Medioevo n. 306, Luglio 2022

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MEDIOEVO n. 306 LUGLIO 2022

EDIO VO M E www.medioevo.it RE PER IL M ED MO A

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

Mens. Anno 26 numero 306 Luglio 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

DELLA MONTAGNA

LA GUERRA NEL MEDIOEVO I MERCENARI DI ANGHIARI

MONTALCINO ITINERARI TRA VINO E ARTE DOSSIER LA DINASTIA DEGLI ALVIANO

OLTRE LO SGUARDO I NODI DI RE SALOMONE DECAMERON L’ASTUZIA DEL CONTADINO

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www.medioevo.it

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DANTE A BISMANTOVA ANGHIARI MEDIEVALE/3 CONTADINI NEL DECAMERON NODI E INTRECCI DOSSIER ALVIANO

DANTE E IL SEGRETO

IN EDICOLA IL 2 LUGLIO 2022



SOMMARIO

Luglio 2022 ANTEPRIMA AMORI MEDIEVALI Doppio tradimento di Federico Canaccini

ITINERARI La storia in bottiglia

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di Stefania Romani

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APPUNTAMENTI Medioevo Oggi L’Agenda del Mese

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COSTUME E SOCIETÀ

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VIVERE AL TEMPO DEL DECAMERON/7 Astuzie contadine

RESTAURI I colori ritrovati INCONTRI Di nuovo insieme di Furio Cappelli

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di Corrado Occhipinti Confalonieri 14

STORIE

OLTRE LO SGUARDO/15 Intrecci senza fine di Furio Cappelli

54

LIBRI Lo Scaffale

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Dossier

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DANTE A BISMANTOVA In viaggio con Dante di Giuseppe Ligabue e Clementina Santi

ANGHIARI MEDIEVALE/3 La guerra come professione di Leo Donnarumma

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42

42

64 CALEIDOSCOPIO STORIE, UOMINI E SAPORI Le marmellate di Nostradamus di Sergio G. Grasso 102 QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Bavone, gaudente pentito di Paolo Pinti 108

ALVIANO. UNA DINASTIA TRA IMPERO E PAPATO

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testi di Filippo Orsini, Nadia Bagnarini ed Erminia Irace


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21/06/22 11:34

MEDIOEVO Anno XXVI, n. 306 - luglio 2022 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Nadia Bagnarini è archivista, paleografa e storica dell’arte medievale. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Leo Donnarumma è dottorando di ricerca in storia medievale presso l’Università di Grenoble. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Erminia Irace è docente di storia moderna all’Università di Perugia. Giuseppe Ligabue è socio della Deputazione di Storia Patria per le Antiche Province Modenesi. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Filippo Orsini è direttore dell’Archivio storico del comune di Todi. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Stefania Romani è giornalista. Clementina Santi è docente di italiano e latino, già membro del Consiglio Direttivo dell’Istituto Beni Culturali e Ambientali dell’Emilia-Romagna. Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina e pp. 5, 48-49, 50/51, 56-61, 66/67, 69, 82/83, 96-97, 103, 110111 – Cortesia Tempio del Brunello, Montalcino: pp. 6-8 – Ufficio Stampa La Pilotta-Comin & Partners: pp. 11-13 – Cortesia degli autori: pp. 14 – Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale: p. 15 – da: Dante a Bismantova, Corsiero Editore, Reggio Emilia 2021: pp. 28-30, 31 (alto, a destra, e basso), 32-41 – Mondadori Portfolio: pp. 44/45; Antonio Quattrone: pp. 42/43; Electa/Rabatti&Domingie: p. 47; The Print Collector/ Heritage Images: pp. 54/55 (alto e basso); Album/Oronoz: p. 62; Electa/Sergio Anelli: p. 66; Erich Lessing/Album: p. 68; AKG Images: pp. 70-71, 72 (alto), 99, 100-101; Fine Art Images/Heritage Images: p. 73; Veneranda Biblioteca Ambrosiana: p. 84; Album/Collection SSPL/ Kharbine Tapabor: p. 104; Album/Prisma: pp. 105, 106; Album: p. 108 – National Gallery of Art, Washington: p. 44 – The Metropolitan Museum of Art, New York: p. 50 – Shutterstock: pp. 64/65, 72 (basso), 74, 77, 81, 92 (basso), 102 – Amministrazione Doria Pamphilj S.r.l., Roma: pp. 78/79 – Ciro Schiaroli: pp. 86/87, 93, 94/95 – Lucio Beco: pp. 88-89, 92 (alto) – Alamy Stock Photo: pp. 90/91 – Bridgeman Images: p. 98 – Ufficio per i Beni Culturali Ecclesiastici della Diocesi di Terni-Narni-Amelia: p. 109 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 31.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) Le edicole e i privati potranno richiedere le copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it e accedendo al sito: https://arretrati.pressdi.it In copertina Ritratto allegorico di Dante, dipinto del Bronzino. 1532-1533. Firenze, Collezione privata. Sullo sfondo, la Pietra di Bismantova (Reggio Emilia).

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Prossimamente costume e società

Guittone e i frati Gaudenti

oltre lo sguardo

dossier

Maria e la porta del Paradiso

La leggenda di Excalibur


amori medievali di Federico Canaccini

Doppio tradimento

P

ochi altri amori sono famosi come quello di Ginevra e Lancillotto, il Primo Cavaliere della Tavola Rotonda. La vicenda della loro passione, irrazionale e travolgente, simbolo dell’amor cortese, ha ispirato scrittori, poeti, pittori, registi. Ginevra era una ragazza affascinanate, che colpí talmente tanto re Artú da indurlo a chiederla in sposa, facendone cosí la regina del favoloso regno di Camelot. Lancillotto, invece, era figlio del re Ben di Benoic e di Elaine, ma sulla sua vita sono state tramandate varie narrazioni. Suo padre sarebbe stato ucciso e una versione vuole che Lancillotto, ormai orfano, fosse rimasto già da bambino alla corte di Camelot. Secondo un’altra versione, invece, dopo l’uccisione del padre, il giovane sarebbe stato rapito dalla misteriosa Dama del Lago, che lo avrebbe addestrato all’arte della guerra e della cortesia. Lancillotto avrebbe compiuto molte e celebrate imprese, coprendosi rapidamente di gloria, per poi giungere alla corte di Camelot, dove il re lo avrebbe nominato paladino della Tavola Rotonda. Fu lui a liberare la regina Ginevra, rapita e imprigionata da Melegant, nemico di Artú. Il re fu naturalmente grato a Lancillotto e lo ricompensò nominandolo Primo Cavaliere, ma Ginevra rimase affascinata dal prode liberatore e se ne innamorò, ricambiata da un tormentato Lancillotto. I due furono travolti dalla passione e cercano i piú diversi modi per incontrarsi segretamente, accecati dal fuoco dell’amore: «È cosí dolce il gioco ai due, e del baciare e del sentire, che ne ebbero, senza mentire, una gioia meravigliosa tanto che mai una tal cosa non fu udita nè conosciuta», scrive Chrétien de Troyes nel Lancillotto o il cavaliere della carretta (1176-1177). Gli sguardi furtivi a corte e le assenze della moglie insospettirono re Artú, il quale scoprí ben presto il tradimento della sua consorte e del primo dei suoi paladini, proprio colui che avrebbe dovuto essergli piú fedele: un doppio tradimento difficilmente digeribile. L’adulterio spezzò dunque l’equilibrio del regno di Camelot e Artú condannò a morte la moglie, mentre Lancillotto riuscí a fuggire. Venuto a sapere della pena capitale comminata all’amante, il Primo Cavaliere assediò il regno di Artú. Il castello di Camelot venne distrutto, re Artú fu ucciso in battaglia e, alla tragica scoperta della morte di Ginevra, «lo cavaliere Lancellotto – come scrisse Dante nel Convivio – non volse entrare con le vele alte», ma calò «le vele de le mondane operazioni», ritirandosi a vita spirituale.

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Miniature tratte da un’edizione del Livre de Messire Lancelot du Lac. 1480 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Qui sotto, la fata Morgana, sorellastra di re Artú, sorprende Lancillotto e Ginevra; in basso, ancora Lancillotto e Ginevra, qui con la corona di regina, in quanto moglie di Artú.

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ANTE PRIMA

La storia in bottiglia

ITINERARI • Nel complesso monastico di S. Agostino, a Montalcino, la devozione

religiosa ha lasciato il posto al «culto» per il celeberrimo vino Brunello. Ma nel Tempio che gli è stato intitolato c’è spazio anche per l’arte e la cultura

C

on l’apertura del Tempio del Brunello all’interno del complesso di S. Agostino, a Montalcino (Siena), che segna l’ultima tappa di un percorso di riconversione, la struttura religiosa torna a una centralità nuova, rispetto a quella che aveva nella vita collettiva in epoca medievale. Dal 2013, grazie a investimenti di Regione, Comune e privati, lo spazio è stato recuperato con la finalità di ospitare attività museali, divulgative, imprenditoriali e di incontro. E gli ambienti sotterranei ospitano appunto il Tempio del Brunello, che accostando il visitatore al celebre vino, lo accompagna alla scoperta della storia e del territorio di Montalcino. Gli edifici monastici si snodano

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attorno alla chiesa di S. Agostino, costruita fra XIII e XIV secolo, con una forma sobria che denuncia l’adesione al gotico nel portale a cuspide e nei pinnacoli che lo

In alto un particolare dell’allestimento del Tempio del Brunello di Montalcino. Qui sopra il complesso di S. Agostino, i cui spazi hanno accolto il Tempio. luglio

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A sinistra e al centro altri particolari dell’allestimento del Tempio del Brunello. In basso uno degli ambienti del Museo Archeologico, i cui materiali documentano la storia plurimillenaria di Montalcino. rappresenta una cerniera fra i diversi ambienti, compresi quelli ipogei in cui è allestito il museo interattivo, con l’Enoteca.

Vetrine e scaffali interattivi Dopo un passaggio con suoni che evocano il lavoro della cantina, una sezione illustra i pilastri del Brunello, ovvero la culla, il territorio, la tecnica e il lavoro, mentre la successiva ospita le voci e le storie di chi è protagonista nel mondo della vinificazione. Seguono quindi uno spazio in cui i visitatori con il monitor touch possono creare affiancano. L’interno è arricchito da affreschi attribuiti al pittore senese Bartolo di Fredi, che ha lavorato negli anni Ottanta del Trecento: nell’abside sono rappresentate scene della vita del santo, mentre lungo le navate sono raffigurati gli altri protagonisti della tradizione agostiniana, con uno stile che guarda alla pittura senese di Simone Martini e dei Lorenzetti, anche se con un gusto arcaizzante, un tratto piú secco e un certo disinteresse per la resa dello spazio rispetto ai modelli di riferimento. Al complesso si accede da Inchiostro, chiostro coperto che una composizione e una sala, sempre multimediale, dedicata ai capolavori ispirati al Nettare degli Dèi. Infine il visitatore viene accolto da un’enoteca con vetrina e scaffali interattivi, in cui provare anche l’esperienza del sommelier. La App Ori di Montalcino propone inolte tre itinerari che si dipanano in S. Agostino, nel borgo e nel territorio circostante. Il primo tragitto tocca il Museo Civico

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ANTE PRIMA A sinistra l’interno della chiesa di S. Agostino. In basso, a sinistra il chiostro dell’Enoteca. In basso, a destra Madonna della Misericordia, olio su tela di Vincenzo Tamagni. 1510-1530. Montalcino, Museo Civico e Diocesano d’Arte Sacra.

Archeologico, che documenta l’esistenza di Montalcino dal Paleolitico all’età del Bronzo alla civiltà etrusca, testimoniata da tombe a camera e corredi funebri, fino ai Romani, che hanno lasciato tracce di abitazioni e vita quotidiana. Il Museo Diocesano di arte sacra custodisce esemplari di pittura gotica, che si rifanno a Duccio di Buoninsegna, o sono riconducibili alla maniera tarda di Ambrogio Lorenzetti. Gli artisti attivi dopo la peste del 1348 sono rappresentati da Luca di Tommè, con una Madonna con Bambino, dal Maestro di Panzano e da Bartolo

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di Fredi, che ha affrescato anche la chiesa del monastero agostiniano. L’arte tardo-gotica è documentata con una Madonna di Sano di Pietro.

I tesori nel circondario Fuori da S. Agostino si possono visitare altre testimonianze medievali di Montalcino, quali la cattedrale di S. Salvatore, eretta sulle preesistenze di una pieve romanica, il palazzo comunale, detto anche Palazzo dei Priori, risalente alla fine del XIII secolo, l’abbazia benedettina di S. Antimo, che la leggenda vuole fondata da Carlo Magno. Nel circondario, tra

la frazione di San Giovanni d’Asso e la località di Poggio alle Mura, meritano una passeggiata tanti vigneti e panorami caratteristici della zona senese, e a Castiglione del Bosco si trova la chiesa di S. Michele, semplice struttura che custodisce una pregevole Annunciazione di Pietro Lorenzetti. Info: www.orodimontalcino.it Stefania Romani luglio

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ANTE PRIMA

EDIOEVO MOGGI

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ella splendida cornice del Castello di Bianello, una delle quattro alture che danno il nome al comune di Quattro Castella (tra i promotori dell’iniziativa), che si affacciano sulla fertile pianura emiliana, si svolgerà nel week end del 9-10 settembre il primo Festival Matildico organizzato dall’Associazione Matildica Internazionale. Un anticipo sarà l’apertura a Bologna al venerdí pomeriggio del IV Convegno AMIMIA, in collaborazione con il Centro Studi «Gina Fasoli» sulla Storia della città dell’Università di Bologna, sul tema: «Matilde e le città. Nuove prospettive di ricerca sui rapporti tra domus canossana e contesti urbani». Il Convegno continuerà in tutta la giornata di sabato nel Salone d’onore del Castello di Bianello, con relazioni di Régine Le Jan (Università della Sorbona), Rosa Smurra (Università di Bologna), Eugenio Riversi (Università di Bonn), Alfredo Lucioni (Università Cattolica di Milano), Raffaele Savigni (Università di Bologna), oltre che di Alberto Cotza, Gabriele Fabbrici, Giuseppe Gardoni, Paolo Golinelli, Danilo Morini, Andrea Puglia, Carlotta Taddei, Paolo Tomei. Nell’intermezzo tra la seduta del mattino e quella del pomeriggio è prevista la visita guidata al Museo del Castello di Canossa, con pranzo presso il Centro Culturale «Andare a Canossa» (su prenotazione).

Medioevo, sempre nel salone del castello di Bianello. Rossella Rinaldi presenterà gli scritti di Bruno Andreolli dedicati alle donne: Donne del Medioevo. Studi di Bruno Andreolli (Bononia University Press, 2016); Tiziana Lazzari si soffermerà sulla figura di Beatrice di Lorena di cui ha trattato in Donne dell’alto Medioevo (Bruno Mondadori 2010); Paolo Golinelli parletà di Matilde di Canossa. Vita e mito (Salerno editrice, 2021); Adelaide Ricci di Donne e Sacro (Viella, 2022); Maria Giuseppina Muzzarelli di Madri, madri mancate, quasi madri (Laterza, 2021); Giusi Zanichelli di Donne medievali di Chiara Frugoni (Il Mulino 2021), ricordando con Paolo Golinelli l’autrice, socia onoraria dell’Associazione Matildica. Nell’intervallo tra la seduta mattutina e quella del pomeriggio è prevista la visita guidata al Castello di Bianello, che sarà condotta dall’assessore, Danilo Morini; nel pomeriggio la mostra «Il Sacro nelle Chiese Matildiche» del pittore Maurizio Setti, nella chiesa di S. Antonino. Nel castello è allestita una mostra sui libri per bambini con soggetto matildico; all’esterno una grande Fiera del libro medievale, iniziative di giochi per bimbi e adulti, posti di ristoro. Per salire al castello è stato messo a disposizione dall’Amministrazione Comunale un bus-navetta, a partire dal cortile della parrocchiale di Sant’Antonino. Per info e prenotazioni ci si può rivolgere a: info@ associazionematildicainternazionale.it; oppure a: turismo@comune.quattro-castella.re.it, tel. 0522 247824; o ancora a: Centro turistico «Andare a Canossa», tel. 333 4419407, mario_bernabei@libero.it (red.)

Ritorno al tempo di Matilde Alla sera ci sarà il tradizionale Corteo Matildico, organizzato dall’Associazione Comitato Matildico di Quattro Castella, con la rievocazione della reinfeudazione di Matilde da parte di Enrico V, avvenuta proprio nel castello di Bianello il 6 maggio 1111, passaggio per le strade della cittadina arredate a festa, giochi e intrattenimenti medievali (falconeria, ecc.). La domenica 10 settembre è dedicata a incontri con gli autori di libri dedicati alle donne nel Il Salone d’Onore del castello di Bianello, che sarà una delle sedi del IV Convegno dell’Associazione Matildica Internazionale, in programma a settembre.

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I colori ritrovati RESTAURI • L’intervento su un importante dipinto su tavola della collezione

parmense della Pilotta ha restituito all’opera le sue cromie originarie, riaprendo il dibattito sull’effettiva partecipazione del Botticelli alla sua realizzazione

È

stato di recente presentato il restauro dell’Assunzione della Vergine con i Santi Benedetto, Tommaso e Giuliano, opera attribuita alla bottega di Sandro Botticelli e appartenente alle collezioni del Complesso Monumentale della Pilotta di Parma. L’intervento è stato eseguito presso i laboratori di Open Care a Milano, dove, prima del restauro vero e proprio, la superficie del dipinto è stata digitalizzata in altissima risoluzione utilizzando il Lucida 3D Scanner progettato da Manuel Franquelo e Factum Arte. Questo ulteriore livello di documentazione non invasiva permette di considerare la superficie pittorica come un oggetto «a due dimensioni e mezzo», dove l’intervento del restauratore si aggiunge materialmente alla mano dell’artista e a quella del tempo nella storia conservativa dell’opera. I dati digitali rimarranno inoltre proprietà dell’istituzione a cui l’opera appartiene per ogni uso futuro.

Tre livelli di pulitura Come ha spiegato Isabella Villafranca Soissons, direttore dei laboratori Open Care, «La tavola dell’Assunzione era stata totalmente ridipinta, ma con tale precisione che nemmeno la campagna diagnostica a cui l’avevamo sottoposta ne aveva rivelato i tre strati successivi. Dopo aver risanato e consolidato, abbiamo perciò effettuato tre livelli di pulitura della superficie pittorica e sono emersi colori bellissimi:

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la veste di san Tommaso è ora di un verde squillante e quella di san Giuliano, da marroncina è diventata azzurra. L’opera è sicuramente uscita dalla bottega del Botticelli, poiché le tre metodologie del disegno preparatorio (incisione; spolvero, non cosí frequente sulle tavole; e disegno a pennello), sono perfettamente congruenti. Sull’intervento personale del maestro restano dubbi, sebbene la qualità del San Giuliano sia

L’Assunzione della Vergine con i Santi Benedetto, Tommaso e Giuliano, tempera e oro su tavola attribuita alla bottega di Sandro Botticelli, prima (a sinistra) e dopo il restauro. Inizi del XVI sec. Parma, Complesso Monumentale della Pilotta. altissima». Fin dall’inizio, del resto, si può dire che la storia moderna del dipinto si è dipanata nel segno del dubbio, come si può leggere anche nella scheda ufficiale della Pilotta, di cui riportiamo qui di seguito un ampio stralcio. Realizzata a tempera

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ANTE PRIMA In questa pagina San Giuliano (particolare), prima e dopo il restauro. Si può notare come la veste del santo, che si presentava di colore marrone, fosse in realtà azzurra. Raimond van Marle (1931), che ricordava la tavola come lavoro della scuola del Botticelli. L’opinione di Ricci veniva ripresa da Carlo Gamba (1936), che lo riteneva forse derivato da qualche schizzo del maestro per la sua pala del Duomo di Pisa, da Armando Quintavalle (1939a), che sottolineava come l’imitazione del capobottega risulti qui «appesantita e svuotata di ogni idealità», e piú recentemente da Everett Fahy (1976) e Ronald Lightbown (1978).

Il parere di Federico Zeri

e oro su tavola, l’Assunzione, è ricordata genericamente nei primi cataloghi della Galleria parmense come opera di scuola toscana del XIV secolo. Successivamente Bernard Berenson (1932) ne suggerí una dubitativa attribuzione al Maestro del Bambino Vispo, che fu accettata dalla critica e permise a Jeanne van Waadenoijen (1983) di assegnare l’opera a Gherardo Starnina, il pittore in cui la studiosa fu in grado di identificare l’autore del corpus già riferito all’anonimo maestro. Ritenuto da Alfonso

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Tacoli Canacci di Lorenzo di Credi, il dipinto era indicato nei vecchi cataloghi del museo come «pittura toscana antica anteriore al Quattrocento». Secondo Corrado Ricci (1896) si tratta del mediocre prodotto di un imitatore del Botticelli. Considerato della scuola di Filippino Lippi da Herbert Percy Horne (1908), è esposto come opera di Bartolomeo di Giovanni, al quale l’aveva assegnato con un breve accenno Geza de Francovich (1926); tale attribuzione veniva negata da

Sulla scorta di questi studiosi, Federico Zeri (1985) individuava un gruppo di opere nelle quali avvertiva forti legami con le idee del Botticelli, tanto da pensare a un’invenzione dell’artista, attuata tuttavia in modo debole e sommario da maestranze attive all’interno della sua bottega, che probabilmente continuarono a operare anche dopo la sua morte utilizzando schizzi, disegni, modelli, appunti o anche lavori incompiuti del pittore. In questo gruppo lo Zeri inseriva, oltre all’Assunzione della Vergine di Parma, un San Sebastiano alla Pinacoteca Vaticana, una Fuga in Egitto nel Museo Jacquemart-André di Parigi, i Santi Antonio abate, Caterina d’Alessandria e Rocco della chiesa di S. Felice a Firenze, nonché il polittico di cui restano la Flagellazione e l’Andata al Calvario nel Museo di Arezzo (in deposito dalle Gallerie Fiorentine) e il Cristo portacroce e la Resurrezione alla Beaverbrook Art Gallery di Fredericton. In particolare lo studioso considerava le mani che hanno dipinto l’Assunzione della Vergine «non superiori al livello della semplice compilazione». luglio

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Dall’alto particolari del San Tommaso e della Madonna prima e dopo il restauro. Anche in questi casi appare evidente il recupero della vivacità originaria dei colori utilizzati dall’autore del dipinto. notazioni paesistiche, tanto da sembrare incompiuto. La Madonna, dal mantello preziosamente ricamato con naturalistici motivi floreali, è circondata poi da cherubini di impostazione debole e piuttosto rozza.

Un prodotto della bottega L’ignoto autore del dipinto va dunque considerato un modesto traduttore delle idee del Botticelli,

L’opinione di Zeri – accolta da Nicoletta Pons (1992) – spiega dunque l’incongruenza esistente in quest’opera fra l’ideazione compositiva delle figure, costruite con un disegno nitido e sapiente, e la loro trasposizione pittorica. Infatti i personaggi, avvolti in panneggi che ne assecondano

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ritmicamente l’armoniosità delle pose, sono delineati da un tratto sottile che dona loro corposità e definisce le forme, pur raggelate rispetto ai fluidi modelli botticelliani, ma risultano giustapposti e costretti quasi senza respiro nello spazio a disposizione, stagliati contro un fondo privo di

attivo nella bottega del maestro forse anche dopo il 1510: sembra infatti da escludere in quest’opera un intervento dell’artista, che avrebbe dovuto supervisionare i prodotti del proprio atelier anche quando questi venivano eseguiti dai suoi allievi o lavoranti. (red.)

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ANTE PRIMA

Di nuovo insieme INCONTRI • Mostre, pubblicazioni e un convegno

tenutosi ad Ascoli Piceno contribuiscono a tenere viva l’attenzione sulle sorti delle opere d’arte danneggiate dal terremoto che nel 2016 ha colpito il Centro Italia

I

l Museo Archeologico Statale di Ascoli Piceno ha ospitato, nello scorso giugno, la presentazione degli Atti del convegno Il patrimonio storico-artistico e culturale dell’area picena dopo il sisma del 2016. Recupero, conoscenza, valorizzazione, organizzato nel 2019 dall’Istituto Superiore di Studi Medievali «Cecco d’Ascoli», pubblicati dall’Istituto Storico Italiano per il Medioevo a cura di Marco D’Attanasio e di Silvia Maddalo (Roma 2021; ISBN 978-88-31445-16-0). L’incontro ha riacceso i riflettori sulla sorte del patrimonio artistico ferito Madonna del latte, gruppo in terracotta policroma, da Grisciano (Accumoli, Rieti). Inizi del XVI sec.

appunto dall’evento sismico. Fra le migliaia di opere d’arte coinvolte (vedi «Medioevo» n. 241, febbraio 2017), riveste un particolare significato la Madonna del latte di Grisciano (Accumoli). Si tratta di un gruppo scultoreo in terracotta policroma degli inizi del XVI secolo, di grande valore storico, artistico e devozionale. Attribuita in passato a Silvestro dell’Aquila – ma ora ricondotta ai fratelli Giacomo e Raffaele di Montereale dallo storico dell’arte Giuseppe Cassio –, l’opera accoglie un’eco del Rinascimento fiorentino nel contesto di una comunità pedemontana dell’alta valle del Tronto, al confine tra le Marche e il Lazio, ossia lungo il percorso della via consolare Salaria, nel ramo tra Rieti e Ascoli Piceno.

Venerata dalle future madri Proprio perché ritrae la Madonna nell’atto di allattare il Figlio, fu tenuta sempre in grande considerazione dalle donne del luogo in dolce attesa. Si rivolgevano alla Vergine per scongiurare una malattia o un esito negativo della loro gravidanza. Potevano anche avvalersi delle acque di una vicina fonte, a cui si attribuivano qualità terapeutiche. Nonostante le gravi vicissitudini che aveva subíto nel tempo, tra terremoti e alluvioni, la statua ha resistito sul luogo fino a quella tragica notte del 2016, quando è stata coinvolta nel crollo della chiesa di S. Agata. Tutte le parti di cottura di cui si componeva

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si sono smembrate, ma un intervento di recupero le ha messe in salvo, ricoverandole nel deposito allestito a Cittaducale, presso la Scuola Forestale Carabinieri. Il blocco con la figura della Vergine, dalla vita in su, è stato esposto al pubblico in una sala del Museo Nazionale Romano presso le Terme di Diocleziano, per la mostra Rinascite. Opere d’arte salvate dal sisma di Amatrice e Accumoli (vedi luglio

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«Medioevo» n. 252, gennaio 2018). La figura della Vergine, priva del Bambino gioiosamente attaccato al suo seno, suscitava molta sensazione, incarnando bene una realtà dolorosamente frammentata, ma che poteva essere riproposta all’attenzione con un lungo e laborioso sforzo.

Studi e restauri Dopo il restauro complessivo, finanziato con i fondi dell’Art Bonus per il terremoto, l’opera è finalmente tornata alla sua integrità insieme a un altro pregevole lavoro in terracotta policroma, la Pietà di S. Maria della Misericordia di Accumoli. L’occasione per riportare le due opere all’attenzione – sia pure per un periodo limitato – è stata fornita dall’esposizione «Di terra e colore. Sculture mariane dai territori del sisma», inaugurata lo scorso dicembre presso il Palazzo Papale di Rieti. La stessa Rieti, proprio nel centro storico, ospita il Varrone Lab, un laboratorio di restauro espressamente concepito – di concerto tra Enti locali e Soprintendenze – per agire sull’immenso patrimonio delle opere d’arte mobili salvate. Alla sua attività è stata dedicata la mostra «Oltre una sorte avversa. L’arte di Amatrice e Accumoli dal terremoto alla rinascita», promossa dalla Fondazione Varrone-Cassa di Risparmio di Rieti nel 2020, e che ha lasciato testimonianza di sé grazie al catalogo curato da Giuseppe Cassio e da Paola Refice (Il Formichiere, Foligno 2021; ISBN 978-88-94805-94-9). L’attività di studio e di salvaguardia si estende necessariamente a tutte le altre aree investite dal terremoto, sul fronte umbro-marchigiano, dove l’emergenza sismica ha trovato il suo culmine nella scossa che ha distrutto la basilica di S. Benedetto a Norcia, la mattina del 30 ottobre 2016. Furio Cappelli

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Il ritorno delle Profetie U

n’edizione manoscritta delle Profetie di Michele Nostradamo, trafugata dalla Biblioteca Generalizia del Centro Studi Storici dei Barnabiti di Roma è stata rimpatriata dalla Germania, a seguito delle indagini coordinate dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma-pool Tutela Patrimonio Artistico. L’intervento era stato avviato dai Carabinieri della Sezione Antiquariato del Reparto Operativo TPC, quando il volume è risultato in vendita presso una casa d’aste tedesca, che l’avrebbe posto all’incanto nei primi giorni di maggio dello scorso anno. Su una delle pagine del testo pubblicate sul sito della casa d’aste, è stata rilevata la presenza di un timbro della «Biblioteca SS. Blasi Cairoli del Urbe», confluita, nel 1991, in quella Generalizia dei Padri Barnabiti. Attraverso una richiesta di assistenza inoltrata dall’Autorità Giudiziaria italiana a quella tedesca, l’asta è stata bloccata e il volume è stato sequestrato e custodito presso gli uffici di Polizia di Stoccarda, in attesa del suo rimpatrio, agevolato attraverso uno strumento di cooperazione europeo tra il Ministero della Cultura italiano e l’omologo tedesco. Il volume è stato infine restituito al responsabile della Biblioteca, padre Rodrigo Alfonso Nilo Palominos. (red.)

Due pagine dell’edizione manoscritta delle Profetie di Nostradamus riconsegnata alla Biblioteca del Centro Studi Storici dei Barnabiti di Roma.

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ANTE PRIMA

Una formula di successo

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

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a XXIV edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico si svolgerà a Paestum presso il Tabacchificio Cafasso, l’area archeologica e il Museo Nazionale, la Basilica da giovedí 27 a domenica 30 ottobre 2022. La BMTA ha quali Enti Promotori la Regione Campania, la Città di Capaccio Paestum e il Parco Archeologico di Paestum e Velia, è patrocinata dal Ministero della Cultura, dal Ministero del Turismo, dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, dall’ANCI ed è riconosciuta quale best practice di dialogo interculturale dalle organizzazioni governative internazionali della cultura e del turismo dell’ONU, UNESCO e UNWTO. Obiettivo dell’iniziativa è valorizzare Parchi e Musei Archeologici, promuovere destinazioni turistico archeologiche, favorire la commercializzazione, contribuire alla destagionalizzazione e incrementare le opportunità economiche e gli effetti occupazionali. La Borsa è l’unico appuntamento al mondo che consente l’incontro delle Organizzazioni Governative, delle Istituzioni e degli Enti Locali con il business professionale, gli addetti ai lavori, i viaggiatori, gli appassionati, il mondo scolastico e universitario, i media. La manifestazione, unico appuntamento al mondo del suo genere, è un format di successo testimoniato da 7000 visitatori, 150 espositori da 15 Paesi esteri, 110 tra conferenze e incontri con 550 tra moderatori e relatori in 5 sale in contemporanea, 30 buyer tra europei e nazionali, 140 operatori dell’offerta, 120 giornalisti. La BMTA si conferma un rilevante momento di approfondimento e divulgazione di temi inerenti il turismo culturale e la fruizione, gestione e valorizzazione dei beni culturali, un grande contenitore con 16 sezioni: ArcheoExperience, i Laboratori di Archeologia Sperimentale per la divulgazione delle tecniche utilizzate dall’uomo per realizzare i manufatti di uso quotidiano; ArcheoIncoming, spazio per i tour operator nazionali specialisti del turismo archeologico

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nel Salone Espositivo e al Workshop per promuovere l’incoming verso le destinazioni italiane; ArcheoIncontri per conferenze stampa e presentazioni di progetti culturali e di sviluppo territoriale; ArcheoLavoro, orientamento post diploma e post laurea a cura delle Università; ArcheoStartup, presentazione di neo imprese per l’innovazione nel turismo culturale e nella valorizzazione dei beni culturali in collaborazione con Associazione Startup Turismo; ArcheoVirtual, Workshop e Mostra multimediale incentrati sulle applicazioni digitali e sui progetti di archeologia virtuale in collaborazione con ISPC Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale del CNR; Conferenze, in cui Organizzazioni Governative e di Categoria, Istituzioni ed Enti Locali, Associazioni Culturali e Professionali si confrontano su promozione del turismo culturale, valorizzazione, gestione e fruizione del patrimonio; Incontri con i Protagonisti, il grande pubblico con i piú noti Divulgatori culturali, Archeologi, Direttori di Musei, Accademici, Giornalisti; International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», il Premio alla scoperta archeologica dell’anno intitolato all’archeologo già Direttore del sito di Palmira; Premio «Antonella Fiammenghi», per la migliore tesi di laurea sul turismo archeologico o sulla BMTA; Premio «Paestum Mario Napoli», a coloro che contribuiscono alla valorizzazione del patrimonio e al dialogo interculturale; Premio «Sebastiano Tusa», alla scoperta archeologica subacquea, alla carriera, alla mostra dalla valenza scientifica internazionale, al progetto piú innovativo, al contributo giornalistico in termini di divulgazione; Targa «Claudio Mocchegiani Carpano», alla migliore tesi di laurea sull’archeologia subacquea; Salone Espositivo delle destinazioni turisticoarcheologiche su 4000 mq con 18 regioni; visite guidate gratuite per relatori, giornalisti e visitatori alle aree archeologiche di Paestum e Velia; Workshop tra la domanda europea selezionata dall’Enit e nazionale dei tour operator specialisti e l’offerta del turismo culturale e archeologico. Per info: www.bmta.it luglio

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AGENDA DEL MESE

Mostre FORLÍ MADDALENA. IL MISTERO E L’IMMAGINE Musei San Domenico fino al 10 luglio

a cura di Stefano Mammini

alcune delle piú preziose e affascinanti opere d’arte a lei dedicate, l’esposizione indaga il mistero irrisolto di una donna di nome Maria che ancora inquieta e affascina. Le sale del San Domenico ospitano 200 opere tra le piú significative, dal III secolo d.C. al Novecento, suddivise in 11 sezioni, in un percorso espositivo che ricomprende pittura, scultura, miniature, arazzi, argenti e opere grafiche e che si snoda attraverso i piú grandi nomi di ogni epoca. info tel. 0543 1912 030-031033; e-mail: mostre@ fondazionecariforli.it LORETO (ANCONA) SULLE ORME DI SAN MICHELE ARCANGELO PELLEGRINI E DEVOTI NELL’ARTE DA CRIVELLI A CARAVAGGIO Bastione Sangallo fino al 13 luglio

Il nuovo appuntamento espositivo proposto dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlí è dedicato a un grande mito femminile della nostra storia, una figura misteriosa e travisata: Maria Maddalena. A lei l’arte, la letteratura, il cinema hanno dedicato centinaia di opere e di eventi. L’arte soprattutto, ponendola al centro della propria produzione e dando vita a capolavori che segnano, lungo la trama del tempo, la storia dell’arte stessa e i suoi sviluppi. Ma chi era davvero la Maddalena? E perché si è generata e sviluppata quella confusa, affascinante sequenza di rappresentazioni che hanno portato alla costruzione della sua sfaccettata identità? Attraverso

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Ha preso il via a Loreto un progetto espositivo itinerante – le cui tappe successive saranno Ascoli Piceno e Senigallia – per approfondire il tema del pellegrinaggio attraverso opere che spaziano dal Medioevo al Seicento, seguendo un percorso all’insegna dei luoghi di culto di san Michele Arcangelo. I pellegrini e i devoti che in grande numero percorrevano gli itinerari di fede europei sono stati piú volte

rappresentati dagli artisti che ne hanno messo in evidenza le particolarità dell’abbigliamento, con i segni caratteristici dell’avvenuto pellegrinaggio che consentiva di riconoscerli. I santi invocati durante il percorso, come san Rocco e san Giacomo Maggiore, venivano dunque effigiati dagli artisti con le vesti tipiche dei pellegrini al pari dei santi che nel Medioevo avevano portato la parola di Cristo in luoghi lontani e pericolosi, come san Giacomo della Marca raffigurato sempre con il bordone. A Loreto, dove non a caso inizia questo percorso espositivo, il santuario mariano venne riconosciuto nel 1520 come centro di pellegrinaggio universale al pari di Gerusalemme, Roma e Santiago di Compostela, richiamando cosí fedeli da tutto il mondo. La mostra vuole rendere omaggio a questo particolare legame e attingendo a un ricco patrimonio iconografico si è selezionato un nucleo di opere, in un percorso tematico che mette in risalto alcuni elementi particolari, come l’abito caratteristico dei pellegrini e le insegne esibite per certificare di aver intrapreso il viaggio verso i remoti luoghi santi. Si tratta per la maggior parte di opere provenienti dalle

collezioni civiche marchigiane, dove non mancano capolavori di autori come Antonio da Fabriano, Carlo Crivelli, Pietro Alamanno, Guercino, Francesco Guerrieri, Pietro Liberi e Ferdinand Voet che tra il XV e il XVII secolo hanno testimoniato questo fenomeno di culto, dedicando le rappresentazioni soprattutto a san Giacomo Maggiore e san Rocco, patroni dei pellegrini, e illustrando l’abbigliamento tipico dei devoti sia prima che dopo il periodo della Controriforma. info tel. 071 977748 e 071 7505638; www.comune.loreto.an.it TORINO NEL SEGNO DI RAFFAELLO. DISEGNI DEL RINASCIMENTO ITALIANO DALLE COLLEZIONI DELLA BIBLIOTECA REALE Musei Reali, Biblioteca Reale fino al 17 luglio

Esito di un progetto avviato in occasione del

cinquecentenario della morte di Raffaello, la mostra ripercorre circa settant’anni di storia del disegno italiano, a partire da Perugino, il maestro da cui il giovane Sanzio riceve il battesimo artistico, passando per la bottega romana, nella quale l’Urbinate, all’apice del suo successo, diventa un polo di attrazione e un modello di stile per un’intera generazione luglio

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di artisti – Giulio Romano, Parmigianino, Peruzzi, Polidoro da Caravaggio, Baccio Bandinelli, Girolamo da Carpi – che da Roma prenderanno strade diverse, diffondendo in tutta l’Italia la lezione del maestro urbinate. I disegni sono forme d’arte di particolare fascino, perché danno accesso alla dimensione piú intima di un artista, testimoniano il processo creativo e formativo di un autore, diversamente da altre, si basano sull’utilizzo di poche tecniche, spesso un unico medium su una piccola porzione di carta bianca. Questa essenzialità conferisce loro una particolare forza espressiva, i disegni rivelano l’essenza della mano e della mente che li ha prodotti, ma la lettura del messaggio può risultare meno immediata rispetto ad altre opere d’arte. Per questo la mostra presenta un ricco apparato didascalico, con grandi pannelli contenenti anche immagini di confronto con opere possedute da altri musei, per accompagnare il visitatore alla scoperta dell’articolato mondo della tradizione disegnativa rinascimentale fatta di citazioni, di copie e di studi per altre opere. info https://museireali. beniculturali.it PARMA I FARNESE. ARCHITETTURA, ARTE, POTERE Complesso Monumentale della Pilotta fino al 31 luglio

A venticinque anni dall’ultima esposizione sul tema, il Complesso Monumentale della Pilotta ospita una grande rassegna dedicata alla committenza della famiglia Farnese, con l’obiettivo d’indagare la straordinaria

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Farnese, permetteranno di ricostruire una camera delle meraviglie rinascimentale. info tel. 0521 220400; www.complessopilotta.it FIRENZE DONATELLO, IL RINASCIMENTO Palazzo Strozzi e Museo Nazionale del Bargello fino al 31 luglio

Il progetto espositivo nasce come celebrazione del grande maestro, puntando ad allargare la riflessione su questo artista rivoluzionario nei materiali, nelle tecniche e nei generi. Scultore supremo del Quattrocento – tra i secoli d’oro dell’arte italiana – e prediletto affermazione della casata nella compagine politica e culturale europea dal Cinque al Settecento, attraverso l’utilizzo delle arti come strumento di legittimazione. Tra i prestiti, un nucleo di circa 200 disegni di architettura presenta, insieme a modelli, elaborazioni grafiche e filmati, il quadro complessivo dell’architettura farnesiana dal punto di vista storico, urbano e territoriale, mettendo in rilievo la relazione tra questa disciplina e l’affermazione dinastica in termini di prestigio, espansione e visionarietà della committenza. E poi capolavori della pittura – tra i quali spiccano opere di Raffaello, Tiziano Vecellio, Francesco Mazzola «il Parmigianino», El Greco e Annibale Carracci – e una selezione di oggetti provenienti dal Gabinetto delle Cose Rare del Museo e Real Bosco di Capodimonte, tra cui la Cassetta Farnese, insieme alla Tazza Farnese dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli, alle monete e medaglie del Complesso Monumentale della Pilotta e ai pezzi della Collezione Gonzaga di Guastalla confluiti nella collezione

della famiglia Medici, insieme a Brunelleschi e Masaccio, Donatello diede il via alla straordinaria stagione del Rinascimento, proponendo nuove idee e soluzioni figurative che hanno segnato per sempre la storia dell’arte occidentale. Attraverso le sue opere Donatello rigenera l’idea stessa di scultura, con una potenza di visione unica in cui unisce le scoperte sulla prospettiva e un concetto totalmente moderno di umanità. La dimensione umana dell’arte di Donatello abbraccia in tutta la loro profondità le piú diverse forme delle emozioni, dalla dolcezza alla crudeltà, dalla gioia al dolore piú straziante. Distribuita su due sedi, Palazzo Strozzi e Museo Nazionale del Bargello, la mostra riunisce circa 130

opere tra sculture, dipinti e disegni con prestiti unici, alcuni dei quali mai concessi prima, e propone un viaggio attraverso la vita e la fortuna di Donatello articolato in quattordici sezioni. Si inizia dagli esordi e dal dialogo con Brunelleschi, proponendo il confronto tra i due celebri Crocifissi lignei provenienti dalla Basilica di Santa Croce e da quella di S. Maria Novella. Si procede poi attraverso i luoghi per cui Donatello ha lavorato (Siena, Prato e Padova, oltre a Firenze), trovando moltissimi seguaci, entrando in dialogo con altri celebri artisti molto piú giovani quali Mantegna e Bellini, e

sperimentando nei materiali piú diversi le sue formidabili invenzioni plastiche e scultoree. Conclude il percorso una sezione speciale dedicata all’influenza di Donatello sugli artisti a lui successivi, tra cui Raffaello, Michelangelo e Bronzino, testimoniando cosí l’importanza capitale della sua opera per le vicende dell’arte italiana. info www.palazzostrozzi.org; www.bargellomusei.beniculturali.it CASTELSEPRIO (VA) Parco Archeologico e Antiquarium

GONATE OLONA (VA) Monastero di Torba TRAME LONGOBARDE. TRA ARCHITETTURA E TESSUTI fino al 31 luglio

Partendo da un lavoro che ha intrecciato insieme dati

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AGENDA DEL MESE scientifici e ricostruzioni plausibili, la mostra-dossier propone un’accurata lettura delle tecniche antiche di tessitura attraverso la ricostruzione di tessuti, abiti e telai verosimilmente in uso tra VI e VIII secolo d.C. La ricostruzione dei tessuti e degli abiti, in particolare, rappresentano il filo conduttore che ci porta a conoscere piú da vicino il popolo longobardo partendo da quelli che erano gli oggetti e i manufatti che sono parte integrante della vita quotidiana. Tutti gli abiti sono stati realizzati per una metà con tessuti fatti rigorosamente a mano su telai orizzontali a licci riproducendo il numero dei fili di ordito e trama presenti al centimetro, nonché lo spessore degli stessi fili e le torsioni. Considerando che verosimilmente tali tessuti venivano realizzati da donne in ambito domestico, sono state ipotizzate delle altezze del tessuto abbastanza ridotte e compatibili con telai verticali, a pesi o a doppio subbio, utilizzati nel periodo di riferimento. L’altra metà degli abiti è stata realizzata impiegando una tela di cotone industriale proprio per sottolineare che il modello dell’abito riproposto è il frutto di contaminazioni scientifiche e di elaborazioni dei curatori. info www.antiquarium. castelseprio.beniculturali.it; www.fondoambiente.it LONDRA RAFFAELLO The National Gallery fino al 31 luglio

Programmata per il 2020, nel cinquecentenario della morte dell’artista, ma rinviata a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia innescata dal Covid-19, apre finalmente i battenti la grande mostra su

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Raffaello voluta dalla National Gallery. Si tratta di una delle piú ricche rassegne mai dedicate al maestro urbinate, del quale viene documentato lo straordinario eclettismo, che gli permise di eccellere come pittore, ma anche come disegnatore, architetto e «archeologo». Nella sua breve carriera – l’artista, morto a soli 37 anni, fu attivo per poco piú di un ventennio – Raffaello fu capace di segnare una svolta decisiva nella storia dell’arte universale, ma non solo, poiché la sua opera contribuí a rimodellare il volto dell’intera cultura occidentale. Ed è proprio questo l’aspetto che la mostra, attraverso una selezione di poco meno di 100 opere, intende evidenziare, proponendo un percorso espositivo di tipo cronologico, che dalle prime esperienze compiute a Urbino e nelle Marche si snoda tra Firenze e Roma, città che decretarono la consacrazione del pittore. info www.nationalgallery.org.uk FIRENZE LE TRE PIETÀ DI MICHELANGELO. NON VI SI PENSA QUANTO SANGUE COSTA

Museo dell’Opera del Duomo, sala della Tribuna di Michelangelo fino al 1° agosto

Vengono per la prima volta messe a confronto l’originale della Pietà Bandini, di cui è da poco terminato il restauro, e i calchi della Pietà Vaticana e della Pietà Rondanini provenienti dai Musei Vaticani. Collocate una vicina all’altra, le tre Pietà offrono l’opportunità di vedere l’evoluzione dell’arte di Michelangelo, nonché la sua maturazione spirituale, dalla prima giovinezza – quando a Roma scolpí per la Cappella dei Re di Francia nell’antica S. Pietro l’opera ora nella navata laterale nord della basilica – alla sua ultima stagione, quando, ormai vecchio, mise mano alla Pietà oggi a Firenze e poi alla Pietà Rondanini conservata a Milano. Si tratta di un percorso lungo piú di cinquant’anni, che conduce dall’ambizione del giovane che scolpí il proprio nome sul

petto della Madonna della versione vaticana all’immedesimazione personale dell’anziano artista, che, in quella del Museo dell’Opera, raffigura se stesso nelle sembianze di Nicodemo. Vicino alla propria morte, Michelangelo meditava profondamente sulla Passione di Cristo, come egli stesso fece capire in un coevo disegno della Pietà, donato alla marchesa di Pescara Vittoria Colonna, dove scrisse la frase dantesca: «Non vi si pensa quanto sangue costa» (Paradiso XXIX, 91). Risultato sublime di questa meditazione spirituale fu l’esecuzione della Pietà Rondanini, la cui estrema bellezza rifulge nel tramonto della figura. info https://duomo.firenze.it MARSIGLIA LA GIOCONDA. ESPOSIZIONE IMMERSIVA Palais de la Bourse fino al 21 agosto

Qual è il motivo (o il segreto) della popolarità di cui gode la Gioconda, il dipinto senza dubbio piú conosciuto al mondo? Da questo interrogativo, all’apparenza semplice, è nato il progetto espositivo che si è ora tradotto nella mostra immersiva presentata a Marsiglia, il cui obiettivo è quello di far comprendere le ragioni del mito e, soprattutto, di far conoscere il dipinto per quel che è effettivamente, al di là dei presunti misteri e dei luoghi comuni. Una riscoperta del capolavoro leonardesco che si avvale di storie narrate ed esperienze luglio

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MOSTRE • Spade reali. Il tesoro dello Staffordshire a Sutton Hoo Sutton Hoo (UK) – Exhibition Hall

fino al 30 ottobre info www.nationaltrust.org.uk

L’

esposizione riunisce, per la prima volta, due fra le piú importanti scoperte di archeologia medievale mai compiute in Inghilterra: il tumulo n. 1 della necropoli di Sutton Hoo e il tesoro dello Staffordshire. Contesti che offrono una testimonianza straordinaria della maestria raggiunta dagli artigiani anglosassoni specializzati nella lavorazione dei metalli e dell’oro in particolare. Nel primo caso, scavi condotti nel 1939 portarono al ritrovamento di una nave funeraria reale che, alla luce degli studi piú recenti, avrebbe accolto le spoglie di Raedwald, re di East Anglia. Il tesoro dello Staffordshire è invece un insieme di 4600 frammenti di metallo prezioso, rinvenuto da un amatore, grazie al metal detector, nel luglio del 2009. Nella mostra viene sottolineato come gli oggetti, per via delle affinità stilistiche e tecnologiche, sembrano appunto riferibili all’ambito culturale del regno di East Anglia e databili nel VII secolo. Nel caso del tesoro, si tratta, in larga prevalenza, di armi e accessori facenti parte di equipaggiamenti militari ed è stato calcolato che quelli rinvenuti siano i resti di almeno 100 o forse 150 spade differenti, i cui proprietari potrebbero essere stati i condottieri impegnati in molte delle grandi battaglie combattute nell’Inghilterra anglosassone in un’epoca di grandi mutamenti politici, religiosi e culturali. Quanto a Sutton Hoo, i reperti, concessi in prestito dal British Museum, comprendono, fra gli altri, vari esemplari delle spettacolari terminazioni piramidali dell’impugnatura delle spade, realizzate in oro, con inserti di granati, e lavorate a cloisonné. Oggetti che, quando affiorarono nel corso dello scavo, lasciarono subito intuire l’eccezionalità del tumulo n. 1 della necropoli reale. sensoriali organizzate su differenti livelli. Vengono per esempio illustrati i luoghi nei quali il maestro ambientò il celebre ritratto e altre opere celebri – come la Vergine delle rocce – e il contesto storico e culturale in cui maturò la realizzazione del quadro. E c’è spazio anche per ripercorrere la fortuna moderna della Gioconda, nonché le traversie di cui fu involontaria protagonista, prima fra tutte il furto di cui fu vittima nel 1911. Si tratta dunque di una mostra ricca di contenuti, che ha il suo punto di forza nell’altrettanto ricco apparato di supporti multimediali. info www.grandpalais.fr

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MILANO MEDIOEVO. STORIA, STORIE E MITO A FUMETTI Museo del Fumetto, dell’Illustrazione e dell’Immagine animata fino al 18 settembre

Il termine Medioevo, inteso come età di Mezzo, viene inventato nel Rinascimento e agli occhi dei sapienti di quel tempo si era trattato di un lungo periodo di decadenza, tra le meraviglie dell’antichità e le nuove che sarebbero sicuramente arrivate. Ma non fu cosí! In un periodo di 1000 anni, accadde davvero di tutto e molti di quegli eventi hanno ispirato fumettisti, artisti, ma anche registi e scrittori, imponendosi come un tassello fondamentale del nostro immaginario e della nostra storia. Fumetto, illustrazione e cinema d’animazione hanno avuto un ruolo fondamentale,

parlando ai giovani lettori, talvolta ingannandoli, talvolta istruendoli, ma sempre con grandi immagini magnifiche di castelli, dame, armi, qualche mago e strega di troppo, e cavalieri a catturare l’attenzione. La mostra racconta attraverso tavole originali a fumetti, riproduzioni di armi e armature, manifesti, e molto altro un periodo storico fondamentale,

sia attraverso i punti fondamentali che permettono di comprendere meglio un millennio di storia, sia attraverso i miti e le leggende ancora amatissime ai giorni nostri, dal Sacro Graal a re Artú fino a Robin Hood passando, ovviamente, per il falso mito della terra piatta. info tel. 02 49524744; www.museowow.it ROMA TIZIANO. DIALOGHI DI NATURA E DI AMORE Galleria Borghese fino al 18 settembre

L’esposizione è nata in occasione del prestito di Ninfa e pastore, opera autografa realizzata dal maestro veneto intorno al 1565, concessa dal Kunsthistorisches Museum di Vienna nell’ambito di un programma di scambio culturale con la Galleria

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AGENDA DEL MESE privati: manoscritti, dipinti, documenti, medaglie, monete, armi, armature, sculture, arredi. In particolare dalla Biblioteca Apostolica Vaticana, che conserva l’intera biblioteca di Federico e dei suoi successori, giungono eccezionalmente quindici splendidi manoscritti, distribuiti fra le tre sedi. I natali eugubini di Federico sono avvalorati dalle sue stesse parole, quando, nel 1446, scrive che a Gubbio andavano il suo affetto e la massima intensità dei suoi sentimenti: «perché ve acertamo che lí è Borghese. L’incontro tra l’opera di Vienna e i dipinti di Tiziano presenti a Roma ha offerto l’opportunità di mettere in connessione le opere intorno ad alcuni temi costanti nella produzione del pittore: la natura, intesa come paesaggio ma anche luogo dell’agire umano; l’amore nelle sue diverse forme, divino, naturale, matrimoniale; e il tempo, che scandisce la vita dell’uomo, ne regola il ciclo e lo assimila all’armonia dell’universo. Natura e amore sono legati da un rapporto armonico, parte del ciclo della vita, a cui allude l’allegoria amorosa e musicale di Ninfa e pastore, tra le ultime opere del maestro, considerata da alcuni la summa delle sue aspirazioni artistiche. La mostra ha trovato la sua sede naturale nella sala XX, al primo piano del museo, dove sono già esposti dipinti di scuola veneta e di Tiziano. L’attuale disposizione di Amor sacro e Amor profano e di Venere che benda Amore – posti uno di fronte all’altro – ha suggerito la collocazione di Ninfa e pastore lungo l’altro asse, di fronte a Le tre età sulla parete opposta, qui proposto nella replica di Sassoferrato che nel corso del Seicento copia – con

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ogni probabilità proprio per i Borghese – una versione presente a Roma del dipinto di Tiziano. Ninfa e pastore è il pendant perfetto del dipinto sulla parete opposta: si tratta della medesima riflessione, ma alla fine della vita del vecchio pittore, sull’amore, sul tempo che scorre e tutto divora. info tel. 06 8413979; e-mail: ga-bor@beniculturali.it; www.galleriaborghese.it GUBBIO FEDERICO DA MONTEFELTRO E GUBBIO. «LÍ È TUCTO EL CORE NOSTRO ET TUCTA L’ANIMA NOSTRA» Palazzo Ducale, Palazzo dei Consoli, Museo Diocesano fino al 2 ottobre

La mostra ripercorre i momenti gloriosi vissuti dalla città di Federico e del figlio Guidubaldo, l’ultimo dei Montefeltro, dalla nascita del duca nel 1422 alla morte di Guidubaldo nel 1508. Diventa occasione per rileggere la storia di Gubbio tra la fine del Trecento e gli inizi del Cinquecento. Il percorso espositivo dà spazio, secondo ambiti peculiari, alle opere concesse in prestito da prestigiose istituzioni italiane e straniere nonché da collezionisti

tucto el core nostro et tucta l’anima nostra», frase che diventa anche motivo di titolo per la mostra. Federico, inoltre, fece edificare a Gubbio un proprio palazzo, integrandovi quelle che erano le sedi delle antiche magistrature della città umbra, abbandonate già nel 1321. Con una residenza in posizione urbica elevata e fronteggiante la cattedrale, ripropone la condizione del suo palazzo a Urbino: poteri politico e religioso affiancati e l’uno in prosecuzione dell’altro. Sottolinea cosí, anche idealmente e in continuità con la memoria dei luoghi del potere, il suo dominio. Federico muore il 10 settembre 1482 e gli succederà il figlio Guidubaldo. info Ufficio IAT Gubbio, tel. 075 9220693; e-mail: info@iat.gubbio.pg.it; www.mostrafedericogubbio.it

VERONA CAROTO E LE ARTI TRA MANTEGNA E VERONESE Palazzo della Gran Guardia fino al 2 ottobre

Gli spazi monumentali del Palazzo della Gran Guardia accolgono la prima mostra dedicata interamente a Giovan Francesco Caroto (1480 circa1555), con oltre 100 opere provenienti da alcune delle piú prestigiose collezioni italiane e internazionali, che documentano l’evoluzione del grande pittore, seguendolo dagli esordi giovanili al riconosciuto ruolo di artista. Attraverso una serie di restauri sostenuti per l’occasione e un’estesa campagna di analisi diagnostiche, l’esposizione diventa anche l’occasione per approfondire la conoscenza dell’operatività tecnica del pittore e degli interventi che nel corso del tempo hanno interessato le sue creazioni.

Negli ultimi anni, la storia che ha legato Verona a uno dei suoi pittori piú affascinanti e rappresentativi si è arricchita di nuove testimonianze e significati, il primo dei quali ci viene dal gesto generoso di cittadini veronesi a favore dell’artista e del Museo di Castelvecchio. Nel 2019, infatti, è giunta alla Pinacoteca del Museo, in dono dalla famiglia Arvedi, la splendida Veritas filia Temporis (La Verità luglio

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è figlia del Tempo), una grande tela ottagonale che decorava in origine la volta dello studiolo privato del gentiluomo e intellettuale veronese Giulio Della Torre, e che ora costituisce uno dei punti focali del percorso. Da segnalare anche la presenza della Madonna della farfalla, un’opera fra le piú belle e famose del pittore. Si tratta di un lavoro giovanile, un dipinto eseguito a olio su tavola, risalente agli anni 1510-1515 e al clima stilistico dell’esperienza a fianco di Mantegna e a contatto con la cultura mantovana e leonardesca. info www.mostracaroto.it URBINO FEDERICO DA MONTEFELTRO E FRANCESCO DI GIORGIO: URBINO CROCEVIA DELLE ARTI (1475-1490) Palazzo Ducale, Galleria Nazionale delle Marche fino al 9 ottobre

Nel sesto centenario della nascita di Federico da Montefeltro, la Galleria Nazionale delle Marche di Urbino presenta, a partire dal prossimo 23 giugno, la grande mostra «Federico da Montefeltro e Francesco di Giorgio: Urbino crocevia delle arti (1475-1490)», che riunisce 80 opere – tra pitture, sculture, disegni, medaglie, affreschi staccati e codici –, un terzo delle quali provenienti dall’estero. L’esposizione propone un viaggio attraverso un periodo cruciale sia per Urbino e la sua corte, sia per la storia dell’arte italiana, che a quegli anni deve molto. Il percorso espositvo si articola in sette sezioni, che spaziano dall’epoca in cui Francesco di Giorgio viene incaricato del ruolo di «architettore» del duca, assumendosi le funzioni

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Federico da Montefeltro e Battista Sforza. Vesti e Potere nel primo Rinascimento italiano», che propone la ricostruzione di sei abiti storici del XV secolo: due richiamano gli abbigliamenti del Dittico di Urbino di Piero della Francesca, il famoso doppio dipinto custodito nella Galleria degli Uffizi di Firenze; gli altri quattro (due femminili e due maschili) sono rifacimenti fedeli di abiti dell’epoca, frutto di un approfondito studio delle fonti storiche, giacché degli originali abiti dell’epoca purtroppo a noi non è giunto niente. info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it anche di soprintendere ai lavori strutturali e decorativi per la fabbrica del palazzo ducale, nel nome del quale si snodano anche gli approfondimenti conclusivi. Nel mezzo, come ha dichiarato Luigi Gallo, Direttore della Galleria Nazionale delle Marche, c’è spazio per documentare come il duca Federico avesse saputo «trasformare Urbino in una capitale del Rinascimento: alla sua corte si incontrarono artisti e letterati di estrazione e provenienza diversa, le cui reciproche influenze generano un clima culturale che si ripercuoterà nei decenni a venire. Quell’ambiente, che vide incontrarsi pittori come Piero della Francesca, Giusto di Gand, Pedro Beruguete e Luca Signorelli, gli architetti Luciano Laurana, Francesco di Giorgio Martini e Donato Bramante, fu l’humus dal quale fiorì la genialità di Raffaello e sul quale, Baldasar Castiglione, plasmò il Cortegiano». Ad arricchire la rassegna contribuisce una seconda mostra, «“Quando vedranno i richi vistimenti”.

FIRENZE DA VINCI EXPERIENCE Cattedrale dell’Immagine, chiesa di S. Stefano al Ponte fino al 1° novembre

Torna, interamente rinnovata, Da Vinci Experience, un viaggio immersivo attraverso la vita e

le opere di Leonardo. La parabola artistica e personale del maestro viene affrontata in 35 minuti di video immersivo suddiviso in sei blocchi tematici: biografia, colore, pittura, ingegneria/anatomia, acqua e aria. Una narrazione che parte dal racconto cronologico della vita del genio

e poi si dirama tra gli effetti visivi dei video generativi che affrontano i tanti temi legati a Leonardo. La nuova Da Vinci Experience è una prodizione divulgativa e, nella sezione didattica, è peraltro possibile osservare numerosi modelli delle macchine leonardesche, sia a grandezza naturale che in scala, mentre nell’area introduttiva sono esposte pregevoli riproduzioni anastatiche dei disegni del Genio. La visita permette infine di sperimentare la Da Vinci VR Experience, un’esperienza di realtà virtuale grazie alla quale il visitatore può confrontarsi con il funzionamento delle invenzioni di Leonardo da Vinci, entrando all’interno del carro armato e azionandone i meccanismi, navigando con la barca a pale, e inseguendo il sogno del volo umano. info tel. 055 2989888; e-mail: info@davinciexperience.it; www.davinciexperience.it; Facebook Cattedrale dell’Immagine

TEGLIO (SONDRIO) CARLO V, DAGLI UFFIZI A PALAZZO BESTA Palazzo Besta fino al 6 aprile 2023

La mostra si inserisce nel progetto «100 opere tornano a casa. Dai depositi alle sale dei musei», voluto per promuovere e valorizzare il patrimonio

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AGENDA DEL MESE e politici dei Besta, che li vollero presenti sulle pareti del Salone d’Onore. La figura di Carlo V è l’occasione dunque per leggere da uno specifico angolo visuale alcuni dei soggetti e dei temi che legano il Palazzo e la famiglia Besta al territorio e alla storia europea loro contemporanea. info tel. 0342 781208; e-mail: drm-lom.palazzobesta@ beniculturali.it ACQUI TERME (ALESSANDRIA) GOTI A FRASCARO. ARCHEOLOGIA DI UN VILLAGGIO BARBARICO Museo Archeologico di Acqui Terme

storico-artistico e archeologico italiano conservato nei depositi dei luoghi d’arte statali, mettendo cosí in collegamento musei grandi e piccoli. L’opera giunta a Palazzo Besta, un Ritratto di Carlo V a figura intera armato, è stata realizzata da Tiziano Vecellio e dai suoi collaboratori: databile al 1550 circa, proviene dalle collezioni della Galleria degli Uffizi. È un esempio di «ritratto di Stato» introdotto da Tiziano in luogo del piú tradizionale ritratto di corte. Il grande ritratto di Carlo V è messo a confronto con l’effigie dello stesso imperatore affrescata nel Salone d’Onore di Palazzo Besta a Teglio e dialoga con alcuni dei piú illustri personaggi che lo hanno incontrato, come Ludovico Ariosto, Erasmo da Rotterdam, Pietro Aretino; ma anche con i suoi antagonisti politici: Francesco I di Francia, Massimiliano d’Austria, Enrico VIII d’Inghilterra. Tutti, in diverso modo, erano contemporaneamente al centro degli interessi culturali

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fino al

27 maggio 2023

L’esposizione presenta per la prima volta insieme i materiali restituiti dalle indagini archeologiche condotte negli ultimi vent’anni nel tratto di pianura compreso tra la Statale Alessandria-Acqui e il fiume Bormida. Sull’ampio terrazzo fluviale che ha conservato testimonianze di insediamenti pre- protostorici, alcune famiglie gote occuparono un impianto di conduzione agricola di epoca romana imperiale, al quale

diedero nuovo impulso, fondando un villaggio di capanne in legno e seppellendo i propri defunti in un cimitero posto a breve distanza dall’abitato. I Goti di Frascaro vissero separati, ma non isolati, dalla popolazione romana per quasi un secolo (dalla fine del V al terzo venticinquennio del VI secolo), mantenendo tradizioni tipiche della cultura barbarica. info tel. 0144 57555; e-mail: info@acquimusei.it: www.acquimusei.it

8 luglio (ore 18,00), Palazzo Te (Spazio Te): Francesco Morena, Mantova, i Gonzaga e il collezionismo di esotica. info www.mantovaducale. beniculturali.it CACCAMO (PALERMO) LE GIORNATE MEDIEVALI: UN SALTO NEL PASSATO Castello fino all’11 dicembre

Appuntamenti MANTOVA NATURALIA E MIRABILIA Palazzo Ducale fino all’8 luglio

All’indomani dell’apertura al pubblico della Galleria delle

Metamorfosi di Palazzo Ducale, con il nuovo allestimento dedicato alla rievocazione della «camera delle meraviglie» gonzaghesca, è stato organizzato un ciclo di conferenze volte ad approfondire il tema delle scienze a corte e del collezionismo eclettico. Questo l’ultimo appuntamento in programma:

Curata dalla Società Italiana per la Protezione dei Beni Culturali-Sezione Regione Siciliana (SIPBC Sicilia), con la collaborazione del Comune di Caccamo e il patrocinio gratuito della Federazione Storica Siciliana, l’iniziativa propone rievocazioni storiche che si ripetono ogni mese. Fino a dicembre, presso il Castello medievale, si può assistere a una rievocazione intervallata da momenti di narrazione e spiegazione degli ambienti della fortezza. Il programma inizia alle 10,00 nella Sala Prades del Castello, per poi concludersi al baglio centrale. I visitatori saranno accompagnati alla visione commentata delle sale del piano nobile del maniero da figuranti in abito d’epoca. Questo il calendario delle prossime giornate: domenica 17 luglio; domenica 21 agosto; domenica 18 settembre. info tel. 091 8149744, cell. 339 3721811 o 320 0486901; e-Mail: sipbc.regionesiciliana@gmail.com, sicilia@sipbc.it luglio

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dante a bismantova Ritratto allegorico di Dante (particolare), dipinto del Bronzino (al secolo, Angiolo Tori). 1532-1533. Firenze, Collezione privata. Nella pagina accanto la Pietra di Bismantova in una veduta autunnale, con il crinale appenninico imbiancato dalle prime nevicate.

In viaggio con Dante

ALLA SCOPERTA DEL VERO MONTE DEL PURGATORIO di Giuseppe Ligabue e Clementina Santi


Cinque anni di ricerche intense e avventurose, negli archivi, nei borghi, nei castelli e nelle pievi della Lunigiana e dell’Appennino tosco-emiliano: due studiosi, Giuseppe Ligabue e Clementina Santi, si sono messi sulle orme (nel senso piú letterale del termine) del Poeta, per ricostruire il percorso che l’exul inmeritus, costretto ad abbandonare la Toscana, aveva intrapreso alla volta di un «nuovo ostello». Un cammino lungo e complesso («il poeta ebbe a spostarsi in quasi mezza Italia») e per il quale non esiste una documentazione precisa, né riguardo ai luoghi né alle date. Eppure, le indagini dei due studiosi, confluiti in un volume denso e dalla scrittura limpida e appassionata, hanno colto nel segno: personaggi, luoghi e accadimenti storici si combinano per avvalorare ipotesi piú che verosimili, suggerendo tracciati, luoghi e tempi di un’odissea medievale di cui ora è possibile ripercorrere le tappe fondamentali. A partire dal soggiorno a Reggio – dove il Poeta sarà ospite dell’amico guelfo, Guido da Castello – e dal suo passaggio in un monastero situato nella lingua di terra che separa il Golfo di Lerici dalla foce del Magra, e da dove avrà inizio la sua attraversata dell’Appennino in direzione della Pianura Padana. È nel corso di quel cammino che Dante incontrerà un monumento naturale destinato a svolgere un ruolo di primo piano nella seconda cantica della Commedia: la cosiddetta Pietra di Bismantova, un massiccio roccioso, isolato e dal profilo inconfondibile, formatosi 15 milioni di anni fa, che, a 1000 m di altezza, si distende in un vasto altipiano lungo 1 km e largo 240 m. Dante ne accenna cosí nella Commedia: «montasi su Bismantova in cacume con esso i pié; / ma qui convien ch’om voli» (Purgatorio IV, 26-27). Ma qual è stato l’esito di quella primaverile ascesa «in cacume»? La risposta nel racconto e nelle immagini delle pagine seguenti… A. M. S. 29


dante a bismantova

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n Italia non v’è città che non abbia una via o una piazza intitolata a Dante. Molti luoghi della Valle Padana e della Toscana hanno un monumento, un busto, o una lapide che ricorda il suo passaggio o soltanto l’eco del suo passaggio, ma ben poche sono in realtà le tracce sicure dello spostarsi del poeta da una località all’altra. Cosí è anche per il viaggio che lo ha visto salire sulla Pietra di Bismantova che si trova nel Reggiano. Abbiamo pensato che fosse necessario partire dai legami che uniscono Dante Alighieri a questo territorio, seguendo le possibili tracce, e in alcuni casi, soltanto l’eco, del suo passaggio. Non mancano nelle sue opere riferimenti

«Mi capita di domandarmi – e molto seriamente – quante suole di scarpe, quante suole di cuoio, quanti sandali abbia consumato Alighieri nel corso della sua opera poetica girovagando per i sentieri delle capre in Italia. L’Inferno e ancor di piú il Purgatorio celebrano l’andatura umana, la misura e il ritmo del camminare, il piede e la sua forma. Il passo, coordinato con il respiro è saturo di pensiero: nella concezione di Dante è questo il principio della metrica» Osip Emil’evic Mandel’štam, Conversazione su Dante, 1933 reggio emilia

Una delle piú antiche università d’Italia

Reggio Emilia. Una veduta della Sala della Ragione all’interno del Palazzo del Capitano del Popolo.

certi che legano Dante a Reggio (di Lombardia come allora si chiamava), come i versi della Commedia riguardo a Bismantova, le citazioni nel Convivio e nella Commedia inerenti il cittadino reggiano Guido da Castello, e l’affermazione del

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Reggio di Lombardia occupava un posto significativo nel panorama trecentesco dei liberi comuni italiani. Ancora risentiva del ruolo di preminenza conseguito due secoli prima, nel tempo in cui vi regnavano gli Attonidi. Quello era anche il momento in cui il vescovo di Reggio era vicario del papa nel Nord Italia. La contemporanea presenza della qualificata cancelleria di Matilde di Canossa e dell’importante cattedra vescovile reggiana aveva favorito il crescere del numero di notai, amanuensi, miniatori di codici, preti e frati, orefici e artigiani di ogni sorta; insomma la città poteva contare su un ambiente culturale elevato, bisognoso di avere continui rudimenti di studio. La prima notizia di una scuola laica a Reggio con l’insegnamento delle arti liberali risale alla metà dell’XI secolo e, dal 1035 circa al 1077 circa, ebbe come dottissimo maestro Sichelmo. Esperienza, questa, che anticipa quindi quella bolognese di insegnamento giusromanistico giustinianeo che farà capo a Irnerio. L’università reggiana fu una delle piú antiche d’Italia. Nei documenti dell’archivio vescovile di Reggio si apprende che lo Studium Regiense attirava studenti dall’estero e da numerose città italiane, anche molto lontane, e pure dalla vicina Bologna. De vulgari eloquentia, dove Dante asserisce che nessuno nelle città emiliane (Ferrara, Modena e anche Reggio), fu buon poeta. E non mancano neppure nel Reggiano luoghi che la tradizione popolare vuole legati al passaggio di Dante.

Luoghi e paesaggi che vorremmo che Dante avesse visitato: (...) lungo il probabile tracciato che collega il passo del Cerreto a Bismantova ancora si indica una roccia chiamata «il sasso di Dante». Nel borgo di Burano, appena fuori dell’abitato luglio

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Mantova

Piacenza

Rovigo

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Parma Reggio nell’Emilia

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La Spezia

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Cesena Rimini

Pistoia

Lucca Pisa

Firenze

A sinistra cartina con la localizzazione di Bismantova. A destra il Palazzo del Capitano del Popolo a Reggio Emilia.

Costruito nel 1280, l’edificio è stato restaurato e restituito nelle forme attuali nel 1931.

Particolare della pianta Camuncoli raffigurante Reggio di Lombardia com’era alla metà del Cinquencento, circondata da

mura merlate. Nel cerchio la domus di Guido da Castello, l’amico guelfo che ospitò Dante durante il suo soggiorno reggiano.

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Pergamena miniata con il testo della Divina Commedia (Purgatorio) e la raffigurazione di Dante, Virgilio e Forese. Reggio Emilia, Museo dell’Archivio di Stato. Nella pagina accanto il drago con sette teste coronate e coda terminante con testa coronata, allegoria della persecuzione della Chiesa, dalla Cronica Imperatorum, del notaio reggiano Alberto Milioli, XIII sec.

Il Liber Figurarum

Le «figure» di Gioacchino Nella seconda metà del Duecento era attivo a Reggio il notaio Alberto Milioli, miniatore e copista: nelle opere di sua produzione, o semplicemente da lui trascritte, troviamo testimonianze di «figure» celebri che rimandano a quelle dell’abate calabrese Gioacchino da Fiore vissuto nella seconda metà del XII secolo. Il monaco cirstencense Gioacchino era nato a Celico, nel Cosentino, intorno al 1130. Stimato dai papi e in odore di santità entrò in contrasto con il suo ordine, che considerava ormai troppo ricco e mondano, e fondò sui monti della Sila il monastero riformato di S. Giovanni in Fiore, da cui il nome di Gioacchino da Fiore; qui morí nel 1202. In seguito il suo nome venne associato ai principali movimenti di contestazione religiosa al punto da renderlo sospetto di eresia. In particolare, nel codice Cronica Imperatorum del Milioli appare un drago apocalittico che sembra proprio esemplato su una «figura» di Gioacchino.

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di Castelnovo ne’ Monti, la gente chiama «casa di Dante» un’antica casa-torre trecentesca dove la tradizione locale vuole che Dante abbia pernottato lungo il suo viaggio a Bismantova (una traccia del suo passaggio era testimoniata da una lapide, ora perduta, che riportava alcuni versi a lui attribuiti). Abbiamo poi le attestazioni di antichi commentatori della Commedia che con sicurezza dichiarano che Dante soggiornò a Reggio Emilia. E ancora possiamo individuare nei versi del Paradiso riscontri con

Possiamo dunque pensare che questo notaio reggiano possedesse una copia del Liber Figurarum. La sua Cronica Imperatorum è in relazione con la Cronica di Salimbene de Adam (12211288), il frate francescano minore, che ha scritto la sua importante opera negli ultimi cinque anni di vita trascorsi nel convento francescano di Montefalcone (Reggio Emilia), dove morí nel 1288. Salimbene, per sua stessa ammissione, si dichiarò seguace delle dottrine di Gioacchino da Fiore, tanto che nel suo lavoro cita per ben tre volte un Libro delle Figure. Se ne può dedurre quindi che questo frate si riferisse al Liber Figurarum di Gioacchino, e che anche lui potesse possederne una copia. Di quest’opera (Liber Figurarum), un tempo molto diffusa, soprattutto nell’Italia meridionale, attualmente si conoscono solo tre esemplari, presenti rispettivamente presso il St. Anne’s College di Oxford, il museo di Dresda e quello attualmente custodito presso il Museo Diocesano di Reggio, scoperto nel 1936 da Leone Tondelli, sacerdote reggiano (1883-1953), che lo mise in minuzioso rapporto con le figure allegoriche del Paradiso dantesco. Dante si trovava certamente nell’impossibilità di consultare con regolarità codici e libri. I suoi erano rimasti nella sua casa fiorentina di

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Porta San Pietro, altri, che avevano alimentato i suoi studi, si trovavano nello studium domenicano di S. Maria Novella o in quello francescano di Santa Croce dove, giovanissimo, aveva avuto modo di frequentare il predicatore e teologo francese Pietro di Giovanni Olivi (Pèire de Joan-Oliu) che amava le teorie di Gioacchino da Fiore. Dunque è assai probabile che fosse sempre alla ricerca di libri nelle città in cui capitava, presso le corti o le famiglie che lo ospitavano, capace com’era — scrive il Boccaccio — di trascriverne

velocemente brani o di mandarne a memoria significative informazioni. Possiamo dunque pensare che nel suo soggiorno reggiano, ospite di Guido da Castello, l’esule Alighieri non abbia incontrato difficoltà a prendere visione di una copia del Libro delle Figure, dal momento che negli studia, nei circoli e negli ambienti politici e culturali di Reggio probabilmente già avevano trovato eco le sue vicende di esule e la fama delle opere poetiche e filosofiche che già si erano affermate prima a Firenze e successivamente nelle corti delle vicine signorie.

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dante a bismantova

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A destra la Verrucola de’ Bosi, citata per la prima volta nei documenti del 1044. Il castello occupava una posizione strategica lungo i percorsi transappenninici tra la Lunigiana e il territorio reggiano.

la lunigiana

Una regione tra Toscana e Liguria La Lunigiana è una regione storica situata tra la Toscana settentrionale e la Liguria di Levante, amministrativamente divisa tra le Province di Massa Carrara e La Spezia. Prende nome dall’antica città patrizia di Luni e la dimensione storica del territorio corrisponde ai confini della sua antichissima Diocesi. Per la posizione e le peculiari caratteristiche geografiche-morfologiche, la Lunigiana è sempre stata una terra di passaggio, un corridoio naturale tra la Toscana, l’Emilia e la Liguria. Per la sua collocazione occupa un posto di primo piano nelle vicende dantesche. A sinistra il marchese Franceschino Malaspina ospita Dante nel suo castello di Mulazzo. Castello di Fosdinovo, Salone delle Feste.

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un importante manoscritto: il Liber Figurarum di Gioacchino da Fiore, di cui a Reggio si conserva una copia (vedi box alle pp. 32-33). Possiamo contare inoltre su una molteplicità di situazioni, di eventi storici, e di altri personaggi che legano il poeta a Reggio Emilia, città non secondaria nella realtà medievale padana dei primi anni del Trecento, gli anni, appunto, in cui l’esule fiorentino si muoveva di qua e di là dall’Appennino. Francesco Saverio Gatta, nel suo saggio Echi e vicende dantesche

nella Reggio del ’300 (1966) scriveva: «In tutta la odissea dell’esilio [di Dante] in realtà mancano o vi sono scarsi documenti che testimonino le date precise del soggiorno dell’Alighieri nell’una o nell’altra località. Colpa veramente dello stesso Dante che ebbe a spostarsi in quasi mezza Italia, senza mai lasciare alcuna traccia di sé; nulla di suo ci è pervenuto, sicché la esatta cronologia delle peregrinazioni dantesche risulta incerta. Si dovrà necessariamente ripiegare sulla tradizione o su induzioni e sulla interpretazione logica dei fatti e delle circostanze». Tutto vero, anzi verissimo. Tuttavia, un’eccezione c’è, almeno per quanto ci riguarda: esistono due punti fermi, due documenti rinvenuti fortunosamente nel 1765 nel corso di ricerche d’archivio, che rappresentano l’unica testimonianza certa della presenza di Dante, in un determinato momento e in un determinato luogo, dell’intero periodo dell’esilio. Si tratta di due documenti entrambi datati 6 ottobre 1306, ora conservati presso l’Archivio di Stato di La Spezia, stilati dal notaio sarzanese ser Giovanni Parente di Stupio, il primo a Sarzana e il secondo a Castelnuovo

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dante a bismantova Magra. Li prendiamo in esame per una qualche attinenza che, il luogo (la Lunigiana) e l’anno (1306), possono avere con il viaggio di Dante a Reggio e a Bismantova. La situazione politica della Lunigiana fra Due e Trecento era alquanto complessa. Il territorio era in parte governato dal vescovoconte di Luni e in parte dai Malaspina dello Spino Secco; i loro feudi però non erano nettamente separati, ma si incuneavano gli uni dentro gli altri rendendo cosí incerti i confini; addirittura i diritti feudali di alcuni paesi erano divisi tra i marchesi e il vescovo. Proprio a causa di queste terre in comune, nel 1280 era scoppiata una guerra Il castello di Fosdinovo (in primo piano) che domina la valle del Magra e, sullo sfondo, separato dal promontorio di Lerici, il Golfo di La Spezia.

tra il vescovo Enrico da Fucecchio e i marchesi di parte ghibellina, per i castelli di Bolano e della Brina (Ponzano Magra).

Negoziatore di pace

Scontri armati si protrassero per sette anni in un susseguirsi di incendi, saccheggi e danni, portando rovina a tutte le fazioni che vi erano coinvolte. Era necessaria una risoluzione politica del conflitto. Si cercò di conseguenza un negoziatore abile e di prestigio che venisse accettato da entrambe le parti. L’abile e prestigioso negoziatore venne individuato in Dante Alighieri, uomo che in passato aveva già svolto con successo compiti analoghi. Non esistono informazioni certe sul percorso che il poeta seguí per raggiungere i luoghi dei negoziati, luoghi che, verosimilmente, avrà visitato di persona

prima di formulare la sua proposta alle parti in causa per il raggiungimento di un ragionevole compromesso. D’altra parte, è altrettanto verosimile che Dante, prima di accettare l’incarico, abbia dovuto negoziare anche i termini dell’ampia e complessa procura notarile conferitagli dai Malaspina. Proveniente forse da Pistoia, dove aveva lasciato il suo amico Cino, Dante soggiornò in Lunigiana con certezza dall’aprile del 1306, come dimostrato dal termine ad quem stabilito sulla base della profezia astronomica posta a chiusura del canto VIII, vv. 133138, del Purgatorio : «Or va; che ’l sol non si ricorca / sette volte nel letto che ’l Montone / con tutti e quattro i piè cuopre ed inforca, / che cotesta cortese oppinione / ti fia chiavata in mezzo de la testa / con maggior chiovi che d’altrui sermone…». («Ora va; che il sole non entrerà sette volte nella costellazione che il Montone, cioè l’Ariete, copre e riempie con tutte e quattro le zampe, che questa tua generosa opinione ti sarà conficcata in testa con chiodi ben maggiori che l’opinione degli altri»). In sostanza non sarebbero passati sette anni che Dante avrebbe sperimentato di persona la cortese ospitalità dei Malaspina. Soltanto sei mesi dopo l’incarico si pervenne alla difficile pace, stipulata a Castelnuovo di Magra il 6 ottobre del 1306.

Verso il monastero

In una data imprecisata, intorno al 1314-1315, sulla base di una discussa epistola di frate Ilaro del monastero di Santa Croce del Corvo sito nella penisola di Lerici, sopra la foce del fiume Magra, si registra il passaggio di Dante da quel convento, diretto verso la Pianura Padana attraverso il passo del Cerreto… 36

Nel 1308 Dante forse è a Lucca, nel 1310-1311 sembra trovarsi a Forlí. Noi pensiamo che già nel 1314 o nell’anno successivo, l’Alighieri – consapevole della condanna di morte che sarebbe stata emessa di lí a poco dal Comune di Firenze – si determinò a lasciare per sempre la Toscana, per tornare dagli Scaligeri a Verona, un porto sicuro, una corte che già conosceva per esservi stato ospite di Bartolomeo della Scala dieci anni priluglio

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Carta del Ducato di Modena, 1848. Il particolare mostra l’antica via che Dante potrebbe aver percorso nel suo viaggio dal promontorio di Capo Corvo a Fosdinovo, diretto verso il passo del Cerreto.

ma e che intratteneva fitti rapporti con i Malaspina. In quel momento il poeta probabilmente si trovava a Pisa (dove aveva trovato ospitalità alla corte di Uguccione della Faggiola) e la strada piú breve per raggiungere Verona, «la cortesia del gran Lombardo», risaliva la Lunigiana e, attraverso il valico dell’Ospedalaccio (oggi Cerreto), raggiungeva Bismantova e scendeva quindi a Reggio, dove Dante poteva contare sull’ospitalità dell’amico Guido da Castello. Messosi in cammino lungo l’Aurelia, troviamo Dante bussare alla porta del convento benedettino di Santa Croce del Corvo, situato all’estremità del promontorio che si affaccia sul golfo di Lerici alla foce del Magra (in faucibus Macre). Secondo la maggior parte degli studiosi siamo nell’anno 1314. Siamo in un giorno imprecisato della tarda primavera del 1315 (o di qualche anno prima o dopo, ma questo poco importa). All’epoca in cui vi si fermò Dante, il convento era ancora dipendente dal monastero benedettino di S. Michele di Pisa, elemento non trascurabile dal momento che il Poeta probabilmente veniva da quella città. Il monastero che dominava Bocca di Magra era un punto di passaggio obbligato per chi dalla Toscana si incamminava verso la Pianura Padana attraverso il valico del Cerreto ed era anche una tappa fondamentale del «cammino del Volto Santo» di cui, nel monastero si conserva una antica immagine lignea. Gli apre la porta il priore, frate Ilaro, forse un Malaspina, il quale si rivolge allo sconosciuto viandante con la domanda su che cosa cercasse: «interroga-

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vi quid peteret». Dante, dopo essersi silenziosamente guardato intorno, rispose «pacem», pace. Una volta lasciato il monastero del Corvo possiamo immaginare che Dante si sia incamminato lungo la strada detta «Lombarda», assai frequentata nell’Alto Medioevo, la quale passava da Fosdinovo, località posta in prossimità delle antiche rovine di Luni e dove la tradizione vuole che ancora una volta il poeta abbia trovato onorevole ospitalità presso i Malaspina. Tenuto conto del documento del 1306 sopra citato e considerato che il borgo di Fosdinovo viene menzionato nei documenti della Pace di Castelnuovo, quale residenza dei «nobili (...) Puccio e Francino de

La Musca» (elemento che conferma la buona conoscenza di quel luogo da parte di Dante), può essere verosimile che l’Alighieri nel suo viaggio verso il Cerreto abbia effettivamente sostato a Fosdinovo o presso altri signori da lui incontrati in precedenza durante il suo lungo soggiorno in Lunigiana. Da Fosdinovo l’esule avrà raggiunto poi l’antica via mercantile che dal Golfo portava «di là dai monti», seguendo il tracciato che risale la destra del torrente Rosaro e si snoda agevolmente verso il crinale. Il percorso di questa vecchia direttrice è ancora ben visibile; esposto al sole, esso è fiancheggiato di tanto in tanto da alti cipressi con le poche abitazioni

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dante a bismantova Pala lignea della prima metà del XVI sec., di anonimo emiliano, raffigurante la Madonna in gloria fra i santi Faustino e Giovita. Al centro è raffigurata la Pietra di Bismantova. Rubiera, pieve di S. Faustino.

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rurali circondate da oliveti nonché da piccoli vigneti che interrompono il dominio del bosco. È possibile seguire passo passo, il probabile percorso compiuto da Dante lungo quello che può essere considerato il viaggio piú doloroso per il Poeta – che ha ormai abbandonato per sempre la speranza di un possibile rientro nella sua amata Firenze –, incontrando i luoghi che sono ancora quelli di oggi.

Ripreso il cammino, il poeta avrà ben presto raggiunto Sassalbo, ultimo punto di sosta prima dell’attraversamento del crinale. A quel tempo, proprio sul passo, esposto ai venti dei due versanti, era ancora possibile trovare rifugio presso quell’ospitale (S. Lorenzo in Alpibus), che la tradizione vuole di origine matildica, addossato alla sua chiesetta dedicata a san Lorenzo, prezioso soprattutto nei lunghi

mesi invernali. Dopo aver superato il valico, Dante avrà proseguito lungo l’antica via, da sempre percorsa dai montanari, che, costeggiando il monte Casarola, raggiungeva il passo della Scalucchia, posto sul crinale che divide la vallata del fiume Secchia da quella dell’Enza. Da qui sarà sceso sino al borgo di Busana puntando verso il faro-guida della Pietra di Bismantova, ben riconoscibile anche da lontano. Veduta della Pietra di Bismantova, ripresa dalla stessa angolatura da cui è stata ritratta dall’anonimo emiliano nella pala raffigurata nella pagina precedente.

«In cacume»

Sulla vetta di Bismantova Molto si è dibattuto nei secoli scorsi sul termine cacume. In effetti nella maggioranza degli antichi manoscritti della Commedia si legge: «Montasi su Bismantova e in cacume», sicché, in passato, alcuni studiosi hanno pensato che Dante volesse dire: «Montasi sul monte di Bismantova e sul monte cacume», una cima dei monti Lepini dell’Antiappennino laziale. Trascurando il fatto che la «c» di cacume è scritta in minuscolo, e sposando il testo proposto da Edward Moore (18351916), fondatore della Oxford Dante Society e instancabile esploratore di antichi codici danteschi, che non riporta la «e», la maggior parte dei commentatori piú recenti concorda sulla tesi che il poeta intendesse dire che si poteva salire non solo sul monte ma proprio sulla vetta (cacume) di Bismantova, «con esso i pié» (con i propri piedi), cioè camminando.

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dante a bismantova Il santuario, noto anche come eremo, della Pietra di Bismantova, annidato nell’ampia caverna naturale che si apre alla base del contrafforte roccioso sul lato sud. In basso l’eremo di Bismantova in una stampa del 1848.

È proprio nell’ultimo tratto che il poeta avrà potuto ammirare la Pietra di Bismantova. Gli sarà apparsa, quasi improvvisa, come un’aspra isola rocciosa circondata da un mare verde, che «si dislagava» verso il cielo, ma che in alto sembrava distendersi in una riposante piana. Da quella visione sarà nato il desiderio di «montarci» sopra, ben comprendendo che raggiungere quella radura, «in cacume», avrebbe comportato un’aspra fatica…

La scenografia del Purgatorio

È questo il momento in cui occorre richiamare alla mente la configurazione del Purgatorio dantesco. Dante e Virgilio, usciti dalla voragine infernale attraverso la «natural burella», si trovano sulla spiag-

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Da leggere Giuseppe Ligabue, Clementina Santi, Dante a

Bismantova. Viaggio alla montagna del Purgatorio, Corsiero Editore, Reggio Emilia 2021; 248 pp. ISBN 978-88-32116-90-8 www.corsieroeditore.it

gia di un’isola deserta situata nell’emisfero australe. Nel mezzo dell’isola si innalza la montagna del Purgatorio, sulle cui pendici il poeta colloca, come sui gradini di una scala che ascende erta verso il cielo, le anime dei penitenti. La montagna è suddivisa in nove settori (nove è numero simbolico multiplo di tre, che rappresenta la Trinità, come nove erano i gironi dell’Inferno e nove saranno i cieli del Paradiso). La zona piú bassa della montagna, prima della porta del Purgatorio, è l’Antipurgatorio dove sono collocate le anime che non sono ancora degne di iniziare il cammino di purificazione; sette cornici o balze costituiscono il Purgatorio vero e proprio, dove i penitenti espiano i loro peccati o meglio la tendenza a peccare che ebbero in vita; alla sommità c’è il Paradiso terrestre. Durante il viaggio di avvicinamento a Bismantova, Dante avrà potuto lungamente ammirare l’imponenza e la singolarità di quella montagna che appariva sospesa come un’isola in un mare di nuvole (o di nebbia) o come una grande incudine di roccia in un catino verde di prati, di boschi e di campi. Erano gli anni in cui Dante stava lavorando al Purgatorio. Ci piace immaginare Dante, prima affascinato dalla mole della rupe, che è davvero spettacolare – oggi come allora – sul lato rivolto a mezzogiorno; poi teso a cercare una via per salire, ed esplorare

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Il monte del Purgatorio nell’affresco di Domenico di Michelino La Divina Commedia illumina Firenze. 1465. Firenze, S. Maria del Fiore.

quella piccola chiesa incastonata nella roccia ai piedi della falesia. Un luogo e una chiesa che gli ricordavano altri luoghi di eremitaggio e di preghiera, quei suggestivi monasteri abbarbicati alle pareti rocciose di molte regioni d’Italia, cosí frequenti in tempi di monachesimo benedettino.

In cerca del sentiero

Man mano che si avvicinava alle pendici della Pietra, pellegrino fra i pellegrini, andava col pensiero ai luoghi rupestri che già conosceva e che divenivano via via i riferimenti paesaggistici e geografici per il poema: la dirupata costiera ligure che si estende tra Lerici nel golfo di La Spezia, e La Turbie che è un villaggio presso Monaco; luoghi e versi che anticipano i piú

noti «vassi in San Leo e discendesi in Noli» (Purg. IV, 25). E subito la ricerca del sentiero: c’era bisogno di individuare «da qual man la costa cala» (v. 52) perché potesse salire «chi va senz’ala» (v. 54). Ma, scrive desolato il Poeta, «qui convien ch’om voli» (v. 30). Proseguendo verso il borgo di Campolungo, ai piedi della rupe, dove era possibile sostare per la notte, avrà maturato il desiderio di salire sino in cacume di quel singolare monte e di visitare quel luogo nascosto che prometteva pace e sacralità. E perché non immaginare che Dante abbia potuto fissare sulla carta qualche tratto del paesaggio che aveva davanti agli occhi per la scenografia del Purgatorio a cui stava lavorando?

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La guerra come

professione

di Leo Donnarumma

Battaglia di San Romano, tempera su tavola di Paolo Uccello. 1435-1440 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi. L’opera celebrava la vittoria dei Fiorentini sulle truppe senesi e sull’alleanza guidata dal duca di Milano nella battaglia combattuta appunto a San Romano (Pisa) nel 1432.

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Nel linguaggio contemporaneo, il termine «mercenario» si è colorato di un’accezione negativa. In realtà, dedicarsi al mestiere delle armi era tutt’altro che sconveniente e, anzi, esistevano norme ben precise per chiunque avesse voluto praticarlo. Come provano, fra gli altri, i condottieri anghiaresi divenuti celebri per le proprie capacità belliche e strategiche

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l tema della guerra nel primo Rinascimento è stato riportato sotto la luce dei riflettori della storiografia italiana grazie ad alcuni convegni e incontri culturali che si sono tenuti sia presso il Museo Comunale della Battaglia e di Anghiari, nella cittadina omonima, sia presso l’Università degli Studi di Napoli «Federico II». L’incontro tra l’amministrazione comunale del centro toscano e varie istituzioni culturali ha inaugurato una nuova stagione di studi che scontorna e meglio chiarisce cosa possa essere definito come ceto mercenario. Questi combattenti, che per piú di cento anni servirono gli Stati della Penisola, ebbero modo di incontrarsi anche presso Anghiari, ed è significativo che un campo fertile in cui far fiorire il confronto tra discipline differenti sia sorto proprio nei pressi del teatro di una battaglia che vide affrontarsi diverse compagnie di ventura all’interno dei rispettivi eserciti e diede vita a un mito, tanto a livello letterario quanto artistico. A partire, infatti, dalla mostra «Arte di Governo e la battaglia di Anghiari» (2019), fino alla piú recente «Il Papa guerriero. Giuliano della Rovere e gli uomini d’arme di Anghiari» (visitabile fino al prossimo 25 settembre), studiosi e istituzioni, tra cui le Gallerie degli Uffizi, hanno potuto confrontarsi e cercare di definire i contorni di una porzione della società italiana ancora poco conosciuta. L’esposizione racconta le relazioni del futuro papa Giulio II con i nobili del borgo toscano, nel quale il pontefice venne ospitato da Mazzone di Gregorio nell’ottobre del 1476. Maz-

In alto Contrattacco di Michelotto da Cotignola, pannello facente parte del ciclo della Battaglia di San Romano (vedi foto alle pp. 42/43), tempera su tavola di Paolo Uccello. 1435-1440 circa. Parigi, Museo del Louvre. A sinistra il profilo di papa Giulio II (al secolo, Giuliano Della Rovere) in una medaglia in bronzo attribuita a Caradosso Foppa. 1506. Washington, National Gallery of Art.

zone era uno degli uomini d’arme anghiaresi che combatterono agli ordini di Federico da Montefeltro. Anghiari forniva all’epoca soldati e cavalieri a vari eserciti delle signorie italiane e oggi diventa il luogo nel quale si riflette sul mestiere della guerra nel XV secolo. Sul ruolo dei combattenti mercenari nel corso dei secoli ha pesato un grave pregiudizio storiografico – le cui radici sono state recentemente indivi-

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duate da Francesco Storti nel XII capitolo del Principe di Machiavelli – a cui si è aggiunta, dopo la seconda guerra mondiale, una generale repulsione degli accademici verso lo studio della storia militare.

Sotto la lente degli storici

Occorre tuttavia evidenziare che quando gli storici si sono approcciati direttamente alle fonti, non sono mancati risultati notevoli. Tra questi, possiamo senza dubbio annoverare la Storia delle compagnie di ventura in Italia (1847), di Ercole Ricotti, in cui, però, sospinto dallo spirito positivista dell’epoca, l’autore cerca di dimostrare che il mercenarismo possa aver rappresentato un punto di partenza per la futura libertà nazionale proprio grazie all’utilizzo delle armi. Per meglio comprendere questi combattenti, è interessante esaminare la ricca produzione artistica – ritrattistica, scultorea, sacra e non – che, tra il 1470 e

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il 1520, ritrasse i soldati di professione. Questi ultimi, in realtà, da un certo periodo in poi furono chiamati mercenari, in senso dispregiativo e molto distante dal loro lessico originario. In effetti, ci si riferisce ai soldati di professione per delineare combattenti professionisti che svolgevano un’attività a fine di lucro. Nella vulgata storiografica, ma anche nella comprensione comune, il termine mercenario invece fa riferimento a qualcosa di negativo, che denota scarsa affidabilità, poca serietà e finanche, talvolta, incapacità d’azione vera e propria. In Italia gli studi principali sono iniziati negli anni Settanta grazie allo storico Mario Del Treppo, il quale, indirizzato da Federigo Melis (1914-1973) – e i piú addentro nella materia sapranno che stiamo parlando di maestri della storiografia italiana – verso una fonte inedita, analizzò il registro di Francesco di Viviano d’Arezzo, tesoriere della compagnia di Micheletto degli Attendoli, uno dei piú noti condottieri italiani rinasci-

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anghiari medievale/3 mentali. Parallelamente, altri studi, come Mercenaries and their masters (1974) di Michael Mallett (tradotto e pubblicato in Italia per i tipi del Mulino), si sono focalizzati attorno ai grandi principi-condottieri: qui la storia politica e il mecenatismo di questi autorevoli protagonisti della storia finiva per prevalere sulla storia militare e sulla storia sociale della guerra.

Uomini d’arme, paggi e cavalli

La realtà, invece, come ha già dimostrato Del Treppo è ben piú articolata e presenta delle strutture amministrative e tattico-militari molto complesse. La struttura di una compagnia di ventura era costituita da infinite piccole condotte di diversa entità, a loro volta chiamate compagnie o condotte. Tatticamente, l’unità di base – e che veniva schierata anche in caso di scontro – era la «lancia», formata da un uomo d’arme (che nelle fonti rinascimentali assume una diversa denominazione a seconda dell’area geografica in cui le fonti sono prodotte), un secondo armato a cavallo e un paggio. L’uomo d’arme era un combattente a cavallo in armatura completa a piastre, protetto dalla testa ai piedi, e con finanche il cavallo pesantemente corazzato. Il secondo combattente, usualmente meno corazzato del primo era parimenti capace in battaglia. Il terzo membro, il paggio o ragazzo, doveva badare agli eventuali cavalli di riserva e utilizzava i ronzini, e non i cavalli da guerra, per il traino degli equipaggiamenti e delle armi. A seconda del contratto stipulato, la lancia riceveva una specifica paga: quando Micheletto fissò il compenso della condotta per Venezia, ogni lancia riceveva 50 lire mensili, di cui poco piú di 22 spettavano al capo-lancia. Oltre a questi tre cavalli, l’uomo d’arme poteva decidere di averne con sé alcuni di scorta: i fiscalissimi tesorieri registravano quindi ogni cavallo da guerra in piú come 1/3 di lancia. Questa digressione sui terzi di lancia ci offre l’opportunità di affrontare il tema della composizione degli eserciti. Il Quattrocento è un momento di grande sperimentazione, anche nel campo militare: se in Italia la lancia resta ferma a tre combattenti (ma in alcuni casi se ne possono aggiungere altri extra-lancia e quindi assoldati individualmente), nel resto d’Europa assistiamo a una dilatazione organica relativa al numero di combattenti necessaria a far fronte alle diverse realtà militari del continente. In Francia, per esempio, i sovrani furono impegnati, almeno fino al 1453, a far fronte alla fase finale della guerra dei Cent’anni, inizialmente molto critica e poi gradualmente piú favorevole alla monarchia gigliata anche perché era avvenuta una modificazione nel numero dei combattenti: qui, infatti, la lancia non era piú formata soltanto dai due combattenti pesanti a cavallo, che pure rappresentavano ancora il fior fiore della

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Nella pagina accanto Battaglia di San Flaviano, tempera su pergamena di Valerio Mariani. 1608. Firenze, Galleria degli Uffizi. Lo scontro si combatté nel 1460, presso Giulianova.

cavalleria francese, ma si erano aggiunti vari tiratori a cavallo o appiedati, fino a un numero massimo di 7 uomini per lancia, di cui almeno 5 combattenti. I Francesi avevano in realtà imparato a conoscere l’odiato nemico inglese e i suoi longbow e avevano iniziato a sperimentare un diverso modo di approcciarsi alla guerra con la lancia cosiddetta «allargata». Tuttavia, nei venticinque anni di attività di cui abbiamo documentazione, la compagnia di Micheletto presenta una struttura ben rigida e costante. Circa un centinaio di lance singole avevano infatti stipulato con Micheletto un contratto di condotta per entrare al suo servizio. Le fonti, a questo punto, sono ben chiare nel presentarci un rapporto paritetico tra i diversi condottieri anche nei confronti dello stesso Micheletto. Per questa ragione nel recente saggio Onore mercenario. Ideologia del duello e dell’agonismo marziale di un ceto deprecabile (2019), Francesco Storti ha potuto affermare che i professionisti della guerra, ben lontani da quei valori dispregiativi attribuibili dal termine mercenario, avevano fatto propria «una reputazione, l’onore e i buoni auspici derivanti dalle tenzoni singolari», andando involontariamente a costituire un’ideologia «mercenaria». Per farlo, lo studioso ha portato all’attenzione della storiografia alcuni documenti relativi la battaglia di San Flaviano, combattuta il 22 luglio 1460, presso Giulianova, in provincia di Teramo.

A ciascuno la sua tattica

In questo scontro gli eserciti, oltre a essere composti interamente da compagnie di condotta, erano, in realtà, rappresentanti di due scuole di pensiero differenti. La prassi bellica italiana, infatti, aveva raggiunto un elevato grado di raffinatezza e si potevano riconoscere le tattiche utilizzate da Braccio da Montone, da cui la scuola braccesca, e quelle sforzesche, poiché ideate da Muzio Attendolo Sforza. La prima tattica prevedeva uno scontro violento, in cui la cavalleria veniva fatta caricare continuamente contro il nemico, grazie anche al supporto della fanteria. Le squadre di uomini d’arme si lanciavano contro le fila nemiche e poi tornavano indietro per caricare nuovamente con cavalli freschi. Nel frattempo, la fanteria rincalzava lo scontro, in attesa che la cavalleria pesante avesse sfondato in un punto, permettendo cosí alle riserve, strategicamente tenute da parte, di aprire un varco nello schieramento nemico e costringerlo alla rotta. Della tattica di Braccio da Montone abbiamo una diretta testimonianza grazie alle parole riportate da Giovanni Antonio Campano, vescovo e umanista del luglio

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anghiari medievale/3 XV secolo, il quale, nell’opera L’historie e le vite di Braccio Fortebracci detto da Montone et di Niccolò Piccinino, perugini, riporta il testo della disputa che il condottiero ebbe con Alfonso il Magnanimo, re di Napoli: «Voi Tramontani [si riferisce agli Aragonesi, n.d.r.], che siete nati, et allevati nell’otio, empite le campagne di grossissime schiere di soldati, ma poco prattiche delle cose della guerra, e combattendo animosamente (…) vi date a guisa di fiere precipitosamente correndo nell’armi de’ nemici, et morite piu tosto per cagion della vostra disordinata furia, che per prodezza altrui. Noi siamo pochi a combattere, perché non meniamo fuori alla morte gente disutile, et mal prattica. Nelle nostre guerre non va la gioventú fatta in fretta, delicata, et inesperta, ma quelli, che hanno indurati, et incalliti corpi dal caldo, et dal freddo, i quali infin dalla fanciullezza si sono avezzi a dormire nelle stalle, et hanno imparato a sopportar la polvere, il vento, la fame, la sete, il sonno, et altre fatiche grandissime, senz’alcun piacere, et allevatisi infra l’armi de’ nemici, hanno imparato a disprezzare le ferite, a menare, et a riparare i colpi, et secondo che comporta il luogo, et il tempo, a ferire il nemico hora in una, et hora in altra parte della persona, a servar gli ordini, a esser i primi ad attaccar la battaglia, et in uno istesso tempo a partirsi dalla compagnia, et ire a ferire il nemico, et subito ritornare all’ordinanza, ad osservar con diligenza il cenno del Capitano (…) meglio è servirsi d’un piccol numero bene amaestrato, che d’una mal prattica moltitudine». Queste parole ci fanno capire innanzitutto come fosse percepita la presenza di un esercito straniero – cioè non composto da uomini d’arme italiani – agli occhi dei piú grandi esperti della guerra rinascimentale italiana, e, in secondo luogo, come dovesse essere combattuta una battaglia e di quali valori fossero pregni gli animi dei soldati di professione italiani.

zione identitaria in bilico tra la sfera professionale e dell’onore marziale». Grazie alle fonti documentarie, di cui lo studioso è editore, è stato possibile realizzare altrettante prese dirette sulla vita militare. Emblematico, infatti, per comprendere meglio la vita dei soldati di professione quattrocenteschi e il loro modo di pensare, è l’episodio avvenuto un anno dopo San Flaviano presso Lucera. In questo luogo si verificò – cosa che succedeva assai frequentemente – una disfida tra le truppe aragonesi, comandate direttamente dal sovrano Ferrante I, che assediavano la città in provincia di Foggia, e gli Angioini, guidati dal duca Giovanni di Lorena, figlio di Renato d’Angiò. Dopo aver provocato i nemici francesi chiusi nelle mura, il re aragonese si ritirò verso il suo accampamento con un nulla di fatto. Nel tragitto di ritorno, però, gli ambasciatori milanesi al seguito del sovrano aragonese, riportarono la disfida che un uomo d’arme francese aveva indirizzato ai lancieri napoletani. Lo scontro si risolse, dopo un ferimento reciproco in due punti precisi del corpo, con la rinuncia francese, ma, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, le due fazioni iniziarono a fe-

Manovre complesse

L’altra scuola a cui avevamo accennato, quella sforzesca, faceva invece maggiore affidamento sulle diverse specializzazioni militari su cui un esercito poteva contare: alla velocità d’azione della prima scuola si contrapponeva questa volta l’utilizzo massiccio della fanteria e l’impiego piú riflessivo delle squadre di cavalleria pesante, a cui veniva spesso domandato di effettuare complesse manovre di accerchiamento o finta ritirata. Le due scuole ebbero piú volte modo di scontrarsi fra loro e nella battaglia di San Flaviano manifestarono con estremo accanimento, poiché dalle guerre di successione del ducato di Milano non avevano avuto modo di confrontarsi direttamente. Prendendo quindi come esempio questo scontro e praticando una decostruzione di ogni singolo particolare, Francesco Storti presenta una società incentrata sul militare che aveva ormai realizzato appieno «un processo di costru-

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A destra il condottiero Braccio da Montone (al secolo, Andrea Fortebracci) in una calcografia realizzata da Aliprando Caprioli per l’opera Ritratti di cento capitani illustri. 1596. Trento, Biblioteca Comunale. Nella pagina accanto busto del re Ferrante I d’Aragona. XVI sec. Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte, Galleria Napoletana.

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In alto il plastico ricostruttivo della battaglia di Anghiari esposto nel museo omonimo. A sinistra studio di Antonio Pollaiolo per un monumento equestre dedicato a Francesco Sforza (e mai realizzato), penna e inchiostro su carta. 1482-1483. New York, The Metropolitan Museum of Art.

steggiare e congratularsi tra loro per i risultati ottenuti, nonostante fossero di due schieramenti rivali!! E allora scontri d’onore, tornei e duelli ci presentano un ceto mercenario che esprime, seppur involontariamente, «quell’antica festa crudele» che è la guerra e i valori che essa porta con sé e che ha finito per plasmare l’ideologia di questi stessi soldati di professione. I legami di «compagnonaggio», quindi, si dimostrano molto forti e annullano sia l’inimicizia, sia precedenti differenze sociali e giuridiche, andando a rafforzare, eventualmente, i rapporti di consanguineità. Per diventare uomo d’arme, inoltre, il famiglio – come spesso viene individuato nelle fonti – andava dal maestro nell’arme, proprio come succedeva nelle grandi corporazioni artigiane, poiché anche il mestiere della guerra richiedeva un periodo

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di apprendistato, fucina dei futuri rapporti, oltre a capacità tecniche e qualità morali. C’è da dire, però, che questi personaggi stanno lentamente declinando in seno a una importantissima rivoluzione militare, che vide la nascita degli eserciti permanenti. Proprio a partire dalla seconda metà del XV secolo, infatti, gli Stati italiani ed europei iniziarono a trattenere in servizio annuale – o pluriennale – questi soldati di professione, con strumenti diversi. L’esercito di Venezia, per esempio, è stato studiato dal già citato Mallett nel volume The military organisation of a Renaissance State: Venice c. 1400 to 1617 (1984), in cui l’autore mostra come la Repubblica avesse prolungato i contratti di condotta dal rinnovo annuale fino a rinnovi di cinque o dieci anni. Una situazione simile si registra nel ducato di Miluglio

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(vedi bbiliografia), che ricostruisce le premesse alla riforma ferrandina e l’entità e composizione dell’esercito napoletano, mentre ne I lancieri del Re (2017), si concentra sulla trasformazione da esercito demaniale a «demanio di genti d’arme».

Da condottieri a mecenati

Dove e quando «Il papa guerriero. Giuliano della Rovere e gli uomini d’arme di Anghiari» fino al 25 settembre Anghiari, Museo della Battaglia e di Anghiari Orario tutti i giorni, 9,30-13,00 e 14,30-18,30 Info tel. 0575 787023; e-mail: museobattaglia@ anghiari.it; www.battaglia.anghiari.it

Con la morte di Giacomo Piccinino, poi, nel 1465, scompare anche l’ultimo grande capitano «libero» d’Italia, come è stato recentemente definito da un giovane studioso napoletano. Nell’inquadramento permanente, tuttavia, i professionisti non perdono i loro valori deontologici e diventano, forti della loro preparazione culturale e delle disponibilità economiche, veri e propri mecenati nei piccoli borghi del Centro Italia, come nel caso di Anghiari, che viene completamente ristrutturata tra gli anni Sessanta e Ottanta del Quattrocento grazie alle risorse delle famiglie di uomini d’arme oriunde del luogo. E d’altronde, già Mario Del Treppo aveva avuto modo di sottolineare quanto questi uomini d’arme fossero veri professionisti della guerra e, come tali, capaci di ridurre il nemico all’impotenza, senza per questo causarne la morte. Tornando alla vicenda di Micheletto, infatti, sappiamo dai registri del tesoriere che nei 25 anni della sua esistenza la compagnia dell’Attendolo perse solo 25 condottieri, praticamente circa uno all’anno, ma solo 15 di questi perirono in battaglia. Risultano quanto mai emblematiche quindi, ancora cento anni dopo gli eventi qui presi in considerazione, le parole di quell’incisione (ottocentesca) di Temistocle Guerrazzi posta sulla spada della statua di Giovanni delle Bande Nere sul Lungarno degli Archibusieri 6, a Firenze: «Non mi snudare senza ragione, non m’impugnare senza valore».

Da leggere

lano, di cui un condottiero, Francesco Sforza, era diventato signore. A Napoli invece, terminata la guerra di successione al trono napoletano, Ferrante aveva ereditato dal padre, il Magnanimo, un regno forte, e operò una riforma militare che interessò la vita militare a 360°. Affermando la propria legittima autorità, il re eliminò la possibilità per chiunque nel regno di possedere milizie private, avocandone a sé l’autorità e creando il primo esercito demaniale regnicolo. Lo studio di questa formidabile trasformazione è stato portato avanti nel Mezzogiorno da Francesco Storti

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Mario Del Treppo (a cura di), Condottieri e uomini d’arme nell’Italia del Rinascimento, Liguori Editore, Napoli 2001 Michael Mallett, Signori e Mercenari. La guerra nell’Italia del Rinascimento, il Mulino, Bologna 1983 Pierantonio Paltroni, Commentari della vita et gesti dell’illustrissimo Federico duca di Urbino, a cura di Walter Tommasoli, Accademia Raffaello, Urbino 1966 Francesco Storti, L’esercito napoletano nella seconda metà del Quattrocento, Lavegliacarlone, Salerno 2007 Francesco Storti, Onore mercenario. Ideologia del duello e dell’agonismo marziale di un ceto deprecabile, in Fulvio Delle Donne e Victor Rivera Magos (a cura di), La Disfida di Barletta e la fine del Regno. Coscienza del presente e percezione del mutamento tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento, Viella, Roma 2019

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vivere al tempo del decameron/7

Astuzie

di Corrado Occhipinti Confalonieri

contadine Accanto ai dieci giovani e nobili protagonisti principali, alla ribalta del Decameron sale spesso la gente di campagna. Boccaccio se ne serve per mettere in scena gustosi siparietti a danno dei signori oppure per descrivere la durezza di esistenze vissute all’insegna dell’incertezza, quando non della povertà e degli stenti 54

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entre a Firenze infuria la terribile pestilenza del 1348, provocando «ogni piú crudel sentimento», le sette fanciulle della nobiltà cittadina e i tre giovani cortesi fuggono sulle colline di Fiesole per mantenere intatta la loro purezza d’animo. Lassú i novellieri del Decameron dispongono di poderi in abbondanza e «quantunque quivi cosí muoiano i lavoratori come qui fanno i cittadini, v’è tanto minore il dispiacere quanto vi sono piú che nella città rade le case e gli abitanti» (giornata I, introduzione). La descrizione di quei luoghi è idilliaca: «Le piagge [i pendii] delle quali montagnette cosí digradando giuso verso il piano discendevano, come ne’ teatri [anfiteatri] veggiamo dalla lor sommità i gradi infino all’infimo venire successivamente ordinati, sempre ristrignendo il cerchio loro. E erano queste piagge, quante alla piaga del mezzogiorno ne riguardavano [tutte quelle che erano disposte in direzione del mezzogiorno], tutte di vigne, d’ulivi, di mandorli, di ciriegi, di fichi e d’altre maniere assai d’albori fruttiferi pieni senza spanna perdersene [senza che ne restasse incolta

una spanna]» (VI, conclusione). Eppure, questa visione bucolica della campagna non corrisponde alla considerazione che Boccaccio ha degli agricoltori. Masetto di Lamporecchio (III, novella 1) viene a sapere di un impiego da «ortolano» in un monastero composto da una badessa e da otto monache. L’anziano giardiniere dimissionario ha trovato un posto migliore, si lamenta con Masetto che le monache «son tutte giovani e parmi ch’ell’abbiano il diavolo in corpo, ché non si può far cosa niuna a lor modo. Anzi, quand’io lavorava alcuna volta l’orto, l’una diceva: “Pon qui questo”, e l’altra: “Pon qui quello”, e l’altra mi toglieva la zappa di mano e dicea: “Questo non sta bene” e davanmi tanta seccaggine, che io lasciava stare il lavorio [il lavoro che stavo facendo] e uscivami dall’orto: sí che, tra per l’una cose per l’altra, io non vi volli star piú». Masetto intuisce che con quelle giovani suore avrebbe da divertirsi, ma sa anche di essere troppo «giovane e appariscente», pertanto «molte cose divisiate [pensate molte cose]» arriva alla conclusione che «il luoAllegorie dei mesi di marzo (in alto) e giugno, rispettivamente rappresentati dalla potatura delle viti e dalla raccolta del fieno, dal Libro d’Ore del conte Carlo di Valois-Angoulême, illustrato dal miniatore Robinet Testart. 1482-1485 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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vivere al tempo del decameron/7 go è assai lontano di qui e niuno mi vi conosce; se io so far vista [finta] d’esser mutolo [muto], per certo io vi sarò ricevuto». Si mette «una scure in collo» e si reca al monastero. Questo modo di portare ben visibile l’attrezzo da lavoro serviva e far individuare subito la sua attività in caso di un impiego saltuario. Nel cortile del monastero, Masetto incontra l’anziano «castaldo» [amministratore] e a gesti gli spiega che ha fame: in cambio del cibo è disposto a spaccare la legna. Qualche giorno dopo, la badessa si accorge di Masetto e chiede al castaldo chi fosse quel giovane: «Madonna questo è un povero uomo mutolo e sordo, il quale un di questi dí ci [qui] venne per limosina, sí che io gli ho fatto bene [l’ho beneficato] e hogli fatte fare assai cose che bisogno c’erano». Il castaldo lo propone alla badessa come nuovo giardiniere: «Non vi bisognerebbe d’aver pensiero che egli motteggiasse queste vostre giovani», lei gli risponde: «In fé di Dio tu di’ il vero!» e cosí lo assume.

Monache «baldanzose»

Masetto comincia a lavorare, suscita l’attenzione delle giovani monache che, pensando di non essere sentite da lui, «incominciarono a dargli noia e a metterlo in novelle [canzonarlo], come spesse volte avviene che

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altri fa [si fa] de’ mutoli e dicevangli le piú scellerate parole del mondo». La badessa non riprende le consorelle perché «stimava che egli cosí senza coda [doppio senso sessuale] come senza favella fosse». Un giorno la piú «baldanzosa» delle monache propone a una consorella di portare Masetto nel capanno «dove egli fugge l’acqua» [dove si ricovera quando piove] per sollazzarsi con lui e qui il giardiniere «senza farsi troppo invitare quel fece che ella volle», prima con la «baldanzosa» e poi con l’altra. Nel monastero ben presto si sparge la voce del nuovo trastullo. Un giorno la badessa vede Masetto addormentato «per il troppo cavalcar della notte» sotto un mandorlo «e avendogli il vento i panni [la tunica] dinanzi levati indietro tutto stava scoperto». Questo particolare indica che il giovane contadino non indossava i «panni di gamba», cioè la biancheria intima, come nel Medioevo accadeva agli uomini di bassa condizione sociale. La badessa «nel medesimo appetito cadde che cadute erano le sue monacelle» e «seco [con sé] nella sua camera nel menò, dove parecchi giorni, con gran querimonia [lagnanza] dalle monache fatta che l’ortolano non venia a lavorare l’orto, il tenne, provando e riprovando quella dolcezza la quale essa prima all’altre solea biasimare».

A destra la prima novella della terza giornata nell’edizione del Decameron illustrata dal Maestro di Guillebert de Mets. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. Masetto chiede al castaldo il permesso di entrare nel convento e poi è ritratto mentre si bacia con una monaca. In basso la stessa novella nella versione di un manoscritto illustrato da un miniatore fiorentino. 1360-1390. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Anche qui vediamo Masetto che chiede di entrare nel convento e che viene poi condotto da due monache in un capanno.

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Masetto ha però troppe richieste da soddisfare e capisce che il suo essere muto «gli potrebbe, se piú stesse, in troppo gran danno resultare»; una notte comincia a parlare alla badessa: «Madonna, io ho inteso che un gallo basta assai bene a diece galline, ma che diece uomini posson male o con fatica una femina sodisfare, dove a me ne conviene servir nove; al che per cosa del mondo io non potrei durare, anzi sono io, per quello che infino a cui ho fatto, a tal [a tal punto] venuto che io non posso fare né poco né molto; e per ciò o voi mi lasciate andar con Dio o voi a questa cosa trovate modo [rimedio]». La donna rimane esterrefatta, Ma-

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setto le spiega che fino a quella notte era muto, non di natura, ma per «un infermità» e loda Dio per la grazia di aver ritrovato la parola.

Conteso e miracolato

Il giovane le rivela che tutte le monache giacciono con lui e la badessa decide di trovare una soluzione: non vuole far cadere il monastero nello scandalo, ma, allo stesso tempo, desidera che Masetto rimanga con loro. La superiora fa credere alla comunità locale che il giovane contadino ha riacquistato la voce e l’udito grazie alle preghiere delle monache e all’intercessione del

santo a cui era dedicato il monastero. Siccome qualche giorno prima era morto il castaldo, la monaca fa nominare Masetto come sostituto e «per sí fatta maniera le sue fatiche partirono [divisero], ché egli le poté comportare [sopportare]». Il ménage continua in modo discreto per molti anni, Masetto genera parecchi «monachin» fino alla morte della badessa e torna a casa «vecchio, padre e ricco senza fatica di nutricare i figliuoli o spesa di quegli, per lo suo avvedimento avendo la sua giovanezza bene adoperare, donde con una scure in collo partito s’era se ne tornò, affermando che cosí trattava

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Pagina di un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore francese riferita all’ottava novella della terza giornata. 1425-1450. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Da sinistra, l’abate confessa la moglie di Feronde e poi fustiga l’uomo, facendogli credere di trovarsi in Purgatorio.

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L’ottava novella della terza giornata in un’altra edizione francese del Decameron. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Ferondo presenta sua moglie all’abate, che poi confessa la donna.

Cristo chi gli poneva le corna sopra’l cappello [corona di spine]». Con questa novella, Boccaccio spazza via molti luoghi comuni sui contadini: «Sono ancora di quegli assai che credono troppo bene che la zappa e la vanga e le grosse vivande e i disagi tolgano del tutto a’ lavoratori della terra i concupiscibili appetiti [brame amorose che destano concupiscenza] e rendan loro d’intelletto e d’avedimento grossissimi [molto ottusi]». Nella novella, lo scrittore mette in luce l’astuzia di Masetto e nel finale dimostra che il malizioso contadino neppure da vecchio ha un rimorso di coscienza per il modo in cui ha raggiunto una vita agiata, anzi bestemmia pure. Un altro contadino arricchito è Ferondo (III, 8), però «materiale e grosso [grossolano e tonto]», che ha una bellissima moglie di cui è geloso sino allo sfinimento. Nonostante l’uomo sia «in ogni altra cosa semplice e dissipato [sciocco] in amare questa sua moglie e guardarla bene era savissimo». L’abate della badia frequentata da Ferondo si innamora della donna che in confessionale gli rivela di non poterne piú della

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gelosia del marito. L’abate le dice: «Figliuola mia, io credo che gran noia sia a una bella e dilicata donna, come voi siete, aver per marito un mentecatto, ma molto maggiore la credo essere l’aver un geloso: per che, avendo voi e l’uno e l’altro, agevolmente ciò che della vostra tribulazion dite vi credo. Ma a questo, brievemente parlando [per dirla in breve], niuno né consiglio né rimedio vengo fuorché uno, il quale è che Ferondo di questa gelosia si guerisca. La medicina de guerillo so io troppo ben fare, purché a voi dea il cuore [purché voi siate capace] di segreto tenere ciò che io vi ragionerò».

I consigli dell’abate

La donna accetta e l’abate le rivela che manderà Ferondo per un certo periodo di tempo in Purgatorio «e quando tanta pena avrà sofferta che egli di questa sua gelosia sarà gastigato, noi con certe orazioni pregheremo Idio che in questa vita il ritorni, e Egli il farà». L’abate raccomanda poi alla donna di non risposarsi quando rimarrà vedova perché Ferondo al ritorno «sarebbe piú geloso che mai». La donna acconsente e l’abate, in cambio, le chiede di intrecciare una

relazione amorosa con lui. All’inizio lei rimane sorpresa dalla richiesta, crede l’abate un sant’uomo, poi accetta. Qualche giorno dopo, Ferondo si reca alla badia e l’abate capisce che è il momento giusto per mandarlo in Purgatorio: gli somministra un potente sonnifero mischiato al vino che fa cadere il contadino in uno stato di totale incoscienza, poi fa credere agli altri monaci che sia morto. L’abate manda ad avvisare la moglie e i parenti, tutti constatano il decesso di Ferondo e lo fanno seppellire nel camposanto della badia. La notte seguente, l’abate e un monaco bolognese di cui «molto si confidava [di cui si fidava]» traggono Ferondo dal sepolcro e lo portano nei sotterranei della badia in cui c’è una prigione per i monaci puniti. Qui lo spogliano, lo vestono con un saio e lo adagiano su un pagliericcio. Trascorsi tre giorni, Ferondo si sveglia e il monaco bolognese «con una voce orribile, con certe verghe in mano, presolo, gli diede una gran battitura». Ferondo piange, grida, si dispera e chiede al suo aguzzino dove si trova: «Tu se’ in Purgatorio»

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vivere al tempo del decameron/7 Un’altra vignetta relativa alla novella di cui è protagonista Ferondo in un’edizione manoscritta del Decameron illustrata da un miniatore fiorentino. 14271430. Parigi, Bibliothèque nationale de France. L’abate fustiga l’uomo e sua moglie si confessa con il religioso.

è la risposta lapidaria. Ferondo ci crede, gli chiede se i morti mangiano. Il monaco gli risponde: «Sí, e questo che io ti reco è ciò che la donna che fu tua mandò stamane alla chiesa a far dir messe [perché fossero dette delle messe] per l’anima tua, il che domine Dio vuole che qui rappresentato [donato] ti sia». Ferondo gli chiede perché si trovi in Purgatorio e il monaco gli risponde: «Perché tu fosti geloso, avendo la miglior donna che fosse nelle tue contrade per moglie». L’uomo si dispera: «Tu di’ vero, e la piú dolce: ella era piú melata [mielata] che ’l confetto [una confezione di dolciumi], ma io non sapeva che Domenedio avesse per male che l’uomo fosse geloso, ché io non sarei stato». Il monaco gli rivela che

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Dio può rimandare in Terra chi si è veramente pentito e Ferondo gli promette: «Se io vi torno mai, io sarò il migliore marito del mondo; mai non la batterò, mai non le dirò villania, se non del vino che ella ci ha mandato stamane; e anche non ci ha mandato candela niuna, e èmmi convenuto [ho dovuto] mangiare al buio».

Lo chiamerete Benedetto...

Ferondo «trascorre in cosí fatti ragionamenti e simili» dieci mesi, fino a quando la moglie si rende conto di esser rimasta incinta dell’abate: «Per che a ammenduni [entrambi] parve che senza alcuno indugio Ferondo fosse da dovere essere di Purgatorio rivocato a vita e che a lei si tornasse, e ella di

A destra miniatura raffigurante il chierico che riconsegna il mortaio a Monna Belcolore (VIII, 3), dall’edizione manoscritta del Decameron illustrata da un miniatore fiorentino. 14271430. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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In alto la seconda novella dell’ottava giornata nell’edizione del Decameron illustrata dal Maestro di Guillebert de Mets. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. Il curato di Varlungo prima di andar via lascia in pegno il proprio mantello a Monna Belcolore e la riconsegna alla donna del mortaio, da scambiare con il mantello.

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lui dicesse che gravida fosse». La notte seguente l’abate con voce contraffatta rivela allo stolto contadino: «Ferondo, confortati, ché a Dio piace che tu torni al mondo; dove tornato, tu avrai un figliuolo della tua donna, il quale farai che tu nomini Benedetto, per ciò che per gli prieghi del tuo santo abate e della tua donna e per amor di san Benedetto ti fa questa grazia». Queste parole riecheggiano, con una venatura ironica, quelle dell’angelo a Zaccaria: «Non temere, Zaccaria, perché la tua preghiera è stata esaudita: tua moglie Elisabetta ti partorirà un figlio e gli porrai nome Giovanni» (Luca, I, 13). Ferondo è entusiasta: «Ben mi piace: Dio gli dea il buono anno a messer Domenedio e all’abate e a San Benedetto e alla moglie mia casciata [saporita come un cibo con molto cacio], melata, dolciata». La metafora del cacio rappresenta un alimento da ricchi: nella novella VIII, 3 si parla del

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vivere al tempo del decameron/7

Pagina di un manoscritto quattrocentesco corredata da una miniatura raffigurante un contadino intento ad arare un campo.

paese del Bengodi, un’espressione utilizzata ancora oggi per indicare il luogo dell’abbondanza. Lí: «Eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano – notiamo già quest’etichetta – grattugiato, sopra le quali stavan genti che niuna altra cosa facevano che far maccheroni [lasagne sottili] e raviuoli e cuocergli in brodo di cappo-

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ni». Per i poveri abituati alla fame, come doveva essere stato Ferondo prima di arricchirsi, il Bengodi era un luogo in cui si mangiava bene e in abbondanza.

La «resurrezione»

L’abate manda a Ferondo del vino con una dose di sonnifero che lo fa dormire «forse quatro ore» e mentre è privo di sensi assieme al monaco bolognese lo rivestono e lo pongono nella tomba in cui il contadino

era stato sepolto dieci mesi prima. Il dettaglio delle quattro ore dimostra come nel Medioevo si avesse una conoscenza, seppur sommaria, delle dosi di anestetico da somministrare per le anestesie prima delle operazioni. Quando Ferondo si sveglia, grida: «Apritemi apritemi!», ma la terra che lo copre è poca e riesce a liberarsi. Alla sua apparizione, i monaci scappano terrorizzati, ma l’abate li tranquillizza e dice a Ferondo: «Lodata sia la potenza di Dio! Va dunque, figliuolo, poscia che Idio t’ha qui rimandato, e consola la tua donna, la quale sempre, poi che tu di questa vita passasti, è stata in lagrime, e sii da quinci innanzi [d’ora in poi] amico e servidor di Dio». Nel suo podere, Ferondo incontra la moglie: «La ’ngravidò al suo parere [credette di renderla gravida]» e partorisce un figlio maschio «il quale fu chiamato Benedetto Ferondi», patronimico secondo l’uso del tempo. Ferondo «secondo la promessa dell’abate fatta alla donna, piú geloso non fu per innanzi: di che la donna contenta, onestamente [onorevolmente], come soleva, con lui si visse, sí veramente che [se non che], quando acconciamente poteva, volentieri col santo Abate si ritrovava, il quale bene e diligentemente ne’ suoi maggiori bisogni servita l’avea». In questa novella notiamo il dileggio del Boccaccio verso gli agricoltori che nonostante abbiano fatto i soldi rimangono dei creduloni. Tuttavia, i contadini non sono solo arricchiti come Masetto e Ferondo, ma anche poveri, disposti a tutto pur di uscire dallo stato di difficoltà. Monna Belcolore (VIII, 2) di Varlungo (Firenze), sposata con Bentivegna del Mazzo, è una «piacevole e fresca foresozza [contadina], brunazza e ben tarchiata e atta a meglio saper macinar [senso equivoco sessuale] che alcuna altra». Il parroco del paese «valente e gagliardo» se ne invaghisce. Un giorno scopre che Bentivegna deve recarsi a Firenze e decide di andarla luglio

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a trovare. Belcolore sembra ritrosa alle avances del prete, lui sempre piú desideroso le propone: «Io non so, chiedi pur tu: o vuogli un paio di scarpette o vuogli un frenello [ghirlanda di seta che le donne portavano in cima alla fronte, sul bordo della cuffia] o vuogli una bella fetta di stame [una cintura di lana fine] o ciò che tu vuogli». Belcolore non è interessata a questi oggetti, ma ha un problema: sabato deve andare «a Firenze a render lana che io ho filata e a far a racconciare [sistemare] il filatoio mio: e se voi mi prestate cinque lire, che so che l’avete, io ricoglierò [riscatterò] dall’usuraio la gonnella mia del perso [tunica dal colore misto nero e purpureo] e lo scaggiale [cintura decorata] dai dí delle feste che io recai a marito [portai in dote], ché vedete che non ci posso andare a santo [in chiesa] né in niun buon luogo perché io non l’ho; e io sempre mai poscia [subito] farò ciò che voi vorrete». La Firenze trecentesca aveva nella lavorazione e nel commercio della lana la massima forma di prosperità: le contadine come Belcolore avevano un filatoio in casa, lavoravano a cottimo, in base alla quantità di filato prodotto e non alle ore impiegate. Il prete le promette che entro sabato le avrebbe fatto avere la somma di denaro, ma la donna non si fida, sa che il prete è malandrino e allora lui le dice: «Ecco, tu non mi credi che io te gli rechi; acciò che tu mi creda io ti lascerò pegno questo mio tabarro [ampio mantello] di sbavato [panno turchino]. Belcolore accetta il pegno: «Andiamocene qui nella capanna, ché non vi vien mai persona» e qui si concede. Tornato in chiesa, il prete si rende conto che «in tutto l’anno d’offerta non valeva la metà di cinque lire, gli parve aver malfatto e pentessi d’aver lasciato il tabarro e cominciò a pensare in che modo riaver lo potesse senza costo». Il giorno seguente, lo scaltro parroco manda un fanciul-

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lo da Belcolore per farsi prestare il mortaio con la scusa che ha ospiti e deve preparare una salsa. All’ora di pranzo, il prete spia Bentivegna e Belcolore e quando li vede a tavola, chiama il suo chierico e gli dice: «Togli [prendi] quel mortaio e riportalo alla Belcolore, e dí: “Dice il sere [signore] che gran mercé [che vi ringrazia molto], e che voi gli rimandiate il tabarro che il fanciullo vi lasciò per ricordanza [in pegno]”». Il chierico si reca a casa di Belcolore con il mortaio, la trova a tavola assieme al marito e riporta l’ambasciata. Bentivegna si arrabbia con la moglie perché ha chiesto un pegno al prete: «Io dico s’e’ volesse l’asino nostro, non ch’altro, non gli sia detto no». L’asino era il bene piú prezioso di un contadino medievale però Bentivegna è disposto a prestarlo al parroco.

Un lungo silenzio

Belcolore brontola ed è costretta a restituire il tabarro al chierico con questo messaggio: «La Belcolor dice che fa prego a Dio che voi non pesterete mai piú salsa in suo mortaio [doppio senso sessuale]». Bentivegna non si cura delle parole della moglie, pensa le abbia pronunciate perché l’ha sgridata. Belcolore per molto tempo non rivolge la parola al prete, fino a quando lui la minaccia di «farnela andare in bocca del lucifero maggiore», cioè di farla divorare dal diavolo e lei per la grande paura che aveva dentro di sé «si rappatumò [riappacificò] con lui, e piú volte insieme fecer poi gozzoviglia». In questa novella notiamo come Belcolore sia in difficoltà economiche e abbia dovuto portare gli unici abiti buoni, quelli della sua dote, in pegno dall’usuraio cosí da ottenere il denaro necessario a sistemare il filatoio, suo strumento di lavoro. Accetta di concedersi al prete con la promessa di ottenere in cambio la somma necessaria al riscatto. Il

prete ne approfitta con astuzia e per ottenere ancora le grazie di Belcolore le paventa l’inferno per i suoi peccati carnali che solo lui può assolvere. Alla povertà materiale della contadina, si affianca la sua ignoranza dottrinale. Queste novelle dimostrano il cambiamento di mentalità nei confronti della società rurale che ha luogo nel corso del Trecento. Fino alla metà del secolo gli uomini di cultura trattano i contadini con benevolenza. Giordano da Pisa (1260-1310 circa) considera la vita di campagna piú sana di quella cittadina per la sua semplicità. Lo stesso Boccaccio (V, 1) cita il nobile Aristippo da Cipro che comanda al figlio Cimone (soprannome da bestione) «che alla villa [in campagna] n’andasse e quivi co’ suoi lavoratori si dimorasse; la qual cosa a Cimone fu carissima, per ciò che i costumi e l’usanza degli uomini grossi [rozzi] gli eran piú a grado che le cittadine». I contadini vengono considerati sempliciotti e paurosi, oppure con una vita emotiva e spirituale molto bassa, come Monna Belcolore. Ma nella seconda metà del Trecento – con gli equilibri sociali mutati dalla peste – la condiscendenza si trasforma in allarme e in disprezzo verso i contadini che si sono arricchiti e vogliono inurbarsi per scalare il potere. Nelle Lettere volgari, Boccaccio si scaglia contro i politici che arrivano «chi da Capalle e quale da Cilicciavole, e quale da Sugame o da Viminiccio, tolti dalla cazzuola o dall’aratro e sublimati al nostro magistrato maggiore». Il timore dello scrittore certaldese è che la stoltezza di Ferondo si trasformi in arroganza e la malizia di Masetto trascini la società nel caos, proprio perché lontanissimi da quei valori cavallereschi che i dieci narratori cittadini stanno cercando di preservare.

NEL PROSSIMO NUMERO ● Cipolla frate miscredente

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oltre lo sguardo/15

Intrecci senza fine di Furio Cappelli

Linee che si sovrappongono sinuose per poi congiungersi in composizioni apparentemente senza capo, né coda. Oppure sequenze di fasce ondulate, evocazione delle acque dei fiumi e dei mari: sono alcuni dei piú diffusi motivi ornamentali elaborati da artisti e artigiani fin da epoche antichissime. E poi «riletti» al tempo delle civiltà barbariche, che per questa scelta furono tacciate di «primitivismo»

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el centro storico di Ascoli Piceno, percorrendo la via dei Soderini, si può notare piú di una testimonianza dell’edilizia civile duecentesca. Tra tutte, per integrità e completezza, spicca il cosiddetto Palazzetto Longobardo, con l’annessa Torre degli Ercolani. È un tipico edificio nobiliare del pieno Medioevo, provvisto di finestre bifore che illuminano il piano dell’abitazione. Ma, se risale al XIII secolo inoltrato, perché questo palatium è noto come «longobardo»? Il nome non deriva da una qualche tradizione storica, ma dalla critica del XIX secolo, che ravvisava nell’edificio un carattere prettamente «barbarico». I primi osservatori lo datarono infatti tra l’VIII e il X secolo, scorgendovi un vivo ricordo dell’arte dei guerrieri venuti dalla Pannonia. D’altronde, tutta l’arte medievale tra i secoli V e XIII fu a lungo bollata come barbarica, e il nome stesso di arte gotica (ossia dei

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Goti) – che oggi riserviamo alla fioritura delle grandi cattedrali d’Oltralpe – è proprio un «fossile» di queste vecchie classificazioni.

Una decorazione elementare

Di certo, nel caso di Ascoli, l’aggancio con il Medioevo barbarico scaturiva dalle decorazioni che arricchiscono a bassissimo rilievo il sottotetto e quasi tutte le bifore del piano nobile. In particolare, un motivo a nastri intrecciati percorre le facciate, coronando la successione delle finestre. Una decorazione estremamente elementare, condotta come un puro esercizio grafico, che nella sensibilità degli studiosi dell’Ottocento si combinava facilmente all’idea stessa dell’arte «rozza» e «ingenua» dei Longobardi. Si attuava cioè un gioco di rimandi tra quell’intreccio in pietra e i tipici motivi decorativi di stampo germanico che si vedono nelle fibule (spille) luglio

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e nelle else di spada di età longobarda, rinvenute in talune necropoli italiche dei secoli VI e VII. E un importante cimitero di tale epoca, ricco di corredi (oggi in larga parte conservati al Museo dell’Alto Medioevo di Roma), fu proprio rinvenuto a pochi chilometri da Ascoli Piceno, presso la frazione Castel Trosino, nel 1893. Già nel 1884, però, un brillante studioso locale, il poligrafo Giuseppe Castelli, asserí che il Palazzetto Longobardo doveva essere nientemeno che la sede del gastaldo di Ascoli, il magistrato di zona che rispondeva all’autorità del duca di Spoleto. In un caso come quello del palatium ascolano, in realtà, i Longobardi possono essere difficilmente scomodati, sia pure chiamandoli in causa come diffusori di uno stile che poteva perpetuarsi sul lungo periodo in particolari situazioni. La decorazione a intreccio, infatti, poteva riemergere in qualsiasi momento grazie alla sua

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«Se il mio popolo mi ascoltasse! Se Israele camminasse per le mie vie! (…) Lo nutrirei con fiore di frumento, lo sazierei con miele dalla roccia». Salmo 81 (80): 14, 17 Il mosaico absidale della basilica romana di S. Giovanni in Laterano, ricostruito nel XIX sec. sulla base dell’originale di Jacopo Torriti (1291). Al centro della composizione sta una croce gemmata, alla cui base scorrono i quattro fiumi del paradiso, che, secondo un canone di antica origine, sono resi da linee ondulate.

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oltre lo sguardo/15 semplicità di esecuzione, che la rendeva particolarmente duttile e adatta a qualsiasi circostanza, in ogni epoca e in ogni luogo. Nel caso specifico, l’aggancio piú convincente non si stabilisce tanto con l’oreficeria o con altri modelli di scultura di secoli prima, quanto piuttosto con esempi di artigianato contemporanei, che prevedevano incisioni a secco su finimenti e rivestimenti di cuoio. Gli artefici dell’edificio ascolano poterono facilmente ispirarsi a lavori del genere, spesso presenti proprio nelle case nobiliari, sul rivestimento di cassette e di cassoni lignei. In tal modo la casa si impreziosiva proprio con la stessa cura riservata a una suppellettile o a un mobile di spicco che poteva trovarsi al suo interno. Lo schema di base dell’intreccio è dato da una se-

In basso fibula circolare aurea con paste vitree e gemma romana incisa, dalla necropoli di Castel Trosino (Ascoli Piceno). Fine VI-inizi VII sec. Roma, Museo Nazionale dell’Alto Medioevo «Alessandra Vaccaro». Nella pagina accanto un particolare della facciata principale del cosiddetto Palazzetto Longobardo di Ascoli Piceno. XIII sec.

to un ruolo nel diffondere questo gusto decorativo. Si tratta della lavorazione delle ceste con la tecnica dell’intreccio dei nastri di vimine, ottenuti riducendo in lamelle sottili il legno dei rami di salice.

Un movimento continuo

Tuttavia, la straordinaria fortuna del motivo doveva trarre linfa da un’idea precisa e coinvolgente, carica di significati. Non bastava la semplice adozione della tecnica dei cesti di vimine, che serví semmai ad ampliare la gamma delle combinazioni grafiche. L’idea era quella di un movimento continuo, suggerito dall’ondulazione ripetuta. Un movimento senza fine, che si perpetuava indisturbato, come quello delle onde marine e dei corsi d’acqua in genere. Se osserviamo la croce gemmata della salvezza che compare al centro del mosaico della basilica romana di S. Giovanni in Laterano – la cui ultima edizione, ricostruita nel XIX secolo, fu eseguita da Jacopo Torriti nel 1291 circa, sulla base del mosaico pregresso del V secolo – i quattro fiumi del paradiso che scaturiscono da un lago, alla base della croce trionfale di Cristo, sono proprio costituiti da sequenze di linee ondulate. Si svolgono con precise cadenze lungo traiettorie regolari.

l’arte «barbarica»

Quando disegnavano come i bambini quenza di linee curve che si intersecano, formando con una cadenza piú o meno fitta una serie di campi chiusi, di forma circolare o ellittica. Il disegno può prevedere una sola «fune» o fettuccia, oppure si può notare il ricorso a «matasse» formate da piú corde. Il motivo, poi, può essere sviluppato nei modi piú diversi, da situazioni-base, come quella evidenziata in Ascoli, sino a complessi quasi inestricabili per l’estensione e la fitta tessitura dei grovigli. Allo stesso modo, si può passare da una semplicità grafica elementare a un virtuosismo di innegabile raffinatezza. Una particolare manifattura di recipienti di uso domestico, di tradizione plurimillenaria assai diffusa, può aver avu-

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Il legame tra la decorazione a intreccio e la cultura barbarica (o di epoca barbarica) ha una lunga storia ed è tuttora vivo nella nostra esperienza di conoscitori del Medioevo. Si tratta, infatti, di un legame effettivamente fortissimo, che ha suscitato lunghe discussioni soprattutto in relazione all’area italica. Dal momento che nella Penisola, all’indomani dell’invasione longobarda (568), si era stabilito un confronto con l’eredità romano-bizantina del mondo tardo-antico, ci si deve chiedere, infatti, in che misura i barbari siano stati influenzati dall’arte locale. Si deve parlare, insomma, di arte longobarda o di un’arte di età longobarda? luglio

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Un efficace approccio al problema è stato offerto dallo storico Gabriele Pepe (1899-1971) nel suo Medio evo barbarico d’Italia (1941). Egli prende atto di una situazione di decadenza inarrestabile, soprattutto evidente nella scultura, che «di degradazione in degradazione discende al povero graffito, balbettio di infante inesperto». In un simile scenario, a suo giudizio non è utile chiamare in causa l’elemento barbarico come apportatore di qualsivoglia novità. Non esiste una scultura barbarica, e gli elementi iconografici ritenuti di quella matrice, rientrano semmai in un patrimonio millenario che risale agli Etruschi, pronto a riemergere «in tutte quelle età nelle quali non si lavora il marmo sino a fargli esprimere la visione dell’artista, ma lo si incide superficialmente, come se fosse metallo prezioso». I motivi impiegati finivano per essere sempre gli stessi. Barbari e «Romani imbarbariti»

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erano cosí accomunati da una «povertà di immaginazione» inevitabilmente connessa a una «inferiore vita spirituale». Le decorazioni a intreccio, per Pepe, sono proprio la migliore esemplificazione di un tale declino. «La piú grande bravura cui giunsero gli artigiani del marmo di queste età fu nel comporre degli aggrovigliamenti di trecce che ricordano un po’ certi lavori froebeliani [in riferimento al pedagogo Friedrich Fröbel (1782-1852), n.d.A.] o certi labirinti fatti per gioco dei bambini!». Eppure quegli intrecci cosí elementari compongono anche un discorso sui segni e sui misteri divini. Come afferma il vescovo Guglielmo Durando (1230 circa-1296), è da lí che un attento osservatore può ricavare tesori di «celeste dolcezza», cosí come il Signore è in grado di tirar fuori il miele dalla roccia, secondo l’espressione del Salmo 81 (80): 17.

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oltre lo sguardo/15 Vaso in terracotta decorato con l’immagine di un serpente, da Susa (Iran). 4000-3500 a.C. Parigi, Museo del Louvre.

Ebbene, ovunque si volesse rappresentare l’acqua, la linea ondulata funzionava egregiamente. E questo aspetto si evidenzia in particolare nelle rappresentazioni del mondo (inteso in senso sia terreno che ultraterreno), dove è necessario evocare le distese d’acqua, con particolare riferimento al mare infinito (l’Oceano) che si estende oltre l’orizzonte. Gli studiosi De Champeaux e Sterckx ravvisano al riguardo «uno schema immutabile che si ritrova dappertutto e sempre, piú o meno variato in qualche particolare». Il «vecchio simbolo acquatico», sotto forma di un meandro o di un serpente che circonda la terra, si riscontra cosí, sin dal II millennio a.C., nei sigilli ittiti (già nel XVIII secolo a.C.) oppure in coppe e piatti di arte sumerica (come si vede nella ceramica di Susa I, del XIV secolo a.C.) per approdare infine ai piú diversi manufatti lignei di culture africane, in Nigeria o in Somalia, dove si è trasmesso il retaggio delle civiltà semitiche del Vicino e del Medio Oriente, perpetuato fino a tempi piuttosto recenti.

Significati reconditi

La stessa cosmografia ebraico-cristiana, d’altra parte, si sviluppa sulla scia di una tradizione che scaturisce dal grande crogiuolo delle antiche civiltà del Tigri e dell’Eufrate. Si tratta di un modo di rappresentare la realtà che non si preoccupa di distinguere il piano dell’osservazione da quello della simbologia, proprio perché ne deve scaturire una visione del mondo utile a capirne il significato recondito, piuttosto che la conformazione effettiva. L’impostazione grafica che rapporta ogni cosa a un centro generatore, fa sí che la terra appaia sempre come un disco circondato dalle acque, e queste sono spesso evocate da un continuo e regolare insieme di linee ondulate. Talvolta il simbolo acquista una maggiore concretezza, e le linee sinuose si trasformano cosí in un succedersi di onde stilizzate, come si vede nel lampadario in bronzo del Museo dell’Accademia Etrusca di Cortona (IV secolo a.C.), dove per giunta si nota un susseguirsi di delfini. Nel campo sottostante, la teoria di leoni che assalgono tori, in ciclica ripetizione, può alludere all’alternanza delle stagioni e al continuo avvicendarsi del giorno e della notte. La maschera di luglio

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Il lampadario di Cortona, al centro del quale domina la maschera di Gorgone, contornata da un motivo a onde stilizzate. Ultimo trentennio del IV sec. a.C. Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona.

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oltre lo sguardo/15 Gorgone centrale e le figure che si irraggiano tutt’intorno (sileni e donne-uccello, sul tipo delle arpie) compongono poi una probabile «cartografia» in chiave mitologica: le stesse, terribili Gorgoni vivevano sulla riva dell’Oceano. Il motivo a intreccio, dal canto suo, era utilizzato dagli Etruschi nella ceramica, nell’oreficeria e nella decorazione architettonica, ed ebbe un’analoga fortuna nel mondo greco, soprattutto nel periodo arcaico. Tuttavia, anche se è spesso difficile stabilire una netta distinzione tra ornamento e simbolo, sia gli Etruschi che i Greci misero in secondo piano l’aspetto concettuale dell’intreccio, di pari passo a una cultura figurativa che dava sempre piú spazio a una scena abitata da immagini «realistiche». Nel mondo ellenistico-romano, il motivo è ormai assunto esclusivamente in forma decorativa, soprattutto nelle cornici dei mosaici pavimentali. L’avvento del cristianesimo determina un revival portentoso. L’intreccio, infatti, riacquista lo stesso protagonismo che aveva assunto nelle antiche immagini del mondo, risultando perfettamente in armonia con

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la nuova cosmologia sacra. Aveva infatti il grande vantaggio di essere uno schema grafico essenziale e di ampie potenzialità simboliche. L’intreccio, insomma, era perfettamente in linea con un’idea della comunicazione visiva che doveva lasciarsi alle spalle la ricchezza e (segue a p. 75)

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In alto timpano marmoreo istoriato, dal Tempietto di S. Maria in Valle. 750 circa. Cividale del Friuli, Museo Cristiano. A destra figura maschile che simboleggia l’evangelista Matteo, inquadrata in una fascia con un motivo a intreccio, dal Libro di Durrow, una raccolta dei vangeli che prende nome dall’abbazia in cui venne forse redatta. 650-700 circa. Dublino, Trinity College. Nella pagina accanto il pluteo di Sigualdo attualmente alla base del Battistero di Callisto. 756-786. Cividale del Friuli, Museo Cristiano.

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oltre lo sguardo/15 Il nodo di Gordio

L’unica soluzione è la spada... come una unione positiva tra forze contrapposte. Ma può anche trattarsi di un nodo che deve essere sciolto per liberare l’anima da una condizione limitante, come è quella imposta dalla realtà terrena. D’altro canto, l’associazione con la simbologia cristiana, e con la croce in particolare (altro segno di tipo centrico), fornisce al nodo un significato cosmologico e rituale. Vi si può scorgere una immagine del mondo e, come nel caso del labirinto (che è un nodo all’ennesima potenza), si può cosí evocare l’itinerario del fedele verso la perfezione. Ma qual è l’origine del suo nome? Sia che si parli di Salomone (il re biblico, giudice e sacerdote, figlio di Davide), sia che si parli di Gordio (antica città A sinistra miniatura raffigurante il re Salomone che emette il suo verdetto, da un manoscritto ebraico prodotto nel Nord della Francia. 1280 circa. In basso particolare di uno dei mosaici pavimentali della basilica di Aquileia raffigurante il nodo gordiano. IV sec.

Strettamente imparentato al motivo dell’intreccio, il nodo detto di Salomone, o di Gordio, propone un intrico di due matasse, in modo da formare una figura centrica con quattro lobi sporgenti. Si tratta di un simbolo di enorme diffusione, già rinvenibile nella sua forma piú ricorrente in una tavoletta conservata al Museo del Louvre, pertinente a un tempio sumerico dell’acropoli di Susa, databile al III millennio a.C. Sin dal principio, quindi, il nodo trova spazio in contesti religiosi, e si può agevolmente presumere che abbia un significato magico o propiziatorio. Asserisce chiaramente un legame tra due elementi, che può essere letto

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della Frigia, non lontana dall’attuale Ankara, in Turchia), si fa riferimento a un nodo da sciogliere con un fendente di spada. Nel caso del personaggio biblico, si chiama in causa la sua competenza in fatto di giustizia. Stando al I Libro dei Re (3:16-28), egli infatti si trovò di fronte a due donne che si dichiaravano madri dello stesso bambino. Per risolvere la pendenza (ossia per sciogliere il nodo che legava il bambino a entrambe), Salomone sentenziò che il piccolo dovesse essere tagliato in due. A quel punto, le donne reagirono in modo significativo: una rinunciò ai propri diritti pur di farlo sopravvivere, mentre l’altra disse: «Non sia né mio né tuo; tagliate!». Il re non dette luogo all’esecuzione, e affidò il bambino (integro) alla madre, colei che voleva salvarlo. Gordio è invece lo scenario di una impresa di Alessandro Magno, storicamente attendibile anche se amplificata dalla leggenda. Durante la sua avanzata in Persia, al momento di lasciare la città, il Macedone salí sull’acropoli, dove era presente un carro dedicato a una divinità locale, che i Greci identificarono con Zeus. Secondo la tradizione, era stato collocato in quel luogo dal re Mida. Questi aveva provveduto ad assicurare il sacro carro legando il giogo al timone con un nodo inestricabile, in corteccia di corniolo. Dopo aver convocato un folto pubblico, Alessandro provò ripetutamente a sciogliere il nodo in modo ragionato, ma poi, visto che non ne veniva a capo, si convinse a ricorrere a un banale colpo di spada. A destra Alessandro taglia il nodo di Gordio con la sua spada, stampa di Theodor Matham da un originale di Gregorio Grassi. 1627-1691. Amsterdam, Rijksmuseum.

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Se l’associazione con Gordio è legata a una erudizione moderna, il nodo di Salomone rientra nei modi di dire già nel XIII secolo, proprio per designare un groviglio inestricabile. Viene per esempio citato nelle Rime dantesche, nell’ambito della tenzone con Forese Donati (morto nel 1296): lo stesso Forese, nel secondo sonetto della tenzone (Rime, LXXIV), cosí racconta l’incontro con l’anima in pena del defunto Alighiero, padre di Dante: «ed i’ trovai Alighier tra

le fosse, / legato a nodo ch’i’ non saccio ’l nome, / se fu di Salamone o d’altro saggio» (8-10). E proprio Dante ricorre all’immagine del nodo per la sua visione di Dio. Il nodo, cioè, è l’idea dell’universo cosí come si presenta nell’animo del creatore, e la gioia che Dante prova di fronte a questa visione lo convince di quel che si trova di fronte ai suoi occhi: «La forma universal di questo nodo / credo ch’i’ vidi, perché piú di largo, / dicendo questo, mi sento ch’i’ godo» (Paradiso, XXXIII, 91-93).

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oltre lo sguardo/15

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Una pietra runica di Jelling (Danimarca). Metà del X sec. Il personaggio che domina la composizione viene interpretato come un Cristo imprigionato in un intrico di rami annodati.

la profusione di forme del paganesimo greco-romano. Ecco allora che nei mosaici pavimentali non si limita piú a decorare le cornici di inquadramento, ma contribuisce a tappezzare le superfici secondo una logica di rigore astratto, componendo una idea del paradiso insieme a vari altri motivi di tipo aniconico (senza cioè alcuna concessione a elementi figurativi). Spesso si compie un’associazione con singoli elementi di forte valore segnico, dove l’aspetto simbolico travalica ogni possibile valenza realistica. L’intreccio può cosí trovare agganci e risonanze con la croce di Cristo (o con il calice della messa), alludendo alla sua forza salvifica. Le linee ondulate possono cosí rimandare ai fiumi del paradiso e al sangue stesso del sacrificio del Messia. Tralci fioriti o singoli elementi fitomorfi, come pure immagini stilizzate di animali – spesso collocati secondo uno schema simmetrico (agnelli, pavoni, cervi, colombe…) –, ribadiscono dal canto loro il significato della rappresentazione, facendo riemergere gli antichi concetti dell’Albero della Vita e della fonte sacra.

Retaggi orientali

Fronti d’altare (paliotti), pilastrini e lastre (plutei) dei recinti che chiudevano l’area presbiteriale, si dotarono sempre piú di composizioni marmoree con un forte protagonismo della simbologia aniconica. L’intreccio ebbe cosí un nuovo canale di diffusione, prestandosi perfettamente alla decorazione delle aree della celebrazione liturgica. Nasceva in questo modo uno stile ornamentale destinato ad avere grandissime ripercussioni nella scultura sacra, fino ai secoli dell’arte romanica. Tutto sembra avere avuto inizio nel VI secolo alla periferia dell’impero, nell’Egitto copto, dove il retaggio delle antiche tradizioni orientali era sempre pronto a riemergere. Ravenna, la nuova capitale dell’Occidente, raccolse con particolare intensità questi impulsi. Come si può vedere a S. Apollinare Nuovo, le basiliche si dotarono infatti di recinti dove la decorazione a base geometrica, condotta a livelli di squisita sofisticazione, trasformava l’opera dello scultore in una sorta di intarsio o di ricamo. Riducendo all’essenziale la matassa dei motivi e rinunciando a ogni virtuosismo, si finí poi per creare un «vocabolario» di pochi termini, ripetuti e combinati all’infinito. L’intreccio assunse cosí un protagonismo innegabile negli apparati scultorei dell’Italia longobarda, come si può vedere chiaramente a Cividale, negli stucchi del Tempietto oppure nel pluteo di Sigualdo. Ma questo genere di impostazione avrebbe poi conosciuto uno sviluppo prorompente sin dalla fine del-

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Da leggere Gerard de Champeaux, Sébastien Sterckx, I simboli del Medioevo, Jaca Book, Milano 1981 Viktor Heinrich Elbern, Arte aniconica, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Fondazione Treccani, Roma 1991, reperibile anche on line su treccani.it George Speake, Intreccio, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Fondazione Treccani, Roma 1996, reperibile anche on line su treccani.it Liliana Fratti, Umberto Sansoni, Riccardo Scotti (a cura di), Il nodo di Salomone. Un simbolo nei millenni, Ananke, Torino 2010

l’VIII secolo, in Italia e in Gallia, sotto gli effetti del rinnovamento di Carlo Magno. Proprio in questo periodo, insomma, l’intreccio definí uno stile scultoreo di risonanza europea. Lo troviamo nei plutei delle basiliche di Roma, nelle croci viarie di Bologna, come pure a Milano, nell’Alto Adige, in Svizzera, in Provenza… La cultura barbarica, a ben vedere, non giocò un ruolo in questa diffusione, poiché furono determinanti, semmai, le trasmissioni dei saperi tecnici e delle cognizioni simboliche del mondo mediterraneoorientale. È tuttavia innegabile che l’intreccio, per altre vie, era già da tempo entrato nella sensibilità ornamentale del mondo germanico, come si può vedere nelle fibule dei corredi funebri che abbiamo ricordato all’inizio. E proprio la forza archetipa del motivo e la sua diffusione universale rendono arduo definire una origine dell’intreccio «barbarico». Di certo, però, l’area scandinava espresse per prima questo linguaggio, in modi e forme autonome rispetto al mondo romano, trovando semmai risonanze con la cultura dei Celti, presso i quali la decorazione geometrica ha sempre avuto un ruolo preponderante. Nasceva cosí una cultura nordica che, finita l’epoca delle invasioni, non esaurí affatto le sue potenzialità. La commistione di elementi astratti e di elementi figurativi, già sperimentata nell’oreficeria celtica e germanica, approdava cosí all’esuberanza fantastica dei capilettera della tradizione miniaturistica irlandese, come nei celebri Vangeli di Kells (fine dell’VIII secolo). Si poteva giungere, poi, alla originalissima crocifissione evocata in una delle pietre vichinghe di Jelling (Danimarca, metà del X secolo), in cui Cristo è imprigionato in un intrico di rami annodati. Ma non solo. Questa sensibilità cosí spiccata per i tracciati geometrici complessi, e per gli intrichi di linee e di figure, è alla base dell’idea stessa della cattedrale gotica.

NEL PROSSIMO NUMERO ● Maria Vergine, la porta del Paradiso

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testi di Filippo Orsini, Nadia Bagnarini ed Erminia Irace

ALVIANO

Una dinastia tra impero e papato Casata di origini nobili e antiche, i d’Alviano furono tra i protagonisti di eventi cruciali nell’Italia del XIV e XV secolo. Oggi il loro nome viene ricordato soprattutto per le imprese di Bartolomeo, condottiero coraggioso e stratega geniale. E per il castello di famiglia, la cui mole imponente domina tuttora l’omonimo borgo umbro Il castello e il borgo di Alviano, situati su un colle che domina la sottostante valle del Tevere, di cui si vede il corso.


Dossier

G G

li Alviano sono stati una delle dinastie feudali piú antiche e potenti dell’intera Umbria vista la consistenza dei possedimenti che, da un territorio compreso tra i comuni di Orvieto, Todi e Amelia, arrivavano fino al confine con le Marche, in una vasta area tra Spoleto, Norcia, Camerino e Trevi. Siamo davanti al processo evolutivo di una classica struttura familiare-consortile di carattere rurale che, grazie e una attenta strategia politica, estende i suoi ambiti giurisdizionali ben oltre i limiti territoriali, in un

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contesto diametralmente opposto come era la montagna spoletinonursina, stabilendo il suo epicentro curtense nel castello di Mevale. Ciò ha permesso al lignaggio alvianeo di costruire una trama di rapporti non solo con Spoleto e Norcia, ma anche con Foligno, dove Ugolinuccio d’Alviano è Podestà nel 1315, e con la stessa famiglia Trinci. Con molta probabilità, la titolarità di una qualità signorile ereditaria da parte degli Alviano trovava la sua motivazione giuridica in un formale riconoscimento imperiale

tale da giustificare l’applicazione dei loro diritti feudo-vassallatici e, al tempo stesso, garantire un appoggio militare alla politica imperiale in nevralgiche zone dell’Italia centrale quali la Teverina e la parte appenninica umbro-marchigiana. L’ipotesi di una schiatta aristocratica di natura militare e funzionariale, nata e consolidatasi con l’esercizio di funzioni e di uffici provenienti da un’investitura imperiale, troverebbe la sua conferma emblematica proprio nello stemma assunto dal casato «di rosso alla croce d’argento», che

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Una proficua coesistenza

Al contrario di altre famiglie di matrice feudale, gli Alviano mantenIl castello di Alviano in un acquerello tratto da Descrittione delle Terre e Castelli infrascritti dell’Ecc.ma Casa Panfilia con i Disegni delle parti principali di essi. Terra di S. Martino, Castello di Monte Calvello, Terra di Alviano, Castello d’Atigliano, Castello del Poggio, dedicata a Innocenzo X [di mano di Aldo Rossi]. 1654 circa. Roma, Archivio Doria Pamphilj.

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nero il ruolo militare, politico e patrimoniale che avevano acquisito a partire dal XII secolo, riuscendo abilmente a rivolgere a loro favore le ambizioni dei due Comuni di riferimento, Orvieto e Todi, stabilendo con essi una proficua coesistenza. Il coinvolgimento nelle articolazioni comunali si rivelò poi lo strumento vincente per la sopravvivenza della famiglia all’interno del districtus cittadino. Cosí, a partire dal XIII secolo, gli Alviano strinsero con Todi un solido rapporto di fiducia e di protezione che seppero ben spendere nei fragili equilibri istituzionali dell’Umbria centro-meridionale; ritagliandosi una posizione di primo piano sia tra i Comuni che avevano iniziato un processo di stabilizzazione territoriale come Todi, Amelia e Orvieto, che tra le famiglie detentrici di antiche prerogative feudali: i conti di Marsciano, i conti di Baschi, i Monaldeschi e i conti di Montemarte. Gli Alviano erano pienamente consapevoli di essere un avamposto privilegiato in un quadro geografico particolarmente delicato quale era la Teverina, cerniera tra l’Umbria e il Patrimonio di San Pietro, importante economicamente ma anche militarmente, in quanto teatro delle dispute tra le irruenti famiglie del baronaggio romano: Orsini, Colonna, Savelli e Anguillara. Il 28 marzo 1232 segna una svolta nella politica familiare degli Alviano, che si indirizzano verso nuove alleanze: in due atti separati ma molto simili nei contenuti, Uffreduccio e Andrea, figli del fu Farolfo di Offreduccio di Bonconte, alla presenza di Beatrice loro madre, unitamente a Rinaldo di Offreduccio di Bonconte, danno e concedono al comune di Todi i propri territori, compresi i castelli di Alviano, Porciano e Attigliano, riservandosi ogni diritto e consuetudine. Come spesso accadeva, simili

MARCHE Arezzo

Pietralunga

Tevere

non è altro che l’insegna del Sacro Romano Impero dai quali gli Alviano derivavano i loro diritti feudali. L’antichità genealogica indiscussa fu tradotta anche in chiave mitologica dai genealogisti del XVI e XVII secolo, attribuendo un origine antico romana dalla gens Livia e dalla gens Attilia, fino a individuare come capostipite un conte Offredo infeudato da Ottone III del castello di Alviano.

MontoneGubbio

TOSCANA

Fabriano Tolentino

Gualdo Tadino

Lago Trasimeno

Perugia

Assisi

Deruta

Nocera Umbra

Spello Foligno

ra

Ne Todi Orvieto Lago di Bolsena

Acquasparta Amelia Terni Narni

Alviano

Norcia Cascia Spoleto Ferentillo Cascata delle Marmore

Viterbo Lago di Vico

Rieti

LAZIO

forme di assoggettamento nascondevano il piú delle volte reciproche convenienze: nel nostro caso i signori di Alviano preferiscono legarsi a Todi piuttosto che a Orvieto, riposizionandosi sullo scacchiere geopolitico in una dialettica tendenzialmente filopapale. Gli Alviano non dovevano inoltre essere estranei alle mire espansionistiche di Todi in questa prima metà del XIII secolo, dato che nell’atto di sottomissione della città di Amelia a Todi del 1208, proprio tra i rappresentanti del comune di Todi, compare Andrea di Offreduccio di Bonconte, il quale, insieme a Uffreduccio di Canale e Federico di Lacoscello, avrebbe dovuto anche vigilare che gli Amerini offrissero un cero votivo ogni anno, in occasione della festa di san Fortunato, protettore di Todi.

Fedeli al papa

Dalla seconda metà del XIII secolo la famiglia cominciò a dividersi in piú rami, che assunsero scelte e atteggiamenti ondivaghi, difficili da seguire a causa della spiccata tendenza a cambiare orientamento politico secondo le convenienze del momento. Di certo, anche in questo passaggio, la fedeltà al papato viene simbolicamente for(segue a p. 82)

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Dossier Tutti gli uomini e le donne di una schiatta gloriosa

Bonconte Offreduccio Farolfo

Lo stemma dei d’Alviano.

Ugolino militare, podestà e capitano del popolo

Uffreduccio feudatario, capitano e podestà = Foresta

Niccolò

Contuccio

Polione vivente nel 1404

Francesco Giovanna = Luca di Bernardo † 1395 Monaldeschi Napoleone rettore

Ludovica = Girolamo Orsini, signore di Mugnano

Porzia = Paolo Pietro Monaldeschi della Cervara

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Pandolfo militare

Isabella morta nubile

Uffreduccio vivente nel 1380

Ugolino feudatario, militare e rettore = Lodovica

Violante † 1487 = Uguccione, conte di Baschi

Girolama

Gianrinaldo abate

Livio Attilio •1514 † 1537 militare = Marzia di Lodovico Orsini di Nola

Bernardino Abate

Isabella = conte Giangiacomo Cesi

Napoleone vivente nel 1316

Pellegrino

Ugolino militare = Gemma

Luigi signore di Porziano

Pandolfo † 1437 abate, protonotario, commissario e vescovo di Camerino

Tolo = Francesca

Ugolinaccio signore d’Alviano e vicario = Petruccia di Monte Marte

Giovanni vivente nel 1364

Corrado militare = Millia Monaldeschi

Uffreduccio feudatario e capitano del popolo = Claudia Castelli di Terni

Giacomo

Violante monaca

Giovanna = Conte di Corbara

Contuccio

Francesca = Cataluccio di Bisenzo = Giacomo Orsini di Marino

Giacoma = Giacomo, conte di Baschi

Ferma = Andrea Cesi

Tommaso vicario, rettore e commissario

Natalina = Ribelio degli Atti

Corrado rettore e militare = Catetrina Monaldeschi = Isabella Orsini di Soana

Pileo militare e signore di Porziano = Clemenza di Ciarfaglia de’Braschi

Francesco = Isabella degli Atti Tommaso = Perla

Bartolomeo † 1515 condottiero e feudatario = Bartolomea Orsini di Bracciano = Pantasilea Baglioni di Perugia

Laura = Francesco degli Atti Lucrezia = conte Antonello Zampeschi

Orsola = Nicola, conte di Antignola

Bernoldo

Luigi = Imperia di Troilo Orsini di Camponese = Cornelia Baglioni di Castelpiero Maddalena = Giambattista, conte dell’Anguillara

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Colazio = Pantasilea di Civitella

In basso il leone in pietra che si diceva venisse usato come gogna o berlina al tempo della principessa Pamphilj: al collo della scultura era infatti posta una catena la cui estremità termina con un collare in ferro, che sarebbe stato posto al collo dei detrattori della nobildonna.

Angelo Antonio † 1396

Andrea vivente nel 1232

Giordano podestà di Amelia

Contuccio vivente nel 1296 Foresta = Bortolomeo degli Atti

Colazio vivente nel 1338

Andreuzzo vivente nel 1296 Nicola canonico, vivente nel 1349

Giannotto militare, capitano, gonfaloniere

Francesco podestà e capitano del popolo = Gentilesca Farnese di Ancarano

Corrado † 1383 (?)

Giovanni detto «Corraduccio»

Contuccino

Maso

Ermenuzio

Francesco feudatario = Onoria

Corrado vivente nel 1278

Antonio vivente nel 1315

Andrea † 1438

Trojano vivente nel 1315

Cecchino governatore di Amelia Uffreduccio † ante 1387

Andrea Conticino = Filippa di Francesco di Trojano d’Alviano

Giacomo = Francesca Monaldeschi

Egidia = Bortolomeo de’Braschi

Giacoma = Giacomo degli Oddi

Luigi pupillo nel 1432, † dopo il 1436

Giovanni † post 1393

Uffreduccio feudatario e militare

Stefano

Giacoma † post 1393

Filippa = Conticino di Giovanni di Giordano d’Alviano

Giovanni Pietro Scolaro

Mario Francesco feudatario e militare

Orlando pupillo nel 1432, † dopo il 1436

Mattea = Severo Marabottino

Elena pupilla nel 1432, † dopo il 1436 Andrea = Girolama Orsina di Troilo Orsini di Camponese

Camilla monaca

Aurate = conte Camillo Martinengo

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Giustina = conte Martinengo

Corrado † 1516 = Jacomella di Matteo Orsini di Mugnano

Alessandra = Giovanni, signore di Sipicciano

Guidone [illegittimo]

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Dossier

malizzata da un altro elemento araldico che si va ad aggiungere nella parte superiore dello stemma alvianeo ossia il capo d’Angiò, costituito da tre gigli d’oro e un lambello rosso (figura araldica dalla cui parte inferiore si dipartono da 1 a 7 pendenti, o gocce, patenti, che cioè si allargano verso il basso, n.d.r.), brisura del ramo angioino della casa di Francia. È un segno ben preciso, ricavato dallo stemma angioino, che

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comincia a comparire nelle armi familiari dopo la discesa in Italia di Carlo d’Angiò e che diventerà uno dei distintivi piú iconici del partito guelfo o piú in generale antimperiale della Penisola.

Incarichi prestigiosi

Le cariche pubbliche, sia di carattere civile che militare, permettono agli Alviano di navigare con una certa sicurezza nelle burrascose acque della politica del tempo,

muovendosi tra i principali Comuni della regione e non solo. È podestà di Todi Raniero di Ugolino nel 1221, cosí come Ugolino di Rinaldo nel 1266, messo in quella posizione dalla parte guelfa, dopo la morte di re Manfredi; e sempre Ugolino è nuovamente podestà nel 1274. Nel 1242 Offreduccio d’Alviano è capitano al servizio di Innocenzo IV impegnato nel recupero di Viterbo e di Chiusi contro Federico II. Lo stesso papa, nel luglio

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Miniatura raffigurante il conclave di Viterbo del 1268-1271, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. All’epoca dell’evento podestà della città della Tuscia era Corrado di Offreduccio d’Alviano.

1248, con una bolla diretta ai fratelli Offreduccio e Andrea, confermava la sua protezione su tutte le proprietà della famiglia, compresi altresí i loro diritti feudali di mero e misto imperio.

Cardinali senza tetto

Corrado di Offreduccio d’Alviano fu podestà di Viterbo durante il famoso conclave del 1268-1271 (vedi «Medioevo» n. 296, settembre 2021; anche on line su is-

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luglio

suu.com), che si risolse dopo aver fatto scoperchiare il tetto del palazzo dove i cardinali erano ormai riuniti da troppo tempo, e a costui è possibile imputare le prime restrizioni perché i cardinali si affrettassero nell’elezione. Corrado fu poi podestà a Narni nel 1293. Francesco d’Alviano, figlio di Andrea, viene nominato nel 1295 da Bonifacio VIII castellano della rocca di Valentano, nel 1301 è nominato podestà di Todi e, nel 1303, di Narni. Sempre Francesco, nel 1308, insieme al fratello Ghezzo, rinnovava la sottomissione fatta al comune di Todi dai suoi antenati nel 1232. Francesco è a capo dell’ambasciata inviata dal comune di Todi ad Avignone per richiedere una pacificazione delle parti resa insostenibile dalla presenza in Italia dell’imperatore Enrico VII. A tal proposito cosí recitano le cronache: «Fu fatto pubblico consiglio in piazza e vi intervennero 5000 persone fu risoluto di mandare ambasciatori al Papa fu eletto perciò Francesco d’Alviano che deve portare per accompagno 100 cavallieri 200 pedoni e dovevano esporre che la confederazione guelfa di Perugia, Todi, Spoleto, Narni e Orte si mantenesse e che si esiliassero 80 famiglie che avevano sempre mantenuto guerra e disordine in città e distretto di Todi e nelle contrade vicine e queste si reputassero ribelli alla chiesa e nemiche del popolo di Todi il regalo che presentarono al Papa tutte le accennate città fu di 2000 monete di argento lavorato». Ugolino fu capitano di guerra a Orvieto nel 1312 e nel 1322 podestà eletto per acquietare le sedizioni insorte tra le fazioni. Ugolinuccio fu podestà di Foligno nel 1314 e Offreducciolo nel 1306 fu podestà a Perugia per sei mesi con l’obbligo di tenere un giudice, cinque cavalieri, cinque uomini armati e trenta cavalli. Tra il 1310 e il 1316 sono al servizio del comune di Perugia Uffreduccio di Alviano e suo figlio Ugolino. Sempre a Perugia Tom-

maso d’Alviano fu eletto capitano della taglia nel 1351. L’antico vincolo tra il comune di Todi e gli Alviano, che, come detto, sottintendeva un chiaro accordo politico e militare destinato a durare nel tempo, viene nuovamente confermato dal casato attraverso i rappresentanti dei diversi rami il 21 dicembre 1309 e il 16 novembre 1338. Nei due atti compaiono elencati Francesco e Andreuccio, Conte di Corrado, Giannotto, Francesco, Cecchino, Angelo, Coluccio, Stefano, Ghezzo e Andrea di Corrado di Alviano, che rinnovano la sottomissione dei loro castelli alla giurisdizione del comune di Todi secondo quanto già fatto in passato.

Scenari mutevoli

Vari membri della famiglia ricoprono ruoli delicati all’interno del quanto mai complesso e instabile quadro istituzionale regionale tra XIV e XV secolo, fortemente influenzato dal susseguirsi degli avvenimenti nazionali. La discesa di Ludovico il Bavaro riaccese i sopiti istinti ghibellini e le intemperanze dei vari rami della famiglia degli Alviano, aprendo nuovi quanto mutevoli e incerti scenari. Quando il Bavaro giunse a Roma, da Amelia fu inviato in suo aiuto un contingente armato in cui militavano Giannotto, Cecchino, Angeluzzo e Coluccio d’Alviano. Qualche anno dopo, nel 1339, ancora Giannotto, figlio di Francesco, con l’intervento di Todi si impossessava di Amelia e occupava Lugnano. Tra i personaggi familiari piú interessanti spicca la figura di Tommaso d’Alviano, figlio di Ugolinuccio e di Petruccia dei conti di Montemarte, antenato diretto di Bartolomeo. Si distinse per una brillante carriera sia politica che militare, sempre schierato a favore della Chiesa. Combatte nel 1340 contro Terni, con venticinque cavalieri, a fianco dei suoi parenti Contuccio e Napoleone d’Alviano; nel 1342 è impe-

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Dossier Ritratto di Bartolomeo Liviano (d’Alviano), olio su tela di scuola lombarda. Prima metà del XVII sec. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.

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gnato a Orvieto in favore di Matteo Orsini e Benedetto di Bonconte Monaldeschi contro Pietro di Montemarte e Guido de’ Ranieri. Nel 1345 prende la custodia del castello di Cetona e, nel 1351, è capitano della taglia al servizio di Perugia, nel 1377 commissario del cardinale Pietro de Stagno, vicario del pontefice. Il ramo ghibellino della famiglia è ben rappresentato da Giannotto di Francesco, il quale, nel 1340, rinuncia alla carica di gonfaloniere della città di Amelia dove era stato eletto per cinque anni ed è nominato capitano di guerra del comune di Todi. Fu alleato dei potenti Prefetti di Vico, Giovanni e Pietro, insieme ai quali aveva occupato nel 1350 Viterbo, Terni, Narni, Amelia e San Gemini.

Al fianco dell’Albornoz

Sempre gli Alviano sono al fianco del cardinale Albornoz quando, alla fine del 1353, il prelato spagnolo riporta le città umbre sotto il controllo pontificio. In questa delicata fase Tommaso è capitano di guerra a Siena nel 1354, garantendo la fedeltà della città toscana alla Chiesa. Sempre nel 1354, Giovanni, della potente famiglia feudale dei Prefetti di Vico, riconsegna la città di Orvieto nelle mani del papa. E tra il 30 settembre e il 1° ottobre dello stesso anno, a Montefiascone, i principali esponenti delle famiglie magnatizie del territorio si assoggettano al Rettore del Patrimonio Giordano Orsini, tra i nomi presenti diversi sono i membri della dinastia degli Alviano: Ugolino di Ugolinuccio, Giannotto, Giovanni di Offreduccio, Stefano di Ghezzo, Corraduccio di Giovanni, Simone di Conte e Cecco di Coluccio. La carriera di Tommaso non si arresta: è infatti podestà di Viterbo nel 1355 e il 1° febbraio del 1364 acquista da Orso di Napoleone Orsini la metà della rocca del castello Attigliano per 3750 fiorini d’oro. Nel 1366, è capitano del popolo a

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Firenze. La sua fedeltà al papato fu premiata da papa Bonifacio IX il 13 dicembre 1389, con la concessione in vicariato dei castelli di Lugnano e di Porchiano. Fu una persona colta e con una predilezione per i classici ciceroniani come ben traspare da una lettera inviatagli dal famoso umanista Coluccio Salutati il 13 marzo del 1368, all’epoca cancelliere del comune di Todi. Tramontate anche le ambizioni politiche e militari di Ladislao d’Angiò Durazzo, la ripresa di spazio da parte degli antichi signori impone la figura di Ugolino d’Alviano, nonno del condottiero Bartolomeo, il quale contribuí alla restaurazione del controllo papale sul territorio comunale di Todi minacciato da Braccio da Montone, ottenendo da papa Martino V, nel 1419, i castelli di Santa Restituta, Toscolano, e Melezzole. L’incerta quanto pericolosa situazione venutasi a creare dopo la morte di Martino V causò la fuga del suo successore Eugenio IV a Firenze, città dove rimase quasi dieci anni. Nel 1442 Ugolino d’Alviano è impegnato a cercare rinforzi al fine di proteggere il castello di Attigliano dagli appetiti di Niccolò Piccinino. I continui e repentini cambiamenti di fronte vedono contrapporsi il Piccinino, lo Sforza e le famiglie della feudalità romana, prime fra tutte Orsini, Colonna e Anguillara. Il 16 aprile del 1442 Renato d’Angiò, in qualità di re d’Aragona e delle due Sicilie, concedeva a Corrado d’Alviano, in considerazione dei suoi meriti militari, di mettere sullo stemma degli Alviano il capo con lo stemma del sovrano, ossia il seminato di gigli con il lambello. Gli Alviano stringono in questi anni il loro patto di alleanza con la parte orsina, già sancito familiarmente mediante il matrimonio di Corrado d’Alviano con Isabella Orsini: le ricadute sono immediate tanto che Corrado si schiera al fian-

co di Napoleone Orsini nella guerra contro l’indomito Everso dell’Anguillara. Quest’ultimo, nel gennaio del 1457, aggrediva Attigliano per indebolire l’asse orsino-alvianeo, ma, nonostante la mole di armi e armati, dovette desistere a causa della controffensiva di Napoleone Orsini contro Vetralla. Un conflitto che il 30 ottobre 1464 giungeva a una momentanea tregua, firmata dagli Orsini, i Colonna, gli Anguillara e gli Alviano.

Di nuovo in guerra

Morto Everso, il figlio Deifobo riprese le ostilità. La risposta di papa Paolo II, stanco di questa logorante guerriglia, non si fece attendere: Federico da Montefeltro, capitano di Santa Romana Chiesa, e il cardinale Legato Niccolò Forteguerri riconquistarono rapidamente Giove, Blera e Vetralla in mano agli Anguillara, ma al tempo stesso, incalzato dal comune di Amelia, il pontefice si scagliava anche contro gli Alviano, ormai diventati troppo pericolosi per il comune amerino vista la loro chiara scelta di campo in favore di Todi. Cosí le sue truppe assalivano Alviano e Guardea il 23 luglio 1465 e successivamente anche Attigliano. Bartolomeo era nato, forse a Todi, nel 1455 da Francesco d’Alviano e Isabella degli Atti. Il perenne stato di guerra e di odio provocato dalle ostilità tra la famiglia guelfa degli Atti, chiamati anche catalaneschi, dall’antenato Catalano degli Atti, e l’altra ghibellina dei Chiaravalle fa da cornice a quella che si può definire la prima lunga fase della vita di Bartolomeo d’Alviano che va dalla nascita fino alla vittoria del Garigliano nel 1503, ossia i primi 48 anni. Questa fu la sua formazione, il suo addestramento, questo fu lo scenario che lo vide protagonista come combattente di parte: figlio di una Atti, marito, parente e alleato degli Orsini e dei Baglioni. Filippo Orsini

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IL CASTELLO DELLA «NOBIL TERRA DI ALVIANO»

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Il maestoso ingresso del castello di Alviano. La prima fondazione della fortezza risale al X sec., ma l’aspetto attuale è il frutto di ripetuti interventi di ristrutturazione e ricostruzione, succedutisi fino al XVII sec.

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a Nobil Terra d’Alviano Celebre per la grandezza militare di Bartolomeo Liviano già Signore di detta Terra, dentro la quale piantò una Superbissima Roccha per difesa da mano, che anco si conserva nella primiera bellezza, e con commodità di Nobile Habitatione, è situata di là dal Tevere, sotto la Diocesi di Amelia in sito alto, ma però soggetto ad altri vicini Monti di maggior altezza, che lo difendono dal Scirocco, con territorio assai grande, e di giro circa dieci miglia, che non solo gionge al lito Tevere lontano due miglia, ma si estende di qua dal Tevere con una bellissima e fertilissima Pianura, detta il Piano della Nave, e si traghetta dall’uno all’altro lito, mediante una Barca, che del continuo vi stà, passandovi le Pecore, che di Maremma vanno in Montagna, il qual passo fa anche giuoco alle vendite de grani, poiché col negare ad altri l’imbarco, sono forzati li Ternani, Narnesi et altri di Montagna à comprare il grano del Barone a prezzo piú vantaggioso, che perciò s’affitta dal Barone scudi 140 l’anno. La detta Terra è ricinta di Muro, con una sola Porta e con le strade tutte mattonate e con Torrioni in piú luoghi». Con queste parole esordisce l’ignoto autore di un catasto conservato presso l’Archivio della famiglia Doria Pamphilj di Roma, compilato attorno agli anni Trenta del Seicento e arricchito da splendidi disegni a china che raffigurano il castello della «Nobil terra di Alviano» in tutta la sua grandezza, forza e possanza, come dimostrano la pianta e i due prospetti acquarellati allegati al documento. Oltre ad aggiungere particolari interessanti sulla vita religiosa, economica e politica del piccolo borgo, il catasto fornisce anche una descrizione dei vari ambienti che componevano il piano nobile di quello che allora, nel XVII secolo, era definito palazzo baronale, sebbene «in forma di Rocca», pervenuto il 13 aprile del 1654 alla potente famiglia umbro-romana dei Pamphilj, in

virtú dell’acquisto dei feudi della «Teverina» (con Alviano vi erano Attigliano, Poggio di Guardea, Montecalvello e Grotte Santo Stefano) da parte di donna Olimpia Maidalchini. Quest’ultima, già moglie del patrizio viterbese Paolo Nini, poi cognata di papa Innocenzo X (aveva sposato in seconde nozze il fratello Pamphilo Pamphilj), con atto rogato dal Simoncelli acquistò i beni sopradetti per 265 000 scudi dal marchese Marcello Raimondi, gentiluomo savonese, al quale erano stati venduti il 29 febbraio del 1644 dai Monaldeschi della Cervara. Costoro li avevano acquistati da Ottavio Farnese il 20 aprile del 1569 a seguito della divisione del possesso dei castelli di Alviano e Guardea, con la tenuta nuncupata la Marrutana, avvenuta il 28 dicembre del 1569 come da atto rogato dal notaio pubblico de castro Sipicciani (diocesi di Bagnoregio) ser Andrea Grifucci.

Torri sporgenti

Il compilatore del catasto, in modo schematico, ci presenta una scansione dello spazio non troppo dissimile da quella che doveva avere l’edificio agli inizi del Cinquecento, epoca in cui sappiamo esser stato «risarcito» a seguito del conflitto di Alviano contro la città di Amelia, culminato nel trattato di pace del 28 giugno 1495. Allo sguardo attento dello spettatore, il castello si presenta con il suo impianto quadrangolare, rafforzato agli angoli da torri circolari, le stesse che descrive il cabreo, sporgenti rispetto al tessuto murario, con il quale condivide la medesima altezza. Le quattro facciate sono alleggerite da un solo ordine di finestre rettangolari, ornate da stipiti e corrispondente architrave scorniciato. A ridosso dell’intersezione con le pareti orizzontali, le torri mostrano archibugiere e cannoniere, dalle quali era possibile proteg-

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Dossier gere le mura con un tiro di fiancheggiamento. La porta d’ingresso al castello è ad arco acuto, ornata da bugne a punta di diamante, ed è preceduta da un torrino per il corpo di guardia, munito nei muri laterali da feritoie in pietra adatte alle bocche delle colubrine: sopra quella di destra è incisa la data A.D.MLVIII. Una piccola rampa di scale con pavimentazione a spina di pesce è impreziosita sulla destra da un leone (al quale vennero aggiunte le zampe anteriori), probabilmente qui trasportato da un edificio di culto medievale. Definito in un documento del XVIII secolo «Rivellino», il torrino era racchiuso dalle mura, che si presentavano al tempo in uno stato di conservazione non ottimale, come è ben descritto in un documento dell’archivio Doria Pamphilj: «Dovranno rincocciarsi e ricciarsi li muri, che racchiudono il Rivellino, che gira attorno detto Palazzo, con ripigliare in detti qualche partita di muro, che nell’atto dell’opera si troverà fracido e cadente». Il torrino fu quasi certamente realizzato dopo il 1630, poiché esso non compare nei prospetti del cabreo pamphiljano. Nella torre di sinistra, guardando il prospetto principale, è inserito un altro interessante reperto ovvero un chiusino, raffigurante

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una testa di Medusa circondata da un motto allusivo ai tormenti che venivano inflitti ai rei: «IN LAPIDEM SIM VERSA LICET VIRES TAMEN ILLAE. IN ME NUNC VETERIS PLUS FERITATIS HABET» («Benché convertita in pietra, io ho piú forza di prima»).

Un leone per la gogna

La presenza della gorgone con il suo motto e del leone, che si diceva venisse usato come gogna o berlina al tempo della principessa Pamphilj (il capo di una catena era posto al collo della scultura e l’altro capo, terminante con un collare in ferro, si poneva al collo dei detrattori della principessa), confermano che il castello era anche luogo deputato all’amministrazione della giustizia. È opportuno ricordare che in una delle torri aveva sede il governatore, nominato alternativamente dalla Camera Apostolica e dal feudatario, e che da essa si scendeva alle carceri (la struttura è ancora ben visibile) attraverso una botola che si apriva nel pavimento. Dal torrino si accede a un ponticello in muratura ad arco ribassato, costruito in sostituzione dell’originale ponte levatoio, che doveva superare in origine un fossato, ed esteso proprio tra le due torri in facciata e di cui sono

Sulle due pagine vedute del borgo e del castello di Alviano, che permettono di apprezzare la mole poderosa della rocca, situata in posizione dominante sulle case dell’abitato.

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gli avanzi nelle quattro mensole in pietra, formanti il piano di posa dei quattro battenti del ponte: almeno fino agli anni Venti del Novecento era visibile in quella di sinistra uno dei cardini in ferro, a cui era collegata la testata del ponte che girava su se stesso. Al fianco del grande torrione, infine, era collocata la porta d’ingresso alla città, l’unica in tutto l’abitato, distrutta però in epoca moderna. L’intero abitato era delimitato su tre lati da una cinta muraria a scarpata, con torri circolari, mentre la parte orientale era naturalmente difesa dall’orografia dell’area, la cui

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muratura è perfettamente coerente con quella del castello. La presenza delle cannoniere per il tiro radente aperte nelle torri circolari della cinta stessa suggeriscono una loro contemporaneità nella realizzazione con il castello stesso.

Le fasi edilizie

È difficile stabilire l’inizio del cantiere edilizio, poiché allo stato attuale delle ricerche risultano poche e labili le informazioni in nostro possesso. Un’attenta lettura del manufatto ci fornisce però interessanti spunti di riflessione, a iniziare dalla presenza di alcuni conci in

pietra, disseminati nella muratura, sui quali la presenza di datazioni ad annum permettono di seguire un fil rouge che ci conduce all’interno delle varie fasi edilizie, sebbene in modo parziale. Il castello che oggi vediamo fu costruito quasi certamente entro il recinto di un antico fortilizio, del quale purtroppo non rimane traccia se non nel portale e nelle strutture a esso adiacenti, che conduce dalla piccola cappella posta al piano terra, al torrione sud-occidentale, ove la data incisa sullo stipite destro «ANNO DOMINI MILLIO CCCCLXIX VI MAII» (6 maggio 1469),

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Affresco raffigurante la Vergine Madre, nella cappella del castello. Maria sostiene il frutto del suo seno, seduta su un trono di nuvole sorrette da puttini alati; ai lati stanno due santi, identificabili con Lorenzo e Bartolomeo.

costituisce un termine ante quem per la realizzazione di questo settore del castello, poi inglobato nella nuova struttura innalzata verosimilmente tra il 1494-1495, secondo i pacta con il comune di Amelia. Nel trattato di pace, che potremmo considerare effimero, stipulato il 28 giugno 1495 tra la città di Amelia e l’abate Bernardino, a nome suo, del padre Francesco e dei fratelli Bartolomeo e Luigi, a seguito della discesa di Carlo VIII – che nel dicembre del 1494 dopo aver conquistato Alviano, Attigliano e Guardea, le pose sotto il diretto controllo della città dietro il pagamento di una somma di trecento ducati d’oro –, venivano indicate, con dovizia di particolari, alcune caratteristiche architettoniche, alle quali gli architetti del castello si sarebbero dovuti attenere, al fine di «acconciare» una struttura che avesse le fattezze di una abitazione piuttosto che quelle di una fortezza. Il documento, infatti, cosí recita: «che la Roccha de Alviano se acconcie solunmodo per possere habitare non ampliando ne alzando altramente ne facendo turri ne merli ne piombatori ne alcuna altra generatione de defesa ma solum coprirla per abitatione». Se lo scopo primario di quel trattato di pace era quello di arginare la consuetudine degli Alviano di innalzare nei loro possedimenti «fortilitia et arces inexpugnabiles», proprio la lettura del manufatto prova che l’intento non venne effettivamente rispettato. Come ha giustamente evidenziato la storica dell’architetura Giuliana Mosca, in un saggio dedicato alla rocca, il portale collocato nella cappella risulta tagliato dalla parte a esso ortogonale, e in pianta le murature

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presentano, in questo settore, una disposizione diversa rispetto al resto dell’edificio. Il nome di Bartolomeo d’Alviano non può comunque essere associato alla facies edilizia degli anni Sessanta del Quattrocento: alla data del 1469, il grande capitano di ventura aveva infatti solo quattordici anni e, nella veste di paggio di Napoleone Orsini, stava assistendo alla rotta subita dal generale della Chiesa e di Venezia, presso Rimini, per opera di Federico da Montefeltro. Tre anni prima, durante un’azione militare guidata dall’osimano Stefano Guarnieri, commissario di papa Paolo II, Alviano fu sottomessa con Attigliano e Guardea, e i loro signori condotti a Castel Sant’Angelo fino all’elezione di Sisto IV.

La richiesta di rimborso

Nel 1496 una rocca sicuramente esisteva se ivi, come riferisce lo storico tuderte Lorenzo Leonij, il ghibellino Vittorio Chiaravalle fu mandato a marcire prigioniero per tre anni. Alviano era sicuramente dotata di due rocche, una superiore e una inferiore, ovvero posta in fondo al piccolo borgo, come attestano atti notarili rogati nel 1468 e nel 1497. Nel 1501, con una lettera inviata ai priori del comune di Todi e oggi conservata presso l’Archivio storico comunale, Bartolomeo d’Alviano chiedeva la restituzione di una somma di duecento ducati d’oro prestati qualche tempo prima alla città, affermando che tali denari erano stati «deputati per lo murare de la Rocca d’Alviano». Pertanto i lavori di riqualificazione erano già iniziati. Segna l’anno 1520 un’altra iscrizione capovolta, individuata da Giuliana Mosca, presente sulla cornice decorata da bugne a punta di diamante, in una delle finestre del torrione grande che affianca a est l’ingresso al castello: «MDXX PA(N) TA». La scritta è riferita quasi certa-

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Dossier A sinistra particolare del coronamento di uno dei torrioni del castello. Nella pagina accanto il cortile del castello. In basso chiusino raffigurante una testa di Medusa, circondata da un motto allusivo ai tormenti che venivano inflitti ai colpevoli, inserito nella muratura della torre di sinistra.

mente a Pantasilea Baglioni (figlia di Rodolfo, signore di Perugia e di Francesca di Simonetto Baglioni di Castel San Pietro), la seconda moglie di Bartolomeo (in prime nozze si era unito a Bartolomea Orsini), sposata, poco piú che ventenne, davanti la chiesa di Alviano il 4 febbraio del 1498, testimoni Orsino Orsini conte di Bassanello e Piero de Medici figlio del celeberrimo Lorenzo il Magnifico. Dall’unione sarebbero nate tre figlie femmine (Isabella, Lucrezia e Porzia), un figlio maschio Marco, morto però in tenera età, e Attilio Livio. La ricostruzione del castello di Alviano si può pertanto collocare tra la fine del Quattrocento e il secondo decennio del Cinquecento: anni nevralgici per l’architettura militare che si stava adattando alle nuove tecniche di combattimento. Ma il castello di Alviano non è solo un interessante esempio di edificio con evidenti caratteristiche di natura militare. La presenza dell’elegante e raffinato cortile centrale a scandire lo spazio interno e l’utilizzo di diverse tipologie

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di finestre, a ritmare gli alzati dello stesso, lo qualificano anche come residenza civile. Il cortile, che si apre a ridosso della facciata, costituisce il fulcro dell’edificio, poiché da un lato assolve la funzione di luogo di rappresentanza e dall’altro da esso si dipartono i vari ambienti.

Piú luce per le messe

Dal loggiato al piano terra, sulla sinistra, si accede alla piccola cappella di palazzo, «collocata sotto le stanze private», menzionata nella prima visita pastorale condotta ad Alviano da monsignor Pietro Camaiani tra il 1573 e il 1574. Al tempo si presentava inadatta alla celebrazione di messe, per cui Camaiani ordinava, da un lato, che venisse interamente rinfrescata e imbiancata con calce sulle pareti e anche sulla volta, e, dall’altro, che si aprisse una finestra nuova, tale da permettere una maggiore illuminazione dell’ambiente, poiché quella già presente si mostrava inadatta, per cui doveva essere recuperata e riattivata in una forma che fosse piú idonea e decorata con vetrini decorati tondeggianti. Il prelato indugiava anche sulla decorazione della volta dell’altare ove al posto degli affreschi ormai rovinati e sfigurati, dovevano essere «dipinte elegantemente le sacre immagini almeno del Cristo Redentore Nostro e della Vergine Madre». Oggi la cappella mostra nelle lunette e nelle due pareti laterali, le Storie di San Francesco, attribuite al maceratese Giuseppe Bastiani (seconda metà XVI secolo-post 1630), pittore legato al cardinale Odoardo Farnese (1573-1626), artefice principale della sua affermazione. L’immagine della Vergine Madre compare, invece, nella parete di fondo, mentre sostiene il frutto del suo seno, seduta su un trono di nuvole sorrette da puttini alati con ai lati i due santi riconoscibili per gli attributi iconografici, ovvero San Lorenzo e San Bartolomeo. Il tutto

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Dossier Un passaggio segreto ricavato nei sotterranei del castello.

circoscritto da una ghiera decorata in finto marmo. La mensa d’altare è sorretta da un cippo che presenta agli angoli due eleganti paraste decorate da motivi vegetali a racemi, con la specchiatura centrale recante la seguente iscrizione, collocata al di sotto dello stemma Liviani con il capo d’Angiò: «ATTILIVS LIVIANI DOMINVS A VITA ARCE AC TEMPLO RESTITVTI ARAM HANC DIVINO CULTVI EREXIT». Si tratta di Attilio Livio, figlio di Bartolomeo e di Pantasilea Baglioni, nato a Padova nell’agosto del 1514, per la cui nascita Bartolomeo or-

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ganizzò una speciale cerimonia di battesimo, come ricorda Marin Sanudo il Giovane in uno dei suoi Diari: «fo baptizato il fiol sora l’acqua. Erano le retoresse, sua moglie e altre done (…) li compari [Teodoro Trivulzio, luogotenente del re di Francia presso l’esercito veneziano, e Andrea Trevisan capitano di Padova] e li primi condutieri dil campo. E il signor volse fosse tre volte messo ne l’acqua dil fiume e poi baptizato. Lo chiamò in realtà Livio, Lorenzo, Eusebio e Settimio, e uno dei suoi luogotenente levò il bimbo tra le braciia e tutti cridoe “Liviano! Liviano!” e poi menato in terra con

barcha, ne l’intrar, in segno di alegreza, tutta la terra sbarò artellarie». A Livio fu indirizzata anche una lirica che deplorava la morte prematura del padre che gli aveva impedito di collocare adeguatamente i suoi discendenti: «E tu, Livio Septimo, in quanto stato/eri per esser, se già adulto e grande la fatal parca avesse il fil troncato». Livio morí a soli 22 anni: cadde nel settembre del 1537 mentre difendeva Cherasco, in Piemonte, dagli Spagnoli comandati dal marchese del Vasto. Aveva da poco sposato Marzia Orsini, figlia di Ludovico e sorella di Girolama, andata in sposa a Pier Luigi Farneluglio

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conducano l’illustre sposa a Narni». Isabella contrasse matrimonio con un rampollo dell’importante casata umbro-romana dei Cesi, ovvero Gian Giacomo, un connubio che, di lí a poco, avrebbe comportato una svolta, poiché tra il 1539 e il 1540 la Liviani (nata nel 1509 e morta presumibilmente nel 1594), cedette i suoi possedimenti e i diritti che vantava sui castelli di Alviano, Guardea e Attigliano proprio a Pier Luigi Farnese, figlio del papa regnante Paolo II, fra l’altro gonfaloniere di Santa Romana Chiesa. In cambio, Isabella e il marito, ottenevano il possesso dei castelli di Acquasparta e Portaria, unitamente a un conguaglio in denaro. Il Farnese poteva ritenersi soddisfatto dell’accordo, poiché aggiungeva Alviano e i due castelli circonvicini al novero dei territori posseduti dalla famiglia e ubicati al di là del Tevere, nell’area circostante il lago di Bolsena.

L’intervento dell’abate

se, e di Giovan Francesco Orsini, conte di Pitigliano. Alla morte di Livio, la Camera Apostolica chiese alle tre figlie femmine di Bartolomeo (Porzia, Isabella e Lucrezia) e alla moglie Pantasilea di restituire il feudo di Alviano, ma senza riuscirvi, a causa della fiera opposizione delle quattro donne. Nel 1531 Isabella si trovava sicuramente nella rocca di Alviano, poiché sappiamo che il 26 novembre «circa il vespero con un tempo burrascoso, per ordine di Gian Giacomo Cesi improvvisamente furono spediti a cavallo, per Alviano alcuni primati di Narni, perché nel giorno seguente

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Circa l’apparato architettonico della rocca, un ruolo importante ebbe probabilmente il fratello di Bartolomeo, l’abate Bernardino, che potremmo quindi considerare il probabile ideatore della fortezza, ricostruita secondo i canoni della moderna arte della guerra. Questi morí tra l’aprile e il maggio del 1512. Le sue spoglie giacciono nella cappella Cesi nella collegiata di S. Cecilia di Acquasparta dove furono trasportate da Isabella Liviani. La chiesa conserva una pregevole tavola rappresentante la Madonna Assunta con angeli, realizzata a tempera tra il 1475 e il 1499 da Niccolò Liberatore detto Alunno, un tempo chiusa da due sportelli con i Santi Giovanni e Sebastiano ora presso il Museo di Castel Sant’Angelo. Appare verosimile ipotizzare che la centralità del culto mariano ad Alviano, che giustifica anche l’intitolazione della chiesa parrocchiale all’Assunta, possa collegarsi alle fortune dei Liviani nelle

terre della Montagna spoletina, in qualità di gastaldi del granduca. In seguito, il consolidamento e la crescita della signoria territoriale, che a partire dal XII secolo includerà anche i possedimenti di Alviano (fino al XV secolo i Liviani vengono alternativamente nominati signori di Alviano e di Mevale) è accompagnata da quella che era la loro attività piú redditizia: la riscossione dello jus pedaggi. In questa ottica va letta la vicenda del miracolo della Madonna di Mevale, che, secondo una credenza popolare all’epoca molto diffusa, fu trasportata miracolosamente dagli angeli da S. Maria del Monte fino alla piccola pieve di Mevale, oggi in provincia di Macerata. Negli anni Venti del Novecento l’atmosfera che si respirava ad Alviano era decisamente diversa dall’attuale; oggi l’edificio, oggetto nel corso degli anni di un restauro che lo ha ricondotto all’antico splendore, simbolo della comunità, in quanto sede del Municipio, si presenta con spazi ben organizzati, con il seminterrato a ospitare il Museo della civiltà contadina. In un saggio sul castello pubblicato nel 1924, Lorenzo Fiocco, funzionario della Soprintendenza, gli dedicava parole evocative di un passato pittoresco: «Il castello di Alviano come gli altri coevi o piú antichi, ha la nota propria e pittoresca; lungo i muri l’edera s’abbarbica tenace e abbondante, un alito di pace e una mite giocondità si prova nel rimirare le case oscure e logore appollaiate intorno al castello; la chiesetta o cappella; le mura sdrucite e le torri dal tono arcigno; vestigia di prepotenza e di difesa, di opulenza e di miseria. La loro nota pittoresca è tale che bisogna proprio vederla, tanto n’è la varietà del paesaggio, negli sfondi, nei contorni nelle sfumature, nelle opere vecchie e nuove, e osservando, provasi diletto grande». Nadia Bagnarini

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BARTOLOMEO, L’ULTIMO CAPITANO DI VENTURA

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l borgo di Alviano è indissolubilmente legato alla figura di Bartolomeo d’Alviano, il condottiero vissuto tra XV e XVI secolo che fu uno dei protagonisti delle guerre che si combatterono in quell’epoca nella Penisola. Contemporaneo di altri celebri comandanti come Prospero Colonna, Niccolò Orsini di Pitigliano e Vitellozzo Vitelli, per vari motivi ha goduto di una fortuna postuma inferiore alla loro. Tuttavia, agli occhi sia di contemporanei del calibro di Giovanni dalle Bande Nere, sia di storici moderni come Piero Pieri, l’Alviano fu un grande uomo di guerra, che incarnò perfettamente l’evoluzione conosciuta dall’arte militare nella stagione del primo Rinascimento. Bartolomeo nacque nel 1455 circa. Sua madre fu Isabella degli Atti, appartenente alla piú potente stirpe nobile di Todi. Dal lato paterno, invece, discese dai signori di Alviano, una stirpe feudale che era stata molto importante tra XII e XIII secolo, epoca in cui aveva controllato un’ampia porzione del territorio compreso tra Lazio, Umbria e Marche. In seguito, la famiglia aveva perduto gran parte di questi possessi, conservando, tuttavia, potere e giurisdizione su un territorio circoscritto dell’Umbria meridionale, appunto imperniato su Alviano, un’area strategica perché in essa scorre il Tevere e, pertanto, costituiva all’epoca uno snodo importante nei collegamenti con Roma. A partire dal tardo Duecento, i signori di Alviano si erano legati con alleanze e ripetute parentele alla famiglia Orsini, i principali

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esponenti del partito guelfo a Roma, i quali disponevano di numerosi possessi territoriali nella zona dell’alto Lazio. Il legame con gli Orsini fu stretto al punto tale che essi concessero a Francesco di Alviano, il padre di Bartolomeo, l’onore di adoperare il loro cognome, cosicché Francesco e i suoi figli, tra cui il primogenito Bartolomeo, poterono qualificarsi come i signori Orsini di Alviano (domini de Ursinis de Alvia-

no), come attesta un bel documento notarile a tutt’oggi conservato nella rocca del borgo umbro. Stanti queste tradizioni familiari, Bartolomeo fu ben presto avviato al mestiere delle armi. La sua formazione si svolse a Roma e nei possessi laziali di Napoleone Orsini, il capo del ramo di Bracciano della stirpe. E al servizio degli interessi degli Orsini l’Alviano passò gli anni della sua giovinezza, combattendo nei conflitti armati che

opposero le fazioni politiche che si fronteggiavano nell’Italia centrale. Una significativa testimonianza di questo periodo della vita di Bartolomeo si rinviene negli affreschi attribuiti al pittore Antoniazzo Romano ed eseguiti nel 1490 nella Rocca Orsini di Bracciano. In una delle pitture, che raffigura l’incontro tra Gentil Virginio, figlio di Napoleone, e Piero de Medici – a sua volta, figlio ed erede di Lorenzo il Magnifico e di Clarice Orsini, quindi, anche lui membro della «fazione Orsina» – è rappresentato anche Bartolomeo d’Alviano, che campeggia, in sella a un bianco destriero, al comando del gruppo di cavalieri presenti all’incontro. Come documenta l’affresco, a quella data Bartolomeo non era uno dei tanti condottieri che militavano per gli Orsini; al contrario, era un elemento di spicco, uno degli esponenti piú autorevoli e fidati. Tanto che Gentil Virginio lo fece sposare con la propria sorella, Bartolomea, rafforzando cosí ulteriormente il vincolo tra l’Alviano e la famiglia Orsini. Per Bartolomeo l’occasione della vita si presentò nel 1497, quando le Guerre d’Italia erano ormai in corso di svolgimento. In quell’anno l’Alviano diventò il capo militare del ramo Orsini di Bracciano, a seguito della repentina morte di Gentil Virginio, e dimostrò il suo valore difendendo la fortezza di Bracciano dall’assedio delle truppe inviate da papa Alessandro VI. In quell’episodio Bartolomeo diede prova del suo stile di combattimento e, piú in generale, del suo carattere: ardimentoso, sempre luglio

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In alto Bartolomeo d’Alviano in una calcografia realizzata da Aliprando Caprioli per l’opera Ritratti di cento capitani illustri. 1596. Padova, Biblioteca Civica.

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Nella pagina accanto moneta o medaglia con l’effigie di Bartolomeo d’Alviano posteriore alla sua nomina a capitano generale nel maggio del 1513.

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Dossier pronto all’attacco, che lo avrebbe reso famoso, rispettato e da molti detestato nel resto della vita. Uno stile molto diverso rispetto alla prudente tradizione, fatta di lunghi appostamenti, brevi offensive repentine e poche battaglie campali, che aveva caratterizzato le tattiche dei condottieri italiani del Quattrocento. Tuttavia, proprio questo modo di muoversi in maniera velocissima e aggressiva, che Bartolomeo aveva appreso combattendo nei conflitti tra le fazioni cittadine e che costituí la sua principale caratteristica, si rivelò utilissimo nelle Guerre d’Italia, perché assai efficace nel fronteggiare i potentissimi eserciti europei che, forRilievo raffigurante la battaglia di Agnadello, particolare della tomba realizzata da Antonio e Giovanni Giusti per il re di Francia Luigi XII e la duchessa Anna di Bretagna. 1515-1531. Saint-Denis, basilica. Combattuto nel 1509, lo scontro si concluse con la rovinosa sconfitta di Venezia, imputata alla sconsideratezza di Bartolomeo d’Alviano.

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ti di effettivi, artiglierie e cannoni, invasero la Penisola. La difesa di Bracciano convinse la Repubblica di Venezia a mettere sotto contratto l’Alviano, nel 1498. Era la svolta: all’età di oltre quarant’anni, Bartolomeo fu ingaggiato da uno dei piú importanti Stati italiani, il quale, peraltro, pagava molto bene i suoi ufficiali.

Contro il Valentino

Oltre a combattere per Venezia, l’Alviano seguitò a svolgere il ruolo di capo militare degli Orsini di Bracciano, sicché in varie occasioni si fece concedere licenza dalla Serenissima per dislocarsi tra Umbria e Lazio, dove compí scorrerie nei territori controllati da Cesare Borgia, «inimicissimo» degli Orsini. Nel 1503, dopo la strage di Senigallia (l’uccisione, da parte del Valentino, dei suoi rivali Vitellozzo Vitelli, il duca di Gravina Francesco Orsini, Paolo Orsini e Oliverotto da Fermo, n.d.r.), Bartolomeo si abbatté come un fulmine su Roma con i suoi uomini, dichiarandosi

pronto a uccidere Cesare. Ma, di lí a pochi mesi, l’epoca dei Borgia volse al termine, con la morte di papa Alessandro VI e il problema piú urgente diventò il conflitto tra Francia e Spagna per la conquista del Regno di Napoli. Numerosi esponenti degli Orsini decisero di scendere in campo dalla parte spagnola, sottoscrivendo un regolare contratto di condotta. A comandarli fu Bartolomeo, definito nei documenti spagnoli dell’epoca «cabeza y capitán de los Ursinos». Nel novembre 1503 l’Alviano con le sue truppe giunse al campo spagnolo, posto sulla sinistra del Garigliano, il fiume che corre al confine tra lo Stato Pontificio e il regno di Napoli. Qui conobbe personalmente il comandante dell’esercito spagnolo, Gonzalo Fernández de Córdoba, il Gran Capitano, il piú celebre degli uomini d’arme europei di quegli anni. Tra i due militari dovette scattare qualcosa; Gonzalo era famoso per la sua prudenza nella condotta di guerra, mentre Bartolomeo era irruento:

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Battaglia di Cadore, olio su tela di Francesco Bassano. 1578. Venezia, Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio. Lo scontro vide prevalere le truppe della Serenissima guidate da Bartolomeo d’Alviano.

tra loro si compensavano. I due progettarono un’offensiva ardita: costruire un ponte di barche, oltrepassare con gli armati il Garigliano e prendere alla sprovvista l’esercito francese, accampato dall’altra parte del fiume. L’attacco scattò il 28 dicembre 1503; l’avanguardia fu guidata da Bartolomeo, a cui, per l’occasione, il Gran Capitano cedette il bastone del comando. L’accanita battaglia che seguí fu vinta dagli Spagnoli, che cosí si assicurarono il controllo militare dell’Italia meridionale. Per Bartolomeo si trattò di un trionfo personale, che lo trasformò in uno dei comandanti piú apprezzati della Penisola. Terminata la guerra napoletana, tornò a Venezia, vedendo accresciute le sue quotazioni sul mercato. Per farlo rimanere al proprio servizio, la Serenissima lo colmò di onori:

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gli concesse un palazzo sul Canal Grande e il feudo di Pordenone, oltre ad aumentare gli stanziamenti finanziari per lui e i suoi uomini.

Collaboratori di vaglia

Divenuto nel frattempo vedovo, Bartolomeo fece trasferire presso di sé la seconda moglie, Pantasilea, sorella di Giampaolo Baglioni, condottiero perugino ingaggiato anch’egli dai Veneziani. Inoltre, cominciò a contornarsi di collaboratori scelti tra i letterati umanisti, quali Girolamo Borgia e Andrea Navagero, mentre, dal canto suo, il grande Aldo Manuzio gli dedicò due libri stampati nella sua tipografia. Grazie anche a queste frequentazioni, l’Alviano cominciò a modificare le proprie caratteristiche di uomo d’armi: non piú condottiero pronto a cambiare schieramento a seconda delle con-

venienze politiche e soprattutto economiche, diventò un comandante stabile inquadrato nell’esercito veneziano. Si impadroní rapidamente della conoscenza del territorio veneto e friulano soggetto alla Serenissima, suggerendo e spesso imponendo soluzioni difensive assai avanzate, adeguate a resistere agli assedi e ai cannoni. A lui di deve l’ideazione del complesso sistema di fortificazioni che dovevano difendere la terraferma, che comprendeva, per esempio, il rafforzamento delle mura di Padova e la creazione di un «guasto», ossia di un ampio spazio vuoto, circostante la città, finalizzato a renderla meglio difendibile dagli attacchi nemici. Le notevoli conoscenze tecniche maturate gli consentirono, inoltre, di supervisionare la stesura di accurati disegni preparatori di queste fortificazioni e di redigere in prima persona relazioni particolareggiate riguardanti le campagne militari. Cosí facendo, Bartolomeo diventò uno stratega capace di affrontare tutte le sfide poste dalle guerre moderne. Le sue vittorie, come quella riportata al Cadore contro l’esercito imperiale nel 1508, furono decantate dai poeti, come nei cantari in ottava rima, che glorificarono il «valoroso guerrier Dalviano / in facti d’arme un altro Hector troiano», diffondendone la fama presso un ampio pubblico desideroso di conoscere informazioni dettagliate sulle guerre che si stavano combattendo nella Penisola. Tuttavia, a un certo punto la parabola ascendente dell’Alviano conobbe un brusco arresto. Nel 1509, nella battaglia di Agnadello, l’esercito veneziano comandato

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Dossier Rilievo raffigurante la battaglia di Marignano, particolare della tomba del re di Francia Francesco I e della sua prima moglie, Claudia di Valois. 1558. Saint-Denis, basilica. Lo scontro si combattè nel 1515 e la vittoria delle truppe francesi è il frutto di quello che è considerato il capolavoro tattico di Bartolomeo d’Alviano.

da Bartolomeo fu sbaragliato dalle milizie francesi. La Repubblica sfiorò la catastrofe, perdendo buona parte dei propri domíni in Italia. L’Alviano fu catturato dai nemici e portato in prigione nel castello di Loches, in Francia. Nel frattempo, il suo comportamento nella battaglia, considerato focoso fino alla sconsideratezza, a Venezia gli attirò le critiche di coloro che cercavano un capro espiatorio per quella cocente sconfitta, che, in verità, era il risultato di una serie di decisioni errate e confuse deliberate dalle autorità della Repubblica. Dalla gloria, Bartolomeo precipitò nella polvere. La memoria della sconfitta di Agnadello durò a lungo; ancora vari anni dopo, Machiavelli e Guicciardini giudicarono l’Alviano un comandante avventato, «di consiglio precipitoso», insomma un incapace che aveva condotto alla rovina la potenza veneziana. Nonostante le critiche, le autorità di Venezia compresero, pe-

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rò, che in un momento cosí difficile non era possibile fare a meno dell’esperienza e dell’abilità dell’Alviano. Pertanto, una volta liberato e tornato in Italia, nel 1513, egli venne nominato comandante supremo dell’esercito veneziano. Non soltanto non fu punito per il suo comportamento ad Agnadello; viceversa, ricevette un’importantissima promozione. Il rampollo di una famiglia della nobiltà minore del Centro Italia ce l’aveva fatta: aveva raggiunto il vertice della gerarchia militare, le sue competenze erano state riconosciute. Dopo la prigionia e le umiliazioni, era arrivato il momento del riscatto.

Un’autostima sfrenata

La già elevata stima che Bartolomeo aveva di se stesso raggiunse il culmine. Sempre piú spesso, amò paragonarsi al grande Giulio Cesare, anche lui un comandante decisionista e velocissimo manovratore di truppe. Esaltato, dall’alto del

campanile di S. Marco proclamò ad alta voce: «io son el piú grande homo dil mondo», come raccontò, sconcertato, il cronista Marin Sanudo il Giovane. Gli avvenimenti sembrarono assecondarlo. Nel settembre 1515 una carica di cavalleria guidata personalmente dall’Alviano determinò la vittoria dell’alleanza franco-veneziana nella battaglia di Marignano, la «battaglia dei giganti», contro uno schieramento di truppe svizzere e milanesi. Il sovrano Francesco I si dichiarò impressionato dall’abilità dell’Alviano. Anche secondo gli studiosi moderni, Marignano fu il capolavoro tattico di Bartolomeo. Tuttavia, un’altra, e definitiva, svolta del destino era dietro l’angolo. Una ventina di giorni dopo Marignano, durante una delle lunghe marce che imponeva ai suoi soldati, Bartolomeo cadde ammalato e morí a Ghedi, presso Brescia, forse a causa di una malattia addominale luglio

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Miniatura raffigurante Francesco I di Francia che guida l’assalto contro gli Svizzeri nella battaglia di Marignano (1515), da un’edizione in francese delle Orazioni di Cicerone illustrata da Nöel Bellemere. 1529-1530. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

trascurata. Aveva sessant’anni. Per quasi un mese i suoi uomini vegliarono la salma, trasportando il feretro nei loro spostamenti. Infine, il cadavere fu condotto a Venezia, dove ricevette onori di Stato e fu sepolto nella chiesa di S. Stefano. La vedova Pantasilea dovette penare a lungo prima di riuscire a farsi versare la liquidazione del denaro che il defunto marito vantava nei confronti della Serenissima. Terminò cosí, repentinamente, l’esistenza di un soldato che aveva condotto con grandissima velocità tutte le sue imprese. Assieme a lui volgeva al termine la lunga epoca dei capitani di ventura, sostituiti ormai dai condottieri messi sotto contratto stabile dagli Stati italiani. Una trasformazione, questa, che Bartolomeo d’Alviano aveva attraversato in prima persona, vivendola, come era nel suo stile, da protagonista. Erminia Irace

Da leggere Erminia Irace (a cura di), «Impaziente della quiete». Bartolomeo d’Alviano, un condottiero nell’Italia del Rinascimento (1455-1515), il Mulino, Bologna 2018 Emilio Lucci, I Signori di Alviano, una famiglia feudale tra medioevo e prima età moderna, Fondazione per il Cammino della Luce, Amelia 2017 Emilio Lucci e Antonio Santilli, Lugnano in Teverina nel basso Medioevo. Appunti per una storia, Intermedia Edizioni, Orvieto 2017 Alessio Fiore, Signori e Sudditi. Strutture e pratiche del potere signorile in area umbro marchigiana

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(secoli XI-XIII), Fondazione CISAM, Spoleto, 2010 Luigi Borgia, Gli stemmi araldici quali «tabulae»giuridiche, in Claudio Leonardi, Marcello Morelli e Francesco Santi (a cura di) Fabula in tabula. Una storia degli indici dal manoscritto al testo elettronico, Atti del Convegno di studio della Fondazione Ezio Franceschini e della Fondazione IBM Italia, Certosa del Galluzzo (21-22 ottobre 1994), Fondazione CISAM, Spoleto 1995; pp. 157-189. Piero Pieri, I nobili d’Alviano feudatari nella montagna di Spoleto, in Bollettino della Regia Deputazione

di Storia Patria per l’Umbria, vol. XX, 1914; pp. 93-151 L. Fiocca, Il Castello dei Liviani in Alviano in Teverina, in La Cultura Moderna, Rivista quindicinale Illustrata, 1924 a. XXXIII; pp. 192-196; Chiara Violini, Pordenone in Umbria: il caso di Alviano, in Studi di Storia dell’Arte, 30, 2019; pp. 155-176 Luciano Canonici, Alviano, Una rocca, una famiglia, un popolo, Edizioni Porziuncola, Assisi 1974 Piero Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare italiana, Einaudi, Torino 1952 Giampiero Brunelli, La guerra in età moderna, Carocci Editore, Roma 2021

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Storie, uomini e sapori

Le marmellate di Nostradamus di Sergio G. Grasso

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a canna da zucchero (Saccharum officinarum) è una graminacea tropicale perenne originaria delle isole del Pacifico Meridionale, la cui storia si perde nelle leggende polinesiane e nella mitologia indiana. La parola «zucchero» deriva dal sanscrito sarkara, (graniglia, sabbia) e se ne trova menzione nel Sushruta Samhita, ponderoso trattato alla base della medicina ayurvedica, scritto tra il XIII e il VII secolo a.C. Nell’Atharvavedah (1200-900 a.C.), la stessa canna da zucchero viene citata come elemento per fabbricare corone cerimoniali. Nel VI secolo a.C. i Persiani occuparono i territori dell’Indo e adottarono la pianta, apprendendo anche il processo di raffinazione ed essiccazione del liquido spremuto dalla canna. Tuttavia, la coltivazione rimase circoscritta alla provincia elamita e al versante est del fiume Tigri. Nel 325 a.C. le truppe di Alessandro Magno, di ritorno dall’India, portarono in Medio Oriente alcuni esemplari di un arbusto da cui si ricavava un «miele» che non nasceva dalle api. In epoca

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romana si hanno poche notizie sullo zucchero: si sa che veniva usato da Galeno come farmaco e in Plinio il Vecchio si legge che Nerone assaggiava «un sale indiano simile al sale ordinario come forma e colore, con il sapore del miele».

Un prodotto di lusso A partire dal VI secolo d.C. gli Arabi acclimatarono la canna da zucchero nella Valle del Nilo, in Siria, in Palestina e in tutta l’Africa del Nord, piantandola anche a Cipro, a Rodi, nelle Isole Baleari, nella Spagna del Sud e, dopo il IX secolo, anche in Sicilia. Per tutto il Medioevo, il principale produttore di zucchero nel bacino del Mediterraneo rimase l’Egitto che ne fece un prodotto di lusso e molto costoso. Nel XV secolo i Portoghesi avviarono piantagioni di canna da zucchero a Madeira e nelle Isole Canarie, finché, nel XVI secolo, furono intraprese colture intensive di canna da zucchero in America e nelle Indie Occidentali. Se ne desume che la disadorna arte dolciaria dell’Alto Medioevo europeo, fino all’invasione araba di Spagna e Sicilia, costringesse i

cucinieri a far conto solo su farina, uova, miele e ricotta, senza poter contare sullo zucchero e nemmeno sul burro, prodotto che si diffuse nelle cucine solo nel Rinascimento. Se si escludono i confetti, inventati a Verdun nel 1200, e i torroni, che comparvero in Spagna nello stesso periodo, la pasticceria medievale si limitava alle pagnotte addolcite con miele e frutta secca, agli impasti azimi con uva e fichi, ai biscotti «da serbo» (bracciatelle, berlingozzi, ciladoni, morselletti, mostaccioli, offelle ecc.), oppure, sulle tavole piú ricche, ai «blancmanger», sorta di budini in cui la carne lessata di pollo o cappone veniva mescolata a latte e miele. Una costante del «boutehors» (l’ultima portata del banchetto) medievale fu il servizio della frutta bollita nel miele, un’eredità del mondo romano codificata nel 73 d.C. da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, ma già presente in Ippocrate, che suggeriva di «confettare» nel miele le mele cotogne per combattere le diarree. Purtroppo, la natura fluida del miele non permetteva di dare luglio

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Michel de Nostre-Dame, detto Nostradamus (1503-1566), olio su tela di François Marius Granet, da un originale di César Nostradamus. 1845. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.

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CALEIDO SCOPIO consistenza e durabilità a questi preparati, piú simili a gelatine semiliquide piuttosto che a quelle che noi chiamiamo confetture o marmellate. Per realizzare quelle conserve di frutta serviva la natura cristallina e igroscopica dello zucchero, merce ancora rara e costosa al pari delle spezie e, come tale, destinata alla preparazione di farmaci, sciroppi, pastiglie per le malattie di petto e anche di quegli antenati dei nostri leccalecca definiti all’epoca «elettuari», termine derivato dal greco ekleicton ovvero medicina-da-leccare. Al riguardo dello zucchero sarà opportuno ricordare che uno statuto emesso dal doge Jacopo Tiepolo testimonia che, già nel 1229, Venezia gestiva un’esclusiva commerciale su quello raffinato che importava dall’Egitto, dalla Siria, da Creta e dalla Sicilia per venderlo agli speziali di Olanda e del Nord Europa. Agli inizi del Trecento gli «zuchareri» della Serenissima incassavano, sul solo mercato lombardo, oltre 80 000 ducati, quanto bastava perché nel 1334 il doge decidesse di applicare un dazio del 5% sull’importazione di zucchero raffinato da Candia. La contromossa dei commercianti fu quella di importare le melasse

grezze di canna, libere da imposte, e di raffinarle in proprio. Questo mestiere ebbe un tale sviluppo che, all’inizio del Cinquecento, i «refinadori de zucharo» in Laguna si costituirono in un’arte che rientrava in quella degli «Spezieri da Grosso». Venezia detenne il monopolio europeo dello zucchero fino al XVII secolo, quando dovette cedere consistenti fette di mercato a quello spagnolo e inglese prodotto dalla canna americana.

Una vita travagliata E proprio alla metà del Cinquecento il mondo dello zucchero viene sconvolto da Michel de Nostredame, medico e speziale francese, piú noto come veggente e «profeta» con il nome di Nostradamus. Fu uomo di grande cultura scientifica e umanistica che godette dell’amicizia di François Rabelais e di molti altri letterati e uomini di scienza. Nato nel 1503 in Provenza da una famiglia di Ebrei conversi, studiò matematica, retorica, astronomia e astrologia all’università di Avignone. Esercitò l’attività di speziale fino al 1529, quando entrò all’università di Montpellier, dove conseguí il dottorato in medicina nel 1532. L’anno successivo si trasferí ad

Agen in Aquitania, si sposò ed ebbe due figli ma perse l’intera famiglia nel 1537 a causa di un’epidemia di peste. In seguito a una denuncia all’Inquisizione come negromante in possesso di libri proibiti, abbandonò Agen e si dette alla professione di medico errante in Francia e in Italia. Riscossero notevole successo i suoi i suoi preparati a base di cipresso, aloe, ambra, muschio, garofano, essenza di iris e di rose, grazie ai quali sconfisse un’epidemia di pertosse a Lione ed ebbe la meglio sulla terribile pestilenza di Aix-enProvence nel 1546. Ricevuto da quella città un dignitoso vitalizio, si risposò e si stabilí definitivamente nella vicina Salon, dove alla sua professione di medico e farmacista affiancò quella di astrologo, studioso di esoterismo e autore di oroscopi ben retribuiti. Risalgono al 1550 i suoi primi almanacchi con pronostici annuali di cui esistono esemplari nella Biblioteca Arbaud di Aix-enProvence. La sua reputazione come veggente era tale da garantirgli la considerazione e il sostegno di re Enrico II, Emanuele Filiberto di Savoia, Caterina de’Medici e re Carlo IX, di cui divenne consigliere e medico personale. A sinistra mortai e pestelli di epoca medievale. XIV-XVI sec. Nella pagina accanto miniatura raffigurante un venditore di zucchero, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

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CALEIDO SCOPIO Miniatura raffigurante due uomini in una piantagione di canna da zucchero, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

Ai primi anni Cinquanta risale l’Interpretation des Hiéroglyphes de Horapollo, la prima opera di Nostradamus: un lavoro di carattere alchemico e iniziatico, ma, al tempo stesso, anche l’unico suo manoscritto autografo, oggi alla Bibliothèque nationale de France di Parigi. Nello stesso periodo affidò al libraio Volant di Lione l’incarico di stampare un opuscule di duecento pagine che pare gli costasse una profumata ammenda in quanto privo dell’imprimatur vescovile. Il successo di quel volume in 8°, intitolato Traité des confitures (Trattato sulle confetture) fu tale che in una ventina d’anni venne ristampato ben dieci volte in francese e tre in tedesco. Va detto che ricette di costose confetture e canditure a base zuccherina si

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trovano già nel Mesnagier de Paris, composto nel XIV secolo, e nel Petit Traicté contenant la maniere pour faire toutes confitures del XV.

Indicazioni ben precise A differenza di quelli, il Traité di Maître Michel de Nostredame non è un libro di cucina o pasticceria, ma tratta di confetture, gelatine e composte a soli fini medicocurativi, frutto delle sue profonde conoscenze erboristiche e farmacologiche. Ingredienti di spicco, oltre allo zucchero – quasi certamente veneziano – erano la mela cotogna, la ciliegia, il rabarbaro, l’arancia, il limone, la pera, lo zenzero bianco, le noci, la mandorla fresca, la zucca e altre frutta e verdure impreziosite da spezie come zenzero, cannella o

chiodi di garofano. Vi si legge di una conserva lassativa ai petali di rosa, di una confettura di zucca per ridurre il calore del fegato, di una composta di buglosse per ringiovanire e finanche di una lattuga candita contro la tosse. Vale la menzione una gelatina di zenzero indicata «pour celles dont la froideur de la matrice rend impropres à concevoir et satisfaire légitimes appétits», talmente afrodisiaca che «se un uomo ne avesse un po’ in bocca, e mentre lo avesse in bocca baciasse una donna, o una donna lui, e lo espellesse con la sua saliva, mettendone un po’ in bocca all’altro, causerebbe improvvisamente (...) un bruciore del suo cuore per compiere l’atto d’amore». Alcuni ingredienti andavano cotti nello zucchero dopo averli tenuti a lungo in ammollo nell’acqua, altri andavano lasciati macerare nel sale per giorni. Non mancavano le procedure per candire le scorze d’arancia, per confezionare paste di marzapane e caramelle di zucchero oltre a un curioso dentifricio fatto di osso di seppia e guscio di lumaca di mare. Il Traité è meticoloso sia nei procedimenti, sia nella descrizione degli strumenti da impiegare: la pentola in rame, il temperino per mondare i vegetali, il mortaio di marmo con pestello di legno per sminuzzare spezie e semi, il cucchiaio d’argento per dosare il prezioso zucchero e il mestolo forato per schiumare la superficie durante la cottura. Viene spontaneo pensare che se Nostradamus avesse applicato alle sue Centuries la stessa chiarezza e scrupolosità adottata nel descrivere le confetture, l’umanità si sarebbe risparmiata molta delle mediocre letteratura dedicata alla illusoria interpretazione delle sue profezie. luglio

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ITTITI

Una civiltà riscoperta a cura di Stefano de Martino, Massimiliano Marazzi e Clelia Mora

La nuova Monografia di «Archeo» propone una sintesi della storia degli Ittiti puntuale e aggiornata alle scoperte piú recenti. La parabola di questa grande civiltà si snoda nell’arco di circa sei secoli, nel corso dei quali la terra «di Hatti» si struttura dapprima come regno e poi come un vero e proprio impero, ma, soprattutto, si impone come uno degli attori principali sulla scena mediterranea e vicino-orientale. Una potenza che giunse perfino a spaventare il pur potente Egitto, come dimostrano le tensioni sfociate nella celebre battaglia di Qadesh, combattuta sulle sponde del fiume Oronte, in Siria, nel 1275 a.C. Gli Ittiti, però, non furono soltanto temibili guerrieri, ma seppero elaborare un sistema amministrativo efficace, dotandosi di leggi che oggi conosciamo grazie alle testimonianze epigrafiche. E proprio la decifrazione della loro lingua ha costituito uno dei capitoli piú avvincenti nella storia moderna di questo popolo, che ebbe la sua svolta decisiva nel 1917, grazie allo studioso ceco Bedrich Hrozny, capace di decifrare le decine di tavolette iscritte in caratteri cuneiformi e, all’apparenza, incomprensibili. Di questo e di tutti gli altri aspetti salienti della cultura ittita dà conto la Monografia, in una rassegna curata dai piú autorevoli studiosi della materia.

IN EDICOLA


CALEIDO SCOPIO

Quando i santi prendevano le armi

Bavone, gaudente pentito di Paolo Pinti


È

un destino curioso, quello di san Bavone, pressoché sconosciuto come personaggio/santo, ma legato a opere d’arte di prima grandezza, queste sí famose in tutto il mondo, quali il Polittico dell’Agnello Mistico (o Polittico di Gand), opera monumentale di Jan e Hubert van Eyck, dipinta tra il 1426 e il 1432 per la cattedrale di S. Bavone a Gand, dove si trova ancora oggi, e la Conversione di San Bavone (1624), di Pieter Paul Rubens, conservata nella stessa chiesa. Senza dimenticare il San Bavone di Hieronymus Bosch, particolare del trittico del Giudizio Universale (1510 circa), conservato nella Gemäldegalerie der Akademie der Bildenden Künste di Vienna. A tale santo sono intitolate la cattedrale e la chiesa grande di S. Bavone, entrambe ad Haarlem, città della cui diocesi è patrono, come di quella di Gand. In Italia, a Peschiera Borromeo (Milano) esiste la parrocchia di san Bovio (altro nome del santo, noto anche come Bavo, o Bovone, e come Aluino).

Bavarese di nome, ma non di fatto Il nome Bavone, piuttosto bizzarro, deriva dal tedesco antico e significa «originario della Baviera», ma il nostro nacque in realtà in Belgio, fra la fine del VI secolo e l’inizio del successivo, dalla nobile famiglia degli Allowin, e, secondo la leggenda, sarebbe stato figlio di Pipino di Landen, detto il Vecchio, maggiordomo d’Austrasia. Ricco e potente, conduceva una Nella pagina accanto San Bavone, olio su tela attribuito a Geertgen tot Sint Jans. Ultimo quarto del XV sec. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage. Si noti l’armatura dorata, col petto lavorato a sbalzo. La spada ha la lama a sezione rombica, con breve sguscio iniziale; elsa semplice a bracci molto corti; impugnatura molto lunga, cosí da poter essere adoperata anche a due mani, sormontata da un pomo che definisce il rivestimento in pelle, di colore rosso.

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Madonna con Bambino, Santa Lucia e un Santo (particolare), affresco di ambito umbro. XV sec. Rocca San Zenone (Terni), chiesa di S. Giovanni Battista. Il personaggio rappresentato, con spada e falcone da caccia, potrebbe essere sia san Giuliano Ospitaliere che san Bavone, per l’identità dei simboli suddetti. Sono entrambi nati in Belgio, grosso modo nella stessa epoca, vestono abiti signorili e sono contrassegnati nello stesso modo: come si fa a distinguerli? Non sembra possibile. Ci può aiutare la loro collocazione che, in questo caso, depone per san Giuliano, santo protettore di Macerata, non molto lontana da Terni, mentre Bavone non ha altri riferimenti in zona (su gentile concessione della Diocesi di Terni-NarniAmelia; aut. n. 79/22).

vita dissoluta – circostanza del tutto normale per molti futuri santi –, finché, dopo la morte della moglie Agletrude, figlia di un conte merovingio, cadde in una profonda depressione e decise di rivolgersi a sant’Amando, missionario fra i pagani che vivevano vicino a Gand, il quale gli consigliò di spogliarsi di tutti i suoi beni, dandoli ai poveri: Bavone accolse il suggerimento e, entrato in convento, cominciò a

collaborare con il sant’uomo. Dopo qualche tempo si ritirò in una cella, vivendo da eremita fino alla morte, sopraggiunta intorno al 655. Come per numerosi altri santi, di lui si conoscono varie Vite, per lo piú fantasiose, con parecchie varianti. In una di queste, si dice che avesse trascorso gli ultimi tre anni di vita all’interno di un grosso albero e che proprio tali privazioni lo condussero alla morte, la cui data

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CALEIDO SCOPIO A sinistra statua di san Bavone, con spada e falcone. Haarlem, Cattedrale, Cripta. Nella pagina accanto un’altra statua di san Bavone, in legno policromo, che qui, oltre a portare spada e falcone, ha il capo cinto da una corona. La presenza di quest’ultima, tuttavia, in assenza di notizie certe sulla vita del santo, va spiegata con la sua possibile appartenenza a una casata nobiliare di rango comunque modesto. Houtave (Belgio), chiesa dei Ss. Bavone e Macuto.

viene variamente collocata da altre nel 659 o nel 654, mentre l’anno di nascita sarebbe stato il 622. Quella del nobile ricco, dedito inizialmente a bagordi e dissolutezze, che poi si pente e cambia radicalmente vita, donando tutto ai poveri, è un topos ricorrente nell’invenzione delle storie dei santi, che rimanda alla nota massima del Vangelo: «È piú facile

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per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio» (Mc 10,25; Mt 19,24; Lc 18,25). Di recente, peraltro, è stato ipotizzato che la povera bestia ne sia divenuta protagonista per via di un errore di trascrizione della parola aramaica gamal, che indica tanto il cammello quanto la corda, e, piú esattamente, la gomena di una nave, notoriamente di grosso

diametro e ugualmente adatta per la stessa iperbole. Assodato che i ricchi difficilmente vanno in paradiso, con queste leggende s’intendeva esaltare il gesto di spogliarsi dei propri beni in favore dei poveri, per darsi a una vita ascetica, meglio se dedicata a far del bene agli altri: san Francesco d’Assisi è l’esempio piú noto. Di per sé, Bavone non compí azioni di particolare rilievo, ma abbandonare ogni suo avere sarebbe piú che sufficiente per suffragarne la santità. Si ritiene che le sue reliquie si trovino in parte nella cattedrale di Gand e in parte fossero custodite nell’abbazia benedettina francese di Nesle-la-Reposte, oggi in rovina.

Simboli di nobiltà Sappiamo quindi che non fu un martire e la spada che compare in dipinti e statue che lo ritraggono non simboleggia lo strumento che ne causò la morte, bensí lo stato sociale (nobile) d’origine. In altre opere, Bavone, che indossa abiti lussuosi e ha un falcone posato sul braccio, ma non porta la spada, compare nell’atto di fare elemosina ai poveri oppure già eremita presso un tronco cavo. Il falcone, l’altro elemento che dunque lo caratterizza, evoca il suo passato di cacciatore. La caccia con il rapace – che Federico II di Svevia esaltò nel trattato De arte venandi cum avibus – era praticata solo dai nobili e bastava rappresentarla per richiamare il lignaggio del soggetto dipinto. Risulta bizzarra la presenza costante di una corona sulla testa di san Bavone, che lo qualificherebbe come re o principe, mentre tale non è mai stato. Dobbiamo perciò pensare che si tratti di un riferimento a corone nobiliari di piú basso rango. Corona a parte, un nobile con spada e falcone dovrebbe essere identificato con san Bavone, senza alcun dubbio. Ma non è cosí: come già abbiamo avuto modo di illustrare nel caso di san Giuliano, raffigurato anch’egli come un luglio

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nobiluomo dotato di spada e di falcone, sempre per simboleggiare il suo passato di cacciatore (vedi «Medioevo» n. 294, luglio 2021; anche on line su issuu.com). Molto interessante è il San Bavone (ultimo quarto del XV secolo) conservato all’Ermitage di San Pietroburgo (vedi foto a p. 108), attribuito a Geertgen tot Sint Jans (1465 circa-1495 circa). Qui troviamo sia la spada che il falcone, quest’ultimo posato sulla mano sinistra del santo. La spada è di generose dimensioni, con lama a sezione rombica, inizialmente sgusciata al centro; elso a bracci dritti e molto corti; impugnatura molto lunga, tipica delle spade da una mano e mezza, rivestita di tessuto o pelle di color rosso, sormontata da un pomo di ferro a sagoma di bulbo allungato.

Attributi ingannevoli Poiché non è certo la tipologia della spada a esserci d’aiuto, come distinguere, quindi, fra i due santi? Semplice: non si può. Ovviamente, opere d’arte gravitanti nell’area di Gand e di Haarlem raffigureranno san Bavone, ma san Giuliano ha viaggiato ed è venerato in varie località, fra le quali Macerata, della quale è patrono, e Parigi, e, pertanto, l’identificazione potrà rivelarsi difficile. Un’incertezza confermata da un affresco nella chiesa di S. Giovanni Battista in località Rocca San Zenone (Terni; vedi foto a p. 109): nulla distingue un santo dall’altro e solo la relativa vicinanza fra Terni e Macerata depone in questo caso per Giuliano, peraltro anch’egli belga e quasi contemporaneo di Bavone. Non esistendo un registro europeo dei simboli dei santi, una sovrapposizione di segni poteva verificarsi e non per nulla molti pittori pensavano bene di scrivere il nome del santo ai piedi dell’affresco, risparmiando ai fedeli l’imbarazzo di non sapere «a che santo votarsi».

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Tommaso Indelli La Giustizia nella Langobardia meridionale tra norma e prassi

prefazione di Claudio Azzara e premessa di Gabriele

Archetti, Fondazione Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto-Centro Studi Longobardi, Milano, 260 pp.

40,00 euro ISBN 978-88-6809-321-1 shop.cisam.org www.centrostudilongobardi.it

Tra l’VIII e l’XI secolo, l’ordinamento giuridico dei principati longobardi del Mezzogiorno d’Italia disponeva di molti strumenti di risoluzione delle dispute legali: il processo, la legge scritta, l’equità, la consuetudine, la transazione. La documentazione processuale superstite ha dimostrato che l’ordinamento della Longobardia meridionale fu molto complesso e presupponeva la coesistenza – in un’unica compagine statuale – di sottoinsiemi giuridici diversi, distinti per strumenti e autorità preposte alla loro applicazione. Tommaso Indelli mira qui a ricostruire l’organizzazione del sistema giudiziario della Longobardia minore cercando di individuare quali

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fossero non solo le modalità di amministrazione della giustizia, ma anche gli organi addetti a tale funzione, la loro struttura interna, l’esistenza di sfere di competenza – per materia e territorio – e, infine, l’eventuale gerarchia tra gli stessi. L’esame dei casi giudiziari riportati nel volume dimostra come l’Editto promulgato, nel VII secolo da re Rotari, e applicato

anche nel Mezzogiorno longobardo, non ebbe mai, nella prassi viva dei tribunali, pretese di completezza ed esaustività come i codici odierni. La difficoltà di ricostruire il concreto funzionamento dell’ordinamento giudiziario della Longobardia meridionale è a lungo dipesa dalla prospettiva storiografica deformante, tendente a svalutare il

contributo positivo che le popolazioni «barbariche» avrebbero dato anche in campo giuridico. Secondo tale prospettiva interpretativa – a lungo vigente – solo la permanenza sul suolo italico – nell’epicentro stesso dell’antico impero, culla della romanità – avrebbe smussato, attraverso un lungo processo di acculturazione, i lati piú aspri della cultura dei Longobardi. I Romani, quindi, riuscirono a imporre, anche in campo giuridico, la loro civiltà ai vincitori, mentre il cristianesimo addolcí la loro «barbarica» crudeltà. Tutto ciò consentí anche alle leges Langobardorum di assumere, col tempo, un aspetto diverso, piú civile, dapprima attraverso la scrittura e poi grazie a una sistemazione complessiva dei singoli istituti piú logica e coerente, con un’aggiunta di maggiore umanità e mitezza. Oggi, abbandonate queste prospettive e abbracciata una visuale di indagine relativista, finalizzata a inserire il diritto longobardo nel piú ampio contesto dell’Europa altomedievale, è

possibile comprendere e accettare, con minore riluttanza, le tipicità di quell’esperienza giuridica, per quanto lontana dalla prassi giuridica romana non assunta piú come acritico modello. In un mondo dominato dal particolarismo di poteri, dalla debolezza dello Stato, dalla violenza dei potentes, dove tra le fonti normative non esisteva una rigida gerarchia e l’applicazione del diritto era influenzata da fattori contingenti di tempo, luogo, persino appartenenza sociale, forme diversificate di applicazione della giustizia risultavano pienamente comprensibili e normali e, pertanto, non possono essere concepite come deviazioni o anomalie sistemiche. La stessa legislazione scritta, tra l’altro, riacquista senso ed efficacia, in quanto effettivamente applicata, seppur inserita in un sistema generale, molto diverso dall’attuale, che contemplava anche fonti normative diverse. Essa era parte di un sistema piú articolato, probabilmente non armonico, ma non aveva solo il valore ideologico o

simbolico che alcuni studiosi hanno voluto attribuirle. (red.) Fulvio Delle Donne Federico II e la crociata della pace Carocci editore, Roma, 158 pp.

15,00 euro ISBN 978-88-290-1338-8 www.carocci.it

Il 28 giugno del 1228, alla guida di una flotta di 40 galee, Federico II di Svevia lasciava il porto di Brindisi: iniziava cosí – e si potrebbe aggiungere, finalmente – la sesta crociata. Come s’intuisce fin dal titolo scelto da Fulvio Delle Donne, si trattò di una missione «anomala», poiché l’imperatore, chiamato a recuperare alla cristianità i luoghi santi e il Santo

Sepolcro innanzi tutto, condusse l’impresa senza mai ricorrere alle armi e dunque si trattò di una guerra santa non guerreggiata. luglio

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Ed è proprio questa anomalia una delle motivazioni principali che hanno indotto l’autore alla stesura del volume, di lettura assai godibile, offrendo una trattazione che, al di là dell’argomento in questione, è una vera e propria lezione di metodo. Mettendo a confronto le fonti, le tradizioni trasmesse nel tempo e le analisi storiografiche fin qui condotte, Delle Donne cerca infatti di sottolineare quanto importante sia, soprattutto in un caso come questo, indagare a fondo il patromonio documentario disponibile, senza scendere alla prima fermata. Ne scaturisce una ricostruzione dell’evento di grande interesse e che può senz’altro contribuire a sgomberare il campo dalle generalizzazioni che spesso contrassegnano la lettura di fatti antichi e moderni. Stefano Mammini Carlo Ruta Gli equivoci del medioevo

Edizioni di storia e studi sociali, Ragusa, 130 pp., ill. b/n

15,00 euro ISBN 978-88-99168-55-1 www.edizionidistoria.com

Il Medioevo ha a lungo scontato, e talvolta

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continua a scontare, la vulgata secondo la quale si sarebbe trattato di un’epoca di sostanziale recessione culturale. Un giudizio alimentato già dai posteri, nel XV e nel XVI secolo, ma che oggi risulta ormai superato. I dieci secoli dell’età di Mezzo,

insomma, furono tutt’altro che «bui» e Carlo Ruta ribadisce il concetto in maniera netta, soffermandosi sull’approccio degli umanisti rinascimentali nei confronti dei loro predecessori e scegliendo poi alcuni casi di studio eccellenti, come quello dell’imperatore Federico II. E riesce, con successo, a provare quanto opinabili siano state molte sentenze, riaffermando la modernità e la vivacità di un’epoca capace di segnare svolte decisive nella storia universale. (S. M.)

Neville Rowley Donatello berlinese

Officina Libraria, Roma, 183 pp., ill. col. e b/n

22,00 euro ISBN 978-88-3367-168-0 www.officinalibraria.net

La grande mostra su Donatello ancora in corso in Palazzo Strozzi, a Firenze (vedi «Medioevo» n. 304, giugno 2022; anche on line su issuu.com), è nata da un progetto che ha avuto tra i suoi attori principali i Musei Statali di Berlino e non poteva essere altrimenti, visto che la collezione tedesca possiede un nucleo di opere dell’artista tra i piú ricchi al mondo. La storia e le vicissitudini moderne delle sculture «berlinesi» di Donatello sono ora raccontate da Neville Rowley, che propone al

lettore una trattazione nella quale le considerazioni critiche si affiancano alla formazione di questo eccezionale corpus. Un insieme riunito

grazie alla passione e all’infaticabile impegno di Wilhelm (von) Bode, il grande studioso che, agli inizi del Novecento, fu direttore degli allora Königliche Museen (oggi Staatliche Museen). (S. M.) Roberto Roveda e Michele Pellegrini I grandi eretici che hanno cambiato la storia Da Ipazia a Pelagio, da Federico II a Giovanna d’Arco: le storie di coloro che si sono opposti ai dogmi della Chiesa

Newton Compton editori, Roma, 382 pp.

12,90 euro ISBN 978-88-227-5524-7 www.newtoncompton.com

I personaggi che scelgono di infrangere le regole esercitano

da sempre un fascino pressoché irresistibile ed ecco confezionata una galleria che ne vede molti fra i piú illustri. Come ricordano gli

autori nelle pagine introduttive, il termine eresia deriva dal vocabolo greco che indica la scelta ed è dunque bene ricordare che quanti sono stati consegnati alla storia come eretici ebbero spesso la sola colpa di dubitare delle verità precostituite e dei dogmi (solitamente religiosi). Ma ebbero la sfortuna di vivere in epoche nelle quali scarso era lo spazio concesso al dubbio e forti le intolleranze. L’opera ha il merito di non proporre una sequenza di profili biografici, ma, nei vari capitoli in cui si articola, inquadra le vicende dei singoli nel piú ampio contesto storico e culturale. Offrendo un quadro che, pur avendo nella sezione dedicata al Medioevo il suo nucleo piú consistente, si spinge fino all’epoca moderna e contemporanea. Il lettore ritrova quindi tutte le celebrità del caso – dai catari a fra Dolcino, da Giovanna d’Arco a Savonarola, da Giordano Bruno a Galileo… –, ma potrà venire a conoscenza dei tristi destini di un gran numero di comprimari, non per questo meno perseguitati. (S. M.) luglio

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