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UN
UN PASSATO DA RISCOPRIRE
RE PER IL M ED MO A
O EV IO
MEDIOEVO n. 302 MARZO 2022
PA M ES O AG NT GI EF RI ELT SC R OP O ER TI
EDIO VO M E DOSSIER
Mens. Anno 26 numero 302 Marzo 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
LA BELLA ADDORMENTATA ALLE ORIGINI DELLA FIABA
DECAMERON MARITI GELOSI E AUTORITARI OLTRE LO SGUARDO IL SERPENTE DI BRONZO
MEDIOEVO NASCOSTO IN VIAGGIO NELL’ OLTREPÒ 20302 9
771125
689005
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€ 6,50
MONTEFELTRO MEDIOEVO ECOLOGICO IL SERPENTE DI BRONZO OLTREPÒ PAVESE DOSSIER LA BELLA ADDORMENTATA
SANTI ECOLOGISTI PER UN’ETÀ DI MEZZO «SOSTENIBILE»
IN EDICOLA IL 3 MARZO 2022
SOMMARIO
Marzo 2022 ANTEPRIMA
42
AMORI MEDIEVALI Per sempre insieme nel Walhalla di Federico Canaccini
5
ARCHEOLOGIA Un’antica chiesa di campagna
6
di Giampiero Galasso
STUDI E RICERCHE Sui cammini della fede
10
MULTIMEDIALITÀ Sublimi punti di vista
14
APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese
22
di Franco Cardini
di Lorella Cecilia
COSTUME E SOCIETÀ
LUOGHI MEDIOEVO NASCOSTO Valle Padana
ECOLOGIA Il sostenibile mondo di Benedetto
Al di là del grande fiume 30
di Federico Canaccini
di Chiara Parente
92
Dossier
LA BELLA ADDORMENTATA Il mito oltre la fiaba 69 di Domenico Sebastiani
92 CALEIDOSCOPIO
30 VIVERE AL TEMPO DEL DECAMERON/3 Quelle storie narrate «donnescamente»
di Corrado Occhipinti Confalonieri
OLTRE LO SGUARDO/12 Un serpente senza colpa, né veleno di Furio Cappelli
42
56
STORIE, UOMINI E SAPORI Sulle mense di un impero perduto 102 di Sergio G. Grasso
QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Trapianti miracolosi 108 di Paolo Pinti
LIBRI Lo Scaffale
112
MUSICA La dolce carica dei 49
114
di Franco Bruni
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IV E RS A RI O
DOSSIER
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MEDIOEVO n. 302 MARZO 2022
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MEDIOEVO
IN EDICOLA IL 3 MARZO 2022
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MEDIOEVO Anno XXVI, n. 302 - marzo 2022 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it
Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Franco Cardini è storico del Medioevo. Francesco Colotta è giornalista. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Chiara Parente è giornalista. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Domenico Sebastiani è cultore di tradizioni e leggende medievali. Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: Fine Art Images/Heritage Images: copertina (e p. 80) e pp. 42/43, 56/57, 80/81; Fototeca Gilardi: p. 5; Album: pp. 33, 104 (basso), 111; Bios: p. 40; AKG Images: pp. 44/45, 46-47, 64/65, 70/71, 74-77, 83, 84; Erich Lessing/ Album: pp. 48-51, 62/63; Cortesia Everett Collection: pp. 72-73; Album/Fine Art Images: pp. 78, 106 (basso); Album/Quintlox: pp. 82, 86/87; Album/Collection Kharbine Tapabor: pp. 85 (basso), 104 (alto); Walt Disney Productions/Album: p. 88; Moving Picture Company/ Album: p. 89; Walt Disney Pictures/Album: pp. 90-91; Age: p. 105 – Cortesia Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di BarlettaAndria-Trani e Foggia: pp. 6-8 – Doc. red.: pp. 10-13, 14, 16 (alto), 18, 30/31, 32, 34-37, 39, 45, 52, 60, 65, 97 (basso), 102, 108-109 – Shutterstock: pp. 16 (basso), 18/19, 58/59, 103, 106 (alto) – Alamy Stock Photo: pp. 17 (alto), 79 – The Metropolitan Museum of Art, New York: pp. 38, 66 – Giovanni Dall’Orto: p. 61 – Los Angeles County Museum of Art, Los Angeles: p. 69 – National Gallery of Art, Washington: p. 85 (alto) – Cortesia Comune di Calendasco: pp. 92/93, 94 (basso), 95, 96/97, 97 (alto), 98-100 – Cortesia dell’autore: p. 110 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 94. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.
Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) Le edicole e i privati potranno richiedere le copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it e accedendo al sito: https://arretrati.mondadori.it/privati (dal 15 marzo 2022, il suddetto sito verrà sostituito dal nuovo sito https://arretrati.pressdi.it)
In copertina L’addio di Wotan (a Brunilde), olio su tela di Ferdinand Leeke. 1910 circa. Collezione privata.
Prossimamente vivere al tempo del decameron
Il coraggio delle donne
medioevo nascosto
donatello
Immagini dell’aldilà a Bastia Mondoví
Firenze celebra il «maestro dei maestri»
Errata corrige con riferimento al dossier Valentino, uno, nessuno o centomila?, pubblicato nel n. 301 dello scorso febbraio, nel sommario a p. 79 abbiamo erroneamente «ringiovanito» il santo patrono degli innamorati, che, fra il 269 e il 273 morí, essendo invece nato intorno al 175. Dell’errore ci scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri lettori.
amori medievali di Federico Canaccini
Per sempre insieme nel Walhalla
C’
è una storia d’amore che percorre le fredde terre del Nord e che, con alcune varianti, si ritrova tanto nell’epica norrena quanto in quella germanica: si tratta della tormentata passione tra la valchiria Brunilde e l’eroe Sigfrido. Le valchirie erano vergini guerriere inviate sulla Terra da Odino, re degli dèi del Walhalla, per scegliere i guerrieri piú valorosi, quelli destinati a una morte gloriosa. Brunilde era certamente bellissima, però anche caparbia, orgogliosa e, a causa del suo carattere disobbediente, andava spesso in contrasto con Odino: a motivo della sua testardaggine, il re degli dèi la imprigionò presso Hindarfjöll, sulla cima di un’alta vetta, circondata da scudi e da alte fiamme. Sigfrido, invece, era un giovane
cresciuto presso la corte del re dei Danesi, affidato alle cure del fabbro Reginn: costui si affezionò al ragazzo, sperando anche di fargli recuperare il tesoro che suo fratello Fafnir gli aveva sottratto. Il fabbro esortò perciò l’eroe a uccidere un mostro che altri non era che Fafnir, trasformatosi in un drago per proteggere il tesoro maledetto dei Nibelunghi. Sigfrido trafisse la bestia e si bagnò nel suo sangue, rendendo il proprio corpo invincibile: non si accorse però di una foglia posatasi su una spalla, che divenne cosí il suo «tallone d’Achille». Subito dopo, all’eroe fu data la facoltà di comprendere il significato del cinguettio di alcuni uccellini e uno di essi lo esortò a raggiungere Hindarfjöll, per liberare Brunilde dall’incantesimo. Sigfrido risvegliò dunque la valchiria dal sonno innaturale ed eterno impostole da Odino e tra i due sbocciò l’amore: Brunilde donò a Sigfrido le rune, ricevendo in cambio l’Andvaranautr, un anello magico in grado di produrre oro. L’idillio venne però turbato da un terzo personaggio, il mago Hayen, geloso e follemente innamorato della bellissima valchiria: quando Sigfrido giunse alla corte dei Burgundi, dopo aver bevuto un filtro magico, perse la testa per la figlia del re, Crimilde, per la quale abbandonò la valchiria. Pur di convolare a nozze con Crimilde, l’eroe riuscí a convincere Brunilde a sposare nientemeno che Gunther, fratello di Crimilde. La valchiria finse di accettare le offensive richieste dell’ex innamorato e sposò dunque Gunther, ma, impazzita per l’oltraggio, rivelò ad Heyen il punto vulnerabile dell’eroe. Sigfrido fu dunque colpito alle spalle da un dardo che si conficcò lí dove s’era posata la foglia. Il dramma però non finisce qui: infatti, quando seppe del filtro che aveva fatto impazzire il suo amato, Brunilde non resse al dolore di aver perso il suo sposo e di averne al contempo provocato la morte. Montata in groppa al suo cavallo si gettò sulla pira fatta costruire da Crimilde per Sigfrido, trovandovi la morte. Uniti dalle fiamme gli spiriti dei due amanti raggiunsero il Walhalla, il regno degli dèi, dove si riunirono per l’eternità. Brunilde e Sigfrido in una tavola di Arthur Rackam per un libretto del Sigfrido e del Crepuscolo degli dèi, drammi musicali facenti parte della Tetralogia di Richard Wagner. 1911.
MEDIOEVO
marzo
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ANTE PRIMA
Un’antica chiesa di campagna
SCOPERTE • Nel Foggiano, un intervento di
archeologia preventiva porta al rinvenimento di un importante contesto paleocristiano
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na chiesa paleocristiana con relativa necropoli – la cui frequentazione abbraccia un orizzonte cronologico compreso fra il V e l’VIII secolo, sono state scoperte a sud-est di Troia (l’antica Aecae, oggi in provincia di Foggia), in località Masseria Montevergine, grazie a un intervento di archeologia preventiva. Le prime indagini sul campo erano state avviate dalla Nostoi s.r.l. nel 2011, in occasione della realizzazione di un impianto fotovoltaico e sono poi proseguite tra il 2019 e il 2020, sotto la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Barletta-Andria-Trani e Foggia. In alto Troia (Foggia), località Masseria Montevergine. Fotopiano della necropoli altomedievale individuata a sud della chiesa. A sinistra giocattolo fittile rinvenuto all’interno di una sepoltura infantile.
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«La chiesa – spiega Domenico Oione, funzionario archeologo e direttore dello scavo – ha rivelato due fasi costruttive: nella prima sorse un edificio di dimensioni ridotte, dotato di un’unica navata; in seguito, quest’ultima venne dapprima ampliata verso sud e poi affiancata dalle navate orientale e occidentale e da ambienti disposti immediatamente a ridosso della struttura. Gli elevati e gli strati di frequentazione sono stati quasi del tutto distrutti dagli interventi agricoli moderni, ma sono ancora visibili le mattonelle fittili, variamente decorate, che caratterizzavano la pavimentazione della chiesa. La navata centrale si conserva per una lunghezza di 18 m circa. Setti murari, con funzione di cancello marzo
MEDIOEVO
A destra la struttura circolare verosimilmente interpretabile come fossa comune. In basso particolare di una sepoltura in corso di scavo, con una fibula circolare facente come corredo.
presbiteriale, circoscrivono l’area absidale e quella in cui si collocava l’altare, di cui si conserva la fossa. La navata orientale presenta uno sviluppo maggiore dell’abside, mentre una terza navata è ubicata sul limite occidentale dell’aula
MEDIOEVO
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centrale, non totalmente indagata. A ridosso del limite occidentale e orientale dell’edificio sono stati rinvenuti vari ambienti edificati con tecniche costruttive e orientamento diversi rispetto all’edificio di culto; appaiono, pertanto, riferibili
a fasi successive di sviluppo architettonico del complesso.
Orientamenti diversi L’area circostante la chiesa è stata occupata da una vasta necropoli, di cui sono state individuate 140 sepolture. Di queste, ne sono state indagate 117, aventi orientamenti differenti e attribuibili preliminarmente ai secoli VI-VIII. Le sepolture (a fossa terragna, con copertura in lastre o con coppi e laterizi) hanno sfruttato intensamente tutto lo spazio disponibile; sono presenti anche all’interno della chiesa e nei muri perimetrali meridionali. Interessante è l’ampia fossa di forma circolare individuata sul limite orientale dello scavo: al suo interno sono stati deposti almeno sei inumati, in posizione supina con le mani giunte sul bacino, privi di corredo; appare verosimile interpretare la struttura come una fossa comune. Sebbene le sepolture siano prevalentemente prive di corredo, spiccano alcuni ritrovamenti,
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ANTE PRIMA
come brocchette e lucerne. Piú significativa è la presenza di reperti metallici: monete, elementi di collana, bracciali, orecchini, anelli, croci, aghi crinali, borchiette da calzature, fibbie e fibule circolari e con estremità zoomorfe e con iscrizioni incise. I reperti costituiscono elementi utili per una attribuzione cronologica definita alla piena età altomedievale. Le indagini hanno inoltre permesso di distinguere una fase in cui si verificò una modifica della destinazione d’uso degli spazi della navata orientale, attraverso la costruzione di tramezzi finalizzati alla suddivisione dell’area e alla
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creazione di vani a destinazione domestica. Tale funzione è dimostrata dal rinvenimento di frammenti di ceramica da cucina, da mensa e da dispensa.
Tombe del tipo a cappuccina, aventi cioè la chiusura formata da coppi e laterizi. Altre sepolture della necropoli consistono in semplici fosse terragne o si presentavano sigillate da lastre.
Una vasta diocesi
confermata dal gran numero di tombe riferibili all’edificio cultuale». La Soprintendenza competente ha intenzione di avviare un progetto di valorizzazione e fruizione dell’area, istituendo un Partenariato per la Fruizione Pubblica con l’Amministrazione Comunale di Troia e la Società Asi Troia FV1 S.r.l., proprietaria dei terreni in cui ricade il bene. Giampiero Galasso
È possibile ipotizzare che l’edificio cultuale di Masseria Montevergine fosse una delle numerose chiese rurali attestate nelle campagne di Aecae (già testimoniate da foto aeree, scavi archeologici e fonti documentarie), la cui diocesi era molto ampia e doveva essere caratterizzata dalla presenza diffusa di villaggi, ville e fattorie. Tale dinamica insediativa trova è
marzo
MEDIOEVO
ANTE PRIMA
Sui cammini della fede STUDI E RICERCHE •
A Berceto, nel Parmense, nasce il Centro Internazionale di Studi sulle Culture del Pellegrinaggio. La nuova associazione intende approfondire la conoscenza del fenomeno, ma anche concorrere alla sua valorizzazione
A destra, sulle due pagine pellegrini a cavallo in Galizia, lungo il Cammino di Santiago, presso una statua che li celebra. A sinistra statuetta in calcare raffigurante san Giacomo in abiti da pellegrino, dalla Borgogna. Fine del XV sec. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto, in basso miniatura raffigurante un pellegrino, da un’edizione de Les Trois Pèlerinages di Guillaume de Digulleville. 1355. Parigi, Biblioteca di Sainte-Geneviève.
I
l Centro Internazionale di Studi sulle Culture del Pellegrinaggio (CISCuP) è nato a Berceto, località dell’Appennino parmense nota, fra l’altro, in quanto sita a pochissima distanza dal Passo della Cisa – il Mons Bardonis, che, nel Medioevo, era un passaggio obbligato per i pellegrini che transitavano per la cosiddetta via Francigena tra Santiago de Compostela in Galizia e Roma –, quando un gruppo di studiosi si è riunito sotto il patrocinio del sindaco, Luigi Lucchi. L’idea si deve allo stesso Lucchi, patrocinatore «storico» d’iniziative di risonanza internazionale, che si è trovato di fronte, negli ultimi anni, a un flusso sempre crescente di viaggiatori e pellegrini a piedi lungo i cammini del «fascio stradale» detto appunto Francigena, con tutti i problemi che questo costante aumento di presenze pone a un centro demico montano.
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Il sindaco ha risposto con l’immediata organizzazione, in un immobile di proprietà comunale, di una «Casa Francigena», messa a disposizione di viaggiatori, pellegrini e studiosi. L’edificio è in via di ristrutturazione e sarà dotato di ambienti per l’accoglienza, di una sala conferenze e di una biblioteca. L’iniziativa ha immediatamente interessato i numerosi sodalizi di pellegrini e di studiosi del pellegrinaggio dei centri storici vicini, da Parma a Piacenza, da Fidenza a Lucca, da Pontremoli a Pistoia e fino alle numerose «case di pellegrini» insediate attorno ai «traghetti» storici del Po. Il 25 luglio del 2019, festa dell’apostolo Giacomo, si è quindi deciso di dare vita – con una cerimonia religiosa officiata presso la pieve di Berceto – al Centro Internazionale di Studi marzo
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sulle Culture del Pellegrinaggio (CISCuP), con sede simbolica presso la «Casa Francigena» di Berceto.
La costituzione ufficiale Nel dicembre 2021 il sodalizio è stato formalmente costituito con sede ufficiale presso l’arcivescovado di Lucca, generosamente messa a disposizione dall’arcivescovo della città del Santo Volto, monsignor Paolo Giulietti. Presidente onorario del CISCuP è il sindaco Lucchi e Assistente spirituale è monsignor Giulietti, membro del comitato direttivo del sodalizio. Tra i fondatori figurano l’assistente legale, avvocato Andrea Consorti, la professoressa Enrica Lemmi, il vicepresidente dell’Associazione, il tesoriere Claudio Carpini, David Nieri e Alessandro Bedini. Tra gli associati vi sono alcuni tra i piú famosi e prestigiosi studiosi della storia del pellegrinaggio, della viabilità e della cultura religioso-
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ANTE PRIMA 12
Il Puente la Reina che, tra Pamplona ed Estella, unisce le due sponde del Río Arga. Qui le due tratte pirenaiche del Cammino di Santiago, la via di Navarra e la via di Aragona, confluiscono a formare un unico tragitto, chiamato Cammino Francese. devozionale italiana ed europea, medievale e moderna: Anna Benvenuti, Tommaso di Carpegna Falconieri, Simonetta Cerrini, Isabella Gagliardi, Giuseppe Ligato, Umberto Longo, Marina Montesano, Antonio Musarra, Renzo Nelli, Francesca Roversi Monaco, Luigi Russo, Ilaria Sabbadini, Renata Salvarani, Olimpia Vaccari. L’Ufficio stampa e informazioni, con relativo supporto pubblicistico ed editoriale,
12
è diretto da David Nieri, delle Edizioni «La Vela» di Lucca (info@ edizionilavela.it). Alcuni fra i piú importanti studiosi del mondo medievale e moderno sono stati informati dell’iniziativa e, invitati ad aderirvi, hanno mostrato interesse: tra gli altri, possiamo ricordare Giancarlo Andenna, Alessandro Barbero, Maria Teresa Ceccarelli Lemut, Pietro Dalena, Alessandro Scafi, Giuseppe Sergi. Il CISCuP ha riscosso l’interesse e l’appoggio del Presidente della Commissione Cultura del Senato, senatore Riccardo Nencini, nonché della Regione Toscana, della Provincia di Lucca, del Comune di Lucca e di altri organismi pubblici e privati. Sua
prima sede universitaria, per incontri e seminari, è stata ed è l’Università per il Turismo «Campus» di Lucca rappresentata dal docente di storia del Mediterraneo professor Alessandro Bedini.
Per un turismo consapevole Da tempo il pellegrinaggio e il «turismo religioso» attraversano una rigogliosa stagione, ma si notano altresí numerosi indizi di strumentalizzazione a fini di lucro di quella che, sotto molti aspetti, è una «moda», mentre carente appare il panorama della consapevolezza culturale e dell’informazione obiettiva di un fenomeno di tanta importanza marzo
MEDIOEVO
sotto il profilo antropologico, religioso, spirituale, artistico ed economico. A queste carenze il CISCuP si propone di rispondere studiando, innanzi tutto, le vicende di un passo appenninico che, soprattutto fra il X e il XIII secolo – ma non solo – assisté ai numerosi passaggi di uomini e donne diretti a Roma attraverso le stationes di Pontremoli, Lucca, Altopascio, Poggibonsi, San Vivaldo, Borgo San Sepolcro, Acquapendente, Siena e Bolsena-Orvieto, oppure a Santiago de Compostela, attraverso quelle di Piacenza, San Michele di Susa, Bresse, Cluny, Orange, Pau, Roncisvalle, Puente-la-Reina e Pamplona. Il Centro intende altresí estendere la ricerca all’«area di strada» della Francigena tra Piacenza e Lucca – che includeva e include anche le aree prossime dell’Appennino modenese –, all’area apuana, con la città di Luni, alle vicende che accompagnarono le incursioni corsare, saracene e normanne dei secoli VIII-X e quelle delle signorie feudali e cittadine e alle realtà comunali successive, fino agli Stati dell’Italia preunitaria e quindi unitaria. Ancora, compito del CISCuP sarà la valorizzazione di tutto ciò che, a livello turistico, culturale, sociale e infrastrutturale, comprende il revival del pellegrinaggio e del viaggio a piedi come realtà vivente del mondo di oggi, con tutte le iniziative tese a valorizzare le bellezze naturali e le risorse socio-culturali del territorio.
Favorire il dialogo Infine, il sodalizio tiene presente il valore non solo culturale, storico e in prospettiva ecologicoambientale del compito che si è liberamente assunto, ma anche il suo significato al tempo stesso antropologico e umanitario. Nelle sue varie forme, il pellegrinaggio è una realtà presente in tutte le espressioni mitico-religiose del genere umano: e anche ciò è e
MEDIOEVO
marzo
Assetto e finalità dell’associazione L’adesione al CISCuP è libera e volontaria; la sua attività sarà del tutto aperta. A partecipare a essa è chiamato chiunque indipendentemente dalla fascia d’età, dal sesso e/o genere, dal livello culturale, dallo stato socio-economico, dalla condizione professionale, dall’origine etnolinguistica, dall’appartenenza religiosa. Questi gli scopi diretti e gli obiettivi immediati del CISCuP: 1. Incontri sia ordinari e periodici, sia straordinari (convegni, congressi, giornate di studio, viaggi comunitari), che abbiano come oggetto lo studio di quanto attiene la civiltà del pellegrinaggio a tutti i livelli e in qualunque contesto socio-culturale (non solo quelli nelle religioni «rivelate», ma anche quelli nelle «religioni naturali» – cioè miticoimmanentistiche) tanto nei contesti antichi quanto in quelli moderni e contemporanei fino ai fenomeni moderni e postmoderni («pellegrinaggi laico-politici», culture connesse con il new age). 2. Istituzione di una banca-dati sui fenomeni di pellegrinaggio e di viaggio «di culto», con relative schede storiche, biografiche e storiografiche e con la costruzione di siti d’informazione on line. 3. Organizzazione di un «Festival del Pellegrinaggio» tra il 24 e il 26 luglio di ogni anno a partire dal 2022, con momenti sia di riflessione scientifica e culturale sia di spettacolo e di festa. In tali occasioni si potranno organizzare anche mostre-mercato di libri e di oggetti relativamente ai temi trattati. L’organizzazione del Festival sarà a cura di Federico Fioravanti, che sta dirigendo con grande successo la «Settimana del Festival Medievale» che si tiene ogni anno nell’ultima settimana di settembre nella città di Gubbio. 4. Organizzazione di stages e di masters dedicati alla storia del pellegrinaggio e allo sviluppo di esso, del «turismo religioso» nonché alla formazione di personale specializzato nei vari àmbiti a ciò afferenti, in collaborazione con alcune università italiane ed europee. L’adesione al CISCuP può essere espressa da singole persone o da sodalizi interessati alla sua attività. È sufficiente inviare una semplice lettera di adesione (anche in via informatica) contenente le generalità della persona o del gruppo che intende aderire o che desidera ricevere informazioni. Le lettere di adesione e ogni altra corrispondenza, possono essere indirizzate all’attenzione di David Nieri, indirizzo e mail: ciscup@pec.it sarà argomento di studio non solo a scopo scientifico, ma altresí per fornire un contributo alla reciproca comprensione tra i popoli e alla vittoria contro intolleranza e pregiudizio. Molti sono i sodalizi a carattere scientifico, culturale o anche semplicemente associativo che hanno già lavorato in direzioni affine o analoghe al CISCuP, che, da parte sua, non ha alcuna intenzione di sostituirsi o di sovrapporsi a loro o di entrare con essi in concorrenza: al contrario, esso si propone di monitorare, nel
comune interesse, tutti gli enti pubblici e privati interessati alla ricerca sui pellegrini e di creare un database relativo ai sodalizi interessati, ai luoghi oggetto di venerazione, alle infrastrutture presenti presso ciascuno di essi, alla loro storia, alle fonti a essa relative, agli studi moderni disponibili. Sarà sua cura promuovere siti informatici d’incontro e di scambio d’informazioni e pubblicazioni a carattere sia turistico sia scientifico volte a valorizzare la zona. Franco Cardini
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ANTE PRIMA
Sublimi punti di vista MULTIMEDIALITÀ • Piero della
Francesca e Leonardo da Vinci ambientarono alcuni dei loro piú celebri capolavori nel Montefeltro. E oggi quei paesaggi incontaminati possono essere riscoperti grazie a nove «balconi» e a una Web App
D
alla prossima estate nel territorio dell’antico Ducato di Urbino, il Montefeltro, nove belvedere saranno accessibili al pubblico, per poter ammirare «dal vero» i paesaggi di alcuni importanti capolavori del Rinascimento. Da tali postazioni (progettate nel rispetto del contesto naturale tra Romagna e Marche) lo sguardo dei visitatori potrà , infatti, posarsi su pianure, laghi, monti, piccoli borghi dove
I duchi di Urbino Federico da Montefeltro e Battista Sforza, dittico a olio su tavola di Piero della Francesca. 1465-1472. Firenze, Galleria degli Uffizi.
DOVE E QUANDO
Marsiglia nel Medioevo, Marsiglia, Archives municipales fino al 27 novembre Orario martedí-venerdí, 9,0012,00 e 13,00-17,00; sabato, 14,00-18,00 Info tel. +0033 4 91553375
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MEDIOEVO
già, in passato, gli occhi di Piero della Francesca o quelli di Leonardo si sono soffermati per creare le quinte scenografiche di alcuni loro celebri dipinti. Un’idea diversa di turismo, intrigante ed emozionante, che conclude l’operato di due studiose, ormai note come «le cacciatrici di paesaggi», Rosetta Borchia (pittrice e studiosa di paesaggi d’arte) e Olivia Nesci (già docente di geografia fisica all’Università di Urbino). La sorprendente «caccia» ebbe inizio nel 2007 quando, scaricando delle immagini al computer, scattate dalla rupe di Peglio alla vallata del Metauro, Borchia, per prima, si rese conto di aver fatto una scoperta. Il monte Fronzoso, come appariva nella riduzione al computer, era perfettamente riconoscibile come un elemento del paesaggio di uno dei celebri quadri del Dittico dei Duchi di Piero della Francesca eseguito nel 1465-1472 (vedi foto in alto). Da allora la studiosa, condividendo l’avventura
MEDIOEVO
marzo
scientifica con la geomorfologa Nesci, iniziò le sue esplorazioni nel territorio montefeltrino finalizzate all’individuazione delle altre tessere dei paesaggi che fanno da sfondo ai ritratti del duca Federico, di Battista Sforza e ai Trionfi (sul retro delle tavole).
Sotto gli occhi di tutti Questa prima appassionante ricerca, negli anni a seguire, divenne il punto di partenza metodologico che permise alle due studiose di scovare i luoghi di altri «sfondi» dimostrando che paesaggi cosí incantevoli e da sogno esistevano davvero ed erano ancora sotto gli occhi di tutti… le vedute del Montefeltro marchigiano e romagnolo ricorrevano infatti in altri dipinti di Piero della Francesca, quali il San Girolamo e un devoto, la Resurrezione, il Battesimo di Cristo e la Natività… Era, dunque, solo l’inizio di una caccia che si sarebbe rivelata piena di sorprese. Tra i piú celebri paesaggi scoperti da Borchia e Nesci si possono
Una schermata dalla Web App Montefeltro Art Views con il duca Federico da Montefeltro e, in evidenza, il paesaggio attuale, visibile dal «balcone» in località Ca’ Mocetto (Urbania), con il Monte Fronzoso e l’antico percorso del fiume Metauro. annoverare quelli della Madonna Litta di Leonardo da Vinci, individuati nella rupe di Maioletto, e nelle due di Pennabilli, visibili dalla bifora aperta alle spalle della Vergine che allatta. Ancora piú emozionante per la notorietà del dipinto è stato poi l’aver scoperto il paesaggio del fondale della Gioconda, dove l’artista ha dipinto degli scorci del Ducato di Urbino, Pennabilli, la Valmarecchia e la valle del Senatello fino ai territori toscani. Ipotesi poi suffragata dal fortunato rinvenimento di alcuni disegni preparatori di quel paesaggio e conservati tra i codici di Leonardo alla Royal Library di Londra. I belvedere rappresentano oggi (segue a p. 20)
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In questa pagina la Madonna Litta, tempera e olio su tavola (trasferito su tela) di Leonardo da Vinci (1490 circa; San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage) e, in basso, la rupe di Maioletto (A), riprodotta da Leonardo nella «vista» dalla finestra alla sinistra della Vergine. Nella pagina accanto, in alto le due rupi (B) di Penna e di Billi, riprodotte nella Madonna Litta come sfondo della finestra di destra.
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I NOVE «BALCONI» Piero della Francesca Dittico dei Duchi di Urbino • Ca’ Mocetto, Urbania (PU) Ritratto di Federico da Montefeltro • Montebello, Poggio Torriana (RN) Ritratto di Battista Sforza • Pieve del Colle, Acqualagna (PU) I Trionfi • San Leo (RN) San Girolamo e un Devoto • Monte Palazzolo, Montecopiolo (RN) Natività • Pugliano, Montecopiolo (RN) Resurrezione • Petrella Guidi, Sant’Agata Feltria (RN) Battesimo di Cristo Leonardo da Vinci • Costagrande, Pennabilli (RN) La Gioconda • Pennabilli La Gioconda
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In alto La Gioconda, nota anche come Monna Lisa, olio su tavola di Leonardo da Vinci. 1516-1517. Parigi, Museo del Louvre. Nel riquadro sono evidenziati i particolari dei paesaggi identificati dalle
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studiose Rosetta Borchia e Olivia Nesci, osservabili dal balcone di Costagrande (Pennabilli). A destra, sulle due pagine veduta con, in primo piano, Pennabilli (1, balcone in località Costagrande), il
Roccione (2, con un altro belvedere) e, sullo sfondo, la Valmarecchia con il letto del fiume Marecchia, il Monte Aquilone (3), i Monti della Faggiola (4) e il punto in cui si trovava il ponte (5) oggi scomparso.
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ANTE PRIMA Montefeltro Art Views I nove «balconi», serie di postazioni di osservazione delle vedute rinascimentali, saranno valorizzati, attrezzati e arricchiti da un sistema di nuovi servizi di comunicazione entro l’estate, ma già oggi è disponibile uno strumento di grande valore turistico e culturale, che offre ai visitatori un tour virtuale e immersivo: la Web App MontefeltroArtViews. Su www.montefeltoartviews.it è possibile effettuare tour guidati dedicati a Piero della Francesca o a Leonardo da Vinci, con approfondimenti interdisciplinari alla scoperta dei capolavori della storia dell’arte, svelandone segreti e dettagli geografici, naturali, architettonici e urbanistici oltre a offrire l’opportunità di confrontare i dipinti e paesaggi di ieri e oggi con una straordinaria tecnologia interattiva e 3D. La Web App propone, inoltre, una mappa satellitare georeferenziata che dà accesso a una sezione dedicata a ciascun balcone. Qui si apre un altro universo di contenuti, fatto di testi che raccontano il paesaggio e il soggetto del dipinto, immagini dei quadri ad altissima risoluzione, panorami a 360° e inediti video panoramici realizzati con i droni. Lo studio di Rosetta Borchia e Olivia Nesci che ha dato origine al progetto è diventato anche un e-book, Montefeltro Paesaggio Rinascimentale, anch’esso fruibile dalla Web App e navigabile grazie ai collegamenti interni che consentono un’esperienza sempre nuova e in linea con i desideri e le curiosità del lettore. Il percorso digitale offre un circuito turistico di Panorami Virtuali da scorrere e ingrandire in punta di dita sul display, corredato con informazioni testuali bilingue (italiano e inglese), iconografiche e grafiche, gestibili a schermo (mappe con hot-spot; immagini e video). La Web App può essere visualizzata da tutti i device con i principali sistemi operativi (iOS e Android) su web application. La Web App Montefeltro Art Views è stata ideata e realizzata da Altair4 Multimedia con la regia di Alessandro In alto, a sinistra il QR Code che che rimanda a una clip della Web App Montefeltro Art News. In alto, a destra un esempio di come Montefeltro Art News visualizza i suoi contenuti. La Web App è disponibile per i principali sistemi operativi. la conclusione di questa ricerca e saranno, una volta completati, una meta per gli amanti dell’arte e della natura. Si potrà, cosí, condividere
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Furlan; web development e design di Alvaro Blanco Cobianzo; curatela scientifica di Rosetta Borchia e Olivia Nesci; post produzione video di Luigi Giannattasio; coordinamento editoriale di Maria Grazia Nini; riprese drone: Albatros srl.
la passione che ha guidato Borchia e Nesci a esplorare uno dei territori piú belli d’Italia, il Montefeltro, che tra il Medioevo e il Rinascimento esercitò una irresistibile attrazione per gli artisti e i letterati dell’epoca che si spostavano tra l’Adriatico e l’Appennino, tra la Romagna, le Marche e la Toscana. La realizzazione dei balconi è stata possibile grazie al progetto pilota della Regione Emilia-Romagna e
del GAL Montefeltro «Montefeltro Art Views – dove Arte e Paesaggio si incontrano», sviluppato nell’ambito di RECOLOR, Reviving and EnhanCing artwOrks and Landscapes Of the adRiatic, un’azione dell’Unione Europea che coinvolge l’Italia e la Croazia con l’obiettivo di scoprire e valorizzare territori e patrimoni culturali ancora sconosciuti al grande pubblico. Lorella Cecilia marzo
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La Rievocazione Storica sboccia a primavera D
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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA
opo due anni difficili, in cui la piú grande fiera mercato d’Europa per quanto riguarda il mondo della Rievocazione Storica si è vista costretta a posticipare il consueto appuntamento primaverile al successivo mese di luglio, finalmente, per la sua diciottesima edizione, «Armi&Bagagli» torna a riempire di storie e di Storia il quartiere fieristico di Piacenza Expo il 19 e 20 marzo 2022. Non sarà, probabilmente, un’edizione storiche e venatorie; «Piacenza Militaria», storica dai numeri post-pandemia, ma gli organizzatori si mostra/mercato di collezionismo militare; «I Coltelli», dimostrano ancora una volta entusiasti e non vedono expo dedicata all’arte della coltelleria di pregio; l’ora di aprire i battenti. «SoftAir Fair», fiera dedicata allo sport e al mondo del «Dopo due edizioni che comunque hanno registrato Soft Air in tutte le sue componenti. numeri incoraggianti – ha detto Cesare Rusalen di Estrela Fiere – è giunto il momento di ripartire INFO E CONTATTI definitivamente con la normalità che per una fiera come Piacenza Expo questa non può essere che sinonimo di straordinarietà». «Prima di ritornare ai livelli eccezionali del 2018 o del Piacenza, loc. Le Mose, Strada Statale 10 per Cremona 2019 – ha proseguito Massimo Andreoli di Wavents – ci Info tel. 0523 602711 vorrà del tempo, perché vanno superate anche quelle Orario sabato, 10,00-19,00; domenica, 10,00-18,00. barriere psicologiche alle quali ci siamo tutti gioco forza Note protocollo provvisorio d’entrata: l’ingresso alle Errata corrige conaree riferimento Dossier assuefatti. Ma quanto prima vincerà la voglia di tornare chiuse al della zona fieristica è consentito solo a rievocare la storia e a rivivere bei momenti tutti L’umanista che andò indossando alle crociatela(vedi mascherina; non è necessaria alcuna insieme e di persona». E in effetti i numeri«Medioevo» sembrano n. 220, aprile 2015) desideriamo prenotazione e i biglietti si acquistano direttamente alle dar ragione agli organizzatori se è vero che,precisare a oltre un che la medaglia in bronzo riprodotta biglietterie dell’ente fiera. aViene comunque consigliato mese dall’apertura, si sono superati i 250 espositori da p. 93 (in basso) ritraeloMalatesta Novello (al per l’ingresso ridotto con scarico dal sito del coupon tutta Europa. Ancora una volta, quindi, sarà ricchissima secolo Domenico Malatesta, 1418-1465) signore registrazione personale (un biglietto ridotto per ogni l’offerta dedicata ad appassionati o professionisti di Cesena, e non Sigismondo Malatesta, come dovrà avvenire al momento visitatore), che altrimenti dell’artigianato storico, dell’arcieria, del collezionismo indicato in didascalia.dell’ingresso Dell’errore ciaiscusiamo padiglioni,con dove verrà effettuata anche la militare, dell’enogastronomia tradizionale,l’autore dello dell’articolo emisurazione con i nostri della lettori.temperatura corporea. spettacolo rievocativo... Armi&Bagagli E proprio per sottolineare che bisogna guardare avanti, Info tel. 345 7583298 o 333 5856448; e-mail: novità di quest’anno è l’inserimento del settore softair! info@armiebagagli.org; www.armiebagagli.org In contemporanea al mercato della rievocazione ExpoArc storica, con artigiani per tutte le epoche uniti a giullari, Info tel. 333 5856448; e-mail: info@expoarc.it musici, teatranti, giocolieri, trampolieri nonché a Piacenza Militaria, I Coltelli un’intera area riservata all’enogastronomia storica Info tel. 333 5856448; e-mail: info@estrela.it e tradizionale, confermate anche le manifestazioni SoftAir Fair in contemporanea: «Expo Arc», evento dedicato Info tel. 340 2805834 o 333.5856448; al mondo dell’arco in tutte le sue espressioni e e-mail: softair@estrela.it declinazioni sportive, culturali, artigianali, didattiche,
AGENDA DEL MESE
Mostre SPOLETO TOCCAR CON MANO I LONGOBARDI Rocca Albornoz-Museo nazionale del ducato di Spoleto fino al 6 marzo
Realizzata in collaborazione con il Museo Tattile Statale Omero di Ancona, la mostra offre la possibilità di ammirare contemporaneamente i sette monumenti del sito seriale «I Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d.C.)», con l’obiettivo di far conoscere la straordinarietà e la complessità del sito Patrimonio UNESCO, attraverso un percorso tattile e una gamma differenziata di opzioni di fruizione che ne facilitano la comprensione, assicurando a tutti un’esperienza multisensoriale ottimale. Nelle sale sono esposti sette modellini tridimensionali in scala dei monumenti architettonici che rappresentano maggiormente il sito seriale longobardo e sette modellini relativi alle aree in cui sono situati i monumenti, per permettere l’esplorazione tattile dei loro contesti di provenienza. A rendere il percorso ancor piú accessibile sono le audio descrizioni (in italiano e inglese), registrate dagli attori della Compagnia #SIneNOmine della Casa di Reclusione di Maiano a
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Spoleto, da ascoltare tramite NFC e QR code, nonché un catalogo in Braille e uno in large print in libera consultazione. Infine, per consentire una fruizione dei modelli inclusiva, sono stati realizzati video con la tecnica
del compositing nella LISLingua dei Segni Italiana, insieme a immagini e animazioni, sottotitoli e audio. info www.longobardinitalia.it FIRENZE DALL’INFERNO ALL’EMPIREO IL MONDO DI DANTE TRA SCIENZA E POESIA Palazzo Pitti fino al 6 marzo
Scienza e poesia si fondono nella Divina Commedia di Dante Alighieri. Per la prima volta a «Dante scienziato» viene dedicata una mostra che fa leva sulla dimensione visuale evocata dai suoi versi. Prendendo spunto dalle lezioni accademiche di Galileo sulla misura e sul luogo dell’Inferno dantesco – dove lo scienziato definiva il poeta «corografo e architetto» – la mostra inquadra le competenze scientifiche di Dante nella cultura del suo tempo, tracciando il profilo
a cura di Stefano Mammini dell’Alighieri come medico, abbachista, geometra, «geologo» e cosmografo. I passi della Commedia, del Convivio e della Questio de aqua et terra sono illustrati attraverso l’esposizione di opere artistiche, manoscritti, modelli tridimensionali e prodotti multimediali che illustrano il sistema cosmologico, la geografia fisica e la geografia spirituale delle opere dantesche. Le sezioni dell’esposizione replicano idealmente la tripartizione della Commedia. Il percorso espositivo è scandito da tre sale che rappresentano le tre cantiche. Nella prima, Inferno, il visitatore si trova immerso nelle viscere della Terra; alzando lo sguardo verso la copertura a cupola vede le terre emerse dall’interno, vale a dire dal punto di vista di Lucifero, il cui immenso corpo sta sospeso al vertice della grande voragine conica che ospita le anime dei dannati. Nel Purgatorio, la sala è coperta dal cielo stellato dell’emisfero australe, là dove Dante immagina di trovarsi una volta uscito «a riveder le stelle». Nell’ultima, Paradiso, si è sospesi tra il mondo materiale, riprodotto sul pavimento secondo il sistema tolemaico, e il mondo spirituale, rappresentato sulla cupola dalle schiere angeliche che ruotano vorticosamente intorno al punto luminosissimo da cui tutto ha origine e verso cui tutto è proteso. Oltre a preziose opere originali – manoscritti, stampe, disegni, incisioni,
mappe del mondo e strumenti scientifici – sono in mostra riproduzioni in alta risoluzione di opere non trasportabili, grandi modelli tridimensionali che rappresentano la Terra e la struttura cosmologica dell’Universo come erano conosciute da Dante, e filmati realizzati dal Laboratorio Multimediale del Museo Galileo. info https://mostre. museogalileo.it/dante/ ROMA DI MANO DI JACOPO DA PUNTORME. DISEGNI DI JACOPO PONTORMO NELLE COLLEZIONI DELL’ISTITUTO CENTRALE PER LA GRAFICA Istituto centrale per la grafica fino al 20 marzo
È esposto per la prima volta nella sua interezza il fondo di disegni di Jacopo Carucci (1494-1556) – meglio noto come Pontormo dal luogo di nascita – la cui fama al tempo rivaleggiò con quella dei grandissimi, da Raffaello ad Andrea del Sarto, da Bronzino a Vasari. Considerata l’intrinseca fragilità di questi manufatti, a tal punto da sconsigliarne il prestito, questo importantissimo nucleo di disegni quasi tutti bifaccia è poco noto anche agli specialisti; ciononostante, si tratta di capolavori, in parte inediti, che riferiscono dell’attività creativa piú intima dell’artista. Soprattutto, si tratta di un nucleo di disegni fresco di operatività marzo
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dell’artista al lavoro, una sorta di archivio personale di bottega la cui importanza in tutti questi anni era sfuggita agli esperti dell’arte del maestro. info www.grafica.beniculturali.it CITTADELLA (PD) MURA CHE UNISCONO. SALONICCO A CITTADELLA Palazzo Pretorio fino al 20 marzo
Le mura di Cittadella – che vanta in Europa l’unico camminamento di ronda medievale di forma ellittica interamente percorribile – sono un elemento identitario indissolubile del borgo: racchiudono il centro storico come a tutelare uno scrigno prezioso e al tempo stesso consentono di alzare lo sguardo all’orizzonte e di guardare oltre. Con questo spirito si è scelto di concludere i festeggiamenti per gli ottocento anni di Cittadella (1220-2020), guardando lontano, relazionandosi con altre importanti città europee e confrontandosi su cosa significhi essere città murata. Quest’anno la prestigiosa relazione avviata è con Salonicco: la città che vanta probabilmente le mura e fortificazioni piú antiche in Europa – dichiarate patrimonio dell’Umanità UNESCO nel 1988 – la piú importante e popolosa città della Grecia dopo Atene, uno dei pilastri di quello che fu l’Impero Bizantino. «Mura che uniscono. Salonicco a Cittadella» da un lato svela la storia e le vicende dell’ultramillenario sistema di fortificazioni di Salonicco, grazie a un ampio apparato documentario e didascalico e a originali testimonianze archeologiche e d’arte antica prestate eccezionalmente dall’Eforato alle Antichità della città e dal Monastero di
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Vlatadon, dall’altro mette in dialogo Cittadella e Salonicco attraverso i linguaggi contemporanei dell’arte e della fotografia. info tel. 049 9413449; e-mail: info@fondazionepretorio. it; www.fondazionepretorio.it/ VENEZIA VENETIA 1600. NASCITE E RINASCITE Palazzo Ducale, Appartamento del Doge fino al 25 marzo
«L’anno sopradetto 421 il giorno 25 del mese di Marzo nel mezzo giorno del Lunedí Santo, a questa Illustrissima et Eccelsa Città Christiana, e maravigliosa fú dato principio ritrovandosi all’hora il Cielo in singolare dispositione...»: il mito di Venezia sta anche nella leggenda della sua fondazione, raccontata cosí
nel Chronicon Altinate (XI-XII secolo) e coincidente con la posa della prima pietra della chiesa di S. Giacometo a Rivoalto il giorno dell’Annunciazione alla Madonna. Una leggenda che, tramandata dai cronachisti e storiografi veneziani, mise insieme racconti che si erano intrecciati nei secoli a sostegno della straordinarietà e del valore di Venezia: città eletta da Dio. Che ora celebra i suoi 1600 anni anche con una mostra messa in scena nel luogo simbolo del potere e della gloria della Serenissima: il Palazzo dei Dogi in piazza San Marco. L’esposizione racconta – attraverso oltre 250 opere d’arte, manufatti antichi e documenti rari – i momenti, i luoghi, i monumenti e i personaggi che hanno segnato la storia di Venezia, scegliendo un punto di vista inedito, cioè quello degli innumerevoli momenti di crisi e rotture e delle altrettante rigenerazioni e rinnovamenti che hanno segnato la sua esistenza. info https://palazzoducale. visitmuve.it; facebook visitmuve ducalevenezia; twitter visitmuve_ it, visitmuve_en, ducalevenezia;
FRA MODENA E FERRARA Archivio di Stato fino al 25 marzo
Il percorso espositivo offre uno sguardo sull’influenza avuta dall’Alighieri sul territorio governato dagli Estensi, espresso attraverso le carte d’archivio. Fulcro della mostra sono alcuni frammenti trequattrocenteschi della Divina Commedia, manoscritti e a stampa, sopravvissuti ai secoli come lacerti di riuso e pervenuti a noi in forma di coperte di registri estensi. Attorno a essi, si snoda una
instagram visitmuve ducalevenezia
MODENA DANTE E GLI ESTE. RIFLESSI DELLA COMMEDIA
rassegna di documentazione di varia natura, capace di restituire un quadro multiforme sulle influenze e sui rapporti di Dante con il mondo, cortese e urbano, stretto attorno alle capitali di Ferrara e Modena. È cosí possibile assistere alle vicende di diverse figure cantate nel poema, inscenate attraverso i loro documenti ufficiali, e valutare il peso e la rilevanza manifestate dalla Commedia nella società e nella letteratura dei secoli passati. E si può in tal modo comprendere quale fosse
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AGENDA DEL MESE l’humus culturale in cui si era formato il poeta, attingendo indirettamente alla sua biblioteca ideale. info tel. 059 230549; e-mail: as-mo@beniculturali.it; www. asmo.beniculturali.it; Facebook: Archivio di Stato di Modena URBINO CITTÀ DI DIO. CITTÀ DEGLI UOMINI. ARCHITETTURE DANTESCHE E UTOPIE URBANE Galleria Nazionale delle MarchePalazzo Ducale di Urbino fino al 27 marzo
Sontuosa dimora realizzata per Federico da Montefeltro nella seconda metà del XV secolo, nel Palazzo Ducale, piú che altrove, l’architettura restituisce il suo valore simbolico e qui risuonano, ancora vivi, i valori del Rinascimento. In questi spazi, quindi, riflettere sulla creazione architettonica acquista la duplice valenza di studio delle radici storiche e proiezione nella contemporaneità e per questa ragione la Galleria Nazionale delle Marche partecipa alle celebrazioni per il 700° anno della morte di Dante con una mostra sull’influenza dell’immaginario del poeta nella visione di artisti, architetti e illustratori. Alla fine degli anni Trenta del secolo scorso furono gli architetti razionalisti Pietro Lingeri e Giuseppe Terragni i primi a offrire una forma tangibile della Divina Commedia nel Danteum: proiezione plastica
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dell’opera, un omaggio memoriale che evocava i principali luoghi danteschi attraverso grandi spazi che, tramite materiali e leggi architettoniche, dovevano esprimerne il significato. Un monumento maestoso pensato per via dei Fori Imperiali a Roma e mai realizzato, a causa dello scoppio della seconda guerra mondiale. Il progetto, illustrato attraverso i materiali originari conservati all’Archivio Lingeri di Milano, mai esposti nella loro completezza, a Urbino è messo in dialogo con la Città ideale, capolavoro – anch’esso emblematico – del Rinascimento italiano e opera chiave delle collezioni della Galleria Nazionale delle Marche. Insieme sono presentate circa cento opere di architetti contemporanei, come Aimaro Isola, Andrea Branzi, Franco Purini, Carmen Andriani, Matilde Cassani, Yellow Office e Francesco Librizzi, che hanno riletto la «sezione» della Divina Commedia attraverso una serie di disegni originali. Un vero e proprio viaggio nell’architettura italiana contemporanea che vede coinvolte almeno tre generazioni diverse e ne mette a confronto l’immaginario architettonico sotto la protezione del Palazzo Ducale di Urbino, archetipo della progettazione. info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it
FRANCIA ARTI DELL’ISLAM. UN PASSATO PER UN PRESENTE Angoulême, Blois, ClermontFerrand, Digione, Figeac, Limoges, Mantes-La-Jolie, Marsiglia, Nancy, Nantes, Narbonne, Rennes, Rillieux-laPape, Rouen, Saint-Denis, Saint-Louis (La Réunion), Tolosa e Tourcoing fino al 27 marzo
Fin dalla sua creazione, nel 2012, il Dipartimento di Arti dell’Islam del Museo del Louvre offre l’opportunità di scoprire le culture islamiche, fiorite dalla Spagna all’India tra il VII e il XIX secolo,
oltre 1300 anni di storia e che annovera oggetti di grande pregio, fra i quali possiamo ricordare una lampada da moschea dell’XI secolo proveniente da Gerusalemme, un candeliere dell’epoca di Saladino realizzato a Mosul sul quale è rappresentata la vita di Gesú o, ancora, cofanetti da toletta in avorio del XIII secolo che appartennero alla duchessa di Borgogna. info https://expo-arts-islam.fr PADOVA GIUSTO DA VICINO. IL POLITTICO DEL BATTISTERO E IL SUO RESTAURO Museo Diocesano di Padova fino al 3 aprile
sottolineando l’importanza degli scambi, stretti e fecondi, che furono stabiliti nel tempo tra la Francia e l’Oriente. Sulla scia di questo approccio è nato il progetto espositivo che vede coinvolte 18 città francesi, ciascuna delle quali ospita un allestimento composto da una selezione di dieci opere provenienti dal museo parigino e da collezioni nazionali e regionali. Una selezione che documenta
Protagonista dell’esposizione, allestita all’interno del Salone dei Vescovi, è il polittico realizzato da Giusto de’ Menabuoi, il «pittore fiorentino» (cosí veniva chiamato nel Trecento) a cui Fina Buzzacarini, moglie di Francesco il Vecchio da Carrara, signore di Padova, commissionò la decorazione del Battistero del Duomo, eletto a mausoleo familiare. Il polittico venne realizzato dall’artista e dalla sua bottega con molta probabilità in contemporanea con gli affreschi del Battistero (1375-1378) e raffigura su piú ordini la Madonna con il Bambino in trono, Storie della vita di San Giovanni Battista (che rappresentano il tema centrale), Storie della vita di Cristo, Dottori della Chiesa e Santi. L’opera viene presentata all’indomani di un intervento di restauro che ha permesso di spingere lo sguardo all’interno dei segreti di una bottega d’arte trecentesca, di distinguere il modus operandi che vede professionalità ad alto livello collaborare per marzo
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l’elaborazione di un manufatto complesso e di straordinario valore. Destinato all’altare consacrato a san Giovanni Battista, il polittico riassume i contenuti del ciclo affrescato sulle pareti e sulla volta del Battistero-mausoleo: mediante il battesimo (nella cuspide del manufatto) si è liberati dal peccato e rigenerati come figli di Dio, diventando parte della grande famiglia della Chiesa corpo di Cristo, qui rappresentata dalla Vergine Maria con in grembo il bambino Gesú (pannello centrale ai cui lati si trovano le storie di Giovanni Battista), insieme ai santi (pontefici, padri della Chiesa, santi e beati padovani), raffigurati nel registro superiore, nella predella e nella cornice. info tel. 049 8226159; e-mail: info@museodiocesanopadova.it; http://museodiocesanopadova.it ROMA RAFFAELLO E LA DOMUS AUREA. L’INVENZIONE DELLE GROTTESCHE Domus Aurea fino al 3 aprile
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Corredata da apparati interattivi e multimediali, la mostra – allestita nella Sala Ottagona della Domus Aurea e nei cinque ambienti circostanti, oltre alle Stanze di Achille a Sciro e di Ettore e Andromaca ancora preziosamente decorate – racconta la straordinaria storia della scoperta delle superfici affrescate. Intorno alla metà del secondo decennio del Cinquecento, Raffaello fu il primo artista rinascimentale a comprendere a fondo la logica dei sistemi decorativi della residenza neroniana, riproponendoli organicamente, grazie alle sue profonde competenze antiquarie, in numerosi capolavori ricordati nell’esposizione. info raffaellodomusaurea.it
scardinare i modelli tradizionali dominanti a Venezia, insieme alle suggestioni offerte da artisti quali Giulio Romano e Parmigianino. La rassegna ricostruisce questo straordinario periodo, cinquant’anni di vita artistica nella terraferma veneta, dal 1550 alla fine del secolo. E attraverso piú di 80 opere, il percorso indaga i meccanismi di produzione e i processi creativi che si celano dietro i capolavori, raccontandone la
a oggi. Vengono dunque proposte le forme ceramiche del bere dal mondo greco, etrusco e romano fino agli sviluppi del design contemporaneo, analizzando il loro impiego nella convivialità della tavola e legando l’uso delle ceramiche da vino e da acqua ai contesti sociali sviluppati da ogni epoca per coglierne gli elementi di originalità e quelli di continuità. Le opere selezionate sono articolate in
realizzazione, individuando coordinate materiali e storiche entro cui sono stati concepiti. info www.mostreinbasilica.it; Facebook: @mostreinbasilicapalladiana; Instagram: @mostreinbasilica #lafabbricadelrinascimento; #rinascimentoavicenza; #mostreinbasilica
quattro sezioni che propongono un viaggio nei secoli all’insegna della convivialità e delle forme ceramiche legate al bere. E, per le ceramiche diffuse dal
VICENZA LA FABBRICA DEL RINASCIMENTO. PROCESSI CREATIVI, MERCATO E PRODUZIONE A VICENZA. PALLADIO, VERONESE, BASSANO, VITTORIA Basilica Palladiana fino al 18 aprile
Alla metà del Cinquecento Vicenza, fra le aree piú dinamiche in Europa per la produzione e il commercio della seta, conosce una sorprendente trasformazione, diventando una capitale della cultura grazie al progetto della cosmopolita nobiltà cittadina, che investe e scommette sulla visione di un gruppo di giovani artisti. Sono il genio dell’architettura Andrea Palladio, i pittori Paolo Veronese e Jacopo Bassano e il grande scultore Alessandro Vittoria. A legarli è la passione per l’arte nuova nutrita dall’antico, nata nella Roma di Michelangelo e Raffaello, quella che Giorgio Vasari definirà la «maniera moderna», la cui forza permetterà loro di
FAENZA GIOIA DI BER. CERAMICHE DA VINO E DA ACQUA IN ITALIA DALL’ANTICHITÀ CLASSICA AL DESIGN MIC-Museo Internazionale delle Ceramiche fino al 30 aprile
Attraverso una selezione di 200 ceramiche da vino e da acqua appartenenti alle collezioni del museo, la mostra documenta gli usi e costumi del bere dall’antichità classica
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AGENDA DEL MESE Medioevo al XVIII secolo, si può rilevare la predominanza morfologica del boccale, dalla tipica conformazione con manico contrapposto al versatoio, che registra nel corso dei secoli varianti formali e decorative peculiari ai vari ambiti. info tel. 0546 697311; e-mail: info@micfaenza.org; www. micfaenza.org/ PISTOIA MEDIOEVO A PISTOIA. CROCEVIA DI ARTISTI FRA ROMANICO E GOTICO Antico Palazzo dei Vescovi e Museo Civico fino all’8 maggio
In occasione dell’anno Iacobeo, l’esposizione illustra, per la prima volta, lo straordinario panorama delle arti a Pistoia dal XII agli inizi del XV secolo e documenta il ruolo di primo piano assunto dalla città nel campo delle arti figurative. Pistoia godeva della presenza di committenti illuminati, in grado di attrarre figure quali Guglielmo (uno dei piú famosi scultori attivi nel duomo di Pisa) e Guido da Como, e poi Nicola e Giovanni Pisano, che lasciarono capolavori fondanti della storia dell’arte italiana. Fa da specchio a questi importanti episodi di scultura la piú imponente delle opere di oreficeria, ideale sigillo della mostra: l’altare di san Jacopo, che attesta Pistoia come snodo di ricezione per le arti suntuarie. Anche la miniatura visse un periodo di grande vivacità,
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testimoniata alla fine del Duecento dall’attività della bottega del Maestro di Sant’Alessio in Bigiano, la piú importante in Toscana, e nel Quattrocento dalle eleganze lineari e dalla preziosità decorativa delle illustrazioni eseguite dal Maestro della Cappella Bracciolini nella Divina Commedia conservata nella Biblioteca Nazionale di Napoli. Nel Trecento Pistoia offre in campo pittorico un panorama variegato di personalità e tendenze culturali, e la presenza di artisti del calibro di Lippo di Benivieni, Taddeo Gaddi e Niccolò di Tommaso la colloca in una posizione di primo piano, ribadita dalla Maestà e angeli di Pietro Lorenzetti proveniente dagli Uffizi, uno dei prestiti piú prestigiosi della mostra, sottoposto a restauro per l’occasione. info tel. 0573 974267; e-mail: info@pistoiamusei.it; www.fondazionepistoiamusei.it MILANO TIZIANO E L’IMMAGINE DELLA DONNA NEL CINQUECENTO VENEZIANO Palazzo Reale fino al 5 giugno
A Venezia nel Cinquecento l’immagine femminile acquista un’importanza forse mai vista prima nella storia della pittura. Questo è dovuto a vari fattori, quali la presenza di Tiziano e di altri artisti operanti sia a Venezia che in terraferma,
particolarmente interessati alla raffigurazione della bellezza muliebre, ma anche, parallelamente, al particolare status che le donne avevano nella società veneziana. La struttura portante dell’esposizione affronta dunque un argomento eternamente valido ma anche completamente nuovo, presentando l’immagine femminile attraverso tutto
l’ampio spettro delle tematiche possibili e nel contempo mettendo a confronto gli approcci artistici individuali tra Tiziano e gli altri pittori del tempo. Partendo dal tema del ritratto realistico di donne appartenenti a diverse classi sociali, passando a quello fortemente idealizzato delle cosí dette «belle veneziane» si incontrano via via celebri eroine e sante, fino ad arrivare alle divinità del mito e alle allegorie. Sono circa un centinaio le opere esposte, di cui 46 dipinti, 15 di Tiziano – per lo piú prestati dal Kunsthistorisches Museum di Vienna –, a cui si aggiungono sculture, oggetti di arte applicata come gioielli, una creazione omaggio di Roberto Capucci a Isabella d’Este (1994), libri e grafica. info www.palazzorealemilano.it
PARMA I FARNESE. ARCHITETTURA, ARTE, POTERE Complesso Monumentale della Pilotta fino al 31 luglio (dal 18 marzo)
A venticinque anni dall’ultima esposizione sul tema, il Complesso Monumentale della Pilotta ospita una grande rassegna dedicata alla committenza della famiglia Farnese, con l’obiettivo d’indagare la straordinaria affermazione della casata nella compagine politica e culturale europea dal Cinque al Settecento, attraverso l’utilizzo delle arti come strumento di legittimazione. Tra i prestiti, un nucleo di circa 200 disegni di architettura presenta, insieme a modelli, elaborazioni grafiche e filmati, il quadro complessivo dell’architettura farnesiana dal punto di vista storico, urbano e territoriale, mettendo in rilievo la relazione tra questa
disciplina e l’affermazione dinastica in termini di prestigio, espansione e visionarietà della committenza. E poi capolavori della pittura – tra i quali spiccano opere di Raffaello, Tiziano Vecellio, Francesco Mazzola «il Parmigianino», El Greco e Annibale Carracci – e una selezione di oggetti marzo
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provenienti dal Gabinetto delle Cose Rare del Museo e Real Bosco di Capodimonte, tra cui la Cassetta Farnese, insieme alla Tazza Farnese dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli, alle monete e medaglie del Complesso Monumentale della Pilotta e ai pezzi della Collezione Gonzaga di Guastalla confluiti nella collezione Farnese, permetteranno di ricostruire una camera delle meraviglie rinascimentale. info tel. 0521 220400; www.complessopilotta.it FIRENZE DONATELLO, IL RINASCIMENTO Palazzo Strozzi e Museo Nazionale del Bargello fino al 31 luglio (dal 19 marzo)
Il progetto espositivo nasce come celebrazione del grande maestro, puntando ad allargare la riflessione su questo artista rivoluzionario nei materiali, nelle tecniche e nei generi. Scultore supremo del Quattrocento – tra i secoli d’oro dell’arte italiana – e prediletto della famiglia Medici, insieme a Brunelleschi e Masaccio, Donatello diede il via alla straordinaria stagione del Rinascimento, proponendo nuove idee e soluzioni figurative che hanno segnato per sempre la storia dell’arte occidentale. Attraverso le sue opere Donatello rigenera l’idea stessa
di scultura, con una potenza di visione unica in cui unisce le scoperte sulla prospettiva e un concetto totalmente moderno di umanità. La dimensione umana dell’arte di Donatello abbraccia in tutta la loro profondità le piú diverse forme delle emozioni, dalla dolcezza alla crudeltà, dalla gioia al dolore piú straziante. Distribuita su due sedi, Palazzo Strozzi e Museo Nazionale del Bargello, la mostra riunisce circa 130 opere tra sculture, dipinti e disegni con prestiti unici, alcuni
dei quali mai concessi prima, e propone un viaggio attraverso la vita e la fortuna di Donatello articolato in quattordici sezioni. Si inizia dagli esordi e dal dialogo con Brunelleschi, proponendo il confronto tra i due celebri Crocifissi lignei provenienti dalla Basilica di Santa Croce e da quella di Santa Maria Novella. Si procede poi attraverso i luoghi per cui Donatello ha lavorato (Siena, Prato e Padova, oltre a Firenze), trovando moltissimi seguaci, entrando in dialogo
con altri celebri artisti molto piú giovani quali Mantegna e Bellini, e sperimentando nei materiali piú diversi le sue formidabili invenzioni plastiche e scultoree. Conclude il percorso una sezione speciale dedicata all’influenza di Donatello sugli artisti a lui successivi, tra cui Raffaello, Michelangelo e Bronzino, testimoniando cosí l’importanza capitale della sua opera per le vicende dell’arte italiana. info www.palazzostrozzi.org; www.bargellomusei.beniculturali.it
APPUNTAMENTI • Luce sull’archeologia. VIII Edizione Roma – Teatro Argentina
fino all’8 maggio info www.teatrodiroma.net
«C
ittà Romane. Idee, realtà e utopie nel mondo antico»: è questo il titolo scelto per l’VIII edizione di «Luce sull’archeologia», i cui appuntamenti sono in programma al Teatro Argentina di Roma, la domenica mattina, alle 11,00. Obiettivo della rassegna è mettere in luce l’idea stessa di città, con i suoi elementi universali e comuni, i modelli urbani di altre civiltà, gli archetipi greci. Da Roma, dove sogno e materia si fondono alla città celeste di sant’Agostino, alle città ideali della pittura rinascimentale. Ciascun incontro è arricchito dai contributi di storia dell’arte di Claudio Strinati, dalle anteprime del passato curate dal direttore di «Archeo», Andreas M. Steiner, ed è introdotto e presentato da Massimiliano Ghilardi. Qui di seguito, i prossimi appuntamenti. 20 febbraio: Maurizio Bettini, I Romani e gli Dei; Gianluca De Sanctis, Il paesaggio sacro di Roma; Massimiliano Papini, Ombrose porticus: passeggiate oziose nell’antica Roma; con la partecipazione di Alessandra Cattoi, RAM film festivalL’archeologia al cinema. 27 febbraio: Alessandro D’Alessio, Neropolis. Realtà e utopia della nuova Roma di Nerone; Antonio Marchetta, L’altra faccia del potere: il Tieste di Seneca sullo sfondo del matricidio neroniano; con la partecipazione di Annarosa Mattei, Sogno notturno a Roma (1871-2021). 6 marzo: Paolo Carafa, Un nuovo fondatore, una nuova città: Augusto e Roma; Francesca Cenerini, I luoghi delle donne nelle città degli uomini; Emanuela Prinzivalli, Quale spazio per una donna cristiana nelle città dell’impero romano? 20 marzo: Carmine Ampolo, La Segesta di Cicerone tra storia e archeologia: la città in età ellenistico-romana; Giuseppe Parello, Agrigentum. La città romana nelle fonti e nelle evidenze archeologiche; Emanuele Greco, Thuri e Poseidonia diventano Copia e Paestum. 3 aprile: Federico Marazzi, Città fra terra e cielo: San Vincenzo al Volturno e i grandi monasteri dell’Alto Medioevo; Umberto Roberto, Capitali d’Italia: Milano, Ravenna, Roma e l’imperatore; Francesco Sirano, Abitare a Ercolano antica nel I secolo d.C. Viaggio sotto la cenere del Vesuvio. 8 maggio: Luciano Canfora, Platone e la Kallipolis; padre Giuseppe Caruso, Una città in cielo. Agostino e il compimento della storia; Francesca Ghedini, La Roma di Ovidio: vissuta, sognata, rimpianta.
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ANTE PRIMA
IN EDICOLA
L’ETÀ DEI SANTI Misteri, miracoli e prodigi
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A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.
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Timeline Publishing Srl - Poste Italiane Sped. in
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a devozione religiosa e la pratica del culto sono elementi fortemente distintivi dell’età di Mezzo e il nuovo Dossier di «Medioevo» ne offre una ricca documentazione, cercando soprattutto di mettere in luce quanto sia spesso labile il confine fra realtà storica e tradizione leggendaria, alimentata, quest’ultima, dal fiorire delle agiografie di santi. Un confine lungo il quale occorre comunque I I DIG NT PRO muoversi con attenzione, SAOLI E C RA poiché, come si legge MI nelle pagine introduttive, Dossier «un preconcetto eccesso di razionalismo può avere in questo ambito la medesima influenza deleteria di un cieco fideismo». L’ETÀ DEI Resta intatta la potenza di episodi comunque MISTERI, MIRACOLI E PRODIGI Quando e come uomini, passati alla storia, quali donne e re divennero «Servi di Dio» l’incontro fra papa Leone I e Attila, in occasione del quale il pontefice fu capace di convincere il re unno ad astenersi dal mettere Roma a ferro e fuoco, o l’incrollabile tenacia di sant’Antonio Abate nel resistere alle tentazioni del diavolo. Fatti come questi furono peraltro alla base della diffusione delle reliquie, fenomeno che assunse contorni eccezionali, ma che, proprio per la sua portata, non fu esente, già allora, da critiche, anche molto aspre. Questo nuovo Dossier di «Medioevo» propone dunque un vasto repertorio di temi e, facendo luce sul rapporto con la religione, ne testimonia l’importanza e la centralità nella vita quotidiana del tempo. Un ruolo di cui sono figlie anche la nascita dei grandi luoghi di culto, prime fra tutti le cattedrali, e la ricca produzione artistica a carattere sacro. Le cui immagini compongono il ricco corredo iconografico del fascicolo.
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2022 Rivista Bimestrale
20048 059004
IN EDICOLA IL 18 GENNAIO 2022
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In alto sant’Orsola tiene nella mano destra la palma, simbolo del martirio subíto, rappresentato dalla freccia infissa nel petto, particolare di un affresco di Bernardino Luini. 1522-1524. Milano, chiesa di S. Maurizio al Monastero Maggiore.
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€ 7,90
L’ETÀ DEI SANTI
di Franco Cuomo
Nella pagina accanto San Tommaso d’Aquino, particolare del Polittico di Valle Romita (Incoronazione della Vergine e santi), tempera su tavola di Gentile da Fabriano. 1408 circa. Milano, Pinacoteca di Brera. marzo
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GLI ARGOMENTI
• Un mistero alla prova della storia • Campioni della fede • Carlo Magno • I santi coronati • La lotta alle eresie • Eremiti e anacoreti • L’avvento del monachesimo • San Francesco d’Assisi • Le sante militanti • Santa Rita da Cascia • Nuovi martiri • Il pensiero teologico • I cronisti della fede • Reliquie d’Italia
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Il sostenibile mondo di
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di Federico Canaccini
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Per il piccolo Anselmo d’Aosta, Dio risiedeva in una montagna, resa pura dalla neve candida. Sant’Antonio, sempre in compagnia di un porcellino, benediva gli animali. E san Francesco invocava un pianeta Terra in cui la convivenza dell’uomo con il creato fosse pacifica e rispettosa… Ma, al di là di queste «sante» intenzioni, è mai esistito un Medioevo «ecologico»? Ecco alcuni spunti su cui riflettere…
E È
difficile, se non impossibile, stabilire la data di nascita di un sentimento ecologico, nel senso moderno che attribuiamo al termine. Secondo il fisico statunitense J. Robert Oppenheimer (19041967), progettista capo della prima bomba atomica, «l’era dell’ecologia ebbe inizio il 16 luglio 1945 nel deserto del New Mexico, vicino alla città di Alamogordo, con un’abbagliante sfera infuocata di luce e un fungo rigonfio di gas radioattivi». Dopo un’iniziale ondata di incontenibile euforia, lo scienziato visualizzò nella propria memoria un’oscura frase del Bhagavadgita, testo sacro induista di duemila anni fa: «Sono diventato Morte, colei che distrugge i mondi». Alla metà degli anni Novanta del secolo scorso apparvero in ambito storiografico alcuni volumi dedicati al tema del rapporto tra uomo e natura, spesso caratterizzati da un approccio ipercritico, certamente frutto dei sempre piú preoccupanti appelli che naturalmente tuttora non cessano e che con buona probabilità, anche alla luce della pandemia Covid-19, sono destinati a durare. Da tempo, dunque, letteratura e media raccomandano un atteggiamento globale piú rispettoso ma, per il momento, non sembrano aver ottenuto l’inversione di tendenza auspicata.
Asciano (Siena), abbazia di Monte Oliveto Maggiore. San Benedetto ottiene farina in abbondanza e ne ristora i monaci, affresco del ciclo che illustra la vita del santo, iniziato da Luca Signorelli e portato a termine nel 1505 dal Sodoma. La Regola benedettina prevedeva un consumo limitato di carne rossa.
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Le bestie non hanno anima
Per lo storico americano Donald Worster – tra i padri fondatori della storia ambientale –, l’atteggiamento di indifferenza nei riguardi della Natura ebbe inizio già in epoca cristiana e poi medievale, con la sola eccezione, forse, di san Francesco, autore del cantico di «frate Sole» e che conversa col lupo di Gubbio o col falcone al monte della Verna. Il giudizio, tuttavia, appare troppo severo: e se è vero che Pio IX rifiutò di costituire a Roma un’associazione contro gli spettacoli di «corride», adducendo come motivazione l’assenza di anima nelle
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costume e società Sant’Antonio abate e il maiale
La rivincita di un reietto Perché sant’Antonio abate non si separa mai dal suo porcellino? A differenza di altre vicende agiografiche, la sua è una storia particolarmente intricata. Nella Vita di Antonio scritta da sant’Atanasio di Alessandria, infatti, non vi è traccia di un incontro tra l’eremita e un maiale: rimasto orfano all’età di 18 anni, il futuro santo – che sarebbe nato a Quena, presso Eracleopoli (Medio Egitto) nel 251 o 252 – si ritirò nel deserto egiziano, dove il Diavolo lo avrebbe tentato piú volte, atterrendolo anche grazie a bestie feroci o pericolose, come scorpioni, serpenti o leoni. Ma non certo... maiali. Per avvicinare Antonio al popolo cristiano europeo, poco avvezzo al deserto e alla fauna egiziana, innanzitutto cambiò lo sfondo: il deserto degli eremiti europei, in mancanza di distese di sabbia
infuocata, fu la buia foresta continentale, popolata da lupi, orsi e cinghiali. Questi ultimi compaiono con una certa frequenza anche perché il cinghiale, affine al maiale, era considerato un animale peccaminoso. Ma come si giunse alla sostituzione di quest’ultimo con il suo cugino da cortile, facendone quasi un compagno di giochi, da che minacciava l’eremita con le sue temibili zanne? Nella Bibbia il ruolo del maiale, considerato impuro e rifugio di demoni, ha sempre un’accezione negativa. La cultura greco-romana invece, e poi quella germanica, lo apprezzavano in quanto simbolo di ricchezza e fecondità. Ma l’episodio evangelico in cui Gesú libera un uomo dai demoni, inducendoli a possedere un branco di maiali che si gettano nel lago di Tiberiade, colpí la fantasia dei teologi e contribuí ad
accrescere la cattiva fama del povero suino, osteggiato già dagli Ebrei. Nel XIII secolo al posto del cinghiale inizia ad apparire nella valle del Rodano, poi in Borgogna, in Germania e in Inghilterra, un maialino rosa, anziché un ispido cinghiale, accanto al santo egiziano già attorniato da boschi anziché dal deserto d’Egitto. E fu probabilmente grazie al ruolo dell’Ordine ospedaliero degli Antoniani che la leggenda del santo ben presto si trasformò. Nel 1070, infatti, le reliquie di Antonio giunsero da Costantinopoli nella valle del Rodano, nella quale vent’anni piú tardi esplose una grave epidemia di Herpes zoster, malattia nota anche come «fuoco di sant’Antonio». I fedeli si rivolsero alle reliquie del santo da poco giunte, implorando aiuto e ben presto le miracolose guarigioni non tardarono ad arrivare.
bestie – e la conseguente compassione umana –, non sono pochi gli esempi di santi che instaurarono un rapporto simbiotico con gli animali, le piante e il creato. Sant’Anselmo (1033-1109) sognò da bambino d’essere stato in Paradiso. Da Aosta, dove nacque, si vedono due montagne piú alte delle altre, ammantate da nevi perenni: il Ruitor e il Grand Combin. In una di esse il piccolo Anselmo immaginò che risiedesse Dio, il quale gli avrebbe donato persino un pane bianchissimo. Del resto, se non nella inaccessibile montagna, pura per la candida neve, dove poteva abitare il Signore? Quasi inutile ricordare che, negli ultimi cinquant’anni, sulle Alpi i ghiacciai sono diminuiti drasticamente del 40%, passando dai 519 kmq (1962) agli attuali 368 kmq. Nelle formazioni piú grandi il restringimento è stato ovviamente piú visibile, ma tutti i ghiacciai si sono ridotti e oltre duecento sono completamente scomparsi, facendo evaporare piú di 2000 miliardi di litri di acqua dolce. Quanto al rapporto con gli animali, a causa del surriscaldamento del pianeta è purtroppo molto probabile che assisteremo all’estinzione dell’orso polare (e non solo). Ma, proprio dal Medioevo, almeno arriva un patrono per gli animali: sant’Antonio, infatti, non si se-
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Oltre a curare gli ammalati, gli Antoniani si dedicavano anche all’allevamento dei suini, sia per venderne le carni, sia a scopo medico: la carne era considerata un alimento dall’elevato valore energetico e dal grasso si ricavava un unguento molto utile. In molte città i maiali di proprietà dell’Ordine potevano grufolare per le strade, dando un contributo alla pulizia delle stesse e alimentandosi di rifiuti gratuitamente. Per evitare che di questa prassi approfittassero anche privati, si iniziò a mettere un campanello al collo delle bestie appartenenti agli Antoniani. Ed ecco come probabilmente apparve il candido porcellino di sant’Antonio, con tanto di sonaglio al collo. Da simbolo di Satana, il maiale è divenuto, tramite una tortuosa strada, addirittura fedele compagno di un santo, scelto infine quale protettore di tutti gli animali. A destra Sant’Antonio abate, tempera su tavola di Joan Reixach. 1450-1460. Madrid, Museo del Prado. Dietro il santo si riconosce un maiale, qui come immagine del Diavolo e delle tentazioni della carne. Nella pagina accanto Francesco conclude il patto con il lupo di Gubbio, particolare di uno dei pannelli della Pala di Sansepolcro, tempera su tavola del Sassetta (al secolo Giovanni di Consolo da Cortona). 1437-1444. Londra, National Gallery.
para mai dal suo porcellino, adornato da un campanello al collo, ed è legato a lui l’uso di benedire gli animali; e, dopo il Mille, in Germania, nacque la tradizione di allevare un maialino da destinare a fondazioni ospedaliere dove prestavano appunto servizio i monaci di S. Antonio (vedi box in queste pagine). Oltre alla carne fresca, ma soprattutto stagionata, il grasso del maiale era infatti molto utile per preparare creme emollienti con cui curare le ferite e il cosiddetto «fuoco di sant’Antonio». La tradizione di benedire gli animali poi è ancora viva e, alla metà di gennaio, in occasione della festa di
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sant’Antonio, non è raro vedere in piazza San Pietro cani, gatti, cavalli, mucche e molti altri animali, anche rari, magari salvati dal rischio di estinzione. L’usanza è antica e la benedizione degli animali avviene, sempre a Roma, nel rione Esquilino almeno dal 1437.
Un messaggio pacifista
Il Cantico delle Creature del già citato Francesco d’Assisi è un inno alla convivenza dell’uomo con il creato in modo totalmente pacifico e rispettoso: dalla «sora acqua» a «frate foco», dalle stelle agli animali, l’Assisiate
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costume e società racconta di un pianeta Terra in cui il rispetto degli elementi è totale. E il messaggio pacifista trasmesso da Francesco non è affatto svincolato dal rispetto del mondo animale: il miracolo di Gubbio legato al lupo ammansito non è solamente il simbolo di un rispetto per gli animali su cui gravava un pesante pregiudizio, ma forse ancor piú un modo per mettere un freno alla pratica della caccia che – come vedremo – era il volano per quella ben piú dannosa della guerra. Nelle isole britanniche si contano innumerevoli episodi di santi nutriti da animali o che trovano riparo in grotte, vengono difesi da alberi e piante: san Kevin, in Irlanda, ottiene la tenuta di Glendalogh grazie all’aiuto di un’oca, da lui risanata, e il merlo che cova le uova tra le sue braccia, immobili per la preghiera, ha ispirato i versi di Seamus Heaney per la sua St. Kevin and the Blackbird. Il suolo stesso può divenire elemento di santificazione e di venerazione: per esempio, là dove il re e santo Oswald cadde in battaglia, il terreno avrebbe iniziato a guarire uomini e animali, a condurli miracolosamente altrove e a salvare dalle fiamme interi villaggi.
Le prescrizioni di Benedetto da Norcia Nasce invece in Italia l’atteggiamento «vegetariano», trasmesso in tutta Europa dalla Regola monastica stilata da Benedetto da Norcia intorno al 540. Ben sette capitoli sono dedicati alla trattazione dell’alimentazione dei monaci: il capitolo 36 è destinato ai monaci infermi e il 37 ai monaci vecchi e
ai bambini, cioè a quei gruppi di religiosi per i quali si potevano fare eccezioni anche in fatto di dieta e in questi passi si offre la possibilità di dar loro carne rossa da cui trarre il vigore necessario. La Regola è naturalmente improntata alla moderazione pure nelle quantità, anche perché i monaci a cui essa si rivolgeva provenivano in larga parte dall’aristocrazia fondiaria dell’epoca tardo-antica, che considerava l’abbondanza di cibo uno status symbol, né piú né meno come sembra accadere nuovamente oggi: il Large Size a tavola fa ancora gola a molti, anche se, spesso, a scapito della qualità di ciò che si mangia. Questa passione per i locali che propongono la formula «All you can eat» («Tutto quel che riesci a mangiare») ricorda, per certi versi, un modello di società del tardo impero, decadente e certamente irrispettosa delle risorse: inutile rammentare quanti sprechi alimentari vengano quotidianamente commessi e quanto cibo venga massicciamente prodotto per soddisfare una domanda sempre piú indirizzata verso il consumo – se non l’abuso – smodato della carne, e come questo modello venga purtroppo esportato in Paesi, come l’India o il Brasile, dove la dieta tradizionale ne era quasi del tutto priva. Cosí facendo, si è aumentata la richiesta di carne in zone nelle quali non veniva in origine prodotta, praticando la deforestazione e l’allevamento intensivo ai margini di aree che costituiscono l’habitat di specie selvatiche. L’esame di altre regole monastiche, anche piú tarde di quella benedettina, ci permette di stimare
La società medievale era legata alla foresta da una relazione profonda, dalla quale derivava, di conseguenza, un rapporto altrettanto stretto con la caccia
Olifante (corno da caccia) detto «di Carlo Magno». XI sec. Aquisgrana, Tesoro della Cattedrale.
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In alto miniatura raffigurante una muta di cani che si avventa sul cinghiale abbattuto dai cacciatori, scena scelta come allegoria del mese di Dicembre per il manoscritto Les Très Riches Heures du duc de Berry. XV sec. Chantilly, Musée Condé.
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Miniatura raffigurante i cani che, durante una battuta di caccia al cervo, vengono sciolti perché si lancino all’inseguimento della preda, da un’edizione del Livre de la chasse di Gaston Fébus. 1408-1410. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
i valori energetici della «dieta del monaco»: 40% (legumi e ortaggi), 20% (pesce, uova, prodotti caseari), 20% (vino), 18% (pane e affini), 2% (spezie, aglio, cipolla, rafano, ecc.). L’astinenza dal consumo di carne rossa assecondava il precetto biblico espresso in Genesi, secondo il quale Dio diceva che l’uomo non doveva mangiare «la carne con la sua anima, con il suo sangue». Di contro, sempre in Genesi, si leggeva che «ogni animale che si muove ed è in vita, vi serva di cibo». Ma nella macellazione della carne si annidava il ricordo di Caino, del sangue, della morte: meglio era per il monaco evitare tutto questo e cercare di elevarsi, tentando di recuperare la perduta condizione adamitica in cui l’uomo non aveva neppure il bisogno di mangiare. Da qui l’insistenza sul digiuno e sulla mortificazione, finalizzata a rendere il corpo piú leggero, piú vicino a quello celeste degli angeli che non a quello pesante e terreno degli uomini. Questo atteggiamento fu totalmente dimenticato alla fine del Medioevo, in quel periodo che lo storico francese Fernand Braudel (1902-1985) definí «l’Europa dei carnivori», quando la carne era divenuta il pasto quotidiano, i piatti erano abbondanti e il vino veniva ingurgitato come fosse acqua.
Un intrico di regole e di eccezioni
Nell’Europa medievale il tema dell’ecologia è stato variamente affrontato: nella Britannia, per esempio, spigolando tra fonti agiografiche e biografie di sovrani, si intuisce che furono intraprese vere e proprie «politiche ecologiche», caratterizzate da un’unità di intenti che combinava uomini, animali e spazi, riflettendosi, da ultimo, nei testi letterari. Nella foresta, per esempio, si fondono terra, vita e legge: le norme che regolano la caccia degli animali selvatici (non certo indiscriminata), mostrano una complessa rete di leggi ed eccezioni; eccezioni che sono spesso sintomo di una «politica ecologica» in grado di combinare contemporaneamente violenza e protezione della fauna e della flora. In un mondo come quello odierno, con una giustificata preoccupazione ambientale, tenderemmo a immaginare la caccia precipuamente come un’aggressione agli equilibri: nel Medioevo, invece, essa aveva una dimensione assai diversa, espressione di una società profondamente integrata con il mondo dei boschi. Anche in quella che definiamo Francia vi era naturalmente un profondo legame con la foresta, e di conseguenza con la caccia e, come vedremo, con la guerra: Carlo Magno si preoccupa di introdurre i pro-
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costume e società Formella in vetro policromo facente parte di una serie dedicata all’antieroe Sorgheloos (Spensieratezza in olandese antico). 1510-1520. New York, The Metropolitan Museum of Art. Il personaggio è qui raffigurato mentre, seduto su una tinozza rovesciata, attizza il fuoco che fa bollire una pentola piena di aringhe. Intorno a lui, oltre a quella di un cane, si può notare la presenza di un gatto, che alla fine del Medioevo divenne un animale da compagnia, anche perché ritenuto un prezioso alleato nella lotta alla diffusione dei ratti, portatori di pestilenze.
pri figli alla caccia «non appena l’età glielo consentiva», e questo significava imparare a montare in sella con lancia e spada in tempi rapidi. «Chi, senza montare a cavallo, è rimasto a scuola fino a 12 anni, non è piú buono ad altro che a fare il prete», recitava un proverbio carolingio. La caccia che si doveva praticare in giovane età era anche quella che doveva insegnare ad affrontare un ipotetico nemico futuro: quindi era un incontro ravvicinato. Da varie citazioni s’intuisce che doveva trattarsi di combattimenti quasi alla pari: Carlo Magno combatte contro tori e bisonti «spada alla mano»; Lotario fa altrettanto contro un orso; in un poema cavalleresco inglese del Trecento, Sir Gawain e il cavaliere verde, il signorotto Bertilak si lancia contro un cinghiale ferito per finirlo a colpi di spada: «Il cinghiale caricò l’uomo e furono un mucchio, uomo e animale». Non deve
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dunque stupire che l’approvvigionamento carneo, basato su una evidente istigazione alla violenza e un sollazzo, peraltro condito dal piacere per il pericolo, venisse bandito dai monaci. D’altronde, per sovrani e cavalieri l’abilità nell’uso delle armi era uno dei principali segni distintivi del proprio ruolo di dominio: saper cacciare bene serviva a confermare la propria legittimità tra pari e agli occhi dei sottoposti.
Morire da cacciatori
Occorre però sottolineare che quello tra uomo e animale non è presentato come un rapporto sbilanciato. Come abbiamo detto, nello scontro con le fiere, il cacciatore si trova spesso alla pari e sono molti i casi in cui sovrani o cavalieri muoiono nel corso del combattimento: Carlo il Fanciullo (864), Carlo Magno III (884), Lamberto di Spoleto (898), Bonifacio di Canossa (1053). Riflessi politici interessanti di questo atteggiamento si ritrovano anche nel poema Le nozze di Sir Gawain e della Dama Ragnell. Come il sovrano mostra il proprio potere sugli animali tramite l’esercizio della caccia, cosí il suo corpo è metaforicamente pronto a essere «smembrato e divorato dai suoi ufficiali»: in fondo, il re, come le sue leggi, non sono altro che tasselli di un grande puzzle di esseri viventi e norme naturali. Gli esseri viventi che insistono sul territorio, non possono infatti prescindere dalla presenza e dall’influsso che su di loro esercitano fiumi, paludi e colline. Queste leggi bio-politiche avevano ricadute anche su aspetti quali la moda o le disposizioni suntuarie e trasformarono il modus vivendi, alla base del quale le risorse urbane rimpiazzarono quelle boschive. Si deve dunque ripensare l’atteggiamento dell’uomo medievale nei riguardi dell’ambiente e dell’ecologia stricto sensu: come in qualsiasi altra epoca storica, anche nei dieci secoli dell’età di Mezzo, si possono rinvenire atteggiamenti di amore e di odio nei confronti di tutto ciò che lo circonda. Si confermarono grandi pregiudizi nei confronti di animali considerati negativi già nel mondo antico, mentre alcuni animali, come per esempio il gatto, dopo un periodo di disgrazia, tornarono in auge. Nell’antico Egitto il piccolo felino era addirittura sacro, associato alla dea Bastet, divinità legata alla casa. Ma si deve attendere la fine del Medioevo (se non addirittura l’età moderna) perché il gatto sia considerato l’adorabile animale di compagnia che oggi conosciamo. Gli ecclesiastici medievali non amavano affatto i gatti, considerandoli niente meno che stregoni, e solo la loro abilità nel marzo
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Una gualchiera per la follatura dei tessuti, dal Theatrum Machinarum Novum di Georg Andreas Böckler. 1661. Simili impianti funzionavano grazie all’impiego di energie rinnovabili, in questo caso l’acqua. Nel disegno sono indicati: A. ruota idraulica azionata per trascinamento dal basso; B. albero a camme per la movimentazione dei magli; C. camma in legno; D. magli per battere il panno; E. fornace per riscaldare l’acqua della caldaia; F. acqua con additivo per impregnare il panno usando il mestolo.
cacciare i topi, dopo la peste del 1348, li riabilitò agli occhi degli Europei, i quali iniziarono ad accoglierli in casa. Se prima il gatto era accusato di non seguire il precetto divino di dormire al buio, per dedicarsi a pratiche magiche o eretiche, ora lo si lascia scorrazzare liberamente in cantina pur di eliminare i ratti. Analogo è il destino per il pipistrello, una sorta di topo volante, che di notte vive anziché dormire:
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anch’esso è da sempre associato al Diavolo e al Male e il pregiudizio nei suoi confronti – soprattutto a seguito delle ipotesi formulate sulla diffusione del Covid-19 – risulta ancora ben vivo. Ai chirotteri si affiancavano gli altri animali notturni (gufi, civette e barbagianni), gli animali viscidi (il rospo, la lucertola e naturalmente il serpente) e, ovviamente, quelli dal manto nero, come i corvi.
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costume e società
Pipistrelli in vendita in un mercato di Tomohon, città dell’Indonesia (provincia del Sulawesi Settentrionale), dove il consumo della loro carne non è considerato un tabú.
Nel corso del Basso Medioevo, nelle pitture delle corti rinascimentali, appaiono invece sempre piú cani, cavalli e falconi, ma non si dimentichi che con l’Umanesimo si rinforza l’idea espressa nel Genesi che ordina agli uomini di popolare la Terra e sottomettere a sé ogni essere vivente, che abbiamo visto già diffusa nei primi secoli dal monachesimo. Attenzione, però: non può essere ascritta al solo passo biblico la responsabilità di un atteggiamento di sottomissione del pianeta all’uomo. In culture estranee alla Bibbia, come presso i Maya, la Cina o il Vicino Oriente, sono stati perseguiti risultati altrettanto nefasti senza bisogno dei precetti biblici. E non pare si arrestino. Il Medioevo fu anche l’età in cui lo sfruttamento delle energie pulite conobbe probabilmente il mas-
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simo sviluppo: l’Europa si costellò, a cavallo dell’XI secolo, di mulini a vento, di mulini mossi dai fiumi e dalle cascate. Le ruote dentate poi potevano dare l’innesco ad altri strumenti, azionati sempre dalle energie rinnovabili sapientemente sfruttate anche nell’antichità, ma certamente migliorate nei secoli del Basso Medioevo: ecco allora fiorire le gualchiere, i magli per pestare gli stracci da cui ricavare la carta, oppure per la manifattura laniera; e poi le macine per la pigiatura del grano e delle olive e molte altre macchine che resero l’Europa preindustriale una potenza economica di tutto rispetto. Questa breve riflessione «ecologica» sui secoli del Medioevo vuole, insomma, ribadire la necessità di ripensare gli equilibri del nostro sistema mondiale: occorre infatti adoperarsi al fine di dare vita a uno sviluppo realmente sostenibile, cerniera risolutiva tra il progresso a tutti costi e lo sfruttamento delle risorse naturali, non certo eterne, offerte dal pianeta Terra. marzo
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vivere al tempo del decameron/3
Quelle storie «donnescamente» di Corrado Occhipinti Confalonieri
A Boccaccio le donne piacevano troppo e – secondo i suoi detrattori – non stava bene andarle cosí dietro. Ma per difendere la loro immagine da un misoginismo fin troppo simile a quello nostro, l’autore del Decameron sfida le convenzioni. E traccia l’identikit, assai poco lusinghiero, di padri padroni e mariti gelosi e autoritari Il matrimonio, pannello facente parte di una serie con la Storia di Griselda, olio e tempera su legno attribuito a un artista noto come Maestro della Storia di Griselda. 1494 circa. Londra, National Gallery. La vicenda della giovane, sposata dal marchese di Saluzzo, è narrata da Boccaccio nell’ultima
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novella del Decameron. Questo e gli altri due pannelli della serie, destinati all’arredo di una camera nuziale, furono con ogni probabilità commissionati in occasione delle nozze di due fratelli della nobile famiglia senese degli Spannocchi: Antonio, con Alessandra Placidi, e Giulio, con Giovanna Mellini. marzo
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narrate B
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en sette dei dieci narratori del Decameron sono donne, perché a loro Boccaccio aveva dedicato la sua opera e, mettendole in maggioranza, voleva valorizzarle. Questo suo intento, nel misogino mondo medievale, gli aveva procurato molte critiche. Nell’introduzione alla quarta giornata della raccolta, lo scrittore sostiene: «Carissime donne, sí per le parole de’ savi uomini udite e sí per le cose da me molte volte e vedute e lette, estimava io che lo impetuoso vento e ardente della invidia non dovesse percuotere se non l’alte torri o le piú levate [elevate] cime degli alberi: ma io mi trovo della mia estimazione ingannato». Le critiche a cui allude sono rivolte alla sua devozione per il
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mondo femminile: «Sono adunque, discrete donne, stati alcuni che, queste novellette leggendo, hanno detto che voi mi piacete troppo e che onesta cosa non è che io tanto diletto prenda di piacervi e di consolarvi e, alcuni hanno detto peggio, di commendarvi [lodarvi] come io fo. Altri, piú maturamente mostrando di voler dire, hanno detto che alla mia età [circa quarant’anni] non sta bene l’andare ormai dietro a queste cose, cioè a ragionare di donne o a compiacer loro. E molti, molto teneri della mia fama mostrandosi, dicono che io farei piú saviamente [opererei piú saggiamente] a starmi con le Muse in Parnaso che con queste ciance [chiacchere] mescolarmi tra voi. E son di quegli ancora che, piú dispettosamente che saviamente parlando, hanno detto
che io farei piú discretamente [farei cosa piú avveduta e opportuna] a pensare donde io dovessi avere del pane che dietro a queste frasche [sciocchezze] andarmi pascendo di vento [nutrendo di chiacchere]». Questo passaggio all’inizio della quarta giornata dimostra anche come la circolazione di un terzo delle novelle fosse già avvenuta ed esse fossero ben conosciute prima del completamento delle dieci giornate che compongono l’opera. Boccaccio non si cura di giudizi che reputa dettati dall’invidia – «soffiamenti» – per aggiungere, riferendosi alle donne: «Quantunque a voi in ciò tutta appartenga la mia difesa, nondimeno io non intendo di risparmiare le mie forze, anzi, senza rispon-
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vivere al tempo del decameron/3
dere quanto si converrebbe, con alcuna leggiera risposta tormegli [mi levo gli invidiosi] dagli orecchi e questo far senza indugio». Non a caso, il re della quarta giornata è un uomo, Filostrato, e l’argomento riguarda gli amori infelici che vedono come protagoniste donne umiliate e offese, affinché i detrattori di Boccaccio mostrino verso di loro compassione e comprensione. Questo accade già nella prima novella della quarta giornata (IV, 1) in cui Fiammetta «donnescamente» [con fare gentile] narra la storia di Ghismonda, la bella figlia di Tancre-
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di, principe di Salerno, «signore assai umano e di benigno ingegno». Il padre è molto geloso di Ghismonda; per questo l’aveva concessa in sposa molto tardi al duca di Capova.
Un affetto morboso
Rimasta presto vedova e senza figli, la donna tornò a vivere con il padre, con cui aveva un rapporto molto stretto e confidenziale, tanto che spesso egli andava «tutto solo nella camera della figliola e quivi con lei dimorarsi e ragionare alquanto», oppure mangiava con lei. Nonostante Ghismonda fosse vedova
da diverso tempo, Tancredi non aveva nessuna intenzione di farla risposare, perché la voleva, morbosamente, tutta per sé. Nel castello presta servizio Guiscardo, un giovane valletto «uom di nazione [origine] assai umile ma per vertú e per costumi nobile» di cui Ghismonda si innamora, ricambiata. Un giorno Tancredi si reca nella camera da letto della figlia e, non trovandola, si addormenta sulla cassettina con le rotelle che nel Medioevo si teneva sotto il letto, nascosto dalle cortine del baldacchino. Quando Ghismonda entra marzo
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Ghismonda con il cuore di Guiscardo, olio su tela di Bernardino Mei. 1650-1659. Siena, Pinacoteca Nazionale.
In alto, sulle due pagine miniatura raffigurante Ghismonda che riceve il padre dell’amato Guiscardo, fatto uccidere dal di lei padre, Tancredi, da un’edizione francese del Decameron. XIV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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vivere al tempo del decameron/3 in camera non si accorge della presenza del padre, accoglie Guiscardo e giace con lui. Nel frattempo, Tancredi si sveglia e scopre cosí la tresca dei due amanti, ma non dice nulla. Quando i due escono dalla stanza, sebbene sia anziano, «da una finestra di quella si calò nel giardino e senza essere da alcuno avveduto, dolente a morte, alla sua camera si tornò».
Il valletto non si pente
La sera seguente il principe imprigiona Guiscardo, accusandolo di aver tradito la sua fiducia e la sua benevolenza. Il valletto non rinnega il suo amore per Ghismonda e alle accuse del nobile padrone risponde solamente: «amor può troppo piú che né voi né io possiamo». Tancredi è furibondo per l’oltraggio: rivela alla figlia che ha scoperto il suo amore per Tancredi, lasciando intendere che potrebbe condannare a morte il giovane. Preso da sentimenti che oscillano fra il desiderio di fare del male alla figlia e quello di perdonarla, il principe le chiede spiegazioni: «Dall’una parte mi trae l’amore il quale io t’ho sempre piú portato che alcun padre portasse a figliuola, e d’altra mi trae giustissimo sdegno preso per la tua gran follia: quegli vuole che io ti perdoni e questi vuole che io contro a mia natura in te incrudelisca: ma prima che io partito prenda [decida], disidero d’udire quello che tu a questo dei dire [quello che tu puoi opporre a quanto dico io]». Certa della sicura condanna a morte del suo amato, Ghismonda «dolore inestimabile sentí», ma affronta il padre con grande dignità: «Il viso suo con maravigliosa forza fermò [non mostrò il dolore che la straziava]» non chiede alcuna clemenza per sé e «di piú non stare in vita dispose». Senza avvertire il bisogno di giustificarsi, Ghismonda rimprovera al padre la sua possessività tanto da non averla voluta rimaritare e sostiene di essersi innamorata della nobiltà d’animo di
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Guiscardo, perché «la povertà non toglie gentilezza a alcuno ma sí avere [ma solo la ricchezza]. Molti re, molti gran prencipi furono già poveri, e molti di quegli che la terra zappano e guardan le pecore già ricchissimi furono e sonne [ne sono]».
Una fosca minaccia
Ghismonda non chiede pietà al padre: «Se tu nella tua estrema vecchiezza a far quello che giovane non usasti, cioè a incrudelir, se’ disposto, usa in me la tua crudeltà, la quale a alcun priego porgerti disposta non sono, sí come in prima cagion di questo peccato [usa la tua crudeltà contro di me, che non sono disposta a rivolgere alcuna preghiera a te, poiché tu sei la prima causa di questo peccato], se peccato è; perciò che io t’acerto [ti garantisco] che è quello che di Guiscardo fatto avrai o farai se di me non fai il simigliante, le mie mani medesime il faranno».
Tancredi non è convinto che la figlia metterà in atto i suoi propositi suicidi, pensa di riuscire «a raffreddare il suo fervente amore»: fa strangolare Guiscardo e ordina che «trattogli il cuore a lui recassero». Il principe fa quindi mettere in una coppa d’oro il cuore di Guiscardo e lo manda alla figlia con questo messaggio: «Il tuo padre ti manda questo per consolarti di quella cosa [Guiscardo] che tu piú ami, come tu hai lui [Guiscardo] consolato di ciò che egli [il padre Tancredi] piú amava». Ghismonda riconosce il cuore del suo amato, lo bacia, piange e decide di togliersi la vita. Ha preparato il veleno sciolto nell’acqua, immerge il cuore nella coppa e «senza paura alcuna postavi la bocca tutta la bevve»; poi sale sul letto, si distende e, posto sul suo cuore quello dell’amato, attende che sopragmarzo
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In alto Isabella, olio su tela di John Everett Millais. 1849. Liverpool, Walker Art Gallery. L’opera è ispirata a una composizione del poeta John Keats, a sua volta basata sulla triste storia d’amore fra Elisabetta e Lorenzo, narrata da Boccaccio nel Decameron. A destra Isabella e il vaso di basilico, olio su tela di William Holman Hunt. 1867. Newcastle-uponTyne, Laing Art Gallery.
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La partenza per la caccia di Gualtieri, marchese di Saluzzo in un dipinto facente parte di una serie con Episodi della vita di Griselda, tempera su tavola del Pesellino (al secolo, Francesco di Stefano). 1450 circa. Bergamo, Accademia Carrara.
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giunga la morte. Sconvolte, le damigelle chiamano allora Tancredi, che quando vede la figlia morente si dispera, ma Ghismonda gli dice: «Tancredi, serbati coteste lagrime a meno disiderata fortuna che questa, né a me le dare, che non le disidero. Chi vide mai alcuno altro che te piagnere di quel-
lo che egli ha voluto? Ma pure, se niente [qualcosa] di quello amore che già mi portasti ancora in te vive, per ultimo don mi concedi che, poi a grado non ti fu [non volevi] che io tacitamente e di nascoso con Guiscardo vivessi, che il mio corpo col suo, dove che tu l’abbi fatto gittare, morto palese [palesemente], stea marzo
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proprietà, accecato dall’orgoglio, che – come sostiene sant’Agostino – trasforma gli angeli in demoni, non tiene conto delle terribili conseguenze del suo sconsiderato agire, per poi pentirsene amaramente quando ormai è troppo tardi. Boccaccio, inoltre, con molta discrezione fa intravvedere un amore morboso da parte del padre, facendo convergere il biasimo sull’incapacità di tenere a freno sentimenti tanto peccaminosi. Condannata a restare per sempre vedova, Ghismonda è in effetti prigioniera a vita del malriposto sentimento paterno. Tuttavia, pur essendo una donna, è in grado di distillare radici per ricavare il veleno, perché possiede conoscenze mediche che sono di solito prerogativa maschile. Ecco dunque un silenzioso omaggio del Boccaccio alla sua eroina e un’indiretta risposta ai suoi detrattori: le donne valgono! Con questa storia cosí commovente, Boccaccio ribadisce l’importanza di rispettare le donne e i loro sentimenti, prima che avvenga l’irreparabile.
Colti in flagrante
[Ghismonda desidera essere sepolta con Guiscardo in modo che tutti sappiano del loro amore]». Morta la figlia, «Dopo molto pianto e tardi pentuto [pentito] della sua crudeltà [Tancredi] con generale dolore di tutti i salernitani ammenduni [entrambi] in un medesimo sepolcro gli fé seppellire».
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Da questa novella emerge la figura di una donna nobile anche nell’animo, che non rinnega il suo amore per un uomo di una condizione sociale piú bassa della propria ed è pronta a togliersi la vita per la violenza subita. Il padre che considera la figlia una sua
Il femminicidio non riguarda però solo l’ambiente nobiliare. Sempre nella quarta giornata, nella novella 5 (IV, 5) Elisabetta da Messina è una giovane «assai bella e costumata» con tre fratelli «mercatanti e assai ricchi uomini» che ancora non l’hanno promessa in moglie. I tre possiedono un’azienda in cui lavora un bel giovane chiamato Lorenzo che «tutti i lor fatti guidava e faceva». Il factotum si accorge dell’interesse che Elisabetta gli mostra e lo corrisponde. «Non passò gran tempo che, assicuratisi [sentendosi sicuri], fecero di quello che piú desiderava ciascuno». L’eccessiva sicurezza però costa cara ai due innamorati: una notte Elisabetta si reca dove l’amato dorme ma, senza che se ne accorga, viene scoperta dal fratello maggiore.
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vivere al tempo del decameron/3 I tre fratelli giungono allora a una decisione terribile: «né a loro né alla sirocchia [sorella] alcuna infamia ne seguisse, di passarsene tacitamente o d’infingersi [lasciar perdere] (…) questa vergogna». Portano Lorenzo in un luogo isolato, lo uccidono e lo seppelliscono; tornati a casa, ne giustificano l’assenza dicendo a tutti di averlo inviato in missione per affari in un’altra città e «creduto fu, per ciò che spesse volte eran di mandarlo da torno usati». Elisabetta chiede ripetutamente ai suoi fratelli notizie di Lorenzo senza ottenere risposta, anzi viene malamente zittita. Una notte le appare in sogno l’amato con «i panni stracciati e fradici», che le rivela: «O Lisabetta, tu non mi fai altro che chiamare e della mia lunga dimora [assenza] t’atristi e me con le tue lagrime fieramente accusi; e per ciò sappi che io non posso piú ritornarci [ritornare qui, nel mondo], perciò che l’ultimo dí che tu mi vedesti i tuoi fratelli m’uccisono».
La macabra scoperta
La mattina seguente, assieme alla sua fantesca, Elisabetta si reca sul posto che l’amato in sogno le aveva indicato: sotto uno strato di foglie trova la terra piú morbida, comincia a scavare e, poco dopo «ella trovò il corpo del suo misero amante in niuna cosa ancora guasto né corrotto». La giovane sa che quello non è né il luogo né il momento per piangere, capisce di non poter portare con sé il corpo di Lorenzo e «con un coltello il meglio che poté gli spiccò dallo ‘mbusto [busto] la testa, e quella in uno asciugatoio inviluppata, e la terra sopra l’altro corpo [il restante corpo] gittata, messala in grembo alla fante, senza essere stata da alcun veduta (…) si dipartí e tornossene a casa sua». Nella sua stanza Elisabetta può finalmente lasciarsi andare alla disperazione, piange talmente tanto che le sue lacrime lavano la testa di Lorenzo sporca di terra e di sangue, poi decide di avvolgerla in un drappo, la pone in un vaso da fiori,
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Alatiel, figlia del sultano di Babilonia, a banchetto, particolare della decorazione di un cassone nuziale attribuito ad Apollonio di Giovanni. 1435-1465. Venezia, Museo Correr.
la copre di terra e vi pianta sopra «parecchi piedi [parecchie piante] di bellissimo bassilico salernetano». Passano i giorni; Elisabetta non fa che contemplare il vaso di basilico, è molto deperita tanto che «gli occhi dalla testa le parevano fuggiti [gli occhi cosí rientrati in dentro, che parevano fuggiti dal capo]», poi piange sopra le foglie rigogliose. I vicini di casa riferiscono ai fratelli di Elisabetta la sua straziante abitudine. Dopo averla sgridata, ma senza effetto, i fratelli decidono di portarle via il vaso di basilico. Per il dolore, Elisabetta cade malata e «altro che il testo [vaso] suo nell’infermità domandava». Stupiti per la richiesta, i fratelli decidono di scoprire cosa nasconda il vaso e «versata la terra, videro il drappo e in quello la testa non ancora sí consumata, che essi alla capellatura crespa non conoscessero lei essere quella di Lorenzo». Dopo aver sotterrato la testa, i tre temono che il loro delitto venga scoperto, decidono di scappare a Napoli e qui trasferiscono i loro affari. Elisabetta, senza smettere di piangere, continua a chiedere che le venga restituito il vaso, fino a quando muore.
Unite nelle vessazioni
Questa novella dimostra come nel Medioevo le donne fossero vessate in tutte le classi sociali, sia quella dei nobili che dei mercanti e degli imprenditori a cui appartenevano i fratelli di Elisabetta. I lettori del Decameron, infatti, non sono solo i nobili ma anche i borghesi, capaci quindi di identificarsi nei personaggi del racconto. Notiamo però una differenza fra Ghismonda ed Elisabetta. Il dolore di entrambe è intenso e suscita compassione ed empatia. Ghismonda, istruita in
quanto nobile, sa argomentare la liceità del suo amore; non solo si difende, ma accusa, mostrando in modo dettagliato i moventi della colpa paterna. Elisabetta, invece, sorella di mercanti avidi e rozzi che certo non hanno curato la sua istruzione, soffre il suo dolore quasi senza parole, commovente marzo
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proprio perché è una vittima indifesa, quasi un agnello fra i lupi. E, in controluce, possiamo rilevare la parzialità di Boccaccio per il ceto nobiliare, che qui emerge in maniera direi inconsapevole. La violenza non risparmia neppure le donne musulmane. Alatiel (II, 7) è la bellissima figlia del
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sultano di Babilonia, promessa in sposa al re del Garbo [Algarvio, la provincia piú settentrionale del Marocco]. Durante la traversata si scatena la tempesta e l’equipaggio abbandona la nave su una scialuppa lasciando alla deriva Alatiel e le sue compagne. Ma la nave non affonda e si arena su una spiaggia
deserta di Maiorca. Molte ore piú tardi, passa di lí il cavaliere Perdicone da Visalgo «uomo di fiera vista [fiero aspetto] e robusto molto» che porta Alatiel nel suo castello. L’uomo si è invaghito di lei, cerca di conquistarla, ma Alatiel rifiuta, perché già promessa. Perdicone si accorge che alla
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Miniatura raffigurante, a sinistra, Gabriotto che muore tra le braccia di Andreuola e quest’ultima che, trasportandone il corpo insieme alla fantesca, viene fermata dal podestà, da un’edizione francese del Decameron illustrata dal del Maestro del Guillebert di Metz. XIV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
giovane principessa piace il vino e «sí come a colei che usata non era di bere per la sua legge che il vietava [che non aveva l’abitudine di bere vino per la sua religione]» decide di farla ubriacare. Una sera a cena il cavaliere «ordinò a colui che la servia che di varii vini mescolati le desse da bere». Al termine delle libagioni, Perdicone mette in atto il suo vile proposito: porta in camera Alatiel completamente ebbra, e «in braccio recatalasi senza alcuna contradizione di lei, con lei incominciò amorosamente a sollazzarsi». Qui è ammirevole il fatto che Boccaccio si spenda a difendere una donna di una religione dai cristiani tanto biasimata.
Violenze psicologiche
La crudeltà degli uomini nei confronti delle donne può essere anche psicologica. A seguito delle lunghe insistenze dei suoi vassalli, il marchese di Saluzzo (X,10) il quale «in niuna altra cosa il suo tempo spendeva che in uccellare [andare a caccia degli uccelli] e in cacciare» è costretto a prendere moglie. La sua scelta ricade su Griselda, l’«avvenevole, tanto piacevole e tanto costumata» figlia di un uomo molto umile. Per mettere alla prova la fedeltà e l’obbedienza della moglie, il marchese le fa credere di aver ordinato la morte dei loro figli. Molti anni dopo la ripudia «in camiscia cacciata» [cioè allontanata senza neppure il velo, tipico delle donne maritate], perché le dà a intendere che vuole sposare una fanciulla, in realtà la loro figlia, ricca e piú giovane e bella che Griselda deve accogliere e onorare.
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«La donna (…) forte in se medesima si dolea; ma pur, come l’altre ingiurie della fortuna aveva sostenute, cosí con fermo viso si dispose a questa dover sostenere». A questo punto, finalmente convinto delle tante qualità della moglie, il marito, trovandola «paziente, piú cara che mai in casa tornatalasi [ripresa], i suoi figliuoli grandi le mostra e come marchesana l’onora e fa onorare». La scrittrice Christine de Pizan (1364-1430), grande estimatrice del Boccaccio, commentando questa novella nella sua opera La città delle dame, sottolinea fino a che punto può arrivare la crudeltà maschile. Il comportamento del marchese di Saluzzo è di una tale efferata crudeltà che spinge il lettore a un netto biasimo nei confronti di un simile marito. Ci sono donne però che si ribellano alla violenza degli uomini. È la storia narrata nella sesta novella della quarta giornata (IV, 6). A Brescia, la bella e ricca Andreuola, figlia dell’importante Messer Negro, sposa in segreto Gabriotto «uomo di bassa condizione ma di lodevoli costumi», ma la loro felicità è breve. Dopo un sogno premonitore, l’uomo spira fra le braccia dell’Andreuola nel giardino della giovane sposa. Andreuola è disperata, non vuole gettare il disonore sulla sua famiglia: la fantesca le consiglia di mettere Gabriotto in una cassa e di riportarlo nella casa di lui, poco distante. Durante il tragitto, incappano nelle guardie del podestà e Andreuola «francamente» [con risolutezza] dice loro: «Io conosco chi voi siete e so che il volermi fuggire niente monterebbe [servirebbe]; io sono presta di venire con voi davanti alla signoria [al podestà] e che ciò sia di raccontarle; ma niuno di voi sia ardito di toccarmi, se io obediente vi sono, né da questo corpo alcuna cosa rimuovere, se da me non vuole essere accusato». Il podestà verifica che le cause della morte di Gabriotto sono naturali, ma, anziché ricono-
scere innocente la giovane vedova «dove ella a’ suoi piaceri acconsentir si volesse, la libererebbe. Ma non valendo quelle parole, oltre a ogni convenevolezza [convenienza] volle usare la forza; Ma l’Andreuola, da sdegno accesa e divenuta fortissima, virilmente si difese, lui con villane parole e altiere ributtando indietro».
Ritiro in convento
Quando finalmente è libera, Messer Negro consola la figlia, la perdona per non essere da lei stato messo al corrente del matrimonio: avrebbe accettato Gabriotto come genero, purché lei fosse stata felice. Il podestà insiste e chiede a Messer Negro la mano di Andreuola «non obstante che marito avesse avuto di bassa condizione». Il padre però non vuole scegliere al posto della figlia; «nessuna cosa volle udire», desidera solo il bene di Andreuola. Decide invece di organizzare un solenne funerale per Gabriotto «non a guisa di plebeo ma di signore». Andreuola, grata di quell’amore paterno, decide di diventare sposa del Signore e si ritira assieme alla sua fedele fantesca in un monastero «assai famoso di santità». Boccaccio apprezza l’atteggiamento fiero e onesto di Andreuola di fronte al tentativo di violenza del podestà, che ricorda quello di Violante (II, 8). L’orfana si ribella alla proposta di diventare, data la sua bassa condizione, soltanto l’amante del figlio della donna che l’ha accolta in casa e non la sposa: «niuna cosa rimasa m’è se non l’onestà, quella intendo io di guardare e di servare quanto la vita mi durerà [di custodire e di conservare per tutta la vita]». Per lo scrittore, in un mondo di uomini insensibili e violenti, le donne devono trovare il coraggio di ribellarsi, come dovrebbe accadere sempre.
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Piú di un episodio della Bibbia tramanda accadimenti prodigiosi dei quali sono protagonisti, oltre ai patriarchi Mosè e Aronne, rettili viventi oppure di bronzo. Per una volta, dunque, viene messa da parte la naturale ripugnanza suscitata da questi animali e, anzi, ne viene proposta un’inedita valenza divina e benigna. Destinata a ispirare la realizzazione di splendide opere d’arte, in alcuni casi avvolte da un suggestivo alone di mistero
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Il serpente di bronzo, olio su tavola di Antoon Van Dyck. 1618-1620. Madrid, Museo del Prado.
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l Libro dei Numeri del Vecchio Testamento prende nome dalla dettagliata elencazione di tutti gli Israeliti che abbiano compiuto 20 anni e inizia con Yahweh che conferisce l’incarico di questo «censimento» ai fratelli Mosè e Aronne. E quando la narrazione riprende, in questo libro della Bibbia troviamo una storia che suggestionò molto i teologi medievali. Il popolo eletto aveva lasciato l’Egitto alla volta della terra promessa, e si trovava a marciare nel deserto del Sinai. L’esperienza era particolarmente aspra, perché il cammino era lungo e accidentato. Oltre alla calura del sole accecante, gli Israeliti pativano i morsi della fame e della sete, gli agguati degli animali selvatici e l’ostilità dei popoli che non vedevano di buon occhio i nuovi arrivati. Il re dei Cananei li aveva aggrediti ferocemente, per poi subire una rappresaglia degli stessi Israeliti, resi invincibili dalle preghiere indirizzate al loro dio. Ma poi, ripreso il cammino, la fatica e le angustie del viaggio si fecero sentire e, come spesso accadeva, il malcontento della gente sfociò in un’aperta ostilità verso Yahweh e verso il suo messaggero, il patriarca e profeta Mosè: «Perché ci hai tirato fuori dall’Egitto, affinché morissimo in un deserto? Ci manca il pane, non c’è acqua; ci fa già nausea questo leggerissimo cibo» (Numeri, 21:5). Le proteste scatenano, puntuale, la punizione divina, che prende la forma di nugoli di serpenti infuocati che si lanciano sui peccatori senza pietà. Sotto l’effetto dei morsi, tutti coloro che sono stati attaccati si coprono rapidamente di piaghe e in tanti soccombono. Gli Israeliti si pentono cosí del loro ardire, e
«Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, cosí è necessario che sia innalzato il Figlio dell’uomo, affinché chiunque crede in lui abbia la vita eterna». (Giovanni, 3:14-15) MEDIOEVO
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oltre lo sguardo/12 Sulle due pagine il serpente bronzeo custodito in S. Ambrogio, a Milano. Secondo la tradizione, sarebbe quello mandato da Yahweh a Mosè quando il patriarca gli aveva chiesto di porre fine al castigo inflitto agli Israeliti per aver manifestato il loro malcontento e che avrebbe avuto il potere di guarirli.
chiedono a Mosè che interceda in loro favore, per far sí che il castigo divino abbia fine. Yahweh accoglie la supplica e ordina al suo messaggero di erigere un serpente di bronzo, come se fosse un vessillo: osservandolo, tutti quelli che avevano subíto il morso dei rettili sarebbero guariti all’istante. L’opera disposta da Dio funge cosí da antidoto, ma non deve assolutamente diventare oggetto di venerazione, poiché, sebbene vengano rivolte al Padre, le preghiere, se formulate di fronte a un’opera figurata, fanno cadere nel peccato dell’idolatria. Con il suo atto rituale, il fedele può infatti ingenerare una confusione tra la divinità e l’oggetto che la rappresenta, il che è chiaramente stigmatizzato in uno dei comandamenti affidati a Mosè (Esodo, 20:4).
L’ira di Yahweh
C’era già stato un precedente con il vitello d’oro predisposto dal sacerdote Aronne (Esodo, 32), il quale, perdurando l’assenza di Mosè, pensò di placare gli animi fondendo un simbolo di sacrificio e di venerazione. In questo modo tutti avrebbero concentrato i propri pensieri sulla potenza e sulla benevolenza di Dio, compiendo danze e atti rituali intorno alla statua. Ma Yahweh non apprezzò affatto il gesto e, tramite Mosè, rimise gli Israeliti in riga. Il patriarca, che recava con sé le due lastre con i comandamenti, di fronte allo spettacolo di quel popolo «infedele» le ridusse in frantumi non appena sceso dal monte, e provvide subito alla distruzione dell’idolo. Tornò poi da solo sul Sinai per raccogliere nuovamente la Legge divina, e questa volta le lastre giunsero intatte al popolo eletto. L’insegnamento, però, fu presto dimenticato e, secoli dopo, ormai insediati nella Terra Promessa, gli Ebrei ricaddero nell’errore. Nella terra di Giuda (ossia nel regno di Gerusalemme), l’idolatria si sviluppò in particolare sotto il re Acaz, ma suo figlio Ezechia (716687 a.C.), una volta salito al trono, mise in atto un drastico risanamento: «Egli rovinò i luoghi eccelsi, e spezzò le statue, e atterrò i boschetti [sacri], e fece in pezzi il serpente di bronzo fatto da Mosè, perché sino a quel tempo i figliuoli d’Israele gli bruciavano incensi; e lo chiamarono Necustàn» (II Libro dei Re, 18:4). Secondo il racconto biblico, proprio il serpente-guaritore del Sinai era stato quindi conservato e tramandato sino a divenire un oggetto di venerazione, persino dotato di un proprio nome. Nonostante questa caduta negli usi «pagani», con (segue a p. 62)
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il serpente di milano
Antico quanto la Lupa capitolina La tradizione del serpente bronzeo di Milano sembra un’elaborazione moderna, ancorata in modo arbitrario alla cronaca medievale di Landolfo. Stando al domenicano Gaspare Bugatti (1521-1588), autore di una Storia universale, l’arcivescovo Arnolfo rifiutò i doni dell’imperatore bizantino, pur numerosi e di grande valore, preferendo riportare il solo serpente di Mosè. Esiste anche una versione alternativa: secondo un altro storico domenicano, Leandro Alberti, autore di una Descrittione di tutta Italia (1550), il serpente arrivò a Milano – insieme a un chiodo della corona di Cristo – come dono dell’imperatore Teodosio a sant’Ambrogio in persona. Il suddetto Bugatti approfondisce la sua ricostruzione supponendo che il serpente era stato sí spezzato «in quattro parti» da Ezechia, ma poi ricomposto fondendone i frammenti. Ritiene inoltre che sia finito a Costantinopoli grazie alle gesta dell’imperatore Eraclio. Il sovrano persiano Cosroe II avrebbe sottratto la reliquia (insieme, tra l’altro, alla Vera Croce) durante la presa di Gerusalemme. Eraclio, vincendo la guerra, avrebbe poi recuperato la preziosa spoglia conducendola nella propria corte. Bugatti asserisce inoltre che il serpente di Milano, risalente a 3050 anni prima, è un trofeo o una reliquia antichissima al pari della Lupa capitolina (in bronzo anch’essa) che si può ammirare a Roma, e non può essere in alcun modo considerato un idolo pagano, come pure si è sospettato. Taluni, infatti, hanno pensato che fosse in origine un simbolo di Esculapio, dio pagano della medicina, ma ciò è impossibile – asserisce il domenicano – vista la costante venerazione che la statua ha ricevuto in chiesa. Tuttavia, la bizzarra immagine del serpente potrebbe aver suscitato piú di un interrogativo. Forse proprio per evitare qualsiasi perplessità, ben presto si pensò di affiancarle una croce sul lato opposto della navata, sulla stessa linea. Era anch’essa impostata su un fusto di colonna, in modo da creare una perfetta rispondenza tra le spire del rettile e il simbolo cristiano. La sua prima attestazione iconografica risale al XIV secolo, mentre la croce attuale è frutto di un restauro del XIX secolo.
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oltre lo sguardo/12 Il candelabro Trivulzio, straordinario manufatto realizzato agli inizi del XIII sec. e che prende nome dalla famiglia milanese che, nel XVI sec., lo donò al Duomo della città ambrosiana, dov’è tuttora conservato.
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In questa pagina particolari della lussureggiante decorazione del candelabro Trivulzio. In alto, evidenziata dal riquadro, la rappresentazione dell’apparizione di un angelo nel roveto ardente, sul monte Oreb; a destra, un dragone attaccato da due scimmie vestite come frati.
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la sua conseguente distruzione, il serpente di Mosè rimaneva tuttavia intatto come elemento forte nella narrazione dell’esodo dall’Egitto. L’importanza dell’episodio, infatti, è segnalata da Cristo in persona nel Vangelo di Giovanni (3:14-15), in cui si istituisce un chiaro parallelo tra il serpente di bronzo e il figlio di Dio. Entrambi devono essere innalzati e venerati dal fedele, per poter godere della benevolenza divina.
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Proprio come il serpente di bronzo consentiva ai peccatori di guarire dalle conseguenze del castigo, cosí Cristo avrebbe assicurato ai suoi fedeli la beatitudine eterna. Il collegamento si arricchiva poi con il concetto del peccato originale introdotto da sant’Agostino, cosicché si veniva a creare una contrapposizione tra il Cristo/serpente di bronzo e il demonio tentatore dell’Eden, che aveva preso appunto le fattezze del retmarzo
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Mosè trasforma in serpente la verga di Aronne, olio su tela di Nicolas Poussin. 1645-1648 circa. Parigi, Museo del Louvre.
pente? Il rettile era infatti chiamato spesso in causa come apportatore di morte e simbolo del peccato, e non aveva quell’aura di nobiltà e di gloria che era facile accordare – per esempio – al leone. Certo, anche il re degli animali poteva assumere una qualifica negativa, ma manteneva sempre una fascinosa potenza, dovuta anche al fatto che non era una presenza familiare. Il serpente, invece, anche se non assumeva connotati vistosi nelle specie diffuse in Europa, era pur sempre una presenza sgradita nelle campagne. Oltre al pericolo del suo morso, alla sua triste fama contribuiva proprio la figura del serpente tentatore dell’Eden, senza pensare al drago, tipico mostro dell’antichità che rientrava nella stessa «famiglia» di creature venefiche e striscianti. E nel Salmo 90:13, tra le bestie malvagie che finiscono sotto il piede del Redentore, c’è proprio il drago. Ma il problema del Cristo/serpente viene risolto con una certa eleganza da san Tommaso d’Aquino. Il serpente di bronzo aveva infatti l’apparenza del rettile, ma era sprovvisto di veleno. Allo stesso modo Cristo aveva l’apparenza del peccatore, ma era innocente. Ha assunto su di sé la morte, ha scontato la pena, ma senza avere alcuna colpa.
Un sottile gioco di rispondenze
tile. Si giungeva cosí a evocare la crocifissione, dove il concetto dell’innalzamento di Cristo rovesciava in senso trionfale il senso tremendo del supplizio. Quel supplizio, infatti, stava a significare la sconfitta della morte e il riscatto del genere umano, con la cancellazione del peccato originale. Ma come si poteva stabilire un legame concettuale tra Cristo e una figura ambigua come quella del ser-
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Restava comunque il fatto che era difficile trasformare un’immagine del genere «peccaminoso» in un simbolo trionfale della croce di Cristo. Talune opere in bronzo suggerivano tuttavia l’adozione del tema proprio grazie alla lega utilizzata, la stessa del manufatto biblico. L’importanza dell’episodio, d’altronde, era data anche dal fatto che Yahweh in persona aveva commissionato il serpente di bronzo, e in questo modo si creava un sottile gioco di rispondenze tra l’opera d’arte e il suo «modello» biblico. L’esempio piú suggestivo si trova nella basilica di S. Zeno a Verona, ed è costituito da una formella bronzea del battente destro del portale maggiore, databile al XII secolo. Mosè, sulla destra, è raffigurato nell’atto di ammaestrare, rivestito di un solenne panneggio degno di un filosofo antico. Davanti a lui, al capo opposto, gli Israeliti sono rappresentati da tre figure che si contorcono angosciate in mezzo a un groviglio di serpenti. Al centro campeggia il serpente di bronzo, eretto su un’impalcatura a «T» greca (tau), che allude chiaramente alla croce di Cristo, alla Trinità, come pure al segno che Dio Padre dispone di tracciare sulla fronte dei penitenti, per salvarli, quando la sua ira si appresta a compiere una strage di tutti i peccatori che infestano i regni di Giuda e di Israele (Ezechiele, 9:4). Su tutta la scena domina pro(segue a p. 66)
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S. Caterina del Sinai
Sul monte delle tavole e del roveto Il monastero di S. Caterina sul Monte Sinai (già dedicato alla Madre di Dio) sorge in una località di fondamentale importanza nella geografia della Bibbia, l’attuale Gebel Musa (Montagna di Mosè). Su questa cima sacra Mosè ha ricevuto le tavole della Legge, e proprio il Sinai è stato ritenuto il luogo in cui il patriarca assisté anche al prodigio del roveto ardente, quando in realtà il testo sacro fa riferimento a un altro monte, l’Oreb. Già la pellegrina Egeria, nel suo diario di viaggio in Terra Santa, aveva unificato i due scenari, poiché nel 383, arrivando in zona, poté visitare una piccola chiesa che si riteneva edificata nei pressi del roveto biblico. La chiesa del monastero ribadisce questa concordanza di luoghi con la forza delle immagini. Nella composizione a mosaico dell’abside (550-570 circa), al di sopra dell’arco, vediamo due riquadri che abbinano i due episodi, con Mosè di fronte al roveto ardente (a sinistra) e nell’atto di ricevere le Tavole (a destra). Nel catino dell’abside,
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al centro, campeggia Cristo nel momento della Trasfigurazione. Dopo essere salito su un monte, il Redentore inizia a risplendere come un sole, tanto che da lui si diparte una raggiera di potenti fasci di luce. In basso si notano gli apostoli che, sconvolti, hanno assistito al prodigio: Giovanni, Pietro e Giacomo. Ai fianchi di Gesú si notano invece i profeti Elia e Mosè, che fanno la loro apparizione mentre si diffonde la potente luce divina. Conversano con Cristo e si dissolvono nel nulla non appena la luce cessa.
In alto l’abside della chiesa del monastero di S. Caterina sul Monte Sinai decorata da un mosaico policromo databile al 550-570 circa. Nei riquadri sovrastanti l’arco sono rappresentati gli episodi di Mosé di fronte al roveto ardente (vedi anche la foto in dettaglio sulle due pagine) e nell’atto di ricevere le Tavole (a destra); al centro, nel catino, campeggia Cristo nel momento della Trasfigurazione.
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prio Dio Padre, che dall’alto del cielo trasmette le proprie disposizioni. A Milano, nella basilica di S. Ambrogio, un’antica tradizione vuole che sia conservata proprio l’opera disposta da Mosè (vedi box a p. 66). L’arcivescovo Arnolfo II (998-1018), recatosi in Oriente, avrebbe ricevuto in omaggio una scultura in bronzo raffigurante un serpente, e l’avrebbe poi condotta nella sua città come una gloriosa reliquia dei tempi dell’esodo biblico. Il suo successore, Ariberto d’Intimiano (1018-1045), avrebbe poi avuto l’idea di collocare il serpente di Mosè sopra una colonna di reimpiego, e la composizione risultante si osserva tuttora all’interno dell’aula, sotto la terza arcata sinistra della navata centrale.
Un fitto scambio di doni
Riccio di pastorale in rame dorato e smaltato in forma di serpente che divora un fiore. Produzione limosina, 1200-1220 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art. Anche in questo caso, la decorazione allude alla trasformazione in serpente della verga di Aronne da parte di Mosè.
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L’attestazione del cronista Landolfo Seniore (XI-XII secolo) ci dice solo che Arnolfo compí un’ambasceria a Bisanzio tra l’autunno 1001 e l’inverno 1002, alla corte dell’imperatore Basilio II, per stabilire un’alleanza matrimoniale con Ottone III. L’imperatore d’Occidente era infatti interessato a impalmare una principessa porfirogenita, ma il progetto svaní per la morte prematura del sovrano, poco piú che ventenne, a Castel Paterno. L’associazione dell’ambasceria in Oriente con il serpente di S. Ambrogio deriva dal fatto che tra le due corti si stabilí un fitto scambio di doni. Arnolfo condusse a Bisanzio «una indescribile mole di preziosi e di argenti», e riportò in Occidente «molti e grandi doni in oro e gemme». Proprio l’avvenuta morte di Ottone fece sí che buona parte degli omaggi di Basilio finisse in mano all’arcivescovo milanese, ma l’origine del serpente ambrosiano, in realtà, è avvolta nel mistero. In ogni caso, l’idea della sua collocazione su una colonna potrebbe averne determinato il tipo di raffigurazione piú diffuso nella rispettiva scena biblica, soprattutto nella miniatura e nella pittura vetraria. E rimane comunque accertata l’attenzione che da sempre fu rivolta a quella statua nella basilica ambrosiana. Numerosi fedeli pregavano dapprima ai piedi della croce, e poi rivolgevano lo sguardo al serpente, in modo da trarne protezione contro le malattie. Sempre a Milano, un fascinoso capolavoro di scultura bronzea rende viva e potente la parola del testo biblico. Si tratta del candelabro Trivulzio conservato in duomo (XIII secolo; vedi foto alle pp. 60-61). Oltre a marzo
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ribadire in modo trasparente l’immagine dei candelabri del Tempio di Gerusalemme, un’opera del genere si presta anche a suggestive soluzioni narrative, grazie a una struttura a girali che può alludere anche a un vortice di fiamme. Tra le sue spire troviamo cosí il racconto di un altro celebre episodio biblico che ha per protagonista Mosè: è l’apparizione di un angelo nel roveto ardente, sul monte Oreb, con la voce di Yahweh che ordina al patriarca di togliersi i sandali per rispetto del luogo sacro, per poi indurlo a guidare l’esodo degli Israeliti. Ebbene, qui come in numerose raffigurazioni medievali dell’episodio, l’immagine dell’angelo è sostituita da Dio Padre in persona, che prende magari le tipiche fattezze giovanili di Cristo, come si vede nel ciclo biblico di Ceri (Roma), databile al XII secolo. La corrispondenza tra Vecchio e Nuovo Testamento, cosí come la rispondenza tra Mosè e il Redentore, non poteva essere sottolineata meglio.
Le piaghe d’Egitto
Dopo aver ricevuto l’ordine di condurre il popolo eletto nella Terra Promessa, Mosè si reca dal faraone insieme a suo fratello Aronne, e inizia cosí la storia delle piaghe d’Egitto. Il sovrano, infatti, si oppone inesorabilmente a rilasciare gli Israeliti, e ogni volta che ripete questo diniego Yahweh colpisce la sua terra con una serie di proverbiali catastrofi. La sequenza delle piaghe ha come premessa una scena che anticipa il ruolo ambivalente (feroce ma salvifico al tempo stesso) che il serpente assume di seguito nel racconto dell’esodo. Possiamo vederla raffigurata, per esempio, nel ciclo biblico ad affresco che si è parzialmente conservato nel sottotetto del duomo di Aosta (104050 circa). Il fratello di Mosè tenta di convincere il sovrano egizio a liberare il popolo ebraico ridotto in schiavitú, e, per dare una prova del potere divino di cui è latore, getta per terra il proprio bastone e questo si trasforma appunto in un serpente. I maghi del faraone, per tutta risposta, compiono un incantesimo con i loro bastoni, ma i loro serpenti vengono abbattuti dal prodigioso rettile di Aronne (Esodo, 7). Nel frammento visibile, il faraone, sbigottito o in preda alla collera, è assiso nella sua reggia con due guardie impassibili alle spalle, e addita un rettile che descrive ampie ed eleganti spire. Si tratta forse del serpente di Aronne, intento a colpire uno dei serpenti dei maghi. Seguono le piaghe d’Egitto. Si riconoscono la trasformazione in sangue delle acque del Nilo, l’invasione delle rane e la piaga delle mosche. E sono efficaci proprio le evocazioni degli animali molesti (in particolare le mosche che si stagliano in gran numero sul bianco dello sfondo) cosí come la caratterizzazione dei maghi, intenti a emulare con scrupolo i terribili prodigi divini con un bastone immerso nelle acque del fiume.
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Da leggere Olivier Beigbeder, Lessico dei simboli medievali, Jaca Book, Milano 1989; pp. 249-264 Mariella Nuzzo, Mosè, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Fondazione Treccani, Roma 1997; disponibile anche on line su treccani.it Chiara de Capoa, Stefano Zuffi, La Bibbia nell’arte, Electa, Milano 2013
Dal canto suo, il faraone vede planare una rana nel mezzo della ciotola da cui sta bevendo, ed è letteralmente subissato da un nugolo di mosche. L’episodio biblico della verga di Aronne è molto importante perché vede l’associazione tra l’ambigua figura del serpente e un tipico attributo sacerdotale, la verga. Questa si ricollega agevolmente a una vasta schiera di simboli religiosi assai antichi, come il sistro di Osiride, ma ci interessa qui notare, come, per esempio, l’abbinamento suggerito dal testo sacro abbia prodotto una vasta schiera di bastoni a uso dei dignitari religiosi (vescovi e abati, in particolare), arricchiti nell’impugnatura da una terminazione ricurva che spesso allude esplicitamente alla spira di un serpente. Si tratta dei pastorali, ampiamente diffusi nel Medioevo. Le numerose variazioni sul tema, in questo genere di oggetti, ribadiscono la duplice lettura del rettile velenoso. Può assumere le fattezze di una bestia infernale, ma può anche ricollegarsi alla memoria della verga di Aronne. La terminazione del pastorale, poi, descrivendo un cerchio o un sistema di cerchi, può anche ricollegarsi alla simbologia della ruota, e dunque all’alternarsi ciclico delle fasi di morte e di rigenerazione nel cosmo intero. L’adozione di questa particolare forma ebbe d’altronde il suo esordio in Irlanda, dove la simbologia dei tracciati a forma di cerchio e di spirale si ricollegava al sustrato della cultura celtica. Rimane comunque fondamentale il riferimento al sacrificio di Cristo e alla sua vittoria sulla morte. Lo scrittore e saggista Olivier Beigbeder cita al riguardo un pensiero della badessa Herrada di Landsberg (1130 circa-1195), che si ispira proprio all’episodio di Aronne, proponendo un parallelo tra la trasmutazione miracolosa della verga e la crocifissione: «Cosí fa il Cristo, il quale, alla fine della propria vita mortale, depone in un certo qual modo la propria anima per discendere nella morte, che è penetrata nel mondo ad opera del serpente [per effetto della tentazione di Eva nell’Eden, n.d.a.]; in questo modo egli distrugge i peccati degli uomini e le loro funeste conseguenze».
NEL PROSSIMO NUMERO ● La mela di Gesù Bambino
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L’ IMPERO SUL BOSFORO di Marco Di Branco
Nel maggio del 330 d.C. Costantino, l’imperatore «cristiano», inaugura la sua capitale, una città grandiosa che porta il suo nome, voluta come una seconda Roma, sulle rive del Bosforo. Oltre dieci secoli piú tardi, nel 1453, è ancora il mese di maggio a segnare il destino di quella splendida metropoli: Maometto II espugna Costantinopoli e pone fine alla sua gloriosa parabola. Gli studiosi hanno chiamato «bizantino» il millennio che separa i due eventi e in quei dieci secoli si sono succeduti episodi che hanno segnato momenti cruciali della storia universale, e l’impero d’Oriente, oltre ad affermarsi come una delle maggiori potenze del tempo, è stato anche la culla di una fioritura artistica eccezionale. Alle testimonianze e all’eredità di questa straordinaria vicenda è dedicata la nuova Monografia di «Archeo»: il suo autore, Marco Di Branco, propone un viaggio ideale nei luoghi che furono teatro degli eventi piú importanti e un altrettanto ideale incontro con gli uomini e le donne che ne furono protagonisti. Un racconto avvincente, corredato da splendide immagini e da un ricco e puntuale apparato cartografico.
IN EDICOLA
di Domenico Sebastiani
LA BELLA ADDORMENTATA
Il mito oltre la fiaba Charles Perrault e poi i fratelli Grimm hanno reso immortale la vicenda della fanciulla che, caduta in una sorta di letargo, viene riportata alla vita da un giovane principe. Pur con qualche variante, tuttavia, il tema era già ampiamente diffuso nella letteratura medievale... Secondo alcuni studiosi, però, tutto potrebbe avere avuto inizio nella lontana India
La Bella addormentata, olio su tela di Marie Antoinette Victoire Petit-Jean. 1821. Los Angeles, Los Angeles County Museum of Art.
Dossier
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l successo planetario del cartoon disneyano Sleeping Beauty (1959), liberamente ispirato alla versione classica della Bella addormentata nel bosco di Charles Perrault (1628-1703) e a quella dei fraelli Jacob (1785-1863) e Wilhelm Grimm (1786-1859), nonché il piú recente Maleficent (2014), film prodotto e interpretato da Angelina Jolie, provano la straordinaria vitalità di una fiaba e di un motivo narrativo che affondano le proprie radici in un arcaico passato e che, sedimentazione dopo sedimentazione, tornano a reinventarsi e a modificarsi, adattandosi al gusto dei destinatari e ai tempi che cambiano. Non è per nulla semplice in-
Statua raffigurante una ninfa dormiente, popolarmente ribattezzata Bella addormentata nel bosco. XVI sec. Bomarzo (Viterbo), Sacro Bosco (o Parco dei Mostri).
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dividuare il nucleo originario di questo mitema, ossia il motivo di una giovane donna, bellissima e innocente, che cade in uno stato di sonno simile alla morte a seguito di un maleficio, e che un evento esterno – solitamente, ma non sempre, rappresentato dall’intervento di un giovane valoroso e meritevole, re, principe, cavaliere – riesce magicamente a ridestare. Il topos della letargia e del successivo risveglio risulta peraltro diffusissimo sia nel mito che nel folclore, in ambito europeo e non solo. Per come la conosciamo nei suoi tratti fondamentali, la Bella addormentata nasce con Charles Perrault, che la pubblica con il titolo
Didascalia di La Belle au bois dormant (La Belaliquatur adi addormentato) odis la nel bosco nel 1697. que vero ent La fiaba fuqui poi ripresa, con leggedoloreium conectudai fratelli Grimm, re modifiche, rehendebis eatur chiamata Rosaspina nella versione tendamusam (Dornröschen), contenuta nella racconsent, perspitiund Hausmärchen (Fiacolta Kinderconseque nis be del Focolare), del 1812-1822. maxim La eaquis trama essenziale della Belearuntia cones la addormentata di Perrault è nota, apienda. ma vale riassumerla in breve. Un re e una regina, dopo aver aspettato molti anni senza avere un figlio, vedono finalmente la nascita di una bella bambina, perciò per il battesimo indicono una grande festa, alla quale invitano le fate del regno, affinché siano benauguranti e conferiscano doni alla bimba. Ma una vecchia fata, non
invitata al convivio, compare e lancia una maledizione contro la Bella: si pungerà con un fuso e ne morirà. Fortunatamente, la piú giovane delle fate, che non ha ancora espresso il suo dono e che non può annullare la maledizione della megera, riesce a mitigarla. La principessa non morirà, ma si addormenterà per cento anni, fino a quando il figlio di un re non giungerà a risvegliarla. Puntualmente, al quindicesimo anno di età, la Bella si ferisce con un fuso e si addormenta; viene adagiata in uno splendido letto e con lei si addormenta tutta la servitú del castello, attorno al quale per incanto cresce una barriera impenetrabile di rovi. Allo
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scoccare della data stabilita, arriva il principe, al cui passaggio il muro di rovi si apre per incanto, indi lo stesso entra nel palazzo e trova la Bella distesa sul letto; colpito dalla sua bellezza, si inginocchia a contemplarla e lei, senza che vi sia alcun contatto fisico, si sveglia.
Il cuoco salvatore
Dopo essersi dichiarati reciproco amore, i due si sposano, danno alla luce il piccolo Giorno e la piccola Aurora, e si recano a vivere presso il re, padre del principe. Alla sua morte, il principe gli succede, e rimane a vivere nel maniero insieme alla madre, in realtà un’orchessa mangiatrice di bambini, la quale, approfittando
del fatto che il neosovrano si sia dovuto allontanare per una missione di guerra, tenta di divorare i bimbi e la principessa. Il piano viene però sventato dal cuoco e dal successivo rientro del re, e la vecchia perisce. La versione dei fratelli Grimm, la cui stesura definitiva è del 1859, ricalca in larga parte quella di Perrault, ma introduce alcune novità sostanziali, che hanno portato a codificare nell’immaginario di tutti noi la fiaba della Bella addormentata. Oltre alla brevità, semplicità e chiarezza, nonché all’assenza di qualsiasi riferimento a luoghi e tempi – il che ne fa una fiaba classica a tutti gli effetti –, il punto nodale che i Grimm
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Dossier
introducono (o, meglio, reintroducono, come si vedrà in seguito) è il contatto fisico tra il principe e la fanciulla. La versione di Perrault, improntata all’etichetta e al perbenismo vigenti alla corte del Re Sole Luigi XIV, non consentiva che i futuri sposi avessero un approccio fisico prima del matrimonio, e la principessa si risveglia sulla base di un principio di predestinazione, ossia il fatto che siano scoccati i cento anni e che sia arrivato il cavaliere fatidico, senza che lo stesso abbia particolari meriti al proposito. In Rosaspina, invece, la fanciulla si risveglia dopo che il principe l’ha baciata castamente, interrompendo cosí l’incantesimo che la teneva prigioniera. Manca invece del tutto la seconda parte relativa agli intrighi interni al palazzo, le fate si chiamano «comari» e non sono sette, ma tredici, cifra di cattivo augurio. Rimane invariato il motivo del fuso come causa della puntura e della conseguente letargia della principessa, nonché l’interdetto di filare, temi al centro di molti dibattiti tra gli studiosi (vedi box a p. 82).
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Sulle due pagine frames da Sleeping Beauty (1959), il film di animazione di Walt Disney liberamente basato sulle versioni della Bella addormentata di Perrault e dei fratelli Grimm. In alto, le tre fate buone, Merryweahter, Flora e Fauna; a destra, il bacio del principe.
La maggior parte dei folcloristi che si sono occupati della Bella addormentata ritiene che sia il tema/ motivo del racconto, sia la sua testualizzazione, siano da ricondursi a origini molto antiche, sparse su tutto il territorio europeo fino ad arrivare a quello euroasiatico. Ne sarebbero prova le arcaiche attestazioni indiane e germaniche, sicuramente precedenti a quelle medievali, ossia quella della fiaba di Surya Bai – ragazza che, ferita dall’unghia di un orco, cade in uno stato di morte apparente (vedi box a p. 74) –, nonché Il Canto dei Nibelunghi (Nibelungelied), ove è contenuta la vicenda della valchiria Brunilde che Odino, per punizione, condanna a un sonno magico, richiudendola in un’alta rupe avvolta dalle fiamme (vedi box alle pp. 80-81).
Le studiose Giovanna Franci e Ester Zago, che si sono occupate a piú riprese dell’Addormentata, sono propense a far risalire le origini del topos letargico addirittura alla storia di Epimenide, contenuta nelle Vite dei Filosofi, composte da Diogene Laterzio nel III secolo d.C., ovvero alla leggenda de I sette dormienti di Efeso, narrata inizialmente da Gregorio, vescovo di Tours (538-594), all’interno della sua opera dedicata marzo
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alla Storia Ecclesiastica dei Franchi, e ripresa da Jacopo da Varagine nel XIII secolo. In questi casi, però, i protagonisti sono di sesso maschile, mentre il genere della Bella addormentata è ben diverso.
Morte apparente
Solo a partire dal Medioevo la letteratura e il folclore cominciano ad annoverare casi di donne che cadono per sortilegio in uno stato
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di torpore o di morte apparente, come per Guilliadun nell’Eliduc di Maria di Francia (seconda metà del XII secolo), per Fenice nel romanzo cortese Cligès di Chetrien de Troyes (1176) o per Ydoine in Amadas et Ydoine, romanzo composto tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII. Potrebbero essere queste delle reminiscenze di un motivo narrativo sedimentato nel tempo e nello spazio, anche se
in questi casi specifici non vi sono particolari analogie con quella che sarà poi la trama della fiaba che conosciamo (vedi box a p. 78). Le piú antiche riscritture letterarie medievali della Belle au bois dormant devono infatti ricondursi in primo luogo alla storia d’amore di Troilo e Zellandina, contenuta nella terza parte del romanzo in prosa francese Perceforest, in secondo luogo al breve romanzo Blandin
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Dossier La Surya Bai indiana
Un’antica fiaba induista Secondo alcuni studiosi la genesi della fiaba della Bella addormentata potrebbe aver avuto luogo in India. Nel 1868, infatti, Mary Frere, figlia di un ufficiale britannico che trascorse molti anni della sua vita nel Paese asiatico, pubblicò Old Deccan Days, una raccolta di
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fiabe indú che attingevano all’antica tradizione folclorica locale. Tra queste storie, arcaiche e che secondo alcuni potrebbero aver preceduto addirittura le versioni europee medievali, c’è quella della bella principessa Surya Bai (Little Surya Bai), che presenta il motivo del sonno simile alla morte di una fanciulla, e quello del risveglio per opera di un principe. La trama vede la bella figlia di un’umile lattaia insidiata da un’orchessa e dal suo figlio orco (un râkshasa), il quale,
nel tentativo di forzare la porta del rifugio dove si era rinchiusa, si spezza l’unghia della mano, che rimane conficcata nel legno. Nell’aprire il portone, Surya rimane ferita alla mano dalla scheggia di unghia, che le si conficca nella carne e ne provoca all’istante uno stato di catalessi simile alla morte. La ragazza si riavrà quando un giovane raja le prende la mano e la libera dal corpo estraneo, quindi grazie a un contatto fisico, seppur molto casto.
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Miniatura di scuola indiana raffigurante una giovane che dorme. Jaipur, Collezione Kumar Sangaram Singh. Secondo alcuni studiosi, la Bella addormentata potrebbe essere derivata dall’antica fiaba induista della principessa Surya Bai.
de Cornoalha (Blandin di Cornovaglia), nonché alla faula Frayre de Joy et Sor de Plaser (Fratello di Gioia e Sorella di Piacere). A questi si potrebbe aggiungere, ma in misura minore, il Roman de Belris, racconto in versi franco-italiano scritto tra il 1350 e il 1380, che intreccia diversi tipi favolistici, come quello del «Fiero Bacio» e quello della liberazione della principessa e del suo regno da un sonno magico.
Scenario burlesco
La prima vera fonte scritta medievale che contiene in nuce gli elementi narrativi essenziali della futura fiaba è il Roman de Perceforest, composto da un anonimo autore del Nord-Est della Francia, tra il 1320 e il 1340. Opera molto vasta, scritta a lode del conte Guillaume I di Hainaut e divisa in quattro libri (ordinati a loro volta in 531 capitoli), essa racconta la storia della Gran Bretagna dall’epoca preromana fino all’avvento del cristianesimo. Da alcuni ricondotto nel solco della letteratura arturiana, il Perceforest è in realtà una sorta di zibaldone di numerosi episodi e avvenimenti, in cui – tra l’altro – sono assenti l’ideale cavalleresco e lo spirito religioso che animano il ciclo arturiano. I personaggi, dame e cavalieri, si muovono in uno scenario burlesco, e la stessa storia d’amore tra Troilo e Zellandina (narrata nel terzo libro) ha carattere erotico e licenzioso. Nell’episodio sono presenti i due motivi strutturali della fiaba dell’Addormentata in genere, secondo lo schema proposto dall’antropologo russo Vladimir Propp (1895-1970), ossia il sonno letargico causato da forze malefiche e il risveglio operato in maniera diretta o mediata da un uomo. L’autore della vicenda attribuisce il sonno di Zellandina, come poi avverrà anche in Perrault e Grimm, all’ira e alla maledizione di una delle tre dee che presenziano alla sua nasci-
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ta, ossia Temi, che non aveva trovato il coltello vicino al piatto. Come nelle versioni piú moderne, si rintraccia il motivo folclorico che rimanda alla mitologia greco-romana delle tre Parche e a tutte le divinità del destino, nonché alle cosiddette «fate madrine», per usare un termine caro all’autorità di Laurence HarfLancner, insigne studiosa della letteratura francese del Medioevo. Nello specifico troviamo la presenza di Venere, dea dell’amore, che interverrà attivamente al fine del buon andamento della vicenda. I due giovani Troilo e Zellandina si conoscono e si innamorano alla corte del re Perceforest, ma la sorte li separa. Tempo dopo Troilo, che non è il classico principe azzurro ma un cavaliere goffo e impacciato, apprende che in Zellanda la sua amata, caduta in uno stato di malattia inspiegabile, giace nuda in una torre inaccessibile, dove l’ha rinchiusa il padre. Venere, quale dea ex machina della situazione, gli spiega come potrà guarire la malata (cioè con una vera e propria unione sessuale), ma Troilo non comprende il significato della «fessura» che dovrà trovare, ossia della vagina dell’addormentata, a cui allude la dea. Riuscirà a entrare dalla finestra della torre aiutato da Zefirus (alter ego di Eros), e solo grazie alle indicazioni di questo e alla vampa di passione infusa da Venere si congiungerà sessualmente a Zellandina. Al posto del classico e romantico bacio del principe azzurro, in tale racconto medievale troviamo un vero e proprio amplesso, che tra l’altro non provocherà l’immediato risveglio della Bella. Ciò si verificherà solo successivamente, dopo la nascita del pargolo quando questi, per sbaglio, non succhierà il seno materno, ma un dito della madre, estraendo la resta di lino (una sorta di «lisca» di cui è provvista la pianta, n.d.r.) che le aveva causato lo stato letargico.
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Dossier La Bella addormentata, olio su tela di John Collier. 1921. Collezione privata.
Opera di autori anonimi, il Blandin de Cornoalha e il Frayre de Joy et Sor de Plaser sono entrambi databili nel XIV secolo e la loro localizzazione geografica è stata al centro di dibattitti: il Blandin è stato variamente considerato di provenienza occitanica o catalana, anche se ultimamente si tende a collocarlo nel Sud-Ovest della Francia, nell’area di confine tra Linguadoca e Catalogna; è scritto prevalentemente in occitanico, ma con influenze provenienti dal francese, dal catalano, dal tolosano e narbonese. Si tratta di un breve componimento di ispirazione arturiana, anche se Artú o altri cavalieri della sua corte non vengono mai nominati.
Influenze catalane
Noto grazie a due sole edizioni manoscritte di provenienza catalana, il Frayre fu probabilmente composto in ambiente provenzale da un poeta non estraneo all’ambiente catalano e poi copiato in quell’area, della quale conserva quindi la forte influenza. Interessante è notare come in ambiti culturali comunque affini o contigui, la riscrittura del tema della Bella addormentata sia avvenuto in forma diversa da parte dei due autori, anche in considerazione del tipo di pubblico a cui era destinato. Sebbene affiorino molte affinità con il motivo comune e ben conosciuto, le due opere non possono ricondursi propriamente al modello della Bella addormentata e, in entrambi i testi, diversa è la causa dell’incantesimo. Durante l’età di Mezzo, infatti, circolano oralmente strutture narrative differenti, che fanno riferimento al topos dell’eroe che risveglia una figura femminile da un sonno incantato, ma le varianti sono molte e attingono largamente a motivi folclorici. Dal punto di vista stilistico,
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Dossier l’eliduc e il cligès
Fra donnole e pozioni magiche L’Eliduc e il Cligès conterrebbero casi di sonno letargico di giovani fanciulle che potrebbero far pensare al motivo della Bella addormentata, pur trattandosi di strutture narrative molto distanti. Eliduc, protagonista dell’omonimo lai di Maria di Francia (seconda metà del XII secolo), pur sposo di Guildeluëc, conosce la bellissima Guilliandun e intreccia con lei una relazione amorosa, senza avere – peraltro – il coraggio di confessarle di essere sposato. Nel momento in cui, accidentalmente, Guilliandun viene a conoscenza del precedente matrimonio dell’amato, cade priva di sensi come morta, e viene collocata sull’altare di una cappella. Insospettita dalle continue assenze, Guildeluëc segue in segreto il marito e scopre il corpo della giovane nella cappella. All’improvviso sbuca una donnola da sotto l’altare e un servo la uccide, ma subito dopo arriva un’altra donnola con un fiorellino in bocca, e con esso fa rivivere l’animale ucciso. Allora Guildeluëc raccoglie il fiore e lo pone in bocca a Guilliandun, che si sveglia dalla «morte» e racconta tutto quanto è accaduto. Appresa la storia, Guildeluëc decide di entrare in convento, permettendo cosí a Eliduc di sposare Guilliandun. Il Cligès, invece, romanzo attribuito a Chrétien de Troyes e scritto probabilmente tra il 1174 e il 1176, narra la tormentata storia d’amore tra l’omonimo protagonista maschile e la bellissima principessa
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Fenice, figlia dell’imperatore di Germania e già promessa sposa al duca di Sassonia. Salito al trono di Costantinopoli, Alis, spinto dai suoi consiglieri, decide di recarsi in Germania e prendere in moglie Fenice; la fanciulla deve essere presa a Colonia e difesa contro il duca di Sassonia. Al seguito del sovrano vi sono i cavalieri piú valorosi, tra cui Cligès. Non appena Cligès e Fenice si conoscono, l’innamoramento tra i due è immediato, ma deve rimanere segreto e inconfessato, dato che nel frattempo sono state celebrate le nozze tra la stessa Fenice e Alis. La giovane, al fine di mantenersi intatta per il suo amato, si fa preparare dalla nutrice Thessala, esperta nelle arti magiche, una pozione che verrà somministrata ogni sera al marito, il quale sognerà di giacere con la moglie, senza farlo realmente. Dopo varie avventure, Cligès e Fenice riescono a confessare apertamente il proprio amore reciproco; il primo propone la fuga presso la corte di Artú, ma Fenice preferisce mettere in atto un diverso piano. La fanciulla prima si finge malata, poi si fa preparare da Thessala una seconda pozione che la fa cadere in uno stato di morte apparente e, dopo essere stata sottoposta a diverse prove crudeli dai medici di Salerno, viene quindi seppellita. Successivamente, Cligès libera la fanciulla dal sepolcro e la porta in una torre, nelle cui stanze segrete i due possono finalmente vivere insieme e consumare il proprio amore.
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portante dall’episodio di Troilus e Zellandina per la mancanza delle dee-fate, della maledizione e della puntura di spina, dall’altro la presenza di numerose convergenze e punti di contatto suggeriscono che il suo autore conoscesse il Perceforest, e che quasi si trattasse di una derivazione l’uno dall’altro. Nello stesso tempo il racconto sarebbe debitore di altri esempi appartenenti alla tradizione letteraria, piú che a un sostrato di provenienza folclorica.
Due giovani cavalieri
In alto Eliduc trasporta Guilliandun, che sembra morta, nella cappella in cui poi si risveglierà, tavola realizzata per l’opera di Lewis Spence Legends and Romances of Brittany. 1917. Nella pagina accanto The Garden Court, olio su tavola di Edward Burne-Jones. 1885-1890. Faringdon (Inghilterra), Buscot Park. Il dipinto, nel quale figurano alcune tessitrici che dormono sui loro telai dopo aver filato, fa parte della serie The Legend of Briar Rose, ispirata alla Bella addormentata dei fratelli Grimm.
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sono state invece evidenziate la semplicità e l’adozione di un linguaggio scarno e ripetitivo nel Blandin, caratteristica che farebbe propendere per una produzione orale e di tipo giullaresco, mentre la struttura e lo stile del Frayre è molto piú raffinata, tanto che il componimento può rientrare negli stilemi della lirica trobadorica, soprattutto in relazione all’esaltazione del joi, inteso come unione fisica e sessuale degli amanti. Per Margherita Lecco, se da un lato il Frayre si discosta in modo im-
In Blandin di Cornovaglia si narra di due amici, Blandin, appunto, e Guilhot, che si lanciano in una serie di avventure, agendo in un modo cavalleresco in senso lato, ma senza richiami al mondo arturiano, e senza essere mossi da ragioni di tipo psicologico e sentimentale. Nel momento in cui si separano, Blandin – dopo che il cavallo gli viene derubato da una ragazza – si mette alla ricerca e viene a sapere da uno scudiero che il suo signore è stato ucciso da alcuni cavalieri che sorvegliano una fanciulla «incantata», di nome Brianda. Allora Blandin giunge al castello e, dopo aver affrontato e sconfitto dieci cavalieri, incontra in un giardino allietato dal canto degli uccelli un giovane che tiene sul pugno uno sparviero. Egli si presenta come il fratello della fanciulla stessa e gli dice che dovrà affrontare altre prove prima di poterla vedere, cosa che avviene puntualmente. Blandin può quindi accedere alla stanza nella quale giace l’Addormentata (anche se il testo non parla esplicitamente di sonno), servita da sette damigelle. Per liberare la fanciulla incantata, Blandin dovrà però impossessarsi di un rapace soprannaturale, un astore bianco, rinchiuso in una torre, dopo aver sconfitto in combattimento un enorme serpente, un drago e un terribile saraceno. (segue a p. 82)
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Dossier A sinistra L’addio di Wotan (a Brunilde), olio su tela di Ferdinand Leeke. 1910 circa. Collezione privata. A destra, sulle due pagine Sigfrido e Brunilde, olio su tela di Charles Ernest Butler. 1909. Collezione privata.
Le versioni nordiche
Brunilde e la spina del sonno La versione della Bella addormentata dei fratelli Grimm ricorderebbe per alcuni studiosi un celebre episodio della mitologia germanica, al quale i fratelli Grimm si riferiscono nelle loro Annotazioni originali alla fiaba. Affermano infatti che Rosaspina «è la Brunilde dormiente della saga nordica, circondata da un muro di fiamme, che similmente solo Sigfrido può attraversare e la sveglia. Il fuso con cui ella si punge e a causa del quale ella si addormenta, è la spina del sopore, con cui Odino la punge». La Saga dei Nibelunghi (Niebelungensage), che contiene per prima il personaggio di Brunilde, non fa invece cenno all’episodio. Qualcosa in piú possiamo ricavare dall’Edda di Snorri, nella quale si racconta il mito dell’eroe nordico per
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eccellenza, ossia Sigfrido (Sigurðr), che, dopo essersi impadronito del tesoro detenuto dal serpente Fáfnir, giunge in una dimora collocata in un monte, ove giace una donna addormentata, chiusa in una corazza. Allora l’eroe sfodera la sua arma portentosa e libera dalla corazza la giovane, che si desta e di lei viene svelato il nome: si tratta di Hilldr, detta anche Brynhilldr («battaglia della corazza»), ed è una valchiria. In un carme dell’Edda poetica viene profetizzato a Sigfrido che troverà una candida fanciulla che dorme, con la spada affilata la libererà dalla corazza e la stessa si sveglierà, insegnandogli i segreti delle rune. In particolare, nel Fáfnismál, Sigfrido, dopo aver ucciso il serpente e bevuto il suo sangue, apprende il linguaggio marzo
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degli uccelli, i quali gli profetizzano il viaggio che lo porterà fino alla valchiria, e gli riferiscono chiaramente che Odino la punse con una spina, come narrerà poi la stessa valchiria: destatasi dal sonno, spiega che fu il padre dell’Olimpo germanico a punirla in tal modo per aver disobbedito al suo volere, in quanto aveva voluto concedere la vittoria a un eroe da lei prescelto, quando invece l’esito finale della battaglia era già stato deciso da Odino. Per questo non potrà piú far parte della schiera delle valchirie, e dovrà scontare la sua colpa con un lungo sonno, dal quale la farà risvegliare un eroe con il suo coraggio e con la magica spada Gramr, che era già appartenuta a Odino. Questi, quindi, è l’artefice dell’impianto generale, in quanto stabilisce la punizione per la valchiria e allo stesso tempo decide chi e in che modo dovrà liberarla dall’incantesimo. Nella mitologia nordica, la spina del sonno in norreno viene detta Svefnþorn, simbolo presente in numerose saghe e
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formule magiche vichinghe, oltre che in libri d’incantesimi islandesi d’età successiva. Pur non avendo una forma grafica univoca e definitiva, nella gran parte dei casi la runa assomiglia a una serie di quattro arpioni e provoca l’effetto di far cadere la persona contro la quale viene utilizzata nel sonno, dal quale si riavrà dopo molto tempo. Nonostante talune innegabili analogie tra il sonno di Brunilde e quello del personaggio della nostra fiaba, e le esplicite affermazioni dei fratelli Grimm, le studiose Franci e Zago non ritengono che l’episodio della valchiria possa costituire un antecedente letterario della Bella addormentata, in quanto, a differenza della fiaba, il mito norreno finisce tragicamente. Brunilde, infatti, innamorata di Sigfrido che l’ha risvegliata dal sonno magico, e accecata dalla gelosia e dalla rabbia, fa uccidere Sigfrido che è tornato dalla donna promessa Guthrun. Poi si dà la morte, in preda al dolore e al rimorso per la vendetta perpetrata.
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Dossier Il carattere magico dell’uccello è suggerita anche dal colore, che rimanda ad altri animali della letteratura celtica, come cervi o cani oltremondani. Ebbene, basta che il nostro consegni al fratello della fanciulla l’astore e che questo posizioni il volatile sulla mano della fanciulla, che questa possa riprendere a vivere, sanata e guarita dall’incantesimo. Anche nell’altro componimento, il Frayre, la liberazione della donna dallo stato di letargia è mediato da un uccello. Il componimento si apre con la morte improvvisa, durante un banchetto, della figlia dell’imperatore di Gint Senay. Ma la morte è apparente, in quanto la ragazza continua a mantenersi integra e fresca come una rosa, perciò i genitori decidono di non farla seppellire, ma di costruire una torre circondata da un meraviglioso giardino (tipico locus amoenus), a cui si accede tramite un ponte di vetro. Il protagonista maschile, appresa la notizia della damigella, del suo grande reame e della dimora incantata, si reca allora a Roma da Virgilio, nelle vesti di mago sapiente (cosí come era noto nel Medioevo), per apprendere le arti necessarie per liberare Sor de Plaser dallo stato in cui si trova. Virgilio gli donerà un «jay», un parrocchetto, ossia una sorta di piccolo pappagallo parlante che lo (segue a p. 86)
il divieto di filare
Guai a creare ostacoli! Sia nella versione di Perrault che in quella dei Grimm, ma, in certo modo, anche nel Perceforest medievale, la fiaba della Bella addormentata prevede il noto divieto di filare imposto dal re, non appena la fata adirata pronuncia la propria maledizione nei confronti della fanciulla, nonché la prescrizione di eliminare fusi e arcolai dal regno fino a quando la ragazzina non avrà raggiunto i quindici anni, per evitare che il sortilegio si compia. Se alcuni autori ritengono che il motivo vada inquadrato nell’ambito della struttura generale della fiaba individuata da Vladimir Propp (ossia come un «divieto»
funzionale che non verrà rispettato e risulterà indispensabile al dispiegarsi della storia), altri, come il folclorista francese Pierre Saintyves (18701935), hanno ricollegato il divieto di filare al simbolismo del nuovo anno. In effetti, nelle usanze popolari e nel folclore di varie parti dell’Europa (e altrove) è diffuso il divieto di filare in alcuni periodi, soprattutto all’inizio della primavera e all’inizio dell’anno, nonché in corrispondenza allo svolgimento di determinate attività. Una proibizione dettata dal fatto che, nella magia imitativa, cosí come nella stregoneria, filare equivale alla possibilità di dipanare, ma anche al pericolo di creare nodi, e quindi di «legare», ossia incatenare o frenare la nascita o lo sviluppo di un’attività. Il divieto di filare, e quindi di legare, era particolarmente sentito in concomitanza con il solstizio d’inverno e durante il periodo delle dodici notti (quelle che vanno da Natale all’Epifania), quando l’astro solare – e conseguentemente l’anno – sembra stare fermo e indugiare nella sua corsa. La Bella addormentata, simbolo dell’arrivo della bella stagione primaverile, non andrebbe insomma ostacolata nella sua corsa da legami o intralci.
A destra La Bella addormentata, statua in marmo di Carrara di Frans Stracké. 1867. Amsterdam, Rijksmuseum. Nella pagina accanto La Bella addormentata, litografia di Johanna Unger. 1865. Berlino, Sammlung Archiv für Kunst und Geschichte.
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Dossier Dee del destino e fate madrine
Di Moire, Norne e altre storie L’apparizione della fata che predice il lungo sonno della principessa, sventando la maledizione che l’avrebbe voluta morta, tavola di Harry Clarke per un’edizione inglese della Bella addormentata nel bosco. 1922. Londra, British Library.
Nel medievale Perceforest, nella Bella addormentata di Perrault e in Rosaspina le creature che presiedono alla nascita della bimba rimandano in modo evidente alle cosiddette «dee del destino» della mitologia greco-romana, o di quella del Nord Europa. In Grecia, per esempio, esistevano le Moire (che a Roma prendono il nome di Parche). Se in Omero la Moira è una sola, già nella Teogonia di Esiodo il loro numero passa a tre: Cloto, Làchesi e Atropo. Secondo una versione sono figlie di Zeus e di Temi, secondo un’altra della Notte. Le Moire presiedono ai momenti cardine della vita umana della nascita, matrimonio e morte: Cloto regge il filo dei giorni per la tela della vita, Làchesi dispensa la sorte
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avvolgendo al fuso il filo che a ciascuno viene assegnato e infine Atropo, l’irremovibile, taglia con le forbici il filo quando giunge il momento di arrestare la vita. Nella mitologia nordica troviamo le Norne, che nell’Edda di Snorri vengono individuate nella triade Urd (che significa il destino stesso), Verdandi (il divenire) e Skuld (il debito, o colpa). Esse dimorano presso l’albero cosmico Yggdrasyll, accanto a Urðarbrunnr (la «fonte del destino») e hanno il compito quotidiano di irrorare con acqua e argilla i rami dell’albero, affinché non secchino o marciscano. Le Norne decidono il destino degli uomini e di tutti gli esseri viventi in genere, persino quello degli dèi. Spesso si presentano a convegno presso la culla di un neonato e ne decidono la sorte, che nessuno potrà cambiare, come attestato in vari episodi nella Saga dei Volsunghi, nell’Edda poetica, nelle Gesta danorum del cronista Saxo Grammaticus (XII-XIII secolo) o nella Breve storia di Norna-Gestr. All’indomani della conversione al cristianesimo, le Norne cominciano a essere considerate figure demoniache e stregonesche e i neoconvertiti vengono costretti ad abiurarne il culto. Tutte queste dee del destino, dalle Moire alle Norne germaniche (ma esistono divinità similari anche nella cultura celtica), sono quasi sempre rappresentate come intente a filare. Nel mondo norreno, il filo è immagine della vita stessa; basti pensare che uno dei carmi eddici dedicati all’eroe Helgi riporta che alla sua nascita vennero le Norne a prepararne il destino: «con forza torcevano i fili del fato (…) là dipanarono i fili d’oro». Come scrive la germanista Gianna Chiesa Isnardi, «l’atto del filare, tessere, cucire o ricamare, sempre riferito a donne di nobile rango o alle valchirie (che come le norne hanno potere sul destino degli uomini), rappresenta perciò un atto creativo che si manifesta come un intervento del sovrannaturale nella vita dell’uomo, richiamo a un disegno superiore cui egli deve adeguarsi. Il filo è dunque ciò che unisce i diversi momenti della vita e li riconduce al loro principio». Il filo è inoltre legato alla simbologia del legame come strumento invisibile di magia, ciò spiega perché le fate, derivazione delle dee del destino, nell’iconografia tradizionale sono molto di frequente intente a filare il filo della sorte mortale e sono associate, proprio come ne La Bella addormentata, all’immagine della conocchia e del fuso (punta metallica, posta sulla marzo
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In alto Le Parche, incisione di Giorgio Ghisi, da un originale di Giulio Romano. 1558. Washington, National Gallery of Art. A destra le Norne tessono il filo del destino in una messa in scena del Crepuscolo degli Dèi di Richard Wagner del 1908.
sommità di un filatoio o di un arcolaio, che consente di trasformare un ammasso di fibre in un filato). La diretta e iniziale discendenza delle fate dalle antiche Parche è stata magistralmente illustrata da Laurence Harf-Lancner nel suo saggio Morgana e Melusina. La nascita delle fate nel Medioevo. La studiosa definisce questa tipologia di fate come «fate madrine» (in contrapposizione alle «fate amanti»), il cui tema folclorico si afferma alle soglie del XII secolo e si sviluppa diffusamente nella letteratura volgare; una scena classica della narrativa medievale, che poi diverrà dopo il Medioevo il tema piú caratteristico dei racconti di fate, è quella che vede, al momento in cui un bambino viene al mondo, la preparazione di un banchetto per le fate che verranno a decidere il destino del neonato. Dal buono svolgimento o meno del banchetto dipende la benevolenza delle fate visitatrici. Un esempio si trova nel romanzo Amadas et Ydoine, ove fa la sua apparizione il motivo folclorico della vendetta della fata (in questo caso una di loro, privata del coltello e che non aveva potuto partecipare al festino, fa un dono malefico), ovvero nel romanzo Escanor di Gérard d’Amiens
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(1280), nel Cléomadès di Adenet Le Roi (1270) o nelle Merveilles de Rigomer. Il caso piú eclatante si incontra in Huon de Bourdeaux, chanson de geste in cui si narra di Aubéron, figlio di Giulio Cesare e di fata Morgana, nonché signore del regno di Féerie. Alla sua nascita, intorno alla culla accorrono le fate che lo colmano di doni meravigliosi, ma la prima di loro – risentita per una ragione inspiegabile – lo condanna a diventare un piccolo nano gobbo. Poi, pentita della sua crudeltà, attenua il maleficio donandogli una bellezza sovrumana.
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Dossier accompagnerà nel corso della sua avventura; in questo caso però il risveglio dell’amata avverrà gradualmente. In primo luogo grazie al rapporto sessuale con l’eroe, alla conseguente gravidanza e alla nascita di un bambino; solo dopo tali accadimenti, l’uccello entrerà nella torre e, poggiando in mano della ragazza un’erba magica, ne provocherà il definitivo ritorno in sé. Sarà lo stesso uccellino parlante, a intercedere presso la damigella, che si rifiuta inizialmente di ritenere il giovane «gentil» perché ha goduto di lei senza averne il consenso, fino a convincerla a perdonare Frayre de Joy e ad accettarne finalmente l’amore.
Il principe irrompe nella torre in cui giace la Bella addormentata, tavola realizzata per un’edizione ottocentesca della fiaba.
Una versione edulcorata
Il Roman de Perceforest ebbe grande diffusione in Europa, tanto da essere dato alle stampe anche in Italia nel 1558, a Venezia, con il titolo di La dilettevole historia del valoroso Parsaforesto, re della gran Brettagna con i gran fatti del valoroso Gadiffero re di Scotta, translatato di francese in lingua italiana. Fu lo stampatore Michele Tramezzino, probabilmente con l’aiuto di traduttori, a mettere in
letture e riletture
La Bella addormentata sul lettino dello psicanalista Il tema della Bella addormentata è ampiamente esaminato e ha dato luogo a molteplici interpretazioni. Intorno al 1920, il già citato Pierre Saintyves inquadra la storia nell’ambito di rituali misterici che si celebravano nel mondo antico, incentrati sulla morte e risurrezione della primavera, in questo seguendo le teorie di altri mitologi ottocenteschi. Sulla scorta di tali precedenti, Saintyves afferma che la Bella addormentata rappresenta la regina che trionfa sulle tenebre delle notti invernali, pertanto è l’allegoria del Nuovo Anno a cui vengono invitate le Fate, cerimoniere che presiedono al rito di consacrazione. Il Principe azzurro, invece, che con il suo bacio ridesta la Bella, sarebbe l’allegoria di un culto maschile e solare, sopravvivenza di un personaggio
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liturgico che nella cerimonia interveniva per avocare i poteri dell’astro solare. A cercare di impedire il bacio tra la Bella e il Principe, si intromette la madre del principe, megera che impersona l’Anno Vecchio (o l’inverno) che, con i suoi morsi, non intende lasciare spazio alla rinascita solstiziale e al dilatarsi delle giornate. Un’interpretazione simile è stata riproposta dal mitologo Joseph Campbell (1904-1987), nell’opera L’eroe dai mille volti, pubblicata nel 1949. La fiaba della Bella addormentata è stata da molti riletta anche in chiave psicanalitica. Marie-Louise von Franz (1915-1998), allieva di Carl Gustav Jung, sul presupposto che il motivo fondamentale di una fiaba rimane intatto nonostante il fatto che la stessa possa trasformarsi e adattarsi al paese marzo
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italiano il romanzo in piena età di Controriforma e, nell’episodio di Troilus e Zellandine, che nella versione nostrana diventano Troilo e Zelanda, cercò di eliminare i particolari troppo apertamente erotici dell’originale, usando espressioni piú pudiche o fini allusioni, per accontentare il gusto per i romanzi cavallereschi degli aristocratici lettori senza incorrere nei tagli della censura. Per questo viene messo in rilievo il ruolo terapeutico, non tanto il trasporto amoroso, che il cavaliere vuole esercitare su Zelanda, viene eliminata la figura di Venere per dare risalto a quella di Zeffiro, non viene fatto cenno alla circostanza che la ragazza giaccia nuda su di un letto, e la scena dell’unione sessuale viene risolta con un abile giro di parole. Con ogni probabilità, il Parsaforesto ispirò il napoletano Giambattista Basile (1566-1632), il quale, nel suo Lo Cunto de li Cunti (o Pentamerone), pubblicato postumo tra il 1634 e il 1636, inserí una sua rielaborazione del tema della Bella addormentata. Sole, Luna e Tania, questo il titolo, fonde la tradizione folclorica e medievale con i gusti del pubblico borghese dei suoi
in cui si radica, ha affermato che il tema della ricerca e della liberazione della principessa, o come quello di una figura femminile che scompare o muore per poi rinascere o riapparire, si trovano nei miti, nelle fiabe, nelle leggende e nei sogni individuali (come nel mito di Kore-Persefone, che dopo essere stata rapita da Ade, ogni inverno scompare sotto terra per raggiungere Plutone, suo sposo, per poi riapparire a primavera). Per questo anche la Bella addormentata andrebbe letta sotto la stessa luce, quale motivo di rinascita creativa della donna: se la nascita di un eroe e di una eroina viene frequentemente preceduta da un periodo di sterilità, allo stesso modo – in termini psicologici – un periodo di attività particolarmente intenso della coscienza è spesso preparato da un lungo periodo di completa sterilità. Per un altro grande psicanalista, l’austriaco Bruno Bettelheim (1903-1990), la fiaba
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simboleggia il percorso di crescita, in particolare il passaggio alla pubertà. Tale percorso, che nella fiaba è simboleggiato tra l’altro dalla perdita di sangue a seguito della puntura del fuso o della conocchia, è caratterizzato dalla maturazione fisica ed emotiva e dal raggiungimento della propria identità sessuale, ma è irto di difficoltà e comporta tempi di attesa e di preparazione. Ad avviso di Bettelheim, quindi, il sonno in cui cade la Bella addormentata evoca il momento in cui l’adolescente, percependo la propria vulnerabilità e la paura di crescere, tende a isolarsi dalla realtà, mentre il risveglio dalla letargia è la riscoperta del rapporto con gli altri individui e con la realtà esterna che lo circonda. In definitiva la favola ha lo scopo di rassicurare i giovani, sia maschi che femmine, a non temere di passare periodi di passività e introspezione, necessari per maturare le condizioni piú propizie all’affrontare la vita da adulti.
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Dossier tempi. Scritta in un vivace dialetto napoletano, la fiaba – che diviene in ogni senso un racconto di fate (la protagonista viene infatti aiutata da un certo numero di fate invisibili) – non possiede affatto l’aura di romanticismo delle versioni successive né il trasporto amoroso disinteressato di quelle medievali, e si trasforma in una vicenda alquanto «materiale» e sbrigativa. In questo caso, infatti, il personaggio maschile non è il classico principe o cavaliere senza macchia, ma un re già sposato (tra l’altro con una regina malvagia e vendicativa), il quale, durante una battuta di caccia e in cerca del proprio falcone, trova la giovane «come incantata» distesa su un divano e la possiede sessualmente senza troppe esitazioni, per poi tornarsene nel suo regno, dimentico per un bel pezzo dell’accaduto.
Un amore poco fiabesco
L’indifesa vittima dello stupro, tempo dopo, dà alla luce due gemelli (Sole e Luna) i quali, non trovando il capezzolo della mamma, si mettono a succhiarne il dito e in questa maniera tirano via la resta, destandola dal sonno di cui era vittima. Il re si ricorda della giovane solo piú tardi, e il suo attaccamento nei suoi confronti sembra dovuto al fatto che sia la madre dei propri figli, piú che a un reale amore, come nelle classiche fiabe. La versione barocca di Basile è di rilievo, in ogni caso, in quanto fa da trait d’union tra le versioni piú antiche e la forma «definitiva» della Bella addormentata, come cristallizzata da Perrault e dai fratelli Grimm, anche se il filosofo francese Marc Soriano (1918-1994), dubitava fortemente che Perrault potesse aver conosciuto la fiaba della Bella attraverso la versione di Basile, in quanto scritta in un dialetto napoletano quasi incomprensibile persino ai letterati italiani del tempo. Per cui, come tut-
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Al cinema
Un classico dell’animazione
Nel 1959 Walt Disney tornò alla favola medievale a disegni animati con La Bella addormentata nel bosco (Sleeping Beauty), ispirata alle due versioni di Perrault e dei Grimm, anche se con piú di una differenza: a cominciare dal nome della principessa, Aurora, che invece nella versione perraultiana è quello della figlia, continuando con il numero delle fate (che sono tre, a differenza di otto o addirittura tredici delle altre fiabe) e con la presenza costante della fata malvagia, che nel cartoon di Disney si chiama Malefica. Quest’ultima è il personaggio che piú caratterizza il film disneyano e una delle «cattive» meglio definite nelle sue opere: domina ogni scena in cui appare e la sua conformazione fisica, molto stilizzata e spigolosa, si presta a esprimere il suo fascino maligno, a differenza del tratto sinuoso che caratterizza la principessa Aurora. Risulta valorizzato anche il ruolo del principe, cioè dell’«agente maschile»:
egli si dimostra un valente cavaliere per correre in soccorso dell’amata principessa, armato di scudo e spada taglia la siepe di rovi per arrivare al castello fatato, combatte contro Malefica trasformata in drago e la sconfigge, infine risveglia la principessa con il classico bacio. A differenza delle fiabe di Perrault e dei fratelli Grimm, ove il principe non aveva grandi meriti nell’operare il risveglio della dormiente, il Filippo della trasposizione disneyana svolge un ruolo intraprendente. Nel cartoon, invece, risulta priva di spessore proprio la figura della bella Aurora, che appare sorridente ma non parla quasi mai, ignara degli avvenimenti che accadono intorno a lei. Nel 2014, con la regia di Robert Stromberg e Angelina Jolie nei panni della strega, è stato distribuito nelle sale Maleficent, remake live action del cartoon che, come si desume dal titolo, non ruota attorno al personaggio della principessa Aurora che cade marzo
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A destra una scena tratta da Maleficent (2014), adattamento cinematografico della fiaba diretto da Robert Stromberg. Nella pagina accanto Bella si punge con il fuso, uno dei momenti clou della favola, nella versione animata realizzata da Walt Disney nel 1959.
nel sonno magico, ma attorno alla figura della «strega» materna che crea l’incantesimo. La trama scava nel passato, innovando fortemente rispetto a quella tradizionale e ci fa sapere dell’esistenza di due mondi, quello degli uomini (quindi maschile, a cui appartiene Stefano, futuro padre di Aurora) dominato dall’egoismo e dalla brama di potere, e la Brughiera, regno incontaminato allo stato di natura (quindi femminile), popolato dalle fate e in cui vive serenamente la futura Maleficent. Il film spiega come la fata, innamorata del giovane principe Stefano, divenga vittima del suo tradimento e dell’orribile atto di mutilazione delle sue ali, di qui la sua cieca rabbia, la trasformazione in crudele e vendicativa strega e la maledizione lanciata nei confronti della piccola, alla quale – nonostante tutto – si affeziona come una vera madrina. Durante la crescita della bambina, infatti, Maleficent riscopre un lato materno, e viene ricambiata nell’affetto
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In basso Angelina Jolie nei panni della strega Malefica, protagonista principale di Maleficent.
da Aurora. A un certo momento, addirittura, Maleficent si pente della magia scagliata, cerca di scioglierla invano, e quando la giovane al fine cade nella letargia, si dispera e convoca il principe Filippo. Questi bacia Aurora, ma la giovinetta non si sveglia. Allora la strega si inginocchia al cospetto di Aurora, le chiede
perdono per il male fatto e la bacia teneramente sulla fronte. Sarà proprio tale bacio, che è un bacio di vero amore, a sciogliere l’incantesimo e a far destare la fanciulla. La particolarità di questo live action è la sua declinazione completamente al femminile: a differenza delle comuni versioni delle fiabe, in cui una figura femminile impersona il personaggio buono e un’altra il personaggio malvagio, in questo caso in Maleficent si sommano i due aspetti, in quanto la stessa si atteggia contemporaneamente come crudele signora di un regno tenebroso, e amorevole e onnipotente madre. Ma vi è di piú: il risveglio della Bella addormentata, a differenza di tutte le versioni della fiaba, è demandato a un agente femminile, cioè alla stessa strega. Di Maleficent, nel 2019, è stato realizzato un sequel: Maleficent. Signora del male (Maleficent: Mistress of Evil), con la regia di Joachim Rønning e interpretato, oltre che dalla medesima Angelina Jolie nei panni della protagonista, anche da Michelle Pfeiffer.
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Nella pagina accanto Angelina Jolie nelle vesti di Malefica in Maleficent, Mistress of Evil, il sequel di Maleficent diretto nel 2019 da Joachim Rønning, e, qui accanto, la locandina del film.
te le fiabe, non si può escludere, né l’eventuale conoscenza di altri testi letterari, né, tantomeno, la «via folclorica», e la sua sedimentazione – secolo dopo secolo – nella memoria di chi ne tramandava il contenuto.
Sempre piú casta
A prescindere da radici folcloriche sottostanti, in base all’analisi dei testi enumerati dal Medioevo fino alle versioni letterarie ottocentesche, emerge il permanere del comune motivo del sonno simile alla morte dell’eroina, dalla quale la stessa viene liberata grazie all’intervento, diretto o mediato, di un protagonista maschile. Del resto, nel corso dei secoli la fiaba è andata incontro a un processo di metamorfosi, adattandosi ai mutamenti sociali, culturali e religiosi. Ciò che balza immediatamente agli occhi, se si raffrontano le versioni testuali medievali piú importanti alle fiabe moderne di Perrault e Grimm, è la progressiva depurazione del motivo «sessuale». Come abbiamo visto, sia nel Perceforest che nel Frayre (ma non si può dimenticare nemmeno la versione ancor piú cruda di Basile), la Bella viene deflorata, o addirittura sottoposta a violenza sessuale da parte del protagonista maschile. Nelle versioni piú tarde, tale aspetto viene talmente edulcorato da sembrare quasi assente, e solo con i fratelli Grimm subentra, in luogo dell’unione sessuale, il motivo del classico bacio atto a risvegliare la fanciulla. Rimane sotteso, in ogni caso, il motivo della fanciulla che dedica la propria verginità e, in definitiva, il resto della propria vita, all’uomo che la renderà realmente donna e
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le assicurerà un prospero futuro. Metafora questa, vista quale dipendenza e passività della donna dall’uomo, che ha provocato un sollevamento da parte della letteratura femminista, in nome di un suo ruolo piú attivo e autonomo nella società. Allo stesso modo, in modo sempre metaforico, si è passati – nel linguaggio comune – a definire con il termine di «bella addormentata» una ragazza troppo ingenua e romantica, in eterna attesa del suo principe azzurro.
Del resto, anche a livello simbolico, il motivo della Bella addormentata è stato sottoposto – da studiosi appartenenti alle piú varie estrazioni e correnti – a una ridda di possibili chiavi interpretative: da quelle mitologiche della fiaba come simbolo del risveglio della natura dopo il sonno invernale, fino a quelle psicanalitiche di Bruno Bettelheim della fiaba come metafora della letargia che caratterizza il periodo puberale delle ragazze, e molte altre ancora (vedi box alle pp. 86-87). Una riprova ulteriore, semmai ve ne fosse ancora bisogno, di come qualsiasi fiaba, che nasce in versione orale e cosí si tramanda fino a quando non viene messa per iscritto, e che nel tempo si trasforma sotto la spinta di molteplici istanze e influenze, conserva ed esprime una polisemia inaspettata, tale da consentire che la stessa possa essere interpretata nelle maniere piú disparate. Come altre fiabe e forse piú di altre, la Belle au bois dormant ne è un caso esemplare. E ciò ne spiega l’eterno fascino e la sua continua metamorfosi, destinata, probabilmente, a perpetuarsi anche per il futuro.
Da leggere Giovanna Franci, Ester Zago, La bella addormentata. Genesi e metamorfosi di una fiaba, Dedalo, Bari 1984 Gioia Paradisi, La Bella addormentata nel «Blandin de Cornualha» e in «Fraire de Joi et Sor de Plaser», in Letteratura, alterità, dialogicità. Studi in onore di Antonio Pioletti, Rubbettino, Soveria Mannelli 2016 Claudia Rossi, Margherita Lecco (a cura di), Due testi medievali sull’amor cortese. En aquel temps c’om era jays e Frayre de joy e sor de plazer, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2018 Sabrina Galano (a cura di), Blandin
di Cornovaglia, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2004 Andrea Armati, Michela Pazzaglia (a cura di), La bella addormentata e le sue sorelle. Da uno studio di Pierre Saintyves sul culto delle fate, Eleusi, Perugia 2013 Alessandra Tozzi, Brunilde e Rosaspina. Mito e fiaba dagli indoeuropei ai fratelli Grimm, Il Cerchio, Rimini 2012 Bruno Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Feltrinelli, Milano 1990
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Al di là del
di Chiara Parente
grande fiume
Lungo la sponda meridionale del Po, una corona di abitati sorti nei territori delle odierne province di Pavia e Piacenza, conserva importanti tracce di un passato di notevole rilevanza, ancora da scoprire
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ella carta geografica della Valle Padana i paesi di Arena Po, Portalbera, Broni, Stradella, Sarmato, Castel San Giovanni, Soprarivo e Calendasco appaiono come minuscole terre di confine, affacciate sulla sponda destra del Po, al limite delle province di Pavia e Piacenza. Queste località rivierasche, situate alla confluenza nel grande fiume del Ticino, dell’Olona e dei numerosi torrenti che scendono dai primi contrafforti dell’Appennino ligure-emiliano, hanno seguito per secoli le alterne vicende del limes fra il territorio pavese, quello piacentino e quello tortonese. Ciò spiega il sovrapporsi e l’intersecarsi di giurisdizioni civili ed ecclesiastiche diverse nella zona tra Arena Po e Broni. Quest’area, infatti, ora compresa nella provincia di Pavia e nella diocesi di Tortona, rientrava in età romana nella pertica municipale di Placentia e, con la formazione delle primitive diocesi che ricalcavano il preesistente ordinamento territoriale, fu inglobata nella diocesi di Piacenza. La trasformazione del compren-
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Il guado del Po noto come Transitum Padi, situato nel territorio di Soprarivo (Piacenza), per il quale passarono Colombano e Sigerico.
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medioevo nascosto valle padana Cura Carpignano
San Colombano al Lambro
Pavia
Livraga
Castelnuovo
Miradolo Terme
Belgioioso
San Martino Siccomario
Brembio
Codogno
Corteolona e Genzone
A1
SSSS412 412
Pieve Porto Morone
Portalbera Arena Po Stradella Broni
A21
Calendasco
Bosnasco
Montù Beccaria Borgonovo Val Tidone
Piú volte, nel tempo, le giurisdizioni civili ed ecclesiastiche si sovrapposero e si intersecarono
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Soprarivo
SP 412R
Castel San Giovanni
In alto cartina dell’Oltrepò pavese e piacentino con le località citate nell’articolo in evidenza.
Monticelli Pavese
Sarmato Rottofreno Mottaziana
sorio in linea presidiaria, prima affidata a soldati di stirpe sarmatica, poi mantenuta e rafforzata da Goti e Bizantini, avvenne nel IV secolo d.C., durante l’impero di Costantino, in seguito alla sconfitta nel medio corso del Danubio di colonie militari di Sarmati. Il ricordo di quest’antico popolo perdura ancora nella denominazione del paese piacentino di Sarmato (= stanziamento di Sarmati). A sottrarre ai municipi romani di Piacenza e Tortona la regione a sud del Po che, chiamata «ultrapadum», corrisponde all’incirca all’attuale Oltrepò pavese, e ad attribuirla a Pavia furono i Longobardi poco dopo il 570. Sul finire del VI secolo la frontiera tra lo
Santo Stefano Lodigiano San Rocco al Porto Puglia San Nicolò
Pittolo
Piacenza Mucinasso
schieramento longobardo e quello bizantino era già segnata dal corso del torrente Bardonezza (=da bard, fortificazione o linea militare presidiata dai Longobardi), che ancor oggi indica il confine tra Lombardia ed Emilia-Romagna.
Sulle rive sabbiose
Per il controllo e la difesa del territorio, perennemente minacciato dai Bizantini arroccati sui colli del Piacentino, ad Arena Po vi era un presidio militare, in cui è probabile risiedessero exercitales di stirpe longobarda. Col tempo, il villaggio di Arena, sviluppatosi sulle sabbiose rive del Po, verso la curtis di Portalbera, si ingrandí e, accanto ai discendenti degli arimanni, accolse
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Arena Po
Uno scalo di primaria importanza Il Po rappresentava nel Quattrocento una delle principali arterie di comunicazione del ducato di Milano, in grado di assicurare i collegamenti da e per Venezia, l’Italia settentrionale e l’Oltralpe. I porti sul fiume nel tratto «milanese», lungo 250 chilometri ed esteso dai confini del Monferrato a quelli del Mantovano, erano una trentina. La maggior parte di essi era composta da traghetti formati da pontoni o semplici navi, che effettuavano il trasbordo delle merci e delle persone da una sponda all’altra. Gli attracchi dotati di installazioni stabili e moli erano pochi. Uno si trovava ad Arena Po. Vi era preposto un portonarius, che percepiva dalla comunità locale lo stipendio mensile di otto fiorini. Alle sue dipendenze lavoravano guardie incaricate di controllare il traffico sul fiume ed eseguire gli ordini emessi dalla cancelleria del duca e dal capitano del Naviglio, residente a Pavia. Oltre a galeoni, galeoncelli, redeguardi, ganzerre, navi incastellate, navette e burchielli della flotta ducale, il porto di Arena accoglieva altre imbarcazioni minori di varia denominazione e stazza. Le navi maggiori erano agli ordini di un connestabile, da cui dipendevano i navaroli, in numero diverso a seconda della grandezza dell’imbarcazione. Di solito connestabili e navaroli, considerati la parte essenziale dell’armata, erano reclutati a Pavia. Un buon numero di costoro, però, proveniva anche dai paesi rivieraschi del Po e, soprattutto, da Arena, ove era facile reperire uomini esperti nella navigazione fluviale e profondi conoscitori dei fondali, perché traghettatori e cavatori di sabbia. In questa pagina due scorci di Arena Po (Pavia), insediamento citato per la prima volta come Comune nel 1246. Nella pagina accanto, in basso una veduta del castello di Arena Po, il cui aspetto odierno è frutto della ricostruzione promossa dai Visconti nel XV sec.
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altri abitanti del distretto. Rustici, possessores e boni homines che, residenti in una pianura aperta, percorsa dal tracciato della romana via Postumia, nel Medioevo denominata strata Romea o via Francigena, si sentivano costantemente esposti agli assalti degli Ungari e di tutti coloro che potevano rappresentare un pericolo per la loro incolumità. Risale al 1246 la prima menzione del Comune di Arena, che, munito di un castello, per la sua posizione «limitanea» e per il suo efficiente porto fluviale rappresentò l’estremo avamposto di Pavia ghibellina contro Piacenza, alleata di Milano. Due secoli piú tardi, i Visconti finanziarono la ri(segue a p. 99)
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san contardo d’este
Un pellegrino nobile e santo Tra i pellegrini di passaggio nella Valle Padana figura san Contardo d’Este, patrono di Broni e compatrono delle città di Modena, Lugagnano Val d’Arda e Altoè (Piacenza). Il codice Vita beati Contardi Ferariensis, custodito nella Biblioteca della Collegiata di S. Pietro di Broni, ne illustra la biografia. Il testo, riscritto nel 1376 da don Petrus De Crosnis, poiché la copia originale fu distrutta nel 1372, in seguito al sacco di Broni attuato dalla banda di mercenari del capitano di ventura John Hawkwood, si sofferma sulla nascita di Contardo a Ferrara nel Duecento, sulla sua appartenenza alla nobile famiglia degli Estensi, sulla vicenda che lo condusse in quel di Broni durante il pellegrinaggio verso il santuario di S. Giacomo a Compostella, sul colle bronese dove amava ritirarsi in preghiera, sul luogo della morte e sulla santità.
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In realtà, sono emerse non poche difficoltà nel ricostruire i presunti legami del santo con la casa d’Este. Alla documentazione piú antica appartiene un ritratto di Contardo che, commissionato quasi certamente dallo zio Azzo VII d’Este nella seconda metà del Duecento ed eseguito a qualche anno dalla morte del giovane, lo raffigura con la Croce Gerosolimitana sul petto e l’età posta in calce, elementi non attribuibili all’invenzione del ritrattista o del committente. Probabilmente, dopo la predilezione dimostrata da Azzo VII d’Este, l’affetto nutrito dai membri della casata nei confronti del pellegrino si spense anche a causa delle lotte intestine verificatesi nel Trecento. La devozione nei riguardi di san Contardo riaffiorò nel Quattrocento, con Niccolò III d’Este, signore di Ferrara, Modena, Parma e Reggio. Con il proposito di emulare il marzo
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A sinistra la basilica di S. Marcello di Montalino, nel territorio del comune di Stradella (Pavia), e, in alto, un particolare della sua muratura esterna, nella quale è inserita una formella in terracotta raffigurante un uccello con un ramo fiorito nel becco, simbolo della nobile casata dei Malaspina. A destra statua raffigurante san Contardo d’Este, patrono di Broni, opera dello scultore carrarese Giovanni Lazzoni. 1662-1663. Modena, S. Agostino.
devoto avo, nel 1414 Niccolò avrebbe manifestato il desiderio di intraprendere un pellegrinaggio a Santiago de Compostela, dove però non riuscí ad arrivare, poiché fu preso in ostaggio a San Michele Mondoví dal locale castellano, che lo liberò solo dopo il pagamento di un riscatto. Nel 1437 Niccolò colse un’ulteriore occasione per consolidare la memoria del santo, dedicandogli un oratorio in Ferrara, sepolcro della famiglia. Una chiesetta, intitolata anch’essa a santa Maria degli Angeli, fu edificata anche a Broni, nel luogo in cui Contardo morí. Il tempietto, poiché il punto preciso della morte si trovava nella parte interna del castello visconteo, potrebbe essere stato costruito per iniziativa di Niccolò III quando, nel 1441, gli fu conferita da Filippo Maria Visconti la nomina a Governatore del Ducato di Milano, di cui Broni e l’Oltrepò pavese erano parte.
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costruzione del fortilizio, che assunse le odierne caratteristiche architettoniche, e gli Sforza trasformarono il porto in base militare. Ad Arena, oltre al quattrocentesco maniero, è possibile visitare la chiesa di S. Giorgio Martire. Costruita nel 1022 nei pressi di una sottile spiaggetta a una certa distanza dal paese, documenta un paradigmatico esempio di pieve appartenente alla diocesi di Piacenza nel 964, passata nell’ordinamento diocesano pavese nell’XI
l’attuale cittadina di Stradella, è un gioiello dell’architettura romanica. La sua struttura, semplice ed elegante, si colloca tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo. Suddiviso in tre navate separate da archi a tutto sesto sostenuti da pilastri con capitelli incisi, l’interno richiama le chiese romaniche distribuite nel Comasco e può ritenersi opera di un solo architetto, forse un Maestro Campionese. Incuriosisce i visitatori un’inconsueta decorazione in terracot-
secolo e attribuita alla diocesi di Tortona nel 1817. Non distante da Arena si trova la basilica di S. Marcello di Montalino. Abbarbicata come la Rocca superiore sul Montalino, lo sperone collinare che, ricoperto da armoniosi filari di vite, sovrasta
ta, collocata sul lato meridionale esterno. Essa raffigura un uccello con un ramo fiorito nel becco, simbolo dei nobili Malaspina, nel Mille feudatari della zona e forse anche committenti del luogo di culto, innalzato, come si evince dalle pietre incastonate nel pavimento, sui resti di un precedente edificio sacro, eretto, secondo la tradizione, nell’VIII secolo per volontà del re Liutprando (vedi foto a p. 97, in basso). Lasciata la provincia di Pavia, seguendo l’itinerario della via Francigena, continuiamo il nostro viaggio alla scoperta dei borghi fluviali a sud del Po in provincia di
In alto una veduta dei vigneti e del tipico paesaggio della Valle Padana dal colle del Montalino (Stradella). A sinistra un’altra veduta del Transitum Padi, noto anche come guado di Sigerico. Il Comitato della Cultura del Consiglio d’Europa ha inserito il sito fra le 44 tappe della via Francigena.
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medioevo nascosto valle padana L’interno della Caupona di Sigerico (Soprarivo), gestita dal traghettatore del Transitum Padi. Il locale, oltre che come ristorante, funziona come ostello per i pellegrini e gli escursionisti che percorrono la via Francigena.
anche per assicurare la guardia armata e la riscossione delle gabelle in tre importanti porti sul grande fiume: quello del Botto – tra le odierne località di Masero e Bosco –, quello di Cotrebbia Vecchia, dove si trovava un’abbazia benedettina proprietà del monastero femminile di S. Sisto, e il Transitum Padi.
Sigerico è stato qui
Piacenza. Le fonti documentarie sono piuttosto parche di notizie sulle tappe emiliane della Francigena, nel Medioevo snodo centrale delle grandi vie della fede dirette a Gerusalemme, Santiago de Compostela e Roma; fa eccezione Calendasco, la prossima meta. A citarla per la prima volta nel 1056, in un documento riguardante una permuta di terreni, è la badessa del monastero di S. Sisto, Adeleita. Nel 1140 il monastero risulta ancora tra i piú cospicui possessori di beni lungo il Po, nel tratto tra Piacenza e Castel San Giovanni, accanto ad alcuni grandi proprietari terrieri laici.
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A partire dal X secolo un vasto processo di incastellamento cambiò progressivamente il paesaggio delle campagne piacentine. Castra e castella, destinati a proteggere la popolazione da minacce di eventuali assalitori e divenuti ben presto espressione della volontà di dominarla, furono edificati negli abitati disseminati fra i boschi, gli argini e i canneti del Po. Il castello di Calendasco ne è una sopravvissuta testimonianza. Il suo nucleo originario risale infatti al Mille e rimanda al ricetto, costruito dal vescovo-conte di Piacenza non solo per proteggere contadini e prodotti agricoli, ma
La storia di quest’ultimo guado, situato a Soprarivo, a qualche chilometro dal castello di Santimento, è un interessante intreccio di avvenimenti ufficiali e oscuri episodi di cronaca locale, grandi personaggi e una lunga galleria di pellegrini anonimi, ma non per questo meno reali. Qui, negli anni 612-615, approdò il monaco irlandese Colombano, diretto a Bobbio per fondarvi il proprio cenobio e da qui, tra il 990 e il 994, transitò Sigerico, l’arcivescovo di Canterbury recatosi a Roma dal papa Giovanni XV per ricevere il pallio. Dal 1994, su decisione del Comitato della Cultura del Consiglio d’Europa, il guado di Sigerico è inserito tra le 44 tappe della via Francigena e, oltre a essere la prima sosta in Emilia, costituisce l’unico attraversamento fluviale dei 2mila chilometri di cammino affrontati dai pellegrini per giungere a Roma.
Dove e quando Stradella INFO Point, Piazzale Matteotti, tel. 0385 245265 Castel San Giovanni INFO Point Val Tidone e Val Luretta, piazzale Rio Carona, cell. 370 3421765 marzo
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Storie, uomini e sapori
Sulle mense di un impero perduto di Sergio G. Grasso
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l 15 aprile del 1502 un ex guardiano di porci dell’Estremadura sbarcava sull’isola di Hispaniola, nel Nuovo Mondo. Si chiamava Francisco Pizarro, aveva piú o meno 25 anni, era analfabeta e, per sfuggire alla punizione ricevuta per la perdita di un maiale, non trovò di meglio che imbarcarsi assieme ad altri 1500 coloni spagnoli sulla piú imponente flotta che avesse mai attraversato l’Atlantico. La comandava il Capitano Generale Nicolás de Ovando, al quale la regina Isabella di Castiglia aveva conferito il mandato di rappresentare la Corona spagnola nel Nuovo Mondo e di stabilirvi tutte le strutture politiche, amministrative, sociali e religiose. Nei vent’anni successivi al suo arrivo nelle Indie, Pizarro partecipò ad alcune spedizioni di conquista in Centroamerica, tra cui quella cruenta di Alonso de Ojeda e quella di Vasco Núñez de Balboa. A Panama si mise quindi al servizio di Pedrarias Dávila, il sanguinario governatore della Castilla de l’Oro che il domenicano Bartolomé de Las Casas (cronista della «conquista», strenuo difensore degli indios, nominato nel 1543 vescovo del Chiapas) definí «uno sciagurato governatore, crudelissimo tiranno, crudele e senza alcuna saggezza». Pizarro fu dunque un mercenario ambizioso, duro e senza scrupoli, guidato, come molti dei coloni spagnoli, dall’orgoglio e dalla brama
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A destra i resti di Machu Picchu, cittadella inca costruita sulle Ande, a 2048 m di altitudine, per volere dell’imperatore Pachacútec. Nella pagina accanto Francisco Pizarro (1475-1541), olio su tela di Amable-Paul Coutan. 1835. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon. di potere e ricchezza. E fu artefice di uno dei capitoli piú scellerati della colonizzazione delle Americhe: la conquista del Perú. Nel 1532, con sole tre navi, 150 soldati e qualche decina di cavalli, Pizarro, allora poco piú che cinquantenne, riuscí prima a sottomettere e poi ad annientare il vasto impero degli Inca, dopo averne catturato e ucciso l’ultimo sovrano, Atahualpa, non prima di estorcergli un favoloso riscatto in oro e argento. Nominato «Marqués de la Conquista», l’ex guardiano di porci governò il Perú per dieci anni, dimostrando un notevole talento tattico e strategico, ma con l’avidità e la spietatezza di un despota sanguinario. Fondò città come Jauja, Trujillo e Ciudad de los Reyes (l’attuale Lima), seppe approfittare della guerra fratricida che devastava l’impero inca e non ebbe alcuno scrupolo nel far giustiziare il suo ex socio d’affari. Morí assassinato in seguito a una congiura di palazzo. Stupisce come un pugno di rozzi Spagnoli sia riuscito a sottomettere un impero di quasi due milioni di chilometri quadrati, abitato da
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quindici milioni di persone. Ma stupisce ancor di piú come gli Inca – affacciatisi alla storia del Nuovo Mondo come uno dei tanti piccoli gruppi etnici stabilitisi sulle montagne meridionali del Perú nel XIII secolo – siano divenuti in poco piú di un secolo una delle maggiori civiltà sudamericane nonché la piú evoluta monarchia teocratica dell’America precolombiana.
Le quattro regioni unite All’epoca della «conquista», l’impero inca (in lingua quechua Tahuantinsuyo = le quattro regioni unite) comprendeva la fascia pacifica che dal Sud-Ovest dell’attuale Colombia abbraccia tutta la cordigliera andina, includendo Ecuador, Perú e Cile, oltre a buona parte della Bolivia e del Nord-Ovest dell’Argentina. Il centro politico, religioso e amministrativo era Cuzco (qosqo = ombelico), situata in una fertilissima valle a 3400 m di altitudine nel Sud-Est dell’odierno Perú. Qui, a cominciare da Manco Càpac, il leggendario fondatore morto nel 1230, risiedettero tutti i tredici
sovrani, tra i quali Pachacútec Yupanqui (1438-1471), il nono Inca (Figlio del Sole), il «Riformatore del Mondo», che fece di Cuzco quella sontuosa capitale di pietra e colore che lasciò senza parole Pizarro al suo arrivo. Alle sue capacità di stratega, condottiero e monarca si deve la trasformazione di un esiguo regno di montagna in un enorme impero capace di assimilare decine di popolazioni e culture, governandole secondo il principio della reciprocità e della redistribuzione. La rigorosa struttura gerarchica vedeva l’Inca al vertice della piramide seguito dai sacerdoti, dagli aristocratici e dai funzionari di corte. Sotto a questi stavano i governatori locali, i militari, gli artigiani e gli agricoltori, mentre l’ultimo gradino della scala sociale, era riservato ai servi, in gran parte prigionieri o nemici catturati in battaglia. Le comunità regionali (ayllu) erano quasi sempre fondate su vincoli di parentela e i capi-tribú (curacas) gestivano la distribuzione delle terre e dei raccolti, garantendo all’Inca il pagamento dei tributi in
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forma di prodotti agricoli, servizio militare o manodopera. La geografia andina è segnata da alte quote e forti pendenze che conferiscono ai terreni una estrema variabilità in quanto a esposizione solare, temperatura, pioggia, umidità e vento. Gli agricoltori lavoravano piccoli appezzamenti dispersi tra diverse nicchie ecologiche, quasi sempre nelle strette valli scavate dai fiumi che scorrevano tra i monti. Per ottimizzare ogni minima area coltivabile costruirono una quantità enorme di ingegnosi terrazzamenti, cosí da recuperare terre anche sui versanti. Il governo centrale polarizzò la forza lavoro in villaggi e città anche in luoghi inaccessibili (come Ollantaytambo, Ollanta, Pisaq e
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In alto la celebrazione di una festa in onore del sole in una tavola dell’opera Cérémonies et coutumes religieuses de tous les peuples du monde. 1723-1728. In basso vassoio in terracotta raffigurante pesci e peperoncini, dall’area di Cuzco.
Machu Picchu, la città voluta da Pachacútec, costruita su 170 livelli in dieci ettari con piú di 140 edifici di granito), fece incanalare corsi d’acqua, ideò acquedotti, ponti e realizzò un’immensa rete stradale in pietra che da Cuzco si irradiava per 25 000 chilometri in tutto l’impero e che consentiva ai corrieri (chasqui) di percorrere, a passo di corsa, fino a 400 km al giorno. La civiltà inca non conobbe l’uso della ruota né quello della scrittura grafica. Tenevano tuttavia memoria di eventi, leggi, cerimonie e contabilità ricorrendo ai quipu, speciali registri costituiti da corde in cui a nodi e colori diversi corrispondevano informazioni diverse. marzo
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Gli Inca dividevano le risorse della Madre Terra (la dea Pachamama) in tre parti: la prima era destinata al mantenimento della casta sacerdotale, la seconda al sovrano, alla corte e all’esercito mentre la terza veniva redistribuita tra gli abitanti dell’impero in base ai componenti dei nuclei familiari e della terra assegnata. L’economia si basava sul baratto e la popolazione era in massima parte dedita alla coltivazione di piante native come mais, fagioli, patate, zucche, yucca e cotone. Oltre ai maialini neri, i contadini (puriq) allevavano lama e alpaca, da cui ricavavano lana e concime e che utilizzavano come animali da trasporto. Era ben presente la classe artigiana, che produceva oggetti e utensili in metallo e ceramica, tessuti in lana e cotone, ornamenti in rame e bronzo; di particolare pregio erano i gioielli e le sculture in oro e argento destinate ai templi e all’imperatore.
in foglie o sotto la cenere. Spesso, per conservarla, la si tagliava a strisce e la si lasciava disidratare all’aria oppure la si affumicava o salava. Una particolare tecnica di cottura prevedeva l’uso del pachamanca (forno di terra), una cavità nel suolo foderata di pietre o mattoni e riempita di carni, tuberi, mais, fave, lupini, yucca e sassi roventi. Le popolazioni costiere o quelle insediate attorno al lago Titicaca si cibavano di pesce, crostacei e molluschi ed erano solite inviarne all’imperatore come
era possibile coltivare il mais si sopperiva con l’amaranto (kiwicha, ovvero piccolo gigante) o con la quínoa, le cui foglie tenere venivano stufate mentre i semi servivano a confezionare zuppe e minestre. Il gesuita e naturalista Bernabé Cobo y Peralta (15801657) che visse a Cuzco e in Perú per vent’anni riporta che: «I loro bolliti e zuppe ancestrali non sono molto numerosi. Con il mais, qualche erba e il peperoncino fanno uno stufato chiamato “motepatasca” e cucinano il mais fino a che non si apre. Con il seme della
tributo o segno di rispetto. Due pasti scandivano la giornata di ogni Inca. Il primo in tarda mattinata e il secondo ben prima del tramonto. Il cibo della gente comune era costituito, oltre che dagli erbaggi, dall’onnipresente mais, tostato o bollito (mote), impastato con acqua per farne tortillas (tantas) o grattugiato fresco (huminta). Con il mais masticato e lasciato fermentare grazie agli enzimi della saliva, si otteneva anche una sorta di birra leggermente alcoolica (2 o 3%), chiamata chicha o taqui che si beveva come offerta al dio Sole (Inti). Nelle zone in cui non
Una contadina in un campo di patate nella valle dell’Urubamba, la valle sacra degli Inca, nelle cui vicinanze sorsero Cuzco e Machu Picchu.
Erbe e spezie a volontà Quanto all’alimentazione, lo scrittore Garcilaso de la Vega (1539-1616), figlio di un conquistador spagnolo e di una principessa inca, registra un regime alimentare di base sostanzialmente vegetariano: «Anche nella scarsità non lamentano esigenze; mangiano lattughe, rape e tutte le erbe selvatiche crude o cotte, dolci o amare che chiamano “yuyos”; si cibano anche di alghe che raccolgono nei fiumi e che mangiano cotte con l’“aji” (peperoncino). Si ama cosí tanto l’“aji”, detto anche “uchu”, che lo mettono dappertutto». Carne fresca o secca venivano fornite a giorni alterni agli operai edili e a quelli impegnati nella costruzione o manutenzione delle strade. Nelle cucine piú agiate, la carne di pollo, colombe, pernici, oche, maiale, coniglio o piú raramente di lama (non disdegnando piccoli roditori, rane, bisce) veniva bollita o piú spesso cotta alla brace, allo spiedo, involta
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quínoa ne fanno un altro chiamato “pisqui”. Questi due stufati somigliano a quelli che noi facciamo con il riso, i ceci o altri cereali. I poveri non mangiano spesso la carne, solo durante le feste e i banchetti, e in genere piú essiccata che fresca. Con la carne secca che chiamano “charqui” fanno una sorta di bollito o stufato molto piccante chiamato “locro” in cui mettono del “chuno”(patata disidratata nella terra gelata), della “papa” (patata fresca) e molti altri ortaggi». Gli Inca coltivavano
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CALEIDO SCOPIO diverse centinaia di varietà di patate – oggi ne sono state censite oltre 4000 – che avevano una loro dea (Axomama) in onore della quale le prime a maturare venivano cotte accendendo un fuoco sopra la terra che le copriva per non disperderne l’essenza vitale. Secondo i cronisti spagnoli dell’epoca, nelle cucine del palazzo imperiale di Cuzco erano impiegate schiere di cuochi e di servitori e la vita dell’imperatore trascorreva tra banchetti permanenti, pranzi e cene ufficiali, festini con parenti, visitatori o delegazioni delle varie provincie. Ogni alleanza politica o militare si concludeva con feste e pranzi solenni che sancivano la sacralità del patto di lealtà. Tutti concordano nel sottolineare che il consumo di birra di mais era enorme. Non è possibile, né mai lo sarà, quantificare quanto della cultura inca sia andato distrutto, cancellato,
demolito o bruciato da Pizarro e i suoi epigoni. Il dominio coloniale spagnolo portava con sé una durissima politica di evangelizzazione accompagnata dalla necessità di prevenire ribellioni contro i nuovi padroni.
Alimenti proibiti Si introdusse la proibizione di consumare alcuni prodotti, di coltivarne altri e di esercitare i millenari rituali associati al ciclo agricolo. La kiwicha (Amaranthus caudatus) e la maca (Lepidium meyenii), due super-alimenti vegetali che gli indigeni consumavano per incrementare la forza, l’energia e la fertilità, vennero messi al bando con l’intento di indebolire la popolazione e controllarne le nascite per facilitare lo sradicamento dell’idolatria. Produrre e consumare la chicha fu severamente proibito e ogni forma di rituale pagano o idolatrico duramente repressa. In soli cinquant’anni lo spopolamento dei territori rurali e la riorganizzazione spaziale (e sociale) della nazione inca, comportò un’enorme dispersione di manodopera agricola con il
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In alto piante di kiwicha (Amaranthus caudatus), uno dei super-alimenti vegetali consumati dagli Inca. A sinistra figurina in oro raffigurante la dea Pachamama, la Madre Terra. conseguente smantellamento del tessuto sociale che aveva reso possibile la creazione di un perfetto sistema di controllo di tutte le nicchie ecologiche. La riduzione in schiavitú di milioni di contadini e allevatori determinò la degradazione dei pascoli, l’interramento dei canali irrigui, l’aumento della desertificazione e l’estinzione di gran parte della flora e fauna nativa. Il risultato fu un profondo mutamento delle pratiche alimentari incaiche e dei contenuti simbolici, religiosi e sociali di cui quelle erano portatrici e testimoni. Solo sfidando per secoli veti e intimazioni le popolazioni andine seppero mantenere vitali i culti e i rituali associati alle divinità dell’agricoltura, ancora oggi praticate dai loro nobili discendenti. E non è un caso che molte delle loro piante «sacre» (quinoa, maca, lucuma, amaranto, lapacio, acmella) siano state riscoperte e valorizzate dalla scienza medica e nutrizionale contemporanea. marzo
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Quando i santi prendevano le armi
Trapianti miracolosi di Paolo Pinti
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santi Cosma e Damiano, conosciuti anche come santi medici – nati a Egea, in Cilicia (Turchia), intorno al 260 e morti a Cirro (Siria) nel 303 – sono stati appunto due medici romani, fratelli di altri tre santi, Antimo, Leonzio ed Euprepio: la loro vita e le loro opere sono oggetto di tre distinte tradizioni, che chiameremo asiatica, romana e araba, concordanti su alcuni importanti punti, quali la loro professione, la scelta di non voler
essere mai pagati e l’episodio del trapianto di una gamba. Comune a un numero pressoché infinito di storie di santi è il particolare dei vari tentativi di ucciderli, in quanto cristiani, uno piú fantasioso ed efferato dell’altro, ma destinati a non sortire alcun effetto, se non addirittura di ritorcersi verso i carnefici. Furono arrestati, perché cristiani, dal prefetto di Cilicia, Lisia, durante le persecuzioni promosse dall’imperatore illiro-
romano Diocleziano (284-305), e si cercò di giustiziarli in vario modo. La lapidazione fallí perché le pietre rimbalzarono, finendo contro i soldati che le avevano lanciate; secondo un’altra tradizione, furono fustigati, crocefissi e bersagliati dai dardi, ma anche questi ultimi rimbalzarono (della crocifissione non si fa cenno); per altri, furono gettati in mare da un dirupo con una grossa pietra al collo, ma i legacci si sciolsero
Martirio dei santi Cosma e Damiano, tempera su tavola del Beato Angelico. 1443. Parigi, Museo del Louvre di Parigi. Il dipinto faceva in origine parte della predella con le Storie dei santi Cosma e Damiano della Pala di San Marco, oggi smembrata tra vari musei. Sono già stati decapitati tre fratelli, mentre uno sta per esserlo e l’ultimo è in attesa, inginocchiato. Va notato come tutti siano stati bendati.
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e i due si salvarono; infine, secondo una ulteriore versione, vennero incatenati e messi a bruciare in una fornace ardente, senza però riportare danni di sorta. Ecco allora, secondo un collaudato epilogo, il ricorso alla decapitazione, quale efficace modo di sopprimere personaggi altrimenti inattaccabili.
L’arma piú nobile e sacra Fra i numerosi tipi di arma disponibili in ogni epoca, emerge costantemente la spada quale arma per eccellenza, la piú degna in mano a un cavaliere per difendere la giustizia e la fede, e la piú giusta per il martirio dei santi. Del resto, la forma «a croce» della spada medievale era associata a quella di Cristo, aumentandone il significato simbolico e non deve perciò sorprendere che fosse ritenuta l’arma piú sacra e nobile fra tutte. Se in mano a musulmani, in alcune scene di martirio vediamo naturalmente le scimitarre, costantemente associate ai nemici di Cristo e della Chiesa. Resta il fatto che a porre fine allo strazio del martirio è quasi sempre una spada. Anche gli altri tre fratelli, dei quali sappiamo abbastanza poco, subiscono la medesima sorte di Cosma e Damiano: nell’iconografia, infatti, è frequentemente raffigurata l’uccisione di tutti e cinque i santi. L’episodio dell’azione di Cosma e Damiano forse piú conosciuto, e certo tra i piú raffigurati nella pittura, è quello del già citato trapianto di una gamba: in pratica, amputarono la gamba ulcerata di un loro paziente, sostituendola con quella di un Etiope morto poco prima. La nuova gamba era dunque scura e molte rappresentazioni pittoriche evidenziano la differenza, probabilmente ideata per dare risalto al fatto
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(non si sa se miracoloso o semplicemente dovuto alla loro abilità di chirurghi). A questo proposito, è curioso notare che l’idea (già bizzarra di per sé, data l’epoca) di impiantare un arto di colore diverso non è nuova, stante l’operato attribuito a sant’Eligio, un santo dal profilo assai sfuggente. Da alcuni è infatti ritenuto un orafo di grande fama e venerato come tale, mentre per altri è un maniscalco, famoso (anche dal punto di vista pittorico) per un miracolo tramandato in un gran numero di versioni diverse. In breve, in quanto maniscalco, Eligio doveva ferrare un cavallo molto nervoso e che non voleva saperne di star fermo: decise allora di tagliargli la zampa, sulla quale poté quindi lavorare con tranquillità, mettendogli il ferro dovuto, e che poi riattaccò miracolosamente. Tralasciando le considerazioni su una simile crudeltà (Eligio avrebbe potuto ferrare il cavallo avvalendosi dei suoi poteri miracolosi, senza infierire sul povero quadrupede), ricordiamo che, almeno in un caso, il fatto è rappresentato con due cavalli, uno bianco e uno nero, e a quello da ferrare è riattaccata la zampa dell’altro, di colore diverso. E si ignora la sorte del cavallo-donatore...
La spada cerimoniale, conservata nel Duomo di Essen in Germania, per tradizione ritenuta quella usata per la decapitazione dei santi Cosma e Damiano nell’anno 303. In realtà, l’arma risale alla metà del X sec.
Una simbologia perduta Al di là della grottesca stupidità di un intervento del genere, risulta interessante la sostituzione dell’arto con uno di colore diverso (nero) in entrambi gli episodi, poiché certamente la cosa doveva avere un significato che si è perso. Comunque sia, il fatto che Cosma e Damiano avessero dedicato l’intera vita alla cura della gente e in modo del tutto disinteressato li rende ammirevoli e degni di rispetto. Tornando al legame con la spada nei molti dipinti che raffigurano il
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CALEIDO SCOPIO I Santi Cosma e Damiano davanti a Lisia, tempera su tavola del Beato Angelico. 1443. Monaco di Baviera, Alte Pinakothek. I due soldati sulla destra hanno al fianco spade dal fornimento simile a quelli raffigurati sul Martirio (vedi foto a p. 108). Anche questo pannello faceva parte della predella della Pala di San Marco.
A sinistra Condanna al rogo dei santi Cosma e Damiano, ancora un pannello in origine compreso nella predella con le Storie dei santi Cosma e Damiano della Pala di San Marco, tempera su tavola del Beato Angelico. 1443. Dublino, National Gallery of Ireland. Si notano i forconi (forche) impugnati dai carnefici, che, in verità, si trovano in difficoltà col fuoco del rogo: questi strumenti/armi sono spesso presenti nelle scene con un rogo, essendo utilizzati per sistemare le fascine e alimentare la fiamma. L’armato sulla sinistra sembra affrontare le fiamme come si affronta un nemico, proteggendosi dietro a un enorme scudo rotondo.
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martirio dei due santi medici, l’arma figura quasi costantemente. Ed è interessante «leggerne» le diverse tipologie, che – lo ricordiamo – rispecchiano quelle dell’epoca dell’esecuzione delle pitture.
Una tradizione suggestiva Nel caso di Cosma e Damiano, inoltre, la tradizione vuole che sia giunta fino a noi proprio la spada che sarebbe stata utilizzata per la loro decapitazione, oggi custodita nel Duomo di Essen (Germania) e che figura anche nello stemma della città tedesca (vedi foto a p. 109). È una spada davvero eccezionale, che appare ancora oggi in buone condizioni, ma che, oltre a essere un’arma da cerimonia, risale alla metà del X secolo e non certo al IV. Tale circostanza, quindi, rende privo di fondamento qualsiasi riferimento reale ai due santi. La tipologia deriva senz’altro da quella, vecchia di secoli, diffusa in tutta Europa: lama larga, non molto appuntita, elso semplicissimo, costituito da una barra metallica dritta, impugnatura piuttosto breve e pomo sporgente, tale da garantire una presa salda. È un’arma che potremmo vedere in mano ai Vichinghi o agli uomini raffigurati sul telo ricamato di Bayeux (di poco piú tardo). Solo nel XIV secolo la lama si farà piú stretta, robusta e acuminata, non piú adatta a colpi di taglio (fendenti), ma di punta (stoccate): anche questo nuovo tipo di spada compare in dipinti a soggetto religioso con scene di decapitazione, ma sarebbe stata decisamente meno funzionale a tale scopo. La spada di Essen non pose insomma fine alla vita di Cosma e Damiano nel 303, ma la leggenda non ne soffre e, anzi, ci permette di conoscere meglio una delle piú belle armi conosciute, conservatesi pressoché integra per un millennio, come la fama dei due martiri che spesero la loro vita e il proprio sapere a servizio del prossimo.
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Martirio dei Santi Cosma e Damiano e dei loro tre fratelli, pannello in origine appartenente a una pala d’altare assegnata a un artista della Francia del Nord. 1480-1490. New York, Brooklyn Museum di New York. Qui il boia utilizza una storta, arma dalla lama non particolarmente larga, ma assai appuntita.
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Lo scaffale Marco Mulazzani Abbazia Monte Maria Monte Maria, la storia Werner Tscholl, la rivitalizzazione dell’abbazia Electa, Milano, 144 pp., ill. col.
35,00 euro ISBN 9788892821675 www.electa.it
Il volume prende le mosse dagli
interventi realizzati nell’abbazia benedettina di Monte Maria dall’architetto Werner Tscholl, ma è anche l’occasione per ripercorrere la storia di un complesso conventuale fra i piú importanti d’Italia e d’Europa. La sua costruzione, nel territorio di Burgusio (Bolzano), in Val Venosta, ebbe inizio nel 1156 e le varie parti del monastero furono ultimate in tempi diversi, nell’arco di circa mezzo secolo. A questa vicenda e ai suoi successivi sviluppi è dedicata
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la prima parte del volume, che lascia poi spazio alla descrizione delle opere eseguite da Tscholl a partire dal 1999, quando l’allora abate di Monte Maria, Bruno Trauner, chiese all’architetto di progettare un museo sulla storia dell’abbazia. Fu il primo passo di un’operazione presto ampliatasi e che, nelle sue diverse fasi, si è protratta per un ventennio. Lavori che, oltre a valorizzare il sito, hanno dato nuova linfa alla sua vitalità, con soluzioni esemplari per linearità, eleganza e rispetto della storicità dei luoghi. Jutta Dresken-Weiland Mosaici di Ravenna Immagine e significato
Editoriale Jaca Book, Milano, 320 pp., ill. col.
50,00 euro ISBN 978-88-16-60653-1 www.jacabook.it
Ravenna e il mosaico possono quasi essere considerati sinonimi, tanto caratterizzante è la presenza di questa forma d’arte nella città romagnola. A questo ricco patrimonio è dedicato il volume di Jutta Dresken-Weiland
ottenute dal sapiente assemblaggio di migliaia di tessere multicolori.
(ora proposto in una nuova edizione), che, come s’intuisce dal sottotitolo, intende proporre una rassegna delle composizioni musive in cui la loro analisi estetica e stilistica viene inquadrata nel piú ampio contesto della cultura del tempo e, soprattutto, delle ideologie religiose sottese alla scelta dei soggetti e alla loro redazione. Per l’esordio, l’autrice si affida al mausoleo di Galla Placidia, con il quale si inaugura la tradizione paleocristiana della decorazione a mosaico di volte e pareti. Seguono il battistero della Cattedrale e quello degli Ariani, per poi passare ai monumenti forse piú noti, vale a dire le basiliche di S. Apollinare Nuovo, S. Vitale e S. Apollinare in Classe. E, anche se ben note, non viene meno la meraviglia che sempre suscitano quelle immagini
Marco Castracane Il restauro stilistico delle chiese medievali in Italia Il duomo di Milano e le chiese fiorentine
Giuseppe M. Della Fina (a cura di) Orvieto, il museo della città 50 opere della sua storia
Officina Libraria, Roma, 288 pp., ill. col.
25,00 euro ISBN 978-88-3367-132-1 www.officinalibraria.net
Armando Editore, Roma, 124 pp., ill. b/n.
14,00 euro ISBN 979-12-5984-077-6 www.armandoeditore.it
Il volume fa luce su alcuni interventi attuati a Milano e Firenze, nell’Ottocento, sulla scia di quanto
era stato fatto in Francia, soprattutto grazie all’attività dell’architetto EugèneEmmanuel Viollet-leDuc, per ripristinare l’originario aspetto medievale di chiese e palazzi. Operazioni oggi forse impensabili e che provano quanto il restauro sia un’operazione delicata e spesso vittima di un rigore filologico piú presunto che reale.
Orvieto vanta una storia plurisecolare, oggi testimoniata da un patrimonio culturale di straordinaria ricchezza, qui rappresentato da 50 opere. La selezione spazia dall’epoca in cui la città della rupe era uno dei piú fiorenti centri dell’Etruria all’epoca moderna, ma il Medioevo occupa – e non poteva essere altrimenti – una porzione consistente del volume. Un’occasione preziosa per scoprire (o riscoprire) veri e propri tesori e, soprattutto, programmare una visita, cosí da poterli ammirare di persona. (a cura di Stefano Mammini) marzo
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La dolce carica dei 49 MUSICA • Scoperto in circostanze fortuite, il Canzoniere di Lovanio offre un saggio
mirabile della produzione fiamminga del Quattrocento. E a fare da padrone delle composizioni è ancora una volta l’amore
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olteplici e talvolta singolari sono le modalità attraverso le quali ci sono pervenute alcune fonti di musica medievale. Dalle scoperte casuali effettuate nei fondi di archivio, ai frammenti pergamenacei di musica polifonica utilizzati per rafforzare le coperte di documenti della piú varia natura... Nel caso della registrazione che qui presentiamo, fu una vendita all’asta tenutasi nel 2015 a Lovanio, in Belgio, a svelare il cosiddetto Canzoniere di Lovanio (Chansonnier Leuven). Un codice di piccole dimensioni – quindi presumibilmente a uso personale – che raccoglie 49 chanson francesi (solo una su testo latino), 12 delle quali rappresentano altrettanti unicum. Non si ha alcuna notizia sui primi possessori del codice, mentre il repertorio lascia pensare che la sua redazione sia avvenuta negli anni Settanta del XV secolo. A renderlo particolarmente interessante è, tra l’altro, il fatto che si tratta di uno dei codici meglio conservati del periodo; i testi poetici sono completi e anche la notazione musicale risulta assai accurata. Acquistato dalla Fondation Roi Baudouin nel 2016, il codice è stato poi concesso in prestito a lungo termine alla Fondation Alamire di Lovanio, centro di eccellenza nel campo degli studi musicali, permettendo ai musicologi e agli interpreti di venirne a conoscenza. I 49 brani offrono un ampio panorama della produzione fiamminga del XV secolo, con nomi celebri, come Firminus
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Caron (seconda metà del Quattrocento), Ockeghem (1410 circa1497), Busnoys (1430 circa-1492), nonché brani anonimi, tra cui le quattro composizioni inedite inserite nell’antologia. Oltre all’Ave Regina di Walter Frye († 1475), unica presenza sacra, la raccolta alterna brani strumentali (ovvero chanson vocali eseguite dai soli strumenti) – è il caso del pezzo di apertura, Les desloyaux ont la saison di Ockeghem – a partiture in cui la/le voce/i sono accompagnati dagli strumenti che eseguono le parti vocali.
Cappella «alta» e «bassa» La varietà di sonorità e di combinazioni che ne deriva risulta particolarmente piacevole, cosí come l’alternanza della «cappella alta», dal suono piú solenne – formata da ciaramelle (fiati appartenenti alla famiglia delle «bombarde) e tromboni – e della «cappella bassa», piú consona a brani intimistici, che comprende liuti e viella ad arco. L’amore è il tema dominante, con una predilezione particolare per il dolore dell’amante che ha perso l’amata. Di particolare bellezza, in questo senso, l’anonimo O beau chastel e Ma maitresse di Ockeghem. L’Ensemble Sollazzo nasce nel 2014 a Basilea, sede della celebre
Leuven Chansonnier vol. 2 Ou beau chastel Sollazzo Ensemble direzione Anna Danilevskaia Passacaille-Ambronay Éditions (AMY019), 1 CD https://editions.ambronay.org Schola Cantorum Basiliensis, luogo di formazione di molti dei componenti del gruppo guidato da Anna Danilevskaia. Il disco, secondo di una serie che prevede la registrazione integrale dello Chansonnier Leuven, offre un’interpretazione in cui l’equilibrio tra le tre voci maschili (controtenore e due tenori) e l’accompagnamento strumentale raggiungono livelli magistrali. Si apprezzano, in particolare, le scelte interpretative che mettono in risalto combinazioni vocali/strumentali sempre nuove e affascinanti, e che ben assecondano le atmosfere evocate dai testi poetici. Franco Bruni marzo
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