MEDIOEVO n. 295 AGOSTO 2021
DA B NT O E E LO LA G M N IN A IAT UR A
EDIO VO M E www.medioevo.it
UN PASSATO DA RISCOPRIRE
OLTRE LO SGUARDO L’ALBERO DI JESSE
Mens. Anno 25 numero 295 Agosto 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
INGHILTERRA
LA MISTERIOSA MORTE DI EDOARDO II DANTE IN MAREMMA LA VERA STORIA DI PIA DEI TOLOMEI DANTE IN MAREMMA YARMUK, 636 LA VERA STORIAAGOSTO DI ALLA CONQUISTA PIASEIDEIGIORNI TOLOMEI DEL LEVANTE
MEDIOEVO NASCOSTO CARINOLA, UNA POMPEI DEL QUATTROCENTO
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771125
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€ 5,90
BATTAGLIA DELLO YARMUK ETELFLEDA SIPONTO L’ALBERO DI JESSE CARINOLA DOSSIER EDOARDO II
DONNE IN GUERRA ETELFLEDA REGINA DI MERCIA
IN EDICOLA IL 3 AGOSTO 2021
SOMMARIO
Agosto 2021 ANTEPRIMA UN ANNO IN DIVINA COMPAGNIA Una firma per ricordo ARCHEOLOGIA Nel castello del cavalier Tommaso di Giampiero Galasso
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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese
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STORIE BATTAGLIE I sei giorni dello Yarmuk di Marco Pugliano
QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Di occhi e di pugnali di Paolo Pinti 110
6
Restauro con scoperta
di Massimo Medica
STORIE, UOMINI E SAPORI Quei semi nel mosto di vino di Sergio G. Grasso 106
5
di Federico Canaccini
MOSTRE Quel miniatore superbo...
54 CALEIDOSCOPIO
LIBRI Lo Scaffale
a cura di Stefano Mammini
Dossier
Edoardo II IL RE CHE MORÍ DUE VOLTE 73
ARCHEOLOGIA Fidarsi è bene... 28
di Giuseppe Sarcinelli e Ginevra Panzarino
54
28
DONNE GUERRIERE/1 Etelfleda, che (non) volle farsi regina di Federico Canaccini
42
42
COSTUME E SOCIETÀ OLTRE LO SGUARDO/7 Un germoglio dalle radici potenti di Furio Cappelli
60
LUOGHI MEDIOEVO NASCOSTO Campania
Nella Pompei del Quattrocento di Francesco Miraglia e Corrado Valente
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di Gianna Baucero
MEDIOEVO n. 295 AGOSTO 2021
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LA MISTERIOSA MORTE DI EDOARDO II MEDIOEVO NASCOSTO CARINOLA, UNA POMPEI DEL QUATTROCENTO
DANTE IN MAREMMA YARMUK, 636 LA VERA STORIAAGOSTO DI ALLA CONQUISTA PIASEIDEIGIORNI TOLOMEI DEL LEVANTE
Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI)
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DONNE IN GUERRA ETELFLEDA REGINA DI MERCIA
DANTE IN MAREMMA LA VERA STORIA DI PIA DEI TOLOMEI
Presidente Federico Curti
Hanno collaborato a questo numero: Gianna Baucero è scrittrice. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Massimo Medica è direttore dei Musei Civici d’Arte Antica-Istituzione Bologna Musei. Francesco Miraglia è architetto. Ginevra Panzarino è archeo-antropologa. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Giuseppe Sarcinelli è responsabile tecnico del Laboratorio di Studio e Documentazione Informatizzata delle Evidenze Numismatiche presso il Dipartimento di Beni Culturali dell’Università del Salento. Corrado Valente è architetto.
IN EDICOLA IL 3 AGOSTO 2021
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MEDIOEVO Anno XXV, n. 295 - agosto 2021 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it
Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: The Print Collector/Heritage Images: copertina (e pp. 78/79); AKG Images: pp. 32-33, 40 (basso), 49, 52, 69, 73-78, 83, 89, 90/91; Erich Lessing/Album: pp. 37/38; Zuma Press: pp. 42/43, 51; Album/Fine Art Images: p. 44; University of Bristol/ArenaPAL: pp. 92/93; Album/Collection J. Vigne/ Kharbine-Tapabor: p. 106; Album/Florilegius: p. 107 (basso); Album/Collection Kharbine-Tapabor: p. 108; Album/Collection IM/Kharbine-Tapabor: p. 109 (alto) – Shutterstock: pp. 5, 35, 46/47, 66-67, 70/71, 80-81, 84/85, 107 (alto), 109 (basso) – Cortesia Arciconfraternita del Santissimo Sacramento di Montella (AV): pp. 6-8 – Cortesia Musei Civici d’Arte Antica-Istituzione Bologna Musei: pp. 10-12 – Opera Laboratori, Ufficio Stampa-: pp. 14-15 – Doc. red.: pp. 28/29, 30/31, 40 (alto), 45, 48, 60-65, 68, 70, 84, 111 – Ginevra Panzarino: pp. 54-55, 56 (alto), 57 (alto), 58 (alto, a destra), 59 – Giuseppe Sarcinelli: p. 56 (basso), 58 (sinistra: alto, centro e basso) – Gianna Baucero: pp. 82/83, 86-88 – Mariano De Angelis: pp. 94/95, 103 – Fabio Sciaudone: pp. 96/97 – Ilenia Cendron e Carlo Chianese: pp. 98/99 (alto) – Mario Antinucci e Aldo Matano: pp. 98/99 (basso), 100 (alto) – Francesco Miraglia e Corrado Valente: pp. 100 (basso), 101, 104-105 – Cortesia dell’autore: pp. 110, 112-113 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 31, 39 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 46, 50/51, 57, 97.
Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano In copertina stampa ottocentesca nella quale si immagina l’arresto di Roger Mortimer, amante di Isabella di Francia, eseguito nel 1330 su ordine di Edoardo III.
Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.
Nel prossimo numero donne guerriere
Olga di Kiev
crociate
1204, il saccheggio di Costantinopoli
oltre lo sguardo
L’Albero della Vita
dossier
Andar per pievi nel Bresciano
dante alighieri, 1321-2021
Un anno in divina compagnia di Federico Canaccini
Una firma per ricordo
D
opo la campagna del giugno 1289, culminata nella battaglia di Campaldino, Dante partecipò con molta probabilità a un’altra operazione militare che lo portò in un territorio dove forse non s’era mai recato prima: la Toscana occidentale. L’unica testimonianza che ci informa della sua partecipazione è un verso del canto XXI dell’Inferno, quello dedicato ai Barattieri, in cui compare un’espressione ritenuta autobiografica dalla maggior parte dei critici e degli storici. Vi si legge, infatti, il verbo «vidi», in una sorta di firma. Minacciato dai diavoli che volteggiano tra gli speroni rocciosi della bolgia, il poeta, è andato a nascondersi «tra gli scheggion del ponte» e, tra mille paure, rincuorato da Virgilio, si arrischia ad attraversarlo, fiancheggiato dai ributtanti demoni capitanati da Malacoda. Come rendere l’idea, se non facendo riferimento a un’esperienza precedentemente vissuta? «Cosí vid’io già temer li fanti, ch’uscivan patteggiati di Caprona, veggendo sé tra nemici cotanti». Tenuto dai guelfi pisani legati a Nino Visconti, il castello di Caprona era stato preso dai ghibellini pisani capitanati dall’arcivescovo Ubaldini e da Guido da Montefeltro. Dopo la vittoria di Campaldino e l’assedio portato contro la città di Arezzo, l’esercito guelfo, rientrato in parte a Firenze, intraprese una marcia contro Pisa, con rinforzi senesi e pistoiesi, per portare soccorso
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luglio
ai Visconti e ai Lucchesi. Duemila fanti e quattrocento cavalieri, tra cui l’Alighieri, giunsero alla fine di luglio ai piedi del monte Verruca, là dove il torrente Zambra si getta in Arno: sulle propaggini di questo monte sorgeva un fortilizio che, dopo un breve assedio, capitolò nell’agosto 1289. I fanti «patteggiati», che avevano appoggiato l’Ubaldini, temevano le ritorsioni del Visconti, che tuttavia non si vendicò. Fu invece il podestà di Pisa, Guido da Montefeltro, in carica tra il 1289 e il 1293, che sbandí dalla città quei Pisani che si arresero al nemico e uscirono dal castello «patteggiati». Caprona (Pisa). La Torre degli Upezzinghi, copia ottocentesca di quella facente parte dell’antico castello esistente alla metà dell’XI sec. e smantellato da Firenze nel 1433.
ANTE PRIMA
Nel castello del cavalier Tommaso
ARCHEOLOGIA •
Un’altura nei pressi di Montella, nell’Avellinese, ospitò, fino al VI secolo un importante insediamento, del quale fu presto intuito il notevole valore strategico. E la cui storia plurisecolare è stata ricostruita grazie a recenti scavi sistematici 6
A
Montella, nell’alta valle del Calore, alle falde del monte Sassorano a confine tra l’Irpinia e la provincia di Salerno, si trova il Castello del «Monte», uno dei complessi fortificati del XII secolo meglio conservati del Sud d’Italia, oggi di proprietà dell’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento. Situato in posizione dominante su uno sperone roccioso, a 830 m di altitudine, l’impianto originario del fortilizio viene costruito, in un sito di grande valore strategico e naturalmente difeso, durante la metà del IX secolo, quando il luogo
diventa centro di un importante gastaldato longobardo dipendente dal ducato beneventano. I dati archeologici, rilevati durante indagini sistematiche condotte dal Dipartimento di Discipline Storiche dell’Università di Napoli «Federico II» (1980-1992, 2005-2008) sotto la direzione di Marcello Rotili, hanno però documentato la preesistenza di un insediamento accentrato di natura curtense, frequentato già a partire dal VI-VIII secolo e di cui si ha notizia storica in un documento del 762 del duca Arechi II: solo successivamente questo villaggio – dove probabilmente si erano agosto
MEDIOEVO
rifugiati gli abitanti del fondovalle proprio durante il trambusto provocato dall’avanzata longobarda in Italia meridionale – verrà fortificato dalla nuova committenza con un imponente circuito murario difensivo. Del villaggio, durante gli scavi, sono stati evidenziati una serie di strutture abitative e i ruderi di una cappella con annessa necropoli.
La trasformazione del complesso Con la conquista normanna il luogo entra in possesso della famiglia francese de Tivilla (11391170), da cui, nel 1171, passa a Riccardo d’Aquino, conte di Acerra. Quest’ultimo, considerato uno dei piú irriducibili avversari del dominio tedesco, fu catturato nel 1196 dal capitano Diopoldo di Schweinspeunt, giustiziere della Terra di Lavoro e signore della vicina Nusco: nel 1197 Diopoldo diventa feudatario anche del complesso fortificato del «Monte». A questo periodo, o ai primi anni del secolo successivo, risale la trasformazione del fortilizio, con la costruzione, all’interno della cinta muraria e sul punto piú elevato del Sulle due pagine immagini del complesso fortificato noto come «Castello del Monte», presso Montella (Avellino). Fra le strutture meglio conservate, spicca il donjon (mastio; foto qui accanto), a pianta circolare. La sua costruzione fu uno degli interventi intrapresi da Diopoldo di Schweinspeunt, che divenne feudatario del castello nel 1197.
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ANTE PRIMA Il lato sud-ovest della cinta muraria del castello. XIII-XIV sec.
colle, di un donjon (mastio) che si sviluppa su quattro livelli. La monumentale torre oggi ancora ben conservata ha pianta circolare, misura 12 m di diametro e ha un’altezza massima di 18 m. Esternamente si presenta come un cilindro massiccio con pareti verticali e muratura costituita da pietre calcaree informi e di varie dimensioni legate da abbondante malta. La superficie è aperta da finestre e qualche feritoia, mentre la sommità è priva della copertura a volta e del solaio. L’ingresso avveniva dal terzo livello forse attraverso l’ausilio di un ponte mobile in legno: terzo e quarto livello costituivano la residenza del castellano, come testimoniato dalla presenza di camini dotati di canna fumaria, di servizi igienici e di vani ricavati nello spessore murario. Dal terzo livello si raggiunge il piano superiore grazie a una stretta scala in muratura: qui colpisce la presenza di un forno con paramento in laterizi e di una tipica scala a chiocciola, ricavata sempre nel perimetro della struttura circolare, da cui si raggiunge la sommità della torre con cammino di ronda.
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Il primo livello, delimitato da una volta a botte, è invece occupato da una cisterna di notevoli dimensioni, funzionale alla raccolta dell’acqua piovana, che vi era convogliata dall’alto attraverso un condotto ricavato nelle pareti, mentre il secondo livello era occupato da uno spazio dedicato alla conservazione delle provviste alimentari.
Torri nei punti vulnerabili Il muro di cinta del complesso fortificato, dotato di cammino di ronda, segue un tracciato irregolare ed è costituito da tratti di cortine murarie che si elevano ancora per un’altezza superiore, in alcuni tratti, agli 8 m con pareti esterne verticali e paramenti in pietrame informe e malta cementizia. Nel recinto, inserite negli angoli piú vulnerabili, si notano una torre con basamento a scarpa e pianta semicircolare, e un bastione nel settore nord del circuito antemurale, con base lievemente scarpata. L’accesso all’area murata avveniva originariamente sul lato sud-est: piú tardi un’altra apertura con arco a tutto sesto fu ricavata nella cortina muraria disposta sul lato
settentrionale. Lungo il tracciato delle mura difensive si rileva poi una doppia recinzione perimetrale, con strutture murarie piú interne riferibili all’apparato difensivo di età normanna e cortine esterne attribuibili ai rifacimenti di epoca angioina. Incamerato nel 1210 dal demanio imperiale svevo, nel 1220 il Castello del «Monte» entra in possesso del valoroso cavaliere Tommaso I d’Aquino, amico personale di Federico II di Svevia e cugino dell’omonimo Santo. Al XIV-XV secolo risale poi la costruzione del palatium, che si sviluppa su due livelli a pochi metri dalla torre-mastio e che diventa di fatto la residenza dei feudatari locali a partire dall’età angioina. Di questo edificio si conservano alcuni ambienti con ingresso aperto sulla corte e delimitati da basamenti murari in pietrame. In questo fabbricato furono probabilmente ospitati, nel 1364, il principe di Taranto, Filippo II d’Angiò, e, nel 1445, il re Alfonso d’Aragona. Nel XV secolo, però, il complesso fortificato era già impiegato dai signori locali e dai loro familiari come residenza di piacere e luogo di caccia, mentre era già in parte diruto e non piú frequentato nella prima metà del XVI secolo, forse in seguito all’assedio postovi dalle truppe francesi di Odetto di Foix, signore di Lautrec, nel 1527-28, che – causando notevoli danni alla postazione militare e a quella residenziale – ne provoca il definitivo abbandono. Giampiero Galasso DOVE E QUANDO
Complesso monumentale del Monte Montella (Avellino), Arciconfraternita del Santissimo Sacramento Info e prenotazioni tel. 347 3143280; e-mail: sacramentomontella@tim.it agosto
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ANTE PRIMA
Quel miniatore superbo... MOSTRE • Nei suoi soggiorni a Bologna, Dante
dovette incontrare alcuni maestri dell’arte miniatoria, in particolare Oderisi da Gubbio e un misterioso «Franco Bolognese». Del quale il primo, stando ai versi della Commedia, avrebbe invidiato il talento...
L
eggendo il celeberrimo passo dell’XI canto del Purgatorio, volto a stigmatizzare la «vana gloria delle umane posse» (XI, 91), non si può che rimanere colpiti dall’importante ruolo che Dante assegna al miniatore Oderisi da Gubbio, finito nel girone dei superbi per non avere voluto riconoscere la superiorità del «collega», Franco Bolognese «l’onore è tutto suo e mio in parte». A lui il compito di raccontare, in un lungo monologo sempre incentrato sulla vanità della gloria terrena, analoghi casi che avevano interessato il mondo della pittura, con Cimabue superato dall’allievo Giotto, e della poesia, con Guinizelli e Cavalcanti. Tutti raffronti che non fanno che nobilitare il caso dello stesso Oderisi, che si è supposto Dante abbia potuto conoscere durante i suoi soggiorni a Bologna In alto lezionario del Maestro del Collettario, dal convento di S. Maria Maddalena di Val di Pietra. 1265-1270. A sinistra antifonario del tempo attribuibile a un miniatore bolognese, dal convento di S. Agnese. 1260-1270.
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Graduale del Maestro di Sant’Agnese, dal convento di S. Agnese. Fine del XIIIinizi del XIV sec. (1287 circa, 1304-1306), dove il miniatore risulta in effetti documentato. Il che, già di per sé, è un fatto del tutto eccezionale, alla luce della scarsa considerazione in cui era allora tenuta la professione dei miniatori, ben lungi da eguagliare quella dei piú noti copisti, abituati invece, rispetto ai primi, a sottoscrivere i contratti e, a chiare lettere, le loro opere. Quanto basta per farci intendere l’interesse che il poeta dovette riservare a questo genere di illustrazioni, che certamente dovevano risultare ai suoi occhi degne di attenzione in quanto strettamente connesse al contenuto dei libri, e quindi utile ausilio per la loro comprensione.
Vere e proprie opere d’arte Eppure le parole usate dal poeta ci fanno intendere che egli non le considerasse alla stregua di semplici lavori artigianali, bensí come vere e proprie opere d’arte a sé stante, degne pertanto di essere ricordate e apprezzate. L’allusione al ridere delle carte in relazione al «pennelleggiare» di Franco Bolognese ne è sicuramente una prova, che mette in evidenza «un primo apprezzamento in nuce della miniatura come pittura» (Nicolini). È quanto si può verificare visitando la piccola ma preziosa mostra allestita al Museo Civico Medievale di Bologna, nella quale sono riuniti alcuni pregevoli manoscritti miniati bolognesi collegabili agli stessi anni in cui risulta documentato a Bologna Oderisi da Gubbio e nei quali fu forse attivo anche il fantomatico Franco Bolognese. Stando ai soli dati documentari in nostro possesso, si deve infatti credere che il miniatore eugubino avesse effettivamente operato a Bologna tra gli anni Sessanta e Settanta del Duecento, ovvero
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agosto
nell’ambito della miniatura locale del cosiddetto «primo stile», le cui caratteristiche ritornano, nella stesura rapida e corsiva, giocata su una gamma assai limitata di colori, come documentano alcuni dei codici esposti, in larga misura collegabili ai conventi di suore domenicane di S. Agnese e di S. Maria di Valdipietra (ufficio del tempo, ms. 511; antifonario del tempo, ms. 513; lezionario, ms. 514; antifonario del tempo, ms. 515;
antifonario del tempo, ms. 516; collettario, ms. 612). A questa prima fase dovette seguire piú tardi una diversa e piú aggiornata corrente di stile capace di rinnovare, nel ricorso a una sintassi figurativa legata ai modelli della tradizione bizantina, il carattere delle decorazione dei codici bolognesi. Questa ulteriore fase, definita «secondo stile», ebbe come protagonista il cosiddetto Maestro della Bibbia di Gerona,
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ANTE PRIMA
In alto graduale del Maestro della Bibbia di Gerona, dalla chiesa di S. Francesco. Ultimo quarto del XlII sec. A sinistra antifonario del tempo attribuibile a un miniatore bolognese, dal convento di S. Agnese. Seconda metà del XIII sec. nome che gli deriva da una sontuosa Bibbia forse eseguita per il cardinale francese Jean Cholet, oggi conservata alla Biblioteca Capitolare di Gerona.
A confronto con la pittura Come risulta dai graduali esposti in mostra da lui miniati per la chiesa di S. Francesco (mss. 526, 527), la sua attitudine a confrontarsi con i modelli piú colti della cultura ellenistico-bizantina rivive nelle cadenzate euritmie che caratterizzano le varie figurazioni, ripensate si direbbe direttamente sugli esempi della miniatura di età paleologa, ma anche antecedenti, collegabili alla rinascenza macedone. Il tutto interpretato con una verve e una vitalità, anche cromatica, di sapore squisitamente occidentale, tale da presupporre il confronto con le coeve novità
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della pittura monumentale, ben documentate a Bologna negli anni del piú antico soggiorno di Dante, dalla Maestà che Cimabue eseguí per la chiesa dei Servi. E forse a questo cambiamento Dante allude nella Commedia quando, dopo avere fatto riferimento a Oderisi da Gubbio, parla dell’altro miniatore Franco Bolognese, come del resto potrebbe lasciare intendere anche l’ambientazione del poema nell’anno 1300, quando sicuramente Oderisi era già defunto. I riflessi di questo stile aulico si possono cogliere in buona parte dei codici miniati a Bologna tra la fine del Duecento e i primissimi anni del Trecento (graduale, ms.521; antifonario, ms. 529, antifonario ms. 532, matricola dei Merciai del 1303, ms. 629), nei quali appare tuttavia crescente anche l’adesione a un ritmo narrativo
di stampo ormai gotico che in taluni casi sembra già presupporre la conoscenza di certi modelli giotteschi, evidentemente già ben conosciuti anche a Bologna. Massimo Medica DOVE E QUANDO
«Dante e la miniatura a Bologna al tempo di Oderisi da Gubbio e Franco Bolognese» Bologna, Museo Civico Medievale fino al 3 ottobre Orario martedí, giovedí, 10,00-14,00; mercoledí, venerdí, 14,00-19,00; sabato, 10,00-19,00; domenica e festivi, 10,00-18,30; chiuso: lunedí non festivi, 1° maggio e Natale Info tel. 051 2193916; e-mail: museiarteantica@comune.bologna. it; www.museibologna.it/arteantica agosto
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Dall’Egitto all’Indonesia L
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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA
a Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico e la Le vivaci pitture policrome che ornano il bancone del rivista «Archeo» hanno inteso dare il giusto tributo thermopolium della Regio V, una delle scoperte piú recenti di cui alle scoperte archeologiche attraverso un Premio Pompei è stata teatro. I riquadri accolgono le rappresentazioni annuale, assegnato in collaborazione con le testate degli animali probabilmente macellati e venduti nel locale, che internazionali media partner della Borsa: Antike Welt possiamo paragonare a una moderna osteria, con mescita di vini (Germania), Archäologie in Deutschland (Germania), e pietanze da consumare sul posto o da asporto. Archéologia (Francia), as. Archäologie der Schweiz (Svizzera), Current Archaeology Daniele Morandi Bonacossi riceverà (Regno Unito), Dossiers d’Archéologie il riconoscimento conferitogli nella 6a (Francia). Il Direttore della Borsa, Ugo edizione del Premio – per la scoperta Picarelli, e il Direttore di «Archeo», in Iraq, nel Kurdistan, presso il sito Andreas M. Steiner, hanno condiviso di Faida, di dieci rilievi rupestri questo cammino, consapevoli che assiri raffiguranti gli dèi dell’antica «le civiltà e le culture del passato Mesopotamia – non ancora assegnato a e le loro relazioni con l’ambiente causa del posticipo della XXIII edizione circostante assumono oggi sempre piú non svolta nel novembre 2020. Inoltre, un’importanza legata alla riscoperta sarà attribuito uno «Special Award» delle identità, in una società globale alla scoperta, tra le cinque candidate, che disperde sempre piú i suoi valori». Errata che, fino al prossimo 30 settembre, Il Premio, dunque, si caratterizza per divulgare unocon riferimento avrà ricevuto maggior consenso dal grande pubblico corrige al Dossieril L’umanista scambio di esperienze, rappresentato dalle che scoperte sulla(vedi pagina Facebook andò alle crociate «Medioevo» n. della Borsa (www.facebook.com/ internazionali, anche come buona prassi di220, dialogo borsamediterraneaturismoarcheologico). aprile 2015) desideriamo precisare che la interculturale e cooperazione tra i popoli. medaglia in bronzoLe cinque ascoperte del 2020 finaliste della riprodotta p. 93 (inarcheologiche basso) L’International Archaeological Discovery Awardritrae «Khaled 7ª edizione Malatesta Novello (al dell’International secolo Domenico Archaeological Discovery al-Asaad» – giunto alla 7a edizione e intitolato Award «Khaled al-Asaad» Malatesta, 1418-1465) signore di Cesena, e sono: all’archeologo di Palmira che ha pagato connon la Sigismondo Malatesta, • Egitto:come a Saqqara, patrimonio UNESCO, 30 km a sud indicato in vita la difesa del patrimonio culturale – è l’unico delciCairo, ritrovati centinaia di sarcofagi; didascalia. Dell’errore scusiamo con l’autore riconoscimento a livello mondiale dedicatodell’articolo al mondo e con i•nostri Germania: lettori. la verità sul Disco di Nebra, il reperto piú dell’archeologia e in particolare ai suoi protagonisti, gli analizzato della storia archeologica tedesca; archeologi, che con sacrificio, dedizione e competenza • Indonesia: nell’isola di Sulawesi, le pitture rupestri affrontano il loro compito nella doppia veste di studiosi piú antiche del mondo con un cinghiale dipinto in ocra del passato e di professionisti a servizio del territorio. rossa di 45 500 anni fa; Il Premio, assegnato alla scoperta archeologica prima • Israele: a Gerusalemme, sotto il Muro del Pianto, si classificata, sarà selezionato tra le 5 finaliste segnalate celavano tre stanze di 2000 anni fa; dai Direttori di ciascuna testata e sarà consegnato • Italia: le numerose scoperte di Pompei, un venerdí 26 novembre in occasione della XXIII edizione thermopolium, un carro cerimoniale, le origini etrusche della BMTA, in programma a Paestum dal 25 al 28 della città. novembre 2021. Nella stessa occasione, il professor Info www.borsaturismoarcheologico.it
ANTE PRIMA
Restauro con scoperta MOSTRE • Grazie all’intervento compiuto su due
dipinti della Collezione Vaticana, ritrova la sua unità un magnifico trittico attribuito al Maestro della Madonna Straus, ora esposto a Spoleto
È
un’occasione da non perdere quella offerta dal Museo Diocesano di Spoleto: per la prima volta, infatti, viene riunito e offerto all’ammirazione del pubblico il trittico composto dalla Madonna in trono con il Bambino e gli angeli (facente parte della collezione permanente spoletina) e dagli scomparti laterali con le sante Paola Romana ed Eustochio che, scampati alla furia del terremoto, entrarono nel mercato dei collezionisti e furono poi registrati in Vaticano a partire dal 1867. La ricomposizione dell’opera nasce dal recente intervento di restauro condotto sui due elementi laterali conservati nella Collezione Vaticana e raffiguranti appunto la ricercata iconografia di due sante poco note, Paola Romana ed Eustochio, madre e figlia vissute all’epoca di san Girolamo (fine del IV secolo). Nell’operare sui dipinti, se ne è approfondito lo studio, cercando di individuarne lo scomparto centrale perduto, e le ricerche hanno individuato al Museo Diocesano di Spoleto una tavola frammentata, una Madonna in trono col Bambino tra due angeli reggicortina. Il dipinto, seppur mutilo della parte inferiore, appare stilisticamente affine ed è stato riconosciuto come centro del
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In alto ricostruzione virtuale del trittico composto dalla Madonna in trono con il Bambino e gli angeli e dagli scomparti con le sante Paola Romana ed Eustochio trittico. L’opera ornava in origine l’altare della cappella di S. Maria presso il castello di Abeto di Preci, da cui l’appellativo di «Maria Santissima di Piè di Castello».
Analisi approfondite Per comparare i tre elementi del trittico, si sono rese necessarie indagini scientifiche specifiche: la Madonna di Spoleto è stata perciò trasferita al Gabinetto di Ricerche Scientifiche applicate ai Beni Culturali dei Musei Vaticani, dove i diversi componenti sono stati esaminati a fondo: l’essenza lignea, i pigmenti, le incisioni e i punzoni ne hanno confermato la piena compatibilità, mentre il reparto proseguiva le ricerche storico-artistiche e si soffermava sulle ipotesi ricostruttive. Con l’intento di approfondire lo studio di un pittore di elevatissima qualità non abbastanza noto, è stata selezionata anche un’opera piú tarda da mettere a confronto, la Madonna in trono col Bambino tra due angeli, oggi custodita presso il Museo di Arte Sacra e Religiosità agosto
MEDIOEVO
Popolare «Beato Angelico» di Vicchio del Mugello. Sono diversi i motivi che hanno condotto a questa scelta. Si tratta, infatti, di polittici realizzati da una delle botteghe fiorentine piú raffinate e ricercate del tempo, destinati all’arredo liturgico di cappelle e pievi delle zone rurali di Umbria e Toscana (successivamente smembrati, riconfigurati come opere autonome e quindi dispersi). La sopravvivenza della sola tavola con la Madonna, sia nel caso di Abeto di Preci che in quello di Vicchio, attesta, altresí, una devozione mai interrotta e un legame affettivo e plurisecolare con il territorio, che ha resistito anche alla dispersione degli scomparti laterali. Inoltre, proprio grazie a questo accostamento è possibile intuire le dimensioni originarie della Madonna di Spoleto, gravemente
MEDIOEVO
agosto
In alto Madonna in trono con il Bambino e gli angeli, elemento centrale del trittico attribuito all’artista noto come Maestro della Madonna Straus, attivo a Firenze tra il 1385 e il 1415. A destra Santa Eustochio, scomparto laterale destro del trittico. Nella pagina accanto, in basso Santa Paola Romana, scomparto laterale sinistro del trittico. danneggiata nel terremoto del 1703. Due momenti del percorso del Maestro della Madonna Straus, attivo a Firenze tra il 1385 e il 1415, un pittore che, da un iniziale neogiottismo, lentamente si apre al nuovo stile internazionale, accogliendo in parte i modi di Lorenzo Monaco e di Gherardo Starnina, ma mantenendo sempre una sua originale arcaicità. (red.)
DOVE E QUANDO
«Incanto Tardogotico. Il trittico ricomposto del Maestro della Madonna Straus» Spoleto, Museo Diocesano fino al 7 novembre Orario tutti giorni, 11,00-18,00; chiuso il lunedí Info tel. 0577 286300; e-mail: duomospoleto@ operalaboratori.com; www.duomospoleto.it
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AGENDA DEL MESE
Mostre FIRENZE «ONOREVOLE E ANTICO CITTADINO DI FIRENZE». IL BARGELLO PER DANTE Museo Nazionale del Bargello fino all’8 agosto
Articolata in sei sezioni, la mostra riunisce oltre cinquanta tra manoscritti e opere d’arte provenienti da biblioteche, archivi e musei e presenta le tappe e i protagonisti della ricostruzione postuma del rapporto tra Firenze, l’Alighieri e la sua opera, nel secondo quarto del Trecento. Si tratta
a cura di Stefano Mammini
per una mostra che ripercorre il complesso rapporto tra Dante e la sua città natale: nella Sala dell’Udienza dell’allora Palazzo del Podestà (oggi Salone di Donatello), il 10 marzo 1302, il sommo poeta venne condannato all’esilio definitivo; nell’attigua Cappella del Podestà, solo pochi anni piú tardi (entro il 1337), Giotto e i suoi allievi ritraevano il volto di Dante includendolo tra le schiere degli eletti nel Paradiso. Proprio attorno a questo ritratto, la prima effigie a noi nota del padre della lingua italiana, si delinea cosí quel processo di costruzione della memoria che permetterà a Firenze di riappropriarsi dell’opera e della figura dell’Alighieri. info tel. 055 0649440; e-mail: mn-bar@beniculturali.it; www.bargellomusei. beniculturali.it LONDRA THOMAS BECKET: DALL’ASSASSINIO ALLA SANTIFICAZIONE The British Museum fino al 22 agosto
La raccolta londinese propone la prima, grande rassegna
di copisti, miniatori, commentatori, lettori, volgarizzatori, le cui vicende professionali e umane si intrecciano fittamente, restituendo l’immagine di una città che sembra trasformarsi in uno scriptorium diffuso, al centro del quale campeggia la Commedia, e in cui i libri circolano con abbondanza e prendono vita nuove soluzioni artistiche e codicologiche proprio in relazione al poema dantesco. Il Museo Nazionale del Bargello è la sede ideale
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sulla vita, la morte e il lascito di Tommaso Becket, il cui brutale assassinio, nel 1170, fu uno degli eventi piú scioccanti dell’intero Medioevo. Cardine del percorso espositivo è l’eccezionale prestito di una delle vetrate policrome della Cattedrale di Canterbury, una delle sette finestre superstiti delle dodici realizzate agli inizi del XIII secolo per fare da corona al (perduto) monumento in onore dell’arcivescovo nella Cappella della Trinità. A questo capolavoro si affiancano reliquiari, gioielli, medaglie di pellegrini e sculture scelti nella ricca collezione permanente del museo, nonché altri importanti prestiti, che comprendono oggetti forse appartenuti allo stesso Becket, come i manoscritti dal Trinity College e dal Corpus Christi College di Cambridge. info www.britishmuseum.org TORINO RITRATTI D’ORO E D’ARGENTO. RELIQUIARI MEDIEVALI IN PIEMONTE, VALLE D’AOSTA, SVIZZERA E SAVOIA Palazzo Madama, Sala Atelier fino al 30 agosto (prorogata)
La mostra presenta una galleria di busti reliquiario dal Duecento al primo Cinquecento, provenienti da tutte le diocesi del Piemonte e raffiguranti santi legati alle devozioni del territorio e alle titolazioni di determinate chiese locali, oltre ad alcuni esemplari dalla Svizzera e dall’Alta Savoia. Documentati già dall’XI secolo per contenere la reliquia del cranio di certi santi, i busti sono a tutti gli effetti dei ritratti in oreficeria, solitamente in rame o in argento dorato, spesso arricchiti da pietre preziose, vetri colorati e smalti. Una
produzione specificatamente medievale, in cui convivono il gusto per il ritratto di tradizione classica – di qui la presenza di dettagli relativi all’acconciatura o all’abbigliamento – e le pratiche devozionali teorizzate da alcuni ecclesiastici e filosofi del XII secolo, secondo cui la contemplazione dell’immagine di un santo, realizzata con materiali preziosi, poteva condurre il fedele verso l’elevazione spirituale. I busti e le teste reliquiario si configurano quindi come opere di valenza doppia: sia opere d’arte sia ricettacolo delle reliquie dei santi che rappresentano e in quanto tali oggetto della venerazione dei fedeli. Il Piemonte e l’area alpina contano un numero molto elevato di queste testimonianze per il periodo XII-XVI secolo, soprattutto in rapporto alle altre regioni d’Italia. La mostra vuole documentare questa ricchezza, anche stilistica, cercando di comprendere le ragioni del successo di questa tipologia nel nostro territorio. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it agosto
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TORGIANO POSTE ALIGHIERI Museo del Vino fino al 29 agosto
Nell’anno in cui ricorre il settimo centenario della morte di Dante, Lungarotti celebra in modo insolito e originale il Sommo Poeta, proponendo una mostra di cartoline d’arte dedicate all’Alighieri. Si tratta di una collezione di cartoline postali dei primi del Novecento, che raccontano personaggi e suggestioni della Divina Commedia affiancando a ogni terzina la scena che la rappresenta, e perfino riportando la traduzione in inglese dei versi, pensata per il turista straniero che le
avrebbe acquistate o per il destinatario che le avrebbe ricevute. Una collezione unica, tratta dalle raccolte di Adriano Pezzoli e della Fondazione Lungarotti che, nell’era del digitale, fa quasi sorridere testimoniando fedelmente l’epoca di produzione. In esposizione vi sono anche la serie «Paradiso» edita da Egisto Sborgi (Firenze, 1917), le foto-sculture di Domenico Mastroianni e la produzione dedicata a Dante di Virgilio Alterocca, l’imprenditore ternano che ha introdotto questo formato in Italia.
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info e prenotazioni tel. 075 9880200; e-mail: prenotazionimusei@lungarotti.it; www.muvit.it
TORINO LA MADONNA DELLE PARTORIENTI DALLE GROTTE VATICANE Palazzo Madama, Corte Medievale fino al 30 agosto (prorogata)
Dipinta da Antoniazzo Romano nell’ultimo decennio del XV secolo, la Madonna delle Partorienti viene esposta in anteprima assoluta dopo un lungo e complesso restauro, e la mostra è l’occasione per ammirarla, prima che faccia definitivamente rientro nelle Sacre Grotte della Basilica vaticana. Si tratta di un
affresco – o, meglio, del frammento di un affresco – di grande importanza per la fede e per l’arte. Realizzato da Antoniazzo alla vigilia del Giubileo del 1500, si trovava in origine nel transetto meridionale della vecchia basilica, sopra l’altare della cappella Orsini. Durante i lavori per la costruzione del nuovo S. Pietro, fu staccato dalla parete e collocato nel 1574 in una nicchia dietro un altare, a ridosso del muro che divideva l’antica chiesa dal cantiere della nuova basilica. Qui continuò a raccogliere la
devozione dei fedeli e, soprattutto, delle donne in attesa del parto. Rimosso anche da questo luogo nel 1605, venne poi portato nelle Grotte Vaticane e, nel 1616, trovò definitiva collocazione in una cappella ricavata sotto il pavimento della basilica. L’immagine della Madonna delle Partorienti – o «degli Angeli» come veniva chiamata nel Cinquecento - fu allora ridotta di dimensione, perdendo l’originaria mandorla con variopinte figure di cherubini, che tuttavia possiamo ammirare nell’inedita e attendibile proposta ricostruttiva presentata in mostra. info www.palazzomadamatorino.it
Firenze, raggiungendo l’apice della sua carriera artistica nel momento in cui la città divenne la nuova capitale del Regno. Proveniente dagli Uffizi di Firenze, è un’opera notevole sotto il profilo artistico e fondamentale per valore simbolico. La sua presenza a Ravenna nasce, infatti, dal progetto di stretta collaborazione pluriennale tra il Comune di Ravenna e le Gallerie degli Uffizi, definito con un protocollo ufficiale di intesa. Il documento prevede
RAVENNA DANTE NELL’ARTE DELL’OTTOCENTO. UN’ESPOSIZIONE DEGLI UFFIZI A RAVENNA Chiostri Francescani fino al 5 settembre
Dante in esilio è un olio su tela di Annibale Gatti, pittore forlivese che si formò a
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AGENDA DEL MESE prestigiosi prestiti per la mostra «Dante. Gli occhi e la mente. Le Arti al tempo dell’esilio» e la concessione da parte degli Uffizi – in un deposito a lungo periodo – di un nucleo di opere ottocentesche dedicate alla figura di Dante Alighieri, da esporre a Ravenna come parte integrante del progetto Casa Dante. Inoltre ogni anno, in concomitanza con l’annuale cerimonia del dono dell’olio da parte della città di Firenze, gli Uffizi presteranno alla città di Ravenna un’opera a tema dantesco. Rinnovando, cosí ancora una volta, il profondo legame tra Firenze, città natale del sommo poeta, e Ravenna, città che lo accolse e suo «ultimo rifugio». All’interno di questo accordo ha preso forma anche il progetto che ha portato all’esposizione della tela a tema dantesco di Annibale Gatti nei Chiostri Francescani. Nel dipinto il poeta è ritratto in un momento di intima riflessione, in compagnia del figlio, nella pineta di Classe, citata da Dante nel Purgatorio e luogo a lui caro. E la pineta classense rivive, in questa mostra, oltre che nel dipinto, anche in una selezione di fotografie storiche provenienti dal Fondo «Corrado Ricci» della Biblioteca Classense. info tel. 0544 482.477-356; e-mail: info@museocitta.ra.it; www.mar.ra.it URBINO SUL FILO DI RAFFAELLO. IMPRESA E FORTUNA NELL’ARTE DELL’ARAZZO Palazzo Ducale fino al 12 settembre
Realizzata in collaborazione con i Musei Vaticani e con il Mobilier National di Parigi, la mostra è dedicata a Raffaello e al mondo degli arazzi e indaga
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sia l’apporto che il pittore forní in questo specifico settore – per il quale sperimentò invenzioni e realizzò cartoni poi tessuti nelle botteghe fiamminghe –, sia la fortuna che le opere dell’Urbinate conobbero nel corso dei secoli nella produzione di arazzi. Con dodici grandiose pezze tessute nelle migliori arazzerie europee, raffiguranti principalmente le pitture delle Stanze Vaticane, Urbino può esibire, nel maestoso salone del Trono, tutta la monumentale opera pittorica del suo cittadino piú illustre, la potenza e l’equilibrio classico che Raffaello raggiunse a Roma, circa 25 anni dopo aver lasciato la sua città natale. Gli spazi nei quali l’artista aveva camminato da bambino accompagnato dal padre Giovanni Santi accolgono la sua opera piú grandiosa, realizzata a Roma per i papi, apprezzata da artisti, critici, conoscitori e dai turisti di tutte le epoche. info www.galleria nazionalemarche.it
UDINE ZVAN DA VDENE FVRLANO. GIOVANNI DA UDINE TRA RAFFAELLO E MICHELANGELO (1487-1561) Castello-Gallerie d’Arte Antica fino al 12 settembre
grande eccellenza. A Roma, dove era stato uno dei piú fidati collaboratori di Raffaello, rimase anche dopo la scomparsa dell’Urbinate. Conquistandosi, per la sua abilità, dapprima il titolo di Cavaliere di San Pietro e quindi una congrua pensione da pagarsi sull’ufficio del Piombo. Alla metà degli anni Trenta del Cinquecento, Giovanni decise di abbandonare la città che gli aveva garantito fama e onori e rientrare nella sua Udine con il proposito di «non toccar piú pennelli». Preceduto dalla fama conquistata a Roma, una volta tornato in Friuli si trovò pressato dalle committenze e venne meno al suo intento. Tra le realizzazioni di maggiore importanza vanno annoverate la decorazione di due camerini in Palazzo Grimani a Venezia e l’esecuzione di un lungo fregio a stucco e ad affresco nel castello di Spilimbergo. info www.civicimuseiudine.it/ CLASSE (RAVENNA) CLASSE E RAVENNA AL TEMPO DI DANTE Classis Ravenna-Museo della Città e del Territorio, Parco Archeologico di Classe fino al 26 settembre
Giovanni Ricamatore, o meglio, Giovanni da Udine «Furlano», come si firmò all’interno della Domus Aurea, riuniva in sé l’arte della pittura, del disegno, dell’architettura, dello stucco e del restauro. Il tutto a livelli di
Quale città incontra Dante quando arriva a Ravenna nel 1318? Il rapporto con il mare e con le vie d’acqua riveste ancora la stessa importanza che aveva durante l’epoca romana? Che cosa è cambiato e qual è la relazione con Classe? Qual è la città e quali sono i monumenti che Dante vede? Queste sono le domande alle quali intende rispondere la mostra documentaria allestita al Museo Classis Ravenna. All’epoca di Dante il centro abitato distava circa due miglia dalla costa, era agosto
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delimitato a est dalla fitta fascia dei pineti, a nord dal fiume Montone, a sud dal Ronco e a ovest da terreni solo in parte bonificati; attraversata da una fitta rete di fiumicelli e canali limacciosi, la città viveva in una sorta di precario equilibrio fra acque dolci e acque marine. La pineta costituiva una vasta area boschiva che dal Reno arrivava fino a Cervia, correndo parallelamente alla costa adriatica. Alle case povere e per lo piú pedeplane, si
Classe ai tempi di Dante. Oltre al recupero e alla interpretazione/sistemazione dei documenti disponibili, vengono proposte anche ricostruzioni complessive sia della città che di singoli monumenti, allo scopo di fornire un quadro generale della città e delle sue strutture urbanistiche e architettoniche ai tempi di Dante, con soluzioni fortemente evocative. info https://classisravenna.it/ MILANO LA FORMA DEL TEMPO Museo Poldi Pezzoli fino al 27 settembre
Tema della mostra è il rapporto dell’uomo con il tempo, dall’antichità alle soglie dell’età moderna, sviluppato attraverso una trentina di opere tra orologi, sculture, codici e dipinti (tra gli autori: Tiziano, Gian Lorenzo Bernini, Andrea Previtali, Bernardino Mei e Giovan Battista Gaulli detto il Baciccio). Fulcro affiancavano i rari palazzi signorili, quelli dei Traversari e dei Polentani. Le chiese sono numerosissime, per una popolazione di circa 10 000 abitanti. Ravenna, che aveva tratto profitto dall’attività edilizia in epoca romana, conservava un complesso, unico nel suo genere, di monumenti del V e VI secolo di cui non esisteva l’eguale in altra città. L’unicità, di cui godiamo tuttora, considerando la quasi totale scomparsa delle chiese erette in quei secoli a Costantinopoli, in Palestina e in Siria, era al tempo di Dante ancora piú significativa. La mostra si propone di ricostruire, anche attraverso una ricerca originale e mirata, monumenti e paesaggi di Ravenna e di
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dell’esposizione – che si articola in quattro sezioni: La misura del Tempo e dello spazio, Le immagini del Tempo e Nottetempo, Ombre magiche – è una serie di preziosi orologi notturni italiani del Seicento, invenzione dei fratelli Campani per papa Alessandro VII Chigi, con i quadranti dipinti con allegorie del tempo da famosi artisti barocchi. Accanto ai due esemplari del Museo Poldi Pezzoli, l’uno di Giovan Pietro Callin e l’altro di Wendelinus Hessler, dodici sono provenienti da collezioni private. Da segnalare, nella prima sezione, dedicata alle tappe fondamentali dell’evoluzione tecnologica degli strumenti di misurazione del tempo, la presenza di un rarissimo – praticamente l’unico – svegliatore monastico originale risalente al XV secolo, l’antenato dei primi orologi a pesi e di una replica dell’Astrario di Giovanni Dondi, la piú complicata macchina astronomica ideata nel
Medioevo europeo. Per tutta la durata dell’esposizione sono in programma attività didattiche collaterali: visite guidate con tagli diversi su prenotazione, itinerari didattici e laboratori per bambini e famiglie, un ciclo di conferenze sui temi della mostra affidate a specialisti degli argomenti affrontati. Il calendario degli appuntamenti è consultabile sul sito web del Museo. info www.museopoldipezzoli.it BOLOGNA DANTE E LA MINIATURA A BOLOGNA AL TEMPO DI ODERISI DA GUBBIO E FRANCO BOLOGNESE Museo Civico Medievale fino al 3 ottobre 2021
Richiamandosi al rapporto, intenso e fecondo, che Dante Alighieri ebbe in vita con la città di Bologna, le ragioni della mostra muovono dallo sguardo curioso e dalla attenta sensibilità critica che egli dovette rivolgere verso le arti figurative, di cui dimostrò di essere a conoscenza nei piú importanti sviluppi coevi al suo tempo. Il sommo poeta soggiornò a Bologna in piú occasioni: una prima volta probabilmente intorno al 1286-87, quando forse frequentò, come studente «fuori corso», l’Università. Piú
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AGENDA DEL MESE prolungato dovette essere invece il secondo soggiorno, che lo vide trattenersi in città per almeno due anni, dal 1304 al 1306. Dopo aver lasciato Verona, e poi Arezzo, Dante ricercava ora nella scrittura e nello studio il motivo del suo riscatto che l’avrebbe risollevato dall’ignominia dell’esilio, iniziato nel 1302. Ed è probabile che in queste circostanze abbia scelto proprio Bologna come possibile nuova meta, atta a garantirgli le necessarie risorse per vivere e anche per studiare e scrivere. Una presenza che dovette consentirgli di entrare in contatto con alcuni di quei luoghi deputati alla produzione e alla vendita dei libri, dove probabilmente aveva avuto notizia dello stesso miniatore Oderisi da Gubbio di cui racconta l’incontro, tra i superbi, nell’XI canto del Purgatorio: «“Oh!”, diss’io lui, “non se’ tu Oderisi, / l’onor d’ Agobbio e l’onor di quell’arte / ch’ all uminar chiamata è in Parisi?” / “Frate”, diss’elli, “piú ridon le carte / che pennelleggia Franco Bolognese; / l’onore è tutto or suo, e mio in parte”». info tel. 051 21939.16-30; e-mail: museiarteantica@comune. bologna.it; www.museibologna.it; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Twitter: @MuseiCiviciBolo; www.museibologna. it; instagram: @bolognamusei VERONA TRA DANTE E SHAKESPEARE. IL MITO DI VERONA Galleria d’Arte Moderna A. Forti fino al 3 ottobre
L’esposizione è uno dei fulcri dell’articolata mostra diffusa ideata per le celebrazioni del centenario del 2021, che prevede il duplice omaggio al Poeta e alla città di Verona,
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che gli diede «lo primo tuo refugio e ’l primo ostello» (Paradiso, XVII, 70). La città scaligera, infatti, non è semplicemente lo sfondo della vicenda dantesca, ma ne diventa essa stessa protagonista. Questa specificità, che la caratterizza rispetto alle altre città dantesche, viene valorizzata attraverso un itinerario cittadino che, tramite l’ausilio di una mappa cartacea, porta il visitatore alla riscoperta di ventun luoghi – tra piazze, palazzi, chiese, emergenze monumentali in città e nel territorio – direttamente legati alla presenza del poeta, dei suoi figli ed eredi, e a quelli di tradizione dantesca. La Galleria d’Arte Moderna propone una selezione di oltre 100 opere, tra dipinti, sculture, opere su carta, tessuti e testimonianze materiali dell’epoca scaligera, codici manoscritti, incunaboli e volumi a stampa in originale e in formato digitale provenienti dalle collezioni civiche, dalle biblioteche cittadine, da biblioteche e musei italiani ed esteri. Nel percorso espositivo, che copre un arco cronologico
compreso tra Trecento e Ottocento, c’è spazio per la fortuna iconografica dei personaggi danteschi, a partire da Beatrice e Gaddo, ma anche di altre figure femminili e delle tragiche vicende, legate al tema dell’amore e degli amanti sfortunati, di Pia de’ Tolomei e Paolo e Francesca. E proprio quest’ultimo tema introduce il mito di Giulietta e Romeo, giovani innamorati nati dalla penna di Luigi da Porto nel Cinquecento e resi celebri da William Shakespeare in tutto il mondo. info www.danteaverona.it, gam.comune.verona.it
Tolentino, il Gonfalone della Trinità, la Crocefissione Mond, lo Sposalizio della Vergine, la Pala Colonna, la Pala degli Oddi, la Pala Ansidei, la Madonna del Libro – piú nota come Conestabile –, l’affresco di San Severo, la Deposizione Baglioni, la Madonna con il Bambino e i Santi e, infine, l’Incoronazione della Vergine) – permettendo ai visitatori di esplorarne anche i dettagli, accompagnati da informazioni lette da una voce narrante. Da segnalare, inoltre, tre prestigiose opere del Rinascimento umbro appartenenti alla collezione della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e realizzate da tre maestri a cui Raffaello si ispira e con i quali si relaziona quando arriva in Umbria: la Madonna col Bambino e due cherubini
PERUGIA RAFFAELLO IN UMBRIA E LA SUA EREDITÀ IN ACCADEMIA Fondazione CariPerugia Arte, Palazzo Baldeschi fino al 3 ottobre
Tra reale e virtuale: cosí Raffaello abita le sale di Palazzo Baldeschi al Corso fino al 6 gennaio. La mostra propone un’esperienza immersiva che consente di ammirare in sequenza tutte le opere umbre dell’Urbinate – se ne contano a oggi dodici (la Pala di San Nicola da
del Perugino, la Madonna con il Bambino e San Giovannino del Pintoricchio e il Santo Stefano lapidato di Luca Signorelli. La seconda sezione della mostra, «L’Accademia di Perugia e Raffaello: da Minardi e Wicar al Novecento», si agosto
MEDIOEVO
articola in quattro parti tematiche e cronologiche che vogliono mostrare e dimostrare come, per tutto l’Ottocento, Perugia, grazie alla presenza di Tommaso Minardi, fu un epicentro insieme a Roma della corrente purista e del ritorno all’arte di ispirazione religiosa. L’Accademia fu infatti un vivaio di pittori talentuosi, che rielaborano la lezione degli antichi maestri, Perugino e Raffaello prima di tutti, attualizzandone modelli e stile, interpretando quel gusto neorinascimentale, molto apprezzato anche dal collezionismo e dal mercato internazionali dell’epoca. info tel. 075 5734760; e-mail: palazzobaldeschi@ fondazionecariperugiaarte.it; www.fondazionecariperugiaarte. it; facebook: @fondazionecariperugiaarte; twitter: @CariPerugiaArte; instagram: cariperugiaarte, #PerugiacelebraRaffaello, #RaffaelloinUmbria SUSA-TORINO IL RINASCIMENTO EUROPEO DI ANTOINE DE LONHY Susa, Museo Diocesano fino al 10 ottobre 2021 Torino, Palazzo Madama, Sala Senato fino al 9 gennaio 2022 (dal 23 settembre 2021)
L’esposizione punta a ricomporre la figura di Antoine de Lonhy, un artista poliedrico – era pittore, miniatore, maestro di vetrate, scultore e autore di disegni per ricami – che ebbe un impatto straordinariamente importante per il rinnovamento del panorama figurativo del territorio dell’attuale Piemonte nella seconda metà del Quattrocento. Venuto a contatto con la cultura fiamminga, mediterranea e savoiarda, fu portatore di una
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concezione europea del Rinascimento, caratterizzata dalla capacità di sintesi di diversi linguaggi figurativi. Lonhy visse e lavorò in tre Paesi diversi. Originario di Autun, in Borgogna, si formò sui testi della pittura fiamminga, tra Jan van Eyck e Rogier van der Weyden. Prima del 1450 era già in contatto con uno dei piú straordinari mecenati di ogni tempo, il cancelliere del duca di Borgogna Nicolas Rolin, per il quale eseguí delle vetrate istoriate, purtroppo perdute. Si conoscono poi tutte le tappe del suo percorso attraverso l’Europa, che si concluse nel ducato di Savoia, dove lavorò per la corte e per numerose chiese e monasteri del territorio e dove si spense, probabilmente, prima della fine del secolo. Il percorso espositivo della mostra, articolato nelle due sedi di Palazzo Madama-Museo Civico d’Arte Antica di Torino e del Museo Diocesano di Susa, vuole mettere in evidenza i viaggi, gli spostamenti e la
carriera itinerante attraverso l’Europa di un artista che nelle sue opere riuní insieme elementi e influssi dalla Borgogna, dalla Provenza, dalla Catalogna e dalla Savoia. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it
repubblica governata da funzionari eletti, si trasformò in un ducato, retto dalla famiglia Medici. Figura chiave di questo passaggio fu Cosimo I, il quale, all’indomani della morte del suo predecessore, Alessandro, divenne duca nel 1537. Per rafforzare l’immagine di uno Stato dinastico, il nuovo signore della città si serví della cultura anche in chiave politica, ingaggiando le migliori menti e i piú valenti artisti del tempo. Riflesso di questa temperie è la nuova mostra allestita dal Met, nella quale sono riunite opere di maestri del calibro di Raffaello, Jacopo Pontormo, Rosso Fiorentino, Benvenuto Cellini, solo per citare alcuni dei nomi piú illustri. Oltreoceano è giunto anche il pregevole ritratto della poetessa Laura Battiferri, un olio su tavola dipinto da Agnolo Bronzino fra il 1555 e il 1560, concesso in prestito dal Museo di Palazzo Vecchio e restaurato per l’occasione grazie al supporto di Friends of Florence. info www.metmuseum.org
NEW YORK
TIVOLI
I MEDICI: RITRATTI E POLITICA, 1512-1570 The Metropolitan Museum of Art fino all’11 ottobre
ECCE HOMO: L’INCONTRO FRA IL DIVINO E L’UMANO PER UNA DIVERSA ANTROPOLOGIA Villa d’Este-Santuario di Ercole Vincitore fino al 17 ottobre
Fra il 1512 e il 1570, Firenze visse una stagione tumultuosa della sua storia e, da
Ecce homo: sono le parole dette da Pilato nel Vangelo di Giovanni (XIX, 5) nel presentare alla folla Gesú, dopo averlo fatto flagellare e lasciato rivestire per dileggio con un manto rosso e una corona di spine. La scena, sommamente tragica, diviene una delle piú rappresentate della Passione, il cui racconto si snoda in mostra attraverso opere e prestiti illustri da prestigiose collezioni pubbliche e private. L’esposizione intende infatti
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AGENDA DEL MESE MOSTRE • Gli animali della nobiltà. Dalla caccia al salotto tra status symbol, allegoria e affetti Gorizia - Palazzo Coronini Cronberg
fino al 9 gennaio 2022 info www.coronini.it
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edeli amici e compagni, ma anche simboli di ricchezza, gloria e potere: questo erano per i sovrani e gli aristocratici gli animali. Una funzione affettiva o di rappresentanza quindi, che nei secoli ha avuto una diretta proiezione nelle arti e a cui la Fondazione Palazzo Coronini Cronberg dedica la mostra. Grazie a una selezione di oltre 200 opere, tra dipinti, stampe, argenti, vetri, gioielli, armi e fornimenti equestri, il percorso, articolato tra la sala esposizioni delle Scuderie e le sale del Palazzo, affronta innanzitutto il tema degli animali domestici. Come illustrano alcuni dipinti delle collezioni Coronini e dei Musei Provinciali di Gorizia, databili dal XVII alla fine del XIX accostarsi al significato profondo e universale dell’incarnazione e della morte di Cristo, consentendo di intrecciare a essa differenti percorsi antropologici e artistici, trasversali alle epoche e alle sensibilità culturali. Al centro della mostra si pongono la fragilità e la ricerca di senso, quali condizioni profondamente connaturate all’essere umano e al rapporto con il divino. Il ciclo statuario antico dei Niobidi, rinvenuti a Ciampino (Roma) e ora nelle collezioni dell’Istituto Villa
Adriana e Villa d’Este, consente di esplorare il tema del dolore e del lutto, raccontando la strage dei figli di Niobe, uccisi per punire l’alterigia della madre. L’innocenza delle vittime e il trauma della perdita sono il cuore di un racconto che ha attraversato i secoli giungendo ai nostri giorni e interpellando la coscienza e la sensibilità dei moderni. All’opposto cronologico, Nicola Samorí (Forlí, 1977), rappresentato da Monitor, indaga i temi della vulnerabilità, della debolezza della carne, della rottura dell’integrità, lavorando su uno stratificato archivio iconografico, depositato per accumulo nella memoria collettiva e profondamente rielaborato dall’artista attraverso squarcianti intuizioni. info www.coopculture.it; e-mail: villaexhibitions@beniculturali.it SIENA MASACCIO, MADONNA DEL SOLLETICO. L’EREDITÀ DEL CARDINAL ANTONIO CASINI, PRINCIPE SENESE DELLA CHIESA
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secolo, i cani e le specie esotiche come pappagalli e scimmie erano spesso esibiti nei ritratti non solo come attestazione di lusso e prestigio, ma anche come testimonianza dell’affetto che i padroni nutrivano nei loro confronti, senza dimenticare le implicazioni simboliche a essi legate. Ancor piú dei cani, i cavalli ebbero per secoli un ruolo fondamentale nel definire la figura di cortigiani e aristocratici. Non a caso, il ritratto equestre è l’immagine che, fin dall’epoca classica, ha rappresentato il concetto di regalità nell’Europa dei tempi moderni. Ma cani e cavalli furono a lungo i principali protagonisti anche delle attività venatorie che, fin dal Medioevo, costituirono il passatempo preferito di sovrani e aristocratici. Proprio per questo, un posto di rilievo
Cripta del Duomo
fino al 2 novembre
Antonio Casini, vescovo di Siena tra il 1408 e il 1426, fu un principe della Chiesa al centro della politica religiosa del suo tempo, tanto da essere definito «l’altro papa» da un diplomatico. Insigne umanista e teologo, possedette numerose opere, tra cui la Madonna col Bambino, detta «del solletico», di Masaccio, tangibile segno del suo intenso legame con la Vergine Maria. Antonio Casini nacque, per via paterna, da una eminente famiglia di archiatri pontifici, mentre la madre era
imparentata con la famiglia Colonna, la medesima di Martino V, il papa dal quale fu creato prete cardinale del titolo di San Marcello nel 1426. Come ha osservato Antonio Paolucci, «è ragionevole pensare che la Madonna del solletico sia stata dipinta in quella occasione o poco dopo. In quel dipinto si incontrano due destini. Da una parte il potente prelato, ricco e sagace protagonista del suo tempo, già vescovo di Siena che con la nomina cardinalizia tocca il culmine della sua fortuna politica. Dall’altra Masaccio, un giovanissimo artista che sta affermandosi faticosamente sulle piazze artistiche di Firenze e della Toscana». info https://operaduomo.siena.it ROMA IL MONDO SALVERÀ LA BELLEZZA? PREVENZIONE E SICUREZZA PER LA TUTELA DEI BENI CULTURALI Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo fino al 4 novembre
In un momento cosí particolare agosto
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SPOLETO INCANTO TARDOGOTICO. IL TRITTICO RICOMPOSTO DEL MAESTRO DELLA MADONNA STRAUS Museo Diocesano fino al 7 novembre
nell’esposizione è riservato alla caccia, dalla sua rappresentazione in dipinti di soggetto mitologico, come Diana e le ninfe al bagno scoperte da Atteone, riconducibile a Lucas Cranach il Vecchio, in nature morte con selvaggina, nei ritratti con falconi, nei colorati bicchieri di cristallo prodotti in Boemia in epoca Biedermeier, documentati da numerosi esemplari della collezione Cappellani di Trieste, agli strumenti con cui veniva praticata, come le armi da fuoco, di cui si conservano nelle collezioni Coronini alcuni interessanti esemplari databili dal XVII al XIX secolo, o altri accessori come i fornimenti equestri e le fiasche per la polvere da sparo provenienti dalla collezione Garzolini di Trieste, esposti in questa occasione per la prima volta. e delicato, nel quale tutto il mondo si trova a convivere con una pandemia, cercando gli strumenti per vincere questa «guerra invisibile», è sembrato opportuno mettere in risalto come la bellezza, intesa come il meglio della produzione artistica e spirituale, sembri essere l’unica arma utile a salvare le nostre coscienze e saziare il nostro innato desiderio di bello. In un certo modo oggi sembra necessario che la bellezza salvi il mondo. Ma siamo in grado, noi, di salvaguardare questo prezioso bene? E in che modo mettiamo in sicurezza questo
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immenso patrimonio, del quale siamo custodi, per poterlo tramandare nel futuro? Rivisitando il concetto, ci chiediamo: il mondo salverà la bellezza? Da questa domanda è nata l’idea di realizzare questa mostra, che vuole essere non solo una esposizione di reperti recuperati dal Comando Tutela Patrimonio Culturale dell’Arma dei Carabinieri, da anni in prima linea nella difesa dei nostri tesori storico-artistici, ma anche la presentazione dei sistemi di prevenzione e salvaguardia adottati dai Musei e dai luoghi della cultura di appartenenza statale. La scelta del materiale esposto, con opere importanti attribuite ad artisti come Brueghel, all’ambito del Veronese e affascinanti reperti come un frammento dell’obelisco collocato a Montecitorio, frutto del lavoro svolto dal Comando TPC dell’Arma dei Carabinieri, rispecchia proprio quest’idea di percorso narrativo. info www.castelsantangelo. beniculturali.it
In occasione del restauro dei due sportelli laterali della Collezione Vaticana, raffiguranti due sante poco note – Paola Romana ed Eustochio –, madre e figlia che vissero all’epoca di san Girolamo (fine del IV secolo), se ne è approfondito lo studio e si è cercato di trovare lo scomparto centrale perduto: ora individuato al Museo Diocesano di Spoleto in una tavola frammentata, che
Popolare «Beato Angelico» di Vicchio del Mugello. E proprio grazie a questo accostamento è possibile intuire le dimensioni originarie della Madonna di Spoleto, gravemente danneggiata nel terremoto del 1703. Due momenti del percorso del Maestro della Madonna Straus, attivo a Firenze tra il 1385 e il 1415, un pittore che, da un iniziale neogiottismo, lentamente si apre al nuovo stile internazionale, accogliendo in parte i modi di Lorenzo Monaco e di Gherardo Starnina, ma mantenendo sempre una sua originale arcaicità. info tel. 0577 286300; e-mail: duomospoleto@operalaboratori. com; www.duomospoleto.it BRESCIA DANTE E NAPOLEONE Palazzo Tosio-Ateneo di Brescia fino al 15 dicembre
raffigura una Madonna in trono col Bambino tra due angeli reggicortina. Sebbene mutilo della parte inferiore, il dipinto appare stilisticamente affine ed è stato riconosciuto come centro del trittico. L’opera ornava in origine l’altare della cappella di S. Maria presso il castello di Abeto di Preci, da cui l’appellativo di «Maria Santissima di Piè di Castello». Al fine di approfondire lo studio di un pittore di elevatissima qualità non abbastanza noto, è stata selezionata anche un’opera piú tarda da mettere a confronto, la Madonna in trono col Bambino tra due angeli, oggi custodita nel Museo di Arte Sacra e Religiosità
La mostra è compresa nel piú vasto programma di iniziative organizzate dall’Ateneo di Brescia-Accademia di Scienze Lettere e Arti con Fondazione Brescia Musei per celebrare due miti, a 700 anni dalla morte di Dante e, al contempo, a 200 da quella di Napoleone.
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AGENDA DEL MESE Il progetto indaga valori, ideali e sentimenti che si addensarono intorno ai due personaggi, descrive un’epoca, i suoi protagonisti, il collezionismo, le tendenze, all’insegna di un comune denominatore: l’Europa. Per la mostra «Dante e Napoleone» sono state riunite oltre 80 opere, fra dipinti, sculture, disegni, stampe e medaglie, provenienti da collezioni pubbliche e private, in dialogo con il percorso permanente della casa-museo di Paolo Tosio. Opere che documentano l’interesse largamente diffuso per i due grandi personaggi: Alighieri in quanto riferimento delle aspirazioni civili e identitarie della nazione, della quale il poeta era considerato l’unificatore dal punto di vista linguistico; Bonaparte in quanto percepito come colui che, grazie alla costituzione della Repubblica prima e del Regno italico poi, aveva avviato un processo di formazione della coscienza nazionale che diede vita al Risorgimento e all’unificazione della Penisola. info www.ateneo.brescia.it, www.bresciamusei.com
fonti, illustra il legame di Dante e della sua famiglia con Arezzo: il soggiorno del poeta tra il 1303 e il 1304 e la presenza del fratello Francesco in città per la stipula di un contratto. Nel nucleo centrale appare egemone il ruolo svolto in quegli anni dall’antica Fraternita dei Laici, che vive allora il passaggio da istituzione religiosa e assistenziale a organismo laico riconosciuto dal Comune. Sono quindi esposti gli antichi Statuti, l’elenco dei confratelli iscritti, le riforme e i lasciti testamentari. È poi la volta dalle splendide edizioni a stampa della Commedia e volumi un tempo appartenuti alla stessa Fraternita che, riccamente illustrati, testimoniano dal XV al XVI secolo, l’enorme fortuna dell’opera dantesca. Tra
AREZZO OMAGGIO AL SOMMO POETA. PER I 700 ANNI DALLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI Palazzo della Fraternita dei Laici fino a dicembre
La mostra propone documenti d’archivio e testi a stampa che inseriscono a pieno titolo la città di Arezzo nell’itinerario delle vicende dantesche. Il percorso, volutamente circoscritto, ma scientificamente documentato, è organizzato nelle sale del prestigioso e antico palazzo di Fraternita (XIV-XV secolo). L’esposizione si apre con una sezione che, attraverso documenti notarili e autorevoli
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queste, spicca la pregiata edizione della Commedia (1481), illustrata, secondo l’attribuzione di Giorgio Vasari, da Sandro Botticelli. L’esposizione si conclude con il ritratto a stampa di Dante proveniente dalla Collezione Bartolini ed eseguito da Angelo Volpini nel XIX secolo (stampa di Carlo Lasinio), icona e simbolo della mostra: l’immagine si distingue da altre effigi del poeta in virtú del cartiglio esplicativo, che ne
ricorda la genesi da una maschera originale del poeta. info e-mail: info@ fraternitadeilaici.it; www. fraternitadeilaici.it; Fb: Fraternita dei Laici FIRENZE RAFFAELLO E IL RITORNO DEL PAPA MEDICI: RESTAURI E SCOPERTE Palazzo Pitti fino al 16 gennaio 2022
Dopo il restauro dell’Opificio delle Pietre Dure e l’esposizione proprio all’inizio della grande mostra organizzata alle Scuderie del Quirinale a Roma in occasione del cinquecentenario della morte di Raffaello, il Ritratto di Papa Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi torna a casa, nella sua Firenze. La mostra ne documenta il restauro e interpreta le analisi scientifiche del dipinto: adesso sono percepibili le sottili differenze tra le varie sfumature di rosso, le differenti consistenze dei tessuti e la capacità di introspezione ritrattistica dell’artista. Vengono inoltre spiegate le indagini diagnostiche che hanno dimostrato che il capolavoro è tutto di mano di Raffaello. Di grande attualità l’appello
ecologico emerso con la revisione del supporto ligneo: purtroppo le variazioni del clima sono divenute cosí brusche e violente da mettere in crisi sistemi ed equilibri che, all’interno degli stessi materiali delle opere d’arte, avevano funzionato per secoli. info tel. 055 294883; www.uffizi.it
Appuntamenti PAVIA PROGETTO DANTE Castello Visconteo e Broletto fino al 22 ottobre
Pavia rende omaggio al sommo poeta con un ricco calendario di iniziative, fra cui un ciclo di incontri, organizzato con la consulenza del Comitato di Pavia della Società Dante Alighieri, che mira ad approfondire la figura dell’autore della Divina Commedia e a scoprire le ragioni del suo successo, immutato dopo 700 anni. 9 settembre, ore 21,00, Broletto: «DIVINARMONIA. Il viaggio di Dante nella conoscenza», con Vincenzo Zitello (arpista) e Davide Ferrari (attore). info tel. 0382 399343; e-mail: cultura@comune.pv.it; www. vivipavia.it agosto
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ANTE PRIMA
IN EDICOLA
VIAGGIO NELLE TERRE LEGGENDARIE Geografie immaginarie, dalla mitica Atlantide al favoloso Eldorado
Ricostruzione immaginaria di una città antidiluviana, ispirata dai brani del Timeo e del Crizia in cui Platone descrive la perduta Atlantide.
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a perduta Atlantide è la piú famosa, ma non certo la sola: sono infatti innumerevoli le terre immaginarie la cui storia leggendaria è nata e si è alimentata nel corso dei secoli. Vicende di volta in volta associate a personaggi reali, come nel caso del filosofo Platone – primo «testimone» del continente scomparso –, oppure fantastici, quale il misterioso Prete Gianni, potente re delle «tre Indie». Mondi che hanno composto una geografia immaginaria, ma non troppo, se pensiamo ai navigatori partiti alla loro ricerca al tempo delle grandi esplorazioni o ai cartografi che non mancarono di segnalarne la presenza nelle loro mappe. E poi universi fiabeschi, culle di utopie a lungo
vagheggiate, come il Paese di Cuccagna, che per il popolino del Medioevo divenne simbolo della piú ambita delle aspirazioni, cioè quella di vivere senza dover faticare, ma, soprattutto, avendo sempre qualcosa da mettere sotto i denti… In altri casi ancora, furono luoghi piú che tangibili ad assumere i contorni della leggenda, come accadde alla rocca di Alamut, passata alla storia per essere stata la base della Setta degli Assassini, le cui imprese, nelle cronache del tempo, si colorirono di toni mirabolanti. Il nuovo Dossier di «Medioevo» tratteggia dunque un panorama variegato e vivace, riproponendo il fascino senza tempo di saghe sospese fra mito e realtà.
GLI ARGOMENTI
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A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.
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GEOGRAFIE IMMAGINARIE, DALLA MITICA ATLANTIDE AL FAVOLOSO ELDORADO
VIAGGIO NELLE TERR E
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N°45 Luglio/Agosto 2021
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VIAGGIO NELLE TERRE LEGGENDARIE
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• Atlantide • L’ultima Thule • I luoghi di re Artú • L’isola Martana • Il Purgatorio di San Patrizio • Alamut • L’Oriente del Prete Gianni • Il Paese di Cuccagna • Shangri-La • Felik e Rosengarten • Eldorado MEDIOEVO
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15-20 agosto 636
I sei giorni dello Yarmuk di Marco Pugliano
Scacchiere mediorientale, metà del VII secolo: alle ambizioni egemoniche dell’impero bizantino si oppongono le mire espansionistiche del califfato dei Rashidun. Lo scontro diviene inevitabile. E a fare da sfondo all’evento chiave dell’avanzata musulmana nelle terre del Levante è un fiume tuttora al centro di un territorio conteso… Miniatura raffigurante la battaglia combattuta nel 636 sul fiume Yarmuk, fra l’esercito bizantino e quello del califfato dei Rashidun. XIV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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el VII secolo, l’impero romano d’Oriente, dopo aver vinto la guerra contro i Persiani sasanidi, nemici storici di Costantinopoli, dovette misurarsi con una nuova potenza: il califfato dei Rashidun (in arabo, «retti», «ben guidati»; è l’epiteto con cui l’ortodossia sunnita designa i primi 4 califfi dell’Islam – Abu Bakr, ‘Omar, ‘Othman, ‘Ali – considerati come i sovrani ideali, che procedono sulle orme di Maometto, n.d.r.). Ad affrontare il pericolo vi era un imperatore tra i piú importanti della storia bizantina, Eraclio, il cui avvento costituí una svolta non solo sotto il profilo politico-militare, ma anche culturale. Il suo imperio fu caratterizzato dalla completa greciz-
zazione e dalla forte clericalizzazione della vita pubblica. Ciò produsse, tra l’altro, importanti cambiamenti nei titoli imperiali: Eraclio stesso rinunciò a utilizzare la complessa titolatura latina e si fece chiamare semplicemente basileus («re»), denominazione che sostituí, appunto, il latino Imperator Caesar Augustus. In quel frangente, i musulmani riuscirono ad allargarsi molto velocemente al di là dei propri confini, a danno dei territori controllati da Bisanzio. La battaglia dello Yarmuk (636) o, forse meglio, la «campagna» dello Yarmuk, poiché gli scontri durarono oltre un mese, è considerata la prima grande ondata espansionistica dell’Islam dopo la morte di Maometto.
Già nel 632, all’indomani appunto della morte del Profeta – che era riuscito a conquistare quasi l’intera Arabia –, l’opera fu portata avanti da suo suocero, nonché suo successore, Abu Bakr (632-634), uno dei quattro «ben guidati». Il primo califfo, dopo aver unito tutte le tribú d’Arabia, mandò Khalid bin al-Walid, detto «la Spada di Dio», a conquistare l’Iraq, a danno dei territori dei Sasanidi. A quel punto venne pianifi-
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battaglie yarmuk cata l’invasione della Siria e, nel febbraio 634, fu guerra. In un primo momento le forze romee ebbero la meglio sui troppo piccoli eserciti musulmani. Dall’Iraq giunsero allora i rinforzi, guidati dalla «Spada di Dio»: a luglio i Bizantini subirono una grave sconfitta a Ajnadayn (sulla via che da Gaza conduce a Gerusalemme) e, in settembre, cadeva Damasco. Intanto Abu ‘Ubayda (condottiero e incluso fra i «Dieci Benedetti», nome attribuito da Maometto ai suoi compagni piú fidati, n.d.r.) era riuscito a conquistare la parte meridionale del Levante fino a spingersi a Tiberiade e Baalbek, senza addirittura incontrare alcuna resistenza, e, nel 636,
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anche Emesa (l’odierna Homs) cadde in mano califfale.
Arcieri infallibili
Le tattiche dell’esercito arabo avevano fatto propri i modelli bizantini e sasanidi e furono adeguate alla capacità e alle disponibilità di cui godevano: per esempio, oltre ai (pochi) cavalli, anche i cammelli furono utilizzati come cavalcature. Ebbero poi un ruolo di grande importanza gli arcieri di fanteria sasanidi, rinomati per la loro velocità nel tirare. I primi eserciti musulmani erano piú piccoli e piú mobili dei loro nemici. Da abile generale e diplomatico qual era, Eraclio si affrettò ad allearsi con l’ultimo re della dinastia
sasanide, Yazdgard III, facendolo sposare con la figlia (o secondo altre fonti la nipote) Manyanh. A nozze compiute, si preparò l’attacco al califfato, con l’intento di metterlo in difficoltà su due fronti, facendo muovere l’esercito bizantino dal Levante e i Persiani dall’Iraq. Nel maggio del 636 partí dunque la controffensiva bizantina, che però, a causa di seri problemi interni al suo governo, non fu accompagnata da quella del sovrano persiano. Come ha scritto lo storico inglese Jonathan Shepard, «Eraclio radunò un esercito cercando di sconfiggere gli Arabi. La battaglia decisiva ebbe luogo sul fiume Yarmuk, nel 636, dove le forze bizantine, ben piú con-
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Regno degli Avari
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Regno dei
Croati
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Cirenaica Egitto
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Caspio
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Impero dei Turchi Oghuz Am
Damasco Siria Eu Ctesifonte Gerusalemme fra Palestina te
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Mecca Rosso
Impero islamico
Mare Arabico
Impero bizantino Impero sasanide
Oceano Indiano
Regno dei Franchi Regno dei Longobardi
In alto cartina nella quale sono riportate le conquiste islamiche dall’Egira (622) alla morte di Maometto (632). A sinistra l’uccisione di Cosroe II da parte di Eraclio, particolare di una placca smaltata, appartenente alla decorazione di una croce in legno a due facce. Manifattura francese, 1160-1170. Parigi, Museo del Louvre. Nel 602, il sovrano sasanide aprí le ostilità contro i Bizantini, mettendo a segno, diverse conquiste, che, però, pochi anni dopo, furono tutte riguadagnate da Eraclio.
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sistenti furono sconfitte. Eraclio abbandonò disperato le province orientali» e il califfo ‘Omar ebbe la meglio. Nel novembre dello stesso anno, si chiudeva la parabola dell’impero sasanide, abbattuto dalle spade musulmane. Ma qual era stato il piano ideato dall’imperatore bizantino, che in un primo momento sorvegliava le operazioni da Antiochia, per recuperare i territori perduti? Le forze del califfato dei Rashidun erano divise in quattro unità: una, sotto il comando di ‘Amr bin al-’As, di stanza in Palestina; un’altra, condotta da Shurahbil bin Hassana, nelle terre a est del Giordano (la romana Provincia Arabia Petraea, l’odierna Giordania, n.d.r.); una terza, affidata a Yazid
bin Abi Sufyan, nella regione di Damasco-Cesarea; l’ultima, sotto la guida di Abu ‘Ubayda insieme a Khalid, attiva a Emesa. Eraclio puntava a impedire che queste armate si unissero in un unico esercito: era deciso ad attaccarle singolarmente, contando di batterle una alla volta. Il comando congiunto della spedizione fu affidato al generale greco Teodoro Trithurios, mentre si presume che al comando dell’intero esercito vi fosse il generale armeno Vahan. Anche Costantino III, figlio del basileus, fu inviato a Cesarea con un contingente.
Un esercito multietnico
Le armate romee, composte, oltre che da Bizantini, da Ghassanidi (Arabi cristiani), Slavi, Armeni, Franchi e Georgiani, furono divise in cinque unità: i Ghassanidi e i loro alleati, comandati dall’ultimo re della dinastia ghassanide, Jabala ibn al-Ayham, avrebbero dovuto marciare da Aleppo a Emesa via Hama, con l’ordine di battersi contro il grosso dell’esercito musulmano a Emesa; in aiuto di Jabala avrebbe dovuto operare il generale Dairjian, guidando i suoi soldati tra la costa e la via per Aleppo per
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In alto una veduta di Emesa (l’odierna Homs, in Siria) realizzata da Louis François Cassas. 1785 circa. Nella pagina accanto miniatura raffigurante un altro episodio di cui Khalid bin al-Walid fu protagonista: giunto alle porte della fortezza araba di Yamama, ne trova gli spalti presidiati da un gruppo di donne in abiti maschili per far credere alla «Spada di Dio» che la roccaforte sia ben difesa. 1438-1349. Londra, British Library.
avvicinarsi a Emesa da occidente e colpire le forze califfali dall’ala sinistra, mentre venivano attaccati frontalmente dallo stesso Jabala; Gregorio, giungendo da Emesa, attraverso la Mesopotamia, avrebbe dovuto colpire l’ala destra nemica; lungo la costa di Beirut, avrebbe
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invece dovuto marciare Qanatir, con lo scopo di attaccare Damasco da occidente (debolmente difesa), cosí da tagliare fuori la principale unità islamica a Emesa; come riserva avrebbero agito le truppe del generale armeno Vahan, che si sarebbero avvicinate a Emesa via Hama.
Un solo corpo d’armata
Il piano bizantino sembrava ben concertato, ma il califfato riuscí a scoprirlo – grazie alle delazioni di alcuni prigionieri bizantini – e corse ai ripari. Per destabilizzare i cristiani, Abu ‘Ubayda, su consiglio di Khalid, ritirò i suoi uomini dalla Palestina e dalla Siria centrale e settentrionale per concentrarli in un unico corpo d’armata in una vasta pianura, nei
pressi di al-Jabiya, un’ottantina di chilometri a sud di Damasco. L’area fu scelta perché permetteva un buon controllo sul territorio, rendendo possibili cariche sulla cavalleria bizantina e anche perché era la via piú facile per far giungere i rinforzi del califfo ‘Omar, affinché si creasse un esercito unito. La posizione scelta era strategicamente importante, anche perché, in caso di ritirata, l’esercito califfale avrebbe potuto trovare riparo in Arabia, nella fortezza del Najd. Il terreno venne ben preparato anche dal punto di vista politico: pr garantirsi l’appoggio della popolazione locale, venne infatti restituita la jizya (il tributo che ogni suddito non musulmano era tenuto a pagare).
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battaglie yarmuk La cittadella di Jabiyah rimaneva però esposta agli attacchi degli alleati bizantini, i Ghassanidi, e la guarnigione comandata da Costantino a Cesarea costituiva un’ulteriore minaccia. La «Spada di Dio» consigliò allora un ennesimo trasferimento dei soldati verso sud e quindi a Dar’a e Dayr Arub, cosí da spostare lo scontro nelle gole del fiume Yarmuk, un affluente del Giordano, presso le alture del Golan, a est del Mar di Galilea. I Bizantini cercarono con ogni mezzo, ma senza successo, di impedire queste manovre, durante le quali, in ogni caso, non vi furono scontri decisivi, eccetto un confronto tra la cavalleria leggera d’élite di Khalid e l’avanguardia romea. A quel punto, però, lo scontro tra le due armate si fece inevitabile. La stima della consistenza numerica di entrambi gli schieramenti è tuttora argomento di dibattito fra gli studiosi. Tenendo conto delle capacità logistiche e delle disponibilità di risorse umane, si può comunque ipotizzare che i Bizantini potessero contare tra gli 80 000 e 150 000 uomini, mentre gli Arabi tra i 25 000 e i 40 000.
La «Spada di Dio»
Al comando dell’esercito arabo c’era dunque Khalid. La «Spada di Dio», che era un uomo impetuoso, senza paura, a volte senza scrupoli, si rivelò uno dei piú grandi tattici militari della storia. Schierò i suoi uomini su un fronte lungo una dozzina di chilometri, che guardava a occidente, riorganizzando l’esercito in 36 contingenti di fanteria e quattro di cavalleria. Tenne come riserva la sua élite di cavalleria e la guardia mobile. L’ala sinistra, guidata da Yazid bin Abi Sufyan, fu schierata a sud dello Yarmuk, un miglio prima dell’inizio delle gole del Wadi al-Allan, mentre verso nord, lungo le alture del Tell al-Jum’a, sulla strada di al-Jabiya, si schierò l’ala
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destra, in modo da far corrispondere il fronte con quello bizantino. Il comando dell’ala destra fu affidato a ‘Amr bin al-’As, mentre gli uomini che occupavano la posizione centrale furono divisi in due contingenti, affidati, sulla sinistra, ad Abu ‘Ubayda, e, sulla destra, a Shurahbil bin Hasana. Per garantire un maggiore supporto e in caso di ritirata, alle ali centrali furono affiancati reggimenti di cavalleria, da impegare in eventuali contrattacchi. Alle spalle dello schieramento centrale si trovava anche una guardia mobile capeggiata da Khalid, che nel corso della battaglia ne sfruttò abilmente gli uomini, inviandoli spesso a spiare l’esercito bizantino per cercare di intuirne le manovre. Le forze bizantine si schierarono a nord dello Wadi al-Raqqad. Ad arrivare per primi furono i Ghassanidi, armati alla leggera e guidati da Jabala. Ai confini meridionali della pianura, prese posizione l’ala destra, agli ordini di Gregorio. L’ala sinistra, capeggiata da Qanatir, si pose all’inizio delle colline di Jabiya, quindi al nord ed era relativamente esposta. A Vahan vennero affidate le truppe disposte verso est, in modo da controllare una fascia di territorio di 13 km circa, che andava dalle gole dello Yarmuk, a sud, alla strada romana che portava verso l’Egitto, a nord. L’ala centrale era composta dagli Armeni di Vahan e dagli uomini di Dairjan, il quale aveva il comando dell’intero contingente. Le armate potevano inoltre contare sulla riserva della retroguardia, composta dalla fanteria e dalla cavalleria pesante regolare. Quest’ultima, nella quale militavano i catafratti (chiamati cosí perché coperti da un’armatura di ferro), venne distribuita in egual misura tra le quattro unità. A proteggere la formazione piú consistente, fino all’arrivo di Vahan, avrebbero provveduto i Ghassanidi di Jabala, che montavano sia cavalli che cammelli.
Nella pagina accanto un tratto del fiume Yarmuk, principale affluente del Giordano, il cui corso si snoda presso le alture del Golan, a est del Mar di Galilea, e oggi segna la frontiera fra i moderni Stati di Giordania e Israele.
Eraclio aveva dato ordine a Vahan di non muovere le truppe, al fine di attendere l’aiuto di Yazdgard III, il quale, come abbiamo detto, avrebbe dovuto attaccare le forze califfali dall’Iraq, in contemporanea con le truppe romee che avrebbero attaccato dal Levante.
L’accordo mancato
Si susseguirono dunque numerosi scambi diplomatici tra Bizantini e Arabi, per effetto dei quali gli eserciti si astennero dal darsi battaglia per un mese intero. I tentativi di raggiungere un accordo di pace furno comunque vani. Con una scelta molto astuta, il califfo ‘Omar, mentre faceva tenere impegnati i Bizantini da Khalid, alimentò la speranza di poter trattare una possibile pace, inviando un suo uomo di fiducia da Yazdgard III. Cosí facendo, riuscí a tenere impegnate le forze persiane e ne approfittò per far arrivare a Khalid rinforzi dallo Yemen, 6000 soldati circa. Fra loro c’erano anche 1000 «compagni di Maometto» (Sahaba), tra cui 100 veterani della battaglia di Badr (combattuto nel 624, fu lo scontro in cui Maometto, a capo dei Medinesi, aveva sconfitto le forze della Mecca pagana, consolidando così il suo prestigio politico e religioso, n.d.r.). ‘Omar aveva dunque mobilitato i migliori uomini di cui poteva disporre, a riprova della chiara volontà di arrivare allo scontro con i Bizantini e dell’intenzione di vincerlo. Si decise di inviare i rinforzi poco alla volta, in piccoli contingenti, per dar l’impressione di un continuo flusso di aiuti, con lo scopo (riuscito) di scoraggiare i Bizantini e indurli all’attacco. Questi ultimi, agosto
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battaglie yarmuk dal canto loro, si trovarono in difficoltà, perché avevano riunito le cinque armate in un unico esercito, a dispetto di quanto erano sempre stati soliti fare, poiché poco inclini a combattere battaglie decisive in campo aperto. La base logistica piú vicina per gli approvvigionamenti era Damasco, ma la città non poteva soddisfare le richieste delle forze bizantine riunitesi nella piana dello Yarmuk, e la circostanza fu causa di scontri tra i soldati imperiali e le popolazioni locali, poiché i primi avevano preteso di procedere alla requisizione dei rifornimenti.
Lotte intestine
Ad aggravare la situazione contribuirono i rapporti molto tesi tra i comandanti bizantini. Alcune fonti greche, infatti, accusano Vahan di non avere rispettato gli ordini imperiali, secondo i quali bisognava evitare ogni scontro in campo aperto con le forze del califfato dei Rashidun (sebbene non vi fossero ormai altre scelte). A quel punto gli alti gradi dell’esercito cercarono di prendere il comando assoluto, al posto dello stesso Vahan, e crebbero le già presenti ostilità tra Greci, Armeni e Arabi (Ghassanidi). Ulteriori dissidi interni scaturirono dalle dispute fra calcedoniani (ovvero quanti seguivano il dettato del concilio di Calcedonia) e gli «eretici» monofisiti. Un insieme di fattori negativi, di cui risentí l’intero esercito che, mal coordinato e in assenza di una pianificazione della battaglia, aveva scarse motivazioni per gettarsi nella mischia e battersi fino alla vittoria. Non meno grave fu il problema delle forze mercenarie che, nonostante le riforme di Eraclio, continuavano a costituire una parte consistente dell’esercito romeo. Gli eccessivi costi e la scarsa motivazione non giovarono certo alla buona riuscita delle operazioni militari. (segue a p. 40)
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Militaria
Gli equipaggiamenti L’esercito del califfato dei Rashidun era articolato secondo una struttura tribale e gli uomini venivano reclutati e pagati dai capi delle tribú di appartenenza. Responsabili della preparazione e dell’allestimento delle truppe erano invece i Wali (governatori provinciali). Le armature dell’esercito califfale presentavano affinità sia con quelle persiane, che con quelle bizantine. Un fante d’élite poteva riconoscersi dall’elmo in ferro e bronzo proveniente dall’Iraq o dall’Asia centrale, che divenne molto comune nei secoli successivi. La fanteria si serviva di spade corte, come il gladio romano, mentre piú lunghe erano quelle della cavalleria, simili alle sasanidi. Le lance avevano una lunga impugnatura: quelle della fanteria erano lunghe 2,5 m, mentre quelle della cavalleria 5,5 m. Gli archi erano lunghi
Miniatura raffigurante i musulmani che mettono in fuga i Bizantini, guidati da Eraclio, durante la battaglia di Antiochia (632), da un’edizione de La fleur des histoires de la terre d’Orient. Metà del XIV sec. Vienna, Biblioteca Nazionale.
2 m circa e garantivano alle frecce una gittata che poteva raggiungere i 150 m. Come protezione, i soldati usavano il tipico usbergo, utile in particolar modo per coprire la faccia e il collo, nonché scudi di legno o vimini. Ai piedi portavano sia sandali di cuoio pesanti che stivali di tipo romano. Per quanto riguarda l’esercito bizantino, esso aveva conservato la tradizione romana dell’organizzazione e della disciplina. Come rileva lo storico inglese David Nicolle, «sotto il diretto controllo dell’imperatore agiva un Magister Militum per Orientem, al quale era affidato il comando di tutte le truppe di stanza nella parte orientale dell’impero. Elemento base era il tagma, unità composta da circa 300 uomini. Dieci tagmata formavano un meros (divisione), che poteva anche essere diviso in tre
moera, mentre tre meros formavano un esercito. Al di là della terminologia, piuttosto complessa, esisteva una struttura di comando coerente» (Yarmuk 636 AD, Oxford 2000). Lo Strategikon (un manuale militare attribuito all’imperatore Maurizio, n.d.r.) fornisce molte informazioni sulle armi in uso al tempo della battaglia dello Yarmuk. La cavalleria era armata di spathion, una lunga spada dritta a doppio taglio di origine sasanide o avara. Lunga era anche la lancia di legno (kontarion). Per il toxarion (arco), avevano a disposizione quaranta frecce in ogni faretra, appesa alla sella o alla cintura. La fanteria pesante era armata di spade e lance corte, mentre le truppe armate alla leggera e gli arcieri si difendevano con piccoli scudi e un arco con una faretra di frecce. Per proteggersi, sia la cavalleria che la fanteria, usavano usbergo ed elmetto.
battaglie yarmuk Diario di una battaglia 15 agosto 636, I giorno La battaglia dello Yarmuk ebbe inizio all’alba. I due eserciti erano schierati a un miglio di distanza tra loro. Fonti musulmane riportano che, prima dello scontro, Giorgio, comandante di un reggimento del centro destro bizantino, passò al califfato, convertendosi all’Islam. La prima manovra d’attacco partí dai Bizantini, che mandarono i loro campioni contro i mubarizun musulmani (spadaccini e lancieri specialmente addestrati, con l’obiettivo di uccidere quanti piú comandanti nemici possibile sul campo di battaglia, in modo da fiaccare il morale dell’avversario). E quando, in effetti, molti comandanti bizantini caddero sul campo, Vahan schierò un terzo della sua fanteria, forte della sua superiorità numerica di soldati e armi. Riuscí a sfondare la linea nemica piú debole, ma i suoi uomini mancavano di determinazione e solo a tratti gli scontri furono molto accesi. La lotta terminò al calar del sole, com’era usanza dell’epoca, ed entrambi gli eserciti si ritirarono nei propri accampamenti. 16 agosto 636, II giorno Ad attaccare per primi furono ancora una volta i Bizantini, ma prima dell’alba, con l’intento di sorprendere il nemico. Vahan mandò parte dei suoi uomini contro la linea centrale araba, come manovra diversiva, mentre scatenò l’assalto piú poderoso contro le ali laterali. Tuttavia, l’esperto Khalid aveva previsto un possibile attacco a sorpresa e, nella notte precedente, aveva fatto preparare una forte linea d’avamposto. Al centro i due eserciti rimasero stabili e nessuno indietreggiò. Sull’ala sinistra, invece, Qanatir con i suoi soldati (in prevalenza Slavi), riuscí a far indietreggiare la fanteria califfale, comandata da ‘Amr. Come contromossa, Khalid attaccò Qanatir su tre lati, cosicché sull’ala sinistra bizantina piombarono l’ala destra musulmana sul fianco settentrionale, Khalid con la sua guardia mobile su quello meridionale e la fanteria frontalmente. ‘Amr riuscí cosí a riguadagnare il terreno perduto e i Bizantini dovettero abbandonare le posizioni poco prima conquistate. Le cose andavano meglio sull’ala destra bizantina, comandata da Gregorio. Numericamente piú forte, con la sua formazione a testuggine, si muoveva lentamente, ma si difendeva bene: la cavalleria musulmana, guidata da Yazid, fu infatti respinta e costretta a rientrare negli accampamenti. Al centro, l’esercito musulmano era bloccato e i suoi fianchi furono costretti a indietreggiare, ma senza che nessuna delle ali perdesse compattezza. A un certo punto, i musulmani rinunciarono alla ritirata e tornarono sul campo di battaglia. L’ala destra bizantina subí un contrattacco e Khalid, dopo esser riuscito a stabilizzare la posizione della sua ala destra (ala sinistra bizantina), si rivolse contro le forze di Gregorio e di Dairjan (ala destra
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bizantina). Affidò un reggimento distaccato a Dirar bin al-Azwar, con l’ordine di attaccare Dairjan, in modo da creare un diversivo e obbligare l’ala destra bizantina a indietreggiare. Con il resto della cavalleria di riserva attaccò il fianco di Gregorio. A causa degli attacchi simultanei ricevuti frontalmente e dai fianchi, i Romei furono a quel punto costretti a ripiegare. Nella circostanza, Dairjan perse la vita e il piano di Vahan poteva considerarsi fallito. I Bizantini conservavano la superiorità numerica, ma il morale delle truppe era crollato. Ben altro spirito animava gli Arabi, determinati piú che mai a vincere la battaglia. 17 agosto 636, III giorno A essere demoralizzato era anche Vahan, sia per aver fallito i suoi piani d’attacco, con il conseguente arretramento dell’armata bizantina, sia per la morte del valoroso Dairjan. Decise allora di ridimensionare i suoi piani e attaccare il nemico in punti specifici, concentrandosi sull’ala destra musulmana. Anche in questa terza giornata di combattimenti i Romei mossero per primi: Qanatir, alla testa dei suoi Slavi, si scontrò contro la giunzione tra il centro-destra musulmano e la sua ala sinistra, con lo scopo di dividerle in due e affrontarle separatamente. Una volta attaccati il fianco destro e centro-destro arabo, i Bizantini avanzavano costringendo il nemico ad arretrare. Ma gli uomini dei Rashidun riuscirono ancora una volta a riorganizzarsi poco lontano dall’accampamento e si prepararono al contrattacco. Poiché le forze bizantine erano concentrate sull’ala sinistra, Khalid fece muovere i suoi uomini e scelse di attaccare su piú fronti, impiegando la cavalleria di riserva del suo centro destro e quella dell’ala destra musulmana. Su entrambi i fronti si registrarono molte perdite, ma ancora una volta i Bizantini dovettero abbandonare il terreno guadagnato e tornare nelle posizioni iniziali. 18 agosto 636, IV giorno Nonostante i ripetuti imprevisti, il piano di Vahan sembrava ancora poter funzionare e cosí continuò l’attacco ai danni dell’ala destra musulmana. Alla guida dei soldati c’era sempre Qanatir, che condusse due armate di Slavi, aiutato e supportato dagli Armeni e da Jabala (Ghassanidi). L’ala destra e il centro-destra dello schieramento musulmano furono costretti a ripiegare. Khalid era preoccupato per un eventuale attacco portato dai cristiani su un fronte molto piú ampio, ovvero anche sulla sua ala sinistra. In quel caso, infatti, non avrebbe potuto opporsi con efficacia. Pensò allora di anticipare i Romei, muovendo per primo e ordinò ad Abu ‘Ubayda di attaccare sul centro-sinistra e a Yazid sull’ala sinistra. In questo modo tenne in stallo l’esercito imperiale. Come il giorno precedente, Khalid entrò in azione con agosto
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La Battaglia di Yarmuk
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Musulmani Bizantini Campo Fanteria Cavalleria Riserve di cavalleria
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La Battaglia dello Yarmuk Musulmani
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Bizantini Campo Fanteria
Schemi delle fasi finali della battaglia combattuta tra Bizantini e musulmani sullo Yarmuk, tra il 15 e il 20 agosto del 636; in rosso le forze del califfato e in blu quelle dell’imperatore Eraclio.
Cavalleria Riserve di cavalleria
la sua guardia mobile, che organizzò in due divisioni per attaccare i fianchi bizantini, mentre la fanteria del centrodestra musulmano attaccò frontalmente. La manovra offenisva sui tre lati obbligò i Bizantini a ripiegare. Contemporaneamente, l’ala sinistra bizantina venne attaccata sia frontalmente (dalla fanteria musulmana), sia sul fianco settentrionale (dalla cavalleria di riserva araba). Dopo di che, essendo esposta sul suo fianco meridionale a causa della ritirata del centro sinistro, anche l’ala sinistra bizantina indietreggiò. Migliore era la situazione sull’ala destra romea. Gli arcieri bizantini attaccarono le divisioni di Abu ‘Ubayda e di Yazid, che dovettero ripiegare. Molti dei loro uomini furono accecati dalle frecce, tanto che lo scontro venne poi ricordato come il «Giorno degli Occhi Perduti». Tuttavia, per l’ennesima volta, i Bizantini non erano riusciti a sfondare le linee nemiche e l’attacco subito dalla guardia mobile di Khalid aveva causato numerose perdite.
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1. Khalid bin al-Walid, «la Spada di Dio», attacca il nemico, dapprima con la cavalleria e poi anche con la fanteria; 2. i Bizantini provano a riorganizzarsi, ma non vi riescono e la loro cavalleria è messa in rotta; 3. Khalid insiste nella sua pressione e spezza anche il centro sinistro bizantino; 4. i Bizantini cercano di fuggire e mettersi in salvo, ma i musulmani non lasciano loro scampo e la battaglia si risolve in una strage.
MEDIOEVO
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9 agosto 636, V giorno 1 L’alba trascorse senza che vi fosse alcuno scontro. Probabilmente per guadagnare tempo, Vahan inviò un emissario negli accampamenti musulmani, incaricato di negoziare una tregua, ma Khalid, sempre piú motivato alla vittoria e intuendo le difficoltà del nemico, rifiutò la proposta. Le forze califfali, che fino a quel momento si erano tenute sulla difensiva, si prepararono all’offensiva. Tutti i reggimenti di cavalleria furono riuniti in una potente forza, con la guardia mobile che ne costituiva il nucleo centrale. Si consideri che i cavalieri dovevano essere circa 8000. Per tutto il giorno le armi tacquero e Khalid si dedicò a preparare i piani per il giorno successivo. Il suo scopo era
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battaglie yarmuk quello di intrappolare le truppe romee, tagliando loro ogni via di fuga. Il campo di battaglia presentava tre barriere naturali, ovvero tre gole, con ripidi burroni, profonde 200 m: lo Wadi al-Raqqad a ovest, lo Wadi al-Yarmuk a sud e lo Wadi al-Allah a est. A nord, il percorso avrebbe dovuto essere bloccato dalla cavalleria musulmana. Nella gola dello Wadi al-Raqqad, lungo i burroni, alcuni passaggi erano assicurati da ponti, il piú importante dei quali, dal punto di vista strategico, si trovava ad ‘Ayn al-Dhakar. Qui Khalid inviò 500 cavalieri capeggiati da Dirar, che si mosse di notte, per aggirare il fianco settentrionale dei Bizantini. L’indomani, la presa del ponte si sarebbe rivelata decisiva. 20 agosto 636, VI giorno Nell’ultimo giorno di combattimenti furono gli Arabi ad attaccare per primi. Il piano di Khalid mirava a portare la cavalleria imperiale fuori dal campo di battaglia, cosí da lasciare scoperta la fanteria, esponendone i fianchi agli attacchi. Studiò anche una manovra contro il fianco sinistro bizantino, per spingerlo verso il burrone a ovest. I Bizantini furono dunque attaccati su due fronti e costretti a ripiegare. Vahan ordinò ai suoi cavalieri di ricompattarsi, ma la mossa fallí: disorganizzata e disorientata, la cavalleria pesante bizantina fu in breve tempo messa in rotta e dispersa verso nord, abbandonando la fanteria al suo destino. A quel punto il centro-sinistra bizantino, attaccato su due fronti dalla fanteria musulmana, subí il colpo di grazia quando fu preso alle spalle dalla cavalleria di Khalid. Con l’ala sinistra bizantina in rotta, iniziò la ritirata generale dell’esercito imperiale. Khalid bloccò la via di fuga verso nord, sempre alla testa della sua cavalleria e i Bizantini, allora, presero la via verso ovest in direzione dello Wadi al-Raqqad, dove però, al ponte di ‘Ayn al-Dhakar s’era posizionato Dirar con i suoi 500 cavalieri. E fu un massacro: circondati da due lati, i Bizantini furono presi dal panico e caddero in gran numero combattendo. Altri si gettarono nel burrone e alcuni cercarono di fuggire buttandosi in acqua, ma si sfracellarono sulle rocce sottostanti. Pochissimi furono gli uomini fatti prigionieri. Le forze califfali avevano ormai vinto, dimostrando che, se meglio guidata dai suoi generali, una forza numericamente inferiore può avere la meglio di un avversario sulla carta piú forte.
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In alto dracma di Yadzgard III. Battuta in una zecca del Sistan (Iran), 651-652. In basso solido aureo battuto durante il regno di Eraclio. 629-631. Birmingham, Birmingham University, Barber Institute of Fine Arts.
Lo scontro campale si protrasse per ben sei giorni (vedi box alle pp. 38-40) e vide infine prevalere, nettamente, le forze musulmane. I soldati imperiali che avevano tentato la fuga verso nord, vennero intercettati e attaccati da Khalid nei pressi di Damasco e anche Vahan, che allo Yarmuk era riuscito a salvarsi, cadde sotto i colpi delle spade nemiche. Quando l’imperatore Eraclio venne informato dell’accaduto andò su tutte le furie. Avrebbe voluto sferrare un deciso contrattacco, ma non avendo piú uomini e risorse, decise di abbandonare la Siria e lasciarla agli «infedeli». Prese con sé la Vera Croce, che, insieme ad altre reliquie, fu portata segretamente a Gerusalemme. Fece dunque rientro a Costantinopoli, non senza aver fatto costruire un ponte galleggiante per attraversare il Bosforo, dal momento che, stando alle fonti, nutriva una gran paura dell’acqua. Intanto il califfato arabo si espandeva velocemente. Come ha scritto lo storico Georg Ostrogorsky (1902-1976), «La capitale Antiochia e la maggior parte delle città del paese si arresero senza combattere al nemico vittorioso. Piú strenua fu la resistenza della Palestina. Sotto la guida del patriarca Sofronio, Gerusalemme resistette a lungo al nemico, ma alla fine anche la città santa fu costretta dalla durezza dell’assalto ad aprire le porte al califfo ‘Omar (638). Intanto anche la Persia veniva conquistata, e poco dopo veniva occupata anche la Mesopotamia bizantina (639-640). Dalla Mesopotamia gli Arabi passarono in Armenia dove espugnarono la piú importante fortezza armena, quella di Divin (ottobre 640). Contemporaneamente iniziava conquista dell’Egitto» (Storia dell’impero bizantino, Einaudi, Torino 1968). agosto
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Etelfleda,
di Federico Canaccini
che (non) volle farsi regina La carismatica figura della Pulzella d’Orlèans è certamente la piú famosa: ma cadremmo in errore se immaginassimo Giovanna d’Arco come l’unica donna che, alla testa di truppe, sgomina eserciti e vince battaglie. Nei dieci secoli del Medioevo si distinguono anche altre donne coraggiose e guerriere che sfidarono nemici, risollevarono le sorti di mariti caduti in disgrazia, vendicarono il proprio uomo ingiustamente ucciso o fatto prigioniero. In una nuova serie di episodi, ripercorreremo le vicende di donne vissute tra Alto e Basso Medioevo, la cui intraprendenza si è rivelata tanto nella diplomazia quanto nell’arte militare. Conosceremo dunque la «nobile bellezza» di Etelfleda, regina di Mercia, la spietata freddezza di Olga di Kiev, la vendetta ben calcolata da parte di Jeanne de Clisson, piratessa di Bretagna ai tempi della Guerra dei Cent’Anni e molte altre ancora...
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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
Tavola ottocentesca raffigurante Etelfleda che, alla testa dei suoi guerrieri, si lancia contro i Gallesi, nella battaglia combattuta (e vinta) nel 916 presso il Llangorse Lake.
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donne guerriere/1
L «L
a famosissima Regina dei Sassoni»: cosí viene definita dall’ignoto compositore degli Annali dell’Ulster, Etelfleda di Mercia (872918 circa), sovrana vissuta a cavallo dei turbolenti secoli IX e X e personaggio di enorme rilievo per la storia delle Isole Britanniche. E benché, in realtà, regina non fu mai, vedremo che da molti sovrani fu percepita come tale, grazie alle sue grandi abilità sia politiche che militari. La sua vicenda si dipana nei secoli in cui, a bordo dei loro vascelli, i Vichinghi si danno a esplorare e saccheggiare il Nord Europa: la prima razzia documentata risalirebbe al 789, quando tre legni provenienti dalla Norvegia sarebbero giunti nel Dorset; cinque anni piú tardi il monastero di Lindisfarne, un’isola al largo della costa nord-orientale dell’Inghilterra, detta «isola santa», subiva enormi danni costringendo infine i monaci a fuggire, nell’875. Nel corso del IX secolo, poi, le incursioni si intensificarono e si fecero sempre piú pericolose: nell’840 e nell’841 gli Uomini del Nord si riaffacciarono sull’isola e, nell’865, sbarcarono nell’Anglia orientale, giungendo sino in Northumbria e facendo capitolare la città di York. In questo periodo si profila la regina dei Sassoni, oscurata successivamente da una storiografia posteriore, non solo maschilista, ma tesa a esaltare il ruolo del Wessex, regno poi predominante e che aveva ormai assorbito la Mercia. L’antico regno dei Sassoni orientali fu perciò presentato come facente parte del piú vasto
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reame d’Inghilterra, sotto il predominio di quello occidentale del Wessex, ora uniti in nome di una lotta comune contro i pagani Uomini del Nord.
Figlia del primo e unico «Grande»
Etelfleda era la figlia maggiore di Alfredo il Grande (849-899), sovrano del regno anglosassone occidentale del Wessex dall’871 sino all’899. Venerato persino come santo, Alfredo deve la sua fama alla ferma determinazione con cui respinse i Vichinghi ed è per questo che risulta l’unico sovrano inglese ad aver meritato l’epiteto di «Grande»: fu il primo ad allestre una grande flotta da guerra per fronteggiare le orde danesi. Tuttavia, pur essendo «il Grande», la sua morte non attrasse l’attenzione dell’Annalista dell’Ulster che non segnalò neppure la data di morte del suo successore, Edoardo il Vecchio. Riservò invece parole di encomio per la figlia di Alfredo, Etelfleda, sorella maggiore di Edoardo. I cronisti del Wessex, di contro, non registrarono la grandezza militare e politica di Etelfleda, impegnati a celebrare le gesta del fratello Edoardo, a cui poi la storiografia di corte attribuí il successo contro i Danesi quale unico incontrastato vincitore. Il re Alfredo tentava di arginare in ogni modo le incursioni danesi che, ormai, al presentarsi della bella stagione, funestavano le coste inglesi. La strategia da seguire era quella di unire le forze, creando una rete di alleanze fra le varie famiglie reali che dominavano
agosto
MEDIOEVO
I RE D’INGHILTERRA NELL’ALTO MEDIOEVO
Ealhmund († 785?) Re del Kent
Nella pagina accanto i ritratti di Alfredo il Grande ed Etelfleda in un rotolo pergamenaceo con la cronologia dei sovrani inglesi. Fine del XIII sec. Londra, British Library. A sinistra Winchester. Statua moderna di Alfredo il Grande. 1901.
Egberto († 839) = Redburga Re del Wessex Etelvulfo († 858) = Osburga Re del Wessex
Etelbaldo († 860) Re del Wessex
Alfredo «il Grande» († 899) = Ealhswith († 905) Re del Wessex Re d’Inghilterra
Etelfleda († 918) Signora della Mercia
Elfrida († 929)
Etelgiva († 929) Badessa di Shaftesbury
Ecgwynn = Edoardo «il Vecchio» († 924) = Edgiva (Eadgifu) († 968) Re del Wessex Re d’Inghilterra Atelstano († 940) Re d’Inghilterra
Edredo († 955) Re d’Inghilterra
Edmondo I detto «il Vecchio o il Giusto o il Magnifico» († 946) = Elgiva Re d’Inghilterra Edwing detto «l’Onesto» († 959) Re d’Inghilterra, poi re di Wessex e Kent Etelfleda = Edgardo I detto «il Pacifico» († 975) = Elfrida († 1000) Re delle terre a nord del Tamigi, poi re d’Inghilterra Edoardo II «il Martire» († 979) Re d’Inghilterra
Edmondo († 970)
Ælgifu († 996) = Etelredo II detto «lo Sconsigliato» Re d’Inghilterra Atelstano († 1014)
Edredo
Egberto
Edmondo II detto «Fianco di Ferro († 1016) = Ealdgyth Re del Wessex
in quella che era stata la Britannia romana. L’ex provincia imperiale, la prima a essere abbandonata dalle legioni nel 407 nel convulso periodo delle migrazioni dei popoli germanici, venne ben presto conquistata da gruppi di Juti, Angli e di Sassoni, che giunsero a bordo di vascelli dalle coste danesi e tedesche. Stando alle testimonianze del bretone Gildas, di Beda il Venerabile e del Tribal Hidage (un elenco di 35 tribú inglesi compilato tra il VII e il IX secolo, n.d.r.), tra il V e il VI secolo in Britannia nacque un’imprecisata pluralità di piccoli regni, poi codificata verso il VII secolo, nella tradizionale eptarchia, cioè sette regni, cosí ripartiti: un regno di fondazione juta (il Kent), tre regni sassoni nell’area meridionale (Essex, Wessex e Sussex) e tre di fondazione angla nell’area centro-set(segue a p. 48)
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donne guerriere/1 L‘INGHILTERRA ANGLOSASSONE (SEC. V-X) MARE NORVEGESI 793
Lindisfarne
C
EL
TI
No rthu
NORVEGESI 793-853
DEL NORD
mbria
Carlisle
NORVEGESI 798
Jarrow
Streaneshalc
DANESI 841-860
York
ANGLI E SASSONI V SEC.
M A R E D ’ I R L A N DA Bakewel
Lincoln
Chester
Nottingham Derby
Anglia Orientale
Stamford
I
Leicester
DANESI 834-876
C E LT
Dunwich
M e r c i a Cambridge Colchester
Gloucester
NORVEGESI 793-850
Essex
s e x
LONDRA
Kent
e
s W Exter
CE
LT
Canterbury
Sussex Chichester
JUTI V SEC.
Wareham
I
DANESI 868
La Manica
INVASIONI DEI POPOLI GERMANICI
DANESI 840
L‘INGHILTERRA NEL IX SEC: REGNO DI WESSEX
REGNO SASSONE DI EGBERTO DI WESSEX (802-839)
DUCATO DI MERCIA
LINEA DI SPARTIZIONE TRA DANESI E SASSONI (886)
IL “DANELAW”
COLONIE DANESI DALL’877 AL 942
DUCATO DI NORTHUMBRIA
Quand’era ancora ragazza, Etelfleda avrebbe respinto i Vichinghi che avevano attaccato la carovana con cui stava recandosi in Mercia per le nozze 46
A sinistra l’Inghilterra in età anglosassone, minacciata dalle incursioni di flotte vichinghe danesi e norvegesi. In basso, sulle due pagine Tamworth, una delle città fortificate sorte per volere di Etelfleda e del re Edoardo.
I burhs
Alla maniera dei castra romani Tra il IX e il X secolo, e in particolare dopo la pace di Chippenham (879), la Britannia si costellò di cantieri di torri, fortezze e castelli. Nelle Midlands settentrionali, Etelfleda ordinò l’erezione di una serie di insediamenti fortificati che presero il nome di burhs, deformazione del latino burgi. Si trattava di fortificazioni ispirate alle regole dell’architettura militare romana, che si potevano evincere dai castra ancora presenti nel territori: essi erano infatti costituiti da bastioni di terra a pianta rettangolare, rinforzati con pietra e legname, e dalla caratteristica pendenza, particolarmente pronunciata nella parte esterna, e poco inclinata all’interno, cosí da poter essere agevolmente scalata e difesa. Questi bastioni non superavano i 3/4 m, potevano essere dotati di un antemurale e raggiungere anche i 6 m di larghezza: tra un bastione e l’altro correva naturalmente un muro o una palizzata. Il bastione principale, di 10 o 12 m, doveva difendere l’ingresso, costituito da un ponte che superava uno dei numerosi
fossati che circondavano il burh. Anche l’interno ricalcava il sistema viario degli accampamenti romani, con un incastro di vie tra loro perpendicolari e che conducevano agilmente a un camminamento di ronda. In Mercia essi sorgevano sulle vie principali, come quelli lungo la strada che da Montgomery conduceva al Galles centrale. Alcuni fortilizi, poi, erano direttamente contrapposti ai castelli dei Danesi, edificati nella zona da loro controllata e detta Danelaw: si trattava di una sorta di Linea Maginot ante litteram, con fortificazioni che distavano appena una cinquantina di chilometri dalle linee nemiche. Di tutt’altra natura erano invece le fortificazioni dei principali insediamenti di fondazione romana: Londra, Colchester, Leicester, Lincoln, York, Chester, Pevensey e altre cittadine erano ancora circondate dalle mura edificate dai Romani. Florenzio di Worcester scrisse
che, per volere di Alfredo il Grande, «le vecchie città di pietra furono spostate e ricostruite in siti piú consoni», stando forse a significare che le pietre squadrate per i nuovi castelli furono spogliate e riutilizzate dalle antiche città di età romana. Si deve invece alla cooperazione tra Etelfleda ed Edoardo la costruzione di oltre venti città fortificate, come Towcester, Warwick e Tamworth, e la riparazione e il rafforzamento di fortificazioni preesistenti come quelle di Huntingdon e Colchester. Di queste strutture restano poche evidenze e le miniature dei manoscritti anglosassoni, databili al Mille, ripropongono in modo pedissequo immagini di castelli copiate da codici del secolo precedente – come il Salterio di Utrecht – che, a loro volta, ripropongono immagini stereotipate di età tardo-antica.
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tentrionale (Mercia, Northumbria e Anglia orientale). Il resto dell’isola – Galles, Cornovaglia e Scozia – era poi ancora occupato da popolazioni celtiche.
Alleanza matrimoniale
Per stringere alleanza con Etelredo (833-911), il cinquantenne sovrano della Mercia, Alfredo gli propose di sposare sua figlia, l’allora quindicenne Etelfleda. Etelredo, in realtà, aveva già riconosciuto da tempo la maggiore autorità di Alfredo, accettando di fregiarsi solamente del titolo di dignitario regio, e non di re di Mercia. Il matrimonio doveva rafforzare e forse precisare questa sorta di «sudditanza», suggellandola però con una unione di sangue, sottolineando l’aspetto paritario piú che quello di supremazia. Sotto il dominio di Etelredo ricadevano le importanti città di Londra e Oxford, già duramente colpite dalle incursioni vichinghe. Le nozze vennero combinate e la giovane prese la via della Mercia, scortata da un piccolo contingente armato. Sembra che, nel corso del viaggio, la carovana principesca venisse attaccata proprio dai Vichinghi, che ormai infestavano le terre britanniche:
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sant’ aidano
La tenacia di un evangelizzatore L’abbazia di Lindisfarne («Isola santa») venne fondata intorno al 635 da sant’Aidano e divenne ben presto la base di partenza per l’evangelizzazione dell’Inghilterra settentrionale. Intorno al Mille, a seguito delle incurisioni vichinghe, il vescovo, che aveva posto la propria sede sull’Isola santa, fu costretto a trasferirsi a Durham, ponendo fine alla vita dell’abbazia per diversi secoli. La vita di Aidano venne ampiamente descritta da Beda il Venerabile nella sua Historia Anglorum, nella quale loda la sua determinazione. Nativo dell’Irlanda, Aidano aveva scelto di ritirarsi a vita monastica dapprima in Scozia, nella remota isola di Iona, dove aveva vissuto, durante il suo esilio, anche Osvaldo di Northumbria, che sarebbe stato incoronato re nel 634. Deciso a convertire gli abitanti del suo regno, ancora ampiamente pagani, il sovrano richiese missionari proprio dal monastero di agosto
MEDIOEVO
nell’attacco molti uomini sarebbero stati uccisi, ma la giovane Etelfleda, assieme ai sopravvissuti, sarebbe riuscita a respingere l’aggressione, improvvisando una barricata con i carri e sfruttando una trincea di epoca romana. Si sarebbe trattato del suo primo incontro con il pagano nemico danese, ormai stanziato nell’Inghilterra orientale, area che, proprio per questo motivo, veniva chiamata Danelaw. Pochi anni dopo le nozze di Etelfleda con Etelredo, Alfredo il Grande morí (899) e lo scettro di Inghilterra passò a Edoardo, a cui la Mercia confermò comunque obbedienza e sostegno. Negli anni a cavallo del 900, non è da escludere che la giovane Etelfleda aiutasse l’anziano marito nell’azione di governo: il sovrano era ormai attorno alla settantina e la moglie, appena Lindisfarne. Sant’Aidano, infaticabile evangelizzatore dell’Inghilterra del Nord, in una statua realizzata da Kathleen Parbury. 1958.
trentenne, si era costruita nel tempo una buona reputazione presso la nobilità della Mercia. Nel 911, poi, Etelredo moriva lasciando un’importante eredità politica alla consorte. Seguendo la linea diplomatica intrapresa dal marito, Etelfleda accettò di buon grado il titolo di Miyrcna Hlaefidge (Signora dei Merciani), corrispettivo femminile di quello di Etelredo che, in vece del titolo regio, sfoggiò quello di Myrcna Hlaford. Ciononostante, pur avendo rifiutato il titolo, Etelfleda ottenne dai regni circostanti un rispetto tale da essere spesso definita regina dagli annalisti del tempo.
Una strategia condivisa
In accordo col fratello Edoardo, ora re del Wessex, organizzarono una strategia volta a rafforzare le difese dell’isola dalle incursioni, tentando di unificare i due regni. Approfittando della malattia e della morte di Etelredo, un esercito della Northumbria aveva invaso alcune aree della Mercia, rompendo la tregua con Edoardo. Ora questi, con il sostegno della sorella, conquistò Londra e alcuni territori meridionali, mettendo poi in piedi un esercito composto da Sassoni e Merciani da inviare contro gli invasori della Northumbria. In questi anni Etelfleda sovrintende alla costruzione di fortezze a protezione dei confini della Mercia: sorgono dunque i nuovi castelli di Bremesburh (911), Scergeat e Bridgnorth (912), a cui seguirono quelli di Tamworth e Stafford (913). Tra il 914 e il 915, poi, vengono fortificate Eddisbury,
Iona. Dopo il fallimentare tentativo del vescovo Corman, che proponeva un sistema di catechesi forse troppo complesso per i pagani locali – completamente all’oscuro persino della vita di Gesú – la scelta cadde sul tenace Aidano. Aidano si trasferí dunque sull’isola di Lindisfarne e, con l’appoggio del sovrano, diede inizio a una intensa attività evangelizzatrice, apprezzata anche da papa Onorio I (625-638), che tanto si preoccupò di evangelizzare le Isole Britanniche, con una particolare attenzione per il Wessex e l’Irlanda. Alla morte di re Osvaldo, l’opera missionaria fu proseguita dal suo successore, Oswine di Deira, salito al trono dal 642. Questi divenne amico di Aidano e ne sostenne l’azione, che il futuro santo continuò sino alla morte, viaggiando per la Northumbria, predicando in piccoli villaggi e catechizzando gente per lo piú rozza, semplice e incolta.
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donne guerriere/1
GROENLANDIA
Lofoten
MAR DI NORVEGIA
L‘ESPANSIONE VICHINGA Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui Reykjavik doloreium conectu rehendebis eatur Thingvellir tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
Trondheim
Fær Øer Shetland
Uppsala
Bergen Oslo
Haugesund
Helgö Birka
Kaupang
Lindisfarne Isola di Man Dublino
Dü
na
Roskilde Lund Haithabu Amburgo
Dorestad
Re
Londra Hastings
Kiev
no
Bayeux
Hedeby
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ATLANTICO
Novgorod
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a Parigi Loira
Territorio d'origine
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Espansione Pamplona Incursione Zuge
Lisbona Tago Cordoba Cadice
Roma
MAR NERO Costantinopoli
Palermo
MAR MEDITERRANEO Warwick, Chirbury, Weardburh e Runcorn, una formidabile linea difensiva voluta congiuntamente per affrontare insieme a Edoardo gli Uomini del Nord. Il re sassone, infatti, non fu da meno e, in quegli stessi anni, intraprese la costruzione di fortificazioni nel Sud dell’isola: ai primi del 900, dunque, sorsero i castelli di Hertford e Witham, di Buckingham e Bedford, alcuni dei quali destinati a divenire sedi di famosi baroni inglesi. I castelli erano situati in luoghi strategici, vicino alle strade principali, ai guadi o ai ponti, posti a difesa di valichi, e sarebbero stati utilizzati sia come riparo in caso di attacco, sia come avamposti per il contrattacco, sapendo che, finita la razzia, i Danesi si sarebbero ser-
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viti delle principali vie di comunicazione per tornare sulla costa e ripartire. Le fortezze poi erano utilizzate come depositi per derrate, per raccogliere armi e cavalli, e per riunire le truppe al sicuro, in vista di nuove campagne. La linea di fortificazioni di Edoardo andava a congiungersi a quella della sorella, confermando come si fosse trattato di un piano congegnato congiuntamente per frenare gli attacchi vichinghi. Sul fronte settentrionale della Mercia, invece, si alternavano le incursioni degli Irlandesi e dei Norvegesi, alcuni dei quali s’erano insediati nella regione del Wirral, e in particolare a Mersey, da cui si incuneavano nel territorio di Chester, dove Etelfleda potenziò le difese. agosto
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Rostow
Volga
Bolgar
Do
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Itil
O MAR CASPIO
In alto una nave vichinga con la prua a forma di dragone, da un manoscritto anglosassone. X sec. Londra, British Museum. A sinistra cartina dell’Europa con i territori d’origine dei Vichinghi, le principali direttrici delle loro spedizioni e le terre conquistate e colonizzate, tra l’VIII e il IX sec.
Altrettanto fece sul confine col Galles, dove fortilizi come quello di Chibury divennero la testa di ponte utile per contrattaccare i Britanni: nel 916 la sovrana di Mercia diede inizio a una controffensiva e, presso il lago di Llangorse, riuscí a sconfiggere le truppe del re gallese, catturandone persino la moglie e una trentina di dignitari di alto rango. Il 917 fu l’anno decisivo: con la bella stagione vari gruppi di guerrieri danesi avevano iniziato a devastare diverse città, inoltrandosi nella Mercia meridionale, minacciando anche i territori di pertinenza del re Edoardo verso sud. Era ciò che i due fratelli attendevano ormai da tempo. Nell’estate fu ordinato un duplice at-
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tacco: Edoardo si sarebbe concentrato nel Sud, la sorella avrebbe marciato verso il Nord. Edoardo assalí dunque i Danesi a Colchester e Tempsford, uccidendo un re danese e suo figlio. Dopo una fallita reazione degli Uomini del Nord, Edoardo iniziò a marciare nel Danelaw, facendo capitolare Northampton e Huntingdon e ottenendo la resa dei Vichinghi, che giurarono di «proteggere tutto ciò che Edoardo proteggeva, per mare e per terra». Mentre il fratello piegava i Danesi nell’Essex, Etelfleda entrava nel castello vichingo di Derby, evidentemente sguarnito di guerrieri, forse impegnati proprio a Sud contro Edoardo. Alla fine del 917, con un’azione combinata, fratello e sorella avevano sgominato gli eserciti danesi dell’East Anglia, trasformando in preziose alleate le città di Cambridge e Bedford, Derby, Huntingdon e Northampton.
Resa e sottomissione
La lotta riprese l’anno seguente quando, nella primavera del 918, Edoardo mosse le proprie truppe contro la città di Stamford. Lo schema fu replicato e la sorella diresse le milizie della Mercia verso Leicester, che capitolò, arrendendosi alla condottiera, la quale ottenne, pacificamente, la resa e la fedeltà dei soldati danesi. Alla notizia della caduta di Leicester, giunsero persino emissari da York ai piedi di Etelfleda, giurandole sottomissione: la fama della «Regina dei Sassoni» aveva ormai attraversato l’isola britannica. Il piano di liberazione della Britannia, ideato da Edoardo e dalla sua sorella maggiore, era giunto quasi a conclusione quando, nel giugno del 918, la sovrana contrasse una misteriosa febbre e improvvisamente morí. Il re Edoardo si prodigò per celebra-
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donne guerriere/1 Miniatura raffigurante la badessa Elfleda di Whitby che si getta ai piedi di Cutberto, implorandolo di dargli notizie del fratello, il re della Northumbria Ecgfrith, da un’edizione dell’Historia ecclesiastica gentis Anglorum di Beda il Venerabile. Ultimo quarto del XII sec. Londra, British Library. Cutberto fu priore di Lindisfarne, l’abbazia fondata da sant’Aidano.
re una solenne cerimonia e il corpo della «Regina» venne sepolto nel monastero dedicato a san Pietro, nella città di Gloucester. Re Edoardo si mise rapidamente in marcia alla testa delle truppe che erano state della sorella e assediò le fortezze vichinghe nelle Midlands, riportando una grande vittoria: dopo ben quarant’anni di dominio danese, tutte le fortezze a sud del fiume Humber erano di nuovo sotto controllo sassone. Edoardo aveva assunto temporaneamente il comando militare delle truppe di Mercia, ancora raccolte a Tamworth in attesa di partire per una nuova campagna e la nobiltà merciana, pur riconoscendo la successione per via di
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sangue della loro sovrana, accettò l’evidente supremazia militare del re del Wessex. Per un breve periodo, infatti, la figlia di Etelfleda sarebbe stata associata dalla madre al titolo di «Signora dei Merciani». Alla sua morte la corona di Mercia passò alla giovane Alefwynn, la figlia che Etelfleda aveva avuto dall’anziano marito Etelredo. Ma re Edoardo la depose dopo appena un anno di governo, probabilmente senza una seria opposizione, andando cosí ad annettere definitivamente il regno di Mercia a quello del Wessex, raddoppiando il proprio dominio e iniziando un processo che avrebbe portato alla nascita della futura Inghilterra sassone. agosto
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scoperte siponto
Fidarsi è bene...
di Giuseppe Sarcinelli e Ginevra Panzarino
Scavi condotti nell’abbazia pugliese di S. Leonardo di Siponto, presso Manfredonia, hanno permesso di individuare due sepolture della prima metà del XIV secolo, con gruzzoli di monete nascosti addosso ai defunti. Tesoretti di cui i seppellitori – probabilmente per motivi igienico-patologici – non si avvidero, offrendo cosí agli archeologi l’opportunità di riportarli alla luce
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bbiamo voluto iniziare questo racconto prendendo in prestito le parole che lo scrittore e premio Nobel turco Orhan Pamuk immagina possano essere pronunciate da una moneta. Ci piace infatti pensare che una moneta, o piú monete, ritrovate nel terreno a seguito di uno scavo archeologico, comincino a raccontare la propria storia. In questo caso, si tratta di oltre 100 monete e quello che segue è dunque il «loro» racconto. Tutto ha inizio nella prima metà del XIV secolo, nell’abbazia di S. Leonardo in località Lama Volara di Siponto, nel Nord della Puglia, a 9 km circa da Manfredonia (Foggia). La vicenda, in realtà, comincia da una fine, cioè dalla morte di due individui, che furono sepolti nel cimitero che sorge intorno all’abbazia, con i propri gruzzoli di monete. L’abbazia di S. Leonardo comprende una chiesa, un convento e un ospedale per l’assistenza e l’accoglienza dei pellegrini infermi e indigenti. Fondata alla fine dell’XI seco-
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In alto la Tomba 6 scoperta nel cimitero annesso all’abbazia di S. Leonardo di Siponto, presso Manfredonia (Foggia). La sepoltura accoglieva i resti di un individuo di sesso maschile, deposto insieme a un gruzzolo di 100 monete. Prima metà del XIV sec. Nella pagina accanto il magnifico portale che si apre sul fianco settentrionale dell’abbazia di S. Leonardo, databile tra la fine del XII e gli inizi del XIII sec.
«Sono una moneta d’oro, sono una sultana ottomana da 22 carati. Se raccontassi le avventure che mi sono capitate prima di arrivare qui, ne verrebbero fuori volumi e volumi […]. In questi ultimi anni ho cambiato cinquecentosessanta mani, a Istanbul non c’è casa, negozio, mercato, moschea, chiesa, sinagoga in cui non sia entrata. Il mio terrore era venire persa nel terreno o venire persa in un’anfora e rimanere sepolta per anni o secoli sotto una pietra in un giardino, o nelle connessure del pavimento di una chiesa…». (Orhan Pamuk, Il mio nome è rosso, 1998) agosto
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scoperte siponto A destra le monete trovate sotto il braccio destro del defunto sepolto nella Tomba 6, con il gigliato di Roberto d’Angiò in primo piano. In basso il gruzzolo rinvenuto nella Tomba 6 al termine dell’intervento di restauro.
lo, raggiunge il periodo di maggiore splendore nel XII secolo, quando viene scolpito il fastoso portale settentrionale in stile romanico. Gestita prima dall’Ordine Teutonico, dal 1280 al 1480, diviene successivamente commenda papale. Nel 1731 è gravemente danneggiata dal terribile terremoto che colpisce tutta la regione; abbandonato con la soppressione dell’ospedale nel 1809, durante la seconda guerra mondiale il sito subisce gravi danni, quando le truppe tedesche vi fanno brillare le munizioni depositate all’interno. Tra il 2012 e il 2016 il complesso è stato sottoposto a un importante lavoro di restauro, nell’ambito di un progetto di recupero e valorizzazione (Finanziamento P.O.In. 2012-2015), diretto dalla Soprintendenza Archeologia della Puglia e dal Segretariato regionale del Ministero dei Beni e delle Attività Cul-
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turali e del Turismo per la Puglia; la chiesa è meta di pellegrinaggio il 21 giugno di ogni anno, in occasione del solstizio d’estate, quando la luce attraversa il rosone al centro della navata laterale sinistra e disegna una rosa di undici petali sul pavimento, tra i due pilastri in corrispondenza del portale.
In semplici fosse
Durante una recente campagna di scavi archeologici è stata indagata una piccola porzione del cimitero che si sviluppa all’esterno della chiesa e della cappella a partire dal 1280, quando l’Ordine Teutonico chiude il lato settentrionale della chiesa (quello del fastoso portale) per delimitare l’area cimiteriale per il convento e l’ospedale. Gli inumati venivano qui seppelliti in fosse semplici, scavate nel terreno e nel sottostante banco roccioso, orientate est-ovest, con la testa a ovest secondo la prassi cristiana, a eccezione di alcune sepolture imagosto
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44 sotto il braccio destro, tra l’omero e la scapola forse in un sacchetto nascosto nella manica, all’altezza dell’ascella; infine, 3 monete erano forse poste in una tasca – una di essa recava tracce di tessuto – come denaro disponibile per le spese immediate e per attirare l’attenzione di eventuali ladri, mentre il restante gruzzolo rimaneva ben celato all’interno delle vesti.
Il gigliato del re
Delle 100 monete recuperate, 99 sono denari tornesi in mistura della Grecia Franca (ultimi decenni del XIII secolo-primo venticinquennio del XIV secolo), mentre una è un gigliato d’argento di Roberto d’Angiò (13091343). I tornesi piú antichi rinvenuti sono attribuibili a Guglielmo di Villehardouin (1246-1278), i piú recenti a Giovanni di Gravina (1322-1333). Il gigliato reca al diritto l’iscrizione ROBERT DEI GRA mediatamente a ridosso del muro dell’abside, forse privilegiate, tra cui la tomba di un bambino. Nella zona piú a nord del cimitero sono state rinvenute le due sepolture con i gruzzoli di monete. La prima (Tomba 6), prossima alla cappella del santo, viene scavata nella terra, di dimensioni ampie per accogliere probabilmente una cassa lignea: al suo interno si depone il corpo di un uomo adulto, supino, con le braccia incrociate sul petto e le gambe distese.
Oggetti personali
Sul cadavere erano collocati alcuni oggetti, verosimilmente riferibili all’abbigliamento personale: una collana di grani in pasta vitrea, forse un rosario, con chiusura in anellini in ferro scivolato dalla mano sinistra; alcuni elementi in ferro, nella mano destra; un anello con puntinatura in lega di rame di forma cilindrica in prossimità del bacino, forse anch’esso scivolato dalle
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In alto ancora un particolare della Tomba 6: la pila di monete rinvenuta sul petto del defunto.
I. Tremiti Peschici Vieste
Termoli
Torre Mileto
Vico del Gargano
Campomarino Poggio Imperiale
Cagnano Varano
A14
Ururi
S. Croce S. Severo di Magliano Bonefro Castelnuovo di Daunia
dita; alcuni anellini in lega di rame e ferro tra i femori, probabilmente parte del vestito, e una lamina ripiegata in lega di rame, interpretabile come il terminale di un laccio. Sul cadavere erano conservate 100 monete, divise in quattro gruzzoli: 39 sul petto, sopra il costato destro, forse in una tasca interna cucita nell’abito; 14 tra la testa e la spalla destra, immediatamente al di sopra della clavicola, forse in un sacchetto nascosto nel cappuccio;
Manfredonia E55
Abbazia di S. Leonardo FOGGIA
Zapponeta
IERL ET SCIL’ RE: emesso a nome di re Roberto d’Angiò (13091343), l’abbreviazione del nome in «ROBERT» e lo stile povero inducono ad attribuirlo agli ultimi anni del regno di Roberto o anche a ritenere che possa trattarsi di un’emissione postuma. Forse, il defunto della Tomba 6 era un mercante che rientrava da un viaggio di affari, magari in Grecia, oppure dall’area meridionale della Puglia, dove i denari torne-
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scoperte siponto
In alto e in basso le monete della Tomba 6 in corso di restauro. A destra particolare delle monete che si trovavano nella tasca del defunto della Tomba 6 al momento della sepoltura.
si erano comunemente utilizzati, dove aveva guadagnato le monete che recava con sé, celate tra le vesti? Oppure si trattava di un pellegrino diretto al santuario di Monte Sant’Angelo (lo lascerebbe pensare il fatto che in mano aveva un rosario). Chiunque fosse, di passaggio a Siponto forse si sentí male, e si rivolse all’ospedale… ma vi trovò la morte, e lí vi fu sepolto.
A braccia incrociate
Nella stessa zona del cimitero, poco piú a est, viene scavata un’altra tomba (Tomba 2), anch’essa maschile, nella quale il defunto è sepolto con le braccia incrociate sul petto; a una cintura (se ne è conservata la fibbia in ferro) era probabilmente fissato un sacchetto contenente 12 monete, rinvenute – sempre impilate – in prossimità
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del femore destro: si tratta di 12 denari in mistura d’argento, di cui sono riconoscibili solo i due esemplari posti alle estremità della pila (le monete sono fortemente concrezionate e molto fragili, per cui l’intervento di distacco e restauro è ancora in corso), emessi rispettivamente ad Ancona intorno alla metà del XIII secolo e dagli arcivescovi di Ravenna tra il 1232 e il XIV secolo. Riesce piú difficile spiegare chi fosse l’uomo, e perché avesse proprio quelle monete. In questo caso verrebbe comunque da pensare piú a un pellegrino, giunto dal Nord a Siponto, e rimasto per sempre lí, nel cimitero di S. Leonardo. Quello di nascondere il denaro quando ci si poneva in viaggio era un espediente comune in antico, ben testimoniato da alcune fonti documentarie: per esempio, i reagosto
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La fibbia e le monete nel sacchetto fissato alla cintola e rinvenute sotto la coscia del defunto della Tomba 2.
gistri contabili dell’Ospedale di S. Maria dei Battuti a Treviso documentano, per la metà del Quattrocento, l’uso da parte di alcuni ricoverati di non portare il denaro in una borsa appesa alla cintura, ma di riporlo in un fazzoletto portato addosso, o anche di suddividerlo in piú contenitori (scarselle, o anche fazzoletti o lembi di stoffa); spesso si usava cucire il denaro all’interno della pelliccia o del mantello. In alcuni casi si usava tenere una borsetta con pochi spiccioli sul fianco, per attirare l’attenzione dei ladri, nascondendo il grosso del denaro addosso. Le monete delle due sepolture di Siponto sembrerebbero essere
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proprio di questo tipo, nascoste e «involontariamente» deposte insieme ai corpi, sfuggite a chi provvide al seppellimento, e che effettuò un veloce e non troppo approfondito approntamento dei due cadaveri, forse per il timore di contrarre una qualche forma di contagio.
Vittima della peste?
Le monete della Tomba 6, infatti, non si datano oltre il 1343, ma, data la lunga circolazione dei denari tornesi in Italia meridionale e la presenza di un gigliato di stile povero, non è possibile datare con precisione l’interramento e collegare necessariamente la morte dell’uomo alla grande epidemia di peste del 1348. Lo studio prosegue, grazie a un progetto di ricerca interdisciplinare diretto dal Ministero della
Cultura (Segretariato regionale del MIC per la Puglia, Soprintendenza ABAP per le province di Barletta-Andria-Trani e Foggia e Soprintendenza Abap per la città metropolitana di Bari) e con la collaborazione dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Puglia e Basilicata e degli scriventi. L’intento è quello di ricostruire le vicende» che condussero questi due individui, giunti da chissà dove, a morire e a essere seppelliti nel piccolo cimitero di S. Leonardo, recando gelosamente celate addosso le proprie piccole ricchezze, sfuggite all’occhio rapace dei vivi di allora, per riapparire all’occhio attento e appassionato di noi vivi di oggi, e cominciare a raccontarci la loro storia: «Siamo monete d’argento, siamo denari tornesi della Grecia Franca…».
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oltre lo sguardo/7
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Un germoglio dalle radici
potenti
di Furio Cappelli
Dal ventre di un vegliardo dormiente prende vita una pianta dai molti rami, affollati di altrettante figure: è l’Albero di Jesse, una delle creazioni piú originali dell’arte medievale, declinata con notevole virtuosismo non solo da scultori e pittori, ma anche dai maestri dell’arte vetraria 60
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«Un germoglio spunterà dal tronco di Jesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore… Quel giorno, il virgulto di Jesse sarà lí come un vessillo per i popoli». (Isaia, 11: 1-2; 10) MEDIOEVO
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La figura di Jesse, padre del re David, ritratto come un vegliardo dormiente, in una delle vetrate policrome della basilica di Saint-Denis, alla periferia di Parigi. L’opera oggi visibile è in larga parte frutto di restauri condotti in epoca moderna sul manufatto originale, databile intorno al 1144.
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oltre lo sguardo/7
U
na delle piú sorprendenti creazioni dell’iconografia medievale è l’Albero di Jesse, ovvero l’ingegnosa trasposizione visiva di una celebre profezia del libro di Isaia (11:1-2), nel Vecchio Testamento. Il Proto-Isaia – la voce piú antica tra quelle confluite in quel libro profetico (740-700 a.C.) – prefigura la nascita di Cristo evocando un redentore che nei tempi futuri scaturirà dalla stirpe di Jesse (noto anche come Iesse o Isai), padre del re David. Il testo biblico illustra il concetto ricorrendo all’immagine di un germoglio che spunterà d’incanto dal tronco di un albero dalle potenti radici. Nasce da qui l’idea di visualizzare una pianta dalla grande impalcatura, che si sviluppa sempre piú verso il cielo, man mano che le generazioni si succedono, e che culmina naturalmente nell’immagine trionfante di Cristo. Jesse, il suo capostipite terreno, viene raffigurato disteso in terra e immerso nel sonno, con l’Albero che nasce direttamente dal suo ventre. In questo modo si suggerisce che proprio il progenitore abbia avuto una visione profetica della sua discendenza, culminante nella Vergine Maria e in suo figlio. Naturalmente, anche nei Vangeli si sottolinea la discendenza di Cristo dalle grandi figure della storia ebraica, ma ogni volta si va ben oltre re David e suo padre Jesse, dal momento che si risale al patriarca Abramo (Matteo, 1:1-17) o allo stesso Adamo (Luca, 3:23-28). L’Albero di Jesse si orienta quindi su una visione piú ridotta nella sua estensione temporale, ma assai significativa, sia perché centrata su un antichissimo dettato delle Scritture, sia perché utile a esaltare la regalità di Cristo. È inoltre interessante notare che le genealogie evangeliche culminano in Giuseppe, mentre la visione di Jesse lo esclude completamente, dando bensí importanza alla Vergine (chiamata in causa come sposa di Giuseppe dal solo Matteo), eletta cosí su un piano di eminenza indiscussa anche sul piano storico.
L’intraprendenza dell’abate Sugerio
L’importanza di una perfetta adesione testuale al Vecchio Testamento, in connessione a una visione del Cristo come sovrano celeste (ma dalle radici terrene), poté emergere in un luogo e in un momento storico preciso: l’abbazia regale di Saint-Denis, alla periferia di Parigi, nel contesto dei lavori di abbellimento e di ricostruzione della grande chiesa di pertinenza – «custode» della necropoli dei sovrani di Francia già dai tempi dei Merovingi –, per volontà dell’intraprendente Sugerio (Suger, 1081-1151). Già in un perduto e fastoso crocifisso monumentale – nel quale l’abate era ritratto in ginocchio ai piedi del patibolo –, Sugerio concepí una base piuttosto articolata dove trovarono spazio, tra l’altro, quattro
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Sulle due pagine la raffigurazione dell’Albero di Jesse nella vetrata policroma della cattedrale di Chartres (nella pagina accanto), databile intorno al 1150, e in quella della basilica di Saint-Denis (a destra), d’origine medievale (XII sec.), ma ampiamente restaurata nel XIX sec.
eloquenti prefigurazioni del sacrificio di Cristo, in altrettanti medaglioni lavorati a smalto. In uno di questi si esaltava l’immagine di Isacco con un mucchio di legna caricato sulle spalle. Era la legna che doveva alimentare la pira del sacrificio che il padre Abramo si apprestava a compiere, immolando proprio suo figlio, in base alla terribile disposizione (poi revocata) di Yahweh (Genesi, 22:1-18). Quella legna, naturalmente, alludeva alla croce stessa di Cristo. Il radicamento della rivelazione nel Vecchio Testamento era già stato evidenziato da innumerevoli esegeti e dottori della Chiesa, e aveva ispirato singole opere d’arte cosí come vasti programmi decorativi sin dall’età paleocristiana. Ma Emile Mâle (1862-1954), pioniere negli studi sull’iconografia medievale, ha le sue ragioni nell’evidenziare il rigore e la forza dottrinale con cui Sugerio ripropose questi concetti. L’eloquenza delle sue creazioni – che egli seguí con molto scrupolo in veste di committente-pianificatore – dettò immediatamente legge e, nel quadro della nascente arte gotica, rappresentò un punto di riferimento fondamentale, non solo in Francia. Le parole stesse di Sugerio illuminano i concetti della sua iconologia biblica, grazie ai testi delle epigrafi di corredo. Per esempio: «La dottrina di Cristo rivela ciò che Mosè nasconde». E in un componimento in versi in cui l’abate evoca l’operato di san Paolo, c’è l’immagine di un mugnaio che passa il grano sotto la macina, per produrre la farina. Allo stesso modo, l’apostolo rivela in pieno l’insegnamento di Mosè e fa in modo che diventi un pane eterno, un cibo angelico in grado di nutrire tutti per sempre.
Un prototipo illustre
Nella sua articolazione piú completa ed elaborata, l’Albero di Jesse trae la sua fortuna proprio dal genio di Sugerio. A questo soggetto era infatti dedicata una delle vetrate istoriate che impreziosirono il nuovo coro della sua chiesa, solennemente riconsacrata nel 1144. E se la vetrata di Saint-Denis, come la vediamo ora, è ampiamente frutto di restauri, si mantiene sostanzialmente intatta quella di Chartres (sulla finestra sinistra di facciata), databile intorno al 1150 e basata sull’illustre prototipo di Sugerio, anche per effetto di una naturale logica di concorrenza. La cattedrale di Chartres, intitolata alla Vergine, contendeva infatti a Saint-Denis (luogo di sepoltura di san Dionigi, primo vescovo di Parigi) l’aura di
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oltre lo sguardo/7 Culto mariano
Il trionfo della Vergine Quando si vorrà esaltare il ruolo della maternità della Vergine – soprattutto per effetto del culto mariano, assai vivo nel Basso Medioevo –, si ricorrerà alla consueta immagine della Madonna col Bambino e, in tal caso, il gruppo si sostituirà alle due figure sovrapposte e distinte. Un caso precoce è la formella marmorea che decora il pulpito della ex chiesa fiorentina di S. Pier Scheraggio (1175-85), oggi parzialmente ricomposto nella pieve di S. Leonardo di Arcetri (Firenze). È noto come pulpito «di Dante», perché il poeta avrebbe avuto modo di utilizzarlo per rivolgersi
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A destra la formella con il Trionfo della Vergine facente parte del pulpito «di Dante», già in S. Pier Scheraggio, a Firenze. 1175-1185.
ai suoi cittadini, quando la chiesa di provenienza (le cui parti superstiti sono oggi inglobate negli Uffizi) fungeva da sede di riunione dei Priori e dei consigli del Comune (in realtà, egli dovette servirsi di un «pergolo» di legno montato alla fine del XIII secolo proprio per le esigenze istituzionali, come sottolinea lo storico dell’arte Guido Tigler). Ebbene, la Vergine col Bambino vi figura in trionfo tra due schiere di Profeti, dall’alto dell’albero che scaturisce dal ventre di Jesse. Dal canto suo, il particolarissimo candelabro di bronzo dell’Albero della Vergine (detto anche Trivulzio) conservato nel duomo di Milano e risalente agli inizi del XIII secolo, si rifà nella sua componente iconografica essenziale proprio alla visione di Jesse. Il basamento rievoca eventi del Vecchio Testamento, unitamente a un’ampia serie di allegorie, mentre l’unico nodo istoriato dello stelo vede campeggiare la Madonna col Bambino, in una tessitura complessa, che include il corteo dei Magi a cavallo, mentre tutt’intorno, lungo l’orlo superiore, agosto
MEDIOEVO
campeggiano i busti dei Profeti. Lo schema «arboreo» dei candelabri a bracci ricurvi si prestava facilmente ad associazioni del genere. Una fonte del XIV secolo, d’altronde, attesta la presenza a Westminster di un perduto candelabro intitolato proprio a Jesse, acquisito sul continente nel 1091. Ma sono molti gli esempi possibili di interferenze e di ricombinazioni del tema. In una tavola del bolognese Simone di Filippo (detto dei Crocifissi), oggi nella Pinacoteca Nazionale di Ferrara (1370 circa), la Vergine si sostituisce a Jesse nel ruolo del personaggio coricato e dormiente, che riceve una visione in sogno, e da lei fuoriesce un albero sulle cui fronde campeggia il Crocifisso.
MEDIOEVO
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In alto particolare del candelabro di bronzo dell’Albero della Vergine (detto anche Trivulzio). Inizi del XIII sec. Milano, Duomo. Nella pagina accanto, in basso Il sogno della Vergine, tempera su tavola di Simone dei Crocifissi. 1370 circa. Ferrara, Pinacoteca Nazionale.
santuario «nazionale», tenuto in gran conto dagli stessi sovrani. E il tema della regalità di Cristo, cosí come è evocato nell’Albero di Jesse, rientra perfettamente nella simbologia del potere, suggerendo un’associazione tra la stirpe dei sovrani di Giuda e i «nuovi» monarchi devoti al redentore. Non a caso, la decorazione scolpita della facciata di Chartres aveva dato vita alla «porta dei re», cosí nota proprio per l’evidenza delle statue-colonna di vari personaggi regali, in ampia parte desunti dalle Scritture.
Una composizione articolata
Ma come si articola, nel dettaglio, un tipico Albero di Jesse? Sopra il vegliardo dormiente si staglia suo figlio, il re David, talvolta ritratto con l’attributo dell’arpa. Da lí, lungo l’asse principale del tronco (lo «stelo»), si sviluppa in sequenza il gruppo dei successori sul trono di Giuda. A conclusione, come si è già accennato, appaiono la Vergine e il Cristo. Accompagnato in molti casi dalle sette colombe dello Spirito Santo («agenti» di Dio Padre), il Redentore sovrasta dunque l’immagine di Maria. Ai fianchi del tronco si osservano due sequenze di
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oltre lo sguardo/7 La lussureggiante decorazione scolpita della facciata di NotreDame-la-Grande a Poitiers. 1120-1140.
profeti che accompagnano la «sfilata» dei re. Si tratta di un contrappunto che esalta il significato spirituale della successione genealogica, poiché essi sono i testimoni della rivelazione. La struttura stessa dell’albero suggerisce poi eleganti soluzioni di aggancio tra le diverse serie di figure. I profeti, in particolare, possono collegarsi al fusto dell’albero grazie a una fitta struttura di rami, i cui apici, formando volute, possono per giunta racchiudere le loro effigi, come se fossero entro clipei o medaglioni. Gli stessi re prendono corpo nel vivo della pianta all’interno di campi circolari, come altrettanti oblò scavati nel tronco. Si è ipotizzato che in tutta questa invenzione potesse avere un ruolo l’uso degli alberi genealogici posti a decorare le sale delle residenze feudali. Ma se è difficile asserirlo in mancanza di testimonianze risalenti almeno al XII secolo, sono indubbie le suggestioni delle serie di ritratti destinate proprio alle sale di rappresentanza dei sovrani. E, piú in generale, l’albero gioca un ruolo rimarchevole in molti settori dell’espressione figurativa medievale. Proprio il gusto dell’ordinamento razionale delle conoscenze, ribadi-
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to e rinvigorito dalla Scolastica all’epoca di Sugerio, faceva sí che l’albero si prestasse a visualizzare un sistema di elementi concatenati anche in un discorso prettamente dottrinario o scientifico, secondo un concetto vicino all’infografica dei tempi odierni.
Fra perdizione e riscatto
L’albero, insomma, offre opportunità immediate nel rendere il senso di una ramificazione, e gode peraltro di una fortuna immensa come simbolo religioso. Jesse, d’altronde, si pone storicamente a mezza strada tra l’Albero della Conoscenza del bene e del male – che fa da scena al peccato originale – e il legno della croce: il padre del re David, insomma, si trova allo snodo tra la perdizione e il riscatto del genere umano. Il concetto è visualizzato bene nella decorazione scolpita della facciata di Notre-Dame-la-Grande a Poitiers, la città della Francia centro-occidentale ben piú nota per l’impresa di Carlo Martello contro i Mori (732). Siamo negli anni 1120-1140, in una fase del romanico maturo che prelude ai prospetti figurati delle grandi chiese gotiche. Ebbene, scorrendo le figure da sinistra verso destra nella fascia inferiore, agosto
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l’albero e l’eden
Incontro fra progenitori
A destra l’Albero di Jesse nel soffitto dipinto della chiesa di S. Michele a Hildesheim. Inizi del XIII sec.
Il nesso tra caduta e salvezza del genere umano, contrapponendo Adamo a Cristo (il «nuovo» Adamo), era tenuto molto vivo nella riflessione teologica, e la relazione già sviluppata a Poitiers tra la Tentazione e l’immagine di Jesse fece sí che proprio la scena ambientata nell’Eden fosse spesso in relazione all’Albero di cui ci occupiamo. L’esempio piú vistoso è nell’assai articolato soffitto dipinto di S. Michele a Hildesheim (inizi del XIII secolo), dove la vastità dello spazio disponibile ha suggerito peraltro di arricchire lo schema dell’Albero con una riquadratura esterna a medaglioni. Vi passano in rassegna 42 antenati di Cristo, secondo la genealogia evangelica. L’albero che fuoriesce dal ventre di Jesse può d’altronde alludere a una genesi illustre, sempre in tema di progenitori. La stessa Eva, infatti, era scaturita da una costola di Adamo, anch’egli dormiente. Secondo l’acuta riflessione proposta dall’abate Jules Corblet nel 1860, dalla costola di Jesse scaturisce dunque una «nuova Eva», ossia la Vergine. Era d’altronde un parallelismo assai avvertito nella riflessione teologica dell’epoca. Mentre la progenitrice aveva condotto l’umanità alla caduta, Maria dette alla luce lo «strumento» della salvezza. La storica Anita Guerreau-Jalabert, a sua volta, vede nell’albero non tanto una raffigurazione genealogica, mirata a ricostruire la linea di una stirpe, quanto una perfetta sintesi dottrinale dei due piani della parentela di Cristo (terrena e spirituale), con le rispettive chiavi di lettura (laica e clericale). Nella visione di Jesse, a suo
si parte dalla Tentazione di Adamo ed Eva e si culmina nella Natività di Gesú. Subito dopo la Tentazione, si ha una sfilata di Profeti (tra cui Isaia) e, dopo l’intermezzo dell’Annunciazione alla Vergine, si evidenziano Jesse con il suo virgulto, e il figlio David. Questa scansione ha un forte effetto scenico, oltre che dottrinale, e il già citato Mâle ha evidenziato alcune connessioni tra il tema dell’Albero di Jesse e le rappresentazioni teatrali che avevano luogo nelle chiese nell’ambito della liturgia natalizia. Proprio per l’im-
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avviso, la simbologia dell’ordine parentale, a cui tutti i fedeli devono attenersi, ha quindi piú importanza del fatto che gli antenati di Cristo fossero re. Né è mancata una lettura dell’Albero di Jesse in chiave psicoanalitica: secondo la studiosa Tilde Giani Gallino, la pianta che si sviluppa dal ventre allude alla generazione sessuale, e deve essere quindi interpretata come albero-fallo. In tal modo, visualizzando una inequivocabile erezione, si affermerebbe il concetto della «potenza sessuale e fecondatrice virile» del patriarca.
portanza conferita ai profeti, abbiamo già incontrato le testimonianze letterarie superstiti di quei canovacci che facevano da supporto alla recitazione (Ordo Prophetarum). Tra le serie dei veggenti che prendono corpo negli Alberi, e quelle previste nella sacra rappresentazione, c’è spesso una perfetta rispondenza. Isaia, poi, nel dramma sacro recita proprio il versetto di Jesse, e anche il Mosè di Poitiers, come quello della vetrata di Chartres, si allinea al copione, dicendo, a nome del Signore: «Vi darò un profeta della vostra stirpe [Cristo] e
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oltre lo sguardo/7 A sinistra l’Albero di Jesse nella versione ad affresco realizzata da Lello da Orvieto per la Cappella degli Illustrissimi nella cattedrale di Napoli. 1308-1320. Nella pagina accanto la Vergine in trono al culmine dell’Albero di Jesse scolpito in uno degli stipiti della Porta della Vergine del battistero dell’Antelami, a Parma. 1196-1216.
non sarà preso in considerazione», con ciò alludendo al misconoscimento che lo condurrà al supplizio della croce. Persino certe apparizioni «straordinarie» nel novero dei profeti, come il poeta Virgilio o una Sibilla, accomunano taluni Alberi di Jesse ai drammi liturgici. Il tema dell’Albero di Jesse si diffonde nel gotico italiano in situazioni piuttosto isolate, ma significative. Nella cattedrale di Napoli – ossia nella capitale del regno angioino, assai aperta agli influssi della cultura francese –, Lello da Orvieto realizzò una solenne versione ad affresco del tema nella Cappella degli Illustrissimi, su commissione dell’arcivescovo Umberto d’Ormont (1308-1320). Ma è nella schiera delle facciate scolpite che la visione di Jesse si impone all’attenzione. A Parma, nel battistero dell’Antelami (1196-1216), la Porta della Vergine mostra sugli stipiti due alberi, con una genealogia che parte da Giacobbe e culmina in Mosè (discendente di Levi, figlio di Giacobbe), per poi proseguire con il consueto Albero di Jesse (discendente di Giuda, figlio di Giacobbe), che culmina a sua volta nella Vergine in trono. A Genova, sulla facciata della cattedrale, gli stipi-
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ti del portale maggiore (1225 circa) sviluppano una simmetria di segno diverso, con una maggiore accentuazione del rapporto tra il Vecchio e il Nuovo Testamento. Alla visione di Jesse (a destra) fa da pendant la narrazione della vita di Cristo, i cui episodi iniziali (l’Annunciazione e la Visitazione) si delineano tra i rami di un albero. L’insieme si completa nelle formidabili mensole dell’architrave, che mostrano la personificazione della Chiesa che nutre al proprio seno gli apostoli Pietro e Paolo (a sinistra) e il patriarca Giacobbe che benedice i nipoti Efraim e Manasse (a destra; Genesi, 48:13-20). Adottati dal vegliardo come propri figli quando era prossimo alla morte, essi avrebbero dato il nome a due importanti tribú di Israele.
I quattro pilastri di Orvieto
Ritroviamo infine il nostro albero nel duomo di Orvieto, nella vibrante decorazione dei pilastri della fascia inferiore della facciata, dove, nel 1310, risulta all’opera l’architetto capomastro Lorenzo Maitani. In questo caso il tema si sviluppa intorno al portale centrale, guadagnando un’ampia superficie e componendo con le altre sequenze dell’apparato un fregio agosto
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di grande effetto visivo e di sottilissima inventiva dottrinale. I quattro pilastri sono altrettanti alberi, che reinventano e riadattano lo schema della visione di Jesse, trasformandone l’impalcatura nell’elemento unificante dell’insieme. L’impatto di questa grandiosa concezione è accentuato dalla resa naturalistica dei rami, soprattutto nelle fasce estreme, i cui viticci fioriti assumono un’eleganza del tutto inedita, superando il semplice ruolo oleografico di supporto delle figure. Sembra cosí di vedere la trasposizione di quattro gigantesche pagine di raffinata miniatura. L’Albero di Jesse si duplica ai fianchi del portale maggiore (secondo e terzo pilastro), e si completa a sinistra con il racconto della Creazione (primo pilastro) e a destra con il Giudizio Universale (quarto pilastro). La duplicazione avviene con un criterio simile a quello degli stipiti di Genova, contrapponendo Vecchio e Nuovo Testamento. Sul secondo pilastro il tema di Jesse è sostanzialmente in linea con la tradizione, delineando la genealogia di Cristo. Sul terzo pilastro ritornano Jesse dormiente e la schiera dei Profeti a fare da contorno, ma l’albero fa da supporto alle storie del Redentore. Nel primo albero (quello veterotestamentario) è davvero impressionante il brulicante insieme
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A sinistra scorcio della fascia basale della facciata del Duomo di Orvieto, con le Storie dell’infanzia e della Passione di Cristo (terzo pilastro) e il Giudizio Universale (quarto pilastro, in primo piano). 1310 circa. Nella pagina accanto particolare dell’Albero di Jesse scolpito su uno degli stipiti del portale maggiore della Cattedrale di Genova. 1225 circa.
di figure, a comporre un coltissimo saggio di storia biblica, i cui innumerevoli personaggi e dettagli narrativi sono di ardua decifrazione per chi non abbia dimestichezza con le Scritture. Proprio l’ampio spazio dedicato alle storie fa la differenza rispetto alla casistica di questa iconografia. L’ideatore dell’insieme, infatti, non ha voluto limitarsi a evocare sulle fasce laterali i singoli profeti – con i consueti ritratti dove esibiscono i loro cartigli –, ma li ha associati alle figure degli apostoli, e ha dato ampio spazio a 16 episodi che riguardano i profeti stessi, evocando momenti della loro vita oppure contenuti delle loro visioni. L’ultima scena rappresenta appunto una profezia, quella della crocifissione di Cristo tra il sole e la luna (in riferimento all’oscuramento del cielo di Amos, 8:9). Il patibolo è composto sull’asse orizzontale da un ramo ricurvo, del quale sono ben evidenziate le bugne lasciate dai rami recisi. Non è dunque legno sagomato ma legno vivo. In questo modo, con un’associazione immediata tra la croce e i viticci dell’apparato, tutta l’impalcatura della decorazione prolunga e amplifica il senso di Cristo come albero della vita, il cui sangue (la cui linfa) purifica l’umanità intera e la guida verso la salvezza eterna.
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Da leggere Emile Mâle, La part de Suger dans la création de l’iconographie du Moyen Age, in Revue de l’Art ancien et moderne, XXXV (1914); anche on line su Gallica.bnf.fr Christine Lapostolle, Albero di Iesse, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Fondazione Treccani, Roma 1991; anche on line su Treccani.it Albert Dietl, La decorazione plastica del battistero e il suo programma, in Chiara Frugoni (a cura di), Benedetto Antelami e il battistero di Parma, Einaudi, Torino 1995; pp. 71-108 Clario di Fabio, La Cattedrale di Genova nel Medioevo. Secoli VI-XIV, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 1998; pp. 164-175 Fulvio Cervini, Tralci di vita e paradisi di marmo. Per una lettura iconografica della facciata, in AA. VV., La facciata del duomo di Orvieto. Teologia in figura, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2002; pp. 40-47
NEL PROSSIMO NUMERO ● L’Albero della Vita
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di Gianna Baucero
Miniatura raffigurante Edoardo I d’Inghilterra, alla cui morte, nel 1307, salí al trono Edoardo II, da un’edizione della Chronicle of England di Peter de Langtoft. 1307-1327 circa. Londra, British Library.
Edoardo II
Il re che morí due volte Fu il primo Inglese a ricevere il titolo di principe del Galles, ma la fortuna del giovane re non durò a lungo. Dopo una breve esistenza segnata da grandi entusiasmi e dolori laceranti – causati dal legame troppo stretto con uno dei suoi favoriti – fu deposto e esiliato. La sua morte avvenne in circostanze misteriose che, dall’Inghilterra, conducono alle porte di una tomba (vuota) in un eremo nascosto dell’Oltrepò Pavese…
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ra il 25 aprile 1284, festa di san Marco, quando nel castello gallese di Caernarfon la regina d’Inghilterra Eleonora di Castiglia diede alla luce il suo ultimogenito, Edoardo, il cui padre era Edoardo I, «il Martello degli Scoti», il re che aveva condannato a morte Braveheart. Per la prima volta nella storia il figlio di un sovrano inglese veniva al mondo in Galles e in futuro l’evento si sarebbe ripetuto solo altre due volte, con la nascita di Enrico V (1386) e di Enrico VII (1457). Sembra che Edoardo I avesse promesso ai Gallesi un principe che non avrebbe parlato inglese, ma
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non possiamo provarlo. Sappiamo invece con certezza che il piccolo lasciò il luogo natale a pochi mesi e vi tornò solo nel 1301 per ricevere, primo Inglese nella storia, il titolo di principe del Galles. Nel 1307, alla morte del padre, il giovane divenne re Edoardo II. Iniziava cosí un regno lungo vent’anni, alla fine dei quali il sovrano sarebbe passato alla storia per un altro, ben piú triste primato: la sua deposizione. Edoardo II, infatti, fu il primo re d’Inghilterra a subire quest’onta e suo figlio fu il primo sovrano inglese a salire al trono mentre suo padre era ancora in vita.
Il regno di Edoardo finí ufficialmente nel 1327, durante la sessione parlamentare che si aprí il 7 gennaio. Le colpe che portarono Edoardo alla deposizione erano quelle di essersi legato in modo eccessivo a diversi favoriti, rendendoli piú potenti dell’aristocrazia dominante. Il legame piú importante (non possiamo dire se fu un’amicizia o Miniatura raffigurante la regina con i suoi soldati, mentre, sullo sfondo, Hugh Despenser il Giovane viene giustiziato, da un’edizione delle Chroniques d’Angleterre di Jean de Wavrin. 1470-1480 circa. Londra, British Library.
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qualcosa di diverso) fu quello con Piers Gaveston, il quale, dopo anni vissuti al fianco del re, fu decapitato nel 1312 dai nemici, invidiosi del suo potere sulla collina di Black Hill, lasciando Edoardo in una devastante disperazione (vedi anche nella seconda parte, alle pp. 89-93).
La regina in fuga
Poi era stato il turno di altri, come Roger Damory e Hugh Audley, ma la situazione era precipitata con Hugh Despenser il Giovane, del quale il re s’era infatuato verso la fine del 1320. Di tutti i favoriti del sovrano, Hugh era il piú pericoloso: crudele, dispotico, bellicoso, invadente, s’inimicò l’intera nobiltà e la stessa regina Isabella, sorella del re di Francia, che nel 1325 si rifugiò dal fratello, dove presto fu raggiunta dal primogenito Edoardo di Windsor. Presso la corte francese Isabella prese a vestirsi a lutto, come se Despenser l’avesse resa vedova, e cominciò a meditare sul suo futuro. Anche se i suoi rapporti epistolari con Edoardo erano rimasti affettuosi, la regina non intendeva tornare in Inghilterra, perché non poteva piú accettare la presenza di Hugh. Tuttavia, tra il 1325 e il 1326, un tale Roger Mortimer si insinuò nella vita di Isabella e da quel momento tutto cambiò. Non sappiamo se i due fossero amanti o se il loro fosse solo un sodalizio politico: dopotutto Mortimer era stato uno dei peggiori nemici di Edoardo, un traditore che era stato rinchiuso nella Torre di Londra, dalla quale era evaso narcotizzando i carcerieri. Certo è che Mortimer in breve conquistò un enorme potere e che tramava per deporre il re. Il 27 settembre 1326 Edoardo II Miniatura raffigurante re Edoardo I che nomina suo figlio, Edoardo di Caernarvon (il futuro Edoardo II), principe di Galles e conte di Chester nel 1301, da un’edizione della Chronica Roffense. Inizi del XIV sec. Londra, British Library.
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Dossier Edoardo e i colleges
Alta formazione Se il mistero sulla morte di Edoardo II continua ad aleggiare intorno a Gloucester, Berkeley, Corfe e Butrio, facendo scrivere e dibattere gli studiosi, meno conosciuto è il suo legame con alcuni prestigiosi colleges di Oxford e Cambridge. Edoardo II, infatti, fu il primo sovrano inglese a fondarli nelle due città universitarie. Nel 1317 creò il King’s Hall di Cambridge, per istruire gli impiegati della Cancelleria Reale. Ospitava trentadue persone, i King’s Scholars, che nel 1336 ottennero dal sovrano una residenza definitiva appartenuta a Robert de Croyland. Vale la pena sottolineare che il King’s Hall fu il secondo college universitario di Cambridge. Il primo era stato Peterhouse, il cui fondatore era il vescovo di Ely. Nel 1546 il King’s Hall fu inglobato nell’attuale Trinity College Cambridge per volere di re Enrico VIII, il quale sentendo avvicinarsi la morte volle riconciliarsi con la Santissima Trinità. Oggi il Trinity è il college piú grande di tutte le strutture universitarie delle due città, Oxford e Cambridge, e ha tra i suoi ex alunni un lungo elenco di Premi Nobel. Il secondo istituto fondato da Edoardo è l’Oriel College di Oxford, uno dei piú antichi della città. Si pensa che sia stato istituito dal re come ex voto, per essersi salvato nella battaglia di Bannockburn, ma è un’ipotesi che non ha ancora trovato conferme. La fondazione risale al 1326. era alla Torre di Londra quando un messaggero gli recò la ferale notizia: tre giorni prima, Isabella, Mortimer e i loro alleati avevano invaso l’Inghilterra con un grosso esercito. Londra sprofondò nel caos. Il re e Despenser fuggirono a ovest, ma gli invasori li inseguirono e il 16 novembre li catturarono. Quel giorno il sovrano e il favorito si videro per l’ultima volta. Despenser fu giustiziato il 24 novembre 1326, alla presenza di Isabella e Mortimer e, poco dopo, alcune delle sue figlie furono chiuse in convento. Il re, invece, fu portato a Kenilworth Miniatura raffigurante Edoardo II, dai Verses on the kings of England to Henry VI. Prima metà del XV sec. Londra, British Library.
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Castle, che all’epoca era una fortezza insespugnabile. Qui Edoardo passò il Natale da solo, forse piangendo e pentendosi dei suoi molti errori, certamente pensando all’amato Piers Gaveston, che non aveva mai dimenticato.
La deposizione
Il Parlamento che aprí la sua seduta nel gennaio del 1327 lo depose, presentando il fatto come un’abdicazione. La deposizione in realtà era stata decisa da Isabella e da Roger Mortimer, che avevano fretta di procedere all’incoronazione del nuovo sovrano. Il 1 febbraio 1327 era una domenica: quel giorno Edoardo di Windsor, figlio del re deposto, fu incoronato Edoardo III in Westminster Abbey. Non aveva ancora quindici anni. Nell’aprile del 1327 Edoardo II, ormai privo della corona e dei suoi titoli, tranne quello di principe di Galles, fu affidato a carcerieri molto vicini a Isabella e Mortimer, agosto
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Le nozze fra Edoardo II e Isabella di Francia, celebrate nel 1308, in un’altra miniatura da un’edizione delle Chroniques d’Angleterre di Jean de Wavrin. 1470-1480 circa. Londra, British Library.
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Lord Thomas Berkeley e Sir John Maltravers, che lo trasferirono da Kenilworth a Berkeley Castle, nel Gloucestershire. La Corona sborsò enormi somme per ripagare i due custodi, e la regina inviava spesso al marito lettere piene d’affetto e doni preziosi, che avrebbero dovuto lenire il dolore della reclusione.
La liberazione mancata
In quel tempo Isabella e Edoardo erano sposati da quasi vent’anni e anche se il re aveva spesso trascurato la moglie per dedicarsi ai favoriti, non è escluso che i coniugi fossero ancora legati da sincero affetto. Tuttavia, mentre Edoardo era prigioniero a Berkeley, sua moglie e Mortimer scialacquavano il denaro della Corona e governavano nel nome del giovane re, che Mortimer presto prese a disprezzare. Frattanto, gli uomini fedeli al sovrano deposto, tra i quali si conta-
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In alto ritratto di Roger Mortimer, primo conte di March e fondatore dell’Ordine della Giarrettiera, dal Pictorial book of arms of the Order of the Garter. Ante 1450. Londra, British Library. A destra stampa ottocentesca nella quale si immagina l’arresto di Roger Mortimer eseguito nel 1330 su ordine di Edoardo III, ormai insofferente dell’autorità esercitata dal nobiluomo.
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In alto i resti del castello di Kenilworth, nel quale Edoardo II venne rinchiuso prima d’essere deposto dal Parlamento, nel 1327. In basso il castello di Berkeley, nel Gloucestershire, dove Edoardo II venne trasferito dopo la deposizione e nel quale morí, in circostanze tuttora oscure, il 21 settembre 1327.
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vano anche numerosi ecclesiastici, organizzarono vari complotti per liberare Edoardo dalla fortezza di Berkeley, ma nessun tentativo andò a buon fine. Uno dei leaders era il domenicano Thomas Dunheved e un altro era Robert Shulton, un Cistercense dell’abbazia di Hailes, nel Gloucestershire. Nonostante tutto, Edoardo rimase purtroppo prigioniero e, a quanto pare, morí a Berkeley il 21 settembre 1327. Entro la fine di quell’anno molti dei cospiratori furono arrestati, ma il re deposto aveva ancora molti amici pronti a difenderne l’onore. Il nuovo sovrano fu informato della morte del padre nella notte tra il 23 e il 24 e di lí a poco la notizia fu comunicata al Parlamento, che attribuí il decesso a cause naturali. I cronisti del tempo fornirono spiegazioni diverse e contrastanti, la piú famosa e inquietante delle quali raccontava che Edoardo fosse stato assassinato mediante un ferro rovente conficcatogli nel corpo attraverso lo sfintere anale. Questa versione sopravvisse ai secoli e tuttora rimane la piú famosa, anche se non è mai stata provata. E qui comincia una fitta serie di interrogativi: Edoardo morí veramente a Berkeley nel 1327? E cosa provocò
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il decesso? Fu omicidio o morte naturale? E cosa ne fu del cadavere?
Con il cuore sul petto
Secondo la tradizione, la salma di Edoardo giacque per un mese nella cappella di Berkeley Castle, vegliata da un solo uomo, William Beaukaire, che forse era francese. Probabilmente Edoardo fu imbalsamato subito dopo il decesso, come in genere accadeva ai sovrani. Il cuore fu espiantato, e Lord Berkeley acquistò un prezioso cofanetto d’argento per riporvi l’organo e offrirlo a Isabella, che nel 1358 fu sepolta con il mantello nuziale e il cuore del marito sul petto. Contrariamente alla tradizione di corte, l’autopsia non fu eseguita dal medico reale, bensí da una donna, la cui identità è rimasta sconosciuta. Sappiamo che nel gennaio del 1328 Isabella la convocò a Worcester, ma non siamo in grado di ricostruire il motivo e il contenuto dell’incontro. Ma chi vide il cadavere a Berkeley? Non lo sappiamo. Certamente non lo videro i congiunti. Le prime visite arrivarono almeno due settimane dopo la morte, ma non vi sono notizie su chi fu ammesso, come se la vicenda dovesse rimanere avvolta dal massimo riserbo. Considerando che le procedure
di imbalsamazione in quel tempo prevedevano la copertura del cadavere con uno strato di cerecloth, cioè di lino impregnato di cera, che copriva anche il viso, non possiamo sapere se chi rese omaggio al defunto fu in grado di riconoscerlo. Finalmente, il 21 ottobre, lo sventurato Edoardo venne traslato alla cattedrale di Gloucester, che all’epoca era St. Peter’s Abbey, e vi restò insepolto per due mesi. Per tutto quel tempo gli rimasero accanto solo pochissimi uomini, tra cui il vescovo di Llandaff, che era il frate domenicano John Eaglescliff. Intorno al catafalco furono poste imponenti transenne di quercia per tenere a distanza i pochi visitatori, i quali non videro il cadavere, ma solo una scultura lignea a grandezza naturale che ne riproduceva le sembianze. Il funerale si svolse il 20 dicembre 1327, a tre mesi dalla morte, secondo una prassi piuttosto normale. Ciò che meraviglia, invece, è l’uso dell’effigie di legno costruita per celare l’identità del morto, perché un simile oggetto non era mai stato usato prima per un funerale reale inglese. Evidentemente si voleva che nessuno potesse vedere il volto del re. Edoardo II era appena stato sepolto quando cominciarono i
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Dossier complotti per liberarlo: si diceva che egli fosse ancora vivo e che la persona sepolta a Gloucester fosse un altro uomo. C’era anche chi si recava sulla sua tomba in pellegrinaggio e chi sperava in un processo di canonizzazione. Il 14 gennaio 1330 l’arcivescovo di York (una città in cui Edoardo II aveva trascorso molto tempo) William Melton scrisse una lettera al sindaco di Londra, Simon Swanland, che era un mercante, chiedendogli di preparare duecento monete d’oro e una grande quantità di indumenti pregiati, adatti a un uomo di corporatura forte: tutto era destinato proprio a Edoardo, che era vivo e si nascondeva in una località segreta.
Tradito dalle lettere
Viene quindi spontaneo pensare che Melton stesse tramando per far fuggire l’ex re oltre la Manica e che per questo fossero necessari denaro, mantelli di pelliccia, stivali e vesti calde per affrontare il mare e i rigori dell’inverno. Il complotto piú famoso tra tutti quelli orditi per liberare il re, però, fu certamente quello del fratellastro Edmondo di Woodstock, conte di Kent e figlio di Edoardo I e Margherita di Francia. A quanto pare il conte sapeva che Edoardo si nascondeva nel castello di Corfe, nel Dorset, ed era pronto a intervenire per liberarlo. Purtroppo fu tradito, arrestato e condannato a morte. Lo decapitarono il 19 marzo 1330 a Winchester, quando non aveva ancora trent’anni. Tra i tanti che tramarono per liberare il re fu l’unico a pagare con la vita. A quanto si racconta, fu scoperto perché aveva affidato alla moglie Margaret Wake alcune lettere segrete per Edoardo, che caddero nelle mani sbagliate e portarono il generoso nobile al patibolo. L’esistenza di complotti che intendevano restituire al re la libertà dimostrerebbe che effettivamente Edoardo non morí a Berkeley nel
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1327, ma altrove e in un altro momento. Nessuno, infatti, tantomeno l’arcivescovo di York, il sindaco di Londra e il conte di Kent, sapendo di rischiare la vita, si sarebbe lasciato coinvolgere in un progetto cosí pericoloso, se non fosse stato certo che il re viveva ancora. E la stessa Corona non avrebbe giustiziato un nobile importante come Edmund, membro della Casa Reale, un figlio del grande «Martello degli Scoti», se la sua colpa fosse stata solo quella di voler liberare un morto. È lecito supporre che il complotto di Kent spaventò a tal punto il regime da indurlo a ricorrere alla decapitazione del cospiratore proprio perché Edoardo era davvero ancora vivo. Del resto, perché Edmund avrebbe dovuto scrivere lettere segrete al fratellastro se non fosse stato sicuro della sua esistenza in vita? Il 1330 continuò a essere un anno sanguinoso: tra ottobre e novembre, Roger Mortimer, l’uomo arrogante e ambizioso che era par-
tito dalla Francia con Isabella per deporre Edoardo, perse tutto il suo potere e fu giustiziato a Tyburn il 29 novembre. Il giovane re, che Mortimer aveva spesso disprezzato, aveva ottenuto la sua vendetta.
I carcerieri impuniti
È curioso, ma nessuno degli incaricati di custodire Edoardo II a Berkeley pagò con la vita la fine del re. Berkeley riuscí a difendersi e i carcerieri Ockley, Gurney e Maltravers fuggirono all’estero. Ockley svaní nel nulla, Gurney morí in Guascogna e Maltravers venne infine perdonato, forse in cambio di scottanti rivelazioni. L’uomo che aveva fatto catturare Edmondo al castello di Corfe, Bogo de Bayouse, fuggí in Francia e morí a Roma nel 1334. Inutile aggiungere che le sparizioni e le assoluzioni dei carcerieri suscitano ulteriori sospetti e proiettano ombre sinistre. Ma allora, che cosa accadde veramente a Berkeley Castle in quel agosto
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In alto la tomba di Edoardo II nella cattedrale di Gloucester (che era all’epoca la St. Peter’s Abbey). A destra la tomba del sovrano in una miniatura tratta da una raccolta di opere del poeta Robert Wace. XIV sec. Londra, British Library.
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Dossier A sinistra la Lettera di Fieschi, cosí chiamata perché scritta alla metà del Trecento dall’ecclesiastico italiano Manuele Fieschi. Montpellier, Archives Departmentales de l’Herault. In basso, sulle due pagine il castello di Corfe, nel quale, secondo la Lettera di Fieschi, Edoardo, che non sarebbe morto a Berkeley, si sarebbe rifugiato per un anno e mezzo.
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lontano settembre del 1327? Probabilmente non lo sapremo mai. Le vere cause della morte non sono mai state scoperte, cosí come nessuna fonte del tempo ha mai raccontato che Edoardo se ne andò da Berkeley ancora vivo. Sappiamo però che alcuni anni piú tardi accaddero fatti sconcertanti. Tra il 1335 e il 1340 vagava per le strade dell’Europa un uomo che sosteneva di essere Edoardo II. La sua presenza era nota, eppure egli non fu catturato, né tantomeno giustiziato. Nel settembre del 1338, inoltre, un certo William le Galeys o le Waleys apparve a Colonia sostenendo di essere l’ex re d’Inghilterra. Da Colonia passò a Coblenza, presso Edoardo III, che in quei giorni era in Germania per incontrare l’imperatore. Il libro contabile del sovrano inglese relativo a quel periodo registra il pagamento di una certa somma proprio a William le Galeys e spiega che il misterioso individuo
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si era presentato come il padre del re in compagnia di un certo Francesco il Lombardo. Alcune settimane piú tardi, quest’ultimo ricevette del denaro dalla corte inglese per essersi preso cura di William le Galeys. Guarda caso, «Le Galeys» significa il Gallese e noi sappiamo che Edoardo nacque in Galles. L’autore del libro contabile del re, William Norwell, non sembra avere dubbi sull’identità del nuovo venuto e non lo presenta come un impostore. Il fatto è sconcertante, perché Norwell conosceva benissimo Edoardo II (per il quale aveva lavorato quattordici anni) e avrebbe smascherato facilmente le Galeys se quest’ultimo fosse stato un impostore. In un’epoca in cui chiunque osasse spacciarsi per un re veniva spietatamente giustiziato (come era accaduto al povero John Powderham nel 1318 e, nel 1301, alla «Falsa Margherita», che soste-
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neva di essere The Maid of Norway, cioè l’erede al trono di Scozia morta durante il viaggio dalla Norvegia a Edimburgo), ci sorprende pensare che Le Galeys non solo non fu condannato a morte, ma ricevette dei soldi, fu amabilmente ospitato dal re d’Inghilterra e trascorse del tempo con lui, forse addirittura su richiesta del sovrano. Non è escluso che le Galeys si sia intrattenuto anche con la regina Filippa, sua nuora, che poco tempo prima, ad Anversa, aveva dato alla luce il piccolo Lionel. Forse le Galeys si era spinto fino a Coblenza per conoscere il nipotino appena nato? Se cosí fosse stato, il fatto ci offrirebbe un ritratto di Edoardo II sorprendentemente umano, quello di un nonno che rischia la vita per andare a incontrare il nipote. E noi sappiamo che per tutta la vita Edoardo antepose sempre la dimensione umana a quella politica e fu deposto proprio perché era troppo
uomo e troppo poco re. Ma allora, perché scelse di presentarsi come William le Galeys? Forse semplicemente per prudenza, forse perché era un nome in codice che solo il figlio avrebbe riconosciuto, o forse perché si chiamavano William due dei suoi piú cari amici, l’arcivescovo di York e l’abate di Langdon. Tra l’altro, in quel tempo esisteva davvero un uomo che si chiamava cosí: era un dipendente della Corona molto vicino alla regina e magari la sua identità fu presa in prestito per rendere piú plausibile la presenza a Coblenza del re deposto. Col tempo i «rumors» sulle sorti del re si placarono, i dubbi svanirono e la vicenda fu accantonata.
La «Lettera di Fieschi»
Per qualche secolo nessuno parve interessarsi al mistero di Edoardo II, sino a che, verso la fine del XIX secolo, un docente universitario francese, il professor Alexandre
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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
Germain, trovò presso gli Archives Departmentales d’Herault a Montpellier la copia di una lettera redatta in latino medievale intorno alla metà del 1300. La lettera era firmata da Manuele Fieschi, un ecclesiastico italiano, membro di un’illustre famiglia nobile genovese, notaio papale e legato alla corte inglese. Molti membri della sua famiglia erano importanti diplomatici internazionali e alcuni di loro avevano rapporti con la Corona d’Inghilterra. Carlo Fieschi, per esempio, era stato uno dei piú stretti consiglieri di Edoardo II. Luca Fieschi incontrò Edoardo di persona e trascorse del tempo con lui a York, quando papa Giovanni XXII lo inviò a negoziare una pace tra Edoardo e Robert Bruce. In quell’occasione Luca viaggiava con il cugino Percivalle, che vide personalmente Edoardo II e ne avrebbe ricordato le sembianze. Lo stesso Manuele possedeva molti
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Sulle due pagine immagini dell’eremo di Sant’Alberto di Butrio (Pavia). In alto, il luogo in cui, secondo una delle molte tradizioni fiorite sulla vita del re, Edoardo II sarebbe stato sepolto prima d’essere traslato a Gloucester; a destra, il giardino dell’eremo.
benefici ecclesiastici in Inghilterra. Nel 1329 divenne canonico alla cattedrale di York, poi a Lincoln e infine fu anche archdeacon a Nottingham e vescovo di Vercelli. Il documento trovato a Montpellier è passato alla storia come «Lettera di Fieschi» e fu presentato al pubblico il 21 settembre
1877. Non si tratta di un falso, sebbene non sia la lettera originale, bensí una copia conservata in un cartulario. Il documento è sconcertante, perché composto per informare Edoardo III che suo padre non morí a Berkeley, ma si salvò grazie a un servo che gli aveva rivelato i piani criminosi destinati agosto
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ad ucciderlo. Fieschi dichiarò di aver scoperto la vicenda durante un incontro con l’ex re, il quale gli aveva confessato di aver ucciso un guardiano di Berkeley Castle e di essere fuggito a Corfe Castle, rimanendovi nascosto per un anno e mezzo. Nel frattempo il guardiano ucciso sarebbe stato stato sepolto a
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Gloucester con una messinscena, in modo che tutti credessero che la cattedrale ospitava proprio la tomba reale di Edoardo II. Successivamente, secondo la Lettera di Fieschi, Edoardo era fuggito in Irlanda, da dove, nove mesi piú tardi, era partito travestito da eremita. Dopo una breve sosta
in Inghilterra, aveva attraversato la Manica e raggiunto Avignone, dov’era stato ricevuto da papa Giovanni XXII, che lo aveva tenuto segretamente con sé per circa quindici giorni. Da Avignone il fuggiasco si era poi spostato a Parigi, nel Brabante, a Colonia e infine nell’Italia del Nord. Qui si era
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Dossier cantate in suffragio dell’ex re. Un altro dettaglio interessante riguarda le visite di Edoardo III alla tomba del padre. Dal 1337 egli non vi fece piú ritorno per cinque anni: tornò il 10 agosto 1342 e anche nel 1343, dopo essersi salvato da un incidente in mare. Negli stessi anni Edoardo III incominciò a prendersi cura del sepolcro paterno nella cattedrale di Gloucester, cosa che prima non aveva mai fatto. Nel 1342 anche Isabella fondò una cappella votiva dedicata all’anima del marito.
Una scelta simbolica
Il pannello nel quale sono illustrati gli elementi secondo i quali, stando alla Lettera di Fieschi, Edoardo II sarebbe morto nell’eremo di Sant’Alberto di Butrio.
fermato per oltre due anni presso l’eremo di Melazzo (o Mulazzo), da dove si era trasferito a Cecima, in un altro eremo, nella diocesi di Pavia. Sulle colline dell’Oltrepò Pavese, nella Val Staffora, in quelle che all’epoca erano le terre dei Malaspina, era rimasto circa due anni, pregando Dio per il figlio e per gli altri peccatori.
La pista italiana
La Lettera di Fieschi, dunque, è molto dettagliata in merito all’itinerario compiuto da Edoardo II, tuttavia non dice nulla sulla fine del re, né rivela se al momento in cui venne redatta l’ex sovrano fosse ancora in vita. Quello che ci colpisce è che a poca distanza dal castello di Cecima, nell’eremo di Sant’Alberto di Butrio, c’è una tomba sulla quale è scritto che lí fu sepolto il sovrano inglese Edoardo II. Edoardo II dunque morí a Butrio? Alcuni studiosi, come Kathryn
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Warner, appaiono affascinati dall’ipotesi e sembrano credere che le cose siano andate proprio cosí. La tomba, tuttavia, è vuota, il che suggerisce che forse Edoardo III, dopo aver ricevuto la Lettera di Fieschi, chiese ai monaci di Butrio la restituzione della salma paterna per seppellirla a Gloucester. Il fatto potrebbe essere avvenuto davvero, poiché il monastero conservò per molti secoli una coppia di candelabri preziosissimi, che potrebbero essere stati il dono di Edoardo III in cambio dei resti paterni. Oggi i due oggetti sono conservati nel Museo di Palazzo Madama a Torino. Ma allora, se il re deposto non morí nel 1327 a Berkeley, quando avvenne il decesso? È impossibile rispondere con una data precisa. Edoardo potrebbe essere morto dopo il 1340. Lo suggerisce il fatto che da tale data la corte presentò molte richieste di preghiere per la sua anima a varie comunità religiose. Nello stesso periodo furono fondate diverse «chantries» per Edoardo II, cioè cappelle votive che dovevano celebrare messe
Ma forse il particolare piú interessante riguarda il titolo di principe di Galles. Edoardo II non se n’era mai separato e non lo aveva conferito al suo primogenito, che a sua volta lo assegnò al figlio proprio nel 1343. In occasione della visita di Edoardo III alla tomba paterna, nel 1337, ci fu una curiosa ricorrenza del numero 31, una scelta quasi simbolica e certamente non priva di significato. Furono distribuiti 31 scellini in beneficenza a 31 Domenicani, 31 Carmelitani e 31 Francescani. Nessuno sa spiegare perché fosse stato voluto proprio quel numero, ma è possibile che la scelta avesse a che fare con il trentunesimo anno da quando Edoardo II era salito al trono. Questo naturalmente non conferma scientificamente le ipotesi sulla sorte del re, ma concorre a rafforzare l’alone di mistero che nel corso dei secoli ha ammantato la vicenda del sovrano. A un certo punto la tomba di Edoardo divenne meta di pellegrinaggi. Forse la gente percepiva qualcosa di strano in quanto era accaduto, o forse provava solo un gran dolore per la scomparsa di quel re cosí fragile, cosí troppo uomo e cosí poco re, che aveva già tanto sofferto durante gli anni della gioventú. Qualcuno pensò addirittura che Edoardo sarebbe stato canonizzato. agosto
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LA TRAGEDIA DI UN SOVRANO SENSIBILE
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uando si parla di Edoardo II è fatale che si ricordi la vicenda umana che lo legò a Piers Gaveston, alla quale si ispirò anche Christopher Marlowe per comporre l’Edoardo II, tragedia rappresentata per la prima volta nel 1592. Dopo un’infanzia e un’adolescenza dorate, malauguratamente, verso i sedici anni, Edoardo incontrò Piers Gaveston, un Guascone che aveva lasciato la terra natale per trasferirsi in Inghilterra, dove era diventato cavaliere del re. Il giovane arrivò in Inghilterra verso la fine del 1200, quando andò a combattere in Scozia per Edoardo I, ma in precedenza aveva già accompagnato il sovrano nelle Fiandre per un’altra spedizione militare. Sulle prime il monarca lo aveva apprezzato, perché Piers sapeva muoversi a corte e negli accampamenti, possedeva buone maniere e forse anche un certo grado di istruzione. Proprio per queste doti, nel 1300, per volere di Edoardo I il giovane passò
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Edoardo II e il suo favorito, Piers Gaveston, olio su tela di Marcus Stone. 1872. Collezione privata.
al servizio del principe del Galles. Cominciò cosí un legame destinato a restare nella storia. Purtroppo, però, divenne ben presto chiaro che Gaveston esercitava sul principe un’influenza eccessiva e che l’amicizia, la «fratellanza», o forse l’amore tra i due giovani era sempre piú preoccupante. Nel 1307 Edoardo I ordinò che Piers lasciasse il Paese e tornasse, da esule, nella sua Guascogna. Si trattava di una decisione piú politica che privata, perché Gaveston, grazie a Edoardo, stava diventando troppo ricco e potente e la sua rapida scalata sociale suscitava lo sdegno e la preoccupazione dei nobili. Il giovane andò dunque in esilio, ma con un’enorme rendita annua, una nave carica di regali preziosi e la certezza di poter rientrare qualora le condizioni fossero mutate.
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Dossier Alcuni dei personaggi del Medioevo inglese raffigurati nel Rous Roll, una cronaca redatta dallo storico e religioso John Rous. 1483-1485. Londra, British Library. Da sinistra: Guy Beauchamp, ai cui piedi giace Piers Gaveston, che da Guy era stato catturato e giustiziato; due ritratti di Thomas Beauchamp, 11° conte di Warwick; Thomas Holland, duca del Surrey; Richard Beauchamp, 13° conte di Warwick.
La condanna, infatti, durò poche settimane, perché il 7 luglio, mentre si accingeva a compiere l’ennesima impresa in Scozia, il re morí. Il 20 luglio 1307, al castello di Carlisle, suo figlio fu incoronato come Edoardo II, re d’Inghilterra e signore d’Irlanda. Era anche principe di Galles, signore di Chester, conte di Ponthieu e Montreuil e duca d’Aquitania. Era figlio del re d’Inghilterra e di una principessa spagnola, discendeva dai Blois e dai re normanni, possedeva terre in Galles, Irlanda e in varie parti dell’attuale Francia e tuttavia sognava una vita normale, un cottage tranquillo, e il suo amico Piers. Non erano presupposti incoraggianti.
Tra i piú ricchi d’Inghilterra
La morte di Edoardo I sparigliava le carte e spalancava le porte al ritorno di Gaveston, che presto fu invitato a tornare. Entro i primi di agosto dello stesso anno, il 1307, era già in Inghilterra e, pochi giorni dopo, si ricongiunse con il nuovo re, che lo aspettava in Scozia. Finalmente libero, Edoardo si affrettò a conferire all’amico il titolo di signore della Cornovaglia. Piers era ormai uno degli uomini piú ricchi d’Inghilterra e, soprattutto, il piú potente tra tutti i membri dell’aristocrazia. Di lí a poco, Edoardo decise di offrirgli la mano di sua sorella Margherita, in modo che il Guascone diventasse un membro della famiglia reale. Le nozze fu-
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rono celebrate il primo giorno di novembre del 1307. Qualche mese dopo, il 23 gennaio 1308, fu Edoardo a sposarsi, ma poiché il matrimonio si sarebbe celebrato in Francia, prima di partire il re affidò a Gaveston il titolo di reggente e l’incarico di governare fino al ritorno della nuova coppia reale. La sposa era Isabella di Francia, figlia di Filippo il Bello e di Giovanna di Navarra. La leggenda narra che dalla Francia lo sposo inviò a Piers i regali di nozze che il suocero aveva gentilmente offerto, e che l’episodio suscitò uno scandalo. In breve il re si trovò circondato da avversari e nel pieno di una crisi politica. Tutti erano contro di lui, tranne l’earl of Lancaster e Hugh Despenser il Vecchio. Il resto del Parlamento pretese che Gaveston fosse di nuovo mandato in esilio. Circondato da intrighi e minacce, il re d’Inghilterra non ebbe scelta e capitolò. Il 18 maggio 1308 accettò di allontanare l’amico per sempre e sottrargli le ricche terre di Cornovaglia. L’arcivescovo di Canterbury, Robert Winchelsey, dichiarò che se Gaveston avesse osato lasciare l’Inghilterra dopo il 25 giugno sarebbe stato scomunicato. Piers e la moglie partirono il 28 giugno 1308, cioè con tre giorni di ritardo rispetto all’ultimatum, e tuttavia il Guascone non fu scomunicato, almeno per il momento. Il problema, ora, era dove mandare i Gaveston. Non c’era un solo posto sicuro sul continenagosto
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te europeo, perciò Edoardo decise di nominare Piers luogotenente d’Irlanda e si recò al porto di Bristol a salutarlo. La partenza sembrò stemperare le tensioni tra il re e la nobiltà ostile a Gaveston e si cominciava a guardare al futuro con ottimismo.
Caccia ai Templari
Qui la storia di Edoardo si intreccia con quella dei Templari, che in Francia, il 13 ottobre del 1307, Filippo IV aveva ordinato di arrestare. Edoardo II non aveva voluto imitarlo e infatti inizialmente in Inghilterra i Cavalieri del Tempio non furono perseguitati. In dicembre, tuttavia, papa Clemente V emanò una bolla che ordinava a tutti i sovrani cristiani d’Europa di arrestare i membri dell’Ordine e confiscare le loro terre. A quel punto Edoardo non poté piú sottrarsi ai suoi doveri e, nel gennaio 1308, ordinò l’arresto dei Templari in tutto il suo reame, anche se pretese che fossero rispettati. Se Piers non fosse stato in esilio e non avesse corso il rischio di essere scomunicato, forse Edoardo non avrebbe eseguito l’ordine del papa. Ma Piers era lontano e il re voleva proteggerlo, cosí non ebbe altra scelta che cedere e schierarsi contro i Cavalieri del Tempio, sia pure facendo tutto il possibile per proteggerli. L’anno seguente il sovrano mandò presso la sede pontificia di Avignone due emissari incaricati di pe-
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rorare la causa di Gaveston, e Clemente V annullò la minaccia di scomunica. Il re stava per compiere venticinque anni e non avrebbe potuto ricevere regalo piú bello. Al colmo della gioia, incapace di trattenere l’eccitazione, il 9 giugno diramò la notizia e ricominciò a sognare. La gioia del momento, infatti, era solo il preludio a un’emozione piú intensa. In breve decise di affondare il colpo e, nonostante il parere contrario dei nobili, invitò l’amato «fratello» a tornare. Dopo un anno di lontananza, il 27 giugno 1309 Edoardo e Gaveston poterono riabbracciarsi. Presto fu chiaro che Piers non era affatto cambiato: la sua smania di potere era sempre la stessa e la sua arroganza lo portava a insultare i nobili, persino quando erano parenti della famiglia reale. Il re era del tutto incapace di imporsi: gli perdonava tutto e continuava a coprirlo di regali, privilegi e immensi onori. E anche quando Gaveston lo metteva in difficoltà, Edoardo continuava a sorridere. Il tempo avrebbe presto cancellato quei sorrisi, gettandogli in faccia un’amara realtà. Nel marzo del 1310 Edoardo fu messo con le spalle al muro. I nobili lo costrinsero ad accettare l’elezione di venticinque Ordainers, cioè degli «agenti speciali» che avrebbero riformato il regno e la corte di Sua Maestà senza subire l’interferenza del sovrano. Edoardo reagí partendo per una fallimentare campagna in Sco-
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Dossier zia, dopo la quale gli Ordainers gli presentarono un programma di riforme costituito da quaranta articoli, dette Ordinances, il cui scopo era ridimensionare drasticamente i poteri del sovrano. Di lí a qualche mese, il 2 o il 3 novembre, Piers partí per un altro esilio, il terzo, che rimane avvolto nel mistero e si concluse nel mese di gennaio: Piers e il re si incontrarono a Knaresborough e subito si trasferirono a York, dove intorno al 12 gennaio 1312 era nata la figlia di Gaveston, che era stata chiamata Joan, come la nonna materna. Il 16 gennaio il re dichiarò che le Ordinances non erano valide, il 18 annunciò che Piers era tornato, e, infine, ordinò che gli Ordainers restituissero a Gaveston tutto ciò che gli avevano sottratto al momento della partenza. Il signore di Lancaster intimò al sovrano di arrendersi e a Gaveston di riprendere la via dell’esilio, ma il re rispose fortificando una decina di castelli e radunando a York cavalli, armi, soldati e altre risorse che avrebbe usato in caso di guerra civile. Nel tentativo di accaparrarsi un aiuto prezioso, forse Edoardo giunse persino a trattare con Robert Bruce, promettendogli di riconoL’attore inglese Ernest Frederic Graham Thesiger nei panni di Piers Gaveston in una messa in scena dell’Edoardo II di Christopher Marlowe. 1923.
scerlo come legittimo re di Scozia, se Bruce avesse fornito aiuto e protezione a Piers. Ancora una volta il re sottovalutava il pericolo. Nei giorni che seguirono, infatti, gli Ordainers formularono un piano per catturare Piers e l’arcivescovo di Canterbury ufficializzò la sentenza di scomunica contro il favorito. In aprile i due «fratelli» si trasferirono a Newcastle e vi rimasero fino ai primi di maggio. Avevano nemici dappertutto e si muovevano senza una strategia precisa, come falene impazzite ormai prive di speranza. Il 4 maggio un enorme esercito entrò in Newcastle deciso a stanarli, ma essi riuscirono a fuggire via mare da Tynemouth, diretti al castello di Scarborough. Le due località non sono lontane, eppure la navigazione durò cinque interminabili giorni a causa del mare in burrasca. Quando ebbero toccato terra, Piers fu lasciato a guardia del maniero. Ma i nobili lo volevano morto e, il 19 maggio, lo catturarono e lo affidarono a Pembroke, che lo portò con sé a Deddington. Lí il favorito fu prelevato dal signore di Warwick, trasferito a Blacklow Hill e infine decapitato. Morí il 19 giugno 1312. Il cadavere fu abbandonato in un prato, in balia dei corvi, tra gli escrementi delle pecore e l’erba intrisa di sangue, fino a quando fu trovato da alcuni frati domenicani, che forse erano stati inviati dal re, il quale era molto legato a quell’Ordine. Essi portarono il morto alla loro abbazia, a Oxford, e lí lo ricomposero e lo imbalsamarono. Un attento esame del cadavere in seguito rivelò la presenza di un enorme rubino incastonato in una montatura d’oro, uno smeraldo, un diamante e altri preziosi. Il grande rubino, rosso come il sangue, rosso come l’amore, era stato un dono di Edoardo. Valeva oltre mille sterline, anche se non c’è prezzo per il dono di un amico o di un amore, soprattutto quando è quello di un re per il suo sogno impossibile. Al momento della morte il favorito aveva circa trent’anni. Era sposato da quasi cinque anni con la nipote del re, aveva una bimba legittima di pochi mesi e una illegittima di poco piú grande.
Un capro espiatorio
Molti pensano che Piers abbia pagato con la vita la sua strana storia con Edoardo. In realtà egli non fu giustiziato per la sua amicizia con il re, o per assurdi pregiudizi, o, ancora, per il suo stile di vita. Fu, piuttosto, il capro espiatorio dei fallimenti del re e morí perché i nobili temevano il suo potere e la sua influenza. Paradossalmente, colui che lo amava tanto fece di lui un pericolo e un nemico: se Edoardo non avesse ostentato quell’amicizia, non avesse ricoperto Piers di titoli e potere, non avesse fatto di lui un pavone invidiato da tutti forse lo avrebbe salvato. Ma Edoardo non era nato con la stoffa del
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re o del soldato: era troppo uomo e troppo poco re, si lasciava trasportare dai sogni, dai desideri, dalle passioni, dalla voglia di essere semplicemente Edoardo e non il sovrano di un reame difficile e pericolosamente complicato. Era, in fondo, come egli stesso amava definirsi, il re di Borgoyne, non il re d’Inghilterra, cioè il re del buen retiro che si era fatto costruire vicino a Westminster. Essendo morto scomunicato, Piers non potè essere seppellito in terra consacrata e dovette attendere a lungo prima di trovare una degna sepoltura. Il funerale ebbe luogo due anni e mezzo dopo il decesso, nel gennaio del 1315. Forse il re non voleva accettare l’idea di tumulare il suo adorato amico e preferiva lasciarlo insepolto nella disperata illusione che un giorno potesse svegliarsi e tornare da lui. Alla fine, tuttavia, il corpo fu seppellito alla Langley Priory, che il re aveva fondato nel 1308. Ciò significa che negli anni successivi alla morte la sentenza di scomunica era stata annullata dal papa, anche se non disponiamo di notizie precise in proposito. Se era stato generoso quando Piers era vivo, Edoardo fu addirittura eccessivo quando fu ora di accompagnare il «fratello» alla sua ultima dimora. Dal 1312 e sino al momento del funerale pagò profumatamente due uomini fidati affinché custodissero il defunto e volle che intorno al cadavere non mancasse mai la luce amichevole di tante candele. I funerali furono un evento di Stato, al quale parteciparono i potenti del regno, come la regina Isabella, l’arcivescovo di Canterbury, quattro vescovi, il Lord Mayor di Londra, molti cavalieri, abati, padri domenicani e notabili. Per il tempo che gli rimase da vivere la massima preoccupazione di Edoardo fu venerare il nome e la tomba dell’amato «fratello» ma, per ironia della sorte, con la devastazione dei monasteri imposta da Enrico VIII nel XVI secolo il sepolcro di Piers andò perduto. Dopo la morte di Piers, la vita di Edoardo II non fu piú la stessa e, purtroppo, fu tutta un susseguirsi di errori. Nel giugno del 1314 il re riportò la disastrosa sconfitta di Bannockburn, in Scozia, che resta uno dei capitoli piú tristi della storia inglese. Ma, soprattutto, il fragile re si legò a doppio filo ad altri favoriti, Roger Damory, Hugh Audley, William Montacute e Hugh Despenser the Younger, pur sapendo che le sue scelte lo avrebbero di nuovo portato a un’insanabile frattura con la nobiltà. A nulla valsero la presenza costante di Isabella al suo fianco e la nascita dei figli, Edoardo di Windsor, John of Eltham, Eleanor of Woodstock e Joan of the Tower. Malauguratamente, Edoardo non seppe far tesoro dei suoi sbagli e, anzi, ne avrebbe commessi di peggiori, che alla fine lo avrebbero distrutto.
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Carinola (Caserta), castello. Fronte nord del corpo di fabbrica superstite: si notino il possente mastio e i resti dell’ampia volta a crociera.
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Nella Pompei del
Quattrocento Il borgo campano di Carinola, nell’antica Terra di Lavoro, visse tra Medioevo e Rinascimento una significativa espansione urbanistica. Della quale sono oggi testimonianza pregevoli edifici civili e religiosi, nonché l’assetto stesso dell’abitato di Francesco Miraglia e Corrado Valente
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opo aver già presentato alcuni dei suoi monumenti piú importanti (vedi «Medioevo» n. 264 gennaio 2019; anche on line su issuu. com), torniamo a occuparci piú diffusamente di Carinola (Caserta), borgo della Campania settentrionale compreso nell’antica Terra Laboris e definito da Adolfo Venturi (1856-1941), insigne storico dell’arte, la «Pompei del Quattrocento», per le numerose strutture riferibili all’architettura catalana. Quest’ultima, tuttavia, rappresenta solo il periodo di maggiore concentrazione di specifici interessi politici da parte dei feudatari del tempo, in primo luogo la potente famiglia Marzano (vedi box a p. 98), seguita da quella del segretario di corte Antonello Petrucci (vedi box alle pp. 100-101). Lo sviluppo del centro storico di Carinola si può suddividere in quattro fasi. La prima (secoli VI-X) ci mostra il nucleo antico: un insediamento paleocristiano del quale permangono un portico (nel tempo trasformato) e un sacello, urbanizzato in epoca longobarda. Al volgere dell’XI secolo fu realizzata la bella cattedrale di origine romanica. La seconda fase (secoli XI-XII) mostra una prima espansione sul versante sud del borgo, con la realizzazione anche della primigenia porzione delle mura, che giunse a compimento solo
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nel XV secolo. Le uniche aree non irrobustite da opere di difesa, però, sono proprio quelle situate a sud: si dovette evidentemente ritenere che questo settore dell’abitato fosse già naturalmente protetto dalla morfologia dell’ambiente circostante e dalla presenza di corsi d’acqua. L’espansione urbana piú significativa si colloca nella terza fase (secoli XIII-XV): è caratterizzata dall’occupazione angioino-aragonese e interessa il settore settentrionale, con la realizzazione di edifici in stile catalano, del castello e l’ampliamento del circuito murario. La quarta fase si può infine riferire a interventi preunitari, consistenti per lo piú nello sventramento del tessuto storicizzato in corrispondenza del versante est, per realizzare il corso Umberto I e la piazza. La forma urbis di Carinola – nelle cui mura si aprono tre porte nei pressi delle strutture poste a nord-est (sedile, castello e Annunziata) e una a sud (porta di S. Andrea) – è «a spina», con la centrale via Roma e piccole strade che la intersecano seguendo il declivio naturale dell’insediamento. È un impianto a «sviluppo lineare», con abitazioni disposte in serie parallele e allineate secondo la direzione nord-sud. La casa a corte rappresenta una tipologia molto diffusa, negli episodi piú importanti come in quelli con for-
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Le stratificazioni urbane
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Nucleo antico (VI-X sec.) Espansione (XI-XII sec.) Espansione angioino-aragonese (XIII-XV sec.)
Via
un Ann
ziat
a
Interventi preunitari (seconda metà del XIX sec.)
a
om
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Piazza Vescovado Piazza Municipio
Piazza Castello
A sinistra veduta panoramica del borgo di Carinola, il cui assetto urbano odierno conserva tracce delle sistemazioni precedenti. A destra, nel tondo Carinola vista in prospettiva dal vedutista e cartografo spagnolo Francesco Cassiano de Silva, dal Regno Napolitano Anotomizzato. 1705. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.
MOLISE LAZIO
PUGLIA
Roccamonfina
Carinola Caserta
Benevento CAMPANIA
Napoli
Avellino
Procida Golfo di Ischia Napoli Sorrento Capri
Salerno Amalfi
BASILICATA Eboli
Mar Tirreno Palinuro
MEDIOEVO
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me semplici. Edifici a prima vista anonimi o rimaneggiati conservano spesso al loro interno elementi storicizzati o intere porzioni murarie di significativo interesse, tuttora visibili. Nelle fabbriche piú complesse, oltre alla corte, si ritrova il giardino, in genere poco esteso, contenuto nell’area di pertinenza del manufatto e talvolta circondato da ulteriori ambienti plurifamiliari, adibiti a funzioni diverse, come quella di deposito o di stalla.
Una forma insolita
Il castello di Carinola vanta una storia plurisecolare: oggi si presenta come rudere imponente, con le porzioni superstiti che, purtroppo, sono a serio rischio di crollo. La struttura del fortilizio medievale si articola su due livelli, il muro della sala di rappresentanza e l’attiguo mastio, in gran parte conservato. Prima della quasi completa distruzione, avvenuta al volgere del
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medioevo nascosto campania Marino Marzano
Sotto l’egida di Alfonso Molto influenti durante il regno di Roberto d’Angiò, i Marzano consolidarono il loro potere alla fine del Trecento, sotto Ladislao di Durazzo. Fu Giacomo, conte di Squillace e grande ammiraglio, ad acquistare da Giovanna I d’Angiò, regina di Sicilia, il feudo di Sessa Aurunca, divenendone duca. La fedeltà dei Marzano alla casa di Durazzo fu sempre ripagata e la loro potenza non fu sottovalutata da Alfonso I d’Aragona dopo la presa del regno di Napoli. Il legame tra la corona aragonese e i duchi di Sessa fu sancito, nel 1444, dal matrimonio di Marino, figlio di Giovanni Antonio, con Eleonora, figlia naturale del Magnanimo. Oltre al ducato di Sessa, Marino ebbe come dono materno il principato di Rossano Calabro e la contea di Montalto; come dono paterno, inoltre, il ducato di Squillace. I possedimenti feudali furono confermati da re Alfonso. Marino poté anche disporre delle maestranze catalane fatte giungere a Napoli dal sovrano aragonese. Alla morte di Alfonso, a nulla valsero i numerosi benefici giunti dopo il matrimonio: i rapporti tra Marino e il cognato Ferrante (nuovo re e figlio naturale di Alfonso) si inasprirono, fino a costare al primo la prigionia nel 1464, nelle carceri del Castel Nuovo insieme al figlio Giovan Battista. I suoi feudi furono confiscati, compreso quello di Carinola. Marino rimase rinchiuso nel castello napoletano fino alla morte di Ferrante. Nel 1494 venne trasferito a Ischia insieme ad altri prigionieri e ucciso – secondo alcuni – con un colpo di mazza sulla testa. Secondo altri, sarebbe stato segretamente giustiziato già nel 1464. secondo conflitto mondiale, si sviluppava intorno a un poderoso corpo centrale e aveva una forma pressoché triangolare, piuttosto rara nel territorio. In occasione dello sventramento operato nella seconda metà del XIX secolo, una sua porzione, in corrispondenza della fronte ovest, venne abbattuta per allargare l’arteria di collegamento che attraversava longitudinalmente gran parte del borgo in direzione nord-sud, per cambiare rotta verso est, sino a costeggiare l’area della cattedrale e raccordarsi con una delle strade che conducevano all’esterno. Sino agli anni Trenta del Novecento, il castello si presentava come un poderoso edificio residenziale, su due livelli fuori terra e con una scala esterna a ovest, che per il «passamano» e i gradini pensili ricordava la scala d’accesso alla «Gran Sala» di Castel Nuovo a Napoli, in seguito tristemente famosa come «Sala dei Baroni» (in quanto nel 1486 vi furono arrestati i baroni che avevano partecipato alla congiura contro Ferrante I d’Aragona, invitati dallo stesso re per festeggiare le nozze di sua nipote con il figlio del conte di Sarno, n.d.r.). Come accennato, è tuttora in-
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PRIMA FASE (XIII SEC.)
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SECONDA FASE (XIV SEC.)
TERZA FASE (PRIMA METÀ DEL XV SEC.) 3
A
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Nascita e sviluppo del castello Prima fase, XIII sec. Costruzione del mastio su preesistenza e sopraelevazione del tratto nord-est delle mura urbane. Seconda fase, XIV sec. Realizzazione del corpo di fabbrica a sud-ovest, addossato al secondo e al terzo livello del mastio, in parte costituente sopraelevazione delle mura urbane. Terza fase, prima metà del XV sec. Realizzazione di un’ampia sala a nord, coperta con volte a crociera ogivale (A) e di una sovrapposta (B), di una scala esterna e di ambienti di servizio al primo piano. Quarta fase, seconda metà del XV sec. Realizzazione di una volta a botte a sesto acuto (A) e ricostruzione della sala del livello superiore (B).
QUARTA FASE (SECONDA METÀ DEL XV SEC.) 4
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In alto, sulle due pagine la fronte sud del corpo di fabbrica superstite del castello. A sinistra scorcio a volo d’uccello da settentrione del castello e della vicina chiesa dell’Annunziata, posta lungo l’omonima via.
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medioevo nascosto campania A destra l’abitato visto da settentrione. In evidenza, la cattedrale e il palazzo Petrucci. All’orizzonte, al di là della fertile piana nota sin dall’antichità come Campania Felix, si riconosce l’isola d’Ischia. In basso palazzo Petrucci (oggi Novelli). Il portale in stile catalano, ad arco ribassato inquadrato in una cornice rettangolare.
tegro, sebbene molto degradato, il possente mastio quadrangolare su tre livelli, che svetta sull’antica porta dell’Annunziata, presidiando il salto di quota che ricorda la presenza di un fossato difensivo. Le scarse e lacunose notizie ascrivono la fondazione del fortilizio al periodo normanno, suffragata però dalla sola forma quadrangolare del mastio, peraltro non esclusiva di quella tradizione architettonica; oltretutto, come riferisce piú di una fonte, esso è stato ampiamente ristrutturato in epoche successive. Si deve inoltre se-
antonello petrucci
Chi troppo in alto sale... Nato in un’umile famiglia di agricoltori di Teano, Antonello de Petrucis iniziò la sua lunga ascesa lavorando al servizio di importanti notai del regno e sposando la nobile Elisabetta Vassallo, dalla quale ebbe otto figli. Il suo particolare ingegno gli consentí di ottenere la benevolenza di uno dei segretari di Alfonso d’Aragona, Joan Olzina. Cosí, fu introdotto e conosciuto all’interno della corte, fino a ricevere la nomina di segretario e amministratore regio con Ferrante I. La carriera di Antonello Petrucci fu in continua ascesa, con l’assegnazione di svariati incarichi: fu uomo influente e ricco. Ebbe in dono e acquistò diversi feudi. Nel 1482
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gnalare che quello di Carinola non era compreso tra i castelli campani di pertinenza del demanio svevo.
Al tempo di Carlo d’Angiò
Interventi di riparazione del castrum di Carinola, condotti anche su quelli di Alife e Mondragone, sono attestati nel 1272, per volere di Carlo I d’Angiò, come si evince dai registri della Cancelleria angioina. Ciò rende plausibile che i lavori si riferissero anche al castello, riguardando forse la realizzazione del mastio,
al di sopra di un basamento di epoca anteriore, soltanto questo di impianto normanno. Un riferimento piú preciso al suddetto mastio è rinvenibile nel diario del pellegrinaggio in Oriente del notaio Nicola De Martoni (tradotto e dato alle stampe dal noto archeologo francescano carinolese padre Michele Piccirillo), che partí nel 1394 da Carinola per arrivare a Gerusalemme, facendo ritorno a casa un anno piú tardi. Nel corso del viaggio, giunto a Fanari, nei pressi di Corfú, un maniero colpí la sua attenzione: annotò
Palazzo Petrucci (oggi Novelli). Scorcio della facciata che dà su piazza Vescovado.
comprò la contea di Carinola scorporata dal feudo, un tempo dei Marzano, di Sessa Aurunca. La sua potenza, però, lo pose nel mirino degli avversari di Ferrante I e gli inimicò alcuni signori legati al sovrano e al suo erede Alfonso II. Tra i piú pericolosi, Diomede Carafa (il piú potente signore al tempo degli Aragonesi), che iniziò una campagna diffamatoria nei suoi confronti, sino a influenzare negativamente anche Alfonso II, che affiancava l’anziano Ferrante. La crescente sfiducia del re nei confronti del segretario portò questi a cercare nuove alleanze per garantirsi la vita. L’appoggio suo e dei figli Francesco e Giovanni Antonio ai baroni che si
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ribellarono al sovrano aragonese, dando vita alla congiura del 1485, ne causò il triste epilogo. Nel 1486, nonostante gli sforzi per ottenere nuovamente la fiducia del sovrano tradito, all’indomani della guerra contro papa Innocenzo VIII, Antonello e gli altri baroni furono arrestati in occasione di un matrimonio perorato dallo stesso segretario. Identica sorte toccò alla moglie e ai due potenti figli. I beni della famiglia Petrucci furono confiscati e, nel 1487, Antonello venne decapitato. Sei mesi piú tardi, anche i due figli furono giustiziati e, in particolare Francesco, conte di Carinola, venne definito dal re come «el pegio de tuti».
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medioevo nascosto campania che esso si trovava su una montagna e che era alto tre volte la torre del castello di Carinola, dimostrando la piena attività di quest’ultimo nella tarda fase angioina. Nella seconda metà del Quattrocento, il castello fu impreziosito di membrature catalane e ristrutturato per le nuove esigenze difensive, come avvenne diffusamente nel regno di Napoli. Gli interventi, infatti, si sovrapposero a tutte le strutture considerate strategiche. Una testimonianza del suo valore difensivo, che investe Francesco Petrucci, figlio di Antonello e conte di Carinola, è riportata da Camillo Porzio ne La Congiura de’ Baroni del Regno di Napoli contra il re Ferdinando I: lo studioso narra che Petrucci, dopo un soggiorno effettuato presso la corte napoletana per annusare il clima politico, preoccupato di incorrere nelle ire del sovrano che si preparava a tradire, tornò sollecitamente a Carinola, asserragliandosi proprio nel fortilizio. Al volgere del XVII secolo, inoltre, descrivono il castello due tavolari, i regi ingegneri Antonio Galluccio e Lorenzo Ruggiano, incaricati di stimare il feudo carinolese. Ancora, tra il 1801 e il 1850, la struttura fu oggetto di rilievi a colori, noti come «minute di campagna», rinvenuti negli archivi dell’Istituto Geografico Militare e raffiguranti una porzione della Carta del Reame di Napoli. I grafici furono considerati inutilizzabili, perché inesatti, ma fanno emergere particolari interessanti e propongono una rappresentazione del castello leggermente diversa rispetto alle mappe dei decenni successivi, culminate nel catasto d’impianto. Esso è raffigurato di forma triangolare, con ingresso sulla fronte ovest e una pianta che, in linea di massima, richiama quella reale; rispetto alle rappresentazioni piú tarde, differisce il rapporto tra pieni e vuoti, qui enfatizzato sulle fronti sud e nord. Sulla prima, infatti, si evidenzia una sorta di belvedere, non piú esistente. Sulla fronte est, invece, il castello era protetto dal fossato, dominato
dal mastio. Su questo lato era posto anche uno degli ingressi alla cittadella piú importanti dal punto di vista strategico, al quale si perveniva dalle antiche vie per Capua e per Sessa. A nord, invece, le «minute» segnalano una figura geometrica – un esagono – al culmine della struttura: con tutta evidenza è l’iniziale costruzione grafica di un bastione poligonale, riferibile all’età moderna. La sua presenza è confermata da una foto aerea degli anni Quaranta del Novecento, anch’essa dell’Istituto Geografico Militare.
Un’improvvida riconversione
Agli inizi degli anni Trenta del Novecento, la struttura castellare fu acquistata dal Comune di Carinola, anche grazie alla segnalazione dell’architetto Gino Chierici, alla guida della Regia Soprintendenza all’Arte Medioevale e Moderna della Campania. Alla speranza di definirne una funzione degna delle sue caratterizzazioni, si sostituí ben presto la discutibile necessità di utilizzarlo per ospitare funzioni produttive, destinandolo a canapificio. La sua storia recente culmina con le già segnalate deprecabili condizioni di conservazione. Anche per il castello si possono individuare diverse fasi costruttive, in un arco temporale compreso tra i secoli XIII e XV. La prima (XIII secolo) è riferibile al mastio, il cui paramento esterno è costituito da filari di conci squadrati di tufo grigio, al muro della fronte est del fortilizio – apparecchiato con ricorsi orizzontali periodici, nel territorio in analisi denominati «cantieri» – e a quello posto a sud, limitatamente al primo livello, coperto da una fodera di conci di tufo grigio realizzata in tempi recenti. L’interno del mastio, posto al secondo livello, è coperto da una volta a crociera a sesto ogivale. Un’analoga volta ne copre anche il primo livello: è probabile che il suddetto vano accogliesse una cisterna. Sempre all’interno del mastio, dall’a-
Tecnica costruttiva
Le murature «a cantieri» La denominazione «a cantieri» di un apparecchio murario deriva dal fatto che l’apprestamento di una partita muraria corrispondeva generalmente a un’unità lavorativa giornaliera nel cantiere dei lavori. Una volta terminata la bancata, il giorno successivo si partiva da questa, dopo aver assicurato un ulteriore allettamento di malta per la regolare
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posa delle pietre, spesso irregolari, cosí da realizzare la successiva. Queste murature presentano i costituenti di maggior volume in corrispondenza delle parti inferiori della fabbrica; man mano che si procede verso l’alto, mostrano elementi piú piccoli. Gli interstizi vengono colmati utilizzando materiali piú piccoli, come zeppe o asche, ricavati dallo sfrido di quelli piú grandi.
L’altezza dei «cantieri» dipendeva dalla predisposizione delle buche pontaie, dalle dimensioni dei blocchi dei cantonali, spesso intagliati a spigolo vivo, e dalla forma, dimensione e collocazione dei costituenti lapidei. La definizione degli apparecchi murari «a cantieri» origina dagli studi di Ernesto Burattini, Giuseppe Fiengo e Luigi Guerriero. agosto
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Palazzo Marzano, scorcio del livello superiore della loggia quattrocentesca; in evidenza, sulla sinistra, il suggestivo portale coronato da un arco inflesso bicuspidato, simile a quello che introduce al palazzo Antignano a Capua, oggi sede del Museo Provinciale Campano.
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medioevo nascosto campania Il campanile della cattedrale. XVII sec.
fabbrica addossato alla fronte sud-ovest del mastio. In particolare, il muro sul lato nord dello stesso è organizzato, per quanto riguarda il paramento esterno, in ricorsi orizzontali di pietre spaccate. Peraltro, esso mostra la traccia di un’apertura, della quale si riconosce ancora parte dell’originaria cornice a sesto leggermente acuto, con ghiera in conci di tufo grigio, murata per innestarvi un grande arco a ogiva, oggi diruto, parte integrante di una volta a crociera non piú esistente. La terza fase (prima metà del XV secolo) informa della realizzazione dell’ambiente nord-est. Si tratta di una lunga sala, pressoché distrutta durante gli ultimi eventi bellici, con tracce visibili di quattro volte a crociera a sesto acuto, delle quali permangono i peducci del lato est, e di un altro ambiente sovrapposto, della stessa estensione, probabilmente coperto con capriate. Un’ulteriore fase (seconda metà del XV secolo) si può individuare nella realizzazione di una lunga copertura a botte a sesto ogivale lungo l’intera sala nord, sulla fascia muraria delle fronti est e ovest (quest’ultima non piú esistente), che precedentemente ospitavano le quattro volte a crociera, anch’essa crollata. Con buona probabilità, la realizzazione della copertura a botte, la cui imposta è ancora individuabile sulla fronte est, attestata a 2,40 m circa e testimoniata dai resti degli aggetti del muro, si rese necessaria per sostituire le crociere ormai danneggiate, verosimilmente, dal violento terremoto che nel 1456 colpí la Campania e le regioni circostanti.
Il patrimonio civile e religioso
nalisi di un’apertura della fronte nord si comprende che i costituenti filari visibili sul paramento esterno e i «cantieri» con i quali è apprestato il muro (vedi box a p. 102), hanno la stessa altezza (mediamente 40 cm, corrispondenti a 1,5 palmi napoletani): sono dunque il risultato di un unico programma costruttivo. Un agevole parallelo può essere effettuato con i conci di tufo grigio del Castel Nuovo di Napoli, riferibili a documentate intraprese costruttive del XIII secolo. La seconda fase (XIV secolo) riguarda il corpo di
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Il centro storico di Carinola offre anche un discreto numero di edifici sacri e civili, di proprietà ecclesiastica o pubblica. A est, lungo il tratto dell’antico fossato, al termine di via Annunziata, addossata alla seconda cinta muraria quattrocentesca, si trova l’omonima chiesa, alla quale era un tempo annesso un ospedale. L’edificio sacro è riconducibile all’esperienza costruttiva trequattrocentesca e mostra una facciata semplice, priva di timpano, sovrastata da un oculo strombato. L’interno, preceduto da un portale in tufo finemente lavorato, presenta un impianto ad aula, culminante in una piccola abside quadrangolare, coperta con una volta a crociera ogivale. Annessa è la sagrestia: un ambiente minuto, anch’esso voltato a crociera, con un ulteriore spazio, molto contenuto, coperto da una volta a botte. A sinistra della navata si trova la cappella della Congregazione dell’Immacolata, scandita da due campate e coperta con un tetto su capriate lignee. In corrispondenza della porzione est del piccolo edificio sacro si staglia un campanile, con buona probabilità risalente al XVI secolo, realizzato per volere del principe di Stigliano Luigi Carafa e rimaneggiato nel tempo, in particolare nella parte terminale: presenta una cupoletta maiolicata a bulbo che risale probabilmente al XVIII secolo. agosto
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A sinistra arca di epoca romana utilizzata per custodire le spoglie mortali di san Bernardo e collocata nella cattedrale. In basso particolare del clipeo centrale della volta a crociera absidale (che raffigura il volto di Cristo) della chiesa dell’Annunziata.
Risalendo verso ovest, si scorge l’antico sedile (il luogo deputato alle riunioni dei maggiorenti locali, n.d.r.), da tempo trasformato in un’abitazione, con l’ingresso originario – sormontato da una significativa arcata ogivale ancora visibile – murato. Tornando verso il castello, poco lontano da esso, in direzione sud-ovest si trova il palazzo Marzano verosimilmente attribuibile a epigoni di Guillermo Sagrera, il maestro maiorchino che ideò la volta stellare di Castel Nuovo. La presenza a Carinola di artefici catalani fu favorita da Marino Marzano, che si fece costruire il piccolo edificio per le visite della corte (vedi «Medioevo» n. 281, giugno 2020; anche on line su issuu.com). A poche decine di metri, nella piazza centrale sono visibili il palazzo Petrucci e la cattedrale. Il primo è una struttura un tempo residenziale, che oggi ospita funzioni pubbliche a seguito di un intervento di restauro condotto nei primi anni Duemila. Un tempo proprietà di Antonello Petrucci, il palazzo è frutto di stratificazioni che datano perlomeno al XII secolo, pervenendo al XV, periodo della sua complessiva ristrutturazione a opera del potente uomo politico. Acquisito nel XIX secolo dalla famiglia Novelli, l’edificio, in taluni riferimenti storico-locali, riporta la propria denominazione riferita solo a quest’ultima genía. Come nel caso del palazzo Marzano, ci si trova dinanzi a una struttura che offre, al centro degli spazi abitativi, la corte, con una scala per l’accesso agli ambienti superiori, che disvela un interessante loggiato. La cattedrale è una fabbrica religiosa annoverata tra
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gli esempi piú interessanti dell’architettura romanica campana. Il suo impianto originario, scandito da tre navate, fu realizzato al volgere dell’XI secolo su impulso del vescovo Bernardo, in un’area sacra nella quale era già presente un sacello paleocristiano. Il presule vi si trasferí, lasciando la vicina cattedra di Foro Claudio, sita nell’attuale frazione di Ventaroli, che ancora ospita una basilica paleocristiana ridefinita in epoca medievale (vedi «Medioevo» n. 278, marzo 2020; anche on line su issuu.com). Poco dopo la sua morte, la cattedrale fu ampliata. Riferibile a questo periodo è anche la facciata con portale architravato sormontato da un arco a tutto sesto. A sud della navata destra fu inglobato uno spazio che conduceva al sacello, molto probabilmente con originaria funzione di porticato. La sua espansione piú significativa, a ogni modo, va riferita al XIV secolo, con l’allargamento del presbiterio e la realizzazione di tre absidi di forma pentagonale, che registrano assonanze stilistiche con quelle della chiesa di S. Eligio Maggiore a Napoli. Ulteriori interventi sono stati condotti nei secoli successivi: la realizzazione di alcune cappelle affiancate alla navata sinistra, del pronao cinquecentesco e di un secondo campanile, collocato sulla piazza antistante, in sostituzione dell’originario, in gran parte crollato, e oggi occultato da strutture recenti. Degne di nota sono, altresí, alcune statuette in terracotta invetriata, sino agli anni Settanta del Novecento collocate in facciata, poi rimosse. Oggi, dopo diversi decenni, i preziosi manufatti sono tornati a Carinola, ospitati nelle strutture dell’ex seminario.
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CALEIDO SCOPIO
Storie, uomini e sapori
Quei semi nel mosto di vino di Sergio G. Grasso
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a senape (dal greco «sinàpi») è la seconda spezia – o sostanza aromatica vegetale – piú usata al mondo dopo il pepe. Appartiene al genere delle Brassicacee, lo stesso di cavoli, broccoli, verze e rafano e comprende 83 specie, di cui quattro con rilevanza gastronomica: la senape nera (Brassica nigra), la senape bianca (B. alba), la senape bruna o cinese (B. juncea) e la senape selvatica (B. arvensis). Di probabile origine mediterranea, diffusa
Miniatura raffigurante la raccolta dei grani di senape, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. XV sec. Liegi, Biblioteca Universitaria.
in tempi remotissimi in tutte le regioni temperate, la pianta era ben nota e gradita a Cretesi, Sumeri ed Egizi. Semi essiccati di senape sono stati rinvenuti in alcuni insediamenti neolitici sia in Europa sia in Cina; piú recente il suo approdo nelle Americhe a opera degli Spagnoli e in Oceania grazie ai britannici.
Contro le punture degli scorpioni L’intera pianta della senape – semi, foglie e germogli – gode di una millenaria reputazione come erba officinale. Il Papiro Ebers, uno dei piú antichi e ampi testi di medicina, redatto 3500 anni fa in Egitto, sotto il regno di Amenhotep I, la annovera tra i rimedi elettivi per le indigestioni, gli avvelenamenti e le affezioni polmonari. Pitagora, nel VI secolo a.C., suggerisce l’impiego delle sue foglie – sacre a Esculapio, dio della medicina – come antidoto per le punture degli scorpioni e suggerisce di masticarne i semi per stimolare l’allegria e sostenere la memoria. Cento anni piú tardi, Ippocrate raccomanda di farne cataplasmi contro le eruzioni cutanee, i reumatismi e il mal di denti. Teofrasto testimonia dell’uso greco di coltivarla negli orti e Plinio il Vecchio la loda come saluberrimum corpori, la reputa eccellente per conservare la colza senza farla fermentare (XVIII, 34, 128), per guarire il mal di gola, il tetano, i calcoli renali, per combattere la stanchezza e prevenire la caduta dei capelli. Molte di queste indicazioni hanno trovato riscontro nella moderna scienza erboristica e farmacologica. È nota la parabola evangelica (Mt.13,31-32, Mc.4,30-32 e Lc.13,18-19) in cui il Cristo paragona il Regno dei Cieli a un minuscolo grano di senape che cresce fino a essere un’alta pianta sui cui rami si posano gli uccelli. Già prima, nella Bibbia, il Patriarca Abramo onorò i tre angeli che gli fecero visita travestiti da viandanti servendo una lingua di vitello con foglie di senape. Tuttavia, la piú antica ricetta in cui la senape figura tra gli ingredienti è un «timballo di uccelli di palude» compitato in caratteri cuneiformi su una tavoletta d’argilla rinvenuta nel Palazzo di Mari in Mesopotamia e datata a 3700 anni fa. A Roma l’intera pianta era apprezzata sia per il suo carattere condimentario (Ateneo 136d) sia come preservativo (Columella, In alto grani e salsa di senape. A destra la pianta della Brassica nigra in una tavola ottocentesca.
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RR, XIII,56, 1-3); la si teneva inoltre in gran conto per il contenuto in olio (il sinàpelaion in Dioscoride 1,38). Nel De re Coquinaria di Apicio compaiono ben 11 ricette tra sinapis confecta e vari condimenta per maialino, struzzo, anguilla, oca, salmone, cinghiale, cervo e colombacci.
L’aceto, il «compagno» preferito È da notare come, in quasi tutte le ricette antiche, l’elemento che accompagna i semi di senape sia piú di ogni altro l’aceto, a cui spetta scioglierla e conferirle acidità; seguono il miele, per apportare dolcezza e temperare la piccantezza, la farina, per legare e, infine, l’olio, o altro grasso, per renderla fluida. Non mancano alcune (molte) spezie per caratterizzarne il gusto, mentre il vino dolce, generalmente bianco, diluiva l’impasto, equilibrava l’asprezza e conferiva preziose note fruttate. Già nel II secolo a.C. si manifesta una semplificazione del processo. Ateneo (133e) attribuisce a Nicandro di Colofone l’invenzione di un intingolo composto solo da semi di senape fermentati e polverizzati sciolti in mosto di vino. È il mustum ardens, l’antenato della «moûtarde», di cui però si perde traccia per tutto l’Alto Medioevo, periodo in cui il popolo, piú che del gusto, si preoccupa della sazietà. Solo nel Duecento il termine francesizzato moûtarde sostituisce quello francese della pianta (sénevé= senape). In questo senso lo usa l’abate Gautier de Coinci nel 1223 e, cinquant’anni
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CALEIDO SCOPIO Il pasto di Gargantua in una tavola realizzata da Gustave Doré per un’edizione delle opere di François Rabelais. 1873. L’illustrazione si riferisce al passo in cui si dice che il gigante veniva alimentato da quattro persone che, senza sosta, gli gettavano mostarda nella bocca. Nella pagina accanto, in alto cromolitografia per una pubblicità della Louit Frères, l’azienda fondata a Bordeaux nel 1825 e a tutt’oggi fra le piú note produttrici di mostarda. 1900 circa. Nella pagina accanto, in basso frutta candita nella versione cremonese della mostarda.
piú tardi, un grain de moûtarde trova posto nel Roman de la Rose. La salsa di senape si riaffaccia alle cronache nel 1292, quando un registro parigino delle imposte riconosce la professione di dieci moûtardiers, commercianti autorizzati nel 1351 a venderla a peso. Un po’ alla volta, il mustum ardens diviene sinonimo di senape non solo in Francia, ma anche in Inghilterra, Olanda, Portogallo e Spagna.
La ghiottoneria di Giovanni XXII Nel XIV secolo, la città borgognona di Digione si era già affermata come uno dei centri maggiormente attivi nella produzione della moûtarde, e papa Giovanni XXII,
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nella sua residenza apostolica di Avignone, si dimostra talmente ghiotto della specialità digionese, da nominare addirittura un «premier moûtardier du Pape» nella figura del suo imberbe nipote. Il 28 ottobre 1394, a Parigi, viene stilato il primo statuto della ricca corporazione dei moûtardiers parigini, che eleggono a patrono della professione la Vergine Maria, la cui protezione era invocata ogni 12 settembre, ricoprendo la sua effigie con monete d’argento; il vessillo della loro arte – un imbuto d’oro in campo azzurro – sarà conferito trecento anni dopo da Luigi XIV. Nel frattempo il Viandier di Taillevent (1379 circa) utilizza la pure mutarde (semi) per una elaborata minestra «di magro» e, dieci anni piú tardi, il agosto
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ricettario inglese The Forme of Cury parla di una «lombard mustard» come di una salsa d’uso inequivocabilmente italiano. È interessante notare come in Italia fin dal XIV secolo il termine mostarda non si riferisca alla salsa di senape, ma a qualcosa di ben diverso, in cui i semi tostati e pestati di Brassica nigra o Brassica alba tornano a svolgere il ruolo di conservante che rivestivano ai tempi di Plinio e Columella. Il mosto d’uva – bianca o nera a seconda delle formule che hanno caratterizzato le diverse tradizioni – veniva bollito per bloccarne la fermentazione e renderlo denso. A questo si aggiungeva la farina di senape, ottenendo un liquido in cui immergere frutta e verdura per sottrarle a ossidazione e marcescenza.
Sconsigliata ai collerici Come effetto della devastazione barbarica del vigneto europeo, il mustum venne sostituito in molti contesti con sciroppo di miele corretto con aceto e fortificato con l’ardens della senape, rispondendo cosí al piacere medievale dell’agrodolce, giustificato anche dalla medicina ippocratica. Alla luce di quella dottrina medica, la senape era ritenuta calda et seccha infine al principio del quarto grado (Benzi, 1481), quindi inadatta a coloro che manifestavano squilibri umorali con eccesso di collera (bile gialla). Per quanto gli ingredienti aggiunti ai semi potessero osteggiare il caldo (aceto) e contrastare il secco (mosto) i ricettari tardomedievali e rinascimentali ne consigliavano l’assunzione con pesci e carni bianche lessate, caratterizzate da una «complessione» fredda e umida. In tempi piú recenti sono rimasti fedeli al mosto – ma non sempre alla senape – il Piemonte (con la cugnà), la Toscana, la Romagna coi suoi sughi, il Modenese con la mostarda di Carpi isquisitissima, di cui parla Alessandro Tassoni nella sua Secchia rapita (1622), e alcune zone del Meridione d’Italia dove il mosto cotto si sposa anche a farina e cioccolato. Tra le antiche mostarde padane spicca quella veneta in cui vino e senape si coniugano a una confettura di frutta cotta e canditi ridotti in purea; nel Vicentino al mosto si sostituisce la polpa di mela cotogna (o pera), zuccherata, cotta e aromatizzata con senape, mutuandone la composizione dal quattrocentesco Libro de Arte Coquinaria di Maestro Martino. A Mantova una «mostarda amabile per savore» compare nel banchetto nuziale di Vincenzo I Gonzaga e Margherita Farnese, con mele cotogne e pere cotte
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intere o a pezzettoni, ricoperte da un «giulebbe» senapato. A Voghera la tradizione della mostarda trova conforto in una lettera del 1397 con cui il duca Gian Galeazzo Visconti richiedeva al Podestà di quella città uno zebro (mastello) di frutta candita senapata (mostarda de fructa cum la senavra) che fa bone le robe de lo disnare et li caponi et la cacciagione et li viteli boliti et allo spiedo. La piú nota, scenografica e fors’anche memore della tradizione piú antica, è quella cremonese, in cui la frutta intera (ciliegie, pere, mele cotogne, mandarini, fichi, albicocche, pesche), una volta candita, viene sommersa da uno sciroppo dolce e trasparente, a cui si aggiunge l’essenza di senape. Il gusto agrodolce di questa conferisce una intrigante nota di «medievalità» ai bolliti di carne, agli arrosti, alla cacciagione e anche ai formaggi saporiti. Entra di diritto nella versione cremonese dei classici tortelli di zucca.
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Quando i santi prendevano le armi
Di occhi e di pugnali di Paolo Pinti
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anta Lucia viene costantemente raffigurata con gli occhi posti su un piatto, o piú spesso su un’alzatina, ed è quindi facile identificarla. Tuttavia, poiché talvolta è rappresentata in una scena del suo martirio, tale attributo manca e per riconoscerla dobbiamo ricorrere alla presenza di armi. Iniziamo dalla sua storia. Lucia era nata a Siracusa nel 283, da una nobile famiglia cristiana; era orfana di padre dall’età di cinque anni e fervente religiosa fin da bambina. Poiché la madre soffriva di una grave malattia, Lucia la convinse ad andare a Catania presso la tomba di sant’Agata, confidando in una guarigione. Giunti sul posto, in effetti, la santa apparve alla fanciulla, dicendole che la sua fede e la sua purezza avrebbero compiuto il miracolo. Lucia decise di consacrare la sua verginità a Cristo e, d’intesa con la madre, donò tutti i suoi averi ai poveri. La madre, Eutychia, guarí. A causa di questa conversione, un giovane, che aspirava alla sua mano, la denunciò come cristiana al prefetto Pascasio. Era allora in corso la persecuzione di Diocleziano e, come per molti altri casi simili, alla fanciulla fu imposto di scegliere fra l’abiura e la morte. Lucia si rifiutò di sacrificare agli dèi, dicendosi pronta
ad affrontare qualsiasi tortura. Pascasio la prese in parola e, per ottenere che la fanciulla rinnegasse la sua fede, ordinò che fosse portata in un postribolo e le fosse usata violenza. I soldati incaricati di farlo non riuscirono però a smuoverla, neanche cercando di farla trascinare, legata con funi, da una coppia di buoi. Fu quindi messa su un rogo, ma le fiamme accese intorno a lei non la sfiorarono neanche. Allora Pascasio le fece trafiggere la gola con un pugnale. Lucia ricevette l’Eucarestia, e spirò: era il 13 dicembre dell’anno 304. La santa venne sepolta a Siracusa e sulla sua tomba fu in seguito eretto un santuario. Nel 1039, il generale bizantino Giorgio Maniace, durante la campagna per cacciare gli Arabi dalla Sicilia, occupò Siracusa e fece portare il corpo della santa a Costantinopoli, da dove il doge Enrico Dandolo lo prelevò nel corso della quarta crociata (1204) per portarlo a Venezia.
Un singolare pegno d’amore Da sempre legata alla luce – dal suo nome stesso, che deriva da lux – Lucia è la protettrice di ciechi, oculisti, elettricisti, scalpellini, nonché di molte decine di comuni italiani. Paradossalmente, il simbolo che piú ne caratterizza l’iconografia
In alto statua in legno di santa Lucia. Fine del XV sec. Camerino, Museo Arcidiocesano «G. Boccanera». A destra un esemplare di basilarda. Collezione privata.
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Lucia trafitta alla gola dal pugnale del boia, scena dalle Storie di santa Lucia di Jacobello del Fiore. 1410 circa. Fermo, Pinacoteca Civica.
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CALEIDO SCOPIO non ha molto a che vedere con la sua storia, né con le numerose versioni, piú o meno fantasiose, fiorite intorno alla sua figura. Esiste infatti solo una leggenda, scarsamente attendibile, secondo la quale un ragazzo, affascinato dalla bellezza degli occhi di Lucia, le chiese di fargliene dono: una richiesta a dir poco bizzarra, ma che la santa volle esaudire, strappandosi gli occhi e offrendoli al suo ammiratore. Subito dopo, però, miracolosamente gli occhi ricomparvero piú belli di prima sul volto di Lucia, che, comunque, chiarí allo spasimante di essere già promessa a Cristo. Secondo un’altra versione – che risulta piú ragionevole – il collegamento fra Lucia e gli occhi è da ricondurre a una delle possibili torture alle quali fu sottoposta, riguardante proprio questa parte del corpo. Anche se, occorre dirlo, le prime narrazioni storiche non menzionano in alcun modo un supplizio del genere, pur in un’elencazione puntigliosa di altre.
Sconfiggere le tenebre Piú probabile appare il legame con la luce, anche come simbolo dell’amore divino che sconfigge le tenebre, e col nome stesso. Coerentemente, il giorno dedicato alla santa è il 13 dicembre, che è quello della sua morte ma anche del solstizio d’inverno, almeno fino al 4 ottobre 1582, quando il calendario giuliano fu sostituito da quello gregoriano, che vede cadere il solstizio fra il 20 e il 23 dicembre. La labilità del collegamento tra Lucia e gli occhi lascia sgomenti ed è difficile accettare l’idea che ciò che ci consente di identificarla con sicurezza – insieme a pochissimi altri santi, come Lorenzo (graticola), Pietro (chiavi), Stefano (sassi sul capo), Apollonia (denti estirpati) – sia qualcosa di cosí
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In alto e in basso due esempi di daghe (o pugnali) a dischi o a rotelle della Royal Armouries. Già nella Torre di Londra e ora a Leeds. Il primo, in alto, risale alla metà del XV sec.; quello qui accanto alla prima metà dello stesso XV sec. A destra Trittico di San Domenico (particolare), tempera e oro su tavola di Carlo Crivelli. 1482. Milano, Pinacoteca di Brera. Sulla sinistra è ritratto san Pietro Martire, con il petto trafitto da un pugnale.
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poco attinente alla sua vicenda biografica. Comunque, se ci sono gli occhi deposti da qualche parte, possiamo essere sicuri di trovarci al cospetto di questa santa, che possiede però anche un altro attributo certo, questa volta direttamente riferito al suo martirio: un’arma – pugnale o spada – conficcata nella gola. Come anticipato, in vari dipinti con episodi della sua vita, gli occhi non compaiono e dobbiamo avvalerci del pugnale o spada nel collo per dedurre che si tratta di santa Lucia.
La scena del martirio Va senz’altro citato l’esempio delle Scene della vita di Santa Lucia di Jacobello del Fiore (1370 circa-1439), conservate presso la Pinacoteca Civica di Fermo e risalenti al 1410 circa. In uno dei pannelli, sono raffigurati buoi e uomini che cercano, inutilmente, di trascinare la martire con le funi (scena che ritroviamo in un affresco di Vallo di Nera), e, in un altro, Lucia trafitta alla gola dal pugnale del boia, vediamo il momento dell’uccisione (vedi foto a p. 111). A ben vedere, l’arma dipinta non è un pugnale, bensí una spada da stocco, con lama molto acuminata e robusta, non molto lunga, ma certo non abbastanza da essere definita pugnale. È un’arma molto caratteristica, che da sola conferma la datazione dell’opera pittorica. Nell’affresco della chiesa di S. Maria Assunta a Vallo di A destra pugnale con pomo a disco, lama con nervatura centrale, a sezione di losanga sgusciata, decorata in oro, elsa arcuata in alto e impugnatura ingrossata al centro. Milano, Museo Poldi Pezzoli.
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A destra Martirio di santa Lucia, affresco di Cola di Pietro da Camerino. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vallo di Nera (Perugia), chiesa di S. Maria Assunta.
Nera (Perugia), invece, compare un pugnale particolare, tipico dei secoli XIV e XV: la basilarda, o baselard, o pugnale a doppia «T», molto diffuso in tutta Italia e costantemente rappresentato in tutti gli affreschi dell’epoca. L’affresco è attribuito a Cola di Pietro da Camerino, pittore probabilmente nativo di Camerino e attivo nelle Marche e in Umbria tra la fine del XIV e gli inizi del XV secolo (vedi foto in questa pagina, in alto). In altre opere, incontriamo pugnali di vario tipo, solitamente di buon livello e interessanti, come quello della statua nel Museo Arcidiocesano «G. Boccanera» di Camerino (vedi foto a p. 110), opera di un’artista locale, della fine del XV secolo, in qualche modo ispirato ai pugnali a dischi, caratteristici del periodo (ricordiamo quello del Trittico di san Domenico di Carlo Crivelli, del 1482, oggi conservato a Milano, presso la Pinacoteca di Brera, con l’impugnatura in rilievo; vedi foto a p. 112). Oppure quello della Santa Lucia, tempera su tavola, al Museo Diocesano di Prato, realizzato da un seguace di Francesco Botticini (14461497) e risalente al 1490 circa:
davvero un magnifico pugnale, con lama caratterizzata da un risalto (nervatura) centrale, decorata in oro al forte (parte iniziale della lama), elsa con corti e robusti bracci ricurvi verso l’alto, impugnatura ingrossata al centro e pomo sferico; il tutto decorato in oro. Come sempre avviene – tranne nei casi in cui l’artista sceglie un modello ideale, classicheggiante, senza tempo e comunque vagamente ispirato a tipi dell’antica Roma – l’arma corrisponde a precisi esemplari contemporanei all’opera pittorica relativa. Siamo perciò in grado di affermare che quest’arma era senz’altro moderna nel 1490; per contro, proprio la conoscenza e la possibilità di inquadrare cronologicamente questo tipo di pugnale consentirebbero una datazione del dipinto, prescindendo da ogni altra considerazione stilistica o documentaria sullo stesso. Piú l’esemplare è di alto livello e piú risente delle mode correnti, con una notevole capacità di datazione molto precisa. Buoi e/o uomini armati, sfiancati nello sforzo di cercare di trascinare via una fanciulla, identificano santa Lucia, anche in mancanza di occhi in bella vista su un piatto; ma anche, e soprattutto, un pugnale o una spada infissi nel collo ci consentono di stabilire che si tratta della protettrice – tra gli altri – degli elettricisti.
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CALEIDO SCOPIO
Lo scaffale Arsenio Frugoni Storia della pittura d’Italia
Introduzione di Chiara Frugoni, a cura di Saverio Lomartire, Morcelliana, Brescia, 640 pp., 935 ill. col.
48,00 euro ISBN 978-88-372-3408-9 www.morcelliana.net
Nel 1944, mentre l’Italia attraversava uno dei momenti piú bui della sua storia, l’allora ventinovenne Arsenio Frugoni si dedicava con grande impegno alla didattica e allo studio. Sarebbe divenuto uno dei medievisti piú autorevoli del Paese. Frattanto insegnava al liceo di Brescia e coltivava un vivo interesse per la storia dell’arte, tanto da ideare una serie di conferenze sul tema, corredate dalla proiezione di diapositive. Il progetto era molto ambizioso e doveva svolgersi tra difficoltà di ogni genere, non ultima l’impossibilità di documentarsi agevolmente. Frugoni riuscí comunque nel suo intento e, nel 1946, finí di realizzare 31 conferenze sull’arte d’Italia, come egli stesso le definí raggruppandone i testi. Erano suddivise in tre cicli (pittura, scultura, architettura)
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ed erano destinate alla stampa in fascicoli separati, ma di questa pubblicazione, forse rimasta ferma a una prima impostazione editoriale, non è rimasta traccia. Finché sua figlia Chiara non ha ritrovato tra i cimeli di casa l’intera serie dei fascicoli sotto forma di un piccolo volume di 482 pagine a stampa, numerate a mano dallo stesso autore nel loro complesso. Con la cura dello storico dell’arte Saverio Lomartire, Frugoni ha recuperato questo progetto e ha dato forma definitiva alla prima sezione, con il corredo di tutte le immagini indicate dall’autore come supporto del proprio discorso. Emerge cosí un aspetto nuovo e insospettato del grande medievista, non solo aperto a considerare l’opera d’arte come un prezioso documento storico, non solo
sensibile al lavoro degli artisti suoi contemporanei, ma proteso a costruire una sintesi personale sull’intero arco della storia dell’arte italiana. Non si tratta di un manuale sintetico, ma di un racconto insieme appassionato e rigoroso, in cui l’analisi va di pari passo con una visione compatta e coerente. Questo permette di abbracciare con pochi concetti pagine ampie e complesse di storia della pittura, senza alcuna concessione ai giudizi affrettati e senza inutili insistenze sui dettagli. I primi due capitoli dedicati al Medioevo sono esemplari per chiarezza e concretezza. Permettono di vedere l’arte del periodo in tutte le sue molteplici sfaccettature, aldilà di ogni facile cliché, e aiutano a comprendere le premesse del «miracoloso» Rinascimento. Furio Cappelli Elena Percivaldi Sulle tracce dei Longobardi Italia Settentrionale
Edizioni del Capricorno, Torino, 160 pp., ill. col.
13,00 euro ISBN 978-88-7707-510-9 www.edizionidelcapricorno.com
Nel 568 i Longobardi
scendono in Italia al seguito del re Alboino e, progressivamente, occupano ampie zone della Penisola, fino ad acquisirne quasi l’intero controllo. Uno stanziamento destinato a protrarsi per circa due secoli e del quale è oggi testimonianza il ricco patrimonio storico-artistico e archeologico a cui è
tramandati in un affascinante amalgama di mito e storia. Stefano Mammini Elena Percivaldi, Mario Galloni 35 castelli imperdibili del Veneto
Edizioni del Capricorno, Torino, 160 pp., ill. col.
13,00 euro ISBN 978-88-7707-579-6 www.edizionidelcapricorno.com
I castelli costituiscono uno degli elementi architettonici che maggiormente connotano il paesaggio italiano e il Veneto non fa eccezione alla regola. Ecco dunque un’agile guida alla scoperta di 35 complessi, dedicato il volume di Elena Percivaldi, che qui circoscrive la trattazione alle regioni settentrionali dell’antica Langobardia. Dopo aver riassunto la vicenda storica di cui gli uomini «dalla lunga barba» furono protagonisti, l’autrice passa in rassegna i ricchi lasciti materiali che di loro si possono rintracciare nel Nord Italia, dal Piemonte al Friuli. A coronamento del viaggio, riccamente illustrato, è un capitolo dedicato a episodi e personaggi celebri della saga longobarda,
a ragione definiti «imperdibili» e puntualmente descritti dagli autori. Da segnalare la presenza di cartine corredate da un QR Code, che rimanda alla posizione su Google Maps di ciascun castello. S. M. agosto
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