Medioevo n. 323, Dicembre 2023

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NASPEC TA IALE LE

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

NATALE

LE ORIGINI MEDIEVALI DI UN MITO «AMERICANO»

TRADIZIONI LA VERA STORIA DEI RE MAGI BOLOGNA LIPPO DI DALMASIO TRECENTONOVELLE IL RACCONTO DEGLI ANIMALI MEDIOEVO NASCOSTO SAN POLO DI PIAVE UOMINI E SAPORI A TAVOLA CON GEOFFREY CHAUCER

DOSSIER

LA MONETA

IN GUERRA 30323 9

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BABBO NATALE RE MAGI LIPPO DI DALMASIO SAN POLO DI PIAVE GEOFFREY CHAUCER DOSSIER MONETA IN GUERRA

BABBO

Mens. Anno 27 numero 323 Dicembre 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 323 DICEMBRE 2023

EDIO VO M E

IN EDICOLA IL 2 DICEMBRE 2023



SOMMARIO

Dicembre 2023 ANTEPRIMA

CALEIDOSCOPIO

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IL MEDIOEVO IN PRIMA PAGINA Una sublime rilettura dell’antico

STORIE, UOMINI E SAPORI I racconti (culinari) di Canterbury di Sergio G. Grasso 100

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MOSTRE Al tempo della grande paura

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Smessa l’armatura, Guglielmo vestí il saio di Paolo Pinti 108 LIBRI Lo Scaffale

STORIE I MAGI Una storia bella come una fiaba di Alessandro Bedini

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Dossier

LA MONETA IN GUERRA Armi, bagagli, ma soprattutto... fiorini di Alessio Montagano

MOSTRE Bologna Il talento sovrumano del «santo pittore» di Daniele Benati

IL TRECENTONOVELLE DI FRANCO SACCHETTI/11 A nostra immagine e somiglianza 44

COSTUME E SOCIETÀ BABBO NATALE Un omone grosso, rosso e barbuto? di Claudio Corvino

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di Corrado Occhipinti Confalonieri

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LUOGHI MEDIOEVO NASCOSTO Veneto Quelle prelibatezze prima della fine di Corrado Occhipinti Confalonieri

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

NATALE

LE ORIGINI MEDIEVALI DI UN MITO «AMERICANO»

TRADIZIONI LA VERA STORIA DEI RE MAGI BOLOGNA LIPPO DI DALMASIO TRECENTONOVELLE IL RACCONTO DEGLI ANIMALI MEDIOEVO NASCOSTO SAN POLO DI PIAVE UOMINI E SAPORI A TAVOLA CON GEOFFREY CHAUCER

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MEDIOEVO n. 323 DICEMBRE 2023

MEDIOEVO

Hanno collaborato a questo numero: Alessandro Bedini è giornalista e scrittore. Daniele Benati è professore ordinario di storia dell’arte presso Alma Mater Studiorum-Università di Bologna. Francesco Colotta è giornalista. Claudio Corvino è antropologo. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Alessio Montagano è membro dell’Accademia Italiana di Numismatica. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Paolo Pinti è studioso di oplologia.

IN EDICOLA IL 2 DICEMBRE 2023

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20/11/23 17:15

MEDIOEVO Anno XXVII, n. 323 - dicembre 2023 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 - 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Illustrazioni e immagini: The Metropolitan Museum of Art, New York: pp. 20/21 (e particolare in copertina) – Cortesia Ufficio Stampa National Gallery, Londra: Royal Collection Trust/© His Majesty King Charles III 2023: pp. 6-9 – Cortesia Ufficio Stampa Rijksmuseum van Oudheden, Leida: pp. 10-12 – Doc. red.: pp. 22-30, 34-37, 40, 42, 58-61, 62, 64-67, 72 (alto), 83 (basso), 85 (alto) – Mondadori Portfolio: Erich Lessing/K&K Archive: pp. 32/33, 104; Album/Prisma: p. 63; Electa/ Antonio Quattrone: p. 70 (e particolare a p. 69); Veneranda Biblioteca Ambrosiana/Antonio Manusardi: p. 71 (alto); Archivio Lensini/Fabio e Andrea Lensini: pp. 73, 76, 77 (basso, a destra), 86/87; Album: pp. 74/75, 103; AKG Images: pp. 88/89, 100-101, 102, 105; London Metropolitan Archives (City of London)/Heritage-Images: p. 106 – Shutterstock: pp. 38/39, 40/41, 70/71, 78/79 – Cortesia Ufficio Stampa Musei Civici Bologna: pp. 47, 49, 50, 52; Roberto Serra: pp. 44/45, 46, 48, 50/51, 52/53 – Cortesia degli autori: pp. 72 (centro e basso), 77 (alto e basso, a sinistra), 80, 82, 83 (alto), 84, 84/85, 87, 93 (alto), 94, 96, 99, 108-109, 110 – Su autorizzazione della Diocesi di Vittorio Veneto/Ufficio per l’Arte sacra e i Beni culturali (n. 14/2023): Luigi Baldin, Treviso: pp. 90/91 (e particolare a p. 98), 92, 95, 97 – Städel Museum, Francoforte sul Meno: p. 111 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 93. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito https://arretrati. pressdi.it In copertina particolare di uno scomparto della predella di una pala d’altare raffigurante san Nicola che dona tre sfere d’oro come dote ad altrettante fanciulle, tempera e oro su tavola di Lorenzo di Bicci. 1433-1435. New York, The Metropolitan Museum of Art.

Prossimamente personaggi

storie

dossier

Iacopone da Todi

La conquista dei Mongoli

I valdesi. Nascita di un movimento



il medioevo in

rima

agina

Una sublime rilettura dell’antico MOSTRE • Lavori di

manutenzione di una delle residenze reali inglesi hanno imposto lo smontaggio della serie dei Trionfi di Cesare di Andrea Mantegna. Ma sei dei dipinti appartenenti allo spettacolare ciclo si possono continuare ad ammirare presso la National Gallery di Londra, dove saranno esposti fino al termine dell’intervento

N

ella sua veste di pittore di corte, Andrea Mantegna realizzò per i Gonzaga, fra gli altri, il ciclo dei Trionfi di Cesare: nove grandi tele che, poste in sequenza, costituivano una straordinaria parata di immagini, celebrazione delle virtú militari di Giulio Cesare e quindi, con trasparente allegoria, dei Gonzaga stessi. Orgoglio del collezionismo gonzaghesco, i Trionfi lasciarono Mantova per Venezia nella primavera del 1628 e da lí giunsero a Londra. Note e celebrate in tutto il mondo, le opere del Mantegna elevarono la reggia di Carlo I d’Inghilterra al rango delle corti di Parigi e Madrid per ricchezza e qualità di tesori d’arte. Dallo scorso settembre, sei dei monumentali dipinti sono stati concessi in prestito dalla Trombettieri (in alto) e Carri trionfali, episodi facenti parte del ciclo dei Trionfi di Cesare, tempera su tela di Andrea Mantegna. 1485 circa (ante 1506). Londra, Royal Collection.

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Portatori di corsaletti, episodio facente parte del ciclo dei Trionfi di Cesare, tempera su tela di Andrea Mantegna. 1485 circa (ante 1506). Londra, Royal Collection.

Royal Collection alla National Gallery di Londra per circa due anni, cosí da consentire l’esecuzione di lavori di manutenzione di Hampton Court Palace, «casa» dei Trionfi.

Un progetto ambizioso Considerate tra le massime espressioni dell’arte rinascimentale italiana, le nove tele furono dipinte da Andrea Mantegna per la famiglia Gonzaga a Mantova, tra il 1485 e il 1506. Nel 1629, vennero acquisite da re Carlo I d’Inghilterra. Daniel Nijs, mediatore e artefice della vendita, affermò in una lettera di aver concluso l’operazione «per 68 mille scudi» e ribadí che ciò avvenne «con gran stupor di tutta l’Italia et disgusto estremo delli habitatori della città di Mantova». Nonostante le ristrettezze economiche, i Gonzaga inizialmente non avevano voluto privarsi dei Trionfi di Cesare, ma furono co-

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A destra Portatori di trofei, episodio facente parte del ciclo dei Trionfi di Cesare, tempera su tela di Andrea Mantegna. 1485 circa (ante 1506). Londra, Royal Collection.

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Dida, niet qui odio quisquunt, soluptae? Pe moloressenim estis enduci quia nim sequi doluptu rescius eni optiur, quae

stretti dalle circostanze a inserirli in un secondo lotto, la cui cessione fu definita nel 1628, un anno dopo la prima vendita della pinacoteca. Poco dopo l’arrivo in Inghilterra, nel 1630, i dipinti furono portati ad Hampton Court Palace. Qui sono stati ospitati nella Mantegna Gallery nella Lower Orangery dagli anni Venti del Novecento e, finora, avevano lasciato il Palazzo solo occasionalmente. L’esposizione straordinaria dei Trionfi di Cesare alla National Gallery di Londra rappresenta dunque un’opportunità imperdibile, anche perché le sei tele sono accompagnate dal dipinto Un Trionfo Romano (1630 circa) di Peter Paul Rubens, scelto per documentare l’influenza che il ciclo del Mantegna esercitò su altri artisti all’indomani del suo arrivo in Inghilterra. I Trionfi vengono presentati in cornici appositamente progettate e realizzate per l’occasione e la loro visione (o riscoperta) può essere

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anche un invito ad ammirare le altre opere di Mantegna facenti parte della collezione del museo londinese, quali L’Introduzione del Culto di Cibele a Roma (1505-1506), Sansone e Dalila (1500 circa), Sofonisba e Tuccia (1495-1506 circa), Vergine col Bambino con la Maddalena e San Giovanni Battista (1490-1505 circa) e L’Agonia nell’Orto (1455-1456 circa).

Al servizio dei marchesi

Portatori di vasi, episodio facente parte del ciclo dei Trionfi di Cesare, tempera su tela di Andrea Mantegna. 1485 circa (ante 1506). Londra, Royal Collection.

Andrea Mantegna è stato uno degli artisti piú celebrati del XV secolo. Le sue straordinarie capacità furono riconosciute dal marchese Ludovico Gonzaga di Mantova, che lo nominò suo artista di corte nel 1460. Il suo primo capolavoro mantovano, la Camera Picta, fu dipinto in un appartamento del castello della città: un ciclo affrescato che includeva vari ritratti della famiglia Gonzaga, ultimato intorno al 1474. Nel 1488 Mantegna fu chiamato da papa Innocendicembre

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Elefanti, episodio facente parte del ciclo dei Trionfi di Cesare, tempera su tela di Andrea Mantegna. 1485 circa (ante 1506). Londra, Royal Collection.

DOVE E QUANDO

«I Trionfi di Cesare» Londra, National Gallery esposizione straordinaria Info www.nationalgallery.org.uk zo VIII per dipingere affreschi (ora perduti) in una cappella del Belvedere in Vaticano. Tornato a Mantova nel 1490, Mantegna si concentrò sui nove pannelli a tempera dei Trionfi di Cesare, ai quali aveva verosimilmente messo mano prima di partire per Roma. Le composizioni furono probabilmente commissionate dai successori del marchese Ludovico, Francesco Gonzaga e per la nuova marchesa, la colta e intelligente Isabella d’Este, per il Palazzo San Sebastiano. I Trionfi mostrano Giulio Cesare che torna dalle sue vittoriose campagne militari. I nove dipinti formano una sequenza che raffigura una sola processione, con Giulio Cesare trasportato su un carro davanti a un arco trionfale. Lo precedono soldati romani, portabandiera, musicisti e i bottini di guerra, che includono armi, opere d’arte, oro e argento, prigionieri e animali. La processione non può essere collegata a una campagna specifica, ma Mantegna

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potrebbe aver attinto alle notizie riportate da piú di un autore – come Svetonio, Plutarco e Appiano –, le cui descrizioni di trionfi, al tempo dell’artista, erano disponibili in manoscritto o in forma stampata. Avrebbe anche tratto ispirazione dalle antichità romane, in particolare archi monumentali e colonne. Considerati tra le opere migliori di Mantegna, i Trionfi di Cesare offrono un saggio eloquente del suo talento e del suo stile. Il maestro fece sua, in maniera sublime, la lezione dell’antico, ottenendo un risultato che colpisce per la nettezza del disegno: le figure – statuarie, atletiche e imponenti – trasmettono energia, dinamismo e potenza. L’uso di colori intensi per le figure in primo piano, in contrasto con le tinte piú smorzate sullo sfondo, contribuisce a creare un senso di prospettiva, illusione ottica, movimento e drammaticità. (red.)

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ANTE PRIMA

Al tempo della grande paura

MOSTRE • Dominata dagli incubi suscitati da

previsioni apocalittiche, la società medievale visse l’anno Mille come un tempo di sospensione. Presto superato e trasformato in ricordo, come racconta l’esposizione allestita nel Museo Nazionale di Antichità di Leida

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decenni a cavallo dell’anno Mille vengono spesso percepiti come un’epoca in cui, sotto il peso delle paure legate alla possibile fine del mondo, non si verificarono eventi di particolare rilievo. In realtà, le cose andarono ben diversamente e, per esempio, nel caso dei territori oggi conosciuti come Paesi Bassi, si trattò di un periodo di grandi cambiamenti: nel paesaggio, nelle tecniche di costruzione, nel clima, nella lingua e nella società. Uno scenario ricostruito dalla mostra allestita nel Museo Nazionale di Antichità di Leida, che propone un viaggio nel tempo attraverso il paesaggio di questo mondo

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In alto particolare della ricca decorazione della coperta dell’evangeliario noto come Codex Ansfridus. 950-1000. Utrecht, Museum Catharijneconvent. medievale, con l’anno 1000 come destinazione finale. Un viaggio che si snoda tra luoghi prestigiosi, come la residenza imperiale di Nimega o la cattedrale di Utrecht, svela i tesori di Maastricht, ma tocca anche la Roma di mille anni fa e gli splendori di Bisanzio. Per l’occasione, sono stati selezionati oltre quattrocento oggetti – fra reperti archeologici,

Cammeo in calcedonio con l’immagine della Vergine incastonato in una fibula in oro, dalla Siria. 900-1100. Leida, Rijksmuseum van Oudheden. dicembre

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manufatti e manoscritti – provenienti dall’Olanda, ma non solo, grazie ai numerosi prestiti. All’epoca raccontata dalla mostra, i Paesi Bassi erano governati dai vescovi e facevano parte del Sacro Romano Impero. Questi sono anche secoli in cui il sapere orientale e quello occidentale sono protagonisti di proficui e intensi scambi: la notazione musicale, il numero 0 e gli scacchi sono solo alcune delle molte innovazioni che si diffondono anche nelle terre olandesi. Ma, come detto, a fronte delle nuove conoscenze scientifiche, la fine del millennio veniva da molti vissuta nell’attesa della fine del mondo. Uomini e donne vedevano presagi nelle eclissi solari, nelle inondazioni e nelle apparizioni di comete. Segnali che, però, non ebbero alcun seguito... Le storie di queste persone sono il filo conduttore del percorso espositivo, che ricostruisce le loro vite quotidiane, le loro idee sul mondo e delle aspettative legate al cambio di millennio.

Tesori sacri e pagani A Leida è stata riunita la quasi totalità dei reperti archeologici piú importanti rinvenuti nei Paesi Bassi e databili fra il 900 e il 1100. Spiccano, inoltre, un corno potorio vichingo, trasformato in reliquiario, proveniente dalla basilica della Nostra Signora del Tesoro di Maastricht; i Vangeli di Egmond della KB, la Biblioteca Nazionale dei Paesi Bassi; spade; gioielli in

oro e gemme, che comprendono i materiali del tesoro di Hoogwoud, di recente ritrovamento; e poi monete, la croce pettorale di San Servazio, i piú antichi pezzi degli scacchi nei Paesi Bassi e una scala di legno proveniente da un pozzo... «L’anno Mille» si articola in dieci sezioni, che spaziano dalla ricostruzione dei mutamenti verificatisi fra il X e l’XI secolo ai rapporti con l’eredità della cultura classica e con la corte bizantina, dall’emissione di monete anche a fini

In alto mosaico policromo raffigurante un grifone, da Costantinopoli. 1000-1100. Leida, Rijksmuseum van Oudheden.

Corno reliquiario con rivestimenti e decorazioni in argento, dalla Scandinavia. 900-1000. Maastricht, basilica della Nostra Signora del Tesoro.

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ANTE PRIMA

DOVE E QUANDO In alto l’evangeliario di Egmond, attribuito a uno scriptorium attivo a Reims. 860-1000. L’Aia, KB. A sinistra valva di dittico in avorio raffigurante una Maiestas Domini, con la famiglia dell’imperatore Ottone II ai piedi del Cristo. 983 circa. Milano, Castello Sforzesco, Civiche Raccolte d’Arte Applicata. A destra fibula a disco in oro e smalti. 900-1000. Leida, Rijksmuseum van Oudheden.

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«L’Anno 1000» Leida, Rijksmuseum van Oudheden fino al 17 marzo 2024 Info www.rmo.nl

propagandistici alla parabola della «coppia di potere» composta dalla principessa Teofano e da Ottone II, che resse il Sacro Romano Impero fino al 983. Un racconto ricco di suggestioni, reso particolarmente efficace ed esauriente dalla presenza di importanti opere provenienti da raccolte olandesi e da collezioni internazionali come il Castello Sforzesco (Milano), il Museo Nazionale di Finlandia (Helsinki) e il Landesmuseum di Kassel. (red.) dicembre

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AGENDA DEL MESE

Mostre FAENZA TERRA. UNA BOTTEGA DI CERAMISTI TRA XV E XVI SECOLO. LO SCAVO ARCHEOLOGICO DI PALAZZO DELLE ESPOSIZIONI MIC-Museo Internazionale delle Ceramiche e chiesa di S. Maria dell’Angelo fino al 7 gennaio 2024

a cura di Stefano Mammini

restauro e che dialogano con reperti analoghi già esposti al Museo, mentre a S. Maria dell’Angelo si possono ammirare foto e video, che mettono in relazione reperti antichi ed elementi moderni, e non manca una selezione dei reperti archeologici in una nuova e originale forma espositiva. info tel. 0546 697311; e-mail: info@micfaenza.org; www.micfaenza.org PARIGI VIAGGIO NEL CRISTALLO Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 14 gennaio 2024

Allestita nella Project Room del MIC e in S. Maria dell’Angelo, la mostra presenta per la prima volta i risultati dello scavo condotto nel cortile del Palazzo delle Esposizioni tra il 2022 e il 2023. Qui, i lavori di riqualificazione dell’edificio sono stati l’occasione per avviare una campagna di indagine archeologica che ha portato in luce i resti ben conservati di un impianto per la produzione della maiolica. Fornaci e scarichi di materiale ceramico testimoniano di un’attività artigianale operante fra la fine del Quattrocento e per tutto il Cinquecento, in piena epoca rinascimentale. Le due sezioni della mostra raccontano aspetti diversi dello scavo: al MIC Faenza si può seguire il ciclo produttivo della ceramica, attraverso alcuni reperti rinvenuti in scavo, oggetto di un parziale

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Da sempre e in tutte le civiltà, la trasparenza del cristallo di rocca esercita un fascino straordinario e nel millennio medievale, questo quarzo trasparente viene utilizzato nelle arti della tavola, dove è apprezzato per la posateria di lusso, e in oggetti decorativi o gioielli. Gli viene attribuita anche una forza simbolica che richiama la purezza, espressa nella produzione di oggetti liturgici o reliquiari. Articolata in sei sezioni, la mostra esplora tutte le sfaccettature di questo misterioso materiale e, lungo un percorso sia cronologico che tematico, documenta come sia stato variamente utilizzato. Opere dal potere

spirituale e magico, come i reliquiari dove il cristallo di rocca funge da lente d’ingrandimento; opere per i re, come lo scettro del British Museum; oggetti di lusso e piacere, come l’acquasantiera del Louvre; strumenti scientifici come i misteriosi occhiali di Visby: la mostra presenta oltre 200 pezzi, di cui un centinaio del Medioevo. info www.musee-moyenage.fr ROMA COPERNICO E LA RIVOLUZIONE DEL MONDO Foro Romano, Curia Iulia fino al 29 gennaio 2024

Ospitata nella Curia Iulia nel Foro Romano, la mostra si inserisce nell’alveo delle celebrazioni per il 550° anniversario della nascita di Niccolò Copernico (14731543), illustre astronomo e matematico polacco la cui rivoluzionaria visione dell’universo ha per sempre

cambiato la nostra comprensione del cosmo. L’esposizione mira a esplorare il mondo immaginario creato dalla rivoluzione copernicana, le sue radici antiche, l’iconografia solare, il soggiorno di Copernico a Roma nel 1500 e l’ampia influenza della teoria eliocentrica. L’Italia svolse infatti un ruolo fondamentale

nella formazione di Copernico, il quale, dopo aver ricevuto un’educazione a Cracovia, studiò in diverse città italiane, tra cui Bologna, Padova e Ferrara, e trascorse un periodo significativo a Roma, dove condusse studi e ricerche rilevanti. È a Roma che, nella notte tra il 5 e il 6 novembre del 1500, Copernico osservò l’eclissi lunare descritta nel Libro IV della sua De revolutionibus. Nella stessa città Copernico tenne anche lezioni di matematica e astronomia, come raffigurato in incisioni e dipinti ottocenteschi, alcuni dei quali presentati in mostra. info https://colosseo.it/ PARIGI IL TESORO DI NOTRE-DAME DE PARIS DALLE ORIGINI A VIOLLET-LE-DUC Museo del Louvre, Galleria Richelieu fino al 29 gennaio 2024

Mentre i lavori di restauro della

cattedrale parigina entrano nella loro fase finale, il Louvre dedica una mostra unica al tesoro di Notre-Dame. Questo tesoro, che raccoglie gli oggetti e gli abiti liturgici necessari per la celebrazione del culto, reliquie e reliquiari, libri manoscritti e altri oggetti preziosi offerti per devozione, si trasferirà successivamente nella sacrestia neogotica, costruita dicembre

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VERBANIA VERONESE SUL LAGO MAGGIORE. STORIA DI UNA COLLEZIONE Museo del Paesaggio fino al 25 febbraio 2024

Sono riuniti nel Palazzo Viani Dugnani di Verbania due capolavori cinquecenteschi di Paolo Veronese – una coppia di importanti Allegorie –, arricchiti dalla storia del loro da Jean-Baptiste Lassus ed Eugène Viollet-Le-Duc dal 1845 al 1850 per accoglierli, rinnovata in occasione della riapertura della cattedrale, nel 2024. Con oltre 120 opere, questa mostra offre un riassunto della storia di questo tesoro, collocandolo nel contesto della sua storia millenaria: dalle sue origini nel Medioevo alla sua rinascita nel XIX secolo e al suo apice con Viollet-le-Duc sotto il Secondo Impero. Risalendo alle origini del tesoro, la mostra ne svela la diversità e la ricchezza, in particolare attraverso i manoscritti pervenuti fino a noi. Se reliquiari e oreficerie liturgiche sono stati distrutti durante la Rivoluzione, dipinti, disegni e incisioni consentono di evocarli nella mostra. In vista dell’incoronazione di Napoleone I a Notre-Dame, il tesoro viene ricostituito e arricchito di reliquie insigni, in particolare quelle della Corona di spine e del Legno della Croce, provenienti dall’antico tesoro della Sainte-Chapelle (non presentato al Louvre), per le quali vengono commissionati nuovi reliquiari. Eugène Violletle-Duc, tra il 1845 e il 1865, è incaricato del restauro della cattedrale e della ricostruzione della sacrestia, scrigno del tesoro. Propone quindi di creare nuovi arredi liturgici e reliquiari in armonia con l’architettura gotica. info www.louvre.fr

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ritrovamento e dalla descrizione del loro luogo di provenienza: Villa San Remigio, di proprietà del Marchese Silvio della Valle di Casanova e di sua moglie Sophie Browne. Il complesso comprende un ampio giardino disposto su terrazze e una villa su due piani. Il piano rialzato dell’abitazione richiama una dimora signorile del Cinquecento: gli ambienti interni, gli arredi e le opere d’arte alle pareti sono

caratterizzati da un forte gusto neorinascimentale. Nel 1977 la Villa viene destinata alla Regione Piemonte. Cristina Moro, nel 2014 ritrova due opere di soggetto allegorico attribuite alla «Scuola di Veronese» che a un piú attento esame si mostrano riconducibili alla mano del maestro stesso. E proprio da qui parte la mostra.

protagonista di una rassegna monografica. Figlio del pittore Dalmasio (1315 circa-1374 circa) e nipote del noto artista Simone di Filippo Benvenuti, detto Simone dei Crocifissi (1330 circa–1399), Lippo appartenne alla prestigiosa famiglia ghibellina degli Scannabecchi. Come il padre, fu a lungo attivo in Toscana, a Pistoia, dove è probabile abbia intrapreso la sua attività, ottenendo le prime importanti commissioni. Attraverso l’esposizione di una quarantina di opere, tra dipinti, sculture e manoscritti miniati, la mostra intende ripercorrere, facendo riferimento al contesto artistico cittadino, l’attività di questo maestro su cui «grava» lo stereotipo di «pittore cristiano e devoto della Madre di Dio» nato in età di Controriforma, in parte giustificato dalla sopravvivenza di molte sue opere raffiguranti la Madonna con il Bambino. La mostra si articola in tre sezioni: Tra Bologna e Pistoia: i rapporti con l’arte toscana, Bologna 1390 e Un pittore per la città

info tel. 0323 502254; e-mail: segreteria@museodelpaesaggio.it; www.museodelpaesaggio.it

BOLOGNA LIPPO DI DALMASIO E LE ARTI A BOLOGNA TRA TRE E QUATTROCENTO Museo Civico Medievale, Sale del Lapidario fino al 17 marzo 2024

Il piú celebrato dei pittori bolognesi del tardo Medioevo, Lippo di Dalmasio viene per la prima volta scelto come

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1400-1410 verso il tardogotico. Oltre ai dipinti e agli affreschi di Lippo di Dalmasio (alcuni inediti) sono esposte in mostra anche opere di alcuni degli artisti piú rinomati a lui contemporanei – Simone dei Crocifissi, Jacopo di Paolo, Nicolò di Giacomo, Giovanni di Fra Silvestro, Don Simone Camaldolese, Lorenzo Monaco, Jacobello e Pierpaolo Dalle Masegne –, prestati per l’occasione da vari musei, biblioteche, chiese italiane e collezioni private. info tel. 051 2193923; e-mail: museiarteantica@comune.bologna. it; www.museibologna.it/ arteantica; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Instagram: @ museiarteanticabologna; Twitter: @MuseiCiviciBolo CUNEO LORENZO LOTTO E PELLEGRINO TIBALDI. CAPOLAVORI DALLA SANTA CASA DI LORETO Complesso Monumentale di S. Francesco fino al 17 marzo 2024

Il progetto espositivo è imperniato sui sette dipinti di Lorenzo Lotto che costituiscono il cosiddetto “ciclo lauretano” del pittore, disposti quando egli era ancora in vita presso la

Cappella del Coro della chiesa di S. Maria di Loreto, e su due affreschi strappati e portati su tela di Pellegrino Tibaldi, originariamente realizzati per la Cappella di S. Giovanni della stessa chiesa lauretana. Tutte le nove opere provengono dal Museo Pontificio Santa Casa di Loreto. La mostra intende proporsi come occasione per indicare nuovi percorsi di ricerca in merito alle possibili reciproche influenze tra Lotto e Tibaldi, due artisti di differente cultura, visto il pur breve periodo condiviso dai due nel cantiere lauretano, indagato solo di recente. Se il rapporto Lotto-Tibaldi dà modo di raccontare un momento fondamentale della storia del Santuario di Loreto e insieme della storia dell’arte italiana, all’interno della mostra è altrettanto importante il richiamo alla presenza ancora oggi rilevante in Piemonte di manufatti testimonianti una diffusa, secolare e, in certi casi, artisticamente rilevante devozione mariano-lauretana. Una sezione propone infatti una mappatura territoriale dei manufatti piú significativi con l’indicazione di un itinerario

utile per i visitatori che vorranno integrare e approfondire l’esperienza vissuta in mostra. info www.fondazionecrc.it LEIDA L’ANNO MILLE Rijksmuseum van Oudheden fino al 17 marzo 2024

Il periodo compreso tra il 900 e il 1100 è spesso percepito come un’epoca in cui non si registrarono eventi di particolare importanza, ma cosí non fu per il territorio che

FELTRE DI LAME E DI SPADE. MAESTRI SPADAI A FELTRE TRA IL XV ED IL XVII SECOLO Museo Civico Archeologico fino al 31 marzo 2024

Allestita presso il Museo Civico Archeologico, la mostra offre uno spaccato sul mondo degli spadai feltrini e sull’eccellenza di produzioni che li resero celebri in tutta Europa. L’esposizione rende visibili al pubblico una decina di pezzi di assoluto interesse – da una trecentesca basilarda a lame, spade, stiletti ed armi in asta – il cui valore e la cui importanza sono stati riportati alla luce proprio grazie agli studi condotti in occasione dell’evento. info www.visitfeltre.com oggi è conosciuto come Paesi Bassi: per quelle regioni, infatti, fu una stagione di grandi cambiamenti nel paesaggio, nell’architettura, nel clima, nella lingua e nella società. La mostra allestita a Leida propone dunque un viaggio nel tempo attraverso il paesaggio di questo mondo medievale, con l’anno 1000 come destinazione finale. Un percorso che permette di scoprire lo svolgersi della vita quotidiana attraverso contesti di grande importanza – come la residenza imperiale di

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Nimega o la cattedrale di Utrecht – e materiali di pregio, come i manufatti preziosi provenienti da Maastricht. La selezione degli oggetti esposti comprende oltre quattrocento reperti archeologici, manufatti e manoscritti provenienti da collezioni olandesi e straniere. info www.rmo.nl.

PADOVA LO SCATTO DI GIOTTO. LA CAPPELLA DEGLI SCROVEGNI NELLA FOTOGRAFIA TRA ‘800 E ‘900 Museo Eremitani fino al 7 aprile 2024

La Cappella degli Scrovegni è nota in tutto il mondo per essere il capolavoro assoluto affrescato da Giotto, ma pochi sanno che essa è stata fra i primi monumenti italiani a essere riprodotto in fotografia in modo sistematico e puntuale. Carlo Naya, uno dei dicembre

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pionieri italiani della fotografia, immortala gli affreschi in alcuni scatti già nell’estate del 1863, a meno di venticinque anni dall’invenzione ufficiale di questa tecnologia, e piú avanti realizzerà una intera campagna fotografica del monumento a scopo conservativo prima dei restauri di Guglielmo Botti, realizzati fra il 1869 e il 1871. Il percorso espositivo de «Lo scatto di Giotto» parte da riproduzioni di grande fascino e si apre in uno scenario in bianco e nero creato dalle preziose lastre fotografiche realizzate da Luigi Borlinetto a partire dal 1883 e conservate dalla Biblioteca Civica di Padova. Queste portano il visitatore a scoprire dettagli poco noti e punti di vista inconsueti, restituendo all’osservatore contemporaneo l’esperienza di un visitatore della seconda metà dell’Ottocento. La mostra si affaccia poi al Novecento attraverso le celebri campagne fotografiche Alinari e di Domenico Anderson, il cui valore si intreccia con quello dell’editoria d’arte e di divulgazione. È proprio grazie alle campagne fotografiche della Casa Editrice Alinari di Firenze che le immagini della

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Cappella degli Scrovegni vengono inserite nei cataloghi d’arte a partire dal 1906. Qui il capolavoro di Giotto viene presentato nella sua straordinarietà per la prima volta quale ciclo narrativo completo, ma non solo: da questo momento in poi si sorpassa l’idea dell’esclusività nella riproduzione degli affreschi della Cappella e viene esplicitamente specificato nei verbali delle adunanze della città di Padova che lasciar circolare l’opera di Giotto attraverso la fotografia avrebbe consentito di diffondere nel mondo il valore della sua arte e non avrebbe mai potuto provocare una riduzione dei visitatori. Da quel momento in poi, grazie ai cataloghi Alinari, la Cappella degli Scrovegni sarà conosciuta in tutto il mondo, giacché le pubblicazioni avevano edizioni anche in lingua francese e inglese. info tel. 049 8204551

l’istituzione della Pax Mongolica permise lo sviluppo di relazioni commerciali, scientifiche e artistiche tra Oriente e Occidente. L’esposizione si propone di far scoprire la storia dell’impero di Gengis Khan, attraverso la presentazione di oggetti provenienti dalle collezioni nazionali della Mongolia, a cui fanno da contorno manufatti concessi in prestiti da musei francesi ed europei. Fra i temi del progetto espositivo spicca

NANTES GENGIS KHAN. COME I MONGOLI HANNO CAMBIATO IL MONDO Château des ducs de BretagneMusée d’histoire de Nantes fino al 5 maggio 2024

Dalle steppe della Mongolia all’estremo Sud della Cina, dall’Oceano Pacifico ai confini del Medio Oriente, Gengis Khan e il suo esercito hanno dato vita, nel corso del XIII secolo, a un vasto impero. Al culmine del loro potere, i Mongoli controllavano oltre il 22% delle terre del pianeta, e il nipote di Gengis Khan, Kubilaï, gran khan dei Mongoli, divenne anche imperatore della Cina. Fondò la dinastia Yuan e stabilí la sua capitale a Dadu (l’attuale Pechino). Dopo anni di conquiste violente per dare vita a questo impero,

l’attenzione rivolta alle interazioni dell’impero mongolo con le altre potenze dell’epoca, in particolare con il regno di Francia. Ed è stato un europeo, Marco Polo, a riassumere con estrema efficacia che cosa abbia significato l’incontro con i Mongoli: il suo Milione, infatti, ebbe una diffusione straordinaria e conserva ancora oggi intatto il suo eccezionale valore documentario. info www.chateaunantes.fr TORINO TRAD U/I ZIONI D’EURASIA MAO Museo d’Arte Orientale fino al 1° settembre 2024

Oggetto della mostra, terzo

esito del ciclo espositivo Frontiere liquide e mondi in connessione, sono i concetti di traduzione, trasposizione e interpretazione culturale, illustrati attraverso oggetti provenienti dall’Asia occidentale, centrale e orientale che permettono di interrogarsi su fenomeni quali la circolazione materiale e immateriale, le modalità di trasformazione del significato e la fruizione avvenute tra Asia ed Europa nel corso di

duemila anni di storia. Fra i materiali riuniti per l’occasione si possono ammirare splendide sete della Sogdiana, ceramiche bianche e blu prodotte tra il Golfo Persico e la Cina, una raffinata selezione di «panni tartarici» – preziose stoffe d’oro e di seta del XIII secolo prodotte tra Iran e Cina durante la dominazione mongola, ammirate dall’aristocrazia medievale e dall’alto clero d’Europa –, rari esemplari di tiraz (Egitto, X secolo), tessuti con iscrizioni ricamate che evidenziano l’importanza della calligrafia in ambito islamico, nonché una serie di bruciaprofumi zoomorfi in metallo (Iran, IX-XIII secolo), a ribadire la centralità delle essenze nelle società islamiche medievali. info tel. 011 5211788; www.maotorino.it

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ANTE PRIMA


IN EDICOLA

LE CROCIATE

LA STORIA OLTRE IL MITO art. 1, c.1, LO/MI.

IOEVO MED Dossier

Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004,

MEDIOEVO DOSSIER

a tradizione storiografica circoscrive LA A RE NT RA SA il fenomeno delle crociate a un E LIB RRA periodo relativamente breve, compreso TE tra il 1096 e il 1270, nel quale furono otto le spedizioni organizzate dalla cristianità con l’obiettivo di acquisire (o riprendere) il controllo della Terra Santa. In realtà, vuoi per molte altre LA STORIA imprese concettualmente affini OLTRE IL MITO succedutesi nel corso dei secoli, vuoi per l’uso – mai come adesso frequente – del termine «crociata» anche in contesti geopolitici e culturali ben diversi, si può dire che l’epopea dei cruce signati, o almeno la loro evocazione, non si è mai conclusa davvero. di Franco Cardini con contributi di Riccardo Facchini, Davide Iacono, Antonio Musarra e Franco Suitner È questo uno dei fili conduttori del nuovo Dossier di «Medioevo», nel quale la lunga parabola avviata dal vibrante appello lanciato da papa Urbano II nel concilio di Clermont (in occasione del quale, tuttavia, il celebre «Dio lo vuole!» non sarebbe GLI ARGOMENTI stato mai effettivamente gridato...) viene magistralmente ripercorsa da Franco Cardini • Il concetto di guerra santa e dagli altri studiosi che firmano i contributi riuniti nel fascicolo. Quello che nacque • L’appello di Urbano II come un «pellegrinaggio armato» produsse • La conquista assedi, battaglie, fiumi di sangue e indicibili atrocità, ma consentí anche un proficuo di Gerusalemme contatto tra Islam e mondo cristiano, le cui • Vecchie e nuove tracce furono evidenti nell’evoluzione delle arti e delle scienze. Un fenomeno, dunque, interpretazioni dalle molteplici sfaccettature, descritte e • Medievalismo e crociate analizzate in maniera sistematica nelle pagine del Dossier. A conferma di quanto • I canti delle crociate lo studio sulle crociate continui a essere un cantiere aperto e siano ancora molte le questioni interpretative ancora da sciogliere.

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N°59 Novembre/Dicembre 2023 Rivista Bimestrale

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La battaglia di Ascalona, 18 novembre 1177 (particolare), olio su tela di Charles-PhilippeAuguste de Larivière. 1842 circa. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.

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costume e società

Un omone grosso, rosso e barbuto? di Claudio Corvino

Episodi fantastici e fatti reali, il vescovo di un’antica città dell’Asia Minore, un grafico pubblicitario americano: la leggenda di «Babbo Natale», cosí potente da scavalcare culture e secoli, sembra nutrirsi di elementi spuri, inverificabili. Eppure, piú di una traccia di verità esiste. Vediamo allora come, partendo da una magnifica chiesa barese, possiamo risalire alle origini – e alla fortuna – autenticamente europee e medievali di questo miracoloso personaggio 20

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Scomparto di predella di una pala d’altare raffigurante san Nicola che dona tre sfere d’oro come dote ad altrettante fanciulle, affinché possano sposarsi, tempera e oro su tavola di Lorenzo di Bicci. 1433-1435. New York, The Metropolitan Museum of Art.

U U

n mito, ogni mito, è una produzione incessante di storie che attraversano instancabilmente lo spazio e il tempo, aggiungendo nuovi tasselli a ogni generazione o semplicemente a ogni narratore. Da quando esiste Internet, le capacità mitopoietiche sono centuplicate: la velocità di

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circolazione di un racconto, il suo diventare leggenda (o bufala!), e da qui mito, non ha riscontri in epoche precedenti. Prendete per esempio (e il momento è propizio e adatto) la storia di Babbo Natale (o Santa Claus, Klaus, san Nicola di Bari o piú confidenzialmente Santa, come volete).

Provate a navigare tra i siti e le storie a lui dedicati e vedrete come a ogni link, a ogni indirizzo, la storia si gonfi e si distorca, diventando sempre piú bizzarra, stravagante, meravigliosa. Leggiamo che Santa Claus è figura moderna, disegnata da un grafico pubblicitario della Coca-

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costume e società

San Nicola guarisce un bambino, dipinto su tavola attribuito a un artista designato come Maestro dei Padiglioni, seguace di Vitale da Bologna. Seconda metà del XIV sec. Udine, Museo del Duomo.

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Cenni biografici

Il peccatore che si fece vescovo

In alto scene facenti parte di un ciclo con Storie di San Nicola dipinto a tempera su tavola da Ambrogio Lorenzetti. XIV sec. Firenze, Galleria degli Uffizi. Da sinistra, Il miracolo delle navi granarie, San Nicola ordinato vescovo di Mira e San Nicola resuscita un fanciullo.

Cola Company; che è in realtà l’evoluzione dell’antico san Nicola di Mira, poi di Bari, vescovo del IV secolo; che Santa vive in Finlandia con le sue renne, dove preparerebbe, insieme ai suoi operai-elfi, i regali per i bambini di tutto il mondo; che ci sarebbe un’associazione americana che studia la sua reale esistenza e ne cerca le prove. Come in una legenda aurea medievale, la vita di questo personaggio tende a fondere episodi fantastici con altri realissimi, e documentabili: se è vero che l’omone grosso, rosso e barbuto è frutto, nel 1931, dell’invenzione (meglio, della trasformazione) di un grafico statunitense, Haddon Hubbard Sundblom, la «leggenda» secondo la quale san Nicola avrebbe lanciato sacchetti d’oro dal camino, «dove erano appese

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San Nicola mette in salvo i pescatori, dipinto su tavola attribuito al Maestro dei Padiglioni. Seconda metà del XIV sec. Udine, Museo del Duomo.

Secondo il suo primo biografo, Michele Archimandrita (VIII-IX secolo), Nicola nacque a Patara, in Licia (nell’odierna Turchia) nel III secolo e il suo primo «miracolo» avvenne quando, ancora in fasce, cominciò a digiunare il giovedí e il venerdí. Le fonti lo descrivono già grande con il miracolo delle «Tre figlie», a cui seguirono il suo trasferimento a Mira e la prodigiosa elezione a vescovo: «Colui che entrerà – dichiarò una voce divina – prima di tutti nella chiesa, prendetelo ed eleggetelo per l’ufficio episcopale». Di buon mattino entrò un uomo e gli altri prelati che erano in ombra gli chiesero chi fosse. E lui: «Sono il peccatore Nicola, servo della vostra santità». Cosí divenne vescovo di Mira. Nicola dovette essere un tipo di poche parole, molto concreto, o almeno cosí sembrerebbe da due episodi a lui attribuiti: la distruzione del tempio di Artemide («I demoni maligni, non potendo resistere all’assalto del santo – scrive Simone Metafraste nel X secolo –, fuggivano con forti grida») e il fatto di aver schiaffeggiato durante il concilio di Nicea nientemeno che Ario, il noto fondatore dell’eresia ariana («Levò con empito in alto la destra, e diè schiaffo al perverso bestemmiatore, che tutto il conquassò», scrive Beatillo, nella sua Historia della Vita..., nel 1620). La sua vita continua tra atti eroici e generosi. Salva tre uomini che stavano per essere messi a morte ingiustamente (Praxis de stratelatis, o «Tribuni militari») e anche dei marinai durante una tempesta. Una volta a terra, gli scampati alla morte lo riconoscono in una chiesa dove erano andati a pregare. Gli altri miracoli piú noti sono descritti nelle pagine successive: «Navi granarie», e quell’oleum, la «manna di san Nicola», che ancora si può trovare nella basilica di Bari a lui dedicata.

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costume e società A sinistra icona raffigurante san Nicola, il cui ritratto è attorniato da quadretti con gli episodi salienti della sua vita. XVI sec. In basso dipinto su pergamena raffigurante san Nicola con il Vangelo in mano e due uomini prostrati ai suoi piedi, da un’edizione in lingua greca dell’Antico Testamento. XI sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

Chiesa medievale, la Riforma e la Controriforma. Il tutto diffuso, circondato e disciolto in circa mille anni di storia in un ambiente prima colto, monastico ed ecclesiastico, e poi in una religiosità popolare che aveva una confidenza coi santi e le loro icone, che noi a stento possiamo immaginare. Ma andiamo con ordine.

Salvate dalla strada

le calze», è piú difficile da provare, anzi impossibile, perché non la si troverebbe in alcuna biografia o nota degli Acta Sanctorum, i volumi che i pazienti Padri Bollandisti vanno scrivendo da circa quattro secoli sulle diverse vite dei santi. In Finlandia, poi, non è stato neanche di sfuggita e le renne, probabilmente il nostro Nicola non le vide mai. Tralasciamo poi la storia degli elfi... Una vera leggenda di Santa Claus esiste, a patto che in quel «vera» ci mettiamo la fantasia, la predicazione, la politica della

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Nicola, forse, fu vescovo di Mira, in Turchia, ma per una strana ironia del destino, della sua infanzia, lui che ne è il protettore, non si sa nulla. Sappiamo per certo che uno dei primi miracoli che gli vengono attribuiti è l’episodio delle tre ragazze, «Tre figlie», altrimenti detto Praxis de tribus filiabus: il santo avrebbe impedito che tre povere ragazze finissero sulla strada donando loro doti in danaro. Cominciamo dunque a intravedere alcune caratteristiche che gli saranno proprie nei secoli: Nicola interviene di nascosto, di notte, e dona qualcosa. Appare legato all’abbondanza e al donare anche in un altro miracolo, conosciuto come «Navi granarie» (Praxis de navibus frumentariis). Qui il santo, facendo scaricare del grano nel porto della sua città, ridotta alla fame, fa in modo che il carico, una volta giunto a destinazione, ne contenga sempre la stessa quantità. Ciò che contribuirà alla diffusione del suo culto in Europa fu, piú della fama e dei miracoli, quel misterioso liquido, un tempo chiamato oleum, che conosciamo come «manna di san Nicola»: dicembre

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«Dopo che il Beato Nicola – scrive Nicola Falcone, vescovo di Santa Severina (Catanzaro), nel 1751 –, lasciando questo mondo, migrò al Signore, la tomba in cui il suo venerabile corpo fu reposto, non smise mai di stillare fino a oggi un liquido oleoso. Ivi si recavano folle di malati, ciechi, paralitici, sordi e muti, e quanti erano oppressi da spiriti immondi. Una volta unti col sacro liquido tornavano al loro pristino stato di salute. Io stesso, trovandomi in uno stato miserando, per due volte presi una pozione di quella linfa, mentre accanto alla tomba invocavo Nicola di intercedere per me presso il Signore».

Il furto delle spoglie

Cosí la fama di Nicola, delle sue generose donazioni e della sua manna cominciò a diffondersi già molto tempo prima che i 62 marinai baresi ne trafugassero le ossa dalla tomba di Mira alla loro città, nel 1087. Anzi, proprio in virtú di quella fama i Baresi ne vollero il corpo, e, per meglio accoglierlo, trasformarono il Palazzo del Catapano (era

MEDIOEVO

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In alto Educazione di san Nicola bambino, scena tratta dalle Storie di San Nicola da Tolentino affrescate da maestranze riminesi forse capeggiate dal pittore Pietro da Rimini nel Cappellone di S. Nicola a Tolentino. Inizi del XIV sec.

1’8 luglio del 1087), nella stupenda basilica di S. Nicola che possiamo oggi ammirare a Bari. Non ci fu cronista di quella generazione che non ne riportasse la notizia: praticamente san Nicola ebbe un’eco e una risonanza planetarie. Il suo destino era certamente quello di essere vicino agli scolari, e ai ragazzi in genere: Nicola aveva già da tempo cominciato a entrare nelle scuole, nei cori, nei

Miniatura raffigurante san Nicola che resuscita tre fanciulli, da un Libro d’Ore noto come Grandes Heures d’Anne de Bretagne. 1503-1508 circa. Parigi, Bbiliothèque de France. I bambini escono da una tinozza, alludendo alla leggenda secondo la quale, prima del miracoloso intervento del vescovo di Mira, sarebbero stati uccisi da un oste malvagio, che li aveva quindi messi in salamoia.

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costume e società monasteri. Una Historia composta da Reginaldo di Eichstätt nel X secolo contribuí, e di molto, a questo ingresso. Il testo era unito a una gradevolissima melodia in neumi (i segni grafici della notazione musicale medievale, n.d.r.). Visto che il testo che possediamo non pare particolarmente originale o innovativo, il suo successo fu di certo dovuto alla musica. Fatto sta che, grazie a quella Historia, Reginaldo ottenne la tanto sospirata nomina episcopale, nel 966. Chi tentava di arginare il «fenomeno san Nicola» poteva anche essere punito dallo stesso santo, come accadde al priore Iterio, del monastero di Sens. Questi, narra un manoscritto dell’XI secolo, si oppose fermamente alla richiesta dei suoi

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Qui Nicola non sembra un santo, ma un normalissimo e scrupoloso (per quei tempi!) docente. In piú, ricordiamo che grande devoto del santo fu anche Godehard, vescovo di Hildesheim (il san Gottardo a cui fu dedicato il valico alpino), il piú celebre riformatore germanico nel campo dell’istruzione. Schiere di discepoli, a loro volta divenuti maestri, fiorirono all’ombra del suo enciclopedico sapere e, insieme a

questo, ispirò loro anche la devozione verso san Nicola. Non è un caso che due suoi allievi, Otloh e Wolferio, scrissero due importanti biografie del santo. Insomma, la fama del Barese divenne tale che Cesario di Heisterbach († 1240) nel suo Dialogus miraculorum ebbe a scrivere che «è rappresentato nelle chiese, sia nelle sculture che nei dipinti, piú frequentemente di qualsiasi altro prelato». Proprio nel monastero di Hildesheim fu composto un manoscritto, ora al British Museum di Londra, che contiene due tra i piú antichi miracoli in forma drammatica, conosciuti come miracle plays: uno è «Tre figlie», che già conosciamo, l’altro «Tre chierici», un nuovo miracolo attribuito a

In alto icona di produzione pugliese con il ritratto di san Nicola. A sinistra piccola statua reliquiario di san Nicola. XIV sec.

Nicola. È la storia di tre studenti che chiedono ospitalità a un oste cattivo che li deruba, li ammazza e li fa a pezzetti mettendoli in un barile di salamoia. San Nicola passa di lí, scopre tutto e resuscita i tre bambini. Probabilmente ci troviamo di fronte a un componimento scolastico, un semplice

cantori di introdurre la nuova liturgia, da lui considerata «opera da menestrello». Ma una notte venne visitato da san Nicola. che cominciò a percuoterlo «nel modo al quale di solito ricorrono i maestri per insegnare l’alfabeto a un ragazzo svogliato».

Severo e sapiente

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folclore

Fra corni, fruste e campanacci... Prima di quella americana, anche la tradizione popolare europea si è presto impadronita della figura di san Nicola, adattandola a feste e cerimonie già preesistenti. È il caso delle isole Frisone, nei Paesi Bassi, dove una variante di san Nicola, i Sunderums (da Sunder Klaas e KlaasOom: Zio Klaas) si aggirano con i loro costumi fatti di erica, di erbe, conchiglie, piume di gallina, plastica, mentre altre maschere soffiano nei buffelhoorns, corni lunghi tre metri. Altri esseri paurosi, piú

In alto Sunderklaas, la versione olandese di Santa Claus. A sinistra immagini dei riti che si svolgono a Küssnacht (Svizzera) alla vigilia della festa di San Nicola: uomini muniti di fruste allontanano gli spiriti maligni e il corteo degli Iffelträger, con le loro mitre di cartone cesellato.

giovani e aggressivi, chiamati baanvegers, spaventano le ragazze e i bambini, che sono costretti talvolta a rimanere a casa per evitare sonore scudisciate. In particolare nell’isola di Ameland, la sera del 5 dicembre, dopo la visita pomeridiana di Ouwe Sunderklaas, il vecchio san Nicola, e di Pietro il Nero, comincia una vera e propria caccia alle donne. Nei due villaggi di religione cattolica dell’isola, verso le sei della sera gli uomini (i soldati del santo) escono dai loro nascondigli e, abbigliati come esseri infernali con lunghe cappe di filaccia di carta e completamente irriconoscibili, prendono letteralmente possesso dei paesi. Il corteo viene annunciato dal chiasso e dalla confusione provocati dalle catene, dai campanacci e dagli strumenti a fiato, ricavati da corni di bue. Gridare, correre e rincorrersi sfrenatamente, litigare o battersi ritualmente, ingollare

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alcol: tutto è permesso agli uomini in questa sera. Guai alle donne che si avventurano per le strade: certamente saranno fatte oggetto di ogni scherzoso tormento da parte di queste maschere infernali. A Küssnacht, in Svizzera, alla vigilia di San Nicola uomini muniti di fruste hanno il compito di aprire il corteo e, forse, di allontanare gli spiriti maligni. Seguono gli Iffelträger, vestiti di bianco e con una cintura rossa, che portano grandi mitre di cartone cesellato, illuminate all’interno da una candela. La processione è imponente e quasi mette in secondo piano il festeggiato, circondato dagli orchi, suoi accoliti tutti vestiti di nero. Seguono diverse centinaia di uomini in doppia fila che fanno risuonare i loro campanacci a ogni passo, creando un baccano veramente degno delle anime venute dall’aldilà. È il caso di dire, un «baccano infernale»!

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costume e società Iconografia

Le molte trasformazioni di un santo austero e veneratissimo L’aspetto, meglio le icone, di san Nicola sono da sempre state un elemento essenziale del suo culto e della sua diffusione. Molte sono le storie e i miracoli circolanti intorno a esse, cominciando da quello conosciuto come «Icona in Africa», dove l’immagine fece da garante e custode dei tesori di un musulmano che, grato per aver ritrovato la sua fortuna che gli era stata rubata, si convertí al cristianesimo. Cosí anche l’«lcona insanguinata» di Costantinopoli, che sanguinava dal colpo infertogli da un monaco e altre, «specializzate» nell’aiuto delle partorienti o nella guarigione di malati. Ma le trasformazioni della sua icona ebbero un’accelerazione improvvisa nel XIX secolo, quando in pochi anni mutò completamente. IN VOLO SUI TETTI DELLA CITTÀ Nel 1809 Washington lrving («un Americano che aveva la penna in mano anziché sulla testa», secondo il suo biografo), pubblicò una Storia di New York con lo pseudonimo di «Knickerbocker». Tra fantasia e realtà, lo scrittore creò una mitologia «americana», raccontando della nave che trasportava gli immigrati olandesi con una polena a forma di san Nicola il quale, una volta a New York, si animava e volava sui tetti della città con un carro guidato dal suo cavallo. Scivolando nei camini offriva regali ai bambini: era nato Santa Claus. DONI E CASTIGHI In seguito, il 6 dicembre del 1810, John Pintard, nipote del patriota americano Lewis Pintard, decise di onorare il santo facendo incidere una stampa a proprie spese. Una di quelle che gli Olandesi chiamavano bilderbogen. In questa,

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disegnata da Alexander Anderson, vediamo un san Nicola smilzo, calvo e con la barba che indossa le vesti episcopali classiche, ha una frusta in mano e accanto un alveare e un cane. Come si vede, con lui sono due bambini, una bimba sorridente e con il grembiulino pieno di cose buone, mentre l’altro piange, perché evidentemente è stato punito dal frustino che ha ancora nella tasca, per ricordo. È qui, difficilmente riconoscibile, Santa Claus, generoso donatore ma anche temuto castigatore. QUELLA VISITA GENEROSA... A causa delle differenti tradizioni, però, non c’era accordo sul giorno della distribuzione dei regali: Capodanno, 25 dicembre o il classico 6. A mettere accordo tra le date furono i versi di Clement Clarke Moore, A Visit from St. Nicholas, del 1822. Serissimo docente di letteratura greca e orientale al Seminario Teologico Generale di New York, Moore scrisse per i suoi numerosi figli un poemetto in cui narrava della generosa visita di san Nicola alla vigilia di Natale. L’anno dopo, i suoi versi furono dati al direttore del Troy Sentinel, quotidiano newyorkese, che li pubblicò il 24 dicembre, chiamando il santo «Santa Claus». Fu un successo inimmaginabile! Da allora Nicola viene volando a Natale, ed è chiamato Santa Claus. E FU BABBO NATALE Thomas Nast, nel 1862 e sempre a Natale, disegnò sull’Harper’s Weekly un «Santa» particolare: con un pellicciotto a stelle e strisce, basso e corpulento andava al fronte a visitare i soldati nordisti della Guerra Civile (vedi foto alla pagina accanto). Questa fu l’icona moderna di Santa Claus. Un’icona che Haddon Hubbard Sundblom, il disegnatore della Coca-Cola, alzò di molti centimetri e rese piú rubiconda e corpulenta, facendole indossare il «tradizionale» vestito rosso. dicembre

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Tavola di Thomas Nast raffigurante Santa Claus che visita i soldati nordisti impegnati nella guerra civile, scelta come copertina della rivista Harper’s Weekly del 3 gennaio 1863.

esercizio di grammatica nel quale un gruppo di alunni aveva avuto il compito di portare la nuova leggenda, già conosciuta, in versi. San Nicola legò a sé il mondo delle istituzioni scolastiche anche in altri modi. Il 6 dicembre, giorno in cui viene ricordato, gli studenti interpretavano il vescovo di Bari e i miracoli da lui compiuti. È interessante leggere le «note di regia» di tali «miracoli»: «Un figurante, nelle sembianze di Nicola, prenda il ragazzo, che tiene ancora in mano una coppa di vino fresco, e lo conduca alle porte della chiesa; quindi scompaia inosservato». Qui sembra di vedere, in nuce, quello che sarà l’atteggiamento di Santa Claus: scendere giú dal camino con i regali, e quindi scomparire inosservato. Anzi, quante volte è stato chiesto ai bambini di chiudere gli occhi, altrimenti il mitico donatore (come pure la sua collega, la Befana) non sarebbe giunto?

Folli e «vescovelli»

Nicola era il protagonista anche di altre feste, diffusissime in tutta l’Europa medievale: le feste «dei folli», che si tenevano durante il periodo invernale (dal 6 dicembre, al 28, i Santi innocenti, al 6 gennaio...) e durante le quali venivano parodiate e stravolte le gerarchie ecclesiastiche e i loro rituali. Chi era ultimo diventava vescovo («dei folli», «del nulla», «episcopellus»), e questi diventava un comune mortale che spesso doveva servire quella banda di matti che faceva festa. Al di là della follia, quella che osserviamo è una celebrazione liturgica vera e propria. Il fatto che poi abbia finito con l’assumere ca-

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ratteri burleschi e col degenerare in un Carnevale anticipato, non nasconde il principale motivo ispiratore: l’esaltazione del Bambino, di tutti i bambini, primo fra tutti Gesú, e quindi i deboli e coloro che vivono senza protezione; e l’esaltazione degli umili, dei deboli sul piano sociale, deboli che molti, durante l’anno, sbeffeggiano. Questa inversione dei ruoli possiede anche un aspetto piú «politico»: la festa «dei folli», sorta di esperienza estatica transitoria,

abbassando ciò che è in alto e innalzando ciò che è in basso, riafferma in realtà il solido principio gerarchico. Il vescovello, l’abate «del nulla» o dei folli potevano comandare e avere il potere, ma solo in quel periodo o in quel giorno. Il resto dell’anno tutto sarebbe tornato alla normalità: «Facciamo queste cose – scrivevano nel 1444 alcuni ecclesiastici francesi, per difendere la loro festa dei folli – per burla e non sul serio, come è antica usanza, di modo che una volta all’anno l’insensatez-

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costume e società za che è innata in noi venga fuori ed evapori. Molte volte gli otri di vino e le botti non scoppiano forse se non si apre di tanto in tanto uno spiraglio? Anche noi siamo delle vecchie botti». Passano gli anni, e questa sorta di «patronato» sui folli e sui ragazzini diviene imbarazzante: nel 1325 lo statuto del Collège de Navarre dell’Università di Parigi impone che «alle feste di San Nicola e della Beata Caterina nessun dramma sconveniente può essere rappresentato». E nel 1473 il concilio di Tole-

do, con toni durissimi, condanna «la maldestra tradizione che prevale a Natale, Santo Stefano, San Giovanni, nel giorno degli Innocenti e in altri, di introdurre in chiesa, durante le messe solenni, folletti, mostri, e altre cose inopportune, di tumultuare come indemoniati, di gridare, cantare e raccontare storie irriguardose che degradano l’ufficio e distolgono lo spirito della gente dalle cose pie». La fama del nostro vescovo, dal Cinquecento in poi, sembra subire un declino. Lutero, in par-

Babbo Natale con il suo carico di doni in una cartolina dei primi del Novecento, basata sul Merry Old Santa Claus, la xilografia realizzata da Thomas Nast nel 1862 che «inventò» la versione moderna del personaggio.

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ticolare, ce l’aveva a morte con le chiassate e le esagerazioni legate al culto di san Nicola, salvo poi scoprire, attraverso i suoi libri contabili del dicembre 1535, che spendeva belle cifre per i figli proprio nel giorno di San Nicola: debolezze di un padre! Da allora in poi, le tradizioni legate al santo cominciarono a essere bandite dalle cattedrali e si rinchiusero tra le mura domestiche, dove, nel giorno a lui dedicato, i bambini ricevevano regali (o punizioni).

L’arrivo in America

L’emigrazione in America dei suoi fedeli o semplici ammiratori cattolici o protestanti, che comunque ne avevano mantenuto le tradizioni «domestiche», fece il resto. Nicola era già nel cuore di Cristoforo Colombo, se non di tutto l’equipaggio, quando questi entrò nel porto di Bohio ad Haiti, il 6 dicembre del 1492, ribattezzandolo con il nome di «San Nicola». E tanti anni dopo, nel 1626, una consolidata tradizione americana vuole che alcuni emigrati olandesi giungessero in America a bordo della nave Goede Vrowe, con la polena a forma di san Nicola, e comprassero dai nativi Irochesi l’isola di «Manahatta», per 24 dollari. Lí sorse il villaggio della New Amsterdam, che oggi conosciamo come New York. E lí gli Olandesi eressero una statua a san Nicola. Le sue trasformazioni saranno ancora tante in epoca moderna, e tutte affascinanti, ma quando cominciò a formarsi l’immagine del Santa Claus, paffuto, rubicondo e sorridente, memorie mai sopite delle antiche tradizioni folcloriche ed ecclesiastiche europee e mediterranee fecero buon gioco, ed entrarono sottilmente anche in quei tratti e ritratti di coloro che lo resero famoso: disegnatori come Thomas Nast e Haddon Hubbard Sundblom, per non citarne che alcuni. dicembre

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A Una storia bella come una fiaba di Alessandro Bedini

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Nomi esotici, vesti sontuose, doni dall’alto valore simbolico... Sono le caratteristiche dei Magi, i tre re che, secondo la tradizione cristiana, si sarebbero messi in viaggio dalla lontana Persia per rendere omaggio a Gesú, il Re dei Re appena venuto al mondo. Ma la loro storia, in realtà, ha radici assai piú antiche, se a raccontarne le gesta vi fu, fra i tanti, perfino Erodoto...

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ino dal I secolo Betlemme, dall’ebraico Bait Lahm, Casa del Pane, il luogo della Natività, era divenuto mèta di pellegrinaggio insieme con la vicina Gerusalemme. Nel 135 d.C., quando l’imperatore Adriano fece distruggere i piú importanti monumenti sacri della città santa, tali sia per gli Ebrei che per i cristiani, è molto probabile che lo stesso trattamento sia stato riservato anche a Betlemme. Lí il culto della Natività doveva essere già cresciuto, tanto che l’imperatore dispose che nella città fosse introdotto il culto di Adone, dio siro-fenicio, amante di Afrodite, e questo per cancellare ogni memoria di pratiche devozionali che venivano ritenute pericolose per l’impero. Alla luce di questa considerazione di natura storica, dobbiamo chiederci in che modo si fosse potuto tramandare il culto dei Magi, che peraltro vengono citati, almeno a livello canonico, solo nel Vangelo di Matteo.

Il Vicino Oriente al tempo di Gesú

Tentiamo allora di proporre un breve excursus della condizione antropologico-religiosa e culturale del Vicino Oriente e non solo, al tempo di Gesú. Prima di tutto occorre mettere in rilievo come, in quella regione, vi fosse un evidente sincretismo di fedi religiose, tradizioni, culture. In quell’epoca i Magi venivano considerati in diversi modi: nel mondo ellenico essi erano visti di volta in volta come sacerdoti di una religione vera e propria appartenenti a una delle sei tribú che abitavano l’area nord-occidentale dell’attuale Iran, la Media, oppure venivano piú semplicemente definiti come adoratori del fuoco. I Magi, in greco Màgoi, erano custodi di culti misterici. Ma lasciamo per un momento parlare le fonti. L’Adorazione dei Magi nel Dreikönigenschrein (Reliquiario dei tre re). Colonia, Duomo (vedi descrizione completa alle pp. 40-41).

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storie magi Nel suo De Iside et Osiride, Plutarco introduce l’elemento astrologico e divinatorio. Definisce quello dei Magi un culto daivico (cioè demoniaco), sviluppatosi nella regione della Caldea, ricca di astrologi, ma anche di culti demonolatri, che riportano il termine mago al significato che oggi siamo soliti conferire a questo termine. Insomma in lingua greca màgos indicava chiunque praticasse arti sovrannaturali: l’interpretazione dei sogni, la profezia, l’astrologia. In ambito giudaico il mago era equiparato a un ciarlatano, a un ingannatore. Gli Ebrei conoscevano i maghi persiani – ne è testimone tra gli altri Filone d’Alessandria –, ma consigliavano, per cosí dire di stare loro alla larga. I magusaios erano considerati anche come riformatori della religione mazdaica rispetto allo zoroastrismo: il culto degli astri che rappresentava il fondamento delle loro credenze, permetteva infatti di superare il rigido dualismo mazdaico bene-male, lucetenebra, riferendolo a un principio originario e unico, Zaman Akanarak, dal quale provengono tutte le cose del creato. Tale principio è il Tempo Increato o Tempo Infinito, che è caratterizzato da un andamento ciclico, è suddiviso in ere che periodicamente si rigenerano grazie al Soccorritore Divino. Vi è dunque una vera e propria attesa messianica che troviamo non soltanto nelle religioni monoteiste, ma anche in quelle induiste e mitraiche. In particolare, nella tradizione mazdaica l’ultimo dei soccorritori, il Saoshyant, sarebbe nato da una vergine discendente di Zarathustra e avrebbe redento l’intero genere umano. Le analogie, che già abbiamo intuito, non sono finite qui. Nella parte piú antica dell’Avesta, il testo sacro zoroastriano, e piú precisamente nelle Gatha, ossia gli inni sacri, la parola màga indica il dono: tanto nel significato propriamente sacerdotale quanto in quello del sapere e della divina conoscenza. Ma torniamo per un attimo alle fonti piú arcaiche: Erodoto afferma che i màgoi erano sacerdoti della Media che officiavano nel culto persiano. Plutarco, già citato in precedenza, aggiunge che Temistocle – il generale ateniese che di Persiani se ne intendeva parecchio –, durante il suo esilio sarebbe stato iniziato ai misteri dei màgoi. Si può in sintesi affermare che nell’area asiatico-mediterranea dei tempi di Gesú Cristo la scienza dei màgoi era strettamente collegata ai culti mitraico-zoroastriani e, in particolare, alla taumaturgia e all’astrologia.

Personaggi misteriosi

Questa premessa serve a inquadrare il problema, sia dal punto di vista geografico che di antropologia religiosa e se vogliamo storica, indispensabile per capire qualcosa di piú di questi per molti versi misteriosi personaggi, entrati a far parte del nostro universo im-

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maginario, ossia i Magi. Come già ricordato, il passo evangelico di Matteo è l’unico, tra i Vangeli sinottici, per gli Apocrifi la questione cambia, a fare riferimento ai saggi venuti dall’Oriente. Facciamo alcune considerazioni: il Saoshyant dei mazdei è un bambino nato da una vergine; la stella è un segno astrologico che rientra nella sfera dei màgoi e che, tradizionalmente, veniva richiamata per indicare la nascita di personaggi particolarmente importanti; i doni portati dai màgoi sono dicembre

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Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo. Particolare di uno dei grandi mosaici parietali, con l’Adorazione dei Magi. 561-568. Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, giunti a Betlemme dall’«Oriente» per rendere omaggio al «re dei Giudei», vestono abiti persiani e indossano il tipico berretto frigio.

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Quei corpi prodigiosamente incorrotti «Persia è una provincia grande e nobele certamente, ma l’presente l’ànno guasta li Tartari. In Persia è la città ch’è chiamata Saba, da la quale si partiro li tre re ch’andare a adorare Dio. quando nacque. In questa città son seppaelliti gli tre Magi in una bella sepoltura, e sonvi ancora tutti interi con barba e co capegli: l’uno ebbe nome Beltasar, l’altro Gaspar, lo terzo Melchior. Messer Marco dimandò piú volte in quella cittade di quegli tre re: niuno gliene seppe dire nulla, se non che erano tre re seppelliti anticamente» (da Il Milione di Marco Polo).

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storie magi La lastra dell’altare del duca longobardo Ratchis su cui è scolpita a rilievo la scena dei Magi che recano i loro doni a Gesú. 737-744. Cividale del Friuli, Museo Cristiano.

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Nella pagina accanto placca in avorio di produzione bizantina con l’Adorazione dei Magi, dalla Tessaglia (Grecia). 500-550 circa. Londra, British Museum.

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riconducibili alla condizione di màga, che abbiamo già visto, ovvero del dono sacerdotale. Per quanto riguarda l’Oriente, genericamente indicato da Matteo, si può pensare alla Caldea, ossia alla Mesopotamia, nella quale operavano appunto i noti indovini caldei, mentre, come osserva Franco Cardini «La sostanza dei doni portati provenivano dal Meridione, essenzialmente dalla Penisola Arabica. Ma l’esegesi biblica ci porta piú lontano, nei Salmi (72) si legge infatti: “Il re di Taris e le isole offrono i loro doni, i re d’Arabia e di Saba portano i loro tributi. Si prostrano davanti a lui tutti i sovrani”». Isaia scrive: «Una moltitudine di cammelli ti sommergerà, dromedari di Madian e di Efa; tutti giungano da Saba, portano oro e incenso, proclamando le lodi del Signore». La pur stringata narrazione evangelica relativa ai Magi, ci porta comunque a ipotizzare che i riferimenti geo-culturali di Matteo fossero ben presenti e comprensibili per gli uomini del I-II secolo. Sulla scia del testo di Matteo, ma anche del silenzio degli altri sinottici sulla questione dei Magi, nel mondo cristiano si andarono formando due tendenze: la prima è da attribuirsi ai cristiani di origine ebraica, per i quali il fatto che i primi adoratori del Cristo fossero pagani, dediti all’astrologia e per di piú cultori di false divinità, era a dir poco imbarazzante. Il secondo orientamento, proprio di coloro che o non avevano origini ebraiche o che comunque le consideravano superate, sosteneva che i Magi sarebbero stati degli antesignani che avevano mostrato alle genti come il Cristo fosse venuto per dare compimento a tutte le tradizioni, compresa quella ebraica ovviamente, in quanto Messia.

I Vangeli Apocrifi

Di fondamentale importanza, come già abbiamo accennato, nella formazione di temi e modelli di natura folclorica, sono i testi apocrifi. Il termine apocrifo è la traslitterazione di un termine greco che rimanda al concetto di «ciò che è tenuto nascosto» o «ciò che è tenuto lontano – sottinteso dall’uso – nel caso specifico liturgico». Per quanto attiene ai Magi, i testi apocrifi

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da tenere presenti sono: alcuni passi del Protovangelo di Giacomo, ossia di Giacomo il Minore, fratello di Gesú; il Vangelo dell’Infanzia Armeno; il Vangelo dell’Infanzia Arabo-Siriaco e lo Pseudo-Matteo. Tali testi rappresentano una eccellente testimonianza in grado di mostrare le tappe del cammino attraverso il quale si è andato affermando il mito dei Magi, la cui origine è da ricercarsi al di fuori dell’ambito prettamente cristiano. Pur con i limiti, dettati innanzitutto dalla non coincidenza di queste fonti relativamente alla leggenda che ha per soggetto i Magi, si può affermare che questo materiale ebbe una genesi siriaco-iranica, da collocarsi verosimilmente nel corso del V secolo. Tra le opere piú significative merita una particolare attenzione il Libro della caverna dei tesori, di origine siriaca, che subí diverse variazioni nel VI secolo a opera di cristiani monofisiti e nestoriani. Di questo testo esiste anche una traduzione araba, databile al X secolo, denominata Kitab al-Magall. Un’altra opera significativa per la costruzione della leggenda dei Magi è l’Opus imperfectum in Matthaeum, dalla quale deriverebbe la Cronaca di Zuqnin che risale all’VIII secolo. Una sintesi assai puntuale delle leggende orientali sui Magi è data dall’Historia Trium Regum di Giovanni di Hildesheim, siamo in pieno XIV secolo, che raggruppa le fonti apocrife e, piú in generale, leggendarie riferite ai Magi. Ma cerchiamo, seppur brevemente, di entrare nei dettagli. Il Protovangelo di Giacomo è un testo greco che risale, molto probabilmente, al II secolo. Ci fornisce alcune notizie di rilievo: in primo luogo Gesú sarebbe nato in una grotta e non in una capanna; la stella, grande e luminosa piú di tutte le altre, si sarebbe fermata sopra la grotta. Da notare che a guidare il cammino dei tre sapienti orientali, cultori degli astri, è per l’appunto una stella e non un segno diverso, come per esempio l’angelo che guida invece i pastori e che viene citato anche nel Vangelo di Luca, in discordanza con Matteo. Dal Protovangelo di Giacomo ha origine un altro testo, lo Pseudo-Matteo, che compare in versione lati-

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La lunetta del portale settentrionale (detto «della Vergine») del Battistero di Parma, raffigurante la Vergine con il Bambino assisa in trono, tra i Magi e san Giuseppe. Nella fascia sottostante sono rappresentate scene dalla vita di san Giovanni Battista. L’apparato scultoreo, cosí come il progetto dell’intero edificio, si deve a Benedetto Antelami. 11961216.

na intorno al IX secolo, anche se alcuni studiosi lo vorrebbero debitore di un testo piú antico scritto in aramaico. Qui troviamo informazioni assai precise. Innanzitutto viene affermato che i Magi incontrarono Gesú due anni dopo la sua nascita e non dopo tredici giorni. Fissa inoltre a tre il numero dei Magi, in relazione ai doni che ciascuno portava. Secondo una serie di testi in latino scoperti solo nel secolo scorso, ma sicuramente molto antichi – noti come codici Hereford-Arundel –, si trova la piú dettagliata descrizione dei Magi: il colore scuro della pelle, i vestiti di tipica foggia iranica, i copricapi frigi. Secondo tali codici, i Magi sarebbero giunti a Betlemme il tredicesimo giorno dalla nascita del Salvatore, a differenza di quanto sostenuto nello Pseudo-Matteo. Giungono anch’essi a una grotta guidati da una stella luminosissima, definita «la parola di Dio». Ancora piú complesso, riguardo ai Magi, è il Vangelo Arabo-Siriaco dell’Infanzia, del quale conosciamo due versioni, una araba e l’altra latina. Vi si narra che nella notte in cui nacque Gesú, un angelo apparve in Persia, dove gli adoratori del fuoco stavano celebrando una grande festa. Erano i Magi, che nello stesso momento videro una stella straordinariamente brillante e decisero cosí di partire, poiché avevano capito che era nato il Re dei Re. In questo testo una delle varianti piú significative è che i Magi sono figli dei re di Persia, e quindi sarebbero principi. Sia nella tradizione siriaca che in quella armena compaiono eloquenti analogie col mazdeismo zarathustriano.

Tra storia e leggenda

Sta di fatto che la leggenda o se si preferisce la storia dei Magi si era andata definendo e sviluppando tra il V e il IX secolo in Oriente e, piú precisamente, nella regione compresa tra Siria, Armenia e Caldea, un’area di grande importanza per il cristianesimo delle origini, e non solo. Tale fiorente letteratura, che già abbiamo definito apocrifa, testimonia degli scambi e delle contaminazioni tra diverse tradizioni religiose, in specie tra quelle mitraiche e gnostiche e le cristiano-giudaiche. Per la costruzione della leggenda dei Magi, della quale stiamo ripercorrendo a grandi linee il cammino, è di notevole importanza il già citato Libro della Caverna dei Tesori, un testo siriaco che viene fatto risalire al V-VI secolo. Qui vengono precisati i nomi dei Magi, vengono qualificati come re, si conferma che sono persiani e che due anni prima della nascita di Cristo hanno avuto la premonizione dell’evento, sempre tramite l’apparizione di una stella. I nomi riportati sono: Hor, re di Persia; Basander, re di Saba; Karsundas, re dell’Oriente. Sia il Libro della Caverna dei Tesori che il testo da esso dipendente, la Cronaca pseudoisidoriana, precisa-

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

no che le denominazioni sono di origine persiana, e che essi conoscono le profezie legate all’avvento del Salvatore. Ogni mese salgono sulla loro montagna sacra per scorgere il segno della nascita del Re dei Re. Seguono il racconto del viaggio verso Betlemme e la descrizione dei doni, e inoltre vengono messi al corrente da Gesú stesso, riguardo la sua morte e resurrezione. Al ritorno nel loro paese cominciano a diffondere la Buona Novella e vengono battezzati dall’apostolo Tommaso.

Sulla via dell’Incenso

Tutta questa serie di fonti si affermarono progressivamente anche in Occidente. I testi che abbiamo sommariamente esaminato, collocano dunque i Magi in un Oriente assai piú definito di quello indicato genericamente da Matteo; l’area interessata è quella della cosiddetta via dell’Incenso,che collegava il Sud della Penisola Arabica – grosso modo corrispondente all’odierno Yemen – alle sponde del Mediterraneo. Da lí transitavano le preziose merci che giungevano dalle Indie: aromi, spezie, pietre preziose. A partire dal III secolo i Magi cominciarono a interessare gli apologisti e i Padri della Chiesa. Questo ebbe ricadute anche in ambi-

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Sulle due pagine il Dreikönigenschrein (Reliquiario dei tre re), la spettacolare arca voluta dal vescovo di Colonia Filippo di Heinsberg per accogliere i sacri resti dei Magi, portati da Rinaldo di Dassel da Milano nella città tedesca nel 1164 per volere di Federico Barbarossa. L’opera fu commissionata all’orafo francese Nicolas de Verdun e la sua lavorazione, piú volte interrotta, venne ultimata solo nel 1220. Colonia, Duomo.

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La traslazione in Germania Secondo un’antica tradizione, i corpi dei Re Magi furono ritrovati da sant’Elena, madre di Costantino, nei pressi di Gerusalemme. Le reliquie furono portate a Costantinopoli e lí restarono fino a che Eustorgio, vescovo di Milano, non le avrebbe portate nella sua città. Tuttavia, tale tradizione non è confermata storicamente. Nel 1158 le preziose reliquie sarebbero state ritrovate in una vecchia cappella, nei pressi di Milano, come testimonia l’abate Roberto di Torigny. Da Milano e piú precisamente dalla basilica di S. Eustorgio le reliquie dei Magi sarebbero state traslate a Colonia nel 1164, dal vescovo della città Rainaldo di Dassel, per volere di Federico I Barbarossa, dopo che l’imperatore aveva assediato la città. Ancora oggi tali reliquie sono conservate nel Duomo di Colonia, contenute in una preziosa arca.

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storie magi Adorazione dei Magi, tempera su tavola di Gentile da Fabriano. 1423. Firenze, Galleria degli Uffizi. La pala d’altare fu commissionata dal ricco banchiere e raffinato amante delle arti Palla Strozzi per la cappella di famiglia situata nella chiesa fiorentina di S. Trinita.

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to liturgico: fino al IV secolo, infatti, il Natale veniva festeggiato il 6 gennaio, facendolo coincidere con l’Epifania, ovvero con la regalità del Cristo, strettamente collegata al mito dei Re Magi. Tertulliano e Cesario di Arles, tra il V e il VI secolo, affermano con sicurezza che i Magi erano re, molto probabilmente anche per sottrarli dall’accusa che fossero negromanti o ciarlatani. Pare ormai certo che il primo ad affermare che i Magi erano tre sia stato Origene (filosofo e teologo, forse alessandrino, attivo fra il II e il III secolo, n.d.r.). Ciò è confermato dai Sermones di Leone I Magno, risalenti V secolo. Il 6 gennaio diventa dunque una festività di fondamentale importanza nella liturgia cristiana. In Gallia e in Spagna il 6 gennaio si impartiva il Battesimo. Come abbiamo visto in Oriente Natale ed Epifania coincidevano, e anche dopo che la Pars Occidentis dell’impero adottò la data del 25 dicembre come ricorrenza della natività, sovrapponendola alla festa romana del Sol Comes Invictus. In Oriente la data del Natale rimase fissata al 6 gennaio, in coincidenza con l’Epifania, ma anche con il miracolo delle nozze di Cana, il primo operato da Gesú. In Occidente invece il 6 gennaio, festa dell’Epifania, diventò la celebrazione solenne della regalità del Cristo e quindi collegata strettamente alla leggenda dei Re Magi.

Rappresentanti dell’umanità

Nella tradizione patristica la triplice offerta che i saggi dell’Oriente portano al Bambino simboleggia la triplice natura di Gesú: l’oro lo qualifica come Dio, la mirra come essere umano, l’incenso come divinità, come santo, in quanto separato dal peccato. Secondo l’Excerptiones Patrum, testo attribuito a Beda il Venerabile – siamo tra il VII e l’VIII secolo –, i Magi rappresenterebbero l’intera umanità, discendente dai figli di Noè: Sem, l’Asia; Japhet, l’Europa; Cam, l’Africa. Quanto ai nomi dei tre saggi, sulla scia del Vangelo Armeno dell’Infanzia, in un manoscritto databile al VII-VIII secolo, la forma nominativa dei Magi è: Bithisarea, Melchior e Gathaspa. Nel IX secolo, il cronista Agnello Ravennate li chiama Melchior, Caspar e Balthasar. Secondo Agnello, Gaspare offre l’oro, è vestito con indumenti di colore blú tendente al viola, che rappresenta lo stato coniugale; Baldassarre offre l’incenso, indossa una veste di colore giallo, simbolo di purezza; infine Melchiorre offre la mirra, che richiama l’umanità del Salvatore, la sua veste è screziata e simboleggia la penitenza. Il tema del significato dei doni è assai complesso e fonte di dispute nel mondo cristiano. Alano da Lilla, Tommaso d’Aquino, e, piú tardi, Jean Gerson, cancelliere dell’Università di Parigi, hanno fornito interpretazioni molto differenti. Proprio Gerson, nel XV secolo, offre una soluzione assai accattivante: l’oro è la carità,

l’incenso è la fede, la mirra è la libera volontà, avvicinandosi cosí alle tre virtú teologali. L’altra questione che appassionò molto l’Occidente cristiano fu quella dell’età dei Magi. Secondo alcuni essi avrebbero rappresentato le tre età dell’uomo: la giovinezza, la maturità, la vecchiaia, i doni avrebbero rappresentato le diverse forme per riferirsi a Dio.

Dodici giorni sacri

Quanto poi al periodo 25 dicembre-6 gennaio, data in cui i Magi sarebbero giunti a Betlemme per adorare il Bambino, si tratta dei 12 giorni sacri per eccellenza, una sorta di compendio dei 12 mesi dell’anno, entro cui si venivano a concentrare fatti, memorie e valori di fondamentale importanza religioso-culturale. Una simile esegesi permetteva, tra l’altro, di porre questo lasso di tempo di 12 giorni, già sacro per l’antichità classica, sotto l’usbergo cristiano. Basti a tale proposito ricordare le libertates decembris e il culto di Giano, nei primi giorni di gennaio, che facevano bella mostra nel calendario romano. Secondo la tradizione che si è venuta consolidando, dunque il Cristo visitato dai Magi aveva solo 13 giorni e non due anni come riportato dallo Pseudo-Matteo e da altri. Il quadro liturgico-devozionale si va quindi precisando attraverso acquisizioni successive, processi di acculturazione e sovrapposizione-contrapposizione con quello che veniva definito il mondo pagano. Il mondo romano si era progressivamente cristianizzato, ma aveva mantenuto i caratteri di monarchia sacra, specialmente nella Pars Orientis, mentre nella parte occidentale l’immagine del fanciullo divino adorato da quelli che venivano definiti i popoli barbari, si collegava al culto dell’imperatore, che cessava cosí di essere un Dio. In tale contesto, il culto dei Magi finí per acquisire anche una valenza politica. Quella dei Magi è anche una fiaba, forse la piú bella mai raccontata. Sono stati guidati da una stella e giunti presso il Bambino, si prostrano, lo adorano, mettono ai suoi piedi ricchi doni. Per i cristiani non è solo una fiaba, ma qualcosa di realmente accaduto.

Da leggere Alessandro Bedini, Giovanni Macchia, Paolo Ognibene, Antonio Panaino, Andrea Piras (a cura di), La luce della stella. I Re Magi fra arte e storia, prefazione di Antonio Panaino, presentazione di Franco Cardini, Mimesis Edizioni, Milano, 2017 Franco Cardini, I Re Magi. Leggenda cristiana e mito pagano tra Oriente e Occidente, Marsilio, Padova, 2022 Giovanni di Hildesheim, La storia dei Re Magi, a cura di Alfonso M. Di Nola, La Vita Felice, Milano, 2020

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Il talento Un particolare dell’allestimento della mostra «Lippo di Dalmasio e le arti a Bologna tra Trecento e Quattrocento», visitabile nel Museo Civico Medievale di Bologna fino al prossimo 17 marzo 2024.

Il Museo Civico Medievale di Bologna ripercorre la parabola di Lippo di Dalmasio, personaggio di primo piano nella scena artistica felsinea del Trecento. Sull’importanza della sua produzione, finalmente rivalutata, si sofferma lo storico dell’arte Daniele Benati, uno dei piú autorevoli esperti in materia, nonché membro del comitato scientifico a cui si deve la realizzazione della mostra 44


sovrumano del «santo pittore» di Daniele Benati

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tando al racconto di Carlo Cesare Malvasia (scrittore e pittore bolognese, 16161693, n.d.r.) nella Felsina pittrice (1678), Guido Reni ravvisava nei volti delle Madonne di Lippo di Dalmasio, «comunemente detto Lippo dalle Madonne», «un certo ché di sovrumano, che gli faceva pensare, il suo pennello, piú che da forza di uman sapere, venir mosso da un occulto dono infuso; sapendoci far vedere in quelle idee una santità, una modestia, una purità, una gravità, che qualsiasi eccellente moderno, con tutti gli studii, e gli sforzi del Mondo, non avea mai saputo in una faccia esprimersi». Che l’interesse per i «primitivi», causato dalla polemica contro Vasari e il suo toscanocentrismo, «assuma slancio da due motivi assai vivi nel nostro Seicento: filopatria ed etica nobiliare», è stato autorevolmente chiarito da Giovanni Previtali (1934-1988), che ha indicato come la ricerca di una preistoria fosse utile a dimostrare il nobile lignaggio delle moderne scuole pittoriche locali. Nel licenziare la parte prima della Felsina, mirante appunto a dimostrare come la pratica della pittura a Bologna risalisse ancora piú indietro nel tempo rispetto alla stessa Firenze e come la grandezza dei pittori trecenteschi locali non fosse inferiore a quella dei colleghi operosi al di là dagli Appennini, lo stesso

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mostre bologna Malvasia è esplicito: la trattazione di questi artisti, «de’ quali ci siamo ragionevolmente ben presto spicciati», costituisce un’introduzione all’opera e non una «considerabile parte integrante della stessa», ed è stata scritta «piú in venerazione dell’Antichità, che per esemplare di una perfetta eccellenza».

L’Antichità venerata

Anche se giocata in questo contesto, la notizia dell’ammirazione per le Madonne di Lippo di Dalmasio manifestata dal «divino» Guido Reni risulta di estremo interesse e, in quanto tale, è stata recepita dagli studi sul massimo pittore bolognese. Essa merita tuttavia qualche ulteriore riflessione anche in relazione a Lippo, giacché, se in un passo della vita di Reni si parla genericamente del «rispetto» da lui professato nei confronti degli «antichi Autori» antecedenti i Carracci, in questo caso la sua attenzione sembra porsi su un piano diverso, che oltrepassa la stessa «venerazione dell’Antichità» per riguardare, se non lo stile, quantomeno l’efficacia con cui il pittore trecentesco era giunto a trasmettere sentimenti che gli parlavano in modo ancora diretto. Si potrà rimarcare allora come, grazie alle sue frequentazioni toscane, Lippo fosse pervenuto a un linguaggio che, se ci appare oggi meno fantasioso e inventivo rispetto a quello dei pittori bolognesi che lo avevano preceduto, era stato in realtà capace di coniugare la regalità della matrice giottesca che gli discendeva dagli esempi degli Orcagna con una sentimentalità piú quieta e accostante, cosí da mandare insieme il sacro con l’umano: un punto sul quale Reni era particolarmente sensibile. Di fatto, se la poniamo a confronto con opere di Lippo quali la Madonna al centro del trittico ora in Pinacoteca o l’altra già sulla facciata del palazzo del Collegio di Spagna, che era tra quelle a lui «dilette», la Madonna col

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Bambino di Reni tuttora conservata in S. Bartolomeo – ed essa pure ritenuta miracolosa e venerata sotto il titolo di Mater amabilis – ci restituisce pienamente il senso di un tributo che non è di mera circostanza.

Davanti alla Madonna di San Procolo

Negli appunti presi in vista della Felsina e non tutti riportati nella versione a stampa, Malvasia riferisce che il giudizio di Reni era stato espresso in termini simili da Denijs Calvaert:

una notizia che non invalida quanto fin qui detto, ma che ci aiuta anzi a meglio individuare il clima culturale entro il quale Guido doveva averlo maturato. Nella Felsina, il racconto è invece piú dettagliato per quanto riguarda l’occasione in cui egli ebbe a esprimerlo. In «un giorno della Santissima Annunziata», cioè un 25 marzo di cui non viene specificato l’anno, Malvasia l’aveva sorpreso in estatica contemplazione («com’estatico contemplandola») della Madonna col Bambino tra i santi Sisto e dicembre

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Nella pagina accanto Madonna del velluto, tempera e oro su tavola di Lippo di Dalmasio. 1400-1408 circa. Bologna, Museo della basilica di San Domenico. In questa pagina ritratto di Lippo di Dalmasio, dall’opera Felsina pittrice di Carlo Cesare Malvasia. 1678.

so Reni avrebbe scritto circa le sembianze da lui assegnate all’arcangelo Michele nel quadro tuttora nella chiesa dei Cappuccini a Roma: «ho riguardato in quella forma che nell’idea mi sono stabilita».

Benedetto dipinta sul portale di San Procolo, per l’occasione «interamente scoperta (come suole usarsi nelle piú cospicue solennità)». Sorpreso dall’atteggiamento dell’artista, il canonico aveva osato chiedergliene la ragione («presi ardire interrogarnelo»), ottenendo appunto la risposta che si è riportata sopra. Le parole che Malvasia fa pronunciare a Guido sono in parte le stesse di cui egli stesso si era servito poche righe sopra per aprire la vita di «Lippo Dalmasio»: «purità, modestia, e gravità» erano appunto i caratteri che i «passati Maestri», dotati di «semplice, ed umil spirito», avevano anteposto agli sfoggi di bravura e alla ricerca della fama cui si dedicavano gli artisti del suo tempo. Dopo aver fatto proprio il giudizio di Calvaert, notando che nei volti delle Madonne di Lippo c’è un «certo ché di sovrumano», tale da fargli credere che il suo pennello non fosse mosso dalla «forza di uman sapere», ma «da un occulto dono infuso», Reni era però sceso ancora piú in profondità, aggiungendo «quanto fosse questo Pittore divoto della Gran Madre di Dio; onde non esser maraviglia, se sí bene esprimesse con la mano quell’Immagine, che portava impressa nel cuore». Anche se il riferimento al cuore, piuttosto che alla mente («l’idea»), smorza alquanto l’assunto neoplatonico sotteso al celeberrimo passo di Bellori, non è difficile affiancare a questa affermazione, pronunciata con tanta sicurezza, quanto lo stes-

Se una tale risposta ben si addice a Reni, giacché si tratta pur sempre di «occulto dono infuso», meno gli si addice quanto Malvasia gli fa dire proseguendo il racconto: «che a pingerla [l’immagine della Ver-

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Artista devotissimo

gine] mai si pose, che la sera innanzi [non avesse] digiunato, e la mattina seguente riconciliatosi, reficiato non si fosse con il Pane degli Angeli: che in fine fattosi Religioso, vestito l’abito de’ RR. PP. di San Martino, era poi, come santamente vissuto, cosí santamente morto, non avendo mai da quel giorno ch’entrò in Munistero, volsuto dipingere, che per propria devozione, e senza premio, donando le sue Immagini, che furono poi sempre di Maria Vergine». Se davvero il colloquio con Guido Reni si era svolto in questi termini, è piú probabile che que-

ste ultime informazioni avessero costituito il personale contributo alla conversazione da parte di Malvasia, che doveva averle ricavate da uno dei testi in cui si poneva l’accento sulla vita irreprensibile di Lippo e sulla sua particolare devozione nei confronti della Vergine. Non tanto, dunque, dalla Bologna perlustrata pubblicata nel 1650 da Antonio Masini, che aveva peraltro ricordato i suoi dipinti noti, sulla base delle numerose firme che il pittore, abilissimo promoter di sé stesso, vi aveva apposto; quanto dai Minervalia Bononiae, una sorta di enciclopedia dedicata agli uomini illustri della città di Bologna che nel 1641 Ovidio Montalbani aveva pubblicato sotto lo pseudonimo di Giovanni Antonio Bumaldo. Qui, alla data 1400, che stava a indicare il periodo del suo apice, veniva appunto citato «Lippus Dalmaxii Pictor admirabilis celeberrimus», solito a dipingere un’immagine della Madonna non prima di essersi comunicato, che nel 1408 era entrato nell’ordine carmelitano e aveva lasciato molti saggi della sua abilità nel monastero di San Martino, in gran parte perdute a causa dei rifacimenti di cui erano stati fatti oggetto gli antichi edifici. Dal passo di Montalbani, citato quasi alla lettera, Malvasia riprende, oltre alla notizia relativa al tardivo ingresso di Lippo nell’ordine carmelitano di cui solo alla fine del secolo successivo Marcello Oretti si premurerà di rilevare la palese infondatezza, anche la deprecazione del rinnovamento degli antichi edifici di culto, responsabile dello scarso numero di pitture «scampate da tanti disastri, dal lusso, e dal capriccio de gli huomini, piú che avanzate alla voracità del tempo». La nozione di un Lippo di Dal-

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masio non solo buono, ma addirittura «santo pittore», e cioè di una santità che dalle sue opere si era trasferita alla sua persona, era nata e aveva trovato sviluppo in una congiuntura di qualche decennio precedente, che ci porta agli anni della formazione di Reni. Già sul finire del XV secolo la devozione popolare aveva accreditato come miracolose, e dunque sante, alcune sue immagini, che, come altre parimenti antiche, erano state talora staccate dalla parete originaria e portate sugli altari. Una tale devozione poteva trasferirsi anche alle copie, se addirittura nel 1493 l’altrimenti ignoto Francesco Cacciaguerra era stato incaricato di copiare sull’altare di san Nicola nella chiesa di S. Colombano una sua Madonna col Bambino affrescata sulla facciata di una casa dell’adiacente via Galliera. Anche se in seguito l’immagine originale sarebbe stata trasportata «a massello», col titolo di «Madonna dell’Orazione», sull’altare di una cappella appositamente edificata contro un muro esterno della stessa chiesa, la copia ha mantenuto la sua fun-

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zione, tanto che all’inizio del XVII secolo venne completata con le immagini dei santi Nicola da Bari, titolare dell’altare, e Giovanni Battista.

Un uomo valente

Di un Lippo di Dalmasio «santo pittore» non aveva ancora parlato Giorgio Vasari, che pure aveva trattato di artisti toscani dediti a una vita santa, come Lorenzo Monaco o l’Angelico, ma che nella seconda edizione delle proprie Vite (1568) si era limitato a citare, in coda alla vita di «Lippo pittore fiorentino», «un altro pittore chiamato similmente Lippo Dalmasi, il quale fu valente uomo, e fra l’altre cose dipinse, come si può vedere in San Petronio di Bologna, l’anno 1407, una Nostra Donna che è tenuta in molta venerazione, et in fresco l’arco sopra la porta di San Procolo, e nella chiesa di San Francesco nella tribuna dell’altar maggiore fece un Cristo grande in mezzo a San Piero e San Paulo con buona grazia e maniera; e sotto questa opera si vede scritto il nome suo con lettere grandi». Allo stesso modo, nella sua Graticola di Bologna (1560), il bolognese Pietro Lamo aveva citato un’unica

L’allestimento di una delle sezioni della mostra al Museo Civico Medievale. Nella pagina accanto Sant’Andrea, San Giovanni Battista, San Pietro, tempera e oro su tavola di Lippo di Dalmasio. 1405-1410 circa. Collezione privata.

opera di «Lipo del Maso», la già citata «Vergine Maria con Cristo in bracio che popa da lato stanco», dipinta ad affresco con «bon dissegno e diligentemente colorita» sulla facciata del Collegio di Spagna. Chi tratta diffusamente questo aspetto, dimostrando di raccogliere una tradizione ormai assodata in città, è Francesco Cavazzoni nelle Pitture et sculture et altre cose notabili che sono in Bologna e dove si trovano, un testo scritto nel 1603 e rimasto inedito fino al XIX secolo, ma che Malvasia dimostra di aver consultato, anche se non ne fa menzione in questa specifica occasione. Al termine di un percorso volto a illustrare le piú ragguardevoli opere d’arte presenti nelle chiese e nei palazzi cittadini, senza scendere nel dettaglio dei singoli artisti, Cavazzoni si era sentito in dovere di fare un’eccezione per «Lippo Dal dicembre

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Massi» e ne aveva steso una breve ma densa nota, raccontando che «non pinse mai cose vane, ma sempre si compiacque in operare per sua mera devozione la Imagine de la gloriosa Vergine, il Salvatore e de Santi» e che, prima di iniziare il suo lavoro, «odiva la messa e (...) pigliava la santissima Euccarestia, (...) onde si vede sino oggi de tutte le sue imagine fatte da lui molte devote e miracolose». Per concludere che «questo doveria fare ogn’altro pittore cristiano e devoto della Madre de Idio, pigliando ed imitando questo buono e santo pittore». Il ragguaglio si completava con un elenco delle «opere del detto e dove si trovano», che, partendo dal citato

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affresco sul portale di San Procolo, «opera di duecento anni e di gran divozione a tutta la città», annoverava undici immagini della Vergine poste in vari luoghi di Bologna, oltre alle «storie del testamento vecchio alla casa di meggio», cioè la chiesa di Mezzaratta, in cui Lippo non risulta peraltro aver lavorato.

Un censimento prezioso

In questo senso, il testo citato prelude a un lavoro piú organico che lo stesso Francesco Cavazzoni avrebbe di lí a poco dedicato alle immagini della Vergine conservate a Bologna e ritenute per tradizione miracolose. Nella Co-

rona di gratie, compilata intorno al 1608, delle cinquanta e passa Madonne prese in esame, soltanto cinque sono riferite a Lippo di Dalmasio, in quanto oggetto appunto di devozione particolare, e il pittore è di volta in volta definito «devoto pittore, (...) di vita singolare», «molto elevato e valente», «famoso e devoto». L’aspetto sicuramente piú interessante dell’opera, di cui non esiste ancora un’edizione integrale, è però costituito dal suo ricco corredo iconografico, che rende conto di ogni singolo dipinto e sulla base del quale uno storico come Otto Kurz è arrivato a riconoscere a Cavazzoni «una comprensione dell’arte medievale quasi senza pari nel suo tempo». La storiografia successiva ha avuto buon gioco nel rimarcare che il suo interesse verteva pur sempre sugli aspetti devozionali, e non storico-stilistici, delle immagini trattate; ed è vero che lo stile grafico con cui Cavazzoni trascrive le antiche immagini richiama, nel tratto nitido e sicuro, i modi di Orazio Samacchini e di Bartolomeo Cesi. Ma va comunque sottolineata la qualità intellettuale dell’operazione da lui sistematicamente condotta. Tra gli anni di Lamo e quelli di Cavazzoni erano di fatto intervenuti gli importanti cambiamenti che siamo soliti compendiare nel termine di Controriforma e di cui anche Guido Reni, pur muovendosi in modo del tutto originale, dimostrerà di aver saputo introiettare le motivazioni religiose e


culturali. All’auspicio di un ritorno alla sincerità della Chiesa delle origini si era unita l’ammirazione per la semplicità e la schiettezza dei pittori antichi, estranei alla ricerca di artificiosità che aveva condizionato gli esponenti della Maniera, finendo col rendere inaccessibile a un pubblico di illetterati il messaggio sacro contenuto nelle loro opere. In questo senso, non solo le immagini di Lippo di Dalmasio erano diventate modelli da imitare in funzione di una rinnovata pittura sacra, ma anche quelle di Francesco Francia. Ed è assai significativo che nel 1583 Giovanni Zanti, autore di un libricino sui Nomi, et cognomi di tutte le strade, contrade, et borghi di Bologna che ambiva forse a porsi a corollario della grande pianta della città voluta da Gregorio XIII nella cosiddetta Sala Bologna in Vaticano, avesse riferito l’affresco di Lippo sul portale di San Procolo allo stesso Francia .

Nel solco di Raffaello

Madonna dell’umiltà e donatore, affresco di Antonio Vite. 1390 circa. Pistoia, chiesa di S. Bartolomeo in Pantano. Nella pagina accanto Croce dipinta, tempera e oro su tavola di Lippo di

Dalmasio. 1395. Firenze, Museo Casa Rodolfo Siviero. In basso graduali miniati da Lorenzo Monaco e Don Simone Camaldolese. Bologna, Museo Civico Medievale.

Come sempre sensibili a intercettare le sensibilità del momento storico in cui si trovano a operare, cosí da anticipare la riflessione dei teorici, erano stati gli artisti a proporre nuove soluzioni per le immagini. Un ruolo importante in questa direzione era stato svolto da Lorenzo Sabatini, pittore di fiducia del bolognese Gregorio XIII – sua la decorazione della Sala Bologna, in collaborazione con Calvaert – e molto ammirato anche dal vescovo di


mostre bologna Bologna, Gabriele Paleotti. Muovendosi nel solco dell’ossequio a Raffaello, Sabatini era pervenuto a conferire alle sue immagini sacre una nobile dolcezza, idealizzata ma nello stesso tempo affettuosa. Il fatto che Guido Reni, allievo di Calvaert, ammirasse «per le teste delle Madonne il Sabbatini» è un’altra preziosa indicazione consegnataci da Malvasia, che ci aiuta a ricostruire una traiettoria di gusto che, passando appunto attraverso Sabatini (e Francia), collega Guido a Lippo di Dalmasio.

Il ruolo dei teorici

Già alla fine del Cinqucento alla devozione popolare nei confronti delle immagini dipinte da Lippo si era affiancata quella dei ceti elevati, «non riputandosi uom di garbo, e compito, chi la Madonna di Dalmasio a possedere non fosse gionto»; e di qui essa sarebbe stata condivisa dalle alte sfere ecclesiastiche, se, stando alle notizie raccolte da Malvasia, ben tre pontefici avevano dimostrato una spiccata predilezione per le sue opere. Era stato dapprima il bolognese Gregorio XIII Boncompagni (1572-1585) a conservare accanto al proprio letto una sua Madonna col Bambino già nella chiesa romana della Rotonda, l’antico Pantheon (un affresco

A destra Madonna del latte, affresco attribuito a Pietro di Giovanni Lianori. 1420 circa. Bologna, Collezioni Comunali d’Arte. Nella pagina accanto Trittico con Madonna col Bambino e santi, tempera e oro su tavola di Jacopo di Paolo. Post 1413. Bologna, Museo della basilica di S. Stefano. In basso Madonna con il Bambino fra i santi Giorgio, Floriano, Antonio abate e Cristoforo, affresco di Lippo di Dalmasio. Già Bologna, casino attiguo al campanile della chiesa di S. Paolo fuori Porta Sant’Isaia.

staccato? un dipinto su tavola? è da pensare, in ogni caso, che il nome di Lippo se lo fosse inventato lui). Un’altra, già posseduta da Innocenzo IX Facchinetti, bolognese anch’egli e papa per due soli mesi nel 1591, sarebbe stata assai piú tardi posseduta da «monsignor Disegna» (per Cristoforo Segni), maggiordomo di Innocenzo X Pamphilj (1644-1655). Ma «vulgato, anche presso gli Autori», era soprattutto il fatto che nel 1598, di ritorno da Ferrara riconquistata alla Santa Sede, Clemente VIII Aldobrandini, che da giovane aveva studiato all’Univer-

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che «dal sudeto santo pittore fu fatta quella benedetta immagine sopra la porta della nostra Chiesa di San Procolo, e guarda verso la strada dove si offeriscono molti voti». In un appunto volante, lo stesso Paleotti, sempre attento a controllare la verità storica delle notizie di cui era venuto in possesso, si riprometteva di informarsi meglio su chi fosse il pittore in questione «et se è vero che egli prima che pingesse, facesse ieiunij, et si raccomandasse alla Madonna et non volesse premio, et chi a tali imagine si siano veduti miracoli, come ha scritto il reverendo Abbate di San Procolo»; in un altro annotava la sua intenzione di chiedere a Prospero Fontana e Domenico Tibaldi, suoi abituali consulenti, che cosa fosse scritto nel «libro del Vasaro, dove parla di questa Madonna».

Le raccomandazioni di un architetto

sità di Bologna, «passando avanti a quella, che sta dipinta sopra la porta di San Procolo, fermatosele davanti, dopo averla divotamente salutata, e conconcessale non so quale Indulgenza, pubblicamente soggiongesse, non avere mai veduto Immagini le piú divote, e che piú lo intenerissero, quanto le dipinte da quest’uomo». La fama della santa vita di Lippo era nata in questo contesto e a farsene promotore sembra sia stato padre Egidio da Matelica, priore di San Procolo, il quale, in una lettera del 12 aprile 1580 giuntaci frammentaria e trascritta da Ilaria Bianchi, scriveva al vescovo Gabriele

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Paleotti circa la necessità, fatta poi propria dal prelato nel Discorso intorno alle immagini sacre et profane (1582), che i pittori incaricati di dipingere soggetti sacri conducessero una vita irreprensibile, cosí da evitare che le loro immagini dessero scandalo, e gli ricordava che «in questa città di Bologna apreso molti vi è clara et manifesta memoria, sí come ho da piú persone inteso d’un pittore timorato di Dio devoto della Madonna», che, quando gli veniva richiesto di dipingerla, rinunciava a ogni compenso e che dalle «immagini fatte da quel devoto, et santo artefice si vedono miracoli notabilissimi», aggiungendo

Sono gli anni in cui per volere di Paleotti si attende al rifacimento della parte terminale della cattedrale di San Pietro, che, in ordine alle nuove esigenze liturgiche, vede il prolungamento del coro e la conseguente distruzione dell’affresco nella conca absidale con Cristo tra i santi Pietro e Paolo firmato da Lippo di Dalmasio «col suo nome in lettere grandi» e «col millesimo 1404». A dirigere i lavori era stato l’architetto Domenico Tibaldi, che nel suo Discorso del modo che si dovrà tenere nel disegnare et edificare le chiese, giuntoci frammentario, aveva peraltro raccomandato di «non dipingere quadri od ornamenti profani, ma imitare i pittori antichi come Lippo del Masio». Nel catino absidale del nuovo presbiterio, assai apprezzato da Clemente VIII nel 1598, l’affresco di Lippo era stato sostituito dalla grandiosa Consegna delle chiavi a san Pietro, opera di Cesare Aretusi, allievo di Sabatini, e improntata a un severo ricupero di orditi compositivi medievali.

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mostre bologna La mostra

Un grande maestro e il suo contesto Quella allestita nel Museo Civico Medievale di Bologna è la prima rassegna monografica dedicata a Lippo di Scannabecchi, detto Lippo di Dalmasio, il piú noto e celebrato dei pittori bolognesi del tardo Medioevo, documentato a Pistoia e a Bologna dal 1377 al 1410. La mostra propone una rivalutazione organica della personalità e del percorso di Lippo di Dalmasio in riferimento al contesto del sistema culturale in cui si trovò a operare, restituendo nella sua reale collocazione storico-artistica l’ampiezza sfaccettata e l’altissima qualità tecnica della sua produzione, soggetta nei secoli a giudizi altalenanti, oltre la fama stereotipata di pittore prettamente devozionale. Il percorso espositivo si compone di 32 opere – tra dipinti su tavola, affreschi, sculture e manoscritti – e si articola in tre sezioni. Accanto ai dipinti e agli affreschi di Lippo di Dalmasio, sono presentate opere di alcuni degli artisti piú rinomati a lui contemporanei – Simone dei Crocifissi, Jacopo di Paolo, Nicolò di Giacomo, Giovanni di Fra Silvestro, Don Simone Camaldolese, Lorenzo Monaco, Jacobello e Pierpaolo Dalle Masegne –, prestati per l’occasione da importanti musei, biblioteche, chiese italiane e collezioni private. La prima sezione, «Tra Bologna e Pistoia: i rapporti con l’arte toscana», ripercorre i problematici inizi dell’artista, facendo riferimento ai rapporti allora intercorsi tra Bologna e la Toscana, documentati anche nell’ambito della scultura (Andrea da Fiesole) e della miniatura (Don Simone Camaldolese e Lorenzo Monaco). La seconda sezione, «Bologna 1390», ripercorre invece l’attività dell’artista dopo il suo rientro a Bologna, nel corso degli anni Novanta del Trecento e qui spicca una inedita Croce dipinta, recentemente riconosciuta a Lippo di Dalmasio da indipendenti ricerche di Daniele Benati ed Emanuele Zappasodi. L’ultima sezione, «Un pittore per la città 1400-1410 verso il tardogotico» presenta la fase ormai matura dell’artista, scomparso nel 1410, ovvero quando il cantiere di S. Petronio era già avviato da quasi vent’anni, durante i quali la città venne ad aprirsi alle piú diverse sollecitazioni della cultura tardogotica di cui soltanto in parte Lippo seppe fare tesoro, rimanendo profondamente legato fino alla fine alla sua formazione trecentesca. «Lippo di Dalmasio e le arti a Bologna tra Tre e Quattrocento» Bologna, Museo Civico Medievale, Sale del Lapidario fino al 17 marzo 2024 Info tel. 051 2193916 o 2193930; e-mail: museiarteantica@comune. bologna.it; www.museibologna.it/arteantica

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«S’ammira il sol nascente»: a questo motto è affidata l’amara riflessione di Malvasia circa i mutamenti di gusto che avevano portato a decimare le opere degli «antichi pittori», cosicché già ai suoi tempi le opere superstiti di Lippo su cui esercitare un qualche giudizio erano unicamente immagini sacre, risparmiate non tanto per la loro qualità artistica, quanto per la devozione di cui erano state fatte oggetto.

I dipinti perduti

Anche se riteneva di disporre di un ritratto eseguito da Jacopo Forti, utile a stabilirne la fisionomia e – primo tra i pittori di cui si occupa a usufruire di un tale privilegio – a figurare in apertura della sua biografia, egli non poteva contare su alcun dipinto ne dimostrasse le capacità narrative. In San Martino, erano state distrutte «certe Storie di Elia Profeta in muro», che chi aveva avuto modo di vederle «prima che venissero guaste, per far certa cappella», ricordava «essere spiritosissime»; e, quanto a «li Ss. Apostoli Pietro, et Andrea entro una barchetta graziosissimamente accomodati», affrescati nella lunetta del portale laterale della chiesa di Sant’Andrea delle Scuole, lo stesso Malvasia racconta che «non si poterono salvare, essendosi nel piú bello aperto il telaio, che li ricingea»: un incidente che, nello staccare a massello gli antichi affreschi, bisognava purtroppo mettere in conto. Visibile era altresí «la Maddalena, che lava i piedi al Signore alla Cena del fariseo, nell’inclaustro di S. Domenico, che dicono essere la prima opera che pingesse in pubblico, e nella quale a ogni modo è tanta tenerezza, e tal impasto di buon colore, ch’io stupisco»; ma anch’essa è andata in seguito perduta. Passerà di fatto molto tempo prima che Lippo di Dalmasio riacquisti una fisionomia piú articolata e non sia esclusivamente qualificato come «Lippo dalle Madonne». dicembre

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il trecentonovelle di franco sacchetti/11

A nostra

immagine e somiglianza

di Corrado Occhipinti Confalonieri

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Miniatura raffigurante un basilisco, da un’edizione del Der Naturen Bloeme di Jacob van Maerlant. 1350 circa. L’Aia, KB-Biblioteca Nazionale Olandese.

La presenza di numerosi animali fa del Trecentonovelle una sorta di caravanserraglio. Ma il loro coinvolgimento non ha scopi scientifici e serve soprattutto per evocare vizi e virtú degli uomini e delle donne che animano la narrazione di Sacchetti MEDIOEVO

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oerente con il desiderio di descrivere la società trecentesca in modo realista, Franco Sacchetti non inserisce nel Trecentonovelle animali fantastici – come unicorni o sirene –, anche se ne menziona alcuni per accentuare l’aspetto dell’impossibile, della chimera. La fenice, uccello mitologico, viene citata dal marchese Aldobrandino II d’Este, signore di Ferrara e Modena dal 1353 al 1361, che chiede all’albergatore Basso della Penna «qualche uccello da tenere in gabbia che cantasse bene, e

vorrei che fosse qualche uccello nuovo, che non se ne trovassono molti per l’altre genti, come sono fanelli e calderelli [cardellini]». Rassicurato dal volenteroso Basso sulla possibilità di trovare volatili con queste caratteristiche, al marchese «gli parve avere già in gabbia la fenice», il favoloso uccello che rinasce dalle proprie ceneri secondo le leggende orientali (VI novella). Un altro animale di fantasia è il «badalischio», il basilisco: Sacchetti, nel suo saggio Delle proprietà degli animali, lo descrive come «uno serpente che pure col suo sguardo uccide, e già non ha in sé per niun tempo misericordia; e non trovando alcuna criatura o fiera o altra cosa da poter attossicare, con uno strido fa seccare gli arbori, le piante e l’erbe che gli stanno intorno, per lo fiato che gli esce dal corpo pieno di tòsco [veleno]». Nel Trecentonovelle, il basilisco è citato nella novella III. Il contadino Parcittadino da Linari è un aspirante giullare che si propone a Edoardo I d’Inghilterra, re dal 1277 al 1307. L’istrionico personaggio si spertica in elogi di fronte al sovrano che lo picchia invece di apprezzare i suoi complimenti: decide allora d’insultare il re e sorprendentemente riceve un prezioso costume da buffone in dono: «E continuo sospettando Parcittadino che quella robba non fosse serpe o badalischio ch’el mordesse, a tentone la ricevette». La fenice e il basilisco sono qui evocati da Sacchetti per sottolineare il tono comico dei racconti, mentre in altre novelle le caratteristiche di alcune specie del mondo faunistico vengono utilizzate per rappresentare la personalità degli umani. I raggirati dal buffone Pietro Gonella, cosí soprannominato per la tipica veste del suo mestiere, «serebbono molto allegri che la volpe fosse còlta alla trappola» (CLXXIV). L’asino rappresenta una figura retorica di stupidità umana: «Se io lo truovo, gli dirò tanta villania quanta ad asino», minaccia Duccina rife-

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il trecentonovelle di franco sacchetti/11 rendosi a ser Naddo che l’ha vituperata (LIV); ma il somaro è anche sinonimo di scarso coraggio: «Voi siete appropriati [uguali] agli asini» biasima un frate i suoi fedeli, «la natura dell’asino è questa: che quando molti ne sono insieme, dando d’uno bastone a uno, tutti si disserrano [si allontanano in varie direzioni] e qual fugge qua e qual fugge là , tanto è la loro viltà» (LXXI).

L’umiltà dell’agnello

La lepre rappresenta una persona attenta, a cui non sfugge nulla: «Onde credete che io sia? Avetemi sí per orbo che io non veggia lume? Io ci fo come la lepre, che dorme con gli occhi aperti», si definisce un giudice borioso ad alcuni Fiorentini che gli hanno tirato uno scherzo (CXLV). L’agnello è simbolo di umiltà, ma Sacchetti lo utilizza anche come

metafora politica riferendosi a madonna Cecchina, vedova con un figlio piccolo, che non trova giustizia: «E come in tutte le terre avviene – e spezialmente oggi che le vedove e’ pupilli [orfani], essendo pecore e agnelli, hanno cattivi effetti co’ lupi, dove ve ne sono» (CCI). Nell’opera di Sacchetti troviamo animali anche nei proverbi, fonte di saggezza popolare: «Vassi capra zoppa, se ’l lupo non la intoppa» ovvero anche una capra zoppa può andare, se non incontra il lupo. Il proverbio apre la novella che narra di un raggiro del buffone Gonella finito male a causa dell’incontro con un astuto mercante che reagisce alla tentata estorsione (CLXXIV). Nei passi del Trecentonovelle fin qui riportati, gli animali arricchiscono la narrazione, sono esempi retorici, vengono citati nei proverbi, ma

In alto, sulle due pagine miniatura raffigurante un corteo funebre officiato da conigli, dal Salterio Macclesfield. Produzione inglese, 1330-1340. Cambridge, The Fitzwilliam Museum. A sinistra miniatura con l’immagine di una fenice, da un bestiario compilato in Inghilterra, forse a Salisbury. 1230-1240. Londra, British Library.

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spesso hanno anche il ruolo di protagonisti, perché fanno parte della vita quotidiana medievale, come nel Decameron di Giovanni Boccaccio, maestro letterario di Sacchetti. È quanto accade a Firenze nella novella CLIX. Rinuccio di Nello è «uno cittadino molto antico d’anni e nuovo [bizzarro] di costumi» che aveva sempre posseduto cavalli piuttosto sgraziati fra cui «n’ebbe uno che parea un cammello, con una schiena che parea Pinza di Monte [Pizzidimonte, località collinare fra Prato e Calenzano] e con una testa di mandragola [testa bitorzoluta che ricorda le radici di mandrago-

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la, una pianta velenosa e utilizzata per i rituali magici, in cui gli antichi vedevano la riproduzione di forme umane]; la sua groppa era che parea un bue magro; quand’elli li dava una spronata, e’ si moveva di un pezzo, come se fosse di legno, alzando il muso verso il cielo; e sempre parea addormentato, se non quando avesse veduto una ronzina; allora rizzando la coda, un poco anitriva e spettezzava».

Quel cavallo poderoso

Un giorno Rinuccio vuole fare una passeggiata col suo buffo destriero e «avendo appiccato il detto cavallo di fuori nella via ed essendo venuta una

ronzina alla piazza dove si vendono le legne, che era quasi dirimpetto alla sua casa, ed essendosi sciolta da uno arpione, cominciò a fuggire per la via dov’era appiccato il detto cavallo; il quale, come sentí la giumenta correre dirietro, tiroe la testa a sé con sí dura maniera che ruppe uno briglione assai forte; però che [poiché] il detto Rinuccio l’avea fatto fare in prova, mostrando a ciascuno per quello che ’l cavallo fosse sí poderoso che a pena si potea governare. Tirato a dietro la testa con tutta la persona [il corpo], spezzò la briglia e, voltosi dietro alla cavalla verso Santa Maria Maggiore, gli tenne dietro furioso, com’è d’usanza degli stalloni».

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Quando Rinuccio esce di casa, si accorge che il ronzino è scappato, chiede a un calzolaio se ha visto dove si è diretto: «Rinuccio mio, il vostro cavallo ne va drieto a una cavalla col mazzafrusto [organo sessuale] teso, e in su la piazza di Santa Maria Maggiore mi parve gli salisse a dosso; soccorretelo, ché si potrebbe troppo ben guastare». Il cavaliere corre con gli speroni ai piedi e per catturare «questa sua buscalfana [cavallaccio], pervenne in Mercato Vecchio; là dove giunto, vide il cavallo a dosso alla ronzina e ciò veggendo comincia a gridare: “San Giorgio! San Giorgio!”». Quando i rigattieri sentono queste grida, pensano subito a un tumul-

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to popolare e serrano le botteghe. I due cavalli non fermano la corsa e si infilano fra i banchi dei macellai sulla piazza creando un gran trambusto e «giugnendo a uno desco d’uno che avea nome Giano, che vendea le vitelle, la ronzina si gettò sul detto desco e ’l cavallo drietole per forma che Giano, che era assai nuovo pesce [sciocco] fu presso che morto» e si rifugia nella bottega di uno speziale, gridando che era rovinato.

Il caos fra le botteghe

Nel frattempo, arriva il proprietario della cavalla con un bastone «e volendo atutar la concupiscenza della carne dava di gran bastonate, quando al

Due scimmie incatenate, olio su tavola di Pieter Bruegel il Vecchio. 1562. Berlino, Gemäldegalerie. L’immagine ben sintetizza l’abitudine dei ricchi signori di possedere animali esotici in cattività. Nella pagina accanto miniatura raffigurante un uomo che conduce un cavallo in un campo di farro, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis, denominazione che indica la traduzione in latino del Taqwim al Sihha (Almanacco della salute). Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

cavallo e quando alla ronzina e spesse volte, quando dava al cavallo, e Rinuccio gli si gettava a dosso, e dicea: “Per Santo Loi [riduzione popolare di dicembre

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sant’Eligio protettore dei maniscalchi], che, se tu dài al mio cavallo, che io darò a te”». E cosí facendo un gran chiasso i due cavalli inseguiti dai proprietari arrivano nella via dei commercianti di tessuti che subito «gittarono i panni dentro e serravono le botteghe». Nel Medioevo, i negozi erano molto piccoli e la merce veniva esposta all’esterno su un bancone che, tirato su, poteva servire da serranda. Il popolo rumoreggia, si chiede cosa sta succedendo, in molti seguono i cavalli e i proprietari che sono finiti in Orsanmichele dove si tiene il mercato delle granaglie, finendo col calpestarle. A creare ancora piú confusione ci sono i ciechi, che si radunano in quel luogo: «Sentendo il romore ed essendo

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sospinti e scalpitati, non sapiendo il caso del romore, menavano i loro bastoni dando or a l’uno or a l’altro».

La piazza in tumulto

Fra urla, calci e spintoni i due ronzini inseguiti dai loro proprietari e da un centinaio di persone, giungono in piazza dei Priori: «Li quali Priori e chi era in palagio, veggendo dalle finestre tanto tumultuoso popolo giugnere, da ogni parte, ebbono per certo il romore essere levato [che cominciava un’insurrezione popolare]. Serrasi il palagio e armasi la famiglia [soldati di guardia al palazzo dei Priori], e cosí quella del capitano e dello essecutore [titolo di vari magistrati o pubblici ufficiali che avevano il compito di applicare leggi o sentenze]. Sulla piazza era tutto pieno,

e parte combatteano con pugna e gran parte di amici e parenti erano drieto a Bucifalasso [il cavallo di Rinuccio, nome scherzoso ispirato a Bucefalo, il cavallo di Alessandro Magno] e a Rinuccio che già non ne potea piú». Da questo racconto, capiamo come la vita cittadina nel Trecento doveva scorrere tranquilla solo all’apparenza, mentre i tumulti popolari scoppiavano all’improvviso. Il cavallo e la ronzina entrano nel piccolo cortile dell’esecutore che terrorizzato si nasconde sotto un letto. Finalmente «a gran fatica fu preso il cavallo e la giumenta li quali tutti gocciolavono di sudore», Rinuccio è «piú morto che vivo (...) e le rotelle degli sproni gli erano cascate di dietro e intrate sotto le piante, le quali gli aveano laceri tutti gli fiossi dicembre

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Tebaide, affresco di Buonamico Buffalmacco che ha come protagonisti vari santi anacoreti. 1336-1341. Pisa, Camposanto. Da rilevare è anche la presenza di numerosi animali, fra cui leoni, cavalli e cammelli.

La scimmia continua a osservare Buffalmacco con attenzione mentre prende «i pennelli in mano e fregarli su per lo muro, ogni cosa avendo compreso, per far male, come tutte fanno». I pennelli erano fatti con le setole dei maiali, lo ricorda Giotto (LXXV), quando uno dei porci di sant’Antonio che scorrazzavano liberi per le città medievali lo fa cadere. Questi suini del santo erano molto rispettati e contribuivano a tenere pulite le strade dai rifiuti. Il «grande dipintore» si rialza e non si scompone: «O non hanno e’ ragione? Ché ho guadagnato a mie’ dí con le setole loro migliaia di lire e mai non diedi loro una scodella di broda».

Una precauzione inutile

[i calcagni]». Le autorità cittadine portano la calma fra il popolo che li sbeffeggia per il ritardo dell’intervento. Il pavido esecutore «esce fuori tutto pieno di paglia e ragnateli» dal nascondiglio e mentre si sta per infilare in testa la «barbuta della farsata [fodera dell’elmo] uscirono (...) una nidiata di topi». L’aneddoto dimostra come fosse frequente la presenza dei ratti nelle abitazioni medievali: per questo il morbo della peste del 1348, portato anche dalle pulci dei topi si era diffuso cosí velocemente, provocando la morte di circa un terzo della popolazione mondiale. In un’altra novella (CLXI) la protagonista è una bertuccia, specie di macaco originaria delle montagne dell’Algeria e del Ma-

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rocco. Il pittore Buonamico «che per soprannome fu chiamato Buffalmacco» per la sua passione per le burle e «fu al tempo di Giotto e fu grandissimo maestro» riceve la commessa dal vescovo Guido d’Arezzo «di dipignere una sua cappella (...) ed essendo nel principio dipinti certi Santi, ed essendo lasciato il dipignere verso il sabato sera, una bertuccia, o vero piú tosto un grande bertuccione, il quale era del detto vescovo, avendo veduto gli atti e’ modi del dipintore quando era sul ponte e avendo veduto mescolare i colori e trassinare gli alberelli [barattoli] e votarvi l’uova dentro» vuole imitare il pittore. L’uovo nelle tempere dell’epoca rappresentava l’elemento colloso che fissava la pittura e veniva mescolato col lattice del fico e diluito con acqua.

Mentre i porci sono utili, la bertuccia del vescovo non lo è, anzi «ella era molto rea e da far danno, il vescovo gli facea portar legato a un piede una palla di legno». Ma l’accorgimento si rivela inutile: «La domenica, quando tutta la gente desinava, questa bertuccia andò alla cappella e, su per una colonna del ponte appiccandosi [arrampicandosi], salí sul ponte del dipintore; e salita sul ponte, recandosi gli alberelli per le mani e rovesciando l’uno ne l’altro e l’uova schiacciando e tramestando, cominciò a pigliare i pennelli e fiutandoli e intingendoli e stropicciandoli su le figure fatte, fu tutt’uno, tanto che in picciolo spazio di tempo le figure furono tutte imbrattate, e’ colori e gli alberelli volti sottosopra e rovesciati e guasti». Anche nel famoso arazzo di Cluny (fine del XV secolo) Jean de Viste raffigura due scimmie incatenate, una in particolare ha un cilindro di legno legato al collare con una catena per lasciarle qualche facoltà di movimento. Quando lunedí mattina Buffalmacco sale sul ponteggio, si accorge che il suo lavoro è stato imbrattato. Pensa sia stato qualche invidioso, e riferisce del danno il vescovo: «Buonamico va’ e rifa’ quello che è stato guasto; e quando l’hai rifatto, io ti darò sei fanti co’ falcioni, che voglio

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il trecentonovelle di franco sacchetti/11 ch’egli stiano in guato [di guardia] con teco nel tal luogo nascosi, e qualunche vi viene non abbiano alcuna misericordia che lo taglino a pezzi». Dopo aver rifatto i dipinti, Buffalmacco si nasconde con i sei fanti per cogliere sul fatto i guastatori: «E stati per alquanto spazio, ed egli sentirono alcuno rotolare per la chiesa; subito s’avisorono che fussono quelli che venissono a spignere le figure; e questo rotolare era il bertuccione con la palla legata a’ piedi. Il quale subito accostatosi alla colonna del ponte, fu salito sul palchetto dove Buonamico dipignea; e tramestando a uno a uno tutti gli alberelli e mettendo l’uno ne l’altro e pigliando l’uova e rovesciandole e fiutando, presi i pennelli e stropicciandoli al muro ogni cosa ebbe imbrattata». Com’è sua abitudine, Buffalmacco prende la cosa sul ridere, dice ai soldati: «È non ci bisognano falcioni, voi vi potete andar con Dio; la cosa è spacciata [risolta], ché la bertuccia del vescovo dipigne a un modo e ’l vescovo vuole che si dipinga a un altro; andatevi a disarmare». Il pittore fiorentino racconta l’accaduto al vescovo in modo ironico: «Padre mio, e’ non è di bisogno che voi mandiate per dipintore a Firenze, ché la vostra bertuccia vuole che le dipinture siano fatte a suo modo; e ancora ella sa sí ben dipignere che le mie dipinture ha corrette due volte. E però, se della mia fatica si viene [deriva] alcuna cosa, vi prego me ’l diate, e anderommi verso la città dond’io venni». Pur essendo dispiaciuto che la pittura sia rovinata, il vescovo scoppia a ridere: «Buonamico, tante volte hai rifatte queste figure che ancora voglio che le rifacci; e per lo peggio che io potrò fare a questo bertuccione, io il farò metter in una gabbia presso dove dipignerai, là dove vedrà dipignerti e

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non potrà ispignere; e tanto vi starà che la dipintura fia dipinta di [da] piú dí e ’l ponte levato».

La scimmia «in prigione»

La scimmia viene messa in una grande gabbia di legno e «quando vedea dipignere, il muso e gli atti ch’ella facea furono cose incredibili; pur convenne ch’ella stesse contenta al quia [l’appagarsi della constatazione di un fatto, come nel noto verso dan-

tesco «State contenti, umana gente, al quia» (Purgatorio, III, 37)]. E dopo alcuni dí, compiuta la dipintura e levati i ponti, fu tratta di prigione; la quale piú dí vi tornò per vedere se potesse fare la simile imbrattatura; e veggendo che ’l ponte e ’l salitoio piú non v’era convenne che attendesse ad altro». Il vescovo è talmente soddisfatto del lavoro di Buffalmacco che gli commissiona un altro dipinto: un’aquila tanto realistica da sembrare viva che uccide un leone.

L’aquila era il simbolo ghibellino dell’impero, per cui parteggiava il vescovo Guido, mentre il leone era il simbolo guelfo fiorentino dell’artista. Buffalmacco sembra accettare di buon grado questo nuovo incarico, in realtà medita una burla, perché la richiesta è incoerente con la sua fede politica: chiede al committente che venga costruito un ponteggio coperto di stuoie, affinché nessuno veda il dipinto in corso d’opera. Il vescovo accetta di buon grado la richiesta, anzi fa realizzare un recinto di assi in legno per non mostrare un centimetro dell’opera in corso di realizzazione. Buonamico «trovati gli alberelli e’ colori, con l’altre masserizie entrò nella chiusa [nel recinto d’assi che proteggeva il pittore e l’opera] dove doveva dipignere; e quivi tutto per contrario cominciò a dipignere quello che ’l vescovo gli avea imposto, facendo un fiero e gran leone a dosso a una sbranata aguglia [aquila]». Terminato il dipinto, Buffalmacco racconta una bugia al vescovo: gli mancano alcuni colori e per trovarli deve andare a Firenze. Guido fa chiudere a chiave la stanza affinché nessuno possa vedere l’opera che crede incompiuta ma, dopo qualche tempo, non vedendo tornare l’artista, ordina ai suoi soldati di aprirla: quando vede la «dipintura» ha un attacco d’ira e mette al bando il pittore, poi se ne pente perché «ciò che Buonamico avea fatto avea fatto bene e saviamente, lo ribandí [abrogò il bando precedente] e riconciliollo a sé; e mandando per lui spesse volte, mentre che visse lo trattò come intimo e fedele servitore». In questa novella troviamo differenti piani d’azione degli animali. La bertuccia imita il comportamento del pittore, il quale, a sua dicembre

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Il leone, simbolo della guelfa Firenze, qui nella versione del Marzocco scolpito da Donatello. 1420. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Nella pagina accanto calco del sigillo della Parte Guelfa con l’immagine dell’aquila, simbolo del potere imperiale, che artiglia il drago, simbolo del Male. Fine del XIII sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Racconta Giovanni Villani che fu papa Clemente IV a donare lo stemma ai guelfi, che aggiunsero un piccolo giglio sulla testa del rapace.

volta, ripete in modo scimmiesco l’opera commissionata due volte, senza apporvi nessuna variazione personale. Quando però il vescovo chiede a Buffalmacco di raffigurare l’aquila che sbrana il leone, le cose cambiano: il pittore non agisce piú da mero esecutore, ma lancia un messaggio politico.

Letterato e politico

Come abbiamo visto, l’aquila è un emblema imperiale, simbolo dei ghibellini, quindi anche degli abitanti di Arezzo, mentre il leone rappresenta i guelfi fiorentini. Buonamico rappresenta cosí il suo manifesto politico con il leone che uccide l’aquila che poi è anche il credo di Sacchetti: nel Proemio del Trecentonovelle, lo scrittore si definisce «io Franco Sacchetti fiorentino». Da uomo politico, Sacchetti sfrutta l’opportunità offerta dalla simbologia animale per far conoscere la sua posizione politica ai lettori. In alcuni casi gli animali rafforzano la morale quasi sempre presente in questi racconti. È il caso della novella CXLIX in cui un ipocrita abate di Tolosa si fa cucinare pesci di piccoli taglia per mostrare quanto è parco e virtuoso; quando viene eletto vescovo di Parigi, dimentica l’astinenza e ordina al servitore di comprare al mercato grandi pesci costosi, sostenendo: «Io pescava allora con quelli piccoli per pigliare de’ grossi!». Sacchetti trae spunto dal mondo animale per mostrare le paure dell’uomo della seconda metà del XIV secolo con brio: l’indifferenza dei potenti, l’avidità dei prelati, il caos politico provocato dalla lotta fra guelfi e ghibellini, la paura dei tumulti popolari. Una società medievale in crisi d’identità che trova nella risata un momentaneo conforto grazie ai riferimenti alle bestie, in fondo cosí simili a noi.

NEL PROSSIMO NUMERO ● I buffoni

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di Alessio Montagano

Rinuncia alle armi di San Martino di Tours, scena facente parte del ciclo con episodi della vita del santo affrescato da Simone Martini nella Cappella di S. Martino della Chiesa Inferiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 13121317 circa (vedi descrizione completa a p. 70).

LA MONETA IN GUERRA

Armi, bagagli, ma soprattutto... fiorini Impiegata per sostenere le spese belliche e assoldare le milizie mercenarie, la moneta ha avuto un ruolo centrale nella pianificazione strategica dei comuni toscani in guerra. Lo testimoniano i contenuti dei registri contabili delle città coinvolte e le cronache scritte di quell’epoca. In talune situazioni di emergenza, le zecche si videro addirittura costrette a coniare tondelli non conformi o a requisire suppellettili – da fondere – di enti caritatevoli


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opinione comune, sin dall’epoca antica, che la moneta, intesa nella sua funzione primaria di strumento di pagamento, sia il mezzo piú efficace per far vincere una guerra. Senza di essa infatti, sarebbe impossibile dare corso all’organizzazione della complessa macchina bellica che comprendeva, prima di tutto, l’approvvigionamento dei mezzi e degli uomini in arme. Ne sono convinti i Senesi che, avendo subito nella primavera del 1260 un attacco dai Fiorentini sotto le mura della propria città, davanti a Porta Camollia, mobilitano direttamente l’imperatore Manfredi per ricevere l’aiuto del conte Giordano d’Agliano con 800 cavalieri tedeschi in cambio di (ben) 20 000 fiorini d’oro presi in prestito dalla potente famiglia dei Salimbeni, mettendo a pegno il castello di Tentennano, in Val d’Orcia, e altre proprietà immobiliari dello Stato. I Senesi, fa sapere Giovanni Villani, «si providono di moneta, e accattaro da la compagnia de’ Salimbeni, ch’allora erano mercatanti, XXm fiorini d’oro, e puosono loro pegno la rocca a Tentennana, e piú altre castella del Comune, e rimandarono loro ambasciadori in Puglia co la detta moneta al re Manfredi dicendo come la sua poca gente di Tedeschi per loro grande vigore e valentia s’erano messi ad assalire tutta l’oste de’ Fiorentini, e gran parte di quella messa in fugga, ma se piú fossono stati, aveano la vittoria (...) il quale [Manfredi] intesa la novella fu crucciato, e co la moneta de’ Sanesi, che pagaro la medate per tre mesi, e a suo soldo, mandò in Toscana il conte Giordano suo maniscalco con VIIIc cavalieri tedeschi co detti am-

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Per Siena e contro l’impero Rinuncia alle armi di San Martino di Tours, affresco di Simone Martini. 1312-1317 circa. Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Inferiore, Cappella di S. Martino. Un soldato, rappresentato in abiti militari e con elmo scoperto, ha la mano destra protesa verso un uomo in vesti civili (tesoriere) che gli conta, una a una, le monete d’oro relative alla paga della «condotta» in prossimità dell’accampamento militare. L’imperatore seduto in trono, rappresentato con una corona d’alloro cinta sul capo e che punta il suo scettro verso il santo, accusandolo di viltà, è probabilmente Federico II di Svevia, come si evince dagli stemmi con l’aquila nera su fondo oro campiti sulle tende dell’esercito. In questo modo Simone Martini vuole caricare il sovrano di un significato negativo e non è un caso che il nemico, asserragliato dietro le rocce sulla destra, abbia le insegne del leone rampante su fondo rosso, simbolo cioè del Capitano del Popolo di Siena. In questo contesto la città toscana (terra natale dell’autore), che in questi anni stava fronteggiando proprio l’imperatore Arrigo VII del Sacro Romano Impero, assumerebbe invece un valore positivo. dicembre

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basciadori, i quali giunsono in Siena a l’uscita di luglio, gli anni di Cristo MCCLX; e da’ Sanesi furono ricevuti a gran festa, e eglino e tutti i Ghibellini di Toscana ne presono grande vigore e baldanza» (Nuova Cronica, Libro VII, LXXVI). Dello stesso avviso, due secoli e mezzo piú tardi, è anche Luigi XII, il quale, in occasione della presa di Milano nel 1499, alla richiesta di cosa fosse necessario per espugnare la città, risponde: «Tre cose: denaro, denaro, denaro».

Una voce discorde

Niccolò Macchiavelli invece, che rappresenta l’unica voce fuori «dal coro», sostiene che «i danari ancora, non solo non ti difendono, ma ti fanno predare piú presto» e, riportando a titolo di esempio l’esito della guerra appena trascorsa tra Francesco Maria della Rovere da una parte, e l’armata pontificia alleata coi Medici dall’altra, aggiunge: «se il tesoro bastasse a vincere (...) pochi giorni [or] sono, il Papa ed i Fiorentini insieme non a[v]rebbono avuta difficultà in vincere Francesco Maria, nipote di papa Iulio II, nella guerra di Urbino. Ma tutti i soprannominati furono vinti da coloro che non il danaio ma i buoni soldati stimano esser il nervo della guerra (...) Dico pertanto, non l’oro, come grida la comune opinione, essere il nervo della guerra, ma i buoni soldati: perché l’oro non è sufficiente a trovare i buoni

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In alto grosso in argento con il busto di Luigi XII d’Orléans, re di Francia. XVI sec. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana. A sinistra il castello di Tentennano, in Val d’Orcia.

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Dossier Miniatura raffigurante la presa di Faenza da parte di Federico II nel 1240-1241, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Sulla destra, l’imperatore, con la corona e l’aquila imperiale sulla sopravveste, dopo sette mesi di assedio, ottiene la città di Faenza, come sta a significare la mano allungata sulle mura. A sinistra, lo scambio delle tessere di cuoio con gli augustali d’oro, che valevano (puntualizza Villani per i suoi lettori fiorentini) «l’uno la valuta di fiorini uno e quarto». A sinistra augustale d’oro emesso da Federico II nelle zecche di Messina e Brindisi a partire dal 1231. Al dritto, il busto dell’imperatore laureato e drappeggiato volto a destra, nello stile dei «cesari antichi», con legenda CAES AVG IMP ROM («Cesare Augusto Imperatore dei Romani»), da cui trae il nome la moneta; al rovescio, l’aquila sveva ad ali spiegate rivolta a destra e la legenda che riporta il nome per esteso dell’imperatore: FRIDERICVS. Nella pagina accanto tavoletta di biccherna raffigurante il camarlingo e lo scrittore nel loro ufficio, intenti a contare denari. 1393. Siena, Archivio di Stato.

soldati, ma i buoni soldati sono bene sufficienti a trovare l’oro» (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, Libro II, Capitolo X). Senza entrare nel merito se fosse piú efficace l’opinione comune o quella di Macchiavelli – che potrà essere approfondita in opportuna sede –, possiamo tuttavia affermare che in occasione della pianificazione di uno sforzo bellico, e per tutta la sua durata, la moneta ha giocato un ruolo essenziale, sicuramente primario, da cui uno Stato non poteva prescindere, indipen-

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dentemente dall’esito del conflitto stesso. L’eccezionalità della guerra inoltre, essendo sostanzialmente imprevedibile nei suoi sviluppi ed esiti, presupponeva per sua natura una vasta disponibilità di risorse tanto demografiche quanto materiali che richiedevano una ampia elasticità di cassa (e quindi di moneta sonante), a meno di non rischiare di soccombere.

Cuoio al posto dell’oro

Federico II per esempio, riporta Villani, durante l’assedio di Faenza del 1240 (che si protrae in modo inaspettato per sette mesi) fa coniare monete di «cuoio» con la propria effigie per saldare le truppe al suo seguito, perché ha terminato (temporaneamente) la scorta delle sue monete d’oro: «lo ‘mperadore per suo senno, fallitagli la moneta, e impegnati i suoi gioielli e vasellamenti, e piú moneta non potea rimedi[a]re, sí ordinò di dare a’ suoi cavalieri e a chi servia l’oste una stampa di cuoio di sua figura, stimandola in luogo di moneta, sí come la valuta d’uno agostaro d’oro» (cioè di un augustale; Nuova Cronica, Libro VII, XXI). Questa sorta di prestito forzoso, escogitato per motivare il suo esercito a proseguire l’assedio, viedicembre

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All’assedio del castello Guidoriccio da Fogliano all’assedio di Montemassi, affresco attribuito a Simone Martini. 1330 circa. Siena, Palazzo Pubblico, Sala del Mappamondo. Il grande dipinto fu voluto dal Governo dei Nove – al potere a Siena dal 1287 al 1335 – insieme ad altre opere con le quali si intendevano celebrare le conquiste che avevano reso grande la città, grazie alla presa di castelli e città fortificate del territorio. In questo caso viene offerto un bell’esempio di accampamento militare, riprodotto con fotografica minuzia: entro uno spazio protetto da una palizzata si ergono due grandi padiglioni, con funzione ostentatoria dell’immagine civica, che recano gli stemmi del Comune (la balzana, di colore bianco e nero) e del Popolo di Siena (il leone rampante bianco in campo rosso); intorno a essi si dispongono, in modo alquanto irregolare, non tende, bensí capanne di paglia (alla cui sommità sventolano vessilli bianco-neri con una «balestra»: quelli cioè del corpo dei balestrieri senesi) e due tettoie di frasche, che talora sono state scambiate per «vigne». Al centro dell’affresco si erge il comandante senese di profilo, a cavallo, mentre va all’assedio del castello di Montemassi (arroccato in alto sulla sinistra); in secondo piano a destra, in posizione sopraelevata, viene rappresentato il «battifolle» dei Senesi (una costruzione in legno realizzata con scopi di avvistamento e di difesa), dalle cui torri sventolano le bandiere di Siena (a sinistra) e del comandante Guidoriccio (a destra). Montemassi, minuscolo borgo dell’alta Maremma toscana, nel comune di Roccastrada, era un presidio di importanza cruciale per la sua posizione strategica.

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ne poi onorato dopo la conquista della città, come tiene a precisare il cronista fiorentino nel prosieguo del suo racconto: «E poi avuta la città di Faenza, a chiunque avea delle dette stampe [l’imperatore, ovvero i suoi tesorieri] gli cambiò ad agostari d’oro». Del resto, se non stipendiati, i soldati diventavano disoccupati terribili, «fuorilegge al di sopra della legge», a partire dal momento in cui erano liberi di scorrazzare per territori inermi e di rifarsi ampiamente, con il saccheggio, degli stipendi perduti. La «condotta» pote-

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va quindi tramutarsi in una sorta di ricatto permanente di una Compagnia sul governo che l’aveva ingaggiata, ricatto sovente troncato dalla defezione della Compagnia stessa, attratta da condizioni piú allettanti offerte da un altro governo, magari avversario di quello che essa aveva fino ad allora servito.

Prestiti forzosi

Le imposizioni fiscali e i prestiti a titolo oneroso sono gli strumenti con cui reperire le liquidità necessarie per scendere in campo e crescono

in diretta proporzione alla durata e alla difficoltà della guerra stessa. Le cifre che devono sborsare i Senesi fra il 1327 e il 1328 per l’assedio di Montemassi, in Maremma, raggiungono (inaspettatamente) cifre cosí elevate da obbligare il Comune a imporre un prestito forzoso che pesa come un macigno sui bilanci pubblici, tanto che, dieci anni dopo la conclusione delle operazioni, i costi non risultano ancora del tutto coperti. Non solo: per fare durare l’assedio il meno possibile, i Sene(segue a p. 78)

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Dossier Tavoletta di biccherna raffigurante le finanze del Comune in tempo di pace e in tempo di guerra, attribuita a Benvenuto di Giovanni. 1468. Siena, Archivio di Stato. La Pace e la Guerra sono i due personaggi femminili posti alle estremità superiori della scena, rispettivamente a sinistra e a destra. La Pace rende prosperi i Senesi, colti nell’atto di pagare le gabelle al camarlingo; la Guerra, invece, avvantaggia i capitani di ventura forestieri, che armati e scortati dai loro scudieri, riscuotono il soldo dalle mani del camarlingo.

Le biccherne

Registri come opere d’arte La Biccherna ha rappresentato, sin dal 1168, una delle principali magistrature finanziarie della Repubblica di Siena. Sostituendosi al sistema fiscale imperiale e vescovile, l’ufficio della Biccherna è diventato cosí l’espressione del libero Comune. La sua etimologia sembra essere di origine orientale: il palazzo imperiale delle Blacherne a Costantinopoli era la sede della dogana e conservava il tesoro dell’imperatore. L’ipotesi piú accreditata è che siano stati i mercanti senesi a portare tale nome nella propria città dopo essere entrati in contatto con i mercati e la cultura orientale. A capo di questo ufficio vi erano quattro provveditori che restavano in carica per sei mesi e che nominavano il camarlingo (noto anche col termine camerarius), a cui era affidata la responsabilità

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della custodia dell’erario. La registrazione delle operazioni finanziarie avveniva per mezzo di registri contabili delle entrate e delle uscite, dette appunto biccherne; si trattava di fogli mobili che inizialmente venivano tenuti insieme da un foglio piú grande, sul quale era annotato il periodo di riferimento e il nome del camarlingo. Sin dal 1257, quando il ruolo di camarlingo non fu piú affidato a cittadini laici, ma a un religioso, i registri vennero rilegati con tavolette lignee dipinte, una superiore e una inferiore, tenute insieme da lacci di cuoio. Questa usanza rimase in vigore sino alla metà del Quattrocento, quando si decise di continuare l’iniziativa pittorica sopra piccoli quadri di legno a se stanti da appendere alle pareti dell’ufficio per preservarne (meglio) la memoria. dicembre

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la zecca di siena

Nel cuore della città

Fiorino d’oro di Siena detto «Sanese» emesso dalla zecca cittadina durante la dominazione viscontea (1391-1404). Al dritto (in alto), una raffinata «S» fogliata inscritta in una corolla di centine, sormontata dalla biscia viscontea, con la scritta che richiama quella dello stendardo del Carroccio che dice SENA VETVS CIVITAS VIRGINIS («Siena città della Vergine»); al rovescio, una croce con le estremità fogliate, secondo il gusto del gotico floreale, attorniata come nel dritto dalla corolla di centine e nel giro la frase ALFA ET O[mega] PRINCIPIV[m] ET FINIS, tratta dall’Apocalisse di Giovanni a ricordare colui che è il principio e la fine di tutto, cioè Dio stesso.

La zecca senese era detta in origine bulgano, termine in passato attribuito alla derivazione del latino bulga (volgare bolga), cioè la borsa di pelle in cui si custodivano le monete, ma, secondo studi piú recenti, riferibile al nome Vulcano, il dio romano del fuoco e della metallurgia. Questa tradizione, documentata unicamente in Toscana tra Siena, Volterra, Massa (di Maremma) e Arezzo, viene poi sostituita nel corso del XIV secolo dalla parola «zecca» (dall’arabo sikka, cioè il conio) attraverso la graduale mediazione culturale sveva e angioina (a Siena il termine zecha è documentato per la prima volta nel 1351). I funzionari preposti alla gestione della zecca erano quindi denominati «signori del bulgano», i domini bulgani, e rimanevano in carica per un semestre; erano in genere in numero di due, talvolta tre, ed erano scelti dal podestà fra i membri del Consiglio Generale. Dal 1280 viene nominato per la prima volta anche un «camerlengo», il camerarius bulgani, diretto sorvegliante nonché consegnatario dell’utile della zecca durante la sua permanenza ai magistrati di Biccherna. Come ogni zecca comunali, il bulgano lavorava con il metallo portato dai privati, senza il quale non era possibile dare corso alla coniazione; inoltre poteva essere gestito direttamente dal Comune o dato in appalto ai privati, dietro esplicita indicazione del Consiglio Generale. Per motivi di sicurezza, il bulgano era ubicato nel cuore centrale della città, al pari delle altre importanti magistrature civili del governo repubblicano come la Mercanzia, la Dogana e la Biccherna. Sin dal 1247 la sua residenza è sita nella piazza centrale della città, il Campus fori (l’odierna piazza del Campo) e precisamente a lato della Dogana, al piano terra dell’edificio oggi noto come Palazzo Pubblico (sede dei Magazzini del Sale). Un verbale del 1385 relativo alla proposta di coniazione di nuova moneta grossa ci conferma la sua immutata posizione: «Item simili modo providerunt eidem sapientes predicti quod quicumque cives Civitatis Senarum vel alius undecumque sit voluerint in dogana senensis zecha comuni senensis ad cudendum et fabrigandum grossos valoris V. sol. denariorum».

A destra un’altra tavoletta di biccherna raffigurante il camarlingo e lo scrittore nel loro ufficio. 1394. Siena, Archivio di Stato. Sul tavolo, gli strumenti da lavoro: il registro dello scrittore poggiato sul leggio e quello del camarlingo.

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Dossier si pagano agli abitanti del castello una buonuscita di 1000 fiorini d’oro perché si decidano alla svelta ad abbassare le difese. Le vicende relative al trentennio 1225-1255, percorse dall’antagonismo tra Siena e Firenze – che aveva tra le sue cause il secolare conflitto per il controllo del Chianti e la competizione per la gestione in appalto delle finanze pontificie –, spingeva la prima di queste a una politica costantemente antifiorentina e filo-imperiale; di contro, si consolidava un asse LuccaFirenze dichiaratamente guelfo per contrastare Pisa, a sua volta in lega con Pistoia e Siena. L’impegno militare di Siena in questo trentennio è notevole e la città si presenta come una esemplare fonte di informazione per l’impiego e l’impatto dei soldati mercenari (citati nelle fonti come stipendiarii o piú raramente soldanerii) sulla gestione delle finanze e l’amministrazione delle casse

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pubbliche (le voci analizzate sono tratte dalle partite, in entrata e uscita, dell’ufficio finanziario del Comune di Siena denominato Biccherna; vedi box a p. 76).

Un assedio devastante

Il primo arruolamento di massa straordinario è quello relativo all’agosto del 1230 (gli assoldati sono principalmente berroverii, cioè «cavalieri armati alla leggera»), decretato per rimpiazzare le perdite subite durante l’assedio fiorentino che, tra la fine di giugno e l’inizio di luglio dello stesso anno, aveva devastato le terre intorno a Siena, aveva posto un assedio ed era riuscito a impegnare presso l’antica Porta Camollia i Senesi, procurando ingenti danni agli edifici e prendendo molti ostaggi, tra cui il podestà stesso. Il picco della spesa si raggiunge nell’arco cronologico 1229-1231 ed è piuttosto significativo che proprio dal primo anno di liquidazione

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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dei mercenari il Bulgano (termine senese che identifica la zecca cittadina; vedi box a p. 77) coniasse non solo denari piccoli, ma, per la prima volta, anche una cospicua quantità di grossi. Questi nuovi multipli d’argento, la cui esistenza è documentata a Siena a partire dal 1229 (la piú antica fonte reperita è tratta da una ricevuta della Biccherna intestata ad «Accarisio Magistri Ranuccii pro duecentis viginti libris et quinque uncis argenti (...) in fundendo illo in bulgano, quia facimus inde fieri tot denarios crossos»), erano stati prodotti da tutte le principali città toscane coinvolte nel conflitto (cioè, oltre a Siena, anche da Pisa, Lucca, Firenze e Arezzo), seppur in tempi diversi tra loro, con l’intento di porre in commercio un mezzo di pagamento di maggiore potere liberatorio rispetto al denaro piccolo (il rapporto tra le due valute in quel momento era 1:12) e perciò piú rispondente all’aumento della domanda di circolante dettato

dall’incremento degli scambi e dalle guerre in corso; vedi box a p. 80).

Stipendi di guerra

Gli arruolamenti di cui si ha notizia attraverso i libri di Biccherna, fatte le debite equivalenze tra monete di conto (lire pisane espresse in grossi), rendono cifre che appaiono in linea con quanto stabilito nel patto di alleanza ghibellina toscana sottoscritto in data 22 giugno 1251 fra le città di Siena, Pisa, Pistoia e i Fiorentini ghibellini. Gli stipendi giornalieri per chi avrebbe partecipato alla campagna militare vengono cosí specificati: 3 soldi pisani in «bonorum denariorum» (ossia in grossi della zecca di Pisa) per i cavalieri con un solo cavallo, 5 soldi per chi ne possedeva due (ogni grosso corrispondeva a 1 soldo o 12 denari piccoli). Al servizio dell’alleanza ghibellina c’erano 92 cavalieri tedeschi (militibus teutonicis) di stanza a Siena, che venivano stipendiati interamente dal Comune pisano attraverso un

versamento alla Biccherna tramite due ambasciatori senesi che intrattenevano rapporti con quella città alleata. La parte di Siena per la comitiva militum societatis era piú numerosa, in quanto formata da 155 milites di provenienza umbra (principalmente da Todi e Spoleto), arruolati a 14 lire mensili ciascuno (pari cioè a 5 grossi d’argento giornalieri, ovvero la paga di un cavaliere con due cavalli al seguito). Anche dall’altra parte della barricata, tra le file dell’esercito guelfo-fiorentino mobilitato in vista dello scontro con i Senesi nel 1260, descritto in modo minuzioso (e forse un po’ di parte) nel Libro di Montaperti, vengono reclutati professionisti mercenari (principalmente «berrovieri» lombardi), i cui stipendi appaiono in linea con quelli descritti nelle fila dell’alleanza ghibellina toscana (con la sola differenza che vengono qui espressi in moneta fiorentina). Le condizioni dell’ingaggio sono piuttosto chiare:

Siena. Il Palazzo Pubblico, affacciato su piazza del Campo (il Campus fori medievale). Al piano terra dell’edificio aveva sede il Bulgano, la zecca della città toscana.

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Dossier I grossi

Una valuta piú efficace Il fenomeno che in campo monetario piú caratterizza la prima metà del XIII secolo è la comparsa nell’Italia centro-settentrionale delle prime monete «grosse» (in oro e argento), che si impongono rapidamente nel commercio internazionale per il maggiore potere liberatorio rispetto al denaro piccolo, quale unica moneta circolante fino a quel momento. Le prime città a coniare i grossi d’argento in Toscana, grazie alla proprietà (intera o parziale) dei diritti estrattivi delle principali località minerarie della Maremma (Montieri in primis, per l’abbondante dotazione di galena argentifera), sono Lucca, Pisa e Siena, che dopo pochi anni, vengono seguite da Firenze e Arezzo (terzo decennio del secolo). Queste monete di puro argento (il fino è superiore al 90%) e di peso medio di circa 1,8 grammi, raggiungono l’equivalenza prima della metà del secolo: è quanto testimonia un contratto del 1244 relativo alla vendita di un mulino a Suvereto in cui il prezzo da liquidare viene stabilito in grossi, indifferentemente di Pisa, Lucca, Firenze, Siena e Arezzo. Con l’introduzione del «grosso» il sistema monetario a base argentea introdotto da Carlo Magno (781-794) si dotava di un ulteriore pezzo coniato: infatti la lira (unità di conto), corrispondente a 240 denari, identificava in questo nominale la sua ventesima frazione, in quanto ciascun pezzo (denominato soldo) era computato 12 denari piccoli. Il sistema lira-soldidenari si materializza nella sua completezza poco piú

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti Grosso fiorentino da conseque nis un soldo, detto «fiorino maxim eaquis grosso», con al dritto il giglio earuntia cones fiorentino (piú verosimilmente apienda.un «giaggiolo») e attorno il nome della città in latino FLORENTIA; al rovescio, il santo patrono benedicente Giovanni Battista accompagnato nel giro dalla scritta S[an] IOHANNES B[aptista]. Ante 1237-1250. Collezione privata. Qui sotto grosso pisano da un soldo con al dritto una grande lettera «F» (iniziale del nome dell’imperatore svevo Federico II) tra quattro fiorellini e attorno la scritta IMPERATOR; al rovescio, la Madonna col Bambino in collo e nel giro S[ancta] MAR’[ia] D’[e] PISIS. Post 1228-1250.

tardi (nel 1252) con la coniazione del fiorino d’oro, il cui corso viene stabilito in una lira (da qui la necessità di specificare nei contratti lira a fiorini, a grossi, a piccioli). La parità di valore tra il fiorino e la lira dell’anno 1252 ebbe tuttavia breve vita, a causa dell’oscillazione continua del valore dei metalli oro/ argento, e la lira tornò a essere una moneta immaginaria e tale si mantenne per ancora molti anni. Grosso senese da un soldo con al dritto una grande lettera «S» tra quattro globetti accompagnata nel giro dalla scritta SENAVETVS, che identifica in latino il nome dell’antico nucleo cittadino; al rovescio, una croce patente attorniata dal motto biblico tratto dall’Apocalisse di Giovanni che dice, in forma abbreviata, ALFA ET O («Ego sum alfa et omega, principium et finis»). Ante 1229-1250. Collezione privata.

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viene garantita loro l’immunità da ogni bando, condanna o rappresaglia che possa coinvolgerli, ma alla condizione che non siano stati condannati per omicidio, falsificazione (il documento non specifica di che cosa, ma molto probabilmente si riferiva alla produzione fraudolenta di moneta), furto, incendio, tradimento o ribellione. Il pagamento degli stipendiarii variava in base al ruolo ricoperto in campo di battaglia. Per l’ingaggio di Guidoriccio da Fogliano, capitano di guerra dell’esercito senese all’assedio di Montemassi nel 1328, per esempio, ci vogliono ben 200 fiorini d’oro (pari cioè al costo di un immobile di medio valore situato in prossimità del centro di Siena nella prima metà del Trecento). La paga del tiratore armato di balestra grossa, che è identica a quella del «pavesario» (facente cioè parte del corpo di portatori dei grandi scudi, i pavesi o palvesi, dietro ai quali si riparano i tiratori durante la battaglia), viene liquidata dal Comune di Firenze in 30 denari al giorno (pari cioè a 2 grossi d’argento e 6 denari piccoli) nel 1260; i «guastatori» e i «marraioli» (corpo indispensabile munito della marra, una sorta di zappa a lama triangolare utilizzata per spianare il terreno davanti all’esercito in marcia) vengono pagati 12 denari al giorno (corrispondenti a un fiorino grosso d’argento). Tra i corpi combattenti resta infine da considerare quello piú carico di simbolismo, incaricato di scortare il carroccio, sul quale sono posti la martinella e lo stendardo del Comune (bianco con il giglio vermiglio per Firenze, mentre per Siena è semplicemente bianco «a similitudine del mantello della Vergine Maria» e reca la scritta «Sena Vetus Civitas Virginis, Alpha et Omega Principium et Finis», che ritroviamo anche nel conio delle monete senesi). Questo numeroso contingente, costituito, secondo Villani, da i «migliori e piú

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forti e virtuosi popolani a piè della cittade», viene pagato alla stregua dei tiratori e pavesari in 30 denari al giorno (2 grossi d’argento e 6 denari piccoli); piú remunerati invece appaiono i «bifolchi» che, per sé e ogni paio di buoi che forniscono per trainare il carroccio, vengono stipendiati 4 soldi al giorno (pari cioè a quattro grossi d’argento). Mezzo secolo dopo, gli stessi stipendi raggiungono cifre ben piú elevate, evidentemente per l’aumento naturale del costo della vita, come testimoniano le spese sostenute dal Comune di Siena nel 1314 per la campagna militare contro i ribelli di Elci, in Maremma. I balestrieri che prestato servizio al «battifolle» (una macchina d’assedio di legno), per esempio, percepiscono un salario di 6 soldi al giorno (pari cioè a 3 grossi senesi d’argento da 2 soldi o 24 denari; questi nuovi grossi vengono coniati dal 1296/1297) e la stessa somma ottengono anche i fanti a piedi (pedites) per ogni giorno di partecipazione.

Disparità salariali

La truppa guidata da Jacomo di messer Alberto, di Broglio nella Val di Chiana, costituita da un contingente di venticinque cavalieri (ciascuno con un cavallo e un ronzino al seguito) viene ingaggiata dal Comune di Siena tra il 1314 e il 1315 alla cifra di 25 lire al mese (per ogni soldato) che, conti alla mano, corrisponde a poco meno del doppio di quella erogata nella metà del Duecento. Rispetto al proprio contingente a cavallo, i condottieri percepiscono cifre ben piú ragguardevoli, che giustificano evidentemente lo sforzo d’impresa: Guicciardo da Prato infatti, che nel 1323 guida una masnada di assoldati, percepisce uno stipendio mensile di 60 lire, mentre i suoi cavalieri vengono pagati 22 lire a testa (gli esempi potrebbero essere ben piú numerosi, ma tutti appaiono allineati nelle somme erogate,

in virtú del ruolo ricoperto, sino alla metà del XIV secolo). Talvolta, in periodo di guerra, le autorità potevano ordinare la battitura di nuove specie monetali, sia per soddisfare la crescente domanda di circolante, ma anche per rendere piú agevole il pagamento degli stipendi dei soldati coinvolti nel conflitto, attraverso l’emissione di nominali dal maggiore valore unitario. Il Comune di Siena per esempio, in data 7 ottobre 1279, predispone la coniazione di nuovi grossi d’argento del valore di 2 soldi (pari cioè al doppio di quelli emessi nella prima metà del secolo) per provvedere alla paga delle soldatesche e alle spese delle fortificazioni di Montefollonico (terminate appena due giorni prima). La strategica posizione di quel castello infatti, situato sul confine tra la Val di Chiana e la Val d’Orcia, lo esponeva di continuo agli attacchi delle grandi famiglie feudali, ghibelline per tradizione, perché escluse dalla vita pubblica ed espulse dalla città a seguito dell’instaurazione di un nuovo governo guelfo a Siena coadiuvato da Guido di Monfort, vicario di Carlo d’Angiò. Oltre un secolo dopo (siamo nel 1391), l’esigenza incombente di una moneta di piú ampio potere liberatorio rispetto a quella grossa d’argento, sorta principalmente per fronteggiare il pagamento delle numerose milizie assoldate dai Senesi nella guerra contro i Fiorentini per la contesa di Montepulciano («acciò che piú fiorini che si potesse fussero ne la Città di Siena per potere meglio satisfare a le spese per la decta guerra»), porta la città della lupa a ordinare la battitura della sua prima moneta d’oro: il fiorino di Siena, detto sanese. La coniazione può avere corso grazie a un efficace stratagemma di politica monetaria: si rendono piú «convenienti» le spese di battitura del sanese e, parallelamente, sfruttando l’afflusso delle monete d’oro straniere impiegate nei paga-

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Dossier Dritto e rovescio del fiorino d’oro con il «trifoglio» coniato a San Jacopo al Serchio da Firenze, all’indomani della vittoria riportata nel 1256 sui Pisani. L’identità dell’autorità emittente si desume dal giglio fiorentino (il «giaggiolo») attorniato dall’antico nome della città, FLORENTIA, e dalla figura del suo santo patrono benedicente, con la scritta S[an] IOHANNES B[aptista].

menti dei soldati di stanza a Siena (soprattutto quelle provenienti da Milano, come testimonia Paolo di Tommaso Montauri nella sua cronaca: «a dí 21 di giugno 1390 vennero XVI cavali e muli carichi di fiorini coniati, che mandò el conte [di Virtú, cioè Gian Galeazzo Visconti] a Siena per pagare e’ suoi soldati»), proibisce l’esportazione di tale metallo dal territorio dello Stato, monetato o meno che fosse, e lo si reimpiega (fondendolo) nella coniazione di nuova moneta senese. L’intento dell’operazione, come puntualizzano minuziosamente le ordinanze della zecca di quel pe-

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riodo, non era tanto quello di battere l’oro già presente in città (perché non era sufficiente a soddisfare la domanda) ma piuttosto quello di «farne venire di fuore [cioè da altre località] a’ onore et bene de la Città di Siena (...) acciò che gli uomini abbino materia di mettere oro ne la zeccha del Comune di Siena et che si bacta piú quantità d’oro». Le monete, in talune occasioni, vengono addirittura coniate sul campo di battaglia, attraverso l’invio dei conii e del personale specializzato dalla zecca ufficiale della città da cui provenivano gli eserciti stessi. Lo fanno i Fiorentini nel 1256, quando, venuti in soccorso dei Lucchesi, sconfiggono i Pisani sulle rive del Serchio (nel comune di San Giuliano Terme, a nord di Pisa) e, per celebrare la vittoria su una delle storiche rivali, dice Villani (mettendoci forse troppa enfasi di parte), «tagliaro uno grande pino, e battero in sul ceppo del detto pino i fiorini d’oro; e per ricordanza quelli che in quello luogo furono coniati ebbono per contrasegna tra’ piedi di santo Giovanni quasi come uno trefoglio, a guisa d’uno piccolo albero; e de’ nostri dí ne vedemmo assai di quelli fiorini» (Nuova Cronica, Libro VII, LXII). I Pisani, che hanno subito lo sfregio, ne sono, comunque, evidentemente rimasti impressionati per la valenza comunicativa, tanto

che, poco tempo dopo (siamo nel 1264), lo ripetono essi stessi sotto le mura di Lucca, battendo i grossi d’argento chiamati aquilini (per l’immagine dell’aquila rapace impressa sul tondello), e per l’occasione addobbano nuovi cavalieri e organizzano giochi e danze.

In segno di vittoria

La vendetta si consuma però da lí a poco, nel 1269, quando i Lucchesi, «per ricordanza e vergogna de’ Pisani», dopo avere devastato e saccheggiato il contado pisano, arrivano fino alle mura della città avversaria e «feciono battere loro moneta e tornarono sani e salvi». Lo fanno anche i Genovesi qualche anno dopo (1287), sempre contro Pisa, ma in questa occasione via mare. Dopo la disastrosa sconfitta navale della Meloria, subita dai Pisani tre anni prima, una piccola spedizione formata da cinque galere genovesi fa breccia tra le catene di ferro che sbarravano l’ingresso del porto (Porto Pisano, vicino all’odierna Livorno) e, preso possesso della postazione avversaria per una settimana, batte moneta in signum victorie. Architetta il medesimo rituale il condottiero lucchese Castruccio Castracani, della potente famiglia ghibellina degli Antelminelli, il quale, ottenuta una storica vittoria sui Fiorentini ad Altopascio nel settembre 1325, direttosi verso il capoluogo toscano, a «dispetto de’ Fiorentini [dice Villani] fece battere moneta piccola in Signa co la ‘mpronta dello ‘mperadore Otto [Ottone IV di Brunswich], e chiamar[on]si i castruccini». La coniazione, in un episodio, assume persino le sembianze di un’azione scellerata ed empia. Siamo nel 1335 e l’esercito perugino, dopo avere preso il controllo della città di Arezzo, occupa il duomo, trasformandolo in zecca («puose campo et oste al domo» e fa battere «nel dicto domo al conio de la moneta del comune di Peroscia»); non soddicembre

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Dritto e rovescio del grosso pisano da 2 soldi detto «aquilino» (post 1260/1264). Questa moneta, che ritrae al dritto la Vergine, nimbata e coronata, seduta in trono con il Bambino in braccio, e, al rovescio, l’aquila rapace coronata su un capitello, da cui trae origine il nome stesso del pezzo, rappresenta una delle plausibili coniazioni messe a segno dai Pisani nel 1264 nei pressi delle mura di Lucca, a ritorsione dell’incursione fiorentina e lucchese avvenuta qualche anno prima presso Pontasserchio. Collezione privata.

disfatto, fa radunare sotto le mura della città tutte le meretrici che sono al suo seguito e, aggiungendo ulteriore infamia alla popolazione sconfitta, le fa correre discinte («anco ce fecero currere el palio denante a la porta de Arezzo da le putane alzate fino alla centura»). L’irrisione volta a mortificare il nemico in guerra, secondo una ritualità tipicamente toscana di quel periodo, può manifestarsi anche nel conio stesso della moneta. Siamo nella tarda primavera del 1363: Matteo Villani (fratello di Giovanni e continuatore della sua Cronica) scrive che Pietro Farnese, capitano

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In basso vignetta che illustra la città «murata» di Lucca e descrive come, essendo in guerra con Pisa, «fe’ hedificare et fortificare Chastello Passarino. E cosí si tenne fortificato et ben guardato fine a questo dí», dalle Croniche di Giovanni Sercambi. Inizi del XV sec. Lucca, Archivio di Stato.

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Dossier Dritto e rovescio del denaro piccolo lucchese detto «castruccino», dal nome di Castruccio Castracani. Al dritto, l’imperatore Ottone, a mezzo busto, con la dicitura: OTTO REX. Al rovescio, LVCA, con le lettere disposte a croce, e attorno: INPERIALIS. Il signore di Lucca fece coniare la moneta dopo la vittoria ottenuta nel 1325, ad Altopascio, ai danni dei Fiorentini.

fiorentino, mossosi da Empoli il 18 maggio, occupa il contado limitrofo a Pisa e lí «a Rignone [oggi Riglione sull’Arno, 3 km a sud-est della città] e allo Spedaluzzo [moderno Spedaletto, l’«Ospedale» a ovest di Riglione] fe’ battere moneta dell’oro e d’argento e di quattrini: in quella d’argento sotto i piè di San Giovanni sta una volpe al rovescio». Quanto detto viene confermato anche dal cronista Simone della Tosa (1270 circaante 1345), il quale, in aggiunta al Villani, fornisce le date precise di questi eventi: «Adí

28 di Maggio Messer Piero Capitano de’ Fiorentini cavalcò alle Porti di Pisa ardendo ciò che trovavano. Adí 30 di Maggio vi fece battere la moneta del Comune di Firenze, ciò furono fiorini, e grossi, e dodicini, con una volpe sotto i piedi del San Giovanni».

Infidi come volpi

L’allusione alla volpe morta, secondo una tesi condivisa dagli storiografi, è riconducibile alla disfatta dei Pisani, come si desume dalle parole di Dante, che nella Commedia fa riferimento alle «volpi» per indicare gli astuti e odiati vicini. L’episodio compare nel Purgatorio, quando Guido del Duca, descrivendo il corso dell’Arno, definisce i Pisani come «le volpi si piene di froda / che non temono ingegno che le occupi». Ancora, in una canzone scritta per celebrare le vittorie contro i Pisani dell’anno 1362, Franco Sacchetti (1330-1400 circa) definí Pisa «Volpe superba, viziosa e falsa». Stesso scenario, ma a ruoli invertiti, si ripete in territorio fiorentino nella tarda estate di quello stesso anno (presso Rifredi, «al borgo san Domnino, che è presso Fiorenza a tre miglia»): una cronaca anonima senese, contemporanea all’evento, riferisce che i Pisani «batero-

A destra, sulle due pagine grosso fiorentino da 5 soldi detto «guelfo della volpe», e coniato in argento a Riglione e Ospedaletto, località situate nei pressi di Pisa. La moneta è cosí chiamata perché, sotto ai piedi del Battista, compare una volpe morta con le zampe all’aria. Al dritto vi è invece il giglio fiorentino con la legenda DET TIBI FLORERE XPS (Cristus) FLORENTIA VERE («Che Cristo ti faccia fiorire veramente, Firenze»). Tale invocazione viene introdotta nei conii dei grossi d’argento alla metà del Trecento, periodo in cui la città cercava di uscire dalle gravi crisi economiche, preannunciate tra il 1342 e il 1346 dal fallimento delle compagnie dei Bardi, dei Peruzzi, degli Acciaiuoli e dei Bonaccorsi, e dalla peste del 1348, che eliminò i due terzi della popolazione urbana.

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Miniatura raffigurante l’attacco dei Fiorentini a Pistoia, sferrato nel 1228 e in occasione del quale fu portato sul campo anche il carroccio, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

no la moneta in sulle porti [di Firenze], choniata d’un Aquila cho’l Leone sotto a’ piedi e furo fiorini e grossi». Qui, sotto gli artigli dell’aquila pisana, giace stavolta il «marzocco» fiorentino, cioè il virtuoso animale che simboleggia il potere popolare guelfo della città gigliata.

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Il carattere emergenziale di talune coniazioni, definite «ossidionali» perché prodotte in occasione di una guerra d’assedio (dal latino obsidium), poteva portare le autorità cittadine ad adottare misure estreme e spesso non conformi rispetto agli standard monetari seguiti in situazioni di normalità. È quanto accade a Siena nel luglio 1526, cioè alla vigilia dello scontro con i Fiorentini e l’esercito papale presso Porta Camollia, a nord delle mura urbane. In quella occasione, infatti, vista l’urgente necessità di moneta per provvedere al pagamento delle soldatesche in servizio, il Collegio di Balía (una magistratura eletta ad hoc in occasioni straordinarie) autorizza il responsabile della zecca in carica Guido Savini a mettere in circolazione i grossi d’argento appena co-

niati senza eseguirne il (consueto) saggio di approvazione. Ma non finisce qui: a novembre solleva addirittura il suo successore (Gerolamo Ghini), i maestri, i garzoni e gli altri lavoranti della zecca «da ogni molestia o pena, per avere coniato monete di argento e nere [cioè in rame] a lega e peso inferiori a quanto dai regolamenti prescritto». Due anni dopo (siamo nel febbraio 1528), per portare a compimento le riparazioni alle opere di difesa della città che richiedono una grande quantità di denaro, la stessa magistratura non ci pensa due volte ad aprire una nuova officina della zecca che affiancasse (ma non sostituisse) quella vecchia.

Caccia al metallo

Durante un assedio, la ricerca dei metalli volti alla monetazione non era operazione di poco conto. Il capitano fiorentino Francesco Ferrucci, in occasione della presa di Volterra nell’anno 1530, per trovare l’intrinseco da coniare, rastrella tutti i preziosi in mano ai privati,

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A destra fiorino d’oro battuto nel 1363 a Riglione e Ospedaletto, nei pressi di Pisa, per celebrare la campale sconfitta inflitta ai Pisani da Pietro Farnese, capitano generale dell’esercito fiorentino. La preparazione dei conii fu affidata al fabbro Pierozzo di Migliore, che li eseguí nell’officina di Firenze, come testimoniano le ricevute di spesa annotate dal camerario di quella zecca. La recente scoperta del fiorino con una volpe sotto i piedi del San Giovanni (gli esemplari noti sono attualmente tre, di cui uno è custodito nel Museo Archeologico di Bologna, mentre altri due fanno parte del ripostiglio di monete d’oro trecentesche rinvenute nel 1938 a Siracusa, oggi conservate nel Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi»), fornisce una concreta testimonianza dei fatti narrati dai cronisti dell’epoca, delle registrazioni della zecca, e di come la vittoria ottenuta dai Fiorentini sulla storica rivale venisse ritenuta di tale importanza da essere celebrata anche sulla moneta simbolo di Firenze.

ossia «tutti gli arienti, nappi, e taze, e forchette, e chucchiai, e anella doro, e dariento duomini, e donne, e messi in zecha a battere, e che per 3 anni non si potessi portare anella per persona doro, e dariento»; non contento, sequestra gli «arienti superflui délie Chiese» e addirittura uno dei simboli piú rappresentativi della città, cioè «la campana grossa del palazzo loro [cioè quella del Comune] che penso sia rebbella’ [rivoltosa] per avér[l] a sonato a martello contro alli ordini [dei Fiorentini] piú volte».

Ma non è l’unico a farlo. A Siena, senza andare troppo lontano, la carenza di metallo monetabile non risparmia nessuno, neppure gli enti assistenziali e caritatevoli. Siamo nel 1526: per dare corso alla coniazione di moneta grossa e divisionale la zecca senese arriva persino a fondere i vasi d’argento di proprietà della Compagnia della Vergine Maria, riposti nei cassoni dell’Ospedale di Santa Maria della Scala, e quelli consegnati da Jacopo Petrucci, fratello del «ma-

Sulle due pagine la vittoria senese a Porta Camollia (1526) in una tavoletta di biccherna attribuita a Giovanni di Lorenzo Cini. 1526. Siena, Archivio di Stato. Nella campagna fuori dalle mura si vedono le postazioni nemiche smantellate e i cannoni ricondotti in città, in un brulicare di soldati; si scorgono l’antiporta e la porta di Camollia, in lontananza uno scorcio di Siena sovraffollato di edifici e di torri (si riconoscono la torre del Mangia e il Duomo).

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Dossier Da leggere A.A.V.V., Le monete della Repubblica Senese, MPS, Amilcare Pizzi, Cinisello Balsamo 1992 Duccio Balestracci, Stato d’assedio. Assedianti e assediati dal Medioevo all’età moderna, il Mulino, Bologna 2021 William M. Bowsky, Un Comune italiano nel Medioevo. Siena sotto il regime dei Nove 1287-1355, il Mulino, Bologna 1986 Massimo De Benetti, Una moneta inedita nelle collezioni del Museo Archeologico di Bologna: il Fiorino d’oro battuto da Firenze alle porte di Pisa nel 1363, in Annali

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dell’Istituto Italiano di Numismatica n. 62 (2016); pp. 167-180 Stefano Locatelli, Florins and Ducats in the Kingdom of Sicily-Aragon: The Syracuse Hoard (1313-c.1369), in The Numismatic Chronicle 179 Offprint 2019, pp. 297-245 Alessio Montagano, Bona moneta nova fiat et cudat ad voluntate dominos novem gubernatores et defensores comunis et populi senensis. La monetazione senese all’epoca dei Nove (1287-1355): proposta per una nuova classificazione, in Massimo Sozzi (a cura di), Aspetti di storia della Toscana

Didascalia aliquatur adi odis que vero entmonete qui e medaglie, Edizioni attraverso doloreium d’Andrea,conectu Bari 2021, pp. 125-162 rehendebis eatur Alessio Montagano, Assedio e tendamusam Disonore, in «Medioevo» n. 197 consent, (giugno perspiti 2013); pp. 60-69 conseque nis Il Libro di Montaperti, Cesare Paoli, maxim eaquisFirenze 2004 FirenzeLibri, earuntia Aldo A. cones Settia, Battaglie medievali, il apienda. Mulino, Bologna 2020 Carlo Ludovico Severgnini, Questa guerra non la si può fare che cosí: prime tracce di mercenari in italia (Siena, 1226-1253), in Archivio Storico Italiano n. 675 (Anno CLXXXI), Leo S. Olschki, Firenze 2023; pp. 3-51

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gnifico» Pandolfo, per una sua precedente condanna. La moneta, infine, rappresenta la piú agognata ricompensa di guerra. Quello che accade nel castello di Catona (sullo stretto di Messina, a nord di Reggio), durante la guerra del Vespro, è piuttosto esemplare: il bottino, riferisce il cronista catalano Raimondo Muntaner (1265-1336), è talmente grandioso che i vincitori (i Messinesi) «se n’andarono tutti, e con una gran quantità d’oro e d’argento, e di vasellame, di cinture, di spade, di fiorini e d’altre monete d’oro e d’argento (...) che sarebbe opera inutile voler tutto descrivere (...) imperciocché vi si spendevano i fiorini con quella facili-

tà che innanzi correvano le monete piú minute, e cosí gli abitanti di Messina si fecero tanto ricchi che non si vide piú un povero». Anche tra le file dei soldati vinti, talvolta, c’è qualcuno che festeggia (comunque!) per il lucro conseguito in battaglia. Nella cronaca del Villani si narra che Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari, «cavaliere savio e prode in armi», ritrovatosi esule a Lucca tra i Fiorentini superstiti dopo la bruciante sconfitta di Montaperti, «s’alzò e trassesi de’ caviglioni V fiorini d’oro ch’avea» e, rivolgendosi allo Spedito (suo detrattore concittadino), dicesse in modo ironico: «Vedi com’io ho conce le brache?».

I Vespri Siciliani, olio su tela di Erulo Eroli. 1890-1891. Palermo, Galleria d’Arte Moderna.

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Quelle

di Corrado Occhipinti Confalonieri

prelibatezze prima della fine 90

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Una spettacolare Ultima Cena, affrescata da Giovanni di Francia per la chiesa di S. Giorgio a San Polo di Piave, nel Trevigiano, mostra, sparsi sulla tavola, vari gamberi di fiume, arrossati dalla cottura: un richiamo alle tradizioni gastronomiche locali o un’allusione a temi cristologici? Il dibattito è aperto...

L

e origini della chiesa di S. Giorgio a San Polo di Piave (Treviso) risalgono all’epoca longobarda, quando cominciò il culto del santo cavaliere. Troviamo la prima prova della sua esistenza in un documento del 1034, nel quale il patriarcato d’Aquileia accampa su di essa diritti spirituali e temporali. L’edificio sacro è impreziosito da affreschi che furono oggetto di restauri nel 1977; lavori ai quali fece seguito, nel 1983, un intervento sulla muratura perimetrale, eseguito per risolvere il problema dell’umidità che ne minacciava la conservazione. I dipinti vengono attribuiti a Giovanni di Francia (1420-1485 circa), artista molto

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Salvo diversa indicazione, tutte le immagini si riferiscono alla chiesa di S. Giorgio, a San Polo di Piave (Treviso) e agli affreschi realizzati al suo interno da Giovanni di Francia nel XV sec. Sulle due pagine Ultima Cena, il grande affresco (177 x 535 cm) che occupa la parete nord della chiesa.

attivo in Veneto, e si dividono in tre distinti temi: le Storie di San Giorgio, le scene della Madonna col Bambino e dei Santi e la maestosa Ultima Cena. Come detto, la chiesa è dedicata a san Giorgio, motivo per il quale ne è rappresentata la vita. Dei quattro

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L’affresco raffigurante san Giorgio che incontra la principessa pagana, mentre sott’acqua si vede il drago, scena facente parte del ciclo con le Storie di San Giorgio.

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Veduta esterna della chiesa di S. Giorgio a San Polo di Piave.

Cortina d’Ampezzo Pieve di Cadore

di ge

Belluno

Friuli-Venez ia G iul ia

episodi, i due centrali sono andati distrutti. La prima scena mostra il santo e martire che incontra la principessa pagana in attesa di essere sacrificata al drago nascosto sott’acqua. Nei due riquadri successivi doveva esserci san Giorgio nel momento in cui con la lancia ferisce il drago e la principessa che lo porta al guinzaglio in città, per dimostrare la sua inoffensività. L’ultimo episodio invece mostra il santo che battezza il re e il suo popolo, liberando cosí la città dal paganesimo.

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La scena della Madonna col Bambino è ricca di significati simbolici. Maria tiene con la mano destra un fiore: si tratta di una rosa senza spine, allusione alla sua purezza, e di colore rosso, perché rimanda alla Passione di Gesú. Il Bambino tiene in mano la melagrana, simbolo di resurrezione. Al collo porta una collana di corallo, materiale che in epoca medievale era considerato un amuleto assai efficace per tenere lontane tutte le malattie che potevano colpire i bambini. Al loro fianco troviamo san Francesco d’Assisi, riconoscibile dalle stimmate sulle mani e sul costato. In un altro riquadro si riconoscono san Sebastiano e san Bernardino da Siena. Il primo è ritratto quasi nudo, colpito dalle frecce. Poiché Dio viene spesso rappresentato nell’atto di scagliare sugli uomini peccatori i dardi della peste – anche l’Iliade si apre con Apollo che saetta le frecce del morbo –, i devoti invocavano san Sebastiano affinché li proteggesse da questa malattia; il secondo invece indossa ilAbbazia saio dicistercense tela grezza tipico dei Francescani osservanti Follina di Maria S. della regola della povertà assoluta. Il predicatore tiene nella destra un piatto, il Signum Christi: un sole dai dodici raggi con al centro il monogramma IHS. In questo modo veniva rappresentata la similitudine Cristo-Sole.

Il pellegrino e l’eremita

Nell’ultimo affresco devozionale vediamo san Giacomo Maggiore, riconoscibile dall’iscrizione sopra la testa. Nella mano sinistra tiene il bastone da pellegrino: secondo la tradizione si recò da missionario in Spagna e venne sepolto a Compostella; nella destra il libro, che si riferisce alla sua lettera indirizzata alle dodici tribú disperse per il mondo. Da ultimo, il santo di origine egiziana Antonio Abate. Sul saio porta una croce a for-

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medioevo nascosto veneto La Madonna col Bambino e, sulla sinistra, San Francesco d’Assisi. Nella pagina accanto affresco raffigurante san Giorgio che battezza il re e il suo popolo, scena facente parte del ciclo con le Storie di San Giorgio.

ma di tau, ultima lettera dell’alfabeto ebraico e quindi allusione alle cose ultime e al destino. Sul manico del bastone, anch’esso a tau, vediamo una campanella. L’eremita è considerato il protettore dei malati di herpes zoster, una malattia molto diffusa, causata dalla farina di segale guasta. Per curare questo grave virus (da non confondere col fuoco di sant’Antonio assai piú lieve) veniva usato il grasso dei maiali allevati dai frati antoniani, riconoscibili da una campanella che portavano al collo. Il libro che Antonio tiene nella mano sinistra si riferisce ai suoi molti scritti. La grande rappresentazione dell’Ultima Cena (177 x

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535 cm) occupa circa la metà della parete nord, vicino al presbiterio. Al centro dell’affresco, in basso, è inserito un riquadro con un’iscrizione commemorativa in caratteri gotici. Per conferirle ufficialità, il testo è scritto in latino, la traduzione suggerita dice: «Quest’opera è stata completata al tempo del venerabile reverendo signor arciprete Francesco Quarti di Venezia, degnissimo e benemerito pievano di San Polo del Patriarca, nonché del signor sacerdote Giovanni Ruggeri da Altino, onorevole cappellano del parroco sopra detto, quando erano massari e giurati i provvidi signori Giacomo da Campiluno e Francesco Peruzzi, col consenso degli abitanti della villa di San Giorgio del dicembre

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medioevo nascosto veneto Patriarca. 1466, 28 settembre. A onore di Dio onnipotente e della Beatissima e Gloriosissima Vergine Madre Maria e di san Giorgio». Il testo riporta i nomi del pievano di San Polo, il veneziano Francesco Quarti, e del suo cappellano, Giovanni Ruggeri da Altino, nonché quelli del massaro e del giurato della contrada, Giacomo Campiluno e Francesco Peruzzi. I primi due apposero anche lo stemma raffigurato entro il fregio decorativo sopra la storia di san Giorgio. Quello della famiglia Quarti è a sinistra, mentre quello dei Ruggeri è a destra.

Simboli di resurrezione

L’iscrizione rivela che i personaggi citati sono stati i committenti, anche dal punto di vista economico, dell’intero ciclo figurativo. Gli affreschi hanno a mo’ di cornice superiore un motivo vegetale, costituito dal fogliame rosso/verde, che avvolge in una lunga spirale un fusto d’albero con i rami potati, da cui spicca il disegno ripetuto di una piccola melagrana con due foglioline. La decorazione allude alla resurrezione: il ramo tagliato allude alla morte di Cristo, le melegrane e le foglie alla resurrezione. I dodici apostoli, con Cristo al centro, sono seduti a tavola, l’unico di fronte al Maestro è Giuda Iscariota, su uno sgabello a tre piedi. La tavola ha una prospettiva ribaltata perché, come ha scritto Chiara Frugoni, in questo modo si rende visibile all’osservatore tutto ciò che vi è disposto sopra. Il momento prescelto è la denuncia del traditore: «Gesú si commosse profondamente e dichiarò: “In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà”. I discepoli si guardarono gli uni gli altri, non sapendo di chi parlasse. Ora uno dei discepoli, quello che Gesú amava [Giovanni], era adagiato a mensa nel seno di Gesú. Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse “Di’, chi è colui a cui si riferisce?”. Ed egli, reclinandosi cosí sul petto di Gesú, gli disse: “Signore, chi è?”. Rispose allora Gesú: “È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò”» (Giovanni 13.21-26). Nel dipinto, Cristo sta offrendo un pezzo di pane intinto a Giuda. L’Iscariota ha il capo circondato da un nimbo nero a differenza di quello degli apostoli, giallo oro, ed è anche l’unico ad avere capelli e barba neri; è

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In basso i santi Sebastiano (a sinistra) e Bernardino da Siena.

isolato dagli altri e ha in mano la borsa, certo quella con i 30 denari in cambio dei quali si appresta a consumare il tradimento: assistiamo cosí alla sua colpa e, attraverso i dettagli fisici, ne vediamo un ritratto tutto al negativo. Gli atteggiamenti e i gesti degli apostoli vanno intesi come conseguenza dell’annuncio divino. Purtroppo, i loro nomi non sono piú visibili, tranne quello di Tommaso scritto sopra il nimbo (S. Thomas). Per tentare di identificarli, abbiamo confrontato i colori delle tuniche e dei manti degli apostoli dipinti da Giotto nell’Ultima Cena della Cappella degli Scrovegni di Padova. Come ha infatti dimostrato la studiosa Margrit Lisner, i colori delle vesti degli apostoli risultano abbastanza codificati. A San Polo di Piave, il mancato utilizzo dell’azzurro da parte di Giovanni di Francia non rende però sicure alcune identificazioni. Il lapislazzulo, da cui veniva tratto il colore azzurro, era molto costoso ed è quindi probabile che i committenti abbiano voluto evitare spese eccessive. Il primo apostolo, partendo da sinistra, con la tunica verde, è Giacomo di Alfeo, che, costernato per il dolore dell’annuncio, si pone la mano al cuore. Giacomo Maggiore indossa la tradizionale tunica rossa e la toga ocra/gialla, come nel dipinto devozionale: sul petto, la mano destra con il palmo rivolto all’esterno, in segno di accettazione/rassegnazione. Andrea porta la tunica viola e il tradizionale mantello verde: sta forse offrendo del vino a Simone, in tunica rossa e mantello viola, che indica il possibile colpevole.

L’apostolo prediletto

Pietro è riconoscibile per l’iconografia classica che lo contraddistingue: capelli corti e barba corta e riccia; ha la mano sinistra alzata, segno della parola perché ha chiesto a Giovanni chi sia il traditore. Gesú sostiene il suo apostolo prediletto, che appare addormentato. L’osservatore può chiedersi come mai Giovanni in un momento cosí drammatico piombi nel sonno. Come i Greci e i Romani, Gesú e gli apostoli pranzavano sdraiati sui letti e come appoggio usavano il dicembre

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Gli ultimi restauri

Un’immagine della chiesa all’indomani degli interventi di restauro.

Tutela e sperimentazione Tra il 2010 e il 2011 un intervento di restauro, su progetto dell’architetto Fabio Nassuato e sotto la direzione di Pietro Rosanò, ha interessato la struttura della chiesa di S. Giorgio. Si è quindi intervenuti sull’apparato decorativo della chiesa. Scrive Cristina Falsarella nel quarto volume della collana Prealpi San Biagio. Una Banca per l’Arte: «Ancora una volta, il frangente ha posto in dialogo la comunità di San Giorgio, insieme al suo parroco, il compianto Lucio Dalla Fontana, la diocesi di Vittorio Veneto e la competente Soprintendenza veneziana. Quest’ultima dotata allora di un chimico, si occupò di condurre una campagna di indagine diagnostica sulle superfici decorate. A seguito di una riflessione condivisa, si accolse l’invito di aderire ai progetti P.E.T.R.A. e P.A.N.N.A., formulato dalla ditta Lorenzon Costruzioni e da Veneto nanotech, su finanziamento della Regione Veneto. I progetti miravano allo studio del plasma e delle nanotecnologie per il restauro degli affreschi, nello specifico per il consolidamento degli intonaci mediante le nanocalci e per la pulitura delle superfici con appositi diffusori di nanoparticelle. La disponibilità da parte della parrocchia a ospitare tale sperimentazione, seppur limitata a piccole zone secondarie dell’apparato decorativo, è stata accolta dai promotori con gratitudine, al punto che gli stessi hanno donato il restauro dei due affreschi posti ai lati dell’arcone, raffiguranti San Giorgio e la principessa a sinistra e San Giorgio battezza la famiglia reale e il popolo pagano a destra con l’impiego di restauratori specializzati e secondo la metodologia tradizionale. Ora si attende di recuperare il resto del ciclo in particolare la monumentale Ultima Cena». gomito sinistro. Da questa posizione, Pietro e Giovanni si trovavano l’uno a sinistra e l’altro a destra di Cristo, alle spalle del Maestro. Pietro poteva cosí fare un cenno a Giovanni, il quale, a sua volta, voltando il capo, poteva sussurrare con discrezione la domanda all’orecchio del Figlio di Dio. Il commensale successivo è forse Filippo, ritratto con le mani all’altezza del petto e i palmi rivolti verso l’esterno, in segno di stupore. Bartolomeo con la toga bianca lavorata con ricami dorati appoggia la mano sinistra sul cuore e tiene il coltello con la destra. Tommaso ha la mano destra sul petto aperta in segno di accettazione/rassegnazione. Penultimo dovrebbe essere Taddeo, che si versa dell’acqua, e infine Matteo, con la tunica violetta, si indica con un dito, come se le parole di Cristo lo riguardassero. Sulla tavola, allude al sacrificio di Cristo l’unico agnello con la testa mozzata posto davanti a lui, men-

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tre il resto delle portate si riferisce alla cena di magro del venerdí di Pasqua. Il pesce è tagliato a tranci, sono conservate anche le teste e le code, considerate parti prelibate. Dai taglieri di legno, al posto dei piatti, a due a due gli apostoli condividono il cibo, come d’abitudine sulle tavole medievali. Simbolo del battesimo, il pesce rappresenta Cristo stesso: qui ricorda anche gli episodi evangelici della pesca miracolosa, della moltiplicazione dei pani e dei pesci e della conversione di Pietro il pescatore. Sono sparse anche numerose pagnotte, tagliate e spezzate dai commensali. Il pane simboleggia il sacrificio del corpo di Cristo mentre il vino rosso il suo sangue. Le bottiglie di vetro, dalla boccia larga e dal collo stretto, presentano alla base un cono: era utilizzato per far sembrare piú abbondante il contenuto. Per movimentare la scena, gli apostoli si versano anche da bere, qualcuno lo offre anche al vicino, mentre altro vino è già nei bicchieri di vetro colmi, anch’es-

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medioevo nascosto veneto si dalla base a cono. I tre contenitori in metallo a forma di coppa – forse di peltro – servono per le spezie. Delle bottiglie, una sola su sei non contiene vino rosso, ma acqua. Potrebbe essere un riferimento al momento della consacrazione durante la messa, quando il sacerdote versa nel calice vino e acqua per ricordare il sangue e l’acqua sgorgati dal costato di Cristo crocifisso. Accanto a questi possibili riferimenti simbolici, ricordiamo anche le abitudini medievali: spesso si allungava il vino con l’acqua e a piacere si aggiungevano le spezie. In origine, per l’eucarestia si utilizzava vino rosso, sostituito da quello bianco per evitare macchie sul corporale su cui poggia il calice. L’attenzione di chi guarda viene però attratta soprattutto da un altro vistoso dettaglio. Sulla tovaglia compaiono in ordine sparso gamberi di fiume (Astacus astacus): appena pescati sono grigio-bruni e con la cottura assumono il caratteristico colore rosso, come nel nostro caso. Ne vediamo anche le sole chele, considerate una prelibatezza. Circa il significato della presenza dei gamberi nell’Ultima Cena gli studiosi hanno formulato divere ipotesi. Alcuni propendono per una lettura di tipo cristologico: i crostacei rappresenterebbero la resurrezione di Cristo per via della mutazione annuale del loro carapace. Si tratta, peraltro, di una presenza per la quale sono noti numerosi confronti, come nel caso della chiesa di S. Lorenzo a Berzo Inferiore (Brescia), nella quale si può ammirare un affresco dell’Ultima Cena risalente al 1450. Rispetto a San Polo, qui sono presenti anche

le ciliegie, anch’esse simbolo della passione. Sotto la tavola, a fianco di Giuda, riconoscibile dalla borsa con i trenta denari, notiamo un cane affamato che ha una duplice funzione: aspetta gli avanzi e cattura i grossi mosconi in primo piano.

Interpretazioni a confronto

Tornando a San Polo, secondo Dominique Rigaux – studiosa che ha dedicato un intero saggio alle rappresentazioni dell’Ultima Cena –, nella chiesa di S. Giorgio la presenza dei gamberi potrebbe avere un significato negativo, simboleggiando l’ipocrisia e la falsità di Giuda, in quanto il crostaceo scappa camminando all’indietro. Ma potrebbe avere, al contrario, un significato positivo, perché, cambiando carapace, è sinonimo di rinascita. Un altro significato simbolico lega i gamberi ai frutti allusivi, questi sicuramente, alla mensa eucaristica, come le ciliegie e le melegrane, rappresentate a San Polo, però solo nel fregio sovrastante l’affresco. In conclusione, la studiosa francese ritiene che i crostacei distribuiti in modo disordinato sulla tavola – assieme ad altri elementi privi di significato cristologico – non si riferiscano in modo particolare a Gesú. La tavola imbandita non esprime quindi un progetto di catechesi sull’eucarestia e i gamberi rossi sono solo una componente importante di una «festa dei sensi». A San Polo la tradizione culinaria dei gamberi è una realtà tramandata nei secoli: oggi, una delle specialità del locale ristorante Gambrinus, sono proprio i gamberi pescati nel vicino fiume Lia. La presenza delle

Un particolare dell’Ultima Cena, con i gamberi in primo piano.

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Da sinistra San Giacomo Maggiore, Sant’Antonio Abate e un’altra Madonna con Bambino.

chele nell’affresco conferma il detto popolare secondo il quale si tratta della parte piú prelibata. Anche cosí si afferma il significato divenuto ormai prevalente: l’Ultima Cena di San Giorgio mette in mostra una mensa di festa come lo deve essere quella pasquale. Riguardo alla percezione dei fedeli di san Giorgio, ha infatti osservato lo storico Ulderico Bernardi: «Loro, i contadini, sapevano perché il Signore aveva voluto quella tavola imbandita di gamberi e pesce e carne d’agnello e vini rossi e bianchi, in un momento che avrebbe dovuto essere di tanta tristezza, per la tortura e la morte vicina. Loro, i contadini, sapevano le parole di Isaia che nutrivano con la speranza quando il pievano leggeva loro il Libro [Isaia, 25,6]: allora diceva il profeta: quando la volontà dell’Eterno sarà compiuta ci sarà per tutti i popoli “un convito di cibi succulenti un convito di cibi di vini vecchi, di cibi succulenti pieni di midollo, di vini vecchi ben chiariti”. Allora, quando la resurrezione del Cristo sarà la resurrezione di tutte le generazioni,

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finalmente ricomposte nella comunità degli uomini di fede» (Ricordando San Dòrdi, Pro Loco e Comune di San Polo al Piave, 9 dicembre 1984, e San Giorgio o San Dòrdi?, in Sinistra Piave, 1984). I fedeli che durante la messa domenicale osservavano l’accessibile ricchezza di quella mensa cosí simile alla loro non pensavano solo all’eucarestia, ma anche al momento della comunione, intesa come condivisione della concreta presenza di Gesú. Si sentivano cosí a fianco degli apostoli nella tavola del Signore, pregustando il regno dei cieli.

Da leggere Giorgio Fossaluzza, La chiesa di San Giorgio in San Polo di Piave e gli affreschi di Giovanni di Francia, Gruppo per San Giorgio, San Polo in Piave, 2010 Chiara Frugoni, L’affare migliore di Enrico: Giotto e la cappella Scrovegni, Torino, Einaudi, 2008 Dominique Rigaux, À la table du Seigneur. L’Eucharistie chez les Primitifs italiens (1250-1497), Cerf, Parigi 1989

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Storie, uomini e sapori

I racconti (culinari) di Canterbury di Sergio G. Grasso

Miniatura raffigurante i duchi di York, Gloucester e Irlanda a tavola con Riccardo II, da un’edizione delle Anciennes et nouvelles chroniques d’Angleterre (opera nota anche come Recueil des croniques d’Engleterre) di Jean de Wavrin, 1470-1480. Londra, British Library. Nella pagina accanto il ritratto di Geoffrey Chaucer sul frontespizio di un’edizione dei Racconti di Canterbury. 1476-1477 circa. Londra, British Library.

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eoffrey Chaucer, l’autore dell’opera The Canterbury Tales (I racconti di Canterbury) è ritenuto il padre della letteratura e della poesia inglese. Nacque a Londra probabilmente intorno al 1342/1343 e lí morí nell’autunno del 1400, attraversando gli anni piú cruenti della Guerra dei Cent’anni (1337-1453) e il flagello della Peste nera che, tra il 1348 e il 1369, causò la morte di almeno la metà della popolazione inglese. Figlio di un agiato mercante di vino, lo troviamo nel 1357 alle dipendenze della duchessa dell’Ulster, moglie del duca di Clarence, che due anni dopo accompagnò nella campagna di Francia. Durante l’assedio di Reims del 1360, fu fatto prigioniero e re Edoardo III, dopo aver pagato il riscatto ai Francesi, lo assunse a corte; svolse certamente un ottimo lavoro, se nel 1367 ottenne una pensione reale per i suoi servizi passati e... futuri. Nel 1372 fu nominato sovrintendente alle lane nel porto di Londra, incarico che lo condusse a effettuare numerosi soggiorni, sicuramente in Piccardia, a Genova, a Firenze e a Padova, dove strinse rapporti con mercanti e viaggiatori.

Erudito e poliglotta Nel 1378 il nuovo re d’Inghilterra, Riccardo II, gli conferí l’incarico di diplomatico e lo inviò in missione per sei mesi alla corte di Galeazzo II Visconti a Pavia, dove ebbe modo di frequentare la biblioteca del castello visconteo, che conservava manoscritti originali del Petrarca e opere di Dante e Boccaccio. Conoscitore del latino classico (tradusse in inglese il De consolatione philosophiae di Severino Boezio) e della langue d’oïl (sua è la versione anglosassone del Roman de la rose), leggeva il patois, l’occitano e il volgare toscano, tutte doti che gli consentirono di entrare in familiarità con i fabliaux francesi, con le opere di Dante e Petrarca

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e, soprattutto, col Decameron di Giovanni Boccaccio, da cui certamente trasse ispirazione per i suoi Canterbury Tales. Nei suoi primi scritti Chaucer fa rari accenni alle vivande e ai banchetti, limitandosi a citare pane, birra e vino. Solo nei Canterbury Tales il cibo consumato e raccontato dai personaggi supera la funzione di oggetto di scena e diventa pretesto narrativo, marcatore sociale e caratteriale dei personaggi. Oltre a una profonda conoscenza dell’animo umano,

delle inclinazioni, dei vizi e delle virtú di ogni classe sociale, lo scrittore – che, per sua ammissione, era sovrappeso e stava ben attento a non esagerare con l’alimentazione – era acutamente consapevole del potere e del simbolismo del cibo nell’Inghilterra del XIV secolo e non esita a dimostrarlo con una sicura padronanza dei costumi alimentari del suo tempo. Nella sua opera abbondano descrizioni di feste, trionfi e matrimoni, cene nobiliari, merende campestri, pasti monacali e penitenziali, oltre a un fuoco di fila di rimandi ai peccati di gola, a crapule e bevute collettive, alla ricerca e al consumo di cibi afrodisiaci. Nei Canterbury Tales – al pari dei fabliaux francesi, di Routebeuf, del Roman de la rose e del Decameron – i bagordi e l’erotismo sono trattati con grande liberalità e senza alcuna reticenza moralisticoreligiosa, a dimostrazione di come la società due- trecentesca fosse molto meno «bacchettona e castrante» dello stereotipo tramandato dalla vulgata tradizionale.

Un attento osservatore È probabile che Chaucer avesse avuto modo di approfondire le sue osservazioni culinarie quando, poco piú che quindicenne, serví come paggio nel palazzo Ulster-Clarence dove si davano settimanalmente banchetti e feste. Dovette sperimentare ulteriori esperienze negli anni in cui serví re Riccardo II, noto per il grande appetito, i fastosi ricevimenti a base di cibi esotici, rari, inconsueti. Non a caso, dalle sue cucine reali, in cui si è calcolato lavoravano non meno di duemila cuochi, uscí il primo trattato di cucina inglese, The Form of Cury. I Canterbury Tales sono organizzati in ventiquattro racconti (sui 120 che l’autore si era prefisso), tre dei quali incompleti, piú un prologo e un commiato. Furono scritti tra il 1387 e il 1388 in Middle English (lingua popolare, vernacolo),

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CALEIDO SCOPIO Vignetta raffigurante i pellegrini di Canterbury intorno al desco, da un’edizione dei Racconti di Canterbury. 1485 (?). Londra, British Library.

anziché, com’era regola all’epoca, in latino, francese o anglo-normanno. In tal modo Chaucer eleva l’idioma inglese parlato dalle élites a lingua letteraria. Il suo stile coniuga il comico al romantico, l’avventuroso all’ordinario, il retorico al plebeo, fino al triviale e al sessualmente esplicito. La cornice narrativa che conferisce unità all’opera è fornita da un gruppo eterogeneo di viaggiatori diretti al santuario di san Tommaso Becket a Canterbury. Sono persone di ogni estrazione sociale, che hanno storie, caratteri e abitudini diverse e che esercitano professioni laiche o secolari le piú varie. Prima di affrontare gli ultimi giorni di tragitto a cavallo, i pellegrini fanno sosta a Southwark, un sobborgo di Londra, nella Taverna del Tabarro (The Tabard Inn), luogo-metafora di corruzione e turpitudine. Negli anni Ottanta del Trecento Chaucer viveva a Greenwich, quartiere di passaggio per chiunque fosse diretto alla cattedrale di Canterbury; lí ebbe modo di osservare, studiare e forse frequentare occasionalmente molti

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di quei pellegrini; egli stesso nel 1387, dopo la morte della moglie, intraprese un pellegrinaggio a Canterbury e fu allora che iniziò a scrivere il suo capolavoro. Il proprietario della taverna, Harry Bailey, li accoglie per cena, serve loro buon cibo, vino forte e dichiara di volersi unire alla brigata per compiere il pellegrinaggio.

Una cena per il miglior narratore Per rendere meno noioso il tragitto, Bailey propone una gara di «storytelling», in cui ciascun pellegrino dovrà raccontare due novelle all’andata e due al ritorno; giudice unico della tenzone sarà proprio Bailey, che, a suo insindacabile avviso, premierà il miglior narratore con una sontuosa cena alla Tabard Inn. Il modo di vivere, il pensiero, ma anche l’umanità e le debolezze dei pellegrini occupano ampi brani del prologo e offrono al lettore una vera e propria galleria di ritratti dell’Inghilterra del XIV secolo, in cui i vissuti alimentari, il cibo e le bevande giocano un ruolo

significativo nella descrizione del carattere e dell’umore di ciascuno. Del gruppo fanno parte, tra gli altri, un nobile cavaliere e un contadino, un letterato e un marinaio, un avvocato e un cancelliere del tribunale, un mugnaio e un medico, un buon parroco di campagna e un frate disonesto, un venditore di indulgenze, una badessa inappuntabile e una volgare e sguaiata venditrice di fazzoletti. La badessa, suor Eglantina, è descritta come una nobildonna che sedeva a tavola portando il cibo alla bocca con tanta attenzione da non far mai cadere una briciola sul petto. Afferrava con ostentato garbo il boccone con pollice e indice (le forchette erano considerate strumenti diabolici con tanto di corna) e riusciva a non ungersi mai le dita con la salsa; prima di bere, si asciugava il labbro superiore per non lasciare sulla tazza la benché minima macchia d’unto. Mangiava solo i bocconi piú prelibati e destinava ai suoi cani il miglior pane bianco. Il medico del gruppo «mangiava poco, ma cercava che quel poco fosse roba nutritiva e facile a digerirsi» e si teneva cari gli speziali che eran d’accordo con lui «nel cavar sangue al prossimo». Di tutt’altra natura era il ricco e corpulento cacciatore di allodole, amante dei cibi grassi ed egli stesso: «pieno di grasso e buon senso (...) la cui casa mai fu priva di carne al forno. (...) Di pesce e di carne cosí abbondante che vi nevicava (...) ogni prelibatezza che gli uomini potessero pensare». Si esprimeva con un eloquio «lardellato» di paragoni alimentari, definendo la regola monastica «inutile come un pollo spennato» o sostenendo che discutere di monaci fuori da un chiostro «valeva meno un’ostrica». dicembre

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Chaucer alla corte di Edoardo III, olio su tela di Ford Madox Brown. 1856-1868. Londra, Tate Britain.

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CALEIDO SCOPIO Tra i pellegrini vi era anche un anziano proprietario terriero, un franklin come erano definiti a quel tempo gli arricchiti senza nobiltà. Era stato «non so quante volte, deputato della provincia (...) Aveva fatto anche il pretore e il ragioniere; insomma un proprietario bravo come lui non s’era mai visto». Per lui la vera felicità era rappresentata dal godimento carnale. La servitú non doveva mai sparecchiare la tavola e doveva fare in modo che a ogni ora del giorno pane bianco e birra «nevicassero» sulla tovaglia. Iniziava la giornata invariabilmente con una zuppa di vino, quindi convocava i cuochi e concordava il pranzo: pasticci, torte di selvaggina e altri sontuosi piatti di pesce o di carne che variavano col variare delle stagioni. Per non farsi mancare nulla ingrassava in gabbia le pernici, allevava nelle sue vasche dozzine di lucci e pesci prelibati e possedeva una cantina colma di botti dei migliori vini.

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Al di là della golosità era un uomo generoso, che ospitava spesso alla sua mensa i rubizzi frati del vicino convento con cui condivideva allegramente i piaceri della cucina e le gioie della cantina.

I manicaretti del cuoco Sodale dell’allegra brigata era un cuoco di professione, incaricato dal gruppo di cucinare durante il tragitto un menu piuttosto opulento che comprendeva pollo bollito con le ossa del midollo, mortreux (umido di pollo, maiale, fegato, zucchero, tuorli e spezie), torte e galingale, una specie di confettura a base di miele,

vino, zenzero e cannella; come si vede, tutti alimenti ricchi in calorie e ben lontani dal cibo semplice che ci si aspetterebbe a portata di pellegrini in viaggio. «Costui – scrive Chaucer – era un famoso bevitore di birra, e un bicchiere di quella di Londra lo sapeva giudicare senza sbagliare. Era molto bravo per cuocere l’arrosto allo spiedo e sulla gratella, per il bollito, pel fritto, per fare brodi di carne battuta, e per la torta al forno. Peccato però, pensavo, che avesse il cancro ad una gamba: cucinava cosí bene il cappone in galantina». Curiosa è la figura del cancelliere del tribunale ecclesiastico, descritto «lascivo come un passero», alludendo non solo all’incontinenza sessuale dell’uccello, ma anche alla credenza medievale che mangiare passeri cotti o uova di passero stimolasse la lussuria. Aveva il volto rosso fuoco a causa della sifilide che gli aveva fatto perdere anche gusto e olfatto ed era aduso a cibarsi di cibi pungenti, come aglio, cipolle e porri (simboli di immoralità), che innaffiava con vino particolarmente forte, rosso come il sangue. Anch’egli gran bevitore, quando alzava il gomito iniziava a farfugliare in latino e si diceva di lui che in cambio di un litro di vino permettesse a un qualsiasi mascalzone di tenere nascosta l’amante per un anno. Il mugnaio, al contrario, era un tarchiato ammasso di muscoli d’acciaio, con una bocca enorme, coronata da una barba rossiccia come le setole della scrofa. Passava la vita nel vizio e nella meschinità e barava sul peso del frumento che i contadini gli portavano per farne farina. Non mancavano nel gruppo un economo che rubava impunemente sulla spesa, un monaco divoratore di arrosti e un cacciatore di streghe. Dopo il prologo, i riferimenti al cibo e alla tavola si susseguono in quasi tutte le novelle raccontate dai pellegrini e ambientate in una moltitudine di luoghi e dicembre

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Miniatura raffigurante John Lydgate e i pellegrini di Canterbury che lasciano Canterbury, da un’edizione del Siege of Thebes dello stesso Lydgate. 1455-1462 circa. Londra, British Library. Nella pagina accanto Geoffrey Chaucer ritratto come un pellegrino di Canterbury, facsimile dell’Ellesmere Chaucer (edizione manoscritta quattrocentesca dei Racconti di Canterbury conservata presso la Huntington Library di Oxford). Londra, Victoria & Albert Museum.

situazioni. Il Racconto dello scudiero (The Squire’s Tale) è ambientato nella terra dei Tartari, in occasione dell’anniversario dei vent’anni di regno del re Cambuskan. Vi si narra di un banchetto meravigliosamente approntato e servito da valletti e paggi ai nobili invitati che godettero giorno e notte di stufati di carne, cigni, aironi, salse stravaganti, meraviglie dell’arte culinaria e altri «cibi ritenuti molto pregiati che qui da noi la gente valuta ben poco». In Chaucer ci si imbatte sia nei banchetti aristocratici che la classe media e quella mercantile si sforzavano di scimmiottare, sia in tavole di gente modesta, in cene dignitose allietate da cibi semplici, come nel caso della

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povera vedova di The Nun’s Priest’s Tale (Il Racconto del Cappellano delle Monache), che mangiava cibi salubri e delicati, opponendo all’orgoglio alimentare dei ricchi, una necessaria temperanza: «Di salsa speziata non aveva alcun bisogno. Nessun boccone prelibato le passava per la gola; la sua dieta era in armonia con il suo mantello. Non beveva vino, né bianco né rosso. La sua tavola era servita principalmente con pane bianco e nero, latte e nero, di cui non le mancavano, pancetta alla griglia e talvolta un uovo o due».

Il falegname tradito Nel Racconto del mugnaio (The Miller’s Tale), Chaucer ricorre alle sue efficaci metafore alimentari per descrivere Alison, la moglie diciottenne di un

vecchio falegname di Oxford che affittava alcune stanze di casa agli studenti: «Ella giocava come un capriolo o una manzetta. La sua bocca era dolce come il rosolio o il miele, oppure come le mele distese sul fieno o nella paglia. Era bizzosa come una vispa cavallina». Il falegname, gelosissimo, la teneva chiusa in casa per timore di essere tradito, ma l’inevitabile accadde. E proprio con il giovane Nicholas, un colto universitario che aveva affittato una piccola stanza e la teneva «pulitissima e adorna d’erbe odorose; egli stesso era profumato come una radice di liquirizia o zenzero». Lui gentile, sensibile e dallo sguardo tenero, lei dolce, bella e sempre in ordine: «indossava un grembiule pieghettato bianco come il latte, cosí

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CALEIDO SCOPIO Il cortile del Tabard Inn, Borough High Street, Southwark, Londra, litografia di James S. Virtue. 1871. Londra, London Metropolitan Archives. Il Tabard Inn (una locanda) è il luogo in cui si incontrano i pellegrini dei Racconti di Canterbury.

come la camicetta ricamata e la cuffia». Usare un alimento e un colore che denotano purezza e moralità può sembrare inappropriato per una moglie che tradisce il marito, per quanto vecchio e impotente, ma Chaucer in questo modo dimostra di giustificare, o quanto meno minimizzare, la colpa di una giovane moglie costretta a vivere un matrimonio infelice destinato a una inevitabile infedeltà. Anche in The Merchant’s Tale (Il Racconto del mercante) il sessantenne e semicieco January (Gennaio, l’inverno) che aveva grande smania di prender moglie, la desiderava bella e sotto i vent’anni perché: «la carne di un manzo è superiore a quella di un bue, ma se passa i trentanni è come gambi di fagioli secchi e foraggi grossolani». Alla fine scelse di sposare la giovane May (Maggio, la primavera) e per propiziare la prima notte gli amici gli allestirono una sontuosa cena annaffiata da vini speziati e decotti d’erbe afrodisiache, come suggerito nel

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Liber de coitu scritto nel Mille dal monaco Costantino Africano. I riferimenti alimentari permettevano a Chaucer di rendere con efficacia ritratti di debolezze umane nella città e nella corte ma anche nella Chiesa e nel clero.

Maledetta ingordigia! The Pardoner’s Tale (Il Racconto del venditore d’indulgenze) parla di un cappellano scapestrato e libertino, che sfrutta la sua abilità dialettica per indurre, dietro lauto compenso, chiunque al pentimento. Leitmotiv delle sue prediche è proprio il peccato di gola: «O maledetta gola, tu fosti la prima causa della nostra rovina, tu fosti l’origine della nostra dannazione, finchè Cristo ci riscattò col suo sangue. (...) Adamo fu cacciato insieme con sua moglie dal paradiso, e costretto a lavorare e a soffrire, proprio per la gola che lo vinse. Perché fino al giorno in cui restò digiuno, egli rimase in paradiso; e ne fu cacciato (...) solo quando assaggiò il frutto proibito (...) O ingordigia, non senza ragione gli

uomini dovrebbero lamentarsi di te!». Tra le 82 edizioni manoscritte medievali dei Canterbury Tales che ci sono giunte – come quella del codice Ellesmere Chaucer, databile a qualche lustro dopo la morte di Chaucer – alcune sono corredate di miniature e xilografie a colori che contribuiscono a rendere il testo ancora piú accessibile. Ciò dimostra che i Canterbury Tales, a differenza di altre opere piú o meno coeve, sono stati scritti per un pubblico eterogeneo, ma con un livello di istruzione adeguato alla lettura e non solo all’ascolto. La fortuna dell’opera nei secoli, oltre alla lingua e allo stile, risiede nella sua capacità di rappresentare un quadro acuto e brioso della società inglese in un periodo di radicali cambiamenti, segnato dalla peste, dalle rivolte contadine, dalle guerre, dalle pratiche disoneste della Chiesa, dalla crisi del sistema feudale e, perchennò, da una nuova consapevolezza del valore sociale e morale del cibo. dicembre

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Ar t i c ol i perr i ev oc az i ones t or i c aec ol l ez i oni s mo.Ri pr oduz i oni di ar mi ear mat ur eant i c he,abbi gl i ament o,ac c es s or i edar t i c ol i dac ampo

5eur odiscont oi mmedi at os ul pr i mo ac qui s t oc oni l c odi c e: “ MEDI OEVO2023” val i dof i noal31/01/2024


CALEIDO SCOPIO

Quando i santi prendevano le armi

Smessa l’armatura, Guglielmo vestí il saio San Guglielmo d’Aquitania, olio su tela di Antonio de Pereda y Salgado. 1671. Madrid, Real Academia de Bellas Artes de san Fernando. Armi difensive e offensive sono analiticamente

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descritte. Del medesimo artista ricordiamo Il sogno del nobiluomo (olio su tela, 1650 circa), nello stesso Museo, con una pistola a ruota e altre armi molto ben riprodotte. dicembre

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seguito celebrato da varie chansons de gestes, nelle quali compare come Guillaume d’Orange e Guillaume au Court Nez («dal naso corto»). Partecipò alla guerra mossa nel 793 dall’emiro di Cordova, Hisham I, contro i cristiani del Nord, ma fu sconfitto nei pressi di Narbona, dopo aver offerto una strenua resistenza, che valse a rallentare la spinta dei Mori. Passò, quindi, all’offensiva, partecipando alla conquista di Barcellona, insieme ad Ademaro di Narbona. Imprese che indussero Dante Alighieri a citarlo, nel XVIII canto del Paradiso, fra quanti si erano battuti contro i Saraceni in Spagna.

Un vecchio amico

I

ntorno al 750, da Teodorico I, conte di Autun, e Alda (o Eudana), figlia di Carlo Martello, nacque Guglielmo, che dunque, per discendenza materna, fu anche cugino di Carlo Magno. Quest’ultimo, oltre ad averlo fra i suoi paladini, fece Guglielmo conte di Tolosa e poi di Aquitania e lo incaricò della difesa della Marca di Spagna, compito che svolse con alterne fortune, ma distinguendosi per il valore, tanto da essere in

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Qualche anno piú tardi, ritrovò un amico d’infanzia, Witiza, di origine visigota, il quale, dopo una carriera militare, aveva fondato un’abbazia ad Aniane, sulla riva est dell’Hérault, assumendo il nome di Benedetto. Seguendo il suo esempio e su suo consiglio, Guglielmo fondò nell’804 alcuni monasteri che seguivano la Regola di san Benedetto. In uno di essi, nella Valle di Gellone, non lontano da Aniane, ma sulla riva ovest dell’Hérault, insediò la comunità di Saint-Sauveur de Gellone e qui si ritirò a vita monastica, dopo aver rinunciato a tutti i suoi titoli e accettando di compiere i lavori più umili e di sottoporsi alle più severe penitenze. Guglielmo morí il 28 maggio 812 e venne canonizzato nel 1066 da papa Alessandro II. Il monastero di Gellone rimase sotto la dipendenza di quello di Aniane e intorno a esso sorse il villaggio di Saint-Guilhem-leDésert, denominazione che fu poi assunta dal luogo in cui Guglielmo d’Aquitania aveva vissuto gli ultimi anni della sua esistenza. Non è del tutto chiaro se i meriti che gli sono valsi la santità siano quelli militari, per la sua lotta a difesa della Chiesa, ovvero per miracoli

Ritratto di un giovane in armatura, da alcuni identificato con san Guglielmo d’Aquitania, olio su tela di Simon Vouet. 1625-1627. Parigi, Museo del Louvre. L’arma in asta impugnata con la mano sinistra deve essere una lancia da cavallo, essendo l’asta molto spessa e troppo lunga per un’arma da fante. attribuitigli e/o per la vita tenuta dopo essersi ritirato nel monastero di Gellone. O per entrambi i motivi. In una traslazione del 1139 risulta che un braccio del santo fu collocato in un reliquiario, anche se in una ricognizione del 1790 si parla di «corpo intero». Nel 1793, corpo o braccio che fossero, le spoglie vennero disperse e oggi ne sopravvivono piccoli frammenti a S. Guglielmo del Deserto e nella cripta di Saint-Sernin di Tolosa. Come già accennato, la vita e le imprese belliche di Guglielmo d’Aquitania furono narrate da piú di una chanson de gestes e diedero vita a un vero e proprio ciclo, del quale fanno parte Les enfances de Guillaume, Le couronnement de Louis, Charroi de Nîmes, La prise de Orange, Aliscans, Le Moniage Guillaume.

Guerriero nel nome di Dio Il santo viene costantemente rappresentato in armatura, quasi sempre senza armi: va precisato che

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Ritratto di uomo in armatura, da alcuni identificato con san Guglielmo d’Aquitania, olio su tavola di autore anonimo, da un originale di Dosso Dossi. 1540 circa. Francoforte, Stadel Museum. Nella pagina accanto Vergine col Bambino e santi, olio e tempera su tavola di Lorenzio Costa e Gianfrancesco Maineri. 1498-1500. Londra, National Gallery. Nella scheda dell’archivio fotografico della Fondazione Zeri, si ipotizza, ma dubitativamente, l’identificazione del santo guerriero con Guglielmo d’Aquitania.

il termine «armatura» indica una difesa completa del capo e del corpo, fino ai piedi, mentre per quanto riguarda san Guglielmo troviamo spesso un «corsaletto», cioè una difesa che lascia scoperte le gambe. È importante rilevare che per questo santo non si trovano dipinti con armi e armatura deposti in terra, in segno di abiura verso un passato guerriero. Egli fu un guerriero per quasi tutta la sua vita, combattendo i nemici della Chiesa

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e non deve perciò sorprendere che venga raffigurato in armatura e con la spada in pugno o al fianco.

Opere datanti I dipinti che ritraggono Guglielmo d’Aquitania risultano decisamente rilevanti per lo studio delle armi difensive, giacché quelle rappresentate risalgono all’epoca in cui le varie opere sono state realizzate e costituiscono quindi un utile termine di riferimento per

la loro datazione. In alcuni casi – come il San Guglielmo d’Aquitania di Antonio de Pereda (vedi foto alle pp. 108/109) – compare anche una spada perfettamente descritta, databile con notevole precisione. Nel caso del nostro santo, quindi, non è la presenza di armi (o armature che siano) nei dipinti a consentire di identificarlo, ma sono queste a poter essere datate accuratamente e a essere utilizzate grazie alla collocazione cronologica dei quadri.

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Lo scaffale Riccardo Santangeli Valenzani (a cura di) Roma altomedievale Paesaggio urbano, società e cultura (secoli V-X) Carocci editore, Roma, 322 pp., ill. b/n

29,000 euro ISBN 978-88-290-1831-4 www.carocci.it

C’è stato un tempo, quello del ventennio fascista, in cui i secoli della Roma medievale divennero piú che mai «bui»: in ossequio al dettato che mirava al recupero e alla celebrazione delle glorie imperiali, infatti, molte testimonianze di quelle fasi furono sistematicamente cancellate, a causa di sterri e demolizioni, ma anche per effetto di scavi archeologici indirizzati a recuperare e salvare solo i resti dell’Urbe di Augusto e dei suoi successori. Archiviata quella stagione, soprattutto grazie a ricerche condotte negli ultimi quattro decenni, si è

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assistito a una sorta di risarcimento e gli studi sul millennio medievale romano si sono moltiplicati. Figlio di questa nuova attenzione è il saggio curato da Santangeli Valenzani – che è stato peraltro uno degli animatori di questo recupero –, che si concentra, in particolare, sull’Alto Medioevo, circoscrivendo il campo della trattazione ai secoli compresi fra il V e il X. Ne è scaturita la conferma di un quadro che, ormai noto agli addetti ai lavori, sgombra definitivamente il campo dalla vulgata di una città decadente e immiserita. Roma aveva sí visto ridursi assai considerevolmente il numero dei suoi abitanti e, dunque, l’estensione degli spazi abitati, ma continuava a essere un organismo vivo, caratterizzato da molteplici attività produttive e nel quale non venne meno neanche la produzione artistica. Aspetti puntualmente fotografati dai molti studiosi coinvolti nella realizzazione del volume, in un dialogo costante e proficuo tra archeologia e storia.

Antonio Musarra Urbano II e l’Italia delle città Riforma, crociata e spazi politici alla fine dell’XI secolo

il Mulino, Bologna, 320 pp.

28,00 euro ISBN 978-88-15-38304-4 www.mulino.it

Papa Urbano II viene tradizionalmente considerato come l’«inventore» delle crociate: fu lui, infatti, nel concilio convocato a Clermont-Ferrand nel 1096, a lanciare l’appello con il quale invitava l’Occidente cristiano a riprendere il possesso dei Luoghi

equilibri politici. Dal possibile rapporto tra i due fenomeni ha preso spunto Antonio Musarra, con il «fine d’aprire strade nuove per la comprensione d’un periodo come quello a cavallo fra XI e XII secolo d’eccezionale importanza per la storia della penisola». La «guerra santa» e, soprattutto, la partecipazione italiana alle spedizioni divengono dunque il tema di fondo di un’analisi ampia e originale, condotta con lo stile brillante che Musarra ha fatto conoscere anche ai lettori di «Medioevo».

Urbino si è caricato (o è stato caricato dai posteri), Duccio Balestracci, senza nulla togliere ai suoi meriti oggettivi, prova a tracciare un profilo credibile del grande signore, consapevole del fatto che – come spiega nelle pagine introduttive – le fonti alle quali attingere sono state spesso contaminate, anche in tempi moderni, dall’agiografia. Restano, inconfutabili, le testimonianze,

Duccio Balestracci Il duca Vita avventurosa e grandi imprese di Federico da Montefeltro Editori Laterza, Bari-Roma, 210 pp.

18,00 euro ISBN 978-88-581-4883-9 www.laterza.it

Santi (anche se, probabilmente, fra le sue accorate parole non ci fu mai il celebre «Dio lo vuole!»...). La sua iniziativa cadde in un momento storico cruciale della storia, che, in ambito italiano, fu segnato dall’avvento dei regimi comunali e dal conseguente definirsi di nuovi

Fra i giganti del Quattrocento italiano (e non solo) un posto di diritto spetta a Federico da Montefeltro, personaggio che, grazie alle molte e vittoriose gesta, è divenuto quasi leggendario. E proprio nella consapevolezza del fardello di glorie di cui il duca di

anche materiali, dei decenni federiciani, a cominciare dal rinnovamento e dall’ampliamento del magnifico Palazzo Ducale di Urbino. Quello che emerge dalle pagine del libro è dunque un ritratto forse meno roboante di Federico da Montefeltro, ma che proprio in questa sapiente misura ha il suo punto di forza. (a cura di Stefano Mammini) dicembre

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