non quella originale del 1563, ma comunque seicentesca».
Un successo planetario
per trasformare le armature stesse nel modello desiderato e adattarle ai differenti tipi di giochi guerreschi (cavallo leggero, pesante, torneo, ecc.), come testimonia uno splendido esemplare da campo aperto, uno dei pochi al mondo. «Le armature da torneo erano asimmetriche,
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per assorbire meglio i colpi, con il braccio sinistro fermo per tenere le redini e quello destro piú libero, per maneggiare le armi». «Molto rare – sottolinea Merlo – sono un’armatura da bimbo (con tracce d’uso) e una da donna, mentre una curiosità sono le armi in asta
Nel Museo sono conservati anche il corsaletto da barriera di Carlo Emanuele I di Savoia e la tastiera da cavallo del duca di Medinaceli, governature di Sicilia (il resto dell’armatura è dispersa tra Torino, Praga e Filadelfia). L’ultima sezione, dal 1600 ai primi del 1800, testimonia soprattutto le armi da fuoco, quasi tutte di produzione bresciana, realizzate dai piú famosi maestri di canne, quali i Cominazzo, i Chinelli, i Dafino e gli Acquisti. «Già dalla fine del Cinquecento, i maestri indiscussi nella produzione di armi da fuoco, celebri in tutto il mondo (i loro prodotti erano richiesti dalle Americhe alla Cina),
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ANTE PRIMA Ancora un’immagine dell’allestimento del Museo, realizzato su progetto di Carlo Scarpa e Francesco Rovetta.
furono i produttori delle canne di Gardone Val Trompia, a cui si deve l’invenzione di nuovi metodi di forgiatura delle canne. A Brescia si concentravano invece le botteghe dei produttori dei meccanismi d’accensione, abili nella costruzione di qualunque tipologia di acciarini che, oltre a meccanismi ingegnosi (come quelli auto-montanti a ruota, che si potevano ricaricare senza l’ausilio di una chiave, richiesti da re, principi e sultani) idearono motivi peculiari per la decorazione delle armi. La loro «arte» univa il massimo livello di tecnologia dell’epoca con le decorazioni piú raffinate, splendidamente rappresentate da lussuose armi, in cui la tecnologia piú avanzata incontrava le correnti artistiche piú eleganti. Molto famosi erano anche i produttori di casse (la parte in legno delle armi da fuoco portatili). La produzione di armi da fuoco riguardava sia le armi da guerra che, soprattutto, quelle da caccia, piú raffinate e tecnologicamente evolute». Dal meccanismo di accensione a serpe (con cane a forma di «S» o di serpe), per uso militare, si passa
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ad armi a ruota (di uso soprattutto venatorio), a pietra focaia e, dall’inizio dell’Ottocento, con accensione a capsula. «In realtà, i moschetti a serpe continuano a essere utilizzati, in quanto economici e quindi ancora richiesti dagli Stati per armare gli eserciti».
Nuovi modelli Il grande sviluppo tecnologico e artistico delle armi da fuoco non segna la fine delle armature: «nascono anzi nuovi modelli, quali le armature da corazziere, cavalieri armati con pistole tenute su due fondine sull’arcione del cavallo, specializzati nella manovra del “caracollo”, un movimento a ellisse in cui la prima fila scaricava i proiettili per poi spostarsi indietro (per ricaricare le armi), mentre la seconda fila si spostava in avanti. Altre armature dell’epoca sono quelle “alla ussara” (per cavalieri leggeri), formate da lamelle (tipo le armature romane)». Anche le spade sono interessate da importanti innovazioni, che portano allo sviluppo dello spadino e di spade da fante quali le schiavone, utilizzate dalla Repubblica di
Venezia, ma anche dai «bravi» a servizio dei signorotti (come quelli di Don Rodrigo nei Promessi Sposi). Le spade, inoltre, si differenziano anche a seconda del grado militare e del ruolo, distinguendosi tra spade da ufficiale, da ambasciatore, ecc. (lo stesso discorso vale per le aste). «Interessanti – conclude Merlo – sono i “buttafuori” di produzione cremonese, armi con una o piú lame occultate all’interno di un astile in metallo, azionate da una molla, e i bolzoni piatti (proiettili) da balestra e una punta di dardo della fine del XVI secolo, forse prodotta in Germania, unica al mondo». Il percorso si chiude con canne di terzette dal tipico meccanismo a pietra focaia (a focile, da cui il termine fucile) e con le canne lazzarine, prodotte a Gardone Val Trompia. La visita al Museo delle Armi permette inoltre di ammirare le porzioni di affreschi di varie epoche che decorano le sale del Mastio. Delle pitture, le piú importanti delle quali databili intorno alla metà del XIV secolo (epoca viscontea), si conservano generalmente le parti superiori, decorate a soggetto geometrico e floreale o a festoni, oltre che a riquadri colorati, che riproducono forse marmi pregiati. All’interno delle fasce sono visibili gli stemmi dei Visconti (in parte cancellati dai Veneziani) con l’aquila imperiale nera su sfondo giallo e il «biscione», il mitico drago Tarantasio, alcuni dei quali conservano le iniziali LV di Luchino Visconti. Nel percorso espositivo è compreso un tempio romano probabilmente di età flavia, scoperto durante scavi condotti tra il 1968 e il 1990, di cui sono visibili il perimetro delle fondamenta a pianta rettangolare su un altro podio orientato N-S, e l’ampia scalinata di accesso. Cristina Ferrari luglio
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ANTE PRIMA
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INTRODUZIONE ALLA
PITTURA MEDIEVALE A
firmare il nuovo Dossier di «Medioevo» è Furio Cappelli, il quale, proprio nelle pagine iniziali, sottolinea come da sempre si tenda «ad associare l’idea della pittura medievale all’immagine sacra, sia nel mondo cristiano d’Occidente che in quello d’Oriente. Un collegamento suggerito dal fatto che, nonostante sia sempre rimasta viva una produzione destinata ad ambienti profani o comunque non attinenti al culto religioso o alla vita monastica, le sopravvivenze piú estese e significative dell’arte figurativa si collocano nelle chiese». Il fenomeno è innegabile, ma, pagina dopo pagina, si scopre quanto l’universo pittorico dell’età di Mezzo sia, in realtà, ben piú ampio e variegato. Un mondo che Cappelli svela ai lettori, forte della sua autorevolezza di storico dell’arte, che gli permette di offrire un quadro esauriente e ricco di notizie.
Il volto della Vergine nell’affresco raffigurante l’apparizione della Madonna alla storpia Remingarda. XII sec. Ausonia (Frosinone), santuario di S. Maria del Piano.
DE I L M CO ED LOR IO I EV O
LO/MI. L. 46/2004, art. 1, c.1, . - D.L. 353/2003 conv.
Sfilano, nei vari capitoli, personalità delle quali non conosciamo – né mai conosceremo – il nome, ma anche personaggi che hanno tracciato le vie maestre della produzione artistica, da Duccio di Buoninsegna a Pietro Cavallini, da Cimabue a Giotto, fautore, quest’ultimo, di un’autentica rivoluzione stilistica. Il ricco apparato iconografico documenta tutte le piú significative realizzazioni succedutesi nell’arco del millennio medievale, concentrandosi soprattutto sui monumenti conservati in Italia, ma non solo. Si compone, cosí, una sorta di museo ideale, reso ancor piú ricco dalla presenza, oltre che di pitture su tavola e affreschi, del ricco repertorio di opere quali miniature, mosaici, teli ricamati o vetrate istoriate.
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MEDIOEVO DOSSIER
MEDDosIOsiEer VO
GLI ARGOMENTI
• NASCITA DELL’ICONOGRAFIA Una questione d’immagine • L’ARTE BIZANTINA La lezione venuta da Oriente
INTRODUZIONE ALLA
PITTURA MEDIEVALE ODIO UNA STORIA DI AMORE E ● L’EREDITÀ ORIENTALE GIOTTO ● LA RIVOLUZIONE DI E DIPINTA ● LA PIÚ ANTICA CROC LAVORI CAPO DEI ● ALLA SCOPERTA
• I MATERIALI E LE TECNICHE Per dare forma alle idee Rivista Bimestrale N°38 Maggio/Giugno 2020
MEDIEVALE INTRODUZIONE ALLA PITTURA
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a cura di Stefano Mammini
Mostre TORINO ANDREA MANTEGNA. RIVIVERE L’ANTICO, COSTRUIRE IL MODERNO Palazzo Madama, Corte Medievale e Piano Nobile fino al 20 luglio
Torino rende omaggio ad Andrea Mantegna, uno dei piú importanti artisti del Rinascimento italiano, con una ricca rassegna, allestita nelle sale monumentali di Palazzo Madama. La mostra presenta il percorso artistico del grande pittore, dai prodigiosi esordi giovanili al riconosciuto ruolo di artista di corte dei Gonzaga, articolato in sei sezioni che evidenziano momenti particolari della sua carriera e significativi aspetti dei suoi interessi e della sua personalità artistica, illustrando al tempo stesso alcuni temi meno indagati come il rapporto di Mantegna con l’architettura e con i letterati. Viene cosí proposta un’ampia lettura della figura dell’artista, che definí il suo originalissimo linguaggio formativo sulla base della profonda e diretta conoscenza delle opere padovane di Donatello, della familiarità con i lavori di Jacopo Bellini e dei suoi figli (in particolare del geniale Giovanni), delle novità fiorentine e fiamminghe, nonché dello studio della scultura antica. Un’attenzione specifica è dedicata al suo ruolo di artista di corte a Mantova e alle modalità con cui Mantegna definí la fitta rete di relazioni e amicizie con scrittori e studiosi, che lo resero un riconosciuto e importante interlocutore nel panorama culturale, capace di dare forma ai valori morali ed estetici degli umanisti.
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Il percorso della mostra è preceduto e integrato, nella Corte Medievale di Palazzo Madama, da un apparato di proiezioni multimediali: ai visitatori viene proposta un’esperienza immersiva nella vita, nei luoghi e nelle opere di Mantegna, cosí da rendere accessibili anche i capolavori che, per la loro natura o per il delicato stato di conservazione, non possono essere presenti in mostra, dalla Cappella Ovetari di Padova alla celeberrima Camera degli Sposi, dalla sua casa a Mantova al grande
ciclo all’antica dei Trionfi di Cesare. Il Piano Nobile di Palazzo Madama accoglie, quindi, l’esposizione delle opere, a partire dal grande affresco staccato proveniente dalla Cappella Ovetari, parzialmente sopravvissuto al bombardamento della seconda guerra mondiale ed esposto per la prima volta dopo un lungo e complesso restauro e dalla lunetta con Sant’Antonio e San Bernardino da Siena proveniente dal Museo Antoniano di Padova. Il percorso espositivo non è
solo monografico, ma presenta capolavori dei maggiori protagonisti del Rinascimento nell’Italia settentrionale che furono in rapporto con Mantegna, tra cui opere di Donatello, Antonello da Messina, Pisanello, Paolo Uccello, Giovanni Bellini, Cosmè Tura, Ercole de’ Roberti, Pier Jacopo Alari Bonacolsi detto l’Antico e infine il Correggio. Accanto a dipinti, disegni e stampe di Mantegna, sono esposte opere fondamentali dei suoi contemporanei, cosí come sculture antiche e moderne, luglio
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dettagli architettonici, bronzetti, medaglie, lettere autografe e preziosi volumi antichi a stampa e miniati. info tel. 011 4433501; www.palazzomadamatorino.it ROMA RAFFAELLO Scuderie del Quirinale fino al 30 agosto
Oltre cento opere di mano di Raffaello Sanzio sono riunite per la prima volta per la mostra che costituisce l’apice delle celebrazioni mondiali per i 500 anni dalla sua scomparsa. Il progetto espositivo trova ispirazione, in particolare, nel fondamentale periodo romano di Raffaello, che lo consacrò quale artista di grandezza ineguagliabile e leggendaria, e racconta con ricchezza di dettagli tutto il complesso e articolato percorso creativo. Ne fanno parte creazioni amatissime e famose in tutto
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il mondo, quali, solo per fare qualche esempio, la Madonna del Granduca dalle Gallerie degli Uffizi, la Santa Cecilia dalla Pinacoteca di Bologna, la Madonna Alba dalla National Gallery di Washington, il Ritratto di Baldassarre Castiglione e l’Autoritratto con amico dal Louvre, la Madonna della
trascorse buona parte della carriera spostandosi tra Toscana, Liguria, Umbria, e Lazio al servizio di famiglie politicamente ed economicamente potenti, autorità pubbliche, grandi Ordini religiosi e confraternite, affermandosi come il piú grande maestro del polittico del suo tempo. La rassegna enfatizza perciò questa forma d’arte sacra, grazie alla presenza di pale complete e di tavole disassemblate che, riaffiancate, consentono eccezionali ricomposizioni. Per l’occasione, in un ambiente che ricrea l’interno di una chiesa francescana ad aula, è stato ricostruito l’imponente apparato figurativo della ormai smembrata Pala di San Francesco al Prato di Perugia, di cui la Galleria Nazionale dell’Umbria conserva ben 13 elementi. A questi si aggiungono le parti mancanti, finora individuate, come le sette tavole della predella raffiguranti Storie di san Francesco, conservate tra il Landesmuseum di Hannover (Germania) e il Kasteel Huis Berg a
s’-Heerenberg (Paesi Bassi), e il piccolo San Sebastiano del Museo di Capodimonte a Napoli, che probabilmente decorava uno dei piloni della carpenteria. Sono comunque documentate anche le altre tipologie di opere, come gli stendardi processionali o le piccole tavole di devozione privata, offrendo quindi una panoramica completa dell’arte di Taddeo. Da segnalare che la sua importante attività come frescante è illustrata da una ricostruzione video in 3D degli affreschi della cappella del Palazzo Pubblico di Siena, parte di un ricco apparato multimediale che documenta i restauri e le indagini diagnostiche eseguiti in occasione della mostra grazie al contributo della Galleria Nazionale dell’Umbria. info tel. 075 58668436; e-mail: gan-umb@beniculturali.it; biglietteria/bookshop: tel. 075 5721009; e-mail: gnu@sistemamuseo.it; www.gallerianazionaledellumbria.it
Rosa dal Prado, la celebre Velata, anch’essa dagli Uffizi. info tel. 02 92897722; e-mail: info@scuderiequirinale.it; www.scuderiequirinale.it PERUGIA TADDEO DI BARTOLO Galleria Nazionale dell’Umbria fino al 30 agosto (prorogata)
Il senese Taddeo di Bartolo (1362 circa-1422) è per la prima volta protagonista di una rassegna monografica, che, grazie a un centinaio di opere, ne ricostruisce l’intera parabola artistica. Vero e proprio maestro itinerante,
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AGENDA DEL MESE BOLOGNA IMAGO SPLENDIDA. CAPOLAVORI DI SCULTURA LIGNEA A BOLOGNA DAL ROMANICO AL DUECENTO Museo Civico Medievale fino al 6 settembre
Può dirsi un fenomeno di recente affermazione il rinnovato interesse verso la scultura lignea italiana, ai cui aspetti materiali e tecnici è a lungo mancato, nella storiografia artistica, un pieno riconoscimento di dignità critica. In un quadro di riferimento segnato, in particolare per il patrimonio artistico prodotto nel XII e XIII secolo, da una rarefazione delle opere causata dalla deperibilità del materiale e dalla progressiva
trasformazione delle immagini al variare dei canoni estetici, «Imago splendida» segna un importante momento di ricognizione. La mostra approfondisce l’affascinante e ancora poco studiata produzione scultorea lignea a Bologna tra XII e XIII secolo, restituendone una rilettura aggiornata a quasi vent’anni dall’esposizione «Duecento. Forme e colori del Medioevo a Bologna», una cui sezione rappresentava lo spazio del
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sacro con opere inerenti l’iconografia sacra bolognese. Grazie alla collaborazione della Curia Arcivescovile di Bologna e della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, e con il patrocinio di Alma Mater StudiorumDipartimento delle Arti, il progetto è l’esito espositivo di una sedimentata ricerca filologica e documentaria, che fissa una nuova tappa verso la comprensione dei modelli di riferimento nel contesto figurativo della Bologna altomedievale. Il nucleo principale della mostra, allestita nella Sala del Lapidario, si compone delle testimonianze piú rappresentative della produzione plastica superstite nella città: tre croci intagliate di proporzioni monumentali appartenenti alla variante iconografica del Christus Triumphans che vince la morte, per la prima volta eccezionalmente riunite insieme. La comparazione ravvicinata dei manufatti offre in visione tangenze e analogie, sul piano della sintassi formale e tecnica, che rendono plausibile l’ipotesi di un’inedita attribuzione a un’unica bottega, credibilmente di area alpina sudtirolese – il cosiddetto Maestro del Crocefisso Cini – in una fase temporale compresa tra il 1270 e il 1280. info tel. 051 2193916 oppure 2193930: e-mail: museiarteantica@comune. bologna.it; www.museibologna.it; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Twitter: @MuseiCiviciBolo TRENTO L’INVENZIONE DEL COLPEVOLE. IL «CASO» DI SIMONINO DA TRENTO, DALLA PROPAGANDA ALLA STORIA Museo Diocesano Tridentino fino al 15 settembre (prorogata)
Simone da Trento (detto il «Simonino»), un bambino di circa due anni, scomparve misteriosamente la sera del 23 marzo 1475 e fu ritrovato cadavere la mattina di tre giorni dopo, nei pressi dell’abitazione di una famiglia ebrea. In base a radicati pregiudizi, la responsabilità del rapimento e del delitto venne subito attribuita ai membri della locale comunità ebraica. L’accusa si fondava sulla convinzione che gli Ebrei compissero sacrifici rituali di fanciulli cristiani con lo scopo di reiterare la crocifissione di Gesú, servendosi del sangue della vittima per scopi magici e religiosi. Incarcerati per ordine del principe vescovo di Trento Johannes Hinderbach, gli Ebrei vennero processati,
costretti a confessare sotto tortura e infine giustiziati. Proprio in virtú del presunto martirio, Simone divenne presto oggetto di un intenso culto locale, che papa Sisto IV vietò sotto pena di scomunica. La prudenza e i dubbi della Chiesa non riuscirono a opporsi a una venerazione tributata per via di fatto e costruita utilizzando due potenti mezzi di comunicazione: le immagini e il nuovissimo strumento della stampa tipografica. Grazie alla macchina della propaganda, abilmente orchestrata dal vescovo Hinderbach, il culto di Simonino si estese presto ad altre zone dell’Italia centrosettentrionale e della Germania, riuscendo a imporsi come prototipo di tutti i luglio
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presunti omicidi rituali dei secoli a seguire. Solo nel Novecento, negli anni del Concilio Vaticano II, la rilettura critica delle fonti ha ristabilito la verità storica: il 28 ottobre 1965, lo stesso giorno in cui venne pubblicato il documento conciliare Nostra Aetate, la Chiesa abolí il culto del falso «beato». L’intera vicenda viene ora ripercorsa dalla mostra allestita nel Museo Diocesano Tridentino, ideata come omaggio a monsignor Iginio Rogger (1919-2014), già direttore del Museo stesso e coraggioso protagonista della storica revisione del culto di Simonino. A distanza di piú di mezzo secolo dalla sua abolizione, l’esposizione intende fare il punto sul «caso» di Simone da Trento e diffondere una piú ampia conoscenza di questa delicata e attualissima pagina della storia tardo-medievale. info tel. 0461 234419; e-mail: info@museodiocesanotridentino.it; www.museodiocesanotridentino.it ROMA RINASCIMENTO MARCHIGIANO. OPERE D’ARTE RESTAURATE DAI LUOGHI DEL SISMA Complesso Monumentale di San Salvatore in Lauro del Pio Sodalizio dei Piceni fino al 20 settembre (prorogata)
Il Complesso Monumentale di San Salvatore in Lauro, sede della Fondazione Pio Sodalizio dei Piceni, attiva nell’Urbe fin dal 1600, accoglie 36 opere d’arte – databili fra il XV e il XVIII secolo – scelte tra quelle restaurate a seguito del sisma del 2016. Si tratta della seconda tappa di un’esposizione itinerante che ha preso il via proprio nella zona del cratere, ad Ascoli Piceno presso il Forte Malatesta, che ora continua a
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Roma e che si concluderà a Senigallia, sulla riviera adriatica. Della selezione fanno parte manufatti dall’alto valore devozionale e/o storicoartistico, fra i quali figurano crocifissi lignei e vesperbild di
ambito tedesco, che ancora oggi si trovavano all’interno delle chiese come oggetti di culto da parte dei fedeli. Vi sono quindi nomi importanti, come Jacobello del Fiore, con la serie delle Scene della vita
di Santa Lucia provenienti dal Palazzo dei Priori di Fermo, Vittore Crivelli con la Madonna orante, il Bambino e angeli musicanti di Sarnano, Cola dell’Amatrice, di cui spicca la Natività con i santi Gerolamo,
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AGENDA DEL MESE Francesco, Antonio da Padova e Giacomo della Marca dalla sacrestia della chiesa di S. Francesco ad Ascoli Piceno. E ancora, da Roma, Giovanni Baglione e Giovanni Serodine, che dalla Svizzera seguí nella capitale l’esempio di Caravaggio. Tutti autori di indubbia fama che nelle Marche sono nati o che vi hanno soggiornato e che hanno contribuito a modificare la geografia della storia dell’arte. Gli interventi di restauro sono stati eseguiti con innovative analisi diagnostiche, che non soltanto hanno consentito di porre rimedio ai danni subiti dalle opere, ma hanno permesso di effettuare nuove attribuzioni e di acquisire nuove conoscenze relative alla tecnica pittorica e ai materiali usati dai pittori, accrescendo le conoscenze che si avevano su questo patrimonio e aprendo la strada a molti studi scientifici. info tel. 06 99572979; e-mail: info@artifexarte.it; www.artifexarte.it CLASSE (RAVENNA) TESORI RITROVATI. IL BANCHETTO DA BISANZIO A RAVENNA Museo Classis Ravenna fino al 20 settembre
I ceti dirigenti della tarda antichità hanno molti modi per autorappresentarsi. Uno dei principali è commissionare oggetti preziosi ad artigiani specializzati. Un settore di grande prestigio è quello dell’argenteria: coppe, boccali, posate e grandi piatti sono tra gli oggetti piú richiesti dalle aristocrazie. Spesso questi oggetti recano delle raffigurazioni di miti antichi o scene agresti e di banchetto. Il senso di queste rappresentazioni si giustifica nei modelli della loro
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PADOVA «A NOSTRA IMMAGINE». SCULTURA IN TERRACOTTA A PADOVA NEL RINASCIMENTO DA DONATELLO A RICCIO Museo Diocesano fino al 27 settembre (prorogata)
committenza. Importanti personaggi vogliono comunicare il loro status symbol, le loro radici culturali. In molti casi si tratta di prodotti di alta qualità realizzati nei piú importanti centri culturali dell’impero. Il percorso espositivo inizia da due grandi piatti realizzati in argento dorato di epoca tardoantica provenienti dal Museo Archeologico di Cesena. La sequenza narrativa della mostra prende avvio dalla documentazione del loro ritrovamento e stabilisce connessioni con analoghi grandi missoria in argento che, per qualità e modalità di realizzazione, appaiono in relazione con quelli di Cesena. Inoltre partendo dalla rappresentazione del banchetto, incorniciata al centro di uno dei grandi piatti di Cesena, si sviluppa un racconto sulla produzione di suppellettili da mensa tardo antiche e sulle rappresentazioni figurative di banchetto circolanti tra le aristocrazie del tempo, derivate da modelli prestigiosi, funzionali anche a precise esigenze di affermazione e esaltazione sociale. Queste
suppellettili, infatti, erano commissionate per essere donate durante alcune cerimonie o per celebrare incarichi e nomine. Ai tempi dell’impero romano, inoltre, era molto importante anche il «peso» del vasellame da cui si desumeva la ricchezza del proprietario. La mostra, che si inserisce perfettamente nel percorso espositivo del Classis Ravenna, punto culturale di riferimento per chiunque voglia conoscere la storia della città, tre volte capitale, dalle origini all’anno Mille, approfondisce un aspetto della vita e della cerimonialità tardo antica alle quali il Museo dedica molta attenzione. Unitamente alla basilica di S. Apollinare in Classe, definita una dei piú grandi esempi di basilica paleocristiana e dotata di meravigliosi mosaici e all’Antico Porto di Classe, considerato uno dei principali scali portuali del mondo romano e bizantino, unico per suggestione, Classis Ravenna costituisce il Parco Archeologico di Classe. info tel. 0544 473717; www.classisravenna.it; www.ravennantica.it
Secoli, dispersioni, furti, indifferenza, vandalismi hanno quasi completamente distrutto o disperso un patrimonio d’arte unico al mondo: le sculture in terracotta rinascimentali del territorio padovano. Ma qualcosa di prezioso e significativo è rimasto e il Museo Diocesano di Padova, insieme all’Ufficio beni culturali, al termine di una intensa, partecipata attività di recupero, studi, ricerche e restauri – sostenuti anche dalla campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi «Mi sta a cuore» – sono riusciti a riunire nelle Gallerie del Palazzo vescovile di Padova, una ventina di terrecotte rinascimentali del territorio, orgogliosa testimonianza delle migliaia che popolavano chiese, sacelli, capitelli, conventi e grandi abbazie di una Diocesi che spazia tra le province di Padova, Vicenza, Treviso, Belluno e Venezia. La diffusione tanto capillare della scultura in terracotta proprio in questo territorio va individuata nella presenza prolungata e molto attiva, a Padova, a ridosso della basilica di S. Antonio, della bottega di Donatello e, dopo di lui, di Bartolomeo Bellano, Giovanni De Fondulis e Andrea Riccio. Questi artisti creavano capolavori in pietra, marmo, bronzo, ma anche nella piú umile (e meno costosa) terracotta. Opere preziose ed espressive, e per questo molto ambite e richieste. In queste fucine venivano alla luce grandi scene di gruppo, come i luglio
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PARIGI SGUARDI SULLA VITA QUOTIDIANA Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 27 settembre
Compianti, ma anche piccole ma raffinate Madonne con il Bambino o immagini di Santi per devozione familiare, di dimensioni ridotte ma spesso di grande qualità. E la mostra, quasi per campione, accoglie esempi emozionanti di queste variegate produzioni artistiche distribuite nel territorio, non meno pregiate di altre sculture in terracotta che saranno prestate per l’occasione da alcuni Musei nazionali e internazionali. info tel. 049 652855 o 049 8761924; www.museodiocesanopadova.it URBINO RAPHAEL WARE. I COLORI DEL RINASCIMENTO Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale fino al 27 settembre (prorogata)
La grande stagione rinascimentale italiana trova piena espressione in ogni forma artistica: quella della maiolica esprime pienamente la ricerca estetica, il clima culturale, ma anche il modus
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vivendi, che fa dell’Italia e dei suoi artisti, tra Quattrocento e Cinquecento, il faro culturale dell’Occidente. Dal Seicento in poi, nei Paesi europei, la maiolica cinquecentesca italiana diventa una vera e propria passione collezionistica e, a quella istoriata, da considerarsi a pieno titolo un aspetto della pittura rinascimentale, viene associato il nome del grande pittore urbinate: in inglese Raphael Ware. E la Galleria Nazionale delle Marche espone, in questa mostra, 147 raffinati esemplari
di maiolica italiana rinascimentale, provenienti dalla piú grande collezione privata al mondo, di questo genere, con l’obiettivo di focalizzare l’attenzione su quell’importante momento della tradizione artistica italiana. L’esposizione è allestita al secondo piano del Palazzo Ducale di Urbino, nella luminosa Loggia del Pasquino, con l’intenzione di mostrare questi raffinati oggetti nella piena luce naturale, poiché la maiolica – piú di ogni altra forma d’arte del tempo – mostra i suoi colori perfettamente conservati come all’origine, quando uscí dalla bottega del ceramista. La loggia è posta a fianco alle sale che espongono una parte delle ceramiche della collezione permanente e l’allestimento – appositamente creato – verrà poi utilizzato proprio per ampliare lo spazio espositivo dedicato a questa sezione. info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it
Gli uomini e le donne del Medioevo non avevano bisogni granché diversi dai nostri: nutrirsi, avere un tetto sotto il quale vivere, prendersi cura della propria salute… Preoccupazioni alle quali si affiancava il desiderio di nutrire la mente, oltre che lo stomaco, di misurare il tempo, le distanze o le quantità. Un quadro, insomma, sovrapponibile all’attuale, che la mostra allestita dal museo parigino documenta grazie a una ricca selezione di oggetti, con l’intento di ribadire, ancora una volta, quanto poco «bui» siano stati i secoli dell’età di Mezzo, nel corso dei quali non mancava l’attenzione per la pulizia personale, né l’aspirazione a formarsi una cultura. Di certo, alcune assenze possono sorprendere, come per esempio nel caso della forchetta – la cui introduzione si ebbe solo nel
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AGENDA DEL MESE XVI secolo – o degli armadi guardaroba, ma, nel complesso, emerge l’immagine di una società dinamica, protagonista di mutamenti significativi e capace di dotarsi di strumenti sempre piú evoluti e, in una parola, «moderni». info www.musee-moyenage.fr
patrimonio storico artistico e sulla necessità della tutela e della corretta conservazione. Il percorso espositivo presenta una serie di «casi di studio» esemplari, che documentano i diversi metodi per ricostruire la storia di questi oggetti, spesso
URBINO BALDASSARRE CASTIGLIONE E RAFFAELLO. VOLTI E MOMENTI DELLA VITA DI CORTE Palazzo Ducale, Sale del Castellare fino al 1° novembre (dal 19 luglio)
FIRENZE STORIE DI PAGINE DIPINTE. MINIATURE RECUPERATE DAI CARABINIERI Palazzo Pitti, Sala delle Nicchie fino al 4 ottobre
Antichi manoscritti miniati, pagine e miniature ritagliate, provenienti dalle numerose istituzioni religiose italiane, trafugati e in seguito recuperati dal Nucleo Tutela del Patrimonio, celebrano il lavoro svolto negli anni dai Carabinieri dell’Arte, richiamando l’attenzione sulla fragilità estrema del nostro
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manomessi per favorirne il commercio illegale: grazie a indizi anche minimi, avvalendosi di competenze interdisciplinari, è possibile ricollegare questi oggetti dispersi al loro contesto fisico e geografico di appartenenza. Oltre a spiegare le caratteristiche peculiari di questi gruppi di codici rispetto al percorso della storia della miniatura, di ognuno si evidenzieranno le pagine recuperate e, se ve ne sono, quelle ancora da ricercare. info www.uffizi.it
Nelle Sale del Castellare del Palazzo Ducale di Urbino viene raccontata, in modo del tutto originale, la vicenda di un uomo che fu figura centrale del Rinascimento europeo. Baldassarre Castiglione, mantovano d’origine ma urbinate d’adozione, è noto per il suo Cortegiano, opera che, tradotta nelle principali lingue dell’epoca, forní «il» modello di comportamento per l’alta società dell’intero continente. Ma limitare la figura del Castiglione a questa pur celeberrima opera sarebbe limitante. Come la mostra evidenzia, la sua fu una figura di intellettuale finissimo, vicino a grandi artisti, Raffaello in primis, ma anche a scrittori, intellettuali, regnanti e papi,
attento politico, incaricato di ambascerie tra e piú delicate del suo tempo. Uomo che sfuggí a intrighi, che seppe muoversi in modo accorto in un periodo storico complessissimo. Attingendo alla fonte imprescindibile delle sue Lettere, il progetto espositivo ha il merito di ricostruire l’intera vicenda del Castiglione ponendola nel contesto del suo tempo, accanto a figure altrettanto complesse e affascinanti come quelle di Guidobaldo da Montefeltro, Duca di Urbino, di Leone X, dei Medici, degli Sforza, dei Gonzaga e di Isabella d’Este «prima donna del mondo», dell’Imperatore Carlo V e di artisti – Raffaello innanzitutto, ma anche Leonardo, Tiziano, Giulio Romano…–, di fini intellettuali come Pietro Bembo e di studiosi come Luca Pacioli. Il percorso si articola in sette sezioni fitte di opere importanti, luglio
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utili a dare la dimensione dell’epoca raccontata. Integrate attraverso soluzioni multimediali che ampliano il racconto, offrendo ulteriori chiavi di lettura, agendo su immagini e stimoli visivi ed emotivi. La mostra si propone come un vero e proprio scrigno d’arte ma anche di arti applicate, presentando abiti per feste, tornei e parate, armi, antiche edizioni e manoscritti, e poi la musica, per citare solo alcuni dei temi approfonditi. Naturale complemento dell’esposizione sono il Palazzo Ducale dei Montefeltro e l’intera città di Urbino, contenitori e al contempo contenuto di un evento che fa della corte urbinate uno dei suoi fondamentali punti di interesse. info www.vieniaurbino.it BOLOGNA LA RISCOPERTA DI UN CAPOLAVORO Palazzo Fava, Palazzo delle Esposizioni fino al 10 gennaio 2021
Un viaggio di ritorno travagliato, che ai tre secoli di attesa ha sommato altro tempo, se possibile ancor piú interminabile nella sua incertezza: ma finalmente il capolavoro ritrovato è pronto a rivelarsi: Palazzo Fava. Palazzo delle Esposizioni di Bologna ospita la grande mostra che riporta in città, a 500 anni dalla sua realizzazione e a 300 dalla sua dispersione, le tavole del Polittico Griffoni dei ferraresi Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti, che proprio nella città felsinea, con la maestosa pala d’altare realizzata tra il 1470 e il 1472 per l’omonima cappella nella basilica di S. Petronio, diedero avvio al loro straordinario sodalizio artistico. Un lavoro di oltre due anni e il
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coinvolgimento di 9 Musei internazionali proprietari delle singole tavole, la metà dei quali ubicati fuori dai confini nazionali, hanno dato vita a un evento eccezionale per la storia dell’arte, che ha il merito, tra le altre cose, di ridefinire la centralità della città di Bologna nel panorama rinascimentale italiano. La mostra si compone di due sezioni: il piano nobile di Palazzo Fava ospita «Il Polittico Griffoni rinasce a Bologna»: le 16 tavole originali a oggi superstiti provenienti dai musei prestatori sono visibili assieme alla ricostruzione del Polittico, una vera e propria rimaterializzazione della pala d’altare cosí come dovette apparire ai Bolognesi di fine Quattrocento. La superba pala d’altare dedicata a san Vincenzo Ferrer fu concepita per la cappella di famiglia di Floriano Griffoni all’interno della basilica di S. Petronio a Bologna. La sua realizzazione, collocata tra il 1470 e il 1472, fu affidata al ferrarese Francesco del Cossa, allora all’apice della sua straordinaria carriera artistica, iniziata intorno al 1456 e stroncata dalla peste nel 1478. I contatti tra l’artista e il capoluogo emiliano, attivi per quasi un ventennio, si tradussero nella realizzazione di alcuni capolavori come l’Annunciazione di Dresda, la Madonna del Baraccano e la Pala dei Mercanti. Il Polittico Griffoni segnò l’inizio della sua collaborazione con il piú giovane Ercole de’ Roberti, uno dei piú formidabili sodalizi artistici del secondo Quattrocento italiano. Assieme a Del Cossa e De’ Roberti lavorò alla cornice il maestro d’ascia Agostino de Marchi da Crema. Attorno al 1725 il nuovo proprietario della cappella, Pompeo Aldrovandi,
monsignore e poi cardinale, fece smantellare la pala e destinò le singole porzioni figurate a «quadri di stanza» della residenza di campagna della famiglia a Mirabello, nei pressi di Ferrara. Nel corso dell’Ottocento i dipinti entrarono nel giro del mercato antiquario e del collezionismo, giungendo, infine, ai nove musei che oggi custodiscono le opere, la metà dei quali hanno sede fuori dai confini nazionali.
Il secondo piano ospita «La Materialità dell’Aura: Nuove Tecnologie per la Tutela», sezione che illustra, attraverso video, immagini e dimostrazioni con strumenti di scansione 3D, l’importanza delle tecnologie digitali nella tutela, registrazione e condivisione del patrimonio culturale, proprio a partire dal lavoro svolto sulle tavole originali del Polittico. info tel. 0544 473717; https://genusbononiae.it
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battaglie saint-aubin
sogno svanito
28 LUGLIO 1488
Il
di Federico Canaccini
Sul finire del XV secolo, la Bretagna accarezzò l’idea di rendersi indipendente. Un’aspirazione intollerabile per la corona di Francia e causa di un duro conflitto. Che si risolse, in un assolato giorno d’estate, con la sanguinosa battaglia combattuta presso la fortezza di Saint-Aubin-du-Cormier
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opo l’interminabile contesa con l’Inghilterra, il regno di Francia, salvato dalla visionaria Pulzella d’Orléans, doveva ancora affrontare molti ostacoli prima di garantirsi una certa stabilità interna. Il cosiddetto «re di Bourges», Carlo VII, sostenuto dagli Armagnacchi, era riuscito a farsi incoronare a Reims, nel 1429, solo grazie all’azione miracolosa di Giovanna d’Arco. A seguito di questi successi, il giovane sovrano riuscí ad accordarsi con il duca di Borgogna Filippo il Buono (Trattato di Arras del 1435) e a riprendere Parigi l’anno seguente, strappandola agli Inglesi di Enrico VI. Nei due decenni successivi, soprattutto grazie alla riorganizzazione fiscale e militare, Carlo VII rientrò in possesso della Normandia e della Guienna, respingendo gli Inglesi oltre la Manica (fuorché la città portuale di Calais), e frenando le velleità dell’aristocrazia francese che puntavano a controllare larghe fette del potere regio e ampie zone della Francia. Alla morte di Carlo VII, destinato a passare alla storia come «il Vittorioso», la corona venne cinta dal figlio Luigi XI, il quale dovette ben presto fronteggiare rivolte e contrasti interni. Ancor prima di essere incoronato, riparò presso la corte del duca di Borgogna, per
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In alto Saint-Aubin-du-Cormier, bosco d’Usel. La lapide che ricorda i Bretoni caduti nella battaglia combattuta il 28 luglio 1488, che segnò la conclusione del conflitto franco-bretone, ponendo fine agli aneliti d’indipendenza della regione. Nella pagina accanto miniatura raffigurante i nobili francesi che danno vita alla Lega del Bene pubblico, costituita nel 1465 e ostile al re Luigi XI, dalla Cronaca di Luigi XI. 1502. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
contrasti con il padre e, appena salito al trono, dovette combattere la cosiddetta «Lega del Bene pubblico» (1465), animata dalla grande aristocrazia di Francia e capeggiata da Carlo de Charolais, il futuro Carlo il Temerario. L’obiettivo della Lega era quello di far capitolare il sovrano, considerato un inetto, e insediare al suo posto il fratello, Carlo di Francia. Nonostante alcuni successi diplomatici, il re fu sconfitto nel 1465, catturato da Carlo il Temerario e costretto a rinunciare alla giurisdizione sulla Borgogna (1468). Se la corona francese era riuscita ad allontanare il pericolo di un dominio inglese, tutt’altro che conclusa poteva dirsi la lotta contro i nobili francesi, i quali approfittavano di ogni occasione per tentare di insediarsi luglio
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battaglie saint-aubin Ritratto di Carlo il Temerario, Duca di Borgogna, olio su tela di Peter Paul Rubens. 1618. Vienna, Kunsthistorisches Museum.
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RE DI FRANCIA E DUCHI DI BORGOGNA Giovanni II il Buono (1350-1364)
Sposa: (1) Bona di Lussemburgo, (2) Jeanne de Boulogne
Carlo V (1364-1380) Sposa:Giovanna di Borbone
Carlo VI (1380-1422) Sposa: Isabella di Baviera
Luigi d’Orleans (1370-1407) Sposa: Valentina Visconti
Carlo VII (1422-1461) Sposa: Maria d’Angiò Luigi XI (1461-1483) Sposa: (1) Margherita di Scozia, (2) Carlotta di Savoia
sul trono o, per lo meno, di strappare fette di territorio alla giurisdizione regia, minando l’unità stessa del regno e rendendo quindi impossibile il processo di unificazione nazionale. Carlo il Temerario era frattanto divenuto signore dei Paesi Bassi, duca di Borgogna e della Franca Contea. Nel 1468 aveva sposato Margherita di York, sorella del re d’Inghilterra, con cui stipulò un’alleanza. Con l’ambizioso progetto di restituire alla Borgogna l’antico splendore, Carlo il Temerario creò un clima anti-francese sempre piú pesante. Nel 1475 riuscí ad annettere alla Borgogna il territorio della Lorena e tentò di sottomettere i Cantoni Svizzeri ma fu ripetutamente fermato a Granson e Morat (1476).
Al trono, ma sotto tutela
Tali difficoltà ricaddero a cascata sul figlio di Luigi XI, Carlo VIII, nonostante Carlo il Temerario fosse morto in battaglia a Nancy, nel 1477. Il giovane sovrano iniziò la propria carriera nel 1483, sotto la tutela della sorella Anna di Francia e del cognato, Pietro di Borbone. Fino ad allora aveva vissuto perlopiú nel castello di Amboise,
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Filippo l’Ardito (1363-1404) Sposa: Margherita di Fiandra
Giovanni Senza Paura (1404-1419) Sposa: Margherita di Baviera Filippo il Buono (1414-1467) Sposa: (1) Michelle di Francia (sorella di Carlo VII), (2) Bona d’Artois, (3) Isabella di Portogallo Carlo il Temerario (1467-1477) Sposa: (1) Caterina di Francia (sorella di Luigi XI), (2) Isabella di Borbone, (3) Margherita di York
isolato e sotto stretta sorveglianza: suo padre era ormai preda della paranoia che i parenti, o qualche nobile, potessero attentare alla sua vita. Appena salito al trono, i nobili francesi, capeggiati da Francesco II, duca di Bretagna, tentarono immediatamente di approfittare del passaggio di potere e rovesciare la famiglia reale. La situazione si fece presto incandescente, al punto che, nel 1484, il novello re fu costretto a convocare, per la prima volta nella storia di Francia, i cosiddetti «Stati Generali» (la cui ultima convocazione fu quella del 1789, fatale alla corona di Francia e simbolo della Rivoluzione). Tre anni piú tardi, la ribellione era tutt’altro che domata e cosí, nel 1487, venne decisa una prima spedizione militare che riuscí a piegare parte della Bretagna, ottenendo il controllo su alcuni castelli, tra cui la fortezza di Saint-Aubin-du-Cormier, teatro del futuro scontro finale. Si era quasi giunti alla risoluzione, ma in Bretagna permanevano pericolose sacche di resistenza e cosí, nel 1488, fu organizzata una seconda spedizione con l’obiettivo di porre fine al problema bretone. Il re af-
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battaglie saint-aubin fidò il comando di un enorme esercito a Luigi II de La Trémoille. L’esercito era composto da 10 000 uomini tratti dalle compagnies d’ordonnance, ai quali si aggiungevano 5000 mercenari svizzeri, sempre piú richiesti dai sovrani europei, armati di alabarde ed equipaggiati con numerose bocche da fuoco (vedi box a p. 47). L’armata, cosí composta, iniziò la campagna verso la metà di aprile del 1488, ottenendo ripetuti successi: il 23 aprile cadde la fortezza di Châteaubriant, il 19 maggio quella di Ancenis. Poi, dopo una breve tregua di circa un mese, l’armata accerchiò e fece capitolare la cittadina fortificata di Fougères (19 luglio 1488).
Le forze in campo
I ribelli bretoni erano capeggiati dal maresciallo Jean di Rieux, da Luigi, duca di Orléans, e da Jean de Chalon, principe di Orange. Alla notizia della caduta di Fougères, riunirono la loro armata a Rennes, il 23 luglio, per poi puntare su Andouillé e dirigersi verso il castello di Saint-Aubin-du-Cormier con l’obiettivo di liberarlo dall’assedio dei Francesi. I loro effettivi erano divisi in tre corpi: l’avanguardia era sotto il comando di Jean de Rieux, e comprendeva 400 «lances de ordonnance» bretoni – per un totale di 2400 uomini –, e altri 1700 combattenti bretoni, a cui si aggiunsero 300 arcieri inglesi capitanati da Lord Scales. Il battaglione principale, guidato dal principe d’Orange e del duca di Orléans, era assai variopinto e comprendeva 800 lancieri tedeschi, un migliaio di arcieri bretoni e 3500 fanti guasconi e castigliani, condotti in Bretagna da Alain d’Albret. Infine, il signore di Châteaubriant era alla testa della retroguardia, composta da 2000 cavalieri pesanti e da corpi di cavalleria leggera, detti coustilliers. Il 28 luglio 1488, questo esercito si fermò un paio di chilometri a nord-ovest di Saint-Aubin-du-Cormier, su un rialzo del terreno, assumendo la posizione di attacco,
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Nella pagina accanto cartina nella quale sono sintetizzati gli eventi che portarono alla formazione degli Stati borgognoni. In basso il re di Francia Luigi XI, detto il Prudente, in una incisione realizzata da Nicolas de Larmessin per l’opera Les augustes représentations de tous les rois de France. 1690. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
in attesa del nemico, che muoveva da sud. L’ala sinistra fu occupata dall’avanguardia, protetta da un bosco; la zona centrale fu occupata dagli uomini del principe d’Orange e del duca di Orléans, mentre nell’ala destra si posizionò l’unico corpo di cavalleria. In prima fila presero posto gli artiglieri, con i loro temibili cannoni. Quando giunse l’armata reale, guidata da La Trémoille, i Bretoni erano già pronti all’attacco e attendevano frementi il nemico. Alla loro vista, i Francesi presero subito posizione, dividendosi in tre battaglioni. L’avanguardia, posizionata a destra, era agli ordini di Adriano de l’Hospital; il centro era guidato personalmente da La Trémoille, coadiuvato da Giacomo Galeota, che aveva precedentemente prestato servizio a Carlo il Temerario; l’ala sinistra, infine, era capitanata dal signore di Baudricourt. Davanti a tutti presero posto gli artiglieri, protetti da una fossa scavata in tutta fretta dinnanzi ai cannoni, dagli uomini del genio.
La parola ai cannoni
La battaglia iniziò intorno alle due del pomeriggio, con uno scambio di cannonate che provocarono vittime da entrambe le parti. I Bretoni poi presero l’iniziativa e lanciarono l’avanguardia al comando di Rieux all’attacco; l’esercito francese rispose lanciando la carica a cavallo dell’ala destra, sotto gli incitamenti (segue a p. 49) luglio
MEDIOEVO
Possessi di Filippo l’Ardito (1363-1404) Cessioni al ramo cadetto Nevers-Rethel (1404) Acquisti di Filippo il Buono (1419-1467)
Contea d’Olanda
Acquisti di Carlo il Temerario (1467-1477)
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Stati sotto l’influenza o la protezione borgognona
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Confine occidentale del Sacro Romano Impero (1056-1493)
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MEDIOEVO
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battaglie saint-aubin LE FASI DELLA BATTAGLIA Vieux-Vy
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FORZE BRETONI 1. Contingente di 4000 uomini, comprendente gli arcieri inglesi, al comando del maresciallo Jean di Rieux. 2. Contingente di 5000 uomini, comprendente soldati tedeschi, spagnoli, baschi e guasconi, nonché il duca d’Orléans, guidati da Alain d’Albret. 3. Contingente di 2000 uomini, perlopiú cavalieri, capitanati dal signore di Châteaubriant. 4. Artiglieria, al comando del luogotenente Jean Louys.
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8. A rtiglieria, al comando del signore di Brissac.
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In basso i resti della fortezza di Saint-Aubin-du-Cormier.
FORZE FRANCESI 5. Contingente di 5000 uomini, guidato da Adrien de l’Hospital. 6. Contingente di 5000 uomini, al comando di Luigi de la Trémoille, coadiuvato da Giacomo Galeota. 7. Contingente di 4000 uomini, capitanato dal signore di Baudricourt.
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i mercenari svizzeri
Corpi d’élite: temibili e molto richiesti A partire dal XIII secolo, a seguito dei patti federali siglati, secondo la tradizione, il 1° agosto del 1291, la Confederazione Svizzera aveva stabilito che i cantoni contraenti dovevano aiutare militarmente il cantone eventualmente minacciato, con un mutuo sostegno. Pur avendo tentato alcune riforme in epoca moderna, la Confederazione non riuscí mai a costituire un vero e proprio esercito federale: fu infatti solo la Costituzione federale del 1874 ad attribuire all’intera Confederazione il compito di addestrare un esercito nazionale, cosí come ancora oggi accade. Nel Basso Medioevo, tra il XIV e il XVI secolo, le milizie cantonali si distinsero per la loro organizzazione.
Il sistema adottato si distingueva per la suddivisione in tre reparti fondamentali: l’Avanguardia (Vorhut), il Corpo Centrale (Gewalthut) e la Retroguardia (Nachhut). Tali eserciti, che riportavano in auge la fanteria, caduta da tempo in disuso, recuperarono le tattiche della falange macedone e dell’antica formazione in quadrato. Sfruttando la moderna picca e la temibile alabarda – arma inastata dotata di una lama pesante, arricchita da uno spiedo e da una sorta di uncino con il quale disarcionare il nemico – gli Svizzeri riuscirono a infliggere cocenti sconfitte alla cavalleria pesante dell’avversario. I loro brillanti
successi sul campo (Morgarten 1315, Laupen 1339, Sempach 1386, Morat 1476, Nancy 1477) impressionarono favorevolmente i potenti dell’epoca che iniziarono a reclutare sempre piú spesso reparti di mercenari svizzeri per ingrossare le fila dei loro eserciti. Nel 1479 papa Sisto IV strinse un accordo coi mercenari elvetici e Giulio II, nel 1506, ne assoldò 150, al comando di Kaspar von Silenen. Si distinsero nella difesa di Roma nel 1523, quando, nel corso del Sacco di Roma operato dai Lanzichenecchi di Carlo V al comando del Frundsberg, dei 189 Svizzeri al soldo di Clemente VII, se ne salvarono appena quarantadue. Miniatura raffigurante la battaglia di Nancy, da un’edizione dei Mémoires de Philippe de Commynes. XVI sec. Nantes, Musée Thomas-Dobree.
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battaglie saint-aubin Le compagnies d’ordonnances Per compagnies d’ordonnances si intendono i corpi di cavalleria nati in Francia nel corso del XV secolo in risposta al crescente ricorso dei monarchi europei alle truppe mercenarie. La piú grande sfida per i sovrani francesi, impegnati a risollevare le sorti del Paese travolto dalla Guerra dei Cent’Anni, fu infatti quella di creare un piccolo ma sicuro e solido esercito, alle dirette dipendenze della corona, in un momento di totale anarchia militare. Nel 1439 furono stabilite le prime riforme riguardanti l’esercito e, nel 1445, nuove tasse furono istituite allo scopo di dare vita a corpi militari di tipo statale. Carlo VII, il Vittorioso, abbandonò in larghissima
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parte l’uso di truppe mercenarie, nominando sempre piú capitani fidati, allargando la base di truppe di arcieri francesi, potenziando i reparti di artiglieri. Le prime formazioni delle compagnies d’ordonnances erano composte da 100 lances fourniers. Ciascuna lance fournier comprendeva un cavaliere, un cavaliere armato alla leggera, due arcieri, un valletto e un paggio. Nel corso del tempo questa tipologia di formazione andò naturalmente variando, anche per il variare stesso delle modalità belliche e per l’uso sempre piú massiccio delle armi da fuoco. Tavola a colori dei primi del Novecento raffigurante un trombettiere e un cavaliere appartenenti a una compagnie d’ordonnance.
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luigi ii de la trémoille
Una vita sui campi di battaglia Detto il «Cavaliere senza macchia» (Chevalier sans reproche), Luigi II, nel 1488, sconfisse e catturò Francesco II di Bretagna. Nato a Thouars nel 1460, dopo la morte di Luigi XI, si schierò a favore della famiglia dei Beaugin e, avuto il comando dell’esercito da Carlo VIII, sconfisse il principe d’Orange e il duca d’Orléans, il futuro Luigi XII. Luigi si distinse poi nelle guerre italiane, combattendo nei principali campi di battaglia. Nel 1495 era a Fornovo e, nel 1500, per il coraggio dimostrato, Luigi XIII lo nominò comandante dell’armata d’Italia, con cui sottomise Milano, assieme a Gian Giacomo Trivulzio. Nel 1509 sconfisse i Veneziani ad Agnadello, per poi essere sconfitto dai mercenari svizzeri presso Novara (1513). Si distinse ancora nella battaglia di Marignano (1515), dove ebbe ragione dei mercenari svizzeri e partecipò alla grande contesa tra il re di Francia, Francesco I e l’imperatore del Sacro Romano Impero, Carlo V combattuta nel 1525 presso Pavia, dove morí in battaglia.
Al termine dello scontro, oltre 5000 Bretoni erano rimasti sul campo e molti caddero prigionieri del comandante Adriano de l’Hospital. Per dare man forte all’attacco bretone, il principe d’Orange fece muovere il battaglione centrale, tentando una convergenza verso sinistra, ma creando cosí un pericoloso spazio vuoto nella formazione. Di questa leggerezza approfittò subito l’esperto Galeota, che lanciò una carica di cavalleria per creare scompiglio proprio nel centro dell’esercito nemico. La mossa ebbe successo, nonostante il comandante italiano cadesse sotto i colpi del nemico, e i soldati francesi del corpo principale si lanciarono all’attacco, rassicurati dall’iniziale breccia aperta dal povero Galeota. Attaccato ora su due fronti, lo schieramento bretone iniziò a cedere e quando fu travolto anche alle spalle, si sgretolò. Dopo quattro ore di furiosa battaglia, i Bretoni erano in fuga e i soldati al comando di La Trémoille si lanciaro-
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no all’inseguimento dei fuggiaschi che sciamavano per le colline attorno a Saint-Aubin-du-Cormier. Alla fine della giornata circa 5-6000 Bretoni erano stati uccisi e moltissimi erano stati fatti prigionieri: tra questi anche il principe d’Orange e il duca d’Orléans. Un mese dopo lo scontro fatale, il duca di Bretagna, Francesco II, fu costretto ad accettare i termini del Trattato di Verger, siglato il 20 agosto del 1488. Per effetto dell’accordo, il duca doveva cedere al re di Francia i castelli di Saint-Malo, Dinan, Fougères e Saint-Aubin-duCormier, rinunciando definitivamente a una Bretagna autonoma, e da quel momento in poi, per rafforzare il controllo della corona di Francia, tutte le attività diplomatiche sarebbero passate al vaglio di luogotenenti regi. Se il sogno bretone era ormai infranto, la Francia intravedeva invece la propria unità nazionale.
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storia spagna/2
Nascita di una nazione
di Tommaso Indelli
Nell’anno di grazia 1492, dieci mesi prima che Cristoforo Colombo scoprisse le Americhe, cadeva Granada, ultima roccaforte musulmana in terra di Spagna. Il successo aprà la strada al progetto dei Re Cattolici di unire la penisola iberica sotto una sola, potente corona
La capitolazione di Granada, olio su tela del pittore spagnolo Francisco Pradilla y Ortiz, che raffigura la resa del sultano Boabdil di fronte a Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia. 1882. Madrid, Palacio del Senado.
storia spagna/2
I I
l 1492 segna, convenzionalmente, la fine del Medioevo. In quell’anno, Cristoforo Colombo († 1506) scoprí il continente americano, ma, nella storiografia spagnola, il 1492 acquista un’importanza particolare, perché sancisce la conclusione del lungo processo storico di Reconquista del territorio iberico occupato dai Mori. Il 2 gennaio di quell’anno, infatti, Ferdinando II, re d’Aragona (1479-1516) e Isabella I, regina di Castiglia e León (14741504), dopo una guerra decennale, fecero il loro ingresso trionfale a Granada, capitale dell’ultimo emirato musulmano spagnolo. Fin dall’VIII secolo, con l’occupazione di gran parte della penisola iberica da parte degli Arabi – ne fu esclusa la zona nord-occidentale (Galizia, Asturie), rimasta ai cristiani – la Spagna era stata trasformata in un emirato del vasto califfato omayyade. All’inizio del X secolo, l’emirato divenne un califfato indipendente che, dopo la deposizione dell’ultimo sovrano, nel 1031, si fra-
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zionò in una serie infinita di nuovi emirati, governati dai cosiddetti reyes de taifas, «re delle fazioni».
Una vittoria decisiva
Tra il XII e il XIII secolo, la Spagna tornò a essere un sultanato unitario, grazie all’iniziativa di alcune dinastie berbere – Almoravidi e Almohadi –, finché, nel 1212, con la vittoria riportata sui Mori a Las Navas de Tolosa, gli eserciti dei regni cristiani d’Aragona, Castiglia, León e Portogallo non ne determinarono il collasso e l’ultimo califfo almohade fuggí in Marocco. Iniziò allora l’inarrestabile espansione militare dei regni iberici, che, nel giro di pochi anni, portò all’occupazione di città come Cordova (1236), Murcia (1243), Jaén (1246), Siviglia (1248) – annesse alla Castiglia – e Valenza (1238), che, con le Baleari (1232), venne occupata dall’Aragona. Alla fine del XIII secolo, tramontato il sultanato, in Andalusia – tra la Sierra Nevada e il golfo di Malaga – sopravviveva l’emirato (o sultana-
to) di Granada, enclave musulmana tributaria della Castiglia, governata dalla dinastia dei Nasridi, fondata da Mohammad I Ibn Nasr († 1273), noto anche come Al-Ahmar – «il Rosso» – per il colore fulvo della sua barba. I Nasridi, probabilmente un clan di origine berbera, facevano risalire le loro origini alla tribú araba dei Banu Khazraj di Medina, protagonista, nel VII secolo, di vicende legate alle origini della religione islamica e alla vita del profeta Maometto († 632). Granada – dove fu stabilita la capitale dell’emirato – sorge tra i fiumi Genil e Darro e, in epoca romana, col nome di Illiberis, fu un importante municipio della provincia della Spagna Betica. Il nome arabo della città – Gharnata – deriva molto probabilmente dal castigliano «granata», sostantivo di origine latina – granatum – con cui si indica il melograno, coltura agricola molto diffusa in quella regione. Data la vicinanza dell’emirato con la Castiglia, a questo regno toccò il compito di annientare la residua
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MEDIOEVO
A destra Il Gran Capitano Gonzalo Fernández de Córdoba all’assalto di Montefrio, durante una delle campagne per la conquista di Granada, dipinto di José de Madrazo y Agudo. XIX sec. Segovia, Alcázar. In basso veduta del complesso dell’Alhambra, a Granada, con l’imponente Torre de Comares e, sulla destra, il palazzo di Carlo V, costruito in stile manieristico italiano nel 1526 per le nozze del re con Isabella di Portogallo.
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storia spagna/2
In alto Il Sospiro del Moro, olio su tela di Marcelino de Unceta raffigurante Boabdil, sultano nasride di Granada e ultimo sovrano moresco di Spagna, sconfitto dall’armata cristiana. 1885. Saragozza, Museo de Zaragoza. In basso la spada di Boabdil. XV sec. Madrid, Museo del EjÊrcito.
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Granada, Alhambra. Il Patio de los Leones. La fontana, al centro del cortile, potrebbe essere stata donata da un visir ebreo al sultano: i dodici leoni raffigurati sarebbero le 12 tribú d’Israele. XI sec.
presenza maomettana in terra spagnola; nel 1309, infatti, il re Ferdinando IV (1295-1312) occupò Gibilterra, ma la città fu riconquistata dai musulmani nel 1333. Nel 1340, con la vittoria del Rio Salado, la Castiglia occupò Algeciras (1344), ottenendo un successo significativo. Nel 1410, i Castigliani conseguirono una nuova vittoria ad Antequera, piazzaforte andalusa al confine con la Castiglia, e, nel 1431, il gran conestabile di Castiglia, Álvaro de Luna († 1453), riportò un’altra vittoria a La Higuerela, spostando il confine del regno ancora piú a sud. Da quel momento e sino alla fine del secolo – escludendo la presa di Gibilterra, nel 1462 – non furono intraprese azioni militari di rilievo contro i Mori. L’occasione propizia per l’organizzazione di una grande campagna si presentò solo dopo che, con
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A destra armatura appartenuta al generale spagnolo Gonzalo Fernández de Córdoba, soprannominato el Gran Capitán, militare al servizio dei Re Cattolici. 1453-1515. Toledo, Alcazar, Museo del Ejercito.
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storia spagna/2 L’atto della capitolazione di Boabdil, che di fatto ne decreta l’esilio. 1493. Simancas, Archivo General.
XII, il figlio di ‘A’isha – Abu ‘Abd Allah Muhammad – noto ai cristiani come Boabdil o «el Chico», cioè «il Piccolo». Boabdil continuò la guerra e ottenne un’importante vittoria su Ferdinando II a Loja, ma fu sconfitto nel 1483 a Lucena, catturato dai Castigliani e imprigionato nella fortezza di Porcuna, mentre il padre ne approfittava per rientrare a Granada. Tuttavia, Muley governò per poco tempo, perché, ammalatosi gravemente, morí nel 1485, lasciando il potere al fratello Muhammad ibn Sa’d, detto Al–Zaghal – il «Valoroso» –, che assunse il nome di Maometto XIII. Secondo la leggenda, Al-Zaghal fece seppellire Muley sulla cima piú alta del massiccio montuoso della Sierra Nevada, il monte Mulhacén che, ancora oggi, porta il suo nome.
La minaccia ottomana
le nozze dei principi Isabella e Ferdinando – poi incoronati sovrani di Castiglia e León (1474) e d’Aragona (1479) – una parte consistente della penisola iberica fu unificata sotto un’unica potestà, anche se le singole compagini conservarono distinte cortes e ordinamenti amministrativi diversi. Nel 1481, l’emiro di Granada, Abu al-Hasan ‘Ali – chiamato dai cristiani Muley Hacén (14641485) – si rifiutò di pagare il tributo alla Castiglia e occupò la città di confine di Zahara. Nel 1482, d’accordo con la moglie, Ferdinando II occupò Alhama, una piazzaforte
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dell’emirato. Caduto in disgrazia, Muley Hacén venne deposto quello stesso anno da un complotto ordito dalla moglie, ‘A’isha, in collaborazione con i Banu Sarraj, uno dei clan piú potenti di Granada. Mentre la guerra proseguiva disastrosamente per i musulmani, l’emirato fu travolto da una sanguinosa guerra civile causata, in parte, da ragioni dinastiche, di cui seppero profittare i cristiani (vedi box a p. 62). Dopo il colpo di Stato, Muley fu costretto a fuggire a Malaga e poi ad Almería, mentre veniva proclamato emiro, col nome di Maometto
Al-Zaghal riprese la politica bellicosa del fratello contro i Castigliani che, tra il 1485 e il 1487, occuparono Loja, Marbella e Zahara. Il fervore dei cristiani, nel portare a termine la guerra, non era dettato soltanto da motivazioni «ideologiche», ma anche pratiche, dal momento che sia Isabella che Ferdinando temevano un attacco del re di Francia, Carlo VIII (1483-1498), con cui l’Aragonese era in guerra per il possesso del Rossiglione e la Cerdagna, territori ubicati a ridosso dei Pirenei. I reali, inoltre, temevano un intervento in favore di Granada degli Ottomani – che, nel 1453, avevano preso Costantinopoli –, visto che, nel 1480, i Turchi erano anche sbarcati in Italia, espugnando Otranto e massacrando la popolazione, e che, solo l’anno dopo, morto il sultano Maometto II (1451-1481), fu possibile respingerli. Approfittando della crisi dinastica interna all’emirato, nel 1487 Ferdinando pose luglio
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Granada, Alhambra. Il Patio de los Arrayanes, cosĂ chiamato per i cespugli di mirti che circondano lo stagno centrale, sopra il quale si staglia la Torre de Comares. XIV sec.
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storia spagna/2 l’assedio a Malaga e, nonostante la disperata resistenza degli abitanti, la città, bloccata da terra e da mare e ripetutamente colpita dall’artiglieria cristiana, si arrese alla fine dello stesso anno. Nel frattempo, i sovrani d’Aragona e Castiglia avevano liberato Boabdil e lo avevano inviato a Granada per creare problemi all’emiro. L’accordo prevedeva di non soccorrere Malaga e di sottomettersi come vassallo, con l’obbligo di liberare i prigionieri e gli schiavi cristiani, pagare un tributo di 14 000 ducati e consegnare in ostaggio il figlio Ahmad. Cosí Boabdil fece ritorno a Granada e Al-Zaghal, vistosi perduto, fuggí in Marocco, dove morí intorno al 1494. Ma il nuovo emiro, incitato dalla madre ‘A’isha, si affrettò a violare gli accordi e riprese la guerra, portando l’emirato al disastro e inimicandosi anche i piú potenti clan locali, come i Banu Sarraj, che, accusati d’intesa con i Castigliani, furono massacrati.
Il miglior generale
Tra il 1487 e il 1490, Ferdinando sottrasse a Granada il controllo di Almería, Guadix, Almuñécar e altre piazzeforti, riducendo l’autorità dell’emiro alla sola Granada e aprendo la strada all’assedio della stessa capitale, che iniziò nella primavera del 1491. I reali portarono a Granada un esercito di circa 50 000 fanti e 10 000 cavalieri, al comando di Gonzalo Fernández de Córdoba († 1515) – el Gran Capitán –, il miglior generale di cui disponevano. In tal modo, privarono gli abitanti della città di ogni risorsa alimentare necessaria a resistere all’assedio e ne fiaccarono lo spirito. Davanti alle mura di Granada, Ferdinando e Isabella innalzarono un grande accampamento, denominato Santa Fe, poi trasformatosi in una vera e propria città, ancora oggi esistente. Benché avessero espresso la loro solidarietà a Boabdil, gli altri potentati musulmani dell’epoca –
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Nella pagina accanto la facciata della Cappella Reale di Granada, luogo di sepoltura dei Re Cattolici Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, edificata in stile tardo-gotico nel 1506. In questa pagina Granada, Cappella Reale. Le statue che ornano il sepolcro reale di Ferdinando d’Aragona e della moglie Isabella di Castiglia, eseguite dallo scultore fiorentino Domenico Fancelli (1517) e, in basso, un particolare del volto della sovrana.
come l’impero ottomano o il sultanato mamelucco d’Egitto – non fornirono alcun aiuto contro i cristiani. La superiorità militare dei Castigliani era schiacciante, sia in termini numerici, sia di armamenti, basata sull’ampia disponibilità di pezzi di artiglieria pesante – come cannoni e bombarde –, di archibugieri e picchieri che, nelle guerre del XV secolo, avevano progressivamente sostituito la vecchia cavalleria. Vistosi perduto – e per risparmiare ulteriori sofferenze alla popolazione – nel novembre del 1491 Boabdil sottoscrisse, a Santa Fe, la capitolazione di Granada e si impegnò a evacuarla entro due mesi, a liberare gli schiavi cristiani e i prigionieri di guerra, in cambio di alcune garanzie per la vita sua e dei sudditi di fede musulmana dell’emirato. La capitolazione prevedeva che, una volta consegnata Granada, Boabdil e la sua famiglia avrebbero potuto ritirarsi nella valle del
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storia spagna/2 ‘A’isha e Zoraida: destini incrociati
Tutto per una donna Mentre si combatteva la guerra tra la Castiglia e l’emirato di Granada, all’interno della dinastia nasride si svolgeva un altro conflitto tra la prima moglie di Muley Hacén, ‘A’isha al-Hurra – «la Libera» – e la giovane donna per cui l’emiro aveva perso la testa: la schiava cristiana Zoraida. L’odio di ‘A’isha aveva motivazioni politiche e non solo personali, perché la donna riteneva minacciata, dai figli di Zoraida, la successione al trono del figlio Boabdil. Di Zoraida – «la Graziosa» – nota anche come Soraya – «la Splendente» – non si sa molto. Il suo vero nome era probabilmente Isabel de Solís ed era figlia del nobile castigliano Sancho Jímenez de Solís, alcalde della città di Higuera. Catturata nel corso di una razzia musulmana in territorio cristiano, fu condotta a Granada e chiusa nell’harem di Muley, che, vinto dalla sua bellezza, decise di imporle la conversione all’Islam, di affrancarla e sposarla, ripudiando ‘A’isha. Dalle nozze nacquero Nasr e Said, che, dopo la morte di Muley, nel 1485, a causa della situazione politica diventata pericolosa, fuggirono con la madre in Castiglia, dove vissero per il resto della loro vita, dopo essere stati battezzati e aver assunto i nomi cristiani di Fernando e Juan de Granada. Non si conoscono né il luogo, né la data di morte di Zoraida e dei suoi figli, ma nessuna veridicità storica ha la leggenda – che ispirò anche il melodramma di Gaetano Donizetti Zoraida di Granata (1821) – secondo la quale la schiava cristiana era figlia di un emiro di Granada che, a malincuore, fu costretta a sposare Almuzir che aveva spodestato il padre. Almuzir è infatti un nome d’invenzione, dietro il quale si nasconde forse l’emiro Al-Zaghal, fratello di Muley. Scoperta dall’emiro la sua tresca col comandante delle milizie, Abenamet (altro nome d’invenzione), e capo del clan degli Abenceraghi – dietro il quale, forse, si cela il clan dei Banu Sarraj – Zoraida fu condannata al rogo. La giovane si salvò grazie all’amante Abenamet che sconfisse in duello Alí, generale di Almuzir, il quale, alla fine, autorizzò le nozze tra gli amanti. Il fascino di Zoraida ha ispirato molti romanzi storici, tra cui Doña Isabel De Solis, Reyna de Granada (1837) dello scrittore spagnolo Francisco Martínez de la Rosa († 1862). Quanto ad ‘A’isha, madre di Boabdil, dopo il ritorno di Muley al potere (14831485) fu imprigionata e poi liberata dal cognato Al-Zaghal. Durante la seconda fase dell’emirato di Boabdil (1487-1492), la donna non cessò di tessere intrighi e di inserirsi nell’attività di governo, disapprovando la resa ai Castigliani. Molto probabilmente, dopo la consegna di Granada, seguí Boabdil in esilio nelle Apujarras e morí intorno al 1493. Vuole la leggenda che mentre Boabdil, sulla via dell’esilio, piangeva guardando Granada dall’alto di un monte (l’odierno Monte del Moro), la madre gli dicesse: «Piangi come una donna ciò che non hai saputo difendere come un uomo...».
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A sinistra, in alto Granada, Alhambra. I bagni reali. XIV sec. In alto, sulle due pagine pala d’altare in legno policromo, raffigurante il Battesimo dei Mori dopo la conquista di Granada, opera di Felipe Bigarny. 1520-1522. Granada, Cappella Reale della Cattedrale. luglio
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fiume Andarax, ubicata nelle Alpujarras, regione montuosa a sud della Sierra Nevada, usufruendo di un congruo appannaggio, mentre i sudditi di fede musulmana che non avessero voluto partire per l’esilio, ma restare a Granada – mudéjares – avrebbero ottenuto la libertà di professare la loro religione e la salvaguardia della vita e dei beni. Il 2 gennaio del 1492, prima della scadenza del termine fissato per la capitolazione, fuori le mura di Granada avvenne la consegna ufficiale della città nelle mani di Ferdinando e Isabella, ai quali, per la loro impresa, papa Alessandro VI Borgia (1492-1503) concesse qualche tempo dopo il titolo di Reyes Católicos.
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Accompagnato dalla moglie Morayma († 1493 circa) – o Maryam – dai figli ‘A’isha, Ahmad, Yusuf e dalla madre ‘A’isha, Boabdil si trasferí, secondo gli accordi, nelle Alpujarras ma, qualche tempo dopo, preferí abbandonare la Spagna e trasferirsi in Marocco, dove visse i suoi ultimi giorni come ospite dei sultani merinidi e lí, forse, morí intorno al 1530.
Rossa e magnifica
Isabella e Ferdinando entrarono trionfalmente a Granada e presero dimora nel palazzo dell’emiro e della corte, l’Alhambra, «la cittadella rossa» – Qal’at al-hamra’ – cosí chiamata per il colore delle strutture
murarie. L’Alhambra, ancora oggi visitabile, è un sontuoso complesso palaziale che si estende per oltre 100 000 mq e domina dall’alto la città. Costruita molti anni prima, perlopiú sotto il governo degli emiri Yusuf I (1333-1354) e Maometto V (1354-1391), e poi completata e arricchita di ulteriori ambienti dai successori, l’Alhambra sorse intorno all’Alcázar, la fortezza dell’XI secolo degli emiri ziridi, predecessori dei Nasridi. Il complesso ancora oggi affascina i visitatori con la bellezza dei suoi ambienti, come il cortile dei Leoni, la sala degli Ambasciatori, la corte dei Mirti, di fronte ai quali, su un colle opposto, sorge il Generalife o «Giardino del Sovrin-
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storia spagna/2 tendente» – Jannat al-’Arif – residenza estiva degli emiri, ricca anch’essa di splendidi giardini, padiglioni, serragli, aiuole e fontane. I sovrani cattolici provvidero subito a «cristianizzare» quanto restava della città musulmana, istituendo l’arcidiocesi di Granada, a capo della quale fu posto come vescovo il monaco gerolamino Hernando de Talavera († 1507), confessore della regina. Sul sito della grande moschea cittadina venne inoltre progettata la costruzione della cattedrale che fu dedicata alla Vergine dell’Incarnazione, ma i lavori iniziarono solo nel 1510, su progetto di Enrique de Egas († 1534), già costruttore del duomo di Toledo, e proseguirono anche dopo la morte dell’architetto e dei sovrani per concludersi, definitivamente, solo agli inizi del XVIII secolo. In un primo tempo, la sede ufficiale della diocesi e del capitolo del duomo fu posta nella moschea dell’Alhambra, ora adibita a residenza ufficiale dei reali di Spagna e poi, sotto l’imperatore Carlo V d’Asburgo († 1558), interessata da ulteriori lavori di ampliamento monumentale.
l’inquisizione spagnola
Uno strumento al servizio del potere
Uniformare il credo
La svolta rappresentata dalla conquista di Granada, nella formazione della nascente nazione spagnola, fu ben presto chiara, tanto che Ferdinando e Isabella, dopo la loro morte, furono entrambi sepolti nella cappella reale adiacente la cattedrale, assieme alla figlia, Giovanna «la Pazza» († 1555), e al genero, Filippo «il Bello» d’Asburgo († 1506). La presenza di un vasto numero di musulmani nel territorio iberico – e in quello dell’ex emirato – creò non poche preoccupazioni a Isabella e Ferdinando, che intendevano costruire una salda coscienza nazionale all’insegna dell’uniformità del credo religioso e, pertanto, non potevano che imporre alle minoranze etnico-culturali dei loro regni un adeguamento delle loro identi-
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Nel 1478, Ferdinando e Isabella ottennero da papa Sisto IV (1471-1484) la bolla Exigit Sincerae Devotionis Affectus, che li autorizzava a introdurre in Castiglia e León la Santa y Suprema Inquisición. Nel 1482, i Re Cattolici estesero l’Inquisizione anche all’Aragona e alla Catalogna, conferendole la missione di reprimere l’eresia, cioè ogni comportamento, parola e scritto che fosse contrario all’ortodossia cattolica. luglio
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Pagina tratta da un’edizione delle Istruzioni del Sant’Uffizio, concepite da Tomás de Torquemada, capo supremo dell’Inquisizione spagnola. XV sec. Madrid, Biblioteca Nacional de España.
Nel 1483, alla guida della macchina repressiva, nel ruolo di inquisitore generale, i reali chiamarono il domenicano Tomás de Torquemada di Valladolid († 1498), priore del monastero della Santa Cruz di Segovia. A differenza dell’Inquisizione ecclesiastica – fondata, nel 1231, da papa Gregorio IX (1227-1241) – l’Inquisizione spagnola era una creatura di Isabella e Ferdinando e operava esclusivamente nel territorio sotto la sovranità dei Re Cattolici, da cui dipendeva totalmente, com’è dimostrato dal fatto che la nomina di tutti gli inquisitori spettava alla Corona. Gli inquisitori operavano in tutto il Paese con grande discrezionalità, senza subire limitazioni da parte dei vescovi del luogo in cui esercitavano le proprie funzioni. La struttura dell’Inquisizione spagnola si articolava in uffici composti, in genere, da frati domenicani o francescani di nomina regia. Nel Consejo de la Suprema y General Inquisición – organo di vertice – sedevano sei membri, tra cui l’inquisitore generale, che si occupavano dei casi piú gravi e giudicavano in appello sulle pronunce emesse dai tribunali provinciali in primo grado. I tribunali provinciali erano costituiti da almeno tre inquisitori, designati dall’inquisitore generale, previa approvazione dei reali. Da questa struttura dipendevano una serie di impiegati, in genere laici, detti familiares e stipendiati dall’istituzione, addetti a mansioni di stenografo, notaio, carceriere, boia. A differenza di quelle ecclesiastiche, le sentenze dell’Inquisizione spagnola non erano appellabili al pontefice. La Suprema si occupava non solo dell’eresia, ma anche di illeciti affini come stregoneria, apostasia, sodomia, usura e, in genere, di tutte le condotte palesemente in contrasto con la morale cattolica e di ogni atto che si configurava come favoreggiamento dei predetti reati. Data la massiccia presenza, in territorio iberico, di Ebrei o musulmani convertiti, l’apostasia appariva – per la mentalità dell’epoca – uno dei pericoli maggiori. I primi roghi di marrani si erano avuti già all’epoca di Enrico III di Castiglia (13901406), a Siviglia e Toledo, ma alcuni episodi sconcertanti sembrarono avallare l’idea di un complotto ordito dai conversi contro la Corona. Nel 1485, il domenicano Pietro d’Arbués, designato da Torquemada come inquisitore d’Aragona, fu assassinato nella cattedrale di Saragozza, e le indagini dell’Inquisizione ne attribuirono la responsabilità ad alcuni convertiti di fede giudaica, che furono arsi sul rogo.
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L’inquisitore Tomás de Torquemada, particolare della Madonna dei Re Cattolici, tecnica mista su tavola forse dipinta da Fray Pedro de Salamanca. 1497 circa. Madrid, Museo del Prado.
Nel 1490, a La Guardia, presso Toledo, la scomparsa di un bambino cristiano – denominato dal popolo el Niño de La Guardia – venne attribuita ai marrani, i quali, secondo la vox populi, lo avrebbero ucciso e ne avrebbero straziato il corpo, nel corso di un omicidio rituale con cui, soprattutto durante la Settimana Santa, i Giudei, secondo gli inquisitori, erano soliti profanare il mistero della Passione e Resurrezione di Cristo. Anche in tal caso, molti dei presunti responsabili furono catturati e arsi sul rogo. La procedura giudiziaria seguita dalla «Suprema» era simile a quella in uso nei tribunali
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ecclesiastici e di tipo inquisitorio. Ciò significava che – a dispetto del processo accusatorio – i giudici procedevano contro l’imputato senza la necessità di una preventiva denuncia, ma anche d’ufficio, per segnalazione delle forze di polizia o su delazioni anonime. All’imputato veniva assegnato un avvocato d’ufficio e, durante l’istruttoria, poteva essere mantenuto in custodia preventiva – in caso di pericolo di fuga o inquinamento delle prove – o lasciato libero, dietro pagamento di una cauzione o l’offerta di garanti. I giudici procedevano in segreto, con la massima discrezionalità, interrogando l’imputato, esaminando documenti e testimonianze e usando la tortura, facendo attenzione – almeno in linea di principio – a non causare la morte dell’accusato o lesioni fisiche permanenti.
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La confessione resa sotto tortura andava, in ogni caso, successivamente confermata. Ben presto si diffusero «prontuari» procedurali a uso degli inquisitori, come la Compilazione delle istruzioni della Santa Inquisizione (1484), vero e proprio vademecum del perfetto inquisitore, scritto da Torquemada. Accertata la colpevolezza o innocenza dell’imputato, il procedimento si concludeva con una grande messinscena pubblica detta autodafé, parola portoghese che vuol dire «atto di fede». Alla presenza del popolo e, generalmente, delle massime autorità politiche del luogo, su di un palco appositamente allestito per lo «spettacolo», gli inquisitori leggevano la sentenza di assoluzione o, piú spesso, di condanna, alla presenza dell’imputato. Al contrario di quanto comunemente si pensa, non si luglio
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tà particolari ai valori della grande maggioranza dei sudditi cattolici. Fallita l’opera di conversione «pacifica» dei musulmani granadini, i reali procedettero diversamente e, nel 1502, emanarono un editto con il quale imposero a tutti i mudéjares, residenti nei territori di Granada, Aragona, Castiglia e León, il battesimo cattolico, a pena dell’esilio. L’editto ricalcava un analogo provvedimento emesso a Toledo, nel 1492, che imponeva uguali prescrizioni agli Ebrei residenti nel Paese. Giudei e musulmani che decidevano di battezzarsi prendevano, rispettivamente, il nome di marrani e moriscos – oppure conversos – e venivano sottoposti all’attenta vigilanza dell’Inquisizione spagnola, affinché non apostatassero, cioè non tornassero alla vecchia fede o non occultassero, sotto l’apparente conversione, le pratiche del culto che avevano abiurato (vedi box alle pp. 65-67). Nel 1568, gli ultimi moriscos presenti in Spagna si rivoltarono nelle Alpujarras, sotto il governo di Filippo II d’Asburgo (1556-1598), e furono spietatamente massacrati. Nel 1609, vinte le ultime resistenze, il re Filippo III (1598-1621) ne decise la definitiva espulsione dalla Spagna.
NEL PROSSIMO NUMERO ● Nascita di una potenza imperiale abbondava con le condanne a morte che, tra l’altro, quando comminate, non venivano eseguite soltanto con il sistema del rogo. L’eretico del quale fosse stata accertata la colpevolezza nel corso del processo o perché reo confesso, poteva abiurare, riconciliandosi con la Chiesa. In tal caso, si andava assolti oppure si applicavano pene «miti», come il carcere, la multa, la confisca dei beni, l’infamia o veniva imposto l’obbligo di indossare un «sanbenito», un saio penitenziale sul quale erano cuciti diavoli, fiamme dell’inferno o altre immagini infamanti. Agli eretici impenitenti, si applicava la pena di morte che, generalmente, prevedeva la vivicombustione previo strangolamento del condannato, mentre a essere bruciati vivi erano, di solito, gli eretici recidivi. La «Suprema» venne abolita dalla Corona solo nel 1834.
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Il Tribunale dell’Inquisizione, olio su tavola di Francisco Goya. 1812-1819. Madrid, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando.
Da leggere Ernesto Belenguer, Ferdinando e Isabella. I Re Cattolici nella politica europea del Rinascimento, Salerno Editrice, Roma 1999 John H. Elliott, La Spagna imperiale, 1469-1716, il Mulino, Bologna 2006 Grado Giovanni Merlo, Inquisitori e Inquisizione del Medioevo, il Mulino, Bologna 2008 Carlo Havas, La storia dell’Inquisizione, Odoya, Bologna 2010
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luoghi tarquinia
Tutte le torri di Tarquinia
di Luca Gufi
Famosa a livello mondiale per le sue tombe dipinte etrusche, la città della Maremma meridionale racchiude uno straordinario patrimonio monumentale dell’età di Mezzo. In queste pagine proponiamo una lunga passeggiata, seguendo le orme di letterati e viaggiatori celebri, lungo le antiche mura e all’ombra di chiese e fortificazioni dal colore dorato... 68
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Tarquinia (Viterbo). Veduta dell’area in cui sorgono la chiesa di S. Maria in Castello e la piú alta delle torri che tuttora caratterizzano la città laziale.
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ean-Baptiste Labat – missionario domenicano, matematico e ingegnere francese (1663-1738) – soggiornò a Civitavecchia dal 1709 al 1716, durante uno dei viaggi che lo avevano portato piú volte dalle Antille in Italia. Partendo da qui, visitò Corneto (oggi Tarquinia), meta di una delle escursioni nel territorio circostante. Sebbene risalga dunque all’età moderna, la testimonianza di Labat rappresenta la piú attendibile e completa descrizione del centro medievale cornetano. Il missionario illustra una città con un impianto urbanistico ordinato, case pulite e un clima ideale, che assicurava la buona salute degli abitanti. Il religioso venne particolarmente colpito proprio dal borgo antico e, soprattutto, dalle numerose torri, tanto da attribuire a queste strutture, in modo involontariamente ironico e per nulla vero, la possibile origine del nome della città, dato che, a suo avviso, richiamavano in qualche modo altrettanti corni, dai quali sarebbe derivato il nome Corneto. Seppure tarda, la descrizione di Labat appare in continuità con i ricordi di viaggio di due illustri letterati che l’avevano preceduto: il primo, risalente al XV
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secolo, è quello di Flavio Biondo, che non mancò di citare Corneto nella sua Geografia Illustrata, segnalando anche l’antico porto di Gravisca, dove, riprendendo un passo di Plinio il Vecchio, si pescava il corallo. Il secondo è invece la memoria di Francesco Petrarca, il quale, durante il viaggio intrapreso per ricevere l’alloro poetico a Roma, descrive la città nei suoi tratti piú significativi: un borgo spettabile, ricco di torri e cinto da una doppia cortina muraria.
All’estremità della Maremma
Proseguendo a ritroso in questo excursus letterario, la rilevanza di Corneto trova spazio anche nella geografia dantesca: nel XIII canto dell’Inferno la città è indicata come estremità meridionale della Maremma, che, nella descrizione di Dante, iniziava da Cecina per terminare con il centro laziale, definendo cosí l’area paludosa formatasi nella prima età moderna, quando la mancata manutenzione del territorio aveva permesso alla natura acquitrinosa della costa di riappropriarsi del paesaggio costiero. Tra i letterati di viaggio che piú rimasero affascinati
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luoghi tarquinia
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da Tarquinia, figura sicuramente DaLago vid Herbert Lawrence: sceso in Etrudi Bolsena ria sulle orme del suo conterraneo Viterbo George Dennis e sull’onda lunga dei Rieti viaggiatori ottocenteschi del Grand Tarquinia Tour (che aveva portato a Corneto sia illustri dame, come Lady Hamilton ROMA Gray, sia antiquari non sempre puramente appassionati, quale Stendhal), Frosinone Latina lo scrittore inglese vi giunse nel 1927. Nel suo diario di viaggio sui «luoghi etruschi» (Etruscan Places, pubblicato a Londra nel 1932 e tradotto per la A destra Le prima volta in Italia nel 1942), Lawrence riserva solcatacombe tanto brevi cenni al centro abitato di Corneto, che pochi etrusche anni prima, nel 1922, aveva assunto definitivamente il dell’antica città nome dell’antica metropoli etrusca. di Tarquinia, calcografia di Recuperare il passato Lo scrittore attribuí al fascismo il cambio di nome della Carl Bertuch nella quale città, ignorando che si trattò di un processo di recupero l’autore propone storico voluto dalla classe dirigente del municipio corneuna fantasiosa tano: già nel 1872, infatti, sulla scia delle ricerche archeorappresentazione logiche e antiquariali che nel XIX secolo avevano portato delle tombe avventurieri, letterati e artisti a indagare ripetutamente il dipinte che territorio tarquiniese, l’élite dell’epoca, guidata dal sindacominciavano a co «archeologo» Luigi Dasti, aveva inteso recuperare i faessere scoperte. sti del passato etrusco, attribuendo alla medievale città di 1810. Corneto la doppia denominazione di Corneto-Tarquinia. In basso veduta Un processo che terminò, come detto, nel 1922, quando verso il mare del la prima denominazione scomparve definitivamente, lacentro storico sciando il posto al nome dell’antica città etrusca. di Tarquinia, In effetti, può risultare ancora oggi difficile comprenscandito dalle torri dere come Tarquinia e Corneto, che ora sono la stessa eninnalzate, in varie tità, siano invece state, in passato, per uno strano gioco fasi, nel corso del del destino, due realtà completamente diverse. Per fare Medioevo. chiarezza, può rivelarsi utile qualche ragguaglio sull’e-
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voluzione altomedievale dei due nuclei. Tarquinia aveva rivestito importanza almeno fino al V-VI secolo, quando la città figura come sede vescovile; ancora nel IX secolo, la zona dell’antico centro etrusco risulta abitata, dato che vi si contano quattro chiese di pertinenza dell’abbazia amiatina di S. Salvatore. La città era andata perdendo di importanza al tempo dei conflitti fra Longobardi e Bizantini, quando l’area fra i fiumi Marta e Mignone rappresentava un limite mobile, controllata a turno dalle opposte forze in campo. Questo quadro non definito aveva modificato gli assetti viari: la via Clodia (strada consolare che da Roma, giungeva fino a Saturnia, correndo nell’entroterra laziale, n.d.r.) era divenuta l’arteria piú sicura rispetto al tracciato costiero dell’Aurelia, della quale si preferiva utilizzare la variante piú interna, posta a ridosso del colle sul quale si sviluppò Corneto.
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In questo periodo il declino di Tarquinia accelerò e la città si ridusse fino a restringersi, seguendo il fenomeno dell’incastellamento medievale, in quella che in antico era stata la sua acropoli, ovvero il sito popolarmente detto della Castellina.
Un centro importante
Corneto, sulla cui esistenza in epoca etrusco-romana non si hanno dati archeologici certi, compare nei documenti solamente nel IX secolo, quando nella bolla del vescovo Virobono di Tuscania, viene citato il territorio corgnetanense. Nel corso del X secolo abbiamo notizia di un castello con torre: questo nuovo agglomerato dovette avere uno sviluppo importante, se in un altro documento dell’XI secolo Corneto viene descritta anche col rango di civitas.
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luoghi tarquinia TARQUINIA: UN ITINERARIO FRA TORRI, CHIESE E PALAZZI 22. Porta Nuova 23. C hiesa e convento di S. Francesco 24. S. Giuseppe 25. C hiesa della Presentazione e Monastero delle Passioniste 26. Cappella della Croce 27. Palazzo Vipereschi 28. S. Giovanni 29. Palazzo Vescovile-Museo diocesano di arte sacra 30. Palazzo Bruschi 31. S . Lucia e Monastero delle Benedettine 32. Torre Dante 33. S. Antonio 34. S antuario di S. Maria di Valverde 35. Cinta muraria Via San Fortunato
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Via degli Archi
P.zza G. Matteotti 19
Via xx
Via Antica
V. dell’Archetto
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P.zza Trento 18 e Trieste
Via Fa lga ri
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Via de lla Sa lut e
P.zza San Martino
Via Sa nP an cr az io
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P.zza P.A. Daga
Via d ello S tat uto
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Vic. Segreto
Via de lle Cr oc i
Via dell’Orfanotrofio
Via de lle Cr oc i
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Vi aM on ta na
16 17 Via San Giacomo
Via della Pace
1. Palazzo Vitelleschi 2. Barriera San Giusto 3. Cattedrale dei Ss. Margherita e Martino 4. Porta di Castello e torrione «di Matilde» 5. S. Maria in Castello 6. Fontana Nova 7. Palazzetto di Santo Spirito 8. Torre Barucci 9. Torre Draghi 10. Palazzo dei Priori 11. Torre del Magistrato 12. S. Pancrazio 13. Torre e Campo Cialdi 14. S. Martino 15. Chiesa dell’Annunziata 16. Chiesa del Salvatore 17. S. Giacomo 18. Palazzo Comunale 19. Chiesa del Suffragio 20. S. Leonardo 21. Chiesa della Santissima Trinità
L. d’A sti
Via Vo lsin ia
no re Tir a i V
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MEDIOEVO
Il mito delle origini
Dalla città di Priamo al Mignone L’etimologia del nome Corneto, popolarmente attribuita alla pianta del corniolo – di cui il territorio e le campagne erano un tempo ricchi – vanta origini mitiche, legate alla leggenda dei Troiani in Etruria. La tradizione che lega Corneto e l’Eneide era conosciuta già nel Medioevo e ne abbiamo prova in una lettera che Luzio Vitelli, nobile cornetano, scrive a Francesco Filelfo nel XV secolo, asserendo che Corneto sorgeva là dove era esistita la mitica Coritho. Secondo la leggenda, Enea, seguendo i consigli di Apollo e dei Penati, per i quali doveva tornare all’antica madre, sarebbe sbarcato vicino al fiume Mignone. Fondata dall’omonimo capostipite, Corythus, padre di Dardano, Coritho sarebbe stata pertanto la patria d’origine dei Troiani. La città sarebbe sorta dirimpetto all’etrusca Tarquinia e coinciderebbe quindi con la medievale Corneto.
Il mito è ben rappresentato nella Sala degli Affreschi del Palazzo Comunale, dove si celebrano i fasti del passato medievale; su una parete è infatti dipinta la genealogia dei padri fondatori: al primo posto è indicato Coritho, genitore di Dardano, e, di seguito, la discendenza fino a Romolo. La sala fu voluta dalle élite municipali tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, per celebrare la fedeltà alla Chiesa, alla quale venivano contestualmente rivendicate, tramite il percorso iconografico, l’importanza di Corneto nella storia dello Stato Pontificio e la nobiltà delle origini, da tenere in conto nei rapporti politici fra centro e periferia, in un momento in cui la curia pontificia aveva da tempo acquisito il controllo delle principali ricchezze del territorio.
In alto un tratto della cinta muraria che cingeva la città medievale. A destra veduta di una strada nei pressi di Corneto, acquerello di Samuel James Ainsley. 1842. Londra, The British Museum.
È tuttavia nel corso del XII e del XIII secolo che giunge a compimento lo sviluppo dell’assetto urbanistico, connotato dall’organizzazione in tre terzieri, dove, a dispetto di una superificie non particolarmente estesa, trovavano spazio numerose torri e chiese, che testimoniavano la ricchezza della comunità. L’espansione territoriale raggiunse il suo culmine all’inizio del XIV secolo, quando Corneto aveva ormai sottomesso un territorio che andava dal torrente Arrone al Mignone, occupando il castello di Tarquinia e ottenendo la fedeltà delle comunità di Tolfa e di Leopoli-Cencelle.
Una ricchezza «verticale»
Se Tarquinia dal 2004 è riconosciuta dall’UNESCO quale bene da tutelare per il suo patrimonio sotterraneo – ovvero le tombe dipinte di epoca etrusca –, la città rivela, inve-
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ce, nella verticalità esteriore delle sue torri l’elemento architettonico di spicco del suo tessuto medievale. Gli studi condotti in merito ne hanno schedate ben 32, distribuite in uno spazio relativamente esiguo, che va dalla zona di Castello all’attuale corso Vittorio Emanuele, lungo il quale correva la prima cinta muraria medievale, poi ampliata nel corso del XIII secolo. A questo elenco vanno aggiunte altre torri di cui sono stati rinvenuti i basamenti in seguito a scavi archeologici recenti condotti in occasione della realizzazione di opere pubbliche. Le torri di Corneto costituiscono da sole un itinerario di visita e scandiscono uno skyline di grande fascino, luminoso sia grazie al clima, spesso assolato, sia per il colore chiaro e dorato che assume al tramonto la pietra calcarea locale, il macco, utilizzata nella loro costruzione. Alcuni storici dell’architettura hanno di-
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luoghi tarquinia
Sulle due pagine la porta di Castello. Addossata al torrione detto «di Matilde», fu voluta dal cardinale Giovanni Vitelleschi. XV sec. Nella seconda foto, scattata dall’interno della struttura, si riconosce, sullo sfondo, la chiesa di S. Maria in Castello.
stinto tre tipologie di torri, con altrettanti riferimenti cronologici: torri con basamenti lisci e ingresso sopraelevato, costruite tra l’XI e il XII secolo; torri con basamento a bugnato, risalenti al XII e XIII secolo; case torri, ascrivibili al tardo Duecento. Le strutture del primo tipo scandiscono uno degli assi dello sviluppo urbanistico del borgo, che andava dall’attuale campo Cialdi – dove si estendeva la parte piú antica del nucleo medievale – fino alla chiesa di S.
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Pancrazio, in prossimità della quale si trovava una delle porte della prima cinta muraria. Non a caso, due delle torri riferibili all’XI secolo sono poste presso campo Cialdi: la piú alta, oggi isolata, sorge vicino al luogo in cui sorgeva la chiesa cistercense di S. Nicola, uno dei centri di culto piú importanti di Corneto. Nella piazza antistante si teneva infatti la principale celebrazione religiosa medievale, ovvero l’offerta del toro per la ricorrenza di san Secondiano, uno dei quattro patroni medievali. Lungo questa direttrice si staglia anche la torre del S. Spirito che oggi appare con un rivestimento esterno successivo; poco piú avanti troviamo la torre Barucci, vicina a piazza delle Erbe e al cuore commerciale antico della città. Chiudono questo percorso due esempi posti in prosluglio
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simità della chiesa di S. Pancrazio: la torre vicina al Palazzo Castellesi e quella che fa angolo con via dell’Archetto. Ad accomunare queste strutture sono l’ingresso sopraelevato – che ne evidenzia il ruolo difensivo –, la pianta quadrata, le dimensioni ridotte e l’esistenza, in alcuni casi, di un vano sottostante. Secondo le ipotesi formulate dagli studiosi, le torri appartenenti a questa tipologia sarebbero state innalzate nel momento in cui la città, pur vivendo un forte sviluppo urbanistico, non si era ancora dotata di una cinta muraria completa e non aveva organizzato le forme di socialità tipiche di una comunità vera e propria, con i corpi intermedi della borghesia cittadina non ancora strutturati nel sistema di governo municipale. Questa linea di torri
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costituiva pertanto un assetto difensivo complementare alle mura, utile alla difesa delle élite nobiliari e delle consorterie a esse riferibili. Alla seconda tipologia appartengono invece le torri con il basamento a bugnato, che si configurano con un ingresso al piano terreno e sono caratterizzate da elementi architettonici che superano l’idea di struttura difensiva. Costruite tra il XII e il XIII secolo, avrebbero nel bugnato un elemento di esaltazione del rango della famiglia proprietaria e dell’importanza politica raggiunta. Le torri di questo tipo sono distribuite su diversi assi viari di sviluppo della città. Il primo è quello che parte dalla chiesa di S. Maria di Castello, accanto alla quale svetta la torre piú alta della città, e prosegue lungo l’attuale
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luoghi tarquinia via di Porta Castello e via Mazzini: in ordine di percorso, s’incontrano poi la torre della Ripa, che sorgeva vicino al distrutto Palazzo Farnese; le torri vicine alla piazza della cattedrale, che delimitano una strettoia in via di Porta Castello, e torre Fani, oggi inglobata nel Palazzo Vitelleschi. Come già accennato, le torri di questa seconda tipologia non rispondevano piú a esigenze meramente difensive, ma erano ormai vere e proprie abitazioni, che dovevano esaltare il rango dei proprietari. Del resto, in questo periodo Corneto vive la sua fase di maggiore espansione mercantile e portuale, legittimata dagli accordi con Pisa e Genova del 1173 e del 1177, e dai privilegi concessi da Pietro d’Aragona all’inizio del XIII secolo. La città e il porto compaiono costantemente nei portolani medievali come approdo importante del Mediterraneo occidentale, e la marineria cornetana – come ha rilevato David Abulafia – dimostra una propria capacità tecnica e costruttiva, testimoniata anche dall’esistenza di una pirateria locale. Nei documenti duecenteschi dei notai genovesi sono state rinvenute testimonianze dei traffici commerciali con Corneto, già all’epoca incentrati sul commercio del ferro, ma, soprattutto, del grano, la risorsa alimentare che segnò, fino all’epoca moderna, il territorio altolaziale come il granaio di Roma. Sono invece riferibili alla piena espansione economica cornetana le costruzioni delle case torri, ovvero di strutture caratterizzate da una torre affiancata dai locali commerciali scanditi da archi. Questa tipologia sancisce la definitiva affermazione mercantile della città e della borghesia. Il nostro percorso alla scoperta di queste case torri coinvolge quella situata in vicolo del Poggio, presso la chiesa di S. Martino, la casa torre posta davanti alla cattedrale e la torre detta del Magistrato, vicina alla chiesa di S. Pancrazio. Le case torri rappresentano l’ultima fase edilizia in cui simili strutture trovano ancora uno spazio adeguato, prima dell’affermazione definitiva delle abitazioni a due piani, tipiche del tardo Medioevo.
Respiro mediterraneo
«Ce ne sono di chiese e di chiesuole»: cosí, nella poesia Santi del mio paese, lo scrittore e poeta tarquiniese Vincenzo Cardarelli (1887-1959) evidenziò il carattere popolare connesso alla fitta presenza di chiese a Tarquinia. Se invece analizziamo le chiese di Corneto sotto il profilo storico e artistico, emerge il respiro mediterraneo della città, testimoniato dalla diversità e dalla ricchezza dei dettagli architettonici riscontrabili nei numerosi edifici religiosi. I documenti ci restituiscono i numeri del fenomeno: già nel XIII secolo risultano pagare le decime, ovvero le tasse dovute alla legazione pontificia, quattordici chiese. Questi elenchi non sono però completi e, nei registri del 1344, ne figurano ben 31, alle quali vanno aggiunte quelle degli Ordini men-
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storie dalle torri
Di palazzi, nobildonne e papi mancati
S. Maria in Castello, affiancata dalla torre omonima. Gioiello dell’architettura romanica, la chiesa venne edificata tra il 1120 e il 1208. Nella pagina accanto, a destra l’interno del tempio.
I primi documenti utili a fornire indicazioni sui proprietari delle torri sono i catasti, il piú antico dei quali risale alla fine del XV secolo. Dai dati disponibili è possibile dedurre che, anche in epoche successive, possedere una torre significasse esaltare il proprio rango nobiliare. Dai nomi dei proprietari si ricavano vicende legate alla vita politica della città: per esempio, all’inizio del Cinquecento, la torre della Ripa risulta fra i beni posseduti da Giulia Mezzopane, figlia di uno dei personaggi di spicco del Rinascimento locale, Aurelio Mezzopane, il cui monumento funebre è oggi luglio
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In alto il monumento funebre di Aurelio Mezzopane, in origine collocato nella chiesa di S. Marco e oggi conservato in Palazzo Vitelleschi. 1500.
collocato in Palazzo Vitelleschi, ma che in origine era destinato alla chiesa agostiniana di S. Marco. Aurelio era stato un uomo politico di spicco del Quattrocento locale: affidatario di alcuni degli appalti pubblici piú importanti dell’epoca, prestatore di denaro della comunità e accerrimo avversario degli Ebrei marrani arrivati al porto di Corneto nel 1492 dopo la cacciata voluta da Isabella di Spagna. Ma di Aurelio e della sua famiglia
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rimane il patronato esercitato su ben due santuari mariani della zona: S. Maria di Valverde a Corneto e S. Maria del Riposo a Tuscania, per le quali lasciò importanti risorse. Piú misteriosa è la vicenda del Palazzo Castellesi, che deve il suo nome al probabile proprietario, il cardinale Adriano Castellesi, la cui parabola politica presso la curia romana è degna di una spy story contemporanea. Uomo di grande cultura, autore di testi latini
e conoscitore della Cabala, Adriano, le cui fortune si erano fortemente intrecciate con la famiglia Borgia, per poco non fu eletto papa agli inizi del XVI secolo. Dopo vari incarichi esteri quali legato pontificio, la sua brillante carriera e la sua vita avventurosa sfumarono misteriosamente. L’ultima testimonianza che lo vuole in vita è quella del mercante toscano Pannilini, che asserisce di averlo riconosciuto addirittura alla corte del sultano di Costantinopoli.
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luoghi tarquinia
dicanti – francescano e agostiniano – e dell’Ordine del S. Spirito. Cifre che lasciano intendere quanto Corneto, dal punto di vista della presenza religiosa, fosse una città popolosa, a dispetto della mancanza della sede episcopale, che fu istituita solamente nel 1435, accorpando la città a Montefiascone. Passeggiare oggi nel centro storico tarquiniese significa, dunque, essere catturati, oltre che dalla verticalità delle torri, anche dall’improvvisa apparizione di chiese dagli elementi architettonici insoliti e, a volte, è possibile intravedere nelle abitazioni private elementi che richiamano la loro precedente funzione di luogo di culto. È il caso della vecchia chiesa di S. Lorenzo, non distante da S. Maria in Castello, oggi inglobata in un’abitazione civile. Per le sue caratteristiche architettoniche, Tarquinia ci appare come una città toscana trapiantata nel Lazio, unico comune esistente sulla costa tirrenica a nord di Roma fino al XV secolo, quando la scoperta dell’allume sui monti della Tolfa spostò il baricentro degli interessi politico-economici sul piú capace porto traianeo della vicina Civitavecchia.
Influenze pisane e lombarde
L’itinerario delle chiese cornetane non può non prendere le mosse da S. Maria di Castello, il tempio civico che ha caratterizzato l’identità istituzionale della città e delle magistrature comunali. Costruito tra il 1120 e il 1208, l’edificio, benchè spoglio di decorazioni pittoriche, si presenta come una delle massime realizzazioni
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romaniche di derivazione pisana e lombarda. Le architetture medievali cornetane risentono con evidenza delle connessioni marinare dovute ai traffici portuali: ne sono prova elementi architettonici tipicamente mediterranei, se non islamici, quali le cupole delle chiese di S. Maria in Castello e di S. Giacomo, o alcuni motivi della chiesa di S. Pancrazio. Purtroppo la cupola di S. Maria in Castello è crollata in seguito al terremoto del 1819. Tuttavia, è stata ipotizzata la derivazione pisana della struttura oggi scomparsa. La piccola cupola che sormonta la chiesa di S. Giacomo rimanda invece alle architetture mediterranee della Francia e dell’Italia meridionale, siciliane in particolare. S. Giacomo e la vicina chiesa del Salvatore delimitavano lo spazio abitato altomedievale; situate vicino alla porta nascosta di S. Maria del Fiore, sono solo due delle chiese che esistevano in In alto S. Giovanni Gerosolimitano, chiesa realizzata per iniziativa dell’Ordine dei Giovanniti. A destra S. Francesco, chiesa che mostra con piú evidenza l’influsso del gotico nelle soluzioni architettoniche che la contraddistinguono.
quell’area appunto nell’Alto Medioevo, dal momento che i documenti segnalano la presenza della ricca chiesa cistercense di S. Nicola, della chiesa di S. Maria del Fiore e di S. Giovanni Crisostomo. Di ridotte dimensioni, sia S. Giacomo, con l’aggiunta moderna del cimitero napoleonico, che il Salvatore, presentano una pianta a navata unica con interessanti decorazioni absidali; in particolare nella seconda, l’abside è dominata dalla massiccia presenza di un Cristo Pantocratore del XV secolo. L’asse viario sul quale sorgono queste chiese era un percorso di pellegrinaggio che portava i fedeli dalla porta urbica di S. Maria del Fiore fino alla chiesa oggi detta dell’Annunziata, in passato conosciuta come S. Pietro del Vescovo. Nel Medioevo questo itinerario doveva proseguire lunga una direttrice oggi obliterata dall’espansione edilizia del dopoguerra, che ne ha alterato la connotazione originale.
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Le fonti riportano infatti l’esistenza di ulteriori chiese, quali quella di S. Fortunato, posta nei pressi della prima cinta muraria, e di S. Angelo del Massaro, oggi utilizzata come casa privata. La parte piú popolare doveva essere la zona centrale del terziere del Poggio, già area di sviluppo urbano nell’Alto Medioevo, situata parallelamente all’area di campo Cialdi. La piazza dove sorge la chiesa di S. Martino è infatti uno dei nodi di sviluppo urbano altomedievale; ricerche archeologiche condotte nella zona hanno evidenziato l’esistenza di necropoli a loggette di derivazione longobarda e, nei documenti farfensi dell’XI secolo, viene descritta l’esistenza di una prima chiesa di S. Martino, vicina a un non meglio identificato Castello Vecchio. Dalla piazza e dalla chiesa, legata architettonicamente agli stilemi romanici toscani, si snodano vie e vicoli che attraversano i quartieri pienamente medievali:
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luoghi tarquinia Le risorse idriche
Acqua e miracoli L’approvvigionamento idrico cittadino dipendeva da Fontana Nova, la fonte situata sotto ai dirupi. Articolata in una vasca e sei arcate, la struttura rimanda ai modelli toscani coevi. Alla fonte, secondo le cronache, arrivava un cuniculo sotterraneo, esplorato parzialmente in passato dagli speleologi, che permetteva di distribuire l’acqua lungo i principali assi viari. Alla fontana si aveva accesso anche da un percorso coperto, ancora visibile, che conduceva alla porta nascosta di S. Maria del Fiore. Fontana Nova è legata al culto del patrono Secondiano: una delle leggende agiografiche che riportano il martirio, vuole che l’arciprete di Norchia, seguendo le indicazioni avute in sogno, avrebbe ritrovato il corpo del santo che fu subito conteso tra diverse comunità. Il chierico, per dirimere la questione, caricò allora il corpo del martire su un carro trainato da tori, stabilendo che la città dove si sarebbe fermato avrebbe potuto
La Fontana Nova, realizzata durante il pontificato di Onorio II (1124-1130) e coeva alla vicina chiesa di S. Maria in Castello.
venerare il santo. Arrivato presso Fontana Nova, una nobildonna, nel tentativo di afferrarlo, avrebbe fatto imbizzarrire gli animali e le sarebbe rimasto in mano solo un braccio. Il carro sarebbe allora ripartito per fermarsi a Tuscania, città con la quale, nel Medioevo, il culto del santo fu condiviso. Secondo alcune memorie del XVII secolo, questa leggenda era dipinta sulla parete frontale della fonte.
via Antica fino al Palazzo Comunale, via degli Archi, la piazza della Tribuna, dove avevano luogo le condanne pubbliche, e il quartiere detto di Zinghereria, abitato nel XV secolo da una comunità di etnia albanese. L’anima commerciale del centro è invece riconoscibile nella zona che va da piazza delle Erbe fino alla chiesa di S. Pancrazio, che era posta sotto il patronato dell’Arte dei Mercanti. Il carattere non finito della chiesa è evidente nel vigore delle strutture che danno il senso di come l’edificio avrebbe dovuto avere uno sviluppo longitudinale piú accentuato di quello che oggi si può osservare. Una volta di piú, alcuni dettagli sono testimonianza dei contatti con il Mediterraneo, come i motivi architettonici a bastone spezzato tipici della cultura arabo-normanna e il campanile, con una cuspide conica di derivazione moresca.
Il Quartiere del Santo Spirito
Nelle trasformazioni urbane dei secoli XIII e XIV, un ruolo importante fu esercitato dalle attività dell’ospedale romano del S. Spirito in Saxia, dal quale la filiale
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A destra la facciata del magnifico Palazzo Vitelleschi, edificato per volere del cardinale e condottiero Giovanni Vitelleschi e oggi sede del Museo Archeologico Nazionale.
cornetana era direttamente dipendente. Delle attività edilizie dell’ospedale resta a Corneto un intero quartiere, ovvero l’area collocata fra la torre Barucci e via della Ripa. Già sul finire del XIII secolo, l’ospedale romano vi aveva edificato il proprio Palazzo Priorale, le cui strutture originarie sono ancora ben visibili, inglobando una delle torri piú antiche della città e fondando un convento con annessa cappella, con tanto di brefrotrofio, dato che l’assistenza agli orfani era una delle attività caritatevoli fondanti dell’Ordine romano. Nel XV secolo, anche in virtú dell’azione del priore dell’Ordine, Pietro Matteo, l’ospedale riorganizzò le sue attività di assistenza a pellegrini e poveri, fondando una nuova sede, posta dirimpetto al Palazzo Priorale, che è oggi sede dell’Archivio Storico Comunale. luglio
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Anche le attività economiche della sede cornetana erano andate crescendo nei secoli: l’Ordine appare attivo al porto, dove, nel XIV secolo, risulta gestire la tratta del sale, e nell’entroterra cornetano, poiché – grazie ai numerosi lasciti di devoti locali – era divenuto proprietario della tenuta della «Tarquinia», ovvero di gran parte dell’area sulla quale si estendeva la città etrusca, che costituiva una riserva granaria di primaria importanza. Questa situazione non mancò di causare conflitti giurisdizionali con il Comune e con alcune famiglie nobili quali i Vitelleschi. Cosí, nel XV secolo, il quartiere del S. Spirito era divenuto una vera e propria area logistica di immagazzinamento dei cereali e risultava confinante con le abitazioni dei maggiori affidatari degli appalti della camera apostolica, quali Agostino Chigi, già appal-
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tatore del sale e della Dogana dei Pascoli e, sul finire del secolo, ricchissimo appaltatore dell’estrazione dell’allume, da poco scoperto sui monti della Tolfa. L’aggiunta duecentesca si sviluppò su nuovi assi viari, lungo i quali sorgevano i conventi degli Ordini mendicanti: i Francescani e gli Agostiniani. Dei due insediamenti, solo il primo ha conservato un’anima pienamente medievale e la chiesa di S. Francesco è quella che presenta maggiormente caratteri gotici nel panorama dell’architettura religiosa locale. Dell’insediamento agostiniano originario rimane solo un bell’affresco, posto in quella che è stata anche la sala capitolare del convento: raffigura una Crocifissione con Madonna e Santi e, in orgine, doveva probabilmente trovarsi sulla parete perimetrale della prima chiesa.
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luoghi tarquinia
Entrambi gli Ordini hanno avuto molta importanza nella vita pubblica locale, poiché i priori dei due conventi custodivano le chiavi delle bossole, cioè dei contenitori che servivano per l’estrazione dei nominativi dei magistrati civici. Tuttavia, se la presenza agostiniana a Corneto è maggiormente evidente per la chiesa del XV secolo, oggi teatro, e per il convento esagonale del Seicento, nelle vicende agiografiche della vita del santo fondatore è il territorio tarquiniese a svolgere il ruolo di affascinante palcoscenico. Due sono i luoghi importanti nelle vicende agostiniane: l’eremo che s’incontra salendo verso i monti della Tolfa, dove il santo africano scrisse il De Trinitate, e la baia alla foce del Mignone, sito nel quale avvenne il miracolo dell’incontro con l’angelo bambino che, intento a mettere tutto il mare in una buca, avrebbe stimolato la riflessione teologica di Agostino. Nel tardo Medioevo non fu trascurabile la presenza
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degli Ordini militari: se dei Templari restano tracce simboliche nelle chiese del Salvatore e di S. Maria in Castello e i graffiti in volgare nella Tomba Bartoccini (una delle tombe etrusche dipinte della necropoli dei Monterozzi, n.d.r.), la presenza dei Giovanniti ha invece lasciato in eredità la chiesa di S. Giovanni Gerosolimitano. Dell’espansione del XIII secolo, sono traccia significativa le fortificazioni: Tarquinia ha preservato la sua cinta muraria, oggi percorribile nel tratto piú antico grazie a un sentiero che passa adiacente alle mura castellane. Tuttavia, i sistemi difensivi piú interessanti sono attestati nella parte nuova, dove si osserva la presenza della cortina doppia di accesso, come quella di Porta S. Maria Maddalena. Si tratta di un modello difensivo ripreso dall’Oriente levantino, probabilmente di importazione crociata, che tanto aveva impressionato Petrarca nel suo viaggio verso Roma. Il XV secolo è per Corneto un’epoca di lento decliluglio
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Due immagini del cortile di Palazzo Vitelleschi, nel quale hanno trovato posto sculture e sarcofagi facenti parte delle collezioni del Museo Archeologico Nazionale.
no: a dispetto di un inizio importante, collegato alla parabola politica del cardinale e condottiero Giovanni Vitelleschi (al quale si devono sia la costruzione dell’omonimo palazzo, oggi sede del Museo Archeologico Nazionale, che la creazione della diocesi), il Quattrocento fa registrare il calo demografico della città, dovuto alle frequenti epidemie, in particolare a quella del 1476. Corneto si spopolò e fu soggetta a periodici ripopolamenti, condotti tramite una massiccia politica di accoglienza, che portò Lombardi, Toscani, Albanesi e Corsi ad abitare le sue zone piú antiche.
Anche il porto perde d’importanza
Sintomi di questa decadenza sono la costruzione della trincea di fortificazione voluta dal Vitelleschi per dividere la zona di S. Maria di Castello, ormai spopolata, dal resto del borgo e la perdita di importanza del porto a vantaggio dello scalo di Civitavecchia, molto piú fruibile
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per il commercio dell’allume, scoperto nella giurisdizione cornetana, ma immediatamente centralizzato dalla curia pontificia. Se le committenze private si giovarono del mecenatismo dei Vitelleschi, quelle pubbliche risentirono della crisi: l’ampliamento del Palazzo Comunale, in origine affidato al Bramante, non rispettò le ambizioni iniziali e anche la realizzazione del santuario per la nuova patrona cittadina, l’icona mariana della Vergine di Valverde – alla quale, nel 1483, furono attribuite innumerevoli guarigioni dalla peste –, sebbene supportato dalle magistrature locali, visse momenti altalenanti. Il Rinascimento a Corneto appare come una fase incompiuta, un momento di cesura in negativo, di transito verso l’epoca moderna, che avrà i suoi caratteri essenziali nei ritmi della transumanza appenninica, nella massiccia immigrazione umbro-marchigiana e nell’affermarsi della città come uno dei centri piú rinomati della Maremma di oggi.
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di Lucia Lazzerini
Miniatura raffigurante don Felice e Isabetta, protagonisti della quarta novella della terza giornata del Decameron, che giacciono insieme, da un’edizione francese dell’opera di Giovanni Boccaccio. XV sec. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.
Un mondo di sublimi
sconcezze Non solo canzoni di gesta solenni e gloriose, non solo soavi poesie all’indirizzo di donne bellissime e irraggiungibili: insieme ai componimenti alti, una letteratura diversa, fatta di sberleffi e dissacranti oscenità, permeava l’età di Mezzo, in una sorta di «coesistenza degli opposti». Documentata, con l’evidenza delle immagini, dai manoscritti due e trecenteschi...
Dossier
I I
l XII secolo è per la Francia un’epoca d’intenso e precoce sviluppo della letteratura in volgare. Anzi, delle letterature, perché ve ne sono due, corrispondenti agli idiomi che nel Medioevo si parlavano rispettivamente a nord e a sud della Loira: la lingua d’oïl e la lingua d’oc (le denominazioni provengono dalle due diverse particelle affermative, equivalenti al nostro «sí»: il francese moderno deriva da oïl l’attuale oui). Al Nord fiorisce soprattutto l’epica, la chanson de geste, un genere in cui subito spicca un capolavoro che, alla sapienza formale, unisce un grande talento narrativo: la Chanson de Roland. Poco importa se non è rispettata la verità storica della rotta di Roncisvalle, ove la retroguardia di Carlo Magno fu massacrata non dai musulmani, ma dai Baschi cristiani, endemicamente ribelli; se la stessa figura del canuto imperatore, circondata da un’aura sacrale, mal corrisponde alla realtà di un sovrano appena trentacinquenne all’epoca dei fatti: nel racconto austero e solenne, scandito dalle espressioni formulari dello stile epico, l’ignoto autore sa accendere emozioni indelebili, tratteggiando con vigore l’odio viscerale che avvelena i rapporti tra Rolando e il patrigno Gano, il tradimento di quest’ultimo, il martirio di Rolando e del suo amico carissimo Olivieri. Nelle corti del Mezzogiorno domina invece la lirica. I trovatori, maestri di poesia per tutto l’Occidente, cantano – in parole e in musica, giacché tutti i loro componimenti sono, in origine, destinati all’esecuzione e non alla semplice lettura – una donna bellissima, perMiniatura raffigurante una coppia di amanti in un’alcova, da un’edizione delle Cantigas de Santa Maria di Alfonso X, detto il Saggio. XIII sec. Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial.
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MEDIOEVO
MEDIOEVO
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Dossier fetta e irraggiungibile: come il celebre «amore di lontano» di Jaufré Rudel, le cui rime dense di malinconiche risonanze, plagiate nei versi dell’improbabile arabo-provenzale Abdul («E quando i giorni sono lunghi a maggio / m’è dolce un canto d’uccelli da lontano»), tanto affascinano Baudolino, il protagonista dell’omonimo romanzo di Umberto Eco. È un amore rarefatto e incompiuto per la distanza dell’amata, lontana geograficamente, o troppo superiore al poeta-amante, perché egli possa sperare di ottenerne le grazie: sarà già una gran conquista se la dama lo ammetterà al suo servizio. Per il devoto vassallo comincerà, nell’intento di rendersi degno di lei, un arduo itinerario di affinamento interiore che, pur tra ostacoli e momenti di sconforto, avrà in sé la propria gratifica, anche se la sospirata gioia d’amore non verrà mai concessa.
Un duro servizio
Definendo i trovatori «amanti di testa», un filologo dell’Ottocento aveva acutamente compendiato il gioco sottile e cerebrale delle allusioni, l’intreccio di erotismo e di astratto simbolismo caratteristico di questa lirica, che ancora oggi conserva un suo incanto enigmatico. Il duro servizio presso un’amata indifferente o addirittura ostile ha un corrispettivo formale nel virtuosismo tecnico (metrica complicata, predilezione al limite dell’oscurità per le rime rare e preziose): metafora del faticoso lavoro necessario per vincere la resistenza della materia grezza – che per il poeta è la lingua –, sbozzandola e limandola con amorosa dedizione, fino alla conquista dell’eccellenza poetica. Si forma cosí un repertorio di luoghi comuni su cui s’intessono infinite variazioni. Ma si sa quanto fosse importante nel Medioevo l’«altra» cultura: la cultura della parodia, della comicità irriverente che sbeffeggia la letteratura seria e non risparmia neppure i riti sacri.
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Benché le gerarchie ecclesiastiche deplorassero gli eccessi piú scandalosi, le contraffazioni burlesche di cerimonie liturgiche (in cui al posto dell’incenso si bruciavano vecchie suole puzzolenti, mentre frittelle bisunte facevano le veci delle sacre particole) perseveraro-
In alto pagina da un Libro d’Ore con disegni erotici nei margini. 1320-1329. New York, The Morgan Library & Museum. Nella pagina accanto, in alto particolare della pagina miniata di un Libro d’Ore raffigurante un ragazzo che orina. Seconda metà del XV sec. Clermont-Ferrand, Bibliothèque municipale. luglio
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I fabliaux
Quando si rideva anche dei santi... Tra la fine del XII e gli inizi del XIV secolo, nel Nord della Francia, è in gran voga un tipo di racconto breve in versi (detto appunto, con denominazione che ne rivela l’origine piccarda, fabliau), che mira a far ridere il suo pubblico con i consueti espedienti d’efficacia garantita: buffonerie ed equivoci a sfondo sessuale, riferimenti alle funzioni fisiologiche, ossia quel «basso corporeo» in cui Bachtin ha ravvisato l’essenza dello spirito carnevalesco. Su questi temi fissi si sbizzarrisce la fantasia degli autori: protagonista del fabliau piú antico (Richeut) è una cinica puttana che, rimasta incinta, imbroglia tre suoi clienti – un prete, un cavaliere e un borghese – attribuendo a ciascuno la paternità del pargolo e spillando loro denaro fino a ridurli sul lastrico; Auberee mette in scena gli stratagemmi di un’astuta mezzana, e pezzo forte di molti testi è la beffa ai danni del marito cornuto. Il folle sogno racconta le proiezioni oniriche di una moglie che, trascurata dal marito, sogna una fiera in cui si vendono, a vario prezzo, organi maschili di ogni foggia. Analogo l’argomento dei Quattro desideri, che, con blasfema disinvoltura, non esita a coinvolgere san Martino: il santo in persona dà avvio alla storia, promettendo a un villano suo devoto la realizzazione di quattro desideri. Il
poveraccio si vede già ricco, ma non ha fatto i conti con le bizze della moglie, che insiste per formulare lei uno dei desideri: e quando l’uomo, dopo qualche resistenza, cede alla pretesa, la sventata chiede che al marito spuntino cazzi dappertutto, visto lo scarso rendimento dell’unico disponibile. Neppure il tempo d’aprir bocca, e il disgraziato si ritrova pieno d’imbarazzanti bitorzoli: lunghi, corti, grossi, tozzi, appuntiti o squadrati, sul naso, accanto alla bocca e persino sulle ginocchia. Allora, ripagando la moglie della stessa moneta, chiede che a lei spuntino altrettante gnocche; e naturalmente la grulla ne vien cosparsa all’istante. Non c’è che un rimedio: chiedere la sparizione di tutte le mostruose escrescenze. Solo che con la dotazione supplementare scompare anche quella ordinaria, e i due si ritrovano privi di genitali. Per rimettere le cose a posto, resta ancora l’ultimo desiderio, ma la straordinaria opportunità è stata malamente sperperata dai due citrulli. Come si vede, anche il Medioevo aveva i suoi repertori di barzellette. Talvolta gli autori appiccicano al loro racconto, quasi per riscattarne la trivialità, una morale
di circostanza, sul modello di quei predicatori che inserivano nei sermoni facezie e scurrilità col pretesto di estrarne un insegnamento edificante. I fabliaux non sono racconti esemplari: sono soltanto contes à rire, «racconti da ridere», talvolta divertenti e talaltra soltanto volgari, come un tempo le scenette d’avanspettacolo e oggi i film-spazzatura.
Particolare di una miniatura raffigurante una donna svestita che cavalca un mostro di forma fallica, evidente allusione alla trasgressione sessuale femminile, da un’edizione manoscritta del Decretum Gratiani. 1350-1360. Lione, Bibliothèque municipale.
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Dossier il gatto rosso
Due sorelle insaziabili «In Alvernia, passato il Limosino, me ne andavo in incognito, solo soletto. Incontrai le mogli di ser Guarino e di ser Bernardo: mi salutarono affabilmente, in nome di San Leonardo. Una mi disse nel suo idioma: “Dio vi salvi, signor pellegrino; sembrate persona molto a modo, a mio avviso: ma troppi matti si vedono a giro per il mondo”. Ora sentite che cosa risposi: non le dissi né ai né bai, non parlai né di questo né di quello, ma solo cosí: “Babariol, babariol, babarian”. Disse Agnese a Ermessenda: “Abbiam trovato quel che cercavamo! Sorella, per amor di Dio, portiamocelo a casa, visto ch’è muto, e da lui nessuno mai saprà quel che abbiamo in mente di fare”. Una mi prese sotto il suo mantello e mi portò in camera, al focolare. Sappiate che rimasi soddisfatto: il fuoco era gagliardo, e volentieri mi scaldai ai grossi tizzoni. Da mangiare mi diedero capponi, e dovete sapere che n’ebbi piú di due; e non c’erano né cuoco né garzoni, ma soltanto noi tre; e il pane era bianco, il vino buono e abbondante il pepe. “Sorella, se questo è un furbacchione no a lungo. Verso lo scherzo anche grossolano c’era una sostanziale tolleranza; e se Dante lamenta che si vada a predicare «con motti e con iscede», è pur vero che invettive di violenza verbale oggi impensabile e spiritosaggini salaci continuarono a far parte del repertorio dei predicatori piú acclamati fino alla Controriforma, che spazzò via quest’oratoria giullaresca. La Cronaca di Salimbene de Adam, francescano parmense (1221-1287), ci offre un campionario di queste facezie fratesche (citate da Eco ne Il nome della rosa):
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memorabili le burle di fra Diotisalvi, il minorita fiorentino che, ospite in un convento domenicano, chiese compunto ai frati dell’Ordine rivale un pezzo di tonaca d’un loro venerato confratello da conservare come reliquia; ottenutolo, lo usò per pulirsi il sedere e lo buttò nel cesso. Poi cominciò a rovistare nello sterco con una pertica, gridando: «Aiuto, fratelli! Ho perso la reliquia!»; e quei gonzi a guardare e a godersi il profumo, mentre Diotisalvi rimestava vigorosamente con la pertica per potenziare le esalazioni (quel che si dice l’odore di santità).
Un’altra volta allo stesso frate capitò di scivolare sulla strada ghiacciata; e, siccome i Fiorentini non sanno rinunciare al motto pungente, un tale gli chiese se per caso non volesse sotto qualcosa di meglio. E lui di rimando: «Sí, tua moglie!». Ma, ancora nel primo Cinquecento, il domenicano Valeriano da Soncino ci offre squarci significativi di un’oratoria sacra senza peli sulla lingua: come quando, additando a esempio Tobia che, dopo le nozze, si astenne per tre notti dai rapporti coniugali, prorompe in una reprimenda contro i mariti poco inclini alla luglio
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Nella pagina accanto miniatura raffigurante un signore al quale viene servito il pasto, da un Libro d’Ore. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso miniatura raffigurante una coppia nel proprio letto, da un’edizione del Roman de la Rose. XIV sec. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.
–, di figurine sconvenienti, di scenette che rappresentano un mondo alla rovescia. Ma, in fondo, l’autorizzazione all’alternanza di serio e di comico proveniva dalla Scrittura stessa: «C’è un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e uno per ballare», recita l’Ecclesiaste (3,4); solo che il limite tende a farsi evanescente, il gioco invade l’ufficialità, lo sberleffo profana il rito, il testo serio viene irriso e sfregiato da un controtesto tutto costruito su motivi osceni o escrementizi. Le tradizioni popolari della festa e della piazza costituiscono certamente una fonte primaria d’ispirazione per i contenuti, ma il popolo, di norma, non si dedica a passatem-
come gli uomini del Medioevo partecipassero a due vite, la vita ufficiale e quella carnevalesca, e a due aspetti del mondo, uno pio e serio, l’altro comico e trasgressivo: una coesistenza di opposti che i manoscritti del Due e Trecento documentano con l’evidenza delle immagini. Nello stesso foglio in cui irreprensibili miniature religiose illustrano il testo, i margini esibiscono un mondo a parte, come se questo spazio fosse riservato alla fantasia piú sfrenata, invaso da un brulichio di mostriciattoli – bizzarre combinazioni di forme umane, animali e vegetali
pi letterari: la parodia, anche la piú volgare, viene elaborata negli stessi ambienti che creano i modelli «alti». Il primo trovatore a noi noto, il potente Guglielmo IX, conte di Poitiers e duca d’Aquitania (10711126), canta una dama senza nome (designata con l’appellativo maschile Midons, «Mio signore», che resterà nella tradizione) provvista di facoltà straordinarie: risana gli ammalati, fa impazzire i saggi, rende villani i cortesi e viceversa, assicura eterna giovinezza; insomma, piú che una donna in carne e ossa, una mera personificazione di Amore (o
e fa il muto apposta per noi, portiamo il nostro gatto rosso immediatamente, per farlo parlar subito, putacaso fingesse”. Agnese andò a prender l’importuno ch’era grosso e aveva lunghi baffi: quando lo vidi tra di noi, n’ebbi spavento, e per poco non persi tutto il mio ardimento. Dopo aver bevuto e mangiato, mi spogliai per farle contente. Di dietro mi portarono quel gatto cattivo e traditore: una me lo stese addosso dalla schiena fino ai calcagni. Per la coda detto fatto tira il gatto, e quello graffia; piú di cento piaghe m’han fatto, quella volta, ma non avrei fiatato neanche se m’avessero ammazzato. Poi disse Agnese a Ermessenda: “È muto, è chiaro; sorella, prepariamoci al sollazzo”. Quarantun giorni restai in quel frangente. E tanto le fottei, sentite quanto: centottantotto volte! Poco mancò che non mi si rompessero cordone e armamentario; e non vi posso dire quanto stetti male». (Guglielmo d’Aquitania, Il gatto rosso, vv. 11-70, traduzione di Lucia Lazzerini) castità: «Credi forse che, non appena si trovò in camera con la sua sposa, sia corso alla “cavagna d’i gambari?”». Non occorre spiegare che cosa sia la «cesta dei gamberi»: basti ricordare che «canestra», «paniera» e simili sono ben note denominazioni del sesso femminile, a cui i crostacei aggiungono un’elegante allusione olfattiva.
Coesistenza degli opposti
Nel suo celebre saggio sull’opera di Rabelais e la cultura popolare, il critico e folclorista russo Michail Bachtin (1895-1975) ha osservato
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Dossier Il Cavaliere che faceva parlare le fiche
Quando l’indecenza fa miracoli La grazia concessa da san Martino nel fabliau dei Quattro desideri, ottima nelle intenzioni, diventa grottesca e oscena per l’uso dissennato che ne fanno i due villani. In un altro fabliau, invece, il dono soprannaturale è di per sé indecente. L’esordio del Cavaliere che faceva parlare le fiche sembra quello di un romanzo arturiano, con personaggi e scenari che ricalcano un copione ben noto. C’è un cavaliere errante, il suo scudiero un po’ cialtrone ma di mente sveglia, l’apparizione di tre bellissime fanciulle che fanno il bagno, nude, nelle limpide acque di un ruscello. Lo scudiero non ci pensa due volte a sgraffignare le loro preziose vesti, ma il suo signore, pur ridotto in miseria, si affretta a restituirle. Le damigelle, che naturalmente sono tre fate, decidono che tanta cortesia va premiata: e qui, con uno scarto improvviso, il racconto si scosta dagli schemi tradizionali, perché la ricompensa elargita
Vignetta raffigurante un mostro che lecca l’ano di un altro, da una copia della Legenda Aurea redatta da uno scrivano che si firma Alanus (l’assonanza con anus ha forse ispirato la scena). XIV sec. Nella pagina accanto, in alto la Potta di Modena, essere androgino con gli organi sessuali in mostra, scolpito su una metopa del duomo di Modena. Inizi del XII sec. Modena, Museo Lapidario Estense.
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lascia interdetti. Il gentiluomo avrà facoltà d’interrogare qualsiasi bernarda e quella risponderà; in caso di silenzio, aggiunge la fata piú giovane, sarà il culo a parlare. Lí per lí il cavaliere pensa a uno scherzo di cattivo gusto; ma ben presto constaterà che è proprio vero, lui fa le domande e le vagine rispondono. La notizia di questo singolare potere arriva a una ricca dama, signora di un grande castello, che si lancia in una scommessa: «Ci punto quaranta libbre: la mia non sarà tanto stupida da dirvi una sola parola». La furbacchiona sa bene come fare per vincere. Va in camera sua e se la tappa completamente, riempiendola di cotone; beninteso, la domanda del cavaliere non ottiene risposta. Il giovane pensa già d’aver perso la scommessa, quando lo scudiero gli ricorda il codicillo della seconda fata: cosí il deretano non solo risponde, ma rivela per filo e per segno l’imbroglio della contessa.
di Sapienza, visto che analoghe prerogative sono attribuite a Filosofia nella versione occitanica della Consolazione della Filosofia di Boezio). Ma accanto a questo componimento, che sembra fondare il canone poetico dell’amore astratto e intellettualistico, troviamo versi di tutt’altro genere: sono i componimenti rivolti al pubblico dei compa-
gnò, i cavalieri della corte, compagni di bevute e d’intrattenimenti conviviali; divertimenti per soli uomini, insomma, scherzi salaci e talvolta blasfemi, come l’invettiva contro i guardiani del con (nome del sesso femminile in francese e in lingua d’oc, dal latino cunnus): «Signore Iddio, che sei del mondo padrone e re, / chi per primo mise il con sotto sorveglianza, perché non crepò? / Ché mai servizio e guardia fu piú sgradevole per la sua dama. / Vi dirò dunque qual è la legge del con, / con l’esperienza di chi n’ha avuto pan per focaccia: / se ogni altra cosa diminuisce, quando se ne prende, quella, invece, s’allarga». E ancora all’insegna della dissacrazione è la poesia in cui lo spregiudicato conte-trovatore racconta in prima persona un singolare pellegrinaggio che si conclude, anziché su un venerato sepolcro, al santuario del sesso: un racconto che sembra anticipare la novella di quel Masetto da Lamporecchio (Decameron, III, 1), che «si fa mutolo e diviene ortolano d’un monistero di donne, le quali tutte concorrono a giacersi con lui» (e dopo aver generato, dice il Bocluglio
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Corteggiatori inetti, inveisce Raimon, vi date un gran daffare con le donne, ma alla resa dei conti, guardate che figure! Gli fa eco un altro trovatore, che si cela sotto lo pseudonimo di Truc Malec: quel disgraziato di Bernat «fu proprio scemo a disdegnare il corn; / io invece sarei stato ben contento di cornar, / e l’avrei fatto senza alcuna contrarietà». Raimon de Durfort replica a sua volta, rincarando la dose d’insulti contro il malcapitato spasimante che si era tirato indietro, benché l’impresa fosse priva di rischi, dato che il corn era stato accuratamente lavato: «centomila io ne cornerei, e dire che ce n’è di tremendi!» (con evidente richiamo alle vanterie erotiche di Guglielmo IX). In questo coro di vituperi, a favore del cavaliere di Cornilh si leva isolata la voce di Arnaut Daniel: sí, caccio, «assai monachin», se ne torna ricco e soddisfatto al suo Paese dicendo «che cosí trattava Cristo chi gli poneva le corna sopra ‘l cappello»). I cronisti coevi che descrivono Guglielmo IX come un irriducibile donnaiolo, «immerso nel fango dei vizi come se credesse il mondo mosso dal caso anziché governato dalla provvidenza», scorgono nella dissolutezza del conte il corrispettivo di una perversione ideologica, una sorta di ateismo epicureo; Guglielmo di Malmesbury gli attribuisce persino – estrema sfida sacrilega – il progetto di fondare nei suoi feudi un’abbazia di prostitute.
Un cavaliere insistente
Anche in seguito, quando il canone poetico si è ormai consolidato (e irrigidito in una serie di luoghi comuni), vediamo che raffinati maestri del trobar non disdegnano i territori insoliti della contraffazione e dell’ironia pungente. La richiesta d’amore alla dama era, lo abbiamo visto, il tema centrale di quella poesia. Ma Raimon de Durfort, in un suo componimento, lascia da parte i rituali cortesi e illustra la singolare vicenda
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A destra uno sciapode (mostro dall’unico grande piede palmato) viene colpito con una freccia sul sedere da un uomo con la gobba, dal Salterio Rutland. 1260 circa. Londra, British Library.
occorsa a un tal cavaliere Bernat de Cornilh (attenzione al nome!), che assillava madonna Aina con le sue profferte. La bella aveva risposto proponendo una condizione a dir poco sconcertante: «Sí, ti accetterò come amante, a patto che tu mi soffi qui (il verbo usato è cornar, propriamente «suonare il corno»)»; e, per non lasciar dubbi sullo strumento a fiato da utilizzare, mise la mano dietro la coscia e gli mostrò il trauc sotiran, «il buco di sotto». «Signora, il cornar mi starebbe anche bene, ma poi non riuscirei a riprender fiato», rispose lui, perdendo cosí la ghiotta occasione.
proprio lui, l’inventore della sestina, la forma metrica piú difficile, il banco di prova della bravura versificatoria; il trovatore citato da Dante, nel Canto XXVI del Purgatorio, come il «miglior fabbro del parlar materno». Arnaut interviene in quella che è stata chiamata la «tenzone del corn» per prendere le difese del corteggiatore riluttante e lo fa da par suo, costruendo un componimento irto di rime aspre e monosillabiche in cui campeggia un’orripilante descrizione del corn di madonna Aina, fondo-botte pieno d’incrostazioni maleodoranti, nera palude
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Dossier di un suo cenno di benevolenza), ribollente di vapori mefitici, da cui ge alla dissacrazione: sull’ultima sviluppano ampiamente il filone fuoriescono getti che accecano chi si strofa di una sua canzone d’amore, satirico-grottesco nelle cantigas d’eavvicini a quei luoghi perigliosi. In- «A voi vorrei mostrare il male ch’io sento scarnho e de mal dizer. somma, conclude sornione Arnaut, / e agli altri celarlo e tenerlo nascosto», Questa poesia «di scherno e di per il buon Bernat non c’è che una un anonimo che certo non brilla maldicenza» è il luogo dell’invetsoluzione: munirsi di un robusto per eleganza ha costruito un testo tiva, dell’apostrofe insolente, della cannello – una sorta di spina feccia- degno di figurare, piú che sulla pervolgarità. Non si deve pensare a ia: la metafora sessuale soggiacente gamena di un manoscritto, sulla intenti provocatori: sono gli stessi non ha bisogno di spiegazioni – da parete d’una latrina: «A voi vorrei inautori di raffinate liriche d’amore infilare nel fondo della sua dama- filare / il coso che mi pende / e sul culo a cimentarsi in questi esercizi di botte per farne defluire le scorie poggiare i coglioni». Meno greve l’asegno opposto, in un gioco intelmelmose. Allora sí che potrà cornar nonimo che, sulle rime e sulla melettuale che, come abbiamo visto (si noti che il verbo significa anche lodia di un celebre componimento nella disputa del corn, è soprattutto «bere») senza rischi! politico di Bertran de Born, allestí un’esibizione di maestria linguistiNon sempre le incursioni nel un paio di strofe (aggregate poi, per ca e formale, sia nello stile comico si accompagnano a «alto» sia nel registro «basmetafore originali e a ricerLe incursioni nel comico sono so». Cosí Pero d’Armea catezze stilistiche: talvolta spesso originali e ricercate, ma, parte da un luogo comune la parodia è piú rozza, melirica d’amore, il bel ra contraffazione di grana altrettanto spesso, scadono nella della volto bianco e vermiglio grossa. Cantava Bernart de rozzezza e nella grossolanità della dama (ma lo splenVentadorn, uno dei trovadore del carnato è dovuto tori piú delicati e suggestianche all’uso sapiente dei cosmetivi: «Quando soffia la fresca brezza / che errore, al testo contraffatto) in cui ci) per instaurare un paragone inviene dalla vostra terra, / mi par di sen- invitava le donne a non rinviare il consueto: adeguatamente truccato tire / un vento di paradiso / per amore tempo dell’amore: «Sbaglia la donna con biacca e rossetto, il suo sedere della donna gentile / a cui m’inchino, / che tarda ad amare / quand’è giovane, farebbe lo stesso effetto; anzi, la ove ho posto ogni mio affetto / e deside- col carnato fresco e bianco / e le tettine somiglianza sarebbe perfetta se rio, / ché da tutte mi sono allontanato sode, senza cedimenti, / il ventre liscio, alle natiche cosí imbellettate si ag/ per lei, tanto m’incanta!». E cosí gli senza rughe e avvallamenti, / turgida la giungessero le orecchie e vi si difaceva il verso, sulle stesse rime, un passera coi suoi peluzzi sopra». pingessero le ciglia. irriverente parodista: «Quando il peto Talvolta la canzone prende cordal culo soffia / da cui madonna caca e Una veloce diffusione po attorno a doppi sensi maliziofa loffe, / mi par di sentire / un fetore di La lirica provenzale si diffonde rapisi: nei versi di Pero da Ponte sulla piscio / della vecchia putida di merda / damente in tutta Europa, dapprima per il prestigio del trobar, piú tardi valigia senza lucchetto della non che di me si fa beffe / ed è piú ricca di peti anche per la diaspora dei trovatori proprio castissima Maria Pérez, / che di buone monete: / piú caca lei in tre che, dopo le devastazioni provocate in cui tutti frugano liberamente, mattine / che un’altra in una trentina». nel Sud della Francia dalla crociata la metafora sessuale è facilmente Folchetto di Marsiglia, vescovo contro gli Albigesi (ossia gli eretici decifrabile. Altrove, invece, il lesdi Tolosa all’epoca della crociata sico è esplicito fino alla brutalità, contro l’eresia albigese e apprezzato catari), trovarono ospitalità fuori si tratti dei maldestri assalti omotrovatore (Dante lo cita nel De vulga- della terra d’origine, in particolasessuali che lo stesso Pero lamenta ri eloquentia e lo pone nel Cielo di Ve- re presso le corti della Catalogna e d’aver subito, o degli approcci con nere, Paradiso, Canto IX), non sfug- dell’Italia settentrionale. Ma se i trovieri oitanici e i Minuna cortigiana (soldadeira) racconnesänger tedeschi replicano, con tati senza pruderie e con blasfema qualche variante, il repertorio cacommistione di riferimenti sacri nonico della poesia d’amore, nientemeno che dal re di Castiglia all’estremo Occidente i trovaAlfonso X il Saggio, autore, sul verdores galego-portoghesi del sante «serio», di mirabili poesie sui XIII secolo, accanto a una miracoli della Vergine. cospicua produzione ispiraMa torniamo alla Francia, alla ta ai motivi d’obbligo (la loletteratura in lingua d’oïl. Nel testo de della dama, l’implorazione anglo-normanno noto come Voyage
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A destra e nella pagina accanto vignette grottesche disegnate a margine di alcune pagine del Breviario di Renaud de Bar. 1302-1305 circa. Verdun, Bibliothèque municipale. A destra, un duello fra creature ibride antropomorfe; nella pagina accanto, un coniglio musicante e un ibrido antropomorfo.
(o Pélerinage) de Charlemagne, che racconta il bizzarro pellegrinaggio a Gerusalemme di Carlo Magno, della regina sua consorte e dei paladini, ritroviamo gli stessi personaggi della Chanson de Roland; ma la solennità di quell’epopea si dissolve in una serie di episodi grotteschi.
L’irritazione del re
Già l’esordio è singolare: un re Carlo frivolo e vanesio, tutto compiaciuto della sua pompa imperiale, domanda alla moglie: «Signora, avete mai visto qualcuno / cui stesse cosí bene la spada o la corona in capo?». E lei stu-
pidamente risponde: «Imperatore, vi date troppe arie! / Io ne conosco uno ch’è piú carino / quando porta la corona tra i suoi cavalieri; / quando se la mette sulla testa, gli sta molto meglio». Carlo ci rimane malissimo, vuol sapere chi è, propone una specie di sfilata col rivale, un concorso di bellezza per altezze reali con tanto di giuria formata da cortigiani e cavalieri; poi passa alle minacce: «Se mi avete mentito, la pagherete cara: / vi taglierò la testa con la mia spada d’acciaio». Ma no, replica la regina terrorizzata, era solo uno scherzo; e il nome non me lo ricordo... Alla fine, di fronte all’ira
violenta del consorte, l’incauta capisce di non avere scampo, e il nome salta fuori: Ugo il Forte, imperatore di Grecia e di Costantinopoli, detiene la palma della bellezza virile. «Non avrò pace finché non l’avrò visto», conclude Carlo. Cosí si parte per l’Oriente, col pretesto ufficiale del pellegrinaggio al Santo Sepolcro. Lasciata Gerusalemme con un pacchetto di miracolose reliquie, dono del locale patriarca (un pezzetto del sudario di Cristo, un chiodo della Crocifissione, la corona di spine; un kit da tavola col cali(segue a p. 99) Vignette raffiguranti il Cavaliere con il cigno (personaggio tratto dal Cycle de la Croisade) e una coppia di amanti nudi nell’atto di abbracciarsi, da un’edizione dei Miracles de Notre-Dame di Gautier de Coinci (rispetto al cui contenuto sono totalmente estranee). XIII sec. Besançon, Bibliothèque Municipale.
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Renart
Uno specchio della società feudale Sulle due pagine miniatura raffigurante l’arrivo di Renart al castello di Proserpina, da un’edizione del Roman de Renart. 1290-1300. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso, a destra miniatura raffigurante Noble, il re leone, che convoca a corte gli animali, da un’altra edizione del Roman de Renart. Fine del XIII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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Il furfante per eccellenza della letteratura francese medievale è Renart la volpe, protagonista dell’omonimo romanzo (il termine ha un significato diverso da quello moderno: designa un testo narrativo in versi) che ebbe grande successo, come dimostra l’imponente tradizione manoscritta. I personaggi di questa saga comico-satirica sono bestie che, pur conservando i tratti caratteristici della loro specie, parlano e agiscono come esseri umani, simili in questo agli animali degli antichi favolisti Esopo e Fedro (ma anche ai Topolini, Paperini e cani assortiti di Walt Disney). La società zoomorfa del Renart riflette senza pietà il mondo feudale: dietro le convenzioni cortesi, ferocemente parodiate, trionfano violenza e sopraffazione; sotto la falsa devozione di monaci e curati si nasconde l’avidità pecuniaria e sessuale. Renart, astuto e crudele, riesce sempre a farla franca. Messo sotto accusa per strage di galline e per lo stupro di Hersent, la moglie del lupo suo acerrimo nemico (in precedenza, peraltro, la poco virtuosa signora gli aveva concesso spontaneamente i suoi favori), è condannato all’impiccagione. Allora finge di pentirsi, dice di voler prendere la croce e mettersi in cammino per la Terra Santa: ma non è che l’ennesima beffa. Scampato alla forca, il mascalzone si presenta a corte, al cospetto di tutti gli animali, ancora vestito col saio da pellegrino, la croce nelle mani, per la provocazione piú spudorata: «“Sire, tenetevi il vostro straccio! / Dio maledica quel disgraziato / che mi dette questo lurido cencio, / il bordone e la bisaccia!”. / Ci si pulí il culo sotto gli occhi delle bestie, / e poi glielo buttò sopra le teste».
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Dossier trubert
Il signore delle beffe Un altro furfante matricolato, per molti tratti simile al malvissuto Renart, è il protagonista di Trubert, un romanzo scritto alla metà del XIII secolo da un tal Douin de Lavesne che ha ampiamente attinto, oltre che al Renart, alla tradizione folclorica della fiaba d’inganno e al repertorio dei fabliaux: tipico esempio di quel bricolage intellettuale che spesso caratterizza la letteratura tardo-medievale. Trubert, un villano squattrinato, quasi un picaro ante litteram, a forza di trucchi e travestimenti riesce a perpetrare tiri atroci ai danni del duca di Borgogna: s’infila al suo posto nel letto coniugale, lasciando l’ignara duchessa sbalordita per l’inusitata esplosione di virilità; camuffato da medico si offre di curarlo, e invece lo riempie di bastonate dopo averlo cosparso di sterco di cane millantato come unguento prodigioso, e cosí via. La sua beffa piú innocua ricorda i temi prediletti da Audigier: travestito stavolta da mastro carpentiere, il briccone è riuscito a farsi invitare a un sontuoso pranzo nel castello ducale ed è seduto vicino ad Alda, la damigella della duchessa. Al momento di lasciar la tavola, ecco l’imprevisto: «Trubert molla un peto cosí grosso / che tutti e tutte lo sentirono. / I cavalieri ne son molto irritati, /ma non sanno chi l’ha fatto; / non ce n’è uno che non provi vergogna / e anche il duca ne fu contrariato. / Trubert tocca col piede / la damigella e le dice: / “Donzella, che Dio m’aiuti, / quel che avete fatto è un’onta per tutti noi!” / Lei gli monta sul piede, / per fargli cenno di tacere. / “Donzella, per San Gervasio”, / dice Trubert, “non è il caso; / dovessero tagliarmelo, ‘sto piede, / dirò tutta la verità”». La damigella nega, Trubert insiste: alla fine l’educata fanciulla lascia signorilmente cadere la questione. Il villanzone cinico e bugiardo ha colpito ancora.
Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
Miniatura raffigurante un banchetto presso la dama di Machaut, da un’edizione del Remède de Fortune di Guillaume de Machaut. 1350-1355. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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In basso la conquista di Gerusalemme da parte di Carlo Magno, in una tavola ottocentesca realizzata sulla base di una miniatura quattrocentesca, da Science and literature in the Middle Ages and the Renaissance (Londra, 1878).
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ce dell’ultima cena, la scodella e il coltello usati da Gesú; in omaggio supplementare, qualche pelo della barba di san Pietro e una ciocca dei suoi capelli), il corteo francese arriva a Costantinopoli e viene ospitato nella dimora imperiale. Il palazzo lascia tutti sbalorditi: non solo per le cento colonne di marmo, gli intarsi di pietre preziose, gli splendidi dipinti, i mobili tutti d’oro, ma perché ha la straordinaria prerogativa di ruotare su se stesso a ogni colpo di vento, mettendo in moto un meccanismo di putti cesellati in bronzo che suonano corni d’avorio. Dopo una lauta cena, i Francesi si ritirano nella loro camera; e qui, sotto l’effetto delle abbondanti bevute, comincia la serie delle spacconate. L’episodio ricalca un’usanza tipica dell’antica tradizione conviviale germanica. Consumate le vivande, si faceva circolare un corno pieno di birra che passava di mano in mano: chi lo riceveva doveva alzarsi in piedi e tracannarlo, dopo aver formulato una sorta di voto in cui s’impegnava a compiere un’impresa eccezionale. La relazione tra la promessa solenne dei Vichinghi e le millanterie (gabs) dei nostri eroi è dunque piú
che probabile. Per primo pronuncia il suo vanto l’imperatore: se il re Ugo il Forte gli presta la sua spada, qualunque guerriero osi farsi avanti, indossi pure due corazze e due elmi, sarà spaccato in due con armatura, sella e cavallo compresi, e la spada si conficcherà nella terra tanto che nessuno potrà estrarla senza scavare intorno per l’altezza d’una lancia. Ed è la volta di Rolando: cosí forte soffierò nel mio corno, proclama il paladino, che sbatteranno persino le porte d’acciaio e al re Ugo volerà via la pelliccia d’ermellino. Nel gab di Rolando non poteva mancare l’olifante, il corno legato al tragico epilogo di Roncisvalle: la conservazione, nel rovesciamento grottesco, dell’oggetto o della situazione legati al personaggio appartiene a un’antica tradizione parodica mediolatina.
Un banchetto bizzarro
Analoghe strategie umoristiche connotano la Coena Cypriani, un testo scritto tra il V e il VII secolo e falsamente attribuito a Cipriano di Cartagine (una parafrasi quasi integrale è ne Il nome della rosa, nella descrizione del sogno di Adso). La Coena presenta i per-
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Dossier Miniatura raffigurante l’erezione di una tenda in un accampamento di soldati, da un’edizione della Chanson d’Aspremont (una delle versioni della Leggenda di Orlando). 1240-1250 circa. Londra, The Briths Library.
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In alto l’olifante di Carlo Magno: il corno in avorio si data all’VIII sec., mentre il fodero risale al X-XI sec. Aquisgrana, Museo del Tesoro del Duomo.
sonaggi dell’Antico e del Nuovo Testamento come convitati di uno stravagante banchetto, ognuno nella propria mansio (la scena fissa del teatro medievale) allestita secondo le indicazioni della Scrittura, rivisitata in chiave burlesca: Zaccheo, il pubblicano piccolo di statura che salí su un sicomoro per veder meglio Gesú, è appollaiato su un albero, Pietro naturalmente siede in cattedra, Sansone se ne sta su una colonna, Isacco sull’altare del suo mancato sacrificio, e il povero Giobbe è in disparte sullo sterco, in memoria del biblico letamaio. Ma vediamo il seguito delle vanterie. Gli altri undici paladini non sono da meno di Rolando: è una bella gara a chi la spara piú grossa. Guglielmo d’Orange opta per una specie di bowling: con una mano sola prenderà un’enorme sfera d’oro e d’argento, che trenta uomini non riuscirebbero a smuovere, e la farà rotolare per il palazzo, devastando un bel po’ di muri. Uggieri il Danese giura che riuscirà a spezzare, con la sola forza delle braccia, il gigantesco pilastro gire-
vole su cui poggia il palazzo, che crollerà miseramente. Berengario sceglie una performance da fachiro e si dice pronto a lanciarsi da una torre su una selva di spade infisse nel terreno con la punta all’insú senza riportare neanche un graffio; e cosí via. Nella classifica del ridicolo, il primato spetta all’austero arcivescovo Turpino, che si ricicla in giocoliere e acrobata circense: salterà in corsa su uno di tre cavalli lanciati al galoppo, e nello stesso tempo farà roteare in aria quattro grosse mele: «Se una mela mi scappa o mi cade di mano, / Carlomagno mi cavi gli occhi». Il gab piú scandaloso è quello di Olivieri. Proprio lui, il prode che incarna la saggezza e la misura, s’inventa una smargiassata degna di Guglielmo IX: «Il re prenda sua figlia, che bionda ha la chioma, / ci metta nella sua camera in un letto e ci lasci in pace: / se io stanotte – lei ne sia testimone – non me la faccio cento volte, / mi si tagli la testa: questa è la mia scommessa». Con l’aiuto di Dio, che nell’occasione non disdegna d’intervenire in materia tanto futile o addirittura peccaminosa, tutti i vanti si realizzano: Ugo il Forte diventa vassallo di Carlo Magno, i Francesi tornano in patria e l’imperatore perdona alla moglie la gaffe da cui la storia ha preso avvio.
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Dossier Miniatura raffigurante Giuseppe e la moglie di Putifarre, dalla Bibbia di Toggenburg. 1411 circa. Berlino, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett. L’episodio, narrato nella Genesi, vede il giovane Giuseppe – celebrato come simbolo di castità – opporsi alle profferte amorose della moglie di Putifarre, che lo accusa poi davanti al marito di averla importunata. Una sorta di rovesciamento viene proposto da Raimon de Durfort quando racconta la vicenda di Aina, che, cedendo alle profferte del cavaliere Bernat de Cornilh, avanza richieste di prestazioni sessuali, rifiutate dal cavaliere. Il comportamento di quest’ultimo è oggetto di scherno da parte dell’autore.
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CAVALIERI ALLA BERLINA S
opravvissuta in un’unica redazione tardo-duecentesca, ma già nota a testi del XII secolo e ampiamente citata nella letteratura francese antica (anzi, le allusioni reperibili in ambito occitanico provano che il successo oltrepassò i confini d’oïl), la chanson de geste parodistica di cui è protagonista il buffo antieroe Audigier stupisce per la sua oltranza stercoraria. Audigier è figlio del non meno ridicolo Turgibus, giunto a Cocuce dalla Lombardia (terra proverbiale nel Medioevo per la sua prosperità, ma anche come patria di codardi, sia per l’ovvio motivo che chi svolge lucrose attività e gode di un certo benessere non ama il rischio, sia per banali esigenze di rima: «codardo: lombardo»). Cocuce, «un paese molle / dove la gente è nella merda fino al collo», è la desolata capitale d’un mondo alla rovescia, una specie di paese di Cuccagna all’incontrario. Tra cibi repellenti, vesti sporche e stracciate, armi arrugginite, cerimonie miserabili, l’unico elemento di cui non c’è penuria è lo sterco: usato come cibo (il padre di Audigier «ficca i diti nella merda e poi li ciuccia»), come bevanda (in mancanza di gazzosa, si sorbiscono gas intestinali: «Suvvia, bevete» dice al marito donna Rainberge, «che sto facendo peti: / per tutti i piatti avrete da bere in abbondanza, / ché ho il ventre peno di vento puzzolente»), come condimento. Al banchetto nuziale dei genitori di Audigier, il piatto forte è costituito da quattro corvi stantii, insaporiti in merda di vacca. Passano gli anni, ma non cambiano le abitudini alimentari: il matrimonio di Audigier è festeggiato con scorpacciate di ratti, e nel menú non manca un delizioso sughetto aromatizzato alla cacca di gallina. Gli escrementi sono anche dono nuziale: Turgibus, a suo tempo, aveva offerto alla consorte appena impalmata quindici stronzi di cane,
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e lei aveva ricambiato con quattro fragranti loffe. Altrettanto generosa l’offerta per il celebrante: la sposa gli porta una manciata di sterco e poi lo innaffia di pipí, magnificandone le virtú terapeutiche.
Simbolo di vita
Al di là dell’intento comico, emerge qui una bivalenza che attraversa l’intero testo. Lo sterco, in quanto putrefazione, è associato alla morte: Turgibus spira difatti su un letamaio, seppellito da cacate di mosca (nel mondo alla rovescia, anche le dimensioni sono invertite). Ma, in quanto fertilizzante, l’escremento è anche simbolo di vita: non per nulla Audigier nasce in un porcile, dove sua madre era andata a partorire, attratta dal calore del letame. Il rito del battesimo è congruo all’ambiente: il prete che dovrebbe amministrare il sacramento, costretto suo malgrado ad abbandonare piú gratificanti occupazioni (le madrine, arrivando col neonato, lo avevano trovato «che davanti alla
L’alternanza di serio e comico trovava legittimazione nell’Ecclesiaste (3,4): «C’è un tempo per piangere e un tempo per ridere». Talvolta, però, il limite tra sacro e profano si faceva evanescente: il gioco invadeva l’ufficialità, il testo serio veniva irriso da un controtesto costruito su motivi osceni o escrementizi, come in questa scena di defecazione rappresentata nel margine di un Libro d’Ore conservato a Cambridge, presso il Trinity College.
chiesa si spidocchiava / e con la mano destra il culo si grattava»), la tira per le lunghe e le brave donne, stufe di aspettare, organizzano una cerimonia autogestita, con immersione dell’infante in acque luride. Anche per Audigier, cresciuto a uova fradice e cipolle marce, arriva il giorno piú solenne nella vita di un aspirante cavaliere, quello dell’investitura; che avviene, come c’era da aspettarsi, sul fatidico letamaio. La procedura segue il rituale dell’adoubement, con tanto di consegna delle armi e del cavallo, solo che elmo e spada sono ferrivecchi da rottama-
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Dossier A sinistra vignetta raffigurante un ibridomostro bifronte che suona una cornamusa e un corno con le estremità, dal Salterio Luttrell. 1325-1335. Londra, The British Library. Il termine corn (corno) veniva utilizzato per indicare l’organo sessuale femminile, del quale venivano spesso date orripilanti descrizioni, e con il verbo cornar (che significa «suonare il corno», ma anche «bere») si indicava quindi l’atto sessuale.
zione, il destriero è un ronzino scheletrito che a malapena si regge sulle zampe: l’esatto contrario dei capolavori d’arte metallurgica e degli splendidi purosangue descritti, con dovizia di particolari mirabolanti, dagli autori antichi e medievali. E proprio sul letamaio, ombelico di Cocuce, l’orrida megera Grinberge lancia la sua oscena provocazione al neocavaliere, scoprendosi le vergogne e andando a defecare in mezzo alle danze aperte per festeggiare l’evento. Audigier, indignato, raccoglie la sfida: ne segue una serie di duri scontri, versione ridicola dei tanti duelli cavallereschi che affollano le chansons de geste e i romanzi arturiani. Il giovane ha regolarmente la peggio; anzi, al secondo assalto il malcapitato finisce addirittura nelle fauci di Grinberge, che lo ingoia in un sol boccone e poi lo espelle per via anale. Al termine di ogni singolar tenzone, lo scotto da pagare all’implacabile avversaria è il piú infamante e disgustoso: il bacio del deretano, che oltretutto, a differenza del corn di madama Aina, non brilla per pulizia, tanto che lo stesso Audigier de-
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ve provvedere, mediante il contatto orale, alla rimozione delle scorie. Al bacio sulla bocca, che nella società feudale suggella il rapporto di vassallaggio ed è il gesto simbolico per eccellenza – espressione insieme di devozione, fedeltà, affetto, pacificazione –, corrisponde il bacio «inverso» sull’opposto orifizio. Non a caso, le streghe verranno accusate di tributare a Satana lo stesso turpe omaggio quando, tra memorie di mitologie arcaiche, farneticazioni di menti deboli, delazioni maligne e confessioni estorte dagli inquisitori, prenderà corpo la liturgia diabolica del sabba.
Le nozze, finalmente!
Alla fine, però, Audigier ha uno scatto d’orgoglio e grida alla nemica che per l’ennesima volta gli ha piazzato sulla faccia il lercio deretano: «Leva di qui, vecchia schifosa, il tuo buco nero!». Grinberge ride e la situazione d’improvviso si risolve: Audigier può tornarsene a casa dove la madre gli ha trovato una fidanzata degna di lui: «Ha unghie piú lunghe d’un becco di gazza, / non si lavò le mani un giorno in tutta la sua vita / e il sol-
co tra le chiappe non l’ebbe mai pulito». Audigier ne rimane entusiasta e di lí a poco si celebrano le nozze, col prevedibile banchetto a base di cibi ripugnanti e addobbi adeguati: «In luogo d’erbe odorose e di pimenti / la casa fu cosparsa di stronzi di gente». Volgarità a parte, come si diceva, il testo è interessante per la pluralità di percorsi che si aprono a una lettura non superficiale. Intanto c’è un’ottima conoscenza dei modelli seri (per esempio, dello stile formulare della chanson de geste); ma, soprattutto, sotto la scorza della parodia, s’intravede una fitta trama di motivi folclorici che delineano una sorta di mitologia arcaica. Grinberge ricorda da vicino la baba-jaga, la maga della foresta (personaggio tipico della fiaba russa), che, come lei, è vecchia, aggressiva e crudele nei confronti dei ragazzini che cadono nelle sue grinfie (ma che, al pari di Audigier, dopo vessazioni e torture tornano a casa sani e salvi), un po’ strega e un po’ orchessa, non priva di aspetti comici. E se la maga russa è signora degli animali, anche Grinberge, madre di figlie con eviluglio
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denti tratti zoomorfi, è una specie di donna-animale. Il noto folclorista russo Vladimir Jakovlevic Propp (1895-1970) ha dimostrato che dietro il sadismo in apparenza gratuito della baba-jaga si cela la memoria delle cerimonie d’iniziazione che nelle antiche società di cacciatori – e fino ai giorni nostri nelle culture «primitive» – segnavano il passaggio dall’infanzia all’età
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adulta, da uno status marginale a quello di membro effettivo della comunità. Dal momento che l’esistenza del cacciatore dipende da quella della selvaggina, è naturale che al rito presieda la signora degli animali, «padrona» anche della vita dell’iniziando. Il momento cruciale consisteva nel sottoporre il neofita a un’esperienza traumatica, a una morte simbolica, come il passaggio
Il pannello centrale del Giardino delle Delizie, olio su tavola Hieronymus Bosch. 1490-1500. Madrid, Museo del Prado. I «mostri» creati dall’artista fiammingo sono frutto della deformazione e commistione di parti anatomiche umane e animali e di oggetti. Essi popolano un mondo visto come dominio del demoniaco, che provoca nell’osservatore ripugnanza, suscitandone la condanna morale.
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Dossier L’arciprete e la montanara Ritroviamo il tema della lotta con la femmina mostruosa, centrale in Audigier, in un testo di tutt’altro stampo, lo spagnolo Libro de buen amor, scritto da Juan Ruiz, arciprete di Hita, poco prima della metà del XIV secolo: esempio quant’altri mai sconcertante, ai nostri occhi, di commistione tra sacro e profano (anzi: empietà e devozione), dottrina e burla. Parodiando un genere letterario diffuso, la pastorella (un cavaliere s’imbatte in una bella fanciulla rurale, la invita a far l’amore e quasi sempre, con la persuasione o con la forza, ottiene ciò che vuole), l’autore descrive i suoi incontri, su impervi valichi di montagna, con orrende guardiane di vacche che gli si parano davanti minacciose. L’avventura ha poi un lieto fine, e la lotta iniziale si trasforma in un corpo a corpo palesemente erotico. Ma Juan Ruiz, avvertendo il lettore che il suo componimento sull’irsuta mandriana (le cui grazie sono minuziosamente descritte: testone fuori misura, orecchie asinine, denti enormi, poppe ballerine che le arrivano ai fianchi) non è forse un capolavoro, aggiunge un monito enigmatico: «Finché non avrai inteso il significato del libro, non dirne né bene né male; / ché tu capirai una cosa, e invece il libro ne dice un’altra». Cosí, anche l’episodio della montanara (serrana) si apre a piú livelli di significazione e sollecita interpretazioni diverse, com’è tipico del testo medievale, frutto di una cultura fondata sulla dialettica e sul gioco sottile di «alto» e «basso», che s’intersecano, si sovrappongono e spesso si scambiano le parti. Forse la virago dell’Arciprete non è che la versione grottesca della donna ostile che nei trovatori e negli stilnovisti rappresenta la durezza della conquista del sapere, o il rapporto di lotta e d’amore con la materia-lingua tanto difficile da plasmare. Un’immagine che riappare, un po’ a sorpresa, nei bei versi di un poeta brasiliano contemporaneo: «Lottar con le parole / è la lotta piú vana… / Insisto, solerte. / Cerco di persuaderle. / Sarò per loro uno schiavo / di rara umiltà… / Senza ascoltarmi scivolano via, / leggerissime mi sfiorano / e voltano la faccia. / Lottar con le parole pare senza frutto. / Non hanno carne né sangue / E intanto, lotto. / …e un amore sapiente / m’insegna a gustare / di ogni parola / l’essenza captata, / il gemito sottile…». (Carlos Drummond de Andrade [1902-1987], Il Lottatore).
Studio di pastorella inginocchiata con ciotola di latte e capretta in piedi, olio su carta foderata in tela di Francesco Londonio. 1750-1760 circa. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.
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In alto la Lussuria, rappresentata come una fanciulla che bacia una creatura mostruosa, incisione Pieter Bruegel il Vecchio facente parte della serie dei Sette Vizi capitali. 1558. Londra, The British Museum.
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attraverso le viscere di un mostro variamente rappresentato: il giovane doveva morire alla condizione infantile per rinascere uomo. Esattamente come accade al nostro Audigier che, inghiottito da Grinberge e subito ri-partorito, torna in famiglia pronto per il matrimonio e per la sovranità di Cocuce. La megera che prima uccide e poi ridà la vita partecipa dunque della bipolarità morte/vita connessa all’onnipresente letame, pretesto di buffonerie giullaresche, ma, nello stesso tempo, metafora del ciclo vitale. E c’è un dato ancora piú importante. Già Propp aveva additato la
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parentela tra le donne-animali come la baba-jaga (e come Grinberge) e certe divinità dell’Olimpo grecoromano, dalla dea madre Cibele ad Artemide/Diana, la vergine abitatrice delle selve e signora degli animali.
Un archetipo comune
Intorno a figure consimili, variamente denominate (Diana, Hera, dame Abonde, ecc.), ma tutte riconducibili a un archetipo celtico di deamadre legata al mondo dei morti, si aggrega un insieme di superstizioni, documentate in Europa fin dagli inizi del X secolo, tra cui spicca la credenza nel volo notturno femminile:
una cavalcata aerea a dorso degli animali piú disparati e sempre al seguito dell’entità suddetta, quella dea funeraria che è anche dispensatrice di prosperità e di sapienza, proprio perché il segreto della vita – del suo eterno ritorno dopo la morte apparente – è custodito nell’aldilà, e vi si può accedere solo attraverso una morte temporanea. Considerata all’inizio solo una fantasticheria di donnette visionarie, questa mitologia popolare, relitto di preistorici culti estatici, sarà piú tardi trasformata in sabba diabolico da una progressiva, pervicace demonizzazione, con le atroci con-
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Dossier A destra una baba-jaga, strega della tradizione slava, in un disegno di Ivan Yakovlevich Bilibin. Mosca, Goznak Society. Nella pagina accanto Linda maestra! (Bella maestra!), acquaforte di Francisco Goya dalla serie Los Caprichos. 1797-1799. Milano, Civica Raccolta delle Stampe «Achille Bertarelli».
Donne terribili
Attenti alla vecchia! Nell’epopea burlesca di Audigier c’è un passo singolare. In una delle ripetute zuffe tra Audigier e Grinberge, l’eroe (si fa per dire) è riverso sul solito letamaio, e su di lui sta la vecchiaccia, impegnata in ambigui sfregamenti. Si tratta di lotta o di rapporto sessuale? L’amplesso con una femmina orrenda evoca un tema ben noto alla tradizione celtica, variamente rielaborato negli antichi poemi, ma, in sostanza, riconducibile a un unico schema. Alcuni giovani di stirpe reale incontrano una donna d’aspetto raccapricciante; la megera chiede che uno
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di loro dorma con lei (nella versione castigata, la richiesta si limita a una bacio), altrimenti li divorerà (anche qui esiste la variante attenuata, in cui la vecchia, per esempio, si limita a impedire l’accesso alla fonte). La minaccia cannibalesca svela subito l’affinità con Grinberge divoratrice di Audigier e con la maga-orchessa delle fiabe russe. Solo uno dei giovani riesce a superare la prova: effettuata la prestazione, l’orrida vecchia si trasforma in una splendida fanciulla che porta in dote la sovranità sull’Irlanda. luglio
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seguenze che conosciamo: la caccia alle streghe, le torture, i roghi. Accade insomma nella realtà quello che già era successo nella fiaba: quando alle tribú dei cacciatori subentrarono le comunità degli agricoltori, osserva Propp a conclusione della sua analisi del personaggio baba-jaga, la religione «silvestre» smarrí i suoi significati occulti e si trasformò in superstizione diabolica; la madre e signora degli animali divenne una strega che rapisce i bambini per divorarli realmente, non simbolicamente. E allora la strega che bruciava i bambini fu bruciata a sua volta dal favoleggiatore, mentre il sacro e il terribile del rituale scomparso si persero nella contraffazione grottesca: come avviene in Audigier, ove le memorie ancestrali sono seppellite nella scurrilità. Le sterminate ricerche sul nucleo primigenio del sabba – il volo notturno femminile – che hanno condotto Carlo Ginzburg alla scoperta di analoghe credenze presso i cacciatori siberiani, gli sciamani e i nomadi delle steppe, lasciano aperti molti interrogativi sulla trasmissione di questo patrimonio folclorico attraverso spazi tanto vasti. Si è anche avanzato il dubbio di analogie sopravvalutate, di convergenze casuali arbitrariamente riferi-
La presumibile forma originaria del mito, trasfigurazione di un rito primitivo, è registrata dallo scandalizzato Girardo Cambrense (o di Barri, 1147-1223) nella sua Topographia Hibernica (1188): «Nel Cenél Conaill, all’estremo settentrionale dell’Ulster, c’è una popolazione che conserva l’usanza di eleggere i re con un rituale particolarmente barbarico e abominevole. Tutta la popolazione della regione viene riunita in un unico luogo e in mezzo all’assemblea si conduce una giumenta bianca. Allora colui che deve essere elevato al rango non di principe ma di animale, non di re ma di malfattore, ha, di fronte a tutti, un rapporto bestiale, mostrando cosí d’esser bestia lui stesso. Subito dopo la giumenta è
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uccisa, fatta a pezzi e lessata; con l’acqua di cottura si prepara un bagno in cui quell’uomo s’immerge… Concluso tutto questo, la sua autorità regale è ritualmente – non certo rettamente – consacrata». Non è difficile vedere nella figura della vecchia un simbolo della Terra, dal cui possesso discende la sovranità, anche se l’archetipo bestiale e l’anello intermedio costituito dalle donne-animali come Grinberge e la baba-jaga rinviano a uno stadio piú remoto, quello delle tribú dei cacciatori, e a un rito d’iniziazione che, fondato sulla credenza che il potere sugli animali si trasmetta attraverso il possesso dell’animale, doveva consistere in un coito ferino.
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Dossier
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In alto Walpurgisnacht (Notte di Santa Valpurga o Strega cavalcante un demone), incisione di Albrecht Dürer. XV sec. A sinistra il sabba delle streghe in una incisione di Adrianus Hubertus. XVI sec. Al centro, il calderone con la pozione fumante sulla quale arriva volando una strega a cavallo del caprone e altre due a cavallo della classica scopa.
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te a un sistema mitologico unitario. Ma l’affinità evidente tra la maga russa e Grinberge è testimonianza effettiva, e non congetturale, dei contatti tra civiltà remote. Anzi, Grinberge rappresenta l’anello mancante tra l’arcaica madre degli animali e le piú recenti dee madri, con le quali condivide la sovranità su un sinistro drappello di decrepite accolite: state attento, non insistete con le minacce – dice ad Audigier un tale che la conosce bene – «ché se lei grida aiuto, immantinente / ne verran qui, di vecchie, piú di cento. / Credo che la piú giovane d’anni n’abbia almeno cento, / e non c’è una fra loro ch’abbia in bocca un dente». Vecchie/ morte, vecchie volanti al seguito della loro entità-guida? La parodia stercoraria ci ha forse conservato anche un prezioso frammento di preistoria del sabba.
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Pagine di un certo peso
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LIBRI • Pomi di spade che perdono la loro
connotazione guerresca e si trasformano in accessori indispensabili per vendere frutta e verdura... Può riassumersi cosí, un po’ scherzosamente, la storia di una particolare categoria di romani da stadera
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immagine di un venditore che pesa la propria mercanzia con una stadera è ormai fissata solo nel ricordo dei meno giovani, eppure quello strumento di misurazione è stato, per secoli, una presenza costante, tanto da avere lasciato, anche archeologicamente, numerose tracce della sua esistenza. Non stupisce, quindi, che a Campogalliano (Modena) esista un Museo della Bilancia, al quale si deve ora la pubblicazione di questo ricco volume. Prendendo le mosse da alcune importanti collezioni private, 5 l’opera passa in rassegna una categoria assai particolare,
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In alto e in basso, a destra pomi di spada trasformati in romani: 1. del tipo «a tino», con un elemento in argento decorato con una sorta di raggiera (Europa, fine del XVI-metà del XVII sec.): 2. con rosetta rilevata e cerchi concentrici (Italia, fine del XV-metà del XVI sec.); 3. con decorazione a foglie d’acanto (Europa, seconda metà del XVI sec.).
Lia Apparuti e Maurizio Salvarani (a cura di) Spade e stadere. 100 romani di diverso gusto e provenienza Museo della Bilancia-Editore Libra 93, Campogalliano (MO), 528 pp., ill. col. 65,00 euro ISBN 978-88-86143-27-1 www.museodellabilancia.it
vale a dire quella dei romani da stadera (termine che indica il peso fatto scorrere lungo il braccio dello strumento, al fine di misurare la quantità del materiale posto nel piatto), puntando l’attenzione soprattutto su quelli ricavati da pomi di spada. Non si tratta, tuttavia, di un semplice catalogo, poiché il libro si apre con una serie di saggi che introducono il lettore all’argomento, mettendo a sua disposizione
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A sinistra 4. romano in ferro con la rappresentazione dell’albero della vita (Europa, XVIII sec.); 5. romano in ferro con motivo decorativo che evoca un fiore (Europa, 1670); 6. romano di stadera in ferro con l’iscrizione IHS sormontata da una croce (Europa, XVIII sec.). luglio
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Lo scaffale Giovan Grisostomo Trombelli Arte di conoscere l’età dei codici latini e italiani prefazione ed edizione critica a cura di Luca Salvatelli,
GBE-Ginevra Bentivoglio EditoriA, Roma, 160 pp.
36,00 euro ISBN 978-88-31347-11-2 www.gbeditoria.it
Nel 1756 l’erudito abate Giovan Crisostomo Trombelli (1697-1784), bibliofilo e figura chiave del collezionismo librario bolognese e italiano del Settecento, dà alle stampe a Bologna un agile volumetto codicologico e paleografico, l’Arte di conoscere
l’età dei codici latini, e italiani, per i tipi di Girolamo Corciolani, ed Eredi. Il manuale, dalla genuina natura didattico-didascalica, è redatto sulla scorta delle precedenti riflessioni delle auctoritates della paleografia latina e greca – quali i padri benedettini Jean Mabillon (1632-1707) e Bernard De Montfaucon (1655-1741) –, nonché sull’analisi autoptica di molteplici fonti librarie, manoscritte, archivistiche, ed è principalmente volto a indagare, conoscere l’età dei codici, e a tracciare una concisa, ma densa storia dei differenti supporti e della scrittura dall’evo antico sino alla fine del XV secolo. Proprio tale concisione, chiarezza e limpidezza espositiva contribuiranno alla discreta fortuna
considerazioni di carattere storico, tecnico ed etimologico.
Specchio di un’epoca Proprio quest’ultimo è l’aspetto scelto per l’esordio e, se è vero che le parole sono importanti, è significativo percorrere il viaggio terminologico che ha condotto all’affermazione della denominazione tuttora piú diffusa, appunto quella di
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e diffusione in ambito italiano ed europeo del trattato, variamente riedito, riveduto e ampliato dallo stesso autore. Nell’edizione odierna si è optato per l’editio princeps del 1756, cercando di rimanere il piú aderente possibile all’originale settecentesco, corredando, al tempo stesso, il volume di una breve Prefazione di inquadramento storico-critico, e il dettato del trattato di un moderno ampio Apparato di note ad approfondimento, integrazione e affiancamento di quello sintetico, già originariamente presente. (red.) Arsenio Frugoni La storia, coscienza di civiltà con uno scritto di Chiara
Frugoni, Scholé, Brescia, 96 pp.
10,00 euro ISBN 9788828401261 www.morcelliana.net
In questo piccolo libro sono racchiuse le riflessioni – aggiornate alle piú recenti vicende storicoepidemiologiche che hanno coinvolto ognuno di noi – di due studiosi del Medioevo, Arsenio Frugoni (1914-1970), uno dei piú importanti storici italiani del Novecento, e la figlia Chiara. In un ideale dialogo intergenerazionale, concentrato in una novantina di pagine intense e di appassionante qualità letteraria, riemergono i grandi interrogativi sul significato – etico, morale e politico – della ricerca
«romano». Segue un approfondito inquadramento storico, a riprova di quanto anche oggetti all’apparenza minori o marginali possano invece possedere un significativo valore documentario ed essere specchio di un’epoca. Il catalogo vero e proprio, sostenuto da un corredo iconografico eccellente, svela un autentico mondo e colpisce la varietà delle soluzioni formali e delle
storiografica, del ruolo stesso svolto dallo storico all’interno del consesso civile e umano. «Perché e come studiare la storia?» si interroga Chiara Frugoni, curatrice del volume, nell’introduzione ai capitoli scritti e pubblicati, per la prima volta agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso, dal padre Arsenio, e dedicati, rispettivamente, alla Storia del mondo antico, del Medioevo, del Rinascimento, dell’Illuminismo, del Romanticismo e del Positivismo. Pagine che ci suggeriscono come «l’incontro con la storia» rappresenti l’occasione per gli uomini di «capire se stessi» e anche di misurare quanto siano «disposti a pagare per capire, serenamente, gli altri uomini». Andreas M. Steiner
sintassi decorative, che, in molti casi, pur essendo opera di artigiani attivi in epoca moderna, recuperano modelli ben piú antichi e spesso medievali, come nel caso del romano messo giustamente a confronto con gli scacchi eburnei di Lewis. Si può insomma affermare che, grazie a Spade e stadere, si scopre una grande storia scritta da piccoli oggetti. Stefano Mammini
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L’IMPERO DEL GUSTO Nel mondo contemporaneo il cibo vive una sorta di schizofrenia: continua a essere per molti, forse per troppi, un bene difficile da conquistare, mentre per altri è entrato a pieno titolo fra gli aspetti della vita quotidiana a cui dedicare attenzioni quasi parossistiche. Al di là dei giudizi di merito, in epoca romana la situazione era assai diversa, se solo pensiamo che non esisteva, di fatto, la figura dello chef, almeno nell’accezione che gli viene oggi attribuita. Per la nuova Monografia di «Archeo» abbiamo chiamato a tratteggiare il profilo «alimentare» di Roma e del suo impero Umberto Livadiotti, che propone uno spaccato ampio e articolato, non limitandosi a descrivere quali fossero gli usi e i costumi dei Romani al momento di sedersi, o, meglio, sdraiarsi a tavola, ma esplorando le implicazioni politiche, sociali ed economiche della produzione, della gestione e della trasformazione dei beni forniti dalla terra, dal mare e dall’allevamento. Pane, vino e il celeberrimo garum, la salsa a base di pesce, sono dunque fra i protagonisti di una storia a tutto tondo e confermano come, da sempre, il cibo sia anche cultura.
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