MEDIOEVO n. 289 FEBBRAIO 2021
GU P ER AN RE D AL E CO M NT IE AG IO
EDIO VO M E www.medioevo.it
UN PASSATO DA RISCOPRIRE
MEDIOEVO NASCOSTO IL CASTELLO DI LETTERE
Mens. Anno 25 numero 289 Febbraio 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
UOMINI E SAPORI LA MILANO DI FRA BONVESIN UNA NUOVA GRANDE SERIE
OLTRE LO SGUARDO GUIDA AI SIGNIFICATI NASCOSTI NELL’ARTE MEDIEVALE DOSSIER
IL GIULLARE O DELL’IMPORTANZA DI FAR RIDERE IL RE
10289 9
771125
689005
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€ 5,90
BATTAGLIA DI RENSEN GUERRA ALLA PESTE ENOCH ED ELIA CHAMPAGNE CASTELLO DI LETTERE DOSSIER IL GIULLARE
FEBBRAIO 1244 L’OFFENSIVA DEI CAVALIERI TEUTONICI
IN EDICOLA IL 2 FEBBRAIO 2021
SOMMARIO
Febbraio 2021
ANTEPRIMA
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UN ANNO IN DIVINA COMPAGNIA Carlo, sovrano gentile di Federico Canaccini
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ARCHEOLOGIA La cripta delle sorprese
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APPUNTAMENTI Medioevo Oggi L’Agenda del Mese
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MUSEI Tesori ducali
di Stefano Mammini
54 CALEIDOSCOPIO STORIE, UOMINI E SAPORI La Milano di fra Bonvesin di Sergio G. Grasso
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STORIE BATTAGLIE Rensen Non c’è pace sulla Vistola
LIBRI Lo Scaffale
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di Federico Canaccini
PESTE La prevenzione Guerra al contagio
recensioni di Francesca Ceci, Gianpaolo Serone, Stefano Mammini
32
di Maria Paola Zanoboni
MUSICA Gran finale, ma non troppo di Franco Bruni
LUOGHI MEDIOEVO NASCOSTO
Campania, Castello di Lettere
Dall’assedio alla rinascita di Domenico Camardo e Mario Notomista
94
94 32 OLTRE LO SGUARDO/1 L’Apocalisse di san Giovanni
Lo sguardo dell’anima di Furio Cappelli
44
COSTUME E SOCIETÀ FIERE Champagne Mercanti in fiera
di Antonella Astorri, con contributi di Sergio Tognetti
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Dossier IL GIULLARE Buffoni di mestiere
di Domenico Sebastiani
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MEDIOEVO n. 289 FEBBRAIO 2021
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UN PASSATO DA RISCOPRIRE
MEDIOEVO NASCOSTO IL CASTELLO DI LETTERE
Mens. Anno 25 numero 289 Febbraio 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
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MEDIOEVO Anno XXV, n. 289 - febbraio 2021 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it
Hanno collaborato a questo numero: Antonella Astorri è dottore di ricerca in storia medievale. Franco Bruni è musicologo. Domenico Camardo è archeologo dell’Herculaneum Conservation Project. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Mario Notomista è archeologo dell’Herculaneum Conservation Project. Domenico Sebastiani è cultore di tradizioni e leggende medievali. Gianpaolo Serone è responsabile del settore editoriale di Archeoares. Sergio Tognetti è professore associato di storia medievale all’Università di Cagliari. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano. Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina (e p. 71) e pp. 24 (alto), 30, 32/33, 35, 36, 40, 48-49, 53 (basso), 54-69, 76, 87, 92/93, 110 – Mondadori Portfolio: Fototeca Gilardi: pp. 5, 36/37, 38/39, 85, 106; Album/ Quintlox: pp. 24/25 (sfondo); AKG Images: pp. 25, 72; Album/Oronoz: pp. 50-51; Album/The Metropolitan Museum of Art, NY: pp. 72/73, 78/79; AKG Images/ British Library: pp. 74-75, 77 (sinistra); Album/Coll. Jonas/Kharbine-Tapabor: p. 78; Album/National Gallery of Art, Washington DC: p. 80; Heritage Art/Heritage Images: p. 81; Electa/Bruno Balestrini: p. 82; United Artists/Album: 88; Fine Art Images/Heritage Images: pp. 88/89; Warner Bros/Courtesy Everett Collection: pp. 90/91 (alto); Archivio Giorgio Lotti/Giorgio Lotti: pp. 90/91 (basso); AKG Images/Pictures From History: pp. 107, 109, 111; Album/Prisma: pp. 108/109 – Cortesia Sacro Monte di Varese: G. Mesturini-R. Morelli: p. 6 (alto); pp. 6 (centro e basso), 7-8 – Cortesia Festival del Medioevo: pp. 9-10 – KBR Museum, Bruxelles: pp. 11-15 – Shutterstock: pp. 24 (basso), 26, 26/27, 28-29, 30/31, 34, 44-47, 52, 52/53 – Scala, Firenze: RMNGrand Palais (Musée du Louvre)/Daniel Arnaudet: p. 77 (destra) – Nicola Longobardi: pp. 94/95, 97, 98-103, 104 (sinistra), 105 – Cortesia degli autori: pp. 96, 104 (destra) – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 27. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.
Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano
In copertina Il giullare che ride, olio su tavola di ignoto pittore fiammingo. 1540 circa. Stoccolma, Nationalmuseum.
Prossimamente marzo 1311
La carneficina di Kephissos
protagonisti
Giovanni XXIII, l’antipapa che salvò la Chiesa
dossier
Un castello nel centro di Roma
dante alighieri, 1321-2021
Un anno in divina compagnia di Federico Canaccini
Carlo, sovrano gentile
N
el 1294 si sussegue una serie di eventi di un qualche peso nella vicenda biografica di Dante. In un momento imprecisato dell’anno «morí in Firenze uno valente cittadino il quale ebbe nome ser Brunetto Latini, il quale fu gran filosafo, e fue sommo maestro in rettorica, tanto in bene saper dire come in bene dittare». Si tratta del maestro del poeta, che ricorderà con affetto quando «mi prese per lo lembo e gridò: “Qual maraviglia!”» (Inferno, XV). Ma nel febbraio di quell’anno, in Firenze, fervono anche i preparativi per l’imminente arrivo di Carlo Martello d’Angiò: per l’occasione viene nominata una delegazione di cittadini fiorentini, a capo della quale viene posto Giano dei Cerchi, figlio di Vieri e coetaneo di Dante, accanto al quale aveva combattuto a Campaldino nel 1289. I commentatori sono unanimi nel ritenere che l’Alighieri
Dante ricorda il giovane sovrano nell’VIII canto del Paradiso e ne parla come di un intimo amico:
«(...) “Deh, chi siete?” fue la voce mia di grande affetto impressa».
La reazione del sovrano non è da meno, quando riconosce le fattezze dell’Alighieri: «E quanta e quale vid’o lei far piúe per allegrezza nova che s’accrebbe, quando parlai a l’allegrezze sue!». Il ricordo dell’affetto che Dante provò per il giovane angioino risiede nella esternazione dell’anima dello stesso Carlo Martello: «Assai m’amasti, e avesti ben onde; che s’io fossi giú stato, io ti mostrava di mio amor piú oltre che le fronde». E ancora: «Fatto m’hai lieto, e cosí mi fa chiaro, poi che, parlando, a dubitar m’hai mosso com’esser può, di dolce seme, amaro».
fu uno dei piú prossimi tra i delegati ad avvicinare Carlo, la prima figura politica di spicco che ebbe modo di conoscere personalmente. Al punto che, stando al testo della Commedia, l’incontro – benché fugace – sfociò in una particolare amicizia, forse epistolare, giacché Carlo Martello non tornò piú a Firenze.
Carlo Martello fu anche colui che si trovò a gestire la nomina, l’abdicazione e la cattura di Celestino V e non è impensabile che avesse rivelato al poeta fiorentino particolari inediti riguardo «il gran rifiuto», per via epistolare oppure in un secondo abboccamento a noi non documentato. Di contro, alcuni commentatori hanno ravvisato in questo affetto un escamotage poetico per delineare meglio il Cielo di Venere, esaltando la gentilezza di Carlo Martello, raro sovrano angioino dal «cuore tenero».
Vignette che illustrano l’VIII canto del Paradiso: a sinistra Dante Alighieri allo scrittoio e, a destra, la visione di Carlo Martello, cromolitografia da una serie di Egisto Sborgi Editore (Firenze, 1918). La scena è inquadrata in una cornice allegorica della Commedia.
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ANTE PRIMA
La cripta delle sorprese ARCHEOLOGIA • Scavi condotti negli ambienti ipogei del santuario di S. Maria,
perno del complesso del Sacro Monte di Varese, hanno rivelato una frequentazione assai piú lunga di quanto finora accertato, iniziata già in epoca romana
C’
è un luogo, in provincia di Varese, nel quale la ricerca archeologica continua a scrivere nuove pagine di storia: al Sacro Monte di Varese – patrimonio dell’Umanità dal 2003 – l’antica cripta del santuario è, infatti, oggetto di nuove indagini, avviate nel 2013 in occasione dei lavori di restauro per la sua riapertura al pubblico. Divenuta un ambiente ipogeo nel XII secolo, la cripta di S. Maria del Monte corrisponde alla parte presbiteriale di una chiesa costruita tra il IX e il X secolo. Non piú visitabile dal 1930 per problemi strutturali, nel 2015 è tornata nuovamente fruibile grazie a importanti interventi, che hanno anche restituito inaspettate novità archeologiche. Dirette da Barbara Grassi (Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Como, Lecco, Monza Brianza, Pavia, Sondrio e Varese) e condotte da Roberto Mella Pariani, le indagini hanno permesso di individuare, al di sotto del pavimento della cripta, i resti di un sacello riconducibili a una piccola chiesa absidata.
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Dida, niet qui odio quisquunt, soluptae? Pe moloressenim estis enduci quia nim sequi doluptu rescius eni optiur, quae
La forma dell’emiciclo e i frammenti di lastrine geometriche in marmo rinvenute nella stratigrafia permettono di datare i lacerti al V-VI secolo. La scoperta ricopre particolare importanza, in quanto attesta l’antichità del culto, che la tradizione farebbe risalire addirittura alla figura di sant’Ambrogio, il quale, nel 389 d.C., avrebbe qui sconfitto gli
In alto la Via Sacra del Sacro Monte di Varese, l’ampio viale acciottolato che porta al santuario di S. Maria. Qui sopra pianta dell’area indagata: in giallo, i resti del sacello databile al V-VI sec. A destra uno scorcio della cripta di S. Maria.
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eretici ariani, grazie all’intercessione di Maria. Ricordata nell’arte e anche nella toponomastica (nel borgo all’interno del monastero delle Romite Ambrosiane si trova una «Torre degli Ariani»), la vicenda non è ancora attestata a livello archeologico. Tuttavia, alcune testimonianze provenienti proprio dagli scavi della cripta provano che S. Maria del Monte era un luogo già frequentato in epoca romana.
Gradini di reimpiego Nelle adiacenze meridionali dell’antica chiesa, infatti, sono stati inaspettatamente riportati alla luce i resti di un oratorio funerario, di probabile epoca longobarda (VII-VIII
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In alto una stele centinata abrasa e frammenti di colonne romane reimpiegati come gradini d’accesso all’oratorio funerario di età longobarda. A destra frammenti di intonaco dipinto restituiti dallo scavo dell’oratorio, poi trasformato in cappella funeraria.
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ANTE PRIMA
In alto la tomba centrale della cappella funeraria, con lo scheletro del defunto. A sinistra tombe a loculo facenti parte di una piú antica area di necropoli.
secolo) e finora ignoto alle fonti. Reimpiegati come gradini di accesso a questo edificio, vi sono frammenti di colonne romane e una stele centinata abrasa nella parte iscritta. Dallo scavo provengono inoltre una moneta probabilmente databile alla prima età imperiale e numerosi laterizi di modulo romano. Le indagini condotte in questo vano attiguo alla cripta si sono rivelate interessanti anche per gettare nuova luce su una parte poco conosciuta della storia di S. Maria del Monte: l’epoca longobarda e carolingia. I risultati della ricerca sono stati presentati di recente e ci parlano di un edificio a destinazione cimiteriale, con abside forse quadrata e che riutilizza, in parte, loculi di una preesistente area di
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necropoli. L’oratorio venne poi ampliato in età carolingia (fine dell’VIII-IX secolo) e trasformato in una rilevante cappella funeraria con abside a emiciclo.
Le sepolture altomedievali A questa fase sono riferibili tre sepolture, originariamente ad arcosolio, che hanno restituito reperti con peculiari tracce patologiche o traumatiche. Dalla tomba centrale, in particolare, è stato recuperato lo scheletro di un individuo adulto che presentava i postumi di un probabile grave trauma al femore; il suo cranio fu inoltre trasferito sopra i piedi in un’antica e, solo parziale, profanazione della tomba. Dalla stratigrafia dell’edifico
provengono, poi, reperti rilevanti, che coprono l’intero arco cronologico altomedievale: catenelle per la sospensione devozionale di lucerne di vetro, pendenti in pasta vitrea, una crocetta argentea con motivi a intreccio punzonati, una crocetta bronzea punzonata tipo Tolosa, lamine geometriche in mica, frammenti di recipienti vitrei e di intonaco dipinto. Fondamentale per la datazione di questo edificio, è stata l’individuazione in una delle tre sepolture di una croce, dipinta a fasce alterne ocra e porpora sulla testata interna della sepoltura. L’analisi stilistica della croce ha permesso di datare l’insieme delle eminenti sepolture ad arcosolio tra la fine dell’VIII e il IX secolo. La ricerca archeologica è stata resa possibile nell’ambito del progetto «Sacro Monte di Varese: la Cripta del Santuario e la porta del Duomo, due patrimoni simboli di arte e fede», promosso dalla Parrocchia di S. Maria del Monte in partnership con la Veneranda Biblioteca Ambrosiana, all’interno del Bando di Regione Lombardia anno 2018 per la promozione di interventi di valorizzazione di aree archeologiche, siti iscritti o candidati alla lista UNESCO e itinerari culturali in Lombardia Artt. 17, 18 e 20 L.R. 25/2016. (red.) febbraio
MEDIOEVO
EDIOEVO MOGGI
S S
arà «Il tempo di Dante» il tema del VII Festival del Medioevo, in programma a Gubbio dal 22 al 26 settembre 2021. Storia e letteratura, intrecciate, nel racconto di cruciali vicende dell’età medievale, dal Duecento fino alla prima metà del Trecento. Lezioni di storia gratuite e aperte a tutti. Uno sguardo sul passato per provare a capire meglio le grandi questioni della società contemporanea. E per scoprire con occhi nuovi e senza pregiudizi un’epoca vilipesa e spesso liquidata in modo frettoloso attraverso stereotipi, frasi fatte e incredibili luoghi comuni. Protagonisti dell’evento, come ogni anno, saranno i maggiori storici italiani e europei, insieme a docenti
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In alto un’esibizione di sbandieratori in Piazza Grande, a Gubbio, in occasione di una delle passate edizioni del Festival del Medioevo.
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ANTE PRIMA Gubbio. Il Palazzo dei Consoli.
di letteratura, scrittori, saggisti, storici dell’arte, filosofi, scienziati, architetti e giornalisti. Un viaggio tra storia, arte e cultura, accompagnati dai versi e le opere in prosa del grande poeta. Papato e impero, guelfi e ghibellini, Bianchi e Neri. Bonifacio VIII e Arrigo VII. Francesco d’Assisi e Domenico di Guzman. Federico II, Manfredi, Pier Damiani e Tommaso d’Aquino. La cronaca politica e la vita intellettuale, dal Dolce Stil novo alla rivoluzione di Giotto, fino alla «invenzione» del Purgatorio. Un mondo in trasformazione, segnato dalle storiche battaglie della seconda metà del XIII secolo: «lo strazio e ‘l grande scempio che fece l’Arbia colorata in rosso» a Montaperti, la fine di Manfredi a Benevento, la disfatta di Corradino e il trionfo guelfo a Tagliacozzo, la feroce rivolta palermitana dei Vespri, il declino di Pisa nelle acque della Meloria e l’egemonia di Firenze in Toscana dopo lo scontro nella pianura di Campaldino. L’esplosione demografica e l’afflusso di nuove idee. Il potere delle Arti. I «subiti guadagni» e l’inarrestabile ascesa di nuove classi sociali. La nobiltà del cuore e quella del sangue. La corruzione della Chiesa e il primo Giubileo. E poi l’Italia, «giardin de lo ‘mperio» ma anche «nave sanza nocchiere in gran tempesta», dilaniata da lotte intestine, odi di partito e guerre permanenti: Genova e Venezia; le grandi famiglie e i minuscoli poteri; le signorie della Pianura Padana, gli Stati della Chiesa e le monarchie feudali di Napoli e della Sicilia. Su tutto, le parole e i versi scolpiti di Dante, l’esule che nel suo girovagare sperimenta «come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale». E gli immortali personaggi della Commedia, da Beatrice,
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donna reale e guida del poeta nei nove cieli del Paradiso al «dolcissimo patre» Virgilio fino a Ulisse, che con Dante ci ricorda ogni giorno la sfida della condizione umana: «Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza».
Un programma ricco e articolato Altri importanti appuntamenti arricchiscono i cinque giorni del Festival del Medioevo: la Fiera del libro medievale con tutto quello che c’è da leggere sul Medioevo, il focus sui medievalismi che descrive la ricezione, l’utilizzo e la rappresentazione postmedievale dell’età di Mezzo, tra film, saghe televisive, letterature, musiche, fumetti e videogiochi; Miniatori dal mondo, dedicato a miniaturisti e calligrafi e La scuola dei rievocatori, appuntamento pensato per valorizzare, attraverso l’analisi e la ricostruzione delle fonti storiche, l’appassionato lavoro di centinaia di associazioni e di migliaia di rievocatori che in ogni regione d’Italia fanno rivivere la storia e le tradizioni popolari dei loro territori. Il Festival del Medioevo offre anche mostre, eventi teatrali, recital, concerti di musica medievale, lezionispettacolo, laboratori di danza e visite guidate alla scoperta dell’Umbria medievale insieme a spazi particolari dedicati alla rievocazione storica, all’artigianato e agli antichi mestieri. Nelle precedenti edizioni la manifestazione ha affrontato «La nascita dell’Europa» (2015), «Europa e Islam» (2016), «La città» (2017), «Barbari. La scoperta degli altri» (2018), «Donne. L’altro volto della Storia» (2019) e «Mediterraneo. Il mare della Storia» (2020). (red.) febbraio
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Tesori ducali
MUSEI • I magnifici
In alto un particolare del nuovo allestimento del KBR Museum di Bruxelles. A sinistra l’ingresso della Biblioteca Reale, di cui il KBR Museum costituisce una «costola».
volumi commissionati e collezionati dai duchi di Borgogna sono divenuti il fiore all’occhiello del rinnovato allestimento della Biblioteca reale del Belgio, ora ribattezzata KBR Museum
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el XV secolo, la città di Bruxelles rientrava fra i possedimenti dei sovrani piú ricchi e potenti d’Europa: i duchi di Borgogna. Fini politici e colti mecenati, essi riunirono una collezione di manoscritti che andò a comporre la piú grande biblioteca del tempo. Un patrimonio che si può ora ammirare nelle sale del rinnovato allestimento del KBR
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Museum, reintitolato per l’occasione (l’acronimo KBR nasce dalla fusione della precedente denominazione in fiammingo, Koninklijke Bibliotheek, con quella in lingua francese, Bibliothèque royale). Il percorso espositivo ha inizio nella cinquecentesca Cappella di Nassau, che, grazie a installazioni multimediali, ricostruisce il contesto
storico e religioso in cui operarono i duchi di Borgogna, alla cui storia è dedicata la sezione successiva, offrendo in tal modo l’opportunità di scoprire il milieu culturale che fece da sfondo alla creazione della loro biblioteca. Il XV secolo fu per l’Europa un momento di cerniera fra il Medioevo e l’età moderna, una stagione segnata da contrasti
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ANTE PRIMA Temerario, e, cinque anni piú tardi, dell’erede di Maria di Borgogna: eventi luttuosi che fecero svanire il sogno borgognone e videro il ducato passare nelle mani degli Asburgo e poco dopo della Spagna.
Una terra ricca e fiorente In quegli anni i Paesi Bassi meridionali erano una delle aree maggiormente urbanizzate del Vecchio Mondo e i duchi di Borgogna poterono beneficiare di una straordinaria fioritura economica, traendo i loro massimi proventi dalle Fiandre, dal Brabante e dall’Olanda,
In alto miniatura di Jean Le Tavernier raffigurante Alessandro Magno, Annibale e Scipione l’Africano che si presentano al cospetto del re Minosse per sapere chi di loro sia il generale piú valente, da un’edizione dei Dialoghi di Luciano di Samosata. Dopo il 1450. e mutamenti importanti, nel corso della quale il ducato di Borgogna – nato nel X secolo – si affermò come uno Stato potente e prospero, sottraendosi al tentativo operato dal re di Francia Giovanni II di incorporarlo nei propri domini.
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Fra il 1384 e il 1477, grazie a un’accorta politica di alleanze matrimoniali e acquisizioni, a cui si unirono vari lasciti, Filippo l’Ardito, Giovanni Senza Paura, Filippo il Buono e Carlo il Temerario arrivarono a controllare numerose terre situate fra il regno francese e il Sacro Romano Impero. Una parabola che raggiunse il suo culmine con Filippo il Buono, la cui corte divenne la piú brillante d’Europa. Un’ascesa che s’interruppe però bruscamente nel 1477, all’indomani della tragica morte di suo figlio Carlo il
e città come Gand, Bruges, Anversa e Bruxelles, poli nevralgici del grande commercio internazionale, accoglievano numerose comunità di mercanti stranieri. La centralizzazione amministrativa e l’unificazione della moneta imposta dai duchi contribuirono allo sviluppo della regione, la cui ricchezza si basava sull’agricoltura e su una produzione artigianale di alto livello. Grazie alle grandi direttrici del commercio internazionale – marittimo, fluviale e per via di terra – affluivano in tutta Europa beni di febbraio
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vario genere, fra cui stoffe e tessuti prodotti negli atelier del Nord, nonché gioielli e oggetti in metallo realizzati nei laboratori della regione mosana. Pratiche che, nonostante la fine repentina del sogno borgognone, hanno lasciato un’eredità artistica di valore inestimabile. E l’arte della miniatura, piú di altre, fu espressione di questa straordinaria fioritura. Il mercato del libro divenne appannaggio dei maestri artigiani che cooperavano nelle città: scrittori, copisti, rilegatori e miniatori alimentarono una produzione di proporzioni eccezionali. Com’era
Qui sotto miniatura di Jean le Tavernier raffigurante l’inferno e i suoi supplizi, dal Traité des quatre dernières choses di Gérard de Vliederhoven. Dopo il 1455. In basso, a sinistra miniatura raffigurante un pellegrino che affronta l’Invidia, che si para davanti a lui portando sulla schiena i suoi figli, la Calunnia e il Tradimento, dai Pèlerinages di Guillaume de Digulleville. 1400 circa.
già accaduto in precedenza, i Libri d’Ore e i trattati sulla devozione o sulla morale continuarono a essere le opere piú diffuse, ma ampia e variegata fu anche la produzione di testi letterari. Pittori, miniatori e scultori non lavoravano isolati, ma alimentarono l’interazione fra ambiti e tecniche differenti, scambiandosi bozzetti, ispirandosi ai medesimi modelli, condividendo le idee, le visioni del mondo e i canoni secondo i quali rappresentarlo. Da François Villon a Christine de Pizan – passando per opere come le Roman
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ANTE PRIMA
In alto miniatura raffigurante una caccia al cervo, da un’edizione de Les Livres du roy Modus et de la royne Ratio di Henri de Ferrières. Bruxelles, 1450-1467. In basso miniatura di Willem Vrelant raffigurante la lotta fra il console Marco Attilio Regolo e l’animale fantastico, da un’edizione del De primo bello punico di Leonardo Bruni d’Arezzo. Prima del 1467.
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de la Rose o le Ystoires de Renard le goupil – la letteratura medievale si sviluppò in molteplici direzioni, affiancando gli scritti religiosi. Le opere che andavano allineandosi sugli scaffali delle biblioteche abbracciavano tutti i campi del sapere e del pensiero: storia antica, scienze, morale, filosofia, ma anche diritto, poesia, teatro o, ancora, secondo una tendenza
particolarmente rappresentata presso la corte di Borgogna, l’adattamento in prosa delle chanson de geste, le cronache, i resoconti di viaggio, le traduzioni dei classici.
L’eco delle crociate E la biblioteca dei duchi è dunque specchio di questo fenomeno: al suo interno troviamo opere essenziali della letteratura medievale – il già citato Roman de la Rose, i Pèlerinages de vie humaine, La Belle Hélène de Constantinople, La Fleur des histoires –, cosí come l’Etica e la Politica di Aristotele. Appare altresí evidente l’interesse per il Vicino Oriente, legato all’ideale della crociata, al quale si affiancano i trattati che evocano l’ascendenza leggendaria dei duchi, che rivendicavano antenati quali Alessandro Magno, re Artú, Carlo Martello o Carlo Magno. Le opere piú antiche risalgono al XIII secolo, mentre le piú recenti si datano tra la fine dell’epoca feudale e gli esordi dell’umanesimo. Molte sono state tradotte dal latino al francese e ritrascritte su richiesta dei duchi da copisti di fama come Jean Miélot, Jean Wauquelin o David Aubert. Al tempo di Filippo il Buono, la biblioteca ducale contava poco meno di 900 volumi e suo figlio Carlo la arricchí ulteriormente. febbraio
MEDIOEVO
In alto un altro particolare dell’allestimento del KBR Museum. A destra la Cappella di Nassau, i cui spazi sono stati utilizzati all’inizio del percorso espositivo, per la sezione introduttiva. In basso l’evangelista Matteo in una miniatura dei Vangeli detti «di Xanten». Aix-la-Chapelle (?)-Reims (?), IX sec. Alcuni di questi volumi seguirono i duchi nelle loro peregrinazioni, ma il grosso della collezione era conservato a Bruxelles, in Palazzo Coudenberg. Circondato da giardini, era una delle residenze piú fastose d’Europa, che comprendeva appartamenti privati, ma anche l’Aula Magna, un immenso salone di rappresentanza, e la place des Bailles (piazza delle Vasche), che è oggi parte della place Royale della capitale belga. Nel 1731 un incendio devastò gran parte del complesso, ma le fiamme risparmiarono la biblioteca, che dovette però attraversare nuove peripezie prima di trasformarsi
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nel nucleo fondante della Biblioteca nazionale del Belgio. Il KBR Museum è oggi il custode di quanto è sopravvissuto a catastrofi e saccheggi e conserva circa 300 manoscritti facenti parte della collezione originaria dei duchi. Ricordiamo dunque alcuni dei capolavori che questo fondo può vantare. Il Salterio di Peterborough, miniato intorno al 1300 nell’omonima abbazia da Geoffrey de Croyland, dopo vari passaggi di mano, fu acquistato da Filippo VI di Valois, che volle farne dono a sua moglie, Giovanna di Borgogna. Le Chroniques de Hainaut, una vera
e propria opera di propaganda, un libro maestoso – realizzato nel 1446 da Jean Wauquelin, libraio e copista di Mons – che mirava a legittimare attraverso una rappresentazione e una narrazione attentamente studiate l’operazione condotta nel 1433 da Filippo il Buono, quando aveva strappato alla cugina, Jacqueline di Baviera, la regione dell’Hainaut. Il Buono si fece committente anche de Les Livres du roy Modus et de la royne Ratio, un’opera di cui è protagonista un sovrano immaginario, Buon Metodo, che istruisce i suoi apprendisti sulle abitudini dei diversi animali e sui metodi con cui cacciarli. Il trattato si inserisce in un filone all’epoca molto in voga, poiché la caccia era uno dei passatempi preferiti della noblità e lo stesso Filippo, in una lettera scritta al nipote nel 1452, affermava di non «far altro che cacciare». Stefano Mammini
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ANTE PRIMA
Nel segno della cooperazione e dell’eccellenza
INFORMAZIONE PUBBLICITARIA
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a Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, nell’attesa della XXIII edizione – in programma dall’8 all’11 aprile 2021 –, d’intesa con il Sindaco di Capaccio Paestum, Franco Alfieri, e con il Direttore del Parco Archeologico di Paestum e Velia, Gabriel Zuchtriegel, ha nominato Mounir Bouchenaki suo Presidente Onorario. L’attribuzione nasce per quanto il territorio salernitano gli deve (portano la sua firma, infatti, le ratifiche dell’istruttoria finale da parte dell’UNESCO per l’inserimento nella Lista del Patrimonio dell’Umanità sia nel 1997 della Costa d’Amalfi che nel 1998 del Parco Nazionale del Cilento con le aree archeologiche di Paestum e Velia e la Certosa di Padula) e per la straordinaria divulgazione della Borsa, che in tutti i continenti ha presentato nell’ambito dei suoi interventi, portandola a conoscenza di Istituzioni e della comunità scientifica internazionale. Il suo personale impegno per la Borsa, che ha sempre definito «una preziosa best practice internazionale per sviluppare il dialogo interculturale attraverso la valorizzazione del patrimonio archeologico e la promozione delle destinazioni», oltre ad arricchire di contenuti il programma scientifico con lo svolgimento di annuali iniziative a cura di UNESCO e ICCROM, ha determinato la partecipazione a Paestum di istituzioni, in primis il coinvolgimento ufficiale dell’UNWTO, l’Organizzazione Mondiale del Turismo, e di personalità del mondo del patrimonio culturale, quali Irina Bokova Direttore Generale UNESCO, il Presidente del Tatarstan e numerosi Ministri della Cultura (Azerbaigian, Bahrain, Cambogia, Iraq, Tunisia). La nomina di Presidente Onorario amplifica il già forte legame esistente, rappresentato dal conferimento della cittadinanza onoraria presso il Museo Archeologico Nazionale il 27 marzo 2013, anno del 15° anniversario
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Mounir Bouchenaki, nominato Presidente Onorario della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum. dell’inserimento nella Lista del patrimonio UNESCO, da parte del Consiglio Comunale di Capaccio, per «l’efficace sostegno che ha avuto nel proporre e sostenere il riconoscimento, quale patrimonio mondiale dell’umanità, di Paestum nel 1998». «Sono onorato di ricevere questo riconoscimento dal piú greco dei siti italiani», dichiarò, allora, Bouchenaki, che, nel ricordare i tempi della candidatura, aggiunse: «vidi che in coloro che prepararono il dossier c’era davvero la volontà di far conoscere a livello internazionale un sito, che era già conosciuto a livello nazionale». La nomina di Bouchenaki rafforza anche i progetti di cooperazione culturale, che vedranno protagonisti, appena la pandemia sarà superata, la Borsa e il Ministero della Cultura e delle Arti della Repubblica Algerina, per il tramite dell’Ambasciatore in Italia Ahmed Boutache. Infatti, la Ministra Malika Bendouda, con un invito ufficiale al Direttore della Borsa Ugo Picarelli, ha posto le basi per una collaborazione proficua, volta ad acquisire competenze e formazione per i funzionari ministeriali e per i giovani algerini, che intravedono nelle attività legate al patrimonio culturale il loro futuro. Mounir Bouchenaki è nato il 16 novembre 1943 a Tlemcen in Algeria. Ha conseguito presso l’Università di Algeri dapprima la laurea in Storia e Geografia e quindi il diploma post-laurea in Storia Antica. Ad Algeri nel 1972 è conservatore capo e Direttore del Servizio Antichità, dal 1974 Vice Direttore del Dipartimento di Archeologia, Musei e Monumenti Storici e dal 1976 al 1981 Direttore del Dipartimento per il Patrimonio Culturale presso il Ministero della Cultura e dell’Informazione. febbraio
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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA
All’UNESCO a Parigi nel 1982 entra quale specialista della Cultura e di «Chevalier de la Légion d’Honneur» dal di programma alla Divisione del Patrimonio Culturale, Presidente della Repubblica; in Italia di Commendatore della quale dal 1990 al 2000 è Direttore; dal 1998 al 2000 dal Presidente della Repubblica; in Algeria nel 2005 è Direttore del World Heritage Centre; dal 2000 al 2006 dalla Ministra della Cultura la Medaglia d’oro per il suo Vice Direttore Generale per la cultura; dal 2012 al 2019 contributo a livello nazionale e internazionale e nel 2017 Consigliere Speciale del Direttore Generale. il Premio Achir del Presidente della Repubblica. Degne di nota nell’esperienza all’UNESCO: nel 1992 alla fine della guerra civile libanese la relazione sulla Nel blu profondo di blu situazione del patrimonio culturale in Libano e le azioni In occasione della edizione 2019 la BMTA assegnò di risanamento di Beirut Museum; dal 1993 al 1994 il postumo il Premio «Paestum Mario Napoli» a Sebastiano coordinamento dei lavori di ricostruzione del ponte di Tusa, per onorare la memoria del grande archeologo, Mostar, terminato nel 2004, apprezzato dalla Bosniadello studioso, dell’amico della Borsa, ma soprattutto Erzegovina, che gli concesse la cittadinanza; l’attuazione dell’uomo del Sud, che ha vissuto la sua vita al servizio della Convenzione sulla protezione del patrimonio delle istituzioni per contribuire allo sviluppo locale e culturale subacqueo (adottata nel 2001), alla tutela del Mare Nostrum. In quegli della Convenzione per la salvaguardia stessi giorni nacque l’idea di inserire, del patrimonio culturale immateriale annualmente all’interno del programma, (adottata nel 2003), della Convenzione una iniziativa di carattere internazionale, sulla protezione e la promozione della volta a ricordare l’impegno e le diversità delle espressioni culturali progettualità di Sebastiano Tusa. Pertanto, (adottata nel 2005); l’incarico di nell’ambito della XXIII edizione della monitorare questioni delicate, come la BMTA, avranno luogo la I Conferenza distruzione in Afghanistan nel 2001 dei Mediterranea sul Turismo Archeologico grandi Buddha di Bamiyan da parte dei Subacqueo con la partecipazione delle talebani, la seconda guerra in Iraq (2002piú note destinazioni mediterranee e 2003), il conflitto in Kosovo (2003-2004). il 1° Premio di Archeologia Subacquea All’ICCROM a Roma dal 2006 al 2011 è «Sebastiano Tusa» in collaborazione con Direttore Generale, dal 2012 Consigliere Soprintendenza del Mare dell’Assessorato Speciale del Direttore Generale. dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana Nel 2012 a Manama in Bahrain fonda con la Ministra della Regione Siciliana, Underwater Cultural Heritage UNESCO, Regional Department for Europe UNWTO, della Cultura e del Turismo, Sheikha Mai Al Khalifa, NIAS Nucleo per gli Interventi di Archeologia Subacquea sotto l’egida dell’UNESCO, l’Arab Regional Centre for dell’ICR Istituto Centrale per il Restauro del MiBACT, World Heritage, di cui è stato Direttore fino al 2019. Parco Archeologico dei Campi Flegrei, ICOMOS Italia, È stato insignito in Francia del titolo di «Chevalier des Errata corrige con riferimento al Dossier Centro Universitario Europeo per i Beni Culturali di Arts et des Lettres and Officier des Arts et des Lettres» Ravello, Accademia e di «Commandeur des Arts et Lettres» dal Ministero L’umanista che andò alle crociate (vedi Internazionale di Scienze e Tecniche Italiano di Archeologia Subacquea, «Medioevo» n. 220,Subacquee, aprile 2015)Istituto desideriamo Gruppi Archeologici Archeoclub d’Italia e con il In alto il Buddha di Kakrak, presso Bamiyan (Afghanistan), precisare che la medagliad’Italia, in coordinamento fotografato prima che fosse distrutto dai talebani nel 2002. bronzo riprodotta a p.scientifico 93 (in di Luigi Fozzati. Il Premio intende riconoscere In basso Paestum, 2019. Ugo Picarelli, direttore della BMTA, basso) ritrae Malatesta Novellole eccellenze in quei campi che Sebastiano ha saputo valorizzare, da Xavier consegna il Premio «Paestum Mario Napoli», assegnato postumo a (al secolo DomenicoTusa Malatesta, Nieto persignore le sue competenze Sebastiano Tusa, a Valeria Li Vigni, vedova dell’archeologo siciliano.1418-1465) di Cesena, enel campo del patrimonio l’UNESCO a Paolo Giulierini non subacqueo Sigismondosviluppato Malatesta,con come per Dell’errore la splendida mostra «Thalassa», curata con Sebastiano indicato in didascalia. ci scusiamo con ha rappresentato una pietra miliare sulla l’autore dell’articoloTusa, e cone che i nostri lettori. storia della subacquea, a Franco Marzatico per l’originale lavoro del Parco Natura di Fiavè, a Donatella Bianchi per il suo efficace messaggio volto a diffondere la tutela e la valorizzazione del Mediterraneo. Un particolare ringraziamento va a Luigi Fozzati con il quale abbiamo da subito condiviso il Premio e a Ugo Picarelli, che con la sua Borsa dà voce alle importanti realtà che divulgano il nostro patrimonio archeologico e le nostre eccellenze. Info e programma definitivo: www.bmta.it
AGENDA DEL MESE
a cura di Stefano Mammini
AVVISO AI LETTORI
Le pagine di questa edizione dell’Agenda del Mese sono state redatte nei giorni in cui le autorità nazionali e locali hanno emanato nuove disposizioni mirate al contenimento della diffusione del COVID-19. È perciò possibile che le date di apertura e chiusura delle mostre segnalate abbiano subito o subiscano variazioni: invitiamo dunque i nostri lettori a verificare l’agibilità delle sedi che le ospitano, anche attraverso i siti web e i canali social delle istituzioni che le organizzano.
Mostre RIMINI RAFFAELLO A RIMINI. IL RITORNO DELLA MADONNA DIOTALLEVI Museo della Città «Luigi Tonini» sospesa
Anche Rimini si unisce alle celebrazioni per il cinquecentenario della morte di Raffaello riportando in città la Madonna Diotallevi, opera giovanile dell’Urbinate che porta il nome del suo ultimo
proprietario privato, il marchese riminese Audiface Diotallevi, e oggi facente parte delle collezioni dei Musei Statali di Berlino. La splendida tavola, oltre a consentire di ammirare un frutto ancora acerbo ma già carico di promesse dell’arte di Raffaello, si rivela un mezzo straordinario tramite il quale raccontare la Rimini dell’Ottocento, i suoi piú eminenti personaggi, le collezioni che svelano una ricchezza artistica finora insospettata. info www.museicomunalirimini.it
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FIRENZE RAFFAELLO E IL RITORNO DEL PAPA MEDICI: RESTAURI E SCOPERTE Palazzo Pitti prorogata (data di chiusura in via di definizione)
Dopo il restauro dell’Opificio delle Pietre Dure e l’esposizione proprio all’inizio della grande mostra organizzata alle Scuderie del Quirinale a Roma in occasione del cinquecentenario della morte di Raffaello, il Ritratto di Papa Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi torna a casa, nella sua Firenze. La mostra ne documenta il restauro e interpreta le analisi scientifiche del dipinto: adesso sono percepibili le sottili differenze tra le varie sfumature di rosso, le differenti consistenze dei tessuti e la capacità di introspezione ritrattistica dell’artista. Vengono inoltre spiegate le indagini diagnostiche che hanno dimostrato che il capolavoro è tutto di mano di Raffaello. Di grande attualità l’appello
ecologico emerso con la revisione del supporto ligneo: purtroppo le variazioni del clima sono divenute cosí brusche e violente da mettere in crisi sistemi ed equilibri che, all’interno degli stessi materiali delle opere d’arte, avevano funzionato per secoli. info tel. 055 294883; www.uffizi.it SENIGALLIA RINASCIMENTO MARCHIGIANO. OPERE D’ARTE RESTAURATE DAI LUOGHI DEL SISMA Palazzo del Duca sospesa
Dopo essere stata presentata ad Ascoli Piceno e a Roma, va in scena a Senigallia la terza e ultima tappa della mostra «Rinascimento marchigiano», che, per l’occasione, si è arricchita ulteriormente, presentando una quarantina di opere. In particolare, per la prima volta dopo il sisma, viene ricomposto l’intero ciclo di Jacobello del Fiore con le Scene della vita di Santa Lucia proveniente dal Palazzo dei
Priori di Fermo, presentato parzialmente nelle tappe precedenti. I restauri compiuti sul ciclo sono stati molto importanti, poiché hanno permesso di affermare con certezza che si tratta di una pala ribaltabile, dove i pannelli si potevano all’occorrenza richiudere uno sull’altro per svelare le reliquie poste in una nicchia sul retro, e non di un dossale, come ha sempre sostenuto la storiografia. Di grande valore culturale è anche la campana databile al XIII secolo e molto probabilmente realizzata per la canonizzazione di san Francesco avvenuta nel 1228: si tratta della piú antica campana francescana arrivata ai nostri giorni. Originariamente si trovava nella chiesa di S. Francesco, a Borgo, una frazione di Arquata del Tronto, e ora è conservata nei depositi del Forte Malatesta di Ascoli Piceno. Da segnalare poi una stauroteca, contenente un frammento della vera croce e una coppia di reliquiari, realizzati nel XVIII secolo dall’orafo argentiere Pietro Bracci, romano di origine, ma molto attivo nelle Marche. info e-mail: circuitomuseale@ comune.senigallia.an.it MANTOVA RAFFAELLO TRAMA E ORDITO. GLI ARAZZI DI PALAZZO DUCALE A MANTOVA Complesso Museale Palazzo Ducale fino al 7 febbraio
Alle celebrazioni per il cinquecentenario della scomparsa di Raffaello Sanzio febbraio
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si è unita anche Mantova, città che conserva una preziosa testimonianza del genio urbinate. Il ciclo degli arazzi con le Storie dei Santi Pietro e Paolo conservato a Palazzo Ducale fu infatti realizzato nelle Fiandre a partire dai cartoni preparatori eseguiti dalla bottega di Raffaello: questi enormi fogli dipinti commissionati da papa Leone X, in parte conservati al Victoria & Albert Museum di Londra, servirono a realizzare il celebre ciclo destinato a ornare le pareti della Cappella Sistina in Vaticano. L’edizione mantovana, che segue cronologicamente l’editio princeps romana, è dunque un’opera di straordinario pregio, certamente tra i pezzi piú costosi e prestigiosi della portentosa collezione d’arte dei Gonzaga. La mostra presenta documenti legati alla storia del ciclo, dall’acquisto da parte di Ercole Gonzaga fino alle piú recenti vicende novecentesche. info tel. 0376 224832; https://mantovaducale. beniculturali.it BOLOGNA LA RISCOPERTA DI UN CAPOLAVORO Palazzo Fava, Palazzo delle Esposizioni fino al 15 febbraio (prorogata)
Un viaggio di ritorno travagliato, ma finalmente il capolavoro ritrovato è pronto a rivelarsi. Palazzo Fava, Palazzo delle Esposizioni di Bologna ospita la grande mostra che riporta in città, a 500 anni dalla sua realizzazione e a 300 dalla sua dispersione, le tavole del Polittico Griffoni dei ferraresi Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti, che proprio nella città felsinea, con la
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maestosa pala d’altare realizzata tra il 1470 e il 1472 per l’omonima cappella nella basilica di S. Petronio, diedero avvio al loro straordinario sodalizio artistico. Un lavoro di oltre due anni e il coinvolgimento di 9 Musei internazionali proprietari delle singole tavole, la metà dei quali ubicati fuori dai confini nazionali, hanno dato vita a un evento eccezionale per la storia dell’arte, che ha il merito, tra le altre cose, di ridefinire la centralità della città di Bologna nel panorama rinascimentale italiano. La mostra si compone di due sezioni. Il piano nobile di Palazzo Fava ospita «Il Polittico Griffoni rinasce a Bologna»: le 16 tavole originali a oggi superstiti provenienti dai musei prestatori sono visibili assieme alla ricostruzione del Polittico, una vera e propria rimaterializzazione della pala d’altare cosí come dovette apparire ai Bolognesi di fine Quattrocento. La superba pala d’altare dedicata a san Vincenzo Ferrer fu concepita per la cappella di famiglia di Floriano Griffoni all’interno della basilica di S. Petronio a Bologna. La sua realizzazione, collocata tra il 1470 e il 1472, fu affidata al ferrarese
Francesco del Cossa, allora all’apice della sua straordinaria carriera artistica, iniziata intorno al 1456 e stroncata dalla peste nel 1478. I contatti tra l’artista e il capoluogo emiliano, attivi per quasi un ventennio, si tradussero nella realizzazione di alcuni capolavori come l’Annunciazione di Dresda, la Madonna del Baraccano e la Pala dei Mercanti. Il Polittico Griffoni segnò l’inizio della sua collaborazione con il piú giovane Ercole de’ Roberti, uno dei piú formidabili sodalizi artistici del secondo Quattrocento italiano. Assieme a Del Cossa e De’ Roberti lavorò alla cornice il maestro d’ascia Agostino de Marchi da Crema. Attorno al 1725 il nuovo proprietario della cappella, Pompeo Aldrovandi, monsignore e poi cardinale, fece smantellare la pala e destinò le singole porzioni figurate a «quadri di stanza» della residenza di campagna della famiglia a Mirabello, nei pressi di Ferrara. Nel corso dell’Ottocento i dipinti entrarono nel giro del mercato antiquario e del collezionismo, giungendo, infine, ai nove musei che oggi custodiscono le opere, la metà dei quali hanno sede fuori dai confini nazionali. Il secondo piano ospita «La Materialità dell’Aura: Nuove Tecnologie per la Tutela», sezione che illustra, attraverso video, immagini e dimostrazioni con strumenti di scansione 3D, l’importanza delle tecnologie digitali nella tutela, registrazione e condivisione del patrimonio culturale, proprio a partire dal lavoro svolto sulle tavole originali del Polittico. info tel. 0544 473717; https://genusbononiae.it
FIRENZE IMPERATRICI, MATRONE, LIBERTE. VOLTI E SEGRETI DELLE DONNE ROMANE Galleria degli Uffizi fino al 14 febbraio
La mostra pone a confronto gli opposti modelli che caratterizzano la rappresentazione femminile nel mondo romano, e infatti si articola in tre sezioni: gli exempla femminili negativi, i modelli positivi e infine il ruolo pubblico concesso alle matrone. L’arco temporale preso in esame comprende un periodo ampiamente documentato, quello aureo del Principato, che va dall’ascesa di Augusto alla morte di Marco Aurelio. Le opere esposte sono sculture, epigrafi, gemme e disegni, in gran parte appartenenti alla collezione delle Gallerie degli Uffizi, e con prestiti da altre istituzioni. info tel. 055 294883; www.uffizi.it TORINO SULLE TRACCE DI RAFFAELLO NELLE COLLEZIONI SABAUDE Musei Reali, Galleria Sabauda-Spazio Scoperte fino al 14 marzo
A 500 anni dalla sua morte, anche i Musei Reali di Torino rendono omaggio a Raffaello con una mostra che, attraverso dipinti, incisioni e oggetti di arte decorativa, illustra la diffusione dei modelli derivati dalla sua opera dalla prima metà del Cinquecento alla fine dell’Ottocento, in Piemonte e nelle raccolte dei Savoia. Il percorso presenta 33 opere e illustra l’arte di Raffaello attraverso lavori che derivano direttamente dai suoi modelli, sia mediante la pratica della copia, sia con la libera reinterpretazione delle sue invenzioni. La prima parte del percorso è dedicata alle copie
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AGENDA DEL MESE esposte opere di autori cinquecenteschi che si misurarono con Raffaello e con l’ideale di un’arte di insuperata perfezione. info www.museireali. beniculturali.it PERUGIA
antiche della famosa Madonna d’Orléans, opera giovanile di Raffaello forse appartenuta al duca Carlo II di Savoia, oggi conservata presso il Museo Condé di Chantilly e replicata già nella prima metà del Cinquecento da alcuni dei principali artisti attivi in area piemontese. Deriva da un modello raffaellesco anche la Madonna della Tenda delle collezioni sabaude, restaurata con la collaborazione del Centro di Conservazione e Restauro La Venaria Reale e il sostegno di Intesa Sanpaolo. Ritenuta all’inizio dell’Ottocento opera autografa del maestro e venduta come tale nel 1828 al principe di Carignano Carlo Alberto, è stata poi attribuita a collaboratori come Perin del Vaga e Giovan Francesco Penni. Gli approfondimenti condotti in occasione della mostra propendono invece per una realizzazione intorno al 1530-1540 a Firenze, in una prestigiosa officina come quella di Andrea del Sarto. La seconda parte presenta una selezione di stampe di soggetto sacro, mitologico e allegorico, dove i modelli di Raffaello sono rivisitati con formidabile perizia tecnica e originale sensibilità chiaroscurale. L’itinerario si completa lungo il percorso di visita al primo piano della Galleria Sabauda, dove sono
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RAFFAELLO IN UMBRIA E LA SUA EREDITÀ IN ACCADEMIA Fondazione CariPerugia Arte, Palazzo Baldeschi prorogata (data di chiusura in via di definizione)
Tra reale e virtuale: cosí Raffaello abita le sale di Palazzo Baldeschi al Corso fino al 6 gennaio. La mostra propone un’esperienza immersiva che consente di ammirare in sequenza tutte le opere umbre dell’Urbinate – se ne contano a oggi dodici (la Pala di San Nicola da Tolentino, il Gonfalone della Trinità, la Crocefissione Mond, lo Sposalizio della Vergine, la Pala Colonna, la Pala degli Oddi, la Pala Ansidei, la Madonna del Libro (piú nota come Conestabile), l’affresco di San Severo, la Deposizione Baglioni, la Madonna con il Bambino e i Santi e, infine, l’Incoronazione della Vergine) – permettendo ai visitatori di esplorarne anche i dettagli, accompagnati da informazioni lette da una voce narrante. Da segnalare, inoltre, tre prestigiose opere del Rinascimento umbro appartenenti alla collezione della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e realizzate da tre maestri a cui Raffaello si ispira e con i quali si relaziona quando arriva in Umbria: la Madonna col Bambino e due cherubini del Perugino, la Madonna con il Bambino e San Giovannino del Pintoricchio e il Santo Stefano lapidato di Luca Signorelli. La seconda
sezione della mostra, «L’Accademia di Perugia e Raffaello: da Minardi e Wicar al Novecento», si articola in quattro parti tematiche e cronologiche che vogliono mostrare e dimostrare come, per tutto l’Ottocento, Perugia, grazie alla presenza di Tommaso Minardi, fu un epicentro insieme a Roma della corrente purista e del ritorno all’arte di ispirazione religiosa. L’Accademia fu infatti un vivaio di pittori talentuosi, che rielaborano la lezione degli antichi maestri, Perugino e Raffaello prima di tutti, attualizzandone modelli e stile, interpretando quel gusto neo-rinascimentale, molto apprezzato anche dal collezionismo e dal mercato internazionali dell’epoca. info tel. 075 5734760; e-mail: palazzobaldeschi@ fondazionecariperugiaarte.it; www.fondazionecariperugiaarte. it; facebook: @fondazionecariperugiaarte; twitter: @CariPerugiaArte; instagram: cariperugiaarte, #PerugiacelebraRaffaello, #RaffaelloinUmbria TORINO RITRATTI D’ORO E D’ARGENTO. RELIQUIARI MEDIEVALI IN PIEMONTE, VALLE D’AOSTA, SVIZZERA E SAVOIA Palazzo Madama, Sala Atelier fino al 12 aprile
La mostra presenta una galleria di busti reliquiario dal Duecento al primo Cinquecento, provenienti da tutte le diocesi del Piemonte e raffiguranti santi legati alle devozioni del territorio e alle titolazioni di determinate chiese locali, oltre ad alcuni esemplari dalla Svizzera e dall’Alta Savoia. Documentati già dall’XI secolo per contenere la reliquia del cranio di certi santi, i busti sono a
tutti gli effetti dei ritratti in oreficeria, solitamente in rame o in argento dorato, spesso arricchiti da pietre preziose, vetri colorati e smalti. Una produzione specificatamente medievale, in cui convivono il gusto per il ritratto di tradizione classica – di qui la presenza di dettagli relativi all’acconciatura o all’abbigliamento – e le pratiche devozionali teorizzate da alcuni ecclesiastici e filosofi del XII secolo, secondo cui la contemplazione dell’immagine di un santo, realizzata con materiali preziosi, poteva condurre il fedele verso l’elevazione spirituale. I busti e le teste reliquiario si configurano quindi come opere di valenza doppia: sia opere d’arte sia ricettacolo delle reliquie dei santi che rappresentano e in quanto tali oggetto della venerazione dei fedeli. Il Piemonte e l’area alpina contano un numero molto elevato di queste testimonianze per il periodo XII-XVI secolo, soprattutto in rapporto alle altre regioni d’Italia. La mostra vuole documentare questa ricchezza, anche stilistica, cercando di comprendere le ragioni del successo di questa tipologia nel nostro territorio. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it
ANTE PRIMA
IN EDICOLA
INGHILTERRA NASCITA DI UNA MONARCHIA MILLENARIA
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esiderio di indipendenza e vocazione internazionale segnarono la storia della corona inglese nel Medioevo. Una duplice filosofia politica, tuttora al centro dei destini strategici del regno. Il nuovo Dossier di «Medioevo» ripercorre la storia dell’Inghilterra, che s’intreccia con quella della sua corona, una delle monarchie piú antiche d’Europa e senza dubbio la piú popolare, anche oltre i confini dell’isola. Una vicenda che prende le mosse all’indomani della caduta dell’impero romano, quando anche la Britannia può liberarsi definitivamente dal giogo straniero e, prima di trasformarsi nel Regno Unito, vede convivere molte corone. Le prime e decisive svolte si registrano con l’avvento del re anglosassone Alfredo il Grande – che sconfigge i Vichinghi e si fa promotore della crescita culturale e civile del suo popolo – e poi di Edgardo il Pacifico: solennemente incoronato nel 973, è il sovrano grazie al quale l’Inghilterra si avvia ad assumere i contorni di una nazione vera e propria. Meno di un secolo piú tardi, irrompono sulla scena i Normanni che, guidati dal duca Guglielmo il Bastardo, escono vincitori dallo scontro combattuto nel 1066 a Hastings, la «madre di tutte le battaglie»: gli Inglesi subiscono la piú grande umiliazione della loro storia, il vincitore si autoribattezza «il Conquistatore» e inaugura una stagione nuova, dando inizio a una delle piú potenti monarchie di tutti i tempi. Tempi che a piú riprese si macchiano ancora di sangue, come quando, dal 1337 al 1453, le corone di Francia e Inghilterra si batterono aspramente per il controllo di vaste porzioni della Francia nella Guerra dei Cent’anni. O, piú tardi, quando la rivalità fra le casate dei Lancaster e degli York si trasforma nella Guerra delle due Rose, che per trent’anni vede le isole britanniche teatro di scontri campali, intrighi e tradimenti.
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In alto Bath, abbazia. Vetrata raffigurante l’incoronazione di Edgardo d’Inghilterra.
GLI ARGOMENTI
• LE ORIGINI L’eptarchia • EDGARDO IL PACIFICO Il primo re • HASTINGS, 1066 I Normanni al trono • RICCARDO CUOR DI LEONE Un mito senza tempo • LA GUERRA DEI CENT’ANNI Scontro tra corone • LA GUERRA DELLE DUE ROSE Un trentennio di sangue A.P. - D.L. 353/200 3 conv. L. 46/2004 , art. 1, c.1, LO/MI.
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N°42 Gennaio/Feb braio 2021 Rivista Bimestrale
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DI UNA MONARCH IA MILLENARIA
IN EDICOLA IL 14 GENNAIO 2021
INGHILTERRA. NASCIT A DI UNA MONA RCHIA MILLENARIA
In basso disegno ricostruttivo del Ponte di Londra nel XIV sec.
INGHILTERRA NASCITA
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battaglie rensen
Non c’è pace sulla Vistola di Federico Canaccini
In basso ricostruzione grafica dell’equipaggiamento tipico di un cavaliere dell’Ordine teutonico.
Dopo avere contribuito alla difesa della Terra Santa, l’Ordine dei Cavalieri Teutonici fu a lungo la potenza egemone di molte delle regioni bagnate dal Mar Baltico. Un predominio al quale cercò di opporsi la Prussia, dando vita a una vera e propria rivolta, culminata in vari scontri campali. Fra questi vi fu quello combattuto (forse) nel febbraio del 1244, sulle rive del lago di Rensen/Rzadz In alto e nella pagina accanto la croce nera, simbolo dei Cavalieri Teutonici, in forma di pendente e dipinta su un pavese della metà del XV sec.
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er alcuni storici, la battaglia di Rensen sarebbe il primo episodio della rivolta prussiana contro l’Ordine dei Cavalieri Teutonici che, alla metà del Duecento, stava ampliando la propria sfera d’influenza nel territorio della Pomerania orientale. In realtà, le informazioni sulla battaglia sono scarne e disomogenee: da un lato abbiamo una precisa narrazione dell’evento militare, dall’altro mancano riferimenti dettagliati sulla data e perfino sui contendenti, cosí come è risultata altrettanto complessa, come si vedrà piú avanti, l’identificazione del luogo che fu teatro dello scontro. Sappiamo che vi presero certamente parte i Cavalieri Teutonici, ma che a loro si opposero, secondo alcune fonti, il duca di Pomerania, Swietopełk di Danzica, per altre i Prussiani o i Lituani, per altre ancora i Sudovi, un popolo di pastori stanziatosi già in età romana nell’attuale Polonia nordorientale. Nelle narrazioni posteriori, alcune cronache parlano invece di una sorta di coalizione tra Lituani e Sudovi uniti contro i Teutonici. Quanto alla data, le proposte piú attendibili sembrano quelle che fissano l’evento al 15 giugno o al 21 settembre del 1243, oppure al 25 febbraio 1244. Nel corso del XIII secolo il Baltico orientale, rimasto impermeabile alla cristianizzazione che aveva interessato il resto d’Europa a ridosso del Mille, fu travolto e trasformato da una conquista particolare, animata dalla fede e dalla violenza, e condotta dagli Ordini militari dei Cavalieri Teutonici e dei meno noti Fratelli della Compagnia di Cristo, detti anche Cavalieri Portaspada, e dei Cavalieri del vescovo di Prussia, chiamati anche Cavalieri di Dobrzyn. Piú che per partecipare alle crociate, questi Ordini furono creati per compiere missioni specifiche: i Portaspada, per esempio, nacquero nel 1202 a Riga, nella residenza del vescovo Alberto di Riga, che da quasi vent’anni tentava di convertire i Livoni. Per riuscire nell’impresa e pacificare la zona della foce della Dvina, il prelato aveva bisogno di un contingente militare stabile: sarebbero stati i Portaspada a controllare i nuovi presidi sorti in territorio pagano, assicurando un controllo militare e religioso lungo la Dvina. Altrettanto accadde sulle rive della Vistola, in Prus-
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sia: un vescovo di nome Kristian, forse di origini tedesche, stava incontrando enormi difficoltà nel processo di conversione dei Prussiani, fedeli ai loro culti pagani e restii ad accettare il battesimo. Con l’autorizzazione del duca di Cuiavia (una regione della Polonia), il prelato creò un piccolo contingente di quattordici cavalieri tedeschi, che gli giurarono fedeltà, con l’obiettivo di combattere «contra Prutenos» («contro i Prussiani»). Non va naturalmente taciuto che, sin dalla fine del XII secolo, mercanti provenienti dalle città di Lubecca e Brema avevano fondato varie colonie in Livonia e che l’evangelizzazione, tentata sin dal 1180, seguiva di pari passo l’espansione economica e politica dei signori tedeschi.
Un nuovo arcivescovato
Per l’intero corso del XIII secolo, il confine della cristianità latina nel Mar Baltico non fece altro che avanzare inesorabilmente verso est, spostandosi da Danzica, suo punto di partenza, fino a 300 miglia circa in direzione dell’Oriente e dando vita a un nuovo arcivescovato, che comprendeva otto nuove sedi episcopali. Si realizzava cosí il sogno espresso già da Alessandro III (1159-1181) nella bolla Non parum animus noster del 1171, nella quale il pontefice prometteva un anno di indulgenza per quanti avessero combattuto i pagani: l’indulgenza sarebbe divenuta plenaria per coloro che fossero morti in battaglia, alla stregua dei crociati impegnati in Terra Santa. A seguito dell’occupazione militare, di battesimi forzati e talvolta anche di spoliazioni, rapine e massacri da parte di Danesi, Svedesi e Tedeschi, nacquero quattro nuovi Paesi: i domini di Prussia e Livonia e i ducati di Finlandia ed Estonia, ora legati al culto cattolico e pienamente inseriti nella rete delle rotte commerciali d’Occidente. I presidi militari avrebbero dovuto mantenere l’ordine e difendere la popolazione dai pagani, ma anche dall’influsso di Bisanzio, che stava facendo proseliti a est, riscuotendo grande successo presso i Rus, grazie alle missioni di Cirillo e Metodio. Per assicurarsi il controllo definitivo della Prussia, furono redatti Statuti che conferivano ai Cavalieri Teutonici vari privilegi, di fatto privi, però, di efficacia reale: per rendere concreti tali disegni, i Maestri dell’Ordine avrebbero dovuto affrontare lavori di sottile diplomazia
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battaglie rensen la prussia
Una terra contesa
Sulle due pagine resti di fortilizi costruiti per iniziativa dei Cavalieri Teutonici e che oggi si trovano entrambi in territorio polacco. In alto, il castello di Torun; in basso, il castello di Radzyn.
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L’area prospiciente il Mar Baltico, a est del Sacro Romano Impero, comprendeva varie regioni, tra cui la Pomerania e la Cuiavia, la Warmia e la Prussia, la Samogizia e la Curlandia, la Livonia e la Semigallia. Tutte queste zone erano abitate da genti di origine baltica, pagane e rimaste estranee ai vari tentativi di evangelizzazione attuati tra il X e l’XI secolo. Fra i vari territori, la Prussia fu inserita nell’orbita tedesca dopo la Bolla d’Oro di Rimini concessa all’Ordine dei Cavalieri Teutonici da Federico II nel 1226. In seguito, dopo un predominio dell’Ordine, la contesa con la Polonia per Danzica si fece sempre piú serrata e si concluse con la vittoria di Jagellone, che trasformò la Pomerania in un feudo polacco, mentre la Prussia orientale rimase sotto il dominio nominale dell’Ordine. Nel 1511, quando fu nominato Gran Maestro Alberto Hohenzollern, i beni dell’Ordine furono secolarizzati, come suggerito da Lutero, e la Prussia divenne un ducato di famiglia.
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LO STATO DEI CAVALIERI TEUTONICI NEL 1260 Territori dell’Ordine Teutonico nel: 1260 CONTESI
Cavalieri portaspada
Tribù prussiane non assoggettate
Ordine Teutonico
Masovia
1260 1223
Cuiavia
Livonia
Co
REGNO DI SVEZIA
ur
l an d
Goldingen Kalmar 1260
AL
TI R B A M
Lund
Balga Danzica 1234 Christburg
Francoforte
Braunsberg Elbing
Kulm
Noteć
PRINCIPATI Poznań Gniezno
Ludsen (Ludza)
Kreuzburg
a
GRANDUCATO DI LITUANIA
Allenburg Bertenstein
Heilsberg 9
PRINCIPATI RUTENI
-4 1242
Lago di Rensen
Netze
Zemgale
Polack
Königsberg
Rügen
SACRO ROMANO IMPERO
Rositten (Rëzekne)
Memel
Neman
Stettino (Szczecin)
Riga Kokenhunsen (Rïga) (Koknese)
1236
Bornholm
Kolberg
Wenden (Cesis)
a Diin auga v D
REGNO DI DANIMARCA
Lemsal (Limbazi)
Mitau
Grobin
CO
Öland
1242
Pskov
Gotland
Città
Grande Polonia
Fellin (Viljandi)
Saaremaa
Luoghi e date delle principali rivolte Anti-Teutoniche Castelli dell’Ordine Teutonico
Pomerelia
Dorpat (Tartu)
Arensburg (Kuressaare)
Luoghi e date di importanti battaglie
kv a
Principati Polacchi
Hiiumaa
Wasenberg (Rakvere)
ia Eston
Pih
Diocesi e città di Riga in Livonia
Reval (Tallinn)
ipsi i Pe od Lag
1226
Linee di attacco
Rehden
Thorn
Na
rew
POLACCHI Dobrin
Vistola
o, come accadde negli anni Quaranta del Duecento, sostenere vere e proprie campagne militari. Dopo la conversione, infatti, molti nobili avrebbero voluto occupare o rivendicare i territori conquistati dai monaci-cavalieri. Per acquisire il controllo della Prussia furono necessari quasi cinquant’anni: fino ad allora i Prussiani avevano rintuzzato i tentativi di conversione e sottomissione messi in atto da papa Onorio III e dal vescovo Kristian sin dal 1202, che però ebbero come unici esiti la temporanea occupazione del territorio attorno a Kulm (oggi Chelmo, in Polonia) e l’immediata reazione da parte prussiana. Proprio questa ritorsione indusse il duca di Masovia, Konrad, a chiedere l’aiuto militare dei Cavalieri Teutonici, che dapprima crearono una serie di castelli fluviali grazie ai quali controllare le coste e poi, in un secondo momento, si spinsero nell’entroterra, risalendo anche il fiume Neman, in Samogizia.
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battaglie rensen
Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
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Danzica (Polonia). Monumento in onore di Swietopełk, duca di Pomerania, protagonista della lotta contro l’Ordine teutonico.
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L’Ordine teutonico
Al fianco dello stupor mundi I Cavalieri Teutonici si chiamavano in realtà «Fratelli dell’Ospedale di Santa Maria dei Teutoni di Gerusalemme»: il nome è legato, come per altri Ordini militari, a un ospedale degli inizi del XII secolo, riservato ai pellegrini tedeschi in Terra Santa. Fu Celestino III, nel 1196, a riconoscere la loro Regola, che combinava il carattere militare dei Templari a quello piú assistenziale degli Ospedalieri. Già agli inizi del Duecento, però, i Cavalieri Teutonici preferirono investire le proprie energie verso l’impero, invocati dal langravio di Turingia contro i Cumani nelle zone della Transilvania. Il Gran Maestro, Ermanno di Salza, fu il solo a sostenere Federico II quando, scomunicato, entrò in Gerusalemme: ciò guadagnò all’Ordine enormi favori da parte imperiale. Dopo una grande espansione a est, nella zona del Baltico, vennero fermati piú volte da principi russi e polacchi: nel 1242 da Alexander Nevskij e infine, nel 1411 a Tannenberg, dagli Iagelloni di Lituania. Dopo Tannenberg, lo Stato Teutonico non si riprese piú e nel 1466, con la pace di Torun, venne definitivamente smembrato. Nel 1230, il Gran Maestro di Prussia, Hermann Balk, insediatosi a Kulm, fondò il primo castello a Vogeslang, presso Torun, di fronte alla foce del fiume Drewenz. Da lí, l’anno seguente, un potente esercito composto da crociati polacchi e tedeschi e guidato da Balk, col titolo di «preceptor per Sclavoniam et Prusiam», si spinse oltre Kulm, fondando i castelli di Kwidzin e Radzyn. Il margravio di Meissen, con una pressione inusitata, costrinse alla pace i Prussiani di Pomesania e, a seguito di questo nuovo successo, furono fondati i castelli di Christburg ed Elbing in Warmia, città portuale posizionata strategicamente sul fiume omonimo e che metteva in comunicazione il lago Druzno con la laguna della Vistola.
Particolare della statua del Gran Maestro dell’Ordine teutonico Ermanno di Salza (12091239), collocata nei giardini del castello di Marienburg (Malbork).
Alla disperata ricerca di cibo
A seguito della fondazione di questi castelli, i Pomesani e i Pogesani erano stati tagliati fuori da quella che, sino ad allora, era stata la loro principale rotta di commerci e, stremati dalla fame, si videro costretti a stipulare una pace con l’Ordine. Senza derrate la popolazione, a quelle latitudini, rischiava spesso di morire di stenti, come riporta un cronista per l’anno 1230: «Tra la gente del popolo alcuni uccidevano persone vive e le mangiavano; altri tagliavano a pezzi la carne dei cadaveri e la mangiavano; altri mangiavano carne di cavallo, cani e gatti; ma quelli che venivano colti sul fatto mentre compivano queste azioni venivano arsi vivi o fatti a pezzi o impiccati. Alcuni si cibavano di muschio, di lumache, della corteccia dei pini e dei cedri, delle foglie di olmi e cedri, e di qualunque altra cosa riuscissero ad immaginare». L’avanzata tedesca proseguí e, nel 1239, una guarnigione si fermò a Balga, a nord di Mamonovo, sulla laguna della Vistola. Sino a quel momento i Cavalieri
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battaglie rensen Teutonici si erano limitati a fornire manodopera per l’erezione di castelli in terra e legno, mentre i combattimenti erano stati sostenuti da gruppi di crociati tedeschi e polacchi. Il punto di non ritorno si ebbe quando il duca di Brunswick, alla testa di un esercito di nuovi volontari, costrinse le popolazioni dell’area di Balga ad arrendersi e ad accettare che i nuovi coloni occupassero le loro terre. Il duca Swietopełk di Danzica, sino ad allora alleato dell’Ordine, decise a questo punto di abbracciare la causa prussiana, dal momento che le nuove città mercantili fondate sul fiume facevano concorrenza ai suoi traffici e che l’espansione di Balga minacciava il suo dominio sulla penisola che chiudeva la laguna della Vistola. Tra il 1241 e il 1242 Swietopełk riuscí a stipulare un accordo con i Prussiani e insieme fronteggiarono i crociati con l’obiettivo di distruggere la cosiddetta Kulmerlandia («Terra di Kulm/Chelmo»): dopo aver saccheggiato le campagne, i cavalieri prussiani giunsero a Kulm, dove si fermarono sino all’imbrunire quando, dopo aver fatto riposare i cavalli, ripresero la marcia risalendo la riva destra della Vistola, in direzione di Graudenz (oggi Grudziadz, in Polonia). Il Gran Maestro dei Cavalieri Teutonici, nel frattempo, aveva inviato le sue spie per
osservare i movimenti del nemico: dopo alcune ore di marcia, i Prussiani erano giunti sulle rive di un lago, ma, a causa dell’oscurità, non riuscirono a trovare un passaggio per proseguire e cosí decisero di trascorrere la notte nei pressi della zona acquitrinosa.
Il lago «scomparso»
E qui si inserisce un altro dei «misteri» legati all’evento: il bacino lacustre viene citato con il nome di Rensen in una delle fonti piú importanti per la ricostruzione dei fatti, il Chronicon terrae Prussiae redatto da Pietro di Duisburg a partire dal 1324, su incarico del Gran Maestro Werner von Orsein, ma nel testo non compare alcuna indicazione specifica sulla sua ubicazione. Nel tempo, il toponimo è stato variamente trascritto (Rensen, Rense, Reussen, ecc.), ma gli studi piú recenti sono inclini a negare che un lago cosí chiamato sia mai esistito e suggeriscono di riconoscerlo con il lago di Rzadz, situato nei pressi dell’appena menzionata città di Graudenz/Grudziadz, che si trova un centinaio di chilometri a sud di Danzica, sulla Vistola. Immediatamente le spie riferirono a Berlewin von Freiberg, nuovo comandante dell’Ordine, il quale,
Sulle due pagine la Vistola nei pressi della città polacca di Grudziadz, nelle cui vicinanze si trova il lago di Rzadz, identificato con il lago «di Rensen» che fece da sfondo alla battaglia fra Teutonici e Prussiani combattuta nel 1243 o 1244. A sinistra miniatura raffigurante i Cavalieri Teutonici in battaglia, da un’edizione dell’Apocalisse di san Giovanni tradotta in tedesco da Heinrich von Hesler, che fu anch’egli membro dell’Ordine teutonico.
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dopo aver convocato rinforzi da Torun, ordinò a tutti i Cavalieri di uscire da Kulm, per incontrarsi vicino all’accampamento nemico. I primi ad arrivare furono proprio i 400 cavalieri di Kulm, il cui movimento, però, non sfuggí alle orecchie delle sentinelle prussiane e mise dunque in allarme il contingente nemico, che prese ad attraversare la palude nonostante il buio. A quella reazione inaspettata, i vari comandanti discussero sul da farsi: il Maestro von Freiberg voleva condurre le truppe dall’altro lato del lago per combattere contro l’avanguardia che conduceva anche i prigionieri catturati nei giorni precedenti; il maresciallo Dietrich von Bernsheim, invece, proponeva di attaccare la retroguardia e attendere i rinforzi, ancora in marcia, provenienti dalla lontana Torun. Alla fine, prevalse la parola del Maestro e cosí i Cavalieri Teutonici attraversarono le colline e i boschi attorno al lago per attendere sulla sponda opposta i Prussiani. Sfruttando l’oscurità, Swietopełk aveva diviso i suoi uomini in piú tronconi, facendone posizionare la gran parte dietro a una collina. Cosí, quando l’avanguardia teutonica raggiunse la riva, i Prussiani inscenarono la fuga, inducendo i Teutonici a inseguirli e facendo scom-
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paginare il loro contingente. Superato il colle dietro al quale il duca di Danzica si era nascosto, la battaglia ebbe inizio e i 400 cavalieri di Freiberg e Bernsheim furono travolti dalle truppe prussiane: entrambi i comandanti vennero uccisi e, stando alle narrazioni giunte fino a noi, appena dieci Teutonici sarebbero riusciti a salvarsi. Quando giunse il battaglione proveniente da Torun, era ormai troppo tardi: i Prussiani avevano già avuto tempo e modo di riordinare le fila ed ebbero la meglio anche dei duecento cavalieri crociati appena giunti per dare manforte. All’indomani della vittoria, i Prussiani e gli uomini di Swietopełk devastarono la regione di Kulm, distruggendo quasi tutti i fortilizi edificati dall’Ordine. La guerra però era appena iniziata e nel 1244 e nel 1249 due nuove armate dell’Ordine furono sbaragliate. I Prussiani tennero testa ai Teutonici, fino a quando in soccorso dei cavalieri non giunsero gli aiuti del legato pontificio – che bandí una crociata contro Swietopełk –, ma, soprattutto, degli altri principi polacchi, decisi a sbarazzarsi della evidente espansione del signore di Danzica. Nel 1254 si uní alla lotta contro di lui il re Ottocaro di Boemia e, nel 1259, la contesa contro i Prussiani poté finalmente dirsi risolta.
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Guerra al contagio di Maria Paola Zanoboni
Contro uno dei peggiori incubi del Medioevo, la peste, si combatté a lungo «a mani nude», affidandosi a rimedi dettati perlopiú dall’osservazione empirica del fenomeno. Di qui scaturirono le prescrizioni piú disparate: dalla profumazione della corrispondenza, ritenuta uno dei piú pericolosi veicoli di trasmissione del morbo, al rogo di masserizie d’ogni genere, nel tentativo, spesso disperato, di scampare alla malattia
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uò sembrare sorprendente, ma ancora oggi si discute sull’individuazione della malattia identificata scientificamente come «peste» solo alla fine dell’Ottocento. Endemico dal 1347 all’inizio del Settecento, il morbo venne infatti debellato quasi completamente in Europa grazie al «cordone sanitario» di Marsiglia (1720/21), per cui il dibattito clinico non potè proseguire parallelamente all’approfondirsi delle conoscenze mediche. Il bacillo fu isolato soltanto nel 1894 da Alexandre Yersin (dell’Istituto Pasteur di Parigi), quando la malattia si ripresentò a Hong Kong. Il batterio responsabile di quella epidemia, che imperversò in Asia tra il 1894 e il 1899, e contro la quale Yersin riuscí a produrre un siero, venne battezzato Pasteurella pestis, ovvero Yersinia pestis, ma è impossibile stabilire se fosse lo stesso che aveva prodotto le epidemie che avevano flagellato l’Europa dall’epoca del Boccaccio in poi. Solo molto recentemente, i nuovi strumenti diagnostici di cui disponiamo hanno consentito di isolare e analizzare il DNA del batterio tratto dagli scheletri delle fosse comuni trecentesche, mettendone in evidenza alcune differenze rispetto a quello individuato da Yersin, che gli avrebbero conferito una virulenza e contagiosità molto maggiori, attraverso la trasmissione diretta da uomo a uomo mediante le pulci umane, e senza il tramite dei roditori.
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Lanslevillard (Francia), cappella di S. Sebastiano. Un medico cura gli appestati, incidendone i bubboni, particolare di un affresco dalle Storie di San Sebastiano. 1450-1480 circa.
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storie la peste A sinistra immagine in 3D del batterio Yersinia pestis, isolato nel 1894 da Alexander Yersin. Nella pagina accanto San Sebastiano intercede a favore degli appestati, olio su tavola del Maestro di San Sebastiano. 1497-1499. Baltimora, Walters Art Museum.
La malattia descritta da Yersin si presenta in tre forme, distinte a seconda dei sintomi prevalenti: bubbonica, polmonare e setticemica (in quest’ultima forma il batterio è localizzato nel sangue). Nella peste bubbonica il contagio colpisce in genere i roditori (soprattutto i topi) e viene trasmesso agli esseri umani dalle pulci, che possono però nascondersi e sopravvivere per un certo periodo (29 giorni circa), anche in riserve di cibo (carichi di grano soprattutto), abiti, tessuti, balle di lana, pellicce, tappeti. La maggior parte degli studiosi ritiene che l’epidemia del 1347/48 fosse appunto di peste bubbonica, e che questa forma appunto abbia caratterizzato la maggior parte degli analoghi eventi verificatisi nei secoli XIV e XV. Le teorie sull’origine e sulla diffusione della peste sono riconducibili a due matrici principali. Quelle filosofiche, rifacendosi alle dottrine aristoteliche, ritenevano che una determinata posizione dei corpi celesti potesse provocare perturbazioni nell’atmosfera, che, a loro volta, producevano una corruzione dell’aria (miasma), causa della malattia. Il termine greco loimos, traducibile con «pestilenza», indica appunto l’affezione diffusa dall’inquinamento dell’aria. Oltre a quelli celesti, altri fattori che potevano provocare il «miasma» erano le esalazioni dagli stagni e dalle paludi prodotte dalla canicola, e quelle dovute alla putrefazione. Ippocrate riteneva che in determinate condizioni atmosferiche, soprattutto col prolungarsi di periodi umidi, l’aria potesse corrompersi, avvelenando coloro che la respiravano. Galeno elaborò quest’idea, aggiungendo che anche le pozze d’acqua stagnante, i cadaveri insepolti e, in genere, le materie putride, potessero contaminare l’aria. Avicenna aggiunse un terzo elemento: gli influssi astrologici potevano provocare terremoti che,
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a loro volta, liberavano aria putrida dalle viscere della terra, corrompendo l’atmosfera. Se la causa era l’avvelenamento dell’aria, la miglior misura preventiva consisteva nel chiudersi in casa con le finestre ben sprangate, bruciando legni aromatici e cospargendo il pavimento di acqua di rose o di aceto. Le teorie empiriche, invece, basandosi sull’osservazione e sull’esperienza, attribuivano il diffondersi del morbo al contatto diretto con uomini, animali od oggetti infetti. In realtà, questo secondo modo di concepire il propagarsi della peste, elaborato compiutamente soltanto verso la metà del Cinquecento dal medico Gerolamo Fracastoro, era già stato ventilato da Boccaccio e da Matteo Villani in occasione dell’epidemia del 1348. Scriveva a tal proposito Villani: «Parea che questa impestifera infezione s’appiccasse per la veduta e per lo toccamento», mentre Boccaccio rilevava come anche il contatto con gli oggetti e soprattutto con gli indumenti degli infermi contribuissero a propagare la malattia.
Trasmissione e prevenzione
A Ragusa alla fine del Cinquecento le autorità sanitarie consideravano altamente pericolosi la lana e i tessuti di lana, per cui le imbarcazioni cariche di questi articoli e materie prime provenienti da luoghi sospetti non venivano accolte. Se l’epidemia era già diffusa in città, le manifatture che utilizzavano lana grezza per la confezione di tessuti venivano prese di mira dagli ufficiali sanitari che ordinavano la pulizia dei locali e il lavaggio delle merci a spese dello Stato. Verso la metà del Seicento, in ogni caso, si aveva piena consapevolezza della trasmissione del contagio anche attraverso le merci infette, e di quali oggetti e materiali lo propagassero piú di altri. Un documento febbraio
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storie la peste emanato dalle autorità sanitarie genovesi all’epoca della grande epidemia del 1656/57 elenca minuziosamente i prodotti in cui il morbo non si annidava, quelli in cui si annidava, e quelli su cui si era incerti. Non infetti erano tutti i generi alimentari: grano, pane, frutta (a eccezione di quella con «involucro esterno lanuginoso e crespo»), uova, carne, pesce, salami, vino, aceto, olio, acqua, sale, miele, zucchero; materiali come vetro, cristallo, maiolica, porcellana, smalto, pietre preziose, metalli, monete nuove (quelle usate e sporche dovevano essere disinfettate con l’aceto o la cenere calda, oppure nella calce), avorio, legno duro e compatto come l’ebano. Non però la maggior parte del legno, che, se ruvido e pieno di crepe era tra i principali veicoli del contagio, tanto che, fin dal Quattrocento, nella costruzione dei lazzaretti, erano banditi i soffitti lignei, e utilizzato esclusivamente il laterizio, e altrettanto si cercava di fare per i letti, quando possibile. Anche per tutti questi articoli si raccomandava di fare attenzione a imballaggi, legni, e cordami che li chiudevano. Al gruppo delle merci sicuramente portatrici di contagio appartenevano invece tutti i tessuti, al massimo grado lana, cotone, lino, canapa, ma anche la seta se lavorata come velluto, frangia, o in modo che contenesse interstizi pelosi. I tessuti erano cosí pericolosi, da aver provocato la morte di molte persone che si erano solo avvicinate a un panno in cotone in cui era avvolta una pietra preziosa. Pericolosissime le pellicce, le piume, le
A destra Carlo amministra i Sacramenti agli appestati, stampa facsimile dal dipinto originale del 1062 di Camillo Landriani, detto il Duchino. In basso miniatura raffigurante la scelta del tessuto, da una Mariegola (statuto dei diritti e dei doveri delle corporazioni di Arti e Mestieri di Venezia) dell’Arte della Lana. XIV sec. Venezia, Musei Civici Veneziani, Museo Correr. Le stoffe erano state riconosciute come uno dei piú pericolosi veicoli di trasmissione della peste.
coperte e i materassi, che potevano rimanere infetti per oltre due anni, aumentando nel corso del tempo la propria virulenza. Carta, libri e stracci erano ugualmente passibili d’infezione. C’era piú di un dubbio, invece, sulla contagiosità di esseri umani, vivi o morti, che avessero abitato luoghi infetti o avuto contatti con gli appestati, e sugli animali, anche in questo caso vivi o morti, ritenendo però altamente pericolosi quelli provvisti di pelo o di piume, e tutti i randagi, che, apparentemente sani, potevano invece trasmetterere la malattia. Sospette erano considerate anche le lettere, che dovevano essere purgate con l’aceto e «profumate». Il pericolo che la corrispondenza potesse propagare il contagio era reale, tanto che durante l’epidemia milanese del 1576, un personaggio di spicco dell’epoca suggeriva di
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disinfettare le lettere passandole accanto alla fiamma prima di spedirle. E a chi le riceveva, raccomandava di non aprirle mai in camera da letto, ma fuori di casa, e di non avvicinarle troppo al viso nel leggerle.
Lettere «pericolose»
Nel 1630 le autorità sanitarie genovesi, temendo che il contagio che aveva colpito Milano si estendesse alla loro città, prescrivevano che: «Le lettere per qui destinate si fanno a fiamma di fuoco profumare, o sia brustinare con molle di ferro sí per di fuori come per di dentro, levati prima et abbrugiati i spaghi o fili de quali alcune restino alligate». Sul pericolo che si celava nella corrispondenza si sofferma anche un altro decalogo di ordini da rispettare in caso di peste, emanato a Genova per l’epidemia del 1657/58: «Avisare le reverende monache di non ricevere lettere o biglietti senza
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esser proffumati», e si aggiungevano le istruzioni per la composizione del disinfettante: «Pece greca, una libra; pece navale ½ libra; solfo 2 libre; polvere da schioppo ½ libra». Gli ingredienti andavano impastati con la crusca, facendo poi fumigare il composto. L’elenco genovese delle merci portatrici di contagio ribadiva infine la raccomandazione di acquistare ogni prodotto (compresi gli alimentari) senza involucro, e di lavare bene con l’aceto, con liscivia o con acqua di mare ogni cosa potenzialmente infetta, lasciandola poi esposta al sole. Questa consapevolezza di antica data, faceva sí che un po’ ovunque si prendessero provvedimenti per la sanificazione degli oggetti infetti (quando non potevano essere bruciati), o provenienti da zone sospette. Nel lazzaretto di Genova (e anche in quelli di Venezia, Ragusa e Messina) alla quarantena delle merci era destinato un
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storie la peste Stampa raffigurante le fasi della pubblica esecuzione di Gian Giacomo Mora, Guglielmo Piazza e degli altri «untori», accusati di aver composto e sparso per la città unguenti pestiferi che causarono l’epidemia milanese del 1630. XVII sec. Le modalità del supplizio sono descritte nella lapide a destra, assieme alla motivazione per cui è stata eretta la Colonna Infame sul luogo dove sorgeva il negozio/bottega del barbiere Mora.
intero settore dell’edificio, dotato di terrazze dove stendere i tessuti e le fibre tessili dopo averle liberate dai pericolosi imballaggi e spruzzate con aceto o acqua di mare; in caso di pioggia, venivano ricoverati in stanze apposite, le cui finestre rimanevano sempre aperte. Oggetto di particolari accorgimenti erano anche gli stracci destinati alle cartiere del Genovesato e tutte le merci provenienti dai Paesi musulmani, dove la peste era endemica e non venivano prese misure preventive, perché contrarie alla mentalità fatalistica di quelle popolazioni. A Milano, già dopo la terribile epidemia del 1451, si pose il problema della disinfezione delle case colpite dal morbo, delle strade, dei luoghi pubblici. Le autorità istituirono un gruppo di persone appositamente addestrate e deputate a sanificare abitazioni e suppellettili (i nectatore domorum), ed emanarono gride che imponevano di rivolgersi soltanto a loro e di purgare le case per due giorni prima di abitarle. Dopo la pestilenza del 1576/78 le autorità del capoluogo lombardo fecero disinfestare case, abiti, e ogni sorta di suppellettili, comprese le imbottiture delle poltrone e le piume dei materassi, che venivano spruzzate una per una con l’aceto bollente.
Monete disinfettate
L’aceto, che ha la capacità di tenere lontani gli insetti (e quindi le pulci vettore della peste bubbonica), veniva comunemente utilizzato come disinfettante: san Carlo lo usava per sanificare le monete che dava agli appestati e per lavarsi le mani prima e dopo aver somministrato loro la comunione. Sempre a Milano, fin dall’inizio del Cinquecento (se non prima), i tessuti di un certo pregio, il cuoio, i libri e la carta si disinfettavano invece con suffumigi di incenso, resina di pino o aceto. Per fare i suffumigi – rivela una disposizione del 1534 – si stendevano le vesti di lana, di seta o le pellicce in un ambiente ben chiuso e si bruciavano sul fuoco incenso, resina di pino o «colofonia», oppure si versava aceto sopra una pietra arroventata e incandescente; o, ancora, si immergeva la calce viva in un vaso di bronzo pieno di aceto. Altro metodo (sempre secondo le norme milanesi del 1534) era la sanificazione con la sabbia, adottata per i tessuti di seta: venivano stesi a terra sopra un panno di lino, e coperti di sabbia, con l’illusione che l’umidità della terra e della sabbia servissero a purificarli. Gli indumenti di lino o di lana si potevano anche immergere nell’acqua bollente. A Palermo, nel 1575, le masserizie non bruciate ve-
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storie la peste Miniatura raffigurante uno speziale con il suo garzone, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis, denominazione che indica la traduzione in latino del Taqwim al Sihha (Almanacco della salute), un manuale redatto a Baghdad dal medico e letterato Abu al-Hasan al-Mukhtar Ibn Butlan nell’XI sec. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.
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nivano sanificate secondo un rigido protocollo elaborato dal medico Filippo Ingrassia, deputato alla sanità e principale gestore dell’emergenza. A Napoli, invece, nel 1656/57, i materassi di lana e i tessuti si disinfettavano facendoli bollire cinque volte nell’acqua, mentre gli arazzi e i drappi preziosi decorati in oro venivano soltanto stesi all’aria e «profumati» con fumi di incenso, mir-
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ra, laudano e ginepro. La sanificazione delle case venne effettuata a Firenze, dopo l’epidemia del 1630, a spese del Comune che organizzò una squadra di 16 uomini: erano gli «zolfatori», remunerati «con grosso stipendio», dato il rischio che correvano. Anche il vescovo collaborò, facendo assumere becchini a tale scopo. Rende bene l’idea dell’accuratezza con cui veniva eseguita la disinfezione delle camere, la documentazione relativa al lazzaretto genovese (fine del XVI-XVII secolo). Le squadre dei «purgatori» dovevano «tenere nette et scoppate le stanze, acciò non restino in terra fili o altre qualsivoglino minuzie che possano calpestarsi con i piedi, osservando di far bruggiare simili scopature in luogo segregato, dentro però la stessa purga, acciò s’usi caotela nelle cose minime». Il metodo piú sicuro era il rogo delle suppellettili e delle merci infette, ma la gente (che spesso non possedeva quasi nulla e non era in grado di sostituirle) vi si opponeva strenuamente.
Rimedi inutili, se non dannosi
I rimedi contro la malattia erano pressoché inesistenti, nonché inutili, se non addirittura dannosi: misture, cataplasmi, aromi, amuleti contenenti arsenico, stagno o mercurio, che avrebbero dovuto far fuoriuscire ed eliminare il morbo, ma che invece erano altamente nocivi alla salute. E ancora: veleno di vipere, rospi o scorpioni, chele di granchio, limatura di zoccoli di cavallo, o impiastri contenenti grasso di anatra, miele, trementina, fuliggine, melassa, tuorli d’uovo e olio di scorpione, da applicare sui bubboni. Il 70/80% di coloro che avevano contratto la malattia moriva entro 4-7 giorni. Nelle città periva in genere tra il 25 e il 40% della popolazione. E non mancavano gli speculatori: un agente mediceo a Napoli durante l’epidemia del 1656 raccontava che «un medico greco di Venezia che cura al modo di Germania, ammazzando molta gente, in quei pochi giorni ha guadagnato 4000 scudi. (…) Io ho avuto il male et non ci ho fatto quasi nulla se non alcuni medicamenti amabilissimi conferitimi da donnicciole». Brulicavano medici di varia provenienza con ricette inutili. «Un milanese s’offeriva di guarire tutti quando se li fosse stabilita competente mercede». Proponevano cure azzardate e dannose anche persone estranee all’ambiente sanitario: «un pittore, dopo d’averne ammazzati molti impune, non distribuisce piú la sua conserva per ordine delli deputati». E in un altro documento si dichiarava che: «la diversità de’ pareri di questi medici che deriva o dal non esservi alcuno che abbia mai havuto occasione di essercitarsi in simile cure, o da picche fra essi, non ha finhora lasciato stabilire qual medicamento piú adatto ricerchi il male presente; solo i cerusici riferiscono di alcuni che ne campano», applicando rimedi empirici, come ventose e «polveri attrattive del veleno». Al di là dei rimedi, fantasiosi e inefficaci, che erano in grado di offrire, i medici osservavano attentamente i sintomi della malattia e il suo evolversi, e cercavano di individuarne le cause, dimostrando una straordina-
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Da leggere David Gentilcore, Negoziare rimedi in tempo di peste. Alchimisti, ciarlatani, protomedici, Roma moderna e contemporanea, XIV (2006), fasc.1/3: La peste a Roma, (1656-57), pp. 75-91 Sabrina Minuzzi, Sul filo dei segreti medicinali : praticanti e professionisti del mercato della cura a Venezia (secoli XVI-XVIII), tesi di dottorato, Università degli Studi di Verona, coordinatore G.M. Varanini, tutor A. Pastore, XXIII ciclo, 2008 Giovanni Assereto, «Per la comune salvezza dal morbo contagioso». I controlli di sanità nella Repubblica di Genova, Novi Ligure, Città del silenzio, 2011 Fabio Cavalli, I ratti invisibili. Considerazioni sulla storia della peste in Europa nel Medioevo e nella prima età moderna, Quaderni Guarneriani, 6, n.s., 2015; pp. 113-140 Dario Dell’Osa, Salute pubblica e traffici commerciali nella Repubblica di Ragusa nella prima età moderna, in La quotidiana emergenza. I molteplici impieghi delle istituzioni sanitarie nel Mediterraneo moderno, a cura di Paolo Calcagno e Daniele Palermo, Palermo, New Digital Press, 2017; pp. 19-42 Idamaria Fusco, La grande epidemia. Potere e corpi sociali di fronte all’emergenza nella Napoli spagnola, Guida Editori, Napoli 2017 Maria Paola Zanoboni, La vita al tempo della peste. Misure restrittive, quarantena, crisi economica, Jouvence [Mimesis Edizioni], Milano 2020
ria capacità di combatterla nell’unico modo possibile: la prevenzione, che appunto rappresentava spesso la parte essenziale dei loro trattati. Perciò l’esperienza acquisita con le epidemie passate andava tutelata e tramandata, in modo da gestire meglio quelle future. «La vera peste non nasce come i funghi, né ha le ali per volar lontano, se non gliele prestano gli uomini stessi», osservava il Muratori (1721). Spettava ai governanti, e agli incaricati della salute pubblica gestire in modo tempestivo il contagio. Era necessario – continuava – poter disporre di «buoni magistrati che colla lor vigilanza e prudenza arrestino il morbo ai confini, ovvero l’imprigionino in qualche terra, o porzione di paese ove sia penetrato, o pure cosí valorosamente gli facciano fronte, arrivato che sia nella città». E a questi magistrati doveva essere conferito un vero e proprio potere dispotico, «un’assoluta balía e autorità di poter procedere more belli contro i trasgressori». Nel momento in cui l’epoca delle pestilenze in Europa era alla fine, le parole del Muratori riassumevano quanto accaduto dalla fine del Trecento in poi, da quando cioè le città italiane per prime si erano attivate con misure preventive contro la peste e magistrature deputate a farle applicare.
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Lo sguardo di Furio Cappelli
«Allora si aprí il tempio di Dio che è nel cielo e apparve nel tempio l’arca della sua alleanza; e nacquero fulmini e tuoni, e terremoti, e una grande tempesta di grandine». (Apocalisse di san Giovanni, 11:19) 44
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dell’anima A
Modena. La lastra della facciata del Duomo raffigurante il patriarca Enoch (a sinistra) e il profeta Elia che sorreggono una lapide sulla quale corre l’epigrafe che ricorda la data di fondazione della chiesa (1099) e loda lo scultore Wiligelmo.
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ll’ingresso delle chiese può capitare che un’epigrafe ci inviti a guardare con «gli occhi della mente». Che cosa significa? È un invito a guardare oltre le fattezze delle figure dipinte o scolpite. Invece di soffermarsi sui dati piú superficiali della forma e del colore, è bene capire il significato celato dietro l’immagine. Lo sguardo dell’anima dev’essere perciò in grado di superare le semplici apparenze. Molte volte le raffigurazioni sacre erano scrupolosamente preordinate, in modo da lasciare scarso spazio all’inventiva dell’artista medievale nella scelta e nell’impaginazione dei soggetti. D’altro canto, esistono insiemi decorativi talmente complessi ed elaborati che un puro concetto di estetica sembra unificare e guidare l’apporto dei maestri impegnati. Le forme che essi interpretano possono essere di per sé colme di significato, ma potrebbero prescindere da una strategia complessiva. Magari possono esserci gruppi di soggetti o comunque soggetti che si corrispondono lungo certe traiettorie visuali, o in base a una certa ritmica. Ma in ogni caso ne scaturisce una sorta di «musica» ammaliante, curiosa, eseguita senza uno spartito generale. Una chiesa medievale costituisce cosí un universo di concetti mai scontato e prevedibile. Per questo, già all’epoca, lo spettatore era invitato a compiere uno sforzo nel costruire un proprio percorso di significati in un tale labirinto. Doveva fare ricorso alle proprie conoscenze delle Sacre Scritture, ma non bastava. Doveva conoscere le cronache, le «enciclopedie», i bestiari del suo tempo, ma anche non poche opere dell’antichità classica. Doveva conoscere storie e leggende di ogni tipo, sacre e profane. Come i libri, le opere d’arte richiedevano sapienza e attenzione. Se questo era già evidente all’epoca in cui esse furono realizzate, anche noi dobbiamo compiere con un certo impegno un percorso alla ricerca dei significati «nascosti». Con una nuova serie, di cui presentiamo qui il primo intervento, cosí guidare il lettore alla riscoperta di questo universo mentale, facendo affidamento sulle fonti di cui disponiamo. La Bibbia, in particolare, sarà la nostra guida per illuminare il senso di tante storie e figure. 45
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QUEI DUE TESTIMONI DELL’APOCALISSE
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iamo di fronte alla celebre facciata del Duomo di Modena. Una lastra di marmo greco – residuo di chissà quale costruzione antica – è stata rilavorata e posta di fianco al portale maggiore, sul lato sinistro. Mostra due personaggi biblici in solenne figura stante (vedi foto in apertura, alle pp. 44/45). Resi a bassorilievo, «sorreggono» una gigantesca lastra ideale, sulla quale corre una lunga epigrafe in versi, di chiara ispirazione classica. Redatto con ogni probabilità dal chierico Aimone, «maestro delle scuole» della Chiesa vescovile modenese, il testo si compone in realtà di due composizioni differenti. La prima, piú ampia e con caratteri maggiori, si sviluppa in quattro esametri, e recita: «Mentre il Cancro oltrepassa trionfalmente il corso dei Gemelli, il nono giorno di giugno dell’anno della Incarnazione del Signore Mille e Cento meno uno [1099], si fonda questa casa del famoso Geminiano». Questi, un santo vescovo del IV secolo, è il patrono della città di cui la chiesa è appunto la casa (domus), perché ne conserva le reliquie, ed è al tempo stesso la casa del Signore (questo è infatti il significato della parola «duomo»).
Modena. La facciata del Duomo, intitolato a S. Maria Assunta e S. Geminiano. La costruzione della chiesa, capolavoro dell’architettura romanica, fu avviata nel 1099 sotto la guida dell’architetto Lanfranco. Spicca il grande rosone realizzato da maestri campionesi nei primi decenni del XIII sec. Nel riquadro, la lastra con Enoch, Elia e l’epigrafe che ricorda la costruzione della chiesa (vedi foto alle pp. 44/45).
La «firma» del maestro
Fa seguito un’altra composizione scolpita in caratteri piú piccoli. Si tratta di un distico elegiaco, costituito da un esametro e da un pentametro: «Quanto tu sia degno di onore fra tutti gli scultori, o Vuiligelmo, la tua scultura ora rende chiaro». Cosí si «firma» il principale artefice del corredo scultoreo della chiesa, meglio noto come Wiligelmo. È lui l’autore della lastra, ma a lui si deve – tra l’altro – anche
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oltre lo sguardo/1 Confronti
Nel Paradiso ritrovato La presenza nel giardino dell’Eden dei due personaggi della lastra modenese ricorre anche nel mosaico pavimentale dell’abside della chiesa abbaziale di Saint-Victor de Cruas (Ardèche), situata nel Midi francese, tra Lione e Avignone, nella regione Alvernia-Rodano-Alpi. Questo, e un altro mosaico perduto, commemoravano la consacrazione dell’edificio compiuta nel 1095 da papa Urbano II, di ritorno da ClermontFerrand, dove aveva predicato la prima crociata. Realizzata nel primo quarto del XII secolo, l’opera è coeva alle sculture di Modena, dove la data di fondazione (1099) coincide con l’anno della presa di Gerusalemme. Su entrambe le situazioni, in definitiva,
Nella pagina accanto il mosaico pavimentale della chiesa abbaziale di Saint-Victor de Cruas (Ardèche, Francia), con le figure di Elia ed Enoch. Primo quarto del XII sec.
pesa un clima di grande fervore, in vista di un rinnovamento della Chiesa e del mondo intero. Elia ed Enoch sono sovrastati dalla mano divina che indica la loro ascesa al cielo. L’Eden è evocato nello spazio centrale, in due fasce. Nel comparto superiore, si affiancano l’albero della Vita (lignum) e l’albero della Conoscenza del bene e del male (ficus: è questo l’albero del frutto proibito, che in seguito venne erroneamente identificato con una mela!). Nel comparto inferiore quattro figure geometriche alludono ai quattro fiumi del Paradiso. Nel Genesi (5:24) leggiamo che Enoch, all’età di 365 anni, «Camminò con Dio e scomparve perché Dio
lo prese con sé». Era padre di Matusalemme e bisnonno di Noè. Si colloca quindi nelle fasi piú antiche (antidiluviane) della narrazione biblica, intrise di quel mito delle origini che si fissò intorno al VI secolo a.C., all’epoca dell’esilio babilonese, quando il popolo eletto prese coscienza di sé. Lungo il percorso che conduce a questa precisa identità religiosa e storica si colloca proprio il profeta Elia, realmente vissuto negli anni 875-850 a.C. nel regno di Israele, una delle due «cellule» da cui è scaturita la vicenda dell’ebraismo (l’altra componente originaria è il regno di Giuda, situato piú a sud e imperniato su
Restituzione grafica del mosaico di Saint-Victor de Cruas. Al centro, fra Elia ed Enoch, l’albero della Vita e quello della Conoscenza del bene e del male.
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Gerusalemme). Nella trasposizione pittorica, il racconto della sua ascensione al cielo (II Libro dei Re, 2:11), evocando la presenza di un carro di fuoco trainato da cavalli di fuoco, ha portato a una commistione con il tema classico del carro solare e dell’ascesa trionfale degli eroi e dei sovrani divinizzati. Di tutto rilievo, poi, è l’evocazione che ne fa il Corano (Sura XXXVII, 123-132), dopo Mosè e Aronne, esaltando il suo ruolo di guida del popolo contro le deviazioni dei culti «pagani» concorrenti, come la credenza del dio Ba’l, con cui dovettero a lungo misurarsi i seguaci del dio unico Yahweh: «E cosí anche Elia fu uno degli Inviati, // allorché disse al suo popolo: “Non temete voi Dio? // Invocate voi Ba’l e trascurate il migliore dei Creatori? // È Dio il vostro Signore; e il Signore dei padri vostri antichi!” // Ma lo smentirono, e saran consegnati al Castigo! // Eccetto i servi di Dio, puri. // E la sua lode perpetuammo tra i posteri: // “Pace su Elia!” // Perché cosí Noi compensiamo i buoni: // ché ei fu di certo tra i nostri servi credenti» (traduzione di Alessandro Bausani).
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il fregio con le storie della Genesi (o del Genesi, se ci si riferisce al libro biblico) che decora la stessa facciata. Probabilmente realizzata intorno al 1119, l’epigrafe commemora dunque la fondazione della chiesa romanica, e ci affida l’unica memoria superstite di un grande artista dell’epoca. Ma chi sono i due personaggi raffigurati ai lati? Possiamo identificarli grazie ai nomi scolpiti sul loro ideale piedistallo: a sinistra, il patriarca Enoch; a destra, il profeta Elia. La loro scelta è stata molto meditata, e rientra armonicamente nell’apparato decorativo della facciata. Sono personaggi privi di relazione diretta nella narrazione biblica, ma accomunati dal fatto di essere stati accolti in cielo in modo repentino, con il diretto intervento di Dio nella loro esistenza terrena. Hanno quindi raggiunto la beatitudine prima ancora che si compisse la loro morte, e prima ancora che si svolgesse il Giudizio finale. Secondo la tradizione degli interpreti (esegeti) della Bibbia, essi sono quindi i primi uomini che hanno potuto recuperare l’innocenza perduta dei progenitori Adamo ed Eva, sconfiggendo la morte con la forza della fede. Sono cosí stati accolti in quell’Eden (il Pa-
radiso terrestre) che i peccatori della Genesi avevano dovuto abbandonare. Ma non è solo l’ascesa al cielo a legare i nostri due eroi biblici. Secondo molti esegeti, il «duo» di Enoch e di Elia svolgerà un ruolo molto importante alla fine dei tempi. Sarebbero loro, infatti, i due Testimoni citati nell’Apocalisse di san Giovanni (11: 3-12). Dio ingiunge loro di andare per il mondo ad annunciare quel che sta per accadere. Dovranno essere di umile aspetto, «vestiti di sacco», e andranno in giro per 1260 giorni. Terminata la loro missione, saranno sterminati dalle forze del male, «E il loro cadavere sarà sulle piazze della gran città che allusivamente si chiama Sodoma ed Egitto, dove anche il signore loro fu crocifisso». La gente fa festa su quei cadaveri, perché le parole dei profeti avevano gettato tutti nell’angoscia. Passati tre giorni e mezzo, però, i due profeti riprenderanno vita richiamati da Dio, e saliranno in cielo davanti allo stupore generale: «In quello stesso momento vi fu un gran terremoto, la decima parte della città ruinò, morirono nel terremoto settemila persone: coloro che sopravvissero, sbigottiti, resero gloria al signore del cielo».
Garanzia d’eternità
Tornando al Duomo di Modena, appare evidente come l’aura dei due personaggi biblici sia garanzia d’eternità. Come sottolinea Chiara Frugoni, «essi sono garanti che il prezioso documento a loro affidato [l’epigrafe] si preserverà incolume nel tempo, quasi testimoni perpetui di un atto giuridico», tanto piú che essi – a quanto pare – saranno testimoni dell’Altissimo alla fine dei tempi, come si è visto. In questa veste assisteranno allo svelamento dell’Arca dell’Alleanza, che contiene al suo interno le tavole con i comandamenti (il Decalogo) e il Libro della Legge, quei sacri documenti che suggellano il patto tra Dio e Mosè sul monte Sinai. Nella ricostruzione iconografica
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oltre lo sguardo/1 Miniatura raffigurante Elia (a sinistra) ed Enoch, da un’edizione manoscritta del Commentario all’Apocalisse del Beato di Liebana. 975. Girona, Archivio capitolare della Cattedrale.
dei dipinti dell’abbaziale di S. Tommaso ad Acquanegra sul Chiese (in provincia di Mantova, primo quarto del XII secolo) – recentemente avanzata dallo storico dell’arte Paolo Piva –, proprio l’Arca dell’Alleanza compariva tra le scene con l’ascesa al cielo di Enoch ed Elia, sull’arco orientale del coro. E quindi, quali custodi migliori per il testo che celebra la fondazione del Duomo di Modena? Enoch ed Elia, però, non si legano solo alla fine dei tempi, ma anche al punto iniziale della storia del mondo. Essendo abitatori dell’Eden, essi recuperano quel paradiso che l’umanità tutta perse per colpa di Adamo ed Eva. E le lastre istoriate di Wiligelmo, dedicate alle storie del libro della Genesi, partono proprio dalla creazione dei progenitori e dal loro peccato originale. Allo stesso modo, nel predetto ciclo di affreschi di Acquanegra, il racconto del Genesi fa da pendant alle ascensioni di Enoch e di Elia, sull’arco occidentale del coro.
Congiuntura astrologica
Il testo stesso dell’epigrafe modenese dà importanza al tema delle figure a coppia. Si evidenzia infatti che il 9 giugno, «in coincidenza col solstizio estivo» (come nota il paleografo Augusto Campana), c’è una significativa congiuntura astrologica. Il sole passa infatti dai Gemelli alla costellazione del Cancro. Il fatto ha una forte attinenza con la chiesa, perché Gemini (il nome latino della costellazione) corrisponde al nome troncato del santo patrono Geminianus. Ecco perché la costellazione è pure evocata dalla figura che è situata al culmine dell’archivolto del portale principale, opera anch’essa di Wiligelmo. Si tratta di un fanciullo nudo a due teste, che «comprime» la ti-
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pica allegoria del segno zodiacale sotto forma di due gemelli siamesi. D’altro canto, il dottore della Chiesa orientale Efrem Siro (306 circa-373), in tema di coppie, riguardo ai nostri Enoch ed Elia parla di gemini victores (vincitori), che vengono a sostituire i gemini victi (vinti), ossia Adamo ed Eva. La raffigurazione dei profeti del
Nella pagina accanto miniatura raffigurante l’Anticristo che stermina gli abitanti di Gerusalemme (in alto) e che uccide i testimoni Elia ed Enoch (in basso), da un’altra edizione manoscritta del Commentario all’Apocalisse del Beato di Liebana. 1086. Burgo-de-Osma (Soria), Capitolo della Cattedrale.
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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
In alto lastra del rilievo della Genesi scolpito da Wiligelmo per il Duomo di Modena. Da sinistra: Dio Padre in una mandorla sorretta da due angeli; la creazione di Adamo ed Eva; il Peccato Originale. A sinistra il portale del Duomo di Modena, al culmine dei cui archivolto (nel riquadro), scolpita da Wiligelmo, figura un’allegoria del segno zodiacale dei Gemelli. Nella pagina accanto il probabile ritratto di Noè affrescato nella chiesa di S. Tommaso ad Acquanegra sul Chiese (Mantova).
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Da leggere Françoise Gay, Profeti, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Fondazione Treccani, Roma 1998; anche on line su treccani.it Chiara Frugoni (a cura di), Il Duomo di Modena, collana Mirabilia Italiae, Franco Cosimo Panini Editore, Modena 1999 Mario Liverani, Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, Laterza, Roma-Bari 2012 Fabio Scirea (a cura di), San Tommaso ad Acquanegra sul Chiese. Storia, architettura e contesto figurativo di una chiesa abbaziale romanica, SAP, Mantova 2015
Vecchio Testamento, sugli stipiti del predetto portale (non visibili nella foto a p. 52, perché collocati all’interno degli stipiti stessi, n.d.r.), completa il quadro in cui si collocano i due testimoni biblici. Da Abacuc a Sofonía, da Mosè e Aronne ad Abdia, le dodici figure sono scelte nel gruppo dei 4 profeti maggiori e dei 12 profeti minori. Sono distinti in questo modo in base all’entità dei rispettivi libri. Quasi tutti i veggenti mostrano
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il tipico attributo del cartiglio o rotulo, sul quale è in genere presente un brano delle loro scritture (ma in questi casi i rotuli sono vuoti). Mosè e suo fratello Aronne sono associati come figure illustri del Vecchio Testamento (non sono propriamente profeti). Il primo mostra le Tavole della Legge, il secondo si distingue per il bastone del comando. L’uno incarna appunto la legge, l’altro l’autorità sacerdotale. I due aspetti troveranno la
loro sintesi nella figura di Cristo, e il carisma dei due personaggi prefigura cosí la rivelazione. Piú in generale, questo complesso di figure della piú antica storia biblica rende attuali, nel pieno Medioevo, i concetti di una religiosità incardinata sulla paura del castigo e sull’attesa della salvezza futura.
NEL PROSSIMO NUMERO ● Verso la fine dei tempi
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Mercanti in fiera
di Antonella Astorri, con contributi di Sergio Tognetti
Strategicamente collocata tra Francia, Borgogna e Lorena, la Champagne si affermò come il luogo d’elezione dei commerci internazionali. Nelle sue città, a rotazione e – di fatto – senza soluzione di continuità, si organizzavano fiere alle quali affluivano mercanzie da ogni parte d’Europa e non solo. E protagonisti di quella fitta rete di transazioni furono a lungo i mercatores italiani 54
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Miniatura raffigurante una scena di mercato, da un’edizione de Le chevalier errant. 1403-1404. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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ella seconda parte del Perceval ou Le conte du Graal, l’ultimo dei suoi celebri romanzi, Chrétien de Troyes narra le avventure dell’eroe arturiano Galvano. A un certo punto della vicenda, il poeta si sofferma sull’episodio dell’arrivo del cavaliere in vista di un centro abitato. Dopo aver valutato le strutture difensive del vicino castello, Galvano ammira la città: «Popolata di begli uomini e belle donne, e i tavoli dei cambiavalute, coperti di monete d’oro e d’argento e di denaro spicciolo; vede le piazze e le strade piene di bravi operai che lavorano ai mestieri piú svariati: qui si fanno elmi e usberghi, là selle e scudi, altrove bardature di cuoio e speroni; certuni forbiscono le spade, altri tessono stoffe e le follano, le pettinano, le rasano, altri ancora fondono l’oro e l’argento; altrove infine si confeziona un ricco vasellame, coppe, nappi, scodelle, e smalti preziosi, anelli,
cinture, collane. Davvero si sarebbe potuto dire che nella città si teneva una fiera perpetua, tanto traboccava di ricchezza, cera, pepe, granaglie, pellicce di vaio e di petit-gris e quant’altra mercanzia si possa immaginare». Non è un caso che la città che si mostra al guerriero non sia affatto descritta attraverso le sue pietre – le mura, le torri e i campanili – bensí attraverso il fervore delle sue attività produttive e commerciali e la sovrabbondanza dei beni esposti, pare proprio, per la gioia degli occhi dell’osservatore. Il poeta francese scrive infatti verso la fine del XII secolo e, nell’evocare questa immagine – cosí vivida nella ricchezza dei dettagli – ha certo presente una realtà a lui ben familiare: Troyes e le altre città della Champagne – la regione dove è nato e cresciuto –, famose per le grandi fiere di cui sono sede, A sinistra facsimile di una miniatura trecentesca raffigurante il prevosto dei mercanti e degli scabini di Parigi che offre doni all’imperatore Carlo IV. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs. Nella pagina accanto miniatura raffigurante le virtú cardinali, da un’edizione del Trésor di Brunetto Latini. 1450-80. Ginevra, Bibliothèque de Genève. Nel registro inferiore è rappresentato un mercato cittadino, con le sue bancarelle e, in primo piano, Fortezza e Giustizia; in alto, fra Prudenza e Temperanza, madama Filosofia affida uno scrigno pieno di gioielli a Pratica e Logica.
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Usi e costumi
Fermi tutti! «La fiera di Lagnino comincia lo primo giorno di gennaio, e a dí diciassette di gennaio la mattina mette drapperia, e a dí diciannove di gennaio la sera al tardi grida ara e non mostra piú drapperia…». Ma che cos’era l’«ara» che, secondo quanto descrive Francesco Pegolotti nella sua Pratica della mercatura, imponeva la sera di ogni terza giornata la chiusura di ciascuna delle tre fasi (drappi, cuoio e pellicce, merci a peso), in cui si dividevano le sei fiere della Champagne? Si trattava di un particolare avviso di allarme, «Ara! Ara!» appunto, lanciato a suon di tromba o di corno dai sergenti al servizio dei sovrintendenti fieristici e che decretava l’immediata sospensione di ogni compravendita e contrattazione in corso. Sebbene l’esatto significato del termine, testimoniato pur con diverse accezioni da altri documenti coevi riguardanti le fiere, non sia stato del tutto chiarito, esso è presumibilmente una derivazione del germanico her: «qui», «qua», espressione che, se gridata, intendeva richiamare l’attenzione su un sopruso o un’offesa subiti o di cui si era minacciati. In questo caso con l’«ara» si intendeva probabilmente palesare la protezione ufficiale data da parte dell’autorità comitale prima, dai re di Francia poi, agli accordi commerciali appena conclusi dai mercanti affluiti alla fiera.
A sinistra miniatura raffigurante la benedizione della fiera di Lendit, dal Pontifical d’Etienne de Givry. 1405-1410. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In alto la pesatura della lana, miniatura di scuola veneta da una Mariegola dell’Arte della Lana. XIV sec. Venezia, Musei Civici Veneziani, Museo Correr.
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che a quest’epoca hanno conquistato tali popolarità e fortuna da essere divenute il piú importante mercato internazionale d’Europa. In una condizione del tutto aliena dall’offerta massiccia e onnipresente di generi di consumo a cui l’era della pubblicità e del «mercato globale» ci ha oggi assuefatto, per Chrétien de Troyes e i suoi contemporanei, la fiera, cioè il luogo di appuntamento annuale per mercanti di provenienze diverse, è sinonimo stesso di opulenza – profumo di spezie esotiche e scintillio di sete e metalli preziosi –, vetrina di tutto ciò che si può desiderare e che solo pochi, gli appartenenti alle classi agiate, si possono permettere.
Occasioni imperdibili
Per la città ospitante come per i visitatori queste manifestazioni rappresentano un evento. Vi convergono mercanti e cambiatori (i banchieri dell’epoca), trasportatori, sensali, notai, ma anche vagabondi, giocatori d’azzardo, prostitute; a tutti si offre qualche opportunità di guadagno, ed esse rappresentano un’impareggiabile occasione di incontro e di scambio e non soltanto di merci provenienti da Paesi lontani, ma anche di esperienze e conoscenze tra uomini di lingua ed estrazione diversa. Il termine stesso richiama un’atmosfera festosa contenendo in sé l’accezione di «tempo festivo». «Fiera» deriva infatti dal latino feria, cioè «festa», «vacanza», in quanto i raduni periodici dei mercanti itineranti erano strettamente legati alle ricorrenze di particolari santi o alle altre maggiori solennità religiose.
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costume e società Il portale di ingresso al castello di Blois, in una fotografia d’epoca. Firenze, Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari.
Sviluppatesi da mercati in origine a carattere agricolo e dalla forza di attrazione regionale, per circa un secolo, dagli ultimi decenni del XII alla fine del XIII, le fiere della Champagne (regione oggi compresa nei tre dipartimenti a est e a sud-est di Parigi: Seine-etMarne, Aube e Marne) eclissarono tutti i maggiori appuntamenti commerciali internazionali dell’epoca, per notorietà e rilevanza economica, presenza di forestieri, afflusso di merci e capitali. La favorevole posizione geografica della regione ne aveva consentito il decollo: la Champagne, infatti, a cavallo tra alcune delle principali arterie di collegamento tra il Mediterraneo e il Mare del Nord, rappresentava un punto ideale di incontro tra uomini d’affari di varie parti di Europa, e in particolare tra quelli fiamminghi e quelli italiani, rispettivamente i maggiori produttori di stoffe di lana e i dominatori dei traffici commerciali in ambito internazionale. Alle fiere della Champagne si trattavano dunque soprattutto panni di lana, ma anche telerie e sete, pelli, cuoiami e pellicce, spezie e coloranti, gioielli, materie prime, cavalli, generi alimentari quali granaglie, pesce, birra e vino e, in maniera crescente nel corso del XIII secolo, vi si praticavano le attività creditizie e speculaA destra sigillo delle fiere della Champagne (1267). Lilla, Archives du Nord, Chambre des comptes.
la champagne
Terra di commerci e patria di mecenati Situata al crocevia tra Francia, Borgogna e Lorena, la Champagne fu indipendente per gran parte del Medioevo. Eretta in ducato già in età merovingia, venne costituita in contea sotto i Carolingi e governata dal 1019 dalla casa di Blois. La dinastia comitale seppe rafforzare ed espandere i propri domini che, alla metà del XII secolo, comprendevano ormai tutti i maggiori centri della regione e di Brie (con l’esclusione di Reims, signoria arcivescovile), estendendo la propria influenza a una costellazione di feudi serventi. È questo il momento in cui le fiere
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iniziarono la loro ascesa e la regione divenne un fiorente polo economico. Negli stessi decenni la corte della Champagne è animata da un brillante entourage letterario, mettendosi in luce come uno di quei raffinati ambienti signorili da cui si andava diffondendo il soffio della rinascita culturale del secolo. Qui infatti videro la luce alcune delle prime opere della giovane letteratura cortese e qui ebbe occasione di conoscere il «gran mondo» Chrétien de Troyes, considerato il maggior poeta medievale prima di Dante. Gli stessi signori di Blois si dilettavano nelle
lettere. Trovatore fu Tibaldo IV di Champagne, mentre il conte Enrico, detto «il Liberale» per la generosità nella concessione di autonomie alle città, leggeva in lingua originale Vegezio e Valerio Massimo. Amava circondarsi di poeti e letterati sua moglie, la contessa Maria, del resto figlia di quell’Eleonora di Aquitania, febbraio
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tive. Al loro successo, determinato dal grande afflusso di forestieri, avevano contribuito i signori del luogo, i conti della Champagne e di Brie, attraverso un’accorta politica volta a fornire le condizioni materiali necessarie per lo svolgimento dei mercati e a garantire ai visitatori speciali privilegi ed esenzioni, nonché la sicurezza delle persone e delle merci durante i viaggi di andata e ritorno dalle sedi di fiera. Da parte loro gli esponenti della dinastia comitale, e successivamente i re di Francia a questa subentrati nel controllo politico della regione alla fine del XIII secolo, grazie al felice andamento delle manifestazioni commerciali che ricadevano sotto la loro giurisdizione videro le proprie casse rimpinguarsi di consistenti introiti, che affluivano sotto forma di imposte sui servizi erogati, vale a dire tasse sulle abitazioni, sui banchi di vendita dei mercanti, sui pesi e sulle misure.
Viaggiare (in)sicuri
Nei primi secoli dopo il Mille gli spostamenti a fini commerciali (come del resto qualsiasi viaggio intrapreso per altri motivi, per esempio il pellegrinaggio) erano un’esperienza pericolosa che si affrontava con un senso di incertezza e precarietà. Pirati sulle rotte marittime del Mediterraneo, briganti e lupi sulle strade, oltre alle sortite di armati mosse dai continui In alto Firenze. Il palazzo dell’Arte della Lana, la cui prima fondazione risale al 1308. A destra xilografia raffigurante un mercante italiano intento a leggere una lettera.
regina prima di Francia poi d’Inghilterra, che fu la personalità femminile di maggior rilievo nella scena culturale del tempo. Nel 1284 Giovanna, ultima erede della dinastia, andò in sposa al re di Francia Filippo il Bello e da questo momento la contea fu legata alla corona francese. Avendo l’unione carattere personale, la Champagne mantenne comunque ancora la propria autonomia, sebbene sottoposta a graduale erosione, fino al 1364, ma allora la fase del suo maggior splendore era esaurita da tempo.
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Gli archivi senesi
Un primato ben documentato Tra i documenti d’archivio sulle fiere della Champagne, meritano una menzione, per qualità e quantità, quelli senesi. Oltre ai rogiti notarili, troviamo infatti frammenti di libri contabili e lettere mercantili inviate da Siena alle fiere e dalla Champagne alla madrepatria. Sono fonti assai utili per comprendere il funzionamento e l’importanza delle fiere al momento del loro apogeo (siamo negli anni Sessanta del Duecento). E che i mercanti-banchieri di Siena abbiano lasciato tracce cosí significative non è un caso: nella prima metà del Duecento, insieme ai Piacentini, essi occupavano infatti la posizione piú importante nel campo dell’attività creditizia e per questo avevano ottenuto la protezione del conte di Champagne già nel 1222. Inoltre, tra tutti gli uomini d’affari italiani presenti in Francia, i Senesi furono i primi ad avere una rappresentanza istituzionale stabile nella Champagne: consoli dei mercanti senesi sono già attestati nel 1246. La via Francigena, che collegava Roma con la Francia, era la grande arteria lungo la quale fluivano il commercio e la finanza senese: lí erano nate le fortune di colossi aziendali dell’epoca, come la celebre «Magna Tavola» dei Bonsignori e le compagnie Tolomei, Gallerani, Salimbeni, Piccolomini, ecc. Sergio Tognetti
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costume e società conflitti e agli incerti della natura, rendevano gli spostamenti sulle lunghe distanze vere e proprie avventure e il rischio elevato connesso al trasporto incideva inevitabilmente sui costi delle merci. Un potente incentivo per gli uomini di affari forestieri a frequentare i mercati annuali della Champagne venne pertanto dall’attenzione prestata dall’autorità comitale verso la tutela della sicurezza della rete stradale della regione. Fu promosso lo sviluppo delle infrastrutture, come ponti, luoghi di tappa ravvicinati, alberghi e ospizi per i viandanti e, soprattutto, fu organizzato un sistema di salvacondotti e di scorte armate che venivano concessi alle carovane dei mercanti in transito lungo le strade, che per questo furono dette «mercatorie». Anche i re francesi si interessarono alla questione della tutela dei mercanti che attraversavano il loro territorio diretti ai grandi appuntamenti internazionali della Champagne e, a seguito di un’iniziativa presa da Filippo Augusto nel 1209 tesa a favorire segnatamente gli ope-
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ratori economici italiani, anch’essi adottarono il metodo di rilasciare a garanzia della protezione regia un salvacondotto che aveva validità su un tracciato determinato. L’autorità sulle fiere era stata delegata dai conti ad appositi funzionari, i «guardiani delle fiere»(les gardes des foires), la cui esistenza si ritrova attestata per la prima volta negli anni Venti del XIII secolo. Inizialmente i compiti di tali sovrintendenti erano connessi semplicemente con l’organizzazione materiale delle manifestazioni e la repressione delle eventuali violazioni ai regolamenti. Col prevalere del carattere internazionale degli appuntamenti commerciali e l’incremento del volume degli affari che ogni anno si concludevano nella Champagne, la loro autorità crebbe, soprattutto a partire dalla metà del secolo quando, dotati di un proprio sigillo che veniva apposto a convalida dei contratti, essi si fecero garanti, ovunque nell’Occidente cristiano, dell’esecuzione delle obbligazioni assunte in sede di fiera. Alle proprie dipendenze i guardiani avevano una squadra di notai incaricati di verbalizzare nei loro registri gli accordi commerciali conclusi, mentre piú di cento uomini armati comandati da sergenti formavano il servizio
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commerci e politica
Una guerra costosa In alto case a graticcio in rue Champeaux, a Troyes. A destra, in alto Troyes. L’interno della chiesa di Sainte-Madeleine. Sulle due pagine una veduta esterna della cattedrale di Troyes.
Qui sopra particolare di una tavoletta di biccherna con una veduta della città di Siena. 1467. Siena, Archivio di Stato.
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In una lettera inviata il 5 luglio del 1260 dalla società di Iacomo e Giovanni Vincenti e compagni di Siena al corrispondente Iacomo Cacciaconti, mercante senese in viaggio da una fiera della Champagne all’altra, il tema della missiva travalicava gli aspetti commerciali e finanziari per sconfinare apertamente nella politica, e piú precisamente nelle vicende legate all’imminente scontro militare tra i ghibellini senesi (appoggiati dall’esercito di Manfredi, re di Sicilia) e i guelfi fiorentini. Da Siena si faceva sapere al Cacciaconti che dalla madrepatria erano state emesse numerose lettere di cambio da pagare alle fiere, in modo da avere a Siena la liquidità necessaria per contribuire a sostenere l’enorme sforzo bellico. L’indebitamento sarebbe costato parecchio alle società d’affari, ma la posta in gioco era troppo importante: «Sapi, Iachomo, che noi semo ogi in grande dispesa e in grande facenda a chagione dela guerra che noi averno chon Fiorença; e sapi che a noi chostarà asai ala borsa, ma Fiorença chonciaremo noi sí che giamai no ce ne miraremo drieto». Due mesi piú tardi, i Senesi fecero «l’Arbia colorata in rosso» con il sangue dei Fiorentini (il riferimento è alla battaglia di Montaperti, combattuta il 4 settembre 1260 ed evocata con quell’immagine da Dante, nel canto X dell’Inferno, n.d.r.). S. T.
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costume e società d’ordine, necessario per assicurare il regolare svolgimento delle manifestazioni e per salvaguardare la sicurezza nella città letteralmente invasa da una massa di gente di differenti nazioni, mestieri e modi di comportamento.
Guai agli insolventi!
Mancare al momento della scadenza agli impegni assunti in occasione della fiera lasciava una macchia indelebile nella carriera di un uomo d’affari. «Chi non facesse lo pagamento che avesse a fare o che non contentasse colui con cui avesse a fare al giorno del pagamento», ammonisce il fiorentino Francesco Pegolotti nella sua Pratica della mercatura (redatta tra gli anni Trenta e Quaranta del XIV secolo), sorta di vademecum offerto a coloro che volessero cimentarsi nell’attività di mercante, «quello cotale sarebbe tenuto ch’avesse fallato in fiera e mai poi non sarebbe creduto d’uno denaro né userebbe aparire in fiera». Del resto, proprio l’emanazione della sentenza di esclusione dalle fiere rappresentava il principale strumento esecutivo di cui i sovrintendenti potevano disporre nei confronti dei mercanti o delle società commerciali inadempienti. Si trattava di una misura particolarmente efficace perché, secondo il criterio della responsabilità collettiva della pena accolto dal diritto medievale, poteva estendersi a tutti i compatrioti del soggetto insolvente, nel caso in cui le autorità della città di provenienza non lo avessero estradato o perseguito col sequestro dei beni a garanzia dei creditori. Cosí, affinché dalle difficoltà contingenti di liquidità di un singolo o dal suo comportamento fraudolento, non derivassero discredito e danni economici per un intero gruppo di operatori, non era infrequente che le società commerciali di una stessa città attivassero meccanismi comunitari di controllo e decidessero addirittura di far fronte collettivamente alle obbligazioni sul mercato internazionale lasciate insoddisfatte da un loro concittadino. In questo spirito allo stesso tempo di responsabilità e
solidarietà collettiva i mercanti delle città italiane e degli altri Stati che operavano sulle fiere si costituivano in nationes, colonie organizzate dotate di proprie assemblee e propri consoli. Questi ultimi gestivano i rapporti tra i propri concittadini e le autorità locali, ne tutelavano gli interessi e inoltre, in un mondo degli affari in cui la maggiore garanzia era appunto data dalla reputazione, sorvegliavano che da parte dei membri della comunità fossero osservati i regolamenti di fiera e fosse mantenuta una condotta integerrima non solo negli affari ma anche nella vita pubblica e privata, secondo un codice di
comportamento etico ampiamente condiviso nel mondo economico del tempo. Ai primi del Trecento, per esempio, i rappresentanti in terra francese dell’Arte di Calimala di Firenze, la corporazione che raccoglieva i mercanti internazionali, erano chiamati a vigilare non soltanto sulla buona qualità dei prodotti commercializzati sulle fiere dai membri dell’organizzazione (e in particolare che alle spezie non venissero mescolate polveri scadenti), ma anche che questi non si lasciassero tentare dai dadi o da qualche altro svago non lecito.
Gli Italiani in prima fila
In prima linea tra i protagonisti dell’economia delle fiere nella fase della loro massima fioritura, lo si è già detto, figuravano i mercanti e banchieri italiani: gli «Oltremontani» o «Lombardi», come erano allora genericamente chiamati di là dalle Alpi gli abitanti della Penisola, quella terra disseminata di città dove il nuovo ceto borghese stava emergendo con prepotenza, che nella seconda metà del XII secolo aveva destato In alto gli stemmi dell’Arte della Seta e del Comune bolognesi, dagli Statuti della società. XIV sec. Bologna, Archivio di Stato. A sinistra miniatura raffigurante una scena di contrattazione, dalla Matricola della Società dei drappieri. XV sec. Bologna, Museo Civico Medievale.
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stupore e scandalo nell’orizzonte di pensiero feudale tenendo in scacco l’imperatore Federico Barbarossa. Nella Champagne, gli Italiani godevano di particolari privilegi. Nel 1222 i Senesi erano stati presi sotto speciale protezione dal conte e sempre gli abitanti della città del Palio sono i primi per cui sia testimoniata l’istituzione di un consolato nel 1246. Il diritto per i mercanti delle città italiane e provenzali di dotarsi di una propria giurisdizione era stato infatti riconosciuto dall’autorità comitale nel 1245 e nella seconda metà del secolo i principali centri urbani della Penisola mantenevano propri magistrati alle fiere. Una volta in terra straniera, dove giungevano al termine di un viaggio lungo e faticoso che, oltrepassando le Alpi attraverso i valichi occidentali, puntava prima in direzione di Marsiglia e poi risaliva verso nord lungo il corso del Rodano, gli Italiani si lasciavano alle spalle le rivalità e discordie di campanile che tanto agitavano e insanguinavano la loro terra. Nell’ultimo quarto del XIII secolo le principali città toscane e lombarde apparivano infatti riunite in un’unica societas et universitas sotto la guida di un capitano, il fiorentino Iacopo del Fronte. Anche i mercanti di Provenza e Linguadoca avevano alle fiere istituzioni si-
mili ai consolati italiani, mentre una sorta di cartello associava diciassette città produttrici di panni di lana dell’Impero, delle Fiandre, della stessa Champagne, dell’Artois e dell’Hainaut. Il tradizionale ciclo fieristico della Champagne comprendeva sei manifestazioni, che avevano luogo in quattro città situate nel raggio di poche decine di chilometri l’una dall’altra, secondo una rotazione pressoché ininterrotta, che rendeva di fatto quest’area la sede di una sorta di grande mercato internazionale permanente. Per il primo appuntamento, all’inizio dell’anno, gli uomini d’affari di tutta Europa convergevano a Lagny-sur-Marne, località che gli Italiani chiamavano «Lagnino», mentre per l’incontro successivo, durante la Quaresima, ci si spostava a Bar-sur-Aube, questa dagli Italiani ribattezzata «Bari».
La «calda» e la «fredda»
Due raduni si tenevano nella città di Troyes: tra luglio e agosto qui aveva luogo la cosiddetta «fiera calda» o fiera di San Giovanni, e dal primo novembre fin verso Natale si svolgeva la «fiera fredda» o di San Remigio, che chiudeva la stagione dando vita al sobborgo cittadino di Troieces, il famoso «Tresetto» assiduamente freTroyes. Una casa tradizionale nel cuore della città vecchia.
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costume e società Le lettere di cambio
Transazioni a otto mani Le fiere della Champagne hanno fortemente contribuito alla promozione delle tecniche commerciali e finanziarie, e, in particolare, allo sviluppo delle transazioni sui cambi internazionali delle valute. Quando gli uomini d’affari cominciarono a vendere le proprie mercanzie (e quindi ad accumulare ricavi) in una piazza commerciale diversa da quella in cui abitualmente si rifornivano, si poneva il problema di spostare le somme da una città all’altra. Finché le distanze restavano contenute, tutto si poteva risolvere con rapide, anche se pericolose, spedizioni di denaro contante. Quando però si trattava di spedire sacchi di monete dall’Italia alla Champagne la faccenda si faceva ben piú complicata (e ancor piú rischiosa). I mercanti-banchieri italiani adottarono, quindi, una prassi particolare, che consisteva nello spostare crediti e debiti attraverso un semplice rogito notarile. Alla fine del Duecento, soprattutto in ambienti affaristici toscani, anche il ricorso al notaio divenne obsoleto e una semplice scrittura privata assunse valore giuridico a tutti gli effetti. Nasceva allora la lettera di cambio, antenata dell’odierna cambiale-tratta. Nella lettera di cambio comparivano quattro figure: il datore, il prenditore, il trattario e il beneficiario; e due piazze commerciali o città. Il datore e il prenditore risiedevano nella prima, trattario e beneficiario nella seconda. La lettera prevedeva che il datore consegnasse un tot di monete correnti sulla prima piazza al prenditore; quest’ultimo cedeva al datore un impegno a pagare (la lettera stessa) sulla seconda piazza e nella moneta corrente di questa. A questo punto il prenditore scriveva al trattario (generalmente un suo corrispondente) e lo avvertiva; cosí come il datore incaricava il beneficiario di passare all’incasso nei tempi stabiliti dalla lettera o dalle «usanze» delle città. L’operazione comportava uno spostamento di valuta, un cambio di moneta e un’erogazione di prestito a breve termine. Il datore, generalmente un banchiere, lucrava sulla commissione (tra l’1 e il 2 per mille) e sul gioco dei cambi: sopravvalutava la moneta che vendeva nella prima piazza e sottovalutava quella che incassava nella seconda piazza, proprio come avviene oggi, quando cambiamo gli euro con dollari o altre valute straniere. S. T.
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L’invenzione delle lettere di cambio scaturí dalla necessità di trasferire in sicurezza ingenti somme di denaro da località distanti anche molte centinaia di chilometri l’una dall’altra
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Miniatura raffigurante le botteghe di un mercato, da un’edizione dell’Etica di Aristotele. XV sec. Rouen, Bibliothèque Municipale.
quentato dai mercanti e dai banchieri provenienti dalla Penisola. Provins, nella contea di Brie, era la sede delle restanti due fiere: quella di maggio in occasione della festa dell’Ascensione e quella di settembre, detta fiera di «Sant’Aiuolo» (cioè Sant’Angiolo) che si inaugurava il 14 del mese, giorno della solennità di Santa Croce. Ciascuna delle sei manifestazioni si protraeva per alcune settimane, suddividendosi, sempre secondo una medesima modalità, in tempi e spazi precisi che inquadravano le varie fasi dell’organizzazione e degli scambi. La prima settimana dall’apertura della fiera, dedicata interamente all’accoglienza dei visitatori e ai preparativi, era coperta dalla totale franchigia dei dazi sulle merci in entrata, per incentivare il maggior afflusso possibile di operatori economici forestieri.
Per accogliere gli operatori
Al loro arrivo i mercanti si sistemavano negli appositi alloggiamenti fatti costruire dai conti della Champagne con il concorso finanziario degli enti ecclesiastici locali, ma naturalmente all’ombra della fiera prosperava anche un vastissimo indotto di mestieri connessi all’ospitalità, alla ristorazione e al trasporto (albergatori, osti e tavernieri, mulattieri, carrettieri, facchini e cosí via). I mercanti stranieri che avessero con sé consistenti somme di denaro, per maggiore tranquillità le potevano
Miniatura raffigurante mercanti lombardi, da un’edizione in francese del Decameron.
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costume e società Oste e tabaccaio, incisione di Giuseppe Maria Mitelli. XVII sec. Milano, Castello Sforzesco, Civiche Raccolte d’Arte Applicata ed Incisioni, Civica Raccolta delle Stampe «Achille Bertarelli». Nella pagina accanto uno scorcio di Bar-sur-Aube, una delle sei città della Champagne in cui si svolgevano le fiere.
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depositare presso un cambiatore oppure un monastero che offrisse – naturalmente dietro compenso – un servizio di vere e proprie «cassette di sicurezza» con chiave o stampo (la cosiddetta «taglia») al portatore, come attesta la lettera spedita da Troyes dal mercante-banchiere Andrea dei Tolomei ai soci senesi, in cui si dichiara alquanto soddisfatto del deposito effettuato con questa modalità presso il convento di S. Giacomo a Provins: «Parmi que sia molto buono diposito, perciò qued elino ricievono tuto tempo l’achomande deli averi dei merchatanti e di ciò àno grande guadagnio; sí ch’amano di guardare e di salvare l’achomande que lo’ sono fate (…) E d’altra parte si àno una chostuma, che mi pare que ne sia molto utile al tempo d’ora, cioiè que chostumano di rendare l’achomande que ricievono, a cholui que le fa, vel a chi aporta le chiavi, o la taglia que ne fuse».
I tre giorni della drapperia
Messi al sicuro i denari, sistemati i banchi per la vendita, sballata ed esposta la mercanzia, si entrava nel vivo della fase del mercato vero e proprio con tre giorni interamente dedicati alla «drapperia», cioè alle compravendite di prodotti tessili, in genere presentati per campione, bastando al mercante esperto l’indicazione della qualità per fare i suoi conti e concludere o meno l’affare. In quarta giornata, ormai chiusa la fiera dei drappi, il calen-
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dario interno delle manifestazioni prevedeva l’apertura della mostra e vendita del cuoio e delle pellicce, che occupava a sua volta tre giorni. È questo anche il momento in cui «seggono i banchi», cioè i cambiatori erigono le loro tavole sul campo della fiera e danno avvio al saldo dei pagamenti e alle varie operazioni finanziarie. Concludevano la fase clou della manifestazione i tre giorni di contrattazioni delle merci vendute a peso, dalle spezie al cotone, alle granaglie, dopodiché iniziavano a partire immediatamente i primi corrieri inviati alle direzioni delle società commerciali nelle città di provenienza dei mercanti, recanti i rendiconti sul «die dare» e il «die avere» e su quanto si aveva «a ricogliere», vale a dire il computo dei crediti da recuperare. In fiera continuavano a lavorare i notai impegnati nella registrazione dei contratti, mentre ancora per quasi un mese restavano aperti i banchi dei cambiatori per consentire la conclusione delle operazioni di pagamento. Per i mercanti e gli agenti delle società commerciali era il momento di spostarsi in un’altra città di fiera o lasciare la Champagne. Sete e spezie esotiche prendevano la via delle città e delle corti del Nord Europa, mentre i pregiati panni fiamminghi andavano verso sud, destinati a essere distribuiti nei Paesi del bacino del Mediterraneo e nei mercati del Levante.
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di Domenico Sebastiani
Buffoni di mestiere
Giullari (e giullaresse), chiamati ad allietare le corti e i signori con motti, acrobazie, scherzi e altre amenità, erano una presenza abituale nel Medioevo. Riconoscibili per l’abito multicolore, il cappello a piú punte e il bastone usato a mo’ di scettro, arrivarono a costituire anche un vero e proprio «sindacato». Iniziative che, tuttavia, non li misero al riparo dagli strali dei predicatori... Il giullare che ride, olio su tavola di ignoto pittore fiammingo. 1540 circa. Stoccolma, Nationalmuseum.
Dossier
L L’
uso della parola giullare, che deriva dal latino ioculator (da iocus, gioco), si diffonde solo nel V-VI secolo, quando comincia a soppiantare i precedenti termini usati nella società romana: mimus, scurra e histrio. Ma non sappiamo se il cambiamento terminologico abbia coinciso anche una diversa indicazione di ruoli e la questione rimane a tutt’oggi incerta. Come già aveva evidenziato il filologo Paul Zumthor (1915-1995), la società medievale aveva a disposizione un vocabolario ricco e allo stesso tempo impreciso – per di piú in continua trasformazione – per indicare gli individui che si occupavano della funzione del divertimento. Cosí, nell’XI-XII secolo, nelle lingue volgari si affermano, derivanti appunto dal latino ioculator, l’italiano giullare, il francese jongleor e jongleur, l’occitano joglar, lo spagnolo juglar, il galiziano jogral, l’inglese jogler, il tedesco gengler e cosí via.
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«Giullare», in realtà, è un termine polisemico e indica un grande contenitore in cui vengono ricomprese molte figure diverse di professionisti del divertimento e dell’intrattenimento, tanto che risulta difficoltoso definire in modo chiaro cosa sia davvero il giullare. Ne sono prova i tentativi esperiti dai piú grandi studiosi nel cercare di darne una definizione circostanziata.
Creature «multiple»
Il medievista francese Edmond Faral (1882-1958), per esempio, cercava di riassumerne i tratti identificando la figura con quanti, per mestiere, facevano professione di divertire gli uomini, puntando sul professionismo e sulla funzione sociale dei giullari. Egli definisce il giullare «un essere multiplo» e fa seguire un lungo, ma non esaustivo, elenco di figure, dal musico, poeta e attore, fino al «buffone che fa lo scemo e che dice scempiaggini».
A destra un giullare al servizio del diavolo e un uomo virtuoso, xilografia realizzata da Hans Schäufelein per un’edizione dell’opera Hymmelwagen auff dem, wer wol lebt... di Hans von Leonrodt. 1517. New York, The Metropolitan Museum of Art. In basso un giullare e una giullaressa, in un’incisione di Hans Sebald Beham. 1520-1550. Chicago, Art Institute.
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Capolettera istoriato raffigurante un re e un giullare, posto all’inizio del Salmo 53 contenuto in un Salterio e Libro d’Ore all’uso di Saint-Omer. 1276. Londra, The British Library.
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Iconografie
Fenomenologia dell’insipiens In molte Bibbie e salteri del XIV e XV secolo, la lettera iniziale del Salmo 52 presenta l’immagine di un giullare o di un buffone di corte. Si tratta della progressiva e ultima trasformazione di un personaggio presente nel testo biblico, ossia lo stolto che nell’incipit nega l’esistenza di Dio («Dixit insipiens in corde suo: Non est Deus»). Se all’inizio egli è raffigurato calvo e seminudo, con un bastone o una clava in mano, attorno al XV secolo diventa il classico giullare con il cappuccio a sonagli e le orecchie d’asino, con la marotte o il bauble in mano e con il vestito variopinto. Ma la trasformazione è graduale. Nelle piú diffuse raffigurazioni iniziali l’insipiens viene raffigurato calvo, o con i capelli rasati, caratteristica che rimanda a una caratterizzazione negativa: nel Medioevo, infatti, la tonsura era segno di penitenza, ovvero marchio di infamia riservato a categorie di emarginati. Tra questi coloro che si erano macchiati di furti o altri reati e, appunto, i folli. Il copricapo a punta, spesso con caratterizzazioni animali, come le orecchie d’asino e la cresta di gallo, comparve in un secondo momento. Anche l’abbigliamento inadeguato lo assimila agli emarginati. All’inizio è coperto da un mantello o da un drappo, sotto il quale spesso è nudo e mostra anche i genitali, aspetto
che non sembra ricollegare l’insipiens ai comportamenti licenziosi dei giullari, quanto alla condizione di insensato che è incapace di osservare le comuni regole di comportamento e non conosce la vergogna. Piú tardi, intorno al XIII secolo, cominciano ad apparire miniature che rappresentano lo stolto con la caratteristica divisa a righe colorate. Solo nel XV secolo, però, il vestito del giullare si cristallizza nella forma a colori sgargianti che lo caratterizza come buffone di corte, e che viene a coincidere con la divisa della follia. Di solito l’insipiens tiene in mano un oggetto rotondo, che spesso porta alla bocca nell’atto di addentarlo. Alcuni ritengono che rappresenti una forma di formaggio, accostato anche dalla medicina medievale alla follia, mentre è piú probabile che si tratti di una pagnotta di pane, come si deduce da fonti letterarie medievali e dalla stessa raffigurazione visiva, con i tipici tagli a croce della pagnotta. Raramente, l’oggetto sembra essere uno specchio o una sfera in cui l’insipiens si guarda, beandosi della sua follia. In questi casi andrebbe per alcuni interpretato simbolicamente come il globo terrestre e quindi come la sua stolta e folle presunzione di onnipotenza di rivendicare un potere sul mondo, dietro incitamento del diavolo. Miniatura raffigurante un giullare che porta alla bocca un animaletto, fingendo di suonarlo, sotto lo sguardo divertito di due gentiluomini, dalla Bible Historiale. Inizi del XV sec. Londra, The British Library.
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Pur conservando un carattere generale, risulta piú precisa la definizione proposta dal filologo spagnolo Ramón Menéndez Pidal (1869-1968), secondo il quale i giullari sono «tutti coloro che si guadagnano la vita agendo davanti a un pubblico per rallegrarlo con la musica, con la letteratura, con la ciarlataneria, con giochi di mano, di acrobazia, di mimica…». Con la conuseta maestria e le capacità di sintesi che lo contraddistinguevano, Jacques Le Goff (1924-2014) ha definito il giullare un intrattenitore tuttofare e itinerante, che porta i suoi numeri ove essi possono essere apprezzati e remunerati, in massima parte presso i castelli signorili. Egli è un giocoliere «di bocca», perché recita versi e racconta storie (anche se non le compone ed è semplice esecutore), e anche un giocoliere «di gesti», in
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Dossier quanto è un acrobata contorsionista, un giocoliere nel senso moderno del termine, un danzatore parodistico e un musicista. Altrettanto dibattuta è la questione circa la diretta e unica derivazione del giullare dall’istrione e mimo latino, come sostengono alcuni, oppure circa la possibile concorrenza di influenze barbare, come quelle degli scaldi islandesi e norvegesi o dei bardi anglosassoni, come sembra piú probabile. Senza trascurare il fatto che in alcune regioni, come la penisola iberica, vi furono anche influenze tartare, ebraiche e musulmane.
A sinistra il Matto, carta del mazzo dei tarocchi Visconti-Sforza o Colleoni. Seconda metà del XV sec. Bergamo, Pinacoteca dell’Accademia di Carrara. Nella pagina accanto, a sinistra miniatura raffigurante un giullare che indossa il tipico copricapo a piú punte con campanellini appesi alle estremità e porta la sua marotte in una mano e un falco nell’altra, dalla Bible Historiale. Inizi del XV sec. Londra, The British Library.
Uomini senza ordine
Secondo il filologo Giuseppe Noto, il destino dello ioculator è l’esclusione: la cultura ufficiale medievale fa del giullare uno dei punti focali su cui accentrare i propri tabú, come il denaro, il sesso, il corpo, nonché l’attività e il tempo non direttamente produttivi. A suo dire, infatti, il giullare è un uomo senza ordine, non inquadrabile con precisione all’interno delle coordinate culturali ufficiali e nel sistema sociale tripartito. Su una linea analoga si pone Luigi Allegri, insigne studioso del teatro medievale; a suo avviso il nomadismo istituzionale della giulleria, lo spostarsi di luogo in luogo o di corte in corte, sempre alla ricerca di un nuovo pubblico o di un signore piú generoso, equivale a instabilità, a spiazzamento, all’essere sempre e comunque fuori posto. Il giullare, inoltre, non ha ruolo sociale, non ha identità quale soggetto produttivo, esiste solo nel terreno dello spettacolo e della festa e, spesso, gli viene perciò concessa solo un’identità fittizia, ossia il nome d’arte (abbiamo cosí, tra i giullari attivi in Italia, Francia e Spagna, Dolcibene, Malanotte, Maldecorpo, Clarinus, Malapareillez, Passerellus, Sauvache, Simples d’amors, Cercamon, Marcabru, Alegre, Bon amis, Corazón, Guillaume sans manière e cosí via). Egli non ha neppure uno spazio
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la marotte
L’insegna del mestiere Il giullare è caratterizzato iconograficamente dalla marotte, termine francese con cui si designa il suo bastone che termina con una testa umana. Anche la marotte compare in forma primordiale nelle miniature che rappresentano l’insipiens biblico. Inizialmente, essa si presenta come un semplice bastone nodoso o come una
clava, che nel Medioevo sono tipici attributi del folle, quali simbolo di violenza e inciviltà in contrapposizione alle armi cavalleresche. Col tempo, nel vertice superiore del bastone compare una forma rotonda, con tre buchi che potrebbero rappresentare occhi, naso e bocca, per poi trasformarsi progressivamente in un abbozzo di febbraio
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testa di uomo fino ad arrivare, nelle forme piú compiute, in una ben riconoscibile testa umana, spesso atteggiata in un ghigno beffardo. La marotte rappresenta in sostanza una specie di alter ego del buffone, e, allo stesso tempo, una sorta di parodia dello scettro regale. Probabile che il volto d’uomo inciso sulla sommità del bastone servisse al giullare
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per improvvisare dialoghi buffi durante le sue performances, spesso sfruttando anche le sue capacità di ventriloquo e usando l’accorgimento di attribuire al legno le frasi piú sguaiate. In alcuni Paesi, soprattutto in Inghilterra, intorno al XIII secolo appare un oggetto che finí con il sostituire la marotte, ossia il bauble, una bacchetta di legno che reca legata sulla cima una vescica di porco.
Una marotte, lo «scettro» del giullare, caratterizzato dalla terminazione superiore in forma di testa umana. XVI sec. Parigi, Museo del Louvre.
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Dossier Il copricapo
Creste di gallo e altre «diavolerie»
A testimonianza delle caratteristiche animalesche del giullare/ buffone, sulla cima del suo cappuccio comincia ad apparire, dal XIV secolo, una testa di foggia animalesca, spesso un uccello. Il piú delle volte si tratta di un gallo, simbolo di prestanza sessuale, talvolta di un’aquila, segno di fierezza. In seguito compaiono due varianti: la prima vede una serie di sferette di stoffa cucite e allineate sulla parte superiore, che si concludono con una pallina piú grande sulla coda posteriore; la seconda prevede invece l’inserimento di una striscia seghettata che ricorda anch’essa una cresta di gallo. Un esempio molto chiaro compare nella stampa di Heinrich Voghterr il Giovane (1513-1568) in cui un giullare viene raffigurato nel curioso atteggiamento di coprirsi gli occhi per non vedere qualcosa di sconveniente. Talvolta, però, come risulta in alcuni manoscritti francofiamminghi, o salteri inglesi, appaiono giullari che portano sulla sommità del copricapo figure simili a draghi con la bocca spalancata. Tuttavia, la caratteristica precipua del copricapo del buffone sono le orecchie animalesche: simili a quelle di una scimmia, di un leprotto, ma soprattutto a quelle di un asino, a richiamare il concetto di stupidità e follia. Sembra che la prima testimonianza, a tal proposito, risalga tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo e sia rappresentata dal capitello di semicolonna conservato nelle Civiche Raccolte d’Arte Antica del Castello Sforzesco di Milano. Orecchie indubbiamente asinine si ritrovano in un gran numero di miniature, cosí come, per esempio, in un disegno di Albrecht Dürer, in cui il soggetto suona una cornamusa, ovvero nella Danza macabra di Guyot Marchant (1486). È singolare che in alcune illustrazioni anche le giullaresse, a parte una gonna al posto delle brache, indossino i capi di solito in uso ai buffoni uomini, ossia le orecchie d’asino, la marotte e le scarpe a punta. Altro esempio celebre del copricapo si può trovare in un disegno di Pieter Brueghel il Vecchio (1528-1569), in cui uno dei due folli ha orecchie asinine e un lungo naso a forma di becco, particolare che richiama appunto il gallo (Fine Arts Museums of San Francisco, California, USA).
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In alto, a sinistra una bigotta e una giullaressa protagoniste di una danza macabra, facsimile di un’incisione realizzata per la Danse macabre historiée stampata da Guyot Marchant a Parigi, nel 1486. In alto, sulle due pagine due buffoni danzanti in una incisione di Hendrick Hondius I. 1642. New York, The Metropolitan Museum of Art. febbraio
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fisico nel quale potersi collocare, perché è sempre ospite di qualcuno e quindi si connota come uno straniero e un socialmente diverso. Anche nell’aspetto fisico risulta estraneo ai parametri della quotidianità, si rade capo e barba, si veste in modo anomalo con abiti vistosi e bicolorati verticalmente, consegnandosi al territorio degli emarginati, a un universo in cui viene a trovarsi a
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fianco del folle, con il quale tende spesso a confondersi. Egli fa spettacolo indifferentemente per il popolo, per i borghesi ricchi, per i signori, per i vescovi. In una società rigida come quella medievale, riesce ad attraversare le barriere di classe: da chierico, da borghese o addirittura da nobile, si trasforma in giullare e dunque in un emarginato, al contrario, quale
giullare, attraverso lauti doni, può divenire addirittura ricco possidente o feudatario. Ancora una volta ci soccorre Le Goff, con la sua personale definizione: il giullare è un «eroe medievale ambiguo», e l’ambiguità del suo status e della sua immagine è la stessa che, all’interno della cultura medievale, caratterizza il divertimento in genere. Si presenta anche
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Disegno di Jost Amman raffigurante un giullare che suona, stando in groppa, al contrario, a un cavallo scalpitante. 1586. Washington, National Gallery of Art.
quale illustrazione della duplice natura dell’uomo, creato da Dio e decaduto dopo il peccato originale. I suoi pensieri e le sue azioni possono volgere verso il bene e verso Dio o, al contrario, verso il male e verso il demonio, da qui la sua doppia caratterizzazione come giullare di Dio o giullare del diavolo.
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La condanna morale della Chiesa nei confronti della giulleria ha origini antiche. Già i Padri della Chiesa attaccavano le seduzioni degli spettacoli profani, del teatro come albergo del vizio e della perdizione, e l’osceno spettacolo dei turpi istrioni, che Tertulliano si augurava di veder contorcersi nelle fiamme del Giudizio Finale. Lo stesso sant’Agostino (354-430), nelle Confessioni, racconta di essere stato irretito in età giovanile dagli impuri istinti suscitati dagli spet-
tacoli, ove la curiositas e il desiderium oculorum portano a far prevalere le inclinazioni piú basse e riprovevole. Gli spettacoli in genere e i divertimenti sociali sono associati ai piaceri dei sensi e alla lussuria, per questo, piú tardi, i giullari sono accusati di lascivia e incontinenza, di frequentare taverne, bagni pubblici e postriboli. Il francescano Matfre Ermengaud († 1322) afferma, per esempio, che i giullari «adulatori sono e maldicenti e avari e ingrati, e sleali e menzognieri, e sboccati e puttanieri, e febbraio
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San Bernardino predica da un pulpito, tempera su pergamena di Francesco di Giorgio Martini. 1470-1475. New York, The Metropolitan Museum of Art. L’opera apparteneva con ogni probabilità a una raccolta di inni in onore del santo stesso.
di solito giocatori, tavernieri e bevitori, e portano molte ambasciate di puttaneria, e alcuni di essi spesso stregano le persone con arte del diavolo». Per parte sua, il teologo Alain de Lille, nel XII secolo, scrive invece che «la maldicenza è tipica dei giullari», e la loro lingua, che va a caccia di cibo, sarà torturata dal castigo infernale.
Gesti scomposti
Il giullare viene etichettato con tre aggettivi: vagus, vanus e turpis. È infatti un girovago, senza fissa dimora, parla in maniera eccessiva e a vanvera, ma è anche «turpe» perché stravolge il suo aspetto e deforma l’immagine umana, creata a somiglianza di Dio. La sua gesticulatio è riprovevole: è artificiosa, scomposta e volgare, caratterizzata da pose ridicole od oscene, per suscitare riso o ilarità. Per questo i chierici e i novizi vengono ammoniti dai superiori a non lasciarsi andare – a modo dei giullari – a una gestualità scomposta, che è indice di disordine interiore. Particolarmente avversato è il gesto imitativo, che trasforma le fattezze umane in maschere bestiali, e che è proprio non solo degli istrioni e dei professionisti del divertimento, ma del diavolo, simulatore per antonomasia. Se si pensa a quanto afferma Onorio di Autun (seconda metà del XII secolo), la sorte dei giullari sembrerebbe senza scampo. In un immaginario dialogo con un discepolo, egli afferma: «“Hanno speranza [di salvezza] i giullari?” “Nessuna, infatti in tutto sono ministri di Satana, e di loro si dice: Non conobbero Dio, perciò Dio li disprezzò e Dio li derise, poiché i derisori saranno derisi”». Non meno duri si mostrano i frati domenicani Guglielmo Peraldo (XIII secolo) e
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Giovanni Cavalca (1270-1342), che sottolineano la contiguità di buffoni e giullari con il Maligno. Tuttavia, gli strali dei predicatori non si limitano ai soli giullari, istrioni e affini, ma anche a coloro che assistono ai loro spettacoli e, ancor piú, a tutti quelli che fan-
no loro dei donativi. Sulla scorta di quanto detto in precedenza da sant’Agostino («Donare res sua Histrionibus, vitium est immane, non virtus»), per tutta l’età di Mezzo fare dei regali ai giullari viene ritenuta cosa sconveniente e riprovevole. Giovanni di Salisbury (1120-1180)
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Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Inferiore. Un suonatore di doppio flauto vestito con gli abiti tipici del giullare, particolare dell’Investitura di San Martino di Tours, una delle scene del ciclo affrescato nel 1313-1318 da Simone Martini nella cappella intitolata al santo.
afferma addirittura che i principi, invece che sfamare gli istrioni, farebbero bene a sterminarli. Non meno severo è il filosofo Abelardo (1079-1142), che se la prende con le stesse gerarchie ecclesiastiche che hanno in uso di accogliere alla loro mensa, durante festini demoniaci, tale razza di osceni individui e di ricompensarli per i loro spettacoli, sottraendo i beni della Chiesa e le offerte ai poveri per immolarli sull’altare del demonio.
Le giullaresse
Accanto ai giullari, esistevano anche intrattenitrici di sesso femminile, le quali esercitavano il mestiere di danzatrici, musicanti di strada e altro, alla stregua degli uomini. Su di loro gravava un giudizio morale ancor piú pesante di quello riservato ai colleghi maschi, in quanto le stesse venivano accostate senza mezzi termini a meretrici e prostitute. La profonda avversione da parte degli uomini di Chiesa nei confronti della danza (attività spesso praticata dalle giullaresse), è testimoniata dall’inquisitore Étienne de Bourbon (XIII secolo), secondo il quale il demonio è l’inventore e l’ispiratore di tutte le danze, mentre il domenicano Domenico Cavalca, un secolo dopo afferma, a proposito delle ballerine, che se è sempre pericoloso «vedere le femmine vane, e lascivie; molto e vie maggiore è vederle ballare, e cantare; perocchè allora piú provocano al male». Per questo, anche a livello iconografico, viene stabilito un accostamento tra le giullaresse e la biblica Salomè, tutte accomunate dal fatto di esibire il proprio corpo per ottenere un beneficio: denaro e doni nel caso
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delle prime, la testa di Giovanni Battista nel caso della seconda. In Spagna un tipo speciale di giullaressa è la soldadera, cioè colei che, come il soldato, «vive della paga, del soldo quotidiano», offrendo le sue prestazioni in pubblico quale donna di spettacolo, ovvero della cantadera, che si esibisce perlopiú nel canto. Nonostante la predetta prevenzione, nella penisola iberica, e non solo, molte giullaresse conquistarono col tempo una posizione sociale ed economica di tutto rispetto, come nel caso della soldadera galiziana María Pérez Balteira, attiva alla corte di Alfonso X di Castiglia attorno alla metà del XIII secolo. Tra le molteplici attività, il giullare appare talvolta come domatore o ammaestratore dei piú vari animali, quali cani, cavalli, orsi, leoni, ma soprattutto scimmie. L’associazione tra il giullare e la scimmia appare spesso nell’iconografia del tempo, come nelle miniature a margine dei manoscritti e nelle sculture, ma acquista una particolare rilevanza a livello metaforico. La scimmia, durante il Medioevo, gode di una pessima fama, a cominciare dai Bestiari, che la assimilano al diavolo. Ripugnante d’aspetto e impudica nei costumi, essa viene vista come una copia ridicola e degenerata dell’uomo, un esempio di contraffazione e imitazione diabolica. Che cos’è il diavolo, infatti, se non il piú grande imitatore e contraffattore, che cerca di emulare Dio? Abbiamo cosí il teologo inglese Alexander Neckam (1157-1217) che, dopo avere affermato che la scimmia è come l’ipocrita che imita i segni della virtú, assimila esplicitamente il giullare con questo animale: «Non è forse vero che allo stesso modo l’istrione, che mostra un volto ora ridente ora piangente, e cambiando il volto in tutte le maniere per incitare al riso loro malgrado coloro che osservano, sembra comportarsi come una scimmia? Male, male. L’uomo, nobile creatura, si sforza di sembrare una scimmia. L’azio-
ne dell’istrione disonora la dignità della natura, in cambio di una vergognosa ricerca di un misero guadagno». Animale ridicolo e senza dignità, la scimmia è alter ego dell’uomo e rappresenta la brutalità e la bestialità dello stesso nel momento in cui si allontana dalla rettitudine per soddisfare i propri bassi istinti. Ancora Peraldo e Cavalca assimilano il buffone, oltre alla scimmia, anche alla capra: «Dobbiamo dunque sapere che questi scurri cioè giullari sono assimigliati alla capra e alla scimmia. In ciò che con questi animali fanno i loro sollazi e giuochi per exercitare le genti a ridere. Cosí il diavolo per le loro parole giocose e di beffe concita le genti a dissolutioni. Et come la capra è animale fetido et la scimmia è animale laido e diforme, cosí eglino nel conspecto di Dio sono fetenti e dispiacevoli». La vicinanza del giullare a una condizione animalesca, che si riverbera anche su alcuni connotati dei suoi indumenti e del suo copricapo, rimarca ancor piú la sua contiguità con il terreno dell’alterità e del peccato.
La riabilitazione
Nonostante il tendenziale disprezzo per il ruolo del giullare, la Chiesa non può ignorare che nella Bibbia esiste il re Davide che, alla stregua di un giullare, suona, canta e balla. E dunque anche nei giullari si possono intravedere aspetti positivi. La progressiva riabilitazione morale del giullare passa innanzitutto per un celebre passo del teologo inglese Tommaso di Chobham (1160-1233), tratto da un manuale a uso dei confessori e di poco anteriore al 1215, che distingue tra giullari buoni e giullari cattivi. Secondo Tommaso, che distingue tre generi di giullari, il giullare turpe e riprovevole è quello che ricorre alla scurrilitas, ossia all’eccesso, all’esibizionismo verbale e gestuale, che non sottomette il corpo al controllo della mente, e si lascia andare a una gesticulatio impudica al posto di gesti posati e decorosi.
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Dossier Ma non tutti i giullari sono da condannare. Sono meritevoli di lode coloro che «cantano le gesta elevate dei principi e delle vite dei santi, procurano sollievo quando si è malati o agitati e non commettono tutte le infamie che commettono invece gli acrobati uomini e donne e quelli che danno spettacoli turpi e fanno apparire i fantasmi sia per magia che in altro modo». Anche san Bernardo († 1153) propone paragoni meritevoli nei confronti dei giullari: gli uomini, quando diventano umili, rassomigliano «ai giullari e agli acrobati che, testa in basso e piedi all’aria, fanno il contrario di ciò che è normale, camminano sulle mani e cosí attirano su di sé gli sguardi di tutti. Non è un gioco puerile, un gioco da teatro che stuzzica il desiderio attraverso lascive movenze femminili e che rappresenta atti ignobili, no, è un gioco gradevole, decente, serio, notevole, la cui visione può rallegrare gli spettatori celesti». Il domenicano Tommaso d’Aquino (1225-1274) si spinge oltre, rivalutando, nella Summa Theologica, il ruolo del ludus nella vita dell’uomo, ove venga fatto in modo appropriato e nella giusta misura. I giullari hanno perciò un posto nella società, la loro attività è lecita in quanto utile a ricreare gli uomini e, in quanto tale, meritevole di un compenso quale contropartita. Lo scarto con l’idea dei precedenti pensatori è enorme: mentre prima il giullare era considerato un reietto e un essere diabolico, ora viene restituito al consesso umano e gli viene riconosciuto un ruolo sociale.
Danzare non è peccato
Negli stessi anni, san Bonaventura (1217/1221-1274) recupera il ruolo della danza, nel senso di non considerarla cattiva in sé, ma solo se fatta in modo lascivo, al fine di provocare libidine, in tempo di tristezza, o praticata da un religioso. Anche il teologo francese Ugo di san Vittore (1096-1141), tempo prima, aveva indirettamente contribu-
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ito a una riconsiderazione dell’attività ludica e giocosa, pur senza mai citare i giullari: egli infatti aveva teorizzato l’introduzione, accanto alle sette arti liberali tradizionali, di sette artes mechanicae, tra cui la theatrica, che giova, a suo dire, alla salute del corpo e dello spirito, e a distogliere il popolo da scandali e delitti. La progressiva tendenza rivalutativa nei confronti della giulleria è avvalorata dalla diffusione di motivi agiografici e miracolosi che vedono la presenza di un giullare, come nel caso della leggenda de Le Jongleur de Notre-Dame, risalente alla fine del XII secolo (vedi box a p. 86), oppure nell’episodio all’interno dei miracoli del Volto Santo di Lucca, ovvero nella variante tirolese di santa Liberata. Tale cambiamento di sensibilità da parte del mondo religioso nei confronti dei giullari, che consente di dissipare in parte l’aura diabolica che li aveva fino ad allora contornati, per ricondurli alla misura di esseri umani in lotta per la sopravvivenza, riceve un impulso decisivo dalla nascita degli Ordini mendicanti. Come evidenziano le studiose Casagrande e Vecchio, il mondo del giullare, che per secoli era stato «altro» rispetto a quello del chierico – rappresentando il luogo del peccaminoso –, diventa ora, per quanti hanno riscoperto nel messaggio evangelico le forme di un differente apostolato, lo stesso del mondo del chierico. Si assiste cosí, anche nel campo dell’attività praticata dagli Ordini mendicanti (dediti alla povertà, alla predicazione e alla mendicità), a una sovrapposizione tra il mondo religioso e quello giullaresco. Se in epoche precedenti i religiosi avevano ammonito i predicatori ad assumere un contegno composto, la situazione cambia decisamente soprattutto per opera dei Francescani, i quali, cercando con la predicazione di commuovere il pubblico e di suscitare nello stesso partecipazione emotiva, mutua-
Riproduzione dell’allegoria del mese di Aprile, dal Breviarium secundum consuetudinem Romanae curiae (XVI sec.). La scena ha come soggetto un corteo nuziale che si snoda in un parco, con due damigelle che giocano con un cagnolino sedute nell’erba vicino allo specchio d’acqua, e un giullare che allieta la compagnia. Eliotipia del 1910 circa.
no dal giullare diverse tecniche di comunicazione. L’esempio piú fulgido ci viene proprio da san Francesco (11811226), il quale non esita a inserire nelle sue prediche poesia, canto, danza, mimica e linguaggio figurato. Le testimonianze di Tommaso da Celano e di frate Leone ci ricordano come lo stesso Francesco invitasse i suoi fratelli e discepoli a cantare come giullari di Dio, e ad affermare senza mezzi termini: «Che cosa sono infatti i servi di Dio, se non suoi giullari, che devono sollevare il cuore degli uomini e condurlo alla gioia spirituale?».
La «rivoluzione» di Francesco
La definizione di ioculatores Domini impronta la grande novità della predicazione francescana, e avvicina quindi la parola di Dio alla turpe figura del giullare. Anche altri predicatori francescani si giovano di tecniche giullaresche: il beato Tommasuccio da Foligno, nella Siena della seconda metà del Trecento, si serve di trucchi da vero illusionista per attirare la gente alle prediche (uso di tizzoni ardenti sul mantello senza bruciarlo, posizionamento di candele accese in bocca senza farsi alcun male). San Bernardino, agli inizi del Quattrocento, durante le sue prediche a Firenze e a Siena, inserisce l’imitazione del suono della tromba, il ronzio delle mosche o il verso degli animali. Dalle fonti desumiamo che esistevano forme di collaborazione tra giullari che, con specializzazioni diverse, offrivano al pubblico la loro esibizione. Talvolta si stabiliva una febbraio
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Dossier collaborazione, non paritetica, tra trovatore e giullare: si usa infatti distinguere il ruolo del primo, che compone versi e musica e che, agendo in modo disinteressato, rifiuta qualsiasi tipo di remunerazione, e quello del secondo che – non padroneggiando la scrittura – si affida alla performance orale e che recita in pubblico le composizioni del trovatore. Se in teoria il troviere è autore e il giullare è interprete, tale semplificazione usualmente proposta risulta quindi inadeguata, poiché la situazione è molto piú complessa e i confini tra le due figure risultano piú sfumati. Vi sono infatti trovatori che, oltre a comporre, recitano in prima persona le proprie opere, cosí come vi sono soggetti di estrazione sociale piú elevata che si accostano al mondo della giulleria, con conseguente acculturazione della stessa. Con il tempo, anche i giullari cominciano a padroneggiare la parola scritta, e si trasformano in poetigiullari, fulgidi esempi dei quali si ritrovano nella stessa Italia, basti pensare ai casi di Ruggieri Apugliese, Cielo d’Alcamo e Compagnetto da Prato (XIII secolo).
Da nomade a stanziale
In modo progressivo, al pari della rivalutazione morale, si assiste alla graduale riqualificazione sociale del giullare. Egli abbandona il suo continuo peregrinare da luogo a luogo e, da nomade, diviene stanziale, alle dipendenze permanenti di un signore. In tal maniera la sua funzione ludica si istituzionalizza e trova un rilievo sociale e una sua liceità, cosí come, sotto il profilo economico, retribuzioni stabili si sostituiscono a regalie occasionali. Dal XIII secolo in poi, e soprattutto nel XIV e XV, ogni corte che si rispetti non ospita soltanto poeti e trovatori, ma anche numerosi giullari di servizio, specialmente cantori e musici. Il giullare musico di corte tenderà ad assumere, soprattutto in Francia, il nome di menestrello (in
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le jongleur de notre-dame
Acrobazie al cospetto della Vergine L’episodio agiografico de Le Jongleur de Notre-Dame, risalente alla fine del XII secolo, parla di un giullare rifugiatosi nell’abbazia benedettina di Clairvaux, il quale, non sapendo pregare, decide di dimostrare la propria devozione nel modo che sapeva, ovvero eseguendo ogni giorno delle acrobazie davanti alla statua della Vergine. L’accusa nei suoi confronti di tenere un comportamento poco consono, si dissolse nel momento in cui la Madonna e gli angeli discesero per confortare il povero giullare esausto. L’episodio rimase nei secoli a fornire un’immagine eroica del giullare, tanto da ispirare una celebre opera di Jules Massenet nel 1902, nell’ambito del ritorno alla musica e alla sensibilità del Medioevo. Un episodio simile si inserisce nell’ambito della leggenda di un crocifisso proveniente dall’Oriente, che fu trasportato nella cattedrale di S. Martino a Lucca. Durante il XII secolo cominciarono a essere elaborate narrazioni relative a miracoli compiuti dalla santa immagine. Una di queste ha per protagonista un giullare che si mise a suonare la viola ai piedi del crocifisso di Cristo, il quale, in segno di apprezzamento, gli gettò la sua scarpa destra; l’episodio miracoloso fu talmente celebre da avere diverse varianti in Francia, come narrato nel poema Le Vou de Luques, in cui la scarpa che Cristo dona al suonatore è d’oro e di pietre preziose. La versione tirolese della santa Liberata (Wilgefortis) – fanciulla che, non volendosi sposare, chiese al Signore di farle crescere la barba e che fu poi punita dal re con la crocifissione – prevede che un giullare si mettesse a suonare la viola ai piedi della statua dedicata successivamente alla santa, la quale gli concesse una delle sue scarpe d’oro. Il manifesto di Georges Antoine Rochegrosse per la messa in scena de Le jongleur de Notre-Dame di Jules Massenet al Théâtre de l’Opéra-Comique di Parigi, nel 1904.
Inghilterra ministrel è la parola con cui si indicano in questo periodo i giullari), assumendo sotto la protezione del signore una sicurezza giuridica ed economica prima impensabile. Tanto che aspirazione di un qualsiasi giullare sarà quella di diventare menestrello di corte, o al limite buffone di corte (altra figura, seppur meno importante e piú vicina alle prestazioni del vecchio giullare-istrione, al servizio di un sovrano). Ne consegue uno slittamento semantico e un nuovo processo di emarginazione all’interno dell’enorme calderone della giulleria: con il termine di giullari verranno a essere indicati i soggetti piú degradati e meno preparati della categoria. Le figure piú elevate di giullari
rivendicano infatti il riconoscimento del loro status: un’importante testimonianza, in questo senso, è la cosiddetta Supplica che il trovatore/ giullare Guiraut Riquier rivolse nel 1274 al sovrano Alfonso X, re di León e di Castiglia. Dopo una lunga introduzione, in cui spiega come per gli altri ceti (chierici, cavalieri, borghesi e contadini) si utilizzino nomi ben precisi, Guiraut si lamenta del fatto che, nel campo della giulleria, vengano invece riuniti indistintamente soggetti che compiono attività deprecabili, come chi a malapena strimpella uno strumento o chi ammaestra animali, e soggetti colti, valenti e saggi, che compongono opere e poesie, e che sono gli febbraio
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Dossier Pietro Gonnella
Chi di scherzo ferisce... Figura leggendaria di buffone di corte fu Pietro Gonnella (o Gonella). Nato probabilmente a Firenze nel 1390, egli fu al servizio presso i signori di Ferrara, soprattutto Obizzo III d’Este e Niccolò III d’Este. Le scarse notizie sul suo conto ci sono pervenute attraverso l’umanista Domenico Bandini, che parla di un certo Petri Florentini histrionis, soprannominato il Gonnella, da Franco Sacchetti (che ne parla nelle sue Trecentonovelle, ove lo descrive come un buffone itinerante di corte in corte ma particolarmente legato a quella di Ferrara), e da Matteo Bandello, il quale dedica piú d’una delle sue Novelle (1554) alle burle del buffone. In particolare, nella XVII novella, narra del tragico scherzo che causò la morte del Gonnella attorno al 1441, sembra per crepacuore, a causa di una finta condanna a morte come punizione di una burla a sua volta tirata al marchese Nicolò III. Per guarire dalla febbre quartana che infatti Woody Allen nei panni di un giullare nel film Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere), adattamento cinematografico dell’omonimo libro divulgativo del sessuologo David Reuben, realizzato nel 1972 dall’attore, regista e sceneggiatore statunitense.
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affliggeva il marchese, il Gonnella un giorno lo spintonò dentro le acque gelide di un fiume, generandogli una «spaventevole paura» che lo risanò, ma il buffone, invece di soccorrerlo, se la diede immediatamente a gambe levate e scomparve. Tempo dopo, decisosi a rientrare in città confidando nella bontà del marchese, fu invece imprigionato dalle guardie. Niccolò III lo condannò, per punizione, a essere giustiziato mediante decapitazione; il piano prevedeva però che all’ultimo momento il boia gli gettasse in faccia solo un secchio d’acqua fredda. Ma tale e tanta fu la paura provata dal buffone che, quando la scure si abbattè su di lui, o meglio vicino a lui, il Gonnella spirò. La morte provocò grande dolore presso la corte, che riservò al buffone dei solenni funerali. Circa le modalità delle sue performances, Bandello racconta che il Gonnella «parlava poi ogni linguaggio di tutte le città di
Il buffone di corte ferrarese Gonella nel ritratto dipinto su tavola da Jean Fouquet. 1445 circa. Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie.
Italia, si naturalmente, come se in quelli luoghi fosse nasciuto e stato da fanciullo nodrito». Quanto riferito dimostra che giullari e buffoni parlavano una lingua piú vicina possibile a quella degli ascoltatori, una sorta di koiné interregionale che consentiva loro di arrivare a un pubblico piú ampio possibile; era una lingua viva e in continua evoluzione, che si arricchiva continuamente con prestiti derivanti da piú parti. Il buffone, come dimostra Gonnella, padroneggiava e imitava i dialetti di molte località, il che, in aggiunta all’uso della mimica, generava un effetto comico irresistibile. Del Gonnella ci rimane un magnifico ritratto (conservato nel Kunsthistorisches Museum di Vienna), che lo raffigura in una posa inconsueta, a braccia incrociate, e con un’espressione al contempo sorridente e malinconica. Attribuito inizialmente a Jan van Eyck e Giovanni Bellini, il dipinto viene oggi assegnato al francese Jean Fouquet, che lo realizzò intorno al 1445, quindi successivamente alla morte del buffone (vedi foto qui accanto). unici a potersi fregiare del nome di giullare. Chiede quindi al sovrano di porre fine a questo stato di cose e di riconoscere dignità agli unici veri meritevoli. La risposta di Alfonso, giunta l’anno successivo e probabilmente scritta dallo stesso Guiraut, riconosce che solo chi sa comportarsi piacevolmente e in maniera cortese, suonando strumenti o cantando componimenti altrui, o svolgendo altre attività oneste e giocose, può godere del nome di joglar, mentre gli altri, che svolgono attività miserevoli e vili, meritano il nome di buffone. Il riconoscimento sociale del giullare è testimoniato anche dalla nascita di vere e proprie corpora-
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Dossier La versione di Dario Fo
Un Mistero di grande successo Un momento di rinascita dell’interesse nei confronti della figura del giullare si è avuto nel nostro Paese nel 1969, quando fu rappresentato per la prima volta Mistero Buffo, opera scritta, diretta e interpretata da Dario Fo (1926-2016). Nella «giullarata» Fo si pone sul palcoscenico quale unico attore e interprete, recita in grammelot testi antichi, che rielabora in modo fantasioso e, con un taglio decisamente comico-satirico, glorifica gli oppressi e si scaglia in modo graffiante contro il potere costituito. Il grammelot, probabilmente derivato dal francese grommeler («borbottare, mormorare fra i denti») è, come spiega il vocabolario della Treccani, un «termine del gergo teatrale indicante una forma di gioco verbale in cui si esibiscono attori dotati di particolare scioltezza di lingua e capacità imitativa: consiste nell’evocare, con un apparente discorso che si snoda in una rapida e disinvolta successione di suoni per lo piú non corrispondenti a parole reali – e con un abile uso della mimica – le sonorità, l’intonazione e le cadenze tipiche di una lingua o di un dialetto». Nel caso di Mistero Buffo, Dario Fo usa un linguaggio che scaturisce dalla mescolanza di vari dialetti della Pianura Padana. Dopo un’entusiastica accoglienza iniziale, si è avviato un dibattito critico sulla reale portata dell’opera, soprattutto nel momento in cui si è cercato di risalire alle fonti originarie utilizzate in Mistero Buffo. Come evidenzia lo studioso di giulleria Tito Saffioti, Fo non ha mai messo a disposizione in modo chiaro gli strumenti di cui si è servito per risalire ai documenti utilizzati, ovvero ha fornito bibliografie sommarie e inattendibili. Altra critica che Saffioti solleva nei confronti dell’opera di divulgazione di Fo – nonostante il
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riconoscimento del suo straordinario valore sul piano artistico e teatrale – è quella di presentare qualcosa di improprio: ad avviso del saggista e giornalista, l’opera di Fo mostra «nel repertorio giullaresco una consapevolezza politica lucidamente oppositiva al potere, cosa che (…) non corrisponde alla realtà dei fatti, né cosi è in tutto l’ambito della cultura popolare, laddove vi sono invece forti componenti qualunquiste, quando non decisamente reazionarie».
Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
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In alto Heath Ledger nei panni di Joker nel Cavaliere Oscuro (2008) di Christopher Nolan. A sinistra, sulle due pagine Dario Fo in una delle messe in scena di Mistero Buffo.
zioni, che fissano precisi diritti e doveri. Dopo forme embrionali di associazioni giullaresche (si parla dell’esistenza di un’associazione ad Arras nel 1194 e di una fraternitas di ioculatores a Fécamp nella prima metà dell’XI secolo), nel 1321 risulta attestata la prima vera corporazione di giullari a Parigi.
Gli eredi moderni
Col passar del tempo, la figura del giullare è andata modificandosi profondamente. Come ha evidenziato Le Goff, nel XVI secolo nasce una grande novità nell’universo del divertimento sociale, ossia il circo, al cui interno il giullare è solo un artista specializzato tra i vari presenti, è cioè colui che si occupa di giochi e prove di abilità. Il «giullare acrobata» medievale viene infatti sostituito dal trapezista, e il giullare detto «di bocca» si trasforma nella figura del clown, destinato ad avere notevole successo nel mondo moderno.
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Concerto nell’uovo, olio su tavola attribuito a un seguace di Hieronymus Bosch. 1561 circa. Lilla, Musee des Beaux-Arts.
Il termine clown nasce nell’Inghilterra della seconda metà del XVI secolo, prestito francese (cloyne, cloine, clowne, cloune), è presente nel teatro di Shakespeare, e indica inizialmente uno zotico buffone che fa ridere suo malgrado. Come pennella ancora Le Goff, «il clown resta l’erede di una delle immagini dell’eroe medievale [il giullare], quella di un uomo combattuto tra il riso e il pianto». Nel mondo moderno, una rivalutazione del fenomeno giullaresco si è avuta, in Italia, alla fine degli anni Sessanta, quando l’attore e regista Dario Fo interpreta per la prima volta il suo celebre Mistero Buffo, opera ispirata alle giullarate medievali. Anche nel cinema, disseminate qua e là, si ritrovano tracce dell’antico giullare: per esempio nel film Ran (1985) di Akira Kurosawa, ispirato al Re Lear di William Shakespeare, ovvero nei due film del regista svedese Ingmar Bergman, Il settimo sigillo e La fontana della vergine (1958), o ancora in Tutto quello avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere) diretto e interpretato da Woody Allen (1972). A ben pensare, anche la maschera tragica di Charlie Chaplin in Luci della ribalta (1952) rimanda ad alcuni aspetti dell’antico giullare medievale, unitamente alla maschera del clown con la lacrima dipinta sul viso o alla pallida figura di Pierrot. Il giullare riemerge anche nel gioco delle carte con la figura del jolly, vestito appunto o con il costume tipico del buffone medievale, ovvero con la maschera di Arlecchino. Come chiosa Tito Saffioti a proposito del jolly, «si tratta di un elemento folle e atipico, che non rispetta le regole che le altre carte devono seguire, si muove tra re, regine e fanti e sembra prendersi gioco di essi con il passo sbilenco della sua
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atipicità qualitativa e quantitativa, può vestire i panni di tutti e assumere qualunque valore: nessuno meglio del giullare poteva essere chiamato a ricoprire tale ruolo».
Da leggere Luigi Allegri, Teatro e spettacolo nel Medioevo, Laterza, Bari-Roma 1988 Sandra Pietrini, I giullari nell’immaginario medievale, Bulzoni, Roma 2011 Sandra Pietrini, Giullari e scimmie nell’iconografia medievale, in «Biblioteca Teatrale», n.s., 37-38, gennaio-giugno 1996; pp. 101-125. Tito Saffioti, I giullari in Italia. Lo spettacolo, il pubblico, i testi, Liguori, Napoli 2012 Tito Saffioti, Gli occhi della follia. Giullari e buffoni di corte nella storia e nell’arte, Book Time, Milano 2009 Tito Saffioti, Nei panni del buffone. L’abbigliamento dei giullari tra Medioevo ed età moderna, Jouvence, Milano 2015 Elisabetta Tonello, L’altra poesia. Arte giullaresca e letteratura nel basso Medioevo, Mimesis, Milano-Udine, 2018 Jacques Le Goff, Eroi & meraviglie del Medioevo, Laterza, Roma-Bari, 2005 Giampaolo Mele, I giullari: musica e mestieri nel Medioevo (secoli XI-XIV). Cenni storici, in Arte y vida cotidiana en la época medieval, Saragozza, 2008; pp. 89-131 Giuseppe Noto, Due brevi note sul giullare medievale, «L’immagine riflessa», Quaderni, 12 (2009); pp. 109-114 Carlo Ginzburg, Jean Fouquet. Ritratto del buffone Gonella, Franco Cosimo Panini, Modena 1996
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Dall’assedio alla rinascita di Domenico Camardo e Mario Notomista, con foto di Nicola Longobardi
Il castello di Lettere (Napoli), baluardo difensivo dei Monti Lattari, realizzato dagli Amalfitani nel X sec. La veduta permette di apprezzarne la felice posizione strategica, che dava modo di controllare la sottostante Piana del fiume Sarno e il Golfo di Napoli, dominati dal Vesuvio, la cui inconfondibile sagoma spicca sulla destra.
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Fondato nel X secolo, il possente castello di Lettere fu uno dei siti strategicamente piú importanti del ducato amalfitano e mantenne questa prerogativa anche quando gli assetti della regione mutarono, registrando l’avvicendamento di nuove signorie. Una storia lunga e nobile, dunque, funestata, nel 1528, dal duro assedio portato dagli Spagnoli. Oggi, l’intera parabola della roccaforte è divenuta il filo conduttore del progetto di valorizzazione coronato dalla creazione del Parco archeologico
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a prima notizia sull’esistenza di una fortificazione a Lettere (Napoli) risale al 1018, quando nel definire i confini di una proprietà, oggetto di un lascito testamentario ai monasteri di S. Quirico e di S. Simone di Atrani, il castello venne utilizzato come riferimento di confine. La sua creazione risale probabilmente al secolo precedente e si tratta di uno dei cardini del progetto di difesa dei confini settentrionali del ducato amalfitano nel momento della sua massima espansione. In questo periodo, infatti, Amalfi, da sempre proiettata nei commerci marittimi, giunse a controllare una piccola area costituita dalla fascia costiera compresa tra gli attuali comuni di Positano e Cetara, da parte dei due versanti della catena montuosa Monti Lattari e dall’isola di Capri. Basta affacciarsi dalla collina su cui il castello di Lettere fu costruito per rendersi conto dell’importanza strategica del luogo. Da qui si controlla tutta la Piana del Sarno, do-
minata dal Vesuvio, e buona parte del Golfo di Napoli. In pratica, questo straordinario punto di osservazione permetteva di prevenire gli attacchi che dalla valle e dal litorale stabiano avrebbero potuto colpire alle spalle la città di Amalfi.
Un modello collaudato
I resti oggi visibili corrispondono solo in parte alla fortificazione creata dagli Amalfitani nel corso del X secolo. Questi ultimi, seguendo un collaudato modello difensivo, crearono sulla collina di Lettere un villaggio protetto da mura entro cui trovarono posto la cattedrale, la residenza del vescovo, le abitazioni per le famiglie che vivevano nel castello e per i pochi uomini della guarnigione. Solo in un secondo momento, con l’insediarsi di un feudatario e a seguito di varie ristrutturazioni, la fortificazione assunse la conformazione attuale, con il villaggio dominato dall’imponente rocca, il cui eccezionale stato di conservazione ha attratto
numerosi viaggiatori e artisti fin dal periodo del Grand Tour. Nel 1141, sotto l’influenza normanna, si ha notizia di un feudatario insediato nel castello: si tratta di Ugo Mansella, al quale si deve, molto probabilmente, la costruzione della rocca utilizzata come alloggio e ridotto difensivo. Altri feudatari sono attestati durante la dominazione sveva e durante il periodo angioino. In questa fase fu avviata la costruzione del mastio, il cui progetto si ispirava a quello dei torrioni del Maschio Angioino di Napoli, realizzati nel 1279. A partire dall’età aragonese, la fortezza si rivelò non piú adeguata agli sviluppi delle artiglierie d’assedio, trasformandosi ben presto da struttura con caratteri eminentemente militari in residenza fortificata del feudatario. In questo periodo fu la famiglia Miroballo ad avere a lungo il controllo del castello e durante il loro dominio si verificò anche l’unico assedio di cui le fonti ci danno notizia: quello del 1528. Foto satellitare sulla quale è riportata l’area controllata dal ducato di Amalfi nel momento di massima espansione. In giallo, i confini, e, in azzurro, i tracciati delle vie di valico tra il Golfo di Salerno e la Piana del fiume Sarno.
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Il castello di Lettere in un acquerello di Gabriele Carelli. 1855. Si tratta di una delle numerose vedute realizzate nell’Ottocento dagli artisti che accompagnavano i viaggiatori del Grand Tour. La rocca, con a fianco la cattedrale, fu spesso riprodotta, agli inizi del XIX sec., anche dai maestri della Scuola di Posillipo, specializzati nelle pitture di paesaggio.
L’evento fu conseguenza delle manovre segrete del castellano di Lettere, Carlo II Miroballo, che lo portarono a schierarsi a favore delle truppe francesi scese nel viceregno di Napoli contro la Spagna. Le cronache dell’epoca raccontano che, quando il suo tradimento venne scoperto, furono inviati contro il castello mille soldati spagnoli. Il feudatario si asserragliò nella fortezza, ma, dopo tre giorni di assedio, si diffuse la notizia che stavano per arrivare le artiglierie spagnole per bombardarla. Consapevole dell’impossibilità di resistere a un simile attacco, che avrebbe portato alla distruzione del castello, Miroballo decise di fuggire, calandosi con le funi nel dirupo presente sul lato settentrionale della rocca. Rifugiatosi nei monti sopra Lettere assistette, impotente, al completo saccheggio del suo (segue a p. 101)
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L’imponente rocca del castello di Lettere, costruita nel punto piú panoramico della collina, permetteva di controllare qualunque spostamento di truppe nella sottostante Piana del Sarno, la quale, in età medievale, era in buona parte paludosa e spopolata.
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INGRESSO AL MASTIO PONTE D’ACCESSO AL MASTIO
PORTA DELLA ROCCA
BANCO ROCCIOSO
A sinistra il mastio era accessibile da una porta posta al primo piano, collegata a un ponticello in legno situato sopra l’ingresso alla rocca. A destra schizzo ricostruttivo del ponticello di legno che permetteva di entrare nel mastio. In caso di assedio, la sua distruzione rendeva di fatto inaccessibile la torre.
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il parco archeologico
Il restauro, gli scavi e la valorizzazione La riscoperta recente del sito medievale di Lettere è stata favorita dal progetto di restauro, che ha previsto la realizzazione di scavi archeologici. I reperti recuperati hanno innescato un forte interesse verso la storia del castello e la sua funzione di baluardo difensivo; inoltre, si è acquisita maggiore consapevolezza delle sue potenzialità culturali, turistiche e di polo di attrazione. Tale consapevolezza ha innescato nell’amministrazione comunale di Lettere e negli addetti ai lavori una significativa attenzione verso la capacità di realizzare processi di sviluppo attraverso interventi che favoriscano l’incremento di un turismo di qualità, capace di incidere sul locale tessuto sociale e culturale. A tale scopo, il Comune di Lettere e il Parco Archeologico di Pompei (l’ente di tutela preposto dal Ministero
per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo) hanno sottoscritto nel 2018 un protocollo d’intesa, che ha di fatto trasformato il sito medievale in Parco archeologico, restituendo al castello quel ruolo storico di centro strategico di riferimento territoriale che era stato dimenticato. Per anni il sito è stato colpevolmente abbandonato, ma oggi si è intrapreso un percorso di ricucitura con il suo territorio, in un continuo interscambio di informazioni tra passato e presente, nella consapevolezza che solo attraverso interventi che mirino alla valorizzazione del castrum amalfitano si può innescare quel processo di riappropriazione dell’identità territoriale che è alla base di ogni azione di tutela dei siti di alto interesse storico-archeologico. Paola Marzullo, direttore del Parco archeologico del Castello di Lettere febbraio
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Una panoramica del villaggio fortificato di Lettere, con, sullo sfondo, la rocca dominata dal torrione principale, costruito alla fine del XIII sec. sul modello architettonico delle torri del Maschio Angioino di Napoli.
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In alto le repliche di alcune delle forme piú comuni di stoviglie in ceramica del Cinquecento aiutano il visitatore a comprendere quali erano gli oggetti d’uso quotidiano in questo periodo. Sul tavolo è visibile anche la scacchiera con gli scacchi, uno dei giochi piú apprezzati dell’epoca.
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Una nicchia del mastio è stata allestita con un’immagine di culto per ricordare la forte religiosità popolare. Si vede una scultura di legno raffigurante una Madonna con Bambino, sotto la quale stanno un candelabro e una lucerna.
A sinistra nel mastio si conserva la canna di un pozzo che serviva per attingere acqua dalla cisterna. Per valorizzare questo elemento, nei due livelli interessati dall’allestimento sono stati posti una carrucola e un secchio di legno.
castello da parte delle truppe spagnole. Per il suo tradimento, Carlo II Miroballo fu quindi privato del feudo, che passò sotto il diretto controllo del vicerè spagnolo. L’episodio segna una cesura netta nella secolare storia della fortezza e del villaggio, che furono gradualmente abbandonati in favore dei nuovi casali di Lettere e, in particolare, di quello sorto intorno alla nuova cattedrale, realizzata nel corso del XVI secolo lungo la strada che dalla costa risaliva verso i Monti Lattari.
L’allestimento
La necessità di ampliare l’offerta culturale del Parco archeologico del Castello di Lettere (nato nel 2018 per volere di Massimo Osanna, Di-
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rettore Generale del Parco archeologico di Pompei, e del Sindaco di Lettere, Sebastiano Giordano; vedi box a p. 98), ha portato a concepire un allestimento in stile del mastio del castello. Lo spunto è stato proprio l’assedio del 1528. La volontà era quella di mostrare al visitatore come potevano presentarsi questi ambienti nel corso del XVI secolo. Un’operazione favorita dal poter partire da una struttura totalmente originale e in uno straordinario stato di conservazione. Il torrione, infatti, si articola in una cisterna al piano terra, costruita direttamente sul banco di roccia calcarea, e in due piani, che hanno mantenuto le originali volte di copertura. In alto, si conclude con una terrazza per i di(segue a p. 104)
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medioevo nascosto campania Tutte le armi di fanti e cavalieri
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LE SPADE Nel corso del Cinquecento si registra il notevole alleggerimento delle spade di tradizione medievale, che continuano a presentarsi come armi create per colpire sia di punta che di taglio, grazie al filo presente su entrambi i lati della lama. Questo tipo di spade era lungo 1 m circa, con una lama compresa tra gli 80 e i 90 cm e pesava tra 1 e 1,7 kg. All’altezza dell’elsa, l’arma presenta semplici ponticelli o anche anelli, che furono inseriti per proteggere le mani dai colpi degli avversari. Tale accorgimento divenne necessario in seguito al progressivo abbandono dei guanti in ferro. Le spade di questo periodo sono definite normalmente «da lato», nome che deriva dall’abitudine di portarle appese al fianco. Quelle di migliore qualità erano prodotte soprattutto in Italia e in Spagna e presentano talvolta elaborate decorazioni incise nella parte alta della lama. L’utilizzo di queste spade era spesso accompagnato da una seconda arma, sia di tipo offensivo che di tipo difensivo, impugnata con la mano sinistra. Le seconde armi piú diffuse erano un’altra spada, un pugnale o uno scudo, che poteva avere varie dimensioni e forme, o anche essere sostituito da un semplice soprabito arrotolato sul braccio sinistro, detto cappa.
diminuí le capacità difensive dei soldati, ma ne accrebbe l’agilità e la resistenza nelle fasi di combattimento. I corpetti erano in pratica un’armatura leggera in acciaio, del peso di circa 15 kg. La loro funzione era quella di coprire e proteggere il petto del soldato. Bloccati alle spalle da lacci in cuoio, presentavano un profilo curvo, pensato per deviare meglio i colpi e i proiettili. Lo spessore oscillava tra i 5 mm e il centimetro e potevano reggere al colpo di un archibugio sparato da pochi metri di distanza.
I CORPETTI Con il diffondersi delle armi da fuoco, andò man mano evidenziandosi l’inutilità delle pesanti armature medievali. Queste ricoprivano interamente il soldato proteggendolo, ma rendendolo, nel contempo, impacciato nei movimenti e gravato da un notevole peso. Nel corso del XVI secolo le corazze si ridussero a un corpetto o pettorale e all’elmo. Questa riduzione della corazzatura
LE ALABARDE L’alabarda si diffuse in Europa nel corso del Quattrocento, sulla scorta dei successi ottenuti dai mercenari svizzeri, che la utilizzavano come arma principale. Rimase in uso come arma in dotazione alla fanteria in diversi eserciti fino al XVII secolo, quando il diffondersi delle armi da fuoco portò al suo abbandono sui campi di battaglia per diventare arma di rappresentanza di
GLI ELMI DEL TIPO MORIONE La dotazione individuale dei soldati era completata dall’elmo in acciaio. Nel XVI secolo il tipo piú diffuso è il cosiddetto «morione», con profilo ogivale e tesa appuntita. Aveva uno spessore di oltre 1,5 cm, per quasi 2 kg di peso. Anche in questo caso la forma era stata studiata per deviare i colpi. All’interno del casco una struttura in cuoio garantiva il perfetto adattamento alla testa del soldato, isolandola dalla calotta in metallo, mentre una cinghia sottogola bloccava l’elmo sul capo. Questi elmi erano in dotazione sia ai soldati di fanteria che a quelli imbarcati sulle galee. I morioni destinati ai sottufficiali e agli ufficiali presentano spesso una decorazione, realizzata ad acquaforte, con motivi geometrici, vegetali e araldici.
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corpi scelti come le Guardie Svizzere del papa o la Guardia Real del re di Spagna. L’alabarda è composta da una lunga asta su cui è innestata una punta in acciaio di varia forma, dotata su uno o entrambi i lati di una lama tagliente o di un uncino. La sua fortuna è legata al vantaggioso uso che i fanti, opportunamente addestrati, ne potevano fare contro la cavalleria pesante. Con la punta si poteva caricare il nemico o arrestare l’impeto della cavalleria mentre la lama presente sul lato permetteva un suo utilizzo come una scure per colpire il cavaliere o, grazie alla lunga asta, per tagliare le zampe del cavallo. Allo stesso modo, l’uncino presente in alcuni modelli poteva essere utile per agganciare e far cadere il cavaliere. Talvolta, l’uncino presente nella parte posteriore della lama era sostituito da una testa di martello, ideale per colpire con efficacia gli avversari protetti dalla corazza. Alcune alabarde mostrano una lama perforata da motivi decorativi. Questo espediente era in realtà utilizzato oltre che per abbellire l’arma anche per diminuirne il peso. LE ASCE DA BATTAGLIA L’ascia da battaglia è un’arma offensiva derivata dagli strumenti da lavoro, ma pensata e migliorata per un utilizzo bellico. Nella versione in uso nel XVI secolo poteva essere maneggiata con una
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o con due mani, era lunga tra i 60 cm e 1 m e poteva pesare 1-2 kg. Con questo tipo di ascia si poteva colpire di punta come una sorta di picca o di taglio con la doppia lama. La versione con la lama da un lato e una punta o un uncino dall’altro era particolarmente efficace per colpire nemici rivestiti di corazza, che poteva cosí essere perforata, o per agganciare e strappare lo scudo dell’avversario, lasciandolo senza difesa per il colpo di ritorno. L’ascia da battaglia era molto piú economica da costruire rispetto alla spada e la sua maneggevolezza consentiva di portare attacchi veloci e ripetuti o attacchi potenti, mirati a stancare o ad abbattere l’avversario. Risultava quindi particolarmente efficace nei combattimenti ravvicinati o in spazi ridotti. GLI ELMI CABASSET Accanto ai morioni nel XVI secolo erano diffusi anche elmi di tipo Cabasset, destinati alla fanteria. Questi sono di origine italiana e rappresentano un’evoluzione del cosiddetto «cappello d’arme», l’elmo in ferro diffuso in Europa a partire dall’anno mille. Nella forma assunta nel XVI secolo furono influenzati dal morione spagnolo. Si presentano come un casco d’acciaio, alto e circondato da una stretta falda. Studiato con una superficie inclinata, pensata per deviare i colpi, l’elmo Cabasset aveva uno spessore di 1,6 cm circa
Sulle due pagine vedute d’insieme degli allestimenti in stile realizzati nei due livelli principali del mastio con le repliche fedeli delle armi in uso al tempo in cui il castello di Lettere subí l’assedio da parte dei soldati spagnoli.
e un peso di oltre 2 kg. Un sistema di cinghie in cuoio all’interno della calotta ne assicurava l’aderenza alla testa del soldato. LE BALESTRE La balestra deriva dall’arco e ne rappresenta l’evoluzione, elaborata per aumentarne potenza e gittata. L’uso fu piuttosto sporadico fino all’età bassomedievale, a causa dei costi e delle difficoltà tecniche che si incontravano nella fabbricazione, mentre crebbe considerevolmente tra il XIII e il XVI secolo. Insieme al potente arco composto, la balestra è stata l’arma piú devastante che un soldato potesse usare prima delle armi da fuoco. Garantiva una notevole precisione e aveva un grande potere di penetrazione, sufficiente a perforare le armature dei cavalieri. Con la creazione di balestre con arco in acciaio si giunse a produrre armi che avevano una gittata utile di oltre 300 m. Il difetto dell’arma è che necessitava di un tempo di caricamento maggiore di quello dell’arco e quindi imponeva al balestriere di mettersi al riparo durante tale operazione.
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Nei due livelli del mastio è visibile una nicchia, provvista di un piano inclinato, collegato a un foro di scolo. Verosimilmente veniva impiegata per lo scarico dell’acqua utilizzata per l’igiene personale o per il lavaggio delle stoviglie, come suggerisce il disegno ricostruttivo.
fensori, che ancora conserva tracce del coronamento ad archetti per le caditoie della difesa piombante. Come in tutte le torri di questo periodo, l’accesso era garantito da una piccola porta posta all’altezza del primo piano, raggiungibile dal cammino di ronda della rocca grazie a un ponticello in legno, situato al di sopra del portone d’ingresso alla fortezza. In questo modo, in caso di conquista delle mura della fortezza, il mastio diventava il luogo nel quale opporre l’estrema difesa. Infatti, una volta tagliato il ponticello di accesso al torrione questo risultava completamente isolato. Le sue spesse mura e la notevole altezza lo
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rendevano difficilmente prendibile dal nemico, fino a che il diffondersi delle artiglierie d’assedio non cambiò per sempre le strategie militari e la struttura delle fortezze. All’interno del mastio troviamo ancora tutti gli apprestamenti necessari ad assicurare la sopravvivenza ai difensori, come il pozzo, un ampio camino al primo piano e un forno per il pane.
Le bocche da fuoco
La struttura mantenne inalterati i suoi caratteri fino al XVI secolo, quando al primo e secondo piano del torrione furono aperte ampie finestre per posizionare bocche da
fuoco che potevano battere lo spazio antistante il castello e la principale via d’accesso allo stesso. Potendo disporre di una struttura ben conservata in tutte le sue parti, si è quindi pensato di realizzare un allestimento ispirato a questo evento storico cercando di ricostruire un contesto con copie di oggetti, armi e arredi riferibili alla prima metà del XVI secolo. Al primo livello della struttura è stata ricostruita in legno la cappa del camino che conserva ancora la sua base e la canna fumaria, realizzata nello spessore del muro al momento della costruzione del torrione. Nello stesso camino è stato posto un pentolone in rame sospeso a una catena in ferro. Il camino, infatti, era utilizzato durante l’inverno per riscaldare l’ambiente, ma era anche usato quotidianamente per cucinare il cibo. Il pozzo presente nei due piani del torrione era direttamente collegato alla cisterna sottostante, alimentata dall’acqua piovana. Al secondo livello del torrione è stata posizionata una carrucola entro cui passa una fune collegata a un secchio. Questi elementi permetfebbraio
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Il pane, elemento essenziale nella dieta alimentare quotidiana, veniva cotto in questo forno in mattoni realizzato al secondo livello del mastio.
tono di ricostruire il sistema di attingimento dell’acqua, risorsa fondamentale in caso di assedio. Su un semplice tavolo e nelle nicchie presenti alle pareti del primo livello sono state poggiate riproduzioni di piatti, brocche, bicchieri, lucerne e candelabri, repliche fedeli delle forme in uso nel Cinquecento. Una scacchiera ricorda il gioco degli scacchi, le cui regole furono codificate proprio nel XVI secolo; i pezzi si standardizzano assumendo le caratteristiche attuali, con l’introduzione della regina, il pezzo piú mobile e potente e che, secondo gli esperti, fu ispirato proprio dal diffondersi delle armi da fuoco sui campi di battaglia. Per ricordare la funzione militare del torrione, sono state esposte al primo livello, in due rastrelliere di legno, le riproduzioni di diversi modelli di spade in uso nel XVI secolo e le copie di elmi e corpetti in acciaio di foggia cinquecentesca.
Gli stemmi dei castellani
La notevole altezza dell’ambiente e la presenza di una splendida volta originale ha suggerito l’idea di sospendere in alto cinque scudi araldici attraverso i cui stemmi si può raccontare la storia del castello a partire dallo stemma del ducato amalfitano, a quello di Riccardo I Filangieri, feudatario duecentesco di Lettere, fino a quello di Carlo II Miroballo, ultimo feudatario di Lettere, allo stemma dell’imperatore Carlo V e allo stemma della famiglia letterese dei Sorrentino, un cui rappresentante, Giovanni Domenico, si distinse per il coraggio nella battaglia di Lepanto del 1571, riuscendo a catturare una galea turca. Infine è stato posto lo stemma piú antico dell’Universitas di Lettere. Nell’ambiente del secondo livel-
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Da leggere Domenico Camardo, Mario Notomista, Alle origini di Lettere. La Cattedrale ed il Borgo medievale nell’area del Castello, Nicola Longobardi Editore, Castellammare di Stabia 2008 Domenico Camardo, Mario Notomista, La sentinella del Ducato, in «Medioevo» n. 273, ottobre 2019; anche on line su issuu.com Domenico Camardo, Paola Marzullo, Mario Notomista (a cura di), Il Castello di Lettere. La rocca, il villaggio, la cattedrale. Itinerario
lo è conservato un forno realizzato in mattoni, utilizzato per la cottura del pane. Anche in questa stanza sono stati esposti lucerne, candelabri e brocche in terracotta. Interessante appare la presenza, in entrambi i livelli, di una nicchia con piano inclinato, collegato a un foro di scolo, che serviva come scarico dell’acqua utilizzata per l’igiene personale e
di visita, Eidos Longobardi, Castellammare di Stabia 2020 Marcello Orefice, Castelli Medioevali nella storia del Reame di Napoli. Lettere, Maddaloni, Caserta, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2006 Francesco Starace, Il castello di Lettere: premesse al restauro, in Cultura e Territorio, II, 1985; pp. 83-104 Lucio Santoro, Il castello di Lettere nel contesto dei castelli dell’epoca, in Atti del convegno tenuto a Lettere nel 1989, 1989
per il lavaggio delle stoviglie. Del resto, proprio alla base del mastio, nella parte settentrionale, gli scavi hanno permesso di riportare alla luce un condotto fognario a cui era collegato questo sistema. Infine, un nuovo sistema di illuminazione, appositamente realizzato in funzione dell’allestimento, valorizza l’intero percorso di visita.
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Storie, uomini e sapori
La Milano di fra Bonvesin di Sergio G. Grasso
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el novembre del 1980 io e il grande gastronomo veneto Beppo Maffioli andammo a cena nel primo, storico ristorante aperto a Milano da Gualtiero Marchesi. Fu un’esperienza illuminante di classe e stile e, manco a dirlo, mangiammo straordinariamente. Servito il caffè, quando gli unici tre altri avventori (tra cui il pittore Enrico Baj) lasciarono il locale, Gualtiero prese posto al nostro tavolo con in mano un libricino rosso fresco di stampa intitolato «De Cruce, testo frammentario inedito di Bonvesin de la Riva». Era la seconda volta che sentivo quel nome; la prima nel pomeriggio, quando cercavo sulla guida di Milano l’indirizzo di quel ristorante. Bonvesin de la Riva, contemporaneo di Dante Alighieri, fu il piú importante scrittore milanese del Duecento. Di lui non si conosce con certezza né la data di nascita, che si ipotizza avvenuta a Milano tra il 1240 e il 1250, né quella di morte avvenuta tra il 1313 e il 1315. La sua lapide tombale, ora scomparsa ma trascritta nel Seicento, recitava: «Qui giace / fra Bonvesin da la Riva / dell’ordine terziario degli Umiliati / che costruí l’ospedale di Legnano / che compose molte opere in volgare / che per primo fece suonare le campane col suono dell’Ave Maria». Incerto è anche il suo nome, che varia tanto nelle opere quanto nei documenti coevi da Bonvecinus, a Bonus Vecinus o Bovecinus e da De la Riva a Da la Riva o De Ripa, autorizzandoci a supporre che il suo toponimico (il padre si chiamava Petrus de Laripa) derivasse appunto dalla casa posseduta a Milano in Ripa Ticinese. Le poche altre note biografiche lo dipingono come frate terziario (e in quanto laico si sposò due volte con Beghedice e Floramonte), doctor
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in gramatica e, nel 1290 magister artis gramaticae, ovvero insegnante di lingua latina e precettore presso le famiglie nobili milanesi. Ebbe una produzione letteraria di tutto rispetto sia in prosa che in poesia, tanto in latino quanto in volgare: sei poemetti in quartine monorime in forma di contrasto (fra Satana e la Madonna, fra la Rosa e la Viola, tra la Morte e l’Uomo, ecc.), dieci narrativi e due scritti didattici. Di particolare interesse è il Libro delle tre scritture, la cui redazione è composta da una «scriptura negra» dedicata alle «dodexe pene de lo inferno», da una «scriptura dorata» sulla redenzione e la «passione divina de la morte de Yesú Cristo, fiolo de la Regina» e da una «scriptura dorata» in cui si magnificano le gioie del Paradiso attraverso le dodici beatitudini. Pur mancando alcun riferimento al Purgatorio, non v’è chi non veda in questo poemetto di 2108 versi intriganti similitudini con la struttura della Commedia dantesca. Bonvesin è stato soprattutto un minuzioso e partecipe osservatore della società e dell’ambiente politico e culturale milanese qual era dopo la Pace di Costanza (1183) con cui l’imperatore Barbarossa riconobbe ufficialmente le prerogative dei Comuni. Il suo De magnalibus Mediolani (1288) è considerato il punto piú alto raggiunto dal genere letterario delle Laudes civitatum. L’opera, In alto miniatura raffigurante una delle porte di ingresso alla città di Milano, cosí come viene descritta nelle opere di Bonvesin de La Riva, dallHistoria Ordinis Humiliatorum. 1431. Nella pagina accanto miniatura raffigurante la raccolta degli spinaci, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. febbraio
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CALEIDO SCOPIO misteriosamente scomparsa dalla scena letteraria nel corso del Quattrocento, fu considerata irrimediabilmente perduta fino a quando, nell’Ottocento, ne venne rinvenuto casualmente un manoscritto a Madrid. Gli otto capitoli che esaltano in lingua latina altrettante specificità di Milano, non ci restituiscono solo una lettura storica dei fatti piú recenti per l’autore ma anche – e soprattutto – una minuziosa descrizione della città e del suo territorio. In quanto membro della Confraternita degli Umiliati, addetta alla tesoreria e ai dazi, Bonvesin aveva accesso ai registri comunali e catastali. Ed è sulla scorta di questi dati che egli delinea il grandioso affresco di una Milano ancora «rotonda» e murata, cui si accedeva attraverso 6 grandi porte e 10 «postierle». Con meticolosa precisione, Bonvesin vi conta 200 chiese, 480 altari, 120 campanili e 12 500 case con la porta sulla strada che ospitavano oltre 200 000 abitanti per sfamare i quali 900 e piú mulini e 300 forni pubblici (e altri 100 privati o ecclesiastici) trasformavano ogni giorno 8 tonnellate di grano in pane, attingendo l’acqua dalle 6000 sorgenti censite. La Milano della fine del Duecento è insomma un grande e attivo borgo agricolo circondato da boschi e prati al centro di una fitta rete di fiumi, canali e risorgive. Con orgoglio il diligente «reporter» afferma che Milano habet suficientem pecuniam grazie all’operosità dei suoi abitanti e al dinamismo dei commerci. Vi lavorano 1500 notai, 148 tra medici e chirurghi, 78 maestri e professori, oltre a 40 copisti e 14 dottori in canto ambrosiano. I bottegai erano in numero di mille e piú, tra cui 440 macellai, mentre si aprivano sulle strade 80 officine di maniscalchi per i «molti cavalli e cavalieri che circolano in città» e che possono trovare alloggio presso 150 albergatori e locandieri.
Botteghe fornite d’ogni ben di Dio L’opera pone l’accento sulla fertilità della terra, la copiosità delle messi, l’abbondanza di vigne, pascoli, frutteti e orti per lavorare i quali si impiegano ben triginta milibus parium bovum. Si lodano il latte, i formaggi, il burro e le ricotte mentre i mercati, le botteghe e le dispense meneghine si riempiono ogni giorno di granaglie, di ortaggi (raparum, caules, lactucas, spinachia, feniculum, porra), di legumi (faxeolorum, lentium, cicerum e fabarum), erbe aromatiche (salviam, mentam, mayioranam, alium, baxalicon, petroselinum) e un caleidoscopio di frutta, in cui spiccano le ciliegie aspre e dolci, le prugne bianche, rossicce, gialle e damaschine, le pere, le more, i fichi e ancora nocciole, uve, mandorle, nespole, pomi cotogni e un’inesauribile quantità di castagne e marroni per saziare i meno abbienti. Modeste le forniture di bovini – animali principalmente da lavoro e da latte – a favore di maiali, pecore, agnelli e capretti, con particolare predilezione dei Milanesi per la selvaggina e le carni da cortile: allodole, anatre, capponi, colombi, fagiani, galline, oche, pavoni, pernici e quaglie. Del pesce Bonvesin
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Sulle due pagine miniature raffiguranti l’accudimento del pollame e la mungitura delle pecore, tratte anch’esse da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.
assicura che: «Ogni giorno nella sola città si mangiano sette moggi di gamberi» e precisa che «piú di diciotto pescatori pescano ogni giorno nei laghi del nostro contado ogni genere di pesci, trote, dentici, capitoni, tinche, temoli, anguille, lamprede, granchi, infine ogni qualità di pesce grosso e minuto; piú di sessanta pescan ne’ fiumi; coloro poi che portano alla città il pesce delle infinite acque correnti assicurano di essere piú di quattrocento». Il genere letterario delle Laudes civitatum fu assiduamente frequentato per tutto il Medioevo. Se ne trova testimonianza già nell’Ordo Urbium Nobilium del poeta e retore Ausonio (310-395), per prendere forma propria con l’anonimo Laudes Mediolanensis civitatis (VIII secolo), il suo quasi coevo e pur anonimo Versus de Verona, fino al piú tardo Liber Pergaminus (XII secolo) di Mosè del Brolo, il Mirabilia Urbis Romae di Magister Gregorius di Oxford (ancora del XII secolo) e il duecentesco Otia Imperialia vel Liber de mirabilibus mundi del normanno Gervasio di Tylburym. Quasi tutti questi baedeker ante litteram si compiacciono nella descrizione dei luoghi e delle cose notevoli in una sorta di encomio retorico punteggiato di valutazioni descrittive e aneddoti storico-artistici.
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Nella pagina accanto miniatura raffigurante il piccolo Massimiliano Sforza, primogenito di Ludovico il Moro, che fa merenda in un padiglione allestito in un giardino, dalla Grammatica del Donato. 1495-1500. Milano, Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana. A destra ancora una miniatura da un’edizione del Tacuinum Sanitatis raffigurante un pescivendolo nella sua bottega. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.
Bonvesin ha altre ambizioni piú moderne. Spalanca al lettore le porte di Milano per convincerlo che il vero «ombelico» del mondo non è Roma o Gerusalemme, ma la sua città, dove il valore della ricchezza è poca cosa, se si tralascia il concetto chiave del benessere: la migliore e piú diffusa qualità della vita. Per questo accompagna il lettore in lungo e in largo tra le mura e il contado, narrando tanto la città e i cittadini quanto la campagna e gli agricoltori, argomentando di monumenti e di mestieri, dando uguale valore alle opere di ingegneria e architettura e a quelle della natura e della vita rurale. Proprio i temi della produzione, dell’approvvigionamento e della distribuzione del cibo rendono autentico e «genuino» questo, fino ad allora inedito, ritratto della vita sociale e politica di un Comune del XIII secolo.
Cinquanta regole per un buon commensale Bonvesin aveva dimostrato il suo interesse per i temi della tavola già una decina d’anni prima del De magnalibus Mediolani, quando il suo talento letterario e la sua vocazione pedagogica lo avevano spinto a comporre il De quinquaginta curialitatibus ad mensam (Le cinquanta cortesie da tavola), un’opera in volgare lombardo indirizzata all’emergente ceto borghese per educarlo alle buone maniere a tavola. Fin dall’esordio è chiaro che l’intento didascalico non può essere
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disgiunto da quello religioso e caritatevole: Fra Bonvesin dra Riva, ke sta im borgo Legnian, de le cortesie da desco quilò ve dise perman; de le cortesie cinquantake se dén servar al desco fra Bonvesin dra Riva ve’n parla mo’ de fresco. La premerana è questa, ke, quando tu ve’ a mensa, del pover besonioso imprimamente impensa: ké, quand tu pasci un povero, tu pasci lo to pastor, ke t’à pasce pos la mortein l’eternal dolzor. Le altre quarantanove cortesie invitano a lavarsi le mani prima di toccare le vivande, a non arraffare il cibo dai piatti comuni, a bere moderatamente e attingendo con discrezione dalle caraffe, a star seduto in maniera civile, a conversare con i commensali senza alzar la voce, a masticare con la bocca chiusa e a non pulirsela con la manica o con la tovaglia, a non introdurre le dita in bocca, a non sputare o sternutire sui piatti. Precetti che esprimono con efficacia la costruzione dell’ideale cortese anche fuori dai palazzi nobiliari, nelle case della piccola e media borghesia lombarda e dei ceti mercantili emergenti che reclamano una propria identità sociale nella complessa transizione dal Comune alla Signoria e nel piú vasto panorama di consolidamento delle monarchie europee.
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Lo scaffale Aleksandra Krauze-Kołodziej The Mosaic Complex on the West Wall of the Basilica of Santa Maria Assunta on Torcello Island Historical and Iconographic Comparative Analysis of the Representation at the Crossroads of Latin and Byzantine Culture. Patterns - Reminiscences – Contexts
Wydawnictwo KUL, Lublino, 280 pp., 61 tavv. col.,
108,00 złoti ISBN 9782-83-8061-770-4 www.wydawnictwokul. lublin.pl
Tra i tesori della Laguna di Venezia, risplende Torcello con la basilica dedicata a santa Maria Assunta, innalzata a partire dal VII secolo dall’esarcato di Ravenna. Il celebre edificio sacro, immerso in un contesto paesaggistico di grande suggestione e bellezza, possiede in controfacciata un eccezionale mosaico con scene dedicate alla Madonna, a Gesú Cristo e a momenti biblici, alla cui base si svolge il celebre Giudizio Universale, datato a partire dal XII secolo. In questa monografia, di taglio specialistico, la storica dell’arte Aleksandra Krauze-Kołodziej si concentra sull’analisi
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culturale-iconografica di questo complesso musivo, affrontando l’interpretazione della composizione, che rappresenta un insieme artisticamente sublime e teologicamente deliberato, incentrato su temi escatologici e soteriologici. Si sottolinea cosí la presenza di due grandi tradizioni, quella latina e quella bizantina, che insieme hanno esercitato un forte influsso su Torcello e un impatto significativo sulla composizione
del mosaico di controfacciata. Attraverso la raccolta e l’interpretazione di fonti scritte e confronti iconografici puntuali, desunti dal piú ampio contesto storico dell’area geografica in cui nasce l’opera, e analizzando l’ambito teologico e filosofico dell’epoca in cui venne realizzata, si propone una lettura che possa
cogliere appieno il significato di questa scena grandiosa. Sottolineando le principali questioni teologiche presenti nel mosaico, l’autrice mira a dimostrarne il carattere unico e l’influenza esercitata sull’iconografia dei Giudizi Universali nei secoli successivi. L’opera è suddivisa in quattro capitoli, preceduti da un’introduzione sullo stato delle ricerche su Torcello e sulla decorazione musiva della basilica di S. Maria Assunta, con particolare enfasi sui mosaici della parete occidentale. Il primo capitolo delinea l’importanza di Torcello per la cultura della Penisola, soprattutto nel Medioevo, descrivendo la posizione dell’isola, l’etimologia del nome, la sua composizione architettonica e monumentale. Il secondo capitolo è dedicato alla basilica, mentre il terzo si concentra sul mosaico del muro occidentale, analizzandolo dal punto di vista cronologico e tecnico, senza tralasciarne la conservazione e il restauro. Il quarto capitolo è dedicato alla rappresentazione sulla parete ovest
della chiesa, proponendo una lettura del messaggio iconografico e possibili ulteriori direzioni di ricerca del complesso musivo. Francesca Ceci Armando Norte Giovanni XXI Il papa portoghese
Archeoares, Viterbo-Tuga Edizioni, Bracciano, 248 pp.
18,00 euro ISBN 978-88-99321-32-1 www.archeoares.it www.tugaedizioni.com
Armando Norte ripercorre in questo saggio la vicenda biografica di Pedro Hispano (noto in Italia come Pietro Ispano), eletto papa nel settembre del 1276 con il nome di Giovanni XXI, una figura che ha legato buona parte della sua vita all’Italia e, in modo particolare, alla città di Viterbo, in cui ha esercitato la sua funzione apostolica fino alla morte e dove ancora riposano le sue spoglie,
nella cattedrale di S. Lorenzo. Unico pontefice portoghese nella storia della Chiesa, Pedro è un personaggio intrigante, protagonista della cultura del suo tempo; vittima, nel corso dei secoli, di pregiudizi storiografici che lo hanno relegato a personaggio secondario. La sua personalità viene qui analizzata nelle tre sfaccettature in cui si è storicamente manifestata: l’uomo, l’intellettuale e il pontefice. La ripartizione in altrettanti capitoli consente dunque al lettore di prendere coscienza dapprima dell’uomo, Pedro Julião, calato nel contesto sociale e geografico del suo tempo; poi dell’intellettuale, docente e medico, meglio noto col nome di Pedro Hispano, autore di testi scientifici fondamentali, la cui valenza si è protratta per vari secoli; e infine del religioso, ambizioso e diplomatico, in grado di raggiungere, in un momento storico contraddistinto da feroci lotte intestine alla Chiesa cattolica, il punto piú alto della carriera ecclesiastica, adottando il nome di febbraio
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Giovanni XXI. Grazie all’eccellente lavoro di ricostruzione documentaria effettuata dall’autore, il libro recupera alla conoscenza comune la figura di un uomo, e di un papa, assoluto protagonista del suo tempo, tanto da meritare una menzione nel Paradiso di Dante. Gianpaolo Serone Paolo Caucci von Saucken (a cura di) Guida del pellegrino di Santiago Libro quinto del Codex Calixtinus. Secolo XII Editoriale Jaca Book, Milano, 144 pp., ill. b/n,
16,00 euro ISBN 978-88-16-41592-8 www.jacabook.it
Nell’829, Teodomiro, vescovo di Iria Flavia, scoprí, sulla sponda atlantica della Spagna settentrionale, la tomba dell’apostolo Giacomo e subito fu decisa la costruzione di una prima, piccola chiesa: il luogo divenne oggetto di
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grande venerazione e, in breve tempo, si trasformò nella meta di uno dei grandi pellegrinaggi della cristianità. Il culto iacopeo fece anche da innesco per una ricca produzione letteraria, una delle cui opere piú celebri è il Liber Sancti Jacobi, noto anche come Codex calixtinus – per l’epistola attribuita a papa Callisto II che lo introduce – o Codice compostelano, in quanto l’esemplare piú noto e completo è appunto quello che si conserva nella cattedrale di Santiago de Compostela. Il quinto libro del Liber – qui pubblicato – è una guida pratica a uso del pellegrino e illustra gli itinerari da seguire e gli atti devozionali da compiere. Al testo originale, Paolo Caucci von Saucken antepone un’ampia introduzione all’argomento, ripercorrendo la genesi e lo sviluppo del pellegrinaggio compostellano e illustrando le caratteristiche del Liber Santi Jacobi, che, ultimato verosimilmente intorno al 1150, viene messo a confronto con altre importanti compilazioni prodotte all’epoca. Stefano Mammini
Roberta Barsanti, Gianluca Belli, Emanuela Ferretti e Cecilia Frosinini La Sala Grande di Palazzo Vecchio e la Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci Dalla configurazione architettonica all’apparato decorativo Leo S. Olschki, Firenze, 608 pp., ill. col. e b/n
60,00 euro ISBN 978-88-222-6670-5 www.olschki.it
A oltre cinquecento anni dal suo concepimento, la Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci
è una delle opere piú celebri del maestro e, in quanto mai ultimata e addirittura svanita, ha finito con il trasformarsi in una sorta di leggenda. E proprio a sgombrare il campo da ipotesi piú o meno fantasiose, che negli anni hanno a piú riprese alimentato la speranza di poterla «ritrovare», ha contribuito un convegno
internazionale svoltosi a Firenze nel 2016, i cui contributi sono ora raccolti in questo ponderoso volume. S. M. Francesco Salvestrini (a cura di) Empoli, novecento anni Nascita e formazione di un grande castello medievale (1119-2019) Leo S. Olschki, Firenze, 234 pp., ill. b/n + XXII tavv. col.
30,00 euro ISBN 978-88-222-6716-0 www.olschki.it
Il volume costituisce la pubblicazione degli atti del convegno omonimo, svoltosi nella stessa Empoli nella primavera del 2019, con l’intento di celebrare i novecento anni dalla stipula dell’atto con cui la contessa Emilia (Imilia comitissa) concedeva al pievano Rolando e agli altri hospites del plebato la facoltà di costruire case intorno alla pieve di S. Andrea. Una decisione che segnò, di fatto, la nascita della città toscana. I contributi presentati in occasione dell’incontro e ora confluiti nel volume ripercorrono dunque l’intera vicenda, inquadrandola nel piú generale contesto politico, sociale e
culturale e facendola precedere da un excursus sulla storia di Empoli e del suo territorio in età romana e tardo-antica. Seguono quindi le tre sezioni portanti – L’aristocrazia, Vita di una comunità e L’eredità artistica e architettonica –, grazie alle quali è possibile approfondire tutti i risvolti dell’evento, dalle motivazioni che portarono alla decisione della comitissa all’assetto che il nuovo nucleo urbano assunse all’indomani della sua nascita. Quanto agli aspetti estetici, risulta di notevole interesse la ricostruzione delle molte fasi di vita della pieve, nelle quali si colgono, costanti, la relazione con la piú ampia realtà regionale e l’apertura a stili e influssi che andavano diffondendosi su larga scala nell’arte e nell’architettura italiane. S. M.
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Gran finale, ma non troppo MUSICA • La Camera delle Lacrime
conclude la rilettura della Commedia con un Paradiso poco «paradisiaco»...
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iunto, con il Paradiso, al terzo e conclusivo appuntamento, il progetto musicale «dantesco» de La Camera delle Lacrime, diretto da Buono Bonhoure e Khaïdong Luong e iniziato nel 2018, ci offre ancora una volta un’appassionata lettura testuale/musicale della Divina Commedia. Una lettura che, come nelle precedenti, si sofferma su alcuni momenti cruciali del viaggio letterario del poeta, ripercorso attraverso le letture di Camille Cobbi intercalate da commenti musicali. Come già per l’Inferno e per il Purgatorio, la narrazione testuale e quella musicale vanno di pari passo, creando un continuum narrativo affascinante. Le musiche sono spesso ispirate ad antiche melodie del Duecento e lo stile applicato è quello tipico del repertorio trobadorico
La Divine Comédie. Dante Alighieri. Paradiso Camera delle Lacrime, direzione di Bruno Bonhoure VOC8354, 1 CD www.ww.lacameradellelacrime.com – ma non solo – che grande sviluppo ebbe proprio in quel secolo. Gli strumenti sono quelli della tradizione medievale, liuto, viola ad arco, organetto e percussioni, mentre il canto è affidato a Bruno Bonhoure e Stéphanie Petibon e al coro dell’ensemble. Discreto è l’uso del linguaggio contrappuntistico mentre prevale l’utilizzo della voce solista su note tenute di bordone; altri brani vedono invece la partecipazione del coro in uno stile dal tono decisamente piú popolaresco, vicino a quello in uso presso le confraternite dei laudesi.
Una scelta poco felice Come già rilevato in occasione delle due registrazioni precedenti, una performance musicale di tal fatta e in cui è fondamentale la componente drammatico-teatrale, risulta in qualche modo menomata per la mancanza della parte visuale, a cui si sopperisce lasciandosi andare all’effetto incantatorio della narrazione verbale. Per quanto riguarda poi la dimensione musicale, notiamo che, proprio perché siamo di fronte a una rappresentazione del «Paradiso», i brani selezionati risultano piuttosto «terreni», e non riescono a suscitare nell’ascoltatore l’idea del Paradiso di Dante. Descrivere musicalmente i cori angelici descritti dall’Alighieri è senza dubbio molto difficile, se non impossibile, tuttavia una scelta diversa di partiture e di stili avrebbe forse giovato a rendere questa rappresentazione piú vicina allo spirito del poema. Franco Bruni
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