MEDIOEVO n. 311 DICEMBRE 2022
VI LA B CH IRR IN A DE GH I I
EDIO VO M E www.medioevo.it
UN PASSATO DA RISCOPRIRE
UOMINI E SAPORI QUANDO I VICHINGHI FACEVANO LA BIRRA
DOSSIER
Mens. Anno 26 numero 311 Dicembre 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
ELEONORA D’INGHILTERRA
IL CORAGGIO DI UNA REGINA
L’INTERVISTA NELL’ETÀ DELLE GUERRE OLTRE LO SGUARDO IL DILUVIO UNIVERSALE
DECAMERON BOCCACCIO E GLI AMICI A QUATTRO ZAMPE 20311 9
771125
689005
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BUON GOVERNO GUERRA NEL MEDIOEVO ARCA DI NOÈ CASSONI NUZIALI DOSSIER ELEONORA DI CASTIGLIA
SIENA IL BUON GOVERNO AD ALTEZZA D’ARTISTA
IN EDICOLA IL 3 DICEMBRE 2022
SOMMARIO
Dicembre 2022 ANTEPRIMA
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AMORI MEDIEVALI Quell’interprete «bella come una dea» di Federico Canaccini
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MOSTRE Un’altra Roma
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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese
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STORIE RESTAURI Siena Incontri ravvicinati di Stefano Mammini
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L’INTERVISTA
Il Medioevo in battaglia
La guerra come specchio dei tempi incontro con Federico Canaccini, a cura di Andreas M. Steiner
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OLTRE LO SGUARDO/18 Nella «cassapanca» del patriarca di Furio Cappelli
CASSONI NUZIALI Lui, lei e un forziere di Jerzy Miziołek
LIBRI Lo Scaffale 56
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COSTUME E SOCIETÀ VIVERE AL TEMPO DEL DECAMERON/12 Un equilibrio ancestrale di Corrado Occhipinti Confalonieri
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CALEIDOSCOPIO STORIE, UOMINI E SAPORI Il senso dei Vichinghi per la birra di Sergio G. Grasso 102 QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Tommaso, arcivescovo scomodo di Paolo Pinti 108
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Dossier
L’Inghilterra di donna Eleonora di Gianna Baucero
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MEDIOEVO n. 311 DICEMBRE 2022
VI LA B CH IRR IN A DE GH I I
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ELEONORA D’INGHILTERRA
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Hanno collaborato a questo numero: Gianna Baucero è scrittrice. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Jerzy Miziołek è storico dell’arte. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Paolo Pinti è studioso di oplologia.
IN EDICOLA IL 3 DICEMBRE 2022
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MEDIOEVO Anno XXVI, n. 311 - dicembre 2022 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it
Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: AKG Images: copertina (e p. 79) e pp. 80, 82, 87, 88-93, 95, 109; Fototeca Gilardi: p. 42; Electa/Antonio Quattrone: pp. 58/59; Werner Forman Archive/Heritage Images: p. 63; Erich Lessing/K&K Achive: p. 64/65; Electa: pp. 70/71; Album/British Library: pp. 81, 94; Album/Oronoz: p. 86; The Print Collector/Heritage Images: p. 98 (alto); Album/ Quintlox: p. 98 (basso); Album/Prisma: p. 104; Electa/ Sergio Anelli: p. 108 – Doc. red.: pp. 5, 34/35, 36-41, 48-55, 62, 67, 99, 105, 106, 111 (centro) – Cortesia Ufficio stampa Zètema Progetto Cultura: Monkeys video Lab: pp. 6, 6/7, 7 (alto), 8/9 (alto e basso), 10 (alto); Museo di Roma, Roma: pp. 7 (basso), 9; Roma, Basilica di S. Maria in Aracoeli, Patrimonio del Fondo Edifici di Culto: p. 10 (basso) – Cortesia Comune di Siena: pp. 18/19, 20-21, 24 (basso), 25, 28 (alto), 30 – Stefano Mammini: pp. 19, 22-23, 24/25, 26-27, 28 (basso), 28/29, 31, 32 – The Metropolitan Museum of Art, New York: pp. 46/47 – Shutterstock: pp. 56/57, 60-61, 66/67, 82/83, 84/85, 96, 97, 100-103 – Cortesia degli autori: pp. 68-69, 70, 71 (basso), 72-77, 110, 111 (sinistra) – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 97. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.
Impaginazione Alessia Pozzato
Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito https://arretrati. pressdi.it In copertina particolare della tomba di Eleonora di Castiglia, con il ritratto della sovrana in bronzo dorato realizzato dall’orefice William Torel. 1291. Londra, Westminster Abbey.
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Prossimamente costume e società
Il business delle armi e delle armature
medioevo nascosto
Un castello di fiaba nel cuore dell’Abruzzo
madonna dei sette dolori
Il culto del cuore trafitto
amori medievali di Federico Canaccini
Quell’interprete «bella come una dea»
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ato alla fine del Medioevo, nel 1485 a Medellín, in Spagna, Hernán Cortés ha vissuto pienamente e in modo assai significativo quella fase di trapasso che condusse l’Europa nella cosiddetta età moderna. Quando, nel 1519, sbarcò nel Nuovo Mondo, si fece affiancare da alcuni interpreti, considerato che uno degli ostacoli che i conquistadores dovettero superare fu la differenza linguistica. Alcuni anni prima dell’arrivo di Cortés, era naufragato sulle coste dello Yucatán Gerònimo de Aguilar, il quale aveva imparato a parlare il chontal, uno dei dialetti maya, mentre era tenuto prigioniero a Tulum. Ma il chontal era molto diverso dal nahuatl, la lingua degli Aztechi, il popolo che Cortés aveva in mente di conoscere e poi di sottomettere. Serviva perciò un’interprete che parlasse entrambe le lingue (e il castigliano): la figlia ventenne del governatore di Paynalla, di nome Malineli Tenepatl, comprendeva l’una e l’altra. Malitzin, come era anche chiamata, era stata però esclusa dall’asse ereditario dopo le nuove nozze della madre vedova: fu ceduta a mercanti maya
Hernán Cortés incontra i rappresentanti dei Tlascaltechi, un’etnia del Messico centrale la cui lingua appartiene al gruppo nahuatl, pittura murale di Desiderio Hernández Xochitiotzin. 1990 circa. Tlaxcala, Palazzo del Governo. Al centro della scena si riconosce La Malinche, che fu al servizio del conquistador come interprete.
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che la rivendettero ad altri mercanti ancora, finchè finí nelle mani del cacicco di Potonchán. Fu lui a regalarla come schiava a Cortés il 15 marzo del 1519: la sfortunata Malitzin, inconsapevolmente, sarebbe però divenuta il tramite fondamentale per l’incontro-scontro tra l’Occidente e il Nuovo Mondo. Malitzin era sempre al fianco di Cortés e degli Spagnoli, dai quali fu presto battezzata, davanti a un altare improvvisato, sormontato da un’immagine della Madonna e da un crocefisso, con il nome di Donna Marina, soprannominata La Malinche. Il battesimo era necessario non solo per far accedere alla religione cattolica gli indigeni, ma soprattutto per consentire ai conquistadores di instaurare relazioni con concubine, nel rispetto delle leggi spagnole che – nel clima intollerante della Reconquista – consentivano rapporti di concubinato solo con donne cristiane. Dapprima Malitzin fu concessa da Cortés a un suo parente, Alonso Portocarrero, e solo in un secondo momento – quando fra l’altro aveva imparato anche lo spagnolo – divenne l’amante dello stesso Hernán, il quale «le chiese di diventare la sua fedele interprete, le promise che l’avrebbe fatta sposare e le avrebbe dato la libertà». Dopo aver inviato Portocarrero in Spagna per una missione, Cortés e Donna Marina divennero complici e amanti, al punto che il cronista Bernal Díaz del Castillo ricorda che «senza di lei Cortés non poteva trattare alcun affare con gli indios». Era «bella come una dea», scrisse un altro cronista: nel 1522 la prima moglie di Cortés, Marcaida, moriva a Coyoacán, ma l’anno seguente il conquistador «fu piacevolmente sorpreso dalla notizia piú lusinghiera», giacché Donna Marina gli diede un figlio, chiamato Don Martín – come il padre di Cortés –, detto El Mestizo, uno dei primi meticci, primogenito ma illegittimo, benché poi legittimato da una bolla di Clemente VII. La relazione terminò quando giunse a Cuba la nuova moglie di Cortés, Juana de Zuniga: il conquistador si preoccupò di combinare le nozze per la propria amante con un uomo del suo seguito, Jaramillo, assicurandole cosí la libertà e una buona posizione sociale. Forse a causa del vaiolo la giovane Malinche, come molti altri indigeni, morí nel 1529, quando Jaramillo chiese e ottenne di convolare a nuove nozze.
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ANTE PRIMA
Un’altra Roma MOSTRE • Il Museo di
Roma in Palazzo Braschi ospita una grande rassegna dedicata alla storia dell’Urbe in età medievale. Forte di una ricca selezione di opere realizzate fra il VI e il XIV secolo In alto un particolare dell’allestimento della mostra «Roma medievale». A destra, sulle due pagine il titulus dell’oratorio di papa Giovanni VII, da lui fatto realizzare nell’antica basilica di S. Pietro, là dove oggi è collocata la Pietà di Michelangelo. 705-706.
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R
iscoprire il volto perduto della Roma fra VI e XIV secolo e il suo ruolo cardine nell’Europa cristiana e medievale sia per i semplici pellegrini, sia per regnanti e imperatori: è questo l’obiettivo della mostra «Roma Medievale. Il volto perduto della città», allestita al Museo di Roma a Palazzo Braschi. L’esposizione copre un arco temporale che va dal tempo di papa Gregorio Magno all’indizione del primo Giubileo del 1300, e si sviluppa in 9 principali nuclei tematici che hanno l’obiettivo – grazie alle oltre 160 opere tra mosaici, affreschi e opere mobili messe a disposizione da 60 prestatori tra musei, enti religiosi e istituzioni pubbliche e private – di far luce sull’aspetto di una città
ancora in parte superstite, anche se spesso nascosta. In esposizione documenti provenienti in massima parte da luoghi e raccolte romane, proprio allo scopo di esortare i cittadini romani a riscoprire le ricchezze della loro città. Il visitatore è accompagnato tra le pieghe storiche, architettoniche e artistiche della Roma medievale, attraverso i suoi luoghi piú iconici, quali basiliche e palazzi, ma anche grazie alla ricostruzione del contesto ambientale, oggi profondamente dicembre
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modificato, caratterizzato, per esempio, dal serpeggiante corso del Tevere che, con i suoi porti e i suoi ponti, era sfondo e teatro della vita e delle attività urbane. L’immersione nella realtà del Medioevo romano viene quindi approfondita prendendo in esame le ricche committenze di papi e cardinali, l’attività di artisti e botteghe artigiane, che contribuivano al fascino esercitato dall’Urbe, meta imprescindibile di pellegrinaggio anche per re e imperatori.
La ricerca delle reliquie Il percorso, un viaggio ideale verso Roma, fa calzare al visitatore i panni del pellegrino medievale che, immerso nel fascino dell’antica Roma, era animato dal desiderio di entrare a contatto con le prime testimonianze del cristianesimo e le reliquie dei martiri. La presenza della sede papale, inoltre, fece dell’Urbe un polo politico di primaria
importanza, al centro di complessi intrecci politici e diplomatici. Si scopre poi l’importanza rivestita da alcuni tra i luoghi piú iconici della Roma medievale, sia dal punto di vista religioso, sia politico: il vasto complesso del Laterano, prima basilica cristiana, cattedrale di Roma e sede dei pontefici durante il Medioevo; S. Pietro in Vaticano, luogo della tomba di Pietro e meta di pellegrinaggio da tutta l’Europa cristiana; S. Paolo fuori le Mura, memoria dell’Apostolo delle Genti,
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In alto una pittura murale con un clipeo al cui interno è ritratto un pontefice. 1277-1280. A destra mosaico policromo con l’immagine della Fenice. 1205/12091212.
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ANTE PRIMA e S. Maria Maggiore, custode delle reliquie del Presepe e prima basilica dedicata alla Vergine. Monumenti oggi profondamente mutati, ma di cui ancora si conservano vestigia medievali di fondamentale importanza. Una selezione mirata di oggetti offre un’idea eloquente della vastità dei quattro complessi basilicali e della ricchezza di opere d’arte che connotava questi luoghi. Uno spazio di rilievo è dedicato al rapporto privilegiato tessuto nel tempo tra la città e il papato. Una relazione complessa che ha unito, e quasi identificato, l’Urbe e i suoi pontefici durante tutto il Medioevo. Il visitatore può cosí conoscere i papi piú rappresentativi dell’epoca, come Gregorio Magno, Leone III, Innocenzo III e Bonifacio VIII.
Sulle tracce della liturgia Il grande salone del Museo è stato scenograficamente dedicato a un’ideale passeggiata nello spazio sacro di una chiesa medievale, nella quale sono proposti numerosi oggetti mobili, come affreschi e arredi liturgici, ma anche preziosi
reliquiari e suppellettili, con lo scopo far compiere un viaggio indietro nel tempo, sulle tracce della liturgia medievale. La riproposizione dello spazio sacro è anche occasione per approfondire alcuni aspetti particolari, come quello della devozione popolare romana,
con un focus particolare tutto dedicato alle icone mariane ancora oggi custodite nelle chiese della città; o il caso emblematico della decorazione in affresco proveniente da S. Croce in Gerusalemme. Un cittadino, un pellegrino o un visitatore che percorreva le
In alto, sulle due pagine tondi ad affresco con i ritratti di Amos (a sinistra) e Mosè, originariamente facenti parte dell’apparato decorativo della cripta della basilica di S. Nicola in Carcere. 1120-1130. Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana. A destra ritratto a mosaico di papa Innocenzo III. 1205-1209/1212. Roma, Museo di Roma. In basso fregio dipinto con la Madonna e il Bambino e figure di santi, dalla chiesa di S. Maria Nova nel Foro Romano.
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ANTE PRIMA strade della Roma medievale aveva davanti agli occhi una città completamente diversa rispetto a quella attuale. A scandire il percorso di mostra ci sono, quindi, due «intermezzi» urbani che, grazie all’ausilio di incisioni e disegni, restituiscono, in parte, il volto medievale perduto della città. Non solo luoghi di culto e di potere quindi. Il percorso espositivo vuole anche far riflettere su come si vivesse a Roma nel Medioevo. Una serie di piccoli ma preziosi oggetti, provenienti dalla Crypta Balbi, narra storie di vita quotidiana fatta di botteghe, artisti e artigiani.
La comunità ebraica
DOVE E QUANDO
«Roma Medievale. Il volto perduto della città» Roma, Museo di Roma, Palazzo Braschi fino al 5 febbraio 2023 Orario ma-do, 10,00-19,00; chiuso il lunedí e il 25 dicembre Info tel. 060608 (attivo tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museodiroma.it, www. museiincomune.it, www.zetema.it
Il percorso espositivo si conclude con la sala dedicata a un ultimo ma importante aspetto. A Roma si installò, già dal II secolo a.C., la comunità ebraica, la piú antica al mondo, che con alterne vicende visse continuativamente in città, costituendo, soprattutto nel Duecento, un polo culturale di alto livello, anche per i suoi scambi internazionali. Roma poi, per la sua stessa natura di centro di potere, politico, economico e religioso è sempre stata al centro di un fitto intreccio di culture. Alcuni manoscritti testimonieranno, sia pure parzialmente, il livello di questa straordinaria koinè. (red.)
In alto ancora un particolare dell’allestimento della mostra, con, in primo piano un rosone appartenente alla chiesa di S. Nicola de Calcarario, i cui resti affiorarono nel 1926 durante gli scavi nell’area sacra di largo Argentina. A destra reliquiario di sant’Elena. Legno di sandalo e gemme, metà del XII sec. Roma, basilica di S. Maria in Aracoeli.
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dicembre
MEDIOEVO
AGENDA DEL MESE
Mostre SIENA ARTE SENESE. DAL TARDO MEDIOEVO AL NOVECENTO NELLE COLLEZIONI DEL MONTE DEI PASCHI DI SIENA Santa Maria della Scala fino all’8 gennaio 2023
Raccontare la storia dell’arte senese dal tardo Medioevo al Novecento grazie a capolavori conservati nelle collezioni della Banca Monte dei Paschi di Siena: è questo l’obiettivo della mostra allestita nel Complesso Museale Santa Maria della Scala. Opere di maestri del calibro di Pietro
Lorenzetti, Tino di Camaino, Stefano di Giovanni detto il Sassetta, Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma, Domenico Beccafumi, Bernardino Mei, Cesare Maccari e Fulvio Corsini permettono di ripercorrere il secolare amore di Siena per le arti figurative, attraverso alcune grandi personalità artistiche capaci di affermarsi in patria e non solo, dando conto dello straordinario valore delle collezioni della Banca Monte dei Paschi di Siena, indissolubilmente legate alla città, alla sua memoria e ai
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a cura di Stefano Mammini
suoi valori. Le collezioni sono costituite da un numero impressionante di dipinti, sculture e arredi, per lo piú di scuola senese dal XIV al XIX secolo, non senza interessanti incursioni sul Novecento italiano. Esse sono il frutto di una prolungata sedimentazione storica, avviata con vere e proprie committenze da parte di una pubblica istituzione fondata nel 1472, e proseguita in tempi piú vicini a noi con importanti acquisizioni e con l’allestimento, negli anni Ottanta del secolo scorso, di veri e propri spazi museali
nell’antica chiesa di S. Donato, all’interno della sede storica di piazza Salimbeni. La raccolta è stata peraltro incrementata grazie a nuclei di opere provenienti dalle banche incorporate nel corso degli anni e, particolarmente, con l’acquisizione di una parte della celebre Collezione Chigi Saracini di Siena: una delle piú importanti collezioni private italiane, che ancora oggi si conserva nel palazzo di via di Città. Di tutto ciò la mostra offre una ponderata selezione, focalizzata sulle maggiori testimonianze
della scuola senese, celebre in tutto il mondo. info tel. 0577 286300; e-mail: booking@operalaboratori.com; www.verniceprogetti.it MANTOVA PISANELLO. IL TUMULTO DEL MONDO Palazzo Ducale fino all’8 gennaio 2023
La mostra è pensata in occasione dei 50 anni dall’esposizione curata da Giovanni Paccagnini, con la quale fu presentata una delle piú importanti acquisizioni nel campo della storia dell’arte nel XX secolo: la scoperta nelle sale di Palazzo Ducale di Mantova del ciclo decorativo di tema cavalleresco dipinto a tecnica mista intorno al 14301433 da Antonio Pisano, detto il Pisanello. L’esposizione fa parte di un programma di ampia visione e lungo periodo per la valorizzazione dell’opera e della Sala dedicata all’artista, insieme all’attigua Sala dei Papi. Verrà infatti ripensato in maniera permanente l’allestimento dell’intero ambiente per la migliore fruizione di un ritrovamento eccezionale del patrimonio artistico italiano. Il progetto prevede di restituire una leggibilità completa delle pitture, strappate e ricollocate oltre cinquant’anni fa, grazie a un nuovo sistema di illuminazione e a una pedana sopraelevata che per la prima volta pone il visitatore a distanza ravvicinata dalle pareti (oggi il pavimento si trova a una quota piú bassa di ben 110 cm di quando l’opera fu realizzata). Circa 30 opere, tra cui prestiti internazionali, quali i capolavori del Pisanello la Madonna col Bambino e i santi Antonio e Giorgio della National Gallery di Londra, per la prima volta in Italia dalla sua «partenza» nel
1862, e i disegni del Museo del Louvre di Parigi; ma anche l’Adorazione dei Magi di Stefano da Verona dalla Pinacoteca di Brera di Milano e, non da ultimo, la preziosa Madonna della Quaglia, una tavola giovanile di Pisanello, considerata tra le opere simbolo del Museo di Castelvecchio di Verona, disponibile anche in virtú di un accordo di valorizzazione in essere tra i due musei sui rapporti artistici tra Verona e Mantova. info tel. 0376 352100; https:// mantovaducale.beniculturali.it; Call Center: tel. 041 2411897; www.ducalemantova.org MILANO LE PIETÀ DI MICHELANGELO. TRE CALCHI STORICI PER LA SALA DELLE CARIATIDI Palazzo Reale. Sala delle Cariatidi fino all’8 gennaio 2023
L’esposizione consente di apprezzare l’arte e l’inventiva michelangiolesca attraverso il confronto di tre calchi ottonovecenteschi, in ideale continuità con la mostra appena conclusa con grande successo al Museo dell’Opera del Duomo di Firenze. Le tre Pietà di Michelangelo, nella forma dei loro calchi in gesso, giungono ora a Milano, dove sono eccezionalmente riunite, in uno spettacolare ed emozionante allestimento, nella Sala delle Cariatidi di dicembre
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The Metropolitan Museum of Art
fino all’8 gennaio 2023
Palazzo Reale. Il calco della Pietà di S. Pietro della Città del Vaticano fu realizzato nel 1975 all’interno del Laboratorio Calchi e Gessi dei Musei Vaticani da Ulderico Grispigni; l’occasione della sua realizzazione giunse in un momento drammatico per la Pietà ovvero l’atto vandalico del 1972 ai danni della scultura, che resero necessaria la preparazione di un nuovo calco. Il calco della Pietà di S. Maria del Fiore a Firenze, detta Pietà Bandini, conservato nella collezione della Gipsoteca fiorentina dell’Istituto d’Arte di Porta Romana, risale al 1882 circa e si deve al formatore fiorentino Oronzo Lelli. Il calco della Pietà Rondanini fu commissionato nel 1953 al formatore milanese Cesare Gariboldi, allo scopo di determinare al meglio e in totale sicurezza, durante le prove di allestimento della statua in marmo, l’ubicazione ideale per la scultura, conservata dal 1952 nel Castello Sforzesco. Oggi esposto in mostra dopo una accurata pulitura, è conservato nei depositi del Museo d’Arte Antica. info www.palazzorealemilano.it
Dall’ascesa al trono di Enrico VII nel 1485 alla morte, nel 1603, di sua nipote, la regina Elisabetta I, la casata dei Tudor fece delle arti uno strumento di legittimazione e celebrazione del proprio potere. Una stagione rievocata dalla rassegna allestita dal Metropolitan di New York, che si avvale di una ricca selezione di opere, oltre un centinaio, che comprendono dipinti, arazzi, sculture, armature e altri oggetti d’arte, provenienti dalle collezioni del museo stesso e frutto di importanti prestiti. All’epoca dei Tudor, l’Inghilterra accolse una folta comunità internazionale di artisti e mercanti e le corti dei regnanti che si succedettero in quegli anni furono pienamente cosmopolite, avvalendosi dell’operato di scultori fiorentini, pittori tedeschi, arazzieri fiamminghi e dei migliori armaioli, orefici e stampatori: ingegni e talenti che contribuirono all’emergere di un autentico e originale stile inglese. In mostra si possono ammirare le opere realizzate durante il regno dei cinque sovrani Tudor: Enrico VII, Enrico VIII, Edoardo VI, Maria I ed Elisabetta I. E altrettante sono le sezioni tematiche in cui si articola il percorso espositivo,
che concorrono a definire l’immagine assunta dalle residenze dei Tudor, nelle quali la vastità e lo sfarzo dei saloni e delle gallerie si alternavano all’intimità delle alcove. info www.metmuseum.org MILANO L’ORANTE (…NEL TUO NOME ALZERÒ LE MIE MANI…) Complesso monumentale di S. Eustorgio fino al 15 gennaio 2023
L’esposizione prende spunto dal frammento di un’epigrafe funeraria paleocristiana, rinvenuta nell’area del cimitero nel Complesso Monumentale di S. Eustorgio, raffigurante un defunto, probabilmente un soldato o un funzionario della
burocrazia imperiale, con le braccia allargate e innalzate nell’atteggiamento dell’orante. Oltre a questo reperto, a ispirare il progetto espositivo è il versetto del Salmo 63 «Cosí ti benedirò per tutta la vita: nel tuo nome alzerò le mie mani», e l’intento è quindi quello di raccontare il gesto dell’orante nell’atto di alzare le mani verso
il cielo, presente nell’iconografia paleocristiana cosí come oggi nel momento della recita del Padre Nostro. La mostra si divide in sei sezioni che, attraverso le immagini, portano all’attenzione del pubblico la tipologia del gesto, analizzandola non solo da un punto di vista storicoarcheologico, ma anche e soprattutto nel significato profondo del rapporto del devoto con Dio. info www.museosanteustorgio.it; Facebook e Instagram: museodisanteustorgio
TREVISO PARIS BORDON 1500-1571. PITTORE DIVINO Museo Santa Caterina fino al 15 gennaio 2023
Treviso dedica al suo piú grande pittore, Paris Bordon (1500-1571), definito dallo storiografo veneziano Marco Boschini, il «Divin Pitor» – termine che ha usato solo per Raffaello e Tiziano – la piú ampia rassegna monografica mai realizzata finora con opere eccezionali, molte delle quali mai esposte in Italia. L’esposizione racconta la creatività e la qualità straordinaria dell’opera dell’allievo di Tiziano, riunendo i suoi capolavori provenienti dai piú prestigiosi musei del mondo. È Giorgio Vasari a
NEW YORK I TUDOR. ARTE E REGALITÀ NELL’INGHILTERRA RINASCIMENTALE
MEDIOEVO
dicembre
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AGENDA DEL MESE considerare Paris Bordon l’unico allievo di Tiziano meritevole di attenzione, tanto da dedicargli una lunga appendice nella biografia del Vecellio nell’edizione del 1568 delle Vite. Non esistono opere e documenti capaci di fare chiarezza sulle date del suo apprendistato, ma di certo sappiamo che nel 21 giugno 1518 Paris è indicato come «pictor habitator in Venetiis in contrata Sancti Iuliani». Il giovane pittore non tarda a dimostrare una certa emancipazione dal maestro, volgendo il suo interesse alle nuove tendenze introdotte da Palma il Vecchio e dal Pordenone. La mostra intende riscoprire proprio la varietà, l’originalità e la ricchezza della produzione del genio trevigiano riunendo insieme i suoi sensuali ritratti femminili, le rappresentazioni mitologiche, le scene sacre delle grandi pale d’altare e le piccole opere destinate alla devozione privata. A coronamento della visita in mostra viene proposto un itinerario di confronti e rimandi, curato dal direttore dei musei cittadini, Fabrizio Malachin, per riscoprire capolavori della Pinacoteca del Museo Santa Caterina o disseminati all’interno del territorio trevigiano e veneto. info tel. 0444 326418; e-mail: mostraparisbordon@gmail.com; www.mostraparisbordon.it PARIGI TOLOSA 1300-1400. LA FIORITURA DI UN GOTICO MERIDIONALE Museo di Cluny-Museo Nazionale del Medioevo fino al 22 gennaio 2023
Il nuovo progetto espositivo proposto dal Museo Nazionale del Medioevo si avvale delle acquisizioni scaturite dagli studi piú recenti per tracciare un
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quadro inedito della produzione artistica fiorita a Tolosa nel XIV secolo. A quell’epoca la città era fra le piú importanti di Francia, con Parigi, Lione, Orléans e Rouen e conobbe una vera e propria età dell’oro soprattutto nella prima metà del Trecento. Inglobata nel regno di Francia nel 1271, Tolosa seppe comunque conservare il suo carattere originale e si rese protagonista di una significativa crescita economica, traendo vantaggio dall’insediamento dei papi ad Avignone, per via degli stretti legami dei pontefici francesi con l’Università tolosana e con gli Ordini mendicanti insediati in città. Del tutto dà conto la mostra, che nella prima parte documenta l’organizzazione di Tolosa e la vita quotidiana dei suoi abitanti, mentre nella seconda riunisce una serie di pregevoli opere d’arte, che fanno da contorno a quattro statue provenienti dalla scomparsa cappella di Rieux. info www.musee-moyenage.fr BRESCIA LA CITTÀ DEL LEONE. BRESCIA NELL’ETÀ DEI COMUNI E DELLE SIGNORIE Museo di Santa Giulia fino al 29 gennaio 2023
Forte di una selezione di 120 opere, la mostra indaga per la
prima volta su una fase storica fondamentale per la costituzione dell’identità della città e del suo territorio, prendendo in esame un arco cronologico che parte dalla seconda metà del XII secolo, epoca in cui compaiono le prime tracce delle istituzioni civiche comunali, al 1426, anno della dedizione a Brescia alla Repubblica di Venezia. Si tratta di un’epoca segnata da importantissime trasformazioni, in cui la città crea la sua forma e la sua identità dal punto di vista architettonico, con il baricentro nella piazza, su cui affacciano il palazzo comunale e le cattedrali, e anche sul versante politico, affermando il suo
primato nel territorio. Esplorando l’origine e l’evoluzione di quegli elementi che ne hanno forgiato il carattere viene indagata la nascita di alcuni simboli civici arrivati fino ai nostri giorni: dallo stemma del leone rampante, vero emblema identitario urbano reso celebre da Carducci che lo associò all’eroismo della città martire delle Dieci giornate, fino ai culti civici dei santi Faustino e Giovita, alle Sante Croci e alla figura della Vergine che ha una posizione centrale nella devozione civica di Brescia medievale, simboli che ritmano tuttora il calendario delle festività cittadine. info www.bresciamusei.com
ROMA ROMA MEDIEVALE. IL VOLTO PERDUTO DELLA CITTÀ Museo di Roma a Palazzo Braschi fino al 5 febbraio 2023
Riscoprire il volto perduto della Roma fra VI e XIV secolo e il suo ruolo cardine nell’Europa cristiana e medievale sia per i semplici pellegrini sia per regnanti e imperatori. Questo l’obiettivo della nuova mostra allestita negli spazi del Museo di Roma in Palazzo Braschi. Articolato in 9 sezioni, il percorso espositivo nasce con lo scopo di far conoscere aspetti poco noti del patrimonio dell’Urbe, attraverso una selezione di oltre 160 opere tra mosaici, affreschi e opere mobili, provenienti prevalentemente da raccolte e collezioni pubbliche romane e da luoghi di culto, oltre che da prestigiose istituzioni museali come i Musei Vaticani. Parte, infatti, dalla scoperta della città medievale attraverso i suoi luoghi piú iconici, quali basiliche e palazzi, ma anche
dal contesto ambientale, oggi profondamente modificato, come il corso del Tevere con porti e ponti dove si svolgevano vita e attività urbane. L’immersione nella realtà del Medioevo romano si approfondisce poi esaminando dicembre
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le ricche committenze di papi e cardinali, l’attività di artisti e botteghe, il fascino della città come imprescindibile méta di pellegrinaggio anche per re e imperatori. Ricchi apparati didattici illustreranno in mostra i molteplici volti dell’indiscussa capitale dell’Europa medievale. info tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museodiroma.it BOLOGNA GIULIO II E RAFFAELLO. UNA NUOVA STAGIONE DEL RINASCIMENTO A BOLOGNA Pinacoteca Nazionale fino al 5 febbraio 2023
Il Ritratto di Papa Giulio II della Rovere, uno dei capolavori di Raffaello, viene eccezionalmente esposto alla Pinacoteca Nazionale di Bologna, opera clou della mostra «Giulio II e Raffaello. Una nuova stagione del Rinascimento a Bologna». Giulio II fu il pontefice che assoggettò Bologna allo Stato della Chiesa, cambiando profondamente il corso della storia cittadina e avviando, anche grazie alla presenza di artisti come Bramante e Michelangelo, una nuova stagione del Rinascimento in città. Il Ritratto è un dipinto a olio su tavola, commissionato da papa della Rovere a Raffaello e realizzato a Roma intorno al 1511-1512. Oltre
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alla versione conservata alla National Gallery di Londra, se ne conoscono diverse copie, alcune anonime, altre di importanti artisti come quella attribuita a Tiziano, conservata alla Galleria Palatina di Firenze. Si tratta di esemplari che testimoniano l’interesse per il personaggio effigiato e per il modello interpretativo raffaellesco, che rimane dominante nella ritrattistica dei papi per la gran parte degli artisti nei secoli successivi. Vasari e Lomazzo parlano di un ritratto del papa realizzato da Raffaello presente nella basilica di S. Maria del Popolo a Roma. L’opera, passata nella collezione Borghese nel 1608, era stata in seguito venduta all’imperatore Rodolfo II e da allora se ne erano perse le tracce. Nel 1976 uno studioso della National Gallery di Londra sciolse l’enigma del dipinto, che era stato acquistato nel 1824 dal museo e che si trovava in Inghilterra dalla fine del Settecento. Fu ritrovato infatti sulla tavola un numero d’inventario, il 118, che si scoprí corrispondere con quello della Galleria di Scipione Borghese al 1693. Le analisi scientifiche hanno poi confermato l’autografia raffaellesca e un restauro ha restituito la qualità pittorica dell’opera, fino ad allora nascosta sotto strati di vernice ingiallita. info www.pinacotecabologna. beniculturali.it
ospedale di S. Giovanni è la Morte della Vergine, un magnifico olio su tavola al quale Hugo van der Goes lavorò fra il 1475 e il 1483. Recentemente sottoposto a restauro, il dipinto è contornato da una settantina di opere selezionate fra la collezione permanente del Museo di Bruges e concesse in prestito da varie raccolte europee. La Morte della Vergine è stata oggetto di un intervento condotto fra il 2018 e il 2022, i cui risultati si sono rivelati di estremo interesse sia per l'apprezzamento della composizione e delle sue caratteristiche originarie, sia per un migliore inquadramento critico di van der Goes, che è stato di stimolo per l'avvio di nuovi studi sulla sua figura. Fra i maestri che lo affiancano nella mostra, possiamo segnalare i nomi di Hans Memling, Petrus Christus, Geertgen tot Sint-Jans, Jan Provoost e Albrecht Bouts. info www.museabrugge.be
BRUGES
MACERATA
FACCIA A FACCIA CON LA MORTE. HUGO VAN DER GOES, UNO SGUARDO NUOVO SUGLI ANTICHI MAESTRI Ex ospedale di S. Giovanni fino al 5 febbraio 2023
CARLO CRIVELLI. LE RELAZIONI MERAVIGLIOSE Palazzo Buonaccorsi e altre sedi fino al 12 febbraio 2023
Cuore del progetto espositivo realizzato negli spazi dell'ex
uno dei maestri del Rinascimento, attraverso una terra ricca di storia e arte. Il percorso parte da Macerata, all’interno di Palazzo Buonaccorsi, con 7 dipinti di Crivelli selezionati con l’intento di riportare nel territorio di provenienza alcune opere e prosegue in 8 comuni della Regione Marche (Corridonia, San Ginesio, Sarnano, Monte San Martino,
Il progetto espositivo dedicato a Carlo Crivelli (1430/1435 circa-1495) invita a scoprire le meraviglie della pittura di
San Severino Marche, Serrapetrona, Belforte del Chienti e Camerino) che conservano lavori dell’artista o a esso fortemente collegati in una serie di, come suggerisce il titolo del progetto, relazioni meravigliose. Pittore inquieto, sperimentatore, pieno di grazia e di genio, Carlo Crivelli è una delle figure piú intriganti del XV secolo. Veneziano di nascita, in seguito a una vicenda giudiziaria in cui fu coinvolto, abbandona la laguna giungendo prima a Zara per poi trasferirsi nelle Marche (dal 1468 al 1495), influenzando in modo definitivo la storia dell’arte di quel territorio e non solo. Ignorato da Giorgio Vasari,
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AGENDA DEL MESE sconosciuto per decenni, riscoperto e adorato soprattutto dagli artisti preraffaelliti inglesi, conteso dai collezionisti del mondo, Carlo Crivelli a oggi è una figura indipendente che proietta il suo fascino, fatto di invenzioni sempre diverse, perfezione tecnica e mistero. info www.musei.macerata.it MONZA STREGHERIE. FATTI, SCANDALI E VERITÀ SULLE SOVVERSIVE DELLA STORIA Villa Reale fino al 26 febbraio 2023
quali spicca il Malleus Maleficiarum, il piú consultato manuale sulla caccia alle streghe, nella pregiata edizione del XVI secolo, nel quale sono indicati caso per caso i supplizi e le pene da fare soffrire a chi era accusato di stregoneria. E poi ancora un bulino di Albrecht Dürer del 1501 raffigurante La strega a rovescio sul caprone, le xilografie del Maestro del Virgilio di Grüninger del 1502, Il giovane principe impara la magia di Hans Burgmair, del 1515, e La strega e il palafreniere di Hans Baldung Grien del 1544/45. info www.stregherie.it VENEZIA IL RINASCIMENTO IN FAMIGLIA: JACOPO E GIOVANNI BELLINI, CAPOLAVORI A CONFRONTO Gallerie dell’Accademia fino al 12 marzo 2023
La mostra riunisce stampe antiche firmate dai maggiori incisori e artisti degli ultimi due secoli e da straordinari illustratori anonimi dimenticati, presentando scene di malefici, torture, sabba osceni, crudi episodi di stregoneria ma anche scene luminose di streghe buone, zingare che guariscono bambini dalle malattie e simboli magici nascosti in quadri pastorali. Si tratta di un centinaio di opere, scelte all’interno della collezione Guglielmo Invernizzi. Tra i pezzi della raccolta vi sono alcuni trattati immancabili in un percorso dedicato alla stregoneria, fra i
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Lo scambio di opere importanti con musei italiani e stranieri ha dato alle Gallerie dell’Accademia la possibilità di creare nuovi racconti, intrecciare nuove storie con dipinti della collezione permanente, parlare di iconografia, di provenienze, di stile. Visto il successo degli appuntamenti già realizzati, il museo presenta ora il nuovo programma Nelle Gallerie, dedicato alle occasioni di
incontro e relazione tra opere e istituzioni. Ospite d’onore è questa volta un dipinto giovanile di Giovanni Bellini la Madonna col Bambino, nota anche come Madonna Trivulzio, dalla Pinacoteca del Castello Sforzesco di Milano. L’opera è allestita accanto alla preziosa Madonna col Bambino benedicente e cherubini di Jacopo Bellini – parte della collezione permanente – a cui il restauro appena concluso ha restituito una sorprendente leggibilità nei valori formali e della tecnica esecutiva. Stupefacente è la brillantezza emersa dagli azzurri, costituiti da azzurrite nei cherubini e molto probabilmente da blu oltremare nel manto della Vergine, dai rossi dipinti a vermiglione e lacca, cui le lumeggiature in oro a conchiglia conferiscono un crepitante scintillio. I due dipinti si possono ammirare nella sala III del primo piano dove sono riuniti altri dipinti eseguiti dai Bellini, la piú importante impresa familiare della Venezia quattrocentesca, in un arco di tempo compreso dagli anni Quaranta agli anni Sessanta: le opere qui presenti di Giovanni e Gentile testimoniano in modi e gradi diversi il cammino avviato per affrancarsi dal linguaggio piú arcaico del padre Jacopo, aprendosi alle novità del linguaggio rinascimentale elaborate a Padova da Francesco Squarcione e Andrea Mantegna, sulla base degli stimoli ivi introdotti da Donatello. info tel. 041 5222247 oppure 2413942; www.gallerieaccademia.it TEGLIO (SONDRIO) CARLO V, DAGLI UFFIZI A PALAZZO BESTA Palazzo Besta fino al 6 aprile 2023
La mostra si inserisce nel progetto «100 opere tornano a casa. Dai depositi alle sale dei musei», voluto per promuovere e valorizzare il patrimonio storico-artistico e archeologico italiano conservato nei depositi dei luoghi d’arte statali, mettendo cosí in collegamento musei grandi e piccoli. L’opera giunta a Palazzo Besta, un Ritratto di Carlo V a figura intera armato, è stata realizzata da Tiziano Vecellio e dai suoi collaboratori: databile al 1550 circa, proviene dalle collezioni della Galleria degli Uffizi. È un esempio di «ritratto di Stato» introdotto da Tiziano in luogo del piú tradizionale ritratto di corte. Il grande ritratto di Carlo V è messo a confronto con l’effigie dello stesso imperatore affrescata nel Salone d’Onore di Palazzo Besta a Teglio e dialoga con alcuni dei piú illustri personaggi che lo hanno incontrato, come Ludovico Ariosto, Erasmo da Rotterdam, Pietro Aretino; ma anche con i suoi antagonisti politici: Francesco I di Francia, Massimiliano d’Austria, Enrico VIII d’Inghilterra. Tutti, in diverso modo, erano contemporaneamente al centro degli interessi culturali e politici dei Besta, che li vollero presenti sulle pareti del Salone d’Onore. La figura di Carlo V è l’occasione dunque per leggere da uno specifico angolo visuale alcuni dei soggetti e dei temi che legano il Palazzo e la dicembre
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famiglia Besta al territorio e alla storia europea loro contemporanea. info tel. 0342 781208; e-mail: drm-lom.palazzobesta@ beniculturali.it SAINT-GERMAIN-EN-LAYE IL MONDO DI CLODOVEO Musée d’Archéologie nationale fino al 22 maggio 2023
Il Museo d’archeologia nazionale si trasforma in un grande gioco di fuga collettivo, facendo di ciascun visitatore l’eroe di un’avventura inedita, che ha luogo all’epoca dei Franchi: è questo il sorprendente risultato della mostra attualmente allestita negli spazi del castello di SaintGermain-en-Laye, che propone un approccio decisamente inconsueto al tema affrontato, che è quello dell’età merovingia e del suo primo sovrano, Clodoveo. Il percorso espositivo, ludico e interattivo al tempo stesso, rievoca dunque i tratti
distintivi del primo Medioevo, dispensando nozioni di storia e archeologia. Ai visitatori è data la possibilità di vestire i panni di un personaggio vissuto al tempo dei Merovingi e di costruire un proprio «percorso di vita», grazie a un’applicazione web o a libri-gioco. La fruizione delle diverse risorse – giochi, libri, video – è totalmente libera
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e ciascuno può scegliere la soluzione che preferisce, diventando attore della visita ed eroe della storia che ha confezionato. info www.museearcheologienationale.fr ACQUI TERME (ALESSANDRIA) GOTI A FRASCARO. ARCHEOLOGIA DI UN VILLAGGIO BARBARICO Museo Archeologico di Acqui Terme fino al 27 maggio 2023
L’esposizione presenta per la prima volta insieme i materiali
TORINO
BUDDHA10. FRAMMENTI, DERIVE E RIFRAZIONI DELL’IMMAGINARIO VISIVO BUDDHISTA MAO-Museo d’Arte Orientale fino al 3 settembre 2023
Quali significati hanno gli oggetti rituali presenti nelle collezioni del MAO e come venivano utilizzati e percepiti nel loro contesto originario? Perché e come sono entrati a far parte del patrimonio del museo – cosí come di altri musei di arte asiatica in ambito europeo? E ancora: quali sono i problemi posti dalla conservazione e dal
delle collezioni del MAO sono accostate ad alcune sculture – tra cui oltre trenta bronzetti votivi della collezione Auriti e due straordinarie teste scultoree in pietra di epoca Tang (618-907 d.C.) – provenienti dal Museo delle Civiltà di Roma, con cui il Museo ha avviato una proficua e articolata collaborazione, e a un importante prestito proveniente dal Museo d’Arte Orientale E. Chiossone di Genova. info tel. 011 4436927; www.maotorino.it
Appuntamenti CACCAMO (PALERMO) LE GIORNATE MEDIEVALI: UN SALTO NEL PASSATO Castello 11 dicembre
restituiti dalle indagini archeologiche condotte negli ultimi vent’anni nel tratto di pianura compreso tra la Statale Alessandria-Acqui e il fiume Bormida. Sull’ampio terrazzo fluviale che ha conservato testimonianze di insediamenti pre- protostorici, alcune famiglie gote occuparono un impianto di conduzione agricola di epoca romana imperiale, al quale diedero nuovo impulso, fondando un villaggio di capanne in legno e seppellendo i propri defunti in un cimitero posto a breve distanza dall’abitato. I Goti di Frascaro vissero separati, ma non isolati, dalla popolazione romana per quasi un secolo (dalla fine del V al terzo venticinquennio del VI secolo), mantenendo tradizioni tipiche della cultura barbarica. info tel. 0144 57555; e-mail: info@acquimusei.it: www.acquimusei.it
restauro, subordinati al gusto e alle tecniche che cambiano nel tempo? Qual è il rapporto fra buddhismo e nuove tecnologie? Da queste domande prende avvio la nuova mostra «Buddha10», un progetto che parte dalle opere presenti nelle collezioni per aprire prospettive piú ampie relative a questioni che riguardano il museo, le sue collezioni e su cosa significa gestire, custodire e valorizzare un patrimonio di arte asiatica in ambito occidentale. Nelle sale dedicate alle esposizioni temporanee, in uno spazio essenziale ed evocativo, oltre venti grandi statue buddhiste in legno o pietra di epoche diverse (dal V al XIX secolo)
Curata dalla Società Italiana per la Protezione dei Beni Culturali-Sezione Regione Siciliana (SIPBC Sicilia), con la collaborazione del Comune di Caccamo e il patrocinio gratuito della Federazione Storica Siciliana, l’iniziativa propone, negli spazi del Castello medievale, una rievocazione intervallata da momenti di narrazione e spiegazione degli ambienti della fortezza. Il programma inizia alle 10,00 nella Sala Prades del Castello, per poi concludersi al baglio centrale. I visitatori saranno accompagnati alla visione commentata delle sale del piano nobile del maniero da figuranti in abito d’epoca. L’appuntamento che chiude la rassegna è fissato per domenica 11 dicembre. info tel. 091 8149744, cell. 339 3721811 o 320 0486901; e-mail: sipbc.regionesiciliana@gmail.com, sicilia@sipbc.it
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Incontri di Stefano Mammini
ravvicinati
Il ciclo dell’Allegoria ed Effetti del Buono e Cattivo Governo è un capolavoro indiscusso dell’arte medievale. Oggi, la scelta di consentire al pubblico la visita al cantiere di restauro in atto rappresenta un’occasione imperdibile per ammirare ad «altezza d’artista» le composizioni affrescate da Ambrogio Lorenzetti… 18
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Tutte le immagini che corredano l’articolo si riferiscono al ciclo affrescato Allegoria ed Effetti del Buono e Cattivo Governo, realizzato da Ambrogio Lorenzetti e dalla sua bottega nel Palazzo Pubblico di Siena (vedi foto in alto) tra il 1338 e il 1339 e al cantiere di restauro dell’opera, che, fino al 31 gennaio 2023, sarà aperto alle visite guidate.
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ino al prossimo 31 gennaio, il ciclo dell’Allegoria ed Effetti del Buono e Cattivo Governo, affrescato da Ambrogio Lorenzetti fra il 1338 e il 1339 nella Sala della Pace del Palazzo Pubblico di Siena si offre all’ammirazione dei visitatori in una prospettiva inedita e del tutto eccezionale. L’opera è infatti oggetto di un intervento di manutenzione conservativa, per la cui esecuzione è stato montato un cantiere sopraelevato – una sorta di sala nella sala –, che, rialzando la quota del pavimento di 2,5 m, ha dato modo ai restauratori e agli altri specialisti coinvolti nel progetto di effettuare le proprie analisi e valutazioni in condizioni ideali. E ora, per iniziativa del Comune di Siena, d’intesa con la Soprintendenza Archeologia e Belle Arti per le province di Siena, Grosseto e Arezzo, si è voluto aprire il can-
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tiere alle visite, che permetteranno di vedere da vicino le pitture, «guardando negli occhi» i personaggi che le animano. Di fatto, sarà come contemplare il ciclo dallo stesso punto di vista di Ambrogio Lorenzetti e dei collaboratori che lo coadiuvarono nell’impresa.
Una città ricca e fiorente
Un’impresa che vede la luce in un momento in cui Siena viveva un’autentica età dell’oro, per volere dei Nove, vale a dire dei magistrati che, fra il 1287 e il 1355, costituivano l’organo esecutivo della città (vedi box a p. 22). È proprio in questo periodo che, fra gli altri, sorge il Palazzo Pubblico, che, negli intenti dei committenti dev’essere uno spazio funzionale allo svolgimento delle mansioni di cui sono incaricati, ma deve possedere anche un chiaro valore estetico, per-
ché l’immagine della bellezza si fa veicolo dei valori di una comunità che si trova nel pieno di una forte crescita economica e culturale. Al contempo, il ciclo del Buon Governo deve trasmettere un messaggio ben preciso: quando Lorenzetti vi mette mano, nel 1338, Siena è un libero Comune, ma, nelle città dell’Italia settentrionale – dov’era nato – quel sistema sta progressivamente cedendo il passo alle signorie, che ne cancellano l’impronta democratica. Insieme ai committenti, il maestro senese elabora quindi un progetto iconografico che mette in mostra La parete di fondo della Sala della Pace, di cui sono protagonisti principali le personificazioni del Bene Comune, che ha le sembianze di un anziano seduto in trono, e della Giustizia, che compare per due volte agli estremi della scena.
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due realtà, antitetiche, ma non contrapposte: la democrazia e la tirannide. Ecco perché gli affreschi della Sala della Pace sono da sempre considerati, oltre che uno dei capolavori dell’arte medievale italiana e non solo, uno straordinario esempio di pittura politica, caratterizzato da una strategia comunicativa di grande efficacia.
Nel segno della giustizia
Il racconto per immagini ideato da Lorenzetti ha inizio dalla parete di fondo della Sala della Pace, che, trovandosi sul lato opposto a quello della finestra, è la sola a essere illuminata dalla luce naturale ed è perciò la piú importante. La composizione può essere interpretata come la rappresentazione allegorica di una città che vive all’insegna della democrazia e ha dunque come cardine la Giustizia, la cui immagine, peraltro, apre e chiude questa sezione del ciclo. A questo proposito, occorre considerare che, in origine, alla Sala della Pace si accedeva per una porta sottostante questa raffigurazione e successivamente tamponata, cosicché l’entrata dei Nove avveniva idealmente sotto la sua egida, rafforzando l’idea che i magistrati fossero i rappresentanti terreni della giustizia divina, ispirata dalla sapienza. E la Giustizia, infatti, siede su un trono e intorno a lei corre la citazione dell’incipit del Libro della Sapienza, attribuito a Salomone: «Diligite iustitiam qui iudicatis terram» («Amate la giustizia voi che giudicate (o governate) la terra»), perché la Giustizia è colei che rende tutti i cittadini uguali davanti al potere. Nelle sue mani ci sono i piatti della bilancia: entrambi accolgono un angelo e dai loro bordi scendono una corda bianca e una rossa, che vengono poi riunite e intrecciate dalla Concordia, vestita di bianco. Quest’ultima ha in mano una pialla, a significare che cosí come
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quell’attrezzo livella le asperità del legno, tutti i cittadini sono uguali di fronte alla giustizia. Concetto impersonato dalla teoria di 24 cittadini – dai tratti fortemente caratterizzati –, i quali, pur avendo fisionomie diverse e appartenendo a classi sociali differenti, sono accomunati dall’avere la medesima altezza. Gli uomini si passano la corda di mano in mano, fino a farla giungere, intrecciata, al Bene Comune, cioè alla rappresentazione del Comune di Siena, che Lorenzetti ci
Un’immagine della struttura montata per consentire l’intervento dei restauratori e che, grazie al piano di lavoro sopraelevato di 2,5 m rispetto al pavimento della Sala della Pace, offre un punto di vista inedito per ammirare le pitture di Lorenzetti.
mostra come un anziano seduto in trono, in forma di ritratto idealizzato, corredato dalla sigla CS CV, tradizionalmente sciolta in Commune Senarum Civitas Virginis, a sottolineare il legame che da sempre lega Siena alla Vergine. Il Bene Comune
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restauri siena porta il cappello tipico dei giudici e indossa un abito bianco e nero, con una partizione orizzontale, come la balzana, simbolo di Siena. Ha tra le mani quello che a prima vista sembra uno scudo ma che, in realtà, è l’impronta, ingrandita, del sigillo di cera dei Nove, la cui realizzazione era stata affidata nel 1298 all’orafo Guccio di Mannaia. È, quest’ultimo, un dettaglio importante, che fuga qualsiasi dubbio sull’identificazione del personaggio, perché il sigillo è lo strumento che conferisce personalità giuridica al Comune. Ai piedi del Bene Comune si riconosce la rappresentazione della lupa con i gemelli, destinata a diventare uno dei simboli di Siena. Nel Trecento, all’epoca della realiz-
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«Segregati» a fin di bene Ambrogio Lorenzetti viene chiamato ad affrescare la Sala della Pace dai Nove, una delle principali magistrature della Repubblica di Siena. Il periodo del loro governo (1287-1355) coincide per la città con il momento di massimo splendore politico ed economico: vengono aperti nuovi e numerosi cantieri, tra i quali quello del duomo, edificati molti palazzi, incluso il Palazzo Pubblico e completata una parte consistente della cinta muraria. Inizialmente la designazione dei membri dei Nove scaturisce da riunioni segrete delle massime cariche cittadine, ma dal 1318 in poi, la forma di elezione cambia e i nuovi membri sono scelti per votazione. Nel corso dei settant’anni di questa magistratura gli storici hanno stimato che si siano susseguite nella carica due-tremila persone diverse, scelte tra gli esponenti di spicco della società senese. Per tutta la durata del loro mandato, i Nove hanno risieduto per scelta del Consiglio cittadino nel Palazzo comunale, separati dalle loro famiglie e corporazioni. Si riteneva che potessero cosí esercitare al meglio gli incarichi di governo, evitando tentazioni e influenze esterne; era loro consentito, infatti, allontanarsi dal palazzo solo per occasioni specifiche e comunicare con il pubblico solo per via ufficiale. (red.)
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Sulle due pagine particolari della parete di fondo della Sala della Pace, riservata all’allegoria del Buon Governo. A destra, la Temperanza, con la clessidra in mano, siede fra la Magnanimità e la seconda rappresentazione della Giustizia, che qui tiene sulle ginocchia la testa di un uomo decapitato. Sotto di loro, un manipolo di soldati senesi, che sorveglia un gruppo di malfattori. Nella pagina accanto, in alto, la prima rappresentazione della Giustizia, con i piatti sui quali stanno due angeli. Nella pagina accanto, in basso, la personificazione del Bene Comune, corredata dalla sigla CS CV (Commune Senarum Civitas Virginis); imbraccia con la sinistra un oggetto circolare che sembra uno scudo, ma che, in realtà, è il sigillo dei Nove, realizzato nel 1298 dall’orafo Guccio di Mannaia.
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restauri siena Il corteo nuziale che anima un settore della rappresentazione della città (vedi, a destra, la foto d’insieme). La sposa veste uno sgargiante abito di colore scarlatto e ha sul capo una corona.
A sinistra la rappresentazione della campagna senese, sulla parete destra della Sala della Pace.
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zazione degli affreschi, il suo inserimento nella composizione vuol essere semplicemente un richiamo alla continuità ideale con l’impero di Roma, ma un secolo piú tardi, verrà addirittura forgiata ex novo una tradizione leggendaria secondo la quale la repubblica senese avrebbe avuto origini romane. dicembre
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la bottega
Quasi una catena di montaggio La bottega di Ambrogio Lorenzetti era molto ricca e per un periodo vicino a quello della realizzazione del ciclo l’artista ha lavorato insieme al fratello Pietro. Nel 1335 i Lorenzetti mettono bottega assieme per dipingere le grandi scene sulla vita della Madonna che decoravano la facciata dell’ospedale di S. Maria della Scala, opere che, essendo destinate all’esterno, si sono poi deteriorate. Anche quella di Ambrogio, com’era tipico del tempo, era certamente una bottega molto strutturata, nella quale operavano specialisti focalizzati nel creare un effetto finale unitario e omogeneo, sotto la guida del maestro. Nel caso di Lorenzetti si può pensare che per lui lavorassero una ventina di persone, anche perché una bottega come la sua, oltre alle opere su muro, produceva dipinti su tavola, per i quali occorrevano professionalità diverse: il fabbricante delle tavole (di pioppo, da far invecchiare per 24 mesi), chi dava l’imprimitura a gesso, la doratura, le aureole… Una vera e propria catena di montaggio ante litteram. Come accennato, a chiudere l’allegoria che occupa questa parete ritroviamo la Giustizia, che questa volta è armata e tiene sulle ginocchia la testa di un uomo decapitato. Sotto di lei c’è un manipolo di soldati senesi che controlla un gruppo di personaggi fatti prigionieri, tra i quali si riconoscono due
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feudatari, evocazione dell’avvenuta sottomissione di vari castelli da parte del Comune.
Mondi a confronto
Sulla parete di destra, in perfetta simmetria, si confrontano la veduta della città e quella della campagna. La rappresentazione della città
appare assai innovativa, in quanto il paesaggio urbano non è fatto delle sole architetture, ma appare fittamente popolato e mostra gli abitanti mentre svolgono le proprie attività nella massima serenità, segno che la comunità vive in pace. Sulla sinistra, spicca un corteo nuziale, con la sposa vestita di rosso
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restauri siena A sinistra la raffigurazione delle varie fasi di lavorazione della lana, una delle attività piú importanti nell’economia senese. A destra particolare della danza che si svolge in una delle piazze della città. In basso una coppia di signori esce dalla città per una battuta di caccia, come prova il fatto che l’uomo porti con sé un falcone.
(all’epoca il bianco era il colore del lutto e gli abiti per le occasioni di festa avevano tinte sgargianti) e una corona sulla testa. In secondo piano vediamo alcuni uomini che giocano a dadi, una pratica evidentemente ritenuta biasimevole, dal momento che sopra di loro è appollaiato un rapace, e che nei secoli successi-
vi incorse perfino in una sorta di damnatio memoriae, poiché la scena fu parzialmente cancellata.
Commercio e istruzione
Al centro altri personaggi suonano e ballano, mentre il resto della scena è dominato dalla vivace e realistica raffigurazione di varie attività: riconosciamo i venditori di stoffe, la bottega di un sarto – che ha come insegna un palo al quale sono appesi una camicia e un paio di braghe – e quelle di un orafo e di un calzolaio, ma anche un’aula nella quale un professore sta facendo lezione. L’istruzione, del resto, era uno dei vanti dei Nove e lo Studium senese aveva attirato professori di grande fama da città come Bologna, andando cosí a potenziare l’offerta culturale della città. Non mancano botteghe di generi alimentari, come quella di un venditore di formaggi e salumi che dispone anche di vasi in maiolica decorata che contengono le bevande. Sulla piazza principale spicca la rappresentazione dell’intero ciclo della lavorazione della lana – dal-
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la cardatura alla tessitura – in una sorta di omaggio alla corporazione della lana, che era una delle piú importanti e influenti di Siena. All’estrema destra c’è una delle porte della città e, appena dentro, c’è una taverna, un punto di ristoro per i viaggiatori, come si può dedurre dall’insegna che pende dalla catena, che è in ferro battuto e ha la forma di un piccolo drago. Oltrepassate le mura cittadine, l’idea della pace armata, già evocata in una delle personificazioni di virtú dipinte ai lati del Bene Comune, viene ripresa dall’allegoria della Securitas, che, peraltro, è uno dei primi nudi dell’arte italiana dopo la caduta dell’impero romano. Ambrogio Lorenzetti aveva fama di pittore colto e Lorenzo Ghiberti
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riconduce l’idea di questo studio di nudo cosí rivoluzionario a un episodio ben preciso: si narra infatti che da scavi nei pressi della città fosse stata rinvenuta una statua romana in pezzi che avrebbe rappresentato una Venere nuda.
La statua «maledetta»
Ambrogio trasse molti spunti da questa scultura e poi suggerí di collocarla sulla fonte principale della città. In quegli stessi anni ci fu una forte carestia, che venne imputata alla presenza di una divinità pagana all’interno della città. Cosicché la statua fu nuovamente ridotta in pezzi e i Senesi andarono a sotterrarla oltre il confine del proprio comune, in territorio fiorentino. Una vicenda che Lorenzetti, interessa-
to al nudo e all’anatomia umana, avrebbe voluto evocare. La campagna appare totalmente antropizzata: popolata, coltivata e interamente gestita dall’uomo. Non è un particolare secondario, perché la campagna nel Medioevo era un luogo rischioso. Chi dalla città si muoveva per raggiungere un’altra città, per esempio da Siena a Bologna, faceva testamento, perché la campagna era un luogo insicuro, popolato dai briganti. Disporre di campagne abitate, governate e produttive era un vanto importante per la città e non soltanto perché in questo modo si garantiva il sostentamento della comunità. Quando Lorenzetti dipinge, Siena era un centro di proporzioni medio-alte, nella quale si stima
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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
risiedessero 50 000 abitanti: non poteva quindi essere paragonata a città come Roma, ma certamente a realtà come quella, per esempio, di Parigi. Il fatto che le sue terre fossero in grado di sostentare una comunità cosí numerosa era dunque motivo d’orgoglio e spiega perché Ambrogio dia loro tanto risalto. Quello fra la campagna e la città era un rapporto osmotico: la terra produce materie prime che in città vengono trasformate e gli artigiani ricomprano materia prima trasformata e la riportano in campagna. Puntuale appare la
rappresentazione delle colture, che sono di due tipi: cerealicola – da cui trarre il sostentamento per la popolazione – e del vino. E, proprio come oggi, le vigne sono distribuite sulle colline, mentre nelle aree pianeggianti, oltre ai cereali, ci sono le colture orticole.
In alto la parete di sinistra della Sala della Pace, nella quale Lorenzetti mette in scena l’allegoria del Cattivo Governo.
Suini di pregio
Fra le presenze piú significative, si riconosce anche la cinta senese, la razza suina che si caratterizza per il manto scuro attraversato da una fascia bianca all’altezza della spalla, che circonda interamente l’animaIn alto e a sinistra ancora due particolari della rappresentazione della campagna che mostrano, rispettivamente, un esemplare di cinta senese, la pregiata razza suina tipica del territorio, e gli appezzamenti di terreno destinati, nelle zone pianeggianti, a colture cerealicole e orticole.
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Da leggere
Un manifesto politico Alla ricca bibliografia sugli affreschi di Ambrogio Lorenzetti si è aggiunto di recente l’ampio saggio firmato da Gabriella Piccinni per i tipi di Einaudi: Operazione Buon Governo. Come il sottotitolo lascia intuire, Un laboratorio di comunicazione politica nell’Italia del Trecento, la studiosa, professoressa emerita di storia medievale all’Università di Siena, ha inteso concentrarsi soprattutto sui messaggi veicolati dall’Allegoria ed Effetti del Buono e Cattivo Governo. Al di là delle scelte formali e stilistiche, appare infatti evidente l’intento di Lorenzetti, e dei suoi committenti, di dare vita a un vero e proprio manifesto politico. L’ampia analisi prende le mosse dai versi di quella che Piccinni definisce Canzone del Buon Governo, un componimento in 62 versi che corre al di sotto delle pitture (al momento coperto dal piano di lavoro del cantiere di restauro) e invita ad ammirarle.
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La disamina, forte di un corredo iconografico ricco e puntuale, si sviluppa quindi in maniera sistematica, offrendo di volta in volta le chiavi di lettura utili a cogliere i messaggi affidati alle diverse scene. Un’analisi dalla quale emerge la piena consapevolezza di Ambrogio nell’essersi cimentato in un’opera che andava ben oltre i confini della mera decorazione. Gabriella Piccinni Operazione Buon Governo. Un laboratorio di comunicazione politica nell’Italia del Trecento Einaudi, Torino, 324 pp., ill. col. 55,00 euro ISBN 978-88-06-25372-1 www.einaudi.it
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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
A sinistra e in basso due momenti dell’intervento condotto dai restauratori sul ciclo affrescato. Nella pagina accanto la personificazione della Tirannide, resa con sembianze diaboliche.
il cantiere di restauro
Un intervento articolato L’intervento sul ciclo affrescato da Ambrogio Lorenzetti è stato avviato nella primavera scorsa, con molteplici finalità, che oltre alle azioni di manutenzione conservativa delle pitture, comprendono la mappatura del degrado e l’accertamento dello stato di conservazione delle tre pareti. Nel gruppo di lavoro, guidato dal restauratore Massimo Gavazzi, è coinvolta l’Università di Siena (Dipartimento di Mineralogia e Petrografia dei Beni Culturali) e opera anche un’archeologa esperta in alzati medievali, Nadia Montevecchi, poiché è importante valutare le interazioni del contenitore (le murature della Sala della Pace) con la superficie dipinta. Per esempio, la parete del Cattivo Governo appare in condizioni decisamente peggiori rispetto alle altre, perché il muro che la sostiene e su cui Lorenzetti ha dipinto deve aver presentato problemi già in antico, tanto che, negli anni Sessanta/Settanta del Trecento, l’opera originaria fu parzialmente integrata dal pittore Andrea Vanni. Altro obiettivo consiste nel valutare l’efficacia degli interventi precedenti, che, nel caso degli affreschi della Sala della Pace, erano stati condotti per l’ultima volta fra il 1985 e il 1987. Fra le procedure allo studio dei restauratori, vi è la messa a punto di interventi non distruttivi che possano risolvere il problema delle efflorescenze saline osservate sulla parete del Cattivo Governo.
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stra, si dispiega la rappresentazione, allegorica e didascalica, della Tirannide, che viene rappresentata da Lorenzetti all’interno delle mura cittadine: una soluzione attraverso la quale i committenti del ciclo hanno inteso sottolineare come i pericoli per il comune non vengano dall’esterno, bensí dall’interno, cioè da coloro che, mirando all’affermazione del proprio potere e non all’interesse della comunità, vogliono imporsi come singoli.
I simboli del Male
le. Una razza che oggi, dopo essere stata salvata dall’estinzione, costituisce una delle eccellenze gastronomiche del Senese. Oltre a contadini e pastori, c’è spazio anche per una coppia di signori, che è uscita dalla città per una battuta di caccia – come suggerisce il fatto che l’uomo porta un falcone – mentre dalla parte opposta, in secondo piano, si vede anche il mare, come prova la le-
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genda Talam, cioè Talamone, all’epoca porto di Siena. In questa parte della scena, che ne occupa la metà di destra, è stato rilevato come le campiture siano molto ampie, risulti minore la cura dei dettagli e i colori siano piú diluiti: segno, con ogni probabilità, che qui lavorarono i garzoni di bottega e non il maestro in prima persona (vedi box a p. 25). Sul lato opposto, parete di sini-
Alla personificazione della Tirannide, attorniata dai vizi capitali, Ambrogio assegna i caratteri diabolici del Male: siede in trono un personaggio che ha appunto le fattezze di un diavolo, provvisto di zanne e di corna, vestito di un’armatura, che nasconde sotto un ricco mantello. Una mano impugna un gladio e l’altra regge una coppa piena di sangue, e ai suoi piedi si riconosce un caprone, simbolo per eccellenza del maligno. I vizi capitali siedono su una sorta di cinta murata e sono una delle rappresentazioni piú efficaci del ciclo. La Crudeltà, con una vipera in mano sta cercando di far sí che il rettile morda il bambino che sta strozzando; la Proditio – cioè la falsità – tiene in mano un essere mostruoso con testa di agnello e coda di scorpione; la Frode sembra all’apparenza una donna piacente, ma ha ali di pipistrello e tiene uno strumento per misurare mal tarato, che, per una città mercantile come Siena, è quanto di piú grave si possa fare; il Furore è una sorta di minotauro, proprio perché le persone in preda alla rabbia sono piú simili ad animali; la Divisio – Discordia –, che corrode la democrazia in una città, impugna una sega (in opposizione alla Concordia, che aveva la pialla) e indossa una veste su cui da una parte è scritto SI e dall’altra NO; chiude la rappresentazione della
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Due particolari del Cattivo Governo. La Divisio, che, in contrasto con la Concordia del Buon Governo, imbraccia una sega, e la Guerra, con la spada sguainata.
Guerra, con la spada sguainata e lo scudo. La Giustizia, infine, che nell’allegoria del Buon Governo era la virtú principe, qui è in catene e veste di bianco, colore della sventura. I piatti sono rovesciati ai suoi piedi e ha i capelli sciolti. Sebbene questa parte del ciclo si sia, nel tempo, maggiormente deteriorata, resta sufficientemente leggibile la rappresentazione della città, i cui palazzi appaiono distrutti, per effetto della guerra. E anche la scelta dei colori è emblematica: i colori sono lividi, invernali, in evidente opposizione con quelli del Buon Governo. Si vedono guastatori che stanno demolendo le case e ci sono macerie per terra, mentre sulla piazza si consumano violenze di ogni genere: una donna vestita
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di rosso (forse la sposa del corteo nuziale) tenuta da due malfattori, ai suoi piedi un uomo ucciso, forse il marito; una donna che si squarcia il petto in segno di dolore; ragazzi attoniti assistono alla scena.
Scempio e desolazione
C’è poi una scena di furto: un soldato di ventura, vestito con colori sgargianti, obbliga un signore ad aprirsi le vesti per prendere il suo denaro e depositarlo nel vassoio che gli porge il suo scherano. E nella città in guerra lavora soltanto il fabbricante di armi. Dalla porta escono soldati che vanno a fare scempio delle terre circostanti. La campagna è distrutta, con villaggi incendiati, fiamme, uomini in armi che vanno alla conquista del territorio, fattorie devastate… una campagna quindi desolata, sterile, che non produce ricchezza. Nell’insieme, il ciclo trasmette un messaggio forte, destinato a
suonare come monito per i committenti stessi delle pitture, dal momento che alla sala potevano accedere solo i Nove. Se le persone che qui si riunivano avessero perseguito ideali di concordia, la città sarebbe stata fiorente; se avessero soggiaciuto alla tentazione di prendere un potere proprio, sovvertendo il regime democratico e lasciando spazio all’avvento di una signoria, Siena sarebbe andata incontro alla morte e alla desolazione.
Dove e quando «L’arte illumina il Natale: a Siena tra emozioni e sostenibilità» Visite guidate al cantiere del Buon Governo Siena, Palazzo Pubblico fino al 31 gennaio 2023 Info e vendita biglietti www.comune.siena.it dicembre
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il medioevo in battaglia Attila, seguito dalle sue orde barbariche, schiaccia l’Italia e le arti, olio e cera su intonaco di Eugène Delacroix. 1838-1847. Parigi. Palais Bourbon. Nel 452 le truppe del «flagello di Dio» giunsero fino alle porte di Roma, dopo le scorrerie nel resto dell’Italia settentrionale.
La guerra come specchio dei tempi incontro con Federico Canaccini, a cura di Andreas M. Steiner 34
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irma ormai familiare per i lettori della nostra rivista, Federico Canaccini è uno storico del Medioevo dai molteplici interessi, tra i quali spicca quello per il conflitto tra guelfi e ghibellini a cui ha dedicato numerosi studi, nonché un recente Dossier di «Medioevo» (n. 43, 2021; on line su issuu.com). Del conflitto ha indagato anche alcuni momenti salienti, come le battaglie, La battaglia di Tagliacozzo (1268) e La battaglia di Campaldino (1289), che ha trattato in altrettanti volumi editi per Laterza e nei quali ripercorre le vicende che hanno originato gli scontri, analizzandone poi le modalità stesse, per infine riunire l’insieme dei dati e delle notizie in un ampio contenitore, che racchiude metastoria, poesia, arte e leggenda. Tra i suoi lavori si segnalano anche le edizioni di fonti, come quella riguardante una previa forma epistolare della prima bolla giubilare della storia della Chiesa, la Antiquorum habet, da lui scoperta e riconosciuta per quel che è presso l’Archivio di Stato di Firenze ed edita dalla Lateran University Press (Al cuore del primo giubileo, 2016). Altro argomento caro al professor Canaccini è l’operato, caduto nell’oblio, di Giovanni Paolo da Fondi, docente di astrologia-astronomia presso l’Università di Bologna nel XV secolo: dopo aver pubblicato una inedita Questione riguardante la durata e la fine del mondo, si appresta a dare alle stampe due Trattati astrologici, veri almanacchi per il comune bolognese. Al momento si sta occupando dell’edizione critica del Corpus Quodlibetale di Giovanni Regina di Napoli, un domenicano attivo alla corte di Giovanni XXII e di Roberto, re di Napoli, in collaborazione con l’Università Pontificia Salesiana, presso la quale insegna paleografia latina, mentre è docente di storia medievale alla Uninettuno University di Roma. Vincitore della prestigiosa Borsa Fulbright, è stato Visiting Scholar al’Università di Princeton ed è stato invitato a insegnare alla Catholic University di Washington, dove ha tenuto un corso proprio sulla guerra e la cavalleria nel Medioevo. Al tema della guerra nel Medioevo è dedicato il suo libro piú recente, pubblicato per i tipi di Laterza... MEDIOEVO
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Particolari della tela ricamata (piú nota come «arazzo») di Bayeux, che illustra la conquista dell’Inghilterra (1066) da parte di Guglielmo di Normandia e la battaglia di Hastings. XI sec. Bayeux, Musée de la
Tapisserie. In alto, guerrieri scandinavi armati di asce e spade, protetti da corazze metalliche e da un grande scudo; a destra, la cavalleria normanna si scaglia contro le truppe anglosassoni, appiedate.
rofessor Canaccini, da dove nasce l’interesse per la guerra P nel Medioevo? «Sono originario del Casentino, là dove si svolse la battaglia di Campaldino a cui partecipò persino Dante Alighieri. Le origini di questo interesse nascono dunque grazie a una curiosità infantile, poi coltivata e cresciuta con gli studi. Se da ragazzo sono stato affascinato da armi e armature, dalle leggende di cui si ammantò quell’episodio, la maturità mi ha condotto a uno studio della guerra non certo apologetico, ma, anzi, di
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segno opposto. Sono convinto del fatto che scrivere di guerra – combattuta nel Medioevo oppure in un’altra epoca – debba essere un tentativo di capire come e perché si sia spezzata la pace». I l suo ultimo libro, fresco di stampa, si intitola Il Medieovo in 21 battaglie. Ma è possibile raccontare l’età di Mezzo in una ventina di scontri campali? «Si tratta, naturalmente, di una maniera non accademica e non certo nuova, di raccontare la storia. La codicembre
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siddetta Histoire bataille (definizione coniata in ambito accademico francese, n.d.r.) è stata a lungo celebrata e poi criticata dalla storiografia che la vedeva come riduttiva: non si può, in effetti, ridurre la storia a una sequela di scontri, come se fossero questi a decidere le sorti dell’umanità. Ma con un approccio innovativo, le battaglie possono trasformarsi in una chiave di lettura utile a esplorare un’epoca, anche lunga, come quella del Medioevo, e mondi che di volta in volta si scontrano. Ecco: la battaglia rappresenta certamente lo
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scontro tra due o anche piú civiltà. Ciò che nel libro ho cercato di fare è stato anche osservare gli incontri e gli scambi che hanno avuto luogo. Di certo 21 battaglie, e altrettanti capitoli, non esauriranno la storia medievale, ma non è questa la mia pretesa. Il racconto di una battaglia include momenti narrativi forti e chiari per la comprensione delle vicende e proprio per questo, credo, la Histoire bataille ha riscosso in passato un grande successo. La linea narrativa è, in fondo, semplice: vi sono, infatti, gli antefatti, i protagonisti, un casus belli,
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il medioevo in battaglia Miniatura raffigurante i crociati che assaltano Gerusalemme nel 1099, da un’edizione del Roman de Godefroi de Bouillon et de Saladin. XIV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
uno scontro e le sue conseguenze. Questo, però, è lo scheletro della storia: ciò che spesso non si vedeva, era tutto il resto». Con quale criterio ha scelto questi 21 fatti d’arme? «L’idea era quella di provare a creare un quadro complessivo delle vicende del Medioevo europeo, quello a noi piú congeniale, in cui i protagonisti sono re e vescovi, papi e imperatori, vassalli e monaci. Poi, dopo una piú attenta riflessione, mi sono volutamente orientato su un mondo assai piú vasto, un panorama che spezza gli argini cronologici e geografici di quello che noi occidentali – per non parlare di noi italiani – siamo abituati a chiamare Medioevo. Una storiografia eurocentrica ha reso il Medioevo un mondo molto piú chiuso di quanto in realtà non fosse e oggi questo ripiegamento su se stesso, non fa che proseguire quell’atteggiamento. Cosí facendo, non si fa che confermare quel mondo – alla fine limitato – del Medioevo che fa comodo in casa nostra, perpetuando il pregiudizio nei confronti di molti mondi, in realtà vicini, ignorati o distorti dalla storiografia dei decenni passati. Non sto parlando di paesi d’Oltreoceano: basti pensare a come la storiografia “europea” abbia a lungo ignorato i Paesi baltici e balcanici, dando loro una certa dignità solo una volta entrati in contatto con “la civiltà medievale europea”. E il motivo, ovviamente, non è legato solo alla penuria delle fonti. Questo ritardo si riflette ancora nei manuali scolastici. Quindi, per tornare alla domanda, la scelta ha seguito direzioni diverse: la prima era tentare di dedicare un capitolo per ogni grande realtà politica del mondo medievale. Una battaglia che divenisse chiave narrativa per seguire l’evoluzione ora della Spagna, ora della Francia, ora dell’Inghilterra: per far questo, ovviamente, ho dovuto scegliere un momento significativo, un episodio che permettesse di narrare un pre e un post di ampie dimensioni. Date queste premesse, però, lo scenario si è allargato e ha incluso mondi che solo apparentemente sono lontani da questo Medioevo europeo: i Paesi slavi, l’Islam, i Mongoli, l’impero cinese e molti altri, diventano quindi parte integrante di questo affresco e danno un senso a molti eventi considerati – a torto – solo europei. È una sorta del gioco del domino, in cui una pedina spinge la seguente e, talvolta, l’Europa, è l’ultima pedina di una lunga serie». el dare conto delle battaglie, si parla naturalmente anche N di armi, tattiche, strategie... «Sí, e questo è un altro dei criteri che hanno guidato la
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il medioevo in battaglia mia scelta tra le decine di episodi militari di cui il Medioevo è costellato. Alcuni scontri, per esempio, hanno avuto scarsi riflessi politici, ma sono stati importanti per l’evoluzione delle tecnologie belliche e hanno avuto ripercussioni nei decenni o nei secoli seguenti sulle strategie da adottare. L’introduzione di una nuova arma genera l’evoluzione degli apparati di difesa e cosí via, in un vorticoso ingegnarsi per offendere il nemico. Dal punto di vista della evoluzione tecnologica l’uomo, cosí facendo, ha conquistato lo spazio: non dimentichiamoci che Wernher von Braun, padre delle temibili V2 nel corso della seconda guerra mondiale, è uno dei padri del programma spaziale statunitense, quella Operazione Paperclip che, tra i suoi frutti piú famosi, annovera la spedizione del 1969 che permise all’uomo di mettere il piede sulla Luna. Ecco, nel Medioevo non si mise piede sulla Luna, ma in quel torno
In basso La battaglia di Poitiers, ottobre 732, olio su tela di Charles de Steuben. 1837. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon. Lo scontro fu vinto dall’esercito di Carlo Martello sulle truppe musulmane di Abd al-Rahman.
di secoli nascono, per esempio, le spaventose armi da fuoco, che ancora oggi, purtroppo, sono padrone incontrastate dei campi di battaglia. In dieci secoli di storia della guerra medievale, si assiste a un collasso della fanteria, a favore di reparti a cavallo, per poi vedere il ritorno in auge di reparti appiedati, protetti ora da armature che consentono di lasciare la cavalcatura, che era stata il carroarmato del Medioevo. Ma le battaglie non si fanno solo nei campi aperti: il millennio medievale ci regala un manufatto che è parte integrante del nostro paesaggio europeo, vale a dire il castello. Per secoli le colline europee non hanno
conosciuto sulle loro cime, a volte inaccessibili, queste torri, questi fortilizi, questi paesi arroccati: sono state ripetute aggressioni esterne a indurre gli uomini a lasciare le comode pianure fertili, per trovare riparo in cocuzzoli scomodi, ma ben piú facilmente difendibili. E qui nasce una nuova arte, quella ossidionale, che si deve adeguare alla invenzione del castello medievale, un edificio che via via si dota di strumenti difensivi e offensivi, dai nomi a volte buffi e strampalati: barbacani, orecchie, orecchioni, beccatelli, battifreddo. In fondo, credo, la tragicità della guerra andava sdrammatizzata anche allora».
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Il mattino della battaglia di Azincourt, olio su tela di John Gilbert. 1884. Londra, Guildhall Art Gallery. Lo scontro ebbe luogo nel corso della Guerra dei Cent’anni, conflitto che tra il 1337 e il 1453 impegnò Inghilterra e Francia.
erché le battaglie che ha selezionato sono proprio 21, una P cifra non «tonda»? «Perché volevo che già nel titolo fosse evidente il desiderio di superare i limiti mentali che ci siamo costruiti come identità di Occidente medievale. Quella “ventunesima battaglia”, che, volutamente, stride anche rispetto al nostro sistema decimale, non deve essere identificata con l’ultimo capitolo, anche se è quello che forse meglio si presta a rendere l’idea di travalicamento degli spazi e dei limiti cronologici del “nostro Medioevo”. Il capitolo finale, infatti, è dedicato alla conquista di una favolosa città edificata in mezzo a un
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enorme lago salato, una laguna, con case intervallate da canali e solcate da decine di piccole imbarcazioni: alludo a Tenochtitlán, capitale dell’impero azteco. Lo spartiacque del 1492 – la data che ha avuto forse piú successo tra quelle proposte dagli storici quale cesura tra età medievale e moderna – ci induce ad arrestarci ancor prima che Colombo salga a bordo della Santa Maria: ciò che sta per accadere non appartiene piú al Medioevo! Quegli uomini, invece, Colombo incluso, sono figli del Medioevo, sono nati nel Medioevo, le idee che portano con sé sono le stesse; le armi e le strategie – visto che di battaglie si
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Facsimile a stampa di un dipinto cinquecentesco raffigurante il sovrano azteco Montezuma II che, costretto dai conquistatori spagnoli, si affaccia dal balcone del suo palazzo a Tenochtitlán, nel tentativo di calmare il suo popolo in rivolta e indurlo alla resa: colpito dalle frecce scagliate dai rivoltosi, morí in seguito alle ferite riportate qualche giorno dopo.
parla! – non cambiano certo a seguito di un viaggio in mare aperto. Piuttosto, gli Spagnoli – che proprio in quello stesso anno portarono a termine la secolare Reconquista della penisola iberica – arrivarono sulle coste del Messico intrisi di profetismo, convinti – non tutti, certo! – della necessità di recuperare il Santo Sepolcro, servendosi dell’oro che abbondava in quelle terre. È quanto promette Colombo ai re di Spagna! Quanto di vero e quanto di propagandistico ci fosse in tutto ciò fa parte naturalmente dello sporco gioco della guerra e degli affari. Proviamo a riflettere anche sull’attualità, cosa quanto mai utile, credo. Stiamo attraversando un momento di grandi trasformazioni: abbiamo assistito, nel 2001, a una serie di attentati che avrebbero potuto dare vita a un conflitto religioso di grandi proporzioni e che per il momento, sembra essere rientrato; da un paio di anni il mondo ha conosciuto la prima pandemia globale, con risvolti inediti sulla mentalità, sulla socialità, sull’economia; ci troviamo, non credo sia un azzardo affermarlo, sull’orlo di un nuovo conflitto mondiale, con schieramenti che prendono posizione di giorno in giorno: non saprei dire se in futuro gli storici opteranno per una di queste date per identificare una cesura tra un’epoca o un’altra. Ma sono convinto che chi sta vivendo questi anni si trovi a cavallo di epoche profondamente diverse: figli del Novecento, con tutte le sue problematiche e contraddizioni, derivanti da due conflitti mondiali, da ideologie nate e defunte, proiettati verso un mondo nuovo che, soprattutto dal punto di vista tecnologico, ha fatto balzi a una velocità di difficile gestione. Tutto questo, però, non significa certo che l’11 settembre del 2001 – per scegliere un “1492” dei nostri tempi – cancelli in quelle generazioni tutto il portato culturale, ideologico e non solo, ricevuto da giovani e adulti che appartengono tutti, e a tutti gli effetti, al secolo passato e che, a seconda dell’età, assistono, piú o meno stupefatti, all’evolversi del XXI secolo». I l suo libro, dunque, non si limita strettamente al Medioevo (per quanto allargato), ma invita anche a riflessioni sulla lunga durata... «I 21 capitoli in cui si articola il mio lungo racconto – che mi auguro non risulti perciò noioso... – riportano spesso rimandi a riusi e ad abusi della storia medievale nei secoli seguenti, sino a giungere ai giorni nostri.
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È un sistema antico quello di appropriarsi del passato, rileggerlo in chiave nazionalista, distorcendo e appiattendo la storia: non è vero che antichi Romani e Italiani sono la stessa cosa, cosí come non è vero che Galli o Franchi e Francesi siano la stessa cosa. Eppure, il senso comune induce spesso a una identificazione ora in Giulio Cesare, ora in Asterix, appropriandoci di “eroi” che diventano, a volte pericolosamente, simboli di popoli moderni. Parlando di guerre e di battaglie, il gioco di cui sto parlando è particolarmente rischioso: un conto è giocare a suon di “pozione magica” nel conflitto tra Galli e Romani, altro conto fu, nel corso della seconda guerra mondiale, battezzare l’operazione di invasione della Russia, col nome dell’imperatore Barbarossa, propugnatore di un universalismo figlio del XII secolo. È propaganda, certo: ma un martellante uso della propaganda può ingenerare pericolose convinzioni nell’opinione pubblica. La lettura di un libro, credo, deve servire a osservare l’oggi, e non penso sia un caso che nel 2010 sia stato rinnovata, nella Russia putiniana, l’onorificenza dedicata ad Aleksandr Nevskij, al centro di uno dei 21 capitoli, ma anche santo della Chiesa ortodossa, eroe di un film di epoca staliniana, protagonista indiscusso della retorica di Putin di questi ultimi anni. Fu lui a ricacciare sul lago Peijpus i Cavalieri Teutonici nel 1242; fu nuovamente lui – sotto le spoglie di Stalin – a ricacciare gli eredi nazisti nel 1942. Ora nel 2022, nel promuovere la famigerata Operazione Speciale, si è tornati a parlare di neonazisti, si è rispolverato il premio dedicato al santo guerriero, protettore della Russia, si sono sentiti nuovamente proclami da guerra santa, con promesse di Paradiso ai soldati, trattati alla stregua dei martiri. Il caso del conflitto in corso è uno solo degli esempi di questi abusi della storia: gli altri capitoli, con prospettive diverse, propongono ulteriori esempi possibili. Le 21 battaglie scelte vogliono dunque essere certamente un racconto (pur sempre parziale) della storia del Medioevo, ma non senza tentare di far riflettere il lettore sugli eventi dei tempi piú recenti, per osservare in modo ancor piú critico l’attualità».
Da leggere Federico Canaccini, Il Medioevo in 21 battaglie, Editori Laterza, Bari-Roma 2022 28,00 euro ISBN 9788858149317 www.laterza.it
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vivere al tempo del decameron/12
Un
di Corrado Occhipinti Confalonieri
equilibrio ancestrale
Gli animali, selvatici e poi domestici, con i quali condividiamo il pianeta sono una presenza ricorrente nelle novelle del Decameron. Possono essere il naturale corredo delle scene di vita quotidiana evocate dal Boccaccio, ma anche i protagonisti di metafore moraleggianti, sulla scia della tradizione inaugurata dai grandi favolisti dell’antichità
Arazzo raffigurante i cacciatori che tornano al castello dopo una battuta, opera facente parte di un ciclo dedicato all’unicorno, manifattura olandese (su cartone francese). 1495-1505. New York, The Metropolitan Museum of Art.
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protagonisti del Decameron hanno uno stretto rapporto con gli animali che si trovano nelle case, nelle strade, nei recinti e nelle stalle: dalla loro esistenza dipendono il nutrimento e l’aiuto per il lavoro, ma incombe anche la paura per orsi, lupi e cinghiali nascosti nelle foreste ai margini degli insediamenti abitati. Dell’introduzione alla prima giornata apprendiamo che la tremenda epidemia di peste del 1348 falcidia anche gli animali: «Dico che di tanta efficacia fu la qualità della pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno a altro, che non solamente l’uomo all’uomo [l’appiccava], ma questo, che è molto piú, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell’uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell’uomo, non solamente della infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo spazio uccidesse. Diche gli occhi miei, sí come poco davanti è detto, presero tra l’altre volte un dí cosí fatta esperienza: che, essendo gli stracci d’un povero uomo da tale infermità morto gittati nella via publica e avvenendosi a [imbattendosi in] essi due porci, e quegli secondo il lor costume prima molto col grifo e poi co’ denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento [contorcimento], come se veleno avesser preso, amenduni [ambedue] sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra».
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vivere al tempo del decameron/12 Da questo passaggio notiamo che gli animali domestici nel Medioevo erano liberi di scorrazzare per le sporche strade delle città, perché maiali, oche, galline si nutrivano di rifiuti commestibili. Come accade anche oggi, i comuni indicevano le gare pubbliche per assegnare la pulizia urbana: al vincitore dell’appalto a Siena del 9 ottobre 1296 viene concesso il diritto di tenere in piazza del Campo «una scrofa e quattro ma-
case cacciati, per li campi, dove ancora le biade abbandonate erano, senza esser non che raccolte ma pur segate [ma neppure mietute], come meglio piaceva loro se n’andavano; e molti, quasi come razionali [come se fossero forniti di ragione], poi che pasciuti erano bene il giorno, la notte alle lor case senza alcuno correggimento [alcuna guida] di pastore si tornavano satolli» (I, introduzione). Boccaccio rappresenta attraver-
ialetti perché raccogliessero e mangiassero tutte le sopraddette granaglie». Lo scoppio della pestilenza mina l’antico equilibrio fra uomo e animale. I contadini «come bestie morieno; per la qual cosa essi, cosí nelli loro costumi come i cittadini divenuti lascivi [negligenti], di niuna lor cosa o faccenda curavano: anzi tutti, quasi quel giorno nel quale si vedevano esser venuti la morte aspettassero, non d’aiutare i futuri frutti delle bestie e delle terre e delle loro passate fatiche ma di consumare quegli che si trovavano presenti si sforzavano con ogni ingegno [con ogni mezzo]. Per che adivenne i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i porci, i polli e i cani medesimi fedelissimi agli uomini, fuori delle proprie
so gli animali la dissoluzione della società medievale fondata su compiti e su ruoli ben definiti, sull’ordine e sul lavoro. Da notare l’affettuoso riferimento al cane, ritenuto a ragione compagno fedele dell’uomo, anch’esso vittima di quel rassegnato terrore della morte che ha travolto il proprio padrone. Con questa descrizione, lo scrittore fa balenare una sorta di umanità negli animali che scelgono comunque di stare vicino agli uomini nonostante li abbiano lasciati liberi. Eppure fino a quel momento l’asino era il bene piú prezioso per un contadino, tanto che Bentivegna dal Mazzo (VIII, 2) raccomanda alla moglie Belcolore che se il prete di Varlun-
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go volesse anche «l’asino nostro, non ch’altro, non gli sia detto di no». Altrettanto vale per i nobili: Federigo degli Alberighi, caduto in disgrazia per amore, rinuncia a tutto tranne che al suo falco, che sacrifica solo per la donna amata (V, 9).
La tresca svelata
Troviamo un asino impiccione nella novella dedicata a Pietro di Vinciolo, un ricco Perugino indifferente alle grazie della focosa moglie (V, 10). Proprio l’umile animale, senza volerlo, scopre la tresca della donna «di pel rosso accesa» con un giovane garzone: «Avvenne che, essendo la sera certi lavoratori [contadini] di Pietro venuti con certe cose dalla villa [dal contado] e avendo messi gli asini loro senza dar lor bere, in una stalletta la quale allato alla loggetta era, l’un degli asini, che grandissima sete avea, tratto il capo del capestro era uscito della stalla e ogni cosa andava fiutando se forse [per vedere se] trovasse dell’acqua; e cosí andando s’avenne per mei la cesta [si trovò dinnanzi alla cesta] sotto la quale era il giovinetto. Il quale avendo, per ciò che carpone gli convenia stare, alquanto le dita dell’una mano stese in terra fuori della cesta, tanta fu la sua ventura, o sciagura che vogliam dire, che questo asino ve gli pose sú piede, laonde egli, grandissimo dolor sentendo, mise un grande strido». Pietro scopre cosí la tresca, ma la novella si conclude con un riappacificante ménage à trois, perché anche Pietro in precedenza aveva corteggiato il garzone. La proprietà di un cavallo era considerata un’opportunità di progresso sociale nell’età di Mezzo. A Barletta, Gianni di Barolo (IX, 10) è un prete che per sostentarsi compra e vende merce per le fiere della Puglia aiutato dalla sua cavalla nel trasporto. Diventa amico di Pietro da Tresanti (località a nord di Barletta) che fa il suo stesso mestiere, ma con un asino. I due diventano amici e «in segno d’amorevolezza e d’amistà, alla guisa pugliese [secondo l’uso pugliese], nol chiamava se non dicembre
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La decima novella della quinta giornata in un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore francese. 1425-1450. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Da sinistra, Pietro di Vinciolo siede a tavola con la moglie e l’amante di lei; il ricco Perugino scopre l’amante della moglie calpestato da un asino accanto alla stia del pollame. Nella pagina accanto la nona novella della decima giornata nell’edizione del Decameron, illustrata dal Maestro di Jean Mansel. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. Da sinistra, Gianni di Barolo siede a tavola con Pietro da Tresanti e sua moglie; Pietro interrompe donno Gianni mentre questi tenta di attaccare la coda di cavallo alla donna.
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vivere al tempo del decameron/12 Sulle due pagine miniature dall’edizione del Decameron, illustrata dal Maestro di Jean Mansel. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. A sinistra, Talano d’Imolese racconta alla moglie il proprio sogno e la donna viene aggredita dai lupi. Nella pagina accanto, i briganti aggrediscono nel bosco Pietro Boccamazza e l’Agnolella e la coppia poi si ricongiunge.
compar Pietro; e quante volte in Barletta arrivava, sempre alla chiesa sua nel menava e quivi il teneva seco a albergo e come poteva l’onorava». Qui notiamo come nel Medioevo il parroco di una chiesa senza mezzi economici provvedeva al suo mantenimento arrangiandosi a fare il mercante, attività considerata dai predicatori l’anticamera di molti peccati come l’avarizia, la cupidigia e la truffa. Boccaccio conosceva l’ospitalità dei Pugliesi, perché Barletta era una viva città commerciale frequentata dai mercanti fiorentini, con succursali delle compagnie Bardi e Peruzzi. Quando Gianni si trova a Tresanti, Pietro ricambia l’ospitalità anche se «non avendo compar Pietro se non un piccol letticello nel quale con la sua bella moglie dormiva, onorar nol poteva come voleva, ma conveniva che, essendo in una sua stalletta allato all’asino suo allogata la cavalla di donno Gianni, che egli allato a lei sopra alquanto di paglia si giacesse». Gemmata insiste piú volte perché l’ospite dorma assieme al mari-
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to, tanto lei può andare a casa di un’amica per la notte.
Le magie del prete
Un giorno don Gianni le rivela: «Comar Gemmata non ti tribolar di me ché io sto bene, per ciò che quando mi piace io fo questa cavalla diventare una bella zitella [donna nubile d’età avanzata] e stommi con essa, e poi, quando voglio, la fo diventar cavalla; e perciò non mi partirei da lei». L’ingenua donna drizza le orecchie: crede che il sacerdote è capace di compiere un incantesimo, sa trasformare la cavalla in donna e cosí riferisce un piano al marito: «Se egli è cosí tuo [Se è cosí tuo amico] come tu di’, ché non ti fai tu insegnare quello incantesimo, che tu possa far cavalla di me e fare i fatti tuoi con l’asino e con la cavalla, e guadagneremo due cotanti [il doppio]?». Pietro, che era «grossetto [sempliciotto]», conviene con la moglie dell’opportunità, insiste con Gianni perché gli riveli la magia. Il prete cerca di dissuadere l’amico dalla sciocca richiesta ma senza successo e sceglie di ap-
profittarne: «Ecco, poi che voi pur volete, domattina ci leveremo, come noi sogliamo, anzi dí e io vi mostrerò come si fa. È il vero che quello che piú è malagevole in questa cosa si è l’apiccar la coda, come tu vedrai». La mattina dopo i due coniugi sono impazienti di procedere con l’incantesimo, chiamano l’amico prete che raccomanda a Pietro: «Guata ben com’io farò, e che tu tenghi bene a mente come io dirò; e guardati, quanto tu hai caro di non guastare ogni cosa, che, per cosa che tu oda o veggia, tu non dica una parola sola; e priega Iddio che la coda s’applichi bene». Il precetto di non aprire bocca è uno dei piú consolidati ancora oggi nei riti magici. Pietro annuisce e promette di stare zitto: «Appresso donno Gianni fece spogliare ignudanata [nuda]commar Gemmata e fecela stare co’ le mani e co’ piedi in terra a guisa che stanno le cavalle, ammaestrandola similmente che di cosa che avvenisse motto non facesse; e con le mani cominciandole a toccare il viso e la testa cominciò a dire: “Questa sia bella testa di cavalla”; dicembre
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e toccandole i capelli disse: “Questi siano belli crini di cavalla”; e poi toccandole le braccia disse: “E queste sieno belle gambe e belli piedi di cavalla”; poi toccandole il petto e trovandolo sodo e tondo, risvegliandosi tale che non era chiamato e sú levandosi, disse: “E questo sia bel petto di cavalla”; e cosí fece alla schiena e al ventre e alle groppe e alle cosce e alle gambe; e ultimamente, niuna cosa restandogli a fare se non la coda, levata la camicia e preso il pivuolo col quale egli piantava gli uomini e prestamente nel solco per ciò fatto messolo, disse: “E questa sia bella coda di cavalla”». Compare Pietro, che fino a quel momento è rimasto in silenzio, esclama: «O donno Gianni io non vi voglio coda, io non vi voglio coda!». Le sue parole spezzano l’incantesimo, Gianni giustifica cosí la mancata trasformazione di Gemmata in cavalla. La comare è furibonda
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col marito: «Bestia che tu se’, perché hai tu guasti li tuoi fatti e’ miei? qual cavalla vedestú [tu vedesti] mai senza coda? Se m’aiuti Dio, tu se’ povero, ma egli sarebbe mercé [sarebbe giusto] che tu fossi molto piú». Cosí , per colpa delle parole dette dal marito, Gemmata «dolente e malinconosa si rivestí e compar Pietro con uno asino, come usato era, attese a fare il suo mestiere antico; e con donno Gianni insieme n’andò alla fiera di Bitonto né mai piú di tal servigio il richiese».
Viaggi pericolosi
I viaggiatori come Gianni e Pietro correvano numerosi pericoli lungo le strade, non solo per via dei briganti, ma anche per i molti animali selvatici che si nascondevano nella macchia. Anche Pietro Boccamazza alla disperata ricerca dell’amata Agnolella, smarritasi nella foresta vicino a Frascati, è consapevole del
rischio corso da entrambi: «Non ritrovando la sua giovane, piú doloroso che altro uomo cominciò a piagnere e a andarla or qua or là per la selva chiamando; ma niuna persona gli rispondeva, e esso non ardiva a tornare a dietro e andando innanzi non conosceva dove arrivar si dovesse [dove sarebbe capitato]; e d’altra parte delle fiere che nelle selve sogliono abitare aveva a un’ora di se stesso paura e della sua giovane [aveva allo stesso tempo paura per se stesso e per la sua amata], la qual tuttavia gli pareva vedere o da orso o da lupo strangolare [la quale gli sembrava continuamente di vedere che fosse strangolata da un orso o da un lupo]» (V, 3). L’orso agisce da solo, ma per la sua capacità di stare su due arti è molto pericoloso per l’uomo, mentre il lupo spesso agisce in branco ed è molto astuto, vera croce per i contadini medievali, che non di-
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vivere al tempo del decameron/12 La sesta novella della seconda giornata in un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore francese. 1425-1450. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Da sinistra, Beritola, con il figlio in fasce e il resto del suo seguito, fugge dalla Sicilia con due navi; abbandonata sull’isola di Ponza, Beritola vede una capra uscire da una grotta. Nella pagina accanto la settima novella della quarta giornata in un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore fiorentino. 1427-1430. Parigi, Bbibliothèque nationale de France. Simona piange sul corpo dell’amato e poi lo indica a un giudice.
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spongono di armi efficaci per combatterlo. L’Agnolella ritrova incolume il suo Pietro, ma non sempre capita cosí. Talano d’Imolese, «uomo assai onorevole», è sposato con la bella Margherita «sopra ogni altra bizzarra, spiacevole e ritrosa [scontrosa]» (IX,7). Una notte all’uomo «gli parve in sogno vedere la donna sua andar per un bosco assai bello, il quale essi non guari lontano alla lor casa avevano; e mentre cosí andar la vedeva, gli parve che d’una parte del bosco uscisse un grande e fiero lupo, il quale prestamente s’avventava alla gola di costei e tiravala in terra e lei gridante aiuto si sforzava di tirar via; e poi di bocca uscitagli, tutta la gola e ’l viso pareva l’avesse guasto [straziato]».
di lui] a lasciarla il costrinsero; e essa misera e cattiva [infelice], da’ pastori riconosciuta e a casa portatene, dopo lungo studio [lunga cura] da medici fu guerita ma non sí che tutta la gola e una parte del viso non avesse per sí fatta maniera guasta [rovinata], che, dove prima era bella, non paresse poi sempre sozzissima e contraffatta [bruttissima e deforme]». Margherita si pente cosí di non essersi fidata del marito e piange la sua sventura. Nel Medioevo un animale ingiustamente ritenuto pericoloso è il rospo. Durante le indagini sulla
biamo visto nell’introduzione alla prima giornata si ricompone in modo sorprendente nella seconda giornata, alla sesta novella. Beritola Caracciolo deve scappare dalla Sicilia perché non sa piú nulla del marito Arrighetto, un nobile coinvolto nella lotta dinastica fra Aragonesi e Angioini: «Con un suo figliuolo d’età forse d’otto anni, chiamato Giuffredi, e gravida e povera montata sopra una barchetta se ne fuggí a Lipari, e quivi partorí un altro figliuol maschio, il quale nominò lo Scacciato; e presa una balia, con tutti sopra un
fine di Simona e Pasquino, morti per essersi sfregati denti e gengive con presunte foglie di salvia nel giardino di San Gallo (Firenze), il giudice ordina che venga rimossa la pianta e cosí «la cagione della morte de’ due miseri amanti apparve. Era sotto il cesto di quella salvia una botta [un rospo] di maravigliosa [straordinaria] grandezza, dal cui venenifero fiato avvisarono quella salvia esser velenosa divenuta. Alla qual botta non avendo alcuno ardire d’appressarsi, fattale dintorno una stipa [una catasta di legna secca] grandissima, quivi insieme con la salvia l’arsero» (IV, 7). Il rapporto compromesso dalla peste fra uomo e fauna che ab-
legnetto montò per tornarsene a Napoli a’ suoi parenti». Nel Medioevo sono frequenti i nomi che derivano dalle circostanze della nascita, come nel caso di Tristano cosí chiamato per le sventure tra cui nacque. A causa di un vento sfavorevole, la barca, invece di approdare a Napoli, giunge a Ponza. Trascorsi alcuni giorni, «una galea di corsari sopravenne, la quale tutti a man salva [senza combattere] gli prese e andò via», tutti tranne Beritola, che si era appartata in un luogo solitario a piangere il suo Arrighetto. La donna «tornata al lito per rivedere i figliuoli, come usata era di fare, niuna persona vi trovò; di che prima si mara-
Il sogno premonitore
La mattina dopo, Talano, preoccupato, rivela il sogno alla moglie, le consiglia di non uscire di casa. Margherita gli risponde «bene, io il farò», ma non crede al consiglio in buona fede del marito e dice fra sé: «Hai veduto come costui maliziosamente si crede avermi messa paura d’andare oggi al bosco nostro? là dove egli per certo dee aver data posta a qualche cattiva [dato appuntamento a qualche mala femmina] e non vuole che io il vi truovi». Quando Talano esce di casa, Margherita esce da un’altra porta, si reca nel bosco e qui si nasconde in attesa di scoprire il marito con l’amante. «E mentre in questa guisa stava senza alcun sospetto di lupo [timore per il lupo], e ecco vicino a lei uscir d’una macchia folta un lupo grande e terribile: né poté ella, poi che veduto l’ebbe, appena dire “Domine aiutami!” che il lupo le si fu avventato alla gola, e presala forte la cominciò a portar via come se stata fosse un piccolo agnelletto. Essa non poteva gridare sí aveva la gola stretta, né in altra maniera aiutarsi; per che portandosenela il lupo, senza fallo [senza dubbio] strangolata l’avrebbe, se in certi pastori non si fosse scontrato li quali sgridandolo [gridando contro
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Miniatura raffigurante, da sinistra, il seppellimento delle vittime della peste in un cimitero fiorentino, la compagnia di sette fanciulle e tre giovani che si riunisce nella chiesa di S. Maria Novella e i dieci novellatori che si mettono in viaggio verso la villa di Fiesole (I, introduzione), dall’edizione del Decameron le cui illustrazioni sono attribuite alla scuola del Maestro del Duca di Bedford. 1430 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
vigliò e poi, subitamente di quello che avvenuto era sospettando, gli occhi infra [verso] il mar sospinse e vide la galea, non molto ancora allungata [allontanata], dietro attirarsi il legnetto: per la qual cosa ottimamente conobbe, sí come il marito, aver perduti i figliuoli». Beritola è disperata e si accascia stravolta sulla spiaggia. Quando si riprende, comincia a vagare sull’isola alla ricerca dei figlioli sorretta solo
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dalla vana speranza che sono riusciti a scappare. Trascorsa la notte sul lido «con molta paura e con dolore inestimabile fu passata e il dí nuovo venuto e già l’ora della terza valicata [passate le nove circa], essa, che la sera davanti cenato non avea, da fame constretta a pascer l’erbe si diede; e, pasciuta come poté, piangendo a varii pensieri della sua futura vita si diede». Sconsolata si rifugia nella grotta in cui era solita piangere la sua sventura.
Una balia per i caprioli
Poco tempo dopo, in un anfratto vicino, Beritola vede uscire una femmina di capriolo che va verso il bosco «per che ella, levatasi, là entrò d’onde uscita era la cavriuola, e videvi due cavriuoli forse il dí medesimo nati, li quali le parevano la piú dolce cosa del mondo e la piú vezzosa; e non essendolesi ancora del nuovo [recente] parto
rasciutto il latte del petto, quegli, teneramente prese e al petto gli si pose. Li quali, non rifiutando il servigio, cosí lei poppano come la madre avrebber fatto; e d’allora innanzi dalla madre a lei niuna distinzion fecero. Per che, parendo alla gentil donna avere nel diserto luogo alcuna compagnia trovata, l’erbe pascendo e bevendo l’acqua e tante volte piagnendo quante del marito e de’ figliuoli e della preterita vita si ricordava, quivi e a vivere e a morire s’era disposta, non meno dimestica della cavriuola divenuta che de’ figliuoli». Qui osserviamo come il rapporto fra l’uomo e l’animale si inverte: invece di mangiarli, Beritola nutre i cuccioli con il proprio latte. Dopo qualche tempo, sbarca sull’isola una comitiva capeggiata dal nobile Currado Capece e dalla moglie Orietta di ritorno da un pellegrinaggio in Puglia. I loro cani da dicembre
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La sesta novella della decima giornata in un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore francese. 1425-1450. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.
Da leggere Chiara Frugoni, Uomini e animali nel Medioevo, il Mulino, Bologna 2018 Chiara Frugoni, Vivere nel Medioevo, il Mulino, Bologna 2017
caccia rincorrono i due piccoli caprioli, che cercano protezione dalla loro mamma umana. Quando i nobili coniugi scoprono Beritola, si offrono di riportarla a casa «insieme co’ due cavriuoli e con la cavriuola la quale in quel mezzo tempo era tornata e, non senza gran meraviglia della gentil donna, l’aveva fatta grandissima festa». I caprioli portano fortuna a Beritola, che, dopo molte traversie, ritrova prima i figli e poi il suo amato Arrighetto, con il quale vivrà felice a Palermo. In questa storia notiamo come ci sia un riferimento al Paradiso terrestre. Prima della cacciata di Adamo ed Eva, il Genesi (1, 29-30) sostiene che i nostri progenitori erano vegetariani come Beritola e gli animali stessi in Paradiso si cibavano solo di «erbe verdi». Questa ritrovata armonia col mondo ani-
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Da sinistra, re Carlo I siede a banchetto, ospite di Neri degli Uberti; il sovrano fa sposare le due fanciulle; le fanciulle vanno a pescare con due panieri sulla testa.
male, il lieto fine della storia, serve ai narratori per ritrovare il bene dopo che il male della peste aveva provocato il degrado della società dal quale erano fuggiti.
Una scena idilliaca
Non a caso, uno dei tratti distintivi del piccolo Eden in cui si rifugiano i narratori del Decameron sulle colline di Fiesole è la vivace popolazione di animali: «Era sí bello il giardino e sí dilettevole, che alcuno non vi fu che eleggesse [scegliesse] di quello uscire per piú piacere altrove dover sentire; anzi, non faccendo il sole tiepido alcuna noia a seguire [a seguitare la passeggiata], i cavriuoli e i conigli e gli altri animali che erano per quello [per quel giardino] e che a lor sedenti forse cento volte, per mezzo loro saltando, eran venuti a dar noia, si dierono alcune a seguitare [a inseguire]» (III, conclusione). Anche quando le sette narratrici si concedono un bagno rigenerante in un limpido laghetto «cominciarono come potevano a andare in qua in là di dietro a’ pesci, i quali male avevan dove nascondersi, e a volerne con esso le mani [proprio con le mani] pigliare. E poi che in cosí fatta festa, avendone
presi alcuni, dimorate furono alquanto, uscite di quello si rivestirono… parendo loro tempo da dover tornare verso casa, con soave [lento] passo, molto della bellezza del luogo parlando in cammino si misero» (VI, conclusione). La definitiva riconciliazione fra uomo e natura giunge nella decima e ultima giornata. Simbolo dell’identità riconquistata sono le giovani figlie del nobile Neri degli Uberti che, coperte solo da un sottilissimo peplo, entrano nel laghetto della loro villa a Castellammare di Stabia e sotto gli occhi estasiati del padre e di re Carlo d’Angiò si dedicano alla pesca (X, 6). Qui il processo di purificazione dei dieci narratori dal torbido male causato dalla peste trova il suo compimento nel binomio acquapesca: il pescato per il banchetto e l’acqua trasparente, simbolo di un nuovo battesimo, alludono al sacrificio e alla resurrezione. I rigenerati narratori tornano a Firenze e come dei novelli discepoli diventano pescatori di anime.
NEL PROSSIMO NUMERO ● Un giorno ai tempi del Decameron
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Nella «cassapanca» del patriarca di Furio Cappelli
Il racconto biblico del diluvio universale è stato variamente declinato da pittori e scultori. Ed è interessante osservare come, accanto a elementi che ricorrono senza sostanziali differenze, vi siano particolari di volta in volta resi con singolari differenze, osservabili soprattutto nella rappresentazione della grande «imbarcazione» costruita da Noè per mettere in salvo la specie umana e gli altri esseri viventi 56
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Mosaico raffigurante Noè che fa scendere gli animali dall’arca dopo il diluvio. 1130-1154. Palermo, Cappella palatina.
«Come avvenne ai giorni di Noè, cosí pure avverrà ai giorni del Figlio dell’uomo. Si mangiava, si beveva, si prendeva moglie, si andava a marito, fino al giorno che Noè entrò nell’arca, e venne il diluvio che li fece perire tutti». Luca, 17:26-27 MEDIOEVO
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i primordi della storia, gli uomini iniziarono a diffondersi in gran numero sulla faccia della Terra, cosí come i giganti, che stavano generando una stirpe di uomini potenti. Ma le cose non andavano come il Signore avrebbe gradito. Proprio l’uomo, sebbene fatto a sua immagine e somiglianza, era sempre piú lontano dalla via della rettitudine, e Yahweh pensò bene di affrontare il problema in modo radicale, «resettando» la sua creazione. Insoddisfatto del proprio lavoro, decise infatti di cancellare ogni essere vivente dalla faccia della terra, con un tremendo colpo di spugna. «Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo. Il Signore si pentí d’aver fatto l’uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo. E il Signore disse: “Io sterminerò dalla faccia della terra l’uomo che ho creato: dall’uomo al bestiame, ai rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento di averli fatti”» (Genesi, 6:5-7). C’era tuttavia un uomo, Noè, che viveva in grazia di Dio, seguendo in pieno le aspettative del creatore, e Yahweh decise di farne tesoro per dare un nuovo corso alla vita di ogni essere del creato. L’incarico di cui Noè fu investito è di una fama proverbiale. Il patriarca avrebbe dovuto costruire una gigantesca arca (ossia una cassapanca) di legno per mettere in salvo se stesso, la propria famiglia e una coppia di esemplari di tutti gli animali, sia della terra che del cielo.
Due di ogni specie
Il Signore forní a Noè precise istruzioni in merito: «“Fatti un’arca di legno di gofer; falla a stanze, e spalmala di pece di dentro e di fuori. Ecco come la dovrai fare: la lunghezza dell’arca sarà di trecento cubiti, la larghezza di cinquanta cubiti e l’altezza di trenta cubiti. Farai all’arca una finestra, in alto,
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Iconografia
Dalle monete agli affreschi Una località anatolica, nel territorio dell’attuale Turchia, si fregiava dell’onore di trovarsi proprio nell’area in cui l’enorme cassapanca si arenò dopo il deflusso delle acque. Si tratta dell’antica città di Apamea, nella Frigia. La tradizione si legava a un ulteriore modo di appellare quella stessa città. Veniva infatti chiamata Ciboto, il che, secondo i libri sibillini, era proprio dovuto al fatto che lí era giunto Noè con la sua arca (in greco, kibotós). In verità la Bibbia attesta che l’arca si fermò in tutt’altra zona, sui monti dell’Ararat (Genesi, 8:4), ossia nel Caucaso, ai confini tra la Turchia e l’Armenia, ma l’idea alternativa dell’approdo in Frigia ebbe comunque una certa fortuna, almeno tra il II e il III secolo d.C. Sotto gli imperatori Settimio Severo (193211), Macrino (217-218) e Filippo l’Arabo (244-249), in Apamea furono infatti coniate monete che al rovescio offrono la piú antica raffigurazione dell’arca biblica. Vi si nota una cassa che fluttua sulle onde del mare, con alcune figure al suo interno. Si riconosce, in alto, la colomba in volo che tiene un ramoscello d’ulivo nel becco (Genesi, 8:11). Di fianco appaiono poi due figure con il braccio destro levato, identificabili con Noè e la sua consorte. Proprio la presenza del tema in alcune monete in un’epoca cosí precoce, indica che l’arca biblica doveva già aver conosciuto una codifica dal punto di vista figurativo, sia in ambito ebraico che cristiano. Non solo doveva essere presente in opere pittoriche di vario impegno, ma, almeno sin dalla tarda antichità, poteva essere espressa in oggetti liturgici di pregio come coppe o bicchieri dorati, che facilitavano la diffusione di determinate iconografie. Nell’arte paleocristiana, in particolare, l’arca viene rappresentata come una cassapanca, sul tipo di quelle che venivano realizzate a corredo delle domus romane. Si riscontra tuttora in 40 casi di pittura cimiteriale e in 30 sarcofagi istoriati. Si era cosí formata proprio a Roma una tradizione che si sarebbe riconosciuta con continuità anche nel perpetuare la fedeltà al dettato biblico. L’arca, infatti, era sempre rappresentata come una cassapanca già nei perduti cicli pittorici di S. Pietro in Vaticano e di S. Paolo fuori le Mura, entrambi realizzati all’epoca di papa Leone Magno (440-461). E come tale verrà riproposta anche nel ciclo veterotestamentario della Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco in Assisi, eseguito su diretto interessamento del pontefice Niccolò IV (1288-1292). Nei dipinti umbri, infatti, si raccoglierà per l’ultima volta l’eco dei grandi cicli paleocristiani dell’Urbe. dicembre
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Dio ordina a Noè di costruire l’arca, scena dal ciclo delle storie veterotestamentarie da alcuni assegnato a Jacopo Torriti e alla sua bottega, da altri a un anonimo artista romano. 1288-1292 circa. Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Superiore.
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e le darai la dimensione d’un cubito; metterai la porta da un lato, e farai l’arca a tre piani: uno da basso, un secondo e un terzo piano. Ecco, io sto per far venire il diluvio delle acque sulla terra, per distruggere sotto il cielo ogni essere in cui è alito di vita; tutto quello che è sulla terra perirà. Ma io stabilirò il mio patto con te; tu entrerai nell’arca: tu e i tuoi figli, tua moglie e le mogli dei tuoi figli con te. Di tutto ciò che vive, di ogni essere vivente, fanne entrare nell’arca due di ogni specie, per conservarli in vita con te; e siano maschio e femmina. Degli uccelli secondo le
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loro specie, del bestiame secondo le sue specie e di tutti i rettili della terra secondo le loro specie, due di ogni specie verranno a te, perché tu li conservi in vita. Tu prenditi ogni sorta di cibo che si mangia e fattene provvista, perché serva di nutrimento a te e a loro”. Noè fece cosí; fece tutto quello che Dio gli aveva comandato» (Genesi, 6:13-22).
Un piano minuzioso
Questo passo, particolarmente dettagliato, è frutto di una seconda redazione del racconto, probabilmente elaborata nel VI secolo a.C., all’epoca in cui il popolo eletto fu
deportato in Babilonia. Si tratta di una versione detta «sacerdotale», perché messa in atto dai «dottori» della fede ebraica sulla scia di lunghe e complesse riflessioni. Yahweh non lascia alcunché al caso. Tutto è scrupolosamente definito. Il legno di cui Noè si deve servire, il gofer, potrebbe essere il cipresso, molto apprezzato nel Mediterraneo orientale sin da tempi remoti: i Fenici lo impiegavano per fabbricare le navi, mentre gli Egizi se ne servivano spesso per i sarcofagi. L’arca dev’essere adeguatamente incatramata per renderla impermeabile, dal momento che dicembre
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Noè sul Nilo La necropoli egiziana di El-Bagawat si trova nell’oasi di Kharga, nel mezzo del deserto Libico, che si estende tra il corso del Nilo e il confine con la Libia. All’interno di questo complesso funerario, due cappelle presentano decorazioni pittoriche assai deperite, e di qualità non eccelsa, ma di estremo interesse storico, dal momento che sono le sole testimonianze superstiti di un filone dell’arte paleocristiana che resterebbe altrimenti ignoto. Si tratta, in sostanza, dell’equivalente in terra egizia delle catacombe romane, a testimonianza di un momento di passaggio tra la tarda antichità e il nascere di un’arte cristiana specificamente egiziana (copta). Nella cappella denominata dell’Esodo, l’arca-battello è evocata in modo fortemente essenziale ma ingegnoso, con Noè che compare due volte in sequenza, mentre si affaccia da una porta e mentre si volge verso la colomba che ha portato il ramoscello d’ulivo, raffigurata in proporzioni gigantesche, probabilmente per facilitare il riconoscimento del soggetto. La cronologia dei dipinti, in genere, oscilla tra la seconda metà del IV secolo e gli inizi del secolo successivo, ma non mancano proposte di posticipazione che si spingono fino al VII per tutti i complessi pittorici dell’area. Nella cappella della Pace, forse risalente al V secolo, si osserva una rappresentazione piú dettagliata e complessa. L’arca propriamente detta spicca sullo scafo della barca come una costruzione architettonica. Due colonne di chiara fattura classica sostengono un tetto sostenuto al culmine da un albero centrale. All’interno, disposti su due diversi piani, osserviamo Noè e tutti gli altri componenti della sua famiglia, schierati davanti allo spettatore. Si discute sulle componenti stilistiche dei dipinti, se e in che misura possono definirsi romani, bizantini o protocopti, ma è comunque plausibile che la trasformazione iconografica dell’arca in una imbarcazione fosse favorita da uno specifico contesto di vita e di cultura. Nell’antico Egitto, infatti, erano fondamentali i trasporti fluviali sul Nilo, e la barca era anche importante nella simbologia religiosa, per rappresentare la discesa agli inferi.
In alto l’arca con Noè e la sua famiglia nella cappella della Pace della necropoli di El-Bagawat (oasi di Kharga, Egitto). Il dipinto è forse databile al V sec. A destra l’arca nella versione affrescata di Saint-Savinsur-Gartempe (Francia). 1100 circa.
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oltre lo sguardo/18 A sinistra particolare di una pittura murale raffigurante la colomba che torna da Noè con un ramoscello d’ulivo, segno che le acque del diluvio si sono ritirate. III sec. Roma, catacomba dei Ss. Marcellino e Pietro. Nella pagina accanto l’arca raffigurata su una formella bronzea del portale della basilica veronese di S. Zeno. XII sec.
dovrà galleggiare sull’acqua, e strutturata in modo da accogliere un gran numero di animali e vettovaglie, senza pensare agli otto componenti della famiglia di Noè. Oltre al patriarca e alla sua consorte, il gruppo degli unici uomini ammessi a bordo – i soli a salvarsi dal diluvio – si compone dei suoi tre figli Sem, Cam e Jafet e delle rispettive mogli. I compartimenti o stanze dell’arca si dispongono su tre livelli sovrapposti, e le dimensioni fornite dal dettato biblico si traducono all’incirca in 156 m di lunghezza, 26 m di larghezza e 16 m di altezza. È prevista una porta attraverso cui verranno introdotti gli animali, e che il Signore stesso si incaricherà di chiudere, in modo irrevocabile, alla vigilia dell’immane cataclisma, non appena Noè sarà salito a bordo (Genesi, 7:16). Dovrà esserci anche una stretta finestra in alto, ampia un cubito (44 cm circa), che il pa-
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triarca aprirà quando le acque si saranno ritirate (Genesi, 8:6). Tuttavia, potrebbe in questo caso trattarsi di una travisazione della versione latina della Bibbia (la Vulgata), laddove per «finestra» in origine si deve intendere «tetto». In questa ottica, la misura di un cubito deve riguardare la necessaria inclinazione delle falde, per consentire il deflusso dell’acqua. Noè, alla fine del diluvio, avrebbe quindi aperto un abbaino, e da lí avrebbe fatto spiccare il volo a un corvo e a una colomba, per accertarsi se la terra fosse riemersa.
Una lunga consuetudine Un aspetto importante da rilevare è costituito a questo punto proprio dalla costruzione di cui Noè si fa carico. Per via di una lunga consuetudine iconografica, noi riteniamo istintivamente che il patriarca abbia costruito una nave, ma la Bibbia, facendo ricorso al termine ebraico tebah, tradotto fedelmente
in latino con arca, indica in verità un oggetto o un mobile ligneo adatto a contenere varie cose al suo interno, piú o meno preziose. Può trattarsi di una cassapanca, di un cofano, di una cesta o di uno scrigno. Proprio Mosé, quando venne rinvenuto all’età di tre mesi sulla sponda del Nilo, appariva sistemato in una tebah opportunamente rivestita di pece (Esodo, 2:3). Rientra nella stessa area semantica l’Arca dell’Alleanza, per restare in ambito biblico, mentre il termine «arca», ormai assunto per indicare uno scrigno prezioso e indistruttibile, ha finito per designare le sepolture monumentali. La corretta trasposizione del dettato biblico si vede nelle piú antiche raffigurazioni dell’arca di Noè. Tuttavia, sebbene non fosse identificabile correttamente con una nave, l’associazione di idee con una grande imbarcazione scaturí facilmente, sia sul piano della meditazione teologica che nell’iconografia. Paolino da Nola (morto nel 431), per esempio, in una sua lettera propone un parallelo di significati tra l’arca di Noè e la Chiesa che conoscerà lunga fortuna. Nella circostanza specifica, il nesso con la Chiesa trae forza dall’associazione d’idee tra l’arca stessa e l’immagine di una barca che si salva dal naufragio. E un caso sorprendente di precoce interpretazione dell’arca come nave, in ambito figurativo, si riscontra nell’Egitto copto. In due esempi di decorazione pittorica di cappelle funebri, nella necropoli di El-Bagawat, la «cassapanca» di Noè si presenta infatti sotto forma di una nave. La datazione dei dipinti è controversa, ma si tratta comunque di testimonianze che attestano la diffusione di una particolare iconografia almeno già nel VII secolo. Non è possibile riconoscerne il modello, ma proprio lo scarso peso che dovevano avere episodi cosí circoscritti – oggi predicembre
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oltre lo sguardo/18 ziosi a causa delle lacune delle nostre conoscenze –, suggerisce che doveva trattarsi di una modalità già elaborata in situazioni piú illustri, oggi perdute. Rimane affascinante il nesso che si viene a questo punto a costituire tra l’Egitto e l’Irlanda. Nell’isola nordeuropea si trovano infatti le piú antiche testimonianze continentali della interpretazione dell’arca come imbarcazione. Sono presenti in alcune tipiche croci istoriate, scolpite in pietra arenaria, e risalenti forse al X secolo. Nonostante l’apparente sommarietà dell’esecuzione, esse sono caratterizzate da una indubbia finezza impaginativa. Lo si vede proprio dall’iconografia. Esattamente come nelle chiese piú illustri, dove i cicli pittorici di tema biblico individuano pareti distinte per il Vecchio e il Nuovo Testamento, le croci irlandesi dedicano ciascun lato alle rispettive sezioni del testo sacro. E proprio questa suddivisione crea una immediata simmetria tra l’immagine dell’arca di Noè e la scena del battesimo di Cristo.
La versione della storia dell’arca di Noè proposta dal mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto. 1163-1165. Oltre alla colomba che torna verso il patriarca con il ramoscello d’ulivo, si noti il macabro dettaglio del corvo che si ciba di una gamba umana al posto di un intero cadavere, come solitamente viene rappresentato.
L’acqua e il legno
Era un accostamento di lunga data, poiché le due scene sono già associate, sul soffitto, nei dipinti della catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino a Roma (III secolo). D’altronde, secondo una riflessione espressa dalla teologia sin dal II secolo, legno e acqua vengono interpretati come fonti di salvezza, con riferimento al legno della croce e all’acqua del rito battesimale. L’acqua del battesimo garantisce la rigenerazione grazie al legno della croce, cosí come l’acqua del diluvio causa una strage immane, ma risparmia la vita a chi è racchiuso nel legno dell’arca. Ma come mai, nonostante l’attenta adesione a una tradizione consolidata, le croci irlandesi trasformano l’arca di Noè in una nave? Viene la tentazione di isti-
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tuire un qualche rapporto con la realtà dell’Egitto, dove questa trasformazione era stata già sperimentata alcuni secoli prima. Erano situazioni indubbiamente lontane, ma non per questo prive di legami. Il monachesimo irlandese, per esempio, aveva infatti un rapporto quanto meno ideale
con il Mediterraneo orientale, dal momento che proprio il monachesimo dell’Egitto e della Siria forniva un modello di riferimento essenziale nella pratica dell’ascetismo. Tuttavia mancano elementi concreti per poter riconoscere un eventuale «debito» dell’Irlanda verso l’Egitto in un ambito cosí dicembre
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specifico come l’adozione di una determinata iconografia. Resta comunque un nesso tra le due realtà, anche a prescindere da eventuali rapporti reciprochi. Come nell’antico Egitto, infatti, anche l’Irlanda conosceva una pratica della navigazione che investiva innumerevoli aspetti della
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cultura oltre che della economia. Nell’antico sostrato della cultura celtica, la barca è infatti lo strumento di approdo all’aldilà. L’aderenza della scelta iconografica a una specifica cultura, si vede anche nella particolare fisionomia che assume l’arca-battello di Noè in Irlanda. Essa, infatti, non
si presenta come una barca qualsiasi, ma si adegua al modello delle navi scandinave, presentando a prua e a poppa una polena a forma di drago o di serpente. Si tratta di un’immagine che rimanda naturalmente alle navi vichinghe di tipo drakkar, ben note in Irlanda, e non solo per via delle devastanti
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incursioni che l’isola subí proprio per mano dei Vichinghi. È ormai appurato, infatti, che essi ebbero anche modo di giocare un forte ruolo costruttivo, influendo, tra l’altro, sulla stessa ingegneria navale degli Irlandesi.
Simile a un drakkar
La versione innovativa dell’arca in forma di nave fu presto accolta nell’arte romanica. Un bell’esempio è evidente in Francia, negli affreschi di Saint-Savin-sur-Gartempe, databili al 1100 circa. Lo scafo è di tipo drakkar e sulla fiancata si aprono tre ordini di logge che permettono di vedere la suddivisione interna in tre piani, conforme al dettato biblico. Il pittore ha poi immaginato una ripartizione corrispondente dei «passeggeri», cosí suddivisi in quadrupedi, uccelli e famiglia di Noè. Sorprendente, poi, la presenza dei «giganti superbi» (Sapienza, 14:6), che cercano disperatamente di salire a bordo afferrando lo scafo. Nelle imposte bronzee di S. Ze-
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no a Verona (XII secolo), la prua dell’arca-battello è decorata con una testa di dragone, e Noè è intento a imbarcare un quadrupede tirandolo per le corna. Nonostante la città di Otranto si trovi sul mare, i celebri mosaici pavimentali della sua cattedrale, realizzati dal prete Pantaleone negli anni 1163-1165, presentano l’arca di Noè in linea con la tradizione piú antica, in forma di cassapanca con i peducci bene in evidenza. Si trattò di una scelta molto rigorosa, visto anche che la città si trovava entro i domini del regno normanno, e nei mosaici della Cappella Palatina di Palermo, disposti da re Ruggero II (1130-1154), faceva testo una raffinata combinazione iconografica, che «salvava» il dettato biblico senza rinunciare alla «moderna» soluzione della nave: in quel caso illustre, l’arca propriamente detta spicca sullo scafo di una barca, componendo una sorta di «casa galleggiante». Per tornare a Otranto, Panta-
leone presenta molti altri punti di interesse. Mostra Noè in modo del tutto inconsueto, in ginocchio, mentre riceve gli ordini impartiti dal Signore. Inserisce un dettaglio horror, là dove il corvo inviato in perlustrazione da Noè si ciba di una gamba umana, in luogo del consueto cadavere integro. Il mosaicista, poi, sviluppa con inconsueta ampiezza l’immagine del patriarca in azione come provetto viticoltore insieme ai suoi figli. In questo modo allude agli sviluppi narrativi dell’ebbrezza del patriarca senza mostrarli, ma esaltandone le premesse (Genesi, 9:20).
La veste fluttuante
Il Noè degli affreschi umbri di S. Pietro in Valle a Ferentillo (Terni; fine del XII secolo) ha un impatto ben diverso rispetto al Noè umile e genuflesso di Otranto. Mentre ascolta le parole del Signore, si mostra infatti con una evidenza statuaria e con una espressione altera. Tutta la sua figura sembra avvolta dagli ordini divini, con i gonfi pandicembre
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La raffigurazione dell’arca in una delle lastre della Genesi scolpite da Wiligelmo per la facciata del Duomo di Modena. 1100-1130 circa. In basso particolare della rappresentazione dell’arca con Noè che ascolta le parole del Signore, affresco di scuola umbra. Fine del XII sec. Ferentillo (Terni), abbazia di S. Pietro in Valle.
Da leggere Walter Cahn, Arca di Noè, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Fondazione Treccani, Roma 1991, anche on line su treccani.it Maria Teresa Lezzi, L’arche de Noé en forme de bateau: naissance d’une tradition iconographique, in «Cahiers de civilisation médiévale»,
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37 (1994), anche on line su persee.fr Chiara Frugoni, Wiligelmo. Le sculture del Duomo di Modena, Franco Cosimo Panini Editore, Modena 1996 Mahmoud Zibawi, L’oasi egiziana di Bagawat. Le pitture paleocristiane, Jaca Book, Milano 2007
neggi della sua veste che fluttuano nell’aria, come se fossero agitati da un vento potente. Nelle celebri lastre della Genesi scolpite da Wiligelmo per la facciata del duomo di Modena (11001130 circa), la figura del patriarca è invece evocata in perfetta assonanza con la sua arca, che fa da cornice al suo severo ritratto, con la moglie che fa da pendant, senza alcun accenno ai diversi aspetti della specifica narrazione. Vediamo infatti il solo momento dell’arca fluttuante sulle acque, ed è un’arca che si presenta in modo scopertamente allegorico come la sezione di una chiesa. Si compone infatti di un elegante, doppio ordine di logge, con le colonne complete di capitello e con gli spioventi ricoperti di coppi. Noè si trova sull’ordine superiore, a destra, con lo sguardo rivolto allo sviluppo della narrazione. La sua mente, quindi, si concentra sul futuro dell’umanità, rappresentato dai suoi tre figli che, nella scena finale del ciclo, si avviano a popolare la terra (Genesi, 9:19).
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Lui, lei e un
forziere
di Jerzy Miziołek
Nel Medioevo e nel primo Rinascimento i cassoni nuziali erano, dopo i letti, i piú importanti oggetti nell’arredamento delle case italiane. Molte di queste casse, simili ad antichi sarcofagi, erano dipinte con scene per lo piú ispirate alla mitologia e alla storia antica ed erano spesso opera di artisti di primissimo piano 68
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U U
na delle lunette affrescate dell’Oratorio della Congregazione dei Buonuomini di San Martino, a Firenze, raffigura un gruppo di persone, uomini e donne, molto indaffarate. Tra di loro, seduto, c’è un uomo che scrive e che possiamo senza dubbio identificare con un notaio intento a stilare l’inventario del contenuto di una cassa, esaminato da altri personaggi. Al di là del reale significato della scena, variamente interpretata dagli studiosi, «protagonista» assoluto della composizione è il cassone e simili suppellettili ricorrono spesso nella pittura del tardo Medioevo e del Rinascimento. Del resto, è sufficiente soffermarsi sulle xilografie che corredano l’Hypnerotomachia Poliphili (letteralmente, «Combattimento amoroso, in sogno, di Polifilo», romanzo allegorico pubblicato da Aldo Manuzio il Vecchio nel 1499 e variamente attribuito, n.d.r.) per rilevare come nel Rinascimento questi contenitori riempissero i palazzi e le case (vedi tavola a p. 71, in basso). E ancora: nella cosiddetta Venere di Urbino del Tiziano si vede una domestica che per poter tirare fuori da un bel cassone le vesti della dea deve mettersi in ginocchio (vedi foto alle
pp. 70/71). Si potrebbe dire che l’epoca del cassone si sia protratta fino alla metà del Cinquecento, o forse poco oltre, quando furono introdotti gli armadi e i cassettoni.
Nelle case di ser Francesco
Nell’inventario di un ricco fiorentino, Francesco di Baldino Inghirami, stilato nel 1471 e recentemente pubblicato da Jacqueline Musacchio, si trovano decine di casse dei tipi piú svariati. L’elenco, redatto da ser Benedetto da Staggio per l’Ufficio dei Pupilli di Firenze, riguarda infatti due case, la grande e la piccola. Nella camera della casa grande, oltre «1 cholmo di Nostra Donna di rilievo in uno tabernacolo, 1 lettiera vecchia dipinta e attorniata da 4 cassoni (a piè e a lati), 2 cassapanche con tarsia a 4 serrami con toppe e chiave, 1. Lettuccio», vengono menzionati «2 forzieri dipinti begli al’usanza cho’ l’arme» (con gli stemmi). Piú avanti troviamo le informazioni sull’arredo «nella seconda camera dov’abitava Francesco nella chasa grande», che include, oltre a una lettiera con le casse su tutti e quattro i lati (una di queste si trovava a capo del letto), 2 cassapanche e 1 lettuccio, anche «1 paio di chassoni dipinti cioè forzieri». Simili forzieri pote-
Sulle due pagine coppia di cassoni nuziali dipinti dallo Scheggia (al secolo, Giovanni di Ser Giovanni, fratello di Masaccio). 1450-1475. Copenaghen, Statens Museum for Kunst.
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costume e società A sinistra particolare della decorazione di un cassone nuziale raffigurante gli sposi che si scambiano gli anelli alla presenza di un notaio. 1480 circa, Harewood (Yorkshire), Harewood House. A destra Venere di Urbino (particolare), olio su tela di Tiziano. 1538. Firenze, Galleria degli Uffizi. Il dettaglio si riferisce all’immagine di una domestica che rovista all’interno di un cassone nuziale.
vano essere manufatti esteticamente assai pregevoli, nonché costosi, come quelli realizzati da Biagio d’Antonio e Jacopo del Sellaio nel 1472 per lo sposalizio di Vaggia di Tanai de’ Nerli e Lorenzo di Matteo Morelli, oggi conservati presso il Courtauld Institute di Londra e di cui si tratterà piú avanti. In entrambe le case di Francesco Inghirami, la grande e la piccola, già alla fine del terzo quarto del Quattrocento, si trovavano almeno cinque paia di forzieri; alcuni definiti «forzieri vecchi all’antica», altri invece «forzieri dipinti a uccellini all’anticha e infine forzieri dipinti begli al’usanza». Nell’arco di cent’anni, quindi, in casa Inghirami si erano accumulati gli importanti «testimoni» di almeno cinque sposalizi. Proprio le casse nominate forzieri a Firenze, cofani o goffani a Siena e coffori a Lucca (che noi chiamiamo cassoni secondo il
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vocabolario del Vasari) possono insomma essere considerati il mobile principe tra tutti i tipi di contenitori del Rinascimento italiano.
Scene da un matrimonio
Dal Trecento e fino al Concilio di Trento (1545-1563) il matrimonio, avendo almeno tre momenti culminanti, poteva durare addirittura qualche mese, a volte anche un anno, se non di piú. La prima fase dello sposalizio prevedeva un incontro pubblico, di solito chiamato giuramento, che consisteva nella stipula del contratto tra le due famiglie. Alla presenza dei testimoni e di un notaio, lo sposo e il padre della sposa pronunciavano i verba del futuro, cioè la dichiarazione formale che obbligava le due parti a dare il proprio assenso alle nozze. Solo dopo quest’atto lo sposo poteva dicembre
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In basso la rappresentazione di una stanza da letto in una delle 170 xilografie che corredano l’Hypnerotomachia Poliphili, romanzo allegorico pubblicato da Aldo Manuzio il Vecchio nel 1499. In secondo piano, sono ben riconoscibili, allineati dietro il letto a baldacchino, i cassoni nuziali.
regalare alla sposa un cofanetto chiamato forzierino, che di solito conteneva diversi gioielli. La seconda fase della cerimonia aveva luogo nella casa della sposa, dove il fidanzato si recava con i suoi parenti, altri membri della famiglia, amici e un notaio. Era quest’ultimo a fare le domande ai promessi sposi prescritte dalla Chiesa, dopo di che aveva luogo lo scambio degli anelli. Nel linguaggio notarile questo avvenimento veniva generalmente chiamato il dí dell’anello. A quel punto gli sposi erano considerati marito e moglie, ma, in realtà, potevano andare ad abitare sotto lo stesso tetto solo dopo la domumductio, terza e ultima fase del matrimonio. La Ductio ad domum mariti, ovvero il trasferimento della sposa alla nuova dimora, era una vera e propria festa pubblica: un corteo nuziale, composto non solo dai membri della famiglia e dagli amici
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costume e società A destra, sulle due pagine fronte di cassone nuziale dipinto dallo Scheggia (al secolo Giovanni di Ser Giovanni), raffigurante la Storia di Traiano e della vedova. 1440-1449. Collezione privata.
ma anche da musicisti – prima di tutto trombettieri –, accompagnava trionfalmente la donna per le vie della città sfilando davanti ai cittadini. Come possiamo vedere su una fronte di un cassone nuziale denominato Forziere di Dublino, la sposa procedeva a cavallo (di solito, ma non sempre, bianco, segno della purezza della giovane), scortata da due uomini anch’essi a cavallo e accompagnata da un certo numero di donne e a volte anche da uomini che andavano a piedi. Cosí il politico e umanista fiorentino Matteo Palmieri (1406-1475) descrive, scandalizzato, una pompa nuziale nel suo dialogo Della vita civile (pubblicato postumo nel 1529): «Oggi, nel mezzo della observanzia cristiana, le vergini publicamente, a cavallo, ornate alqanto piu possono, et dipincte d’ogni lascivia, colle trombe inanzi chiamando il popolo a vedere la sfrenata audacia del meratricio ardire, ne portano al campo A sinistra particolare della decorazione di un cassone nuziale nel quale compare una sposa che incede a cavallo. 1450 circa. Dublino, National Gallery. Nella pagina accanto cassone nuziale con la Novella di messer Torello. Bottega fiorentina, fine del XIV-inizi del XV sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.
della desiderala giostra; giravano per le piazze, et faccendo mostra, ne vanno a non essere piú vergini».
Per le strade della città
Nel Trecento e fin quasi alla metà del Quattrocento, durante la festa nuziale due cassoni venivano portati per le strade, dietro o davanti alla sposa. Anche nel caso della domumductio i Fiorentini, cosí come gli altri cittadini della Toscana, dovevano osservare severe leg-
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gi suntuarie che riguardavano sia le vesti della sposa, sia il numero dei partecipanti del corteo, sia i forzieri stessi. Il numero di questi ultimi non poteva superare le due unità ed era vietato anche mostrare al pubblico il loro contenuto; si potevano dunque ammirare solo la loro foggia e le loro pitture. Nelle memorie di Messer Guccio di Cino de’ Mobili si legge, per esempio, di come «a dí 10 novembre 1380 n’andò la detta Francesca a marito con grandi feste accompagnolla messer Giovanni dicembre
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di Messer Francesco Rinuccini e messer Vieri di Gherardo di Gualtieri de’ Bardi, e dietro l’andarono dieci donne a cortearla co forzieri dretto come s’usa, ne quali forzieri avea tante donora che costaro fiorini 300 o piú co’ forzieri». Nel caso di una domumductio fuori dei confini della città, la novella sposa poteva essere scortata da piú di dieci cavalieri. Accadeva che i forzieri, che fin quasi alla metà del Quattrocento erano solitamente commissionati dal padre della sposa e non dal marito, venivano inviati
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poco prima della domumductio. Tra le Carte Strozziane, troviamo una descrizione di tale festa in occasione delle nozze di Lena di Bernardo di Alessandro Sassetti e Lodovico di Filippo Fabbri Tolosini: «A dí 12 di maggio anno 1384 mandammo alla detta Lena due forzieri nuovi drentovi l’infrascritte cose a la stima della valuta di ciò partitamente in prima: due forzieri e un forzierino e due cassette fiorini 15, soldi 10 a oro (…) E questo medesimo dí nel nome di Dio e di buona ventura la mandammo a marito in su un
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cavallo leardo bruno di Messer Antonio di Messer Nicolaio degli Alberti accompagnata da Messer Salviati e da Messer Filippo Magalotti vestita di sciamito vermigli».
La testimonianza di san Bernardino
L’uso di portare i forzieri nel corteo della sposa è stato rilevato anche da san Bernardino da Siena; in una predica del 1425 troviamo infatti le seguenti parole: «La settimana si chiama arca di Dio, e in tale arca sono tutte le buone e sante opere di Dio, e in esso stanno tutti e tesori (…). Per certo io ti voglio mostrare, che tu lo ‘ntenda. Questa coscienza è fatta proprio come quello goffanuccio che voi donne avete quando n’andate a marito; quello piccolino, no’ dico quelli grandi (…)». E in una predica del 1427 il santo si riferisce poi ai «pieni goffani», e quindi a quelli nuziali, nei quali la neosposa trasportava la sua dote. Tuttavia, la moda del festoso trasporto dei forzieri cominciò a decadere, forse anche perché le casse andavano facendosi sempre piú grandi e molto piú pesanti. Al proposito, è sufficiente mettere a confronto i forzieri Nerli/Morelli con quelli trecenteschi oggi conservati presso il Museo Nazionale del Bargello di Firenze, che raffigurano, rispettivamente, la Storia di Messer Torello e l’altro la Spedizione degli Argonauti. Nella seconda metà del Quattrocento era per
lo piú il marito a disporre la realizzazione dei forzieri per le nozze. A volte essi venivano donati dai genitori dello sposo, ma poteva anche accadere che si donassero vecchi forzieri, già usati per le nozze del padre e della madre dello sposo. Cosí avvenne, per esempio, nella famiglia Morelli, che nel 1507 riutilizzò forzieri già adoperati, oggi nella collezione del Courtauld Institute di Londra. Vale la pena di citare a questo punto un Libro di ricordanze dei Minerbetti del 1493, nel quale si legge: «A dí 23 Giugno ne venne la Maria a chasa nostra et achompagnolla Antonio di Giovanni Minerbetti et Raffaello da Verardo de’ Medicj, et messer Tommaso mio padre fece uno bellissimo conuito et uolle che l’avessj drieto i sua forzierj e qualj mi dona insieme con altre cose di che sia ricordo in questo c. 5 (…)». Si tratta quindi non solo della donazione dei vecchi forzieri, ma probabilmente anche della loro esposizione durante il banchetto nuziale. E dunque, sebbene non venissero piú esposti alla curiosità di tutti nelle strade percorse dal corteo di nozze, i forzieri rappresentavano ancora un importante simbolo del matrimonio durante il banchetto nuziale. Tutti gli invitati potevano ammirare non solo i soggetti raffigurati sulle fronti e sui fianchi delle casse (raramente ricordati nelle fonti dell’epoca), ma anche il loro contenuto, che tra l’altro includeva costosi abiti offerti dal marito. Possiamo a questo riguardo ricordare il caso delle nozze di Marco Parenti con Caterina Strozzi, celebrate nel 1447-1448.
Il cassone Nerli (o Morelli) realizzato per le nozze fra Lorenzo Morelli e Viaggia Nerli, opera di Biagio di Antonio, Jacopo del Sellaio e Zanobi di Domenico. 1472. Londra, The Courtauld Institute of Art.
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A destra particolare di un cassone nuziale raffigurante un facchino che trasporta uno di questi forzieri, che si presenta ancora privo della consueta decorazione dipinta. XV sec. Nella pagina accanto, in alto piccolo scrigno nuziale per gioielli in legno dipinto. Collezione privata.
Lo sposo aveva ordinato due forzieri al pittore Domenico Veneziano qualche settimana dopo il giuramento, nel settembre del 1447. Sebbene non fossero stati ultimati, questi forzieri furono presenti nel giorno della domumductio nella casa degli sposi: «Passati questi dí delle nozze», scrive Parenti nelle sue ricordanze, furono rimandati a Veneziano perché ne portasse a termine la lavorazione. Finalmente arrivarono nella casa di Marco e Caterina nel mese di giugno del 1448.
I forzeretti del podestà
Nonostante la loro importante funzione celebrativa, le raffigurazioni di domumductio con i forzieri sono rarissime. Fatta eccezione per una coppia di forzieri umbri, attribuiti dallo storico dell’arte Filippo Todini a Niccolò Alunno e Lattanzio Niccolò, non si conoscono altri esempi di tali scene nell’arte dell’Italia centrale. Occorre inoltre tener presente che le casse portate a dorso di mulo rappresentate sul secondo dei cassoni in esame non sono forzieri veri e propri, ma potrebbero essere identificati come forzeretti. Molti inventari, incluso quello, già ricordato, di Francesco Inghirami del 1471, menzionano tali casse da viaggio. Sappiamo poi che un noto pittore fiorentino, Alesso Baldovinetti, di-
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pinse una volta proprio alcuni forzeretti per un podestà; quindi anche questi dovevano essere assai belli e ben considerati dai loro proprietari e infatti a volte venivano tenuti nelle camere principali o nelle anticamere. Per quanto riguarda la domumductio con i forzieri portati per le strade, c’è un caso eccezionale rappresentato da due forzieri eseguiti dal fratello di Masaccio, Giovanni di Ser Giovanni, detto lo Scheggia; in essi vediamo una particolare domumductio in cui è raffigurata la fine della Storia di Traiano e della vedova, già interpretata come Storia di Leonora de’ Bardi. Il primo di questi dipinti, purtroppo non piú esistenti, mostra due facchini che trasportano un pesante forziere, la cui fronte è divisa in tre o quattro scomparti. Il pittore si è divertito a raffigurare il modo ingegnoso con cui i facchini si piegano sotto il peso, sottostando a un travicello infilato nelle cinghie di sostegno sistemato su speciali copricapi. Nel secondo forziere, eseguito verso la metà del Quattrocento, dietro la vedova e il giovane figlio dell’imperatore, compare un cavallo bianco, che di solito, come già sottolineato, stava a indicare una sposa novella. In questo caso compare un facchino che, appoggiandolo su un copricapo bianco, trasporta un forziere di cui si vede solo il fian-
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co, raffigurante un cavallo in un paesaggio. Va notato che si tratta del consueto tipo di ornamento dei fianchi dei forzieri usato dallo Scheggia, di cui un esempio si trovava fino alla seconda guerra mondiale nella collezione Lanckoronski a Vienna.
Un finto matrimonio?
In un terzo cassone, che non è opera dello Scheggia sebbene gli sia stato attribuito, la stessa scena mostra invece un facchino che trasporta sulle spalle un cassone, che questa volta non è figurato (vedi foto a p. 75). Rimane qualche dubbio su alcuni aspetti dell’interpretazione della scena come un matrimonio, anche se descritto come finto. Il dubbio riguarda prima di tutto la presenza di un solo forziere, che secondo le usanze dell’epoca dovrebbe indicare una vedovanza. Infatti nel Libro delle ricordanze dei Corsini leggiamo che nel 1390, dopo la morte di Piero Corsini, la vedova, Dita Castellani, «uscí della nostra casa (...) E a lei mandammo uno forziere in che avea due robe di scarlato e altri panni, lani e lini». Forse la scena potrebbe essere una pars pro toto della domumductio e perciò vediamo solo un cassone nuziale invece di due. Il fatto che nel primo e nell’ultimo di questi tre forzieri sia presente una cassa non figurata può forse indicare l’intenzione del pittore di alludere a un tempo remoto, quando i cassoni nuziali non erano ancora figurati e infatti la storia si riferisce ai tempi dell’imperatore Traiano. In questo modo essa viene raccontata nella Legenda Aurea di Jacopo da Varazze: «Si racconta anche che un figliolo di Traiano, mentre stava cavalcando senza freno per la città, uccise il figlio di una vedova; quando la donna in lacrime andò a Traiano, egli le consegnò in cambio del figlio ucciso, quel suo figlio che aveva compiuto il delitto e la dotò riccamente».
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È molto interessante osservare che Lo Scheggia registra fedelmente la presenza del facchino. Gli elenchi di spese per matrimonio che i Fiorentini e i Senesi annotavano nei loro libri includevano infatti l’importo pagato ai facchini per il trasloco dei forzieri dalla casa della sposa novella a quella dello sposo. A Firenze assai spesso si usava il termine «portatori dei forzieri». Circa la collocazione dei cassoni nuziali nelle camere, va sottolineato che le spese sostenute per questo tipo di oggetti erano altissime. Si pensi che nell’arredare una camera nuziale metà o piú della spesa andava per i due forzieri. Questi in effetti erano gli arredi domestici piú cari acquistati da alcuni benestanti fiorentini del Quattrocento per le loro case. Perciò non meraviglia che Bernardo Rinieri per i cassoni nuziali «colle spalliedicembre
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A sinistra l’interno del coperchio di un cassone raffigurante Paride. 1450 circa. Firenze, Museo Horn. In basso l’nterno del coperchio di un cassone con l’immagine di Venere. Metà del XV sec. Collezione privata.
miniature eseguite da Apollonio di Giovanni, che, in quanto rinomato pittore di cassoni, ne conosceva perfettamente l’aspetto e la funzione. Una delle miniature, che correda un’edizione dell’Eneide, rappresenta Sicheo, marito di Didone ucciso dal di lei fratello, che appare alla moglie, e va rilevato che questo tipo di raffigurazione sul fianco del forziere ben in vista presso il letto della regina è rintracciabile nella pittura domestica del tempo. La seconda miniatura è una scena biblica e vale la pena di paragonare il forziere raffigurato con un cassone chiuso da un coperchio bombato attribuito alla scuola veronese e che raffigura le Storie di Paride. Raffigurando i forzieri bombati, un modello che non si produceva piú nella Firenze dell’epoca, Apollonio voleva probabilmente mostrare all’osservatore che si tratta di un oggetto dei tempi remoti. Quindi sia lo Scheggia che Apollonio riproducono oggetti di un mondo già passato, non piú in uso.
In posizione privilegiata
re» dipinti da Apollonio di Giovanni nel 1459 (il loro costo era 60 fiorini), avesse ordinato anche coperture per proteggerli. Lorenzo Morelli pagò ancor di piú per i suoi splendidi forzieri del 1472. Questi dovevano essere ancora molto apprezzati nel 1507, quando Leonardo Morelli li ricevette dal padre per le sue nozze: donazioni di questo tipo erano comuni a Firenze fra la fine del Quattrocento e il Cinquecento. Come già accennato, i forzieri erano tra gli arredi piú importanti delle camere, in particolare delle stanze da letto. Questi ambienti compaiono in vari dipinti dell’epoca, spesso in quelli che raffigurano scene di parto, in cui i due forzieri sono collocati proprio ai lati del letto. Le medesime fattezze hanno i forzieri, questa volta con i coperchi bombati, riprodotti in due
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I nuovi forzieri potevano essere esposti nelle camere anche in modo diverso. In un inventario senese risalente alla prima metà del Quattrocento si legge: «Una lettiera dipenta con tre casse intorno e due goffani dipenti all’usanza». Ulteriori annotazioni non lasciano dubbi circa il fatto che le casse intorno al letto e cioè «da capo», «dinanzi» e «a piè» appartenessero, come di regola, alla struttura del letto stesso. I due cassoni nuziali avevano una collocazione del tutto privilegiata essendo esposti bene in vista, dal lato della porta di uscita e presso la finestra. Una simile disposizione dei mobili corrisponde a quella che troviamo, per esempio, in un disegno fiorentino del 1470 circa (oggi conservato presso la British Library), con la camera del re dell’Assiria trasportata nel mondo del Rinascimento fiorentino. Osservando la coppia di forzieri dello Scheggia, assai ben conservati, che appartengono alle collezioni dello Statens Museum for Kunst di Copenaghen, ben si colgono la bellezza e la ricchezza dei cassoni nuziali. Sia le fronti, sia i fianchi, sia i coperchi erano ricoperti di dipinti o decorati con stucco dorato. I cassoni dello Scheggia con i loro dipinti sulle fronti che raffigurano le scene della vita di Romolo, di qualità assai alta, e con i coperchi dal tono leggermente erotico, con uomo e donna nudi, portano a domandarsi se non raffigurino Paride ed Elena come altri due coperchi fiorentini. Osservando queste immagini, i proprietari seguivano le indicazioni di Leon Battista Alberti, che nel nono libro dell’opera De re aedificatoria scrive: «Negli ambienti ove ci si unisce con la moglie raccomandano di dipingere esclusivamente forme umane nobilissime e bellissime: ciò – dicono – ha grande importanza per la bontà del concepimento e la bellezza della futura prole».
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di Gianna Baucero
Particolare della tomba di Eleonora di Castiglia, realizzata da Richard Crundale, con il ritratto della sovrana in bronzo dorato, opera dell’orefice William Torel. 1291. Londra, Westminster Abbey.
L’Inghilterra di donna
Eleonora
La vicenda della moglie castigliana del re plantageneto Edoardo I è esemplare. Sebbene dettata da interessi politici, la loro unione si rivelò felice e solida ed Eleonora fu molto piú di una regina consorte: donna colta e dinamica, fu madre affettuosa e solerte, consigliera avveduta ed ebbe perfino il merito di salvare il marito dal veleno di un infedele...
Dossier
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i chiamava Leonor e nella sua terra natale era nota come doña Leonor de Castilla y León. Per gli Inglesi è Eleanor of Castile, ma noi la chiameremo semplicemente Eleonora, come la celebre duchessa d’Aquitania da cui discendeva. Visse nel XIII secolo prima in Castiglia e poi in Gran Bretagna e, nel 1272, divenne regina d’Inghilterra al fianco del marito Edoardo I. Benché fosse una donna famosa e potente, non ricevette molta attenzione dai cronisti del tempo. Per questo oggi risulta difficile ricostruire alcuni aspetti della sua vita e non esistono informazioni precise sulla sua nascita. La storica Alison Weir scrive che Eleanor nacque nel 1244/45, mentre secondo altri studiosi il lieto evento ebbe luogo nel 1241, forse a Valladolid. Quest’ultima data troverebbe conferma in un dettaglio triste: al momento dei funerali, nel dicembre del 1290, intorno alla bara furono poste quarantanove candele, tante quante gli anni che la defunta avrebbe avuto se fosse nata nel 1241.
Antenati illustri
Il padre di Eleonora era Ferdinando III di Castiglia e León, il re guerriero canonizzato da papa Clemente X nel 1671. La madre era Jeanne Dammartin, futura contessa del Ponthieu e in passato promessa sposa di Enrico III d’Inghilterra. Jeanne era la seconda moglie di Ferdinando, che, in precedenza, era stato sposato con Beatrice di Hohenstaufen. La nostra Eleonora vantava un albero genealogico impressionante: i suoi genitori discendevano da Eleonora d’Aquitania ed Enrico II d’Inghilterra e, tra gli antenati materni, compariva anche Luigi VII di Francia. Eleonora crebbe dunque presso la corte paterna, tra lussi, comodità, raffinatezze e cultura. Studiò con i migliori insegnanti, dai quali, tra le altre cose, imparò a scrivere, amare la lettura
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e giocare a scacchi. Probabilmente assisteva con piacere agli spettacoli di danza, musica e giocoleria che allietavano le meravigliose residenze di Siviglia e Cordova, tra giardini lussureggianti, giochi d’acqua e fontane. Sappiamo anche che montava a cavallo, amava la caccia e affrontava con disinvoltura le fatiche dei viaggi. Intorno al 1253, re Enrico III d’Inghilterra decise che Eleonora sarebbe diventata sua nuora. Voleva che sposasse il principe Edoardo, per unire le rispettive famiglie e proteggere la Guascogna dalle mire espansionistiche della Castiglia. Le trattative tra le due case reali furono lunghe e complicate, ma alla fi-
Miniatura raffigurante re Edoardo I attorniato da funzionari di corte e religiosi, da una raccolta miscellanea di cronache. 1280-1300. Londra, British Library. Nella pagina accanto capolettera miniato («A») nel quale sono inseriti i ritratti di Edoardo I ed Eleonora di Castiglia, da un’edizione della Chronica Roffense. Inizi del XIV sec. Londra, British Library.
ne si trovò un accordo e il giovane Edoardo partí per la Penisola Iberica in compagnia della madre. Le nozze si svolsero a Burgos presso l’abbazia cistercense di S. Maria de Las Huelgas il 1° novembre 1254 (secondo Kathryn Warner la data non è del tutto sicura), dopo una cerimonia di investitura in cui il re dicembre
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«ADOTTATA» DAI PLANTAGENETI Goffredo IV conte d’Angiò, detto Plantageneto († 1151) Sposa nel 1128 Matilde († 1167), figlia di Enrico I (1100-1135) della dinastia normanna Enrico II (1154-1189) Sposa nel 1152 Eleonora d’Aquitania († 1204)
Enrico († 1183)
Goffredo († 1186) duca di Bretagna
Riccardo I detto Cuor di Leone (1189-1199)
Giovanni Senza Terra (1199-1216) Sposa (1) nel 1189 Isabella di Gloucester (ripudiata 1190); (2) nel 1200 Isabella d’Angoulême († 1245)
(2) Enrico III (1216-1272) Sposa nel 1236 Eleonora di Provenza († 1292)
Edoardo I (1272-1307) Sposa (1) nel 1254 Eleonora di Castiglia († 1290); (2) nel 1299 Margherita di Francia († 1317)
(1) Edoardo II (1307-deposto e assassinato 1327) Sposa nel 1308 Isabella di Francia († 1358)
Edoardo III (1327-1377) Sposa nel 1328 Filippa de Hainault († 1369)
Edoardo detto il Principe Nero († 1376) Principe di Galles. Sposa nel 1361 Giovanna di Kent († 1385)
Riccardo II (1377-deposto 1399-† 1400) Sposa (1) nel 1382 Anna di Boemia († 1394); (2) nel 1396 Isabella di Francia († 1409). Senza prole
Giovanni di Gand († 1399) duca di Lancaster. Sposa nel 1359 Bianca di Lancaster. Il loro figlio Enrico IV (1399-1413) sarà il primo sovrano della casata dei Lancaster
In neretto sono indicati i sovrani d’Inghilterra, per i quali le date tra parentesi si riferiscono agli anni di regno.
Dossier In basso la «Oak Coronation Chair», il trono di quercia riservato alle incoronazioni. Realizzato nel 1296 per volere di Edoardo I, venne forse usato per la prima volta nel 1399, quando fu incoronato Enrico IV. Londra, Westminster Abbey. A destra la cattedrale di Ely, nella quale riposano le spoglie di santa Eteldreda.
di Castiglia conferí al principe inglese il titolo di cavaliere. Edoardo aveva 15 anni e la sposa doveva averne tredici. Nessuno dei due poté contare sulla presenza dei genitori in occasione delle nozze: la contessa di Ponthieu era nelle sue terre nella Francia del Nord, i reali d’Inghilterra erano impegnati altrove e il padre di Eleonora era morto da due anni. La sposa fu affiancata dal fratello Alfonso X di Castiglia e León, che aveva circa vent’anni piú di lei, era nato dalle prime nozze del padre ed era salito al trono alla scomparsa del genitore. Com’era Eleonora? E quale aspetto aveva? Purtroppo, sulle
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sue sembianze non abbiamo informazioni precise, mentre ci è noto che il giovane marito era alto e prestante, al punto di meritarsi il soprannome di «Longshanks», cioè «Gambalunga». Si dice, infatti, che la statura di Edoardo raggiungesse i 6 piedi e 2 pollici, cioè quasi due metri, il che era davvero notevole per quel tempo. A quanto ci risulta, in gioventú Edoardo era biondo, ma con il passare del tempo la sua chioma si era scurita fino a diventare castana. Sappiamo che presentava una lieve deformità nella parte esterna di un occhio (la palpebra era leggermente abbassata) e che parlava con una leggera balbuzie, ma certamente
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queste piccole imperfezioni non gli impedirono di diventare un uomo volitivo, un guerriero coraggioso e un sovrano forte. Di lui si è detto anche che fu un marito fedele.
Un parto senza gioia
Poco dopo le nozze marito e moglie lasciarono la Castiglia per trasferirsi in Guascogna, dove si trattennero a lungo dedicandosi ai loro doveri di signori locali. In quel tempo forse Eleonora diede alla luce una creatura che morí quasi subito e che sarebbe stata la prima di una lunga serie di figli portati in grembo dalla sovrana. La novella sposa raggiunse Londra il 17 ottobre 1255. Quel giorno
la Chiesa celebrava la festa di santa Eteldreda, la cui salma era stata traslata all’interno della cattedrale di Ely proprio il 17 ottobre, ma alcuni secoli prima, tra la fine del 600 e i primi del 700. L’Inghilterra era ben diversa dalle terre in cui Eleonora era cresciuta e la corte inglese dovette sembrarle un altro mondo, tuttavia i suoceri Enrico III ed Eleonora di Provenza fecero del loro meglio per accoglierla bene e non farle rimpiangere la terra natale. Nelle sue stanze, infatti, i muri furono ricoperti di arazzi, le finestre furono protette da vetri e i pavimenti furono coperti di tappeti che sostituirono le fronde normalmente in uso. Per gli Inglesi quel
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Dossier modo di decorare gli ambienti ispirato alle regge castigliane era una novità e fonte di profondo stupore. La corte d’Inghilterra non disponeva di acqua corrente, perciò forse Eleonora sentiva la mancanza dei bagni e delle fontane che invece abbondavano nelle regge della sua famiglia, ma con il passare del tempo anche questo problema venne risolto: molte residenze furono arricchite di splendidi parchi e giochi d’acqua e, ove possibile, Eleonora fece realizzare i bagni. Ne è un esempio il castello di Leeds, splendida residenza del Kent, dove la donna volle una sala da bagno piastrellata e forse dotata di un
impianto idraulico che, a quanto pare, fu il primo ambiente di quel genere nella storia inglese.
Un’unione solida
Edoardo ed Eleonora appartenevano a culture diverse, tuttavia avevano molto in comune: entrambi padroneggiavano il francese di corte usato dalle classi nobili, avevano una madre nata nell’odierna Francia e conoscevano il latino. Tutti e due amavano le storie cavalleresche, gli scacchi, la caccia, la vita all’aria aperta e i cavalli. La loro unione si rivelò non solo una proficua alleanza politica, ma anche un matrimonio affet-
tuoso e solido, che durò trentasei anni e superò tutte le difficoltà. I due sposi viaggiavano di continuo, quasi sempre insieme, non solo in Gran Bretagna, ma anche sul continente e addirittura in Terra Santa, separandosi di rado e solo per obbligo, come quando Edoardo fu preso prigioniero dopo la battaglia di Lewes (1264). Sappiamo che quando Eleonora non poteva viaggiare e doveva rimanere sola, magari perché aveva partorito da poco, il marito le mandava da lontano i migliori prodotti alimentari, cosí da convincerla a mangiare e recuperare le forze. Eleonora, inoltre, fu per il coniu-
Veduta aerea del castello di Leeds, nel Kent, che fu una delle residenze reali alle quali Eleonora di Castiglia fece apportare numerose migliorie.
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ge non solo una moglie, ma anche una collaboratrice e una consigliera: amministrava e visitava regolarmente molte proprietà terriere che le appartenevano e seppe supportare il marito nei momenti di crisi. I primi anni della vita coniugale di Edoardo ed Eleonora furono dominati da un conflitto politico e militare chiamato «Seconda Guerra dei Baroni». In quel tempo Eleonora sostenne il consorte in vari modi, per esempio reggendo il castello di Windsor e importando soldati dalle terre della madre. Quando le truppe del re furono sconfitte a Lewes, nel 1264, Edoardo fu imprigionato ed Eleonora venne
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rinchiusa nel Palazzo di Westminster dai ribelli di Simon de Montfort, ma l’anno seguente Edoardo riuscí a fuggire e a uccidere il leader nemico, cosí marito e moglie ritrovarono la libertà. La posizione del principe uscí notevolmente rafforzata da quel conflitto e il ruolo di Eleonora divenne sempre piú quello di consigliera e fedele sostenitrice del futuro re.
La prima figlia
Nel frattempo, comunque, la vita privata continuava. Tra la misteriosa prima gravidanza del 1255 e quella successiva passarono sei anni, durante i quali non è escluso
che la regina abbia perso altre creature di cui non si ha notizia. Nel 1261 nacque Katherine e, da quel momento, Eleonora trascorse oltre vent’anni quasi continuamente in attesa. Partorí persino, e per ben due volte, mentre si trovava in Palestina in occasione della nona crociata e purtroppo, ancora una volta, una delle due bambine morí. In tutto la coppia ebbe almeno sedici figli dei quali solo sei (cinque femmine e un maschio) sopravvissero alla madre. Gli altri morirono prematuramente, alcuni prima della nascita, altri durante il parto, altri ancora in tenera età. Di Edoardo ed Eleonora si è
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Miniatura raffigurante Edoardo I ed Eleonora di Castiglia che giocano a scacchi, dall’unica edizione manoscritta esistente del Libro de los juegos, o Libro del ajedrez, dados y tablas, opera commissionata da Alfonso X, detto il Saggio. XIII sec. Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial. Nella pagina accanto miniatura raffigurante Edoardo I in trono, con una spada nella mano sinistra e lo scudo araldico nella destra, da un’edizione della Chronicle of England di Peter de Langtoft. 1307-1327. Londra, British Library. Sotto il ritratto del sovrano sono elencati i figli da lui avuti da Eleonora di Castiglia e dalla seconda moglie, Margherita di Francia.
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detto che erano «genitori distanti» e che trascorrevano poco tempo accanto alla loro prole. Nel 1270, in effetti, quando partirono per la crociata, lasciarono in patria tre bambini (Giovanni aveva quattro anni, Enrico due ed Eleonora circa dodici mesi), pur sapendo che non li avrebbero visti per anni e quando tornarono a casa il piccolo Giovanni non c’era piú. Durante il soggiorno in Palestina Edoardo fu aggredito da un nemico musulmano che lo colpí con una lama avvelenata. A quanto si racconta Eleonora strappò il marito alla morte succhiando il veleno dalla ferita, ma non è escluso che il provvidenziale intervento della regina sia solo il frutto di una mente fantasiosa. Di certo, quando si fu ristabilito, Edoardo decise di tornare in Europa e durante il viaggio di ritorno ricevette due notizie ferali: suo figlio Giovanni era morto al castello di Wallingford poco dopo il quinto compleanno e re Enrico III era passato a miglior vita il 16 novembre 1272, all’età di sessantacinque anni.
Novello Giustiniano
Cominciava cosí il regno di Edoardo I ed Eleonora, del quale tuttora si ricordano alcuni aspetti importanti, come la lunga e infruttuosa lotta contro la Scozia (che valse al sovrano il soprannome di «Martello degli Scozzesi» e portò alla fine brutale di William Wallace), la vittoria di Evesham contro Simon de Montfort e l’espulsione degli Ebrei dall’Inghilterra. Edoardo passò alla storia anche come il «Giustiniano inglese» per la sua intensa attività nel campo delle leggi e dell’amministrazione. Durante il suo regno, infatti, il parlamento si incontrò con maggiore frequenza rispetto al passato, arrivando a circa quarantasei sedute in trentacinque anni. Tuttavia, l’impresa piú famosa fu probabilmente la conquista del Galles.
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All’epoca in cui appresero di essere diventati i nuovi sovrani d’Inghilterra, tra la fine del 1272 e i primi del 1273, Eleonora ed Edoardo si trovavano in Sicilia, a Trapani, ospiti di Carlo d’Angiò. Contrariamente a quanto avveniva di solito in questi casi, la notizia non li indusse a precipitarsi a casa, forse perché Edoardo risentiva ancora dei postumi del grave attentato subito in Palestina. I due si rimisero in viaggio con calma,
senza fretta, sostando, tra l’altro, a Roma, a Orvieto, in Emilia e a Milano. Valicate le Alpi e attraversata la Francia del Sud, da est a ovest, la coppia arrivò in Guascogna, dove Eleonora diede alla luce Alfonso, che nacque a Bayonne, il 24 novembre 1273, e fu salutato come l’erede al trono. La nuova coppia reale si trasferí quindi a nord, attraversò la Manica e, il 2 agosto 1274, approdò a Dover, da dove si trasferí a Londra per essere incoro-
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Dossier A sinistra miniatura raffigurante Edoardo I che cavalca verso Londra, da una raccolta dei componimenti di Robert Wace. Metà del XIV sec. Londra, British Library. A destra, sulle due pagine miniatura raffigurante il re di Scozia John Baliol che rende omaggio a Edoardo I, da un’edizione delle Chroniques de France ou de St. Denis. Fine del XIV sec. Londra, British Library.
nata congiuntamente in Westminster il 19 dello stesso mese. Purtroppo non si conoscono i dettagli della cerimonia, ma si sa che quel giorno l’acquedotto di Cheapside offrí vino bianco e vino rosso ai cittadini per brindare alla salute dei sovrani. Edoardo ed Eleonora furono i primi sovrani incoronati in Westminster dopo il completamento dei lavori nell’abbazia
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voluti da Enrico III. All’epoca non esisteva ancora la «Oak Coronation Chair», cioè il trono di quercia riservato esclusivamente alle incoronazioni. Lo speciale sedile fu voluto proprio da Edoardo I nel 1296 e fu forse usato per la prima volta nel 1399, quando fu incoronato Enrico IV. Poco tempo dopo la cerimonia, nell’ottobre del 1274, la coppia reale dovette dire addio al piccolo
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Dossier Eleonora salva Edoardo I, olio su tela di Angelika Kauffmann. 1776. Collezione privata. L’artista ha immaginato l’episodio, probabilmente leggendario, che avrebbe avuto luogo durante il soggiorno in Palestina della coppia reale: Edoardo sarebbe stato aggredito da un musulmano, che lo avrebbe colpito con una lama avvelenata, e la moglie l’avrebbe salvato succhiando il veleno dalla ferita.
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Enrico, che aveva solo sei anni e mezzo e morí a Guildford, mentre era in compagnia della nonna paterna. In quel tempo Eleonora era in attesa di Margaret, che nacque alcuni mesi piú tardi, presso il castello di Windsor. La vicenda terrena di Edoardo ed Eleonora si intreccia anche con quella del Galles, che, come accennato, il sovrano conquistò definitivamente, dopo una lunga lotta, nel 1283. Nel corso degli anni Edoardo vi fece erigere una serie di imponenti castelli affacciati sul mare in modo da facili-
tare gli approvvigionamenti. Proprio in uno di quei castelli, quello di Rhuddlam, nel 1283 Eleonora diede alla luce Elizabeth, nata pochi giorni prima che una sorella della neonata, Eleonora, sposasse Alfonso d’Aragona. Sempre in Galles, nel 1284, la regina partorí il suo ultimogenito, al quale fu imposto il nome del padre. Il piccolo nacque il 25
aprile 1284 al castello di Caernarfon, che all’epoca era ancora in costruzione. Non era mai accaduto che l’erede di un sovrano inglese nascesse in Galles e forse i sovrani decisero di mettere al mondo il bambino in quella terra turbolenta, appena conquistata, proprio per affermare il loro potere sui nuovi sudditi e stabilire un legame affettivo e simbolico con loro. A soli quattro mesi, inaspettatamente, il piccino diventò il nuovo erede al trono, perché suo fratello Alfonso morí il 19 agosto, quando i suoi genitori fe-
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Dossier L’Eleonora avvelenata, olio su tela di Angelika Kauffmann. 1782. Pavlovsk, Palazzo Grande. Anche questo dipinto allude all’attentato subito in Palestina da Edoardo I e qui l’artista immagina che Eleonora, avendo succhiato il veleno dalla ferita del marito, ne rimanga a sua volta vittima.
steggiavano i dieci anni di regno. Nel 1301, poi, il giovane Edoardo diventò principe del Galles. Era la prima volta che quel titolo veniva conferito all’erede al trono d’Inghilterra e da allora lo stesso titolo spetta di diritto a ogni primogenito del monarca inglese. L’attuale re Carlo III nel 1969 fu incoronato principe del Galles da Elisabetta II e con la morte di quest’ultima il titolo è passato al principe William, che un giorno erediterà la corona paterna.
Una salute cagionevole
Se fino al 1285 Eleonora era sempre apparsa una donna sana, forte, in grado di sopportare viaggi, fatiche e continue gravidanze, a
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partire da quell’anno la salute della regina cominciò a vacillare. Dai resoconti della segreteria reale apprendiamo che in quel tempo la donna cominciò a far uso di medicinali e che le persone che le vivevano accanto presero a ordinarle candele votive. Ciononostante, i reali continuarono a viaggiare e, nel maggio del 1286, attraversarono la Manica per visitare numerose località dell’odierna Francia. Toccarono Parigi, Blois, Amboise, Fontevraud e in prossimità del Natale erano nei pressi di Bordeaux. Purtroppo gran parte del seguito reale durante il viaggio si ammalò e anche la regina cadde vittima di problemi fisici che richiesero dicembre
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Dossier Disegno del monumento funebre realizzato per accogliere i visceri di Eleonora di Castiglia, dal Book of Monuments di sir William Dugdale. 1641. Londra, British Library. Il sacello originale, collocato nella cattedrale di Lincoln, fu distrutto nel XVII sec. dai seguaci di Oliver Cromwell ed è stato restaurato nel 1891.
nuovamente l’assunzione di farmaci. La situazione non migliorò l’anno seguente e tuttavia Eleonora non interruppe il viaggio. Verso la fine del 1287 i sintomi erano quelli di una febbre quartana. Nel 1288 la regina fu curata da Pietro del Portogallo, il quale fece acquistare medicinali a Bayonne, ma non disponiamo di sufficienti informazioni in proposito. Il 12 agosto 1289 la coppia reale finalmente lasciò Wissant e si accinse a tornare in Inghilterra, dove approdò dopo un’assenza di tre anni. Quando sbarcò a Dover, la regina non sapeva che quello sarebbe stato il suo ultimo viaggio per mare e che sarebbe morta quindici mesi dopo. Da Dover, i reali si trasferirono al castello di Leeds, dove festeggiarono le nozze di una cugina di Eleonora, dopodiché ripresero il
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viaggio, visitando proprietà a Melford, Bury St.Edmunds, nel Cambridgeshire e nel Norfolk. I registri di corte ci raccontano che si rivolsero ai barcaioli per attraversare le acque intorno a Ely, e che a novembre erano in altre zone, tra cui il Dorset e la New Forest.
Una cappella per il cuore In quel periodo Eleonora continuò a essere sottoposta a cure e ci commuove pensare che cominciò a pensare alla sua tomba, ordinando l’acquisto di una lapide e chiedendo ai Domenicani di Londra di preparare una cappella in cui deporre il suo cuore. Ciononostante, nella primavera del 1290 la coppia reale visitò un gran numero di altre località, tra cui i Cotswolds, il Berkshire, il Wiltshire e l’Hampshire. In quel periodo fu anche ospite della
cattedrale di Winchester per una cerimonia solenne e, l’11 maggio, si trovava nell’abbazia di Westminster per presenziare alla traslazione della salma di Enrico III. Alla fine di luglio i sovrani partirono da Langley e si diressero a nord, forse per le consuete visite alle varie proprietà di Eleonora. All’inizio dell’autunno, però, modificarono i loro piani e rallentarono la marcia, concedendosi diverse soste per consentire alla donna di riposare. In novembre erano nella Foresta di Sherwood e, il 20 di quel mese, si fermarono in un villaggio a poche miglia da Lincoln di nome Harby, perché Eleonora si era aggravata. Proprio a Harby, nella casa di sir Richard de Weston, il 28 novembre 1290 la regina morí. Le vere cause del decesso non sono mai state accertate, ma qualcuno ha scritto che la sovrana aveva contratto la malaria. Il cadavere venne imbalsamato e privato del cuore e dei visceri, che furono riposti in due cofanetti separati. Di lí a poco il feretro fu portato alla cattedrale di Lincoln, dove la salma fu lasciata scoperta in modo che tutti potessero vederla per l’ultima volta. Eleonora appariva in abito regale, con lo scettro e la corona, per ricordare a tutti che era stata non solo una donna, ma soprattutto una sovrana. Il 3 dicembre lo scrigno contenente i visceri fu sepolto nella cattedrale di Lincoln, in prossimità della tomba di Saint Hugh, mentre il corpo e il cuore partirono per Londra, scortati da un corteo imponente. Con il feretro viaggiavano il re, i piú alti dignitari di corte, membri del dicembre
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clero, cavalieri armati, messaggeri e servi. Tra gli ecclesiastici spiccavano il cappellano della regina e il vescovo di Lincoln, Oliver Sutton. Non mancavano carri e cavalli per trasportare vettovaglie, indumenti, monete e tutto ciò che serviva ai viaggiatori lungo il tragitto.
Nei luoghi del cuore
Il viaggio durò quasi due settimane, dal 4 al 16 dicembre, per un totale di circa duecento miglia e undici soste notturne (a Grantham, Startford, Geddington, Hardingstone, Stony Stratford, Woburn, Dunstable, St.Albans, Waltham, la cattedrale di St.Paul e infine Charing), che diventano dodici, se si considera anche Lincoln. Sappiamo che il corteo non seguí una linea retta, ma una sorta di percorso a zig-zag, alternando tratti in direzione sud-ovest a tappe che puntavano a sud-est. In tal modo la regina poté viaggiare nei pressi delle sue proprietà, ricevere l’omaggio dei sudditi che avevano lavorato per lei e tornare in luoghi che avevano abitato il suo cuore. Purtroppo non esiste un resoconto dettagliato del viaggio, ma possiamo ricostruire l’itinerario attraverso i registri di corte, nei quali i funzionari del re annotarono tutto il lavoro svolto strada facendo. Lasciata la cattedrale di Lincoln, il corteo si diresse a Grantham, una località del Lincolnshire che oggi ci ricorda Downton Abbey. La regina trascorse la prima notte del viaggio presso i frati francescani locali, dopo lunghe ore trascorse sulla strada alla mercè di condizioni atmosferiche non certo clementi. Salutati i Frati Grigi di Grantham, il giorno seguente il convoglio proseguí lungo la Ermine StreMiniatura raffigurante Edoardo I che nomina il figlio, Edoardo di Caernarvon, principe del Galles e conte di Chester, da un’edizione della Chronica Roffense. Inizi del XIV sec. Londra, British Library.
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Dossier et, una via romana che conduceva a Londra, e si trasferí a Stamford, dove Eleonora riposò nella chiesa di St. Mary. La tappa successiva si concluse a Geddington, un luogo caro alla coppia reale perché situato vicino a una residenza di caccia voluta da Giovanni Senza Terra. Eleonora ed Edoardo vi avevano soggiornato spesso, anche un paio di settimane prima, dedicandosi alle amate attività venatorie nella Foresta di Rockingham.
La prostrazione del re
Geddington, inoltre, era stata una delle prime mete raggiunte dalla coppia reale dopo la crociata, quando i due coniugi erano ancora nel fiore degli anni, ma purtroppo quel tempo ormai era finito. Quella notte i due non riposarono nella dimora tanto amata: Eleonora fu vegliata nella chiesa di St. Mary Magdalene e forse il re rimase al suo fianco, o forse si ritirò nella sua casa in solitudine, cercando di sopravvivere al dolore. Da Geddington il corteo si mosse ancora in direzione sud-ovest, trasferendosi a Hardingstone per
essere accolto dalle suore dell’abbazia di Delapré, la cui badessa era Margery de Wolaston. Trattandosi di una comunità femminile, Delaprè non poté ospitare il re nelle ore notturne, per cui Edoardo dovette lasciare la sua amata alle monache e trovare rifugio nel vicino castello di Northampton. Le due tappe seguenti toccarono, nell’ordine, Stony Stratford e l’abbazia di Woburn, poi il convoglio proseguí per l’abbazia di Dunstable, che per l’occasione mise a disposizione tessuti preziosi e una gran quantità di cera per candele. Ormai i viaggiatori avevano imboccato la Watling Street, piegando decisamente verso sud-est, ma la meta era ancora lontana. Lasciata Dunstable, la mesta comitiva si fermò nelle abbazie di St. Albans (nell’Hertfordshire) e Waltham (nell’Essex), poi si diresse a sud puntando su Londra, dove l’aspettava la cattedrale di St. Paul, nella City. A St. Albans, che era un’abbazia molto ricca, tutti i monaci della comunità locale indossarono le loro vesti migliori e si schierarono all’ingresso del
La ricostruzione realizzata in epoca vittoriana della Eleanor Cross di Charing (Londra), eretta di fronte all’omonima stazione ferroviaria. 1864-65.
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Harby
Lincoln
Grantham
Stamford h Peterborough
Geddington Hardingstone
Huntingdon
Bedford
Stony Stratford
Woburn
Dunstable
Hertford
St. Albans Waltham Abbey London Charing
Mappa delle Eleanor Crosses.
villaggio allo scopo di accogliere gli ospiti e scortarli alla chiesa per una messa solenne. Quella notte Eleonora riposò accanto al sepolcro di sant’Albano, dove aveva sostato molti anni prima, poco dopo il suo primo approdo in Inghilterra. Al sorgere del sole tutti si prepararono a rimettersi in cammino.
Un guado difficile
Per raggiungere Waltham dovettero attraversare un territorio boscoso e forse guadare il fiume Lea in condizioni difficili. La chiesa abbaziale che li aspettava aveva torri molto alte, cosí da poter essere scorta da lontano e indicare la via ai pellegrini in cerca di conforto e preghiera. Edoardo ed Eleonora vi erano stati da giovani e in quell’occasione avevano ascoltato la storia
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A destra la Eleanor Cross di Geddington (Northamptonshire), uno dei soli tre esempi superstiti di questi monumenti onorari.
del ritrovamento di un’antica croce e della fondazione della città di Waltham Cross. Al momento di ripartire, il re e il corteo presero strade diverse perché Edoardo voleva raggiungere Londra prima del feretro e coordinare i preparativi per il funerale. Il convoglio percorse dunque la Great North Road orfano del sovrano e quando arrivò a Londra entrò in città attraverso Bishopsgate. Da lí si diresse alla cattedrale di St. Paul attraversando la zona di Cheapside e passando vicino alla chiesa dei Frati Grigi. Ormai il traguardo era molto vicino e mancava soltanto
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Dossier A destra stampa ottocentesca raffigurante l’abbattimento della Eleanor Cross di Cheapside (Londra), nel 1643.
A sinistra statua raffigurante la Vergine con il Bambino, attribuita ad Alexander of Abingdon, uno dei piú celebri scultori inglesi del Trecento. Rinvenuta negli anni Ottanta del Novecento a Newbury (Berkshire), l’opera era con ogni probabilità parte della ricca decorazione di una delle Eleanor Crosses fatte innalzare da Edoardo I.
una tappa alla fine del viaggio. L’ultima sosta notturna prima dell’arrivo a Westminster ebbe luogo a Charing, che al tempo era un villaggio e ospitava le scuderie reali, mentre oggi corrisponde a Trafalgar Square. Eleonora aveva frequentato quel luogo e lo aveva arricchito di giardini e fontane che forse le ricordavano la sua Castiglia. Aveva sempre avuto dimestichezza con i cavalli, ma a Charing teneva anche uccelli rapaci e pappagalli esotici. Dopo l’ultimo saluto ai suoi animali il 17 dicembre la regina si avviò verso Westminster, approdo finale del suo lungo viaggio. Era domenica e quello era il
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diciannovesimo giorno da quando era spirata. Fu sepolta in una tomba di squisita fattura, tra le piú belle del Medioevo, vicino a Edoardo il Confessore, che papa Alessandro III aveva canonizzato nel 1161. La cerimonia fu affidata al vescovo di Lincoln invece che all’arcivescovo di Canterbury John Pecham, in quanto quest’ultimo era malato.
Nella casa degli amati Frati Neri
Al rito fece seguito un banchetto funebre in Westminster Palace, dopodiché il cuore di Eleonora fu sepolto presso il convento dei padri Domenicani, o Frati Neri, che si trovava nella City. In quel luogo il cuore del piccolo Alfonso aspettava da tempo di unirsi a quello della mamma. Il 19 dicembre, dunque, madre e figlio si ritrovarono e la donna concluse il lungo viaggio presso i suoi cari «Black Friars», il cui fondatore era san Domenico e veniva dalla Castiglia come lei. A Eleonora, dunque, furono dicembre
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Margherita di Francia
Il secondo matrimonio di Edoardo Nove anni dopo essere rimasto vedovo Edoardo si risposò con Margherita, figlia di Filippo III di Francia e Maria di Brabante. Le nozze furono celebrate nella cattedrale di Canterbury nel settembre del 1299, quando lo sposo aveva sessant’anni e la sposa era intorno ai venti. Dalla seconda moglie il re ebbe tre figli, Thomas, Edmund ed Eleanor. Quest’ultima nacque nel 1305, quindici anni dopo la morte della prima regina, e tuttavia fu battezzata con lo stesso nome, segno che il ricordo della defunta era ancora vivo. Margherita non fu mai incoronata, primo caso dopo Isabella di Gloucester, moglie di re Giovanni, tuttavia apparve in pubblico con una corona sul capo e usò il titolo di sovrana in vari documenti reali. Seppe instaurare buoni rapporti con i figli del marito e fu una buona moglie per Edoardo. Quando rimase vedova, volle restargli fedele e rinunciò a rifarsi una vita, pur avendo solo ventotto anni. Morí nel 1318 e non fu sepolta in Westminster, bensí nella chiesa dei Frati Grigi di Londra, poiché era profondamente legata ai Francescani. riservate ben tre sepolture, una a Lincoln e due a Londra. Si trattava di un evento del tutto inusuale in Inghilterra. In passato vi erano già stati casi di doppie sepolture, ma nessun sovrano ne aveva mai ricevute tre. L’unico precedente si era verificato nel 1199 alla morte di Riccardo Cuor di Leone, che tuttavia era morto a Chalus, nell’attuale Francia, e la sua triplice sepoltura non era avvenuta sul suolo inglese. Quando i riti funebri furono conclusi, il re si ritirò presso la comunità monastica di Ashridge, nel Buckinghamshire, e vi rimase fino a fine gennaio. Da quel luogo appartato, il 4 gennaio 1291, scrisse una lettera all’abate di Cluny chiedendogli di pregare per colei che «da viva è stata molto cara al nostro cuore e che dopo la sua morte non possiamo smettere di amare». Qualche tempo dopo le esequie Edoardo fece erigere una serie di monumenti destinati a immortalare il ricordo della compagna. Nacquero cosí le Eleanor Crosses, cioè
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Statua che ritrae Margherita di Francia, seconda moglie di Edoardo I. Lincoln, Cattedrale.
le «Croci di Eleonora», complesse strutture di pietra formate da vari livelli riccamente decorati. Il piano che si trovava piú in alto era sormontato da una croce, il che spiega perché i monumenti siano stati chiamati cosí.
I libri di pietra
Ogni sezione del monumento era caratterizzata da un certo tipo di sculture: una era costituita da statue della regina, un’altra era caratterizzata dagli stemmi araldici di Eleonora e nel caso della «croce» di Hardingstone una mostrava dei libri scolpiti nella pietra. Tutto concorreva a celebrare la sovrana, le sue origini e ciò che aveva fatto parte della sua vita. La presenza dei libri di pietra con tutta probabilità sottolineava l’amore di Eleonora per la lettura, del quale molti dovevano essere a conoscenza. Le Eleanor Crosses erano opere cosí belle e preziose da lasciare un segno indelebile nella storia dell’architettura gotica inglese. È
stato scritto che l’arco a ogiva realizzato per le «croci» della regina non era mai stato usato in Inghilterra e che esso divenne un modello di riferimento per gli artisti delle generazioni future. Di tutte le sculture di ciascun monumento le piú importanti erano le statue della defunta. Eleonora era ritratta in abiti regali, con la corona e lo scettro, in omaggio al suo status di regina, figlia e sorella di re. Le Eleanor Crosses non furono disposte a caso, ma seguirono una geografia precisa. Prima di tutto va detto che Edoardo volle farle erigere in punti molto frequentati, cosí che le preghiere dei passanti abbreviassero il percorso di Eleonora verso il Paradiso. Le croci furono erette, inoltre, nelle località (e nelle due aree di Londra chiamate Cheapside e Charing) in cui il feretro della sovrana aveva trascorso la notte durante il suo ultimo viaggio. E poiché le soste notturne erano state dodici, dodici furono anche le «croci», nove
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Dossier La Mary Watts-Russell Memorial Cross a Ilam, nello Staffordshire. 1840. Ispirato alle Eleanor Crosses, il monumento sorse per volere di Jesse Watts-Russell in memoria della moglie Mary. Nella pagina accanto il Martyrs’ Memorial di Oxford, innalzato davanti al Balliol College, sul modello della Waltham Cross dedicata a Eleonora. 1843.
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Didascalia monumenti e memoriali
aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur Il ricordo di Eleonora tendamusam cominciò a svanire agli inizi consent, del 1300 e si dissolse quasiperspiti del tutto intorno alla conseque nis del 1600, quando Sir metà del secolo. Riaffiorò sul finire Richard Baker raccontò dimaxim come eaquis la donna aveva eroicamente earuntia cones sono stati realizzati altri salvato il marito in Palestina. Col tempo apienda. monumenti ispirati alle Eleanor Crosses. Uno di essi si trova a
Alla maniera delle «croci di Eleonora»
Oxford e commemora tre martiri protestanti condannati al rogo per eresia nel XVI secolo: l’arcivescovo di Canterbury Thomas Cranmer, l’ex vescovo di Worcester Hugh Latimer e il vescovo di Londra Nicholas Ridley. Il Martyrs’ Memorial di Oxford fu creato sul modello della Waltham Cross dedicata a Eleonora. Un altro monumento chiaramente ispirato alle Eleanor Crosses è l’Albert Memorial dei Kensington Gardens, realizzato nel 1872 come espressione del dolore della regina Vittoria per la scomparsa del suo amato consorte. Ma il piú suggestivo di tutti questi esemplari recenti, anche per la bellezza del paesaggio circostante, è con ogni probabilità la Mary Watts-Russell Memorial Cross, che nel 1840 un uomo chiamato Jesse Watts-Russell volle erigere per la sua compianta moglie Mary. La croce fu posta nel villaggio di Ilam, una località immersa nel verde Staffordshire dove la famiglia del committente possedeva una residenza antica.
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delle quali, purtroppo, non esistono piú. Se ne sono salvate solo tre, che troviamo a Geddington (vedi foto a p. 97), Northampton (sul limitare di ciò che un tempo era il villaggio di Hardingstone) e Waltham. Esse non sono piú complete come ai tempi di Edoardo: la croce che sormontava ciascun monumento è andata perduta e altre parti delle strutture mostrano i segni del tempo. Però le tre strutture sono ancora molto belle e ci forniscono un’idea di come dovevano presentarsi quando furono erette.
Un numero non casuale
Misurando l’altezza delle tre Eleanor Crosses dalla base alla cima dell’ultimo livello si osserva che ciascuna doveva essere alta 40 piedi (pari a 12 m circa). Aggiungendo a questa misura la croce che in origine sormontava ogni struttura forse si raggiungeva un’altezza di
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49 piedi (15 m circa). Ancora una volta, dunque, troviamo il numero quarantanove, che doveva corrispondere all’età della defunta. È stato scritto che forse le dodici «croci» furono realizzate in modo da diventare piú elaborate man mano che ci si avvicinava a Londra e che la «croce» di Waltham segnava il passaggio dalla campagna alla città ed era piú decorata delle altre due superstiti. Qualcuno ritiene che la maggior parte delle Eleanor Crosses sia stata realizzata dagli stessi artisti e artigiani, come John of Battle, un muratore che si dedicò alle opere di Hardingstone, St. Albans, Stony Stratford e Dunstable. E come Alexander of Abingdon, uno scultore che eseguí molte delle statue della regina. Altri invece sostengono che per volere del re tutte le croci furono costruite simultaneamente e che per questo gli artigiani dovevano essere diversi e ogni monumento era unico. A quanto pare i lavori cominciarono nel 1291, un anno dopo la scomparsa di Eleonora, e furono completati nell’arco di due anni. Nel commissionare le dodici croci probabilmente il re pensava ai monumenti creati per Luigi IX di Francia, che era morto a Tunisi nel 1270 durante la stessa crociata a cui avevano partecipato Edoardo ed Eleonora. Quando i resti di quel re furono restituiti alla Francia, il corteo che li accompagnò sfilò da Parigi a Saint-Denis, fermandosi dieci volte. Nei luoghi delle soste furono in seguito eretti i monumenti chiamati Montjoies, il cui nome derivava dal grido di battaglia di Carlo Magno. Anche in quel caso si trattava di dieci elaborate strutture di pietra decorate da splendide sculture aventi lo scopo di celebrare la memoria del defunto. Oltre a immortalare Eleonora per mezzo delle «croci» a lei dedicate, il re volle rendere omaggio alla sua donna anche per mezzo di messe, donazioni, funzioni religiose cantate e rintocchi di
campane. Durante le varie commemorazioni si usavano enormi quantità di candele e in alcune chiese le fiammelle dovevano rimanere sempre accese per mantenere vivo il ricordo di quella persona cosí importante.
Elemosine e preghiere
Si sa che a un anno dalla scomparsa della sua consorte il re fece celebrare riti religiosi solenni a Westminster e presso i Frati Neri della City, ma anche in diversi luoghi che erano appartenuti alla moglie, come Leeds, Lyndhurst, Langley, Somerton e altre località sparse per tutta l’Inghilterra. In molti luoghi del reame, inoltre, come Harby, Maidenhead e il castello di Leeds , il re fece erigere cappelle in suffragio della defunta. Nei dodici mesi che seguirono la perdita della regina, infine, il sovrano offrí elemosine a tutti i poveri che si presentavano al suo cospetto, in modo che molta gente pregasse per l’anima della cara estinta. Ma le Eleanor Crosses erano davvero soltanto dichiarazioni d’amore scolpite nella pietra? O avevano anche un altro significato? A giudicare dalla presenza degli stemmi araldici posti sui vari monumenti, nonché dall’aspetto regale delle statue, sembra lecito affermare che le «croci» dovevano anche essere una celebrazione della monarchia e quindi contenevano un messaggio politico. Questo, però, non toglie nulla al fascino di quelle opere d’arte, in cui grandi vicende storiche e umane sembrano cercarsi un varco tra i fregi e le sculture. Con il passare degli anni, si sa, anche i ricordi piú belli sbiadiscono ed Eleonora non sfuggí all’azione del tempo. Gran parte delle sue croci scomparve, ma la storia sottesa a esse è rimasta viva e tuttora ci sussurra di un re e del suo doloroso progetto: consegnare all’immortalità chi aveva condiviso con lui il viaggio della vita.
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CALEIDO SCOPIO
Storie, uomini e sapori
Il senso dei Vichinghi per la birra di Sergio G. Grasso
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cambiamenti climatici sono una costante del nostro pianeta. Tra l’VIII e il XIII secolo, si verificò un importante aumento della temperatura globale dovuto a un’intensa attività solare. Interpretando un gran numero di testimonianze naturali (anelli di accrescimento degli alberi, struttura dei coralli, carote di ghiaccio, sedimenti di diversa origine), i paleoclimatologi hanno calcolato quel brusco rialzo termico in +0.6 °C, né piú, né meno di quello che la Terra sta sperimentando negli ultimi decenni. Per secoli l’inclemenza dell’anticiclone africano causò estati devastanti,
siccitose e improduttive, che misero in ginocchio soprattutto le popolazioni delle pianure mediterranee. Il rialzo termico favorí però lo sviluppo e la prosperità di zone fino ad allora considerate marginali per l’agricoltura, in particolare nelle regioni del Nord Europa, ma anche in molte aree montane del Mediterraneo. Lo scioglimento di nevai e ghiacciai consentí di sfruttare nuovi pascoli e nuovi boschi da legna, di coltivare cereali fino a quote relativamente elevate, di far nascere villaggi montani e di collegarli con nuove strade e passi d’alta quota che migliorarono la
comunicazione e gli scambi tra le popolazioni delle vallate. Anche le popolazioni norrene – ovvero i popoli germanici stanziati nei territori di Danimarca, Norvegia e Svezia, ai margini climatici dell’Europa, trovarono nel «periodo caldo medievale» inattese opportunità di sviluppo. Cosí fu per i Vichinghi, che vissero il loro apogeo fra il 793 e 1066, anno della conquista normanna dell’Inghilterra. Il termine «vichingo» non è specifico di un’etnia quanto, piuttosto, di gruppi eterogenei di navigatori scandinavi dediti da sempre alla pesca di merluzzo e aringhe nel Mare del Nord.
Merluzzi posti a essiccare per ricavarne lo stoccafisso a Hamnøy (isole Lofoten, Norvegia). La tecnica è la stessa che venne messa a punto con successo in epoca vichinga. Favoriti dalle scarse tempeste invernali e dalla ridotta presenza di iceberg nell’Artico, furono incoraggiati a varcare i confini dei territori d’origine, per avventurarsi su rotte remote alla ricerca di banchi di pesce. Erano anche temerari esploratori – cinque secoli prima di Colombo, Erik il Rosso raggiunse le Americhe e tentò di colonizzare l’attuale isola di Terranova –, veri e propri nomadi del mare, vagabondi determinati, irrequieti e all’occorrenza bellicosi, sempre alla ricerca di nuove fonti di ricchezza. Per tre secoli furono i dominatori incontrastati del Mare del Nord e dell’Atlantico Settentrionale, praticando la
pirateria, spadroneggiando sulle coste, ricorrendo a scorrerie, saccheggi e occupazioni forzate che li portarono a stabilire emporia e colonie nelle Shetland, nelle Orcadi, nelle isole Fær Øer, in Islanda, in Groenlandia e all’Anse aux Meadows (Terranova oggi in Canada).
Biondi e armati fino ai denti Nella cultura occidentale l’immagine del Vichingo è associata a quella di un temibile guerriero dai capelli biondi e dalla barba rossastra, provvisto di un elmo cornuto (ridicola invenzione del costumista di Richard Wagner per L’anello del
Nibelungo nel 1876), la pesante spada in una mano, il mjollnir o martello di Thor nell’altra, un corno bovino appeso al fianco per bere. Immancabile alle sue spalle la nave (il drakkar o drakuskippan), mentre alte fiamme si levano da un monastero depredato. Al di là di questo vieto stereotipo, la società vichinga era ben piú complessa e fondamentalmente rurale. All’alba del X secolo le popolazioni vichinghe erano in gran parte cristianizzate e ammontavano a circa 200 000 persone, che divennero 300 000 alla metà dell’XI e a poco meno di mezzo milione prima di essere falcidiate dalla peste nera del 1349.
CALEIDO SCOPIO È stato stimato che i guerrierimilitari si aggirassero intorno alle 10/15 000 unità, mentre la stragrande maggioranza della popolazione viveva pacificamente di pesca e commerci, ma primariamente di agricoltura e allevamento. Nelle zone pianeggianti e non sabbiose della regione scandinava era possibile praticare la coltivazione di orzo, avena, segale, grano saraceno oltre alla raccolta di lamponi, mirtilli, prugne, mele selvatiche, noci e nocciole dei boschi. Nelle fattorie si allevavano pecore, maiali, capre e polli, nonché cavalli e bovini per il trasporto e il lavoro. Le case vichinghe erano solitamente di forma rettangolare allungata e potevano ospitare famiglie composte da 10 a 30 individui. L’insediamento e la sopravvivenza di una colonia rurale vichinga dipendevano ovviamente dalla disponibilità di acqua potabile e dalla presenza di pascoli e terreni coltivabili. Nel IX secolo la tecnologia agricola scandinava era rudimentale. Il terreno si dissodava con zappe e si lavorava con aratri in legno senza versoio: strumenti
Un paiolo e altri utensili da cucina rinvenuti nello scavo della nave funeraria di Oseberg. IX sec. Oslo, Museo delle Navi Vichinghe. Nella pagina accanto ricostruzione di una scena di vita quotidiana in un villaggio vichingo. York, Jorvik Viking Centre. In basso ossa di bovini e suini consumati come cibo e sacrificati, da Birka (Svezia). Stoccolma, Museo di Storia.
arcaici, estenuanti, appena sufficienti a graffiare il suolo senza rivoltarlo in profondità. L’aratro a vomere fu adottato solo alla metà del X secolo e solo da allora si iniziò a lavorare in profondità i terreni marginali molto compatti per coltivarli a orzo, segale e avena. Altrettanto arcaico e faticoso era il falcetto utilizzato per il raccolto, dal momento che la falce fienaia (lunga e a due mani) entrò in uso solo nell’XI secolo. Tra strumenti primitivi, rese minime, stagioni brevi e ridotte dimensioni delle fattorie (mediamente 4 o 5 ettari), i coloni dovevano amministrare le scorte accumulate nei 3 o 4 mesi produttivi per farle durare il piú a lungo possibile.
Le tecniche di conservazione Conservare è un compito non facile se non si dispone di sale a sufficienza. La scarsità di questo elemento fa emergere uno dei fattori ambientali che ha fortemente condizionato l’alimentazione vichinga. Ampie aree della costa francese e alcune zone litoranee dell’Inghilterra sfruttano da secoli l’evaporazione solare per la produzione del sale necessario alla conservazione degli alimenti. In Scandinavia le giornate brevi, la ridotta insolazione e le basse temperature non consentivano la
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realizzazione di saline. Il poco sale autoprodotto si otteneva facendo evaporare l’acqua di mare per ebollizione con grande dispendio di legna, tempo e manodopera. Fortunatamente le condizioni ambientali dei Paesi nordici sono da sempre perfette per preservare le derrate con la tecnica della fermentazione naturale. È ragionevole supporre che i Vichinghi fossero piú avvezzi al gusto acido che non a quello salato, cosí com’è anche per le moderne popolazioni scandinave. Molti pesci possono essere conservati a lungo senza ricorrere all’utilizzo del sale. Quelli «magri», come il merluzzo (Gadus morhua), vengono lasciati essiccare appesi, in balía dei venti polari, come nel caso del pregiato stockfish (stoccafisso) norvegese. Per i pesci grassi (sgombro, aringa, salmone), si ricorre invece alla fermentazione cioè all’azione di microorganismi «benefici» che impediscono all’alimento di marcire e di rendersi pericoloso per la salute umana. Questa tecnica (la stessa, per esempio, che trasforma i cavolicappucci in crauti) sviluppa anche una grande varietà di molecole aromatiche, che aumentano la complessità organolettica del cibo.
Le carni, invece, mal si prestano alla fermentazione e senza sale non possono nemmeno essere trasformate in salumi; possono invece fatte essiccare all’aria fredda dopo una sommaria scottatura. La diversità geografica dei molti stanziamenti rurali rende impossibile definire un unico modello vichingo di zootecnia. Le fonti documentarie indicano comunque la prevalenza di carni ovine/suine nell’alimentazione rurale quotidiana. Anche gli abitanti dei villaggi e delle città intrattenevano costanti rapporti di prossimità con i suini, che non richiedevano la stessa quantità di spazio di bovini e ovini e potevano essere nutriti con gli
parte da animali provenienti dalle fattorie del contado e destinati ai mattatoi costruiti all’interno o nelle immediate adiacenze dei grossi centri abitati. Lo studio di ossa bovine provenienti da abitati norvegesi e svedesi ha rivelato che la maggior parte degli animali veniva macellata in età avanzata, quando i maschi non erano piú in grado di svolgere il loro ruolo di forza motrice e le femmine non davano piú latte.
Il latte e i suoi derivati Pare dunque che, per molte famiglie vichinghe, i latticini fossero una risorsa alimentare piú comune e ragionevole rispetto alla carne. Gli archeologi hanno rinvenuto
Sopravvivenze gastronomiche Anche ortaggi e vegetali sono semplici da fermentare in ambiente freddo, come succede per molte crocifere (oltre ai crauti, anche la senape, le rape, le carote, ecc.), i cui residui rinvenuti in vasi e depositi antichi di dodici secoli, sono coerenti con questo tipo di conservazione. Molti prodotti ittici che ancora compaiono sulle tavole scandinave possono essere considerati vere e proprie sopravvivenze gastronomiche vichinghe: l’aringa acida (surströmming), la trota o il salmerino marinato (rakfisk), il salmone fermentato nella terra (gravlax) e lo squalo gelatinoso (hákarl).
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scarti urbani. Lo confermerebbe il gran numero di ossa di lattonzoli rinvenuto nell’insediamento urbano di York, che fu capitale di un regno vichingo tra il IX e il X secolo. Anche il pollame veniva comunemente allevato nei cortili urbani. L’analisi isotopica dei resti di polli rinvenuti nel villaggio di Bishopstone (Sussex) ha rivelato alti valori di azoto, indicativi di una dieta onnivora tipica degli animali nutriti con cibi di scarto. Ciò non significa che la prosperità di città vichinghe come Winchester o Gloucester non dipendesse in gran
strumenti connessi alla produzione di derivati del latte: tavoli di drenaggio delle cagliate e colini fabbricati in legno e capelli per separare il coagulo dal siero. Nelle saghe norrene si accenna spesso allo skyr, un latticino ancora tradizionale in Islanda, ricco di batteri lattici, magro e morbido, a base di latte vaccino fermentato, che non richiede sale e si mantiene a lungo. Il siero ricco di lattobacilli risultante dalla sua produzione – chiamato syra (in Islanda) o mysa –, una volta fermentato (blaund o blaand), si consumava come bevanda
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CALEIDO SCOPIO frizzante leggermente alcolica; se ne faceva uso anche come agente conservante per le verdure o per le carni che vi venivano immerse per prevenirne il deterioramento. Col latte fermentato ovino o vaccino si producevano anche un denso yogurt, formaggi freschi e panna acida, tutti derivati che non abbisognavano di sale poiché l’acido lattico abbassava il pH, facilitandone la conservazione. Oltre al latte e al suo siero, un prodotto tenuto in alta considerazione dai Vichinghi era l’idromele, bevanda alcolica usata già nel Neolitico e ottenuta lasciando semplicemente fermentare il miele in acqua. Senza i moderni coadiuvanti tecnologici è possibile ottenere un idromele «naturale» con gradazioni alcoliche comprese tra gli 8° e 16°. Non era una bevanda quotidiana, ma svolgeva un ruolo importante nelle cerimonie civili e religiose e, a quanto pare, veniva servita a bordo delle navi prima di ogni attacco o scontro.
una varietà leggera e casalinga chiamata «Mungat» – vero e proprio nutrimento liquido con cui si pasteggiava quotidianamente – e un’altra piú robusta detta «Bjórr» e «Ol» (espressioni dalle quali potrebbero derivare i termini anglosassoni «beer» e «ale»), riservata alle feste e ai simposi, ma immancabile sui drakkar nelle interminabili navigazioni. Quella indispensabile bevanda era prodotta con l’orzo, il cereale
La bevanda prediletta Ben piú importante dell’idromele nella dimensione materiale e spirituale dei Vichinghi era la birra, che nel reame degli dèi norreni scorreva a fiumi. Ne cuoceva una varietà divina il gigante Ægir, signore del mare, che la mesceva solo a Odino e Thor; tutte le altre anime potevano dissetarsi con un’altra birra, se non proprio divina sicuramente «paradisiaca», munta dalle mammelle di Heidrunn, la capra sacra che si nutriva delle foglie dell’albero cosmico. Nell’epopea nazionale finlandese un intero canto è dedicato alle sue origini mitiche che affondano nella cosmogonia vichinga. Sulla terra i comuni mortali ne producevano
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d’elezione assieme a segale e avena. A differenza del frumento, che necessita di climi temperati e stagioni lunghe, l’orzo (chicchi antichi di 5000 anni sono stati rinvenuti ad Åland in Finlandia) si adatta alla coltivazione nelle regioni fredde e aride e gode di un ciclo vegetativo piú breve rispetto ad altri cereali. Inoltre, essendo poco sensibile all’umidità, l’orzo non tende a marcire, può essere
Stele raffigurante alcuni uomini che bevono dai loro corni, dall’isola di Gotland (Svezia). Stoccolma, Museo di Storia. stoccato e trasportato facilmente e i suoi chicchi producono piú enzimi – quindi piú zuccheri e alcol – rispetto agli altri cereali. La birra dei Vichinghi si produceva generalmente in inverno e quasi sempre affidando il lavoro alle donne. L’orzo veniva tenuto a mollo alcuni giorni in acqua, quindi bollito e lasciato raffreddare all’ aria aperta. I batteri presenti nell’atmosfera – un po’ come succede per le moderne birre Lambic (ottenute per fermentazione spontanea, n.d.r.) – innescavano la trasformazione degli zuccheri in alcol senza la necessità di utilizzare lieviti. Un altro sistema prevedeva di lasciare il mosto d’orzo bollito in ambienti in cui erano presenti formaggi fermentati di modo che i lattobacilli contribuissero alla lievitazione. L’importanza della birra nella cultura norrena era tale che le regole di produzione erano stabilite da leggi comunitarie e sorvegliate da appositi funzionari. Una di queste leggi è quella emessa dal Gulating (l’assemblea norvegese degli uomini liberi) in vigore dal 900 al 1300. Ai paragrafi 6 e 7 del manoscritto, redatto nel Duecento, si legge: «Farete la birra il giorno di Ognissanti (...) Vi è richiesto di fare un’altra birra e di benedirla la notte di Natale in ringraziamento a Cristo e Santa Maria per un anno di pace. Se ciò non viene fatto, saranno pagati tre marchi al vescovo. E a chi si astiene per tre inverni dal farlo (...) perderà tutti i suoi valori. (...) Il Re avrà la metà e il vescovo l’altra metà. Ma può confessare i suoi peccati e fare penitenza in chiesa e rimanere in Norvegia. Se non lo farà, lascerà il regno del nostro re». dicembre
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Quando i santi prendevano le armi
Tommaso, arcivescovo scomodo di Paolo Pinti
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ecket è l’unico uomo intelligente in tutto il mio regno… e lui è contro di me!»: questa frase pronunciata dal re Enrico II d’Inghilterra, forse realmente o forse solo nell’indimenticabile film del 1964 di Peter Glenville, Becket e il suo re – con Richard Burton e Peter O’Toole al meglio delle loro capacità interpretative –, c’introduce nella tragica storia di san Tommaso (Thomas) Becket (1118 circa-1170) che fu Lord Cancelliere dal 1154 e arcivescovo cattolico primate d’Inghilterra dal 1162. Amico intimo del re Enrico II – che ne aveva voluto l’ascesa alle alte cariche religiose e politiche – ne condivideva le idee intese a centralizzare il potere, limitando quello dei nobili, ma si rivelò intransigente verso il progetto di sottomettere la Chiesa alla Corona, almeno per alcuni aspetti di competenza giurisdizionale. Non sfugge l’analogia con la sorte toccata alcuni secoli dopo a Thomas More (Tommaso Moro), fatto giustiziare da Enrico VIII il 6 luglio 1535 nella Torre di Londra, per essersi rifiutato di accettare l’Atto di supremazia del re sulla Chiesa in Inghilterra. Il contrasto fra il re e Becket non vedeva soluzioni (lo stesso pontefice cercò di mediare in qualche modo, ma l’arcivescovo fu irremovibile), tanto che il sovrano si sarebbe lasciata sfuggire la famosa frase:
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«Chi mi libererà da questi preti turbolenti?». Parole con le quali, avrebbe, piú o meno espressamente e consapevolmente, incitato alcuni suoi cavalieri, tradizionalmente quattro, a eliminare fisicamente Becket, uccidendolo a colpi di spada nella cattedrale di Canterbury. La gravità della situazione era già nell’aria da tempo, tanto che l’arcivescovo fuggí in Francia nel 1164 e vi rimase fino al 1170, quando il sovrano – col quale ebbe un incontro a Freteval in Normandia – gli fece credere in una totale e sincera riappacificazione. Tornò in Inghilterra il 2 di dicembre, ma si rese subito conto delle vere intenzioni del re, tanto che nell’omelia di Natale parlò del proprio imminente martirio.
Affreschi e reliquie Ufficialmente, Enrico II condannò l’assassinio ed esaltò le doti del martire – papa Alessandro III lo canonizzò il 21 febbraio 1173 nella chiesa di S. Lucia a Segni, vicino ad Anagni, dove nella basilica cattedrale di S. Maria Annunziata resta un antico mitreo interamente affrescato con episodi della vita e del martirio di Becket (vedi foto in questa pagina) –, ma di certo, se anche non fu il vero mandante dell’omicidio, l’iniziativa presa dai quattro cavalieri gli facilitò la vita. Restano alcune importantissime reliquie legate a questo santo, fra le quali la tunica indossata il giorno in cui fu ucciso, conservata in Italia, Nella pagina accanto l’uccisione di san Tommaso Becket nella versione affrescata nella chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo a Spoleto. 1174. Poco conosciute, queste pitture sono di un’importanza straordinaria per lo studio dell’armamento del XII sec. L’armato posto al centro vibra un fendente sul capo dell’arcivescovo con una spada ancora tipicamente «medievale», dotata di un pomo probabilmente «a noce del Brasile», mentre l’altro ne impugna una con un pomo a disco o sferico.
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nella basilica di S. Maria Maggiore a Roma, dove è custodita da oltre mezzo millennio, ancora sporca del suo sangue. Oppure la casula (paramento sacro per celebrare la messa), che molti definiscono piviale, pure appartenutagli, conservata presso il Museo Diocesano di Fermo, donata alla cattedrale della città da Presbitero, vescovo di Fermo (1184-1201), che l’aveva ricevuta da Thomas Becket stesso, suo compagno presso lo Studium di Bologna: la reliquia è uno dei piú bei manufatti tessili medievali del Mediterraneo ed è ritenuta il piú antico ricamo arabo rimastoci. Vi compare la seguente scritta: «Nel nome di Allah il Misericordioso, il Compassionevole, il regno è (...) di Allah (...) la piú grande benedizione, perfetta salute e felicità al suo possessore (...)nell’anno 510 in Mariyya». Con un ragguaglio fra il nostro calendario e quello arabo, il manufatto risalirebbe al
La morte di san Tommaso Becket rappresentata all’interno di un grande ciclo dipinto in un antico mitreo situato sotto la cattedrale di S. Maria Annunziata ad Anagni. 1174-1179. I quattro assassini, con armature del tipo detto «all’eroica», che richiamano quelle dell’antica Roma, sono armati di spade dalla larga lama, con sguscio centrale molto marcato, fatte per vibrare fendenti (colpi di taglio e non di punta), come qui si può agevolmente osservare. 1116 e le indagini condotte sul tessuto hanno confermato questa datazione. Sorprende il fatto che un paramento sacro cattolico contenga l’invocazione ad Allah: forse, il significato della scritta era sconosciuto e il tessuto venne giustamente apprezzato per la sua grande qualità. Altre reliquie – frammenti del cranio, come attestato da un’antica targhetta con la scritta «ex cerebro» – risultano conservate nel santuario
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CALEIDO SCOPIO Statua in legno dipinto raffigurante san Tommaso Becket benedicente. Montedinove (Ascoli Piceno), santuario di S. Tommaso Becket martire. La mancanza di simboli e/o segni identificativi rende in realtà molto difficile identificare con certezza il personaggio. Nella pagina accanto, in alto Orlando, scultura facente parte della decorazione dello stipite nord del Duomo di Verona. 1139. Pur non collegata in alcun modo con san Tommaso Becket, l’opera, realizzata dal famoso scultore Niccolò, documenta la morfologia di una spada europea del XII sec., come quelle usate dagli assassini dell’arcivescovo inglese. Secondo una consuetudine molto diffusa, sulla lama corre un’iscrizione che, in questo caso è particolarmente interessante, trattandosi della leggendaria Durlindana (l’iscrizione è: DVRINDARDA), l’arma dell’eroe raffigurato appunto in tale opera.
di Tommaso Becket a Montedinove, nelle Marche, edificato agli inizi del Seicento. Anche nella Cattedrale di Mottola, in provincia di Taranto, si conservano reliquie del santo. Come per Montedinove, la dedicazione attuale non è testimoniata prima del XVII secolo ed entrambe le reliquie potrebbero provenire dalla tomba devastata nel 1538 dalla volontà iconoclasta di Enrico VIII: forse i religiosi misero in salvo tali resti, che giunsero poi, in tempi diversi, anche in Italia, dove il culto del martire è testimoniato da Nord a Sud: fra gli altri, i Comuni trevigiani di Gaiarine e Ponte di Piave lo hanno per patrono.
Colpi di punta Purtroppo, non si conoscono armi riferite al fatto, ma possiamo ipotizzare con sufficiente precisione la tipologia delle spade utilizzate dai quattro assassini, conoscendo quella delle armi allora in uso in Inghilterra. Le spade del XII secolo sono morfologicamente le stesse dei secoli precedenti e lo restano almeno fino al Quattrocento: la lama è larga e piatta, con ampio sguscio centrale – lungo il quale corre a volte un’iscrizione – poco appuntita, con elsa semplice, diritta o leggermente arcuata verso l’alto, ed è pensata per vibrare fendenti e non colpi di punta (stoccate). Non per nulla, negli affreschi e nelle miniature d’epoca vediamo prevalentemente che gli armati menano fendenti dall’alto in basso, con colpi che tranciano le difese, quali la cotta di maglia o gli elmi.
Due spade con lama larga e sgusciata al centro. XII sec. Londra, Wallace Collection. Quella in alto monta un pomo del tipo detto «a noce del Brasile», mentre l’altra ne ha uno a disco, cioè circolare piatto: entrambi i tipi corrispondono a quelli verosimilmente usati per uccidere Becket nella cattedrale di Canterbury.
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In basso placchetta da pellegrino in lega di piombo raffigurante san Tommaso Becket che rientra dall’esilio. Londra, British Museum. La devozione verso il martire fu molto forte e il suo culto iniziò subito dopo la sua uccisione, testimoniato anche da questi «ricordini», probabilmente venduti nelle chiese.
Il pomo può essere «a disco», sferico o, piú spesso, a «noce del Brasile», cosí detta perché praticamente identica al noto frutto e rimasta in auge molto a lungo in Europa. Queste spade erano le stesse dei crociati (ricordiamo che la seconda e la terza crociata ebbero luogo, rispettivamente, nel 1147-1149 e
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nel 1189-1192) e del telo ricamato di Bayeux (convenzionalmente noto come «arazzo»), realizzato proprio negli anni di Becket e che narra la conquista normanna dell’Inghilterra. Qui figurano le varie armi impiegate dagli eserciti un secolo prima, descritte in modo molto preciso, tanto che le scuri
hanno il ferro di due colori: piú chiaro quello dalla parte del «filo», perché in acciaio, e scuro il resto del corpo, in semplice ferro.
Assassinio nella cattedrale L’iconografia del santo è molto ampia e, sostanzialmente, riguarda la scena della sua uccisione, all’interno della cattedrale e a opera di quattro uomini armati di spade, ovvero la figura di Becket con i paramenti da vescovo, solo saltuariamente con una spada conficcata sul capo. Almeno in un caso, invece della spada, troviamo un coltellaccio – del tutto incongruo alla luce delle modalità del delitto – che fa confondere il martire inglese con san Pietro da Verona, caratterizzato proprio da tale arma/attrezzo piantata in testa. Sostanzialmente, le raffigurazioni del martire non sempre ne consentono l’identificazione, mentre quella della sua uccisione è tipica ed esclusiva. Rivestono grande importanza i già citati affreschi di Anagni (11741179) e quelli della chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo di Spoleto (vedi foto a p. 108), consacrata nel 1174, perché risalenti agli stessi anni del fatto, e quindi raffiguranti armi offensive e difensive coeve. Al pari del ciclo pittorico di Castel Rodengo in Val d’Adige – che, di qualche decennio piú tardo e di tutt’altro argomento, è uno dei non molti esempi possibili in materia –, i due complessi costituiscono una fonte preziosa per la conoscenza delle armi del XII secolo. È decisamente raro trovare rappresentazioni pittoriche di santi realizzate immediatamente dopo la canonizzazione: di certo, due opere della massima importanza, tutte da studiare.
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Lo scaffale Luca Salvatelli Frammenti di Cieli nell’Arte Viaggio per immagini tra fede, mito e scienza nei fenomeni celesti del Medioevo
Intermedia Edizioni, Orvieto, 176 pp., ill. col.
14,00 euro ISBN 979-12-80764-69-0 www.intermediaedizioni.it
Luca Salvatelli firma un volume che si propone come un itinerario, un viaggio per immagini e parole attraverso la magnificenza
dell’azzurro padiglione del cosmo e dei suoi corpi celesti. Tra oltre 50 illustrazioni a colori, il lettore può vagabondare tra immagini di astri, lune, comete e costellazioni cosí come venivano viste, interpretate e rappresentate tra il IV e il XIV secolo. Ognuno dei cinque capitoli (Cieli tardo antichi, Volte stellate tra metafisica e materialità, Istantanee da una cometa,
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Tra astronomia e astrologia una difficile convivenza, Schemi astronomici e zodiaci figurati tra fogli miniati e soffitti figurati) offre un’indagine che spazia dai fogli miniati della rinascenza carolingia alle volte stellate delle cattedrali, cercando di chiarire attraverso il dialogo tra fonti scritte e visive quella stretta trama colma di elementi di natura scientifica, teologica e filosofica che si dipana nell’arco del millennio medievale, a partire dalle manifestazioni delle basiliche paleocristiane del IV secolo. In un dotto colloquio tra le opere d’arte, il lettore viene sapientemente accompagnato nella recondita armonia che celatamente racchiudono tali affascinanti epifanie, mirando a comprendere l’intima natura di questi tanti cieli scesi in terra, quasi immensi e affascinanti cieli in una stanza, o in un libro. Francesca Ceci Paolo Delogu Roma all’inizio del Medioevo Storie, luoghi, persone (secoli VI-IX) Carocci editore, Roma, 427 pp.
44,00 euro ISBN 978-88-290-1696-9 www.carocci.it
La storia di Roma nel Medioevo sta uscendo dal cono d’ombra nel quale è stata relegata dalle fasi di vita dell’Urbe che hanno a lungo goduto di un’attenzione quasi esclusiva, prima fra tutte quella antica. Un significativo contributo viene ora da questo saggio di Paolo Delogu, il quale ripercorre in maniera sistematica le vicende succedutesi fra il VI e il IX secolo. Segno distintivo dell’opera è il costante confronto tra le testimonianze offerte dalle fonti e il patrimonio artistico e architettonico che la città tuttora conserva. Altrettanto importante, e, visto il periodo affrontato, non potrebbe essere altrimenti, è il ruolo giocato dalla storia religiosa di Roma, in quanto sede del papato. Fatti e personaggi, dunque, si muovono sempre all’interno di un contesto che
Delogu definisce in maniera puntuale, offrendo al tempo stesso molteplici spunti per possibili approfondimenti. Nel torno di tempo preso in esame la città non è piú la metropoli dell’età imperiale, ma continua comunque ad arricchirsi di nuove chiese e basiliche e mantiene inalterato il proprio carisma, mentre al soglio di Pietro salgono personaggi che, oltre a scrivere capitoli decisivi nella storia ecclesiastica, si fanno anche promotori di importanti imprese urbanistiche. Un quadro, nel complesso, vivace, che l’autore del volume completa con le notazioni sulla vita quotidiana e sull’assetto economico e produttivo di una Roma che, alla contrazione fisica, oppone comunque una notevole vitalità. Ideale corollario alla lettura del libro potrà essere, in queste settimane, la visita della mostra «Roma medievale. Il volto perduto della città» (Roma, Palazzo Braschi, fino al 5 febbraio 2023), della quale diamo conto proprio in apertura di questo numero (vedi alle pp. 6-10). Stefano Mammini
Jean-Claude Maire Vigueur Attrazioni fatali Una storia di donne e potere in una corte rinascimentale il Mulino, Bologna, 320 pp., 25 tavv. col.
25,00 euro ISBN 978-88-15-29582-8 www.mulino.it
Come si legge nelle pagine introduttive, l’idea del libro è venuta all’autore dal terribile fatto di sangue consumatosi nel 1505 fra Giulio e
Ippolito d’Este, due dei figli del duca Ercole. L’episodio, come lo stesso Maire Vigueur lo definisce, non è altro che una «scintilla», sufficiente tuttavia ad accendere il fuoco di una trattazione che, pur evocando gli intrighi di una delle piú importanti corti del Rinascimento europeo – che aveva la sua magnifica sede a Ferrara – non perde mai di vista l’indispensabile rigore storiografico. S. M. dicembre
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